Capire Il Teatro

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CAPIRE IL TEATRO 1. SEMIOTICA Il primo gruppo di studiosi che hanno tentato di analizzare il fatto teatrale, in tutte le sue accezioni, tramite strumenti di tipo semiotico, allo scopo di descriverne il funzionamento in quanto fenomeno di significazione e di comunicazione, è Circolo linguistico di Praga. Gli studiosi praghesi si occuparono di: a) identificare e classificare i vari tipi di segni teatrali (o usati a teatro), descrivendone il funzionamento nella rappresentazione; b) mettere in evidenza il modo in cui essi si organizzano nella gerarchia di elementi della messinscena. Le indagini e gli scritti spaziano dal folclore dell’Europa orientale al teatro cinese, dalla drammaturgia scritta all’attore, dal teatro dei burattini al cinema; i principi semiotici definiti sono sostanzialmente tre: 1) principio di artificializzazione (o semiotizzazione): sono le procedure mediante le quali la scena artificializza i vari elementi, anche reali (un oggetto) o non prodotti intenzionalmente (una caratteristica fisica dell’attore); 2) principio del funzionamento connotativo: gli studiosi insistono sul carattere connotativo del segno teatrale; in base al quale esso è sempre “segno di segno d’oggetto” anziché “segno d’oggetto” . Vogliono dimostrare che nella messinscena tutto ciò che viene mostrato, poiché viene visto da qualcuno in carne ed ossa, si carica di significati aggiuntivi, talvolta metaforici, che contribuiscono a rendere il senso globale dello spettacolo; 3) principio della mobilità: riguarda il fenomeno dell’indipendenza fra i caratteri di un segno (espressione/contenuto). Fenomeno che si traduce in due fatti specifici: a) l’intercambiabilità funzionale: fra segni di sistemi significativi diversi; b) la polivalenza: di uno stesso elemento espressivo, che può quindi assumere diversi significati a seconda del contesto, ma può anche svolgere ruoli e funzioni diverse (si pensi, nel caso di un oggetto, al fazzoletto – correlativo oggettivo – nell’Otello). Nel ventennio che segue questi studi, però, la semiotica del teatro conosce una vistosa involuzione teorica e metodologica, ed occorrerà il boom degli anni Settanta per sentir parlare nuovamente di loro. Nel ventennio precedente il boom, l’attenzione si sposta sul testo drammatico, ritenuto la componente essenziale del fatto teatrale che quest’ultimo si limiterebbe a tradurre e illustrare. Ma anche negli anni Settanta, va ricordato, questa tendenza sarà comunque viva, e si contrapporrà energicamente alle posizioni di quanti, più correttamente, eleveranno lo spettacolo drammatico e non il testo a oggetto dell’indagine, e considerando il testo una delle componenti del fatto teatrale. La rinascita della semiotica teatrale La semiotica del teatro riceve un vigoroso rilancio tra la metà degli anni ’60 e i primi anni ’70: ed è in questo periodo che la semiotica del teatro comincia a definirsi con più precisione, tentando di divenire una disciplina. Questa rinascita della semiotica teatrale come disciplina può farsi risalire al 1968, anno in cui esce il saggio dello studioso polacco Kowzan Il segno a teatro, con sottotitolo introduzione alla semiologia dell’arte dello spettacolo. In questo saggio, Kowzan ribadisce una volta per tutte che il teatro, lo spettacolo, non può e non potrà mai essere un unico linguaggio, poiché rappresenta un insieme, di volta in volta diverso, di linguaggi eterogenei, ed il cui funzionamento non potrà mai essere spiegato in base ad un unico codice; solo tramite una pluralità di codici sarà possibile farlo . Nota è la sua 1

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Storia del teatro

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CAPIRE IL TEATRO

1. SEMIOTICA

Il primo gruppo di studiosi che hanno tentato di analizzare il fatto teatrale, in tutte le sue accezioni, tramite strumenti di tipo semiotico, allo scopo di descriverne il funzionamento in quanto fenomeno di significazione e di comunicazione, è Circolo linguistico di Praga. Gli studiosi praghesi si occuparono di: a) identificare e classificare i vari tipi di segni teatrali (o usati a teatro),

descrivendone il funzionamento nella rappresentazione; b) mettere in evidenza il modo in cui essi si organizzano nella gerarchia di

elementi della messinscena. Le indagini e gli scritti spaziano dal folclore dell’Europa orientale al teatro cinese, dalla drammaturgia scritta all’attore, dal teatro dei burattini al cinema; i principi semiotici definiti sono sostanzialmente tre:1) principio di artificializzazione (o semiotizzazione): sono le procedure

mediante le quali la scena artificializza i vari elementi, anche reali (un oggetto) o non prodotti intenzionalmente (una caratteristica fisica dell’attore);

2) principio del funzionamento connotativo: gli studiosi insistono sul carattere connotativo del segno teatrale; in base al quale esso è sempre “segno di segno d’oggetto” anziché “segno d’oggetto”. Vogliono dimostrare che nella messinscena tutto ciò che viene mostrato, poiché viene visto da qualcuno in carne ed ossa, si carica di significati aggiuntivi, talvolta metaforici, che contribuiscono a rendere il senso globale dello spettacolo;

3) principio della mobilità: riguarda il fenomeno dell’indipendenza fra i caratteri di un segno (espressione/contenuto). Fenomeno che si traduce in due fatti specifici:

a) l’intercambiabilità funzionale: fra segni di sistemi significativi diversi;b) la polivalenza: di uno stesso elemento espressivo, che può quindi assumere

diversi significati a seconda del contesto, ma può anche svolgere ruoli e funzioni diverse (si pensi, nel caso di un oggetto, al fazzoletto – correlativo oggettivo – nell’Otello).

Nel ventennio che segue questi studi, però, la semiotica del teatro conosce una vistosa involuzione teorica e metodologica, ed occorrerà il boom degli anni Settanta per sentir parlare nuovamente di loro. Nel ventennio precedente il boom, l’attenzione si sposta sul testo drammatico, ritenuto la componente essenziale del fatto teatrale che quest’ultimo si limiterebbe a tradurre e illustrare. Ma anche negli anni Settanta, va ricordato, questa tendenza sarà comunque viva, e si contrapporrà energicamente alle posizioni di quanti, più correttamente, eleveranno lo spettacolo drammatico e non il testo a oggetto dell’indagine, e considerando il testo una delle componenti del fatto teatrale.

La rinascita della semiotica teatrale

La semiotica del teatro riceve un vigoroso rilancio tra la metà degli anni ’60 e i primi anni ’70: ed è in questo periodo che la semiotica del teatro comincia a definirsi con più precisione, tentando di divenire una disciplina. Questa rinascita della semiotica teatrale come disciplina può farsi risalire al 1968, anno in cui esce il saggio dello studioso polacco Kowzan Il segno a teatro, con sottotitolo introduzione alla semiologia dell’arte dello spettacolo. In questo saggio, Kowzan ribadisce una volta per tutte che il teatro, lo spettacolo, non può e non potrà mai essere un unico linguaggio, poiché rappresenta un insieme, di volta in volta diverso, di linguaggi eterogenei, ed il cui funzionamento non potrà mai essere spiegato in base ad un unico codice; solo tramite una pluralità di codici sarà possibile farlo. Nota è la sua classificazione di tredici “sistemi di segni” che intervengono nello spettacolo teatrale: parola, tono, mimica, gesto, movimento, trucco, acconciatura, costume, accessorio, scenografia, illuminazione, musica e rumori.Dopo il lavoro di Kowzan, si susseguono numerosi studi per una semiotica teatrale come disciplina: ciò che li accomuna è lo spettacolo come oggetto della neo-disciplina e non il testo drammatico. Vengono così analizzati molti punti fermi del fatto teatrale come fenomeno significativo e comunicativo: a) il rapporto tra testo i messinscena; b) tipologie di segni e codici teatrali; c) le gerarchie dalla struttura della messinscena; d) la segmentazione dello spettacolo; e) i meccanismi teatrali di produzione del senso.E naturalmente si fa più intensa la battaglia fra sostenitori del primato dello spettacolo e i sostenitori del testo scritto.

Il testo spettacolare e i suoi contesti

Dunque nella seconda metà degli anni Settanta la semiotica teatrale si sviluppa lungo due linee direttrici: la prima è quella della descrizione di singole ricorrenze spettacolari, mentre la seconda è costituita da una serie di elaborazioni teoriche per una messa a punto di modelli per l’analisi testuale dello spettacolo. In entrambe viene fuori un principio secondo il quale lo spettacolo teatrale è un testo complesso, composto da più testi parziali o “sottotesti”, come il testo verbale, quello gestuale, quello musicale e così via; e regolato da una pluralità di codici eterogenei. La denominazione che si impone è quella di testo spettacolare, il cui corrispettivo inglese è performance text . Successivamente si sono sviluppate le coordinate per studiare il testo spettacolare in rapporto al contesto culturale, da un lato, e al contesto spettacolare, dall’altro:1) Contesto culturale: o generale, è costituito dall’insieme dei “testi” culturali

teatrali o extrateatrali che possono essere messi in relazione con il testo spettacolare; per esempio testi mimici, coreografici, scenografici, drammatici da un lato, testi letterari, retorici, filosofici, architettonici ecc., dall’altro;

2) Contesto spettacolare: (o immediato) è costituito, invece, dalle circostanze di rappresentazione e di fruizione dello spettacolo, ma anche dalle varie fasi

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genetiche (training degli attori, le prove ecc.) e le altre attività teatrali che circondano lo spettacolo vero e proprio.

In teoria questi due contesti andrebbero sempre tenuti sottocchio nello studio del fatto teatrale; in pratica, però, è chiaro che il contesto generale divenga più importante quando si lavora su eventi del passato e lo stesso accade con quello immediato quando l’oggetto sono eventi contemporanei. Avviene però, nel momento in cui la teoria teatrale inizia a studiare lo spettacolo in rapporto allo spettatore, un vero e proprio cambiamento dell’oggetto di analisi: le varie discipline, infatti, hanno chiarito in modo definitivo che ogni testo è sempre incompleto poiché chiede al suo destinatario (lettore o spettatore, ma anche insieme) di completarlo; e ciò è più che mai vero nel caso di un testo spettacolare. Lo spettacolo diviene intelligibile, comincia addirittura ad esistere, solo dal momento in cui si instaura la “relazione teatrale”, intendendola innanzitutto come rapporto attore-spettatore. Ed è per questo che l’oggetto d’analisi della semiotica teatrale diventerà la relazione teatrale, il processo produttivo e ricettivo, di cui lo spettacolo costituisce solo un aspetto non separabile dagli altri.

La relazione teatrale e lo spettatore

Nel tentare di definire la relazione teatrale come oggetto teorico, salta subito agli occhi la sua bidimensionalità, il fatto di presentare due facce contrastanti ma complementari: da un lato, infatti, questa relazione sembra consistere in una manipolazione dello spettatore da parte dello spettacolo (in primis da parte dell’attore); infatti lo spettacolo cerca di indurre nello spettatore determinate trasformazioni intellettuali e passionali (idee, valori, emozioni, fantasie ecc.), oppure di spingerlo a comportamenti concreti (si pensi al teatro politico del Novecento o al teatro propaganda di Piscator).La relazione teatrale, pertanto, non consiste solo in un “far sapere”, ma soprattutto in un “far credere” e in “far fare”: lo spettatore è un oggetto drammaturgico, l’obiettivo, il bersaglio del regista e dell’attore. Ma la relazione teatrale, dall’altro lato, consiste anche in un’attiva partecipazione dello spettatore, il quale può essere considerato un “coproduttore” dello spettacolo; egli è il costruttore dei significati e, da questo punto di vista, è sempre un oggetto drammaturgico. Lo Spettatore Modello rappresenta solo un risultato ipotetico, una categoria teorica. Nel teorizzare la figura dello spettatore modello gli obiettivi sono sempre due: a) mostrare che produzione e ricezione sono processi profondamente collegati, anche se relativamente autonomi; b) mostrare come uno spettacolo prevede un certo tipo di spettatore, come costruisce la relazione con esso. La teoria dello Spettatore Modello serve anche a mostrare in che modo lo spettacolo lasci la possibilità a colui che ne fruisce di filtrarlo con la propria visione. Il passaggio dallo spettatore modello a quello reale pone all’indagine semiotica problemi molto seri, che riguardano la sua stessa identità di disciplina.

Verso un modello per l’analisi della ricezione a teatro

Ogni atto ricettivo a teatro lo si può concepire come costituito da un ridotto numero di operazioni: quelle relative ai livelli psicologici della percezione acustica e visiva, e quelle relative alla comprensione intellettuale e alle reazioni affettive. Diviene così possibile pensare a dei modelli teorici della comprensione teatrale: le componenti (regolarità e variabili) di questi modelli andranno fissate in base ad ipotesi riguardanti la struttura del testo spettacolare ed il suo funzionamento comunicativo, la competenza dello spettatore nelle sue varianti socio-culturali.Bisogna tenere conto delle tre principali dimensioni della ricezione: 1) presupposti: le ricerche hanno portato ad una distinzione tra competenza

teatrale dello spettatore e un più ampio sistema teatrale di precondizioni ricettive. La competenza dello spettatore viene definita come l’insieme dei presupposti che mettono lo spettatore in grado di comprendere lo spettacolo; per sistema teatrale di precondizioni ricettive, invece, si intende l’insieme dei fattori che determinano o influenzano il processo cognitivo dello spettatore teatrale mettendolo nelle condizioni di eseguire le operazioni ricettive. La competenza è una componente del sistema, e fanno parte di questo sistema le conoscenze generali, teatrali ed extra teatrali; le conoscenze teatrali specifiche; gli scopi, interessi, aspettative generali; scopi, interessi particolari; ma a monte di tutto ciò va posizionato il “Presupposto teatrale di base”, sul quale si fonda il Contratto Fiduciario tra spettatore e scena.

2) Processi e sotto-processi: esiste un accordo circa il nome ed il numero della principali operazioni compiute dallo spettatore a teatro (percezione, interpretazione, reazioni emotive, valutazione, memorizzazione); minore è l’accordo sulle modalità di queste operazioni. È il caso di dire che sui modi di funzionamento delle operazioni ricettive a teatro sappiamo ancora poco e meno ancora sui loro rapporti. L’unica ipotesi attendibile è quella che propone di concepire la ricezione dello spettatore teatrale in termini di “montaggio” (si parlerebbe allora di montaggio “produttivo” e di montaggio “ricettivo”).

3) Risultati: il risultato dell’atto ricettivo a teatro è la comprensione che lo spettatore costruisce dinanzi ad un certo spettacolo, mediante le varie operazioni (fare) che la sua competenza (sapere e saper fare) gli permettono di compiere. Si può parlare comunque di tre aspetti della comprensione come risultato ricettivo: un aspetto semantico, uno estetico e uno emotivo. Essi vanno considerati strettamente legati fra loro ma anche con possibilità di funzionamento indipendente. Si può sempre restare colpiti da uno spettacolo il cui significato, o la cui storia, non ci resta chiaro e, soprattutto, viceversa.

2. STORIA E STORIOGRAFIA

Semiotica e storia del teatro

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Occorrerebbe parlare di semiotica VS storia del teatro: fino ad oggi, infatti, fra queste due discipline c’è stato sempre un non rapporto evidente, fatto di diffidenza e sospetti. Le ragioni di un incontro mancato sono molte, ma ruotano tutte attorno ad una considerazione: la condizione di grave ritardo metodologico nella quale si trovano gli studi teatrali, nonché la mancanza d’interesse da parte degli storici del teatro per le questioni teoriche. Ciò ha comportato un certo isolamento della storia del teatro non solo in rapporto alle scienze umane, ma anche nei confronti della storiografia generale.Da qualche tempo, però, le cose sembrano cambiare: lo scopo principale di una voluta collaborazione tra semiologi e storici nello studio del teatro dovrebbe essere quello di fornirsi un reciproco aiuto per sbarazzarsi dei vizi ideologici e delle carenze metodologiche di cui si parlava.

Documento monumento: che cos’è (di cosa parla) un documento teatraleSe la concezione realistica del teatro è oramai definitivamente tramontata, non si può dire altrettanto di quel certo feticismo documentario, che stenta ad estinguersi in virtù della paradossale riformulazione della storia del teatro come una storia dei documenti “sul teatro”. È importante che la nuova storiografia teatrale abbia una concezione del documento non come entità naturale, operando la ridefinizione di “oggetto di conoscenza” (o di cultura), costruito in quanto tale dallo storico.Un documento è sempre profondamente legato alla soggettività di chi lo ha prodotto. Il documento, oltre a presupporre un emittente ed un destinatario, presuppone anche un rapporto tra i due; il documento, pertanto, esibisce soprattutto il rapporto tra il sapere di chi lo ha prodotto ed il sapere del, o dei, destinatari. Ma tale comunicazione non è possibile se non interviene un “sapere comune”, nel quale è semplicemente superfluo parlare di cose già note.Di solito i documenti, teatrali e non, parlano solo di ciò che non è già noto (all’emittente e/o al destinatario); ma sarebbe opportuno dire che ogni documento di norma conserva la traccia di ciò che di eccezionale accade. Cambia il rapporto di opposizione tra saputo e non saputo in quello di normale/eccezionale. Vediamo un esempio: per quanto riguarda la Commedia dell’Arte, si crede che l’improvvisazione e la specializzazione dell’attore nell’eseguire una sola parte siano la norma, mentre furono probabilmente l’eccezione; e proprio per questo furono così ampiamente documentate (Ruffini). Dunque il documento, di regola, parla soltanto di ciò che ritiene eccezionale. Taviani, in un saggio, si interroga sulla significativa mancanza di documenti sulla Commedia dell’Arte relativi alle tecniche sceniche e recitative dei comici. Quella dei comici era un’arte dalla tecnica segreta, non solo perché essi non vollero divulgarla, ma soprattutto perché non potevano farlo: per mancanza di condizioni culturali e linguistiche indispensabili. Per questo motivo ciò che viene divulgato, in merito al lavoro dell’attore comico professionista, è solo quel poco che poteva essere assimilato ad altre attività definite nelle loro tecniche: il lavoro dell”oratore” e quello del “letterato”.

Verso una concezione allargata del documento

Possiamo pertanto affermare il: a) carattere non casuale (o spesso non casuale) della selezione documentaria

che si verifica nel tempo attraverso le varie generazioni; b) carattere non casuale e non naturale delle lacune nell’informazione

documentale: i documenti non dicono mai tutto e quello che dicono lo dicono in modo che non è né casuale né imparziale. Da ciò deriva il:

c) carattere non secondario dell’intervento dello storico sui documenti, sia per quanto riguarda l’analisi che l’interpretazione.

Se, allora, accettiamo il fatto che il documento costituisca una molteplicità di significati potenziali, il problema in questo caso non è più individuare di cosa il documento parla e ciò di cui invece tace, bensì come esso parla e che cosa può dire, e perché lo dice. Ciò determina un’ultima tesi: d) il documento non parla mai da solo, non esiste in sé per sé; prima

dell’intervento dello studioso, esso è pura potenzialità: non dice, può dire. Lo studioso lo trasforma da oggetto materiale a oggetto di conoscenza e cultura; siccome i documenti non parlano da soli, occorre interrogarli.

L’importanza della semiotica, poi, è maggiore del solito. Qui infatti il porre domande inedite ai documenti si traduce nel leggere i documenti in rapporto ad altri, integrandoli continuamente. Ed è da poco che questo procedimento è affiorato, definito sotto il nome di Analisi contestuale del fatto teatrale.

Intermezzo: che cos’è documento (di qualcos’altro)

Per documento teatrale non si intende solo un qualcosa di prodotto intenzionalmente come tale, o qualcosa legato geneticamente al fatto in esame; e nemmeno solamente che un documento è tale per sua natura. Dovremmo: a) intendere documento di o su un fatto teatrale ogni reperto culturale che lo

studioso ritenga pertinente e proficuo mettere in relazione al teatro (un esempio sono, appunto, gli spettacoli devozionali);

b) per essere utilizzato come documento un testo culturale non deve necessariamente appartenere al contesto generico del teatro;

c) i documenti, anche quelli teatrali, sono uno statuto documentale relativo; d) ciò che è documento di qualcosa, può divenire l’oggetto da studiare sulla

base di altre testimonianze; ma anche, viceversa, l’oggetto originario d’analisi può essere assunto come documento di un’altra indagine (si pensi ai dipinti usati come fonti per la scenografia e la scenografia utilizzata come documento nello studio della recitazione o del testo drammatico);

e) documenti e oggetti dell’analisi documentaria vanno quindi annoverati nello statuto teorico di “testi” (culturali) che possono fungere da documenti gli uni nei confronti degli altri;

f) una volta accettata tale omologazione teorica, su piò ulteriormente distinguere fra documenti “stricto sensu”, direttamente legati all’evento-

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oggetto in questione, e testi culturali utilizzati nei confronti di quello stesso evento-oggetto, senza esservi materialmente connessi.

Cerchiamo di spiegare meglio il senso ed i limiti di queste nozioni sul documento e sulla sua utilizzazione: per esempio, le prospettive dipinte delle tavole di Berlino, Baltimora e Urbino sono state frettolosamente assunte, negli anni ’50, come documenti sulla scenografia del Cinquecento come anticipazioni della prospettiva urbana. Le ricerche più recenti, invece, hanno smentito tale legame, inserendole in una altro ramo della storia rinascimentale, quello delle architetture dipinte. Ma resta comunque importante il loro studio per la conoscenza del teatro italiano nel Rinascimento, visto che non decade ogni loro possibilità di documentazione rispetto all’oggetto culturale “scenografia cinquecentesca”; si tratta di un legame, però, non materiale o genetico ma culturale: contribuiscono a formulare prima l’ipotesi, poi l’idea che si cercasse già da prima il tentativo di rappresentare la “città ideale”, e quindi un’idea di teatro come funzione culturale nella città. Un altro esempio potrebbe essere quello de le testimonianze iconografiche sulla Commedia dell’Arte, che spesso sono state assunte come documento “stricto sensu” sulla recitazione degli attori professionisti; si tratta di dipinti, incisioni, disegni che invece si rivelano perlopiù come una libera invenzione dell’artista, a partire da situazioni o maschere della Commedia dell’Arte. Tuttavia ciò non significa un’esclusione di tali materiali da uno studio dei comici dell’Arte: significa rendersi conto che essi non sono documenti della realtà storica della Commedia dell’Arte ma delle reazioni che a questa si manifestano agli inizi del Seicento, e della memoria che si cominciava a tramandarne.

L’analisi contestuale dell’evento teatrale

La nozione allargata di documento permette un approccio contestuale allo spettacolo del passato su basi più ampie di quelle concesse da un’impostazione di tipo storico. Di grande utilità, a tal proposito, può rivelarsi un concetto come quello di intertestualità, cioè il gioco complesso di prestiti, citazioni, trasposizioni, rimandi, riferimenti ecc. questo tipo di lavoro permette di mettere meglio a fuoco il fenomeno teatrale nel suo essere continuamente un insieme di “già detto” e “non ancora detto”, di tradizione e innovazione. Vediamo qualche esempio:1) le ricerche di Ludovico Zorzi sulla scenografia e sul luogo teatrale nel

Rinascimento, che implicano un’analisi contestuale dei documenti e dei fatti, leggendo le fasi salienti di questo sviluppo – organico e coerente – sullo sfondo della pittura, dell’architettura e dell’urbanistica.

2) Ma anche l’articolatissimo studio di Franco Ruffini attorno e all’interno, ben in profondità, della Calandria del Bibbiena: l’analisi del testo, con conseguente messa in luce del “problema Plauto”, la stufetta, il bestiario, nonché il significato stesso dell’uccello “calandra” e la sua identificazione con Cristo; per non parlare poi dell’evento teatrale ad Urbino, nel 1513, che viene indagato da Ruffini evitando l’errore della storiografia tradizionale che

scompone l’evento nelle sue varie componenti (commedia, intermezzi, sala e scena) senza conservarne una visione unitaria.

Tanti risultati non si sarebbero potuti conseguire senza un ricorso sistematico alla definizione di intertestualità; se l’incontro fra storici del teatro e semiologi non ha ancora dato i frutti sperati, ciò lo si deve addebitare ad alcuni limiti della ricerca semiotica nel passato e, in parte, di oggi. Ed è proprio in rapporto a questi limiti che emerge l’importanza del contributo dello storico, che può aiutare il semiologo a vincere le tentazioni di una scienza astratta, antistorica. Solo così la semiotica può afferrare l’oggetto teatrale, comprendendoli nella loro concretezza di oggetti storici.

3. SOCIOLOGIA

Theatrum mundi

Va detto subito che nell’ambito delle scienze umane la disciplina sociologica, assieme a quella antropologica (non sempre ben distinguibile da essa), è stata la più praticata ed utilizzata per lo studio del fatto teatrale. Tuttavia sarebbe difficile affermare che sia mai esistita, o esista tutt’oggi, una sociologia teatrale.Il merito della Sociologia sta nell’aver pensato in modo nuovo le due categorie “società” e “teatro”; così si è giunti a cogliere in maniera più adeguata l’affinità profonda esistente tra esse. Da una parte, infatti, si è dimostrato che una società è costituita da un insieme dinamico di livelli (economici, sociali, politici, culturali, estetici ecc.) il cui funzionamento storico non è per forza parallelo e i cui tempi di trasformazione o durata non sono sempre gli stessi; dall’altra parte ha consentito di mettere meglio in luce gli elementi “drammatici” di cui è piena zeppa la vita sociale dei gruppi e degli individui, accorgendosi che l’uso del gioco, della rappresentazione e delle maschere non sono prerogative solo del teatro.

Cerimonia drammatica e cerimonia sociale

È stato senza dubbio Jean Duvignaud lo studioso che è riuscito ad accostare meglio i due fenomeni, quello sociale e quello teatrale, sul piano “macrosociologico”: egli propone lo studio delle analogie esistenti fra due “cerimonie”, quelle drammatiche e quelle sociali (quest’ultime sono le drammatizzazioni spontanee). Naturalmente uno degli scopi di tale approccio è quello di dimostrare quanto sia difficile separare in modo netto le due cose. Resta da chiedersi, allora, quale sia la funzione sociale di tali cerimonie spontanee: Duvignaud risponde che la società ricorre al teatro ogni volta che vuole affermare la sua esistenza o compiere un atto decisivo che la metta in causa. Come gli individui, anche i gruppi sociali necessitano di rappresentarsi agli altri e di darsi in spettacolo a se stessi per potersi mettere in questione e trasformarsi. La storiografia ha dimostrato che il tasso di teatrabilità di una società, o di un’intera civiltà, aumenta enormemente nei momenti di crisi e di passaggio (ad es. da un’epoca all’altra, da un sistema politico ad un altro ecc.).

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Negli stessi anni di Duvignaud, Erving Goffman studiava gli elementi teatrali impliciti nei piccoli rituali della vita quotidiana, specie nelle relazioni interpersonali. Le ipotesi alla base del suo lavoro sono:a) il comune rapporto sociale è di per sé organizzato come una scena, con

scambio di azioni, contro-azioni, battute finali; b) ciò che spesso fa il locutore non è passare informazioni agli interlocutori, ma

di presentare drammi ad un pubblico.Il nostro comportamento in pubblico, le nostre relazioni interpersonali, comprese quelle banali, hanno sempre a che fare in qualche modo con la finzione e la scena; non che noi tendiamo a mentire o ad ingannare deliberatamente, piuttosto abbiamo il costante bisogno di interpretare dinanzi agli altri il nostro Sé, il nostro ruolo, la nostra persona sociale; oppure, più semplicemente, cerchiamo di offrire alla visione di terzi quell’immagine che vorremmo loro conservassero di noi. Noi “attori sociali”, così, mettiamo in opera una serie di abilità e di tecniche simili a quelle degli attori di teatro: mimica appropriata, toni della voce, gestualità, pause ecc. Ma non è che bisogna non distinguere fra teatro e vita quotidiana: sarebbe una deformazione del pensiero di Goffman, che non si è mai sognato di pensare che il teatro e la vita di tutti i giorni sono la stessa cosa; le sue analisi dimostrano una cosa ben diversa: la rappresentazione non è confinata nei limiti della finzione ma costituisce un’importante realtà della vita quotidiana. Non si tratta, dunque, di confondere due tipi ben diversi di comunicazione, le rappresentazioni teatrali e quelle quotidiane, ma di rendersi conto sia in una che nell’altra gli “attori” devono ricorrere ad un vasto repertorio di “tecniche reali”. Un personaggio teatrale non è reale, ma per essere messo in scena con successo bisogna ricorrere a tecniche reali, le stesse che usiamo nella vita di tutti i giorni per le relazioni sociali.Il teatro come modello di comportamento

Il teatro può essere considerato un modello di comportamento quotidiano. Quello che è possibile osservare nella storia europea è che il teatro, inteso soprattutto come rappresentazione e recitazione, nascendo dai codici culturali del proprio tempo, finisce per influire su di essi e, spesso, per modificarli. In particolare accade che l’attore, il suo movimento, il suo gesticolare, il suo esprimersi, in scena e fuori, vengano assunti deliberatamente come modello di comportamento. Tale fenomeno ricorre soprattutto nel Settecento, dove questa caratteristica del teatro appare evidente, e segnalano la presenza di un fenomeno più profondo e di vasta portata: la possibilità, per il teatro, di funzionare come “dispositivo codificatore del comportamento degli uomini nella realtà della vita e del costume”.Forse occorrerebbe parlare di “sociologia della produzione teatrale”, intendendola come lo studio del gruppo degli attori in quanto compagnia e, più ampiamente, in quanto professione; studiare il rapporto funzionale del contenuto dei testi, lo stile, i quadri sociali, i tipi di strutture sociali e le classi sociali; studiare, infine, le funzioni sociali del teatro nelle diverse strutture sociali globali.1) Sociologia degli attori e delle compagnie

Le questioni da studiare in merito a questo argomento sono ancora imprecise e molto scarse; specie per quanto riguarda la vita delle compagnie professionistiche in Europa nei secoli scorsi. Si rischia di comprendere poco e male il professionismo teatrale fra ‘500 e il ‘600, e il suo rapporto con il teatro dei dilettanti, se continuiamo a considerarlo nei termini socio-culturali che esso ha assunto solo più avanti con il tempo, cioè dopo l’istituzionalizzazione del teatro; prima di quest’epoca, l’attore di professione era considerato come qualcuno che praticava un mestiere da ciarlatano e da saltimbanco, piuttosto che da professionista dell’Arte e della Cultura (al quale, invece, apparteneva il teatro non professionista dei nobili e degli accademici). 2) Sociologia dei contenuti drammaticiSi tratta del settore più frequentato, e che consiste nell’analisi dei rapporti fra il tipo d’una società globale e il contenuto della produzione teatrale. Si può facilmente ricordare come le tragedie dei tre grandi autori greci, oppure le commedie di Aristofane, siano state analizzate più volte per decifrarvi le reazioni ad avvenimenti della loro epoca, arrivando spesso a mettere in luce con grande esattezza le più minute circostanze storiche che sono alla base di certe opere.3) Le funzioni sociali del teatroIl teatro ha avuto, storicamente parlando, diverse funzioni sociali: di appoggio e di propaganda, di sovversione, di trasgressione e protesta, di divertimento, di animazione sociale e culturale.

Sociologia della ricezione: dal pubblico allo spettatore

Un aspetto molto importante della sociologia è quello inerente le inchieste pratiche sul pubblico: si tratta di indagini che utilizzano gli strumenti tecnici della sociografia (interviste e questionari scritti), per raccogliere dati sulla composizione socio-culturale del pubblico e per elaborare statistiche relative ai suoi gusti e preferenze in materia di spettacoli. Oggi tali indagini sulla ricezione teatrale si sono arricchite dell’apporto degli strumenti della semiotica e della psicologia. Sono soprattutto due le novità che caratterizzano le nuove inchieste: a) il passaggio dalla nozione di pubblico a quella di spettatore (nozione antropologica più concreta); b) la concezione della relazione teatrale, cioè del rapporto spettacolo-spettatore come un rapporto di comunicazione nella quale i valori intellettuali e quelli emozionali non sono imposti da un polo (attore) all’altro (spettatore), ma vengono prodotti da entrambi insieme. All’interno di questa concezione, è possibile distinguere almeno due componenti principali:1) le strategie produttive degli emittenti (produttori) dello spettacolo:

scrittore, regista, scenografo ecc., ovvero il collettivo di “enunciazione teatrale”: sono strategie di comunicazione e di manipolazione mirate a “far sapere” ma anche , e soprattutto, a “far credere” e “far fare”.

2) Le strategie ricettive dello spettatore: che si dividono a loro volta in: processi e subprocessi che compongono l’atto ricettivo (percezione,

interpretazione, emozione, valutazione);

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il o i risultati dell’atto ricettivo (la comprensione che uno spettatore costruisce per uno spettacolo dato);

i presupposti dell’atto ricettivo (che influenzano gli atti di ricezione nel loro svolgimento e nel loro esito).

I presupposti, a loro volta, si dividono in:a) conoscenze generali: teatrali ed extrateatrali dello spettatore; b) conoscenze particolari: relative al testo; c) scopi, interessi, motivazioni ed attese dello spettatore; d) condizioni materiali di ricezione: la posizione fisica dello spettatore rispetto

allo spettacolo e agli altri spettatori. Esse determinano che cosa lo spettatore vede e come.

4. ANTROPOLOGIA

Fra tutte le scienze umane, l’Antropologia è quella che più ha influenzato il teatro del Novecento: si è infatti verificato un incontro spesso importante fra la ricerca antropologica e la ricerca teatrale, derivante non solo dall’adozione di temi comuni, ma anche da una sostanziale convergenza di necessità metodologiche. Del resto l’antropologia trova nel teatro un terreno di sperimentazione eccezionale, poiché essa si trova a che fare con uomini che giocano a rappresentare altri uomini.È utile ricordare che sono molti e fondamentali i cambiamenti apportati dall’antropologia sul teatro: fino a non molto tempo fa l’emergenza di uno studio antropologico del teatro ruotava attorno all’esigenza della conoscenza delle “origini del fenomeno teatrale”; come e quando è nato, perché, come e quando l’umanità è passata dal rito allo spettacolo, come e quando è nato l’attore. Oggi, invece, il centro d’attenzione della ricerca antropologica si è spostato decisamente sul rapporto rituale-teatro, ma con due decisive variazioni: la prima è che il termine “rituale” viene assunto pensando ai rituali del comportamento umano; la seconda è che si analizzano le analogie strutturali tra fenomeni rituali e fenomeni teatrali, fra comportamenti culturali e comportamenti scenici.Il problema centrale è dunque quello dei rapporti fra teatro-vita quotidiana, in cui è possibile individuare due tendenze: una preferisce sottolineare affinità e analogie, l’altra è interessata alla distanza fra le due e le differenze, teorizzando il teatrale come “extraquotidiano” (Grotowski e Barba).

Il corpo artificiale

Alla base delle attività e delle sperimentazioni svolte sino ad oggi dall’ISTA, ci sono soprattutto le ipotesi scientifiche elaborate da Eugenio Barba sui temi dell’Antropologia teatrale. L’argomento più interessante è sicuramente quello riguardante i principi pre-espressivi transculturali che Barba riscopre al fondo delle tecniche dell’attore (chiamate “extraquotidiane”) di un gran numero di forme teatrali e spettacolari appartenenti a diverse culture e tradizioni, contemporanee e non, occidentali e non.

Secondo Barba noi utilizziamo il nostro corpo in modo sostanzialmente diverso nella vita quotidiana e nelle rappresentazioni; a livello quotidiano la nostra tecnica del corpo è condizionata dalla nostra cultura, dallo stato sociale, dal mestiere; in situazioni di rappresentazione organizzata esiste una tecnica del corpo totalmente differente: si può dunque distinguere una tecnica quotidiana del corpo ed una extraquotidiana .Tuttavia va precisato che non tutto l’extraquotidiano è teatrale e nemmeno pubblico (esistono infatti le tecniche extrateatrali pubbliche, quelle dell’oratore, del capo militare ecc. ed esistono quelle extrateatrali personali o private, come lo yoga, il digiuno, l’allenamento e così via), e poi sembra veramente difficile supporre che tutto il teatrale sia extraquotidiano. Secondo De Marinis, “quotidiano” ed “extraquotidiano” distinguono due tipi diversi di tecniche (non solo fisiche, tra l’altro) molto di più di quanto non separino due comportamenti reali: la situazione teatrale e la situazione quotidiana, il comportamento teatrale ed il comportamento extraquotidiano.Sono sostanzialmente quattro, secondo Barba, i principi-che-ritornano (o le leggi) che riguardano le tecniche extraquotidiane teatrali:1) principio dell’alterazione dell’equilibrio: l’attore, per conferire alla sua

presenza scenica la giusta qualità energica necessaria, deve abbandonare la tecnica quotidiana dell’equilibrio, basata – come tutte le leggi quotidiane – sul principio del “minimo sforzo”, per tentare di raggiungere l’equilibrio “di lusso"; le tecniche sono varie e diverse fra loro, ma tutte tengono conto della legge di gravità. Per lavorare in condizioni di déséquilibre si dovrà ridurre la base di sostegno, ad esempio deformando la posizione delle gambe e delle ginocchia rispetto al resto del corpo (come la camminata del No e del Kabuki), oppure camminando solo sulle punte (danza classica europea), sui bordi esterni del piede (danza classica indiana), solo su un piede;

2) principio dell’opposizione: per conferire la sufficiente energia alla propria azione, l’attore deve costruirla come una “danza”, o un gioco di opposizioni, associando ad ogni impulso un controimpulso; secondo la definizione di Barba “ogni movimento deve iniziare dalla direzione opposta a quella in cui si dirige”;

3) principio della semplificazione: significa l’omissione volontaria di alcuni elementi per metterne in rilievo altri. Questa terza legge non contraddice la seconda, ne costituisce un presupposto ed una conseguenza: il principio dell’opposizione agisce per eliminazione: le tensioni si rivelano proprio perché estrapolate dal loro contesto naturale, in contrasto con quanto avviene invece nel comportamento quotidiano. Questo principio si traduce a sua volta in due procedimenti differenti: a) la restrizione dello spazio dell’azione (come il mimo di Decroux o gli attori

Indiani);b) si tratta di un lavoro di sintesi, quello che Merceau – riferendosi al cinema

– chiama giustamente “ellissi”.4) principio dello spreco dell’energia: ovvero il massimo impiego di energia

per raggiungere il minimo risultato. Questo principio è il fondamento comune 6

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di tutti gli altri: è la legge distintiva e costitutiva delle tecniche extraquotidiane, per il fatto che queste sono le tecniche della dissipazione d’energia, del comportamento improduttivo ed antieconomico, opposto a quello delle tecniche quotidiane basate, invece, sul minimo sforzo.

Barba parla di queste leggi, o principi-che-ritornano, come di regole riguardanti il bios dell’attore teatrale; quindi come il fondamento biologico delle tecniche extraquotidiane. La funzione basilare di tali principi è quella di “rompere gli automatismi del corpo quotidiano”. Ma, visto che Barba non parla di leggi universali ma di consigli, indicazioni utili, i principi pre-espressivi possono servire all’attore e allo studioso, a patto però di essere intesi correttamente ed utilizzati senza eccessive sopravvalutazioni e sottovalutazioni.Secondo De Marinis l’interesse principale che questi principi pre-espressivi suscitano è quello inerente il fatto che essi consentono di mettere a fuoco una “zona intermedia” tra la vita quotidiana e la rappresentazione, tra l’attore ed il personaggio. A questa zona apparterrebbe un insieme di regole né recitative né espressive, che potremmo definire “tecniche della presenza drammatica”. Sono quelle che predispongono l’attore alla recitazione, mettendo in forma il suo corpo, caricandolo della tensione e precisione necessaria. Tra il corpo quotidiano dell’attore-uomo e quello immaginario dell’attore-personaggio, si pone un corpo intermedio, quello che lo studioso giapponese Watanabe chiama corpo fittizio. Se ci si chiede perché il corpo dell’attore debba farsi extraquotidiano, artificiale, al fine di attirare l’attenzione dello spettatore, la risposta è che per catturare l’attenzione dello spettatore occorre stupirlo, sorprenderlo, colpirlo, e ciò è possibile solo mediante la trasgressione e la violazione delle leggi che regolano il comportamento quotidiano: in prima istanza quelle fisiche di gravità, inerzia e minimo sforzo; ed ecco la necessità dell’attore di costruirsi un corpo artificiale, fittizio, innaturale.

Postille sul pre-espressivo

Le ricerche e le teorizzazioni descritte vanno accomunate sotto il nome di Antropologia teatrale. Tuttavia i problemi lasciati in sospeso dall’antropologia teatrale di Barba possono così riassumersi:1) esatta natura dei principi pre-espressivi: sembrano esistere quattro

diverse concezioni: a) la pre-espressività consta di elementi materiali rintracciabili sulla “superficie” dello spettacolo, della performance, nei “vuoti” fra due espressioni significative; b) la pre-espressività costituisce il livello base dello spettacolo, la dimensione profonda della performance dell’attore; c) la pre-espressività è un livello d’analisi della performance o del lavoro teatrale, spiegando il funzionamento della performance teatrale ed ottiene anche risultati pratici come attirare l’attenzione dello spettatore e liberare il corpo dell’attore dalle tecniche quotidiane;

2) rapporti fra pre-espressivo e pre-culturale: anche qui ci sono diverse possibilità: a) il pre-espressivo è “preculturale” e dunque “transculturale”; egli si riferisce a tutti i tipi di performance attoriali, al di là della loro diversa socio-

cultura di appartenenza; b) il pre-espressivo è già culturalizzato, visto che l’attore non può utilizzare una regola, pur relativa al suo corpo, senza farlo in modo determinato dalla propria socio-cultura di appartenenza, oltre che da gusti e scelte individuali;

3) gerarchia d’importanza fra espressivo e pre-espressivo: in teoria l’importante non è la prevalenza dell’uno sull’altro, ciò che conta sono i risultati. Ma la questione resta se è o non è il comune principio di alterazione ad essere decisivo per la qualità delle diverse presenze sceniche o i modi differenti di utilizzarlo;

4) rapporti fra pre-espressivo ed extraquotidiano e tra extraquotidiano e teatrale: non tutto l’extraquotidiano è teatrale e non tutto il teatrale è extraquotidiano: a) non tutto l’extraquotidiano è teatrale perché il teatro non è l’unico luogo in cui l’uomo si trova in una situazione di rappresentazione; b) non tutto il teatrale è extraquotidiano perché nell’extraquotidianità c’è anche il quotidiano, inteso come recupero di comportamenti, situazioni, oggetti della vita reale che diventano teatrali attraverso operazioni di smontaggio e rimontaggio.

5) Fisico e mentale nel pre-espressivo: pre-esprissivo “mentale” e pre-espressivo “fisico” furono inizialmente distinti: oggi le cose sembrano diverse, in quanto si è riconosciuta una certa inscindibilità del pre-espressivo fisico e mentale nel lavoro dell’attore: A) per quanto riguarda il primo punto il lavoro fisico e mentale dell’attore è

inscindibile perché non esiste un’azione fisica che non sia anche mentale;

B) un pre-espressivo mentale potrebbe teorizzarsi come livello profondo della composizione teatrale: il soggetto non è più l’attore, ma l’autore o il regista, e l’oggetto non è più rappresentato dalla singola azione: ma dai rapporti fra le azioni, da quello che Barba chiama “montaggio” simultaneo e successivo;

C) Barba chiama il pre-espressivo mentale “precondizione crativa”, definibile anche come “principio di negazione” in quanto consisterebbe nel “fare un passo indietro” nell’arretrare ad una condizione di “disorientamento volontario”; ciò che distingue il pensiero creativo, secondo Eugenio Barba, è il fatto che esso procede mediante salti, disorientamenti inaspettati, che lo obbligano a riorganizzare se stesso in modi nuovi.

La relazione attore-spettatore nell’ottica dell’antropologia teatrale

Le posizioni dell’antropologia teatrale e di Barba, riguardo allo spettatore e alla sua ricezione, si sono manifestate come tentazioni e come rischi, ma mai come ipotesi definite in modo chiaro; si tratta, tra l’altro, secondo De Marinis, di tentazioni e di rischi da respingere, di modi errati di utilizzare le teorizzazioni antropologico-teatrali per l’impostazione dello studio dei fenomeni di ricezione dello spettatore. Queste tentazioni pericolose sono, sostanzialmente, quattro:

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1) il primo modo errato o pericoloso di utilizzare le ipotesi dell’antropologia teatrale nello studio della relazione attore-spettatore è quella di porre l’accento quasi esclusivamente sulla seduzione che la presenza pre-espressiva dell’attore eserciterebbe sullo spettatore a svantaggio della comprensione, cioè delle attività intellettuali, interpretative, valutative.

2) Un secondo modo sembrerebbe essere quello di accentuare la distanza fra i due poli estremi, quello di attore e spettatore, fino a farla sembrare una “non-relazione”, una non-comunicazione. Non si tratta di negare questo “scarto” comunque esistente, ma nemmeno di accentuarlo;

3) Un terzo modo sarebbe quello di concepire come assoluta “l’autonomia creativa” dello spettatore durante la comprensione dello spettacolo; non si può trascurare il fondamentale lavoro di predeterminazione della sua percezione che lo spettacolo compie a monte della sua disposizione.

4) Il quarto ed ultimo modo sbagliato o pericoloso di utilizzo dell’antropologia teatrale è: dire che ogni teatro ha a che fare con l’attenzione dello spettatore, significa dire che ogni teatro, forse, ha a che fare con lo stesso problema ma non necessariamente con la stessa cosa e con le stesse soluzioni. Quella che chiamiamo attenzione dello spettatore comprende un insieme complesso di fenomeni ancora non ben definiti, anche ammettendo che tali processi possano considerarsi pre-interpretativi, non lo sono sicuramente nel senso di “pre-cognitivi”: cioè del tutto immuni dall’attività razionale ed intellettuale dello spettatore.

Mettendo insieme i quattro problemi delineati, De Marinis propone un modello della relazione teatrale chiamato relativistico-parziale; ed è un modello che si fonda sulle seguenti nozioni:a) interdipendenza fra seduzione (emozione) e comprensione dello spettatore;b) sfasatura relativa fra attore e spettatore;c) autonomia creativa parziale dello spettatore;d) determinazione cognitiva e culturale dell’attenzione a teatro.Ed è all’interno di questo tipo di modelli che sta iniziando a svilupparsi lo studio socio-semiotico delle operazioni ricettive dello spettatore, ed è l’antropologia teatrale che può rivelarsi decisiva con il suo contributo.

4. LA RECITAZIONE NELLA COMMEDIA DELL’ARTE: APPUNTI PER UN’INDAGINE ICONOGRAFICA

La storiografia teatrale ha oramai superato da tempo il mito della Commedia dell’Arte come teatro popolare basato sulla spontaneità e sull’improvvisazione, ed ha messo in luce le reali fattezze di quel particolare modo di organizzare la rappresentazione. In generale, si può dire che è la retorica verbale e gestuale, l’intero comportamento relativo ai vari ruoli scenici, o parti (Vecchi, Innamorati, Zanni, Capitani ecc.), a diventare oggetto di una codificazione che si farà sempre più rigida con il tempo. In definitiva i comici esercitavano il loro dominio assoluto sul solo aspetto verbale, l’unico non fissato completamente: però anche il tessuto verbale, messo insieme all’improvviso, non era realmente improvvisato (nel

senso di inventato lì per lì), poiché faceva riferimento alla letteratura sulle diverse “parti”, raccolta nei “generici” o “zibaldoni”. Dunque improvvisazione come arte dell’adattamento e della combinazione (o montaggio) di un vasto repertorio letterario, intesa come variazione personale e capacità di far sembrare improvvisato ciò che in realtà era previsto. Per una migliore conoscenza scientifica del fenomeno molto complesso della Commedia dell’Arte, si può fare riferimento alla recitazione, ovvero alle caratteristiche tecniche e stilistiche dei codici recitativi impiegati dai comici italiani.

Un silenzio paradossale

La Commedia dell’Arte è forse uno degli episodi meglio documentati della storia del teatro occidentale; ma la situazione è diversa se, dalla realtà storica, si passa allo studio del lavoro teatrale degli attori, le loro tecniche sceniche, il loro addestramento, i loro metodi di preparazione fisica e verbale. Questa scarsità di documenti prodotti dai comici stessi, relativi alle tecniche recitative, ha qualcosa di paradossale nella misura in cui – come tutti sanno – la Commedia dell’Arte fu innanzitutto un teatro d’attore e che, per giunta, i comici italiani erano perlopiù scrittori prolifici. Se si esamina il materiale che loro ci hanno tramandato, si può constatare come essi parlino di tutto tranne che della recitazione. Siamo quindi predisposti a credere che non si tratti di un vuoto documentario casuale, bensì di un silenzio dovuto ad una vera e propria “strategia del silenzio”. Va beninteso, però, che i comici non tacciono completamente del loro lavoro di attori, però si riferiscono solo a quegli aspetti in cui esso è assimilabile al lavoro degli oratori e dei letterati; quindi si riferiscono a tecniche conosciute se non addirittura palesi, ma non parlano mai degli aspetti specifici del loro mestiere.Naturalmente altrettanto grave è la situazione per quanto riguarda i documenti indiretti ed esterni: nei testi drammatici e negli scenari non mancano indizi mimico-coreografici e tecnicismi relativi alla recitazione; ma essi permettono di conoscere il “che cosa” e non il “come” del comportamento scenico. Quanto alle testimonianze degli spettatori esse risultano lacunose e molto povere dal punto di vista tecnico; possono talvolta divenire interessanti se le si interroga come tracce degli effetti dell’arte attorica.

Indizi iconografici

Se, nonostante tutto, gli studiosi sono riusciti comunque a farsi un’idea sul modo in cui recitavano i comici dell’Arte, lo si deve all’abbondante materiale iconografico che è stato trasmesso dalle compagnie. Non è certo del materiale troppo attendibile, il cui limite per eccellenza è rappresentato dalla staticità delle illustrazioni, dal loro rappresentare gli attori in “posa”; in ogni caso, infatti, il prima e il dopo lo spettacolo vengono sempre trascurati. Fino ad oggi non si sono mai poste domande relative ai problemi metodologici di utilizzazione documentaria di tali materiali iconografici; problemi che riguardano la pertinenza e l’attendibilità. Ed è anche successo che l’assunzione di tali fonti

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come informazioni sulla Commedia dell’Arte abbia invece rivelato un problema sostanziale: quello che, spesso, queste illustrazioni sono libere interpretazioni dell’artista.Tuttavia lo studioso può sempre utilizzare queste immagini per scopi storico-critici sulla Commedia dell’Arte, e soprattutto sulla recitazione degli attori, a patto però di capire di che cosa queste immagini sono documento, del teatro dei comici italiani o, come sembra, delle reazioni che esso produceva negli spettatori. Ci sono tuttavia materiali iconografici più attendibili di altri, specie per quanto riguarda la prima Commedia dell’Arte: ma anche in questo caso non si tratta, né può trattarsi, di fotografie ma di disegni o dipinti. De Marinis si riferisce alle incisioni del Recueil Fossard, che comprendono tra l’altro stampe di una importante compagnia italiana al tempo di Enrico III, e forse anche di un preciso spettacolo con tutti i personaggi maggiori: da Pantalone ad Arlecchino, dagli Zanni agli Innamorati, dalla Serva al Capitano. Inoltre disponiamo delle sette incisioni di Arlecchino ad opera di Tristano Martinelli, il primo grande Arlecchino, nonché varie incisioni sparse dello stesso tempo (fine ‘500 inizi ‘600).Il fatto che tali documenti vengano presi seriamente in considerazione dagli storici non è un caso e le ragioni sono molteplici: innanzitutto perché si tratta di incisioni a stampa e non di dipinti o affreschi; oppure per il fatto che l’attendibilità di questi documenti è rafforzata anche da una notevole concordanza intertestuale nei confronti di altri documenti iconografici della stessa epoca.

Il livello pre-espressivo

È il caso di precisare subito che tali materiali iconografici non avrebbero permesso, da soli, di formulare ipotesi circa la realtà della Commedia dell’Arte: si sono rese necessarie alcune recenti indagini sull’attore. Si tratta delle ricerche di antropologia teatrale che, grazie all’individuazione di basi pre-espressive del teatro e della performance attorica, ci permettono di cambiare il nostro modo di guardare alle questioni della recitazione. La base pre-espressiva, secondo Barba, permette all’attore di utilizzare delle tecniche extraquotidiane del corpo grazie alle quali l’attore affascinerebbe lo spettatore con la sola presenza scenica. Ciò ci permette di leggere in maniera nuova gli indizi iconografici: si è così scoperto che il codice recitativo dei comici dell’Arte è assai lontano da quello pantomimico a cui è stato sempre ricondotto, mentre può risultare pertinente per quanto riguarda la tarda Commedia dell’Arte (dove, fra l’altro, l’abbandono della maschera significò un’importanza maggiore alla mimica facciale); fu, invece, un modo di recitare caratterizzato da una certa differenza rispetto all’idea che conserviamo della pantomima: energia, deformazione, spezzature improvvise del ritmo, ma soprattutto contrasti . Era una recitazione dettata da una logica dei contrasti e delle opposizioni estreme e violente, tanto che potremmo dire, come fa Taviani, che sono spettacoli basati su una coesistenza di due codici recitativi opposti, che con il loro diverso dosarsi producono, con il tempo, le modificazioni decisive nel comportamento scenico degli attori e delle attrici.

La recitazione per contrasti

Prima di parlare di questo doppio codice recitativo, bisogna vedere innanzitutto perché lo spettacolo della Commedia dell’Arte si basava sul gioco delle opposizioni (si pensi ad opposizioni come padrone/servitore, patetico/ridicolo, lingua/dialetto, maschera/senza maschera e via dicendo). I contrasti dipendono dal fatto che lo spettacolo dei professionisti si struttura sempre su due assi: quello “serio” degli Innamorati e quello “comico” delle maschere dei Vecchi e degli Zanni. Si può dire che la Commedia dell’Arte nasca dall’incontro di queste due assi, il serio ed il comico, e quindi dal convergere in un unico punto (lo spettacolo) di due diversi tipi di attori. Tale incontro lo possiamo vedere in due modi diversi: 1) possiamo pensare che la Commedia dell’Arte nasce dall’inserimento delle

maschere comiche in un organismo drammaturgico già completo (come quello della commedia erudita o quello della pastorale o della tragedia);

2) oppure possiamo pensare che la Commedia dell’Arte deriva dall’innestarsi del piani “serio” degli Innamorati nello spettacolo buffonesco.

Ciò che conta, comunque, è quell’incontro fra le due assi “serio e comico”, che sono alla base della Commedia dell’Arte. Ed è evidente che il gioco delle opposizioni, quindi il contrasto sulla scena, avveniva fra i due codici recitativi opposti.

Il codice energetico

Il codice energetico è uno stile scenico extraquotidiano basato sulla deformazione consapevole ed intelligente del corpo e del comportamento. Sembra possibile, grazie alle immagini del Recueil Fossard, evidenziare i principali di questo codice recitativo: si noti innanzitutto la torsione innaturale che possiedono i corpi di tutti i personaggi “ridicoli” (Pantalone, Arlecchino, Francatrippa ecc.), che sono in equilibrio precario o disequilibrio. Ciò comporta la formazione di figure incredibilmente arcuate che vanno all’indietro mentre le gambe sembrerebbero spingerle in avanti; oppure si pensi alle gambe estremamente divaricate, specie nella camminata di Pantalone. Ma vanno chiariti alcuni possibili equivoci:1) innanzitutto la recitazione dei comici dell’Arte è fondata su tecniche

extraquotidiane che la differenziano nettamente da quella dei buffoni e dei saltimbanchi, ma non va confusa soprattutto perché essa non sfocia nel ridicolo;

2) un altro errore sarebbe considerare troppo evidenti le analogie fra recitazione energica e acrobazia: è chiaro che sono due cose diverse, ed il codice energetico si basa “anche” sull’acrobazia ma le tecniche extraquotidiane sono all’opera anche nei minimi movimenti ed in quelli più semplici;

3) le tecniche extraquotidiane, che stavano alla base della recitazione energica e per contrasti, non comprendevano solo tecniche del corpo ma anche

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tecniche letterarie, retoriche, declamatorie, basate sulla deformazione e artificializzazione della voce, pronuncia, accenti.

In definitiva potremmo dire che il contrasto sulla scena dei comici dell’Arte si basa sul contrasto fra due codici recitativi opposti, quello energico e quello elegante, sul piano del pre-espressivo: si tratta, dunque, del contrasto fra due differenti basi pre-espressive.

La scomparsa della recitazione energica

Abbiamo visto come la recitazione dei comici dell’Arte sia caratterizzata, nella seconda metà del Cinquecento, dalla coesistenza di due codici opposti: la lingua elegante degli Innamorati e quella energica degli altri personaggi. E fu proprio questo contrasto evidente a conferire allo spettacolo una forza particolare, rendendolo strano ed interessante. Ma cosa accade alla recitazione per contrasti nel periodo successivo, e cioè dal Seicento al Settecento? La scarsità di riferimenti iconografici ci fa solo ipotizzare che questi due codici opposti coesistano anche successivamente al secolo XVI°; tuttavia si andò affievolendo man mano a causa della progressiva scomparsa del codice energico, da un lato, mentre dall’altro venga assorbito dal singolo attore, divenendo l’eccezione legata al talento soggettivo. Infatti va precisato che il contrasto, o l’opposizione, non si verificava solo nei rapporti fra due o più attori, ma anche all’interno dello stesso attore: si pensi, ancora una volta, al personaggio di Pantalone, vecchio e ridicolo ma dall’aspetto giovanile e dal corpo agile.Ciò che dunque caratterizza la Commedia dell’Arte negli anni tra il XVII e il XVIII secolo non è il gioco dei contrasti integrato in un unico personaggio: questo già c’era. È, invece, la scomparsa del contrasto del contrasto elegante/energico al livello interattorico. E questa dissoluzione del doppio codice recitativo è dovuta alla caduta di una delle sue due componenti: il codice energico. Il codice recitativo degli Innamorati, quindi quello elegante, diviene via via il codice canonico per tutta la compagnia.I riferimenti iconografici più interessanti per il nuovo modo di recitare dei comici dell’arte sono quelli rappresentati dalle illustrazioni contenute nella raccolta di commedie Théatre italienne degli ultimi anni del Seicento, e soprattutto le incisioni, i disegni e i dipinti di Claude Gillot: per esempio, se confrontiamo i disegni di Gillot riguardanti i quattro atteggiamenti di Arlecchino con le posture della stessa maschera nelle stampe del Recueil Fossard, si nota facilmente dalle prime siano oramai scomparsi i principali tratti distintivi della recitazione energica: deformazione extraquotidiana, disequilibrio, amplificazione dello sforzo. Per essere precisi, questi tratti non sono scomparsi del tutto: si sono attenuati, minimizzati, a causa di un comportamento scenico (quello elegante) che si muove in direzione opposta; ed ecco allora la posizione dei piedi simile a quella della danza accademica, l’esibita gestualità delle braccia e delle mani, la divisione verticale del corpo in due parti: una rigida, dura, con la gamba distesa, l’altra morbida, rilasciata, con la gamba piegata.

La svolta del realismo elegante

È difficile scandire esattamente i momenti di questa trasformazione: le risorse iconografiche la fanno risalire alla metà del Seicento; ma è dopo il 1670 che aumentano le attestazioni iconografiche sul nuovo canone recitativo, specie per quanto riguarda Arlecchino, Scaramouche e Mezzettino. E diverse se ne susseguono negli anni tra il 1675 e il 1688: molte di esse rappresentano i due attori più famosi del “théatre italienne”, Mezzettino Costantini ed Arlecchino Gherardi (che furono ritratti da i più noti incisori dell’epoca). Sono queste immagini le testimonianze maggiori dell’affermarsi progressivo della recitazione realistico-elegante a scapito di quella energica: più che in presenza di attori recitanti sembra spesso essere dinanzi a danzatori veri e propri (i piedi non poggiano mai entrambi a terra, anzi spesso sono entrambi sulle punte). Ma va ricordato che non c’è dubbio che l’adozione del solo codice realistico-elegante, da parte di tutti gli attori della compagnia, significhi anche un aspetto non secondario nel progressivo declino della Commedia dell’Arte. Innanzitutto i comici dell’ultima generazione ( da Pier Maria Cecchini e Giovan Battista Andreini, fino a Flaminio Scala) promossero una drastica ristrutturazione della produzione teatrale, con l’obiettivo di realizzare criteri di organizzazione industriale di maggior efficienza; tale ristrutturazione investì anche il momento produttivo, apportando una normalizzazione del repertorio e dell’allestimento. Si iniziò così a verificare una mancanza di talenti attorici e a rimpiangere i vecchi improvvisatori della recitazione energica e contrastata. Ma non va tralasciato un altro motivo fondamentale: l’insieme di trasformazioni che la Commedia dell’Arte subisce una volta impiantatasi definitivamente in Francia (che va sotto il nome di “francesizzazione”). Il Théatre italienne si stabilisce a Parigi nel 1661 e, a partire dal 1670, iniziano le testimonianze iconografiche su una recitazione realistico elegante. Nel momento stesso in cui si stabilizzano a Parigi, le compagnie italiane subiscono un processo di standardizzazione folclorica che congela la loro specialità a non essere specializzati. Ed è con questo processo di folcrorizzazione che avviene l’abbandono del codice energico e l’adozione esclusiva del codice realistico-elegante: ed ecco perché, di conseguenza, non si parla mai di “cambiamento” ma di “svolta” vera e propria. Potremmo dire che, a partire dalla metà del secolo XVII°, l’attore europeo abbandona le tecniche extraquotidiane per una tecnica che la società ha pienamente accettato. Resta forse l’abbandono delle tecniche extraquotidiane, quindi, con conseguente abbandono del codice energico, il fatto più negativo che porterà la Commedia dell’Arte, in quanto teatro essenzialmente dell’attore, alla definitiva scomparsa nel Settecento.

6. L’ATTORE COMICO NEL TEATRO ITALIANO DEL NOVECENTO

Nell’attore del Novecento convergono almeno due tradizioni attoriche diverse: quella dell’attore “borghese”, o “drammatico”, quella iniziata dai cosiddetti Grandi Attori italiani della metà dell’Ottocento (Salvini, Rossi ecc.) e che sfocia nel

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primattore del teatro di regia del secondo dopoguerra; e quella dell’attore “comico”, cioè quella tradizione degli attori di quei generi “popolari” che iniziano a distinguersi dalle categorie delle pratiche spettacolari “basse” a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: ci si riferisce al caffè-concerto, alla rivista, al varietà (e pensiamo ad attori come Scarpetta, Petrolini, Viviani ed altri). Per attore comico non si intende solamente quello “che fa ridere”, ma è un’accezione più ampia per distinguere questa tradizione da quella borghese dominante. Le differenze maggiori fra queste due tradizioni sono quelle relative al tipo di linguaggio verbale utilizzato e dall’estrazione socio-culturale del pubblico e dell’attore: L’attore borghese è, di norma, un attore in lingua, l’attore comico è, di regola ma non solamente, un attore dialettale; il pubblico dell’attore borghese appartiene prevalentemente ad un pubblico di ceto medio, il pubblico dell’attore comico è, specie agli inizi, il proletariato ed il sottoproletariato urbano e contadino. Ma le differenze maggiormente interessanti sono altre: esse riguardano un metodo di lavoro profondamente diverso per quanto riguarda l’elaborazione drammaturgica, le tecniche di recitazione, il rapporto con lo spettatore.

Elementi di un modello

Il modello di attore comico che De Marinis vuole delineare è un modello teorico, i cui tratti distintivi sono:1) solitudine (vocazione solistica): il fatto di essere un solista, per necessità o

vocazione, di dover fare tutto da solo, è la prima differenza tra l’attore comico e quello borghese; ponendosi così agli antipodi del teatro di regia. La solitudine dell’attore comico riguarda tutte le fasi del lavoro teatrale, di cui la più ovvia è la mancanza, in genere, di un testo drammatico cui appoggiarsi preventivamente. Quindi possiamo parlare di Solitudine drammaturgica, ma c’è poi una solitudine scenica: l’attore comico è solo con il suo pubblico. Egli, per piacere, non può – né vuole – ricorrere alla “quarta parete”, in quanto non è in scena per rappresentare ma per rappresentarsi. Inoltre, per convincere il pubblico, l’attore comico dispone di poco tempo: non due o tre ore di commedia, ma pochi minuti di un numero, del primo numero. E poi c’è quella che chiameremmo solitudine culturale: non si tratta solo della vocazione solistica, ma anche della mancanza di quelle coperture culturali in nome dell’Arte e del Bello, di cui invece ha sempre goduto il teatro di prosa;

2) autotradizione : vi è anche una solitudine storica, che è probabilmente la più importante. Quando si parla di solitudine storica dell’attore comico si pensa soprattutto a Petrolini, Totò, Eduardo, e si allude alla mancanza di una tradizione recitativa e teatrale a cui potersi rifare interamente: mancanza, dunque, d’un modello codificato in cui ritagliare la propria personalità; ma questa è una caratteristica fondamentale per l’attore comico che concepisce la recitazione non come esecuzione ma come invenzione sempre diversa di un modello nuovo ed inimitabile;

3) Plurilinguismo: l’attore comico non lavora mai all’interno di una sola forma spettacolare, di un solo canone recitativo, bensì s’impone attraverso la frequentazione di vari linguaggi teatrali ed ogni pratica spettacolare “bassa”, “popolare”; ed è da qui che nasce quell’eclettismo dell’attore comico, che sa recitare, ballare, cantare, fare la farsa e la commedia seria;

4) Intertestualità carnevalesca: la recitazione di alcuni attori comici, come ad esempio Petrolini, non la si può intendere pienamente se non considerandola una metarecitazione, cioè una recitazione sulla recitazione, un teatro sul teatro;

5) Rapporto non garantito con lo spettatore: il teatro comico-attoriale esalta il rapporto relazionale del fatto teatrale: l’attore comico lavora soprattutto su questo rapporto con il pubblico, mentre l’attore borghese se ne dimentica, nascondendosi dietro la “quarta parete”. L’attore comico, invece, rende lo spettatore soggetto e oggetto dello spettacolo; la relazioni che si instaura è dominata da due caratteristiche opposte ma necessarie in eguale misura: l’aggressività, la durezza, la decisione da un lato, e la sorpresa, la fascinazione dall’altro lato. Il successo dell’attore comico sta nel sapiente dosaggio delle due componenti; caratteristica fondamentale per l’attore comico è un corpo dotato di tecniche extraquotidiane che completino le doti della voce nella preparazione e nell’esecuzione delle gags.

La contaminazione comico-borghese: un attore antifunzionale?

Alle origini di quella che poi sarà l’avanguardia italiana dei vari Bene, Quartucci, Ronconi ecc., vi sono una serie d’iniziative di giovani comici intellettuali, che si muovevano tra il cabaret e rivista “da camera” o “di cervello”: quindi ci si riferisce al Teatro dei Gobbi e al trio Parenti-Fo-Durano; oppure a Dario Fo con il suo passaggio all’avanspettacolo. Dopo il ’68, la volontà di confrontarsi con il teatro dialettale e con i generi “bassi” diviene una scelta radicale: rivela la volontà di ricominciare tutto daccapo. Ciò che risultava importante per questi artisti era mettere in luce la differenza nei modi di produzione comico-attoriale, la sua natura di opposizione culturale e creativa. Nasce così il ruolo dell’attore solista polimorfo, che per De Marinis è un nuovo tipo di attore tout court, ed i nomi che si potrebbero fare sono noti e conosciuti (si pensi a Benigni, Jannacci, Moretti), che appartengono non solo al teatro propriamente detto, ma anche ad altri settori dello spettacolo: danza, mimo, circo, cabaret, cinema e televisione. Ciò che accomuna personalità tanto diverse è la presenza di una serie di tratti comuni, e cioè i segni distintivi del modo di produzione comico-attoriale: scelta solista, autotradizione, plurilinguismo, intertestualità carnevalesca, rapporto non garantito con lo spettatore.

7. ATTRAVERSO LO SPECCHIO: IL TEATRO E IL QUOTIDIANO

Dal “theatrum mundi” alla “società dello spettacolo”

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La metafora del “mondo come palcoscenico” viene riproposta, nel Novecento, come un modello, un mezzo per mettere a fuoco alcuni fenomeni della società del nostro tempo. Si può dire che ciò che avviene è il passaggio dall’immagine del theatrum mundi a quella della società dello spettacolo. Quest’idea di studiare la società in termini di spettacolo ha dato vita, secondo Claudio Vicentini, a tre diverse tendenze:A) la prima è emersa in campo filosofico, per arrivare a descrivere i modi propri

della condizione umana in una società dominata dallo sviluppo tecnologico della civiltà industriale, e oggi post-industriale;

B) la seconda tendenza a proporre la nozione di società dello spettacolo si è sviluppata nel campo degli studi sulle comunicazioni di massa, per vedere come questi ultimi abbiano modificato i caratteri della comunicazione sociale;

C) la terza tendenza è diversa dalle altre due: si è affermata nel secondo dopoguerra con l’antropologia sociale, con la proposta d’un teatro come modello per lo studio del comportamento umano e del comportamento in pubblico.

Interessante è, per il nostro studio, la terza tendenza.

Il teatro come modello della società (vita = teatro)

All’interno degli studi socio-antropologici ci sono due posizioni diverse sia nel metodo che nello stesso oggetto d’indagine: nel primo caso il teatro è concepito come una dimensione particolare che si attiva nei momenti chiave della vita sociale piuttosto che, come diceva Goffman, nelle routine quotidiane; per la seconda posizione, invece, il teatro è presente in tutta la vita sociale, anche e soprattutto nei rituali di ordine quotidiano.In ogni caso, risulta evidente che il teatro ha fornito alla sociologia e all’antropologia utili strumenti d’analisi, spesso vere e proprie chiavi interpretative per lo studio dei fenomeni sociali. Ed è per questo che si può affermare che il teatro è servito alla sociologia; ma la sociologia è servita al teatro? Sembrerebbe di no visto che il lavoro degli studiosi non ci aiuta a capire meglio il teatro, la sua identità e la sua natura (specie in relazione agli altri fenomeni). Il motivo dovrebbe essere che le analisi proposte da questi studiosi rivelano quasi sempre una nozione di teatro generica e approssimativa, non attendibile nemmeno storicamente, che spesso fa pensare soltanto ad un’immagine mentale dello studioso.Ma se le cose stessero soltanto così, non si capirebbe come mai la sociologia e l’antropologia abbiano potuto rivelarsi fonti inesauribili per il teatro contemporaneo (si pensi ad Eugenio Barba e l’Odin Teatret). Le ragioni sono le seguenti:A) i contributi maggiori vanno individuati non tanto dove queste discipline si

occupano esplicitamente del teatro, ma dove esse analizzano fatti e fenomeni sociali di grande stimolo per gli uomini del teatro;

B) il flusso di conoscenze della socio-antropologia verso il teatro è stato possibile grazie all’interesse massiccio per le scienze umane e sociali

mostrato dagli uomini del teatro, nel tentativo di avvicinare il più possibile il fatto teatrale alla realtà; volendo utopicamente identificare il teatro con la vita. Mentre i sociologi e gli antropologi lavorano alla metafora teatrale (vita = teatro), gli uomini del teatro lavorano ad una specie di metafora sociologica (teatro = vita).

Teatro come vita

Il tentativo di avvicinare l’arte alla vita inizia con l’avvento della regia: attraversa tutte le avanguardie storiche e sfocia nelle sperimentazioni del secondo dopoguerra (la drammaturgia dell’assurdo di Beckett, Ionesco e compagni, il Living Theater ecc.). Ma identificare il teatro con la vita è una domanda che ci si pone in uno studio come il nostro, senza però chiedersi: quale vita? Per gli uomini di teatro del Novecento la realtà sociale e la vita quotidiana sono sempre di più il luogo dell’inautentico, della falsità, dell’inganno; ad esse viene contrapposto il teatro, progettato come spazio-tempo della verità e della sincerità. Se la vita quotidiana è teatro ingannevole, allora il teatro opportunamente usato può servire, paradossalmente ma non troppo, a riportare alla luce la verità nascosta dietro le falsità di ogni giorno. I nomi che si possono fare sono quelli di personalità celebri, come Grotovski, Brook, Barba, e – prima di loro – Appia, Craig, Fuchs, Artaud ed altri. Ma in che modo il teatro può mettere in luce questa realtà? A questo proposito si rivelano due atteggiamenti opposti:1) emerge, da un lato, la concezione dell’arte e del teatro come uno spazio

addirittura immerso nella vita quotidiana: il lavoro dell’artista consiste nel lavorare sulla percezione dello spettatore, per disalienarla, per privarla del pregiudizio di fondo, per aprirgli gli occhi;

2) dall’altro lato c’è un’area di ricerca che, invece, si richiama ad una concezione del teatro e dell’arte come spazio-tempo sacro, separato dal quotidiano, in antitesi rispetto ad esso: i riferimenti d’obbligo sono appunto Grotovski, Brook, Barba e, prima di loro, Appia, Fuchs, Artaud.

Dallo spettacolo come riproduzione al teatro come produzione

Questa nuova idea di teatro costituisce una buona base di partenza per reimpostare la questione dei rapporti fra il teatrale e il quotidiano. Il teatro, a differenza dell’idea in voga nell’Ottocento, non è più solamente riproduzione o riflesso della realtà, della vita, del sociale; è soprattutto produzione di reale, di vita e di sociale. Ma sia chiaro che vedere il teatro come produzione e non come riproduzione, significa insistere su una realtà specifica dello spettacolo teatrale, il quale è sempre composto anche di azioni, comportamenti ed effetti reali, al di sopra o al di sotto di quelli fittizi o simulati; e che è sempre messa in opera di tecniche materiali reali e di veri oggetti. Sta proprio qui il maggior contributo delle neoavanguardie: aver messo inequivocabilmente in luce la bidimensionalità del teatro che è sempre al contempo evento reale ed evento fittizio. Ciò ha permesso

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allo storico del teatro di integrare nei suoi studi anche ciò che non sembra pertinente al fatto teatrale, come le Feste, i tornei, i carnevali ecc.

8. NOTE SULLA DOCUMENTAZIONE AUDIOVISIVA DELLO SPETTACOLO

Non esiste un documento oggettivo, innocuo, primario: il documento è, innanzitutto, il risultato di un montaggio – conscio o inconscio – della storia, dell’epoca, delle società che lo hanno prodotto, ma anche di quelle successive che lo hanno tramandato.

Cosa registrare?

Dal punto di vista della realizzazione, il problema della ripresa audiovisiva del fatto teatrale si divide in due questioni: che cosa registrare e come registrare. Per quanto riguarda il “Cosa” è possibile riassumere tutto in tre punti:1) il processo e non solo il risultato: il problema della maggior parte delle

registrazioni teatrali è che esse registrano soltanto lo spettacolo, il prodotto finito, senza farci sapere nulla del prima e del dopo spettacolo; De Marinis non si riferisce solo al lavoro preparatorio dello spettacolo, alle prove, all’organizzazione: egli si riferisce in modo particolare al training, all’allenamento dell’attore. Ciò che si fa, in generale, non è documentare il teatro ma lo spettacolo.

2) Il contesto oltre che il testo: conoscere il teatro vuol dire, innanzitutto, conoscere la sua cultura (in senso antropologico), che lo fonda: per capire lo spettacolo teatrale occorre studiare anche il suo contesto socioculturale, la realtà extrateatrale che sta intorno e alla base della rappresentazione teatrale. La registrazione teatrale deve abbandonare il concetto di film teatrale a favore del film etnografico, mettendo a frutto le indicazioni delle scienze antropologiche sul mezzo cinematografico.

3) L’evento teatrale e non solo lo spettacolo: se la registrazione di uno spettacolo teatrale si fissa unicamente sullo spettacolo, la registrazione stessa rischia di conservare qualcosa che non esiste, anzi che non è mai esistito: non ci dicono nulla di come lo spettacolo teatrale sia stato fruito e percepito dal pubblico in sala, sugli effetti emotivi ed intellettuali che esso provocò in quella circostanza. E ciò è indispensabile se la registrazione vuole essere un documento: lo spettacolo teatrale è, innanzitutto, uno spazio di relazione.

In conclusione, ciò che bisogna evitare è di utilizzare la videoregistrazione di uno spettacolo come “surrogato” dello spettacolo stesso; ma allora, in definitiva, “come bisogna registrare?”: bisogna innanzitutto trasformare quella che sembra una debolezza in un vantaggio, utilizzando l’unica possibilità esistente: una lettura deliberatamente parziale e orientata del fatto teatrale, quindi una lettura che si avvalga anche di elementi linguistici propri del mezzo audiovisivo (inquadrature, montaggio, ricostruzione in studio).

9. INTERPRETAZIONE ED EMOZIONE NELL’ESPERIENZA DELLO SPETTATORE

Oggi si dispone, dice De Marinis, di un certo numero di riscontri pratici che ci permettono di respingere la concezione intuizionalistica ed emozionalistica dello spettatore e di proporre al suo posto una concezione diversa per quanto riguarda la natura dei processi emotivi a teatro e i loro rapporti con quelli cognitivi. De Marinis chiama questa diversa concezione teoria semiotico-cognitiva dell’esperienza teatrale, che può essere fondata su tre assunzioni preliminari: A) È impossibile separare gli aspetti emotivi da quelli cognitivi, o contrapporre

l’uno all’altro. L’esperienza teatrale va concepita come un insieme complesso di processi percettivi, interpretativi, emotivi che interagiscono fra loro;

B) Nell’esperienza teatrale le emozioni funzionano cognitivamente ed in duplice senso: da una parte fanno della ricezione dello spettacolo un’esperienza di conoscenza concettuale; dall’altra parte esse hanno, almeno in parte, origine dai processi cognitivi;

C) Una semiotica cognitiva della ricezione lascia ampio posto all’importanza che i fattori emotivi hanno nel processo ricettivo, a cominciare dall’”interesse” che, a sua volta, genera l’attenzione senza la quale, lo spettacolo, rischia di fallire.

Va detto, quindi, che le emozioni sono in gran parte determinate cognitivamente, e l’approccio cognitivo all’emozione si realizza in tre aspetti: attivazione, interpretazione cognitiva, consapevolezza.Il modello di ricezione proposto prevede un certo numero di subprocessi ricettivi che s’intrecciano tra loro interagiendo. Sono sostanzialmente tre: interpretazione, valutazione, emozione; a cui si aggiungono i subprocessi della percezione e della memorizzazione.Una distinzione fondamentale, tuttavia, è quella fra:1) emozioni basiche: (o semplici) interesse, sorpresa, attenzione;2) emozioni complesse: positive o negative, sono la gioia, il divertimento, la

paura, la pietà, l’irritazione, la collera ecc.;Ne deriva che, a teatro, si avrebbero in primo luogo le emozioni basiche, da cui poi deriverebbero quelle complesse tramite una mediazione interpretativa, e tali emozioni complesse possono essere positive (gioia, allegria, pietà ecc.) o negative (paura, collera, irritazione ecc.); lo schema è:emozioni basiche neutre – [Mediazione interpretativa] – emozioni complesse a. positive b.negative È sufficiente, per comprendere, immaginare la mediazione interpretativa dello spettatore come un insieme di operazioni cognitive (sovente inconsce); in sostanza siamo dinanzi a quel processo mediante il quale lo spettatore cerca di strutturare in modo coerente la propria esperienza teatrale.Volendo concludere potremmo dire che le emozioni, a teatro, derivano dall’interpre-tazione di altre emozioni; ed attraverso una meta-interpretazione un’emozione complessa può

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evocarne un’altra ( la collera, ad esempio. Può essere successiva alla vergogna e non solo alternativa. Il nuovo schema sarà:emozione basica – [Mediazione interpretativa] – emozione complessa I (posi. o nega.) | [Meta-interpretazione] emozione complessa II (positiva o negativa)

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