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cahier#1 di ziana tommei

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Cahier#1 di tiziana tommei (Trentatré) marzo 2015

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di tiziana tommei

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parole

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numeri

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19 + 19 + 1004. 2013 - 12. 2014

Numeri. Apparentemente senza senso. “No, no... Non ti preoccu-pare: è normale - interviene immediata - i numeri mi hanno sempre ossessionata: sarà forse per la mia passione per la matematica che, nel fare un primo bilancio, sono partita da quelli...”.Ancor prima di iniziare, perciò, Tiziana mi blocca. Sorride e mi spie-ga che “diciannove sono mostre in galleria e diciannove in spazi off: trentotto testi critici complessivi a cui si aggiungono dieci articoli pubblicati su web magazine di fotografia e arte contemporanea!”.“Ah... Ecco... Ho capito”: nello spazio di un attimo sono di nuovo sui banchi di scuola, testando a caso l’estrema semplicità dell’addizione. Poi, certo del risultato: “Scrivere d’arte per me è un lavoro...”. Inizia così, lei: c’è tantissimo del suo carattere in queste prime paro-le. Eppure, ancora non ho terminato l’incipit della sua interessante iniziativa letteraria che già un primo, ragionevole dubbio si fa stra-da sgomitando: “Perdona, Tiziana: ma... chi sta scrivendo adesso?”. Lei mi guarda con sospetto - anche questa è forse una questione di carattere. Sa molto bene quanto io adori le domande irriverenti e apparentemente fuori luogo: quelle che fanno innervosire anche quando non ce ne sarebbe bisogno, per intenderci. Il fatto è che sono davvero curioso: da un lato, di quanto ci sia della sicurezza della “dot-toressa Tommei” nel breve testo che ho sotto mano; dall’altro, quan-to invece desideri celarsi l’intima natura di Tiziana. Alle cui passioni e intuizioni - ricordate - si devono molte delle risolute scelte della stessa dottoressa di cui sopra. Solo che alle volte lei se ne dimentica. Comunque...Senza attendere una risposta, in perfetto equilibrio tra slanci e cau-tele, riesco a tornare veloce al testo, preso nel vortice di date e sca-denze che animano questi books. In realtà io preferisco chiamarli quaderni - e ho i miei perché - ma voi chiamateli come volete: “Dopo oltre un anno e mezzo - venti mesi esatti - di turn over espositivo, concept works, curatele e allestimenti di personali e collettive varie”

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sono stati raccolti i testi critici, le recensioni e gli articoli che l’hanno vista protagonista instancabile o motivata comparsa in una raccolta digitale che per la sua ingente mole “è stato necessario raddoppiare”.Un lavoro notevole dunque che vede nello stesso suo corpus la pro-pria giustificazione. Questa duplicità essenziale è figlia infatti dell’as-soluta intraprendenza professionale di Tiziana, della sua perseveran-za così come del talento “a tutto tondo” da cui attinge continue forze ed energie. Sempre fedele a se stessa, il personale percorso critico e curatoriale si è diviso in questo breve ma intenso lasso di tempo tra ciò che accadeva tra le mura della Trentatré; e ciò che invece si ma-terializzava al suo esterno. Con la ferma convinzione che il perdersi per strada fosse dietro l’angolo, a un certo punto si è reso fisiologica-mente necessario riprendere fiato, guardarsi attorno, osservare vit-torie e sconfitte, tirare un primo bilancio. Primo - spero - di una lunga serie. Anzi: ne sono convinto: non è donna da arrendersi facilmente, Tiziana.In realtà, è l’idea stessa della condivisione a guidare questa operazio-ne riassuntiva: “Con chi avrà curiosità e interesse...” leggo con piace-re... Ho amata questa frase sin da subito. E non chiedetemi il perché poi-ché io non l’ho fatto. Curiosità e interesse: le due facce di una stessa medaglia, governata ora dal piacere del sapere, ora dalla bramosia di conoscenza; ora dall’erudizione intellettuale, ora dalla passione dell’inafferrabile. “I taccuini di un viaggio assolutamente personale: ecco di cosa si tratta!”. A parte l’enfasi rivelatoria che sa di romanzo, il viaggio nel vero senso del termine si fa concreto tra le parole, come sempre scritte di getto dall’autrice: un viaggio organizzato come si faceva un tempo, tappa per tappa, sperando di saper legger bene la cartina e di non trovarsi nel bel mezzo del nulla senza benzina - ma sappiamo tutti che può capitare e che può non essere solo una metafora: e allora conviene provare a orientarsi, senza cedere allo sconforto. Un viaggio, dunque: “Quello che chi scrive intraprende ogni volta che si trova di fronte a un’opera che la attrae, la convince, la seduce...” - non sempre in tale, rigoroso ordine. Un viaggio che è un respiro profondo; è passarsi nervosamente la mano sul volto, quasi sfioran-do le labbra con le dita; è sistemarsi distrattamente i capelli neri da

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un lato, perdersi nel vuoto con lo sguardo e vedere il futuro prima ancora che accada. Continuo a leggere. Ma mi ronza ancora in testa il dubbio iniziale. Del resto, ce ne vuole, per raccontare se stessi. E per dichiarare al mondo la propria identità.Evitando ancora il confronto diretto - divertito dal pericolo a cui sa-rei andato incontro - cerco perciò di scorrere con lo sguardo, tra-sformando le lettere in immagini e le immagini in pensieri. La meta è sempre stata lì, a un passo: la sola, vera ragione per la quale il contenuto di questi libri sembra avere così tanto di personale, così tanto di pubblico. Tiziana vive nelle sue scelte, nei suoi progetti, nelle esperienze minute come nella grande sfida, nella scoperta di un’emozione, nella ragione di un impulso, nel suo impegno - che è totale. Ecco perché scrivere d’arte, per Tiziana, è molto più che un lavoro. È passione profonda. È attaccamento, violento, alle proprie idee. È viaggio interiore - sì, ma neanche poi tanto: e possiede quella sana, sanissima dose di sfacciataggine che non fa mai male. Lei, che ha avuto quasi sempre ragione. “Quasi”, ovviamente: vorrei lasciare a tutti il beneficio del dubbio; e a lei la possibilità di credere in se stessa, mettersi continuamente in gioco e migliorarsi. Le sue sono scelte nette e assolute, legittimate da un intuito genuino: senza reali schemi o sovrastrutture, il suo è un sentire “di pancia” che ha più in comune con l’arte fatta che solo ammirata. Mi accorgo solo adesso di essere giunto alla fine del suo brano in-troduttivo. Le chiedo: “Che ne pensi, Tiziana: sei soddisfatta?”, ren-dendomi immediatamente conto della retorica nascosta nella frase. Chi la conosce bene sa che voglio dire. “Che ne diresti se io...”: le propongo perciò una soluzione alternativa, di cui voi state osservan-do i risultati. “Comunque vorrei chiudere con dei ringraziamenti - mi confessa - solo che non so bene come fare...”.A questo ci penso io: il citare tutti per nome occuperebbe più spazio di questo mio interminabile intervento. Perciò ci siamo limitati a ri-cordare tutti coloro che veramente hanno accompagnato il suo per-corso, artisti e fotografi, collaboratori e partner, visitatori, collezioni-sti, studiosi e curiosi: “A tutti voi, grazie!” lei vi direbbe. Dietro suo consiglio però, una menzione speciale è per Valentina Moretti che,

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paziente oltre misura, ha realizzato fisicamente la grafica di questo immane lavoro.Eh sì, onestà prima di tutto. E gratitudine. Io non voglio certo esse-re da meno. Nel redigere questa introduzione, ammetto perciò di aver pescato a piene mani nel testo primigenio di Tiziana, riportan-done salienti alcuni passaggi (non erano poi tanto male...). Mentre mi sono servito di talune licenze narrative per appagare il mio diver-timento. Infine, vorrei realmente concludere avendo negli occhi la sola persona che meriterebbe il nostro sincero plauso: dottoressa Tommei, perché arrossisce?

Francesco Mutti

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13 Fiabe di cartaMauro Seresini

19 OrganzaChristina Williams

25 Trame SegreteBeatrice Speranza Emy Petrini

33 Ilaria MarguttiIlaria Margutti

39 RechercheSara Lovari

45 Bang!Nuove Generazioni FotograficheSimone Martini Elisa Girelloni Danilo Giungato Fabiana Laurenzi Alessandro Rotta Luigi Torreggiani

59 AlberoLuciferi

69 OmbreMassimiliano Luchetti

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75 Cortocircuiti CognitiviPierluigi Fresia

81 PortraitsGuglielmo Alfarone

87 MayGuen FioreMelania De LeyvaCostanza GianquintoAnna Morosini

97 Progetti

Erica AndreiniDanilo GiungatoLuigi Torreggiani

103 Nulla é come sembra

Carla Mura Giulio Giustini

109 BluebellsMarius Mason

117 DialoghiLuigina Turri

123 Andy Warhol& Photography

127 Muse

Erica Andreini Luigi Torreggiani

135 FormaRoberto Ghezzi

143 TéchneAkiko KayanoTomoko Sakaoka

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Fiabe di carta

Mauro Seresini

5.04 | 28.04.2013

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Photo Credit Alessandro Schinco

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Misurare, incidere, tagliare, piegare, modellare, incastrare e mon-tare: la bidimensionalità del foglio di carta si fa scultura, acquisisce nuove forme, assume volume e domina lo spazio, sfidando il tempo.Un medium povero, comune, ma estremamente complesso: la carta, che da tradizionale supporto diventa opera, dispiega un inesauribile potenziale espressivo ed emozionale attraverso l’inventiva dell’arti-sta milanese.Mauro Seresini mette in scena un racconto: mediante il proprio vo-cabolario iconico, fatto di zoomorfie reali e fantastiche, egli narra la sua personale forma di creazione artistica.L’effrazione e la manipolazione del supporto origina nuovi spazi e suggerisce dimensioni altre. Così, la white cube 33, abitata dall’e-phemeral art seresiana, instaura con questa un rapporto osmotico, attirando il riguardante in un gioco di alterazioni percettive.Dinamiche forme sospese, i cui confini si confondono con quelli del luogo, conducono in una dimensione onirica e, parallelamente, ad una folgorazione, che manifesta il modus operandi del suo creatore.Realtà e fantasia, scultura e carta, vita e arte, si dispiegano in co-ordinate spazio- temporali sfumate, solo apparentemente definite. Lavorare la carta richiede manualità e meditazione: il materiale non è neutro e la sua fragilità, celata dalla modularità degli incastri e delle incisioni, ha in sé la componente rigenerativa dell’arte, che supera il ciclo di vita della materia per assicurare all’idea nuove forme d’e-spressione.

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Classe 1976, MAURo SERESINI cresce nella provincia milanese in una famiglia di artisti, il padre pittore e la madre sarta, le sorelle re-gista e set designer.Dopo aver abbandonato gli studi, lavora come meccanico, elettrici-sta, tecnico luci, assistente stylist, sempre fremendo per il desiderio di creare qualcosa con le sue mani. Si affaccia con curiosità ed am-bizione al mondo dell’arte e della scenografia, portando un nuovo punto di vista.oggi collabora con i maggiori fotografi, agenzie pubblicitarie e reda-zioni, facendo uso di svariati materiali, cercando attraverso essi di dare forma ai propri pensieri.Filo conduttore delle sue creazioni è la manualità, e la vita che fluisce da essa: non oggetti statici, ma storie, fiabe.

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organza

Christina Williams

5.05 | 19.05.2013

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Una produzione artistica fondata sulla straordinaria e minuziosa at-tenzione alla realizzazione di un’idea, nonché sulla traduzione di un disegno, tutto mentale, in intarsio di tessuti, preziosi e ricercati.Una trasfigurazione di tradizioni: in primis quella orientale, per l’a-scendenza da exempla giapponesi, che rappresentano, oltre a ri-chiami formali, la materia stessa e il tangibile veicolo d’espressione dell’universo astratto e figurato dell’artista.Dall’est all’ovest. Richiami a tarsie romaniche e rinascimentali, all’Art Nouveau, ai Fauves e al Surrealismo, e, prima ancora, ai Nabis e all’Arts & Craft di William Morris, emergono fra le trame di organza e tessuti applicati che, insieme, rivelano un’inesauribile vena immagi-nifica e un’incontestabile padronanza dei mezzi espressivi.La mostra invita a scoprire le tappe di un percorso creativo, cronolo-gico e tematico. Muovendo da composizioni geometriche, prime tra tutte le reiterate forme cubiche di Chocolate Meteors – che ricorda-no il virtuosismo pittorico pierfrancescano alle spalle della Vergine nell’Annunciazione di Arezzo – si approda, in un secondo tempo, alla rarefazione, in chiave decorativa, di elementi tratti dalla natura.Nella serie Suburban Nightmare, l’universo onirico della Williams è intrappolato tra le maglie di coordinate cartesiane, che richiamano, al pari dell’albero nodoso e “super flat”, il vocabolario di Piet Mon-drian. La casa rossa, firma dell’artista, è riproposta e accostata os-sessivamente a moduli geometrici, nonché a quel sistema di figure e segni che, quali testimonianze dell’excursus creativo, si assemblano, senza una logica, come in un sogno.Una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, all’apparenza mai spettrale, ma che svela, nel precario equilibrio e continuo rovescia-mento dell’oggetto simbolo dell’intimità e della sicurezza familiare – la casa – la sua verità assoluta, trasformandosi in una realtà forte-mente personale, in un mondo interiore, che è quello, intellettuale e visionario, di Christine Williams.

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CHRISTINA WILLIAMS è nata nel 1949 ad Eugene, oregon.Alla fine degli anni Sessanta studia disegno e pittura in Italia, a Roma. Nel 1976 si laurea in arte presso l’Università di Whashington. I primi lavori degli anni Settanta e ottanta sono inerenti al mondo del desi-gn, tra I quali si cita Lighting Designer, CW Designs, Northwest Artists Clothing Designers. Avvia la sua carriera espostiva nel 2000 con una personale alla Fille-mento Gallery di San Francisco. Da allora è inarrestabile, esponendo sia in spazi sia pubblici che privati, con mostre personali e collettive.Dagli Stati Uniti si sposta in Italia, dove la prima mostra è allestita nel 2013 a Cortona, presso Palazzo Ferretti. Segue ad essa la personale organization da Galleria 33.

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Trame Segrete

Beatrice Speranza Emy Petrini

5.06 | 30.06.2013

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Photo Credit Beatrice Speranza

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Il 2009 è l’anno di incontro tra Beatrice Speranza e Emy Petrini così ha inizio un sodalizio professionale ed emozionale che porta all’ide-azione d’installazioni, che rappresentano il traslato del vivere umano e la costante ricerca di un immaginario accessibile solo attraverso un’immersione, senza filtri, nella dimensione reale.Non una semplice mostra, ma lo snodo di un percorso: Trame Segre-te mette in scena l’esito di sperimentazioni mosse dalla capacità di dare forma, attraverso media diversi, ad una ricerca interiore, che parte da un vissuto squisitamente personale. E’ la vita che scorre tra grovigli d’immagini e materiali diversi e che deflagra, con sensibilità, in opere nuove, coraggiose e incredibilmente belle. Una bellezza che non si limita all’estetica, perché ha in sé la forza di un contenuto, veicola un messaggio, parla di un sentire comune, di qualcosa di così profondamente umano da assumere valenza universale.Un vortice che avvolge lo spettatore e sussurra di come tutto sia in-cessantemente in divenire, di quanto ogni oggetto, situazione, ma-teriale o non, sia sottoposta ad un moto perpetuo. opere che non vogliono dare risposte o certezze, ma imporre quesiti, richiamare l’attenzione e invitare l’uomo ad interrogarsi sulla sua natura, sul pre-sente, esortandolo a mettersi in gioco.

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EMy PETRINI, nata a Lucca il 18 Settembre 1967; si diploma in Inte-rior Design, presso l’Istituto per l’Arte e il Restauro a Firenze e pro-segue i suoi studi all’Accademia di Belle Arti di Carrara nella sezione Scenografia.Nel 2007 decide di approfondire la sua passione per l’arte floreale, si trasferisce per un anno in Galles e frequenta il corso avanzato di Flo-ristry presso Welsh College of Horticulture- Northop, conseguendo l’Higher Diploma in Floristry (ICSF). Un corso approfondito e comple-to, per progettare e realizzare allestimenti, istallazioni e decorazioni inserendo fiori ed elementi naturali..Rientrata in Italia, Emy partecipa ad alcune esposizioni e il suo lavoro viene notato dalla Replay, l’azienda che ha fatto della Natura l’ele-mento caratterizzante dei suoi negozi nel mondo. Inizia così un anno intenso, Emy lavora a Parigi, Firenze e Roma.Nel Dicembre 2010 a Berlino, le viene affidata la realizzazione di un Bosco di mq 120, un’opera maestosa che ha in se una straordinaria forza comunicativa. Il lavoro viene notato dall’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e nell’ottobre 2011 Emy viene invitata ad un simposio di scultura nel Parco Nazionale della Sila, insieme ad altri 5 scultori di fama internazionale per tenere un confronto con i ragazzi dell’Ac-cademia e realizzare un’opera lasciandosi ispirare dalla natura del luogo. “Mi piace lavorare in armonia con la Natura, con le Stagioni. E’ come se la Natura conducesse le mie mani. Nel mio lavoro uso l’elemento naturale in accordo con il suo habitat, la sua crescita e l’ambiente”. Da allora Emy partecipa a varie esposizioni e realizza istallazioni per negozi e aziende.

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BEATRICE SPERANzA è nata a Lucca, si laurea alla Facoltà di Archi-tettura a Firenze.Gli studi contribuiscono a crescere la sua passione per l’immagine e la composizione, che unite alla sua sensibilità, fluiscono spontanea-mente nella fotografia.Le intuizioni di Beatrice Speranza nascono dall’osservazione del rea-le, dal desiderio di documentare mondi a noi quotidiani, che a volte guardiamo di sfuggita, e che stanno subendo dei cambiamenti a vol-te drastici (La casa dei libri, Portiere! Portiere! E Santi e Maddalene.).La sua forte curiosità la porta a cimentarsi in diverse collaborazioni e sperimentazioni artistiche nel design, grafica e video.Con il progetto Presenze, il ricamo, antica forma meditativa, trova nuova espressione e spazio nelle sue immagini. Scatti realizzati negli anni in situazioni diverse, ma tutti legati dall’irresistibile necessità di fermare quei momenti. Presenze nasce dal desiderio di intervenire manualmente sulle proprie immagini e per fare questo ci vuole con-centrazione, appunto presenza. Un tempo la camera scura era il suo nascondiglio segreto, dove interveniva personalmente sulla stampa, cambiando tempi e contrasti. Questo progetto nasce quindi prima da una ricerca personale e intima per confrontarsi in un secondo mo-mento con una ricerca estetica.

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Ilaria Margutti

Ilaria Margutti

12.07 | 31.07.2013

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Formazione accademica ed immediato esordio sulla scena artisti-ca, Ilaria Margutti dal 2007 elegge il ricamo quale medium artisti-co, nell’ottica di una ricerca personale, concettuale e di straordinaria skill creativa. L’antitesi è il filo rosso che si snoda tra tessuti e mate-riali diversi, a coniugare soggettività ed oggettività, anima e corpo, ragione e sensi, vita e morte, in un sistema di forze contrastanti, che trovano un fulcro di neutralizzazione costruttiva in una sorta di Body Art traslata sulla tela, affermata con un fare manuale, cerebrale e di portata insieme personale e universale.E’ possibile dare forma agli stati d’animo? E si può tradurli in ensem-ble di oggetti concreti? E si può oggettivizzare un vissuto personale, una storia umana e singolare, insinuandosi con l’ago tra le pieghe della tela con “spine, che paiono fungere da scaglie difensive come quelle dei pesci e dei rettili” e, sempre riportando le parole di Adria-na M. Soldini, “rametti di semi di papavero dal potere anestetico per ridurre la sensibilità oltre il livello di guardia”?

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ILARIA MARGUTTI (Modena 1971), vive e lavora a Sansepolcro, dove svolge parallelamente l’attività artistica e quella di docente di disegno e storia dell’arte. Nel 1997 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Comincia ad esporre i suoi lavori a partire dal 1996: Janinebeangallery Berlino, Wannabeegallery – San Diego/Milano, MLBhomegallery – Ferrara, Bontadosi ArtGallery – Montefalco (PG).Dal 2007 inizia ad inserire la tecnica del ricamo nei suoi dipinti, che nel tempo diventa il linguaggio in cui sente meglio rappresentata la propria poetica.Nel 2008 le sue opere sono finaliste in tre premi internazionali: Arte Laguna, Arte Mondadori e premio Embroideres’ Guild di Birmingham. Nel 2010 è in Costa d’Avorio con “De L’Esprit e de L’Eau” sostenuto dal Consolato Italiano per un progetto artistico per il ripristino della cultura africana nei paesi travolti dalla guerra civile.Segue progetti per la diffusione dell’arte contemporanea presso il Museo Civico di Sansepolcro, di cui è membro nella Commissione dell’Istituzione: dal 2011 è infatti curatrice di INCoNTRI AL MUSEo CoN L’ARTE CoNTEMPoRANEA, rassegna di incontri e mostre con ar-tisti di tutta Italia al Museo Civico di Sansepolcro. Dal 2012, insieme all’artista Enrique Moya Gonzales, cura il percorso [..]RCHEoLoGICA, mirando al recupero di spazi abbandonati per realizzare mostre e progetti che vedono come protagonisti soprattutto giovani studenti delle scuole superiori, confrontarsi con la professionalità artistica.

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Recherche

Sara Lovari

13.09 | 06.10.2013

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Una danza incessante anima gli oggetti dipinti e modellati da Sara Lovari: elementi tratti da un tempo perduto, che si nutrono di una carica emotiva, interiore ed istintiva.Il richiamo è alla recherche proustiana: il recupero del bagaglio di ricordi ed emozioni sommersi dal tempo non è attuabile attraverso un procedimento mentale o razionale, ma solo mediante “l’intermit-tenza del cuore”, mentre l’arte è lo strumento che permette di fissare le sensazioni associate ai ricordi e, quindi, l’unica via per segnare la vittoria dell’io sul tempo.Sara Lovari, con la sua opera, tutta proiettata verso un sentire per-sonale ed emozionale, arriva a riscattare la materia e ad infondere vita a ‘cose’ solo apparentemente marginali e scontate, quanto, in verità, cariche di un potenziale di memoria e sentimenti che va oltre la soggettività.Le creazioni appaiono investite da un processo di antropomorfizza-zione, finendo per assumere la valenza del sentire umano: le pennel-late intrise di energia gli conferiscono linfa vitale, mentre le tecniche di collage e assemblage gli restituiscono forma, consistenza e volu-me. L’artista dona una dignità nuova a tutto ciò che plasma: dipinge in orizzontale una tavola per porla, come uno specchio, davanti al riguardante, elevandola da terra e spostandola più in alto della linea dello sguardo – invitando implicitamente a guardare/si.Se nella vita la volontà di chiudere in una geometria ordinata e presta-bilita gli eventi e il mondo è utopia per azione delle variabili impresse dal caos, nell’opera lovariana, ogni sovrapposizione, smarginatura, macchia e colatura determina, formalmente e metaforicamente, lo spazio vitale di ri-creazioni – nature morte composte di oggetti umili, tradotti in soggetti, in cui l’uomo non è mai fisicamente visibile, ma sempre presente, con la sua storia e il suo vissuto.

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SARA LoVARI è nata nel luglio del 1979, compie Studi Tecnici e si Lau-rea in Economia. Nel 2007, seguendo l’istinto, inizia a sperimentare la “sua” tecnica in acrilico, arricchendo i suoi lavori con applicazioni polimateriche – perle, foglia oro, specchi, pietre e stoffe (tessuto ca-sentino) su supporti in juta, tela, multistrato, carta e fogli di rame.Ispirata da Klimt, Botero e Monet, con il tempo, trova il suo stile, affinando il tratto, rendendolo sempre più delica-to. Guidata da una forte curiosità, scopre la pittura giappo-nese e perfeziona l’uso del colore, riuscendo a ricreare una monocromia tematica a partire da una triade di colori base.Il Casentino, Cortona e la Toscana, con le loro tradizioni conta-dine, influenzano la sua pittura con soggetti e mestieri del pas-sato: in primis gli oggetti desueti, che rivivono nelle sue tele e nella nostra memoria, grazie anche ad apporti materici di colo-re, di riviste d’epoca e cartone, elementi di recupero e riciclo.

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Bang! Nuove Generazioni Fotografiche

Simone MartiniElisa Girelloni

Danilo GiungatoFabiana LaurenziAlessandro Rotta Luigi Torreggiani

12.10 | 03.11.2013

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La surrealtà, la rappresentazione di una dimensione che sta oltre la realtà sensibile, è il nocciolo che identifica la parte più originale del portfolio di SIMoNE MARTINI (Firenze 1990), il quale sostiene in-vece che «la Street Photography e il ritratto – cito – sono i generi che meglio mi esprimono e mi fanno sentire a mio agio». Alla 33 presenta rappresentazioni di storie che da allucinazione diventano realtà: da “Beatrice” a “Cure Rhythm” (2012) fino a “Tartana” (2013). Il fotografo costruisce scenari fantastici, con giustapposizioni prive di nessi logici e pone il riguardante di fronte a immagini nitide e defini-te, nelle quali la finzione sembra più convincente del reale. Anche il travestimento è da ricondurre al concept surrealista della liberazione dell’individuo dalle convezioni, come medium verso il superamento dei limiti conoscitivi della ragione. Tuttavia, i soggetti messi in scena da S. M. non sono maschere carnevalesche: essi traggono spunto dal costume play e rappresentano immedesimazioni in personaggi che non esistono, desunti da manga, cartoon e videogiochi. In Giappone i cosplayer s’identificano con la norma: riflettiamoci.

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«Mi sono avvicinata all’arte da piccola, amavo disegnare e creare – racconta ELISA GIRELLoNI (Brescia 1983). Nel 2007 mi sono iscritta ad un biennio di marketing e fotografia e da subito ho capito qual era la mia grande passione: l’autoritratto. Ho usato questa tecnica un po’ come auto-terapia ed ora non posso più farne a meno». L’autoscatto come medium per il raggiungimento e/o il recupero del sé: è que-sto il fil rouge e la substantia che identifica la galleria di autoritratti della fotografa bresciana, che alla 33 presenta una parte del lavoro “Il respiro dell’anima”(2009). Il processo creativo di E. G. muove dal rapporto osmotico con il contesto che, sia esso natura o spazio co-struito, viene sempre restituito come dimensione permeabile, nella quale il corpo della fotografa viene introiettato e assimilato, in primis sul piano formale. Le pose studiate e classiche – le citazioni sono esplicite – i luoghi abbandonati e silenti, risultano escamotages per mettere in atto un viatico interiore.

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La fusione con la natura unisce le due fotografe in mostra. Il paesag-gio, e soprattutto la realtà naturale, con la sua verità e la sua fisici-tà, è il tema dell’opera presentata in mostra da FABIANA LAURENzI (Arezzo 1979). «Fotografa, appassionata della vita», F. L. dice di sé: «Il mio lavoro è un’esigenza esistenziale, tanto quanto il riuscire a vedere oltre, cogliendo le sfumature e leggendo tra le righe della quotidianità, fatta di persone, animali, oggetti, ambiente e natura». Nella serie di scatti “Armonica” (2008), mette in atto un superamen-to della realtà fenomenica, seppure resa nella sua piena consistenza tattile e visiva, al fine di raggiungere la materializzazione della sog-gettività di visione. L’io di chi guarda e scatta si sovrappone al dato reale, che assume così forma essenziale, mentre risulta pervaso da un caos ordinato. Quanto c’è di mentale e quanto di emotivo nelle sezioni di ‘frammenti di terra’, nei brandelli cromatici e segnici, nella ridefinizione personale e musicale del sistema cartesiano armonica-mente precostituito?

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La poesia è insita nel reale, saperla cogliere e comunicare non è da tutti. Esistono fotografie che restituiscono la realtà, ritraggono il mondo come finestre che inquadrano una porzione di materialità. Ci sono poi foto che parlano di chi le ha scattate e che mostrano una dimensione potenzialmente oggettiva in chiave soggettiva e in questi casi noi vediamo la rappresentazione attraverso lo sguardo del fotografo, che sovrappone a ciò che ha di fronte il suo modo di leggere e fermare lo scorrere delle cose. E’ quest’ultimo il caso di DANILo GIUNGATo (Lesina 1985). Per lui la fotografia è «un mez-zo di ricerca e un filtro rispetto al reale». Nella sezione di 24 scatti dell’open project “Attraverso” (2010/13), la forma, le proporzioni e una ricercata ‘geometria estetica’ pervadono i luoghi di street pho-tography, attraversati da un’umanità catturata e ritratta tout court.

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«Durante un viaggio in olanda, passeggiando sulle grandi spiagge della bellissima isola di Texel, nelle Frisone occidentali, ho scatta-to una serie di fotografie poi rielaborate in digitale. Protagonisti di queste immagini sono la spiaggia bianca illuminata dal sole, il cielo azzurro e limpido e il mare scuro increspato dal vento». Difficile de-scrivere meglio di ALESSANDRo RoTTA (Arezzo 1982) il suo pro-getto, “Texel” (2009). Il paesaggio non rappresenta il traslato di un mondo interiore, o di chi sta dietro la macchina, ma viene sentito e immortalato con tutta la sua forza visiva, l’atmosfera, i ritmi e la sua straordinaria bellezza. Gli elementi della natura, e quindi anche l’uomo, si dispiegano ordinati, avvolti da una luminosità estrema. A. R. dopo gli studi alla Libera Accademia di Belle Arti, porta avanti la sua attività artistica parallelamente alla fotografia, dedicandosi an-che all’autoritratto e a sperimentazioni personali sul genere – come in “Autoritratto falsatamente barocco”.

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La parola va a LUIGI ToRREGGIANI (Sarmato 1983): «scriverò poco, perché vorrei che tutti leggessero, di questa città che a solo un anno di distanza dall’ultimo viaggio mi richiama. Non mi era mai capitato di tornare, a così breve distanza, in un luogo visitato viaggiando. Ma Sarajevo mi ha colpito a tal punto da lasciarmi dentro un costante, martellante pensiero». Intimità è l’espressione che più profonda-mente può descrivere la forza delle immagini della serie “Sarajevo” (2012): una realtà che viene restituita, in modo più viscerale che con la scrittura, attraverso uno sguardo attento e sensibile, che non fa sconti e non scende a compromessi e, tuttavia, nobilita. Lo si coglie nel sovvertimento di macro e micro vocaboli catturati dalla macchi-na: la grandezza dei piccoli dettagli, gli oggetti semplici e l’estrema umiltà degli uomini, i luoghi e gli spazi comuni che, anche isolati, finiscono per subissare moschee, palazzi e fortezze.

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Albero

Luciferi

12.12 | 06.01.2014

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Albero non viene proposto come esempio di originale creazione ar-tistica, ma come veicolo di un messaggio generazionale, un monito a riflettere sulla contemporaneità. Totalmente alieno da qualsivoglia interpretazione religiosa, Albero parla della condizione interiore del-le nuove generazioni e delle difficoltà materiali che l’uomo moderno incontra nel tentativo di rapportarsi al suo tempo e all’ambiente in cui opera.In altri termini non vuole essere un’opera d’arte o costituire qualcosa di nuovo nella sua forma. È una metafora, che si origina da un’esigen-za profonda e personale, ma, allo stesso tempo, capace di assumere valenza collettiva. Un “nuovo nato” che, nudo e privo di difese, ri-muove il passato e ribalta la sua posizione nel mondo, capovolgendo lo sguardo verso quel suolo che lo ha espulso, per attingere dall’alto l’energia di cui necessita per rinnovarsi. Ha rami proiettati verso il basso, ma non cerca di ancorarsi a terra e non mostra le radici, ma solo il suo scheletro. Esiste, appartiene al presente ed è una prova tangibile di speranza e rinascita.«Interpelliamo l’albero con le grida e le rivendicazioni di una gene-razione che non riesce più a comprendere quale sia il verso giusto in cui guardare il mondo, quale sia la prospettiva corretta perché que-sto acquisti un senso»: questo è il nocciolo del progetto di Luciferi, rispetto al quale l’albero rappresenta una «rilettura postmoderna di un simbolo universale e polisemantico».

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Il duo scrive in merito: «l’albero, l’elemento terrestre per eccellenza, viene innestato nella dimensione uranica: l’inversione diventa la ci-fra di rilettura della contemporaneità, soprattutto nel momento con-clusivo del ciclo del tempo che segna la fine, ma che nell’inversione è in realtà un inizio. L’inversione della prospettiva diventa la chiave di volta per comprendere il senso della realtà attuale. Il bianco è il suo colore, contiene tutto lo spettro cromatico e, come il nero, simbo-leggia un confine, quello iniziale della vita. L’essenzialità delle forme concretizza l’approccio ermeneutico della decodifica del mondo». È dunque l’albero dell’inizio, della vita.Questa entità, orfana del proprio apparato radicale, cerca nuova linfa nella dimensione celeste, nell’ignoto, in un luogo insondato, fuori dalle coordinate spazio temporali della realtà data. Si rigenera vol-gendo i rami alla terra che l’ha dapprima generata e poi ripudiata, e rispetto alla quale prova un sentimento dolente d’inappartenenza. L’opera non nasce dalla contemplazione di una dimensione fenome-nica, ma da un’emergenza interiore, dal bisogno di riflettere sul sé, scatenando quesiti. Essa muove dall’urgenza di penetrare la realtà del nostro tempo, attraverso l’interrogazione della coscienza e lo sca-vo in profondità nell’interiorità umana.

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LUCA ANDREA DE PASQUALE. Nato nel 1983, in un luogo non ben definito del nord Italia, Luca comprende sin da piccolo che dedicherà la sua vita alle arti visive. Già nella prima adolescenza scopre la sua passione per la tipografia antica e successivamente si iscrive all’Isti-tuto d’Arte, dedicando la sua formazione al Graphic Design. Poco più che 20enne lavora in una grande azienda come grafico pubblicitario ed editoriale, coltivando al contempo la passione per la fotografia, specialmente analogica. Collabora con artisti ed editori di fama in-ternazionale, curando pubblicazioni e cataloghi; cura installazioni museali e lavora come grafico e fotografo freelance. Sulla soglia dei 30 anni decide di abbandonare il nord Italia, avendo compreso che quel territorio non gli apparteneva, e decide di trasferirsi in Toscana, per mettersi in proprio nel campo della fotografia e della grafica. Lo stile grafico e fotografico rispecchiano molto le influenze scandinave e nordeuropee che Luca ha interiorizzato durante le sue numerose esperienze e collaborazioni all’estero. Ha una grande passione per la tipografia e l’editoria artigianale che ripropone come prodotti unici e inimitabili all’interno del laboratorio fotografico LuciferiVisionibus, aperto nel 2013 ad Arezzo.

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ENRICo FICo Classe 1985. Napoletano di origine, Enrico trascorre la sua adolescenza girovagando per il centro Italia, per poi approdare ad Arezzo poco dopo i 20 anni, dove risiede attualmente. Durante l’adolescenza i suoi plurimi interessi lo portano a sperimentare vari canali e discipline: mentre consegue la maturità classica si dedica prima alla scenografia e alla costumistica teatrale, poi al cinema, re-alizzando alcuni cortometraggi per concorsi di cinema delle scuole della Campania. Intraprende poi la carriera universitaria laureandosi in filosofia estetica e dell’arte a Siena, con proficue collaborazioni con L’École Normale Superieur de Paris. Durante gli anni universitari sviluppa la passione per la fotografia, ideando un suo modo di scatta-re, denominato “fotografia metafisica casuale”, ed inizia come auto-didatta ad occuparsi di arte grafica. Dopo una breve esperienza di un anno come dottorando a Milano, decide che la carriera accademica non è la sua strada, incontra Luca e si dedica interamente alla foto-grafia e alla grafica, nel laboratorio fotografico LuciferiVisionibus.

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ombre

Massimiliano Luchetti

19.01 | 16.02.2014

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Cavalieri, relitti, isole, fortificazioni, terre inesplorate, mondi che ap-partengono ad un passato remoto, indefinito. Soggetti che perdono consistenza, sfumano e appaiono come fantasmiche presenze sospe-se nel vuoto. Il mondo che Luchetti costruisce e destruttura sulla tela non può avere contorni netti e figure delineate, perché non rappre-senta una dimensione onirica in cui quello che si sogna ci appare più vero del reale e quasi tangibile. Egli da forma ad un’elaborazione mentale del sé.Crea, mediante il suo lavoro, una zona di passaggio, un limbo. Non luoghi ultraterreni, ma realtà palpabili, che possiedono un proprio peso specifico, occupando un’area di sviluppo attraverso la quale invadere lo spazio. I suoi dipinti sono anime carnali, dotate di vita propria e, allo stesso tempo, di una fisicità concreta, data, visibile. Lo provano il rumore della tela dispiegata sulla superficie del pavi-mento e l’odore forte della pittura. Ma è maggiormente il non detto, il celato e ciò che muta con il tempo e lo spazio a renderle esseri a sé stanti. Assorbono il riguardante in un vortice di sensazioni da metabolizzare lentamente. Accompagnano in un’esperienza totaliz-zante – basta osservarle per provare qualcosa di nuovo, unico, non banale, che conduce oltre la pura visione. Il pittore non restituisce ciò che vede e le sue opere non derivano da una sorta di abbandono dei sensi di fronte al reale. Al contrario, esse costituiscono tappe di un iter interiore, squisitamente mentale, cerebrale. Provocano una senso di vertigine, e appaiono come visioni che trascendono l’hic et nunc, trasportando verso l’ignoto. Non danno certezze o punti fermi a cui appellarsi. Mettono in scena ombre di figure e oggetti desunti dal vocabolario figurativo dell’artista, che nei lavori più recenti pro-cedono inesorabili verso l’astrazione, traducendosi in proiezioni di un mondo reale inteso come pura finzione.A proposito della serie di “Mappe”, la produzione più attuale del suo corpus, M. L. afferma: «Le Mappe assumono le sembianze di “porte”, bisogna varcarle per poi esplorare lo spazio celato dietro di esse e far-si condurre alla sublimazione del viaggio, alla scoperta di un nuovo mondo. Starà al singolo individuo leggere il proprio Io e domandarsi se intraprendere o no il cammino nelle profondità di queste terre ».

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MASSIMILIANo LUCHETTI è nato nel 1975 a Pietrasanta. Nel 1992 frequenta un corso artistico presso lo studio d’arte F. Palla e nel 2008 tiene la sua prima personale presso la Galleria Petrarte di Pietrasan-ta. Una tecnica lenta e riflessiva, fatta di velature successive, strati-ficazioni sovrapposte, abrasioni e sottrazioni, che rappresenta il me-dium ideale per il passaggio in una dimensione, quella della pittura, in grado di riflette sulle proprie capacità di mettere in scena verità più forti di quelle comuni.

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Cortocircuiti Cognitivi

Pierluigi Fresia

02.03 | 22.03.2014

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Pierluigi Fresia non è semplicemente un fotografo, forse è un poeta, certamente è un artista. Non parla un linguaggio mutuato dai mani-festi pubblicitari e i suoi lavori non sono fotografie su cui ha impresso frasi o parole. Non sono mera somma d’immagine e scrittura. Le sue opere sono concetti intrisi di esistenzialismo. In esse lo spaziotempo non è dimensione fisica e il rapporto tra immagine e scrittura è sov-vertito: cos’è immagine nella sua opera? La fotografia o la parola? La seconda. Essa é anche elemento compositivo, al pari della presenza umana – raramente rappresentata, ma sempre avvertita. La fotogra-fia fa da quinta prospettica, da scena, perché la realtà vera non può essere catturata, restituita o rappresentata. La risultante non è all’in-terno dell’opera, ma nella mente del riguardante. C’è la volontà di coinvolgere attivamente l’interlocutore, che osserva, legge, cerca il nesso tra immagine e testo, non lo trova e fruga nel bagaglio di pro-prie conoscenze, cercando risposte e certezze. L’artista non possiede alcuna verità, ma invita alla costruzione di storie personali, soggetti-ve: ogni opera è un racconto in potenza, l’incipit è dato e le variazioni sono infinite.Fresia destabilizza, disorienta, costringe a riflettere su se stessi attra-verso apparenti rebus, lasciando la libertà di creare e ricreare qual-cosa che esiste solo in chi si sofferma di fronte a ciò che è dato. Sul piano formale, la ricerca estetica è fondamentale ed estesa ad ogni dettaglio, non solo all’immagine fotografica, ma, in primis, all’aspet-to e alla posizione delle parole. A livello compositivo, le fotografie propongono tagli e inquadrature centrali, apparentemente semplici e d’immediata lettura. L’iter innescato è tutt’altro che lineare: il signi-ficato rimbalza dalla rappresentazione al testo e da questo di nuovo all’immagine per arrivare al vero soggetto dell’opera, che coincide con l’ingegno di chi guarda, il quale può far sua l’opera solo nel mo-mento in cui raggiunge la consapevolezza che l’unica verità assoluta è la relatività.

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PIERLUIGI FRESIA è nato ad Asti nel 1962, vive e lavora a Pino To-rinese – Torino. Attivo in Italia e all’estero dal 1993. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni d’arte private, di fondazioni e musei – tra cui la GAM di Torino. Sono state presentate in numerose fiere d’arte, tra le quali: Arco di Madrid, Artissima a Torino, Artefiera a Bologna, Arteverona a Verona, MIA e Miart a Milano. Nel corso della sua carriera ha esposto in molteplici spazi pubblici e privati. Tra le personali si citano: Galleria Martano, Torino nel 2013, 2010, 2004, 1998; Galleria G7, Bologna, 2008, 2003 e 2000; Museo d’Arte Moder-na e Contemporanea, Mombercelli, 2011; Galleria Milano, Milano, 2009; Galleria Leonardi V-idea, Genova, 2000. Si ricorda inoltre la sua presenza alla XXIV Biennale di Scultura di Gubbio, alla rassegna Fotografia Europea 2010 di Reggio Emilia.

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Portraits

Guglielmo Alfarone

05.04 | 26.04.2014

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Photo Credit Enrico Fico

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“Portraits” è un unicum. Una serie inedita, ideata e creata per la 33. Una schiera di volti, ritratti viventi, realizzati a grafite e carboncino su carta, tela e tavola. Una messa in mostra del disegno, puro, pulito ed essenziale. Pezzi unici, che hanno un valore ulteriore rispetto alla firma, quello dell’irripetibilità di un lavoro che, sebbene finito, con-cluso e a tutti gli effetti opera piena dell’artista, ha la valenza di te-stimonianza di un iter progettuale, di un modus operandi artistico e personale. ogni ritratto parla di un soggetto, che è al contempo par-ticolare, con i suoi tratti fisici e di psicologia della persona raffigurata, e universale, in quanto rappresentativo di uno stato emotivo e cogni-tivo dell’essere umano. Alfarone “disegna” sentimenti, atteggiamen-ti ed emozioni attraverso personificazioni tratte dal quotidiano. Non ci sono santi, regine, cavalieri: gli effigiati sono persone comuni, fuori dalla bellezza stereotipata, che non lanciano sguardi accattivanti, ma che emergono e s’impongono con le loro specificità e imperfezioni, in forza del loro essere persone comuni. Ciascuno di loro è “uno di noi”. Gli stessi rappresentano specchi in cui riflettere il sé e tradu-zioni in bianco e nero di una realtà data, esaminata e riproposta in chiave personale. Sono monumenti alla semplicità e alla verità, ma anche un monito a guardarsi dai falsi miti, dalle icone vuote, da tutto ciò che standardizza e costringe a relegare chi si è in luogo di ciò che si rappresenta.

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GUGLIELMo ALFARoNE è nato ad Acquaviva delle Fonti, Bari, nel 1984. Dopo la Laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, sceglie di sviluppare il suo lavoro a Londra, dove vive e lavora da 5 anni. E’ attivo in mostre e performance dall’età di diciassette anni. Ha esposto alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, al Museo d’Arte Moderna Ca’ Pesaro e ha partecipato alla Biennale d’Arte di Venezia. Nel 2008 si è esibito con uno dei suoi “live paintings” nei giardini del Museo Guggenheim di Venezia. Ha vinto premi impor-tanti e, nonostante la giovane età, ha avuto spazio in numerose pub-blicazioni e le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche, quali la Fondazione Cominelli e il Museo di Arti Grafiche di Istanbul, oltre che d’importanti collezioni private.

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May

Guen FioreMelania De Leyva

Costanza GianquintoAnna Morosini

09.05 | 31.05.2014

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“La percezione sensoriale rappresenta la magia del nostro essere e il corpo è lo strumento che ci racconta, nel pieno dei suoi dettagli e delle sue forme. Siamo nuda poesia e non lo sappiamo”: GUEN FIo-RE (Pescara 1988) spiega con queste parole il suo ultimo lavoro per-sonale Se un giorno d’inverno un’ Euridice (2014). In mostra presenta una selezione di scatti eterogenea sul piano cronologico e stilistico, ma unita nel modo di guardare e restituire quello che si può definire la libertà dell’essere, ciò che siamo. In Souls ogni ritratto femminile è un fermo-immagine, un fotogramma, che sottende una storia scor-rere oltre i confini del taglio fotografico. Sono incipit di racconti nei quali i reali protagonisti non sono tanto i soggetti fotografati, quanto i sentimenti e le emozioni che passano dai gesti, dagli sguardi e dagli ambienti. Le figure umane non sono mai nitide e presentano contor-ni sfuocati. La ragazza con la parrucca rosa di Adorava New york City è in primo piano e guarda lo spettatore: pare la protagonista di un american action movie, immersa in una “realtà alterata…che la fa-ceva sentire viva”, l’assorbe e la riflette “mostruosamente luminosa, frenetica e lampeggiante”. Ciascuno scatto presentato è come una finestra aperta su una traccia di vita non ancora pienamente vissuta. Guen Fiore, alias Guendalina Fiore, oggi vive e studia a Roma. Ha iniziato da giovanissima a fotografare e ha all’attivo pubblicazioni in magazines, tra cui Vogue.it.

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“La liberté éclairant le monde”: una figura esile, con un inconsistente abito rosa e un berretto da baseball, regge a stento, con una mano, una fiaccola quasi spenta e, con l’altra, un libro con la scritta WAR. Ubicato in cima ad un piedistallo vacuo, rappresenta ciò che resta oggi del sogno americano. Un quadro vivente, ironico e pop, parte della serie Stars & Stripes (2013), progetto di MELANIA DE LEyVA (Venezia 1988). C’è il desiderio di rappresentare una realtà che ha solo l’apparenza di un cartoon. De Leyva (pseudonimo ispirato alla Monaca di Monza, alias Marianna de Leyva) crea set fotografici e li costruisce partendo sì da una forte immaginazione, ma anche da una riflessione critica sul reale. Mette in scena una dimensione che espri-me, in forma di opera illustrata, dei concetti. L’ascendenza warholia-na è determinante: c’è un disincanto feroce nell’analisi dell’America posteriore all’11 settembre. Con cinismo mette alla berlina un mo-dello che ha perso consistenza, svelando le sue contraddizioni e, al contempo, pone in essere la sua personale visione del mondo. Se gli Stati Uniti oggi non rappresentano più “l’isola che non c’è”, Melania la ricrea e permette a noi di affacciarsi ad essa attraverso la fotogra-fia. Il background di questa artista non si ferma però alla fotografia: infatti, oltre alle personali fotografiche (tra cui si citano quella di av-vio nel 2010 a Venezia intitolata I dont’t believe in happy ending e Stars & Stripes, presentata nel 2013 presso Spazio Bevacqua Panigai a Treviso), realizza anche illustrazioni e installazioni.

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Serie di stampe digitali da pellicola a colori 35 mm analogica: Hiver, percorso personale di CoSTANzA GIANQUINTo (Venezia 1988). open project, avviato nel 2013 e tutt’ora in corso. “Hiver è nato nel mese di novembre in un giornata di bora a Venezia. L’inizio dell’in-verno, se non ricordo male, è cominciato proprio quel giorno. Ricor-do di essermi svegliata, di aver guardato fuori dalla finestra e di aver visto il cielo grigio, cupo. Io quel giorno sentivo un’energia strana. Dovevo andare verso la spiaggia e affrontarla… ”: la fotografa spiega così l’origine della serie Hiver, scatti in cui gli elementi naturali pa-iono investiti da un processo di antropomorfizzazione, arrivando a trasmettere il sentire umano. Una realtà rarefatta, restituita per sot-trazione, ma che resta sempre riconoscibile e permette d’immergersi in una dimensione onirica, situata oltre il modo fisico. Una musica che suggestiona, incanta e trascende la concreta presenza fisica della figurazione. Gianquinto ha studiato presso l’Istituto Italiano della Fo-tografia di Milano e ha debuttato nel 2009 presso la Fondazione Be-vilacqua la Masa, nella collettiva Nudisegni. Ha partecipato nel 2012 al Festival Au Gré des Arts, esponendo nella mostra Renaissance’s allestita nel chiostro di La Rochefoucauld e nel 2013 è stata selezio-nata da FotoFilmic’13 e coinvolta in una collettiva di giovani fotografi da tutto il mondo a Vancouver in Canada. Nello stesso anno tiene la sua prima personale Viriditas a Londra, dove oggi vive e lavora. E’ infine reduce da una mostra a cura di Kris Hatch alla Nave Gallery a Sommerville (USA, marzo 2014).

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Il frame quadrato diviene da semplice formato a determinante con-cettuale in A-part, selezione di stampe digitali da polaroid analogica, un excursus della produzione di ANNA MoRoSINI (Foligno 1987). Indipendent photographer, Morosini ha frequentato il Master di alta formazione sull’immagine contemporanea presso la Fondazione Fo-tografia di Modena. E’ co-fondatrice di Fourlines, viaggio di speri-mentazione emozionale in Scandinavia e progetto fotografico intera-mente dedicato alla polaroid. Parte degli scatti presentati in mostra sono stati realizzati nel corso di questa fondamentale esperienza e sono stati pubblicati ed esposti in diversi centri europei (Fourlines è stato presentato nel 2010 a Bologna, e in seguito a Lisbona, Milano e Digione). Tra le immagini scelte c’è anche la foto icona della prima mostra personale Be a girl (Perugia, 2010), ma anche lo scatto per il quale ha ottenuto maggiore visibilità e che rappresenta la parte inferiore di due volti che si avvicinano per baciarsi: è un ritratto in cui il confine tra immaginario e reale è avvertito come sfumato. Le coordinate spazio-temporali non sono mai date, ogni soggetto risulta come sospeso in un non luogo fuori dal tempo. Straniamento, ele-vazione del quotidiano e sperimentazione. Un formalismo ricercato, misurato, ponderato, ma sempre accompagnato da una cura parte-cipata ed emozionale rispetto all’oggetto rappresentato: “Qualsiasi cosa (o persona) io fotografi – cit. l’autrice – non posso fare a meno di trattarla come qualcosa a cui appartengo e che mi appartiene, che va protetta nel suo svelamento, nobilitata nelle sua semplicità”.

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Progetti

Erica AndreiniDanilo GiuncatoLuigi Torreggiani

06.06 | 09.06.2014

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Danilo Giungato

Luigi Torreggiani

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In uno spazio difficile, fuori dal flusso dei curiosi, gli scatti di Erica Andreini, Danilo Giungato e Luigi Torreggiani catturavano e trasci-navano fuori dalla stessa contingenza per cui erano stati concepiti, riuscendo a trascendere i limiti oggettivi del luogo fisico e allo stesso tempo parlando di realtà. La realtà dei luoghi catturati, degli oggetti e delle persone; la verità dei dettagli, colti con sensibilità e parteci-pazione rispetto al soggetto indagato; la sincerità di tre visioni, com-pletamente diverse, e per questo estremamente significative, unite a parlare di ciò che per loro è degno di nota e di salvaguardia. Deve fare riflettere la scelta dei soggetti: l’uomo, il paesaggio e l’abbando-no. Luigi Torreggiani mostra beni storici e architettonici accanto ai suoi “Custodi”, ma poi mette al centro quest’ultimi. Mette al centro l’uomo. Sono trittici? No, sono ritratti, dove i laterali esistono per ricondurre all’asse centrale della visione. L’uomo è il fulcro. Il foto-grafo muove dalla ferma convinzione che «L’Italia è un Paese distrat-to. Possiede la più incredibile quantità di beni culturali al mondo, ma se non fosse per poche appassionate persone che a quei beni si affezionano, donando tempo, amore, dedizione e talvolta anche denaro per la loro cura e conservazione, ci rassegneremmo a perder-li, lasciandoli all’incuria». Dall’uomo al paesaggio. «Camminare lun-go i corsi d’acqua mi ha dato una nuova visione del paesaggio, una nuova dimensione con la quale misurare e capire il territorio»: Erica Andreini parte idealmente dal mulino, ma segue il fiume. In “Viag-giando lungo il fiume” il paesaggio assume la forma di una lastra di metallo prezioso lavorata a niello. Gli alberi, il fiume, il paesaggio in lontananza è sospeso, cristallizzato, come immerso in un’aura magi-ca, pierfrancescana. Il paesaggio è prezioso. Le realtà abbandonate parlano, sempre, a tutti. Danilo Giungato non gli permette di farlo. Introietta ciò che osserva e lo restituisce in forma sincopata, crean-do una serie lontanissima da un linguaggio di prosa e tutta votata al coinvolgimento emotivo. Sussurra un messaggio di allarme, ma allo stesso tempo di rassegnazione. Come dire: questa è la realtà e l’ine-vitabilità delle circostanze dell’uomo, del tempo, della vita. Nell’idea del fotografo: «“San Lorenzo”, quattro scatti e la luce di un pome-riggio di fine inverno. Niente pretese, solo voglia di portare ad altri quello che ho visto».

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Erica Andreini

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ERICA ANDREINI (Sansepolcro 1980) lavora come fotografa free lan-ce per festival musicali e come documentatrice fotografica di eventi, portando avanti progetti artistici in cui traduce la sua visione del rea-le mediante fotografia e collage.

DANILo GIUNGATo (Lesina 1985) è un fotografo indipendente, che sia in ambito professionale che di ricerca personale, unisce le sue due principali passioni, la musica e la fotografia, intendendo quest’ultima quale mezzo di approfondimento e filtro del reale.

LUIGI ToRREGGIANI (Sarmato 1983) è dottore forestale, giornalista e fotografo. Già Direttore responsabile di Clic.hé – web magazine di realtà visuale e fotografia. Cura il blog “Scrivere e fotografare”, un diario fatto di immagini, parole e riflessioni.

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Nulla é come sembra

Carla MuraGiulio Giustini

19.06 | 19.07.2014

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Carla Mura

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Non è plastica o gomma. Non sono giocattoli o oggetti di design. Quello che maggiormente le caratterizza è l’ossessione per l’inevi-tabilità di bloccare lo scorrere del tempo. Il tempo logora le forme, deteriora i materiali, falsa i colori. Il tempo è un nemico da dominare e ingannare. Giulio Giustini opera con materiali diversi, poveri, natu-rali e sintetici, giocando con i supporti sui quali dispiega un vocabo-lario di elementi simbolici ad impaginare un discorso concettuale e personale. ogni pezzo usato perde ogni connotazione e funzione per assumere la valenza d’ingranaggio all’interno di una sorta di orologio che governa un mondo inorganico sepolto sotto un’uniforme coltre cromatica da tubetto di dinamite. Esorcismi oscillanti tra dualità di registri: pittura e scultura, ritmo e stasi, unicità e serialità. Creazioni pseudo adamantine per le quali la luce, al pari del colore, diviene metro di sintesi formale. L’impatto visivo è forte e genera interro-gativi sull’identità stessa delle opere, che costituiscono entità a se stanti, realtà chiuse e limitate entro i confini dati dai supporti, ma sempre permeabili e superabili in profondità ed estroflessioni. To-tem e monadi fatti di cellule di scarto giustapposte secondo disegni mentali concretizzati con una processualità ipercontrollata. La lan-cetta di Time segna il tempo della visione, mentre la rosa e la pistola suggeriscono antitesi semantiche.

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Giulio Giustini

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CARLA MURA nasce a Cagliari nel 1973. Dopo un lungo periodo di sola pittura inizia a realizzare le sue opere utilizzando il filo di coto-ne, che diviene il suo primo medium espressivo, applicato seguendo una tecnica lenta e misurata. Il polimaterismo delle origini, mantie-ne un eco nell’eterogeneità dei supporti, che spaziano dal legno alle pietre marmo e travertino, al plexiglass, alla tela. Tramite il filo, crea sequenze ritmiche o libere combinazioni in configurazioni cartesia-ne, intricati reticoli o grovigli, quasi voglia contrastare l’ineluttabilità dell’atto estremo di Atropo e quindi la fine della vita. Attualmente vive e lavora a Roma.

GIULIo GIUSTINI è un giovane artista poliedrico, nato a Sansepol-cro nel 1981 e cresciuto a Citerna. L’incontro con l’arte è precoce e a seguito di una più specifica formazione artistica, si muove su due binari: la musica e la manipolazione creativa di oggetti d’uso o di scarto. Traspone su supporti eterogenei materiali tratti dal quotidia-no che risultano così trasfigurati in composizioni nelle quali il tempo e la materia rappresentano i due vettori fondamentali che muovono da un fulcro concettuale nient’affatto scontato. Dal 2001 anno del suo esordio espositivio, partecipa a numerose mostre, personali e collettive, dispiegando una carriera artistica di rilievo.

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Bluebells

Marius Mason

25.07 | 28.08.2014

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Non aspettatevi alcuna fiaba, Marius Mason non racconta storie e non mette in scena alcun racconto fantastico o immaginato. Mari-us Mason è attratto dal creato, da tutto quello che la natura, aliena da qualsivoglia presenza umana, offre a chi possiede la sensibilità di cogliere l’essenza delle cose e di saggiare lo spessore palpabile e la profondità densa insite in un mero frammento di cielo o lembo di terra. La forma che le nubi assumono agli occhi dei bambini appa-iono come disegni di una realtà figurata, che non esiste se non negli occhi di chi vuole cogliere quella visione. E allora ecco che in cieli tersi, attraversati da nuvole stratiformi, pare di scorgere il profilo di una sposa Bride o di un feto Nathalie. Così, seguendo il pensiero del fotografo, si può affermare, citandolo, che “la purezza della rappre-sentazione fotografica e il carattere minimalista sono le fondamenta per la realizzazione dell’interpretazione visuale e dell’espressione ar-tistica”. Diciannove opere esposte, rappresentative di serie diverse, ma unite sotto il segno di una ricerca rivolta alla realtà fenomenica, al mondo naturale, colto nella sua verità, eppure reinterpretato in chiave ora essenziale e rarefatta, ora decorativa e personale. Esclusi-vamente fotografia analogica da diapositiva, per una selezione di la-vori cronologicamente compresi tra i primi anni Novanta – Bluebells e Carbon Industry – e il 2004 – Tuscany Hills, che rappresenta è uno dei primi omaggi alla Toscana, sua nuova terra. Un arco di tempo che comprende sperimentazioni eterogenee: in primis il corpo di “Still life” con conchiglie e altri oggetti, che si compongono a determinare geometrici ensemble inanimati, astratti e musicali. Icona della mo-stra è Bluebells, rappresentazione di un luogo che oggi non c’è più, ma che un tempo costituiva un’isola di verde a ridosso della metro-poli inglese. La distesa di campanelle in primo piano, la fascia media-na in cui esse assumono densità e sembrano quasi cullare in un moto oscillante gli alberi, che si levano con i loro fusti leggeri seguendo un ritmo libero, su di uno sfondo che già assume i primi segni dell’avan-zare inesorabile della grande città.

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Rappresentativa della serie Sunset, la n°01, rende conto di una rac-colta in cui le variazioni atmosferiche definiscono forma e confini del soggetto inquadrato, il quale, in quell’istante, assume un tono destinato a scomparire rapidamente, lasciando il posto ad un’altra nuance, che virerà costantemente in nuove sfumature. In essa, la di-visione in fasce è tutta affidata al colore, che si sovrappone in bande orizzontali dai limiti permeabili, a costituire un’astrazione dal dato terreno. Proseguendo l’iter espositivo, incontriamo le ninfee Water lily, il lago ghiacciato Frozen lake, e particolari come la texture di una corteccia Tree detail e un frammento di cielo Sky mirror, tutto a de-terminare una galleria, e insieme un vocabolario, che ben attestano come “l’ispirazione sia mossa dalla natura, fonte inesauribile – citan-do le parole di Mason – di stimoli e suggestioni”.

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MARIUS MASoN è nato a zug, in Svizzera, nel 1966. Ha studiato fotografia a Londra presso il City of Westminster College, ottenen-do nel 1992 il BTEC National Diploma Design Photography. Nel 1993 frequenta il corso all’Università di Westminster Bachelor of Arts, laureandosi in Photography and Multi Media nel 1997. Espone dal 1985 in spazi pubblici e privati e dai primi anni ottanta è attivo in collaborazioni e pubblicazioni con periodici e riviste del settore.

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Dialoghi

Luigina Turri

05.09 | 20.09.2014

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L’opera scelta quale immagine della mostra, oltre che ideale manife-sto della messa in comunicazione dei due soggetti ospitanti l’even-to, è pienamente parlante in seno al corpus e all’iter artistico della sua artefice, l’artista veronese Luigina Turri. Il punto di partenza è la materia: la sua sostanza, il suo aspetto, la consistenza, la forma e il colore. Turri prende ispirazione da ciò che la circonda e dai materiali. L’importanza della “matericità” è un aspetto che resta fondamen-tale alla definizione l’opera, intrinseco anche al piano concettuale. C’è poi un’altra questione che identifica il lavoro di questa artista: il linguaggio non figurativo. Turri mette insieme, utilizzando un lessico polimaterico, quello che è il suo vissuto, traendo i mezzi dal quotidia-no, dalla natura. Attraverso forme astratte scrive note biografiche, appunti di vita. Tutte la sua produzione è pervasa da una contagiosa joie de vivre: giochi materici e cromatici, tecniche e arti eterogenee, convivono simbioticamente, dialogano senza contrasto.Dialoghi è un’opera concepita per uno spazio sacro: l’altare di una chiesa. Il disegno originario prevedeva l’uso di materiali diversi, qua-li il ferro e il polistirolo, muovendo sempre dalla stessa scintilla: un modulo geometrico, compatto, lineare, potenzialmente reiterabile in infinite combinazioni, come una catena genetica. ogni elemento è una cellula autonoma, che acquista nuovo corpo se messo in collega-mento con un altro e questi con il contesto. L’oggetto di riferimento ufficiale è il rosario, ma quello che più emerge è la circolarità, non solo formale, ma del concept. Il filo di materiali diversi che caratte-rizza ogni singolo e la corda che coniuga in ensemble sempre nuovi ciascun elemento, come in una musica, rendono questa scultura dal-la superficie grafica e pittorica e dal volume plastico e architettonico, un esempio di arte e design.

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LUIGINA TURRI Nata a Verona nel 1954, vive e lavora a Verona.Dopo la maturità artistica, frequenta il corso Biennale di Incisione e Grafica presso la Scuola Internazionale di Grafica a Venezia. Conse-gue il Diploma di Disegnatrice Anatomica e Chirurgica all’Università di Bologna e infine l’abilitazione all’insegnamento.In seguito ad esperienze professionali nell’ambito del disegno scien-tifico, grafico e pubblicitario, inizia il suo percorso artistico, fondato sulla ricerca di un connubio tra materia e colore.

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Andy Warhol&

Photography

22.09.2014

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Photo Credit Luigi Torreggiani

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Azzardata la scelta di associare opere fotografiche di nuovi talenti con il lavoro di un artista che era solito appropriarsi d’immagini fo-tografiche di altri, senza citarne la paternità. Gli autori degli scatti ai miti massmediatici cari alla galleria warholiana appartengono infatti all’anonimato, nonché travolti dal processo di produzione dell’opera d’arte.Le patatine fritte di Mcdonald’s e un orinatoio. Il primo è un sog-getto dell’opera di Luca De Pasquale che rientra senza colpo ferire nella tendenza a fagocitare e strumentalizzare prodotti di massa che, al pari delle icone del cinema o della politica, sono universalmente riconoscibili e sintomo di forme di psicosi collettiva. La reiterazione ossessiva, mutuata dalla produzione industriale, in questo caso però è ribaltata e sostituita da una polaroid, cioè da un pezzo unico. Resta ferma la scelta di un soggetto che, come la Campbell’s Soup, il Brillo e la Coca-cola, non necessita della messa in moto di un processo cre-ativo di realizzazione di un’immagine utile alla sua diffusione, sem-plicemente perché esso stesso è l’immagine.Ready-made, “già fatto”: senza Marcel Duchamp è difficile immagi-nare l’esistenza di Andy Warhol. Il trasferimento – nell’ordine sele-zione, decontestualizzazione e rifunzionalizzazione in chiave artistica – di un banale oggetto nella sfera dell’arte ha come punto d’avvio la Fontana del 1917, ossia l’orinatoio acquistato in un negozio di sani-tari, capovolto e firmato con lo pseudonimo R. Mutt da Duchamp. Enrico Fico, citando Dada conclude idealmente l’iter: mette in ordi-ne, ricontestualizza e restituisce la funzione originaria ad un oggetto non più scontato e banale, perché gravido, nel suo intendimento, di significati ulteriori. Come dire, quando il “già fatto” diventa storia….

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Muse

Erica AndreiniLuigi Torreggiani

15.10 | 20.10.2014

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Quando Laura Carlini, Presidente della Delegazione di Arezzo della Fondazione Umberto Veronesi, mi ha coinvolta nel network d’inizia-tive finalizzate alla raccolta fondi per la ricerca sul cancro, mi sono sentita onorata e da subito ho coinvolto due fotografi, Erica Andrei-ni e Luigi Torreggiani, per realizzare un progetto ad hoc per Pink is Good. Consapevole dell’importanza del compito, ho discusso a lungo con i due artisti sulla fattibilità di un lavoro che doveva essere spe-ciale, bello e significativo. Il risultato, a partire dal concept fino alla messa in opera di ogni singola componente delle fotografie esposte, si deve all’impegno straordinario svolto con costanza e professiona-lità dai due fotografi.Si tratta di un lavoro molto complesso, non meramente fotografico, quanto più specificatamente concettuale. L’idea di fondo riguarda essenzialmente la nozione di “rete”. Quest’ultima muove dalla gal-leria di ritratti che, posta in essere e concretizzata a quattro mani, media sensibilità e visioni diverse, proprie dei due autori. Rete so-prattutto intesa come insieme di legami che ciascuna donna, per sua stessa indole, è capace d’instaurare con una profondità quasi ance-strale, con altre donne e, in questo caso specifico, con un modello femminile di riferimento al quale è stato richiesto di pensare, come musa ideale. L’importanza della rete riguarda però anche gli aspet-ti di comunicazione e condivisione di esperienze e vissuto. Questo punto è fondamentale in quanto base della prevenzione e collegato dunque all’obiettivo della Fondazione Umberto Veronesi. Sono state coinvolte donne molto diverse per età, impegno, posizione sociale, vissuto. Per ciascuna di loro è stato messo in atto un iter studiato, fatto di un primo step di carattere verbale, ossia un dialogo tra fo-tografo e “modello” e, a seguire questo, lo scatto fotografico. In un secondo momento sono state realizzate opere di collage, i cui fram-menti erano scelti e giustapposti in risposta al discorso che la stessa ha intessuto partendo dal suo racconto intorno alla figura femmi-nile di exemplum. La tripartizione di ciascuna effige, occupata per un terzo dalla fotografia del papier collé, vuole rendere conto del passaggio emozionale, prima che razionale, esistente tra la persona e il personaggio. Il formato quadrato, regolare e paritario, mette al centro il punto di congiunzione tra figura fisica e concettualità tra-sposta in collage.

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Chiudo, lasciando parola agli artefici, Erica Andreini e Luigi Torreg-giani, che descrivono così il loro progetto: “Se ci chiedessero di chiu-dere gli occhi e pensare alla nostra figura femminile di riferimento, che cosa risponderemmo? Sembra una domanda semplice eppure le risposte sono complesse, articolate. Attraverso la realizzazione di ritratti femminili, nasce il pretesto per porgere questa domanda e indagare, tramite il volto di dieci donne, le connessioni femminili più tacite e profonde. Esempio, affetto, coraggio: cosa lega una donna alla sua figura femminile di riferimento? Una ricerca tra le maglie di una rete fatta di ritagli, per comprendere l’essenza di legami più forti di qualsivoglia contingenza o necessità”.

Photo Credit Fabiana Laurenzi

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ERICA ANDREINI. Nata a Sansepolcro nel 1980. Fotografa profes-sionista attiva sia come documentatrice di eventi, che nell’ambito di festival musicali – tra i quali Festival delle Nazioni e Arezzo Wave Love Festival. Collabora con l’agenzia fotografica Sottopalco ed è tra le fondatrici dell’agenzia di eventi e comunicazione Vaegas. Parallela-mente porta avanti progetti artistici personali, utilizzando la tecnica del collage, che costruisce, fotografa e poi distrugge.

LUIGI ToRREGGIANI. Nato a Sarmato nel 1983. Dottore foresta-le e giornalista pubblicista, collabora principalmente con la rivista Sherwood – Foreste ed Alberi Già direttore e responsabile di Clic-hé – webmagazine di fotografia e realtà visuale, edito dall’Associazione culturale Deaphoto di Firenze. E’ appassionato di scrittura e fotogra-fia, come si evince dal suo blog “Scrivere & Fotografare”, un diario fatto di immagini, parole e riflessioni.

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Forma

Roberto Ghezzi

24.10 | 23.11.2014

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Non fatevi ingannare dal mare calmo, dal dolce ondeggiare dell’ac-qua o dal volo ascensionale di un uccello. Non fermatevi ai profili montuosi avvolti dalle nebbie o ai cieli gravidi di nubi, andate oltre. oltre l’orizzonte disegnato, superate la linea bianca e prolungate all’infinito lo spazio oltre il supporto, sia sul piano che in profondi-tà. Scavate dentro quello che appare e cercate il significato vero di quanto è dato. Trovate il punto, il concetto.Sono oltre due anni che conosco e seguo con continuità il lavoro di Roberto Ghezzi. E ogni volta che mi mostra le sue “ultime” opere riesce sempre a sorprendermi.Mi colpisce, oggi, come in passato, la capacità di evolversi con rara, rarissima quanto estrema coerenza.Un procedere ponderato e misurato, in ossequio a principi mai tradi-ti o negati, misto ad una capacità di reinventarsi costantemente man-tenendo ferma la propria cifra stilistica. Il tutto, secondo un mai ce-lato minimo comune denominatore: un’instancabile ricerca formale.Direttrici, rette, fulcri, piani: sono questi i vocaboli dell’opera di que-sto artista che, a dispetto della scelta di soggetti “sublimi”, non parte da essi per affermare ciò che sente, vede e ragiona. L’ossessiva pro-posta dei temi a lui cari, non va intesa quale sintomo di un interes-se per essi, quanto invece per le strutture mentali di cui essi posso-no assumere la forma. Ghezzi non è attratto dall’orizzonte del mare piuttosto che da cime e cieli tempestosi, quanto dalla loro essenza formale. Essi si fanno veicoli di un messaggio tutto personale, inte-riore, ma che non riguarda la sfera emotiva o introspettiva.Roberto Ghezzi non ama psicologismi e simbolismi. Egli costruisce un discorso che è puramente formale e architettonico, nella misura in cui la sostanza si compenetra con la forma. ogni sua tela si nutre di geometria, modularità e prospettiva. Equilibrio e ratio. Ghezzi fa scaturire la parvenza emozionale dalla logica. Egli parte da schemi mentali e li traspone sul supporto, strumentalizzando quello che ap-pare come soggetto del quadro, ma che in realtà è solo un pretesto. L’oggetto raffigurato è scelto per la sua forma e per le potenzialità strutturali che sottende.

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Per questi motivi, quando mi sono trovata a scegliere un titolo per questa mostra ho pensato a “Forma”. Avrei potuto chiamarla anche “Teorema”. Lo spazio, il colore e una maniacale attenzione alla strut-tura compositiva. ogni elemento, come in un’architettura, occupa il suo posto, millimetricamente cercato e fissato sulla tela. Le monta-gne sono fasci di linee convergenti verso un centro, un crogiolo di vettori che intercettano lo sguardo, guidandolo alla lettura dell’ope-ra. Implicitamente vi è l’invito ad indagare l’aspetto processuale del dipinto, seguendo la mano del pittore, il tracciato materico e croma-tico, le sovrapposte e ripetute pennellate, i ritocchi a secco, la traspa-renza dell’ultimo strato di pittura.Blu di Parigi, verde smeraldo, rosso di cadmio e blu reale: una tavo-lozza ricercata, mai banale. ogni colore non è mai unico, ma il pro-dotto di fattori cromatici eterogenei. Così come lo spazio è infinito. Il supporto esiste, ma viene continuamente negato e superato. La tela non pare avere un peso specifico o una sua concreta parvenza. Spa-risce. La superficie è ricreata dallo spessore cromatico e trattata ora con ripetuti “tagli”, ora con una stesura lineare e a zolle.Un minimalismo costruttivo, geometrico, cromatico, ma sempre (an-cora) ancorato ad un tramite figurativo con il reale. Nuovi valori pla-stici emergono nei lavori più recenti, dove il blu è dominante e i for-mati raddoppiano. Non basta più una tela. L’infinito non può essere restituito, ma sicuramente evocato.

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RoBERTo GHEzzI è nato a Cortona nel 1978, dove attualmente vive e lavora.Inizia a dipingere molto precocemente, frequentando lo studio di famiglia, dove apprende le basi del disegno e della pittura ad olio. Negli anni approfondisce la tecnica del suo linguaggio presso la Scuo-la della Maestra Alivojvodic e frequenta i corsi di nudo, incisione e storia dell’arte presso l’Accademia delle Belle Arti Di Firenze. Dagli anni Novanta espone con regolarità in personali e collettive, in Italia e all’estero. Attivo in premi e concorsi, ha ottenuto positivo e cre-scente riscontro di pubblico e critica, nonché di galleristi e collezio-nisti. Le sue prime opere hanno restituito il paesaggio attraverso il suo sguardo, con una mimesi del dato fenomenico che, negli anni, è andata dissolvendosi assumendo i toni della soggettività e della rarefazione formale.L’esigenza di confrontarsi, in maniera reiterata, con certi soggetti, di-viene parametro di una dinamica evolutiva: stessi temi, diversi livelli concettuali, sempre e costantemente in divenire. La strada percor-sa è quella del rinnovamento del concetto di pittura di paesaggio, così che la ripetizione del suo soggetto – il paesaggio appunto – non implica mai la proposta di uno stesso dipinto. E’ stato indicato dal Prof. Giovanni Faccenda tra gli artisti meritevoli di una segnalazione nell’edizione n° 50 del CAM (Catalogo dell’Arte Moderna, Editoriale Giorgio Mondadori).

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Téchne

Akiko KayanoTomoko Sakaoka

28.11 | 18.12.2014

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Tomoko Sakaoka

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Esiste l’arte senza la norma? La creazione artistica è prodotto della fantasia e dell’ispirazione o dell’applicazione di regole apprese e af-finate nel corso del tempo e, più nello specifico, di un processo che attiene alla ragione?zolle cromatiche e schegge di luce; un’infinità di punti, microtocchi di pennello. Polveri derivati da elementi naturali, acqua, colla di cervo, gesso e foglia d’argento su tela preparata a gesso. Pigmenti in pol-vere, tuorlo d’uovo, acqua, colla di coniglio e uno strumento molto fine per applicare il colore su tavola. Molteplici sovrapposte stesure di colore su tela e giustapposizioni cromatiche a tratteggio, fino al pointillisme. Astrattismo e figurazione.Da un lato la tecnica Nihon-ga, stile di pittura rispondente all’utiliz-zo di materiali e all’applicazione di norme proprie della tradizione giapponese; dall’altro la pratica della tempera all’uovo, descritta nel trattato sulla pittura di Cennino Cennini, e riproposta con metodo puntinista e divisionista.Finestre, animali, paesaggi, figure umane e oggetti ordinari, cattura-ti dal quotidiano e intrappolati in un fare tecnico di assoluta abne-gazione verso la norma. ordine, struttura, ragione. Tutto il mondo di Tomoko Sakaoka è compreso, espresso e restituito entro schemi mentali organizzati e costituiti sulla base di regole compositive e tecniche. Il taglio da istantanea, la luminosità intrinseca, la pulizia estrema della costruzione, la tendenza alla bidimensionalità, sono elementi del lavoro di Sakaoka. ogni soggetto rappresentato non è scelto per ragioni tematiche, ma formali. L’ultima serie di panchine nel parco ne rende conto: siamo di fronte alla ripetizione ossessiva di un medesimo tema, che sottende una spinta inesauribile alla spe-rimentazione formale e al perfezionamento della tecnica. Il mondo di Tomoko è una realtà sospesa in cui nulla è affidato al caso, e dove tutto appare imperturbabile ed incorruttibile. Moduli geometrici e linee architettoniche definiscono ogni aspetto, in ossequio ad una dichiarata ascendenza pierfrancescana. L’artista afferra in scatti fo-tografici i luoghi e le presenze che abitano la sua vita e li traspone in pittura inquadrandoli e depurandoli da ogni possibile contingenza, da qualsivoglia fatalità.

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Una musica lenta e discreta, una danza elegante e fluente, uno spazio emozionale e denso: siamo di fronte alle opere di Akiko Kayano. Si è rapiti da un flash e subito dopo avvolti e immersi in una dimensio-ne spirituale, in creazioni che toccano e coinvolgono tutti i sensi. Si può dare forma al mondo interiore? Ai moti dell’anima? A sentimenti ed emozioni? Kayano ci riesce attraverso un iter creativo non imme-diato, ma graduale, ponderato, meticolosamente perseguito. C’è la volontà di sondare e trasferire sulla tela ciò che attiene alla profon-dità dell’animo umano. Kayano non rappresenta nulla di materiale, non rappresenta l’uomo, ma scava nell’interiorità e traduce in segno e colore ciò che non attiene alla realtà sensibile. La preziosità della materia – i pigmenti ricavati da polveri di minerali, pietre e conchiglie e la commistione della foglia d’argento alla pittura – la ricercatezza dei colori e la morbidezza di stesura, concorrono a rendere l’aspet-to meditativo e di trascendenza del reale quali aspetti identificativi dell’opera di quest’artista. I titoli scelti sono parlanti: Animo, Riso-nanza, Blue in blue, Pioggia di raggi, Area. La tecnica, studiatissima e gravida di significato, si fonde con la sfera emotiva, psicologica e di analisi interiore. Segni distintivi: luce, sonorità, interiorità, colore e soggettività.

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Akiko Kayano

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AKIKo KAyANo è nata a Tokyo nel 1969. Si laurea in Nihonga, una tecnica tradizionale giapponese, presso l’Università Statale d’Arte di Tokyo nel 1993. Si trasferisce a Firenze nel 1995, dove frequen-ta l’Accademia di belle Arti di Firenze, affinando la tecnica e appro-fondendo lo studio di arte e pittura occidentali. Consegue due lau-ree, una prima nel 2000, l’altra nel 2008. Avvia l’attività espositiva nel 2003 presso il Museo metropolitano d’arte di Tokyo e nel 2006 è in mostra presso la Carriage House Gallery a New york. Partecipa a fiere, come Padova 2005 e Bologna off 2008. Ha esposto in Giap-pone, America, Italia, Cina, Lettonia e Corea. L’ultima mostra in or-dine di tempo è in Corea del sud, a Changwon, presso Gallery Feel-nel, 2014. Dal 2007 vive e svolge la propria attività artistica a Prato.

ToMoKo SAKAoKA nata a Tokyo nel 1971, è cresciuta Kyoto, dove nel 1994 si laurea alla Seika University di Belle Arti. Nel 1996 si trasferisce in Italia e frequenta l’Accademia di Belle Arti di Fi-renze, dove apprende la tecnica della tempera all’uovo dal Libro dell’arte di Cennino Cennini. Dal ’98 espone in mostre personali e collettive, in spazi pubblici e privati. Ha ottenuto numerosi ricono-scimenti: in primis in occasione de Premio Firenze – Fiorino d’o-ro 2013, Fiorino d’argento 2010 e 2008, medaglia di bronzo 2009, Premio Presidente della giuria 2007 – e a seguire, Premio della critica in XXVI Premio Italia 2008, Coppa Mugnai al 39° Concorso di pittura de Premio Nazionale “Città di Lastra 2005” e finalista al Florence-Shanghai Price 2012. Attualmente vive e lavora a Firenze.

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cahier#1 di tiziana tommei

grafica valentina moretti

il presente book è di proprietà esclusiva di galleria 33, che ne vieta l’utilizzo e

la riproduzione anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

anno 2014

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galleria33Via Garibaldi n.33

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