Canto degli Armonici - Tertium Auris – vocal analysis ... · Tesi di laurea in Antropologia dello...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA DAMS Canto degli Armonici Parallelismi e Contaminazioni tra Oriente e Occidente Tesi di laurea in Antropologia dello Spettacolo Relatore Prof. Giovanni Azzaroni Correlatore Prof.ssa Eugenia Casini Ropa Presentata da Massimiliano Buldrini Sessione: II Anno Accademico 2008/2009

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA DAMS

Canto degli Armonici

Parallelismi e Contaminazioni tra Oriente e Occidente

Tesi di laurea in Antropologia dello Spettacolo

Relatore Prof. Giovanni Azzaroni Correlatore Prof.ssa Eugenia Casini Ropa

Presentata da Massimiliano Buldrini

Sessione: II Anno Accademico 2008/2009

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INDICE

Canto degli Armonici Parallelismi e Contaminazioni tra Oriente e Occidente

Introduzione

Genesi di una tesi…………………………………...…….….................

p. 3

Capitolo I

Che cos’è la voce......................................................................................

Che cos’è l’ascolto...................................................................................

Che cos’è il Canto Armonico…….………………….….......…...........

Storia del Canto Armonico.......................................................................

p. 8

p. 10

p. 14

p. 17

Capitolo II

Il Canto Armonico in Oriente………………………….……..................

Mongolia.....................................................................………………......

Tibet.......................................................................……….......................

Tuva............................................................................…………………..

p. 19

p. 22

p. 32

p. 36

Capitolo III

Il Canto Armonico in Occidente...............................................................

America.............……………….………………………….………..........

Africa…....................................................................................................

Sardegna…………………………………………………………...........

p. 43

p. 45

p. 48

p. 51

Capitolo IV

Interviste ai maestri..................................................................................

Note biografiche.......................................................................................

p. 70

p. 86

Conclusioni…………………………………………………………........……..

p. 95

Bibliografia……………………………………………………………..............

Discografia..........................................................................................................

p. 98

p. 100

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Introduzione Genesi di una tesi

Nel 2004, con l’associazione di cui sono fondatore, il T.I.L.T. (Trasgressivo Imola Laboratorio Teatro1), abbiamo intrapreso un percorso di ricerca su Le Città Invisibili di Italo Calvino.

Dal momento che uno dei protagonisti è Kublai Khan, condottiero mongolo e imperatore cinese, mi sono messo alla ricerca di materiale sonoro legato alla Mongolia.

Nel frattempo stavo seguendo un percorso di ricerca vocale con Germana Giannini2, che mi ha fatto scoprire il lavoro di Demetrio Stratos3, che già conoscevo come musicista degli Area4.

È come se prima di allora la mia conoscenza vocale fosse stata solo bi-dimensionale, mentre dopo la scoperta e lo studio della ricerca di Demetrio Stratos, e l’ascolto di tracce audio provenienti da Mongolia, Tibet e Tuva, mi si aprisse un mondo fino ad allora sconosciuto.

Lo strumento voce si è trasformato quindi in uno strumento tri-dimensionale, dove alle conoscenze legate agli studi legati alla concezione occidentale di vocalità, si è aggiunta una componente del tutto nuova: l’uso degli armonici.

Questi armonici erano già presenti anche prima della loro scoperta, solo che non li sapevo ascoltare. L’ascolto: questo è un altro elemento molto importante per chi lavora con la voce, e che il canto armonico riesce a sviluppare, o quantomeno a spingere al di là dei confini che l’Occidente di solito non oltrepassa.

E qui tornano Le Città Invisibili, e il protagonista di questo libro: Marco Polo, che si spinge verso i confini del mondo per poi tornare a raccontare al suo imperatore le meraviglie che ha incontrato, come spiega il dialogo seguente:

Kublai domanda a Marco:- Quando ritornerai al Ponente, ripeterai

alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? - Io parlo parlo, - dice Marco, - ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa

1 Associazione Culturale senza scopo di lucro fondata nel 1996 insieme ad attori de Il Gruppo Libero di Bologna tra i quali Bianca Maria Pirazzoli. 2 Si occupa di ricerche antropologiche sulla pratica del canto di tradizione nelle diverse culture. 3 Cantante, polistrumentista e ricercatore musicale (Alessandria d’Egitto 1945 - New York 1979). 4 Gruppo musicale rock italiano attivo dal 1972.

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mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero dai pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio5. e come dice l’esploratore veneziano “chi comanda al racconto

non è la voce: è l’orecchio”, come nel canto. La mia ricerca vocale è iniziata nel 2003, quando ho conosciuto

Germana Giannini in un seminario organizzato dai Teatri di Vita presso la sala di Via del Pratello a Bologna: grazie a lei ho capito subito che la voce aveva molte più possibilità di quelle che conoscevo grazie al mio percorso di musicista, iniziato anni prima ma sempre all’interno di una concezione di tipo occidentale.

Dopo la scoperta del canto armonico ho cercato dei maestri che mi potessero insegnare un metodo, una via per arrivare a produrre questo tipo di suono: grazie all’aiuto e ai consigli di Germana Giannini ho conosciuto Andrea De Luca, che aveva studiato con uno dei più importanti maestri di canto armonico: Trân Quang Hai6.

Trân Quang Hai, nato nel Vietnam del Sud, ha studiato al Conservatorio di Saigon e quindi in Francia presso il Centre d’Etudes de Musique Orientale di Parigi; dal 1968 fa parte del gruppo di ricerca del CNRS - dipartimento di musicologia presso il Musée de l’Homme di Parigi. Da molti anni si dedica allo studio etnomusicologico e fisiologico del Canto Difonico. Ispiratore per Demetrio Stratos, David Hyke, Roberto Laneri ed altri “grandi” studiosi e performers dell’overtone singing, il vietnamita Trân Quang Hai può essere considerato colui che maggiormente ha contribuito alla divulgazione in occidente della tecnica del Khoomeilakh, tipica del canto degli armonici praticato a Tuva e in Mongolia.

Per una serie di coincidenze, nel 2007 vengo a conoscenza di una manifestazione ad Alberone di Cento in provincia di Ferrara: Rassegna di Musica Diversa “Omaggio a Demetrio Stratos” organizzata da Raffaello Regoli, musicista e allievo di Demetrio, che comprende nel suo interno dei seminari con vari maestri di vocalità: ed è proprio in questa occasione che incontro per la prima volta dal vivo Trân Quang Hai.

Studiare dal vivo l’emissione degli armonici, vedere in prima persona un maestro di quella portata, mi ha fatto crescere molto di più di quanto non fossi riuscito a fare durante i precedenti anni di studio attraverso cd musicali e libri sul canto armonico. 5 I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996, p. 143. 6 Tran Quang Hai è considerato il più importante esperto di canto armonico in Occidente, proviene da una famiglia di cinque generazioni di musicisti.

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Ho trovato in Trân Quang Hai una persona molto disponibile, ed ogni volta che comunico con lui via internet mi risponde con piacere, e tutto il materiale raccolto nel suo sito7, è un preziosissimo strumento per chi vuole apprendere questa tecnica che proprio lui ha reso più accessibile.

Nel 2009 ho avuto la possibilità di incontrarlo nuovamente, insieme ad altri maestri molto importanti: Marco Tonini e Albert Hera. Il seminario era sempre all’interno della Rassegna di Musica Diversa “Omaggio a Demetrio Stratos” ad Alberone di Cento (FE), organizzata da Raffaello Regoli, in collaborazione con Daniela Ronconi Demetriou (moglie di Stratos) e Loris Furlan (giornalista e discografico).

Marco Tonini è studioso e ricercatore sulle tecniche vocali, sia tradizionali che sperimentali, e durante il seminario ha tenuto una lezione più tecnica, legata all’acustica musicale e analizzando la voce con software elettronici, utilissimi per lo studio di questa tecnica: anche sul suo sito8 si possono trovare strumenti preziosi.

Albert Hera propone invece una visione del canto come emissione libera, alla base della quale risulta fondamentale la ricerca scrupolosa di una coordinazione e sintonizzazione acustica del suono puro, al fine di generare una globale armonia tra corpo e mente; nel 2002 sente la necessità di far conoscere pubblicamente il proprio pensiero attraverso la creazione del primo portale sulla voce9.

Un altro aiuto importante mi è stato dato dal libro di Roberto Laneri intitolato La voce dell’arcobaleno, che inizia con un racconto molto emblematico che spiega in qualche modo la filosofia del canto armonico:

C’era una volta un uomo che viveva in un piccolo villaggio

dell’Armenia, commerciava in tappeti come tutti gli altri abitanti del villaggio, ed aveva una reputazione locale di saggezza. Conduceva vita molto ritirata e viveva solo, finché a un certo punto non decise di prendere moglie e sposò una ragazza di un villaggio vicino, di parecchi anni più giovane. La loro vita scorreva tranquilla: ogni sera l’uomo tornava dalla sua bottega, e mentre la moglie preparava la cena faceva un po’ di musica. Suonava uno strumento ad arco armeno, simile alla nostra viola, e mai per più di una mezz’ora. La moglie ascoltava in silenzio, sorvegliando la zuppo o l’arrosto. A dire il vero le sembrò presto che in quella musica ci fosse qualcosa di strano, e voleva chiedere che cosa fosse, ma a quel tempo le donne non facevano domande indiscrete ai loro mariti. Una sera capì improvvisamente cosa

7 http://www.tranquanghai.com/ 8 http://marcotonini.wordpress.com/ 9 http://www.voiceart.net/

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stava succedendo: suo marito suonava una nota sola, sempre la stessa! La cosa sembrò strana, ed avrebbe voluto chiedergli qualche spiegazione, ma era timida e rispettosa, e aveva paura di fare domande sciocche. Così passavano gli anni, finché, dopo diciannove anni di matrimonio, non poté più trattenersi e parlò così: - Perdona la mia impertinenza, caro marito, ma è da tempo che vorrei rivolgerti una domanda. Ho sentito altre persone suonare il tuo strumento, ed anche altri strumenti. È vero che a volte si suonano note molto lunghe, ma non ho mai sentito nessuno suonare sempre la stessa nota, per tutti questi anni, senza cambiare mai. Che modo di suonare è dunque questo? - L’uomo la guardò a lungo, quasi incredulo, poi sospirando e scuotendo la testa rispose: - O donna, lunga di capelli e corta di comprendonio, mostro di curiosità e di sfrontatezza, grande in verità è la tua impudenza! Tuttavia sappi che coloro che suonano molte note fanno così perché cercano la loro nota, mentre io la mia l’ho trovata molto tempo fa10. Questa immagine può essere usata anche per capire l’approccio

antropologico da usare per lo studio di queste e di altre manifestazioni culturali di paesi anche molto distanti dal nostro: è necessario

conoscere la storia, l’economia, la politica, la religione, la arti e la

cultura nelle diverse e sfaccettate manifestazioni di un determinato paese prima di affrontare l’oggetto teatro11 o in questo caso l’oggetto vocale. Nel primo capitolo verrà spiegato da dove nasce la voce e cosa

significa Canto Armonico, sia a livello di acustica musicale, che a livello di origini storiche, toccando anche un argomento che meriterebbe solo esso un approfondimento importante: l’ascolto.

Nel secondo capitolo affronteremo il Canto Armonico come

viene visto in Oriente, e in specifico in Mongolia, Tibet e Tuva: tracceremo un profilo storico delle zone in cui si riscontra questo genere di canto cercandone di analizzare a livello antropologico l’origine.

Nel terzo capitolo, vedremo come in Occidente viene usato e

considerato il Canto Armonico, analizzando tre casi distanti ma che sono collegati da un sottile filo rosso: l’America, l’Africa e la Sardegna sempre partendo da uno sguardo sulla storia e le origini di queste zone.

10 R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2002, p. 15. 11 G. Azzaroni, La realtà del mito, a cura di, Clueb, Bologna, 2003, p. 9.

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Nel quarto capitolo, inseriremo interviste con maestri legati alla pratica del canto armonico, e le loro biografie, per dare un riscontro pratico e reale alle analisi dei capitoli precedenti fino ad arrivare alle conclusioni di questo lavoro.

Nella bibliografia indicheremo tutti i testi dai quali abbiamo

attinto informazioni, indicando più riferimenti possibili, anche se in alcuni casi, avendo trovato alcune informazioni da ricerche su internet e da materiali diversi (cd-rom, dispense, appunti, ecc.) raccolti durante gli anni di ricerca sul canto armonico, non ci è possibile inserire le pagine precise dalle quali sono tratti i brani o le citazioni presenti nella tesi.

In un compact disc allegato alla tesi, abbiamo creato una sintesi

di brani legati al canto armonico raccolti nel percorso intrapreso dal 2004.

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Capitolo I Che cos’è la voce La risonanza vocale non è altro che quel processo nel quale la debole vibrazione delle corde vocali viene amplificata e modellata creando un suono. Non sono però i risonatori stessi a produrre questo processo, ma l’aria in essi contenuta: in assenza di aria, infatti, non si produrrebbe alcun suono, o più precisamente, non si otterrebbe lo stesso suono, come ad esempio accade quando siamo sott’acqua. Il tratto vocale è quello spazio che dalla glottide, segmento intermedio della laringe in corrispondenza delle corde vocali, arriva fino alle labbra, ed è qui che si determina il timbro vocale (Fig. 1).

L’onda sonora può sviluppare armoniche alte o basse a seconda della conformazione del tratto vocale al momento della emissione: nelle cavità di risonanza piccola verranno rinforzate le componenti armoniche acute, in quelle grandi verranno rinforzate le componenti armoniche gravi.

Fig. 1 Fig. 2

Le corde vocali sono quattro, due false (superiori) e due vere

(inferiori): sono queste ultime che generano il suono e ci permettono di parlare e di cantare. Esse sono ripiegature della mucosa laringea, spesse e di colore bianco-perla, convergenti tra loro sul davanti, e divergenti dietro formando una apertura triangolare detta glottide dalla

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quale passa l’aria e che serve a dividere l’apparato digerente da quello respiratorio (Fig. 2). Nella normale respirazione le corde mantengono questa distanza per fare passare l’aria, mentre durante la fonazione si avvicinano formando una stretta fessura che, vibrando e per mezzo dell’aria, produce il suono. Una grandissima importanza in questo processo la ricopre anche l’orecchio, e non solo per la sua funzione uditiva, ma anche per quella vestibolare. Il vestibolo, che fa parte dell’orecchio interno, controlla l’equilibrio: è grazie a esso che noi riusciamo ad avere un’immagine del nostro corpo nello spazio. L’altra parte dell’orecchio interno è la coclea: la sua funzione è di analizzare i suoni, indispensabile anche per la comprensione del linguaggio (Fig. 3).

Fig. 3

Il vestibolo e la coclea sono collegati tra loro, formando una stazione di relè tra il sistema nervoso e il cervello per il trattamento delle informazioni sensoriali12.

Nel paragrafo successivo andremo a toccare anche gli studi di Alfred Tomatis13, un otorinolaringoiatra francese che, circa cinquant’anni fa, fece una serie di scoperte sorprendenti per quei tempi sull’ascolto, che lo incoraggiarono a proseguire le sue ricerche e a mettere a punto una tecnica sonica per la rieducazione psicologica.

12 A. Tomatis, L’orecchio e la voce, Baldini&Castoldi, Milano, 2002, pp. 119-130. 13 Alfred Tomatis (Nizza 1920 - Carcassonne 2001) otorinolaringoiatra, dopo il dottorato in Medicina e Chirurgia presso la Scuola di Medicina di Parigi, ha gettato le basi per una nuova scienza chiamata audio-psico-fonologia (APP).

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Inoltre, comparando quasi casualmente le analisi spettrali dell’udito e della voce, scoprì che le frequenze che mancavano all’ascolto erano le stesse che non erano presenti nella voce: costruì quindi una macchina chiamata “orecchio elettronico” in grado di allenare il nostro udito a percepire quelle frequenze mancanti, facendole contemporaneamente apparire nella voce. Che cos’è l’ascolto

Dai suoi studi il professor Tomatis mise a punto un metodo di

educazione all’ascolto ricco di risvolti. La finalità di questo metodo è di rieducare il nostro ascolto migliorando così le capacità d’apprendimento e di comunicazione. Esso agisce sul comportamento, modificandolo gradualmente, quando necessario, favorendo un migliore adattamento alle condizioni sociali

Il metodo Tomatis ha aiutato decine di migliaia di bambini e adulti con problemi di dislessia, apprendimento, attenzione, iperattività, autismo14. Il metodo è stato di grande aiuto anche a persone con problemi d’integrazione sensoriale o con difficoltà psicomotorie. Ha permesso a molti adulti di lottare contro la depressione, di imparare più facilmente una lingua straniera, di comunicare con maggiore facilità, di essere più creativi e di migliorare la loro efficacia nel lavoro. Molti musicisti, cantanti e attori hanno utilizzato il metodo per affinare il loro talento. Infine molti utenti dei centri Tomatis hanno sottolineato il suo impatto psicologico, menzionando un’accresciuta fiducia in se stessi, un migliorato livello d’energia e di motivazione, così come una maggiore chiarezza di pensiero e un migliorato senso di benessere

Nel corso degli anni, il professor Tomatis ha sviluppato una complessa teoria basata sulle diverse funzioni dell’orecchio e le sue relazioni con la voce15. Questa presentazione del metodo Tomatis si limiterà a illustrare le principali idee di Tomatis riguardanti le basi neurofisiologiche dell’ascolto. Tomatis ha scritto numerosi testi che consentono di approfondire il senso della sua ricerca. È inoltre necessario sottolineare il numero crescente di studi scientifici che confermano l’efficacia del metodo Tomatis. Anche i risultati clinici ottenuti dai professionisti che utilizzano il metodo, confermano i suoi effetti terapeutici.

14 A. Tomatis, Educazione e dislessia, Edizioni Omega, Torino, 1977. 15 A. Tomatis, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Como, 2001.

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Tomatis fa notare come le alte frequenze siano stimolanti ed energetiche per il cervello, mentre le basse frequenze lo privano d’energia. Per questo motivo egli chiama le alte frequenze “suoni di ricarica” e le basse frequenze “suoni di scarica”. Una caratteristica di queste ultime è che attivano i canali semicircolari e ci forzano a muoverci. Se il corpo però è sottoposto all’influenza prolungata delle basse frequenze, la persona rischia di arrivare a sentirsi spossata ed esaurita. Questi effetti si possono notare in quelle persone che ascoltano della musica rock o rap per periodi molto lunghi. In compenso le musiche di Mozart o di Bach comportano effetti completamente opposti.

Tomatis afferma che quando il nostro cervello è “carico”, noi riusciamo a concentrarci, memorizzare, imparare, lavorare per molto tempo, quasi senza sforzo. Quando il cervello è ben “carico”, noi non manchiamo d’energia per innovare, immaginare o creare. Un gran numero di bambini e adulti con un buon orecchio musicale hanno questo tipo di energia e raramente fanno l’esperienza di essere stanchi o depressi. D’altra parte, i bambini che soffrono d’iperattività, hanno la tendenza a muoversi costantemente per “ricaricare” il loro cervello con l’energia risultante dalla stimolazione del vestibolo attraverso il movimento. È chiaro che le persone il cui sistema nervoso riceve poca stimolazione, devono far fronte alle situazioni che la vita quotidianamente presenta, con uno sforzo maggiore.

Per Tomatis, la funzione primaria dell’orecchio non è l’udito, ma l’ascolto. E qui Tomatis stabilisce una chiara distinzione tra esse. L’udire è un processo passivo, l’ascolto un processo attivo che risponde ad un desiderio di impegnare l’udito per selezionare i suoni e attribuire loro un valore significativo. La maggior parte dei bambini con problemi scolastici o d’attenzione hanno un buon udito secondo l’audiologia tradizionale, ma non riescono a leggere normalmente o a concentrarsi. Per Tomatis essi soffrono di un problema d’ascolto16.

L’ascolto consiste nella capacità di registrare l’informazione sonora escludendo la parte di segnale non pertinente. Quando le sensazioni sono trattate rapidamente e senza ostacoli, gli stimoli non pertinenti sono soppressi e noi possiamo concentrarci senza sentirci disturbati o bombardati dall’insieme delle informazioni provenienti dall’ambiente circostante o da noi stessi. Noi possiamo selezionare e organizzare le informazioni per ordine gerarchico di importanza senza sentirci sommersi da esse. Al contrario, quando questo processo è disturbato, vuol dire che si sono sviluppati dei problemi d’ascolto che

16 A. Tomatis, L’Orecchio e il Linguaggio, Edizioni Ibis, Pavia, 1995.

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si traducono in difficoltà d’ordine scolastico e di comunicazione, come pure in mancanza di competenza sociale nei rapporti umani.

Educare all’ascolto alla maniera di Tomatis ha lo scopo di restituire all’orecchio la sua capacità di ascoltare in maniera efficace. La finalità è di aumentare l’attitudine del cervello ad imparare piuttosto che insegnare delle tecniche specifiche. Quando la funzione d’ascolto è accresciuta e ristabilita, il cervello è capace di apprendere in maniera più efficace in risposta alle sollecitazioni dell’ambiente.

Per molti è una sorpresa apprendere che noi abbiamo un orecchio dominante. Alcuni di noi sono destri di orecchio e altri mancini. Il vantaggio di avere l’orecchio destro dominante risiede nel fatto che l’orecchio destro tratta le informazioni uditive più rapidamente dell’orecchio sinistro. Di conseguenza chi è destro di orecchio è capace di controllare meglio i diversi parametri che regolano la voce e la parola : l’intensità, la frequenza, il timbro, il ritmo e lo scorrere della frase. Il Metodo Tomatis permette alla persona di imparare a utilizzare l’orecchio destro in maniera più efficace.

Ricercatori che hanno valutato gli effetti del Metodo Tomatis sui balbuzienti (Badenhorst, 1975) confermano che

«i soggetti destri d’orecchio manifestano una capacità superiore a

rispondere spontaneamente e in maniera appropriata a uno stimolo emozionale. Le persone destre d’orecchio sono più estroverse e controllano meglio le loro risposte emozionali; esse sono ugualmente meno soggette all’ansia, alle tensioni, alla frustrazione e all’aggressività. Questi risultati sono in linea con le previsioni fatte da dalla teoria di Tomatis riguardo la lateralità17». È difficile parlare dell’orecchio senza parlare della voce; i due

sono, infatti, legati tra loro in una maniera non sempre chiaramente compresa. Appoggiandosi sui dati sperimentali, Tomatis fece nel 1953 una comunicazione all’Académie Française con la quale enunciò la seguente legge:

«La voce contiene solamente i suoni che l’orecchio può percepire».

In conseguenza di ciò, quando cambia il modo di percepire i suoni, la voce cambia in uguale misura. È facile osservare questo fenomeno nei cantanti con un problema di voce. In molti casi, il problema di voce ha per origine un problema minore d’ascolto: 17 Van Jaarsveld, 1973, 1974, cit. Pieter E. van Jaarsveld and Wynand F. du Plessis, in “S. Afr. Tydskr. Sielk”, 1988, 18 (4).

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l’orecchio, in questo caso non è in grado di verificare la giustezza del suono nel momento che è emesso. Quando il problema d’ascolto è risolto, la voce ritrova molto più facilmente la sua capacità ottimale. Non è quindi sorprendente che molti cantanti celebri, come Maria Callas, ad esempio, abbiano ricorso al metodo Tomatis.

I bambini e ragazzi con una voce sorda e spenta hanno spesso dei problemi di apprendimento e soffrono di una deficienza di ascolto. È per questo motivo che una voce discordante indica una diminuita capacità ad analizzare le alte frequenze, così come un problema di lateralizzazione. Il bambino che possiede questo tipo di voce è di tutta evidenza sinistro d’orecchio. Nel momento che si migliora il suo ascolto e che lo si rende destro di orecchio, la sua voce diventa più ricca di armonici e più precisa, armoniosa e rapida nelle risposte.

Tomatis ha postulato molto presto che il feto poteva udire ed ascoltare la voce di sua madre. Da allora, le ricerche scientifiche hanno valicato questa scoperta al punto di farne un’idea banale. L’orecchio è infatti il primo organo ad essere totalmente funzionale quando il feto ha solamente 4 mesi e mezzo di vita intrauterina.

Henry Truby18 ha scoperto che il feto, dall’età di sei mesi muove il corpo in funzione del ritmo della parola della madre. Dopo aver consultato la maggior parte della letteratura scientifica sull’argomento, Tomatis concluse che la voce materna agisce non solamente come una sorta di sostanza nutritiva emozionale, ma che anche prepara il bambino all’acquisizione del linguaggio dopo la nascita. È come dire che l’ascolto inizia già nell’utero.

È per questa ragione che Tomatis utilizza la voce materna per rimettere in moto il processo di ascolto19. La voce viene filtrata elettronicamente al fine di ricostituire l’ambiente sonoro intrauterino. Le reazioni dei bambini così come quelle degli adulti mostrano che l’uso della voce materna ha un forte effetto terapeutico: i bambini si calmano, come se la voce li tranquillizzasse; diventano più affettuosi, in particolare nei confronti della madre. I bambini adottati sviluppano un legame più forte con la loro madre adottiva. La voce materna fornisce la base solida che permette al processo di ascolto di svilupparsi, processo che segue le diverse fasi dello sviluppo del bambino e che conduce allo sviluppo del linguaggio. La terapia messa a punto da Tomatis non è altro che un tentativo di ri-programmare le diverse fasi dello sviluppo umano attraverso un esperienza sonora simbolica.

L’uso della voce materna, poiché è spesso parte integrante del processo terapeutico ha condotto qualcuno a concludere erroneamente 18 Henry Truby, Pre-speech and Infantile Speech Lexicon, 1971. 19 A. Tomatis, La Notte Uterina, Red Edizioni, Como, 1996.

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che Tomatis rende la madre responsabile delle difficoltà del suo bambino. Questa conclusione non rappresenta certamente il pensiero di Tomatis. La voce materna non è altro che un mezzo terapeutico per creare o ristabilire il legame tra madre e bambino, quando questo legame non si è sviluppato completamente. Centinaia di studi scientifici dimostrano che questo legame è primordiale. Esso fornisce la base sulla quale si costruiscono il senso di sicurezza personale e il desiderio di comunicazione. Utilizzando la voce materna, Tomatis cerca di instillare nel bambino il desiderio di stabilire o ristabilire con le persone a lui vicine un vero rapporto. Questo processo “psicologico” va di pari passo con il miglioramento simultaneo dei sistemi sensoriali. Il metodo Tomatis combina i due aspetti al fine di costruire la fondazione solida che rende possibile uno sviluppo ottimale. Che cos’è il Canto Armonico

Tutti ci esibiamo in canti difonici senza saperlo! Basta aprire la bocca ed emettere un suono di gola. Questo è composto da un suono di base continuo, invariato, tenuto sulla stessa altezza degli altri più acuti (gli armonici). È solo che non li sappiamo ascoltare! Di conseguenza, non sentiamo gli armonici20.

Il canto armonico è quell’insieme di tecniche vocali che

rendono possibile la percezione dei suoni armonici che fanno parte di una nota fondamentale.

Per chiarire questa definizione è necessario specificare che il canto armonico è una di quelle musiche dove l’elemento melodico è praticamente inesistente: esattamente il contrario di quello che accade nella nostra cultura musicale occidentale; l’essenzialità di questo elemento viene bilanciata dalla ricchezza di altre componenti come il timbro, la dinamica, il ritmo e la micro-intonazione.

Gli armonici sono sempre presenti nella emissione vocale, ma questa tecnica permette di andare a evidenziare e dare volume ad alcuni armonici rispetto ad altri: da qui la definizione di Canto Difonico (o bifonico), che di solito viene usata per indicare questa tecnica, visto che all’udito si sentono due suoni diversi: la nota fondamentale e la melodia creata dai rispettivi armonici; in realtà,

20 Trân Quang Hai, 1994, cit. Trân Quang Hai, in “EM: Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia”, LIM, vol. II, 1994, pp. 123-141.

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utilizzando uno spettrogramma21 per analizzare una emissione di questo tipo, si può constatare che sono comunque presenti altri elementi oltre ai due principali che sono la fondamentale e l’armonico evidenziato22.

Ma anche chiamarlo canto armonico potrebbe creare confusione, in quanto non è legato al termine di armonico come lo si incontra in musica, ma come lo definisce la fisica acustica.

Nella fisica acustica, il suono è un fenomeno di carattere ondulatorio che per mezzo di un’onda sonora stimola l’udito. Le unità di misura sono frequenza, intensità e durata e si misurano rispettivamente in Hertz23 (Hz), decibel24 (dB) e secondi (sec.).

Analizzando il suono per mezzo di una sinusoide25, possiamo affermare che l’ampiezza della vibrazione determina l’intensità del suono (volume), mentre l’altezza del suono (nota) è determinata dalla frequenza (Fig. 4).

Fig. 4

21 Uno spettrogramma è la rappresentazione grafica dell’intensità di un suono in funzione del tempo e della frequenza. 22 R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 17-18. 23 Dal nome del fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz che portò importanti contributi alla scienza nel campo dell’elettromagnetismo. 24 Il decibel è l’unità di misura convenzionale con la quale in acustica si indica il livello di un fenomeno acustico, non è una vera e propria unità di misura, ma un modo di esprimere una certa misura: esso è adimensionale. 25 In matematica, per sinusoide si intende una curva che rappresenta il grafico di una funzione seno o, equivalentemente, coseno.

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Ad esempio, un suono della medesima intensità, ma di diversa frequenza, corrisponderà a un suono più acuto maggiore è la sua frequenza, ovvero il numero di oscillazioni (Hz) che produce in un secondo. Un suono che oscilli a 440 Hz, equivale a un La usato per accordare gli strumenti musicali, e visto che le frequenze di due suoni sono tra di loro in rapporto 1:2, avremo un intervallo di un’ottava tra il La centrale (440 Hz) e il La superiore (880 Hz), e nello stesso modo con il La inferiore (220 Hz) (Fig. 5).

Fig. 5 L’orecchio umano riesce a distinguere suoni che variano da una

frequenza di 40 Hz fino ad una frequenza di 40.000 Hz, a seconda dell’individuo e dell’età, per una estensione che copre undici ottave (gli strumenti musicali tradizionali coprono circa sette ottave che vanno da circa 40 fino a 4.000 Hz)26.

Oltre i 4.000 Hz, l’orecchio umano fatica a distinguere la differenza di intonazione di due suoni.

Tornando alla definizione di canto armonico, troviamo vari modi in cui esso viene definito a seconda dei paesi in cui viene studiato: in Francia chant harmonique o chant diphonique, ma maggiore chiarezza traspare dalla definizione anglosassone o tedesca, rispettivamente overtone singing e Oberton singen.

In effetti la preposizione over (ober) ci aiuta a capire meglio cosa accade nel canto armonico: l’ascoltatore riesce a udire una melodia di armonici al di sopra della nota formante.

E qui si richiama la multidimensionalità dello strumento voce: il suono è formato da un insieme di armonici. 26 R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 31-33.

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Storia del Canto Armonico La storia del canto armonico risale alla più lontana antichità: già al tempo dei Greci uno dei metodi di cura principali era l’ascolto del suono dell’acqua, ricco di armonici, che troviamo come elemento di imitazione anche nel canto armonico di Tuva, una delle repubbliche federali della Federazione Russa, in Siberia. Nel VI sec a.C. il filosofo e matematico Pitagora, conosciuto oggi come uno dei padri della geometria, ha messo in chiaro le relazioni tra gli intervalli musicali attraverso uno strumento musicale chiamato monocordo.

Usando il monocordo, Pitagora fu in grado di scoprire che la divisione musicale creata dall’uomo dava origine a determinati rapporti: se, per esempio, una corda viene divisa in 2 parti uguali, la nota che essa produce è di un’ottava più alta della nota prodotta dalla corda intera: le due parti uguali vibrano in un rapporto di 2 a 1 (2:1), e così via man mano che noi la dividiamo in 3 o 4 parti uguali.

Tornando ai rapporti sviluppati dalle corde armoniche, è evidente che la divisione della corda effettuata dall’uomo segue esattamente i rapporti delle serie armoniche.

Nell’esempio musicale degli armonici, la loro creazione è spiegata dai rapporti matematici osservati sulla corda pizzicata: in realtà gli armonici sono una manifestazione di tutte le forme di vibrazione in quanto tutto ciò che vibra genera armonici.

Già dai tempi degli antichi Egizi, come teorizza Roberto Laneri nel suo libro La voce dell’arcobaleno, si possono trovare elementi che ricompaiono in tutte le tecniche esistenti, e in specifico la modulazione degli armonici attraverso la posizione delle labbra, come accadeva appunto nel canto sillabato.

E anche la tradizione gnostica, continua Laneri, con la tavola gnostica di Mileto, ci comunica le formule vocaliche caratteristiche dei pianeti allora conosciuti: anche qui, intonando lentamente e in successione le vocali presenti in una sola emissione su una stessa nota, emergono gli armonici.

Nel Medio Evo si può incontrare nella preghiera cristiana all’interno delle abbazie cistercensi, dove la parola si trasforma in canto monotòno che tende al canto armonico, fino ad arrivare alla fine del XII secolo al cantus firmus gregoriano, che viene dilatato nel tempo trasformando il testo in suoni vocalici che durano trenta o quaranta secondi.

Ma poi gli armonici in Europa si allontanano sempre di più da un discorso spirituale, ed è la musica folklorica che diventa

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depositaria della memoria armonica: Sardegna, Sicilia, Balcani e Paesi Baschi.

Come abbiamo visto, quindi, la tecnica del canto armonico non è presente solo in Asia (Mongolia, Tuva e Tibet), ma anche in India (Rajasthan) e in Africa (nella tribù degli Xhosas in Sud Africa), oltre a essere presente, anche se in forma un po’ differente, in Europa.

La storia documentata di questo fenomeno, è però storia recente, che risale agli inizi degli anni ‘30, ed è solo negli anni ‘70 che nasce effettivamente il canto armonico, non solo come oggetto di studio a livello antropologico e culturale, ma anche come tecnica da utilizzare da parte di musicisti, e quindi non solo a livello teorico ma anche a livello pratico.

Inoltre il canto armonico viene recuperato anche in ambito spirituale, in collegamento con lo Yoga, la meditazione e l’espansione dell’ascolto e della coscienza in generale27.

Questo fenomeno è probabilmente dovuto anche alla corrente presente dalla fine degli anni ‘60, che insoddisfatta del materialismo occidentale, è andata a ricercare elementi dalle tradizioni orientali, come è accaduto anche nella storia del teatro occidentale di quegli anni, sempre più in contatto con concetti ed esperienze maturate in Oriente: da Eugenio Barba a Grotowski, passando per il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, fino ad arrivare ai giorni nostri a maestri come Leo de Berardinis, scomparso nel 2008.

27 R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 18-25.

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Capitolo II Il Canto Armonico in Oriente

Come abbiamo già anticipato precedentemente, il canto armonico in Oriente è praticato principalmente in Asia.

Per cercare di studiare questo fenomeno con un approccio di tipo antropologico, bisogna tenere conto che esso è un momento del processo di sviluppo della cultura e della società del Paese. È necessario conoscere la storia, la politica, la religione, le arti e la cultura presente sul territorio, altrimenti si rischierebbe di dare risalto alla parte performativa del canto armonico senza tenere presente da dove viene.

Questo approccio, chiamato antropologia teatrale, è stato teorizzato da Eugenio Barba, il quale sostiene che “alcuni principi della pre-espressività sono più comuni e universali di quanto non si possa a prima vista immaginare”28.

Inoltre in Oriente, in misura maggiore che in Occidente, le arti sono ancora molto legate alla vita quotidiana e alla società.

Se andiamo ad analizzare il teatro asiatico, vedremo che il passaggio delle tradizioni e delle arti è affidato ai maestri che tramandano il loro sapere, di generazione in generazione, direttamente ai loro allievi.

Il passaggio del sapere teatrale va infatti ricercato nella trasmissione orale, anche quando esistono dei testi scritti, in quanto ogni singolo maestro, nel passare i suoi segreti all’allievo, metterà sempre il suo sguardo e la sua soggettività.

Il percorso di apprendimento varia rispetto alle arti, da pochi mesi a molti anni: nel caso del teatro la formazione non finisce mai, e dura tutta la vita, per raggiungere i più alti livelli raggiunti dai maestri.

L’insegnamento viene visto come un dono, e rende inevitabilmente debitore verso il maestro chi lo riceve: “il guru è una sorta di padre spirituale che conferisce la diksa, l’iniziazione, cioè l’insegnamento, al suo discepolo: nell’India antica al discepolo era fatto divieto di sposare la figlia del suo guru perché era considerata l’equivalente di una sorella. La trasmissione del sapere crea una catena che non si spezza negli anni, ma al contrario è continuamente rinforzata dall’allievo che, anche se è diventato un valente attore o un 28 E. Barba - N. Savarese, L’arte segreta dell’attore - Un dizionario di antropologia teatrale, Ubulibri, Milano, 2005, p. 174.

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religioso o un artista, non dimentica mai il debito che lo lega all’antico maestro”29.

L’unico modo per sdebitarsi da parte dell’allievo è quello di apprendere al meglio l’arte tramandata dal maestro, e tramandarla a sua volta ad altri discepoli: questo permette di far vivere in eterno sia l’arte, sia il maestro che l’ha insegnata.

Questo è quindi l’approccio antropologico che si cerca di seguire: apprendere più possibile e senza barriere e pregiudizi tutto quello che ci arriva da paesi anche lontani dal nostro, ma che possono insegnarci cose straordinarie.

Purtroppo non sarà possibile fare questo in questa tesi, perché non vi è stata la possibilità di visitare direttamente i paesi di cui parleremo, e quindi tutto quello che andremo ad analizzare, è il frutto di studi fatti su libri di persone che hanno analizzato sul campo questi fenomeni artistici, e in pochi ma preziosi casi, di incontri con maestri ed esperti avvenuti nel corso degli anni.

Per quanto riguarda il Canto Armonico, come già accennato, l’incontro più importante è stato quello con Trân Quang Hai, il maggiore studioso e il più grande specialista in questa pratica vocale, che ha portato in tutto il mondo partecipando come solista a festival internazionali e concerti in oltre cinquanta paesi.

Relativamente agli stili, i principali sono quelli che incontriamo in Asia centrale, in Mongolia e nella repubblica di Tuva.

La tradizione più nota è quella di Tuva, una piccola repubblica appartenente alla Federazione Russa. Tale tradizione di canto risale molto indietro nel tempo. Secondo leggende locali i tuvani cominciarono a cantare utilizzando la tecnica Khomei per stabilire un contatto con le entità spirituali che pervadono tutte le cose e ad acquisire la loro forza attraverso l’imitazione dei suoni naturali. Di fatto nelle credenze tuvane il suono è la via preferenziale che gli spiriti della natura hanno per rivelarsi e comunicare con gli altri esseri viventi. Le tecniche di canto difonico sviluppate nella regione di Tuva sono riconducibili a cinque:

1. Kargyraa: fondamentali molto basse da 55 a 65 Hz 2. Khomei: (in tuvano: gola, faringe) usato per indicare il

canto difonico in generale, è considerato lo stile più antico da molti cantanti Tuvani

3. Borbannadyr: (dal verbo borbanna: rotolare sopra) simile al Kargyraa con fondamentali più acute (registro baritonale) e con risonanza più nasale

29 G. Azzaroni, Le realtà del mito, a cura di, cit., p. 12.

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4. Ezengileer: caratterizzato da passaggi ritmici veloci tra gli armonici, considerato alquanto difficile e quindi raro

5. Sygyt: la fondamentale e le armoniche basse sono molto deboli, per cui si avverte prevalentemente un simil-fischio: comincia senza armonici evidenti, che verranno amplificati in seguito.

Anche in Mongolia questo tipo di canto è legato alla religione e

alle cerimonie sciamaniche; qui vi sono vari stili che prendono il nome dalla zona di maggior risonanza:

1. Kevliin: maggiore risonanza nel ventre 2. Tseedznii: maggiore risonanza nel petto 3. Bagalzuuryn: maggiore risonanza nella gola 4. Xamryn: maggiore risonanza nasale 5. Xarkiraa: tipo di canto simile al Kargyraa tuvano 6. Isgerex: tipo di canto flautato, usato più raramente.

In Tibet i monaci Gyuto hanno una tradizione di canto

armonico, che ha una connotazione religiosa e mistica: esso è legato alla concezione religiosa di una realtà vibratoria dell’universo intero. In genere i loro canti utilizzano un registro molto basso, simile allo stile tuvano Kargyraa. Ogni monastero ha il suo armonico di riferimento, e per loro rappresenta l’incontro del terreno col divino attraverso un appoggio della vibrazione sul bacino per quel che riguarda le frequenze basse, legato all’armonico che invece viene ricercato nelle frequenze alte. Un aspetto interessante è che questa tecnica di canto non può essere insegnata, ma si apprende per una sorta di “trasmissione”: “si racconta che una notte del 1433 il lama tibetano Je Tzong Sherab Senge sentì in sogno questo suono sorprendente e il mattino successivo lo ritrovò nella sua voce”30.

In Chakasija vengono praticati tre stili di canto (Kargirar, Kuveder o Kilenge e Sigirtip), che sono equivalenti agli stili tuvani Kargyraa, Ezengileer e Sygyt.

Analogamente alla Chakasija, in Altaj si possono riscontrare gli stessi stili, che qui assumono i nomi di Karkira, Kiomioi e Sibiski.

Anche nella repubblica della Bashgiria, di lingua turca, esiste una tradizione di canto armonico (detto Uzlau, simile allo stile tuvano Ezengileer) nell’accompagnamento di poemi epici.

In Uzbekistan, Kazakhistan e Karakalpakstan esistono forme di poesia orale che sfruttano le difonie. 30 C. Salvesen, Il settimo tibetano. Come educate la propria voce e usarla con successo, Edizioni Mediterranee, Roma, 2006, p. 32.

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Mongolia

La Mongolia (mongolo: Монгол Улс) è uno stato dell’Asia, confinante a nord con la Russia e a sud con la Cina.

Le prime tracce di presenza degli Unni sul territorio mongolo risalgono al 1200 a.C.: sotto la guida di Attila, che nel 445 ha unificato le popolazioni della steppa divenendo così il re degli Unni, conquistano le terre occidentali fino all’Europa.

Dopo la morte di Attila, si sfalda il regno degli Unni, e nel 745 gli Uiguri scacciano i Turchi dalla Mongolia: poi, dal 960, si succedono le dinastie cinesi dei Song, dei Xia e infine dei Jin.

Nel 1162 nasce Temujin e, di fatto, nasce la Mongolia: il giovane condottiero riuscirà in pochi anni a trasformare tribù litigiose e sparpagliate nella steppa nell’impero più esteso della storia, e nel 1206 viene incoronato imperatore degli oceani, Gengis Khan.

Le terre cinesi, russe e bulgare vengono conquistate dal condottiero mongolo, fino a Occidente nella città di Samarcanda.

Alla sua morte venne eletto imperatore il suo terzogenito, Ogodei, che fu chiamato Gran Khan: con lui l’impero mongolo si espande ulteriormente fino alla Corea.

Nel 1241 muore anche Ogodei, e lascia il posto a Guyuk che a sua volta viene nominato Gran Khan, ma morirà pochi anni più tardi lasciando il comando alla moglie Oghul, fino a quando nel 1251 non gli succede il primogenito del figlio minore di Gengis Khan, Mongke, sotto il quale i Mongoli invadono la Persia.

Ed è il 1253 l’anno in cui nasce la prima testimonianza scritta dell’impero mongolo, ad opera del francescano Guglielmo da Rubruck31, inviato dal Papa Innocenzo IV a Karakorum per conoscere il Gran Khan: ovviamente la sua conversione al cristianesimo era ormai impossibile, perché lo sviluppo dell’impero mongolo, sia a livello culturale che economico, ha fatto sì che anche la loro religione si evolvesse; i mongoli dell’Asia occidentale e centrale si rivolsero all’Islam e quelli dell’Estremo Oriente al buddismo.

Nel 1264 Kubilai, fratello di Mongke, sposta la capitale dell’impero mongolo a Pechino, circondandosi di ricchezze e palazzi e favorendo anche le arti, le scienze e la filosofia; la cultura nomade dei Mongoli viene gradualmente oscurata da quella sedentaria dei cinesi. Nel 1274 si registra la prima ritirata dei mongoli dovuta a due uragani che li sorpresero durante l’invasione del Giappone: gli sciamani avevano annunciato il fallimento dell’impresa.

31 A. Borst, Forme di vita nel medioevo, Guida Editori, Napoli, 1990, p. 696.

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In quegli anni Kubilai Khan incontrerà Marco Polo, che riferirà del suo viaggio nel libro Il Milione:

Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le

diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v’à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita, acciò che ‘l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna32.

Le vicende di questi due personaggi, ispirarono anche altri scrittori, tra i quali il già citato Italo Calvino con Le città invisibili. Con la morte di Kubilai nel 1294, comincia la decadenza dell’impero mongolo, dovuto prima alle successioni sanguinose che lo indeboliranno, e dopo alla conquista delle varie dinastie cinesi: così nel 1368, nel sud dell’impero mongolo, viene fondata la dinastia Ming. Nel 1418 si ristabilisce la pace tra Mongoli occidentali e orientali e nel 1578 Avtai Khan incontra il capo della scuola tibetana e lo proclama Dalai Lama: i Khan si convertiranno al buddismo. Dopo la morte di Avtai, in Manciuria, Nurhachi si autoproclama Gran Khan dei Manchu: sconfiggeranno l’esercito dei Ming e sottometteranno anche i Mongoli orientali. Solo nel 1906 ci sarà la ribellione della popolazione mongola agli occupanti manchu e il 28 dicembre del 1911 la Mongolia dichiara l’indipendenza sotto la guida del Bogd Khan, ottavo Buddha vivente che instaura la monarchia con un governo di cinque ministri. Nel 1915 è firmato un accordo fra cinesi e russi che stabiliscono i confini mongoli: la Mongolia Interna diventa cinese mentre la Mongolia Esterna può godere di una apparente autonomia, ma con una diretta influenza sia da Mosca che da Pechino.

Ma solo dopo un anno, violente lotte interne cinesi portano a un cambio di potere. Il nuovo governo non riconosce più l’autonomia della Mongolia Esterna e l’autorità del Bogd Khan, e così tornano i cinesi a invadere il Paese.

Nel 1917, durante la rivoluzione bolscevica, delegati del Partito mongolo del Popolo si recano in Russia a chiedere un sostegno ai sovietici, ma la risposta è negativa; il barone austriaco Ungern-Sternberg, un generale antibolscevico, organizza un esercito, scaccia i

32 M. Polo, Il Milione, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, p. 3.

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cinesi e dichiara l’autonomia mongola, millantando una discendenza da Gengis Khan. Verrà poi catturato e giustiziato.

La Cina invade di nuovo nel 1919 la Mongolia, e l’Unione Sovietica non interviene: solo l’anno seguente Lenin accetta di parlare con una delegazione di rivoluzionari mongoli, promettendo un intervento anti-cinese.

E nel 1921 le truppe sovietiche entrano a Urga insieme all’esercito rivoluzionario mongolo, guidato da Sukhbataar, soprannominato “l’eroe rosso” (Ulaan Baatar). È istituito il Governo Popolare della Mongolia che ha a capo, senza però poteri effettivi, il Bogd Khan. È costituito il Partito popolare rivoluzionario mongolo (il PRPM resterà al governo fino ai giorni nostri, salvo una pausa dal 1996 al 2000). Choibalsan, futuro dittatore filostalinista, diventa ministro della guerra. Sukhbaatar muore due anni dopo in circostanze misteriose.

Il 26 novembre del 1924 nasce la Repubblica popolare della Mongolia. Muore il Bogd Khan. Viene convocata la prima seduta del Parlamento (l’Ikh Huraal, letteralmente “grande riunione”). Urga è ribattezzata Ulaanbaatar, in onore di Sukhbaatar. Muore Lenin, la Mongolia si affranca dall’influenza bolscevica, almeno fino alla presa del potere di Stalin. Solo un paio d’anni più tardi i sovietici tolgono il potere alle autorità religiose, e comincia l’era di Stalin e delle purghe sovietiche. Durante il settimo Congresso del Partito rivoluzionario del popolo, i rappresentanti mongoli chiedono una maggiore autonomia da Mosca e una polizia indipendente. La risposta dei delegati del Comintern è un colpo di stato e il ritorno al terrore: sul modello sovietico, i beni delle classi più ricche e dei proprietari terrieri vengono confiscati e ridistribuiti ai pastori. I monasteri vengono spogliati di tutti i tesori che finiscono in Russia.

I Mongoli sono esausti e nel 1932 a migliaia si armano di sassi e bastoni e cercano di opporsi al governo filosovietico, improvvisando tumulti nella capitale e in altri capoluoghi. Una sorta di guerra civile dall’esito prevedibile: incalcolabile il numero degli arresti e delle esecuzioni. Trentamila Mongoli fuggono all’estero. Nel 1937 la situazione precipiterà: Stalin ordina la repressione sistematica su tutto il territorio mongolo: in meno di due anni sono trucidate trentamila persone (circa il 20 per cento della popolazione maschile totale), più della metà sono monaci. L’esercito abbatte seimila edifici culturali e religiosi, 700 monasteri sono rasi al suolo con i carri armati. Libri, sculture, oggetti sacri preziosi, antichi arazzi buddisti sono bruciati a milioni.

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Nel 1939, in pieno conflitto internazionale, il Giappone di Hirohito, alleato di Hitler, sta estendendo il suo impero a tutta l’Asia e minaccia la Mongolia attraverso la Manciuria. L’Unione Sovietica invia le truppe sul confine orientale mongolo. In maggio esplode una guerra spaventosa che durerà cinque mesi e lascerà sul campo 70.000 morti, di cui 237 mongoli. La scongiurata invasione giapponese apre un nuovo scenario di alleanza fra Mongoli e Russi.

Nel 1940, Choibalsan, un monaco mancato protagonista della marcia del 1921 al fianco di Sukhbaatar, che aveva giurato fedeltà assoluta a Stalin, è eletto primo ministro.

L’anno dopo è imposto il nuovo alfabeto cirillico che sostituisce l’antica lingua uigura e successivamente, in piena Seconda Guerra Mondiale, viene fondata la prima università mongola. Dalla Russia arrivano molti docenti a insegnare dottrine sociali ed economiche. Dalla Mongolia 50 mila giovani vengono accolti a studiare presso le università sovietiche. Nelle scuole mongole la lingua russa diventa la principale materia di studio.

Con la fine del conflitto mondiale, nell’ottobre del 1945 la Mongolia indice un referendum per chiedere l’indipendenza del Paese, e a gennaio dell’anno seguente la Cina riconosce l’indipendenza della Mongolia. Il 27 novembre anche la Russia ne accetta ufficialmente l’autonomia. Dopo 40 anni di lotta il popolo mongolo è finalmente libero. La Mongolia chiede l’ingresso nelle Nazioni Unite, che viene respinto per il veto della Cina e dei Paesi occidentali.

Nel 1952 muore Choibalsan. Lo sostituisce al governo Tsedenbal, che continua la gestione filosovietica ma con maggiore morbidezza, fino al 1984. Fondamentale anche la figura della moglie russa Filatova, che sarà stretta collaboratrice del leader sovietico Breznev.

Quando nel 1953 muore Stalin, la popolazione mongola comincia ad avere maggiori speranze: parte la rivoluzione culturale per restituire dignità e identità a un popolo soggiogato per troppi secoli da potenze straniere. Scatta una capillare opera di alfabetizzazione che raggiunge l’intero territorio, anche le zone più remote popolate dai nomadi. Le malattie veneree, che colpivano la maggior parte dei mongoli, sono debellate con una campagna di prevenzione, vaccinazione e terapia farmacologica. Si aprono fabbriche su tutto il territorio, si costruiscono case, si cominciano a lastricare alcune strade di grande collegamento.

Ha inizio anche la campagna di sedentarizzazione delle popolazioni nomadi: l’obiettivo è di fare un censimento complessivo e portare i pastori in fabbrica per aumentare la produttività industriale.

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Nel 1959 il governo decide la collettivizzazione delle terre e degli armenti, sulla base del modello sovietico, ma i nomadi si ribellano e convergono in massa nella capitale, che nel frattempo ha raggiunto i 100.000 abitanti. La protesta porta a una serie di riforme sociali sia in città che nelle campagne.

Nel 1961 la Mongolia entra nell’Onu con il consenso unanime dei Paesi mondiali e l’anno seguente entra nel Comecon, organizzazione economica degli stati comunisti.

Al culmine della guerra fredda con l’Unione Sovietica, nel 1967 la Cina assembra truppe al confine con la Mongolia e minaccia l’invasione. Ottantamila uomini dell’Armata rossa entrano in territorio mongolo con carri armati e artiglieria pesante, scongiurando la minaccia cinese.

Per sostenere l’economia e la società della Mongolia e per garantirsi la sua fedeltà, agli inizi degli anni Settanta l’Unione Sovietica presta al governo di Ulaanbaatar una cifra pari a 5 miliardi di euro di oggi. Viene fondata la città di Erdenet, 250 chilometri a nordest di Ulaanbaatar, per sfruttare le grandi risorse del sottosuolo: la miniera di rame è la più grande dell’Asia e la quarta del mondo. La popolazione di Erdenet passa dai 4.000 abitanti del 1975 ai quasi centomila di oggi.

Nel 1989 il crollo del regime sovietico apre una nuova stagione sociale, con la costituzione di una serie di schieramenti politici che si pongono come alternativa allo storico Partito popolare rivoluzionario (PRPM): nascono il Partito democratico, il Partito socialdemocratico e il Partito per lo sviluppo nazionale. Il 9 marzo, a seguito di una massiccia manifestazione in piazza Sukhbaatar, i quadri del Partito popolare rivoluzionario rassegnano le dimissioni. Il parlamento (Ikh khural) viene aperto a tutte le forze politiche. Duecentomila militari russi di stanza in Mongolia tornano in patria.

Nel 1990 in Mongolia sono di nuovo autorizzate le cerimonie religiose, proibite da sessant’anni. In estate si va alle prime elezioni democratiche. Il primo presidente mongolo è Punsalmaagin Ochirbat, che resterà al potere fino al 1997. A trionfare è il Partito del popolo rivoluzionario comunista, che conquista il 61,7 per cento dei voti con una partecipazione al voto plebiscitaria. Gli elettori, provenienti a cavallo dalle zone più remote, vengono timbrati su un dito con un pennarello (indelebile per alcuni giorni) per provare l’avvenuta votazione.

Nel 1991 il Parlamento decide di privatizzare le mandrie (22 milioni di capi allora, oggi ce ne sono quasi 35 milioni). Oggi l’80 per cento del bestiame è privatizzato. L’autonomia dall’ex Unione Sovietica porta al tracollo dell’economia mongola: le esportazioni

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calano del 97 per cento, la produzione industriale del 40 per cento, l’inflazione sale del 120 per cento.

Il 13 gennaio del 1992 nasce ufficialmente la Repubblica Popolare di Mongolia e viene compilata la prima Costituzione. La denominazione della capitale Ulan Bator viene traslitterata più correttamente come Ulaanbaatar. Il 28 giugno il Partito popolare rivoluzionario si aggiudica 70 seggi su 76 del Parlamento con il 95,2 per cento dei consensi. Le organizzazioni mondiali portano in Mongolia 550 milioni di dollari di assistenza sociale.

Nel 1996 per la prima volta le elezioni sono vinte dall’opposizione del Partito popolare rivoluzionario: democratici e socialdemocratici conquistano 50 dei 76 seggi del Parlamento ma il nuovo Governo si macchierà di scandali e maneggi poco ortodossi: i Mongoli dopo nemmeno due anni riammetteranno al potere i comunisti del partito rivoluzionario.

Nel 2000 le elezioni consegnano al Partito popolare rivoluzionario la grandissima maggioranza in Parlamento. Gli inverni rigidissimi non danno tregua ai pastori. Le Nazioni Unite dichiarano la “catastrofe umanitaria” e la Commissione Europea stanzia due miliardi e mezzo per la Mongolia.

Nel 2002 la Mongolia diventa uno dei paesi osservatori per garantire la pace nel mondo e per l’equilibrio biologico. Il 4 novembre arriva a Ulaanbaatar il Dalai Lama che ha appena vinto il premio Nobel per la pace: il governo cinese minaccia ritorsioni economiche e militari nei confronti della Mongolia.

Nel 2005 Enkhbayar incontra il presidente cinese Hu Jintao e il premier Wen Jiabao: in questo modo si rafforzerà la collaborazione economica tra Mongolia e Cina.

Nel 2006, con feste sontuose e commossa partecipazione popolare, la Mongolia festeggia gli 800 anni dell’Impero di Gengis Khan. Nella piazza Sukhbaatar, all’ingresso del Parlamento, viene innalzato una gigantesca struttura dominata da una grande statua del condottiero mongolo. Anche l’aeroporto internazionale di Ulaanbaatar Buyant Ukhaa prende il nome di Gengis Khan.

Nel 2007 il presidente Enkhbayar prosegue gli incontri con i paesi più ricchi del pianeta, e in luglio si reca in visita ufficiale in Corea del Nord.

Nel 2008 vengono avviati i lavori per la Tran-Asian Railway, la ferrovia che dal 2009 collegherà la Cina alla Germania, passando dalla Mongolia, e che permetterà alle merci di dimezzare i tempi di trasporto fra Asia ed Europa, rivoluzionando i mercati internazionali e valorizzando le risorse mongole.

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Il 1° luglio, dopo la vittoria alle elezioni del Partito Rivoluzionario Comunista, esplodono scontri violenti e senza precedenti nella capitale, alimentati dall’opposizione dei Democratici: la manifestazione provoca un bilancio di 5 morti e trecento feriti. In pochi giorni però Ulaanbaatar torna alla consueta tranquillità e si gode, con una grande festa popolare, i trionfi ai Giochi Olimpici di Pechino33.

Ma dopo questo excursus per capire le origini storiche di questo

paese, andiamo ad analizzare il campo che più ci interessa, ovvero quello della musica.

Uno degli aspetti più significativi nella vita e nella tradizione dei mongoli è costituito sicuramente dalla loro intima simbiosi con la musica, che essi cominciano ad ascoltare ed amare sin da piccoli, quando cioè, prima ancora che a camminare, imparano già ad andare a cavallo e a cantare. Popolo nomade per tradizione atavica, i Mongoli non ci hanno lasciato città, palazzi, templi o monumenti, tutte quelle cose del passato, cioè, che potessero testimoniare e documentare lo sviluppo della loro tradizione artistica attraverso i secoli. Tutto ciò che per loro poteva assumere un valore o un significato doveva essere per forza di cose agevolmente trasportabile su di un carro o a dorso di cammello, come usano fare tuttora i pastori nomadi. Diverso è invece il discorso per tutto quello che è ricollegabile con la memoria e la tradizione orale, che tratta della storia, delle leggende, della vita e della natura, come avviene per la poesia e in particolare per la musica e il canto nei loro molteplici aspetti che, a differenza delle costruzioni fisse, hanno accompagnato sempre ed ovunque le giornate dei cavalieri mongoli.

Sin dalle origini, il canto è sempre stato considerato dai Mongoli come uno strumento di comunicazione, una forma importante di linguaggio, un mezzo d’espressione a disposizione di tutti, e così pure gli strumenti, al pari della voce, sono intesi in senso figurato come mezzi di trasporto, quasi delle cavalcature, servendosi dei quali è possibile trasmettere messaggi ai propri simili, alle divinità, alla natura. Pertanto, tutti devono poter dimostrare, specie nelle feste, di saper cantare o suonare, pena un rimprovero o una punizione, ad esempio una bacchettata o la deglutizione di una enorme tazza di airag (latte di giumenta fermentato). Nonostante l’esistenza di vari strumenti dalle antiche origini, è pur sempre il canto quello che rappresenta meglio la musica della Mongolia.

33 F. Pistone, Mongolia. L’ultimo paradiso dei nomadi guerrieri, Polaris, Firenze, 2008.

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Un aspetto caratteristico della musica nazionale della Mongolia, sin dai tempi di Gengis Khan, è costituito dal fatto che essa, proprio in quanto tradizionale, non è stata soggetta nei secoli ad alcuna forma di scrittura fissa, per cui non esiste in pratica nessun documento cui fare riferimento materiale e che possa essere di qualche utilità a tentativi di ricerca o di definizione.

La prima pubblicazione, non propriamente di musica, bensì di trascrizioni con metodi occidentali di alcune esecuzioni di musica mongola, fu curata da Johann George Gmelin34, protagonista di una spedizione in Siberia tra il 1735 e il 1745, mentre le prime raccolte di musiche e di testi di canzoni significative risalgono a non più di un secolo fa, soltanto ai primi del Novecento. Di un certo interesse anche i “Diciotto canti e poemi mongoli” raccolti dalla principessa Nirgidma de Torhout (Torgout) e trascritti da Madame Humbert-Sauvageot, con notazioni musicali, testi mongoli, commentari e traduzioni, che furono pubblicati nel 1937, a cura della Librairie Orientaliste Paul Geuthner di Parigi per la Bibliothèque Musicale du Musée Guimet. La principessa mongola, che ricordava di aver udito questi canti nella propria patria durante l’infanzia, in particolare canti Kalmuki tramandati oralmente, propri della zona della Mongolia occidentale detta appunto Torgout, in seguito aveva voluto farli conoscere in Francia, curandone la pubblicazione dei testi nella grafia mongola e corredandoli di traduzione in francese, di commenti e spiegazioni, dei corrispettivi temi musicali, delle indicazioni sullo stile vocale, gli ornamenti, i modi ed i ritmi, in un certo senso quasi una moderna stele di Rosetta. Tra i vari canti della raccolta mi piace ricordare i due intitolati rispettivamente “Ballade du Roi Jéhanger” e “Galdanma”.

Se volessimo fare un paragone elementare con i sistemi della nostra musica, potremmo dire che i Mongoli usano come base i suoni dei tasti neri del pianoforte, intesi come bemolle e senza la terza, cui eventualmente vengono poi aggiunti gli altri suoni intermedi, non regolati però da vincolanti intervalli semitonici. Appartiene infatti alla normale prassi esecutiva della loro musica nazionale, cantata e suonata, tanto da diventarne una regola, il largo uso di quarti di tono, portamenti, glissandi, appoggiature, tremolii e trilli, che legano tra di loro in modo sempre diverso le note delle melodie. La musica dei Mongoli, a differenza di quella occidentale, più che sull’armonia è basata, come anche in Cina, essenzialmente sulla linearità della melodia e dello sviluppo della frase musicale; un po’, tanto per rendere l’idea, come avviene nel jazz.

34 J.G. Gmelin, Reise durch Sibirien: von dem Jahr 1733. bis 1754, A. Bandenhoecks seel., Witte, 1751.

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Un altro aspetto importante è costituito dal fatto che la parte vocale e quella affidata agli strumenti conservano autonomamente entrambe la medesima dignità esecutiva. Un’altra particolarità costante della musica della Mongolia è data dalla tensione e dal ritmo, sempre presenti, anche quando ci possono sembrare apparentemente assopiti, e che riscontriamo puntualmente in ogni brano, indifferentemente se a carattere allegro o cantabile. Come negli “adagio” dei concerti di Vivaldi, così anche le melodie delle arie mongole, pure nei momenti di sognante abbandono, sembrano voler tendere costantemente al successivo “allegro” liberatorio che però, nel nostro caso, non sempre è destinato ad arrivare. Riguardo il ritmo musicale, per i Mongoli esso molte volte deriva non tanto da un’esigenza costruttiva puramente musicale, oppure dal particolare sentimento che vogliono esprimere, quanto piuttosto dall’adeguamento a quello dell’andatura naturale degli animali da loro usati come mezzi di trasporto durante i lunghi spostamenti, soprattutto il cavallo, quindi in genere un’andatura comoda, non necessariamente lenta, detta zhoroo.

Tra le varie forme di canzone, intese nel senso più ampio di musica cantata, possiamo distinguere perlomeno tre generi fondamentali, ciascuno con caratteristiche differenti: il genere epico, la canzone vera e propria e quelle che, più che canzoni, definiremmo come tecniche vocali particolari.

I testi delle canzoni sono costruiti in pieno rispetto delle regole proprie della poesia, con rime, assonanze e allitterazioni. I versi sono ordinati secondo corrispondenze prefissate, spesso a gruppi e a strofe, con uso frequente del ritornello. È anche largamente adottato il ricorso a lettere o sillabe prive di significato, che servono ad equilibrare il ritmo, la metrica della frase e dei versi, agevolando in tale modo lo sviluppo parallelo della linea melodica, in genere collegata all’aspetto fonetico del testo.

Genere epico. Il cosiddetto genere epico non è una caratteristica musicale propria della Mongolia, ma in generale si collega piuttosto alla tradizione delle steppe dell’Asia centrale. Lo ritroviamo comunque presente in tutta la Mongolia con il nome generico di ulger o di tuul (nella parte occidentale). I testi, a volte lunghissimi, sono cantati su melodie e ritmi liberi, decisi dagli stessi esecutori, come ai tempi dei bardi (cantori) erranti, in base all’argomento narrato, mentre le parti musicali, a volte intercalate ad altre recitate, possono essere accompagnate o meno da uno strumento. Attualmente si conosce circa un centinaio di canti epici, qualcuno con un’estensione di oltre ventimila versi.

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Canzone lunga e canzone corta. In Mongolia possiamo

distinguere essenzialmente tra due forme di canzone: quella denominata urtyn duu o canzone lunga e bogino duu o canzone corta. La canzone lunga è caratterizzata da una fitta serie di ornamenti che punteggiano costantemente tutto l’arco dell’esecuzione. La canzone lunga viene sostenuta a piena voce, generalmente da un unico esecutore, su un’estensione di oltre tre ottave, con passaggi dall’impostazione di gola al falsetto e con largo uso di portamenti e di trilli. L’urtyn duu incarna lo spirito stesso della Mongolia, l’estensione delle sue pianure ed i sentimenti che convivono con la natura circostante, in un’atmosfera solenne a largo respiro.

Il canto armonico. Un discorso a parte va riservato al genere detto hoomiy o canto armonico (letteralmente canto, o musica di gola) che però sarebbe più corretto chiamare tecnica vocale piuttosto che canzone. Esso si ispira all’imitazione dei suoni della natura, del vento, gli uccelli, i fiumi. Ci sono varie tecniche di hoomiy che usano, oltre alla gola, anche il naso, il torace e l’addome.

Canti persuasivi (per il bestiame). Tra le forme musicali in uso da sempre presso i popoli nomadi, come anche quello mongolo, ritroviamo i richiami rivolti al bestiame, specialmente quelli finalizzati a persuadere gli animali a ubbidire o a compiere determinate azioni importanti per la loro sopravvivenza.

Musica religiosa. La musica usata nei monasteri lamaisti della

Mongolia durante i rituali del culto è praticamente più o meno la stessa che ritroviamo in quelli analoghi del Tibet, anche se nel nostro caso non mancano evidenti richiami alla musica mongola delle origini, ai canti epici modulati su intervalli stretti, ai canti sciamanici. Una di queste particolari tecniche usate dai monaci lamaisti mongoli prende il nome di unzad.

Canti sciamanici. Lo sciamanesimo è un fenomeno che ha trovato diffusione in tutto il mondo, dall’Asia all’Africa, all’America, in epoche diverse ed in forme varie, anche se in pratica il fine che si prefigge di raggiungere è il medesimo, ma soprattutto in Asia, dove è ancora possibile rinvenirne alcune manifestazioni in Siberia e nella stessa Mongolia. Il tamburo (khets) può rappresentare di volta in volta una cavalcatura oppure un battello, mentre il mazzuolo simboleggia una frusta per incitare il mezzo di trasporto oppure un aspersorio. Se, raramente,

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dovesse mancare il tamburo, esso viene sostituito in ogni caso da un altro strumento musicale.

Come si può notare, i canti sono quindi strettamente legati al

tipo di cultura e religione presenti nel territorio, creando uno stile di canto di tipo organico, dove la relazione tra corpo e mente è sempre presente.

Tibet

Per il Governo tibetano in esilio, il Tibet è la larga zona sotto l’influenza culturale tibetana per parecchi secoli, comprese le province tradizionali di Amdo, Kham (Khams) e Ü-Tsang (dBus-gTsang), ma esclusa la zona sotto l’influenza culturale del Tibet storico all’esterno della Repubblica Popolare Cinese comprendente Arunachal Pradesh, Sikkim, Bhutan e Ladakh, area reclamata soltanto da qualche gruppo tibetano. L’area ha un’estensione di 2,5 milioni di chilometri quadrati, un quarto dell’intera Cina, ed ospita 6 milioni di tibetani. Per la Repubblica Popolare Cinese, il Tibet è la Regione Autonoma del Tibet, chiamata anche Tibet Autonomous Region o TAR, reclamando anche il territorio del Arunachal Pradesh come appartenente alla stessa. Alcuni cinesi reclamano anche Sikkim, Bhutan e Ladakh come appartenenti alla TAR. La TAR copre solo l’Ü-Tsang e il Kham occidentale, mentre l’Amdo e il Kham orientale appartengono alle province cinesi di Qinghai, Gansu, Yunnan e Sichuan. L’area ha un’estensione di 1,2 milioni di chilometri quadrati, meno della metà della suddetta area culturale rivendicata dal governo in esilio, ed ospita meno di 3 milioni di tibetani.

Rimangono poche testimonianze delle origini del Tibet, si sa però che inizialmente era popolato solamente da pastori nomadi provenienti dall’Asia centrale. La storia del Tibet come nazione inizia con la nascita del Re Tho-tho-ri-Nyantsen nel 173 a.C. In quel periodo la religione praticata era di tipo sciamanico, detta anche Bön. Del periodo si può ancora ammirare il castello-monastero di Yumbulakhang, nei pressi di Tsedang. Colui che venne considerato come il vero fondatore del Tibet è Re Songsten Gampo XXXIII della dinastia di Yarlung. Nato nel 608 d.C., il Re decise di fare diventare Lhasa la capitale del Tibet, fece costruire lo Jhorkang e introdusse per primo la religione buddista nel regno.

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Sotto il regno di Trisong Detsen, con l’arrivo di Padmasambhava, il buddismo diventa religione di stato per la prima volta. Nel 770 venne fondato il monastero di Samye, uno dei primi grandi monasteri buddisti del Tibet. Successivamente con l’ascesa al potere del Re Trisong Detsen, si ritorna alla religione Bön e il Tibet entra in un periodo di instabilità politica. Nel 1042 assieme al grande maestro indiano Atisha, arrivano in Tibet una serie di maestri e saggi che diffondono di nuovo il buddismo nel paese. Nel 1072 nacque il grande monastero di Sakya, sede della omonima setta “Sakya-pa”, che avrà un ruolo importante nella storia del Tibet. Nel XIII secolo, il Tibet divenne parte dell’Impero mongolo (Dinastia Yuan): con il successo delle truppe mongole giudate da Kublai Khan il potere centrale passa da Lhasa a Sakya. Nel 1391, nasce Gedun Khapa, il primo Dalai Lama.

Tra il 1670 e il 1750 il Tibet fu incorporato nella Cina, dominata all’epoca della dinastia Qing. Nel 1716, con l’arrivo del gesuita Ippolito Desideri a Lhasa, iniziano i primi contatti con l’occidente. Nel 1774 la prima missione britannica entra in Tibet, seguita dall’invasione nepalese, che viene fermata grazie all’aiuto delle truppe cinesi chiamate in soccorso dai tibetani.

Nel 1904 il Regno Unito, approfittando dei disordini interni dell’impero cinese, invade temporaneamente il Tibet arrivando fino a Lhasa e costringendo il Dalai Lama a fuggire in Mongolia.

Solamente nel 1912 con la fine dell’impero cinese Tibet Xinjiang e Mongolia dichiarano indipendenza dalla Cina e il Dalai Lama riprende il pieno potere in Tibet senza alcuna influenza estera. Nel 1933 alla morte del XIII Dalai Lama, Tensing Gyatso diventa il XIV Dalai Lama. Nel 1940, a soli 18 anni di età vennero conferiti all’attuale Dalai Lama i poteri spirituali di capo della comunità buddista del Tibet. In una visione profetica un Dalai Lama del passato raccontò che “quando l’uccello di ferro volerà, verrà l’uomo rosso e la distruzione”.

L’1 ottobre del 1949 Mao Zedong a Pechino proclamò la fondazione della Repubblica Popolare della Cina. L’anno seguente l’esercito cinese riconquista nuovamente il Tibet costringendo alla fuga il Dalai Lama verso il Sikkim, ma poco dopo ritorna a Lhasa per le rassicuranti dichiarazioni dei cinesi di non interferire nel Tibet.

La Cina nel corso della storia aveva considerato il Tibet parte del suo territorio e così nel 1951 avvenne l’invasione dell’esercito cinese nel Tibet e a Lhasa. Le autorità cinesi inizialmente non interferirono nella politica interna del paese, lasciando il governo tibetano ad esercitare il suo potere. Ma successivamente la situazione si deteriorò. Dopo varie rivolte contro le autorità cinesi da parte del

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popolo tibetano per le violenze e le intolleranze dell’esercito cinese, il Dalai Lama decise di fuggire. In seguito scapparono dal paese una parte dell’élite feudale e dei monaci temendo l’aria di terrore che spirava dalla Cina. Nel 1964 la Cina dichiara formalmente il Tibet “Provincia Autonoma del Tibet” della Cina.

In seguito un periodo molto oscuro nella storia recente della Cina si abbatté sul Tibet. La rivoluzione culturale negli anni dal 1966 al 1976 portò studenti ed estremisti, agitati dal regime, a condannare ogni forma d’opinione diversa dalla loro e i monasteri, templi e ogni altra forma d’arte vennero distrutte.

Il Dalai Lama non tornerà più in Tibet; la situazione della comunità in esilio, i vari appelli, conferenze e incontri segreti, non hanno portato a nulla. Nel gennaio del 2000 fugge dal Tibet anche il quattordicenne Karmapa Lama, il terzo capo spirituale dei tibetani (dopo il Dalai Lama e il Panchen Lama), attraversando a piedi l’Himalaya, per incontrare il Dalai Lama a Dharamsala in India.

Successivamente, nell’aprile del 2008, sono scoppiate dure proteste in alcune città del Tibet che hanno costretto il governo di Pechino ad autorizzare l’uso della forza, malgrado i numerosi casi, rilevati in Tibet, di violazioni della dignità umana. Secondo il Dalai Lama in Tibet sta avvenendo un genocidio culturale non preso in considerazione dal mondo occidentale.

Il Tibet rappresenta il centro tradizionale del Buddismo tibetano, una forma distintiva del Buddismo Vajrayana. Il buddismo tibetano è praticato anche in Mongolia e largamente praticato dai Buryat nella Siberia meridionale. Presso le popolazioni tibetane, in specie delle regioni nord-orientali, è, nonostante le persecuzioni che ha subito fino al XIX secolo, ancora largamente praticato l’ancestrale sciamanesimo pagano pre-buddista, conosciuto come religione Bön.

Il contatto con Buddismo e Induismo vi ha provocato profonde trasformazioni in senso sincretistico, come ad esempio la nascita di congregazioni e conventi di Lama.

Nelle città è presente anche una piccola comunità di musulmani, conosciuti come Kachee (o Kache), la cui origine deriva da tre regioni: Kashmir (Kachee Yul nell’antico Tibet), Ladakh e paesi centro asiatici turchi. L’influenza islamica in Tibet proviene anche dall’antica Persia. C’è anche una consolidata comunità di musulmani cinesi (Gya Kachee) di etnia Hui cinese. Sembra che le popolazioni provenienti da Kashmir e Laddakh siano emigrate verso il Tibet a partire dal XII secolo. I matrimoni e le interazioni graduali hanno portato ad un ampliamento della comunità islamica tibetana nei pressi di Lhasa.

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Piccole comunità cristiane, sia nestoriane che cattoliche, vi svolgono un’esistenza al limite della semi-clandestinità essendo state storicamente perseguitate dai buddisti. Fino ad un recente passato, fra gli abitanti del Tibet, il cui fondo culturale remoto è essenzialmente matriarcale era diffusa la “diandria”: era costume corrente che le donne sposassero due uomini, di soliti fratelli o comunque parenti.

Il Governo cinese, a partire dalla Grande rivoluzione culturale, ha cercato di distruggere i simboli tradizionali della cultura originale tibetana demolendo monasteri, incarcerando monaci e limitando o, addirittura, proibendo (per i funzionari pubblici, le guide turistiche ed altri mestieri) di professare la loro religione e operando vandalismi in alcuni posti sacri ai tibetani. Tuttavia sono stati preservati e parzialmente ristrutturati alcuni palazzi per incrementare il turismo, soprattutto interno35.

L’economia tibetana è dominata dall’agricoltura e

dall’allevamento. Lo yak rappresenta una delle maggiori fonti di sussistenza per le famiglie rurali in quanto viene utilizzato come forza motrice per il lavoro nei campi, per il latte e derivati ed, infine, per la carne.

Gli ultimi anni hanno costituito un’apertura al turismo, quasi esclusivamente interno, recentemente promosso dalle autorità cinesi. La ferrovia del Qingzang che collega Lhasa con Pechino contribuirà ad incrementare l’economia.

Storicamente la popolazione del Tibet è costituita primariamente da Tibetani. Altri gruppi etnici includono i Monpa, Lhoba, Mongolie Hui. Il Governo tibetano in esilio stima che vi siano 7,5 milioni di non tibetani introdotti dal governo cinese per nazionalizzare la regione, contro 6 milioni di tibetani, e ritiene che la recente apertura della ferrovia del Qingzang, che collega Lhasa con Pechino in 40 ore, faciliterà l’afflusso di persone da altre province cinesi. Secondo il Governo cinese, la Regione Autonoma del Tibet è abitata al 92% da Tibetani, mentre nelle altre zone del Tibet storico appartenenti ad altre province cinesi la percentuale è più bassa, smentendo ogni accusa.

I canti polifonici fanno parte dei rituali buddisti praticati dai monaci dell’Università Tantrica di Gyuto, in Tibet. La cerimonia tradizionale si fonda su un’antica tecnica vocale, in cui il cantore riesce a produrre due o tre note vibranti più acute o più gravi del

35 M. Omodeo-Salé, Il Tibet e i paesi himalayani: storia, civiltà, cultura, Mursia, Milano, 1989.

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suono prodotto inizialmente dalla sua stessa voce. Il coro di tali voci forma una peculiare trama armonica, di straordinaria intensità sonora.

Come abbiamo già accennato, il dato significativo è che questi canti vengono tramandati direttamente, e non vengono insegnati a tutti, e che sono strettamente legati alla sfera religiosa36.

Tuva Tuva è una delle 21 repubbliche federali della Federazione Russa, in Siberia centro meridionale lungo il confine con la Mongolia. Tuva è stata una repubblica indipendente dal 1921 fino all’annessione russa del 1944. Ha circa 300.000 abitanti, dei quali circa due terzi appartengono all’etnia tuvana. La capitale è la città di Kyzyl (100.000 abitanti). Vi si parla il tuvano, lingua di ceppo turco, ma il russo è usato correntemente.

Le religioni diffuse sono il Buddismo lamaista e lo sciamanesimo, in alcune zone impervie si trovano comunità di Vecchi Credenti, ortodossi scismatici.

L’80% della superficie è coperto da alte montagne che arrivano ai 4000 m. È attraversata da est a ovest dal fiume Enisej, che sfocia nell’oceano Artico dopo oltre 3.300 km; vi sono numerosi (circa 400) laghi. Il paesaggio è caratterizzato da vastissime foreste di conifere e betulle.

Tuva è famosa per il caratteristico canto gutturale xöömej (diffuso solo a Tuva, in Mongolia e in Tibet).

La repubblica di Tuva con una superficie di 170 mila kmq conta 308 mila abitanti, che appartengono a 73 diverse nazionalità, di cui 99 mila sono tuvani. Kyzyl, la capitale della repubblica tuvana, si trova al centro geografico dell’Asia; è stata fondata nel 1914 alla confluenza di due affluenti del fiume Jenisej: lo Kaa-chema e il Bij-chema. Tuva confina a nord e nord-ovest con la provincia di Krasnojarsk e con la repubblica di Chakassija, a nord-est con la repubblica Buriata e con la regione di Irkutsk, a est e a sud con la Mongolia e a ovest con la regione dell’Altaj. Il clima è di tipo continentale e la regione è considerata montuosa per la presenza sull’80% del territorio di montagne che toccano frequentemente i 3000-3500 metri. La punta più alta si trova all’interno del massiccio del Mongun-Tajga (montagna argentata) e raggiunge i 3976 m. 36 G. Azzaroni, Teatro in Asia. Tibet - Cina - Mongolia - Corea, Volume III, Clueb, Bologna, 2003

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Nel territorio della Repubblica tuvana nasce il fiume Jenisej, uno dei più grandi del nostro pianeta e vi sono all’incirca 400 laghi, molti dei quali sono di origine glaciale. Tuva si può considerare come una grande riserva naturale: vi sono più di 1500 specie di piante, 240 tipi di uccelli, inoltre vi si trova una grande varietà di specie animali: lo scoiattolo dei Sajani, la lince, il ghiottone, lo zibellino, il castoro, lo yak e il cammello. Tuva è famosa anche per le acque curative che sgorgano calde dalle sue sorgenti, e per i suoi fanghi: sono famose località termali Ceder e Usc-beldir e le rive del lago Dus-chol. Un luogo unico al mondo, per la sua natura intatta, è la depressione di Ubsu-Nurskaja: è diventata, infatti, da diversi anni, oggetto di studi e di ricerche da parti di studiosi che giungono da tutto il mondo. Il suo territorio è abitato sin dal neolitico; dell’epoca del ferro è stato fatto un ritrovamento eccezionale: la famosissima pantera d’oro, che si trova nella collezione dell’Ermitage a Sanpietroburgo. È intorno al VII secolo, nel momento in cui questa regione rientra nell’orbita del kaganat turco, che inizia una prima trasformazione nelle popolazioni nomadi che diventano agricoltori stanziali, dedicandosi all’arte della metallurgia. Di questo periodo sono i ritrovamenti di libri incisi nella pietra e di ben 84 stele. È questo anche il momento in cui Tuva passerà sotto il dominio della tribù degli Uiguri che erigeranno un sistema di difesa costituito da mura e valli. Uno di questi ancora esistente e famoso, benché oggigiorno sia nascosto dalle acque della diga di Sajan-Susceskij, è conosciuto come “la strada di Gengis Khan” e si trova a nord-ovest del paese. All’inizio del IX secolo con l’aiuto dei Kirghisi Tuva riuscirà a liberarsi degli Uiguri per entrare nella sfera d’influenza altajka e kirghisa. Nel XIII secolo dovrà arrendersi all’Orda di Gengis Khan e nel 1700 alla dinastia Manciù, dalla quale si affrancherà solo nel 1912 grazie all’azione di rivolta, a fine ’800, di 60 bogatir (così sono chiamati i cavalieri nella tradizione russa), conosciuta storicamente come “Aldan Maadyr”, che sarà determinante per far nascere una coscienza etnica all’interno del popolo tuvano.

Il resto è storia recente, nel 1914 Tuva diventa un protettorato russo, vive il travaglio della rivoluzione sovietica, fino a quando nel 1921 viene riconosciuta, per la prima volta nella storia di questo popolo, la Repubblica popolare di Tuva. Questo significò per Tuva, da un lato l’allontanamento dei cinesi, la repressione del lamaismo, la distruzione dei templi buddisti e dall’altro aiuti economici e progresso in campo culturale soprattutto per la massiccia alfabetizzazione, non ultima la creazione di una lingua scritta tuvana.

Tuva, grazie alla sua conformazione geografica che la rende isolata dall’alta barriera delle montagne Sajan, si è ritrovata a essere in disparte rispetto alle grandi vie commerciali dell’antichità, e questa

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situazione si è perpetuata sino a tempi non molto lontani, in quanto era una Repubblica Sovietica chiusa ai visitatori. È stato questo isolamento millenario a conferirle la sua magia e il suo fascino intatto.

Tuva è una terra in cui lo sciamanesimo si è conservato allo stadio originario ed in cui il popolo sente ancora molto forte la tradizione e ne rispetta i culti ed i riti. Tutto il popolo tuvano festeggia l’inizio del nuovo anno, shagaa, in base al calendario lunare ed in compagnia di uno sciamano che può predire gli avvenimenti dell’anno che deve venire. Tutti i tuvani al mattino si alzano e fanno offerta di tè salato con il latte ai loro Spiriti, affinché li proteggano durante la giornata. È così che i gesti quotidiani penetrano, con la forza che gli imprime la tradizione, nella sfera spirituale. La montagna Chairakan, dove dimora l’Orso Protettore, è conosciuta e venerata in tutta Tuva, ed ogni sciamano le si rivolge durante i riti per ottenere la sua somma protezione ed il suo aiuto. Sono tanti i rituali che gli sciamani devono celebrare: il rito del Sole Rosso, che si celebra in autunno quando bisogna scegliere il luogo migliore dove innalzare la yurta per svernare e invocare protezione sulle mandrie e sul clan, le kamlanie che si officiano per la purificazione o per accompagnare i defunti, al 7° e 49° giorno dalla loro morte, nel mondo ultraterreno. Il rituale del 7° giorno si chiama rituale dell’anima grigia. Lo sciamano incontra l’anima del defunto e questi gli riferisce la causa della sua morte e se ci sono delle offese da placare. Al 49° giorno si celebra il rituale dell’anima principale, la pratica è molto spaventosa perché bisogna accompagnare l’anima nel regno dei morti facendole offerta di tabacco e distillato di latte, aragaa. Gli sciamani di Tuva hanno lignaggi diversi: ci sono gli sciamani celestiali, quelli che provengono dalle sirene della steppa o della taiga, ci sono gli sciamani delle acque e quelli che derivano dagli spiriti dei demoni. Tutti loro hanno un compito comune: aiutare le persone. Per fare questo si servono del linguaggio segreto degli animali, del canto difonico, khoomei, del tamburo e del viaggio estatico, della fumigazione con il ginepro della taiga, artish. Ogni sciamano si considera quale continuatore dell’eredità e della vita dei propri padri e nonni, per cui il suo ruolo spirituale, nel rispetto della tradizione, è quello di onorare gli Spiriti degli Antenati, gli Spiriti protettori della Terra, benedicendo i luoghi, i clan e le famiglie, affinché ogni figlio sia pronto e degno di abitare la terra dei propri Avi.

In questi anni, un ruolo importante di diffusione in Occidente delle pratiche sciamaniche è stato svolto da Ai-Tchourek (Cuore di Luna), nata a Tuva, nel centro dell’Asia. La notte in cui venne alla luce si scatenò un violento temporale, ma nel momento in cui si udì il suo primo vagito, gli elementi si placarono e apparve la luna. Il padre

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che era abituato a passare notti intere nei boschi, in balia della furia degli elementi, vide in questo, un segnale divino e decise di chiamarla Cuore di Luna. Ben presto la piccola Ai-Tchourek iniziò a giocare con gli spiriti delle anime che popolavano il cimitero del villaggio, a correre dietro al vento suo amico per parlare con lui. La madre guardava crescere la figlia con apprensione anche se la lasciava libera nei suoi giochi e nelle sue avventure con questo mondo fantastico. La madre come le sue otto leggendarie sorelle era una grande sciamana e apparteneva alla potente stirpe degli Sciamani Celestiali, ma nell’Unione Sovietica di allora, gli sciamani erano perseguitati, trattati come ciarlatani, ubriaconi, visti come la feccia della società. La madre morì prematuramente e quando Ai-Tchourek cominciò a manifestare segni più evidenti della sua diversità, i familiari si spaventarono, temendo delle rappresaglie da parte del Partito e la mandarono a vivere in Russia, dove trascorse nove anni studiando e lavorando. Gli anni vissuti lì furono molto difficili, le voci l’assillavano in continuazione, gli spiriti le si manifestavano anche di notte. Era priva di qualsiasi sostegno morale, abbandonata completamente a se stessa, mentre si faceva sempre più chiaro nella sua mente di aver ereditato il dono di sua madre. Poi attorno al 1987 con Gorbaciov arrivò la perestrojka [=riforma, ricostruzione] e Ai-Tchourek poté ritornare a Tuva. Certo anche lì la vita non era facile. L’atmosfera della città era pesante e così Ai-Tchourek si rirtirò a vivere nella taiga dove in completa solitudine, a contatto con le forze della natura, poté sviluppare le sue facoltà sciamaniche. Quando, nel 1993, si tenne a Kyzyk il Primo Congresso Internazionale di Sciamanismo, Ai-Tchourek vi partecipò, e seduta tra il pubblico, ascoltava i racconti di altri sciamani che erano così simili alla sua esperienza di vita, ma ad un certo punto…

…mi sentii trascinare, da una forza invisibile. Salii sul palco, presi

un tamburo che qualcuno mi stava porgendo e iniziai a battere. Io stessa non capivo cosa mi stesse succedendo, non avevo mai suonato un tamburo in vita mia, non l’avevo neanche mai toccato. Appena eruppero i primi suoni la realtà si scompose come tanti immagini riflesse nello stesso specchio. Scorgevo la gente, laggiù in platea, come in un mondo lontano, tutto si era improvvisamente allontanato verso il basso, erano tutti lontani ed irraggiungibili; poi c’ero io, lì sul palco, come in un mondo ovattato, dove non percepivo alcun suono a parte la voce del tamburo e il mio essere e quello del malato, lì di fronte a me, sul pavimento. Di colpo vidi una miriade di vermi avvolgerlo e camminare sul suo corpo, guardavo la folla giù, era troppo distante, non poteva aiutarmi, guardavo lui e lo vedevo in preda al male di quei lunghi vermi orrendi. Non sapevo più che fare, battevo battevo sul tamburo e poi gridai: “Sono Ai-Tchourek, delle Nove Donne del cialamà, aiutatemi!” Di colpo la volta del teatro si aprì, vedevo

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il cielo, vedevo un mondo superiore, i fumi di artish salivano alti, il blu veniva avvolto da una nebbia profumata. Ero stordita, lì nel teatro vedevo il cielo, l’azzurro, quel mondo al di sopra. Di colpo la visione cambiò, la nube di fumo si diradò e vidi apparire tre donne. Erano bellissime nelle loro vesti lunghe e preziose, dalle tinte delicate. Erano sedute immobili e mi guardavano, il loro viso era luminoso e il loro sguardo era penetrante. Sentii una forza enorme invadere la mia testa e penetrare attraverso il mio corpo ed il mio braccio, ripresi con più potenza a battere sul tamburo. Capivo confusamente, io sciamana celestiale, io che dominavo gli elementi, io che venivo aiutata dal tuono. Il suono del tamburo era sempre più forte. Guardavo verso l’alto, loro erano lì, mi guardavano protettive. Guardavo di fronte a me e vedevo i vermi che velocemente si allontanavano dal corpo di quell’uomo e andavano in giù, si rifugiavano verso quel mondo basso, sotterraneo. A quella visione rivolsi il mio sguardo verso l’alto per cercare la loro approvazione. Non c’erano più, se n’erano andate, la volta del teatro si era richiusa, i mondi si erano magicamente ricomposti. Guardai ancora una volta verso l’uomo che giaceva supino a terra. Si era alzato a sedere, i vermi l’avevano lasciato. Gettai un grido e svenni37. Il professor Kenin Lopsan, responsabile del Museo Etnografico

di Tuva “Aldan Mandir”, nonché grande fautore della conservazione e della rinascita dello sciamanismo tuvano, dopo questo episodio la insignì del titolo di “Grande Sciamana”. Negli anni la missione di Ai-Tchourek si è rivelata fondamentale per il sostegno dato al processo di ricostruzione dello sciamanesimo tuvano e per la diffusione e la conoscenza delle tradizioni e della cultura del suo popolo in Occidente. In Italia, dove opera da diversi anni, ha edificato, in Valle d’Aosta, l’unico altare sciamanico Ovaa al di fuori della sua patria.

Attualmente è a capo del “Tos Deer”, Associazione Sciamanica Tuvana. Durante il suo soggiorno italiano sono tanti gli insegnamenti di cui Ai-Tchourek ci ha fatto dono, ma ogni persona, durante gli incontri, ha fatto tesoro della sua capacità di trasmettere forza in ognuno di noi obbligandoci a prendere consapevolezza di quello che è il talento che ci è stato destinato dalla sorte. “Ogni persona ha ricevuto il suo dono, il suo talento ed io, come sciamana, devo riconoscerlo ed aiutarvi ad aprire la strada rispetto a questo talento, affinché ognuno di voi possa metterlo a frutto nel migliore dei modi.” In Italia, ci sono fiori nuovi, erbe nuove, montagne sconosciute, acque misteriose per Ai-Tchourek, che le hanno dato la possibilità di entrare in contatto con gli Spiriti della Terra italiana e di arricchire la sua conoscenza di questo mondo sottile.

37 A. Saudin e C. Allione, Ai-Tchourek… come la luna - Trance, guarigioni e riti sacri di una sciamana tuvana, Libreria Editrice Psiche, Torino, 1999.

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La dimensione nomade delle popolazioni di queste aree, porta l’uomo della steppa a vivere indissolubilmente legato alla natura, penetrando la sua più profonda dimensione spirituale: emblema di questo legame totalizzante è la dimora del nomade, la tenda. Chiamata gheer presso i Mongoli e yurta presso i tuvani, la casa del nomade è estremamente pratica e funzionale, facilmente smontabile e trasportabile, è un riparo sicuro e solido, adatto alle loro dure condizioni di vita. È sempre orientata con la porta a sud per cui funziona anche come orologio astronomico, in base alla posizione in cui penetra il sole all’interno della tenda, attraverso il foro centrale, si può determinare l’ora. Ma la yurta nasconde un altro mondo, appena si apre la piccola porticina e si attraversa la sua soglia si viene proiettati immediatamente in un mondo magico dove ogni oggetto, ogni suppellettile, il fuoco e la posizione che vi si occupa segue un ordine simbolico preciso, immutato nel corso dei secoli. Il Sacro Fuoco centrale, a cui tutti sono legati con invisibili raggi che si proiettano verso il centro, rappresenta il mondo antico, la nostra memoria, i nostri Antenati, per cui è degno di sommo rispetto e da omaggiare con offerte di cibo sacro. Ma la yurta contiene all’interno la rappresentazione stessa dei legami tra il cosmo, il tempo e gli esseri umani. Vi è una precisa relazione tra gli animali dell’oroscopo orientale, la disposizione delle masserizie e la distribuzione dei posti a sedere all’interno della yurta. A nord di fronte alla porta è dislocato il topo, simbolo del raccoglitore, per cui in corrispondenza del topo vengono posizionati i bauli che contengono i tesori della famiglia ed è proprio lì vicino ai tesori che siede l’ospite più l’anziano, colui che è degno di sommo rispetto. Poi è la volta del serpente, il luogo dove sedevano i servitori, se si era in una famiglia abbiente o dove si mette seduta l’ospite donna, quella che come i servitori porta le novità, i messaggi, i pettegolezzi del mondo esterno. In corrispondenza della porta è rappresentato il cavallo, simbolo dell’animale che anticamente compiva tutti i lavori e a cui erano affidate anche le possibilità di comunicazione, visto che ci si spostava essenzialmente a cavallo.

Quindi la porta è la rappresentazione del lavoro e dei rapporti con il mondo. Di seguito si trova la pecora simbolo della ricchezza e della fertilità, infatti proprio in sua corrispondenza vengono appesi i capi che sono stati sgozzati. Poi troviamo la scimmia, simbolo della capacità lavorativa ed infatti proprio lì è il posto in cui vengono appesi i finimenti dei cavalli e gli attrezzi per la sellatura. Dopo c’è il gallo dove in genere siedono i forestieri o gli ospiti di passaggio, che come il gallo si alzano all’alba per proseguire nel loro cammino. Di seguito si trova il cane simbolo dell’abbondanza e della proprietà, infatti è proprio il cane a difendere la proprietà e in sua corrispondenza

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vengono conservati i sacchi che contengono il raccolto dell’anno, gli indumenti e le coperte. In ultimo troviamo il maiale, simbolo dei prodotti della natura, i tuvani in quanto cacciatori si nutrono di carne, per cui quello è il posto dove conservano le armi da caccia, appendono la cacciagione ed espongono le pellicce. Nulla è dunque casuale nella disposizione delle masserizie e rispetto al posto riservato agli occupanti nella yurta ma corrisponde ad un antico ordine immutabile che è tutt’oggi rispettato, segno non solo della tradizione, ma di un modo molto preciso di interagire con il cosmo.

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Capitolo III Il Canto Armonico in Occidente In Occidente non si ritrovano molte tracce scritte di Canto Armonico, a parte alcune testimonianze di antropologi o studiosi che si sono recati in Oriente e hanno riportato la loro esperienza. Si devono aspettare gli anni ‘70 per avere una vera e propria nascita del canto armonico, non solo come teoria, ma anche come pratica da parte dei musicisti. Ed è infatti il 1968 quando il Collegium Vocale di Colonia incide, per la DGG Stimmung, un pezzo per sei voci di Karlheinz Stockhausen dove ogni cantante canta una nota assegnata rispetto agli intervalli presi nella serie dei suoni armonici: fu il primo caso di sperimentazione sul canto armonico che portò poi alla scoperta del canto tibetano e del khöömi mongolo. In quegli anni nasceva un altro centro di canto armonico negli Stati Uniti, presso il dipartimento di musica dell’università di California a San Diego.

A New York la scoperta del canto armonico non passò inosservata, e toccò alcuni fra gli artisti più eclettici del momento: Meredith Monk, Joan La Barbara, David Hykes e Michael Vetter. Fu proprio quest’ultimo, già allievo e collaboratore di Stockhausen, che aprì in Germania la scuola Rütte: ed è proprio in questa nazione che il canto armonico si diffonde maggiormente.

In Francia lo sviluppo del canto armonico è più che altro legato a percorsi individuali, come quello di Trân Quang Hai, musicista ed etnomusicologo vietnamita, specialista di canto mongolo ed autore di numerosi articoli. Da ricordare anche Iegor Reshnikoff, specialista di canto gregoriano, che legge in chiave armonica questo tipo di canto. Il principale diffusore del canto armonico è però da considerare il maestro sufi Pir Vilayat Khan, figlio del grande Hazrat Hinayat e fondatore dell’Ordine Sufi in Occidente38.

Non sempre il canto armonico si trova allo stato puro: in Italia, per esempio, lo si ritrova all’interno della musica polifonica.

La musica polifonica nasce dall’unione di più cantanti o strumentisti che eseguono simultaneamente e intenzionalmente parti musicali differenti l’una dall’altra, percepibili all’ascolto come tali. 38 R. Laneri, La voce dell’arcobaleno, cit., pp. 18-22.

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Nel caso delle pratiche musicali di tradizione orale si usa sovente il termine “polivocalità” al fine di rimarcare le differenze concettuali rispetto all’idea della “polifonia” colta fissata e trasmessa attraverso la scrittura: i due termini, tuttavia, possono essere considerati sostanzialmente dei sinonimi in quanto anche nei formalizzati di tradizione orale la simultaneità e l’intenzionalità della sovrapposizione di parti melodiche distinte ed avvertite come tali, è un requisito essenziale.

Il canto polivocale è presente in quasi tutte le aree culturali italiane, soprattutto nella sua espressione più schematica data dalla sovrapposizione di due linee melodiche che si muovono parallelamente (è, in pratica, ciò che succede quando un uomo e una donna cantano insieme, data la diversità dei loro registri vocali). Vi sono comunque alcune aree circoscritte, caratterizzate da procedimenti formali specifici e non riscontrabili altrove, e che pertanto possono essere considerate delle vere e proprie “isole polivocali”. In queste si trovano espressioni musicalmente elaborate quali il bei bei, canto a quattro parti maschili della zona del Monte Amiata in Toscana, ed il trallallero, a cinque parti maschili propria dell’area urbana di Genova ed in particolare dei quartieri del centro storico e del porto.

Nell’ambito della polivocalità un ruolo di assoluta preminenza è assunto dalle espressioni diffuse in Sardegna, ed in particolare della tradizione del canto a tenore, e del canto a cuncordu delle confraternite laicali. Ampiamente conosciute e documentate, queste forme costituiscono espressioni di grande complessità sia tecnica che simbolica, tanto da essere annoverate dagli studiosi fra le manifestazioni più complesse in assoluto cui possa arrivare la pratica esecutiva affidata esclusivamente alla tradizione orale. Al di là di queste forme, l’Isola presenta inoltre altre espressioni vocali (la polivocalità femminile nell’esecuzione dei rosari e l’accompagnamento di basciu e contra nella poesia improvvisata campidanese) e strumentali (il repertorio contrappuntistico delle launeddas, aerofono costituito da tre canne e diffuso nella parte meridionale dell’Isola), segno di una precisa predilezione della gente sarda verso la sovrapposizione di parti melodiche. Tale predilezione veniva messa in evidenza già nel 1787, anno in cui l’abate Matteo Madau pubblicò Le armonie de’ sardi. In questo scritto dell’abate nativo di Ozieri, troviamo una delle prime e più precise descrizioni del canto a tenore; egli infatti scriveva:

Nel capo di Logudoro cantano i loro versi con consonanza di più

voci, da’ Greci Polyodia chiamata, ed è un’artifiziosa unione di voci, altre gravi, altre acute, tra loro compostamente accordate, e in quattro parti

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distribuite, soprano, alto, tenore, basso, opposte l’una contro l’altra con esatta misura di tempo.

Esso canto sembra introdotto dalle Greche colonie Doresi, il cui modo di cantare […] era grave, patetico, virile, maestoso, e nobile, e molto atto a sollevare, e comporre gli animi […]. Tal’è la detta maniera di cantare nel detto capo della Sardegna e nel sentir il concento di soavi, nette, e armoniche modulazioni di voci, tra loro accordate in questo canto, sembra che si senta un pieno contrappunto di musica39.

Ma arriveremo alla Sardegna solo alla fine, partendo dal Paese più lontano, in Occidente, dove si trovano tracce di canto armonico. America

Gli archeologi stimano che i primi uomini a giungere nella regione geografica del Canada siano arrivati dall’Asia, attraverso lo Stretto di Bering, già oltre 40.000 anni fa (Fig. 6). Queste ed ondate successive diedero origine ai discendenti degli attuali indiani canadesi e alle popolazioni Inuit (Fig. 7).

Fig. 6 Fig. 7 Inuit (singolare inuk o inuq) è il nome del popolo dell’Artico

discendente dei Thule. Gli Inuit sono uno dei due gruppi principali nei quali sono divisi gli Eschimesi, insieme agli Yupik: il termine “eskimesi” (che secondo alcuni, significa “mangiatori di carne cruda”, secondo altri “fabbricanti di racchette da neve”) fu usato dai nativi Americani Algonchini del Canada orientale per indicare questo popolo loro vicino, che si vestiva di pelli ed era costituito da esperti

39 M. Madau, Le armonie de’ sardi, Stamperia reale, Cagliari, 1787, pp. 25-28.

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cacciatori. Il nome che gli Inuit usano per definirsi significa, invece, semplicemente “uomini”.

Gli Inuit sono gli originari abitanti delle regioni costiere artiche e subartiche dell’America settentrionale e della punta nord orientale della Siberia. Il loro territorio è principalmente composto dalla tundra, pianure basse e prive di alberi dove vi è perennemente uno strato di permafrost, salvo pochi centimetri in superficie durante la breve stagione estiva.

Durante la stagione invernale, prima degli anni ‘70, gli Inuit vivevano in case di ghiaccio chiamate igloo che avevano la forma di una cupola sferica a pianta circolare ed erano costruite con blocchi di ghiaccio incastrati perfettamente tra di loro a formare una volta. Vi si accedeva grazie ad un corridoio basso fatto anch’esso di neve e sulla parete di fronte a questo vi era una finestra, chiusa con una sottile lastra di ghiaccio o con pelli di foca. L’interno era foderato di pelli di renna e vi erano dei letti di pelliccia di renna che dovevano ospitare tutta la famiglia. Il riscaldamento, l’illuminazione e la cucina erano ottenuti grazie alla lampada alimentata a grasso di foca: gli Inuit, nonostante le leggende, amavano infatti cucinare tutte le loro vivande. D’estate vivevano in tende, con coperture di pelli di foca, di caribù o di altri animali sostenute da costole di balena o da legname.

Anche se alcuni gruppi vivono su fiumi pescosi ed altri cacciano caribù nelle zone interne, gli Inuit vivono tradizionalmente della caccia di mammiferi marini (foche, trichechi e balene), e la struttura e l’etica della loro cultura si sono sempre rivolte al mare.

La capacità degli Inuit di adattamento a un ambiente freddo e difficile è legata alla loro particolare abilità nel costruire attrezzi e altri utili accorgimenti da ogni tipo di materiale. Vestiti di pelli, arpioni d’avorio o di corno, con lame di pietra, pattini di slitte fatti all’occorrenza con strisce di carne gelata sono esempi dell’adattamento indigeno ai materiali naturali. Usano il Kayak o imbarcazioni a motore per cacciare in mare oppure aspettano vicino alle aperture nella banchina di ghiaccio l’uscita delle foche. Durante le battute di caccia usano gli igloo come riparo di emergenza. Usano le pelli degli animali per fabbricarsi vestiti (es. anorak). Per spostarsi sulla neve usano slitte trainate dai cani anche se le motoslitte stanno largamente rimpiazzando questo modo di viaggiare.

La lingua inuit è tradizionalmente parlata in tutta l’Artide nordamericana e in alcune parti della zona subartica, nel Labrador. In passato era parlata in qualche misura nella Russia orientale, in particolare nelle isole Diomede, ma oggi è quasi sicuramente estinta in Russia. Gli Inuit vivono principalmente in tre paesi: Groenlandia (una provincia autonoma della Danimarca), Canada e Alaska.

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L’organizzazione della società si basa sulla solidarietà fra villaggi; la proprietà è, per la maggior parte, collettiva, la famiglia in genere è poco numerosa. Gli Inuit hanno una loro religione che si basa sulla credenza che molti animali e fenomeni naturali abbiano un’anima o uno spirito. La principale personalità religiosa è lo sciamano, spesso di sesso femminile, che durante le cerimonie può cadere in trance grazie all’ausilio del suono del tamburo. In questo stato, lo sciamano, sarebbe in grado di contattare l’aldilà popolato dalla dea-tricheco Sedna per porgerle le istanze della sua gente e prevedere il futuro.

Hanno costituito la ICC (Inuit Circumpular Conference), un’organizzazione non governativa e plurinazionale, a salvaguardia della propria cultura, che rappresenta 150.000 persone abitanti nei territori di Groenlandia, Alaska, Russia.

La popolazione indigena canadese degli Inuit possiede una

forma di canto armonico, che si differenzia da quello tuvano per l’essere praticato quasi esclusivamente dalle donne. Esso è tradizionalmente utilizzato dalle donne per cullare i bambini o in giochi praticati durante le lunghe notti d’inverno. Tale tecnica, dopo un lungo periodo di declino, è stata recentemente riscoperta, soprattutto dalle giovani generazioni, nell’ottica di una riscoperta delle tradizioni Inuit.

Il Katajjaq (detto anche pirkusirtuk e nipaquhiit) è un tipo di competizione canora tradizionale, considerata un gioco, di solito tenuta tra due donne. È uno dei pochi casi al mondo di canto di gola, un metodo unico di produzione del suono che è altrimenti conosciuto in Sardegna.

Quando gareggiano, due donne stanno in piedi l’una di fronte all’altra e cantano servendosi di un complesso metodo per seguirsi a vicenda, così che una voce segna un tempo forte mentre l’altra ne segna uno debole, fondendo le due voci in un suono singolo quasi indistinguibile. Ripetono poi brevi motivi a intervalli scaglionati, spesso imitando i versi delle oche, caribù o altri animali selvatici, finché una finisce il fiato, inciampa nella propria lingua, o comincia a ridere, e a quel punto la gara finisce.

La donna anziana che insegna ai bambini corregge i dettagli

dell’intonazione, gli sfasamenti ritmici che si sovrappongono per errore e le incoerenze ritmiche esattamente come farebbe un maestro di coro occidentale40.

40 J. Nattiez, Music and Discourse: Toward a Semiology of Music (Musicologie générale et sémiologue), Christiane Bourgois Editeur, Parigi, 1987, pp. 56-58.

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Africa

Gli Xhosa sono un gruppo etnico di origine Bantu, provenienti dall’Africa centrale e attualmente presenti nella parte sud-orientale del Sudafrica, soprattutto nella provincia di Eastern Cape (Fig. 8). Sono il gruppo etnico più numeroso in Sudafrica dopo gli Zulu. La lingua xhosa fa parte del gruppo delle lingue bantu.

Gli Xhosa sono parte del gruppo Nguni meridionale che migrò verso sud dalla regione dei Grandi Laghi, stabilendosi nel sudest del Sudafrica. Prove linguistiche e archeologiche suggeriscono che siano arrivati in Sudafrica circa 1500 anni fa (Fig. 9). Tecnicamente, gli Xhosa furono originariamente un clan, e presero il nome dal leader di tale clan, uXhosa. La loro parola per riferirsi al proprio gruppo è amaXhosa e chiamano la loro lingua isiXhosa. Il nome “Xhosa” viene talvolta usato per indicare un qualsiasi gruppo di lingua Xhosa (per esempio Pondo, Thembu e Mfengu) sebbene questi non appartengano al clan originario degli Xhosa o a gruppi derivati da esso.

Fig. 8

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Fig. 9 Gli Xhosa sono sempre stati caratterizzati da una notevole

apertura nei confronti di altri gruppi culturali; sono buoni commercianti e hanno instaurato rapporti stretti con tutte le popolazioni con cui sono venuti in contatto. Interi gruppi Khoi e Griqua sono stati “assorbiti” nella comunità Xhosa, e la lingua Xhosa moderna include molti termini Khoisan.

Il contatto con i coloni bianchi avvenne dalle parti di Somerset East, nei primi anni del XVIII secolo. Nello stesso secolo, a causa di una disputa fra due capi sui diritti di successione, gli Xhosa si divisero in due gruppi, noti come Gcaleka e Rharhabe o Ngqika.

Verso la fine del Settecento, i trekboer che stavano migrando a est dalla Colonia del Capo si scontrarono con i pastori Xhosa nei pressi del Great Fish River. La disputa per il terreno diede inizio a un secolo di combattimenti fra la Colonia e gli Xhosa, le cosiddette Guerre di Frontiera del Capo. Fra il 1811 e il 1812, dopo che la Colonia del Capo passò sotto il controllo britannico, gli Xhosa furono scacciati verso est (ma gli scontri con la Colonia, in continua espansione, continuarono fino alla seconda metà del secolo).

Negli anni che seguirono, gli Xhosa subirono anche la pressione dei gruppi Zulu e Nguni che stavano spostandosi verso sud e verso ovest nel contesto del processo di “diaspora” africana noto con il nome di mfecane. La situazione fu aggravata dalla carestia e dalle turbolenze politiche e sociali interne causate dalla strage del bestiame voluta dalla “profetessa” millennialista Nongqawuse (1856). Tutti questi fattori contribuirono al collasso di gran parte dell’economia agricola e pastorale Xhosa, e alla transizione forzata di questo popolo verso un sistema economico basato sul salario. A causa di questa serie di eventi, gli Xhosa sono il popolo africano con la più lunga tradizione sindacale e politica in assoluto. Non casualmente proprio questo gruppo etnico ha espresso personaggi politici come Nelson Mandela e gran parte della leadership dell’ANC.

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Il sistema politico dell’apartheid e dei bantustan tentò di confinare gli Xhosa in quelle che furono riconosciute come loro “homeland”, il Transkei e il Ciskei, oggi parte della Provincia di Estern Cape. Nel Sudafrica moderno vivono 8.000.000 di Xhosa, distribuiti in gran parte del Paese ma ancora concentrati soprattutto nell’Eastern Cape.

Le comunità tradizionali Xhosa si trovano sulle pendici dei monti Amatola e Zinterberg, in un territorio attraversato da molti ruscelli che vanno a confluire nei grandi fiumi come il Kei e il Fish River. Il terreno fertile e le abbondanti precipitazioni rendono questa zona ottima per l’agricoltura e l’allevamento; fra le coltivazioni tipiche degli Xhosa si possono citare sorgo, mais, zucche, fagioli, ortaggi e tabacco.

Il gruppo Xhosa è il secondo gruppo linguistico del Sudafrica. La lingua xhosa contiene alcuni dei “click” tipici delle lingue khoisan. I “click” principali della lingua xhosa sono tre, rappresentati spesso con le lettere “C”, “Q” e “X”. Il suono C o “click davanti” si ottiene facendo un leggero sorriso, appoggiando la lingua dietro i denti e tirandola giù di scatto. Il suono Q o “click sopra” si ottiene formando una “O” con la bocca, appoggiando la lingua al palato e poi tirandola giù di scatto. Il suono “X” o “click laterale” si ottiene tirando giù la lingua dal palato contemporaneamente verso l’interno e verso il basso.

La cultura tradizionale degli Xhosa sopravvive oggi soprattutto nelle campagne; negli elementi fondamentali, essa è equivalente a quella degli altri popoli del gruppo Nguni come Zulu, Ndbele e Swazi. Ogni nucleo familiare ha un proprio villaggio, dotato di un orto e un recinto per il bestiame, ed è governato da un capofamiglia. La ricchezza della famiglia si conta in capi di bestiame; nel conteggio però vengono incluse le donne da marito, perché l’acquisto di una moglie costa allo sposo un certo numero di capi.

La religione tradizionale Xhosa è animista; attorno al dio della creazione, uDali o Tixo, si sviluppa un complesso olimpo di spiriti, benevoli e malevoli. Il rapporto fra lo Xhosa e il divino è mediato da diverse figure di “sacerdoti”: i sangoma sono streghe o stregoni, depositari della magia (suddivisa in magia bianca e magia nera) e capaci di divinazione; gli igqirha sono guaritori, molto importanti per contrastare i malefici dei sangoma; e infine gli ixhwele sono erboristi, depositari della medicina tradizionale Xhosa. In tutti e tre i tipi di figure le donne sono preponderanti; trascorrono 5 anni come apprendiste prima di diventare indipendenti. Una percentuale significativa della popolazione Xhosa è cristiana, soprattutto devoti di “Chiese Iniziate Africane” come la Chiesa Cristiana di Sion.

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Fra i riti religiosi tradizionali degli Xhosa sopravvissuti fino a oggi c’è la circoncisione dei maschi nell’età della pubertà. I ragazzi che la subiscono si cospargono il corpo di argilla bianca e si ritirano dal villaggio, in modo da non poter essere visti (soprattutto dalle ragazze). L’operazione viene eseguita dagli stregoni senza alcun tipo di precauzione medica o igienica, ed è spesso causa di infezioni anche gravi; le autorità sudafricane stanno facendo pressioni sugli Xhosa perché acconsentano a usare attrezzature sanitarie moderne per questo antichissimo rito.

La tradizione orale Xhosa è tramandata dagli iimbongi (singolare imbongi), o “cantanti di lodi”. Tradizionalmente, gli iimbongi vivono vicino al capo del clan e lo accompagnano nelle occasioni importanti (l’imbongi Zolani Mkiva precedeva Nelson Mandela nella cerimonia di inaugurazione della Presidenza nel 1994). Le poesie degli iimbongi tradizionalmente elogiano le qualità e le imprese del leader Xhosa, ma possono anche contenere critiche aperte; in qualche modo, la figura dell’imbongi può essere paragonata a quella del menestrello delle corti occidentali41.

Gli Xhosa sono celebri per le decorazioni in perline colorate dei loro abiti; i colori usati e il disegno complessivo distinguono i vari clan.

La popolazione di origine Bantu dei Xhosa hanno uno stile di canto armonico, detto eefing. Esso consiste nel produrre due note separate, mentre ipertoni vengono amplificati simultaneamente. È una tecnica di canto utilizzata per cerimonie tradizionali in cui si sviluppa una specie di “dialogo” tra gruppi diversi di cantanti42. Sardegna

Situata strategicamente al centro del mar Mediterraneo occidentale, la Sardegna fu sin dagli albori della civiltà umana un attracco obbligato per quanti navigavano da una sponda all’altra del mare nostrum in cerca di materie prime e di nuovi sbocchi commerciali. Fu così che nella sua storia millenaria ha saputo trarre vantaggio sia dal proprio isolamento, che ha consentito lo svilupparsi della civiltà nuragica, sia dalla propria posizione strategica, ostacolo inaggirabile nella rete degli antichi percorsi.

41 R. Kaschula, The Heritage Library of African People: Xhosa, The Rosen Publishing Group, New York, 1997. 42 M. van Tongeren, Overtone Singing, Fusica, Amsterdam, 2002, pp. 157-159.

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Il risultato è che nel suo antico bagaglio storico si trovano segni di solide culture indigene sviluppatesi praticamente immutate nel corso dei secoli, così come i segni delle maggiori potenze coloniali antiche. Sono ricche le testimonianze di queste presenze disseminate dappertutto lungo l’intera isola, dando luogo ad una storia della Sardegna molto complessa ed articolata. Le prime tracce di presenza umana in Sardegna, risalenti al Paleolitico inferiore, consistono in rudimentali selci, ritrovate nel sassarese, scheggiate in un periodo compreso tra i 500.000 e i 100.000 anni fa dall’Homo erectus per costruire utensili. Per trovare l’Homo sapiens sapiens bisogna risalire a 14000 anni a.C.: gli scavi della grotta di Corbeddu, a Oliena, oltre a delle pietre sbozzate, hanno restituito anche fossili umani. Le testimonianze dell’uomo Neolitico (6000 - 2700 a.C.) sono numerose: i neolitici più antichi incidevano le loro ceramiche con il bordo di una conchiglia, il cardium edule, e la civiltà cardiale si sviluppò fino al 4500 a.C.

La successiva civiltà di Bonu-Ighinu durò fino al 3500 a.C. circa, mentre l’ultimo periodo è caratterizzato dalla civiltà di San Michele che giunse fino al 2700 a.C. I neolitici sardi vivevano all’aperto e in grotte, allevavano bestiame, utilizzavano strumenti in selce ed in ossidiana, coltivavano cereali, cacciavano e pescavano. Conoscevano la tessitura, scolpivano statuine stilizzate raffiguranti la Dea Madre accentuando le forme del seno e del bacino, costruivano ciotole e vasi decorati in vario modo.

Si svilupparono in quel periodo due forme di architettura funeraria: da una parte strutture megalitiche come dolmen e menhir (pedras fittas), dall’altro le domus de janas (casa delle fate o delle streghe), tombe scavate nella roccia che riproducevano l’intera struttura abitativa e nelle quali venivano seppelliti i morti, colorando con ocra rossa il pavimento, le pareti della tomba e anche il corpo del defunto. Nella fase finale del periodo neolitico (fino al 1600 a.C.) si succedono altre due civiltà ceramiche (di Monte Claro e di Bonnanaro), e inizia la lavorazione dei metalli: prima il rame, poi il bronzo.

Quando arrivarono i naviganti Fenici, tra il X e l’VIII secolo a.C., in Sardegna si contavano circa 8000 nuraghi, dalle semplici torri di avvistamento (avamposti ai confini dei territori dei singoli clan) ai castelli veri e propri, con annessi villaggi di capanne (come il nuraghe Santu Antine di Torralba). I Fenici stabilirono colonie un po’ ovunque nel Mediterraneo e arrivarono non come invasori, ma per commerciare. Si stanziarono dapprima in insediamenti temporanei che dovevano servire come magazzini di raccolta di materie prime e i Sardi delle zone costiere pian piano fraternizzarono con loro.

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Meno facile fu il rapporto tra i sardi e i cartaginesi: l’intervento di Cartagine fu dovuto alle pulsioni espansionistiche della città, in piena espansione nel VI secolo a.C. Non è ancora ben chiaro se l’intervento fu giustificato come aiuto alle città fenicie contro i sardi o come sovrapposizione imperialistica ai precedenti insediamenti fenici. Un primo tentativo di conquista cartaginese fu sventato intorno al 535 a.C. dalla vittoriosa resistenza sarda. Ma, dalla fine del secolo, l’Isola sembra entrare nell’orbita dell’egemonia cartaginese. Le città costiere diventeranno presto dei grandi centri urbani, tra i maggiori del Mediterraneo occidentale. Ancora oggi la loro presenza è ben visibile, nonostante le successive sovrapposizioni romane. I centri maggiori furono Karalis (Cagliari, ove si trova la più grande area cimiteriale fenicio-punica del mondo, sul colle di Tuvixeddu, oggi purtroppo sottoposto a pressioni speculative); Nora, Solki (Sant’Antioco, col più grande tophet scavato finora); Tharros. Altri centri importanti furono: Bithia; Neapolis; Othoca (Santa Giusta); Cornus; Bosa.

Per i romani non fu affatto semplice l’occupazione dell’Isola, decisiva fu la battaglia che vide contrapposta Roma alla coalizione sardo-punica capeggiata da Amsicora e Iosto appoggiati da Annibale, il quale inviò in rinforzo suo fratello Asdrubale con un esercito di 10.000 uomini, con esito favorevole a Roma. Dopo la caduta della potenza fenicia e un periodo di convivenza tra le due potenze di allora, Cartagine e Roma, e dopo due guerre puniche, i Romani si impossessarono definitivamente dell’Isola nel 214 a.C. Anche per loro, a un lungo periodo di difficile convivenza con i sardi e con i sardo-punici seguì una graduale integrazione (specie dal I secolo d.C.), comunque questo periodo è caratterizzato da continue rivolte spesso represse nel sangue, testimoniate dagli storici dell’epoca. Quelli che erano stati prosperi centri fenici e punici (come Karalis, Sulci, Nora, Tharros, Neapolis, Bosa) continuarono la loro esistenza romanizzandosi velocemente. Cagliari (Karalis) divenne la capitale della nuova provincia e nel corso dei secoli fu arricchita da molti monumenti, tra i quali l’anfiteatro, utilizzato tuttora. Nel nord venne fondata una colonia romana: Turris Libisonis (l’attuale Porto Torres).

Nella parte settentrionale, un centro importante fu Olbia che durante la permanenza romana fu dotata di piazze e acquedotti ed anche fornita di due complessi termali. Un ritrovamento di particolare importanza, avvenuto nella zona del porto vecchio nel 1999, è stato il recupero di 18 relitti di navi, di cui due dell’età di Nerone. Insieme a Turris Libisonis (Porto Torres) era il centro più importante della Sardegna settentrionale.

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Una lunga strada univa la parte nord al capoluogo (A Karalibus Turrem) attraversando la fertile pianura campidanese. Nel mezzo del percorso si trovava Forum Traiani (Fordongianus), altro importante centro, abbellito nel I secolo d.C. da lussuose terme. La Sardegna divenne un importante granaio di Roma, insieme alla Sicilia e all’Egitto, e prosperò per quattro secoli sotto la sua egemonia, che la segnò indelebilmente, fino alla caduta dell’Impero. Della convivenza con Roma rimane traccia nella lingua sarda, particolarmente vicina al latino volgare da cui emerse.

Alla caduta dell’Impero romano, la Sardegna fu occupata dai Vandali, che mantennero sull’isola un presidio militare per circa ottant’anni fino alla presa di potere dei Bizantini nel 534 d.C. Con loro al potere, le strutture sociali e religiose subirono profonde trasformazioni: per opera di Gregorio Magno si giunse alla conversione degli abitanti delle Barbagie al Cristianesimo.

Pian piano il bizantinismo esercitò il suo influsso nella cultura e nell’arte isolana, creando un forte legame con Bisanzio che servì sicuramente ad impedire l’occupazione longobarda. Ma fu soprattutto in campo religioso che si sentì la sua presenza, con la costruzione di chiese a croce greca, a cupola emisferica – secondo il modello di Santa Sofia a Costantinopoli – e a pianta quadrata, e con l’introduzione nell’Isola del rito bizantino insieme a tradizioni e consuetudini fino ad allora sconosciute. Si affermò in quel periodo il culto dell’imperatore Costantino, in onore del quale si tiene tuttora a Sedilo la cavalcata detta s’Ardia che ricorda le corse dell’ippodromo di Bisanzio.

Col declino dell’impero bizantino, a partire dall’VIII secolo, i Sardi sull’impianto organizzativo bizantino, si dettero un nuovo assetto politico. L’isola fu così divisa in 4 Giudicati, i quali erano indipendenti dall’esterno ma anche fra di loro. I quattro giudicati erano quelli di Torres-Logudoro, di Calari, di Gallura e di Arborea ed erano retti da un “giudice” (judex in latino, judike o zuighe in sardo) con potere sovrano. Amministravano un territorio, chiamato logu, suddiviso in curatorie formate da più villaggi, retti da capi chiamati majores. Parte dello sfruttamento del territorio, come anche l’agricoltura, veniva gestito in modo collettivo, un’organizzazione modernissima per l’epoca.

L’aiuto portato alla Sardegna contro gli Arabi da parte delle flotte di Genova e Pisa, specie dopo il fallito tentativo di conquista dell’isola nel 1015-16 da parte di Mujāhid al-Āmirī di Denia (il Mugetto o Musetto delle cronache cristiane italiche), signore delle Baleari dopo il crollo del Califfato o mayyade di al-Andalus,

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ebbe come conseguenza un crescente influsso delle due Repubbliche marinare.

Barisone I d’Arborea grande stratega sfruttò le dispute tra Genova e Pisa e i nascenti interessi del Regno d’Aragona sulla Sardegna a favore della causa sarda e cercò di unificare i Giudicati sardi sotto un’unica corona. Così con l’appoggio di Genova, chiese e ottenne il titolo nominale di re di Sardegna dall’imperatore Federico I Barbarossa, pagando 4000 marchi d’argento anticipati dai genovesi. Così il 10 agosto 1164 fu incoronato re di Sardegna, nella cattedrale di San Siro a Pavia. I genovesi resisi conto che non poteva restituire subito l’ingente somma, lo tennero prigioniero per sette anni. Tornò in patria nel 1172 cercando di proseguire invano il suo progetto di unificazione, unica possibilità per respingere le pressioni delle potenze straniere che tentavano di impossessarsi dell’Isola.

Lentamente tutti i Giudicati passarono sotto il controllo, formale o pratico, genovese e pisano e successivamente anche catalano-aragonese. Rimase completamente autonomo il Giudicato d’Arborea il cui giudice Mariano IV d’Arborea sconfisse più volte le truppe catalano-aragonesi che tentavano di occupare l’Isola rivendicando il possesso del teorico Regnum Sardiniae et Corsicae, istituito a tavolino da papa Bonifacio VIII e assegnato alla Corona d’Aragona. Nel 1395 la giudicessa-reggente Eleonora d’Arborea emanò la Carta de Logu, simbolo e sintesi di una concezione giuridica totalmente sarda, anche se innestata col diritto romano-bizantino particolarmente innovativa per la cultura europea dell’epoca. La carta comprendeva un codice civile ed uno rurale, per complessivi 198 capitoli, e segnava una tappa fondamentale verso i diritti d’uguaglianza. Questo insieme di leggi rimase in vigore fino al 1827. La storia di Eleonora è caratterizzata dal continuo tentativo di unire il Popolo Sardo e di difendere la propria terra dai continui tentativi di invasione catalano-aragonese, con lei praticamente cessò di esistere il Giudicato d’Arborea, dato che dopo la sua morte nessuno fu più in grado di contrastare efficacemente la potenza iberica.

Nell’ambito cronologico dell’epoca giudicale è necessario menzionare a parte le vicende delle città sarde che si diedero statuti propri, sulla scia dell’esperienza dei comuni maturata sul continente, per lo più su ispirazione di forze politiche e sociali esterne. In particolare due, quella di Sassari e quella di Villa di Chiesa, appaiono rilevanti per l’importanza storica, istituzionale ed economica dei due centri.

Dell’esperienza comunale sassarese (1272 ca. - 1323) restano gli Statuti della città, redatti in latino e in sardo logudorese. Della vicenda di Villa di Chiesa (1258 ca. - 1323), fondata da Ugolino della

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Gherardesca e votata all’industria mineraria argentiera, rimane testimonianza nelle leggi cittadine raccolte nel Breve di Villa di Chiesa (di cui nell’archivio storico della città è custodito un bellissimo originale in pergamena, databile presumibilmente al 1327).

In generale, delle autonomie e dei privilegi cittadini sardi (benché si trattasse di comuni pazionati, ossia sottoposti al controllo di una città egemone, in questo caso Genova e Pisa) rimarrà traccia successivamente nella storia del Regno di Sardegna, allorché alle città emerse dal periodo precedente (alle due sopra citate, bisogna aggiungere: Castel di Calari, Oristano, Bosa, Alghero, Castelaragonese), verranno riconosciuti particolari status giuridici che ne faranno delle città regie, ossia sottratte al dominio feudale e dipendenti direttamente dalla Corona, con propri rappresentanti specifici nel parlamento degli Stamenti (il Braccio reale).

Le città in Sardegna rimarranno a lungo entità socio-politiche alquanto estranee (per non dire ostili) al territorio circostante. Molte di esse, per varie vicissitudini, subiranno una decadenza da cui non sapranno riprendersi che a fatica e solo di recente.

Il Regnum Sardiniae et Corsicae ebbe inizio nel 1297, quando Papa Bonifacio VIII lo istituì per dirimere le contesa tra Angioini e Aragonesi circa il Regno di Sicilia (che aveva scatenato i moti popolari passati poi alla storia come Vespri siciliani). Il Regno di Sardegna fu un’istituzione totalmente estranea alla realtà sarda, tanto che i sardi la combatterono con tutte le loro forze tenendo testa alle forze aragonesi, che rappresentavano paradossalmente il Regno di Sardegna, per circa un secolo. La realizzazione della licentia invadendi così concessa ebbe inizio nel 1323, col re Giacomo II e poté dirsi conclusa nel 1420 sotto Alfonso V d’Aragona. Attraverso varie fasi, la storia del Regno sardo percorre l’ultimo periodo del medioevo e giunge alla sua conclusione tra il 1847 (Unione Perfetta con gli stati di terraferma) e il 1861 (proclamazione del Regno d’Italia).

Discendente dei Giudici d’Arborea, questo feudatario dell’oristanese che si proclamò difensore de Sardi è considerato dalla storiografia una delle figure più significative della lotta indipendentista. La sua vicenda ha inizio quando, intorno al 1477, entrò in conflitto con il viceré aragonese Nicolò Carros. Quest’ultimo si adoperò affinché Giovanni II d’Aragona il senza fede condannasse Leonardo de Alagon per lesa maestà e fellonia. Il feudatario sardo diede così il via ad una vera e propria rivolta dei Sardi contro il “Regno di Sardegna”, che dapprima vide gli aragonesi costretti in assedio nelle due roccaforti di Cagliari e Alghero, ma che alla fine si concluse tragicamente nella battaglia di Macomer con la sconfitta dei ribelli Sardi e con la fuga e successivamente la cattura dello stesso de

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Alagon. Questi morì il 3 novembre 1494 nella prigione valenziana di Xàtiva.

Il periodo che va dagli inizi del XIV secolo a circa la metà del secolo successivo rappresenta per la civiltà occidentale un periodo di transizione dal Medioevo all’età moderna. La società si svincola dai miti e dalle tradizioni medievali e si avvia verso il Rinascimento. Purtroppo, questi cambiamenti non si riscontrano in Sardegna: questo periodo corrisponde infatti all’occupazione aragonese; ebbe inizio nel 1323 - 1324 ed è considerato da molti come il peggiore di tutta la storia dell’isola. Il cammino verso l’età moderna viene bruscamente interrotto e tutta la società isolana regredisce verso un nuovo e più buio Medioevo. Le maggiori cause furono viste nelle continue guerre contro il Regno di Arborea e nel regime di privilegio, di angherie e di monopolio esclusivo di ogni potere, instaurato a proprio favore dai Catalano-aragonesi e poi dagli spagnoli.

Una testimonianza evidente della situazione creatasi è fornita dagli stessi Catalani, che ancora nel 1481 e nel 1511 chiedevano al Re - nel loro Parlamento - la conferma in blocco degli antichi privilegi, ricordando che erano stati concessi «per tenir appretada e sotmesa la naciò sarda» (mantenere bisognosa e sottomessa la nazione sarda). Con il dispotismo e la confisca di tutte le ricchezze si arrestò bruscamente il processo di rinnovamento economico, culturale e sociale che i giudicati e il Regno di Arborea, avevano suscitato tra l’ottavo e il quattordicesimo secolo.

In realtà gli aragonesi non disponevano dei mezzi per una tale invasione e riuscirono solo dopo un secolo di guerre e di sanguinose battaglie ad unificare il Regno di Sardegna e Corsica, che fu composto - per lungo tempo - unicamente dalle città di Cagliari e di Alghero. I due popoli sconteranno duramente - in epoche successive - il loro combattersi accanitamente fino ad annullarsi a vicenda. Sia i sardi che i catalano-aragonesi saranno assorbiti in realtà nazionali sostanzialmente estranee alla loro storia.

Con la riconquista di Granada - il 2 gennaio 1492 - si realizzò pienamente la riunificazione dei regni iberici, assiduamente perseguita da Ferdinando II di Aragona e da Isabella di Castiglia.

Dopo il loro matrimonio celebrato a Valladolid il 17 ottobre 1469, con un accordo conosciuto anche come la concordia di Segovia, nel 1475, i due sovrani avevano giurato di non fondere le due corone in un unico Stato e ciascuna entità conservò le sue istituzioni e le sue leggi. Entrambi infatti si chiamarono: re di Castiglia, di Aragona, di Leòn, di Sicilia, di Sardegna, di Cordova, di Murcia, di Jahen, di Algarve, di Algeciras di Gibilterra, di Napoli, conti di Barcellona, signori di Vizcaya e di Molina, duchi di Atene e di

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Neopatria, conti di Rossiglione e di Serdagna, marchesi di Oristano e conti del Goceano.

In seguito agli aggiustamenti territoriali seguiti alla Guerra di successione spagnola, finita nel 1713, per un brevissimo periodo, tra il 1713 ed il 1718, l’Isola passò agli Asburgo austriaci, dopo il trattato di Utrecht del 1713 che sancì la separazione della Spagna dal suo impero. Filippo V di Spagna nel 1717 occupò Sardegna e Sicilia. Il trattato di Londra del 2 agosto 1718 assegna l’Isola al duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, che l’accettò solo per il relativo titolo regio.

I problemi posti dal banditismo e dalla criminalità rurale spinsero il governo sabaudo a tentare, inutilmente, di cedere l’isola in cambio di qualche altro possedimento. Non riuscendoci, Vittorio Amedeo tenta di risolvere la situazione con una forte azione repressiva, come fa qualsiasi governo di occupazione non gradito dalla popolazione, inviando contingenti militari per tentare di contrastare il problema. Nel 1732 gli successe Carlo Emanuele III, che nel 1738 organizzò insieme al Papa il rientro, su richiesta di quest’ultimi, di un gruppo di pescatori-commercianti liguri originari di Pegli che stavano dal 1540 nella cittadina costiera di Tabarka (è un’isoletta a nord di Tunisi) in Tunisia e li fece trasferire nell’isola di San Pietro, dove venne fondata una cittadina chiamata Carloforte in suo onore, sino all’arrivo dei francesi che l’hanno occupata (1793) e cambiato il nome, al loro rientro dalla spedizione in Egitto.

Nonostante diverse iniziative di ammodernamento, non avvenne però un sostanziale cambiamento della situazione economica della popolazione, soprattutto per la opprimente presenza feudale, sulla quale non si effettuò alcun intervento. Ciò a dimostrare che il governo sabaudo non aveva una decisa volontà di riformare la società sarda, mentre aumentò la pressione fiscale. In questa situazione, la povertà non si riduce ed il malcontento accresce i movimenti di rivolta. Per la prima volta dopo secoli i Sardi decisero di tornare a lottare per conquistare condizioni di vita migliori. Iniziarono continue ribellioni e sommosse che sconvolsero tutta la Sardegna e si accentuarono soprattutto con i grandi moti antifeudali e antipiemontesi del 1783. Nel 1789 numerosi villaggi si rifiutarono di pagare i tributi feudali, provocando un nuovo intervento repressivo, in difesa degli interessi feudali, per riportare con la forza l’ordine. Il movimento di protesta della popolazione cominciò ad avere anche l’appoggio di intellettuali e uomini di cultura, soprattutto dopo il 1789, anche per l’effetto della Rivoluzione Francese.

Dopo la rivoluzione, la Francia repubblicana tenta di diffondere i principi di libertà, fratellanza e uguaglianza in tutta Europa. Nel 1793 la flotta francese agli ordini dell’ammiraglio Truguet

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occupò Carloforte e Sant’Antioco, dove innalzò l’alberò della libertà, sbarcò in territorio di Quartu e attaccò il porto di Cagliari. Con un’abile propaganda, aristocrazia e clero convinsero la popolazione della pericolosità di francesi, che indicarono come nemici della religione, violenti e schiavisti. La propaganda ottenne il risultato voluto, volontari sardi respinsero le truppe francesi.

Questi episodi di resistenza all’attacco francese, proprio mentre le truppe piemontesi incontravano serie difficoltà sulla terraferma, crearono l’illusione che il governo sabaudo potesse concedere alle classi dirigenti sarde una gestione più indipendente della Sardegna. Vennero mandati dei delegati a Torino per avanzare a Vittorio Amedeo III richieste precise, sintetizzate nelle così dette cinque domande, un vero programma costituzionale. Le quali consistevano nella convocazione del Parlamento mai più convocato dall’arrivo dei Piemontesi, la riconferma degli antichi privilegi dei quali aveva sempre goduto il Popolo Sardo, la nomina negli impieghi civili e militari e nelle cariche ecclesiastiche esclusivamente di sardi, l’istituzione a Torino di un Ministero per la Sardegna e a Cagliari di un Consiglio di Stato per i controlli di legittimità. I delegati vennero tenuti a Torino per mesi, senza ottenere risposte, mentre in Sardegna cresceva la tensione.

Nel 1799 le truppe francesi occuparono il Piemonte costringendo i Savoia a riparare in Sardegna dove rimasero fino al 1814 dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte. Nell’Isola si verificarono timidi tentativi di insurrezione, con Vincenzo Sulis, Gerolamo Podda, Francesco Cilocco e il parroco di Terralba Francesco Corda, che tentarono di proclamare la Repubblica Sarda, ma i rivoltosi vennero uccisi in conflitto a fuoco o condannati a morte. La presenza del sovrano nell’Isola non attenuò il malcontento generale che sfociò nel 1812, in un anno di terribile carestia, nel tentativo di insurrezione noto come la congiura di Palabanda, guidato dall’avvocato Salvatore Cadeddu, che venne stroncato con durezza e si concluse con le esecuzioni di Giovanni Putzolu, Raimondo Sorgia e dello stesso Cadeddu.

I piemontesi erano interessati al più completo controllo del territorio ed allo sfruttamento delle sue ricchezze, risale a questo periodo il disboscamento selvaggio per la produzione di legname. A tale scopo, nel 1820 Vittorio Emanuele I promulgò l’Editto delle chiudende, con il quale autorizzò la chiusura, con siepi o muri, delle terre comuni. Consentì, quindi, per la prima volta nella storia della Sardegna, la creazione della proprietà privata e venne del tutto cancellato il regime della proprietà collettiva dei terreni, che era stata una delle principali caratteristiche della cultura sarda. A ciò si

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aggiunga che la chiusura fu tutta in favore dei latifondisti e degli stessi piemontesi.

Nel 1847 con un atto giuridico venne sancita la fusione perfetta della Sardegna con la terraferma e l’estensione anche all’isola dello Statuto Albertino. Un atto che venne visto come l’ottenimento da parte della Sardegna di parità di diritti con il Piemonte, mentre i diretti interessati, ossia i sardi, non poterono che vederlo come la definitiva cancellazione dei loro valori storici e culturali. Nel 1860 Vittorio Emanuele II tenta di cederla alla Francia, ma poi nel 1861 entra a far parte del Regno d’Italia.

In un certo modo quindi il Regno d’Italia può essere considerato una prosecuzione del Regno di Sardegna, che di sardo nella sua storia ebbe sempre ben poco, e il cui nome ha fatto sorgere una sorta di equivoco storico in quanto alla fine i sardi hanno sempre combattuto contro un regno straniero che portava beffardamente il nome della loro terra.

La Sardegna tra Otto e Novecento è una regione marginale, povera e spopolata del nuovo stato italiano. La modernizzazione forzosa e superficiale e i conflitti commerciali con altri paesi europei (specie con la Francia) ne condizionano pesantemente l’assetto produttivo e sociale. A ciò si accompagna poi il fenomeno del banditismo.

Contemporaneamente tuttavia emergono anche pulsioni ed espressioni culturali al passo con i tempi e di livello assoluto (scrittori, artisti, uomini politici). Le contraddizioni accompagnano tutto l’arco della storia contemporanea dell’Isola, a fasi alterne tra momenti di crisi e momenti di crescita, sia pure problematica.

Nella Grande Guerra i sardi si distinsero in particolar modo con la Brigata Sassari. Alla fine della guerra a causa della mancata risposta dello Stato Italiano alle istanze di sviluppo e di costruzione di infrastrutture dell’Isola fra gli ex combattenti, soprattutto per l’azione politica di Emilio Lussu, nasceranno nuovi fermenti politici che porteranno alla nascita del Partito Sardo d’Azione. Durante il fascismo al fine di incentivare la politica dell’autarchia, saranno realizzate una serie di infrastrutture e di bonifiche di numerose paludi, con l’insediamento di gruppi di coloni provenienti da varie parti d’Italia principalmente dal Veneto. Saranno anche incrementate le attività estrattive e fondate alcune città come quella mineraria di Carbonia e quelle agricole di Mussolinia rinominata nel dopoguerra Arborea e di Fertilia.

Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, parallelamente alla Costituzione repubblicana italiana, viene

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promulgato lo Statuto di autonomia della nuova Regione sarda, una delle cinque a statuto speciale previste nel nuovo ordinamento statale.

Il dopoguerra, caratterizzato dalla battaglia vinta contro la malaria e dalle richieste e rivendicazioni di condizioni economiche migliori, vede da un lato l’imporsi delle servitù militari (come pegno agli assetti geopolitici internazionali cui l’Italia deve far fronte), dall’altro la politica dei così detti Piani di Rinascita, misure legislative speciali per il finanziamento dell’industrializzazione della Sardegna.

L’indipendentismo che per molti anni era limitato ad una esigua élite di intellettuali come l’architetto Antonio Simon Mossa, nei primi anni 1970 si materializza in un movimento culturale e politico. Nel 1973 nacque il movimento Su Populu Sardu, fondato fra gli altri da Angelo Caria. Da questo, nei primi anni 1980, a seguito di una scissione nascerà il Partidu Sardu Indipendentista, che nel 1994, con il contributo dello stesso Caria, darà vita a Sardigna Natzione. Nel 2001 a seguito di una rottura all’interno del movimento fu fondato da Gavino Sale l’iRS (indipendèntzia Repùbrica de Sardigna), che eleggerà lo stesso Sale nelle elezioni provinciali di Sassari del 2006.

Alla fine del XX secolo, la Sardegna, come regione dello Stato italiano, risulta attestarsi a mezza via tra le regioni a più alto reddito annuo pro capite del nord peninsulare e quelle meridionali a reddito pro capite più basso. Altri indicatori ne sanzionano gli innegabili progressi sia economici, sia sociali, ma non annullano le obiettive difficoltà di crescita e di sviluppo ancora presenti.

Negli anni più recenti, l’espansione delle nuove tecnologie e il miglioramento dei collegamenti con l’esterno (specie quelli aerei, grazie alle compagnie c.d. low cost) sembrano tendere ad attenuare l’insularità. Caratteristica della quale viene troppo spesso dato peso agli aspetti negativi e svalutati gli aspetti positivi, tanto da considerare la Sardegna regione marginale quando in realtà si trova al centro del Mediterraneo occidentale.

Il canto a tenore (chiamato in sardo su tenore, su concordu, su

contratu, su ‘Ussertu o s’agorropamentu e non “canto a tenores”) è uno stile di canto che ricopre un ruolo importante nel panorama delle tradizioni sarde, sia perché espressione artistica di pura matrice isolana, esente da condizionamenti o influssi esterni, sia perché espressione sociale dell’idilliaco mondo agro-pastorale, strato sociale che simboleggia l’Isola sotto ogni punto di vista, e sul quale il popolo sardo ha radicato le proprie origini.

Il Canto a tenore è stato inserito dall’UNESCO tra i Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity e perciò proclamato “Patrimonio intangibile dell’Umanità”.

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Il canto a tenore è una forma polivocale a quattro parti, tipica della Sardegna centro settentrionale43 (Fig. 10). Ogni parte deve esser eseguita da un solo cantore di sesso maschile. Poiché in nessun caso una parte può essere raddoppiata, il gruppo a tenore è composto rigorosamente da quattro elementi. L’impianto formale del canto a tenore può essere definito sostanzialmente come un “canto ad accordo”, cioè una linea melodica, eseguita da un solista, sa ‘oghe (la voce), viene accompagnata da accordi realizzati dagli altri tre cantori (Fig. 11).

Fig. 10 Fig. 11

Sa ‘oghe, il leader del gruppo, ha il compito, oltre che di

eseguire il testo verbale, anche di condurre il canto determinandone l’intonazione, l’andamento, la velocità, la durata e gli spostamenti tonali. Le altre parti vengono di solito chiamate: su bassu, sa contra e sa mesu ‘oghe.

Su bassu, la parte più grave, intona, ribattendola

continuamente, un’unica nota all’ottava inferiore rispetto alla nota cardine della melodia di sa ‘oghe, determinando la fondamentale dell’accordo. Nei rari casi in cui questa intoni diverse note, come nei muttos di Dorgali, il suo movimento è comunque legato a quello delle altre parti; in questo modo su bassu definisce comunque la nota fondamentale dell’accordo. Il suo ruolo è indispensabile per dare solidità alla struttura armonica e a quella ritmica.

43 M. Agamennone, Polifonie, a cura di, Bulzoni, Roma, 1998.

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Sa contra, intonata una quinta sopra su bassu, esegue, anch’essa salvo rare eccezioni, un’unica nota ribattuta. Bassu e contra assieme costituiscono l’ossatura ritmico-armonica su cui si muovono le altre due voci.

Sa mesu ‘oghe, relativamente più libera rispetto alle precedenti,

si muove al di sopra di sa ‘oghe e ha il compito di fiorire e colorire il canto e di completare la struttura armonica formata rigorosamente da accordi maggiori. Le tre parti che accompagnano sa ‘oghe eseguono una base ritmico-armonica pronunciando sillabe non-sense che variano da zona a zona (bim-bò, bim-bam-bò, ecc.). L’etnomusicologo Pietro Sassu, è stato il primo ad avanzare l’idea che il gruppo di canto a tenore non costituisca un coro, bensì un’”integrazione tra quattro solisti”44, poiché, nonostante si cerchi costantemente l’omogeneità e la fusione, ogni componente approccia la propria parte in modo personale e con una certa libertà di variazione: l’obbiettivo è la fusione di quattro individualità e non di una anonima sovrapposizione di suoni.

Per definire il gruppo dei quattro cantori o il modo di cantare, il

termine tenore (al singolare per indicare l’insieme) o tenores (i componenti) è certamente il più diffuso, anche se in alcuni paesi se ne utilizzano altri come su cuntrattu (a Seneghe), su cussertu o su cuncordu (a Fonni); a seconda dei paesi inoltre, questi termini indicano a volte l’insieme dei quattro cantori, a volte soltanto il coro dei tre elementi che accompagna il solista.

Una delle peculiarità che rende maggiormente riconoscibile e caratteristico il canto a tenore è il particolare timbro di bassu e contra.

Queste due parti utilizzano infatti un timbro gutturale, ottenuto sfruttando in modo particolare le risonanze della cavità orale e di quella nasale.

Quello delle origini del canto a tenore è uno degli argomenti più incerti e più discussi tra gli studiosi. Una delle tesi più in voga, certamente la più poetica ma difficilmente assumibile scientificamente, sostiene che il canto a tenore sia nato in tempi remoti tra i pastori sardi nella solitudine delle campagne; su bassu riprodurrebbe, per imitazione, il muggito del bue, sa contra il belato della pecora e sa mesu ‘oghe il suono del vento. Indicazioni diverse vengono date dall’etnomusicologo Ignazio Macchiarella il quale, studiando l’intrecciarsi nel tempo della tradizione scritta con quella orale per quanto riguarda la pratica del canto ad accordo o 44 P. Sassu, La musica di tradizione orale, in M. Brigaglia, La Sardegna, a cura di, Della Torre, Cagliari 1982, vol. 2, pp. 140-148.

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falsobordone (sostanzialmente un impianto accordale del tutto corrispondente a quello del tenore), arriva alla conclusione che questa forma polivocale non sia attestabile prima della fine del quindicesimo secolo45. A oggi gli studi non permettono di andare oltre; non sappiamo quando sia nato il canto a tenore ma con molta probabilità alla fine del Quattrocento era già presente.

Per una conoscenza più completa del canto a tenore, sono di particolare interesse gli aspetti cinesici e prossemici, legati cioè alle posizioni reciproche, alle distanze e alla gestualità dei quattro componenti durante il canto. Chiunque abbia visto un gruppo cantare a tenore non può non aver notato la particolare disposizione dei cantori che si chiudono a cerchio e stanno vicinissimi, spesso a contatto diretto l’uno con l’altro. Questa vicinanza è certamente funzionale al canto e alla reciproca intonazione delle voci. Risultano comunque chiaramente evidenti anche le diverse valenze simboliche che può assumere questa figura geometrica e del senso di chiusura, di perfetta armonia e di completezza che trasmette. Anche in questo caso ogni paese ha una sua tradizione specifica: in alcuni centri come Fonni, su bassu sta di fronte a sa ‘oghe, mentre la posizione di contra e mesu ‘oghe può variare a seconda dell’abitudine dei diversi gruppi; in altri centri come Seneghe, partendo da sa ‘oghe e procedendo in senso orario la disposizione sarà ‘oghe, bassu, mesu ‘oghe e contra. Oltre alla posizione reciproca dei cantori e alle distanze ravvicinate è interessante prestare attenzione alla particolare gestualità del canto a tenore in cui il movimento è minimo: se non fosse per l’inevitabile modificarsi delle espressioni del volto durante il canto, anch’esse ridotte all’essenziale, i cantori resterebbero perfettamente immobili. Un altro elemento che può colpire chi assiste alla performance di un gruppo a tenore, è il fatto che alcuni componenti del coro tengono la mano a conchiglia poggiandola sull’orecchio di modo che, a mo’ di risuonatore, convogli nell’orecchio il suono che fuoriesce dalla bocca.

Oggi il canto a tenore ha pressoché perso le sue funzioni all’interno della comunità, laddove fino a pochi decenni fa era un canto di aggregazione sociale; ogni occasione in cui più persone si incontravano per stare assieme era un’ottima occasione per cantare: dal semplice incontro quotidiano nella bettola (su zilleri) dopo una giornata di lavoro, al momento di massima aggregazione della comunità paesana: la festa. I brani più lenti, spesso con ritmo libero come ad esempio boghe ‘e notte, non hanno una funzione ben precisa; vengono utilizzati genericamente per mettere in musica dei testi poetici o, in alcuni casi, per cantare le serenate. Una funzione ben 45 I. Macchiarella, Il falsobordone fra tradizione orale e tradizione scritta, Libreria Musicale Italiana, Roma, 1995.

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precisa hanno invece i canti a ballo, fondamentali per l’accompagnamento dei ballerini durante le feste46. Il canto a tenore, e in alcuni casi il canto monodico, sono stati l’unico accompagnamento al ballo fino alla fine del diciannovesimo secolo, periodo in cui giunsero in Sardegna prima l’organetto diatonico e poi la fisarmonica che affiancarono, e in alcuni casi sostituirono, le launeddas nella parte meridionale dell’Isola e i tenores in quella centro settentrionale. In alcuni centri si tramanda, per il canto a tenore, un repertorio religioso utilizzato durante le processioni e più raramente durante la messa. Questo repertorio si differenzia da quello profano, oltre che per il testo di tipo devozionale e per il modulo tipicamente religioso dei gosos cantato da sa ‘oghe, anche per il fatto che il coro, invece che eseguire le caratteristiche sillabe non-sense, canta una parte del testo.

A seconda dell’elemento preso in esame è possibile suddividere i brani del repertorio del canto a tenore in diversi modi. Una possibile distinzione, basata sulla funzione del canto, è quella tra repertorio con testo a carattere religioso da un lato e profano dall’altro. Il primo, anche se meno rilevante rispetto al secondo, è certamente di notevole interesse dato che in alcuni centri mantiene ancora oggi la sua funzione originaria. Questi brani vengono eseguiti in chiesa in particolari momenti dell’anno liturgico (Natale, Pasqua o festa patronale) oppure durante le processioni religiose per le vie del paese. Appartengono a questo repertorio i gosos e alcune ninne nanne dedicate al bambino Gesù.

Il repertorio profano può essere ulteriormente suddiviso in brani a ritmo libero e balli, a cui si possono aggiungere i muttos. I brani a ritmo libero sono caratterizzati da una maggiore lentezza, dalla mancanza di un riferimento ritmico costante, da una più chiara scansione del testo e dalla minor frequenza di sovrapposizione tra solista e coro. Alcuni dei moduli riconducibili a questo primo gruppo prendono il nome di boghe ‘e notte, pesada, istérrida, lestra, ecc. Nei canti a ballo, ritmicamente più marcati, l’attenzione è rivolta principalmente all’aspetto ritmico, in modo da fornire un valido supporto per i danzatori; le sovrapposizioni tra solista e coro sono più frequenti e molto spesso il testo svolge una funzione secondaria. A seconda della zona di provenienza e del tipo di passo eseguito dai ballerini, questi brani prendono differenti nomi, come ad esempio ballu seriu, ballu sartiu, ballu ‘e cantidu, ballittu, ecc. Il modulo dei muttos, caratterizzato da una ben definita alternanza tra

46 B. Bandinu, A. Deplano, V. Montis, Ballos, Frorias, Cagliari, 2000.

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solista e coro, prende il nome e mette in musica la tipica forma della poesia sarda in metro settenario47.

Per i testi eseguiti dai gruppi a tenore la lingua più diffusa è il sardo logudorese. Nei paesi in cui la variante dialettale si differenzia dal logudorese spesso si utilizzano entrambi gli idiomi. Il logudorese è la lingua nella quale hanno scritto i maggiori poeti sardi (tra i più cantati a tenore ricordiamo Paolo Mossa, Pietro Pisurzi, Melchiorre Murenu e Peppino Mereu), mentre la variante linguistica locale è utilizzata o per componimenti di poeti locali, o per cantare testi di tradizione orale tipici della zona di appartenenza. I temi trattati nei testi sono di diverso genere tra cui prevalgono quelli di carattere amoroso e satirico. Quando un testo letterario viene cantato non sempre si rispetta esattamente la versione scritta, infatti spesso avvengono delle modificazioni: il testo si piega alle esigenze della musica nel caso in cui questa necessiti della ripetizione o della frammentazione dei versi. Esempi di questo tipo di elaborazione estemporanea sono chiaramente evidenti nei balli48.

Il canto a tenore è caratterizzato da una forte dicotomia tra omogeneità del genere e specificità locali. L’omogeneità è evidente in quei caratteri, comuni a tutti i paesi, che permettono di identificare immediatamente un gruppo a tenore: quattro uomini che cantano chiusi in cerchio, i caratteristici timbri gutturali di bassu e contra, l’alternanza del solista che canta il testo e del coro che risponde con gli inconfondibili “bim-bam-bò”. Approfondendo il livello di analisi si riscontrano diverse analogie anche nel repertorio, infatti, a parte le dovute eccezioni, in tutti i paesi esistono uno o più balli, sa boghe ‘e notte, i muttos, ecc. A questa omogeneità si contrappone però una forte specificità locale che differenzia gli stili di canto tra zona e zona e addirittura tra paese e paese. Scrive Bernard Lortat-Jacob, etnomusicologo francese che ha dedicato diversi studi alla Sardegna, che in quest’Isola “l’esotico non è lontano: inizia già nei paesi vicini”49. Questa iperspecificità locale è facilmente riscontrabile nei costumi, in alcuni caratteri linguistici, nel ballo e ovviamente nella musica. Il repertorio del canto a tenore riesce a conciliare queste due tendenze apparentemente opposte in maniera chiaramente percepibile: con un po’ di esperienza diviene immediato il riconoscimento di un canto a muttos a prescindere dal paese di appartenenza, ma con un

47 D. Carpitella, P. Sassu, L. Sole, La musica sarda. Canti e danze popolari, libro allegato all’omonima antologia in tre dischi, a cura di, Albatros VPA 8150-52, Pieve Emanuele (Milano), 1973. 48 A.M. Cirese, Ragioni metriche: versificazione e tradizioni orali, Sellerio Editore, Palermo 1988. 49 B. Lortat-Jacob, Polyphonies de Sardaigne, Booklet allegato all’omonimo cd, Le chant du monde LDX 274 760, 1992. Musiche in festa. Marocco, Sardegna, Romania, Condaghes, Cagliari, 2001.

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ascolto più approfondito ci si rende conto che i muttos di un paese si differenziano sempre, per alcuni particolari più o meno spiccati, da quelli del paese vicino.

Il canto a tenore è oggi un fenomeno vitale che certamente non rischia l’estinzione, grazie soprattutto al sempre maggiore interessamento da parte dei giovani che si avvicinano a questo mondo con rispetto e dedizione. Il fatto che il fenomeno sia vitale non significa però che il repertorio del canto a tenore, e tutti gli aspetti ad esso correlati, non siano mutati nel tempo. A partire dagli anni Settanta, periodo in cui, a livello nazionale, si sviluppò quel fenomeno noto come folk revival, numerosi furono i cambiamenti nella pratica del canto a tenore. Il più evidente fu la nascita di gruppi stabili, conseguenza della diffusione di spettacoli in cui il gruppo di un paese veniva chiamato in altri centri per esibirsi sui palcoscenici. Ulteriori cambiamenti furono dovuti alla diffusione delle registrazioni discografiche. La formazione di gruppi stabili, assieme alle esigenze di spettacolo e discografiche, portarono delle inevitabili modificazioni nel repertorio: da un lato una maggior qualità esecutiva, visibile soprattutto nella più accurata intonazione e sincronia degli attacchi del coro; dall’altra una maggior cristallizzazione delle forme. Questi inevitabili mutamenti in ogni caso non tolgono prestigio ad un sistema musicale dove ancora oggi è lasciata ampia libertà all’interno dei tradizionali modelli esecutivi. Oggi il canto a tenore nutre numerosi consensi non solo tra studiosi e appassionati, ma anche tra il grande pubblico ed in contesti internazionali50.

Uno dei cori con il quale sono entrato in contatto diretto, è quello della città di mia madre, il “Coro Matteo Peru”51: è stato un ritorno alle radici, visto che nella prima formazione cantava anche il mio tr.is-nonno Pietro Sanna.

Le origini del coro di Aggius, così si chiama il paese della mia famiglia materna, si perdono nella notte dei tempi. Il grande poeta pescarese Gabriele D’Annunzio lo definisce “antico quanto l’alba”, espressione che sta ad indicare origini molto lontane riferibili ai primordi, all’alba della polifonia, del canto a più voci nato durante le cerimonie religiose sulla base dei canti gregoriani. Ma della presenza di un coro ufficiale in paese si ha notizia soltanto alla fine del diciannovesimo secolo. Buio assoluto sul periodo precedente. Si può ipotizzare che si cantasse già da molto tempo prima (qualcuno propone addirittura il quattordicesimo secolo), durante le funzioni 50 A. Deplano, Tenores. Canto e comunicazione sociale in Sardegna, Edizioni AM&D, Cagliari, 1997. 51 http://www.coromatteoperu.it/

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sacre in modo particolare quelle della Settimana Santa, nelle feste campestri, nei banchetti nuziali, durante il lavoro dei campi. Ai cantori poi era affidato il compito, prima della comparsa dell’organetto, di segnare il ritmo dei balli tradizionali che si ripetevano in paese con cadenza settimanale.

Il primo coro di Aggius, così lo chiameremo in quanto non si ha nessun tipo di documentazione né scritta né orale riguardo ad altri precedenti cori, era composto da:

• Francesco Aunitu, bozi ; • Giorgio Spezzigu, tippi ; • A. Pietro Cannas, contra ; • Pietro Sanna, bassu ; • Pietro Paolo Peru, falzittu. Fu l’etnomusicologo Gavino Gabriel a scoprire il profondo

messaggio che emanava da queste arcaiche melodie e fu lui che le fece conoscere in tutta Italia portando il coro di Aggius nelle principali città della penisola e offrendo dei concerti che egli stesso presentava ed illustrava al pubblico. Il secondo coro di Aggius era formato da:

• Giuseppe Andrea Peru, bozi (sostituiva Francesco Aunitu); • Giorgio Spezzigu, tippi; • A. Pietro Cannas, contra; • Pietro Sanna, bassu; • Salvatore Stangoni, falzittu (sostituiva Pietro Paolo Peru).

Il secondo coro continuò la tournée del primo e fu ospite di

Gabriele D’Annunzio, nella sua villa chiamata “Il Vittoriale degli italiani”. Il poeta rimase profondamente impressionato da queste melodie e dai cantori che portavano dentro di loro il sentimento primitivo e vergine del popolo sardo, il soffio del maestrale, il sapore del mare incontaminato e il profumo intenso del mirto, del rosmarino, del ginepro, del lentischio. Li trattenne alcuni giorni e, al momento del congedo, si fece promettere che sarebbero tornati nella sua villa. A Giuseppe Andrea Peru, da lui definito “Gallo di Gallura”, mandò in seguito, sempre nello stesso anno (1927) una bella lettera soffusa di nostalgia e di desiderio di pace da trovare in “un bosco di sòveri” dei monti di Aggius, alla quale erano allegate delle sciarpe di lana “per preservare le vostre gole”. Con Matteo Peru, a partire dagli anni cinquanta, il coro di Aggius raggiunse il massimo splendore. La formazione base era la seguente:

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• Nanni Peru, bozi; • Matteo Peru, bozi, tippi e bozi solista; • Tonino Cassoni, contra; • Bacciccia Muzzeddu, bassu; • Andreino Biancareddu, falzittu. Più tardi subentrò come contra Tonino Carta, al posto di Tonino

Cassoni e come bassu, al posto di Bacciccia Muzzeddu, Ivo Biancareddu che si alternava col fratello Luciano.

Il coro di Matteo Peru ebbe occasione di girare il mondo: era richiesto in tutta Italia e nella maggior parte delle nazioni europee, arrivando a oltrepassare i confini del vecchio mondo con una serie di concerti in Africa (Egitto).

Quasi contemporaneamente al coro di Matteo Peru, nasce quello diretto dal galletto di Gallura, Salvatore Stangoni, la cui iniziale formazione era la seguente:

• Salvatore Stangoni (Balori Stangoni), bozi e falzittui; • Francesco Cossu (Ciccheddu), tippi; • Pietro Carta (Mascioni), contra; • Salvatore Cassoni (Balori Cascioni), bassu. Anche il coro di Stangoni ebbe modo di farsi conoscere in

alcune città italiane, soprattutto al seguito dell’attore Dario Fo52. Dopo un periodo di stasi dovuto, più che altro, all’inesorabile

azione del tempo che ha visto decadere o morire molti dei componenti dei vecchi cori, nasce, nel 1995, il nuovo coro che, sotto la supervisione di Matteo Peru, allora più che ottuagenario ma ancora ottimo maestro, ripropone le antiche melodie nel rigoroso rispetto delle tradizioni:

• Giuseppe Peru, bozi solista e falzittu: • Giannetto Bianco, bozi; • Tonio Peru, tippi; • Andrea Biancareddu, contra; • Tonello Peru, bassu. Ed è proprio questa ultima formazione che ho avuto la fortuna

di incontrare qualche anno fa in Sardegna, in una notte piena di canti e di storie raccontate direttamente dalle loro voci.

52 M. Cappa, R. Nepoti, Dario Fo, Gremese Editore, Roma, 1997, pp. 68-69

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Capitolo IV Interviste ai maestri Riporto di seguito le interviste che ho fatto ai maestri incontrati nel mio percorso di ricerca vocale. Dopo le domande, metterò le risposte ricevute da ognuno di loro.

Quando hai scoperto per la prima volta il canto armonico? Andrea De Luca Ascoltando una registrazione di Hykes, fine anni ‘80, subito dopo “Cantare la voce” di Stratos. (In seguito i lavori di Vetter, quindi l’incontro con Trân Quang Hai all’ inizio del ‘96 e l’ascolto delle registrazioni delle musiche tradizionali). Germana Giannini Ascoltando del materiale di Roberto Laneri e successivamente partecipando ad un seminario con gli Shudè, un gruppo di cantori e musicisti di Tuva. Avevo 25 anni più o meno... Trân Quang Hai Nel 1969 al Dipartimento di Musica del Musée de l’Homme a Parigi dove lavoravo, ho sentito una registrazione audio dalla Mongolia registrata nel 1967 a Ulan Bator dal ricercatore francese, prof. Roberte Hamayon. Non potevo credere che un cantante potesse produrre 2 suoni allo stesso momento. Ma con i risultati di un analizzatore acustico, ho potuto vedere due distinte linee rinforzate: una era la fondamentale e la seconda erano i differenti armonici che creavano una melodia della parte superiore. Marco Tonini Ne sentii parlare alla fine degli anni ‘80. Quanto ha contribuito studiare il canto armonico con una persona in carne ed ossa rispetto all’apprendimento tramite fonti sonore e musicali?

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A.D.L. Il primo (e unico, per ora) con cui ho studiato questa tecnica è Trân Quang Hai, che ha un metodo semplice ed efficace di trasmetterne gli elementi fondamentali: lavorare con lui ha rappresentato, per me, un contributo decisivo per stabilire con precisione quali sono i movimenti fisici necessari per produrre determinati suoni. Le fonti consentono di confrontarsi con gli stili e la sensibilità melodica delle tradizioni musicali in questione, si può anche arrivare ad una buona realizzazione imitativa, ma il contatto diretto mi sembra l’esperienza migliore. G.G. Ha contribuito enormemente. Per me ascoltare il corpo del cantore è fondamentale ma mi rendo conto che non è per tutti così, dipende dalla propria sensibilità. In particolar modo aver ascoltato un cantore di armonici standogli accanto è stata una vicenda percettiva per me molto forte. Sentire le diplofonie in modo così sensibile ed evidente è stata un’esperienza che mi ha fatto ancora di più capire quanto il corpo possa essere in grado di creare sonorità veramente spettacolari, e ciò che per una cultura è familiare può essere totalmente inedito (e quindi in-audito) in un’altra... T.Q.H. Non ho avuto un insegnante quando ho imparato il canto armonico. Tuttavia, ho incontrato Mr. Sundui, uno dei più grandi cantanti Mongoli, nel 1984. Mi ha mostrato la vera tecnica del canto armonico della Mongolia. Grazie a ciò, ho migliorato la mia tecnica. L’ascolto di fonti musicali può aiutare a capire la tecnica, ma con l’insegnante, l’apprendimento risulta più efficace, perché può correggere i tuoi errori immediatamente. M.T. Non ne ho idea dato che non ho mai studiato canto armonico con persona alcuna; sicuramente l’ascolto sonoro ha favorito l’approfondimento, ma io sono per la sperimentazione indipendente, e per il confronto inteso come scambio di informazioni, ovviamente. In che misura gli strumenti elettronici ti hanno aiutato nello studio di questa tecnica?

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A.D.L. La possibilità di visualizzare lo spettro frequenziale, per esempio, è di grande aiuto per consolidare la conoscenza della tecnica e per il suo affinamento. G.G. In nessun modo, non li ho mai usati... T.Q.H. L’analizzatore elettronico può facilitare il tuo compito: puoi vedere lo spettro del tuo canto e capire come i tuoi armonici appaiono nello schermo al fine di migliorare il tuo lavoro. M.T. Enormemente, non tanto nel risultato acustico quanto nella crescita di una sempre maggior consapevolezza. Vi sono molti overtone singers che attribuiscono a tale emissione un significato più ludico-estetico, altri più introspettivo. In ogni caso credo che la consapevolezza sia necessaria, e l’analisi spettrografica può aiutare a capire “di fatto” quali aspetti fisioacustici possono essere determinanti. Quali strumenti elettronici e programmi usi per il suo studio? A.D.L. Devo ammettere che il primo analizzatore di frequenza (Frequency Analyzer) che ho usato, pur provenendo da Trân, mi è stato fornito da te! Ora sul web si trovano strumenti di varia complessità, per ogni esigenza di lavoro. G.G. Nessuno. T.Q.H. Ho usato il software “Frequency Analyzer” quando ho iniziato a lavorare con software acustico. Recentemente ho usato il software “Overtone Analyzer” inventato da Bodo Maass e Wolfgang Saus. Overtone Analyzer è un software per chiunque sia interessato al suono o alla musica. Può essere utilizzato come un analizzatore di spettro e un tool visuale di feedback e una visualizzazione interattiva di teoria musicale.

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Originariamente realizzato da e per overtone singer, collega in modo univoco la fisica del suono alla percezione della musica. In particolare, evidenzia il ruolo di armonici naturali o armoniche come un aspetto fondamentale della struttura del suono. Utilizzando Overtone Analyzer si può approfondire la conoscenza del suono e della musica e affinare le abilità percettive. Spectrum Analyzer Al suo interno, Overtone Analyzer ha uno spettro di potenza ad alta risoluzione e visualizzazione di spettrogramma. È possibile registrare e analizzare i suoni in tempo reale, oppure è possibile caricare e visualizzare le registrazioni esistenti. I risultati vengono visualizzati in termini fisici e musicali al tempo stesso. Visual Feedback for Singer Permette di vedere il tono e timbro della tua voce. Misurare la qualità e la coerenza del vibrato. Migliorare la risonanza di controllo di armoniche e formanti. La formazione di feedback visivo può accelerare l’apprendimento di specifiche tecniche vocali, ed è anche divertente. Overtone Analyzer è progettato per registrare lezioni di canto e riprodurle in seguito per la pratica. Instrument Tuner Con Overtone Analyzer, è possibile misurare con precisione l’altezza del vostro strumento. A differenza di un sintonizzatore normale che visualizza semplicemente la frequenza misurata delle fondamentali, Overtone Analyzer permette di sintonizzare il vostro strumento anche per le armoniche superiori, con molta più precisione. Tone Generator Con la sua interfaccia semplice ed intuitiva, Overtone Analyzer consente di configurare facilmente e giocare una qualsiasi combinazione di onde sinusoidali. Questo può essere usato per la taratura e collaudo, ma anche per esperimenti di psico-acustica, come toni di differenza e battiti binaurali. È anche utile per imparare la sequenza armonica di un tono determinato. Physics of Sound

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Overtone Analyzer aiuta a comprendere la struttura fisica del suono e della musica in un intuitivo e visivo. È possibile cambiare all’istante fra spettrogrammi display in scala lineare di frequenza e in scala logaritmica musicale. Consente lo zoom in un brano di musica per vedere le vibrazioni individuale nella visualizzazione della forma d’onda. Music Theory Confronta la sequenza armonica naturale con la scala musicale e permette di saperne di più sul temperamento e accordature. Aiuta a capire i motivi fisici per cui un’ottava e un quinto sono gli intervalli più consoni, e a confrontare gli intervalli di accordature diverse. Psychoacoustics È utile per saperne di più su come l’orecchio e il cervello traducono le onde sonore in arrivo in campo musicale e per svolgere esperimenti per esplorare la percezione uditiva. Overtone Singing Tutti questi aspetti rendono Overtone Analyzer uno strumento perfetto per cantanti overtone che vogliono migliorare la propria tecnica o di pezzi di studio specifico, ampliando la comprensione di questa arte e fornisce un feedback preciso sulle armoniche che vengono cantate. M.T. Mic Samson G Track USB, un vecchio mic da pochi euro, pc, e per l’analisi audio vocale Overtone Analyzer e molti altri free software, Madde, RTSect, SFSWin, RTSpect, VTDemo, Esynth, Esystem, Speech Analyzer, Wave Surfer, e tanti altri. Che senso ha per un occidentale l’apprendimento di questa tecnica? A.D.L. Credo che, anzitutto, rappresenti un grande piacere, fisico ed estetico insieme. È un fine esercizio di ascolto, grazie allo spostamento dell’attenzione dalla fondamentale ai sovratoni armonici. Dà la possibilità di ritrovare, a volte con sorpresa, il libero utilizzo dei risuonatori nasale e faringeo, un tempo patrimonio anche delle nostre tradizioni popolari, sebbene utilizzati con finalità musicali differenti. Infine, esiste, ed è

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ampiamente valorizzata in diversi campi terapeutici, una valenza extra-musicale di questa tecnica: basandosi su emissioni di fiato piuttosto lunghe, accompagnate dalla produzione e dalla percezione di suoni molto acuti, favorisce rilassamento, concentrazione e altre trasformazioni psicofisiche positive. G.G. Ognuno trova il suo personale, diciamo che per me ha una valenza armonizzante lo stato d’animo e non amo cimentarmi in pratiche più tecniche relative ad essa. Noto una differenza molto grande fra l’approccio maschile o femminile a questo canto. Gli uomini se ne interessano molto di più. Ci sono poche “maestre” di canto armonico (io stessa non lo sono, il canto armonico è solo un aspetto dell’interesse vocale che ho e il mio fuoco d’insegnamento si concentra su altri campi canori) mentre ci sono molti maestri di canto armonico, io stessa ne conosco direttamente o indirettamente almeno una quindicina ed ho praticato con 5 di loro. Una differenza enorme d’insegnamento. Ho apprezzato molto l’incontro con i tuvani (molto istintivi e poco capaci di trasmettere una dimensione consapevole della loro vocalità), fantastico il lavoro con Trân Quang Hai che unisce istinto, grande capacità comunicativa e di trasmissione e consapevolezza musicale. Altre figure d’insegnanti non le ho apprezzate affatto: ho incontrato un insegnamento freddo, matematico, con tendenze esoteriche di grande effetto senza però un serio studio a proposito. T.Q.H. L’obiettivo degli occidentali che vogliono studiare canto armonico sono molti e diversi: 1. Imparare il canto armonico per piacere; 2. Applicarlo nella meditazione, nel rilassamento, l’esoterismo,

lo sciamanesimo, nella creazione musicale, e nella musicoterapia.

M.T. Ha senso comunque a prescindere. E poi perchè “per un occidentale”? Spesso si contrappone il throat singing asiatico al canto armonico cosiddetto “occidentale” (western style). Pur condividendo alcuni aspetti tecnici e atteggiamenti del vocal tract, hanno origini e obiettivi differenti. Può un occidentale che non ha seguito un percorso di

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educazione vocale fin da bambino, ricreare gli stessi suoni che si trovano nelle città di origine del canto armonico? A.D.L. Con lo studio si può fare moltissimo, ma ai luoghi appartengono i corpi, le culture, dunque anche le abitudini timbriche, ritmiche, melodiche, che non si possono assumere come si assume un farmaco. Comunque studiando e possibilmente recandosi anche sul posto o lavorando con cantori di tradizione si può fare davvero molto. G.G. Credo che una persona con certe particolarità innate di tipo vocal-creativo e appassionato della ricerca possa avvicinarsi ad una vocalità simile. A me dispiace quando vedo che viene “colto” il canto armonico nel suo aspetto più spettacolare, come un grande effetto, senza capirne le radici della cultura a cui appartiene. Fortunatamente ci sono però anche diverse persone che si dedicano con passione a questo studio che richiede peraltro molta energia, e, torno a dirlo, sono soprattutto maschi. Credo che ciò derivi dalla forza che ha il suono nel corpo vocale maschile che fa risaltare la grande differenza timbrica fra nota di base e risalto degli armonici, una “distanza” vocale particolarmente suggestiva. T.Q.H. Non è la stessa formazione. È possibile produrre armonici, ma non saranno mai come quelli della gente dei luoghi di origine, che spendono anni per impararlo dalla loro infanzia. M.T. Bisogna intendersi su quali siano le zone di origine del canto armonico, comunque certamente si, alcune tecniche si possono assimilare in breve tempo, ma come necessita qualsiasi disciplina vi è poi bisogno di pratica e allenamento per sviluppare e consolidare sonorità e sensazioni propriocettive. Che rapporto c’è fra l’emissione vocale e il suo ascolto? A.D.L. Per il praticante, gradualmente, con una buona pratica del canto difonico, diminuendo l’effetto di mascheramento della fondamentale, l’ascolto si affina sempre di più verso la

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percezione degli armonici e restituisce informazioni preziose per l’emissione sempre più precisa e sicura dei sovratoni. D’altra parte, l’ascolto di un canto, registrato o dal vivo, a causa dell’alta frequenza e di un’impressione di “purezza” dei suoni prodotti, spesso non rende manifesto il rilevante sforzo fisico richiesto all’esecutore nella tecnica detta, secondo la classificazione di Trân, “a due cavità”. G.G. ...difficile da spiegare in poche parole. T.Q.H. Quando si producono armonici, l’effetto è più efficiente perché questi vibrano dall’interno del corpo. Questo modo è molto meglio che ascoltare semplicemente gli armonici. Uno è attivo (dall’interno) e l’altro è passivo (da fuori). M.T. Fondamentale. Per me non ha senso praticare canto armonico ad esempio all’aperto, o in luoghi dove non si ha un ritorno acustico. Se ci si tappa le orecchie risulta impossibile controllare il rapporto F0 e overtones, avvertiremo solo la fondamentale appunto. L’ideale per la ricerca, la sperimentazione e la pratica dovrebbe essere un luogo chiuso e senza riverberazione di dimensioni ridotte, l’abitacolo dell’auto, il bagno, ... Sicuramente, una volta affinata la tecnica, risulta più affascinante esercitarsi in luoghi con un riverbero molto lungo. Perché l’apprendimento del canto armonico può essere importante per un cantante? A.D.L. Parlando di cantanti occidentali, credo possa rivelarsi molto utile apprendere una tecnica fondata su atteggiamenti vocali opposti, come la compressione della fondamentale e l’uso privilegiato dei risuonatori nasale e faringeo. Un ottimo apporto può venire anche dall’affinamento dell’ascolto di cui parlavamo prima e dalla gestione del fiato su emissioni lunghe. G.G. Perché apre l’ascolto e rende più consapevole la ricchezza armonica, appunto, del suono vocale. Inoltre può aiutare a

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tenere sotto controllo la stanchezza di una voce che nel tempo logorandosi può perdere molti armonici. Secondo Thomatis poi, anche lo stato energetico e il sistema neurovegetativo di un individuo sono in stretta relazione con la sua capacità di generare spontaneamente armonici e saperli ascoltare: di tutto ciò a maggior ragione deve esserne consapevole un cantante. T.Q.H. Un cantante che impara a usare il canto armonico è in grado di migliorare la propria voce aumentando i propri armonici. La sua voce è più sonora, più forte, più impressionante per le persone che ascoltano. La sua percezione audio è migliore. Può riconoscere un suono piccolissimo della natura quando cammina nel bosco. Ed è in grado di identificare la sottigliezza della voce della persona che ascolta. M.T. Tale pratica è utile per imparare ad ascoltarsi, per l’intonazione (gli armonici non stoneranno mai in relazione alla frequenza fondamentale, essendo regolamentati da leggi fisio-acustiche), per accrescere la conoscenza di sé e dei propri mezzi e limiti vocali. Maggior controllo e maggior consapevolezza. Che differenza c’è tra il canto armonico riprodotto da una persona che lo impara in età adulta, e una persona che lo impara da bambino? A.D.L. Immagino la stessa (cioè assai grande) che si ritrova in ogni pratica di canto e musicale appresa in età così differenti. G.G. Un bambino lo incarna e lo vive istintivamente, un adulto lo scopre e lo ricrea con una maggior consapevolezza di solito. Cercare di tenere insieme istinto e consapevolezza è una bellissima sfida. T.Q.H. Imparare il canto armonico da bambino è più veloce e più facile perché i bambini non sono disturbati dalla nuova tecnica. Essi possono assimilare cose nuove senza essere confusi da ciò che sanno, come gli adulti. Per ogni disciplina (lingua straniera, canto), i bambini imparano molto facilmente. Gli adulti

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impiegano più tempo per acquisire un nuovo linguaggio, o nuove canzoni, perché sono turbati da ciò che hanno conosciuto prima. M.T. Il vocal tract di un pre-adolescente è di dimensioni ridotte, diventa quindi più difficoltoso, ma non impossibile, ricercare e ottenere armonici ben definiti acusticamente, proprio per la difficoltà della lingua, ad esempio, nel ricreare le due zone formantiche necessarie. Mettiamoci anche una maggior difficoltà nel sensibilizzare, riconoscere e riproporre determinate sensazioni propriocettive. Quanto può influire la conformazione dell’individuo nella emissione degli armonici? A.D.L. Credo che la conformazione e le dimensioni dei risuonatori coinvolti abbiano un ruolo molto importante, ma non attribuisco loro una rilevanza decisiva. Determinano piuttosto la qualità che la possibilità dell’emissione stessa, realizzabile facilmente da chiunque. G.G. Anche questa è una domanda alla quale non è facile rispondere in maniera sintetica... T.Q.H. La forma del corpo non influisce sulle emissioni di armonici. Il principale produttore del suono è la forma dell’interno della bocca (palato, della lingua, della gola). Le popolazioni asiatiche imparano meglio degli occidentali, perché la forma della loro bocca è diversa. La lingua parlata è importante. I latini hanno maggiori difficoltà di apprendimento rispetto agli anglosassoni e ai popoli slavi, a causa della lingua. M.T. Totalmente; differenti conformazioni del vocal tract, ma soprattutto delle due cavità di risonanza preposte grazie all’intervento della lingua (e quindi della sua dimensione ed elasticità), determinano acusticamente il grado di “pulizia” e purezza acustica degli overtones, ammesso che questo sia poi l’obiettivo, per me molto riduttivo, dell’overtone singer.

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* * *

L’intervista che segue all’etno-musicologo Trân Quang Hai è stata fatta da Albert Hera e Raffaella Buzzi nel 2002 a Genova in occasione di un suo stage organizzato dall’Associazione EchoArt. Penso sia molto interessante e quindi la riporto integralmente:

Leggendo nel suo sito e alcune e-mail giunte a noi, ci domandavamo per quale ragione ci sono studiosi che ritengono la sua conoscenza dello stile Kargiraa errata. Può spiegarcelo? Ritengono la mia conoscenza non corretta, perché io canto diversamente. È vero o no che tutte le strade portano a Roma? Per esempio creano il suono in un certo modo (esempio sonoro) e io lo creo in modo differente (esempio sonoro). Sono le aritenoidi a creare la voce patologica. Pensate alle persone malate di aritenoidi (mentre spiega, Trân Quang invita Alberto a toccargli la gola e a sentire le differenze che si creano parlando e cantando usando o non usando le aritenoidi). Non si usano le corde vocali false, ma le aritenoidi. Grazie ad esse si ha un suono molto potente al di fuori. Con questo canto, inoltre, si potrebbero avere molti risultati nella rieducazione della parola di quelle persone che non hanno più la voce. Mentre le persone normalmente non parlano con le aritenoidi, io vi posso dimostrare di saperlo fare. Come fa Popey di Braccio di ferro o Louis Armstrong: questi aveva persino i polipi! (canta come Louis Armstrong). Se sai dov’è la parte che fa vibrare la tua voce puoi trasformarla. Pensate ai Monaci tibetani. Molte persone sono convinte che essi preghino utilizzando i sub-armonici, ma non è vero. Questi monaci pregano con la voce vera e cantano fino a 65-70 hertz.

A questo punto Trân Quang Hai spiega le differenze e modi di utilizzare le scale sugli armonici. Esempio di scala diatonica e scala pentatonica quest’ultima utilizzata dai cantanti della Repubblica di Tuva. Nel primo esempio la scala avviene per progressione fino all’armonico 12° nel secondo si omette l’armonico 11°. Poi evidenzia esempi

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sull’utilizzo del fiato e su come omettere la fondamentale spiegando che il segreto dell’omissione della fondamentale sta nell’apnea...

Quali consigli darebbe a una persona che vuole avvicinarsi al canto e allo studio del canto sia tradizionale che difonico?

Nel canto tutto dipende da quello che si vuole fare. Se si vuole seguire il canto lirico, il canto classico, non bisogna occuparsi del canto difonico, perché quest’ultimo permette di sviluppare gli armonici, completamente estranei alla concezione armonica classica. Introdurre gli armonici nella concezione classica equivarrebbe a rovinare la voce: non si devono cantare o scrivere note che non esistono nelle armoniche classiche. Il canto difonico, invece, è molto utile per quelle persone che vogliono avere una voce più bella; si pensi agli istitutori, agli insegnanti, agli attori di teatro, ai politici, a quelle persone che non sanno parlare. Bisogna lavorare per avere una voce che catturi l’attenzione. La tecnica è per lei una componente fondamentale?

La tecnica del canto difonico mi permette di avere un controllo completo del mio corpo; mi permette di avere una concentrazione e soprattutto di ampliare la mia capacità di meditazione: la meditazione non è altro che fissarsi su una cosa senza pensare a niente altro. Se voi provate a tenere un armonico fisso senza farlo vibrare otterrete la concentrazione. Il canto difonico mi permette di avere la concentrazione nella mia meditazione.

Prima di un concerto è solito scaldare la voce oppure scaldare l’anima, magari con la meditazione?

Non ho bisogno di cantare, perché lo faccio già sul palcoscenico. Prima di un concerto mi lascio andare al rilassamento, perché se si continua a cantare si rischia di infiammare le corde vocali e dopo non si riesce più a cantare in scena. È molto importante lasciare riposare le corde vocali perché sono molto fragili. Quanto tempo si allena al giorno?

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Cinque minuti al giorno, perché il canto difonico non è come le altre tecniche vocali. Dal momento che si gonfiano i muscoli vocali si sprecano molte energie ed è come se si cantasse per un’ora. Dunque, se ci si allenasse per molto tempo si rischierebbe di avere le corde infiammate con il rischio di parlare in modo afono. Questo avviene perché le corde rimangono disunite. Le corde vocali non sono corde, ma muscoli: attualmente vengono chiamate vocal phodes, pieghe vocali.

Secondo lei, attualmente, in Europa, vi è una giusta interpretazione del canto difonico o armonico? Canto armonico, per me, non è affatto un buon termine, perché tutte le voci sono armoniche. Senza gli armonici non avreste la voce: quando parlate avete gli armonici, altrimenti non uscirebbe suono. C’è confusione nell’uso del termine perché si pensa ad armonici imposti. Sull’uso di quest’ultimi non discuto perché ognuno fa le sue scelte. Ognuno utilizza gli armonici come vuole, ma sul piano tecnico, acustico, curativo e soprattutto musicale, quando c’è una voce senza armonici non è più una voce: gli armonici sono suoni multipli del suono fondamentale. Per questo motivo io parlo di canto difonico o multiplo e non di canto armonico. Nella raccolta “Le Voix Du Monde” vengono esaminati diversi stili di canto, ad esempio quale, secondo lei, risulta essere il più interessante dal punto di vista etimologico e dal punto di vista artistico?

Tutto dipende dalla preferenza che una persona ha. Intendo dire che non si può discutere né di gusto, né di colori. Non si può discutere, perché c’è una vocazione, una direzione. Non c’è un canto superiore o migliore di un altro; ma c’è una diversità delle tecniche vocali, una diversità delle tradizioni musicali ed è grazie a questi aspetti che si costruisce la ricchezza musicale. Vi faccio un esempio. Pensate a un giardino e a un fiore in particolare “la rosa” secondo voi il più bel fiore del mondo. Ora, immaginate che nel vostro giardino abbiate piantato solo alberelli di rose, che cosa provereste? Molto probabilmente, ad un certo punto, vi accorgereste che, circondati solo da roseti, la vostra dedizione a questo fiore si sta perdendo a poco a poco. Ma, al contrario, immaginate il vostro giardino completamente

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rinnovato dalle più svariate specie di fiori, non solo rose, ma lillà, pronus, anche erba gramigna che cosa provate ora? Questo giardino è un paesaggio e, in esso, ogni fiore, erba, albero mostra il proprio fascino, la propria bellezza, la propria caratteristica. Qual è il viso del vostro giardino? E le rose? Quale importanza svolge la casualità e l’improvvisazione nei suoi concerti? L’improvvisazione è molto importante, perché dona ricchezza. Improvvisare non significa, però, fare qualsiasi cosa. È necessario pensare in anticipo. Io faccio un plan di improvvisazione e segno questo al primo posto; quest’altro al secondo posto e così via. Bisogna essere liberi nella disciplina, non nell’anarchia dove è possibile ogni cosa e non c’è una concezione. L’improvvisazione ha un tema: datemi un tema del canto difonico e cinque minuti per produrre e io creerò un determinato lavoro; datemi lo stesso tema e un’ora e vi creerò un altro lavoro. L’improvvisazione in scena dura in media cinque minuti e nell’arco di quel tempo a mia disposizione devo creare un lavoro completo, cioè costituito da un inizio, un centro e una conclusione. È importante che ci sia una conclusione quando si improvvisa: altrimenti è come se facessi un ritratto e disegnassi un corpo senza gambe. Nell’arco di cinque minuti devo riuscire a disegnare una caricatura che suggerisca l’idea di un’immagine chiara, di un ritratto appunto. Ma se avete tempo, fate un vero ritratto e disegnate per mesi e mesi: il risultato sarà stupefacente. Nelle esibizioni, tutto dipende dal tempo imposto da qualcun altro e dalle regole musicali. Per esempio, se improvvisate sul DO maggiore, non potete mettere un accordo minore, perché altrimenti non rispettereste la regola. Bisogna, quindi, rimanere in un determinato quadro. Pensate a una piscina. Potete nuotare come volete, a stile libero, a dorso, a farfalla, sott’acqua ma non lasciate la piscina! Il quadro d’improvvisazione in quel caso è costituito dalla piscina. In quale modo si rapporta alla musica classica, così severa nelle regole?

La mia formazione è classica. Ho studiato violino per dodici anni; ho suonato Paganini in un’orchestra da camera. La mia formazione al Conservatorio mi ha insegnato la disciplina da

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adottare nel mio lavoro. Poi, alla disciplina, ho aggiunto lo spirito: non mi sono limitato a copiare, ma ho messo lo spirito di questa disciplina nei miei studi di musica tradizionale. Bisogna ispirarsi allo spirito di qualcosa di bello per applicare nelle altre tradizioni, escludendo il rischio di copiare solamente. L’aspetto più importante è la nozione compatibile e incompatibile. La nozione compatibile, ad esempio, per il gruppo sanguigno: se avete 0, metterete 0; io ho A, metterò quindi A oppure 0, ma non potrò mai mettere B e così via. Lo stesso atteggiamento avviene per la tradizione: se mettete delle cose simili vicine ad altre, voi arricchite la tradizione; ma se mettete delle cose incompatibili, distruggerete la tradizione. Per esempio, nella musica vietnamita non abbiamo la polifonia, ma c’è la melodia; non abbiamo la concezione nel senso verticale, ma una concezione eterofonica. Questo vuol dire che ogni strumento crea una melodia e non suona esattamente le stesse note insieme agli altri strumenti.

Ha mai pensato di cambiare direzione? Se sì, in quale periodo della sua vita?

Verso gli anni Settanta ho scoperto che vi erano altre ricchezze della voce. Prima avevo appreso il canto corale, il bel canto, il canto lirico, l’opera di Pechino, l’opera giapponese; avevo fatto jazz, la voce basso. Quando ho scoperto il canto difonico ho lasciato perdere tutto, perché in una vita non si può fare tutto. Grazie al canto difonico ho avuto la possibilità di lavorare sulla produzione energetica.

Secondo lei, gli armonici possono essere utilizzati al fine curativo (suonoterapia)? Che cosa pensa, appunto, della suonoterapia? Sì, nella musicoterapia e in altre terapie, soprattutto per curare le persone che sono timide. Le persone che parlano di gola, quelle che non riescono a far uscire la voce. La voce riflette il profilo psicologico di una persona: una voce molto dolce che non esce dalla gola è sintomo di una persona che ha molti problemi. In questo caso, bisogna lavorare per aumentare le frequenze per avere una voce sicura: è un lavoro di rieducazione, un lavoro terapico.

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Ha mai avuto durante la sua esistenza un momento di sconforto a livello artistico? Se sì, come l’ha superato?

Sì, tutti gli artisti hanno dei momenti difficili, perché si ha un blocco, non si trova un modo per andare avanti, non si riesce più a progredire e si rimane sempre allo stesso punto. C’è stato un momento per me in cui non volevo più continuare e volevo lasciare perdere tutto. A poco a poco però sono ritornato a fare concerti, perché prima di essere ricercatore, ero stato un musicista professionista e in trentasette anni avevo dato almeno tremila concerti. Sulla scena suono quindici strumenti come musicista professionista e sono compositore di musica e di musica elettroacustica. Ho depositato seicento canzoni.

Che cosa pensa di Demetrio Stratos?

Aveva imparato da me nel 1977 in Francia. Venne da me con un impresario che mi disse che il maestro Demetrio Stratos voleva apprendere le mie tecniche di canto. Rimase con me per due ore e imparò tutto. Dopodiché, tornato in Italia, utilizzò gli esercizi appresi per le sue ricerche personali.

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Note Biografiche

Andrea De Luca Andrea de Luca, attore e cantante nato a Lecce nel 1966,

frequenta corsi e laboratori di teatro diretti da Dario Fo, Massimo De Vita, Leo De Berardinis, Alfonso Santagata e studia tecniche vocali con il Roy Hart Théatre, canto difonico con Trân Quang Hai, canto classico con Maria Minetto e Massimo Sardi.

In teatro lavora, fra gli altri, con Leo de Berardinis (I giganti della montagna), Elena Bucci e Marco Sgrosso (L’amore delle pietre, Macbeth), Luciano Nattino e Antonio Catalano (Moby Dick), Claudio Zulian (Macbeth siempre!), Gigi Dall’Aglio e Assia Djebar (Figlie d’Ismaele nel vento e nella tempesta).

Dirige e interpreta in assolo gli spettacoli Sangue, Martyrium, Anima dai sogni oscuri. Per un Torquato Tasso, Non certo – Omaggio a Luigi Nono, Esiste la primavera – Omaggio a Franco Fortini, Roberto Altemps, in collaborazione con Carluccio Rossi (spazio scenico) e con Lorenzo Brusci-Timet (ricerca e realizzazione sonora).

Come vocalista, con il compositore Lorenzo Brusci, realizza il cd Shadows e partecipa a diversi cd e concerti. Con il Tacitevoci Ensemble diretto dal compositore Bruno De Franceschi canta alla Biennale Musica di Zagabria e al Festival Nuova Consonanza di Roma, partecipa al cd La mutazione e a vari concerti.

Come attore e cantante lavora in produzioni di teatro musicale con il Teatro di Pisa, La Baracca di Bologna, Opera Bazar di Lucca.

Ha diretto corsi e laboratori sulle tecniche vocali per associazioni e istituzioni culturali, scuole e gruppi teatrali.

È stato per alcuni anni corresponsabile dell’ideazione e realizzazione della manifestazione culturale “Comunicare fa male”, a Fivizzano (Ms).

Germana Giannini Germana Giannini nasce a Genova nel 1963, città nella quale ha

potuto “respirare” da subito una dimensione multiculturale e multietnica ma che, d’altra parte, a causa della sua struttura urbanistica “priva di un centro chiaro”, dava a Germana un senso di “dispersione”. Nel 1982 per motivi di studio si trasferisce a Bologna, città che - grazie alla sua conformazione urbanistica circolare, con aperture-porte ai suoi confini e un centro aperto, la sua piazza - “ha

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rappresentato una metafora rispetto all’immaginario sul corpo che avrei sviluppato in seguito”. La rilevanza che Germana presta all’aspetto urbano è rappresentativa dell’attenzione che ha nei confronti dei diversi aspetti della vita “quotidiana” che s’intreccia, indissolubilmente, con il suo percorso artistico.

A Genova, Germana intraprende gli studi artistici: frequenta prima il liceo artistico e, successivamente, si iscrive all’Accademia di Belle Arti. In questi primi anni si delinea un interesse chiaro verso le personalità degli artisti, Germana si dedica alle loro biografie, agli epistolari, cercando la relazione tra l’espressione artistica, l’opera d’arte “visibile”, fruibile dal pubblico e gli aspetti della loro vita privata.

A Bologna, dove prosegue gli studi in accademia, parallelamente s’iscrive al D.A.M.S. seguendo l’indirizzo artistico.

L’orientamento degli studi universitari è di tipo antropologico e filosofico: agli studi universitari, prevalentemente teorici, Germana, integra l’esercizio pratico del canto e del teatro, dove l’interesse principale è rivolto soprattutto all’effetto che la vibrazione della voce può generare sia nell’artista che nello spettatore-ascoltatore.

Nel 1988 insieme a Roberta Gandolfi, Tommaso Correale e Giorgio De Gasperi fonda il gruppo Runa. Compagnia teatrale che si dedica ad animazioni e temi sociali in ambito urbano, dove il rapporto diretto con il pubblico è elemento fondamentale.

Nel 1988 si laurea in filosofia del linguaggio, con una tesi comparativa tra processi classificatori del pensiero occidentale e i contenitori che li rappresentano, in senso strutturale, costitutivo (come il museo e l’enciclopedia) e come la trasformazione del pensiero determini la trasformazione strutturale del luogo che “lo contiene e lo rappresenta”.

Inizia ad insegnare canto a venticinque anni, “sicuramente ho avuto una maggiore spinta ad esprimermi come insegnante che come artista di scena”, appassionando gli altri a ciò di cui era appassionata: “conoscere il proprio mondo interiore tramite le voci del mondo”; infatti gli anni a seguire li ha dedicati ad una ricerca fatta d’incontri con tanti cantori di differenti etnie e di trasmissione di questi canti altri ad allievi altri.

Con un gruppo di compagni d’università fonda nel 1992, sempre a Bologna, la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, che si rivela essere “un luogo fertile al raccolto vocale che portavo”. In quegli anni tiene corsi sulla voce nei quali, in linea con lo spirito della scuola, sperimenta molto nell’ambito dell’improvvisazione.

Per studiare voci e canti d’altri luoghi del mondo si reca, in quegli anni, regolarmente a Liegi, in Belgio, dove si svolgevano i

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Festival Voix de femmes. In quelle occasioni si tenevano sessioni di quindici giorni durante i quali le cantanti più rappresentative di tradizione di differenti culture, insegnavano i loro canti ad altre donne. In queste occasioni Germana ha avuto la possibilità d’incontrare le canzoni tradizionali di Corsica, Andalusia, Iran, India, Marocco... e soprattutto “d’incontrare figure di donne che sapevano trasmettere i canti con grande passione e rispetto”. Proprio in una di queste occasioni, Germana ha ascoltato per la prima volta un canto indiano, che ha determinato un punto fondamentale per la sua formazione e che ha fatto nascere in lei il desiderio di recarsi in India ad approfondire lo studio sul canto. Questo percorso di carattere musicale, pedagogico e spirituale, che Germana ha scelto di seguire negli anni, è affiancato da un altro iter, più orientato alla dimensione terapeutica.

Dal 1994 al 1998 ha insegnato stabilmente alla scuola di medicina naturale La scuola del senso e dell’essenza53, fondata a Roma dal maestro Leonardo Bianchi. Per Germana è stata un’esperienza fondamentale in campo pedagogico perché le ha permesso di connettere la dimensione della trasmissione della vibrazione vocale con il piano psico-fisico.

Nel 1995 nasce il Teatro della voce, compagnia di ricerca fondata con Eleonora Fumagalli. La compagnia è composta da alcuni giovani artisti che accompagnano Germana Giannini nella ricerca vocale e da una “dramaturg”, Eleonora Fumagalli appunto, che si occupa di scrittura teatrale e di conduzione di laboratori sulla drammaturgia e l’uso della parola in teatro. Da questa collaborazione e dal felice incontro con Luciano Violante nasce lo spettacolo: La cantata per la festa dei bambini morti di mafia54. Lo spettacolo parteciperà a diversi eventi sul territorio nazionale che hanno avuto come tema la mafia in Italia. Tra gli artisti che recitano accanto a Germana Giannini c’è Andrea de Luca, collega della Giannini e figura con la quale ha condiviso momenti di ricerca vocale, insegnamento e diverse messe in scena. Con Eleonora Fumagalli, Germana conduce per due anni dei laboratori teatrali al C.I.M.E.S. dell’università di Bologna, creando due spettacoli con gli studenti. Il percorso di ricerca con Eleonora si conclude nel 1997, dato che entrambe avevano interesse a sviluppare personali direzioni artistiche non più coincidenti o complementari.

Il teatro della voce, inizialmente costituito da quattordici persone ha continuato a dedicarsi ai concerti durante i quali venivano

53 L’istituto si propone di formare terapeuti secondo gli insegnamenti della medicina tradizionale cinese, integrando nel programma la ricerca sulla voce ritenendola complementare alle altre materie. 54 Il testo dello spettacolo è stato scritto da Luciano Violante.

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riproposti canti di altre culture legati da alcuni temi comuni: la navigazione come metafora della vita, l’amore, il dolore, l’infanzia e il gioco. Alcune donne della compagnia hanno lavorato per anni in stretta collaborazione, sia sul piano artistico che pedagogico, tenendo seminari condotti anche da quattro o cinque artiste/insegnanti che intrecciavano diverse linee d’insegnamento.

Dal 2001 il lavoro laboratoriale e attoriale è stato condiviso in particolar modo con Sandra Passarello, che attualmente è la co-laboratrice più stretta di Germana. Le due artiste hanno lavorato insieme al teatro Testoni di Bologna, partecipando alla messa in scena di diversi spettacoli musicali per il teatro ragazzi. Ricordiamo: Verdetrovatore, Orfeo, La musica delle parole… (in Verdetrovatore ed Orfeo le due artiste sono presenti in scena come attrici-cantanti).

Nel 2002 Germana, con le compagne del “Teatro della voce”, Sandra Passarello, Barbara Valentino, Cristina Alioto, Francesca Valente e Claudia Guarducci, incide il CD Affrontando il mare che raccoglie alcune improvvisazioni e diverse composizioni. Durante la registrazione del CD nasce in Germana l’esigenza di andare ancora più a fondo nella dimensione artistica che “accompagno e che mi accompagna”, perciò ritiene necessario “liberare” il gruppo per non forzarlo in una direzione che sente “non necessariamente condivisa in quanto estremamente personale”. Così nasce il progetto AcCanto che vuole mantenere (per chi lo desidera del gruppo) una modalità prevalentemente musicale/canora e si scioglie il “Teatro della voce”.

Nel 2003 Germana Giannini e Sandra Passarello fondano “La voce in ascolto”, luogo di rinascita personale, luogo che si occupa di voce in ambito ritual-teatrale. Cambia lo spirito con cui si conducono i seminari e nasce “l’evocazione teatrale”: Fede, che è l’ultimo processo creativo. In questi anni di ricerca su diverse forme vocali, Germana Giannini ha avvicinato il canto al teatro. Grazie all’incontro con maestri cantori di differenti etnie ha raccolto tutti quei canti di tradizione classica, popolare o sacra, che hanno evocato in lei profonde emozioni, tramite l’elemento essenziale della voce umana. A questa ricerca, nel corso del tempo, si sono intrecciati gli studi sull’improvvisazione, la sperimentazione vocale e la composizione di canti tramite idiomi immaginari e frammenti poetici.

Successivamente sono state create “azioni sceniche cantate” con l’intenzione di dare vita alle immagini che la lunga pratica di canti ha suggerito. La forma di spettacolo a cui Germana Giannini si è dedicata è quella del “concerto vocale in azione”. I canti e le improvvisazioni vengono agiti sulla scena attraverso modalità e movimenti nello spazio. Luogo della performance non è necessariamente il palcoscenico, ma “ogni tipo di ambiente che possa essere trasformato

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dall’azione creativa”. Il pubblico diventa così elemento indispensabile ed integrato per “quell’architettura umana che, con la sua presenza e partecipazione, configura lo spazio vivo dell’evento artistico”.

Albert Hera

Albert Hera è un artista che vive la musica in ogni istante della

propria esistenza; un cantante sensibile e profondo che possiede la naturale capacità di regalare entusiasmo e felicità attraverso un personale linguaggio artistico; un fantastico insegnante di canto che ama conoscere la persona che ha di fronte, per aiutarla a scoprire e recuperare la propria arte, la propria voce.

Non si tratta però solamente di arte. Il canto ha bisogno di costanza nell’allenamento e nello studio: il bel canto sta appunto nel giusto mezzo fra arte e tecnica. Proprio per raggiungere quel compromesso fra l’aspetto artistico e quello tecnico, Albert Hera ha trascorso anni della sua vita studiando canto con alcuni fra i migliori insegnanti italiani di canto lirico. Si è poi dedicato, con l’etnomusicologo Trân Quang Hai, all’approfondimento dei concetti del canto difonico che permette la riproduzione di più suoni simultanei con una sola formante, e alla ricerca di sonorità appartenenti a culture differenti, scoprendo così il ruolo fondamentale della conoscenza dell’antropologia vocale nella formazione e nel cammino di crescita di un cantante.

Gli anni di studi e di ricerche hanno permesso ad Albert Hera di sviluppare una propria identità in ambito musicale e una personale filosofia sulla didattica: “Il Cantar Naturale” propone una visione del canto come emissione libera, alla base della quale risulta fondamentale la ricerca scrupolosa di una coordinazione e sintonizzazione acustica del suono puro, al fine di generare una globale armonia tra corpo e mente.

È nel 2002 che Albert Hera sente la necessità di far conoscere pubblicamente il proprio pensiero attraverso la creazione del primo portale sulla voce: www.voiceart.net. Più precisamente il portale nasce per promuovere e diffondere l’applicazione delle principali forme artistiche, quali la voce in tutte le sue espressioni, la musica, la danza, il teatro, la pittura, la letteratura e ha come scopo la divulgazione e la salvaguardia della purezza dell’arte e della cultura.

La crescita del cantante va di pari passo con quella d’insegnante: Albert Hera è stato docente di canto moderno presso numerose scuole di musica d’Italia, attualmente è docente di canto moderno e responsabile del dipartimento di vocalità presso l’Istituto

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Civico V. Baravalle di Fossano; nella medesima scuola, è organizzatore di un importante progetto europeo sulla coralità, accanto al professor Andrea Figallo. Il progetto didattico è proposto non solamente all’interno dell’Istituto, ma anche in masterclass, seminari e workshop di tecnica vocale e d’improvvisazione corale in molte scuole italiane, citiamo un importante appuntamento mensile presso la scuola l’Ottava di Roma; appuntamenti di formazione e approfondimento che si basano sul pensiero vocale dell’insegnante.

“Positive Consciousness” è il titolo del suo primo album di musica sperimentale uscito nel 2005; un disco che raccoglie anni di ricerca e di esperimenti, otto brani eseguiti lasciando da parte qualsiasi forma dimostrativa e didattica, vizi di forma che spesso rendono queste tipologie progettuali di difficile assimilazione; otto brani che dimostrano la bravura, la preparazione e il guizzante genio di uno dei migliori artisti della scena sperimentale internazionale. Le canzoni presenti nell’album sono riproposte, accanto ad altri brani di pari intensità e bellezza, all’interno dei concerti dell’artista, nei quali si incontrano e si intrecciano tre aspetti che rendono lo spettacolo un’esplosione d’energia e vitalità: in primo luogo il forte legame con il mondo delle sperimentazioni di Demetrio Stratos, al quale si aggiunge il concetto di “One Man Band” proprio di Bobby McFerrin.

L’ultimo e fondamentale elemento dello spettacolo è l’inserimento dei caratteri personali di Albert Hera, della sua esperienza nel campo dell’antropologia vocale, dell’estrema sensibilità ed espressività artistica ed umana; a completare il tutto la presenza di uno strumento che accompagna Hera dall’età di otto anni: il sax soprano. Il concerto vanta la presenza di Pietro Ponzone, percussionista e batterista di grande esperienza, e di un coro formato da sette elementi, con il compito di mostrare al pubblico il concetto di improvvisazione corale naturalmente diretta e controllata dalla figura principale dello spettacolo.

Un concerto estremamente particolare, al di fuori della solita concezione di live music; uno spettacolo in cui emerge una gran voglia di fare musica, di cantare; uno spazio in cui vengono espressi i concetti artistici di essenza e unicità vocale, di semplicità ed amore verso quello che viene definito il “Mondo Canto”.

Trân Quang Hai Trân Quang Hai è nato il 13 maggio 1944 in Vietnam.

Musicista di talento e di fama, proviene da una famiglia di cinque generazioni di musicisti. Ha studiato al Conservatorio Nazionale di

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Musica a Saigon prima di andare in Francia nel 1961 dove ha studiato teoria e pratica della musica orientale con suo padre, prof. dr. Trân Van Khe presso il Centro Studi di Musica Orientale a Parigi. Per molti anni, ha anche partecipato a seminari di Etnomusicologia presso la Scuola di Alti Studi delle Scienze Sociali (dove ha ottenuto il Master e il Dottorato), e di Acustica con il prof. Emile Leipp. Suona una quindicina di strumenti musicali provenienti dal Vietnam, Cina, India, Iran, Indonesia ed Europa. Dal 1966, ha fatto più di 2.500 concerti in 50 paesi, e ha preso parte a un centinaio di festival internazionali di musica tradizionale. Ha partecipato a trasmissioni alla radio e in televisione in Europa, America, Asia, Africa e Australia. Ha lavorato presso il Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (CNRS) in Francia dal 1968, che è ora collegata al Dipartimento di Etnomusicologia al Musée de l’Homme (Parigi). È stato docente in South East Asian Music presso l’Università di Paris X - Nanterre (1988-1995). A parte la sua attività artistica, si è inoltre interessato alla ricerca musicale. Ha migliorato la tecnica del gioco del cucchiaio e dell’arpa giudaica. Nel 1970 ha trovato la chiave per la tecnica del canto armonico. Il film “Le Chant des Harmoniques” (The Song of Harmonics), che ha co-prodotto con Hugo Zemp, e in cui era l’attore principale e compositore della musica da film, ha vinto quattro premi a livello internazionale al festival del cinema scientifico in Estonia (1990), Francia (1990) e Canada (1991). Egli è considerato come il più grande specialista in overtone singing nel mondo. Ha scritto numerosi articoli sulla musica vietnamita e asiatica (New Grove Dictionary of Music and Musicians, New Grove Dictionary degli Strumenti Musicali, Algemeine Muziekencyclopedie, Encyclopaedia Universalis). Ha anche registrato 15 LP e 2 CD (uno dei quali ha ottenuto il Grand Prix de l’Academie Charles Cros de Disque nel 1983). Ha composto centinaia di canzoni popolari. La sua esperienza musicale è molto varia: musica contemporanea, musica elettro-acustica, improvvisazione, colonne sonore. Continua a preservare e sviluppare la musica tradizionale vietnamita (numerose composizioni per la cetra a 16 corde tranh Dan). Ha ricevuto la Medaglia d’Oro per la musica dalla Accademia Culturale Asiatica, e dottorati honoris causa dalla International University Foundation (USA) e dalla Albert Einstein International Academy (USA). Trân Quang Hai lavora con la moglie Bach Yen, grande cantante folk vietnamita. Ha ottenuto oltre 20 premi e awards. È stato nominato Presidente della Giuria Internazionale del Festival Khoomei Throat Singing (Tuva, 1995), ha ottenuto la Medaglia Cristal del Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (Francia, 1996). È stato anche Presidente d’Onore del Festival d’Auch: Eclats de Voix (1999) e il

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Festival de Perouges / Au Fil de la voix (2000). È stato membro della Giuria del Concorso Song Contest 2000 “Una canzone per la Pace nel Mondo” a Roma (2000). E nel giugno 2002, ha ricevuto la medaglia di Cavaliere della Legione d’Onore dal presidente francese Jacques Chirac. È l’unico vietnamita ad aver preso parte come esecutore o compositore a grandi eventi storici come la celebrazione del Bicentenario Australia (1988), il Bicentenario della Rivoluzione Francese a Parigi (1989), il 700° anniversario della nascita della Svizzera (1991), il 350° anniversario della fondazione di Montreal (1992), il 500° anniversario della scoperta dell’America (1992), i 600 anni di Seoul - Corea (1994), il Giubileo del re della Thailandia (1996), i 1000 anni di Trondheim in Norvegia (1997), i 100 anni di indipendenza della Norvegia (2005).

Ha partecipato a più di 3.000 concerti in 70 paesi in giro per il mondo dal 1966 e a più di 1.300 concerti di scuole di musica organizzate dal JMF (Jeunesses Musicales de France), JMB (Jeunesses Musicales de Belgique), JMS (Jeunesses Musicales de Suisse) e Rikskonsertene (Norvegia e Svezia).

Marco Tonini Marco Tonini è nato a Padova nel 1963, studioso e ricercatore

sulle tecniche sia tradizionali sia sperimentali dell’emissione vocale. Negli anni ’80 frequenta il Corso Straordinario di Musica Elettronica presso il Conservatorio “Pollini” di Padova, presso il quale in seguito si diploma in Pianoforte e in Musica Corale e Direzione di Coro. Laureato a pieni voti in Composizione Multimediale con una tesi sulla formante alta di canto e sulla fisiologia acustica dell’apparato vocale umano, affianca all’attività concertistica come direttore di coro, d’orchestra e di compositore a quella di analisi e studio della fisio-acustica del suono vocale mediante l’utilizzo e lo sviluppo delle tecnologie informatiche. Conduce workshop sulla vocalità lirica, moderna e sperimentale cercando di portare l’attenzione al rapporto ciclico emissione vocale/ascolto/auto-correzione (Tertium Auris). Artisticamente ha partecipato a produzioni liriche e sinfoniche con artisti quali Wilhelmina Fernandez, Marie Ange Todorovitch, Bruna Baglioni, Giuseppe Giacomini, Gianfranco Cecchele, Mario Malagnini, Rolando Panerai, Bonaldo Giaiotti ed altri, partecipando a Stagioni e Festival Lirici in Italia, Egitto, Libano, Francia, Germania e Svizzera.

Si è perfezionato in direzione d’orchestra e di coro con Julius Kalmar, Ludmil Descev e Peter Erdej, è stato direttore del Coro del

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Teatro Verdi di Padova, del Coro Città di Verona, del Coro e Orchestra dell’Accademia d’Arte Musicale di Padova, ha collaborato come direttore ospite con la Corale Giuseppe Verdi di Parma, la Compagnia di Canto Lirico Lombarda, il Coro Lirico di Bergamo, l’Orchestra Filarmonica di Stato Moldova di Jasij, l’Orchestra da Camera di Sòfia, l’Orchestra Hans Swarovsky di Milano, l’Orchestra Sinfonica Città di Verona, l’Orchestra degli Allievi del Conservatorio Dall’Abaco di Verona e l’Orchestra Giovanile del medesimo istituto. Dal 1986 è maestro accompagnatore al pianoforte per cantanti lirici. A composizioni di stampo accademico-modale (video soundtracks, un Piccolo Requiem per coro e orchestra, due Messe per coro e tastiera, un Concerto per pianoforte e orchestra, una Sinfonia Terribile, una Sinfonia Semplice, numerosi lavori per coro sacro, sinfonico e a cappella, arie e duetti per pianoforte e voce) affianca varie composizioni elettroacustiche con l’elaborazione digitale di campioni esclusivamente vocali, utilizzando suoni vocali in overtone singing, operistici, onomatopeici e in seguito processati digitalmente. Chiamato a sostenere il ruolo di esperto moderatore in conferenze, seminari e web-forum sulla didattica e sperimentazione dell’emissione vocale, su richiesta di colleghi, studenti e appassionati ha istituito il blog sulla sperimentazione audio-vocale Tertium Auris. Ha fondato il Canto Armonico Network e il Tertium Auris Network ed è admin dell’Overtone Music Network. Tra i vari musicisti che ha frequentato, pochissimi hanno lasciato un segno positivo, e solo due hanno contribuito ad aumentare la sua apertura mentale in ambito musicale, Alfonso Belfiore e Mauro Graziani. Attualmente è direttore del Coro Lirico di Verona e del Coro di voci bianche A.d’A.Mus. di Verona, e sta lavorando alla stesura di un libro sul rapporto tra canto armonico e canto lirico.

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Conclusioni Una tesi non può certo esaurire l’argomento “Canto Armonico”, può soltanto fornire qualche indicazione su questa tecnica che è anche una filosofia e fa parte della cultura dei vari popoli in cui è presente. Come abbiamo visto nel corso della ricerca, può essere utile conoscere elementi di acustica musicale per essere consapevoli delle dinamiche che segue questo tipo di fenomeno, al fine di applicarlo anche all’interno di composizioni musicali, come è già stato fatto negli anni ’60 e ’70, cercando sempre nuovi modi per dare vita a nuove “contaminazioni” fra generi. Attraverso le definizioni di “Voce” e di “Ascolto”, abbiamo voluto creare un panorama generale all’interno del quale si colloca questo fenomeno, presente ogni giorno nella nostra vita: all’interno dei nostri canti, del nostro parlato, ma che non siamo abituati a percepire, e quindi a distinguere. Oltre a questo aspetto più strettamente musicale, abbiamo potuto notare che il canto armonico, avendo radici in tempi molto remoti e antichi, accomuna diverse culture, anche lontane tra loro, in Oriente e in Occidente. Abbiamo cercato di fornire un quadro storico per ogni zona in cui abbiamo analizzato il canto armonico: Mongolia, Tibet e Tuva per quanto riguarda l’Oriente e Canada, Sudafrica e Sardegna per quanto riguarda l’Occidente. In questo modo ci siamo spinti a osservare un po’ più a fondo da dove provengono questi popoli con le loro usanze, perché “per capire la storia, non basta sapere come stanno le cose, ma come sono giunte a stare così”55. Abbiamo riscontrato una serie di elementi che ritornano, come il contatto con la natura, più presente in passato per quel che riguarda l’Occidente, e quindi un rapporto più “organico” col proprio corpo in relazione alla voce: è per questo che nel mio percorso vocale, iniziato con Germana Giannini, si va alla ricerca degli elementi originari che hanno accompagnato i vari tipi di canto nelle culture diverse, per imparare a cantare partendo dal corpo, e non dalla mente, come accade invece nella cultura musicale occidentale moderna. E questo vale anche per il canto armonico: soprattutto in Oriente è nato come imitazione dei suoni della natura (dell’acqua in genere): per questo motivo è più semplice impararli partendo da questi suoni, e incontrando direttamente maestri in modo da sentire dal vivo

55 F. Boas, The Methods of Ethnology, in C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1990.

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gli armonici prodotti da essi: questo porterà a una sorta di empatia che ci può aiutare nell’apprendimento. Inoltre risulta piuttosto piacevole scoprire, una volta entrati in questo mondo, che ci sono tantissime persone disposte a condividere le proprie esperienze, aiutando chi comincia a studiare il canto armonico a perfezionare e a cercare le risorse che ci permettono di approfondire anche a livello teorico la conoscenza di questo fenomeno. Sto pensando a persone come Roberto Laneri, che dal 1972 studia le culture musicali extra-europee, e che ha fondato l’EVT (Extended Vocal Techniques), collegato con il Center for Music Experiment, presso l’Università di California, e che nel 1973 fonda il gruppo PRIMA MATERIA. Egli usa tecniche vocali dell’Asia centrale e Tibet in lunghe improvvisazioni di grande fascino e intensità: gli ho scritto per chiedere informazioni sul suo libro, e ho trovato una persona disponibile e cordiale. Per non parlare di Trân Quang Hai, che è rimasto in continuo contatto tramite internet e mi ha spedito prontamente le risposte alle mie domande fatte nel capitolo “Interviste ai maestri”: ogni volta che avevo una domanda, la sua risposta è stata veloce ed esaustiva. Anche maestri incontrati più di recente, come Marco Tonini ed Albert Hera, si sono dimostrati disponibili e pronti a rispondere alle mie domande, e oltretutto curiosi del lavoro e della ricerca che sto portando avanti. Sembra quasi che la ricerca sul canto armonico, oltre ad un aspetto formativo di carattere più tecnico e musicale, abbia anche un aspetto comunitario, di passaggio da maestro ad allievo come lo si trova ancora in Oriente, al fine di mantenere questa tradizione e farla vivere nel tempo. E come abbiamo detto precedentemente, aiuta ad espandere il proprio ascolto, sia in termini sensitivi che assoluti, allenandoci a sentire suoni che non siamo abituati a percepire, e di conseguenza aumentando anche il nostro grado di concentrazione.

Infinite sono le applicazioni alle quali si può accedere con questa tecnica: concentrazione, meditazione, ascolto, senso musicale, intonazione, ricarica, rilassamento, e tante altre. II canto con gli armonici non lascia mai indifferenti, sembra anzi avviare un processo di purificazione profonda. L’attivazione di frequenze acute permette inoltre una “ricarica” della corteccia cerebrale (come fu teorizzato da Tomatis), prevenendo così stress, ansia, fatica.

Ogni corpo vibra con una frequenza precisa e le diverse frequenze degli armonici naturali mettono in moto meccanismi di ricarica e di armonizzazione: in origine il canto armonico,

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coscientemente o meno, era legato a questo aspetto organico che univa corpo e mente.

Purtroppo in Occidente sono ormai pochi i casi nei quali si incontra questo fenomeno, e in molti di questi, come in Sardegna, il canto si è trasformato negli anni, si è “ingentilito” e forse ha perso quella che era la sua forza, rendendosi più omogeneo al modello occidentale: se in passato questi canti erano legati a riti di passaggio e a lavori legati alla pastorizia e alla terra, oggi rimangono legati alla sola pratica musicale, anche se ci sono ancora maestri che cercano di passare questo “sapere” tenendolo indissolubilmente legato alla tradizione dalla quale nasce.

Non vi è quindi un modo oggettivo attraverso il quale si muove e si caratterizza il Canto Armonico: in alcuni casi è più legato al fattore religioso o esoterico, mentre in altri è più legato al fattore performativo.

Attraverso le interviste presenti in questa tesi, possiamo infatti notare come l’approccio dei vari maestri incontrati si differenzia anche di molto: c’è chi vede il canto armonico come porta per un mondo interiore, e c’è chi invece lo vede come possibilità di affinare il proprio ascolto e la propria ricchezza musicale.

Sicuramente c’è un elemento sempre presente in ogni persona che si avvicina a questo fenomeno: la curiosità.

La possibilità di essere più coscienti di quello che accade all’interno e all’esterno del nostro corpo, è uno degli elementi ricorrenti in tutti i ricercatori vocali, presenti e passati.

Personalmente, il motivo principale che mi ha spinto verso questo mondo, è stato il bisogno della ricerca e della riscoperta delle mie radici, e il voler trovare un punto di incontro tra le varie esperienze che sto attraversando in questi anni.

L’inizio della mia ricerca vocale con Germana Giannini, l’incontro con sonorità lontane, e il riavvicinamento a sonorità vicine legate alle mie origini materne (canto a tenore), ha messo in moto una serie di meccanismi che mi hanno portato alla ricerca di un punto di incontro tra queste diverse culture, così lontane ma così vicine.

Questa tesi vuole quindi essere un’occasione per unire la ricerca vocale pratica a quella teorica: per chiarire e documentare il percorso svolto fino ad ora, e per potere continuare il mio percorso che non si esaurisce con questo lavoro, ma che continua e continuerà fino a quando ci saranno nuove cose da imparare.

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GMELIN JOHANN GEORG Reise durch Sibirien: von dem Jahr 1733. bis 1754, A. Bandenhoecks seel., Witte, 1751. KASCHULA RUSSEL

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GRAZIANO TISATO

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MARCO LUTZU

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