Cabaret Voltaire Febbraio 2011

28
1 Vizio di forma > Il mistero di Thomas Pynchon <afp://127.0.0.1>Ultimo Tango</>L’avvventura del vetro</>Incipit&Explicit</>Eyeswideshut</>Heartbit</>SpeakersCorner<login failed> Febbraio 2011

description

Da febbraio tornano con cadenza mensile le pagine diCabaret Voltaire, l’inserto culturale del Corriere Vicentino.

Transcript of Cabaret Voltaire Febbraio 2011

Page 1: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

1

Vizio di forma> Il mistero di Thomas Pynchon

<afp://127.0.0.1>Ultimo Tango</>L’avvventura del vetro</>Incipit&Explicit</>Eyeswideshut</>Heartbit</>SpeakersCorner<login failed>

Febbraio 2011

Page 2: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

2

<afp://127.0.0.1>tag src= Vizio di Forma; {sudo:setpage} (4)

</>tag src= Ultimo Tango; {sudo:setpage} (8)

</>tag src= L’avventura del Vetro; {sudo:setpage} (12)

</>tag src= Incipit&Explicit; {sudo:setpage} (16)

</>tag src= Eyeswideshut; {sudo:setpage} (18)

</>tag src= Heartbit; {sudo:setpage} (20)

</>tag src= Speaker’s Corner; {sudo:setpage} (22)

set index “Speaker’s Corner”; un (setpage)> Un ragionamento darwinista; > La vita è un dollaro d’onore;

> Mio nonno è un punk; </>

<login failed>

Page 3: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

3

Da febbraio tornano con cadenza mensile le pagine di Cabaret Voltaire, l’inserto culturale del Corriere Vicentino.

Quando abbiamo deciso di varare la rubrica sul web, abbiamo pen-sato alle nuove opportunità che questo strumento ci offriva rispet-to alla carta stampata. Innanzi tutto il poter disporre di uno spazio potenzialmente illimi-tato, che ci consente di aprirci a sempre nuovi spunti e idee, ci ha indotto a strutturare il progetto secondo una prospettiva di più ampio respiro.I contenuti sono stati ampliati con interventi che vanno dalla let-teratura al cinema, dall’arte alla musica, senza dimenticare uno spazio per l’analisi e la riflessione. Materiale eterogeneo che può appartenere a una dimensione locale così come internazionale e che ha come minimo comun denominatore la volontà di creare un luogo di confronto e di ricerca.

Auspichiamo, infatti, che la pluralità degli argomenti e delle voci contribuisca a dar vita a un percorso di discussione e a fare delle pagine di Cabaret Voltaire un riferimento per quanti nella nostra provincia sono interessati alle diverse manifestazioni della cultura. Questo primo numero è un esperimento. Lavoreremo perché il pro-getto si affermi e sviluppi grazie anche ai preziosi suggerimenti che vorrete darci.

Page 4: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

4

Paolo Armelli

Soundtrack: Pet Sounds -Beach Boys-

ultimo libro di Thomas Pyn-chon, autore che in America per il suo alone di mistero è un culto quasi alla pari di Salin-ger (e, per certi versi, in modo

sottilmente più iconico e underground) mentre qui da noi non se lo fila prati-camente nessuno, si chiama Inherent Vice ed è uscito in questi giorni, in Italia, per Einaudi col titolo Vizio di forma: que-sta ultima fatica unisce al meglio la sua fantasmagorica poetica dell’accumulo e dell’assurdo e una leggerezza nella tra-ma e nelle battute dalla freschezza asso-luta. L’atmosfera di fine Sixties, mentre il fenomeno hippie affrontava seminco-sciente la sua fine sopraffatto dall’au-toritaria America di Reagan, avvolge le

strampalate indagini del detective priva-to Doc Sportello, tutto impegnato a risol-vere gli assurdi casi dei suoi ancora più assurdi clienti, la propria situazione sen-timentale incasinata e la propria memo-ria minata dall’assunzione massiccia di qualsiasi tipo di droga. Un viaggio ironi-co e spassoso che ci guida nei meandri paranoici e suburbani di una L.A. come immersa in una sorta di nebbia psiche-delica di cui anche chi non ha vissuto quegli anni avrà immediata nostalgia.La poetica che sta dietro al romanzo si potrebbe riassumere, alla luce di tutta la vicenda, in due parole: indagine e para-noia. La prima è un pallino di Pynchon: quasi tutti i suoi personaggi hanno enig-mi da risolvere, tracce da inseguire, mi-

Vizio diForma

Page 5: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

5

steri da sbrogliare. Il loro compito è sem-pre minato da una realtà sfuggente che loro non hanno i mezzi né culturali né psicologici (e forse nemmeno la volontà) per affrontare: è a questo proposito che entra in gioco un altro chiodo fisso pyn-choniano, l’entropia, cioè l’impossibilità di sfuggire alla dispersione di informazioni tanto da rendere ogni tipo di comunica-zione praticamente inutile. D’altra parte gli improvvisati investigatori di Pynchon, Doc Sportello in primis, soffrono di os-sessioni che li fanno vivere a un livello di realtà superiore o almeno ulteriore: la paranoia che li domina, sia essa vagliata da droga, fumo, psicofarmaci o altri tipi di dipendenza o semplicemente da acci-dia esistenziale, li conduce a gettarsi in

questi intrighi inestricabili pur sapendo di poter difficilmente arrivare a una so-luzione. Sotto tale aspetto interpretano una condizione profondamente umana, quella della ricerca: siamo in quanto ci poniamo domande, in quanto vogliamo risposte. Poco importa che la realtà che Pynchon descrive sia un universo in cui le domande si moltiplicano senza sosta e in cui ogni cosa, non essendo mai come appare, risulta astratta da ogni possibi-le comprensione. Importa invece che la realtà che Pynchon descrive è una real-tà profondamente americana: gli hippie, Nixon, le infinite highway californiane, i detective privati, la malavita dei casinò e ancora la televisione ipnotica, i magnati che organizzano falsi rapimenti, i bordelli

Thomas Pynchon è nato l’8 maggio 1937 e si è laureato alla Cornell University prima in ingegneria e poi in letteratura. E questo è tutto quello che si sa di lui. Fin dai tempi del suo esordio letterario (V., 1963) nessuna notizia è mai trapelata sulla sua vita. Rilascia rarissime interviste, non si sa dove abiti, parla solo col suo agente, di lui esiste solo una foto ai tempi del servizio militare in marina. Solitario e burbero forse più di J.D. Salinger, una volta qualche giornalista avanzò l’ipotesi che i due autori fosse in realtà la stessa persona; Pynchon rispose: “Questa è bella. Ma riprovateci.”

Page 6: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

6

gestiti da asiatici ecc. E’ una America dei suburbs, del sotterraneo, dell’alternativo, dell’oscuro. è l’America vera e di pancia, verrebbe da dire, è anche un’America che non c’è più, un’America idealizzata nel suo mito di ribellione e di alternati-va, nel suo sogno irrealizzato, nella sua perfezione mai risolta e sempre contrad-dittoria. E dunque non può che essere la dimensione del mistero e della para-noia, appunto, che non genera altro che disadattati. Ma sono disadattati simpati-ci, quasi ingenui e immacolati. Forse la forza di Inherent Vice è proprio questa: l’intricata (e inutile) indagine che vi è sot-tesa viene attraversata dal protagonista Sportello con assoluta tranquillità, quasi indifferenza, in lui non si notano pertur-bazioni, cambiamenti; è come se fosse abitante di un tempo in cui il mondo stesso poteva scivolarti addosso, lui non

ti disturbava se tu non lo disturbavi.Eppure quel mondo Pynchon lo descrive già al suo tramonto: i felici tempi hippie lasciano spazio ad anni più seri, pensosi e cupi. Il mito americano era già pronto ad aggiungere alla sua aura altri simboli, altre contraddizioni. E i personaggi di Py-nchon? Loro rimangono sempre lì dove sono sempre stati, un po’ menefreghisti, un po’ fintamente preoccupati, sempre però “al di fuori” di tutto, anche un po’ sornioni nell’osservare una realtà che sfida continuamente la caduta nell’abis-so, sicuri che quella caduta non li riguar-derà. In una specie di abisso, nell’inferno così ampio e quotidiano e omnicompren-sivo degli outsider, loro ci sono già, pieni di paranoie e coi loro misteri da portarsi appresso.

Page 7: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

7

Un riferimento a Thomas Pynchon e alla sua prima opera, V., è nascosto nelle pagine del nuovo romanzo

di Jonathan Frazen, Freedom (presto in Italia col titolo “Libertà”).

La protagonista, infatti, descrive un suo coetaneo un po’ alternativo tutto intento nella lettura di

un libro: “Richard indossava una t-shirt nera e stava leggendo un tascabile con una’enorme V sulla

copertina”.

A rompere l'isolamento in cui Pynchon si è trince-rato ci sono voluti i Simpsons. Sì, quelli gialli. Il suo personaggio, doppiato da lui stesso e ca-ratterizzato da un sacchetto di carta in testa con un punto di domanda sopra, compare in due episodi della serie animata: in Incertezze di una casalinga arrabbiata, commentando l'esordio di Marge aspi-rante scrittrice, dice che apprezza il libro tanto quanto gli piace rilasciare interviste; in Tutto è lecito in guerra e in cucina, invece, fa il giudice in una gara gastronomica blaterando giochi di parole contenenti riferimenti ai titoli dei suoi romanzi.La voce di Pynchon può essere ascoltata anche nel booktrailer realizzato proprio per Inherent Vice (lo si trova su You Tube).

Page 8: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

8

les dieux s’en vont,les enragés restent!

Page 9: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

9

les dieux s’en vont,les enragés restent!Ultimo Tango a Parigi

Il 3 febbraio si è spenta a Parigi la vita di Maria Schneider, per tutti i cine-fili una malinconica occasione per ripensare al film più

scandaloso della storia del cinema italiano.

Regista e produttore furono processati e condannati per oscenità e, nel 1976, venne distrutto il negativo. Bertolucci fu condannato a due mesi ed

impedito per cinque anni ad usufruire dei suoi diritti di cittadino (diritto di voto).

Page 10: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

10Alberto Fabris

Soundtrack:Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano-Area-

Inattuale, fuori tempo, datato. Moravia nota che: “Il film... non è fatto di eventi bensì di situazioni simboliche e ideologi-che” e che “è un film fascinoso ma di un fascino freddo perché intellettualistico.” Basterebbero queste brevi considera-zioni per consentire ad uno spettatore contemporaneo di cestinare senza ri-morsi l’idea di vedere o ri-vedere Ultimo Tango a Parigi, eppure gli stessi motivi che sembrano condannare la pellicola di Bertolucci al solo repertorio del citazio-nismo cinefilo, sono il vero motivo d’in-teresse che può consentire una visione capace di abbandonare sul suo percorso residui di senso e flebili bagliori di luce.

Film dalla crisi e non della crisi: 1972, le ceneri del sessantotto sono ormai fred-de e il freddo plumbeo di una Parigi as-sai più metafisica che fisica non cessa di farsi sentire sulla pelle e nelle ossa. Tutto è in ombra, tutto si svolge essenzialmen-te al chiuso di un appartamento abban-donato che, da luogo deputato all’intimità famigliare, diventa luogo dell’intimità tra due sconosciuti, determinati a non sa-pere nulla l’uno dell’altra. Rovesciamen-to radicale del “tutto è politico” in quelle stanze tutto è privato, intimo, individuale.

Inquadratura dopo inquadratura Ber-tolucci filma le rovine della transizione, i suoi personaggi ritraggono naufraghi aggrappati a relitti che affondano, non vi sono direzioni da prendere o rotte da seguire, solo un dibattersi tra le onde. Il sesso scandaloso e ancora testarda-mente antiborghese tra Paul e Jeanne è il luogo della separazione, negazione della complicità e del linguaggio dei corpi che sono invece qui ferocemente parlàti anziché parola. Nel seppellire de-finitivamente gli anni 60 Bertolucci uc-cide letteralmente Paul-Brando, iconico e definitivo nella sua interpretazione più devastata e devastante e quel mondo si dissolve grottesco e funereo in un indi-menticabile ultimo tango.

I II III

Page 11: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

11

Maria Schneider Parigi 27 marzo 1952 – Parigi 3 febbraio 2011

La sua morte è arrivata troppo presto, prima che io potessi riab-

bracciarla teneramente, dirle che mi sentivo legato a lei come il primo giorno, e almeno per una volta,

chiederle scusa

Bernardo Bertolucci

Brando e Bertolucci mi manipolarono, usandomi senza alcun riguardo.

Ci ho messo molti anni per perdonare: ero proprio infuriata

Maria Schneider

Ultimo Tango a Parigi? Una delle esperienze più imbarazzanti della mia

carriera professionale,

Marlon Brando

Page 12: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

12

ensando al vetro l’immaginazione identifica un manufatto prezioso e delicato. Per un veneziano però, fin dalla sua origine, il vetro è og-getto della quotidianità. Bottiglia,

goto, vaso, piatto o brocca sono utensili da “tutti i giorni” che si usano a tavola e in cu-cina dove fanno mostra di colori e forme. Il vetro non è eterno. Cade e si frantuma. Non si può aggiustare se non conservando poi, sulla sua superficie liscia, traccia delle feri-te. Nasce in modo affascinante, quasi magi-co: la polvere di silice viene scaldata fino al punto di fusione per poi diventare una pasta malleabile e prendere forma. Quella del vetro è per Venezia un’avventura che ha più di mille anni. All’inizio furono bot-tiglie, ovvero “fiole” in veneziano, quando la bottiglia costituiva la principale produzione

L’avventura del vetroElisabetta Badiello

Page 13: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

13

L’avventura del vetrodelle vetrerie muranesi. Seguirono i bicchieri ed altri oggetti da mensa. Che questo ma-teriale sia connaturato alla città di Venezia è evidente fin dal Quattrocento quando, nel parlare di manufatti in vetro, si usava dire “al modo di Venezia”. A comprovare come ancora oggi questa industria sia il simbolo stesso della città, il museo Correr ha dedicato alla produzione vetraria una mostra allestita dal’11 dicembre 2010 al 25 aprile 2011. Ordinate cronologicamente, le opere espo-ste sono più di trecento. Un percorso che parte dai primi manufatti, alcuni dei quali recuperati nei fondali della laguna e tra la sabbia dei canali, fino agli oggetti di design del XX secolo. Nel susseguirsi delle sale vasi e piatti dell’Età dell’Oro (dal XV al XVIII secolo) pe-

Page 14: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

14

riodo in cui i vetri veneziani venivano copiati e contesi in tutto il mondo, fino alla deca-denza e successiva rinascita da parte della Serenissima (XIX secolo) quando nascerà il Museo del Vetro di Murano.Infine il XX secolo, il Novecento, ovvero l’epoca del design: il vetro non più soltan-to oggetto d’uso comune ma vera e propria opera d’arte.In questa sezione sono esposte per la pri-ma volta lavori provenienti dalla Fucina degli Angeli di Egidio Costantini, relativi all’incon-tro con Chagall e Picasso, e dalla collezione di Carlo e Giovanni Moretti. In mostra anche altri esempi di manifattura legati al mondo del vetro: le perle, creazioni portate dai veneziani verso la fine del 1400 in Africa occidentale. E chi non vorrebbe in-

dossare quei gioielli dai mille colori e dalle forme originali!Le opere esposte provengono tutte dal Mu-seo di Murano, isola del vetro dal 1291 quan-do, con un decreto del Maggior Consiglio, i maestri vetrai vennero relegati assieme alle loro fornaci per scongiurare i frequenti in-cendi che devastavano Venezia. Considerati maestranze specializzate dalla Serenissima, fin dal 1224 godevano di particolari privilegi come, per esempio, sposare figli di patrizi. Dovevano però mantenere il segreto sulla loro arte, salvo pene severissime! La storia del vetro è storia di Venezia e del-la sua cultura, e la mostra si snoda come un’avventura attraverso le vicissitudini di un materiale che ancora oggi affascina.

L’AVVENTURA DEL VETROUn millennio d’arte veneziana

Venezia, Museo Correr, II piano11 dicembre 2010 – 25 aprile 2011

Orario: 10/17 (biglietteria 10/16) fino al 31.03.2011

10/18 (biglietteria 10/17) dall’01.04.2011Biglietti:

Intero 8 euroRidotto 5 euro

Informazioni:www.museiciviciveneziani.it

[email protected] call center 848082000

Page 15: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

15

Page 16: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

16

INCIPIT&ExPlICIT

Paolo Armelli

Un libro, accantonato il criterio del-la copertina, si sceglie di solito dal-le prime righe. Alla fine è lo stes-so criterio che utilizzano gli editor, quando devono convincersi che un libro è veramente buono e pubbli-cabile: raramente un romanzo de-gno di essere letto ha una prima pagina mediocre. E questo diventa, in qualche modo, l’incubo di ogni scrittore che, messo di fronte alla prova della pagina bianca, deve ricorrere alle sue qualità più effi-caci per non fallire già nelle prime righe.In effetti la storia della letteratura è costeggiata da incipit memorabili, che entrano nell’animo del letto-re e si saldano indissolubilmente all’idea che di quel libro ci faccia-mo. Noi italiani, con la storia cultu-rale un po’ ingombrante che ci ri-troviamo, siamo legati a doppio filo a due incipit immortali: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritro-

vai per una selva oscura…” e “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…”; sono poche paro-le, infilate una dietro l’altra ed eter-nate in quell’ordine, poche parole che bastano a riportarci alla mente autore e libro e trama, a riaccende-re storie, rievocare situazioni, pae-saggi, emozioni. Hanno una po-tenza evocativa, questi incipit, che sono quasi a se stanti. Pensate a Tolstoj e a quella frase in apertura di Anna Karenina che contiene già in sé un intero universo: “Tutte le famiglie felici sono uguali, ma ogni famiglia infelice lo è a suo modo.”Ma si sa, i libri come tutte le cose hanno anche una fine: raramente ci ricordiamo con esattezza i fina-li dei libri, però. Ad essi leghiamo piuttosto alcune atmosfere, alcu-ne sensazioni: a volte vorremmo che la storia non finisse mai, a volte gioiamo, altre siamo delusi e arrabbiati. Le parole di quei finali

raramente le mandiamo a memo-ria. Eppure c’è una frase conclusi-va che tutti bene o male abbiamo sentito, possiamo dire che ci sia-mo cresciuti assieme. Poi abbiamo scoperto che nella vita raramente è così, quindi da allora delle con-clusioni ci siamo fidati meno. La frase era questa: “e vissero tutti felici e contenti”.

Poche parole, una dopo l'altra

ALDO NOVE, LA VITA OSCENA |Einaudi|“Mio padre morì all’improvviso, di ictus.

Gli sopravvisse mia madre, malata da anni di cancro.

Sarebbe dovuta morire prima lei.”

“Come il mondo continui ad apparirci bello e completamenTe incomprensibile.

Mentre scrivo queste parole.Mentre qualcuno le legge.”

Page 17: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

17

Page 18: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

18

EYES|WIDE|SHUT

Federico Tosato

In ambito cinematografico la di-sciplina teorica è per i più materia sconosciuta e, specie per i neofiti o giù di lì, non troppo agevolmente abbordabile. Rimane però di pri-mario interesse e fonte di infinite riflessioni e di innumerevoli spunti. Se prendiamo ad esempio qua-le oggetto di approfondimento lo sguardo del medium cinematogra-fico, il suo occhio meccanico, non si contano le pubblicazioni che al riguardo nel corso dei decenni hanno sviscerato elementi merite-voli di interesse. A trattare dell’atto del guardare e del far guardare del cinema nelle sue mille declinazioni sono stati e continuano ad essere studiosi, intellettuali, artisti, filoso-fi, scrittori, sociologi e ricercatori di ogni latitudine, anche se certo riportarne qui i contributi sarebbe tentativo insensato, prima ancora che complicatissimo. Ci limiteremo perciò a tratteggiare, sintetizzan-

doli violentemente, alcuni concet-ti sviluppati da due tra le figure al riguardo più autorevoli: Sergei Mi-chailovi Ejzenštejn e Vsevolod Illa-rionovi Pudovkin.Il primo esplica in parte la sua teoria pubblicando nel 1924 “Il montaggio delle attrazioni cine-matografiche”: alla base di ogni film è presente una serie di pro-vocazioni sensoriali – che pos-siamo definire attrazioni – aventi la funzione di orientarci riguardo alla vicenda presentata. Per fare appunto emergere questo orien-tamento occorre collegare tra loro le stesse attrazioni e contempo-raneamente farlo con gli altri ele-menti in gioco, fino a ottenere una compiuta organizzazione. Per noi spettatori l’attrazione è qualsiasi fatto presentato, inteso come im-pulso esercitante uno specifico effetto sulla nostra attenzione ed emozione; connesso poi con altri

fatti, lo stesso impulso si dimostra in grado di orientare l’emozione in una determinata direzione. Ancora Ejzenštejn ritiene che l’organizza-zione delle attrazioni possa impli-care un vero e proprio calcolo del-le pressioni esercitate su di noi. A proposito dell’organizzazione che porta a orientare l’emozione, Fran-cesco Casetti parla efficacemente di “modellaggio psicologico”. Un insieme di shock percettivi si tra-muta in un complesso emozionale appunto perché gli stimoli inviati a colui che guarda vengono struttu-rati e tradotti in un atteggiamento preciso. Spetta infine al montaggio assicurare la possibilità di collega-re tra loro i singoli spunti offerti alla platea: ogni elemento conserva la propria qualità per così dire “attra-zionale” e la singola inquadratu-ra può ancora essere letta quale shock in grado di colpirci, anche se nel contempo lo stesso montaggio

QUESTIONE DI OCCHIO

Page 19: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

19

dà ordine alla successione dei pia-ni, riorganizzando le sensazioni in un insieme coordinato.Per passare poi a Pudovkin, egli stabilisce un’equivalenza tra l’oc-chio della cinepresa e quello dello spettatore: per essere davvero ef-ficace, l’occhio deve saper distin-guere tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è. A tal fine occorre un lavoro di selezione, che compor-ta l’eliminazione di alcuni pezzi di mondo e, al contrario, la conserva-zione di altri, sufficienti a restituire agli spettatori ciò che realmente conta. Secondo il russo è insom-ma di primaria importanza realiz-zare una vera e propria economia dell’attenzione: depennando i mo-menti superflui, il regista rinsalda l’attenzione rivolta ai momenti e ai particolari essenziali, infondendo all’azione un’efficacia maggiore ri-spetto a quella della realtà. Il cine-ma, come riporta nel suo “L’occhio

del Novecento” il già citato Casetti, conduce per mano l’occhio dello spettatore, ne accompagna i movi-menti indirizzandolo verso ciò che conta, lo solleva dalla superflua fa-tica, offrendogli, come se non ba-stasse, il miglior punto di vista.Dziga Vertov: “Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento”.

Page 20: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

20

HEARTBIT

DJ ChemikangeloCompost/Schema records

Una carriera ormai ventennale, dagli esordi avvenuti nel 1991, aprendo un concerto degli Af-terhours. L’appartenenza, la sua, sin dagli inizi a una scena musica-le, quella che per comodità è sta-ta definita “Indie Rock”, insomma alternativa alla canzonetta popo-lare di uso e consumo di massa, ma anche ai cantautori storici. è la storia di Cristina Donà, cantautrice italiana milanese con cinque dischi incisi dal 1997 ad oggi, un sesto uscito in questi giorni (“Torno a casa a piedi”) e uno tutto in ingle-se pubblicato appositamente per il mercato anglosassone.E una dichiarazione, proprio di questi ultimi giorni, da parte sua, che ha fatto un certo scalpore, specialmente in quell’area di ap-partenenza musicale in cui si vor-rebbe Cristina Donà appartenente a vita "Sarei andata con piacere a Sanremo - ha detto - ma non mi

hanno accettata”.Cristina Donà a Sanremo? Eb-bene sì, perché un disco come il suo nuovo lavoro avrebbe riportato finalmente in un contesto ormai svalutato e impoverito come il fe-stivalone nazionale, quella dignità di canzone italiana autentica che gli manca da decenni. Quando sul palco della cittadina ligure salivano personaggi come Modugno, Mina, Gino Paoli, Tenco e tanti altri.“Torno a casa a piedi” affranca la Donà da quell’area cult e apparen-temente alternativa in cui si era trovata a muoversi fino adesso: è uno straordinario disco di grande canzone italiana, che riporta digni-tà al concetto di musica nazionale, con aperture variegate, dal pop di alta classe, al jazz, a influenze su-damericane, ai grandi maestri del passato citati poc’anzi. Ma soprat-tutto con una concezione di italia-nità musicale a cui si spera in futu-

ro le generazioni cresciute a talent show così poveri di contenuto sap-piano guardare per capire che è possibile fare musica in Italia con cuore e anima. Un disco che se-gna la maturità dell’artista, a livello musicale ma anche lirico. Una donna, Cristina Donà, recen-temente divenuta mamma, pas-saggi importanti della vita che si percepiscono forti nelle canzoni: “Questo è il disco più rivolto alla quotidianità che ho fatto finora” - ha detto - “mi piaceva l’idea di usa-re metafore ed esempi che ripor-tassero a questo”.è davvero un album che ci ridà ossigeno in un momento asfittico come quello che stiamo vivendo, nella musica come nella vita di tut-ti i giorni, di lavoro della maturità, anche riferito a un’artista matura sin dal suo esordio, coccolata dalla critica come raramente succede nel nostro paese, di album di quelli

TORNANDO A CASA A PIEDI

Page 21: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

21

che ti viene voglia di andartelo a comprare anche se volendo lo tro-veresti lì, su emule, a pochi mega dal tuo pieno zeppo hard-disc..Se fosse possibile parlare di so-larità anche per un’artista che ha sempre incarnato un ruolo un po’ da “Dark Lady” della musica in-dipendente di casa nostra, è di solarità che parlerei. Sì, perché a sentire brani come “Miracoli”, pri-mo singolo destinato a lanciare l’album, così come tutte le tracce di questo lavoro, è la gioia il primo sentimento che viene alla mente. Anche nel momento in cui la ban-da di paese, o presunta tale, che la accompagna in questa prima trac-cia lascia spazio ai suoni più lievi e delicati di “Un esercito di alberi”, una di quelle canzoni che se uno dovesse scegliere le famose cin-que canzoni da portare su un’isola deserta, entrerebbero di diritto nel-la mini-playlist. Come entrerebbe

nella cinquina anche la canzone che dà il titolo all’album, insieme a “Goccia”, “Dove sei tu”, “Invisibi-le” e “Universo” una delle più belle di sempre del mondo della nostra, storia di un amore al capolinea rac-contato proprio come se fosse un film, come mai era successo prima nella discografia della cantautrice lombarda.Oltretutto, come nel caso di Dove sei tu, anche Torno a casa a piedi è una ballad per pianoforte, stru-mento non facilmente associabile alla Donà, donna con la chitarra per antonomasia. Due canzoni d’amore diametralmente oppo-ste, Un esercito di alberi e Torno a casa a piedi, l’una rassicurante l’altra orgogliosamente dubbiosa.Poi ci sono i suoni più ritmati di episodi come “Giapponese”, la nin-na nanna materna di “Bimbo dal sonno leggero”, dedicato a suo figlio, nato proprio dopo l’uscita

di Piccola faccia, la delicatezza di “Più forte del fuoco”, la leggerezza di “In un soffio”, la dolce voce reci-tante di “Lettera a mano”.Accordi e melodie elegantemente pop, sembra quasi di risentire vec-chie canzoni di Lucio Battisti, gli Style Council, Fabrizio De André Joe Jackson… In definitiva un di-sco davvero di grande qualità, pro-babilmente il migliore della Donà da molto tempo a questa parte. E anche per il tour, che dovrebbe par-tire a primavera, pare che oltre alla canonica formazione rock con cui sale sul palco da sempre mamma Cristina si porterà dietro un paio di fiati e un bel po’ di archi. Uno dei concerti da mettere a tutti i costi in agenda per la bella stagione.

Page 22: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

22

SPEAKER’S CORNER

Marco Piazza

è da qualche anno che non si riesce a trovare un accordo ri-guardante il nostro livello di (de)crescita economica: c’è chi è più ottimista, chi meno, chi propone una ricetta di decrescita (interes-santi le analisi di Serge Latouche e Massimo Fini), molti dicono che si stava meglio quando c’era Lui (il Pelato), altri rispondono che si sta-va meglio quando si stava peggio (io temo che si stava meglio quan-do si stava meglio), altri ancora sostengono che bisognerebbe ri-tornare al lavoro manuale (agricol-tura e metalmeccanica, con falce e martello naturalmente), ecc.La maggior parte delle persone indica come Moloch indiscutibile e ineffabile della misurazione del benessere il Prodotto Interno Lor-do. Purtroppo, quando lo si vuol designare a misura del benessere della popolazione, lo si fa a spro-posito. Il PIL è sicuramente un

indicatore imperfetto, ma non è assolutamente un indicatore del benessere! Il Pil è il valore com-plessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in un anno, e destinati a consumi finali, inve-stimenti ed esportazioni nette: non misura quindi alcun tipo di benes-sere, se non indirettamente quello economico.Gli economisti (professionisti che negli ultimi 10 anni non ne hanno beccata una) hanno proposto un altro indicatore che potrebbe fare al caso nostro, l’ISU, l’Indicatore di Sviluppo Umano, che combina e pondera tre fattori che meglio po-trebbero descrivere il benessere di una nazione: aspettativa di vita, istruzione e Pil procapite.Per motivi che si rifanno sicura-mente ad un anti-illuminismo di stampo reazionario, se non contro-rivoluzionario, ho sempre dubitato della correlazione meccanicista fra

benessere personale (oserei dire esistenziale) e progresso econo-mico: la vita non è fatta solo di va-riabili quantitative. Riconsidererei dunque alcuni sem-plici segnali che riuscirebbero ad indicare, almeno approssimativa-mente, come si combinano lo stato dell’economia ed il grado di benes-sere psicofisico.Un primo segnale è quello più noto, relativo all’orlo delle gonne: in tempi di crisi le gonne si accor-ciano (forse per accasarsi e siste-marsi più velocemente in momenti di magra?), contrariamente a quel-lo che accade durante una fase di espansione. I politicamente cor-retti dicono che le gonne lunghe coprirebbero le gambe, nel caso in cui durante le crisi le Signore non potessero permettersi di sostituire con assiduità i propri collant.Il secondo è il numero di came-riere sexy che si trovano nei bar

Un ragionamento darwinista

Page 23: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

23

o nei locali. Il ragionamento impli-cito è un po’ maschilista (e capi-talista): durante la recessione la gente ha poca voglia di spendere e i ristoratori, per diminuire i costi e recuperare le vendite attraendo la clientela sparita, licenzierebbero prima i camerieri maschi e poi le bruttine. Speriamo lo faccia anche Marchionne.Un’ulteriore indicazione è relativa all’aumento dell’obesità media: in tempi di crisi si risparmia anche sul cibo, e l’alimentazione meno costo-sa va spesso a discapito della qua-lità (più i prodotti sono economici, più tendono a contenere grassi). Forse in tempi di crisi la gente è anche più nervosa e tende quindi

a scaricare la tensione mangiando di più (o sollazzandosi in altri modi, che non mi pare il caso di trattare).E, a proposito di taglie forti e crisi, un indicatore quasi scientifico l’ho trovato anch’io, ed è razionalmen-te ed empiricamente confermato. Il ragionamento di tipo darwinista è il seguente: in tempo di crisi le donne, in ottica di conservazione della specie (oltre che di se stes-se), tendono a rinunciare un po’ alla loro bellezza e ad accumulare, in vista di tempi magri e tristi. Non per niente quest’anno Miss Italia punta sulle taglie 44!Non ci resta che aspettare la ripre-sa controllando le cintole.

Page 24: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

24

SPEAKER’S CORNER

Mauro Pes

Barba da fare, passo incerto e una manciata di polvere nelle mutande: siamo tanti piccoli Dude “Bora-ciòn”, dei Dean Martin moderni in cerca del proprio Dollaro d’Onore e avanziamo silenziosi come certe ombre di indiani, che attraversano piazze e porticati in cerca di rispo-ste e di riscatto. Sì, perché abbia-mo una famiglia appena abboz-zata, un lavoro da difendere con i denti e una dignità da mantenere pressoché intatta, ma la vita ci ha viziati coi suoi bagordi, con i suoi inutili eccessi ed ora ci tocca fare i conti con la realtà dei fatti e con un futuro fatalmente predetto da un banchiere in doppiopetto. Ep-pure andiamo avanti, a denti stretti, con un groppo in gola che non si scioglierà mai e un pugno risoluto-re pieno di rabbia e d’orgoglio che oscilla pericoloso rasente ai jeans. Ma non siamo soli. No, non del tut-to. Al di là di una finestrella senza

luce c’è un vecchietto sciancato che, scopa in mano, fa il tifo per noi esaltandoci ed esaltandosi lui stesso. “Non ha nulla nello stoma-co. Soltanto coraggio” sostiene il vecchio caro Stumpy/Walter Bren-nan ad un certo punto de “Un Dol-laro d’Onore” (Rio Bravo nella ver-sione americana) accompagnando con quella sua voce gracchiante un Dude/Dean Martin che come noi avanza, finalmente a testa alta, verso un ignoto destino. Un desti-no da vice-sceriffo e non più da “Boraciòn” qualsiasi.Sì, perché abbiamo tutti diritto ad un petulante nonnetto alla “Stum-py” che ci accompagni ad ogni passo con lo sguardo lucido e il fucile puntato, che sia pure men-tre andiamo a montare la guardia a Burdette o ad accendere un mutuo trentennale. Abbiamo tutti diritto ad una bella strigliata e a qualche sentimento profondo ogni

tanto, a uno schiaffo e a una ca-rezza, non importa da dove arrivino. Abbiamo tutti il diritto di sbagliare, di sprofondare, di ricrederci e di tornare barcollanti sui nostri passi come quel “Boraciòn” di Dude: un perdente eroe.

lA VITA è UN DOllARO D’ONORE

Page 25: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

25

Federico Gobetti

Capelli scoloriti, vestiti brutti, vec-chi, rotti e rattoppati. Andatura dondolante, grandi bevitori molto spesso alcolizzati. Si capisce po-co-niente quando parlano, stanno sempre tra di loro, offendono tutto e tutti e odiano le istituzioni. Sono cultori di una musica che solo loro (o quasi) capiscono. Si ritrovano sempre negli stessi locali e se ne stanno ore seduti nelle panchine e nelle piazze a guardare quelli che passano facendo stupide battuti-ne. Penserete: sono i giovani d’og-gi. Quelle nuove generazioni ma-ledette, senza valori, senza futuro e senza voglia di fare. E invece no signori… qui si parla delle vecchie generazioni. Di chi giovane lo era un tempo e ora non lo è più. Gli anziani.Queste persone con le rughe come tatuaggi e storie incredibi-li da raccontare, ma senza qual-cuno che li stia a sentire. Hanno

partecipato a delle vere rivoluzioni storiche e hanno fatto veramente la fame. Loro. Non come i finto-poveri ragazzi alternativi. I punk, per esempio. Incoscienti burattini di una moda. Gente che inneg-gia all’anarchia e alla rivoluzione non riuscendo poi a far altro che a ritrovarsi nei locali, ubriacarsi, ri-empirsi amichevolmente di botte e discutere del nuovissimo paio di anfibi appena usciti nei negozi. No cari miei. Sono i vecchi i veri trasgressivi. Quelli senza freni ini-bitori, che tirano giù tutti i santi in ordine alfabetico quando perdono a briscola. Quelli che vedi mettersi improvvisamente in posizione obli-qua e tirare scorregge violentissi-me facendo finta di niente, come se attorno non ci fosse nessuno. Quelli che preferiscono investire la pensione in “bianchi” piuttosto che in una casa al lago. Quelli che, ap-pena si apre un cantiere stradale

accorrono come mosche sul miele e non mancano mai di commenta-re “Scolta capo… io per me, quel buco l’avrei fatto un metro più in là”. Loro sono i veri punk, perché possono permetterselo. Adesso che la vita l’hanno trascorsa pos-sono permettersi di fare tutto. Possono passarti davanti in fila al supermercato e al primo accenno di protesta la fatidica frase “Eh ma sai, sono anziana, faccio fatica”. Possono fregarti il posto sull’au-tobus facendoti alzare. Possono offenderti anche solo se stai se-duto su una panchina. Possono pretendere sconti in ogni negozio con quello strumento infernale che è la Tessera Anziani. Possono pro-testare su qualsiasi cosa non vada loro a genio e ottenere approva-zione. Possono mandarti a cagare sempre e comunque, anche se hai ragione.Loro possono (e fanno bene).

MIO NONNO è UN PUNK

Page 26: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

26

Page 27: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

27

IMAGINAREADario Crisci

A Red Stripe Experience On A Winter’s DayTezze di Arzignano | Novembre 2010

Page 28: Cabaret Voltaire Febbraio 2011

28

<prossima uscita>diciottomarzozeroundici