Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI Patrocinio CITTÀ DI GALATINA 2010

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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

PatrocinioCITTÀ DI GALATINA

2010

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CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

Se esposto al pubblico regolarizzare effetti imposta Comunale Pubblicità e Diritti Pubbliche affissioni (D.P.R. n. 639 del 26/10/72)

BibliografiaACQUAVIVA COSIMO, Taranto...tarantina, Taranto, S. Mazzolino Editore, 1931ANTONACI ANTONIO, La Chiesa dell’Addolorata in Galatina, Galatina, Editrice Salentina, 1967BELLO SALVATORE, Di giorno in giorno, Galatina, Editrice Salentina, 1997BOZZI ENRICO, Poesie in dialetto leccese ed in pulito, Lecce, Editrice Salentina, 1922BIANCO LUIGI, Le tradizioni di Aradeo e dei paesi vicini, Aradeo, Arti Grafiche Sudest, 1978CAGGIA CARLO, Cronache galatinesi anni 20-40, Galatina, Congedo Editore, 1996CHIRIATTI LUIGI, Morso d’amore, Lecce, Editore Capone, 1995CONGEDO RAFFAELE, Salento scrigno d’acqua, Manduria (Ta), Lacaita Editore, 1964COSTANTINI ANTONIO, Guida alle Masserie del Salento, Galatina, Congedo Editore, 2000D’ACQUARICA FRANCESCO, MELLONE ANTONIO, Noha storia, arte, leggenda, a cura di A.Mellone, Istituto Grafico Silvio Ba-

sile, 2006DE CARLO COSIMO, Proverbi dialettali del Leccese, Stabilimento Tipografico F. Scorrano S. C. , Lecce anno VIDE MARTINO ERNESTO, Sud e magia, Milano, Grafica Sipiel, 1998DE PORTALUCE CINO, A tiempu persu (versi nel dialetto di Galatina), Galatina tipografia Marra e Lanzi, 1927ELIA LUIGI, Salento Addio (trilogia della vita), Lecce Libreria Pensa Editrice, 1999GIURGOLA RIZZELLI, ANNA MARIA, Galatina: il folklore e la vita, Galatina Congedo Editore, 1938Le tradizioni gastronomiche di Galatina, ricette, usanze, personaggi, Centro sul Tarantismo e costumi Salentini, Galatina, 2003LICEO SCIENTIFICO A. VALLONE - GALATINA, Una stella tra gli ulivi, Galatina, Editrice Salentina, 2005LO BUE GIORGIO, Lo spettacolo a Galatina, Aradeo, Arti Grafiche Guido, 1994MANNI PIERO, La cultura gastronomica, Manduria (Ta), Tiemme, 2001MONTINARI MICHELE, Storia di Galatina a cura di Atonio Antonaci, Galatina, Editrice Salentina, 1972Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Vol. II, a cura di Ribelli Roberti, Galatina, Pajano Editore, 1957PRESTA P. TEODORO, Santa Caterina in Galatina, Avegno (Genova), Stringa Editore, 1984Prontuario salentino dei proverbi, a cura di N. G. De Donno , Galatina, Congedo Editore, 1991QUARANTA ALFREDO, Marittima un paese del Salento, Galatina, Congedo Editore, 1994ROHLFS GERHARD, Vocabolario dei dialetti salentin (Terra d’Otranto), Galatina, Congedo Editore, 1976SADA LUIGI, L’elemento storico-topografico nella genesi delle leggende del Salento, Toritto (Bari), Tipografia di F. Pecoraro, 1949Salento di sapori, Camera di Commercio di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2007SEVERINO DOMENICA, Copertino, Galatina Editrice Salentina, 1989SPECCHIA DOMENICA, Il Tesoro, Galatina Editrice Salentina, 2001VACCA NICOLA, Rinascenza Salentina, rivista bimestrale di Arti Lettere Scienze, Lecce F. D. Pinto Editore, 1934VOCINO MICHELE e NICOLA ZINGARELLI, Apulia Fidelis, Milano, Casa Editrice L. Trevisini,516 proverbi salent(r)ini, a cura di N. G. De Donno, Galatina, Congedo Editore, 1994

Il calendario illustrato 2010 proposto dal Centro sul Tarantismo e Costumi Sa-lentini, e dedicato alla città di Galatina ed al Salento, giunge quest’anno alla sua 9°edizione. Il Centro ha voluto, in questi nove anni, offrire un contributo volto a farconoscere la nostra città valorizzando il suo fervido patrimonio culturale, anche at-traverso un excursus storico-letterario e folkloristico che rappresenta la nostra storiae la nostra comune radice. Il calendario propone, come da tradizione, un viaggio nelpassato attraverso la poesia in vernacolo, canti popolari, filastrocche, proverbi,usanze, credenze, leggende, aneddoti. Senza dimenticare di raccontare i profumi ei sapori di piatti “poveri” realizzati con i prodotti tipici della nostra terra. L’obiettivoè quello di restituire valore a tradizioni in grado, ancora oggi, di raccontare quelloche siamo e quello che, per fortuna, non abbiamo mai smesso di essere, generazionedopo generazione.

Quest’anno abbiamo voluto mettere in risalto la fiorente vita culturale galati-nese del ‘500, dal genio del letterato poeta e medico Altobello Vernaleone, alla descri-zione di alcuni famosi dipinti ubicati nella basilica di Santa Caterina d’Alessandriae nella chiesa dell’Addolorata. Scorrendo i dodici mesi dell’anno 2010, i nostri let-tori vedranno emergere un piccolo mondo antico, fatto di usanze e tradizioni che ab-bracciano i temi del ciclo della vita umana, delle feste, delle dimore rurali, della vitaagricola, ma anche della magia, della superstizione e credenze popolari, della reli-giosità, dell’arte. Sfogliando il calendario si riscoprirà un tempo in cui i futuri sposipreparavano con cura il loro futuro “nido” arredandolo del necessario, o le nostrenonne attendevano l’arrivo dello “stagnino” per riparare le loro pentole dalla du-rata secolare. Ai bambini, al risveglio al mattino, si era soliti far bere “lu sieru caddu”che operosi massari portavano in città. Le ragazze ricamavano il “fazzoletto bianco”per donarlo al futuro marito che, con orgoglio, lo sfoggiava nel taschino della giacca.

Il Centro si è sforzato, in questi anni di lavoro appassionato, di far rivivere at-traverso la lettura del calendario, oltre a notizie storico letterarie, tante piccole notequotidiane di una volta con l’auspicio che, neppure l’implacabile incedere del tempo,possa cancellare i valori tramandati dalla cosiddetta “cultura popolare o minore” (odell’Italia profonda), una cultura che fa e deve continuare a far parte nel nostro pa-trimonio e della nostra identità.

IL DIRETTIVO

Le incisioni che illustrano il calendario sono tratte da:D. Aguglia - Desmouceaux, Costumes de Naples, Naples, Chiurazzi s.d (collezione privata).I disegni delle tarantole sono tratti da incisioni del ‘700 e ‘800.In copertina: Cappella di San Paolo a Galatina (Collezione privata Roberto Cazzato)Le foto dei mesi di giugno e luglio sono tratte rispettivamente da F. Panico, Il vestito bianco e A. Co-stantini, Guida alle masserie del Salento.

La presente pubblicazione è stata realizzata dal Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini.

Redazione: Alessandro Mangia, Gaetano Gaballo, Enza Luceri, Luisa Mangia, Ilaria Serafini, MariateresaMerico, Marco Sambati, Giampiero Palumbo.

Un particolare ringraziamento a Franco Maglio e al Gruppo Metal.Ma per il sostegno rinnovato in que-sti anni al nostro Centro.

Si ringraziano Luigi Caiuli, Fernando Villani, Maria Rosaria Romano, Biagina Carignani, Angela Chirenti,Marco Marinaci, Antonella Rizzo, Tonino Baldari, Pippi Apollonio, Uccio Antonica e Immacolata Ro-mano, Paolo De Pascalis, Paolo Guido, Natalino De Paolis, Giampiero Donno, Antonio Stanca, Panta-leo Fiore, Salvatore e Rita Congedo le famiglie Stasi-Capani, Cudazzo, Marra-Tedesco, Baldari, Tundo,Renna, galatina2000.com, il Corpo di Polizia Municipale di Galatina, il gruppo di musica popolare “Scaz-zacatarante”.

Collanina del Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini “I Calendar i da Collezione, n. 9”.

La presente pubblicazione ha fini esclusivamente culturali, mirati a valorizzare e promuovere il patri-monio della nostra cultura popolare.

Il presente calendario è scaricabile on-line dal sito: www.galatina2000.comFacebook: gruppo “Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini”

© 2009 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini - C.so Porta Luce, 2 - Galatina - Tel. 380.5310814e-mail: [email protected] Centro rimane aperto ai visitatori dal martedì al sabato (ore 10-12 / 17-19) e domenica (ore 10-12).

Stampato in numero 500 copieEdizione fuori commercio - Riproduzione vietata

Stampa: Editrice Salentina - Galatina (LE)

Il 21 maggio 2009 sono iniziati i lavori di restauro della Cappella di San Paolo. Il Centro coglie l’occa-sione per rinnovare sentiti ringraziamenti al Fondo Ambiente Italiano e alle 1466 persone che nellegiornate del 28-29-30 giugno 2005 hanno contribuito con la propria firma a segnalare a livello nazio-nale la Cappella di San Paolo come “luogo del cuore”.

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Gennaio 2010CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

V 1 Maria Ss.ma Madre di Dio

S 2 Ss. Basilio e Gregorio

D 3 Ss.mo Nome di Gesù

L 4 B. Angela da Foligno

M 5 B. Diego da Cadice, cappuccino

M 6 Epifania

G 7 S. Luciano �

V 8 S. Severino - S. Massimo - S. Erardo

S 9 S. Giuliano - S. Vitale

D 10 Battesimo del Signore

L 11 S. Igino

M 12 S. Bernardo da Corleone, cappuccino

M 13 S. Ilario

G 14 B. Odorico da Pordenone

V 15 S. Mauro - S. Efiso - S. Bonito �

S 16 Santi Berardo e compagni

D 17 S. Antonio abate

L 18 S. Prisca - S. Beatrice

M 19 S. Mario - S. Pia

M 20 S. Sebastiano

G 21 S. Agnese

V 22 S. Vincenzo

S 23 S. Emerenziana �

D 24 S. Francesco di Sales - S. Babila

L 25 Conversione di S. Paolo

M 26 Ss. Timoteo e Tito - S. Paola

M 27 S. Angela Merici

G 28 S. Tommaso D’Aquino

V 29 S. Costanzo - S. Aquilino

S 30 S. Giacinta de’ Mariscotti �

D 31 S. Giovanni Bosco - S. Geminiano

I larghi e le piazze di GalatinaL’antica piazzola di Galatina era rappresentata dal largo Vignola presso la chiesa delle Anime;

a poca distanza si trovava il Sedile o casa dell’Università.In seguito alla costruzione delle nuove mura il Sedile o casa comunale dell’Università fu tra-

sferita nel palazzo del Circolo cittadino, nel quale erano allogate anche le carceri (negozio Nuzzo).Le principali piazze attuali sono: quella di S. Pietro, sulla quale sorge la Chiesa Matrice; quella

di S. Caterina; quella Orsini, sulla quale trovasi l’attuale palazzo di città (già ospedale di S. Cate-rina); quella di S. Stefano; ed inoltre, il piazzale di S.Domenico o Fontana (piazza o villa Ali-gheri); quello G. Toma; quello prospicente l’edificio scolastico (piazzale F. Cesari); quello dellargo Anime, sistemato a piazzale, dal quale si imbocca la via Soleto-Martano.

M. MONTINARI, Storia di Galatina a cura di Antonio Antonaci.

LA VITA CULTURALENEL ‘5OO A GALATINA

L’apertura commerciale ci sembra sia stata lostimolo più valido per quella “fiorente vita cul-turale” che nel ‘5OO ebbe in Galatina il suonucleo salentino più rappresantativo. E nonsolo nel campo della filosofia e delle scienze,ma anche, e forse di più, in quello della lette-ratura. I citati studi di Aldo Vallone sulla “civiltàletteraria a Galatina nel Cinquecento” vannoscoprendo, nel periodo che stiamo analiz-zando, “una florida e singolare stagione lettera-ria come mai era accaduto in altra cittadina diprovincia lontana dal centro-motore di Napoli-capitale”. I nomi di Leonarda ( la “Saffo di Ga-latina”), Altobello, Giovan Paolo, Orazio eOttavia Vernaleone sono una rara scoperta cheil prof. Vallone ha fatto. E quel che più colpi-sce non è tanto il fatto di una limpida venapoetica che scorre nei “canzonieri” galatinesidel ‘5OO, quanto quello dell’interesse popo-lare per certe forme di teatro, come la Schiava(1569) di Ottavia e Orazio Vernaleone, L’adul-tera (1595) di Silvio Arcudi, che ebbero per tea-tro le piazze non solo di Galatina, ma anche dimolte cittadine della provincia.Il pullulare dei circoli letterari e delle acca-

demie (famose furono quelle degli “Irrisolutiattempati” e, per opposto, dei “Giovani riso-luti”), anche se non sempre giovarono alla ge-nuità della produzione letteraria e scientifica,tuttavia stimolarono la cultura nell’ambiente ga-latinese: nel senso che molti cittadini, anche trale classi non aristocratiche, presero la via deglistudi universitari nei maggiori centri italiani,quali Padova, Roma, Napoli e Salerno. La cul-tura, come il denaro, cominciò a lasciare,anche se timidamente, le case dei nobili, perscendere in mezzo al popolo, nelle classimedie e artigiane, che avevano il culto del ri-sparmio e facevano ogni sacrificio per mandarei loro figli nei grandi centri di studio”.

M. MONTINARI, Storia di Galatina,a cura di A. Antonaci.

Altobello VernaleoneAltobello Vernaleone nacque a Galatina

nel 1496 e morì il 17 febbraio 1555.Fu letterato, poeta e medico.Egli fece rappresentare, il 24 giugno 1541

nella sua città natale, in ottava rima, la “Pre-sentazione di San Gio: Battista,... recitatapubblicamente nel 1541”.Fu protettore di letterati e fino al 1540 sin-

daco di Galatina. Ebbe cinque figli: GiovanPaolo, Ottaviano e Leonarda e di essi andavamolto orgoglioso, come possiamo notare dalseguente sonetto tratto dal suo “canzoniere”:

S’io vivo altiero e colmo letitiapei tre bei figli, docti e virtuosi,

mercè del cielo, el qual con rai gratiosiviltà del pecto expulse et avaritia.

Altobello ebbe due mogli: la prima fu la fi-glia di Francesco de Basili, detto Monaco (dalei ebbe tre figli: Rocco, Ottaviano e GiovanPaolo); la seconda fu Giulia Guidano, figliadi Mercantonio da cui ebbe una figlia dinome Giulia. L’ultima, Leonarda, (la Saffo diGalatina), che non figura nella numerazionedei fuochi del 1545 di Galatina appare comefiglia nel suo canzoniere.Il figlio Ottaviano (o Ottavio) Vernaleone

sposò Cornelia Mongiò e fu autore della rap-presentazione sacra “La Schiava” eseguita aGalatina il 28 agosto 1569.

G. LO BUE, “Lo spettacolo a Galatina” NduvinieddhruTegnu na caniscia de cerasea sera esse, a matina trase.

(cielo stellato)

RECITA UN ANTICO PROVERBIO:

“Se rrecorda le vignea lla chiazza”

Per indicare che un determi-nato fatto rimonta ad epocamolto remota.Si vuole che anticamente, in una certazona della Piazza Fontana, esi-stessero alcune piantagioni divite.

L’Epifania e il battesimodi Gesù Bambino

La festa che chiude ufficialmente il periododi Natale è l’Epifania che significa manifesta-zione.Al 6 Gennaio sono legate le tradizioni della

befana e del battesimo di Gesù Bambino. Ilsenso della Befana è connesso con l’episodioEvangelico dell’arrivo dei Re Magi e la presen-tazione dei loro doni.In questo giorno, infatti, nel presepe i Magi

si spostano ritualmente vicino la culla, e daquesto trae spunto la tradizione diffusissimaovunque del regalo ai bambini.Appendere la calza sotto il camino e la sicu-

rezza che la Befana la notte verrà per portareil dono è per i bambini un momento di gioiasincera... Meno conosciuta è invece l’anticausanza di battezzare il Bambino la mattina del-l’Epifania. Solo convenzionalmente però l’Epi-fania si identifica con il Battesimo di Gesù, chericorre il 13 Gennaio.

L. BIANCO, “Le tradizioni popolaridi Aradeo e dei paesi vicini”

Lu sciacuddhri:una leggenda popolare

È una delle più antiche, scaturita dalla fanta-sia sempre fervida della gente di casa nostra.Tramandata di generazione in generazione, ètuttora nota nei paesi del Salento, anche se ilprotagonista assume, ora il nome di Laùro oLaurieddhu (Lecce), ora quello di Uru o Scia-cuddhi (a nord di Lecce), ora quello più co-mune di Scazzamurreddu (Basso Salento).Lo Sciacuddhri è dunque un folletto che, tra

le altre, ha il potere straordinario di opprimerecon la sua presenza, di procurare incubi not-turni, turbamenti, affanni. Egli esercita peròquesto strano potere solo quando si accorge diessere contrariato dalle persone che vuol tute-lare o beneficare. La fantasia popolare lo de-scrive come uno spiritello innocuo, altoappena due spanne, bonario, faceto, burlone,ma anche dispettoso, presente nelle case enelle stalle dei contadini, per i quali prova aseconda dei casi ed in varie maniere, simpatiao antipatia.La tradizione orale ci fa sapere che, se una

persona gli è antipatica, questa non ha piùpace, nè di giorno, nè di notte.Di giorno, in casa, le fa mille dispetti, di

notte si siede pesantemente sulla sua pancia,sino a togliere il respiro. Nella stalla dei conta-dini si diverte a togliere il mangime alle bestie,ad intrecciare le code e le criniere a muli ed aicavalli.Se una persona gli è invece simpatica, il fol-

letto si mostra premuroso e spesso l’aiuta afarle individuare il posto dell’acchiatura, sotter-rata quasi sempre nei campi o riposta tra i murispessi di una casa dai vecchi antenati.Dal racconto degli anziani sappiamo che lu

“Sciacuddhri” ti chiede: “Vuoi denari o cuper-chi (cocci)?”, alla risposta “denari” porta “cu-perchi” e viceversa.

A. QUARANTA, “Marittima un paesedel Salento”.

La cucina de na fiataPANZEROTTI DEPATATECU LLA RICOTTA SALATAIngredienti: 500 gr. di patate, 1/2 cucchiaio di ricotta salata, 30 gr. di farina, menta tritata, 2uova, pane grattugiato, sale, pepe.Lessare e passare le patate al passaverdure, amalgamarle con i vari ingredienti aggiungendodel pane grattugiato q. b. Con le mani inumidite formare dei bastoncini che vanno, ad uno aduno, passati nel pane grattugiato. Friggere i panzerotti in abbondante olio bollente.

CuriositàLe nostre nonne usavano frequentemente le patate per realizzare varie pietanze come i pan-zerotti ai quali davano oltre la classica forma di bastoncini anche quella di funghetti e taral-lini. Le patate, infatti, sono alla base di numerosi piatti “poveri” della cucina galatinese, poichèproprio nelle campagne circostanti, le tipiche “terre rosse”, sono state e sono tuttora coltivatele note “Seglinde” di Galatina. Si tratta di patate dalla forma ovale allungata con la buccia di

colore giallo intenso e pasta gialla. Esse avendo trovato un ambiente a loro partico-larmente congeniale, sviluppano ineguagliabili caratteristiche organolettiche.

Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione ed al suo uso, venne datodall’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, il Cuoco Ga-lante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’usodella fecola di patate per confezionare il pane (mescolandola al 50% con fa-rina di grano) e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego ga-stronomico.

Il Capodanno SalentinoIl giorno della fine dell’anno nei nostri paesi,

mancano quei particolari usi e tradizioni che sitrovano invece in altre aree culturali. Il passag-gio all’anno nuovo è accompagnato dallo sparodi botti... Alla mezzanotte per antica tradizione ilsagrestano, suonava la “sperazione” per l’annovecchio, ed ogni famiglia riunita attorno al giocodella tombola festeggiava l’inizio del nuovoanno. Anche oggi si fanno voti augurali perquello nuovo, sperando che il vecchio si sia por-tato nella morte tutti i mali. Anche il primogiorno dell’anno è considerato nel modo dicomportarsi della comunità, al pari del giorno diNatale. Alla generica convinzione di inizio del-l’anno ed alla volontà di iniziarlo sotto i miglioriauspici, sia astenendosi dal lavoro, sia andandoin Chiesa, un motivo contingente e socialmentevalido spinge la gente ad andare a Messa.Nelle Messe di Capodanno, infatti, per antica

tradizione il Celebrante su informazioni del Co-mune, riferisce all’Assemblea i movimenti ana-grafici della popolazione durante l’anno scorso...Di Capodanno è molto bene guardarsi dal farequalcosa di male o dall’incorrere in qualche ma-lanno, ecc.: il proverbio dice: “Cinca face nacosa te Caputannu, face ddhra cosa pè tuttul’annu”.(“Chi fa una cosa di Capodanno, fa quella

cosa per tutto l’anno”).L. BIANCO, “Le tradizioni popolari

di Aradeo e dei paesi vicini”

Detti popolariCi nasce sfurtunatu li chiove an culu

puru se ste ssettatu.

Quandu la muscia mmanca,tutti li surici ballanu.

Nu pilu de ciucciu nu mmancaa ciuvieddhri.

La maleerba crisce sempre!

A caddhrina vecchiavole u caddhruzzu ggiovine.

Galatina - Piazza Gioacchino Toma

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NduvinieddhruSu bbenutu de Napulimposta cu tti nducu nacosa tosta: ccu lla pozzaremuddhare la signuraave faticare.

(baccalà)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

L 1 S. Leonio

M 2 Presentazione del Signore

M 3 S. Biagio

G 4 S. Gilberto

V 5 S. Agata

S 6 S. Paolo Miki �

D 7 S. Riccardo

L 8 S. Girolamo E.

M 9 S. Apollonia

M 10 S. Arnaldo

G 11 N.S. di Lourdes

V 12 S. Eulalia

S 13 S. Benigno

D 14 S. Valentino �

L 15 S. Faustino

M 16 Le Ceneri

M 17 S. Donato M.

G 18 S. Simeone

V 19 S. Corrado

S 20 S. Ulrico

D 21 Iª di Quaresima

L 22 Cattedra di s. Pietro �

M 23 S. Policarpo

M 24 S. Fortunato

G 25 S. Costanza

V 26 S. Nestore

S 27 S. Onorina

D 28 IIª di Quaresima �

Febbraio 2010

La cucina de na fiataAFRICANIIngredienti: 1 kg. di zucchero, 30 tuorli d’uovo.Lavorare a lungo i tuorli con lo zucchero (la buona riuscita di questo dolce dipende dalla la-vorazione dell’impasto che deve essere lunga e molto energica) fino ad ottenere un compo-sto cremoso e omogeneo.Quando il composto si gonfia (in superfice si formano piccole bolle d’aria), lo si dispone a cuc-chiate in apposite formelle di carta (cm 10x4 con un bordo di cm 2). Le formelle vanno messein forno caldissimo, ma spento. Quando gli africani sono asciutti, si possono ritirare dal forno.Un tempo questi dolci venivano cotti nel forno a legna.

CuriositàGli africani chiamati anche dita d’apostolo, per il loro aspetto affusolato, pare che siano natinel 1793 a Galatina: “Il calore delle mani che impastano i tuorli d’uovo e lo zucchero deve av-

volgere l’amalgama come una carezza voluttuosa ad una donna.Solo attraverso l’energia scaricata le dita acquisteranno un’anima, trasmetteranno la

passione alla bocca avida di mordere, come fa l’amante prima di cedere allamarea dei sensi”. Così reciterebbe uno scritto attribuito al pasticcere che nelXVIII secolo inventò questo dolce. Usato sin dal secolo scorso come alimentoenergetico e che veniva regalato in particolari occasioni, per la nascita di unfiglio, o ai convalescenti e offerto come “cùnsulu” (dono consolatore)ai congiunti di un defunto.

Gli edifizi privati a GalatinaFra le costruzioni private meritano di essere segnalate quella del palazzo ducale, costruito al-

lorchè Galatina fu dal Re Ferdinando il Cattolico ceduta in feudo alla famiglia Castriota Scander-berg; il palazzo Calofilippi, attuamente Galluccio, in Piazza S. Pietro, stile barocco; pure di stilebarocco quello Congedo, già Tafuri in Piazza S. Stefano; di stile rinascimento il palazzo Verna-leone, nel corso Garibaldi, interessante per il portale; il palazzo Vignola, nel largo omonimo, distile rococò. Meritano speciale attenzione i cortili con scalinata esterna ad arco sorretto da colonnenel corso Garibaldi; il palazzo Greco-Bardoscia nel corso Vittorio Emanuele, di stile rococò; il pa-lazzo Bardoscia-Lubelli in via P. Siciliani.Inoltre sparsi qua e là per la città si trovano capitelli, architravi, mensole ecc., che meritano

di essere segnalati, perchè riprodotti con gusto artistico.M. MONTINARI, “Storia di Galatina a cura di Antonio Antonaci”

Le pietre di costruzione:il tufo e il carparo

La pietra generalmente adoperata è il tufofriabile nell’interno; le facciate invece per lo piùsono rivestite di pietra leccese oppure di càr-paro o di calcare compatto.Tanto le strade interne dell’abitato quanto le

piazze non hanno una sistemazione razionale,perchè le amministrazioni comunali, per ovvieragioni, hanno trascurato di provvedere allacompilazione di un piano regolatore, che di-sciplinasse le costruzioni e la regolarità dellestrade.

M. MONTINARI, “Storia di Galatina”a cura di A. Antonaci.

GALATINA.IL VEGLIONCINO DEI BAMBININel periodo di Carnevale, a divertirsi non

erano solo gli adulti, alcuni oganizzatori ave-vano pensato anche ai ragazzi. Per esempio ilmartedi grasso, il Veglioncino dei Bambini, fuorganizzato, sempre al Cavallino Bianco, dalleDame di Carità, il cui presidente era LuisinaVallone Sticchi. Esso nacque nel 1950 con unsemplice scopo: sia per far divertire bambini eragazzi che, pazientemene, erano stati prepa-rati dalle solerti suore, sia per aiutare i poveriammalati ai quali andava l’introito della mani-festazione.Si trattava di uno spettacolo, semplice e

spontaneo, ricco di canti, danze e scenette cheallietavano la serata, alla quale partecipavanocentinaia di bambini e ragazzi provenienti datutta la provincia.Indimenticabile fu la diciottesima edizione

(1969) dove si esibirono, dando spettacolo, ibambini dell’Istituto Immacolata con la notosis-sima canzone: Zum, Zum, Zum. Il programmadella serata, comprendeva anche numeri di altribambini che ballavano la tarantella siciliana,

alcuni che eseguivano la danzaspagnola e balletti su musica diStrauss; altri ancora che conclu-devano con uno spettacolo qua-driglia. La gente ricorda, taleveglioncino, come uno spetta-colo spontaneo, in cui risaltavala bravura dei piccoli attori cheavevano suscitato consenso eapplausi della platea, special-mente per gli errori dei piccoliche li rendevano più simpatici.Sul giornale galatinese, Il Gala-tino, (dedicato al grande teologodel Cinquecento Pietro Co-lonna), leggiamo che i parteci-panti erano talmente numerosiche nel 1972, la manifestazioneraggiunse il tutto esaurito. Que-

sta edizione, come tante altre, fu presentata daLino Bello, vincitore della seconda edizione diVoci Nuove del 1968.Oggi il Veglioncino dei Bambini continua

ancora a vivere a differenza dei grandi veglionidel passato, che sono ormai tramontati, fra fastie luci, lasciando ricordi indimenticabili a quantihanno avuto modo di vivere quelle serate spu-meggianti e irripetibili.

G. LO BUE, “Lo spettacolo a Galatina”

Intervistaal Prof. Carlo MinafraIl Prof. Carlo Minafra nell’intervista rac-

conta: “I soci Carlo Guido e Attilio Distantedopo i grandi guadagni nella produzione diun ottimo vino decisero di costruire ungrande stabilimento vinicolo.Occasionalmente il 6 febbraio 1947 orga-

nizzarono in questo locale un riuscitissimoveglione e incoraggiati dal successo, insiemead altri soci decisero di costruire l’attuale Ca-vallino Bianco con un preventivo di spesa dilire 110 milioni.Il nome al cinema fu dato dalla moglie di

Attilio dopo aver assistito a una commedia.Il progetto architettonico non fu studiato

nei minimi particolari tanto è vero che solodopo averlo inaugurato si accorsero dellapoca profondità del palcoscenico che lo in-grandirono a spesa della strada.L’entrata del cinema era alle spalle di

quella attuale. Durante l’estate, le proiezionidel film avvenivano nell’Arena CavallinoBianco adiacente al cinema C.B., dove at-tualmente vi è costruito un gran palazzo.Un’altra curiosità era quella del Ristorante

adiacente al cinema (attualmente c’è il nego-zio di ricambi Fiat) dove si fermavano artistie cantanti”.

G. LO BUE, “Lo spettacolo a Galatina”.

Lu CuccurucuIu ti cantu lu cuccurucù.Dimmi dimmi che cosa vuoi tu?

Io voglio li toi capelli.I miei capelli che cosa li fai?Per far il nido ai passerellie per cantare lu cuccurucù.

Iu ti cantu lu cuccurucù.Dimmi dimmi che cosa vuoi tu?

Io voglio il tuo nasu.Il mio nasu che cosa lo fai?Pe’ far la pippa a san Tommasue per cantare lu cuccurucù.

Iu ti cantu lu cuccurucù.Dimmi dimmi che cosa vuoi tu?

Io voglio la tua bocca.La mia bocca che cosa la fai?Pe’ scavazzare la pagnottae per cantare lu cuccurucù.

Iu ti cantu lu cuccurucù.Dimmi dimmi che cosa vuoi tu?

Io voglio le tue ‘ntrame.Le mie ‘ntrame che cosa le fai?Pe’ far le corde alle campanee per cantare lu cuccurucù.

Le case salentine metà ‘800“Le case, dice il Vanna, sono quasi tutte a

due piani, poche ad uno solo. Le abitazioni deisignori per lo più si veggono addobate decen-temente, e qualcuna anche con buon gusto”.È questo gusto che noi abbiamo perduto,

con tipi di costruzioni e con stili che nonhanno nulla a che fare con l’ambiente caratte-ristico della nostra Penisola salentina, dove nonsi dovrebbero costruire case a più di due piani,come appunto scriveva il Vanna nella metà del-l’Ottocento! La descrizione del Vanna scendenei particolari: “le stanze per lo più sono co-perte a soffitto, salvo le nuove case, che sonoa volta. I pavimenti si fanno con particolare mi-scela di calce, polvere di tufo, e mattoni pesti,e sono sì ben lavorati, che dopo qualche annoacquistano una consistenza marmorea. Si sca-vano le fondamenta degli edifici alla profon-dità da 6 a 13 palmi”.

M. MONTINARI, “Storia di Galatina”a cura di A. Antonaci.

Il Teatro Cavallino BiancoEsso fu inaugurato il 6 febbraio ‘47 con una

meravigliosa e indimenticabile serata danzante,ma la grande e vera inaugurazione fu fatta peròil 3 febbraio ‘49, con la rappresentazione del-l’opera Rigoletto, alla presenza dell’impresario,Antonio De Gioia e del sindaco di Galatina,Carmine D’Amico.L’attuale costruzione fu progettata dall’inge-

gnere Armando Stasi, mentre il primo proget-tista fu il barese Giuseppe Basile.Anche il Cavallino Bianco, dopo gli anni ‘70,

subì la crisi del cinema ma continuò a viveregrazie alla sua storia che è più legata alle tan-tissime attività spettacolari: le serate danzanti,gli indimenticabili veglioni, lo spettacolo del Li-ving e tanti altri spettacoli e conferenze chenon hanno fatto calare il sipario sull’attualecine-teatro.Anzi, tutte queste attività sono indice di una

intensa voglia di sopravvivere, avendo già pro-grammato una ricchissima stagione teatrale ecinematografica per il 1994.

G. LO BUE, “Lo spettacolo a Galatina”.

Il numero TREEccovi alcuni proverbi galatinesi in cuiquesto numero fa la parte del leone:

Poi ssire sbergugnatu de thre manere: demamma, de sureddhre e de mujere.

Thre sù li suttili: li monaci, li prevati e cinu tene fili.

Monaci, prevati e passari, cazzaloru lacapu e lassali.

Cuardate de sti thre C: crussupinu, cum-pare e cagnatu.

Thre cose te fannu murire: stare ntavula enu mangiare, stare a lu jettu e nu dur-mire, ‘spettare e nu nbenire.

Detti popolariPorta la capu susu la coppula.

Ci piscia contruvientusi mmoddhra la camisa.Vutai, vutai, vutai,

ma meju de casa mia nu truvai.Lu cecatu se porta pè mmanue llu curnutu pè mmusu.Pantalone paca pè ttutti.

Galatina - Corso Principe di Piemonte 1940

Page 5: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

L 1 S. Albino

M 2 s. Basileo martire

M 3 S. Cunegola

G 4 S. Casimiro

V 5 S. Foca

S 6 S. Marziano

D 7 IIIª di Quaresima �

L 8 S. Giovanni di Dio / Festa della donna

M 9 S. Francesca R.

M 10 S. Emiliano

G 11 S. Costantino

V 12 S. Massimiliano

S 13 S. Rodrigo

D 14 IVª di Quaresima

L 15 S. Cesare �

M 16 S. Eriberto V.

M 17 S. Patrizio

G 18 S. Cirillo di Ger.

V 19 S. Giuseppe

S 20 S. Claudia

D 21 Vª di Quaresima

L 22 S. Benvenuto

M 23 S. Turibio �

M 24 S. Fortunato

G 25 Annunciazione M.V.

V 26 S. Eginardo

S 27 S. Augusta

D 28 Le Palme

L 29 S. Secondo

M 30 S. Guido �

M 31 S. Beniamino

Marzo 2010Galatina: area e confiniIl suo territorio si estende per circa 8193 et-

tari e comprende terreni costituiti verso l’abi-tato da argille sabbiose, da sabbioni calcarei aSud-Est e a Sud, da calcare compatto cretaceoverso Ovest (serra Latronica) e verso il confinecol territorio del comune di Corigliano (spec-chia Murica).I confini di detto territorio non sono deter-

minati da caratteristiche naturali, ma per lo piùda strade ordinarie, da fossi di scolo, da muria secco di divisione di diverse proprietà. Sonoinoltre ben precisi e non soggetti a contesta-zioni con i comuni limitrofi. Mancano del tuttoisole amministrative. Esistono invece due isoleecclesiastiche (fraz. Noha-Collemeto).Area del comune in ha. 8’193.Area della provincia ha. 275’939.Percentuale rispetto all’area totale della pro-

vincia: 2,96.È al terzo posto nell’elenco dei comuni della

provincia in ordine decrescente di area.Il comune comprende le due frazioni di

Noha e Collemeto, centri entrambi di relativaimportanza storica locale, ma ben fissati da tra-dizioni e dalla bontà dei terreni.

M. MONTINARI, “Storia di Galatina”a cura di A. Antonaci

“La Madonna di Costantinopoli e i balli tradizionali”La danza ha origini remote. In tutte le epoche storiche e presso tutti i popoli della terra è stata pra-

ticata, collettivamente o individualmente, con finalità diverse, che vanno dal sacro al rituale, al ma-gico e al profano. Nel tempo, ha via via registrato consistenti variazioni (tecniche, coreografiche edestetico-espressive) di pari passo con la evoluzione del costume e col progresso acquisito dai vari cetisociali. Danze folcloriche, di ispirazione colta o popolare, si sono avute nel passato in tutti i paesi delbacino Mediterraneo.Nel Medioevo, la danza fu sempre osteggiata dalla Chiesa che la considerava come veicolo di im-

mortalità e di dissolutezza. Dalle corti signorili ben presto fu trasferita come puro divertimento, inuoghi pubblici, dove fu praticata da tutte le classi sociali. Divenne così ballo popolare, che, come trat-tenimento sociale, fu esercitato e si affermò nel Rinascimento in tutta Europa e quindi in Italia; a pocoa poco, si diffuse poi nei piccoli paesi per solennizzare alcune ricorrenze di rilievo: onomastici, com-pleanni, sposalizi, feste natalizie (famosi i quattro salti in famiglia), Carnevale. Il ballo solitamente eraaccompagnato da musica strumentale e spesso anche da canti che scandivano il ritmo, conferendomaggiore espressività ad ogni movimento collettivo o individuale. I balli popolari tradizionali costi-tuiscono oggi un patrimonio di cultura folclorica che merita di essere conosciuta e valorizzato.In terra salentina, i più antichi balli popolari sono: la tarantella e la pizzica-pizzica, e poi il valzer,

la quadriglia, la marzurka e la pòlka. Il valzer, nato nell’ultima metà del Settecento (Parigi- Vienna),la mazurka (in Polonia), la quadriglia (in Francia), la polka (in Boemia) sono tutti balli di origine nonmediterranea, che assursero a grande popolarità nei vari paesi europei nel secolo XIX, ed ancora oggisono molto diffusi e praticati nei nostri paesi. La tarantella è una danza dal movimento vivacissimo,di origine napoletana, praticata fin dal XIV secolo. I danzatori, uomini e donne, si accompagnano coltamburello a sonagli per scandire ritmicamente i loro movimenti, e nelle varie figurazioni riprodu-cono le movenze parossistiche dei tarantolati.La pizzica-pizzica, anch’essa una danza antica, dal movimento assai vivace, viene ballata in coppia

al suono della musica. Un tempo non molto lontano a Marittima, la pizzica-pizzica, per una vecchiausanza, si ballava, in piazza, a conclusione della festa della Madonna di Castantinopoli (primo mar-tedì di marzo), con l’accompagnamento della banda, che, per l’occasione, apportava una variante alprogramma prestabilito, cedendo alle continue pressioni dei ballerini del luogo (assidui frequentatoridelle putèche).

A. QUARANTA,“Marittima un Paese del Salento”. La cucina de na fiata

CICORECRESTECU LLEPURPETTINEIngredienti: 1 kg. di cicorine selvatiche, 100 gr. di formaggio pecorino grattugiato, “spun-zali”, sedano, olio.Ingredienti per le polpettine: 300 gr. di carne di vitello macinato, 1 uovo, 50 gr. di formaggio pe-corino grattugiato, 50 gr. di pane grattugiato, prezzemolo tritato.Ingredienti per il brodo vegetale: 1 patata, 1 cipolla, 1 carota, sedano, prezzemolo, qualche fo-glia di bietola, olio, sale.Impastare la carne tritata con i vari ingredienti; formare delle polpettine e cuocerle per dieci mi-nuti nel brodo vegetale bollente. Pulire le cicorine, lavarle e sbollentarle in acqua salata. Siste-marle in un “tianu” sul cui fondo si sono sistemati gli “spunzali”, e il sedano tritato; aggiungerele polpettine con un po’ di brodo vegetale, spolverare il tutto con del formaggio, condire con oliofresco e infornarle a 180°.

Curiosità - Le foje mbischeLe nostre nonne chiamavano le “cicorine creste” raccolte nella campagna salentina “foje mbische”perchè erano formate da un’ampia varietà di verdure selvatiche. Un tempo tutti si recavano araccoglierle ed erano capaci di riconoscere i vari tipi di foje mbische (almeno una decina). Le

nostre nonne cuocevano le cicorine servendosi della pentola media che avevano vicinoal camino, la “caddara”, insieme a quella più grande “lu caddarottu” e a quella più pic-

cola “lu caddaruttieddhru”. Queste pentole duravano tutta la vita di una buonamassaia e quando era necessario venivano riparate dallo stagnino. Il mestieredello stagnino è ormai del tutto scomparso, ma a Galatina ancora resiste poi-chè “mesciu Piethru” (Pietro Giaccari) lo esercita ancora nella sua bottega invia Turati, vicino alla Porta Nuova. Ce lo descrive nella bella poesia a luidedicata Don Salvatore Bello: “Lo stagnino di Porta Nuova”.

LA TAVOLA DI SANGIUSEPPEOgni anno, il 19 marzo, in molti paesi

della provincia di Lecce, si rinnova la tradi-zione della sagra in onore di San Giuseppe.Si tratta di una festa paesana che, secondogli usi e costumi locali, ha insieme un qual-cosa di sacro e di profano, di religioso e difolcloristico. Di origine molto remota, si dicesia stata introdotta nel Salento da profughialbanesi rifugiatisi in Puglia, nei secoli scorsi,sotto la pressione dei Turchi.La cosiddetta “tàula de San Ciseppe”, alle-

stita per la ricorrenza, consiste in una enormetavolata con pietanze tipiche molto buone, daconsumare, secondo un rito tutto particolare.In origine, veniva apparecchiata il giornodella vigilia in casa di famiglie particolarmentedevote, oppure di facoltosi benestanti, perun’opera di carità verso i poveri del paese,che erano gli invitati privilegiati.I commensali dovevano essere in grazia

di Dio, a tavola impersonavano alcuni santied il più anziano, quello che occupava ilposto centrale, era San Giuseppe.Il pranzo prevedeva, a seconda dei paesi,

nove o tredici pietanze diverse, ciascuna conun signficato simbolico e rituale particolare.Il piatto fondamentale era la “massa” (nelleccese detta anche “ciceri e tria”), una pie-tanza a base di taglioline fatte in casa, di se-mola di grano duro, unite a ceci, cavoli edaltri ingredienti, preparata e condita ancoraoggi con una infinità di varianti da paese apaese.L’usanza tradizionale della sagra permane

tuttora in alcuni centri salentini, ma i “po-veri” non esistono più!A Marittima, anche se non vi è più la con-

suetudine della “tàula de San Ciseppe”, siusa ugualmente preparare la “massa” per de-vozione al Santo, pietanza che viene scam-biata tra famiglie di amici.Qualche anno addietro, alcune persone

l’iniziativa di organizzare, con il cotributo ela collaborazione di tutti, la tradizione sagradi San Giuseppe celebrata coralmente al-l’aperto e abbondantemente innaffiata dalbuon vino offerto dalla gente del luogo. Neinostri giorni, per l‘occasione, in ogni casa,di solito, oltre alla “massa” ed ai vari con-torni, la tavola viene ingentilita, nel finale,dalla presenza delle zeppole, dolce caratte-ristico di origine napoletana, che solletica ilpalato e raddolcisce i fumi del vino.San Giuseppe è il protettore dei fale-

gnami, ed un quadretto votivo con la sua im-magine lo si può trovare facilmente neilaboratori di falegnameria del paese.

A. QUARANTA, “Marittima un paesedel Salento”.

Lo Stagnino di Porta NuovaLo stagnino di Porta Nuovanel suo bugicattolo annerito,un taciturno come il suo lavoro,alto, i neri capelli e gli anni,e ce n’ha, ben portati,la schiena ricurva sui carboniin mano il ferro del mestiereun saldatoio del ‘43,ripara i radiatori alle auto d’epoca,salda ferri, ottoni e rami, da semprea quell’angolo presso Porta Nuova:san Pietro in piedistallo,“mesciu Piethru” nella “nicchia”,resistono il Pescatore e lo Stagninoalle storiche retate del progressoora di “fischiulari”, sarti e maniscalchi,ora di funai, ciabattini...e santi;chissà se ha “partita” ed un partito,forse per lui le “fatture”quelle della “macàra” soletanae la scheda elettorale un’occasioneper rivedere la scuola, amatama non quanto il padre e il suo mestiere,stagnino pure lui coi nonni e i bisnonni,e sempre all’angolo sotto Porta Nuovain via Turati che meglio chiameremmovia degli stagnini, gente nostradei nostri campanili.

S. BELLO, “Di giorno in giorno”

“Ti mandu lu Caddara!”Gli anni ‘30 furono terribili anche per i Galati-

nesi. La miseria era dilagante, la disoccupazionealle stelle. Con salari di fame, le tabacchine pren-devano la tubercolosi nelle fabbriche di tabacco.“Per cucinare -ricorda Biagio- la povera gente,

non potendo comprare la legna, usava le “còpite”(risulta della monda delle olive che si raccoglie-vano in campagna). Non era spettacolo raro ve-dere in giro braccianti di poco più di cinquantaanni letteralmente piegati in due a causa del durolavoro svolto sin dall’infanzia. Non era spettacoloraro nemmeno vedere la domenica questi stessicontadini sotto i grandi portoni padronali in attesadi ricevere l’elemosina. I senza-tetto venivanoospitati in un grande locale in via Tanza, nei pressidella stazione ferroviaria, chiamato “cambarone”(camerone). Le varie famiglie si dividevano lo spa-zio con lenzuola appese ai fili di ferro. È inutileprecisare che non c’erano servizi igienici: provve-deva “la caratizza” a svuotare i vasi da notte, comed’altre parte era per gran parte delle case di Gala-tina. Il giovedì, poi, giorno di mercato, in PiazzaSan Pietro venivano effettuate delle vendite all’in-canto di beni pignorati a poveracci insolventi. Sitrattava -come è facile intuire- di masserizie dipoco va-lore, pignorate dall’Ufficiale Giudiziariodel tempo, un tale soprannominato “Caddara!”. “Timandu lu Caddara!”, cioè “Ti faccio pignorare lacasa!”, si diceva scherzosamente per far paura aqualcuno.

C. CAGGIA, “Cronache Galatinesi”, Anni 20-40

NduvinieddhruTegnu na staddhrachina de cavaddhri vianchia mmienzu unu russuca tira caggi a tutti quanti.

(la lingua e i denti)

Detti popolariQuandu trovi fessi,inchine nu saccu.

Nu mantu d’oru ognivergogna ncuccia.Li sordi suntu comuli paducchi: fattulu nidu nu ssene vannu cchiui.Ci cotula lu culu,ceddhru chiama.

Bacia ddhra manu canu poti mozzacare.

Sui tavoli, accanto alla“massa” si disponevano

generalmente (esistono peròsfumature diverse da zona a zona)

le seguenti pietanze: bucatini al miele,“pampasciuni” preparati in diverse maniere,“ronchettu in umitu” e poi una serie di frit-ture, dal pesce al baccalà, al cavolfiore.Ed infine “pittule”, vari tipi di frutta fresca

e secca, e vino buono. Completamente as-sente la carne. A tavola, inoltre, facevano bel-la mostra gigantesche corone di pane, con-fezionate appositamente per l’occasione daiforni locali.

A. QUARANTA, “Marittimaun Paese del Salento”

Le pietanzesulla tavola

di San Giuseppe

Page 6: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

G 1 S. Ugo

V 2 S. Francesco di P.

S 3 S. Evagrio

D 4 Pasqua

L 5 Dell’Angelo

M 6 S. Diogene �

M 7 S. Giovanni Battista de La Salle

G 8 S. Alberto

V 9 S. Maria Cleofe

S 10 S. Ezechiele

D 11 S. Stanislao

L 12 S. Zenone

M 13 S. Martino I, papa

M 14 S. Lamberto �

G 15 S. Annibale

V 16 S. Bernardetta

S 17 S. Arcangelo

D 18 S. Galdino

L 19 S. Espedito

M 20 S. Sulpizio

M 21 S. Anselmo d’A. �

G 22 S. Leonida

V 23 S. Giorgio m.

S 24 S. Fedele da Sigm.

D 25 S. Marco evan. - Anniv. Liberazione

L 26 S. Cleto

M 27 S. Zita

M 28 S. Pietro Chanel �

G 29 S. Caterina da Siena

V 30 S. Pio V, papa

Aprile 2010Galatina, la tela della Crocifissione

nella Chiesa dell’Addolorata

La tela della crocifissione, in preziosa cornice, è anch’essa negli schemi più diffusi delle pre-ferenze stilistiche della fine del Seicento; specialmente la zona sinistra risponde a tutta una tec-nica particolare, con la luce diffusa dalla persona del Cristo pendente dalla Croce e illuminantecavallo e cavaliere (il Longino nell’atto di vibrare il colpo al costato del Crocifisso), in un impetodi linee e un giuoco di chiaroscuri che dà movimento a tutto l’assieme e che contrasta con la sta-ticità della zona destra. Alle spalle del Crocifisso, la cupola del tempio di Gerusalemme si mostradi luce riflessa e dà un senso di tragicità allo spettacolo cosmico dell’ora sesta di quella fatidicagiornata di Parascere. Tutti gli angeli che circondano dallo esterno il riquadro in cui è incorni-ciata la tela della Crocifissione danno un tono di distrazione, che in realtà non si addice all’am-biente.

MONS. A. ANTONACI, “La Chiesa dell’Addolorata in Galatina”

La cucina de na fiataPECURIEDDHRU CU LLI PAMPASCIUNIIngredienti: 2 kg. di agnello a pezzi, 600 gr. di “pampasciuni” (muscari), 10 pomodorini,rosmarino, aglio, prezzemolo, pane grattugiato, olio, sale, pepe.Disporre i pezzi dell’agnello in una ciotola coprendoli di vino e lasciarli riposare per unpaio d’ore. Togliere i pezzi d’agnello e sistemarli in un tegame da forno con i vari odori,i pomodorini a pezzetti, e i “pampasciuni” puliti e lavati. Coprire il tutto con una spolve-rata abbondante di pane grattugiato e condire con olio. Infornare a 180°.

CuriositàL’agnello al forno è il vero grande piatto della cucina salentina, è quello delle grandi oc-casioni ed è immancabile nei pranzi di Natale e di Pasqua.

La pecora lecceseLe migliori carni ovine provengono da zone situate lungo le coste marine, chiamate per-ciò “dei prati salati”. Un tempo erano infatti ricercati i montoni e gli agnelli provenienti

dal capo di Leuca. Nel Salento esiste una razza specifica: la Moscia o Leccese.E’ un’antichissima razza di agnello con la faccia nera e di piccola taglia.

Esse si sono adattate da secoli alla povertà e aridità dei pascoli salentini riu-scendo a brucare negli anfratti delle rocce, tra pietre e irsuti arbusti dellamacchia mediterranea da cui sia il latte che la carne traggono dei caratte-ristici sapori che vengono esaltati nelle ricette tradizionali della cucinasalentina e durante la cottura sviluppano aromi e sapidità molto par-ticolari.

Lli ggermogli ti lu sipurcruQuaranta ggiurni primati la sciuitìa santala nonna e lla zzìapriparanu li megghiupiattini, ciotulee cestini,ca li simentis’ìanu mmintiree ccu fantasias’ìanu mmiscare.Sotta llu liettuo intra llu stanzinu,allo scuru,lu piattuissìa cchiù ffinu.NNa fiata allu ggiurnus’ìanu dd’acquarepi ffarli bbeneggermogliare.Quannu rrìàala santa mercutìa,ogne ggermogliarealla luce issìa.Eranu tantisciardinieddri,erba e ffiore,ca si offrianoa nostro Signore.Alla chiesali purtanuli caruseddre,ca facìanuli offertecchiù bbeddre.Cussì ddri chiantetinnireddre creanunnu spiandorenturnu allu sipurcruti lu Retentore.

D. SEVERINO, Copertino

Sabato SantoLa mattinata di questo ultimo giorno è intera-

mente legata al lavoro di disfare il Sepolcro, diconservare nelle nicche le statue, e di prepara-re il panno e la cerimonia della Resurrezione. Siguasta il Sepolcro e con i suoi fiori si orna l’Al-tare Maggiore. Tutti quelli poi che hanno porta-to il vaso di grano germogliato, vengono a ripren-derselo ed è interessante conoscere la fine cheesso fa. Lo si brucia a casa, o lo si seppellisce incampagna a tutela Divina per i raccolti, anche per-chè non è bene che quel grano che ha presen-ziato al sepolcro, possa essere profanato.

LUIGI BIANCO, “Le tradizioni popolaridi Aradeo e dei paesi vicini”

“LU TERREMOTU”Antichissima usanza praticata inChiesa dai fedeli il giorno delVenerdì Santo, quando duran-te la lettura del Passio, veni-va rievocato il momentoestremo della morte di no-stro Signore Gesù Cristo.I bambini in particolare,

chiassoni per natura, provavanogran gusto a riprodurre, in quel pre-ciso istante, il terremoto descrit-to dal Vangelo, facendo ungran fracasso con le trenule edi tric-trac e addirittura percuo-tendo gli scanni della Chiesacon qualche pietra preventiva-mente nascosta nelle tasche! Il

terremoto si ripeteva nelle case il gior-no del Sabato Santo, al momento festoso del“Gloria”, quando, le campane della Chiesa dif-fondevano l‘allegro messaggio della Resurrezio-ne.Erano allora le persone anziane, rimaste in

casa, a riprodurlo con oggetti rumorosi e a gri-dare la loro gioia pestando i piedi, leste a cac-ciare “i diavoli da tutti gli angoli e dalle infrat-tuosità dei mobili con scarpe e bastoni”.

A. QUARANTA, “Marittima,un Paese del Salento”

LA SCAMPAGNATA DI PASQUETTACon il mercoledì delle ceneri, nella socieyà conta-

dina dunque, si entra nel vivo della Quaresima e si do-vevano osservare tutti i tabù che la «curemma” appenaimponeva. Tra questi l’astinenza che non era soltantodalle carni. Per tutta la Quaresima infatti, si proibiva an-che di mangiare uova, latte e tutti i suoi derivati. Le mas-saie, dunque, cominciavano l’accumulo delle uova del-le proprie galline durante questo tempo, e talvolta rag-giungevano centinaia,ma nessuno si permetteva di man-giare un uovo in Quaresima. Si sarebbe fatta la scorpac-ciata di uova lesse nel lunedì di Pasqua, durante la tra-dizionenale scampagnata che oggi si chiama di Pasquet-ta, ma che fino agli anni ‘60 era della «Matonna te le cud-dhrure». Una parte di queste uova tre quattro, sarebbestata donata al Scaerdote che nella settimana dopo Pa-squa sarebbe passato ben Benedire le case. Anche peril latte lo stesso discorso; tutto il latte prodotto in Qua-resima lo si trasformava in formaggio e lo si conserva-va. Questo avveniva sia nelle singole famiglie che pos-sedevano una mucca o una capra, ma soprattutto nel-le masserie dove capre e pecore si contavano a svaria-te centinaia, e le mucche a diverse diecine. I magazzi-ni della masseria, si riempivano di moltissime forme diformaggio, sapientemente preparato dalle mani esper-te del massaro e della massara. Lo si lasciava essicca-re, indurire e stagionare per venderlo e consumarlo poidopo Pasqua. L’interdizione Quaresimale di mangiareuova e formaggio va interpretata come una forma par-ticolare di penitenza che univa al concetto di mortifi-cazione della carne, l’utile di risparmiare il cibo base perla scampagnata di Pasquetta.

L. BIANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeoe dei paesi vicini”

Detti popolariLa prucissione è llonga:riquardate la candela.

Senza lu fessa lu cristianu nu campa.Ci finge, vince!

Culu e furtuna, jata a cci l’ave.La sardizza mpena vide lu focu, ùnchia.

USANZEPASQUALIFino a poco tempo fa per Pasqua si usava

preparare i piatti fin dalla prima settimana diQuaresima.Residuo di antichissima e profana usanza,

consiste nel deporre i semi più vari in vasi ein piatti: messi al buio matureranno e cresce-ranno fino al Mercoledì Santo per essereportati nelle chiese e adornare l’altare dovesarà riposto il Ss.mo Sacramento dell’Eucari-stia nel giorno di Giovedì Santo, in CoenaDomini.Tra luci e fiori, essi significavano l’offerta

dei frutti della natura a Gesù, primavera dellavita, mentre tutto si ridestava dal torpore del-l’inverno e i nuovi fermenti arricchivano lezolle: offerta simbolica a Cristo, che sarebbestato chiuso nel buio del sepolcro e che poisarebbe risorto nella luce abbacinante di unavittoria redentrice.Oggi i “piatti” resistono ancora in qualche

posto, ma per lo più sono sostituiti dai fiori.

Gruppo familiare galatinese 1932

RECITA UN ANTICO PROVERBIO:

“Te canuscu piru!”(ti conosco bene...)

Anche qui una delle solite storielle; ec-cola: un grosso albero di pero che nondà mai frutto.Il proprietario decide di abbatterlo per

farne legna. Accade però che il tronco, ri-sparmiato dal fuoco, finisce con l’esserelavorato e trasformato in una artistica im-magine del Crocifisso che, naturalmente,viene poi esposta in Chiesa alla venera-zione del pubblico.L’antico proprietario del pero infrutti-

fero innalza fervide preghiere al simula-cro dell’Uomo-Dio per ottenere una gra-zia, ma la grazia non viene, e allora l’in-dividuo, stanco di pregare e di attende-re, rivolto al Crocefisso, esclama: “Te ca-nòsche pire!”, cioè: “Neppure quando eripero hai fatto bene!”

C. ACQUAVIVA, “Taranto...Tarantina”

Noha: il CalvarioMerita pure di essere ricordato in queste pa-

gine il Calvario. La costruzione, tutta in pie-tra leccese, si trova vicino alla Cappella del-la Madonna di Costantinopoli. Sul pinnaco-lo del tempietto-porticato domina una crocein ferro battuto. Sul timpano del calvario èscolpito a rilievo sulla pietra un triangolo alcui centro c’è un occhio: l’occhio di Dio. Sul-le pareti del Calvario sono pitturate in “affre-sco” alcune scene della passione di Gesù: nel“quadro” al centro è ritratto Cristo in croce aicui piedi stanno Sua Madre e San Giovanni;nell’icona a sinistra, Cristo in ginocchio nel-l’orto degli ulivi recita il suo “Fiat volumptastua”; nel dipinto a destra è raffiguratol‘incontro di Cristo con la Veronica nel cor-so della Via Crucis. L’affresco è opera di Mi-chele D’Acquarica (Noha 1886-Cutrofiano1971). Sempre dello stesso autore si conser-va pitturata in affresco in Via S. Rita l’imma-gine di S. Michele Arcangelo.Contrariamente all’iconografia canonica

che vuole che siano rappresentate tre croci(quella al centro di Gesù e quelle ai lati deidue ladroni: il buono ed il cattivo), nel Cal-vario di Noha sono piantate su tanti massi, po-sti alla base dell’edificio, cinque croci in le-gno della stessa grandezza: segno che nel cal-vario di Cristo c’è posto per le croci di tutti.Il Venerdì Santo tutto il popolo ci va in pro-

cessione portando la statua del Cristo morto se-guito dalla Madonna Addolorata per i riti dellaPassione. Il calvario di Noha non “funziona”soltanto nel corso della Settimana Santa: nonc’è giorno dell’anno che qualche devoto cit-tadino faccia mancare a quel sacro luogo laluce di un lumino, il profumo dei fiori freschi,il sospiro di una preghiera.

F. D’ACQUARICA. A. MELLONE,“Noha, storia, arte, leggenda”

NduvinieddhruLu sacerdote de lu Crucifissubeddhru ntustatu lu porta spissu (spesso)e quandu vide la ggente bbonaazza la tonaca e nni lu sona.

(orologio)

Page 7: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

S 1 S. Giuseppe / Festa del Lavoro

D 2 S. Atanasio

L 3 Ss. Filippo e Giacomo

M 4 S. Silvano

M 5 S. Teodoro

G 6 S. Giuditta �

V 7 S. Augusto

S 8 S. Vittore

D 9 S. Luminosa

L 10 S. Alfio

M 11 S. Francesco di Ger.

M 12 S. Pancrazio

G 13 S. Emma

V 14 S. Mattia ap. �

S 15 S. Torquato

D 16 Ascensione del Signore

L 17 S. Pasquale B.

M 18 S. Giovanni I Papa

M 19 S. Ivo

G 20 S. Bernardina

V 21 S. Valente �

S 22 S. Rita da Cascia

D 23 S. Desiderio

L 24 Maria Ss. Ausiliatrice

M 25 S. Erminio

M 26 S. Filippo Neri

G 27 S. Oliviero

V 28 S. Emilio �

S 29 S. Ademaro

D 30 Ss. Trinità

L 31 Visitazione B.V.M.

Maggio 2010

L’Antico AmoreggiamentoIn un tempo lontano i fidanzati dovettero vivere una vita grama dal momento che, in una so-

cietà chiusa e patriarcale, con una concezione e collocazione sacrale della famiglia, cellula quasiautosufficiente di gerarchie sociali e affettive, uscire da casa, per una giovane donna, significavauna violazione del focolare domestico, anche se incosciamente costituiva una conquista di unafetta di libertà...Le giovani donne dovevano stare a casa, rendersi cura della nidiata dei fratelli e sorelle più pic-

coli, aiutare la madre nelle faccende domestiche, imparare a cucire e cucinare, a tessere al telaioe ricamare i capi della dote, dovevano servire a tavola e non solo a tavola i fratelli maschi, do-vevano lavare i panni, sparecchiare, consumavano insomma un apprendistato in funzione dellaloro vita da adulte.L’unico spiraglio, l’unica possibilità per uscire da casa, erano legati al periodo delle feste pa-

tronali, al tempo delle novene religiose, delle prediche, del festino in casa di parenti, della ven-demmia o della raccolta delle olive.L’uomo di quest’epoca era costretto ad andare in chiesa per vedere la sua bella. Se in chiesa

si andava con le amiche, al ragazzo era possibile avvicinare la comitiva e scambiare qualche pa-rola furtiva con lei, se si andava con la madre, l‘unico modo per comunicare era da lontano esempre con gli occhi: era sufficiente. Spesso il fidanzato o l’aspirante fidanzato perdeva ore edore, andando su e giù per la strada dove era ubicata l’abitazione di lei...Il giovane tentava in tutti i modi di segnalare la sua presenza con segni convenzionali, dei quali

era stata informata previamente l’amica: un fischio prolungato o con qualche modulazione, unoschiocco delle dita, un verso di animale, il rumore di un sassolino che colpiva dolcemente l’usciodella porta. Non era raro poi il caso che il ragazzo cantasse le serenate, nelle calde sere d’estate,alla sua bella, bianca comu la recotta e russa comu lu sangu, da solo o accompagnato da amici.Alla fine, dopo questo assedio spietato, lei doveva proprio cedere e acconsentire a fidanzarsi.

L. ELIA, Salento Addio

L’arredo del futuro NidoFissato il periodo presumibile per la cele-

brazione delle nozze, i giovani preparavanoil loro nido arredandolo del necessario, chedoveva essere procurato in parte da lui ed inparte dalla ragazza. Lo sposo provvedeva atrovare la casa, i mobili, le sedie, la pettinie-ra, i piatti, le posate, il crocifisso e l’acquasan-tiera, lu scarfaliettu (una specie di padella conmanico lungo in cui si ponevano i carboni ac-cesi e con il quale si scaldava il letto primadi coricarsi), li pignatieddri (recipienti di va-ria misura, di terracotta, adoperati per lo piùper cucinare i legumi). Sempre allo sposo spet-tava procurare le vettovaglie necessarie peri primi giorni successivi al matrimonio: olio,legumi, fichi secchi, olive e persino il pane (lupane fattu a casa), che la madre dello sposopreparava alla vigilia del matrimonio.Certamente la cosa più importante, da

quanto risulta da antiche testimonianze, era-no li pampauddri e la catena che reggeva ilsecchio adoperato per attingere l’acqua dalpozzo, situato nel giardino (retu a l’uertu). Talecatena doveva avere maglie grosse e grandi,in base alle possibilità economiche dello spo-so, e più era grossa più era motivo di vantoper le famiglie.La donna provvedeva al talamo, al telaio,

ai comodini, alla cassapanca (la cascia), allamattrabanca (tavolo di legno con piano supe-riore ribaltabile, sul quale si lavorava l’impa-sto per il pane), alle rami russe (batteria di te-gami di rame color rossiccio), al treppiede edalla dote. La dote femminile o panina (cioèappannaggio), era formata da un certo nume-ro di capi di abbigliamento, e comunque diaccessori di stoffa come lenzuola, panni, co-perte, biancheria intima, il cui numero dove-va essere uguale per la maggior parte dei capie per questo si diceva: si sposerà con pani-na 6, panina 12, panina 18... in base alle di-sponibilità economiche, questa volta della nu-benda.

L. ELIA, Salento Addio

Il fazzoletto biancoAppena i due giovani si fidanzavano lei era

solita offrire al suo cavaliere un bianco fazzo-letto da mettere nel taschino della giacca.Il fazzoletto era stato ricamato di propria

mano dalla ragazza che vi aveva trapuntatolungo gli orli le sue iniziali ed i caratteristiciemblemi dell’amore, retaggio di un non lon-tano romanticismo: le colombe, il cuore trafittodal dardo di Cupido, vari motivi floreali.La ragazza regalava anche un tarallo a forma

di cuore oppure una rara noce a tre cerchi, cheveniva rinchiusa in una custodia di lana lavo-rata all’uncinetto e appesa alla cintola del fi-danzato come portafortuna. Il ragazzo facevarecapitare a lei o portava di persona vari ge-neri di regalo come la cupeta, dolci, mandorlericce, fave abbrustolite, noccioline. Nella do-menica delle Palme la ragazza riceveva in donola palma benedetta o la nuce, formata da fo-glie di palma intrecciate che racchiudevano tal-volta cioccolatini o caramelle o una noce.

L. ELIA, Salento Addio

Canto RusticoNel canto si libera il grand’ortoalla colta dei melloni “sarginischi”,la voce che sovrasta tutte l’altreriecheggia per le zolle e tra le fronde:“Sole de maggiu caddu e sapurusu,m’imbriacanu li fiuri st’occhi mii,le rundineddhe ‘ncielu scrivanu poesie,‘n’ora, ‘n’ora sula de felicitàe mille e mille de fatica maracu mi fazzu ‘na casiceddhaquandu Diu vurrànni chiova de lu cielu‘na ‘nziddha de pietà”.A sera a quietarsi arnesie ceste vuote alla “ramesa”,ma non dorme, no,non dorme la speranza,tace o dentro bussa piano:“Nni chiova de lu cielu‘na ‘nziddha de pietà”.

S. BELLO, “Di giorno in giorno”

La cucina de na fiataCROSTATA CU LLA RICOTTA EMARMELLATA DEANGURIAIngredienti: 600 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 100 gr. di strutto, 150 gr. di burro, 2 tuorli e 2 uovaintere, 1/2 bustina di lievito per dolci. Impastare velocemente i vari ingredienti e lasciare riposare inluogo fresco per 1 ora.Ingredienti per il ripieno: 700 gr. di ricotta, 7 cucchiai di marmellata di anguriaLavorare la ricotta con i rebbi di una forchetta e poi aggiungere la marmellata. Ricavare dalla pastafrolla 2 sfoglie dello spessore di 1/2 cm, foderare con una di esse una teglia da forno unta di burroe infarinata; versare il ripieno, chiudere con l’altra sfoglia e infornare a 180° finchè la crostata nonassume un colore dorato. A cottura ultimata spolverizzare la crostata con zucchero a velo.

Marmellata di angur iaIngredienti: 3 kg. di anguria, 1 kg. di zucchero, vaniglia, 1 limone.Tagliare l’anguria a grosse fette, eliminare la scorza verde e separare la polpa rossa da quella bianca.

Eliminare i semi dalla polpa rossa dell’anguria, tagliarla in grossi pezzi e iniziare a cuocerlasul fuoco, una volta cotta passarla al setaccio. Tagliare la parte bianca dell’anguria in pic-colissimi pezzi e iniziarla a cuocerla, in un’altra pentola, aggiungendo lentamente la pas-

sata di anguria ottenuta dalla polpa rossa. A metà cottura aggiungere lo zuccheroe, pochi minuti prima di spegnere la vaniglia e la scorza di limone grattugiata. Laraccolta dei “sarginischi” nel Salento viene effettuata con “fatica mara” dai racco-glitori, ma sempre accompagnata dai canti che si liberano nell’aria della cam-pagna. Don Salvatore Bello ce lo descrive nel “Canto rustico”.

Detti popolariAve frittu de purpi!

La femmana ede comu la straficula fracetana(lucertola muraiola) quandu ti thrase a ccasa

nunn’esse cchiui.La caddhrina furtunata trova lu cranu

puru se ede cecata.Femmana, focu e mare meju nu tte fidare.

Femmane, cavaddhri e sservitorirruvinanu li signori.

“LA MESCIA” una figura tipica del passatoLa “mescia” era una figura tipica del paese, temuta ma amata e rispettata dai bambini, ai quali sapeva

spesso distribuire sonore botte; la famiglia chiedeva da lei oltre all’insegnamento religioso, i primi rudimenti,soprattutto per le bambine, dell’arte del cucito e del ricamo. Inoltre essa insegnava ai bambini, che portavanodi lei un caro ricordo per tutta la vita, le norme di comportamento sociale, il senso del rispetto, l’amore al la-voro e tante altre cose pratiche e teoriche, maestra come era di una pedagogia spicciola che le veniva dal-l’esperienza. Una delle principali preoccupazioni della “mescia” era quella di preparare i suoi bambini/e allaPrima Comunione. Per questo, oltre al modo di comportarsi in quell’occasione, insegnava loro le specifichepreghiere tradizionali che i bambini/e avrebbero poi ripetuto per tutta la vita ogni volta che si fossero fatti laComunione o si fossero recati in Chiesa.

L. BIANCO, “Le tradizioni popolari di Aradeo e dei paesi vicini”

NduvinieddhruTegnu na cannarriva a lla Spagnarriva a lla Turchiarriva puru a casa mia.

(sole)

Fazzulettu d’amore‘Na donna me donau nu fazzulettucu me lu ttaccu alla canna ‘licatu;e jeu me lu ttaccai comu purmettupe rispettu a ‘l’amore ca me l’a ddatu

Vinne e se sciupau lu fazzulettu.Alla funtana lu portu cu ‘lu llau:acqua d’amore, sapune de sdegnu.Sai quante friculate l’ippi ddare?

A nu raggiu de sule jeu lu spannei:“Sùcate fazzulettu, ca t’aggiu ddare!”Te l’aggiu ddare quannu stamu suli,le pene toi e le mie n’imu cantare!

A. QUARANTA, Marittimaun Paese del Salento

Giovani galatinesi 1947

Donna galatinese 1943

Varietà di melonie angurie galatinesi:Galìa, giallettu,minna de monaca,pisconzu, retinatu,rugnusu, sarginiscu russu,scorza verde,zuccarinu rigatu,zuccarinu scorza liscia,zuccarinu vestutu.

Page 8: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

M 1 S. Giustino

M 2 S. Marcellino / Festa della Repubblica

G 3 S. Clotilde

V 4 S. Quirino di T. �

S 5 S. Bonifacio

D 6 Corpus Domini

L 7 Ss. Trinità

M 8 S. Vittorino

M 9 S. Primo

G 10 S. Diana

V 11 S. Barnaba

S 12 S. Onofrio �

D 13 S. Antonio di P.

L 14 S. Eliseo

M 15 S. Vito

M 16 S. Aureliano

G 17 S. Ranieri

V 18 S. Marina

S 19 S. Romualdo �

D 20 S. Ettore

L 21 S. Luigi Gonzaga

M 22 S. Paolino di Nola

M 23 S. Lanfranco

G 24 Natività di S. Giovanni Battista

V 25 S. Prospero

S 26 S. Vigilio di T. �

D 27 S. Ladislao

L 28 Vigilia - Processione

M 29 Ss. Patroni Pietro e Paolo

M 30 S. Paolo

Giugno 2010

Intorno al Tarantolismo PuglieseOgni anno, dal 29 al 30 giugno, convengono nella cappella di S. Paolo in Galatina i taranto-

lati della regione, dando luogo ad episodi che l’amico André Martin ha ripreso in alcune sue in-teressanti fotografie.La forma cristianizzata del tarantolismo di Galatina richiama quella pagana, che rientra nelle

terapie magiche della possessione e che una volta in Puglia era molto diffusa. Sulla forma pa-gana il Rev. Domenico Sangenito verso la fine del secolo XVII ne scrisse ad Antonio Bulifon, li-braio francese in Napoli, il cui nome occupa un posto non irrilevante nella formazione dellanuova cultura napoletana.Il Sangenito, la cui lettera al Bulifon può leggersi nelle Lettere memorabili istoriche politiche ed

erudite (Napoli, 1693), fu un attento testimone oculare di ciò che riferisce, il che dà un partico-lare valore al suo rapporto, che qui riportiamo nell’essenziale: “Coloro che son morsi dalla taran-tola, poche ore di poi, con voce inarticolata si lamentono, e se li circostanti domandano loro checosa l’afflige, molti risposta non danno; ma solamente con gli’ occhi torvi li riguardano; ed altrifanno cenno colla mano sul cuore. Per la qual cosa, gli abitatori di que’ paesi come persone prat-tiche, sùbito vengono in cognizione del malore che li tormenta; onde senza perder tempo tanto-sto chiamano sonatori con vari istrumenti, poichè altri balla al suon di chitarra, altri di cetera, edaltri al suon di violino; sul principio del suono, pian piano cominciano a ballare, chiedono spade,e come che siano inetti di scherma, se ne dimostrano con tutto ciò nel maneggiarli maestri.Chiedono altresì anche specchi, e mentre vi si mirano, gettano sospiri acutissimi e innumera-

bilissimi. Vogliono bindelle, cateniglie, vesti preziose, e quando son loro portate, le ricevono conallegrezza inesplicabile, e con molta riverenza ringraziano chi loro le reca. Tutte le cose sopra-dette dispongono con bell’ordinanza intorno allo steccato, dove ballano servendosi da tempo atempo ora dell’una o dell’altra, secondo gl’impulsi che gli ne dà il malore. Danno principio al balloun’ora doppo l’apparir del sole, terminando un’ora prima di mezzogiorno, senza prender mai ri-poso, fuorchè se l’istrumento si scordasse: ed allora respirano con impazienza per istinto a tantoche si ripone in accordo, notandosi con meraviglia come gente sì rozza ed inculta, come sono icultori della terra, custodi d’armenti e simili altri uomini camparecci, siano così buoni conosci-tori delle consonanze e dissonanze de gl’istrumenti musicali, e che tanto di quelle s’inquietino,quanto di quelle si appagano.Un’ora dopo mezzo dì entrano di bel nuovo in danza, continuando sino al tramontar del sole,

come fanno col medesimo ordine senza stancarsi, come io ne ho molti veduti, nè mai più di tregiorni aver patito travaglio, se al male loro si fosse dato più tardo rimedio col suono, ciò che altrine dica di otto, e di dieci giorni, che col ballo abbiano avuto necessità di seguitarlo. Nel mentreche danzano sono fuori dei sensi, e non distinguono parente , né amico, ma li son tutti uguali:ben’è vero che alle volte invitano qualche leggiadro e grazioso giovanetto al ballo. Gli arredi, deiquali si servono, sogliono per lo più essere di colore vago, come incarnato, rosso, ceruleo, e si-mili; e quando vedono il nero, s’adirano in modo che colla spada corrono discacciando chi n‘èvestito. Ad uno solo, che io sappia, tra molti non dispiaceva il drappo nero: e questo tale chenon saltava con tanto vigore quanto gli altri, ma più agiatamente.

E. DE MARTINO, “Sud e Magia”.

E’ SURDA...MA BALLAA Martano non sono riuscito a parlare con

l’unica tarantata rimasta, Anna. Ho parlato conla sua mamma Assunta.Anna è stata pizzicata a 22 anni mentre era

in campagna. È sposata con tre figli. Da bam-bina, a 6 anni circa, ha contratto la menengiterimanendo sorda. Penso che la sordità (vera opresunta) sia stato il motivo per cui Anna nonha voluto parlare con me direttamente. “Annaè stata pizzicata - racconta sua madre - mentrespiumava il fieno. Quando fu pizzicata perse co-noscenza. Fu caricata sul biroccio e portata acasa. Prima fu curata nell’ospedale di Lecce. Lìle fecero i martirii di Dio e quando tornò a casaera tutta una piaga sul ventre. Poi una vicina dicasa disse: “Cu no sia ete cosa de Santu Paulu?”(Che non sia cosa di San Paolo?). Così la por-tammo a Galatina, dove saltava, ballava e poicadeva a terra come morta, soprattutto quandovedeva qualcuno vestito con i colori che le pia-cevano, escluso il rosso e il giallo. Questo finoalle dodici. A quell’ora si esce dalla cappella diSan Paolo e si va alla Chiesa Madre a sentire lamessa. Quando arrivano i giorni di San PaoloAnna sta male, ma proprio male, è come mor-ta. Ha un nodo nello stomaco e non riesce qua-si a respirare”.Alla mia domanda del perchè le pizzacate sono

quasi sempre donne, Assunta così risponde: “Emah?! Santu Paulu miu, ce sacciu, ce sacciu! (Eh!San Paolo mio, che ne so io, che ne sono io!).Tu mettiti nelle vesti di una mamma. Io sof-

fro e bestemmio. Non mi scappa una lacrima.Non sento niente, nè buono, nè male. Tengo ilcuscino e ogni volta che Anna cade lo metto sot-to la sua testa. E poi sto male, male, anche ades-so che ti sto raccontando. Pensa che la gente diGalatina dice che andiamo lì per scherzare e gio-care. Fatte mamma! (Fatti madre). Anna raccon-ta che balla pure per un vecchierello che va aGalatina, perchè la taranta di questo vecchio èsorella della taranta che ha pizzicata mia figlia”.-Senti Assunta, ma se tua figlia è sorda come faa ballare?- “Nah, quando sente qualche musicache le piace si mette a ballare!”

L. CHIRIATTI, “Morso d’amore”

La cucina de na fiataFAGGIULINI CU LA FRITTATAIngredienti per la frittata: 150 gr. di pisellini verdi (tipo “il riccio di Sannicola”), 150 gr. di parmigiano grattu-giato, 100 gr. di mollica di pane bagnata nel latte, 6 uova, menta tritata, sale, pepe.Ingredienti per i fagiolini: 500 gr. di fagiolini, 8-10 pomodorini, 1 mestolo di salsa di pomodoro, aglio, basi-lico, 50 gr. di formaggio parmigiano grattugiato.Rompere le uova in una ciotola e sbatterle servendosi di una frusta, quindi aggiungere i vari ingredienti e amal-gamarli. Versare il composto in una taglia da forno imburrata e cosparsa di pane grattugiato. Infornare a 180°e cuocere la frittata finchè non assume un colore dorato. Tolta dal forno e intiepidita va tagliata a quadrati.Cuocere i fagiolini, una volta lavati e spuntati, per decina di minuti e scolarli. In una casseruola soffriggerenell’olio alcuni spicchi d’aglio, aggiungere i pomodorini a pezzetti, la salsa di pomodoro e cuocere a fuocobasso per alcuni minuti. Aggiungere i fagiolini, il basilico e terminare la cottura, infine aggiungere i quadratidi frittata, spolverizzare il tutto con il formaggio grattugiato e portare in tavola. È un piatto unico.

I pisellin i verdi di SannicolaIl Pisello Riccio di Sannicola è un ecotipo di pisello nano, rustico e perfettamente adattato all’ambiente in cui

per secoli è stato coltivato. Questa pianta si trova un po' in tutto il Salento ed in particolare sulle faldedei promontori rocciosi, felicemente esposti a Mezzogiorno, che dalle cittadine di Alezio, Sannicolae Nardò degradano verso lo Ionio. Era proprio da questi terreni che scaturiva la produzione mi-

gliore, sia in termini di qualità che di precocità. Inutile dire che la completa manualità diquesta coltivazione e la laboriosità della raccolta l’hanno portata ad un progressivo declinoconfinandola negli orti familiari per lo più per autoconsumo.Questi piselli, dolcissimi e teneri se consumati freschi, sono ottimi anche secchi, pra-ticamente insostituibili nella preparazione di piatti tipici, come “lu scarfatu” e“li morsi e cecamariti”.

Le feste d’estate dei galatinesiLe feste d’estate dei Galatinesi si concentravano nel

mese di giugno e culminavano con i tre giorni di festa pa-tronale, dal 28 al 30 giugno, in onore di S. Pietro e S. Paolo.Questa festa segnava l’inizio dell’estate e per le assolatestrade del paese cominciava a girare “u Chiccu”, detto “ucratta-cratta”, il venditore ambulante di gelati e “cremulate”,che gridava “gelati della Maiella, quattru sordi la pagnut-tella!” Per preparare le “cremulate” (granite), grattava ilghiaccio da un enorme blocco e riempiva il bicchiere; poi,secondo il gusto richiesto, versava dalle boccette colorateun po' di essenza al limone, alla menta, all’amarena, la me-scolava e la granita era pronta.Fino agli anni ‘50, quando nelle case non era ancora

diffuso l’uso del frigorifero, c’erano dei negozietti in cui sivendeva il ghiaccio, come “u Donadei” in piazza Aligherie “u Cinisa” in piazza S. Pietro. Nei giorni della festa patro-nale era usanza uscire alla festa e consumare lo “spumone”.I bar più frequentati erano “u bar de lu Cafaru” in via Pie-tro Siciliani, “u Gran Caffè de lu Ginu Sabella” in via Sta-zione e “u San Martinu” in piazza S. Pietro, che preparavacaffè e colazioni. Questo fu il primo bar di Galatina adavere la televisione. Alcuni ricordano ancora che quandoandava in onda il programma “Lascia o raddoppia?”, il barera pieno di gente e a volte le persone erano costrette aportarsi le sedie da casa. Fra gli altri bar, si ricordano “u barde lu Pippi Gaballu” in piazza S. Pietro, accanto alla ChiesaMadre, dove si preparavano caffè e tarallini zuccherati e sigiocava a carte; “u De Mitri” in piazza S. Pietro, che ven-deva anche le corde per violini e chitarre e, accanto, “l’Ar-mandu Casalinu”, che vendeva confetti, liquori e coloniali.Accanto all’attuale sede del Banco Ambrosiano Veneto,c’era “u bar de la Catuccia”, che era uno dei primi bar adaprire la mattina per la gente che viaggiava e che andavaai mercati. Risalendo agli anni ‘20, in Corso Vittorio Ema-nuele II, c’era “u bar de lu Maffei”, ubicato presso l’attualesede del Comando dei Vigili Urbani. Le specialità della casaerano dei dolci particolari, oggi introvabili, detti “le còr-nule”, così chiamate per la loro forma simile ai frutti delcarrubo. Si trattava di dolci al cioccolato larghi quanto ilpalmo della mano, fatti con l’impasto dei mustazzoli, chevenivano esposti in bella vista nelle vetrine del bar. Oltrealle ”còrnule”, che alcuni, con una punta di nostalgia, ricor-dano ancora come vere prelibatezze, il bar preparava taral-lini zuccherati, mustazzoli, la “veneziana” (cioccolata calda)in inverno e, come tutti i migliori bar, lo spumone, il clas-sico gelato della festa, in estate. Lo spumone veniva prepa-rato in vari gusti in un recipiente metallico profondo e diforma cilindrica, detto “u catu” (dal latino “cadus”, secchio,recipiente), che tutt’intorno veniva riempito di ghiaccio.

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

Il Capo AttarantatoUn’altra arte ormai è quasi del tutto scomparsa: quella del capo attarantato. La tarantola è un ragno,

com’è noto, tutt’affatto pugliese, e se ti morde ti obbliga a ballare: e se non balli muori. Il fenomenoè stato oggetto di lunghi e pazienti studi pubblicamente promossi, or son tre secoli, da Monsignor Pe-rotto, vescovo di Manfredonia, il quale invitò i dotti del suo tempo a studiare gli effetti della punturadello strano falangio. E d’allora una folta schiera di naturalisti ne parlò, anche dei più illustri; alcuni,i più numerosi, sostenendo in lunghe polemiche la potenzialità venefica del ragno, altri negandola.Certo, fin quasi ad oggi, morsi di ragno che, nolente o volente, obbligavano il paziente a ballare cene sono stati: si aveva allora una specie di festa, diretta dal capo attarantato. S’addobbava una camerain nero, o in verde, o in rosso, secondo le preferenze del morsicato, e lo si faceva ballare con due ra-gazze, tra due specchi, a suon di tamburella e di chitarra, alla presenza di parenti e d’invitati ai qualisi servivano intanto ciambelle e vino. Di qui il nome di tarantella al ballo paesano. Questo del ballopel morso della tarantola non è un puro e semplice pregiudizio creato dalla credulità del popolino,ma ha, senza dubbio, un qualche fondamento scientifico, se il fenomeno, come ho detto, è stato og-getto di accurati studi da parte di scienziati di nota fama.

N. ZINGARELLI E M. VOCINO, “Apulia Fidelis”

Tarantate davanti alla Cappella di San Paolo

Detti popolariPilu tira pilu, paducchiu tira paducchiu.Cinca nasce furtunatu piscia lu jettu

e dicianu ca è ssudatu.Quandu mente la cuda lu diavvulupè Santu Pietru patisce Santu Paulu.

Page 9: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

G 1 S. Ester

V 2 S. Ottone

S 3 S. Tommaso ap.

D 4 S. Elisabetta �

L 5 S. Antonio M.Z.

M 6 S. Maria Goretti

M 7 S. Pompeo

G 8 S. Adriano

V 9 S. Fabrizio

S 10 S. Marziale

D 11 S. Benedetto ab. �

L 12 S. Goffredo

M 13 S. Enrico

M 14 S. Camillo de L.

G 15 S. Bonaventura

V 16 B.V. del Carmine

S 17 S. Alessio

D 18 S. Federico �

L 19 S. Arsenio

M 20 S. Vera

M 21 S. Lorenzo da Brindisi

G 22 S. Maria Maddalena

V 23 S. Brigida

S 24 S. Cristina

D 25 S. Giacomo ap.

L 26 Ss. Gioacchino e Anna �

M 27 S. Celestino

M 28 S. Celso

G 29 S. Marta

V 30 S. Pietro Crisologo

S 31 S. Ignazio di L.

Luglio 2010

La cucina de na fiataCOSCEDECADDHRUZZU CHINEIngredienti: 6 cosce di pollo, 500 gr. di polpa di vitello e maiale macinata, 100 gr. di mortadella apezzetti, la mollica di un panino bagnata con del latte, noce moscata, 1 uovo, 1 carota lessata e ta-gliata a dadini, una decina di olive verdi snocciolate e tritate, 100 gr. di formaggio pecorino pugliesegrattugiato, sale, pepe.Dissossare le cosce di pollo con un coltellino, cercando di non rompere la pelle. Farcirle con l’im-pasto ottenuto mescolando la carne con i vari ingredienti, e cucire con ago e filo tutte le aperturedelle cosce (si possono anche chiudere con degli stecchini). Arrostire le cosce dopo averle salatee pepate sulla brace o cuocerle nel forno a 180°, deponendole in una teglia sul cui fondo si sonosistemati vari odori (alloro, rosmarino, salvia) con qualche cucchiaiata di olio e pezzeti di burro.

Il pecor ino puglieseIl pecorino viene prodotto in tutta la Puglia. Le forme sono cilindriche, solitamente del diametro di20-30 cm, crosta giallognola che vira al nocciola con la stagionatura recante l’impronta delle fiscelle.

Non si sa con certezza quando la pastorizia si sia sviluppata nel Salento, ma, con molta pro-babilità, questa continua sin dai tempi dei Greci. Il Salento ha la sua pecora, la Moscia o

Leccese, che deriva dall’antico ceppo di razza asiatica, Siriana del Sanson, diffusanei Balcani sino al Danubio.Questa, perfettamente adattata alla povertà dei pascoli salentini, riesce a trarne ilmassimo e a trasferirlo nei formaggi che ne derivano, che, come il Pecorino diMaglie, recano i profumi degli arbusti selvatici della locale gariga e l’inarri-vabile sapidità di questa terra sferzata dai salsi venti marini.

Insediamenti rurali: le masserieSono gli ultimi esemplari dell’architettura rurale presenti nel territorio salentino. Questi com-

plessi edilizi, ormai in rovina e abbandonati, nacquero all’incirca nel XVI secolo e si diffusero poiin tutto il Salento come centri attivi e produttivi di economia e di cultura, all’indomani della presadi Otranto da parte dei Turchi. Uno stato grave di insicurezza, determinato dal fenomeno sem-pre crescente di piraterie e spesso anche di brigantaggio locale, suggerì allora ai pochi contadiniscampati al massacro, e meglio ancora ai proprietari terrieri, di realizzare delle strutture edilizieidonee a rintuzzare in qualche maniera le continue scorrerie di avventurieri, e di promuovere nelcontempo delle attività agricole capaci di assicurare una economia di sussistenze e di autosuffi-cienza.Nacquero così le masserie fortificate, dalle strutture architettoniche semplici e funzionali, dove

l’elemento difensivo, affidato prevalentemente alle caditoie, esprime la precarietà della vita suicampi, nei tempi oscuri della nostra storia. In tali complessi edilizi, dalle tipologie diverse (perstruttura- per estensione - per capacità produttiva e per tipo di gestione) permangono i segni diuna economia basata sulla cerealicoltura oppure sulla monocoltura dell’olivo e sulla pastorizia.Non a tutte le fabbriche rurali si può comunque attribuire il titolo di masseria. A volte si tratta

di semplici abitazioni rurali con ridotte estensioni di terreno, anche se munite di elementi per ladifesa, costruite da benestanti non tanto per lo svolgimento di complesse attività aziendali, macome dimore stagionali...Oggi queste tipiche costruzioni rurali che “dormono solitarie...nel silenzio della notte”, ridotte

nella maggior parte dei casi a veri e propri ruderi abbandonati dall’uomo, restano ancora lì a ri-cordarci un capitolo importante della nostra storia e della nostra civiltà contadina, ormai comple-tamente tramontata.

A. QUARANTA, “Marittima un paese del Salento”

Galatina,la Masseriadel DucaPuò essere considerata l’esempio più im-

portante dell’insediamento rurale che sievolve e si adegua alle diverse pratiche cul-turali in un arco di tempo che va dal XV alXX secolo. Si tratta di un impianto a cortechiusa dove i vari locali si addossano, som-mandosi nelle diverse epoche, all’edificio-torre collocato su uno degli angoli di unampio recinto. Un patrimonio fondiario chetra il XVI e il XVII secolo raggiunge i livellieconomici più alti e si evolve nelle struttureedilizie secondo schemi che in terrad’Otranto non sono molto frequenti. Grandiimpianti a corte chiusa come questo sono pe-culiari di altre regioni d’Italia e manifestanogeneralmente attività agrofondiarie diversifi-cate, che vanno dalla cerealicoltura alla pa-storizia, dall’ovicultura all’allevamento bovinoe con tentativi di colture specializzate comela gelsicoltura e l’allevamento del baco daseta. Siamo in una delle aree più fertili dellaPenisola salentina: “il bacino di Galatina”,dove le attività agrofondiarie hanno sempreconsentito di trarre cospicui guadagni.In un documento del 1664 si dice, tra l’al-

tro, che la masseria ricade in parte nel sub-feudo di Aruca, del Monastero di S. Mariadella Grazia, al quale il Duca di Galatina, G.Maria Spinola, paga la decima. Da un con-tratto di Affitto del 1538, invece, si deducegià la consistenza del complesso masserizio,che poteva essere dotato di un patrimoniozootecnico consistente in 500 pecore.

A. COSTANTINI,“Guida alle masserie del Salento”

LA VITA E IL LAVORONELLEMASSERIE

Notizie interessanti, per quanto riguarda la vitae il lavoro nelle masserie ci vengono dal Libro deConti di Procure del Venerabile Monastero delleMonache di S. Chiara di Nardò, un manoscrittoinedito dove sono riportati puntualmente, dal1674 al 1704, “introiti” ed “esiti” delle masserie S.Chiara in Arneo e Boncuri, due masserie a preva-lente vocazione cerealicolo-pastorale immersenelle “folte macchie d’Arneo” e incardinate suquell’asse viario di antica ed attiva frequentazione(la “via Sallentina”), che da Taranto scendevaverso Nardò e proseguiva per Gallipoli e per ilCapo di Leuca.Dal manoscritto si ricavano dati relativi alle

spese per la gestione delle masserie, e proprio daquesti dati emerge il rapporto tra il mondo ruralee il mondo “cittadino”, due mondi che non pos-sono fare a meno l’uno dell’altro. Una campagnache attinge alla città per rifornirsi non solo degliattrezzi necessari per i vari lavori, ma anche diprodotti speciali, di alimenti per sfamare la mano-dòpera stagionale ingaggiata per la mietitura eper la “pesatura” (trebbiatura) del grano, per la“sarchiatura” e per la tosatura delle pecore.Dalla città si acquistavano “farnare” (setacci uti-

lizzati per “cernere” il grano), “sporte” per semi-nare, “fische” e “fiscareddhe” (recipienti di giuncoper la ricotta), secchi di varia misura, campaneper le pecore, “nzarti” e “zoche” (funi per gli ani-mali e per i pozzi), “ciste e gioghi per parecchi dibovi aratori”, “pignate”, piatti, scotelle, “quartareper li mietitori”, “scotelle e piatti grandi per farmangiare li mietitori”, “centre” e “centruni”(chiodi piccoli e chiodi grossi per riparazionivarie), “serraglie” (serrature per chiudere locali emagazzini), zolfo e aceto per curare la “rogna”delle pecore, lucerne e sacchi. Altre spese veni-vano fatte per l’acquisto di prodotti per alimentareil bestiame, come “hortalizi per le pecore” e “ca-niglia” (crusca) per i cani; e poi sale “compratodalla salina di Gallipoli” e utilizzato per usi do-mestici e “per la merce”, vino “per il mietere eper il pisare”, “pesce alli mietitori acquistato a Ci-saria” (Porto Cesareo) ecc.Tra le “spese” si descrivono, altresì, quelle per

ammazzare i topi e per “cacciare i bruchi”. Nel-l’Aprile del 1684 un “sorciaro” di Veglie, cheaveva preso 3480 “sorci”, viene retribuito “a granaventi il cento”, e ancora 20 grana per ogni centotopi vengono pagate nel 1683 per i 3200 topipresi nelle biade della masseria S. Chiara.L’invasione di tali rosicanti era “uno dei perio-

dici flagelli che distruggevano il grano”.Il commercio dei prodotti delle masserie viva-

cizzava i collegamenti tra città e campagna: “vati-cali”, “carrieri” e “beccari” realizzavano sulle“piazze” una limitata ma costante economia dimercato impostata sulla vendita del bestiame,della lana e del formaggio.

A. COSTANTINI, “Guida alle masseriedel Salento”

NduvinieddhruLa signura tenia l’anche stise,lu cucchieri le zzau e lli lu mise.

(carrozza e cavallo)

Metamorfosi d’un galloErano le donne anziane ad avere l’arte di trasformare un arzillo ed ardito galletto capace di con-

tendere il titolo ad un maestoso re del pollaio, in un imbelle eunuco da mettere all’ingrasso peril pranzone natalizio. L’intervento magico-chirurgico non avveniva alla solarità di un’aia bensìnella penombra della cucina d’una masseria appena alla periferia del paese, forse ad enfatizzarela stregoneria del rito. La vecchia magàra dalla veste nera ampia fino al pavimento di chiancheleccesi, con affilatissime forbici incideva il giovane gallo dall’ano per tre quattro centimetri versolo sterno, vi infilava pollice e indice e con netto strappo scippava i testicoli dell’impaziente cheinvano tentava di divincolarsi, e glieli faceva ingoiare; rapidamente con ago e filo ricuciva i lembidella ferita. Poi produceva, la vecchia magàra nera perfino nel chador, a recidere la cresta ed ibargigli -segnali anch’essi oramai incongrui di gallica virilità- ed a farli ingoiare all’inebetito ex gal-letto, e concludeva cauterizzando le ferite inferte con cenere pura d’ulivo.La metamorfosi da gallo in cappone era compiuta.

P. MANNI, “La Cultura Gastronomica”

UNA NOTA DI POESIA ORMAI SCOMPARSA:“SIERU CADDU, CI VOLESIERU!”

Scendevano nelle prime ore del mattino le donne dalle vicine masserie e si diffondeva ovat-tato dalle brume invernali l’invito: Sièru càutu, ci ole sièru!, residuo scremato di latte e ricotta.Caldo era e appetitoso il liquido denso e il bambino stirandosi nel letto vinceva la pigrizia attrattodal tepore saporito della zuppa. Ora i bimbi non lo conoscono neppure lu sièru càutu.Si nutrono di roba più sostanziosa ed è meglio. Però è una nota di poesia che è scomparsa.

“Nuovo Annuario di terra d’Otranto”, Lecce, 1957

Detti popolariMele an bucca

e ddiavvulu an culu.Se ede tuorturaall’acqua torna!

Se nu ccanta la cicala,nu ccoji cranucu lla pala.

Ogni lasciata ede persa.Li capuni si l’anumangiati, li pruverbini l’anu lassati(i nostri padri).

RECITA UN ANTICO PROVERBIO:

“De lu furnu e de la masseriacentu anni luntàna la caristia”.

Ancora oggi si usa questo antico prover-bio quando si vuole indicare il benesseredi una casa o di una famiglia.La masseria si identificativa,

una volta, con ogni ben di Dio:farina, pane, formaggio, uova,carne, ecc.

Galatina - Masseria del Duca

Page 10: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

D 1 S. Alfonso

L 2 S. Eusebio

M 3 S. Lidia �

M 4 S. Giovanni M.V.

G 5 Madonna della Neve

V 6 Trasfigurazione del Signore

S 7 S. Gaetano

D 8 S. Domenico

L 9 S. Fermo

M 10 S. Lorenzo m. �

M 11 S. Chiara vergine

G 12 S. Euplio

V 13 Ss. Ponziano e Ipp.

S 14 S. Alfredo

D 15 Assunzione di M.V.

L 16 S. Rocco �

M 17 S. Settimio

M 18 S. Elena

G 19 S. Giovanni Eudes

V 20 S. Bernardo di C.

S 21 S. Pio X, papa

D 22 B.V. Maria Regina

L 23 S. Rosa da Lima

M 24 S. Bartolomeo �

M 25 S. Lodovico

G 26 S. Alessandro

V 27 S. Monica

S 28 S. Agostino

D 29 Martirio di Giovanni Battista

L 30 S. Bonomio

M 31 S. Abbondio

Agosto 2010

Gli ebrei a S. Maria al BagnoIl 27 gennaio 2005 in occasione della Giornata Nazionale della Memoria il Presidente della

Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha riconosciuto al Comune di Nardò, conferendo motu pro-prio la Medaglia d’oro al Merito Civile, il valore delle straordinarie manifestazioni di solidarietà edi umanità, concretizzate negli anni tra il 1943 e il 1947.Subito dopo la fine della secondo guerra mondiale, infatti, il Comune di Nardò istituì nel pro-

prio territorio, e precisamente nella zona di S. Maria al Bagno, località balneare sul versante io-nico della provincia di Lecce, un centro di accoglienza con l’obiettivo di ospitare i profughiprovienti dai campi di sterminio e di restituire loro la dignità di esseri umani, in questo trampo-lino ideale proteso sul Mediterraneo e quindi verso la nuova patria, il nascente Stato di Istraeledove avrebbero incominciato una nuova vita. Il centro fu attivo dal gennaio 1944 fino alla finedel 1946, e diede alloggio, in quegli anni, a circa trentamila slavi e centomila ebrei, fra i qualianche personaggi di rilievo per il futuro Stato d’Israele.La popolazione collaborò a quella generosa iniziativa della Città di Nardò e diede prova di stra-

ordinaria tolleranza religiosa e culturale, adoperandosi per allievare le sofferenze dei profughi efornendo loro le strutture principali per professare liberamente la propria religione.A S. Maria e nei suoi paraggi alcuni edifici vennero “convertiti” alle esigenze dei nuovi abitanti:

nel campo infatti era presente tutto ciò che potesse essere necessario agli esuli per svolgere i ritireligiosi e per mantenere in vita le proprie tradizioni.C’era la Sinagoga, collocata dove ora si trova il bar “Piccadilly”, la mensa e il centro di preghiera

per bambini e orfani, situato nell’attuale panificio Striani, il Kibbutz “Elia” nella vecchia MasseriaMondonuovo ed il municipio nella villa Personé, attuale villa De Benedditis, presso le Cenate.Furono celebrati, durante gli anni di attività del centro di accoglienza, circa 400 matrimoni, do-

cumentati dagli atti anagrafici del Comune di Nardò.Su uno di essi risulta anche la firma di Golda Meir, primo ministro dello Stato di Israele dal

1969, quale testimone di un matrimonio celebrato il 26 febbraio 1946. Ma anche altri personaggicome David Ben Gurion e Moshé Dayan, futuri presidenti del consiglio e ministro della difesadello Stato di Israele, sostarono per breve tempo a S. Maria al Bagno.

LICEO SCIENTIFICO “A. VALLONE”, Galatina, “Una stella tra gli ulivi”.

LESORGENTI DELLE“QUATTRO COLONNE”

Il quattro torrioni residui di una vasta fortezza,costruita intorno al 1535 a difesa delle popola-zioni rivierasche dalle incursioni saracene, nellospazio di litorale compreso tra Torre Sabea a S.Caterina, frazione del comune di Nardò (a circa10 Km, a nord di Gallipoli), hanno suggerito ladenominazione di “Quattro Colonne” alla localitàsopra indicata... Le acque scorrenti presso le“Quattro Colonne”, provenienti da falda freatica,costituiscono ancora un esempio dei fenomenicarsici della Penisola Salentina, che abbiamo os-servato frequentissimi nella fascia litoranea com-presa tra Gallipoli e Taranto. Esse risultanobatteriologicamente pure, con un contenuto note-vole di ferro e di cloro e tracce di silice.Le popolazioni locali e dei comuni limitrofi, ne

riconoscono ed apprezzano le spiccate proprietàdiuretiche e le bevono, con evidente vantaggio,nelle malattie renali e del ricambio...Le sorgenti subiscono qualche periodo di

magra, che coincide con le forti basse maree,sgorgano al livello del mare in zona demaniale,per cui non vengono utilizzate nè per scopi irri-gui né per scopo terapeutico, almeno su scala in-dustriale.Soltanto singoli cittadini bevono le acque sul

luogo, in occasione di gite, e ne riempiono reci-pienti di ogni foggia e dimensione, per continuarela cura a domicilio.Da qualche anno il Comune ha cercato di in-

canalarle con piccole opere in cemento, alloscopo di agevolarne lo sfruttamento. A destradalle sorgenti, a circa sette metri di distanza dadue polle distinte, attualmente sistemate con brevitubazioni, si notano degli antichi relitti cementaticon coccio pesto e pozzolana, testimonianza evi-dente che le acque furono utilizzate in tempi an-tichi. Anzi l’osservazione dei ruderi autorizzal’ipotesi dell’esistenza, presso le sorgenti, di veree proprie terme romane.La portata attuale delle sorgenti può essere va-

lutata ad oltre 70 lt./sec; le acque non risultano in-fluenzate dalla salinità del mare neppure inperiodi di alta marea... Chi vuole evadere dallacalura estiva su queste rive dello Jonio, porteràcon sé il ricordo delle ore trascorse nella silen-ziosa e tranquilla “oasi”, ma ristorerà anche spiritoe corpo, se non si lascerà sfuggire l‘occasione dibere un sorso di quest’acqua igienca e curativa.

R. CONGEDO, Salento scrigno d’acqua.

La cucina de na fiataSCAPÈCEDEPUPIDDHRIIngredienti:1 kg. di pupiddhri (pesciolini), pane grattuggiato, menta, aglio, aceto e olio.Friggere il pesce dopo averlo infarinato.A parte, bagnare del pane grattugiato, strizzarlo e condirlo con aglio, menta, aceto e sale.In un “tianu” (tegame di terracotta dai bordi alti), disporre uno strato di pesce, coprirlocon il composto preparato e continuare così per più strati finendo con il pane grattugiato.Condire ogni strato di pesce con un altro poco di aceto e allo strato finale aggiungereanche “na nziddhra” (un filo) di olio. La “scapèce” va consumata dopo alcuni giorni.

CuriositàLe nostre nonne, nel preparare questo piatto, se non avevano la menta usavano“lu petrusinu” il prezzemolo. Se si vuole dare alla “scapèce” un bel colore giallo,

basta sciogliere nell’aceto da usare dello zafferano.Per fare la “scapèce” le nostre nonne dovevano avere la certezza che ilpesce fosse “friscu”. Infatti, affinché il pesce conservasse il suo profumodi fresco, veniva tenuto vivo in mare dentro canestri di giunco.Un’espressione spesso usata nel gergo popolare per indicare una per-sona viva e guizzante, è “Sinti nu pupiddhru”.

Lu tiempu è comu specchiuAddiu le Sacre Bibbie e lu passatu,quandu de l’ommu l’ùnica divisaera la pelle soa, né la camisaservià de paravientu a llu peccatu!

Ora, nvece, se la mammina svisanu picchi lu piccinnu spojacatu,crida comu na ssessa: “Scustumatu!”percé tene la caramella mpisa.

È inutile, lu tiempu è comu specchiu:l’umbra rifrette de la soggità.Quand’era sanu, ahimè, lu mundu vecchiu

vidìa cuntente pesce e baccalàe nu parlava, nvece, mo’ ca è ruttu,tantu cu nu sse scopra copre tuttu!C. DE PORTALUCE, “A Tiempu Persu”, 1927.

NduvinieddhruSciamu a llu jettu, donna Cocca,facimu quiddhru ca ni tocca,pilu cu pilu ncucchiamu,ddhra cosa inthru la ficcamu.

(occhio)

Detti popolariCi chianta vunguli,mangia fave.

Ci vole pija lu pesce,tocca ssi mmoddhra

lu culu.

Ci tene nasu,tene crianza.

Li pruverbi su bbastatiquandu li libbrinu nn’eranu nati.

A llu riccu li morela mujere

a llu poverieddhrulu ciucciu.

Leggenda:la tromba marina

“Una volta un pescatore, che , spintosi inmare, stava pescando con ami pendenti (ca-lòma, conza) le smaride (vope, vopilli) e ipagelli (lustrini), vide passare sulla sua testaun nugolo di spiriti bianchi, che andavanourlando come pazzi. Era d’aprile, quando ilgrano ha messo le cannucce e l’orso è giàpieno, onde si dice:

sciamu a San Marcu e poi vinimu,lu cranu è ‘ncannulatu e l’orgiu è chinu.Il pescatore non diede importanza a

quanto credette di aver visto. Era tutt’intentoalla pesca con la lenza per portare a casaqualche cosa da mangiare alla moglie e aifigli, che da mangiare ne avevano assaipoco. Ma a un tratto sentì la stessa frotta dispiriti di sotto il mare e gli spiriti dell’ariasembrarono unirsi a una colonna grossad’aria e d’acqua si innalzò su dal mare ebarca e pescatore furono trascinati in acquae poi ributtati in aria.Di lì a poco, il povero pescatore che

aveva perduto i sensi, si trovò in una golastretta di spiaggia, e un lume andava avantia lui. Era nel mondo dei nani. Il lume lo con-dusse attraverso meraviglie in una stanza e,là dove il lume posò, il pescatore raccolseun mucchietto d’oro. Ma in quel momentosentì ghermirsi da unghie, come di uccellorapace. Si fece tosto il segno della croce etosto si ritrovò nella sua barca in mare. Ilmare era torbido e sconvolto. A stento egliremigò verso terra e giuntovi più morto chevivo, si avviò alla sua casa. Ma si trovò gentemai vista. Egli non sapeva, ma erano passatiniente di meno che cent’anni.Morti i suoi, morti i parenti, tutte nuove

generazioni!Allora egli raccontò quanto gli era acca-

duto e mostrò il suo mucchietto d’oro. Per-chè chi viene sorpreso dalla tromba marinanon torna più alla sua casa se non dopo cen-t’anni e più.

L. SADA, “L’elemento Storico-Topograficonella Genesi delle Leggende del Salento”.

I venditori di “scapèce”A Galatina i venditori di “scapèce” o “scape-

ciàri”, provenivano da Gallipoli e da Melpi-gnano. Fra questi, sono rimasti più impressinella memoria popolare “u Cicciu” di Gallipolie “i Monaceddri”, tre fratelli che venivano cosìchiamati per la loro piccola statura.La “scapèce” si vendeva al mercato e nelle

feste comandate, in particolare nel giorno del-l’Addolorata. Centro sul Tarantismo e CostumiSalentini, “Le tradizioni gastronomiche di Gala-tina, ricette, usanze, personaggi”.

Santa Maria al Bagno - Anni ‘50

Alcuni pesci salentiniÀcura, agostinella, alice, argentinu,cazzateddhra, cazzu de rre, cernia,culèu, fannu, làppana, lutrinu, lùzzu,mascularu, minoscia, mìnula, murena,nzirru, occhiata, palamita, palumbo,parasàula, pupiddhru, rascia, ricciola,rondineddhra, roncu, saracu, sarpa,scorfanu, scrofa, smarrita, spicaluru, trija,tunnu, vopa, vopaluru.

Page 11: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

M 1 S. Egidio �

G 2 S. Elpidio

V 3 S. Gregorio M.

S 4 S. Rosalia

D 5 Giordano

L 6 S. Imperia

M 7 S. Regina

M 8 Natività di Maria V. �

G 9 S. Sergio

V 10 S. Nicola da T.

S 11 S. Proto

D 12 S. Giovenzio

L 13 S. Giov. Crisostomo

M 14 Esaltazione s. Croce

M 15 B.V. Addolorata �

G 16 Ss. Cornelio e Cipr.

V 17 S. Roberto Bellarmino

S 18 S. Giuseppe da Cop.

D 19 S. Gennaro

L 20 S. Candida

M 21 S. Matteo

M 22 S. Maurizio

G 23 S. Lino papa �

V 24 S. Gerardo

S 25 S. Aurelia

D 26 Ss. Cosma e Damiano

L 27 S. Vincenzo de’ Paoli

M 28 S. Vinceslao

M 29 Ss. Michele Gabriele Raffaele Arcangeli

G 30 S. Gerolamo

Settembre 2010

La coltivazione ad “Alberello” della viteIl contadino del Salento è diverso dal lucano, dal calabro o da quello del Tavoliere; non si con-

fonda il bracciante meridionale in genere con l’agricoltore di questa terra. Il bracciantato agricolodi questo estremo lembo ha una sua storia, origine e natura: i suoi uomini sono i braccianti delcalcare del cretaceo, ben diversi da quello delle argille mioplioceniche e dei calanchi turchini egialli.Il contadino del Salento sa trasformarsi, quando occorra, in imprenditore e allora, nella quasi

totalità dei casi, sa divenire persino artista ed artigiano della terra, pur essendo solo un mezza-dro o piccolo propietario.Osservate i vigneti coltivati ancora ad alberello da questi braccianti agricoli, che sanno trasfor-

marsi in provetti innestatori, ed eseguono con accanimento le lotte anticrittogamiche, durante ilperiodo peronosporico, coperti dei loro vestiti caratteristici o “turcheschi”, come usano chiamarli,cioè resi verde-bluastro dall’uso prolungato del solfato di rame.Il sistema di allevamento basso o ad “alberello” della vite, che richiede da parte del viticultore

notevole abilità, oltre ad essere antichissimo in questa regione, perchè importatovi dai Greci, di-viene insostituibile, per destinazione naturale, nei terreni a clima caldo-arido.Il portamento basso della vite emette produzioni di grappoli dai succhi concentrati, che sono

l’orgoglio e la ricchezza di questo suolo.Ora anche l’”alberello” , conformamente al miraggio di più copiose vendemmie e a concezioni

facili, effimere, sempre più dilaganti, è in procinto di cedere il passo al “tendone”, che eccellesolo per la quantità, ma non per la qualità del prodotto.I contemporanei preferiscono, per fini economici, il tendone?...Noi, sorpassati, ci schieriamo con l’alberello della Magna Grecia, dalla parte cioè della “qua-

lità”, che sa produrre grappoli e succhi capaci di “far cantare gli uomini come uccelli e di ren-derli forti come leoni”. Siamo con le concezioni e con la tecnica dei Greci antichi e degli Enotri,siamo con Orazio che, visitando questa terra, inneggiò ai prodotti dell’alberello e delle viti basse,e siamo decisamente schierati (proprio come i contadini di quaggiù) contro le “novità” dei ten-doni, che consideriamo alla stregua dei bettolieri mescolatori di intrugli, o dei grandi e piccolisofisticatori, e ci scusiamo infine se, nel difendere il tradizionale alberello di “negro-amaro” o di“primitivo” o di “malvasia” o di “moscato”, abbiamo divagato col tendone, introducendo e me-scolando all’acqua un po' di vino autentico e generoso.

R. CONGEDO, Salento scrigno d’acqua.

LECOLTURESCOMPARSENEL SALENTO:

LO ZAFFERANO EILCOTONEIl progresso tecnologico e socio-culturale, i

metodi nuovi applicati per lo sfruttamento delterreno, le influenze del clima spesso instabile,le mutate esigenze dell’uomo stesso, hannomodificato o stanno per modificare, oggi, l’eco-nomia del paese, molte colture sono dunquescomparse ed altre stanno per scomparire.Lo zafferano. La sua coltivazione era prati-

cata nella zona, da tempi molto antichi, comeci viene riferito da molti storici.Il famoso croco del Medioevo, anche in

tempi relativamente recenti, era addirittura unodegli elementi base dell’economia salentina.C’è da dire però che nell’antichità questa

spezia era più conosciuta per le sue proprietàmedicinali, che per quelle culinarie.Oggi, lo zafferano viene usato quasi unica-

mente in cucina, ed essendo pregiato è piutto-sto caro...Il cotone. Pianta molto conosciuta sin dai

tempi remoti, diffusa fino ai nostri giorni, comeben ricordano le pesone più anziane del paesee come è ampiamente documentato dai saggi-sti storici. Il Costa, nel suo Trattato su Terrad’Otranto del 1811, si sofferma sulla coltura delcotone,... “che abbonda nella nostra terra”, escrive che...” li contadini hanno preso gusto aquesta coltivazione”....”La natura fa dappertutto nascere il cotone;

l’industria dannesca da molto tempo si è ver-sata sulle manifatture di questo prodotto; ilcommercio che si fa del cotone in natura so-pravvanza alli bisogni della Provincia in unaquantità indeterminata ma assai grande, le ma-nifatture della Provincia si commerciano e pelregno e per fuori ancora”.Vi erano allora molte specie di cotone, ogni

paese coltivava quella che attecchiva meglionelle sue contrade. Pare che nelle nostre zone,i Musulmani avessero anticamente introdottouna varieà di cotone, di cui rimane memorianel volgo, chiamata “bambagia turchesca”(cammàce).

A. QUARANTA, “Marittima,un Paese del Salento”

Il lavoro della donnacontadina

Non meno duri e faticosi di quelli del con-tadino erano i compiti che spettavano allacontadina, che, come madre, era assorbitaper l’intera giornata dalle faccende domesti-che: preparare il pasto che, di solito, venivaconsumato a sera, al rientro dal lavoro delmarito e dei figli; mungere la pecora e rica-vare dal latte la ricotta e il formaggio; fare ilbucato; rattoppare o cucire qualche indu-mento. La giornata di lavoro, specie in alcuniperiodi dell’anno, veniva spesso riempita daaltre incombenze: setacciare il grano e l’orzoda portare al mulino; fare il pane; prepararela conserva dei pomodori; raccogliere ed es-siccare i fichi; e poi ancora: filare la lana colfuso e la conocchia; tessere al telaio la lanagrezza ed il lino; lavorare a maglia; ricamare.Da non dimenticare infine le cure del-

l’orto, come pure il compito di prestare aiutoal marito nelle attività campestri.

A. QUARANTA, “Marittimaun Paese del Salento”

La cucina de na fiataCOZZEPICCINNEA LLU RIENUIngredienti: chioccioline, sale, olio, origano, peperoncino.Lavare molto bene le chioccioline, coprirle di acqua fredda e cuocerle a fiamma moltobassa (così “caccianu lu musu de fore”) lasciandole bollire per 10 minuti, durante la cot-tura bisogna schiumarle ripetutamente. Scolarle in una terrina e condirle con abbondantesale, olio, origano, rigirando bene perchè si insaporiscano e si aromatizzano. Facoltativa èl’aggiunta di peperoncino.

CuriositàQuella delle “cozze piccinne a llu rienu”, è un’arcaica quanto poverissima pietanza costi-tuita dalle piccole chiocciole terrestri della specie Euparipha pisana, semplicemente lessate,salate e aromatizzate con origano. Le chiocciole in questione sono le più piccole fra le

chiocciole eduli salentine, queste, nel periodo estivo non si nascondono tra le pie-tre, né si sotterrano come le altre specie, ma si sigillano saldamente con un sot-

tile epiframma vitreo ad un sostegno qualunque, generalmente vegetazionesecca. Sono quindi le stoppie, i luoghi dove queste bestiole, sfidando la ca-nicola, eleggono il loro habitat preferito, ed è lì che vengono ricercate eraccolte anche dai raccoglitori professionisti che ne fanno stagionalmentecommercio. Un’usanza antica, in una terra, ove la carne è sempre rien-trata sporadicamente nella dieta dei ceti popolari.

Recita un antico proverbio:“LASSA CRISTU EVE’ ALLECOZZE”Il concetto che qui si vuole esprimere è,

senza dubbio, quello che mentre si è intentia fare una determinata cosa, la si lascia in so-speso per dedicarsi ad altro...Tuttavia, si sa che nel leccese esiste una

leggenda, secondo la quale i cittadini di San-Cesario sarebbero famosi ricercatori di cuz-zedde (le nostre cozze-nute - cioè cozzeminute, in contraposto alle cozze grosse -alias lumache e lumachette) tanto che in unacanzone di sapore tutto locale, piena di sar-casmo, fin dello stesso Santo si dice fra l‘altro:

Santu Cesar iu, ddu tànchene ha sciutu?Cozze piccinne cugghiendu anderà!...E si dice pure - sempre secondo la mede-

sima leggenda - che una volta quei cittadiniavrebbero abbattuto l’intero campanile dellachiesa per ricercare e venire in possesso ap-punto di una cozza che era penetrata nellefondamenta!

C. ACQUAVIVA, “Taranto... tarantina”.

NduvinieddhruLu duca de Scurranututte le notti la tene a mmanu,si la tene tisa tisacu nu ssi unga la camisa.

(la candela)

Detti popolariL’ommu a ddisciunu tenelu diavvulu an culu.

Ci face li fusi nu facele cucchiare, lassa l’arte

a ci la sape fare.

Barca, femmanee ciucciu vòlanunu sulu patrunu.

Dalli an culu caede senza patrunu.

Cuardate de corne de vovi,de vucca de canie dde ci tene fissufissu lu rusariua mmanu.

Un “paniere d’uva”: la spettanzain natura per i vendemmiatoriNel Salento, dopo la decadenza della coltura

del cotone, verso la fine del XIX sec., moltearee, le più fertili, furono convertite alla col-tura della vite. Interi territori comunali ne fu-rono ricoperti, un mare verde tra i due marialtrettanto smeraldini che bagnano questa pin-gue penisola. Quasi una monocoltura che inmolti paesi era alla base dell’economia. La ven-demmia impegnava una larghissima fascia dellapopolazione per circa un mese e mezzo e i la-voratori, impegnati in questo lavoro, riceve-vano oltre al salario quotidiano, la cosiddetta“giornata”, una spettanza in natura costituita daun paniere pieno d’uva.Così, quando a lavorare, come spesso acca-

deva era un intero nucleo familiare, il quanti-tativo d’uva messo insieme in una stagione eraspesso notevole e, oltre che nella canonica tra-sformazione in vino, si affermarono man manoanche altre soluzioni per valorizzare questa ri-sorsa tra cui la trasformazione in vincotto e inmostarda.

Leggenda GalatineseFino a pochi decenni or sono la carne era un

lusso talmente alto che la povera gente se ne ci-bava solo a Natale , a Pasqua e per San Pietro.Erano i tempi in cui il pane di grano era esclusodalle umili case, e le “friseddhre” erano di orzo.Il problema della fame in occasione di carestieraggiungeva a volte punte di paurosa dramma-ticità. Ma il popolo pur nelle sue disgrazie ha fi-ducia del Buon Dio: ed anche quando la carestialo riduce alla fame più nera, ecco che intervienela natura per elargire dei doni apprezzati e prov-videnziali. I nostri padri dicevano, ad esempio,che i ricchi non dovevano mangiare le “cozzemoniceddhre”, perchè quest’ultime sono “lacarne de li povarieddhri”.Racconta una leggenda galatinese che le

“cozze moniceddhre” furono create dal Signoreil giorno in cui una povera madre lo supplicò dimandarle un pò di cibo per sfamare i suoi 11figli.Per antica tradizione, nei giorni successivi alla

festa della Madonna delle Grazie, i galatinesivanno in cerca delle lumache chiamate con unastupenda immagine popolare “moniceddhre”,perchè questi animaletti, autentica gioia del pa-lato, ricordano vagamente anche per il colore, ilsaio di un frate cappuccino.

Galatina - Azienda Vinicola Folonari primi ‘900

Page 12: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

V 1 S. Teresa del B. G. �

S 2 Ss. Angeli Custodi

D 3 S. Esichio

L 4 S. Francesco d’Assisi

M 5 S. Placido

M 6 S. Bruno

G 7 B. V. del Rosario �

V 8 S. Pelagia

S 9 S. Dionigi

D 10 S. Daniele

L 11 S. Firminio

M 12 S. Serafino

M 13 S. Edoardo

G 14 S. Callisto �

V 15 S. Teresa d’Avila

S 16 S. Edvige

D 17 S. Ignazio d’Ant.

L 18 S. Luca ev.

M 19 Ss. Isacco e C. m.

M 20 S. Artemio

G 21 S. Orsola

V 22 S. Salomé

S 23 S. Giovanni da Cop. �

D 24 S. Antonio M. Cl.

L 25 S. Crispino

M 26 S. Evaristo

M 27 S. Fiorenzo

G 28 Ss. Simone e G. ap.

V 29 S. Ermelinda

S 30 S. Lucano �

D 31 S. Quintino

Ottobre 2010Le truppe alleate a Galatina

Dopo l’8 settembre cominciarono a vedersi le prime truppe alleate: indiani, negri, inglesi, ame-ricani. La miseria dilagava. Il contrabbando e la prostituzione avevano raggiunto i massimi livellie non risparmiavano nessuna classe sociale. Ci si prostituiva per una stecca di sigarette (Chester-field, Navy Cut, Camel, Lucky Strike...); per qualche scatoletta di carne (corned beef); per l’im-mangiabile farina di legumi ; per i salamini; per un paio di calze...Le condizioni igieniche eranopessime: si diffondeva la scabbia ma faceva la sua apparizione la penicillina.Si rivedeva il pane bianco, si scoprivano le chewing gum e le caramelle col buco, l’ottima cioc-

colata.La ricchezza degli alleati era motivo di gioia stupefatta e, spontaneo, veniva il paragone con

le condizioni delle nostre truppe: quando mai avremmo potuto vincere la guerra contro tali po-tenze? Solo una folle megalomania -di cui era rimasta infettata tanta parte del popolo italiano-aveva potuto imbarcarsi in simile avventura! Molti guradavano con invidia alla Spagna che era riu-scita a tenersi fuori dal conflitto.I cieli erano spesso letteralmente coperti, da un punto all’altro dell’orizzonte, da stormi di For-

tezze Volanti dirette verso il Nord. Si vedevano per la prima volta le jeep e i camion Dodge consu appollaiati soldati di ogni colore, quasi tutti indistintamente forniti di occhiali verde-suro, tipoRay-Ban.I cappotti dei Galatinesi erano confezionati con coperte militari, le lenzuola con teli di para-

cadute; i vestiti si rattoppavano, si tingevano e si rivoltavano. Si viveva così, con i pochi bollinidelle tessere e con l’arte tutta italiana di arrangiarsi.Il Commissario prefettizio Luigi Vallone svolgeva una attività frenetica ed altamente meritoria

per aproviggionare di viveri la popolazione, con invii di camion in viaggi avventurosi là dove c’eraqualcosa da prendere e rifornirsi così di vettovaglie.Il Comune, senza una lira, doveva ricorrere a prestiti presso la locale Banca Fratelli Vallone per

pagare gli stipendi ai propri dipendenti.C. CAGGIA, “Cronache galatinesi”

LA CARBONERIA A GALATINAL’eco della Costituzione ottenuta, il 1812, dai Siciliani si propaga in un baleno in Terra d’Otranto

e scuote gli assopiti salentini. La Carboneria comincia a diffondersi come mezzo efficace di rivo-luzione...Giacomo Comi, di Corigliano d’Otranto, presiede un’alta vendita provinciale di Buoni Cugini,

già nel 1813, che coordina l’attività carbonara salentina...In quegli stessi anni attecchisce in Galatina la carboneria per merito di Giacomo Comi e viene

istituita una forte “vendita” che assume il nome “Novelli Bruti”.Ne sono dirigenti Giovanni Campa (Gran Maestro), Antonio Viva (1° Assistente), Nicola Mon-

giò-Gigli (2° Assistente), Carmine Zappatore (tesoriere), Donato Granafei (oratore), Dionisio Ca-sciaro (segretario), Lazzaro Luceri (Guarda bolli). Benché ne conoscesse gli affiliati la polizia fucerta dell’esistenza di questa vendita soltanto il 31 marzo 1851, quando, procedendosi all’inven-tario dei beni del Comi, morto in Venezia, fu trovato tra le sue carte un Diploma in carta pecoracon segni carbonici, in bianco, ma recante la data 30 luglio 1820 e le firme dei dirigenti che, adeccezione dei Granafei, eran tutti di Galatina.Il documento smentisce l’affermazione del Rizzelli che l’istituzione della vendita attribuì ad

Ortazio Congedo inopinatamente. Esso rinvenuto in epoca di recrudiscenza reazionaria, funestatadall’assolutismo intransigente del Sozy-Carafa, diede origine ad un processo alla rovescia ten-dente ad accertare se i superstiti ai decessi di Comi e Campa avessero persistito nell’attività rivo-luzionaria dopo la Sovrana Indulgenza del 1822...Testimonianze sugli incriminati di Galatina fornirono Fortunato Tondi, Donato Garrisi, Gio-

vanni Vernaleone, i quali dichiarano unanimi che dopo il 1822 gli imputati giammai si erano riu-niti in setta ossia società segreta e che la loro condotta doveva considerarsi ledevolissima sottotutti i rapporti.Mancando le prove dell’esistenza della vendita anche dopo la scrupolosa istruttoria, la Gran

Corte Criminale di Lecce, con sentenza del 3 lugio 1851, poichè risultavan trapassati Comi eCampa, poichè il reato attribuito a tutti gli altri andava coverto da sovrana indulgenza del 28 set-tembre 1822 e il 1° febbraio 1848, a voti unanimi dichiarava estinta l’azione penale sul conto diGiacomo Comi e Giovanni Campa e dichiarava abolita l’azione penale a favore di Antonio Viva,Nicola Mongiò-Gigli, Donato Granafei, Cramine Zappatore, Dionisio Casciaro e Lazzaro Luceri.

M. MONTINA, “Storia di Galatina” a cura di A. Antonaci.

La cucina de na fiataTAJERINA, PURÈDI FAVEESEPPIOLINEIngredienti per la “tajerina”: 300 gr. di farina di grano duro, 2 uova, prezzemolo tritato, unpoco di sale.Impastare bene i vari ingredienti con poca acqua e lavorare a lungo fino ad ottenere unapasta liscia e morbida. Stendere con il mattarello una sfoglia sottile e ricavare le tagliatelle(larghe non più di un paio di millimetri).Ingredienti per il condimento: 500 gr. di seppioline, una decina di pomodorini, aglio, olio,vino bianco, rucola, 200 gr. di purè di fave, pepe macinato fresco, pulire le seppioline etagliarle a pezzi.Fare imbiondire in una larga casseruola 2-3 spicchi di aglio, aggiungere le seppioline, ro-solarle e sfumarle con del vino bianco. Evaporato il vino, aggiungere i pomodorini a pezzie ultimare la cottura (se è necessario aggiungere acqua calda). Lessare al dente la “tajerina”,scolarla e aggiungerla al sughetto preparato con della rucola fresca, girarla bene, spargeredel pepe macinato e servirla nei piatti sul cui fondo è stato sistemato un poco di purè di

fave caldo.

CuriositàLe nostre nonne preparavano le tagliatelle e poi le facevano asciugare sudelle canne sistemate tra due sedie. Sul pavimento venivano distesi deglistrofinacci per raccogliere la pasta che eventualmente poteva cadere. Letagliatelle si facevano seccare al riparo dalle correnti d’aria e dallemani troppo vivaci dei bambini.

Superstizione e credenze salentineLa superstizione era diffusa nei nostri

paesi, perchè gli umili lavoratori della terra,culturalmente arretrati, erano inclini a cre-dere nell’influsso di fattori extraterreni o ma-gici sulle vicende umane e quindi a praticaredei rituali fondati su presupposti emotivi conl’uso di amuleti, talismani o gesti simbolici.Ma insieme alla superstizione , profonda erapure la fede religiosa, anche se espressa informe esteriori molto primitive. General-mente, la nostra gente, per antica tradizione,si affidava, nei momenti di estremo bisogno,alla protezione del suo Santo protettore, sup-plicandone con fervore il suo intervento.Per consuetudine, si organizzavano allora

delle processioni propiziatorie, con la statuadel Protettore che veniva portata per lestrade del paese, per scongiurare, con sup-pliche e preghiere fervorose, il pericolo in-combente. A volte, al sopraggiungere di unviolento nubifragio, si usava far suonare adistesa le campane della chiesa, a cui venivaattribuito il potere miracoloso di allontanarelampi e tuoni, e di risparmiare gli abitanti daitemporali. Ecco perchè ogni paese del Sa-lento ha oggi una sua storia prodigiosa daraccontare, non essendo mai mancata l’inter-cessione dei Santi protettori, in occasione dieventi calamitosi.

A. QUARANTA, “Marittima,un Paese del Salento”

AMULETI E TALISMANIAmuleti caratteristici erano: la ciprea, con-

chiglia marina montata in argento, che si le-gava al piede dei neonati per preservarlidalle insidie dei maligni; i cornetti ed i corallirossi, che di solito si appendevano al collo o

al polso del poppante per preservarloda soffocamenti e malanni. Al-l’esterno della casa rurale o dellestalle, in alto, sulla porta d’ingresso,spesso si collocavano: il ferro di ca-vallo, che allontanava gli influssi delmalocchio; oppure un paio di cornadi bue, che preservavano dagli spiritimaligni e dall’invidia.

I Talismani erano considerati stru-menti di successo nell’ambito deirapporti umani e sociali, e, perquesto, venivano gelosamentecustoditi e portati con sè, dap-pertutto, come portafortuna. Ipiù comuni erano: le pietre omedaglie con caratteri cabalistici;i ciondoli portafortuna: il ciondolodel quadrifoglio, del gobetto, quellocaratteristico del pugno chiuso conindice e mignolo protesi in segno

di scongiuro (segno simbo-lico caratteristico).A. QUARANTA, “Marittima un

Paese del Salento”

Pane biancuAh! benedettu Diu ca finarmentese sta bide nu pane de cristiani!...perce’ quidhu de prima, francamente,nu mbalìa cu llu dai mancu a lli cani!!...

Biancu comu la nie!...ma sulamenteca ce ssacciu comu ete ca rumani...perce’ a llu mastecare nu sse sentedha sapore...ca mangi e ssia ca sani...

Capiscu ca nu nc’ e’ nienti mmescatu,perce’ se ite ca e’ rrobba sincira;cu llu disprezzi e’ nnu veru peccatu;

ma perce’ simpatia nu mme nde tira?E ieu me crisciu ca lu Municipiulu sta fface de purvere de cipiu!...

E. BOZZI, “Poesie in dialetto lecceseed in ... pulito”.

ANEDDOTO

“Le fave de la prima mujere”Anche qui una breve storiella.Un contadino ha avuto una prima e poi una se-

conda moglie. La prima usava preparargli le fave(le nostre gustose fave bianche) in un determinatomodo. Dopo qualche tempo dacchè era rimastovedovo, il nostro uomo trasse a giuste nozze unaseconda compagna, la quale però sapeva cuocerele fave in altra maniera non conforme al gusto delmarito; onde questi, puntualmente, al presentarsidi ogni occasione propizia, non tralasciava di rim-piangere le fave ca faceva ‘a bon’ànema.Senonchè - guardate il caso - una volta avenne

che, per una fatale e casuale mancata accudienzada parte della donna, le fave bruciassero, rima-nendo, per buona parte, attaccate alle pareti in-terne e al fondo della pignatta. Tuttavia, serviteall’ora di pranzo, in quel modo, pur tra mille scusedella moglie, furono invece dal marito trovate ec-cellenti e...finalmente proprio come quelle che so-leva preparargli ‘a prima mugghiera!...

C. ACQUAVIVA, “Taranto...tarantina”

Detti popolariDanne mmangiare a llu villanu,

ca poi te caca an manu.

Lu bastone de lu maritu,sotta sotta ede sapuritu.

Vucca china nu pote dire no.

Giovani militari galatinesi 1918

Page 13: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

L 1 Tutti i Santi

M 2 Commemorazione Defunti

M 3 S. Martino de P.

G 4 S. Carlo Borromeo

V 5 S. Magno

S 6 S. Leonardo �

D 7 S. Ernesto

L 8 S. Goffredo

M 9 Dedicazione Basilica Lat.

M 10 S. Leone Magno

G 11 S. Martino

V 12 S. Giosafat

S 13 S. Diego �

D 14 S. Veneranda

L 15 S. Alberto M.

M 16 s. Giuseppe Moscati

M 17 S. Elisabetta d’U.

G 18 Ded. Bas. Ss. Pietro e Paolo

V 19 S. Ponziano

S 20 S. Ottavio

D 21 Cristo Re �

L 22 S. Cecilia

M 23 S. Clemente papa

M 24 S. Crisogono

G 25 S. Caterina

V 26 S. Liberale

S 27 S. Virgilio

D 28 Iª D’Avvento �

L 29 S. Saturnino

M 30 s. Andrea ap.

Novembre 2010

Il ciclo pittorico sulla vita di Cristonella Chiesa di Santa Caterina in Galatina

Le Storie della vita di Cristo, ampiamente illustrate dai grandi maestri nelle chiese più presti-giose d’Italia, in Santa Caterina vennero proposte tanto sulla facciata della basilica quanto sullepareti della terza campata.Il pittore locale Pietro Cavoti, impegnato fra il 1848 e il 1880 a riprodurre in acquarello mol-

tissime decorazioni della basilica, ci ha offerto la possibilità di conoscere che una volta tutte lepareti della facciata erano dipinte e che nella metà del secolo decimonono restavano ancoraavanzi di affreschi, alcuni ormai sbiaditi e irriconoscibili, altri agevolmente identificabili nella lorocomposizione.I frammenti meglio conservati si trovavano attorno al rosone, nella lunetta e ai lati del portale

maggiore: vi si ammiravano alcune scene cristologiche, le quali avevano dovuto esercitare attra-verso i secoli un gran fascino su quanti passavano per l’antistante piaza Orsini.In alto, a destra, si vedeva il Cristo salire verso la cuspide, caricato di una lunga pesantissima

croce e seguito dallo sguardo delle donne piangenti che stavano a sinistra del rosone; su un latodel portale c’era l’angelo della risurrezione, sull’altro le pie donne che ricevevano il lieto annun-zio. Nella lunetta centrale era affrescata l’immagine del Signore. Oggi le pitture esterne sono per-dute, ma in chiesa rimangono ben ventinove figurazioni della vita di Cristo: dieci di esseriprendono e svolgono ampiamente il tema “passione-risurrezione” cui sono facilmente ricondu-cibili gli altri episodi riguardanti l’Infanzia di Gesù (Strage degli Innocenti, Fuga in Egitto, ecc.),le Tentazioni, la Trasfigurazione, la Risurrezione di Lazzaro, le Palme, la Lavanda, la Cena.Le fonti letterarie sono essenzialmente i quattro Vangeli e con ogni probabilità le “Meditazioni

sulla Vita di Cristo” (un testo già attribuito a S. Bonaventura ed oggi assegnato quasi all’unani-mità al francescano fra Giovanni da Calvoli), che aggiungono tratti delicatissimi alle scene dellaPassione ed hanno potuto ispirare gli artisti del Tre e Quattrocento fino a modificare l’iconogra-fia di molte rappresentazioni evengeliche.L’Antonaci ritiene appunto che le Meditazioni, già segnalate dal Berteaux come fonte di epi-

sodi affrescati dalle maestranze del Cavallini nella chiesa angioina S. Maria Donnaregina di Na-poli, abbiano anche guidato l’artefice cateriniano nelle figurazioni della Passione.

T. PRESTA, “Santa Caterina in Galatina”

IL PAGANESIMONELFOLCLORESALENTINO

I FUNEBRI...Nel Salento il morto si seppellisce comple-

tamente vestito, finanche con le scarpe, e nellecampagne vicine sussiste più tenace l’uso diaggiungere il cappello, nella bara si chiudequalche oggetto ch’era caro al defunto, oppureimmagini di Santi. Si narra di sogni, controllatispesso da prove inequivocabili, medianti iquali i morti hanno avvertito i superstiti d’es-sere stati derubati di indumenti o monili fune-bri per opera di qualche sciacallo in vesteumana; e si conchiude che i morti desideranodi conservare, per l’altra vita, il loro ultimo ab-bigliamento; appunto per questo il loro vestia-rio è accurato, lindo, tale da essere decorosoquandu lu mortu stae ‘nanti la presenza de Diu.Appena spirato il congiunto, gli si dedica la

Messa del Buon Passaggio, la quale non èancor quella di suffragio, ma riproduce il ritopagano della moneta messa in bocca al mortoper pagare la barca di Caronte pel buon pas-saggio dello Stige. E piange la prèfica, la qualein Gallipoli è chiamata la grèca...Conforme all’usanza ellenica, si esprime il

più forsennato dolore con lo strapparsi dei ca-pelli, col graffiarsi il viso, con le esclamazioniacute e strazianti, con l’inveire contro la Sorte‘ngrata, contro la Morte làzara, contro il Santoinvocato invano per la guarigione. Sono eccessiche vanno scomparendo man mano che au-menta l’educazione civile, e a seconda dell’in-tensità del sentimento cattolico esortante allarassegnazione.Cominciano le esequie. Ai piedi del feretro

son deposte le Insegna della Confraternita cuiil morto era ascritto, e i Fratelloni della Confra-ternita intervengono al corteo vestiti col saccorituale dai colori distintivi e col volto copertodal cappuccio; la processione, col crocifero intesta, s’appressa alla porta della casa del morto,al Crocifisso si fa fare capolino per simboleg-giare la visita del Signore misericordioso, e su-bito dopo si allinea mentre il corteo si forma.Dopo le esequie giunge lu cùnsule (cioè il

consuòlo), e son bevande ristoratrici o pranzoimbandito a cura del parentado o dei compàri,e che rappresentano e ripresentano le àgapi fu-nebri degli antichi greci.Ed anche reminiscenza ellenica è il lutto pe-

sante caraterizzato dalla barba cresciuta e dalcappotto o cappa indossata anche d’estate, laquale usanza è ormai scomparsa nelle città, mapersiste nella tenace campagna.Poi cominciano le asprezze per la divisione

de le quattru strazze ereditate!N. VACCA, “Rinascenza Salentina”

La cucina de na fiataPITTA DECARNEIngredienti: 700 gr. di carne di vitello macinata, 150 gr. di formaggio parmigiano grattu-giato, mollica di pane bagnata nel latte, 3 uova, prezzemolo tritato, noce moscata, sale,pepe, olio, pane grattugiato.Ingredienti per il ripieno: 200 gr. di spinaci lessati e passati nel burro 200 gr. di porchettaa fette, 200 gr. di formaggio morbido.Impastare la carne con i vari ingredienti. Con metà dell’impasto foderare una teglia daforno unta di olio e spolverata di pane grattugiato.Adagiare poi il ripieno sistemando prima gli spinaci, poi la mortadella e infine il formag-gio a fette. Ricoprire con il rimanente impasto, ungere con un poco di olio la superficie e

infornare a 180°.

CuriositàUn tempo le nostre nonne cuocevano le loro pitte mettendo la teglia sullabrace del camino e la coprivano servendosi di un grande coperchio sulquale spargevano dell’altra brace.Questo grande e particolare coperchio chiamato “u furnu de campa-gna” serviva a cuocere e dorare le pitte in superfice.

Lluttu strettuSanti a nforsa nu nde ole lu Signore...e ieu dicu: stu lluttu te sta ppisa?e nci ole tantu, puezzi essere ccisa?zzìccalu e iundulìscialu dha ffore!!...

Nu già ca cu nni muesci lu doloreai facendu la pupa tisa tisacu st’abitu de subbra a lla camisa,china, Ggesù Mmaria, de acqua de ndore!!...

Siccomu nu te puei mintere a rrussu,nfacce lla esta, lu velu e lli uantiniuri te sta scrapicci cu llu lussu.

E de subbra mai st’abbittu te catepe ll’amore cu ddici a ttutti quantica le lacreme toi su’ pprofumate!

E. BOZZI, “Poesie in dialetto lecceseed in...pulito”.

NduvinieddhruCummare de Portacalludammi nu pizzichilluquantu ccriscu stu tarallu.

(il lievito)

RECITA UN ANTICO PROVERBIO:

“fazza ddiu!...e morse rretua llu parete”.

È l’espressione del povero, dell’umile,o di chi è senza iniziative che si rassegnaalla propria sorte.Questo motto - comune in tutta la re-

gione pugliese - trova riscontro nell’altro“tir’ a cambà” nel napoletano.

L’espressione “Fazza Ddiu”L’espressione dialettale, ancora oggi in uso da

noi, ...fazza Ddiu!! (faccia Iddio), può significare,o fatalistica rassegnazione, o cristiano abbandonoalla volontà di Dio, padre misericordioso, equindi fermezza d’animo, saldezza di principimorali e di carattere. Nei casi più disperati, lagente del luogo, spesso assumeva o per avvili-mento o per mancanza di fede, un atteggiamentodi passiva indifferenza o di rassegnata accetta-zione, convinta che ciò che accadeva era dovutoal destino senza possibilità alcuna di opporvisi.A. QUARANTA, ““Marittima un Paese del Salento”

11 Novembre: San MartinoIn tutti i paesi del Salento, secondo tradizione,

il giorno di San Martino si usa spillare dalla botteil vino novello per farne il primo assaggio, se-condo il veccio proverbio popolare che dice:

“A San Martino,ogni mosto diventa vino!”

Quelli...che non hanno un proprio vigneto perlo più usano comprare “una partita” di uva neipaesi del Salento che ne producono in grandequantità, per fare -in loco- un vino robusto da ri-servare per le grandi occasioni e, in parte, ancheper la propria tavola.Si registra intanto la scomparsa totale delle pu-

teche, osterie caratteristiche del luogo, dove unavolta - tra un tressette e una briscola - si consu-mavano delle solenni sbornie, sostenute imman-cabilmente dai famosi pezzetti di carne equina alsugo, molto piccanti, ed altri gustosi manicaretti.Ma in forma ridotta ancora oggi, secondo vecchiecostumanze, per il giorno di San Martino, in quasitutte le case le buone massaie fanno trovare a ta-vola accanto ad un bottiglione di vino no-vello,...”quello che solletica il palato e profumadi fresco e di giovane”... le prime pittule, i profu-mati e stuzzicanti “gnommareddi” (involtini di in-teriora di agnello arrostiti alla brace) ed altrecosette. Non mancano mai le cicorie crude ed i fi-nocchi prodotti in giardino, che invitano a bere ea dimenticare, almeno per quel giorno, i grossiproblemi della vita quotidiana.Quando il vino comincia a farsi sentire..., gli

anziani della compagnia, che sono sempre i piùarzilli, non indugiano ad improvvisare canti estornellate che valgono ad infondere tanta alle-gria nel cuore di tutti.A. QUARANTA, “Marittima un Paese del Salento”.

Detti popolariThre ccose nu sse pòtanu scundire:amore, tosse e venthre crossa.

Se lu malatu campa,nc’era oju inthru a lla lampa.

Ci vole ccampa a santa pace,vide, sente e ttace.

Page 14: Calendario 2010 Centro sul Tarantismo e Costumi Salentini di Galatina (LECCE)

CENTRO SUL TARANTISMO E COSTUMI SALENTINI

M 1 S. Eligio

G 2 S. Bibiana

V 3 S. Francesco Sav.

S 4 S. Barbara

D 5 IIª di Avvento �

L 6 S. Nicola da Bari

M 7 S. Ambrogio

M 8 Immacolata Concezione

G 9 S. Siro

V 10 Madonna di Loreto

S 11 S. Damaso papa

D 12 IIIª di Avvento - S. Lucia �

L 13 S. Lucia

M 14 S. Giovanni D. Cr.

M 15 S. Massimino

G 16 S. Umberto

V 17 S. Lazzaro

S 18 S. Graziano

D 19 IVª di Avvento

L 20 S. Ursicino

M 21 s. Pietro Canisio �

M 22 S. Demetrio

G 23 S. Vittoria

V 24 S. Adele

S 25 Natale di N. Signore

D 26 S. Stefano

L 27 S. Giovanni ev.

M 28 SS. Innocenti M. �

M 29 S. Tommaso B.

G 30 S. Eugenio

V 31 S. Silvestro

Dicembre 2010

Il rilievo della Madonna col Bambinonella chiesa di Santa Caterina

Nell’edicola cuspidata, racchiusa in una struttura lignea, è scolpita la Madonna col Bambino.Lo schema compositivo è gotico perchè la Vergine, in posizione eretta presenta una gamba leggermente

flessa in avanti mentre la struttura della sua figura sembra ruotare sull’altra che funge da cardine; le brac-cia prefigurano due archi, la testa è piegata in avanti e tesa, con lo sguardo indirizzato ad incrociare gli occhidel Bambino. La Madonna, regge con il braccio e la mano sinistra il Bambino, che ha in mano un uccello;e, con la mano destra, il mantello sul cui lembo la luce ricadente fluisce nei canali in dosate quantità di ri-flessi. La vitalità della figura è ottenuta dalla modulazione della luce che risulta incanalata nei rivoli dellepieghe ascendenti del mantello e discendenti della tunica che definiscono, nei particolari, la configurazionecorporea del personaggio, l’atteggiamento, il movimento. La veste ampia e sottilissima, tenuta in vita da unacinta sì da originare, in basso, un fluttuante panneggio, ne qualifica l’andamento curvilineo della posturadella Madonna che si contrappone al volgere del volto; il mantello fermato sotto il collo, da una fibbia aforma di corolla, si dispiega in corrispondenza della vita facendo intravedere la veste sottostante e sottoli-neando, attraverso orbite ripetute e crescenti, il singolare gesto aggraziato e leggiadro della Vergine. Il velocorto tenuto da una corona, sulla quale si ripete il motivo del giglio, simbolo degli angioini, copre il capodella Madonna mentre, il suo volto ovale è incorniciato dal fluire delle ciocche ondulate dei capelli che la-sciano libera la fronte alta. La nobiltà del movimento della Vergine è affine al dispiegarsi del sentimento af-fettivo che la lega, con lo sguardo al figlio. Il Bambino, asse virtuale della composizione, è ben definito nelmodellato corporeo, visivamente percepibile, nonostante l’indumento indossato, così come è evidentel’espressione e lo stato d’animo che comunica. A questa ieratica e statica figura si contrappone l’atteggiamentodinamicamente composto della Vergine, generato soprattutto dal drappeggio da cui si irradiano curve che con-feriscono alla figura un moto eccentrico trasmettente la luce in ondate successive e centrifughe. Questi ritmimelodici tramandati allo spazio connotano l’opera come gotica anche se la dignitas della Vergine è umani-stica... Tale manufatto, sintesi mirabile di architettura, scultura e pittura (anche se l’opera è priva dell’origi-naria cromia), è un esempio importante nel campo dei valori plastici e in quello dei significati religiosi.

D. SPECCHIA, “Il Tesoro”

LA DATA DI NASCITADI UNBAMBINO

Intorno alla probabile o desiderata data dinascita venivano avanzate alcune congetture.I mesi, i giorni, le lune, le stagioni, avevano

grande influenza in questo campo.In genere si reputava sfortunato il bambino

nato di Venerdì; assai fortunato quello nato diMercoledì, Sabato o Domenica; il bambinonato di Giovedì sarebbe stato invece intelli-gente, lunatico quello nato di Lunedì. Non eradi buon augurio venire alla luce il diciassette oil tredici del mese, nè tanto meno nel mese diMarzo, considerato un mese dalle influenzebizzarre, come la sua bizzarria atmosferica.“Marzo pazzerello / esce il sole e prendi

l’ombrello”, metteva in guardia il proverbio.Un altro mese ritenuto sfavorevole per la na-

scita era Ottobre (ne sarebbe venuto fuori untemperamento pesante e malinconico); eranoritenuti mesi propizi Gennaio (forse perchè in-cominciamento dell’anno: “anno nuovo, vitanuova”), Aprile e Maggio, i mesi della prima-vera, della rinascenza della natura, che avreb-bero trasmesso perciò delle influenze positivesul nato, che sarebbe stato dotato di dolcezzadi sentimenti, di sensibilità, oltre che di alacreattivismo.Chi nasceva poi in Luglio sarebbe stato forte,

chi in Agosto avrebbe dimostrato un tempera-mento caldo, chi in Dicembre avrebbe avver-tito sempre freddo e sarebbe stato anchefreddo nei sentimenti.Molto favorevoli al nascituro erano alcuni

giorni che cadevano in particolari festivitàcome Natale, Capodanno, l‘Epifania, la Pasqua,la Pentecoste, l’Ascensione, la Domenica dellePalme, o in ricorrenza di santi famosi che ri-scuotevano la simpatia e il culto universali,come S. Francesco, S. Paolo, S. Giovanni, S.Giuseppe, i Santi Cosma e Diamano. Di questiultimi il neonato prendeva anche il nome.Si credeva che i nati in queste ricorrenze sa-

rebbero stati immuni dal tarantolismo o dalmorso di altri animali.

L. ELIA, “Salento addio”

I pellegrinaggidella tradizione salentinaNel passato, per antica consuetudine, intere

famiglie di contadini, in determinati giorni del-l’anno, usavano recarsi in pellegrinaggio in al-cuni paesi della zona per manifestare la lorodevozione al Santo taumaturgo del luogo.Il 13 dicembre, di solito, raggiungevano

Scorrano, dove si venera Santa Lucia, la Santadegli occhi; il 6/7 agosto si portavano a Mon-tesano Salentino, dove si svolgono i festeggia-menti in onore di San Donato, il Santoguaritore del morbo sacro; ed il 15/16 agosto sirecavano a Torrepaduli, frazione di Ruffano,dove si festeggia San Rocco, il Santo che, versola fine del Seicento, liberò le contrade del Sa-lento dal terribile morbo della peste. Per vene-rare la Santa della luce, i devoti, la mattina del13 dicembre, di buon’ora, con i traini si reca-vano a Scorrano, dove la Protettrice è invocatacon particolare favore dai sofferenti di occhi.Approfittavano poi della fiera-mercato per

effettuare le prime compere natalizie, e la ri-correnza -come tut’oggi avviene- faceva pregu-stare la gioia del Natale ormai alle porte.

A. QUARANTA, “Marittimaun paese del Salento”

La cucina de na fiataCROSTATA CU LLEMENDULEIngredienti per la pasta frolla: 600 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 100 gr. di strutto, 150 gr. di burro, 2 tuorlie 2 uova intere.Ingredienti per il ripieno: 500 gr. di mandorle, 300 gr. di zucchero, 3 uova, vaniglia, cannella in polvere, alcunichiodi di garofano pestati, 1 biccherino di rum, marmellata di amarene.Impastare velocemente gli ingredienti della pasta frolla e lasciarla riposare in frigo per 1 ora. Tritare le mandorlecon la loro buccia, aggiungere le uova, lo zucchero, gli aromi e il liquore. Ricavare dalla pasta frolla 2 sfoglie,foderare con una sfoglia una teglia da forno unta di burro e infarinata, adagiare il ripieno, aggiungere un sot-tile strato di mermellata di amarene. Ricoprire la crostata con la seconda sfoglia di frolla e infornare a 180°. Lacrostata tolta dal forno e raffreddata, va spolverizzata di zucchero a velo.

CuriositàUn tempo i dolci preparati in casa venivano serviti, specialmente nel periodo Natalizio con dei liquori prepa-rati dalle nostre nonne. I liquori venivano gelosamente conservati negli “stipi” e poi, come per magia, appari-vano nei momenti o giorni particolari. Un liquore molto caratteristico e speciale era quello ottenuto facendo

macerare nell’alcool i fichi d’india.

Liquore di fichi d’indiaIngredienti: 500 gr. di alcool, 10 fichi d’india rossi, 400 gr. zucchero, 500 gr. di acqua.Mettere i fichi d’india a macerare nell’alcool in un vaso a chiusura ermetica per una decinadi giorni (avendo cura di agitare il vaso ogni giorno). Far sciogliere sul fuoco lo zuccheronell’acqua e attendere che si raffreddi, quindi mescolarlo all’alcool e poi filtrare il tutto.Si otterrà un liquore di un’intensa colorazione rossa. Se si vuole ottenere una colo-razione diversa si useranno dei fichi d’india di altro colore.

Ninne nanneE nanna, nanna li canta la mammaA lu piccinnu sou cu fazza nanna;E nanna nanna, nanna mia,Ddurmiscimilu tie, Madonna mia.

E sonnu, sonnu, sonnu ‘ngannatore,Ddurmiscimilu tie ‘nu paru d’ore,‘Nu paru d’ore e ‘nu paru de misi,Fintantu nu’ mi cuntu ‘sti turnisi.

La Vergine Maria de cquai passau,E de lu piccinnu miu me domandau.Iu li dissi ca ‘lla chiesa sciu,Iddha mi disse: Bona via pijau.Poi li dissi ca sta fà la nanna,Iddha mi disse: Diu ti lu ‘ccumpagna.

Dormi fiju e fà la nanna,Ca la Beata Vergine t’accompagna.

Lu piccinnu miu quandu nascìuLu Papa de Roma la messa cantau,‘nu fazzulettu de turnisi ‘nchìu,Tutti a li povarieddhi li dunau.

Sonnu, sonnu nu’ scire a li vecchi,Vieni a lu piccinnu miu chiudili l’occhi,se li li chiudi nu’ li fare maleCa è piccicchieddhu e crande s’ave fare.

Ninu, ninu, ninu,Menta, sansicu e petrusinu,La mamma sente la ndoreDe luntanu e de vicinu.

A.M. GIURGOLA RIZZELLI,“Galatina: il folclore e la vita”

LLee PPuuccccee ddeellll’’IImmmmaaccoollaattaaLe pucce e le uliate sono dei panetti bassi

realizzati con un impasto morbido di farinadi grano duro e aventi crosta molto sottile; leseconde recano obbligatoriamente nell’im-pasto le olive. I pani di semola e di orzo vengono pre-

parati rispettivamente con semola di granoduro e con farina di orzo.

LA STORIAQuesta Provincia, vanta sul pane una tra-

dizione veramente eccezionale, basti ricor-dare che le appartengono ben 50 dei 100 tipidi pane censiti nella straordinaria nomencla-tura dei pani pugliesi compilata da LuigiSada. Ognuno di questi pani, è soventefrutto di una particolare motivazione storicoeconomica. Il pane di orzo, ad esempio, èun pane povero, storicamente in uso pressogli strati più umili della popolazione, un pro-dotto che nasce dal bisogno di sotituire uncereale nobile come il grano con uno menopregiato e soprattutto agronomicamentemeno esigente e più produttivo quale ap-punto l’orzo. Quello di semola, all’opposto, è l’antesi-

gnano del mitico pane bianco ed è stato persecoli un privilegio alimentare riservato aiceti benestanti e cittadini. Le pucce, le uliatee i pani conditi in genere sono nati comepani per occasioni particolari, sovente legatia ricorrenze liturgiche, come le pucce che, intutto il Salento, è antica tradizione consu-mare la vigilia dell’Immacolata.

CAMERA DI COMMERCIO DI LECCE, “Salento Sapori”

NduvinieddhruTegnu ‘na cosa chiripicòsaface tthre vutàte e poi riposa.

(la chiave)

Detti popolariSantu Magnu si mangia Santu Ggiustu.

Quandu la muscia nu rriva allu casu dice ca fete.

L’urtimu ca lu sape ede lu curnutu.

Lu ciucciu se canusce de le ricche, e llu fessa de le chiacchere.

Nghiutti maru e sputa duce.

Ci vole cu descia de capu allu parete, mmara lle corne soe.

Ci se ccuntenta code (e stenta)!!