Caccia La formula del bene promo

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puntoacapo GIANNI CACCIA LA FORMULA DEL BENE

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Laureato in Lettere classiche all’Università di Genova con una tesi su Luciano di Samosata, Gianni Caccia svolge la professione di insegnante di Lettere nel Liceo Scientifico di Novi Ligure, dove risiede. È redattore della rivista internet di cultura classica Senecio, dove ha pubblicato traduzioni e saggi critici. Per la col-lana dei classici della Newton Compton di Roma ha curato l’edizione dei Dialoghi di Luciano di Samosata e del Fedro e della Repubblica di Platone.

Ha pubblicato le raccolte di racconti Aperture (Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994), La Vallemme dentro (Nuova edi-zione: puntoacapo, Pasturana 2013), La stadera (Novi Ligure 2005) e il saggio Il tifo, malattia del corpo e dell’animo nell’antica Grecia. (Novi Ligure 1997).

Per l’infanzia ha pubblicato le due raccolte di racconti Ansel-mo, il locomotore color pompelmo (puntoacapo 2010) e Le nuo-ve avventure di Anselmo, il locomotore color pompelmo (ivi 2013), di cui il presente volume rappresenta l’antefatto.

In copertina: Illustrazione di Pietro Casarini

€ 12,00

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GIANNI CACCIA

LA FORMULA DEL BENE

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Le impronte X

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puntoacapo Editrice di Cristina Daglio Via Vecchia Pozzolo 7B, 15060 Pasturana (AL)

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ISBN 978-88-6679-051-8

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Gianni Caccia

LA FORMULA DEL BENE

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Di Gianni Caccia:

Anselmo, il locomotore color pompelmo, pp. 160, € 15,00 (fiabe) ISBN 978-88-96020-65-4

Le nuove avventure di Anselmo, il locomotore color pompelmo, pp. 104, € 15,00 (fiabe) ISBN 978-88-6679-015-0 La Vallemme dentro, Prefazione di Alberto Cappi, pp. 100, € 11,00 (narrativa breve) ISBN 978-88-6679-135-5

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Prefazione Il titolo dell’ultimo lavoro di Gianni Caccia potrebbe confon-

confondersi con una delle tante “formule” con le quali il mondo moderno pensa di poter ottenere tutto ciò che desidera. Ci sono in circolazione, oggi, manuali che descrivono come ottenere, in maniera infallibile, successi nel lavoro e nella vita personale, spa-ziando dalle teorie sull’organizzazione aziendale alle più bizzarre diete per perdere peso; si trovano in commercio, ampiamente pubblicizzate sui mezzi di comunicazione di massa, pillole in gra-do di risolvere ogni tipo di problema: basta un semplice gesto, come ingoiare una pastiglia, e tutto d’un tratto scompaiono mal di testa, mal di stomaco, insonnia, sonnolenza, mal d’auto, mal di mare e – perfino – mal “d’amore” e mal di “vivere”. È proprio così: la nostra società, che ritiene se stessa moderna, scientifica e fortemente sviluppata, di fatto è ancora un mondo che, in tutti gli aspetti del vivere sociale (economia, politica) e privato, crede nel magico potere di apprendisti stregoni, con il loro bagaglio di for-mule strabilianti e di sostanze stravaganti.

Di fronte a tutto questo, Gianni Caccia indica una strada del tutto diversa. Leggendo La formula del bene troverete il confronto tra due personaggi completamente diversi: il Capitano d’Impresa, il classico “vincente”, modello di quella parte d’umanità che pen-sa di poter ottenere tutto ciò che vuole con il solo dispiegamento di illimitati mezzi materiali, siano essi denaro o tecnologia; Euge-nio, quello che al giorno d’oggi verrebbe definito un “perdente”, la cui esistenza si è arenata nelle secche di un quotidiano ben lon-tano da ciò che egli aveva desiderato, e che egli ha quasi del tutto smesso di desiderare. Entrambi cercheranno la “Formula del Be-ne”, ognuno a modo suo: entrambi troveranno il castello perduto di Abraxas, ma solo uno riuscirà ad entrarvi, e leggendo questo

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romanzo scoprirete chi e – soprattutto – perché. E quando anche voi, come me, troverete la “Formula del Bene”, scoprirete che Gianni Caccia ha compreso perfettamente l’autentica lezione della “recherche du Saint Graal” e l’ha fatta pienamente rivivere in questo romanzo, attualizzandola al XXI secolo e rendendola di-sponibile anche al mondo moderno. Buona lettura.

Andrea Scotto

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LA FORMULA DEL BENE

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I. L’INCONTRO E IL SEGNO Invitava ad uscire, l’aria tersa e frizzante che solo un mattino di

fine estate sapeva regalare a quel mezzo paese di mezza collina, il cielo azzurro pieno, la trasparenza della stagione che non è più lei e non è ancora l’autunno che deve venire, all’orizzonte il contorno solenne e rasserenante dei monti contro il sole.

Invitava ad uscire, il mattino luminoso come non sarebbe più stato, e infine decise di coglierlo, Eugenio Sgreggi, dalla cucina al pianterreno della casupola che aveva affittato per poche ferie ormai fuori stagione. Dallo stanzino basso e umido da apparire quasi una tana non vedeva che l’inizio dell’altura coperta di alberi, per la maggior parte castagni che lasciavano ancora desiderare i loro frutti, e s’indovinava la salita più aspra già oltre la collina, dove i primi sempreverdi avvolgevano pendii feriti da sentieri di terra e sassi, tramite alle rare case che un tempo picchiettavano i crinali, ora ridotte a qualche moncherino tra gli sterpi; case della stessa natura di quei muri grigi slavati dal tempo dove Eugenio Sgreggi aveva stabilito per due settimane la sua dimora, la cucina da basso e due stanze al primo piano poveramente restaurate da una famiglia che si era trasferita in città e non avrebbe creduto di affittare a un forestiero, tanto più al declinare della vacanza.

No, non era un luogo di ferie, poche case, alcune rimodernate, altre più nuove, altre avviate senza speranza alla loro fine, seminate per il pendio come se niente le legasse, ed era parso nuovo che un uomo solo, abbastanza giovane per giunta, andasse lì a seppellirsi per una quindicina di giorni; ma era proprio ciò che voleva, Eugenio Sgreggi, vivere un poco fuori dal mondo, fuori dalle solite vacanze, fuori, se mai potesse, dai pensieri e dalle

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abitudini cittadine. E quel povero villaggio sparso per il pendio faceva proprio per lui; trascorreva i giorni sospeso come la stagione che aveva scelto per la sua vacanza, rimandando le noie e le insoddisfazioni all’inesorabile tempo del ritorno, ma al presente voleva soltanto godersi il mattino che sposava la sincerità dell’oro alla purezza più limpida dell’azzurro. La colazione era finita, si alzò dal tavolino di legno traballante al centro della cucina, posò il cucchiaio e la tazza nell’acquaio dal marmo quasi annerito e si apprestò ad uscire.

Accadde proprio mentre prendeva la giacca a vento, per precauzione verso il mattino frizzante: prima le pareti tremarono, ondeggiando come scosse da un terremoto, poi il pavimento prese a sussultare, si sarebbe detto al ritmo barbarico di una danza forsennata, e infine arrivò, un rumore sordo e continuo saliva dalla terra, misto di grida che sembravano guerrieri, zoccoli di cavalli lanciati al galoppo e cozzo di antiche armi, e su tutto un brontolare cupo e potente che pareva dare a quel mugghio una sua unità, strumenti diversi chiamati ad eseguire nella più armonica confusione una musica paurosa e stridente.

Eugenio Sgreggi si precipitò fuori, più sorpreso che spaventato, e stupì di trovare nel cortiletto della casupola il mattino terso e piacevolmente pungente sotto il bel cielo azzurro inondato d’oro, sparito di colpo di rumore d’armi e di tuono come se non fosse mai stato.

– L’hai udito anche tu? Una vocina mite e decisa lo fece voltare. Sulla soglia della casa

accanto, separata da una vecchia rete metallica, stava un bambino di una decina d’anni, robusto ma abbastanza slanciato, con un visino gentile di un ovale ben fatto, due occhi vispi color della castagna matura dove luceva un che d’ironico e di buono allo stesso tempo, e i capelli, castano scuro anch’essi, indorati dal sole come tutto quel mattino dove niente si muoveva, all’infuori di qualche cima d’albero a un accenno di brezza.

– Sei il forestiero in vacanza, vero?

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– Ehm… insomma… direi di sì. Eugenio era sempre più attonito: il rumore svanito nell’azzurro,

l’espressione senza segno di paura o di meraviglia del bambino che certo sapeva.

– Però… quel botto… Il bambino accennò un sorriso. – La legione dei difensori. – La legione che? Il volto del bambino si sciolse in una risata più aperta. – La legione dei difensori. Tutto trema, quando passano di qui. Eugenio era disorientato, non aveva che rispondere. Doveva

avere una bella fantasia, quel bambino, ma il rombo non poteva essere stato solo nella sua testa. L’aveva sentito, e come!

– E quindi sarebbero stati loro… questa legione o come si chiama…

– Certo che sono stati loro – riprese il bambino con serietà. – La legione si manifesta quando accorre a difendere il castello.

– Il castello? – domandò Eugenio nella più totale confusione. Non c’era traccia di castelli, nei dintorni.

– Sì. Il castello di Abraxas. – E dov’è? Io non… – Chi lo sa. Nascosto da queste parti, comunque. Eugenio cominciò ad avere l’impressione che il bambino dalla

fantasia accesa si facesse gioco di lui e del suo sconcerto. – Hai una bella inventiva, ma non è più tempo di favole –

tagliò corto seccamente. – Non è detto che non esista perché non lo si vede – rispose il

bambino, per nulla offeso da quel tono. – Ciò che conta è l’idea del castello, e l’idea è qui intorno. La legione dei difensori lo testimonia.

– E quindi ci siete abituati, qui, a quel rumore… Non era solo la tranquillità di quel bambino beffardo, o forse

solo più vivo d’ingegno, Eugenio non sapeva spiegarsi come tutto lì intorno fosse continuato imperturbabile e solo loro due

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avessero condiviso il rombo, legione o altro che fosse. – Non tutti possono sentirlo. – La voce del bambino aveva

ripreso una piega più divertita, ma assolutamente priva di scherno. – Se tu l’hai sentito come me, significherà qualcosa.

– Vorresti dire che… – Proprio così. – Quel bambino lo stupiva ogni momento di

più, sembrava leggergli dentro le domande. – Il castello di Abraxas è qui intorno, anche se nessuno l’ha mai trovato. Ci vuole qualcosa in più per capire dov’è, qualcosa come uno spirito, lo stesso che ti permette di sentire la legione. È lo spirito custodito con gelosia dal castello, lo spirito che vorrei fare mio e che, vedo, dovresti avere un po’ anche tu. Altrimenti non avresti sentito.

– Un castello invisibile, ma che forse alcuni possono vedere… e poi un rumore che pochi possono udire... mah, mi pare tutto…

Il volto del bambino si allargò a un altro sorriso. – Strano, incredibile? Sta tutta qui la questione. Nel crederci o

no. Lo sguardo di Eugenio doveva aver preso un’espressione

sbalordita, quasi ebete, perché il bambino scoppiò in una risata più aperta, ma quasi subito si rifece serio come per non urtarlo.

– Troppe cose in una volta, hai ragione. Con calma ti spiegherò. Ora devo andare, la mamma mi cerca. A proposito, come ti chiami?

– Eugenio. – E io Fabio. Fabietto per gli altri. A presto, ciao! E la testina indorata dal sole che invadeva pacificamente il

mattino di fine estate scomparve dentro una porticina.

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Caro lettore, puoi leggere il seguito del romanzo acquistando il volume:

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Ha pubblicato le raccolte di racconti Aperture (Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994), La Vallemme dentro (Nuova edi-zione: puntoacapo, Pasturana 2013), La stadera (Novi Ligure 2005) e il saggio Il tifo, malattia del corpo e dell’animo nell’antica Grecia (Novi Ligure 1997).

Per l’infanzia ha pubblicato le due raccolte di racconti Ansel-mo, il locomotore color pompelmo (puntoacapo 2010) e Le nuo-ve avventure di Anselmo, il locomotore color pompelmo (ivi 2013), di cui il presente volume rappresenta l’antefatto.

In copertina: Illustrazione di Pietro Casarini

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