C. Mortati - Costituzione Dello Stato (Teoria Generale)

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Mortati Costantino Costituzione dello Stato (dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana) [XI, 1962] Sommario: Parte I. - LA COSTITUZIONE IN GENERALE. Sez. I. - IL PROBLEMA DELL'ORIGINE E DEL FONDAMENTO DELLA COSTITUZIONE. 1. Concetto generale di «costituzione». 2. La costituzione dello Stato. Il concetto di costituzione nella sua prospettiva storica. 3. Elementi costitutivi del concetto di costituzione. 4. I vari significati attribuibili alla costituzione. 5. Fattori che promuovono lo studio della costituzione sotto l'aspetto giuridico. Determinazione dei problemi che ne sono oggetto. 6. Cenni sull'elemento primigenio dell'esperienza giuridica: norma o ordinamento? 7. Il problema della costituzione secondo il positivismo agnostico e quello critico. 8. In particolare, secondo il Kelsen. 9. Esame critico della concezione del Kelsen. 10. I fatti che operano in funzione di fonte dell'ordinamento. 11. Caratteri da attribuire a tali fatti. Vari modi di intendere il soggetto reale che dà vita alla costituzione. 12. (Segue): le teorie della nazione. 13. (Segue): le dottrine istituzionali francesi. 14. (Segue): le dottrine istituzionali italiane. 15. (Segue): le dottrine istituzionali tedesche. 16. Conclusioni dell'esame e ricostruzione. 17. Esame delle obiezioni. 18. Rapporto fra le due costituzioni (sostanziale e normativa). Funzione della costituzione normativa. Sez. II. - COSTITUZIONE FORMALE E MATERIALE. 19. Sulla possibilità di distinguere nel testo della costituzione fra norme costituzionali in senso materiale ed in senso solo formale. 20. Opinioni che considerano sostanzialmente costituzionali solo le norme organizzative (di relazione). 21. Osservazioni critiche. 22. Opinioni che considerano costituzionali solo le norme di azione, e loro critica. 23. La materia costituzionale e la graduazione di valore delle norme della costituzione. 24. Applicazioni di tale graduazione alla revisione delle norme della costituzione. 25. Altri casi di riferimento alla materia costituzionale. Sez. III. - L'INTERPRETAZIONE DELLA COSTITUZIONE. 26. Il problema costituzionale dell'interpretazione. 27. L'interpretazione delle norme costituzionali: influenza sulla medesima dei valori politici. 28. Funzione dei princìpi generali dell'ordinamento. 29. Fattori che ostacolano lo svolgimento unitario del sistema. Sez. IV. - IL PROBLEMA DELLE MODIFICHE DELLA COSTITUZIONE. 30. Rapporto fra stabilità e mutabilità della costituzione. 31. Nozioni generali sulle varie specie di modifiche. Ordine della trattazione. 32. Requisiti necessari alla rigidezza della costituzione. 33. I vari tipi dei procedimenti di revisione. 34. Le modifiche tacite. 35. Le rotture della costituzione.

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Mortati Costantino

Costituzione dello Stato (dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana) [XI, 1962]

Sommario: Parte I. - LA COSTITUZIONE IN GENERALE. Sez. I. - IL PROBLEMA DELL'ORIGINE E DEL FONDAMENTO DELLA COSTITUZIONE. 1. Concetto generale di «costituzione». 2. La costituzione dello Stato. Il concetto di costituzione nella sua prospettiva storica. 3. Elementi costitutivi del concetto di costituzione. 4. I vari significati attribuibili alla costituzione. 5. Fattori che promuovono lo studio della costituzione sotto l'aspetto giuridico. Determinazione dei problemi che ne sono oggetto. 6. Cenni sull'elemento primigenio dell'esperienza giuridica: norma o ordinamento? 7. Il problema della costituzione secondo il positivismo agnostico e quello critico. 8. In particolare, secondo il Kelsen. 9. Esame critico della concezione del Kelsen. 10. I fatti che operano in funzione di fonte dell'ordinamento. 11. Caratteri da attribuire a tali fatti. Vari modi di intendere il soggetto reale che dà vita alla costituzione. 12. (Segue): le teorie della nazione. 13. (Segue): le dottrine istituzionali francesi. 14. (Segue): le dottrine istituzionali italiane. 15. (Segue): le dottrine istituzionali tedesche. 16. Conclusioni dell'esame e ricostruzione. 17. Esame delle obiezioni. 18. Rapporto fra le due costituzioni (sostanziale e normativa). Funzione della costituzione normativa. Sez. II. - COSTITUZIONE FORMALE E MATERIALE. 19. Sulla possibilità di distinguere nel testo della costituzione fra norme costituzionali in senso materiale ed in senso solo formale. 20. Opinioni che considerano sostanzialmente costituzionali solo le norme organizzative (di relazione). 21. Osservazioni critiche. 22. Opinioni che considerano costituzionali solo le norme di azione, e loro critica. 23. La materia costituzionale e la graduazione di valore delle norme della costituzione. 24. Applicazioni di tale graduazione alla revisione delle norme della costituzione. 25. Altri casi di riferimento alla materia costituzionale. Sez. III. - L'INTERPRETAZIONE DELLA COSTITUZIONE. 26. Il problema costituzionale dell'interpretazione. 27. L'interpretazione delle norme costituzionali: influenza sulla medesima dei valori politici. 28. Funzione dei princìpi generali dell'ordinamento. 29. Fattori che ostacolano lo svolgimento unitario del sistema. Sez. IV. - IL PROBLEMA DELLE MODIFICHE DELLA COSTITUZIONE. 30. Rapporto fra stabilità e mutabilità della costituzione. 31. Nozioni generali sulle varie specie di modifiche. Ordine della trattazione. 32. Requisiti necessari alla rigidezza della costituzione. 33. I vari tipi dei procedimenti di revisione. 34. Le modifiche tacite. 35. Le rotture della costituzione.

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36. Le sospensioni della costituzione. 37. Le modifiche consuetudinarie e convenzionali. 38. I procedimenti derogatori. La consuetudine. 39. Le convenzioni della costituzione. 40. Modifiche della costituzione e giurisdizione di costituzionalità. Sez. V. - I LIMITI ALLE MODIFICHE DELLA COSTITUZIONE E LA CONTINUITÀ DELL'ORDINAMENTO. 41. Esame delle opinioni negatrici della esistenza di limiti. 42. Classificazione delle varie specie di limiti. 43. I limiti assoluti. 44. (Segue): loro fondamento. 45. Criteri per la determinazione di limiti assoluti. 46. Il problema dell'influenza dei mutamenti costituzionali sulla permanenza dello Stato. Le tesi negative. 47. La sopravvivenza di norme dell'ordinamento cessato. 48. Influenza della volontà dello Stato sulla continuità. Parte II. - LA COSTITUZIONE ITALIANA. 49. I princìpi fondamentali della Costituzione e loro significato giuridico-politico. 50. Applicazione dei princìpi in ordine alle garanzie delle libertà civili. 51. L'effettività del godimento dei diritti di libertà ed i mezzi per assicurarla. 52. Applicazione dei princìpi ai diritti sociali ed alla loro attuazione per opera dello Stato. 53. Attuazione dei princìpi sociali per opera delle categorie economiche. 54. Disciplina delle formazioni sociali. In particolare princìpi regolativi delle confessioni religiose. 55. Conclusioni sulla prima parte della Costituzione. 56. L'adeguazione delle strutture organizzative al sistema dei princìpi sostanziali. Difficoltà che essa presenta. 57. L'adozione della forma parlamentare. Disciplina dei rapporti tra Parlamento e Governo. Struttura interna dell'organo governativo. 58. La Presidenza della Repubblica. 59. L'ordinamento della comunità sociale. La rappresentanza partitica. Germi di rappresentanza degli interessi. 60. Il decentramento regionale. 61. Il sistema delle garanzie costituzionali. 62. I princìpi regolativi dei rapporti con l'ordinamento internazionale. 63. Conclusioni sulla forma di Stato. 64. Vicende del procedimento di attuazione della Costituzione. 1. Concetto generale di «costituzione». La parola «costituzione» (dal latino constitutio, da constituere) nel suo significato più generico, valido per ogni ramo di conoscenza che si rivolga ad indagare l'intima e più propria essenza di un'entità, vuole designare quel carattere, o quell'insieme di caratteri, ritenuti necessari ad individuare ognuna di tali entità. differenziandola dalle altre, e pertanto destinati ad accompagnarla in tutto il suo ciclo di vita. Si parla così di costituzione della materia, di costituzione delle specie o dei singoli individui che entrano a comporle, sempre per designare le qualità, elementi o parti che, esprimendone la natura sostanziale e condizionandone il modo di essere, rimangono costanti nel tempo, suscettibili di variazioni solo quantitative, necessariamente contenute entro un margine, al di là del quale verrebbe meno la stessa identità del soggetto cui si riferiscono. Considerata, così, la costituzione di un corpo come il principio d'ordine in esso immanente, devono considerarsi suoi attributi necessari: a) la priorità (logica, non già temporale, dato che il corpo comincia ad esistere nel momento stesso in cui il principio diviene operante) rispetto alle singole parti o alle singole manifestazioni di vita; b) la preminenza, quale discende dalla funzione condizionante le concrete

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estrinsecazioni della sua attività; c) la permanenza nel tempo, dato che alla medesima è legata la nascita e l'estinzione del corpo medesimo. Il concetto ora delineato riflette esigenze intrinseche all'ordine universale, e perciò trova applicazione sia nel mondo della natura sia in quello degli aggregati umani che vengono a formarsi per la soddisfazione di bisogni collettivi. Ogni struttura organizzativa desume il suo ordine primo da un centro unificante e motore, da una costituzione, conforme al tipo di ente sociale cui essa corrisponde, con la funzione della stabilizzazione dei singoli rapporti che si svolgono in esso. L'indole dello spirito umano, sottratto alla legge della causalità meccanica perché capace di autodeterminazione, non opera su tale funzione bensì sul modo del suo concreto operare, nonché sul procedimento necessario ad assumerne una conoscenza riflessa. A differenza dell'ordine naturale quello umano non è dato ma costruito, sicché la sua esistenza è condizionata al sorgere di un elemento capace di far valere, al di sopra delle volontà oscillanti e mutevoli dei singoli associati, l'esigenza della costanza dei comportamenti necessari a mantenere unito il gruppo, per quel tanto che occorre alla soddisfazione dei bisogni comuni. L'elemento cui si accenna, pur estremamente vario nelle sue concrete manifestazioni, presenta sempre un medesimo carattere, qualificabile con il termine «autorità», inteso quale entità la quale, anche se non si concreta in un soggetto distinto dai consociati, ed opera quale mera energia spirituale, è tuttavia considerata da essi così efficiente da riuscire a far valere e rendere costanti nel tempo i fini o i valori ritenuti fondamentali per la consociazione. Sicché nella fedeltà a questi il gruppo trova la propria unità e stabilità, e diviene società giuridicamente ordinata. Particolare rilievo per lo studio della Costituzione assumono quelli fra gli enti sociali i quali hanno carattere «originario» (per il fatto che traggono vita da una volontà ad essi non estranea, bensì in loro compenetrata, promanante dalle stesse forze che operano nel loro interno), ed in particolare quelli che si dicono «politici», per significarne la specifica finalità rivolta alla soddisfazione non già di uno o dell'altro dei vari bisogni dei consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il conseguimento, e che consiste nell'assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. Il più importante di tali enti originari a fini generali è quello che, con termine moderno, si chiama «Stato», ed è con riferimento ad esso che qui sarà studiato il problema della costituzione. 2. La costituzione dello Stato. Il concetto di costituzione nella sua prospettiva storica. L'indagine rivolta alla costituzione dello Stato dal punto di vista strettamente giuridico è fenomeno relativamente recente. Può essere rilevata una certa coincidenza (sia pure intesa in senso approssimativo) fra il polarizzarsi dell'attenzione della scienza del diritto su tale fenomeno e l'uso di consacrare per iscritto, raccolti in un documento cui si conferisce particolare solennità, i princìpi fondamentali intorno a cui si raccoglie un determinato ordine statuale positivo, e correlativamente il diffondersi dell'impiego del vocabolo «costituzione» per designare l'atto che raccoglie tali princìpi (1) . È oggetto della precedente Premessa storica l'esame più particolare dello svolgimento avuto nel tempo del nome e dell'idea di costituzione. I cenni che seguono hanno lo scopo più specifico di cogliere alla loro stessa origine, gli aspetti problematici che l'idea presenta, di mostrare la persistenza dei motivi che stanno alla base delle diversità del modo di intenderla. Il primitivo uso del termine fu limitato a designare non già il principio primo dell'ordinamento, bensì quelle fra le norme giuridiche cui si attribuiva una posizione in qualche modo più elevata di altre: il che si verificò specialmente quando, con il concentrarsi del potere supremo nelle mani di un solo organo, si avvertì il bisogno di differenziarne le varie manifestazioni di volontà normativa attribuendo loro una distinta denominazione. Anche le norme primarie cui detto nome si soleva riferire avevano carattere derivato, perché non creavano ma presupponevano un anteriore organo costituzionale. Questo può dirsi per le «constitutiones», designanti a Roma le manifestazioni di volontà normativa di grado più elevato dell'autorità imperiale (2) , nonché le «costituzioni» pontificie o quelle sinodali nel diritto della Chiesa. L'uso di un termine speciale per designare il totale assetto dello Stato si ritrova invece nella speculazione politica dell'antichità classica. In ARISTOTELE «politeía» è contrapposta a «pólis», non come norma che dà validità alle leggi, ma come ordine complessivo dei «nómoi», l'integrale sua realtà quale risulta

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dall'insieme degli elementi che entrano a comporlo, e quindi della globale struttura sociale ed economica oltre che di quella del governo, di un ordine naturale al quale si devono adeguare le leggi (3) . Corrispondente al pensiero aristotelico della forma come essenza delle cose era la concezione dell'ordine politico come essenza dello Stato, assunto a criterio per la sua identificazione, tale da doversi desumere dall'intero sistema di vita, ed al cui mantenimento si considera collegata la stessa conservazione dello Stato. Il pensiero politico romano, quale si manifesta sotto l'influenza dello stoicismo in Cicerone, si distacca sostanzialmente da quello tradizionale greco (4) . Se anche la raffigurazione ciceroniana della civitas come constitutio populi, si richiama all'assetto politico della consociazione, il suo elemento caratteristico sta nella posizione che in tale constitutio assume il popolo, come fonte del potere, sicché la res publica, nome assunto a designare l'organizzazione giuridica statale, appare sinonimo di res populi (5) . È appunto al pensiero stoico, trasmesso attraverso l'opera di Cicerone, che si ricollegano le successive correnti del pensiero medioevale, dei Padri della Chiesa prima e poi di quello giusnaturalista, le quali pongono a base dello Stato il vincolo associativo che germina spontaneamente nella coscienza dei singoli, contrapponendosi così a quelle altre che si facevano sostenitrici delle strutture autocratiche. La prassi di questo periodo che succede al tramonto del mondo antico continua ad ignorare il nome di «costituzione» quale complessivo ordine politico, che viene invece designato di solito con il termine status reipublicae, in un significato però più vicino a quello aristotelico di «politeía». In questo stesso senso una parte della dottrina medioevale (MARSILIO, PATRIZI) parla di «constitutio» promiscuamente con «institutio», o «fundamentum reipublicae». Per indicare la funzione più specifica di legge suprema limitativa del potere regio si comincia ad adoperare (dai monarcomachi francesi) l'espressione «lex fundamentalis», che si ricollega alla distinzione introdotta in Francia nel XVI sec. fra le «lois du royaume» e le «lois du roi», la cui garanzia veniva ritrovata in consuetudini immemorabili che sottraevano determinate materie (il dominium politicum, contrapposto al dominium regale) ad ogni disciplina unilaterale. Già nel periodo feudale si era fatto richiamo ad una lex terrae, che però esprimeva in sostanza l'originaria parità di posizione fra il sovrano ed i signori, da cui derivava l'esigenza di una base consensuale per i loro rapporti, sicché anche le garanzie dei diritti concesse da atti del sovrano emanati «di nostra propria e buona volontà», si presentavano accompagnate da controprestazioni di chi ne beneficiava. La formazione di nuovi centri di autorità, che invocano l'autonomia e così accentuano il pluralismo caratteristico della società feudale, conduce ad una moltiplicazione di «patti», «lettere patenti», «carte di franchigia» rivolte a definire lo status di singoli gruppi, o particolari aspetti dei rapporti fra i gruppi medesimi ed il principe, e delimitano pertanto indirettamente l'àmbito di azione consentito a quest'ultimo. I documenti che li consacrano vengono custoditi con speciale cura, in ragione della funzione di garanzia loro attribuita: funzione che, però, riesce adempiuta in concreto solo quando si riescono a stabilizzare i rapporti sociali che sottostanno ai patti. Le Carte di questo tipo, divenute celebri perché sono le sole riuscite a sopravvivere ai sempre rinnovati attacchi dell'assolutismo, sono quelle inglesi: dalla «Carta delle libertà» di Enrico I del 1110 alla «Magna Charta» di Enrico III del 1225, allo Statuto de tallagio non concedendo del 1297 (6) . Questi documenti, per il loro carattere frazionario e particolaristico, non realizzano ancora la figura propria della costituzione scritta. È il risveglio della coscienza del valore della persona, che trae la sua origine dal diffondersi dell'idea cristiana e si esprime nel rigoglio assunto dalle dottrine giusnaturalistiche, che conduce a ricercare la fonte più remota del patto di governo, un criterio, cioè, di legittimazione del potere di carattere non più storico-pragmatico ma razionale e universale: non più contratto di assoggettamento fra governanti e governati, ma contratto di società fra i singoli che convengono di vivere in comune. Sono, da una parte, i canonisti, interessati a limitare il potere dell'autorità politica, che si richiamano al pensiero agostiniano dell'«omnis potestas a Deo per populum», dall'altra le correnti riformatrici che ricercano il fondamento del vincolo che sottomette i singoli all'autorità nella loro stessa volontà la quale liberamente trasferisce l'esercizio del potere al sovrano (Premessa storica). Lo sforzo delle tendenze assolutistiche di conferire al contratto costitutivo della società significato di alienazione definitiva del potere spettante ad ogni contraente appariva privo di ogni fondamento

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razionale, e pertanto doveva cedere alle altre che rivendicano ai singoli la potestà, positiva, costituente e quella, negativa, di resistenza alla oppressione. Nel pensiero politico più maturo (soprattutto in ALTUSIO), meno permeato degli intenti politici che avevano alimentata l'ideologia del contratto sociale, questa perde il primitivo aspetto individualistico, ed appare come esteriorizzazione dell'unità organica del popolo raccolto in una consociazione politica, unità che conferisce il principio di legittimità al potere sorto per realizzarne i fini fondamentali. È questa concezione che apre la via all'idea moderna di costituzione, come espressione di un potere costituente che fonda l'ordinamento e ne dirige e sostiene la funzione limitatrice ed unificante. In contrapposto alle costituzioni consuetudinarie basate sulla tradizione e considerate espressione di una realtà quasi naturale, cui quindi ripugnava lo scritto, si fa valere un'esigenza volontarista e razionalista che conduce a derivare la costituzione dall'intervento creativo dell'uomo. Gli antichi documenti scritti, aventi ad oggetto la disciplina di singoli rapporti, cedono il posto a quelli che si propongono di fissare i princìpi fondamentali capaci di dare unità al sistema della vita associata, di farne risultare, mediante la stessa solennità della consacrazione formale, la loro supremazia rispetto ai poteri che da essa derivano, di offrire la prova e rafforzare le garanzie degli impegni da essi risultanti, a salvaguardia delle libertà, sostituendo al governo degli uomini il governo della legge. In realtà tale mutamento è il risultato dell'emersione di nuove forze sociali che si sostituiscono nella posizione dominante occupata da quelle tradizionali, e che assegnano alla costituzione scritta, insieme ad una funzione polemica di negazione del passato, l'altra di definire il nuovo ordine, stabilizzandone le strutture destinate ad assicurarlo. Ed è degno di nota come i regimi tradizionali, allorché riemergono dall'ondata rivoluzionaria che li aveva sommersi, avvertono una analoga esigenza, e consacrano in solenni dichiarazioni di principio la fonte dell'autorità che li caratterizzava (v. il Preambolo della «Carta» francese del 4 giugno 1814, dovuto al BEUGNOT). Il nome con cui si usa designare i documenti in parola non è ancora quello di costituzione ma l'altro più tradizionale di «lex fundamentalis», nel quale si trova una precisa esplicazione della sua funzione. L'impiego del termine «costituzione» (estraneo alla prassi inglese, com'è comprovato dal fatto che ad esso non si è fatto ricorso anche quando con l'«Instrument of Government» che Cromwell emise nel 1653 si ebbe il primo esempio di costituzione scritta in senso moderno, e non smentita dall'uso che se ne fece per designare l'imputazione fatta valere contro Giacomo II, perché la «costituzione del regno» che si assumeva violata da costui indicava qualcosa di diverso da un corpo organico di norme), si trova per la prima volta in alcuni degli atti nei quali venne consacrata la volontà autonomistica delle colonie nord-americane, e che comprendono princìpi di carattere organizzativo, sia pure generalissimi, ed altri relativi ai diritti dei cittadini (più tipica in questo senso la costituzione del Connecticut del 1776). Più frequente appare però l'uso di distinguere «dichiarazioni di diritti» e «costituzione», considerando specifico delle prime la determinazione della posizione dei cittadini, i cui diritti vengono solo «dichiarati», perché considerati preesistenti e ricavati dalla natura, o anche di alcuni princìpi di organizzazione (come la separazione dei poteri), nei quali appare più accentuata la funzione della garanzia dei diritti; mentre propria della seconda è la disciplina della parte fondamentale dell'organizzazione. Così l'ordinamento della Pensylvania risulta dalla costituzione e dalla dichiarazione dei diritti; e nello stesso senso si è regolato il primo costituente francese (1791), che però ha preposto alla «costituzione» la Dichiarazione dei diritti ch'era stata votata due anni prima. Il fatto che le due parti non siano riunite nello stesso testo, lungi dall'esprimere l'opinione della mancanza di una loro connessione, deriva dal proposito di conferire alle dichiarazioni dei diritti, concepiti nel senso prima ricordato, un rango superiore alle norme organizzative, di valore strumentale rispetto alle prime (7) . 3. Elementi costitutivi del concetto di costituzione. La denominazione di «costituzione», quale risulta al termine dell'evoluzione storica cui si è accennato, appare contrassegnata da tre caratteri che concorrono nel conferirle la supremazia che essa vuole esprimere: il primo, relativo al momento formativo, alla cui perfezione appare essenziale la partecipazione del popolo, configurato non già nella veste di parte di un rapporto avente quale altro termine il sovrano, bensì quale titolare unico del potere di dar vita, con atto unilaterale, all'ordine costituzionale perché fornito di una potestà di volere sopraordinata su ogni altra; il secondo, di carattere

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formale, consistente nella redazione per iscritto, attraverso un procedimento particolarmente solenne, di un complesso di norme, coordinate fra loro in modo organico, regolanti i princìpi ritenuti essenziali all'assetto statale; l'ultimo attinente al fine politico della tutela delle libertà dei cittadini di fronte allo Stato. In sostanza la funzione di tali costituzioni fu di realizzare un nesso fra le strutture organizzative ed il fine politico generale proprio dell'ideologia liberale, fra la libertà dallo Stato e la libertà nello Stato, vedendosi in quest'ultima il mezzo necessario per garantire l'altra, e rivolta a significare non solo la partecipazione dei cittadini alla gestione statale ma altresì una distribuzione del potere autoritario tale da corrispondere al fine della garanzia dei diritti nei confronti del medesimo. Senza diffondersi oltre sui fattori che hanno promosso e contribuito ad estendere il fenomeno delle costituzioni scritte, basterà riaffermare la coessenzialità al «costituzionalismo» di un principio, almeno idealmente ed in potenza democratico, anche se in realtà esso, al suo sorgere e successivamente per lunghissimi periodi di tempo, è stato il prodotto e l'espressione di oligarchie, ed ha dato vita ad assetti su base aristocratica. Una riprova di tale connessione si può desumere dalla constatazione della diversità delle denominazioni (di «Carte», di «Statuti», o, per quelli che intendevano porre in rilievo il carattere bilaterale della loro formazione, di «patti») date alle costituzioni di origine non popolare, proprio allo scopo di differenziarle dalle altre. Con la scomparsa delle situazioni di dominio dinastico sono venute ad eliminarsi le vecchie denominazioni, sicché il nome di «costituzione», nel significato suo specifico, è divenuto generale (8) . 4. I vari significati attribuibili alla costituzione. Il fenomeno delle costituzioni scritte ha condotto a distinguere un concetto di costituzione «assoluto», o per meglio dire «sostanziale» o anche «materiale» (per designare il principio di ordine fondamentale insito in ogni specie di Stato, quali che ne siano il contenuto ed i modi di esplicazione), da uno «relativo», storicamente condizionato e caratterizzato da contrassegni specifici. Si parla di «costituzione in senso formale» per indicare appunto un complesso di norme differenziate dalle altre per via di contrassegni esteriori, e formanti altresì un tutto unitario, indipendentemente dal loro contenuto. È quest'ultimo elemento, della codificazione in un solo testo delle disposizioni cui si attribuisce rilievo preminente, che si fa valere per affermare l'esistenza di una costituzione. Si dice così, per esempio, che l'Inghilterra non ha una costituzione, e ciò nonostante l'esistenza di documenti che contengono i princìpi fondamentali dell'ordinamento politico dello Stato (9) , perché essi non disciplinano interamente la struttura organizzativa ma rinviano alle norme consuetudinarie che ne regolano molte altre parti, mentre le libertà fondamentali risultano da una serie di documenti distinti, già in parte ricordati in precedenza. Si considera tuttavia esistente una costituzione formale anche quando (come è avvenuto in Francia nel 1875) le norme costituzionali non siano consacrate in unico documento, se esse, pur emesse in tempi diversi, si integrano a vicenda formando un insieme organico (10) . Poiché la funzione propria della costituzione, da cui trae la sua preminenza, è di condizionare la validità delle varie attività dello Stato, si ritiene che l'elemento meglio idoneo a renderla effettivamente operante sia di richiedere per ogni sua modifica l'esperimento di procedure diverse da quelle prescritte per la formazione delle leggi ordinarie. Sotto questo riguardo le costituzioni in senso formale si suddistinguono in costituzioni «flessibili» e «rigide»; con possibilità di ulteriori sottodistinzioni nell'àmbito di quest'ultime, secondo che la costituzione sottragga alcune delle sue norme ad ogni revisione, o richieda per la loro modifica procedure superaggravate (11) . Secondo un punto di vista diverso da quello prima considerato viene dato alla figura della costituzione formale un significato ampio che prescinde dalla rigidezza o flessibilità e prende in considerazione la funzione che sempre le norme comprese nella carta fondamentale adempiono di condizionare la validità degli atti derivati (12) . Ad un analogo orientamento, che potrebbe chiamarsi formale-sostanziale, si ispirano coloro che utilizzano la distinzione tra forma e sostanza per mettere in rilievo l'esistenza in ogni documento costituzionale di un contenuto tipico che lo caratterizza e ne esprime l'essenza, sicché non sarebbe possibile non includerlo nel medesimo, e di un altro meramente accidentale, che può mancare o essere mutato senza che ciò eserciti influenza sulla restante parte.

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Quando si tenga presente il rilievo per ultimo formulato, si è condotti ad attribuire alla distinzione, basata sulla esistenza o no di procedure aggravate per operare dei mutamenti costituzionali, un carattere del tutto relativo: infatti ogni costituzione contiene una parte sottratta ad ogni possibilità di revisione, cioè rigida in senso assoluto, e poiché è questa che la contrassegna, ogni suo mutamento avrebbe per effetto di farla venir meno (13) . Sotto lo stesso riguardo della materia inserita nella costituzione si sogliono distinguere le costituzioni «brevi» da quelle «lunghe». Lo svolgimento storico ha condotto ad ampliare sempre più il numero degli articoli inseriti nella costituzione, fino ad arrivare ai 315 di quella indiana: il che è dovuto in parte alla complessità dei rapporti da regolare, in relazione alla particolare struttura sociale e politica dello Stato, come è il caso dell'India, nonché all'accrescimento dei compiti statali, ma ancora ed in parte all'illusione di trovare in garanzie di carattere formale un surrogato di quelle sostanziali che fanno difetto negli ambienti nei quali mancano sufficienti tradizioni di libertà. Considerazione quest'ultima che dà ragione di altra distinzione che si suol fare tra costituzioni «storiche» e costituzioni «dogmatiche». L'ideologia che presiedette alla formazione delle due prime costituzioni moderne (e che, diffondendosi poi in tutti gli Stati occidentali, pur sulla base di differenti sostrati sociali e seguendo linee di svolgimento diverse, venne a dar vita ad un diritto costituzionale comune, perché dappertutto animato dagli stessi grandi princìpi informatori) ha condotto ad assolutizzare alcuni dei caratteri che si sono ricordati, considerandoli non, quali in realtà sono, legati a contingenze storiche, ma necessari ad integrare il concetto stesso di costituzione. Si parla in tal caso di un concetto ideale di costituzione, ossia della «costituzione in senso ideale». Così la codificazione in unico testo delle disposizioni fondamentali fu intesa valevole non già solo nella misura in cui essa con sente di tradurre sul piano giuridico il principio politico che l'ispira, ma anche a dar vita ad un sistema chiuso, onnicomprensivo e senza lacune, di per sé sufficiente a raccogliere ed a dare ordine ad ogni specie di rapporti, in ogni contingenza, e non mai derogabile (14) . Analogamente la funzione di garanzia attribuita alla codificazione stessa fece considerare necessaria la rigidezza, e di conseguenza ritenere che la nozione di costituzione rimarrebbe priva di significato positivo e di vera ragion d'essere giuridica ove venisse a mancare quel requisito (15) . Ancora, sotto l'aspetto del contenuto, gli ideali di vita consacrati nelle «Carte dei diritti» furono considerati sub specie aeternitatis, così da far dire che «lo Stato che non si informi ad essi non ha costituzione» (16) . Da un altro lato, l'avere identificato il potere costituente con il popolo, o con la nazione sovrana, condusse a lasciare nell'ombra le forze reali che sole posseggono la capacità di assumere e di far valere, legittimandola, l'autorità da cui un ordinamento trae vita, e viene indirizzato verso i fini politici di cui esse sono esponenti. La rappresentazione dei diritti fondamentali consacrati nelle «dichiarazioni» che si sono ricordate quali diritti di natura, e, come tali, sopraordinati alla volontà del Costituente non è sufficiente ad occultare il carattere di scelta politica effettuata dalle classi che li proclamavano; secondo appare palese dal diverso rilievo dato alle varie libertà, e come è confermato dalla divergenza riscontrabile fra l'attuazione data ai princìpi e le loro enunciazioni (17) . Per completare la serie delle distinzioni possibili fra i vari modi di configurare la costituzione, è da ricordare quella, fatta valere dalla dottrina marxista-leninista, che si richiama alla considerazione enunciata per ultimo della realtà sociale sottostante alle forme giuridiche e che porta a contrapporre le «costituzioni - programma» alle «costituzioni - bilancio», secondo che esse tendano ad affermare l'esigenza del raggiungimento di fini ancora lontani dal trovare concreta realizzazione (e che perciò appaiono espressione di una tensione fra il sistema in atto e quello che si vorrebbe attuare), o viceversa riflettano una struttura sociale che abbia già conseguito il suo equilibrio, del quale la costituzione vuol essere dichiarazione e guida per i successivi svolgimenti. Si collegano in sostanza ai presupposti su cui implicitamente poggia quest'ultima distinzione, e muovono perciò da un concetto di costituzione delimitato storicamente nel tempo, al pari di quello derivato dalla filosofia razionalista, le opinioni che, considerando inapplicabile il concetto stesso alle società pluraliste contemporanee, lo riducono di conseguenza a mero relitto storico, pura sopravvivenza

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(18) . La costituzione, secondo tali opinioni, è espressione di staticità, richiede l'unità del sistema giuridico, il monopolio della coazione con la correlativa sottoposizione effettiva ad essa della totalità della vita politica. Essa diviene pertanto inutilizzabile nelle comunità eterogenee, le quali, pel fatto di trovarsi in fase di divenire; presentano una molteplicità di centri di autorità, una diffusione non coordinata, né facilmente coordinabile del potere. È da riconoscere che effettivamente nelle costituzioni le quali si formano nei periodi di passaggio da un tipo di Stato ad un altro, come risultato di compromessi tra forze politiche eterogenee e fra loro contrastanti, perché portatrici di valori irriducibili l'uno all'altro nei loro nuclei fondamentali, si realizza un equilibrio instabile che toglie alla costituzione la possibilità di raccogliere sotto di sé, in modo anche solo relativamente unitario, tutto l'insieme dei rapporti sociali. L'esame delle costituzioni appartenenti a siffatto tipo «compromissorio» mostra come in esse, o viene omessa la disciplina di quei rapporti sociali in ordine ai quali non si è raggiunto alcun accordo, o se ne dà una solo apparente, ricorrendosi a forme di compromesso che lo SCHMITT ha chiamato «dilatorie», oppure si accolgono (senza poterle armonizzare, ma solo giustapponendole), disposizioni fra loro eterogenee, corrispondenti alle ideologie di uno o dell'altro dei gruppi che hanno partecipato alla loro formazione. È chiaro come tali costituzioni riescano a realizzare un ordine in sé non equilibrato, esposto com'è al giuoco delle forze contrastanti, tendente a rompersi in favore di quelle fra esse che, di volta in volta, riescano a prevalere, così che le divergenze fra i loro precetti e la concreta loro attuazione, fra costituzione «formale» e costituzione «reale», divengono frequenti e gravi. La crisi del «costituzionalismo» non è che il riflesso della crisi dello Stato, qual è derivata dalle profonde trasformazioni sociali intervenute. Sarebbe però erroneo ritenere che negli ordinamenti omogenei, unificati intorno a valori generalmente accolti dai consociati, si renda possibile alla costituzione formale di soddisfare in pieno l'esigenza di stabilizzazione e di certezza, che ad essa si suole collegare. Si avrà occasione di notare in seguito che fenomeni, come quelli di «rottura» o di «sospensione» della costituzione, o, altrimenti, di contrasto fra le proclamazioni dei princìpi consacrati nei testi e la concreta attuazione data ad essi si presentano costantemente, sia pure con diversa intensità, in ogni tipo di ordinamento. Ciò perché la costituzione formale non è mai autoscopo, bensì sempre strumento rivolto alla realizzazione di determinate finalità, e quindi soggetto a subire quelle compressioni o deformazioni che si dimostrino, di volta in volta, necessarie per poterle soddisfare (19) . 5. Fattori che promuovono lo studio della costituzione sotto l'aspetto giuridico. Determinazione dei problemi che ne sono oggetto. Si è già avuto occasione di notare come la diffusione dell'interesse della scienza del diritto per lo studio della costituzione segue abbastanza davvicino l'espandersi dell'uso delle costituzioni scritte. Ciò si spiega con facilità pensando che l'attenzione dei giuristi doveva sentirsi più specialmente attratta a tale studio quando essi poterono porre a suo oggetto un corpo più o meno organico di norme, qual era quello consacrato nelle costituzioni scritte, ed applicare al medesimo gli strumenti propri della dommatica giuridica. Ma i caratteri che alla costituzione provengono dal rango che essa occupa nell'ordine delle fonti presentano peculiarità tali da non potere essere adeguatamente intese col semplice sussidio del metodo deduttivo. Le insufficienze che ebbero ben presto a palesarsi nei risultati dell'indagine effettuata con i soli strumenti tradizionali della tecnica giuridica hanno persuaso della necessità di ampliare l'àmbito della ricerca; ciò che in definitiva ha condotto ad un approfondimento dei problemi più generali relativi al modo di intendere e valutare il fenomeno giuridico. Uno studio che voglia rivolgersi, dal punto di vista della scienza del diritto, a tutti gli aspetti del concetto di costituzione, e non già ad alcuni di essi individuabili sulla base dell'analogia dei caratteri presentati da gruppi di costituzioni (come fanno le opinioni riferite le quali dall'osservazione delle odierne strutture politiche sono condotte ad escludere l'utilizzabilità del concetto stesso) deve proporsi di ricercare gli elementi necessari e sufficienti a configurarlo in modo che riesca spiegata la funzione specifica della costituzione. E poiché tale ricerca non potrebbe utilmente effettuarsi se non si assumesse previamente un criterio in ordine al modo di intendere la categoria della giuridicità, si rende necessario precisare quello che viene qui assunto.

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Il mondo del diritto non può configurarsi altrimenti che come il mondo del dover essere, caratterizzato dall'esigenza di assicurare la conformità dei comportamenti dei membri del gruppo sociale a determinati criteri rivolti a qualificarli nel senso ritenuto più idoneo alla soddisfazione dei bisogni comuni. Criteri che, per adempiere alla loro propria funzione, devono porsi quali norme trascendenti le volontà dei loro destinatari (20) e che operano di solito non già solo come giudizio presente di comportamenti passati (fatto valere dall'autorità in cui si incarna la volontà comune obiettivata), ma altresì come comandi destinati ad essere realizzati anche coattivamente in caso di trasgressione. A tale ineliminabile esigenza è legato il carattere sanzionatorio da attribuire alla norma giuridica (21) . Dai caratteri ora rilevati, inerenti alle norme, si desume come la loro giuridicità risulti dalla inserzione di queste ultime in un'entità organizzativa nella quale ritrovano un'unità sistematica e da cui traggono la validità ed insieme l'efficacia che le rende concretamente operanti e ne fa prevedere l'attuazione, in via di media, anche in avvenire, conferendo la stabilità e la certezza necessarie ai rapporti ai quali si rivolgono. Il nome di «ordinamento» è quello che meglio designa l'entità di cui si è parlato, e ad esso bisogna risalire onde poter cogliere e sistemare, da un punto di vista unitario, l'intera esperienza giuridica. Se comune è la convinzione della esigenza di un rapporto fra norma ed ordinamento (22) , diversità vi sono circa il modo di considerare il rapporto stesso e che derivano dal diverso modo di intendere il concetto di ordinamento. Su tale punto occorre fermarsi, poiché, come risulterà dalla successiva esposizione, in esso confluisce lo stesso problema della costituzione. 6. Cenni sull'elemento primigenio dell'esperienza giuridica: norma o ordinamento? Si tratta in particolare di accertare se il prius del fenomeno giuridico sia da considerare la norma o l'ordinamento. Deve essere chiaro che nel porre tale problema non si intende contrapporre fra loro i due termini (poiché anche l'ordinamento, in conformità del resto al suo significato letterale, etimologico e storico: ordo = disposizione ordinata di più parti che compongono un insieme, non può non incorporare in sé una normatività, e precisamente quella che si rivela nella regolarità delle sue estrinsecazioni), bensì vedere se le norme, di per sé prese, posseggano un'intrinseca giuridicità, o se, invece, questa sia da far derivare da un principio o da un'entità che in certo modo logicamente e temporalmente le preceda, pur partecipando della loro stessa natura giuridica, e se ne ponga come fonte (nel senso di fondamento di validità), cioè presieda in modo continuativo al processo di produzione delle medesime, conferendo loro il crisma della giuridicità. Si è sostenuto che l'unità sistematica di un complesso di norme sia da considerare non già come fonte, essendo invece un prodotto a posteriori. Il fatto dell'esistenza di date norme, qual è offerto dall'osservazione di ciò che avviene in una società, sarebbe sufficiente a farle ritenere giuridiche, mentre la giuridicità del sistema sarebbe solo un derivato, un riflesso delle norme stesse. Muovendo da quest'ultima impostazione si è affermato, in particolare, che la spontaneità del processo di produzione del diritto (spontaneità sempre riscontrabile negli ordinamenti originari) fa venir meno il problema della ricerca di una fonte di produzione delle norme (23) . Tale tesi non è da accogliere, non apparendo possibile prescindere dalla determinazione di una fonte, intesa quale punto fermo (nel tempo e nell'àmbito spaziale proprio dell'ordinamento) da cui attingono valore giuridico ed a cui si ricollegano le varie manifestazioni le quali presentano i caratteri che consentono di ricondurre queste ad uno stesso sistema. Sarà compito della successiva trattazione, dedicata all'esame delle varie concezioni della costituzione, mostrare come anche coloro che contestano il ricorso al concetto di «fonte» non possono prescindere dal fare riferimento ad un'entità stabile in sé ordinata (anche se poi finiscono per intendere quest'ordine in senso meramente sociologico e pre-giuridico) (24) . Dev'essere, in proposito, riaffermato che quando si propone la ricerca della fonte di un ordinamento non ci si vuole riferire né a valori desumibili da altri ordini di conoscenze (poiché l'ordinamento non solo non può fondarsi su di essi, ma, richiamandoli, nella misura in cui lo ritenga rilevante ai propri fini, se ne pone a fondamento, conferendo loro validità nella propria sfera), né ai fattori che storicamente ne hanno influenzato il sorgere, e neppure richiamarsi alla «convinzione collettiva» quale può essere desunta dal fatto della media obbedienza, della media conformità dei comportamenti ai precetti (25) .

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La convinzione collettiva (se non la si assuma come mera descrizione del meccanismo psicologico attraverso cui un comando eteronomo riesca a farsi valere, oppure come rappresentazione conoscitiva del fatto normativo, se si prescinda da presupposti giusnaturalistici che riconducano all'adesione dei soggetti la legittimazione dell'ordinamento, e si rigetti altresì la concezione che disconosce l'eteronomia della norma giuridica), non può porsi come fonte. Con riserva di esaminare in seguito il rapporto da porre fra validità ed effettività dell'ordinamento, è da osservare che il fatto psicologico, in sé considerato, è un fatto neutro, non qualificato, che accompagna ogni manifestazione di vita associata e non risponde alla domanda rivolta ad indagare ciò che dirige e stabilizza la convinzione, la forza attiva di impulso e di orientamento, che determina l'obbedienza e quindi la precede, la condiziona e tende a mantenerla ferma nel tempo. Sicché si rende necessario risalire ad una fondamentale struttura organizzativa, ricercare, in relazione al tipo di ordinamento, i caratteri che questa deve presentare per poter adempiere alla funzione costitutiva e di garanzia che le è propria. 7. Il problema della costituzione secondo il positivismo agnostico e quello critico. Assunto il concetto di fonte, nel senso che si è detto, è da porsi il quesito se i mezzi necessari per giungere alla sua conoscenza siano quelli propri della ricerca giuridica, o se invece, rimanendo a questa estranei, debba il concetto stesso confinarsi nel campo dell'inconoscibile giuridico. Il positivismo, nella maggior parte delle sue manifestazioni, ha assunto tale posizione negativa, di agnosticismo, nella considerazione dell'impossibilità di applicare a tale scopo il procedimento deduttivo, ritenuto proprio del pensiero giuridico. Infatti, la fonte di ogni ordinamento originario, appunto per esser fonte primigenia, non può rimanere condizionata ad un diritto preesistente, ma solo a meri procedimenti di fatto, insuscettibili di essere classificati in una qualsiasi categoria giuridica (26) . È stato efficacemente messo in rilievo come in nessun caso l'esistenza materiale di un fatto possa offrire la base per un giudizio giuridico, qual è pure quello con cui si afferma l'esistenza di un ordinamento (27) . L'esperienza empirica di certi accadimenti non può condurre a farli valutare ove previamente non si assuma un criterio idoneo a selezionarli, a determinare i caratteri e la rilevanza di ciascuno, il grado della regolarità necessaria a presupporsi in essi. L'acquisto di tale consapevolezza ha condotto il pensiero scientifico, in un suo grado ulteriore di evoluzione, ad assumere fra i compiti suoi propri quello di risalire ad un criterio primo capace di rendere ragione, in termini di diritto e quindi di normatività, dell'obbligatorietà di un sistema positivo. A siffatta consapevolezza critica si è pervenuti per vie e secondo svolgimenti diversi, se anche in notevole parte convergenti. Una di esse è quella percorsa dal PERASSI (28) , per cui la conoscenza «dommatica» di qualsiasi ordinamento positivo (la conoscenza cioè dei processi di produzione, o altrimenti detti di qualificazione, relativi alla serie dei rapporti che in esso si coordinano in sistema) conduce a risalire ad una norma prima originaria. Tale norma, pur assumendo valore di vero e proprio criterio giuridico necessario a spiegare l'intera successione dei fatti di produzione che ne derivano, ha questo di particolare: di poter essere conosciuta secondo uno schema logico diverso da quello dal quale si fa dipendere la conoscenza del carattere giuridico delle altre norme dello stesso ordinamento, assumendo così la posizione di «postulato»; posizione che tuttavia, mentre non impedisce di farla considerare vera e propria norma costitutiva del sistema, esige la nozione sociologica dell'ordinamento giuridico cui essa si riferisce. La sua determinazione deve pertanto, in definitiva, risultare da una scienza giuridico-sociologica distinta da quella giuridico-dommatica, per la quale la norma-base rimane un mistero (29) . 8. In particolare, secondo il Kelsen. Da premesse analoghe a quelle ora considerate (ma muovendo da impostazioni non «dommatiche», bensì «teoretiche») muove anche il KELSEN, quando afferma la necessità di ricollegare la validità del diritto positivo ad una norma fondamentale. La «purezza» del metodo proprio della scienza giuridica, qual è sostenuta dal KELSEN, deve condurre a respingere ogni contaminazione con ordini di conoscenze diversi, come quello della sociologia cui il PERASSI si richiamava, ed a far considerare la norma-base una mera sintesi concettuale delle varie norme, da presupporre in via giuridico-logica, quale ipotesi necessaria e sufficiente a spiegare come

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siano possibili le proposizioni concernenti le valutazioni normative, e perciò a porsi quale condizione di pensabilità del fenomeno giuridico. La norma in parola è assunta a contenuto di una costituzione in senso giuridico-logico, che precede e condiziona la costituzione in senso giuridico-positivo, e che, a differenza di quest'ultima, avente la funzione di disciplinare il procedimento legislativo, assume l'altra di dar ragione del come sia possibile imporre tale disciplina (30) . Muovendo dalla raffigurazione del carattere «dinamico» proprio del sistema giuridico, le cui norme si riconducono ad esso non già in ragione della conformità del loro contenuto (deducibile in via logico-deduttiva) ai valori prescritti da una norma superiore, ma solo in virtù della comune derivazione da una volontà abilitata a porle, il KELSEN configura la norma-base dell'ordinamento statale come rivolta a stabilire che gli atti da esso garantiti debbano compiersi alle condizioni e secondo i modi determinati dai «padri» della costituzione originaria, o dagli organi da essi delegati. Il principio di legittimità, che inerisce a tale modo di considerare la norma-base, conduce a far ritenere derivati da essa (e perciò validi), tutti quei mutamenti che, anche se abbiano per effetto la sovversione del precedente assetto, si verifichino tuttavia nelle forme da questo prescritte, mentre ogni mutamento effettuato senza la loro osservanza, determina una frattura tra vecchio e nuovo, venendo a rivestire di conseguenza carattere rivoluzionario (31) . È noto come il KELSEN, di fronte alle critiche mosse alla sua concezione, cui si è imputato di essere espressione di «giusnaturalismo logico», o di puro nominalismo, ha convenuto nell'esigenza di affermare, accanto al principio di legittimità che adempie alla funzione di rendere valido l'ordinamento, quello della «effettività», ma intendendolo solo come condicio sine qua non, valutabile perciò a posteriori, e la cui mancanza, ove venisse accertata nei confronti non già di singole parti ma della totalità dell'ordinamento ne determinerebbe la cessazione (32) . 9. Esame critico della concezione del Kelsen. Non è contestabile il merito del KELSEN nel far valere l'esigenza di ancorare l'ordinamento positivo ad un punto fermo, inteso come criterio idoneo ad identificarlo, a farne conoscere la permanenza nel tempo, nonché correlativamente il momento della sua cessazione. Inaccettabile è invece l'identificare tale punto fermo in una norma solo ipotetica, avulsa dalla struttura su cui si radica, relegata nel campo dell'inconoscibile giuridico. Non sembra possibile che la norma ipotetica assuma valore scientifico (e non potrebbe non possederlo quella cui si affida non già solo la funzione di postulato logico, ma altresì l'altra di porsi a fondamento di un sistema positivo) se non a patto di disporre di un criterio capace di discriminare in modo obiettivo i dati offerti dall'esperienza, onde graduarne il diverso rilievo al fine della determinazione del contenuto della norma predetta. Senonché tale possibilità viene meno quando si ritenga che l'esperienza, intesa come realtà meramente esistenziale, debba rimanere sottratta ai mezzi di conoscenza propri dell'indagine giuridica. Rimanendo affidata alla libertà dell'interprete la scelta del materiale da cui attingere la norma base, questa non può che rivestire carattere arbitrario, e rappresentarsi in modo vario in ragione del differente punto di vista da cui si muova (33) . D'altra parte se si riconosce, con il richiamo fatto al requisito dell'effettività, di non poter prescindere dal mondo dei fatti, dalla realtà dell'accadere, non si riesce ad evitare la contraddizione con le premesse che conducevano a far ritenere l'estraneità di questa al mondo del dover essere giuridico. Né vale ad eliminarla il distinguere tra fondamento di validità (condicio per quam) e condizione (sine qua non) di efficacia: poiché tale distinzione, esatta se riferita alle norme derivate, non lo è più nei confronti della norma assolutamente primaria, su cui il tutto si fonda e da cui tutto deriva. Se poi si ha riguardo al contenuto che il KELSEN ritiene proprio della norma base, si deve contestare che, concepito com'è in modo formalistico, possa adempiere alla funzione ad essa attribuita. Non adempie infatti a quella di raccogliere in unità coerente le varie manifestazioni dell'ordine giuridico, riuscendo a ciò solo per quella sua parte costituita dalla produzione normativa, non già per l'altra cui dà vita l'esercizio della discrezionalità (e della stessa attività interpretativa), perché le manifestazioni di questa non sono suscettibili di collegarsi al sistema delle norme in virtù di una concatenazione logico-deduttiva (34) . Non soddisfa neppure l'altra esigenza di rendere possibile il giudizio sulla permanenza dell'ordinamento pur nel mutare delle sue strutture, poiché, se il criterio a ciò necessario si desuma dalla

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considerazione delle forme prescritte per il mutamento, lo si priva della validità generale che dovrebbe avere, riuscendo utilizzabile solo per le costituzioni scritte, e si finisce con lo svuotare la norma-base del valore conoscitivo della realtà da cui emerge, che dovrebbe costituire la vera ragione del ricorso ad essa (35) . 10. I fatti che operano in funzione di fonte dell'ordinamento. Le precedenti osservazioni hanno mostrato come l'importanza da attribuire al pensiero del KELSEN non stia nelle soluzioni da questi accolte, che si rivelano poco persuasive, bensì nella fecondità delle impostazioni da cui muove e della problematica che ne deriva. Se si afferma l'esigenza di un ordine primario (raffigurato in una norma-base, che non sia intesa come condizione di pensabilità di un ordine giuridico e neppure mera ipotesi razionale, bensì fondamento di validità dell'intero sistema) e si riconosca che essa non può riuscire soddisfatta se non a patto che venga eliminato ogni carattere di arbitrarietà e di genericità nella determinazione del contenuto specifico del principio dell'ordine primario medesimo, e se, d'altra parte, si riconosca che il principio stesso assume valore giuridico solo in quanto se ne accerti la effettiva operatività, quale risulta dall'osservazione offerta dall'esperienza del concreto accadere, è uopo concludere: a) che procedere a tale osservazione del fatto non può reputarsi estraneo al compito ed alle capacità del giurista, visto che da essa deve farsi derivare un giudizio di esistenza o meno dell'ordine normativo (36) ; b) che se la vigenza, quale emerge dall'osservazione dei fatti, deve considerarsi elemento necessario a conferire giuridicità alla norma, è da escludere che essa assuma un valore distinto da quello della validità e sia rilevante solo a posteriori. Se la norma-base non è giuridica se non a patto che se ne accerti la effettiva osservanza, non è possibile procedere alla sua identificazione ove non si muova dall'osservazione del fatto, e quest'ultimo non può non considerarsi elemento necessario a conferirle validità. Alla stregua di quanto ora osservato, la tesi del KELSEN dovrebbe essere rovesciata, nel senso di attribuire alla positività o vigenza un valore autonomo, costitutivo di ogni particolare ordine giuridico considerato nel suo complesso, ed irradiantesi poi sulle varie norme che entrano a comporlo. Si può dunque concludere che il sistema normativo ha la sua radice ed il suo fondamento ultimo in una realtà sociale. Il principio primo di tale sistema (come che si pensi di poterlo raffigurare, o, partendo dalla concezione formalistica del KELSEN, come una unica norma-base, o, secondo invece appare più esatto, un insieme coordinato di una serie di norme supreme) poggia su un supporto reale, che opera quale fonte di giuridificazione e conferisce ad esso validità. È degno di nota come, nonostante la diversità delle premesse e la varietà delle formulazioni, la maggiore o minore consapevolezza della portata delle ammissioni fatte, si riscontri una sostanziale convergenza di opinioni circa la rilevanza da assegnare a tale fonte che condiziona le singole norme e ne opera la coordinazione in sistema. Sicché, sotto questo riguardo, normativismo e istituzionalismo (mentre si presentano fra loro contrapposti) finiscono per avvicinarsi quando si richiamano ad un ordine iniziale che deve avere in se stesso una sua legge di vita (37) . Lo stesso KELSEN, nella cui opera sembra trovarsi la più recisa contrapposizione tra fatto e diritto, fra essere e dover essere, ha avvertito come con il conferire carattere meramente ipotetico alla norma base si finisce con lo svuotarla di ogni utilità, ed ha perciò affermato che il suo contenuto debba essere determinato sulla base del materiale offerto dall'esperienza dell'ordinamento cui si riferisce e concretarsi negli atti effettivamente compiuti dagli associati, da valutare come atti giuridici (38) . Se il fatto sociale precede la norma-base e le conferisce un contenuto corrispondente ai fini propri della consociazione, non si dovrà riconoscerle valore e funzione di fonte della medesima? Si potrà non attribuirle una intrinseca giuridicità (39) ? In sostanza, i dissensi che si riscontrano fra le varie correnti dottrinali rivolte ad indagare il problema della fonte dell'ordine costituzionale nascono non già dal contestare il bisogno che vi è di risalire dal sistema normativo ad un'entità sociale che lo condiziona, bensì dal non avere sempre dedotto dalle premesse poste le conseguenze che pur dovevano apparire in esse implicite, dall'avere cioè trascurato l'indagine (ritenuta estranea al compito della scienza del diritto) degli elementi da prendere in considerazione al fine: a) di individuare l'assetto tipico intrinseco ad una data società, o, come anche può dirsi, il soggetto reale che promuove e sostiene l'ordine legale, b) di determinare il contenuto e

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l'estensione della funzione ad esso inerente (funzione da limitare secondo alcuni solo al momento del primo costituirsi dell'ordinamento, secondo altri invece persistente anche nell'ulteriore corso della vita di questo), c) di definire, ove si accolga l'ultimo dei punti di vista ora indicati, il rapporto fra l'ordine legale, risultante dal diritto «posto», attraverso gli svolgimenti dati alla norma-base, e l'ordine che è espressione del diritto «presupposto», da cui trae alimento quest'ultima. Una volta escluso che il momento formativo dello Stato sia estraneo al diritto, una volta ammessa una giuridicità intrinseca ad esso e tale da conferire validità al diritto derivante dagli organi successivamente costituiti, non sembra logico porre una differenza di essenza fra l'una e l'altra specie di diritto, considerare cioè quella che si suole chiamare «costituzione reale», se non proprio contrapposta, giustapposta alla «costituzione giuridica». Se si parte dall'assunto che la prima non si esaurisca con il concludersi della fase dell'instaurazione dello Stato, e non sia assorbita interamente nella seconda (come vorrebbe una tesi che si prenderà in esame) ed invece si affermi l'esigenza di trovare nella prima la ragione dell'effettivo vigore dell'altra, uopo è rendersi conto del nesso fra le due e della funzione corrispettivamente spettante a ciascuna (40) . Sotto quest'aspetto la contrapposizione fra «ciò che è» e «ciò che dev'essere» è in certo modo trascesa, poiché anche ciò che è, se non sia pura descrizione empirica di un accadere, ma presupponga una valutazione di esso quale fenomeno giuridico, deve, per potersene affermare l'esistenza, presentare caratteri di obiettività, di doverosità, di costanza, tali da far ritenere che ciò che accade (ed è «probabile» che accada in avvenire, dal punto di vista dell'osservazione sociologica) deve accadere (ossia determina la pretesa a che accada), e ciò in virtù di un vincolo intrinseco ai rapporti che si svolgono nel gruppo, in virtù cioè di un'organizzazione coattiva. Se è vero che a tale scopo bisogna muovere dall'osservazione del modo di operare, dell'effettivo prodursi dei comportamenti, non ci si può limitare a descriverli, occorrendo anche interpretarli alla stregua del concetto che si assuma del diritto, e, più precisamente, sulla base di quanto si è detto prima, alla stregua del concetto di un ordinamento valido ed efficace nel suo complesso (41) . 11. Caratteri da attribuire a tali fatti. Vari modi di intendere il soggetto reale che dà vita alla costituzione. L'indagine da effettuare per prima è dunque quella rivolta a determinare i caratteri dell'entità che si pone quale potere di fatto, operante come sostrato reale, supporto o fonte prima dell'ordine normativo, e che è quindi portatrice dell'interesse o della serie degli interessi specifici i quali promuovono la formazione dell'ordine stesso e lo caratterizzano (42) . La varietà che si riscontra nella dottrina circa il modo di configurare il soggetto reale discende dalla varietà delle interpretazioni date del fenomeno giuridico in generale e della funzione ad esso inerente. Se tale funzione si intenda nel senso prima chiarito, dovrebbe riuscire non dubbio che la qualifica di «reale» data al soggetto di cui si parla implichi il possesso da parte sua non solo di una capacità di azione concreta, ma di un tipo di azione suscettibile di esplicarsi in modo continuativo, ed altresì così qualificata da assicurare, da una parte, un minimo di durata all'ordinamento e, dall'altra, da caratterizzare il particolare tipo di Stato, consentendo di determinare il momento del suo inizio e della sua fine. Sotto quest'aspetto si palesano ovviamente insoddisfacenti sia le concezioni che si sogliono chiamare «realistiche» o «empiriche», e che identificano la realtà ultima sulla quale si fonda lo Stato con le persone fisiche dei governanti, quali effettivi titolari del potere supremo (43) , sia le altre che invece la riconducono alla popolazione. Pur apparendo contrapposte, le une e le altre presentano la stessa insufficienza, perché non soddisfano all'esigenza prospettata di render conto del modo di essere dell'ordine necessario a conferire giuridicità allo Stato e conducono a risultati ugualmente aberranti: di far coincidere la nascita e la fine dello Stato, o con l'assunzione in carica e la cessazione da essa delle persone fisiche dei governanti (44) oppure con la permanenza o no della stessa popolazione risiedente nel territorio, quali che siano i mutamenti, anche se radicali, verificatisi nella sua composizione o nei fini che ne determinano l'aggregazione. Un tentativo per superare le obiezioni suscitate dalla seconda delle correnti di opinione ora riferite è quello effettuato dagli organicisti, i quali mettono a base dello Stato il popolo inteso come unità vivente, unificato da uno spirito comune, che, finché permane, determina, trasmettendosi di generazione in generazione, la continuità dello Stato, alla pari di un vero e proprio organismo dotato di vita propria

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(45) . Qui il popolo appare qualificato in virtù di una serie di caratteri destinati a riflettersi nell'ordinamento costituzionale, e che si dovrebbero ritenere tali da consentire anche un giudizio sulla permanenza o meno del medesimo, in correlazione ai mutamenti che in esso si verificano. Senonché l'alternativa che si presenta è: o di attribuire al popolo unificato, nel senso che si è detto, una propria capacità di azione alla pari di un organismo umano, e allora i singoli vengono in certo modo privati della loro individualità, assorbiti come sono nell'ente collettivo, o viceversa di considerare l'unificazione quale risultante dal concorso delle volontà singole (come fa il GIERKE), ed allora, non essendo possibile fare emergere da queste ultime una volontà unitaria, occorre risalire ad un'organizzazione, discriminare cioè nell'universalità dei cittadini quelle fra tali volontà capaci di concorrere attivamente alla sua formazione, ed effettivamente a ciò abilitate, dalle altre che rimangono nella posizione di mero oggetto della volontà collettiva (46) . 12. (Segue): le teorie della nazione. Né il problema si chiarisce quando si proceda ad una più specifica qualificazione del vincolo dal quale si fa derivare l'unità del popolo che si vuol porre a base dello Stato: così come avviene con le teorie della nazione, fiorite nell'epoca moderna. Il merito che potrebbe attribuirsi a tale qualificazione, (pel rilievo da questa implicitamente dato a determinati valori, intesi quali creativi di un'omogeneità atta a promuovere l'aggregazione dei singoli in un organismo unitario fornito di determinati lineamenti distintivi) si palesa poi in realtà poco consistente quando si consideri l'estrema genericità dei caratteri da cui essa risulta, e l'impossibilità di riscontrare quel minimo di requisiti indispensabili per dar vita ad un soggetto capace di azione (47) . La semplice consapevolezza di una comunanza di interessi (se opera quale uno dei possibili impulsi verso l'unificazione) ha funzione di mero presupposto pel sorgere dello Stato, ma non basta a rendere attiva l'entità nel cui seno si manifesta, non basta a conferirle un potere qualsiasi, anche semplicemente di fatto. Coloro che si sono richiamati ad un potere di diversa natura non sono riusciti a dimostrarne l'effettiva sussistenza; ed anzi esso dovrebbe negarsi, se è vero, come essi stessi affermano, che ogni possibilità di azione rimane concentrata nell'organizzazione dello Stato, mentre il rapporto di rappresentanza, che si afferma sussistere fra la medesima e la nazione, risulta sfornito in definitiva di pratico significato, data la mancanza di ogni congegno idoneo a comprovare la corrispondenza dell'attività statale con gli interessi nazionali (48) . Non può neanche attribuirsi una rilevanza al sostrato nazionale sotto l'aspetto di una necessaria correlazione del medesimo con un determinato tipo di organizzazione statale, essendo invece ben noto come la determinazione del sistema da ritenere più idoneo per far rappresentare dallo Stato la volontà nazionale è stata effettuata sulla base di criteri assai diversi, ispirati, più o meno consapevolmente, da intenti politici (49) . Si potrebbe pensare di attribuire al sostrato nazionale la funzione di identificare il tipo di Stato, nel senso di considerarlo mantenuto fino a quando quel sostrato permane. Ma, a parte il rilievo (che troverà svolgimento in seguito) se esso sia sufficiente ad adempierla, rimane da stabilire se la corrispondenza fra i due termini debba argomentarsi dal riferimento che le norme positive facciano al sostrato predetto o dalla permanenza effettiva di questo. Nel quale ultimo caso si ripresenta il quesito circa i caratteri da prendere in considerazione per poterla identificare. Appare degno di nota come da alcune fra le meglio elaborate opinioni qui prese in esame si ammetta, almeno implicitamente, l'insufficienza, al fine della caratterizzazione di un determinato aggregato nazionale, della pura e semplice sussistenza nei suoi componenti di una generica «volontà di vivere insieme», e si affermi quindi la necessità di risalire a particolari modi di atteggiarsi di tale volontà, a orientamenti e valori specifici, che non possono non qualificarsi lato sensu politici e che esigono strutture statali capaci di dare ad essi soddisfazione (50) . Ma, se così è, non si dovrebbe dubitare della necessità, al fine dell'identificazione del tipo di Stato e della sua permanenza nel tempo, di richiamarsi non già solo al persistere del generico sentimento nazionale, bensì al mantenimento o meno di quei determinati orientamenti e valori, nonché delle forze da cui promanano. Il dire che una nazione, la quale si assorbe o si identifica in un singolo momento in uno di tali tipi di Stato, riacquista poi la sua autonomia agendo in modo diretto ed immediato quando infrange l'ordine costituito per dar vita ad uno diverso, significa trascurare l'ovvia considerazione che l'esercizio

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dell'asserita autonomia presuppone un'organizzazione, e questa, a sua volta, non può effettuarsi altrimenti che secondo le forme e modalità idonee a realizzare il nuovo assetto, facendo cioè operare la nazione non genericamente intesa, bensì nella veste di entità ordinata in guisa da realizzare l'ordine politico cui tende. Non appare dunque possibile attribuire rilievo giuridico ad una «prima costituzione» o «costituzione ontologica», che si presuma coeva al sorgere della nazione e che alimenterebbe di volta in volta il sorgere delle varie costituzioni positive succedentisi nel tempo (51) . Dottrine come queste ora esposte nessun altro valore possono assumere se non quello di offrire, piuttosto che una spiegazione giuridica, una giustificazione della formazione dello Stato, riconducibile, in certo modo, a quella del contratto sociale, e che dovrebbe postulare un consenso popolare rivolto a legittimare le varie costituzioni positive (52) . 13. (Segue): le dottrine istituzionali francesi. Sembra così dimostrato che, una volta ammessa l'esigenza di risalire dall'ordinamento posto ad uno presupposto onde fornire al primo una base reale, da cui esso deriva ed in cui si concreta la sua intima sostanza, si rende necessario, da una parte, evitare la petizione di principio che si avrebbe se si facesse poggiare la base stessa sul medesimo sistema positivo, e dall'altra ricercare i caratteri che consentano ad essa una concreta possibilità di azione politica, in correlazione con quella della costituzione positiva (53) . Le numerose teorie (elaborate dalla dottrina francese, italiana e tedesca), che, come quella della nazione, si ricollegano, in modo più o meno diretto, all'organicismo del GIERKE, e che si possono raggruppare sotto la generica qualifica di «istituzionali», vantano il merito di avere, sia pure con differenti gradi di approfondimento, messo in rilievo l'elemento organizzativo (trascurato dai teorici della nazione), da postulare in una società affinché questa operi appunto quale «istituzione», quale entità in sé ordinata intorno a certi fini (che non sono quelli generici del conseguimento del bonum commune, bensì di un particolare modo di intendere e di conseguire tale bonum) ed a certe forze qualificate da un'intima connessione con quei fini; fornita pertanto di un'intrinseca giuridicità, che dovrebbe consentire di superare la dicotomia fra i due ordini, istituzionale e legale (54) . Alla più o meno chiara affermazione di tale esigenza non sembra però che corrisponda in nessuna di dette teorie un'altrettanta precisa individuazione sia degli elementi necessari a conferire la giuridicità che si postula, e sia del rapporto fra originante e originato. Ciò risulterà da una breve esposizione delle meglio significative fra esse. Un posto a sé deve farsi a quella parte della dottrina francese (che ha come suo più eminente rappresentante il DUGUIT), che, pur configurando nel modo che sembra più esatto la struttura da porre a fondamento del potere statale, e che è fatta consistere nei rapporti di dominazione risultanti dalla differenziazione dei gruppi socialmente più forti che si impongono agli altri più deboli, la colloca tuttavia fuori del diritto come mera potestà di fatto, non suscettibile di limiti giuridici. Secondo il DUGUIT ogni vero ordinamento giuridico esige che i rapporti intersubbiettivi si ordinino sulla base di una solidarietà sociale, qual è quella che risulta dalla convinzione psicologica della giustizia delle regole spontaneamente sgorganti dal seno della società, e che formano il diritto oggettivo. Lo Stato, secondo tale impostazione, cessa di essere espressione di forza solo quando si piega alla regola di diritto, e si costituisce sulla base di una convergenza di interessi fra loro equilibrantisi, all'infuori di ogni coazione ad essi esteriore (55) . Appare chiaro come i presupposti realistici che vengono fatti valere da tali concezioni non risultano idonei ad offrire il fondamento della costituzione statale, perché finiscono con il collocarli, almeno implicitamente, fuori del diritto, ponendo una specie di incompatibilità fra quest'ultimo e lo Stato (considerato nel suo aspetto non eliminabile di apparato coattivo), con la conseguenza di togliere rilievo pratico all'attribuzione, che esse pure non contestano, di un'intrinseca giuridicità alla società sottostante all'organizzazione statale. Può aggiungersi che le concezioni medesime, lungi dal portare un contributo di approfondimento alle dottrine giusnaturalistiche o a quelle della volontà popolare, negandone le premesse su cui poggiano, le svuotano di ogni valore.

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Diversa valutazione deve farsi del pensiero dell'HAURIOU (56) , perché il tentativo da lui compiuto di superare la dicotomia società-Stato è animato dalla consapevolezza che l'aggancio fra l'una e l'altro si rende possibile solo a patto di intenderli entrambi in termini di piena giuridicità, e pertanto considerando l'istituzione sottostante all'ordinamento costituzionale (l'elemento ontologico del diritto) organizzata essa stessa sulla base di posizioni di sopra e sotto-ordinazione, cui presiede la volontà di un «fondatore». Tale volontà può più propriamente intendersi nel senso del potere di un gruppo sociale minoritario, il quale tende a «nazionalizzare» le istituzioni governative, estendendo il consenso o la partecipazione ad esse (57) e che è diretta da una finalità, raffigurabile quale autoscopo, espressione dell'idea-forza che plasma di sé l'intera realtà sociale, e che è da considerare l'elemento più importante di ogni istituzione corporativa. I concetti ora riferiti costituiscono il nucleo veramente vitale dell'opera dell'HAURIOU: anche se il loro valore è sminuito dalle oscurità ed incertezze delle premesse poste e degli svolgimenti ad essi dati dall'autore, che li fa oscillare fra due poli opposti: o di una estrema genericità del modo di configurare l'istituzione, così da privarla di rilievo giuridico, o, viceversa, di un'eccessiva determinatezza dei suoi caratteri organizzativi fino al punto da considerare necessarie ad essa le stesse strutture proprie del tipo di Stato rappresentativo e di diritto (58) . 14. (Segue): le dottrine istituzionali italiane. Obiezioni sostanzialmente non dissimili, di genericità da una parte, di mancato approfondimento del rapporto dell'istituzione con il sistema normativo dall'altra, suscitano le concezioni istituzionalistiche italiane e tedesche. Promotore delle prime può considerarsi il ROMANO, al quale si deve una delle più acute ed esaurienti dimostrazioni della necessità che v'è di risalire all'istituzione sociale (da considerare non già fonte esterna al diritto bensì diritto essa stessa) onde poter conseguire un'esatta visione del fenomeno giuridico. Tuttavia non solo non si ritrovano nell'opera del ROMANO quelle applicazioni all'ordinamento dello Stato, che sembrerebbero dover discendere dalle premesse da lui poste, ma vi sono affermazioni che le svuotano di ogni concreto rilievo. Infatti non è sufficiente porre a requisito dell'istituzione, onde ridurla a concetto giuridico, l'esistenza obiettiva di un corpo sociale, inteso quale entità in sé chiusa o dotata di una «suità», quale «unità ferma e permanente nonostante il mutare dei singoli suoi elementi», se prima non si determini se fra questi elementi (identificabili nelle persone, nei MEZZI, negli interessi, nei destinatari) ve ne siano alcuni così connaturati con l'ente o con un determinato tipo di ente, da non poter subire dei mutamenti senza che il mutamento incida sulla stessa identità di questo. È vero che il ROMANO si richiama anche al «principio vitale» che deve animare, tenere riuniti i vari elementi costitutivi, promuovere ed assicurare il processo espansivo dell'istituzione: principio per la cui esistenza si postula una forma, fatta tuttavia consistere non in altro che nei caratteri i quali consentono di affermare la sua connessione, o meglio la sua immanenza nell'istituzione (59) . Si tratta però solo di un cenno che, almeno per quanto riguarda il punto che qui interessa dell'ordinamento dello Stato, non solo non riceve alcuno svolgimento (rimanendo ancora più vago di quanto non sia quello dato dall'HAURIOU con il riferimento all'idea-forza) ma anzi, come si è osservato, sembra contrastare con l'opinione dello stesso autore, che fa coincidere il momento formativo dello Stato nell'autenticazione che di questo fa la costituzione formale, ed induce a far ritenere esaurita in questa ogni funzionalità del corpo sociale su cui sorge. Con il risultato di assorbire nell'elemento legale quello istituzionale, e di attribuire a quest'ultimo in definitiva un valore meramente storico, non già giuridico, come invece i presupposti assunti avrebbero dovuto condurre a far ritenere (60) . 15. (Segue): le dottrine istituzionali tedesche. Tentativi di raggiungere un maggior grado di concretezza nella ricerca della specifica sostanza dello Stato come oggetto della regolamentazione costituzionale sono stati compiuti dalla moderna dottrina tedesca, soprattutto ad opera dello SMEND e dello SCHMITT. Il primo vede tale sostanza in un «principio dinamico del divenire dello Stato», in un principio cioè che si realizza attraverso un continuo processo di «integrazione» fra i singoli e la comunità, che assume tre aspetti (a seconda dei diversi fattori che la promuovono), personale, funzionale e reale, e che trova nella costituzione il valore

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ordinativo del processo predetto, il criterio base della fenomenologia integrativa. La costituzione pertanto opera non già solo come norma, ma come intreccio intimo di valore (norma) e di realtà (integrazione) ed in tale intreccio si risolve la sua giuridicità (61) . Nelle impostazioni riferite si rinvengono elementi di notevole interesse, ma che tuttavia appaiono tanto generici da non riuscire utilizzabili in modo proficuo a chiarire il rapporto fra le due parti, che la costituzione dovrebbe unificare. Illuminante potrebbe apparire il riferimento che lo SMEND fa ai «supremi valori politici» i quali valgono a caratterizzare lo Stato allorché esso li positivizza; ma in realtà così non è perché l'autore considera rilevanti tali valori in quanto siano diffusi nella coscienza sociale, sicché in definitiva essi, anziché presentare un qualche carattere di stabilità, risultano subordinati all'incessante mutamento cui la coscienza medesima è sottoposta. Si dovrebbe allora concludere che il supremo criterio integrativo non offre alla soluzione del problema della costituzione elementi diversi da quelli risultanti dalle concezioni psicologistiche, o genericamente sociali. Lo SCHMITT ha dedicato particolare attenzione alla distinzione già posta dallo SMEND fra costituzione assoluta e costituzione positiva (relativa), o, altrimenti detta, costituzione e legge costituzionale, affermando che a fondamento di quest'ultima debba porsi una «decisione» circa la specie e forma dell'unità politica di un popolo, nella quale si esprime il suo status politico, condizionante non già gli aspetti formali ma quelli sostanziali dell'attività giuridica dello Stato (62) . Se è merito dello SCHMITT avere posto in più preciso rilievo l'esigenza di ricercare la base di un ente politico, qual è lo Stato, in una concezione politica fondamentale, deve tuttavia rilevarsi come egli non abbia raggiunto una sufficiente determinatezza nell'individuazione tanto del soggetto che deve considerarsene portatore (cioè nella specificazione del grado e specie della struttura organizzativa del gruppo di cui esso è esponente) quanto del contenuto che essa deve assumere perché ne rimanga contrassegnata (63) . Non è chiaro, infatti, in primo luogo, se la detta funzione di portatore debba spettare al popolo, nella veste che assume allorché si dà «la prima ed originaria costituzione», con la quale, costituendosi per la prima volta in Stato, realizza l'unità politica che rimane uguale a se stessa pur nel mutamento dei princìpi organizzativi (ciò che farebbe ritornare alla genericità propria delle teorie organiciste), o se invece al popolo ordinato secondo uno specifico assetto ispirato da un particolare criterio aggregativo, che allora non potrebbe mutare senza che muti la costituzione fondamentale. Uguale incertezza si nota in ordine al modo di intendere l'attività che, dopo aver dato vita allo Stato agendo quale potere costituente, ne dirige gli svolgimenti. Se da una parte lo SCHMITT nega che essa possa configurarsi come mero decisionismo dovendo invece ricollegarsi a princìpi che le conferiscono stabilità, dall'altra intende poi tali princìpi in modo da privare quell'attività dei caratteri necessari a sottrarla al puro soggettivismo. Il merito dello SCHMITT si esaurisce quindi nella riaffermazione dell'esigenza di includere nella categoria della statualità, come componente necessaria alla sua configurazione giuridica, il «concreto ordine ed assetto della società» sottostante al sistema normativo, quale risulta da un principio politico che lo permea in ognuna delle sue strutture e ne forma la costituzione, e di cui il sistema predetto non è causa ma conseguenza, senza però che riescano spiegate la natura e la consistenza del rapporto che, secondo le premesse, dovrebbe postularsi fra il sostrato reale e la costituzione formale. È vero che lo SCHMITT ha, meglio di quanto non sia accaduto al ROMANO, avvertito l'impossibilità di spiegare la fenomenologia di uno Stato concreto in termini di puro normativismo, ma la imprecisione dei caratteri attribuiti alla decisione sul modo di essere politico di una società che diviene Stato non consente di intendere i modi ed i limiti della funzione che ad essa compete (64) . 16. Conclusioni dell'esame e ricostruzione. L'esame, sia pur breve e sommario, delle dottrine che si sono chiamate, genericamente, istituzionali sembra aver mostrato come queste, sia pure per vie diverse o contrapposte, giungono al risultato di contraddire alle stesse premesse da cui partono e di compromettere le finalità perseguite. Ciò perché esse, come si è visto, o cadono nell'estremo di risolvere senza residui la «complessa e reale organizzazione in cui lo Stato effettivamente si concreta» nell'ordinamento giuridico, regolato nella sua parte fondamentale dalla costituzione formale, la quale con il suo sorgere segnerebbe l'instaurazione

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dell'impero del diritto ed il superamento della fase prodromica e preparatoria, appartenente al mondo «dei fatti». Oppure, orientandosi verso un estremo opposto, non si danno cura di precisare i caratteri che devono considerarsi necessari per potere assegnare all'organismo societario la funzione di fondare la costituzione, di stabilizzarla e dirigerne gli svolgimenti, e così giungono al risultato di considerare sufficienti ad identificare i singoli ordinamenti e far giudicare della loro permanenza nel tempo i soli elementi personale e territoriale, con la conseguenza di non riuscire a sottrarsi alla non immeritata censura di sociologismo. Non senza sorpresa si constata come vengano a confluire verso risultati convergenti correnti di pensiero, le quali pur muovono da punti di vista contrapposti. Così, per esempio, il solco che sembra dividere l'istituzionalismo del ROMANO ed il normativismo del KELSEN si appiana per il fatto che l'uno e l'altro finiscono con il respingere nel campo del pregiuridico la realtà sociale, richiamata da entrambi, ma su presupposti e con fini diversi (65) . Così ancora il formalismo kelseniano, svincolando la volontà della suprema autorità da ogni limite sostanziale di contenuto, consentendole qualunque mutamento, anche il più radicale dell'ordine costituito, viene in certo senso a sboccare nel «decisionismo». Per poter, invece, trarre dalle concezioni istituzionali elementi sufficienti a fornire una risposta agli interrogativi che le hanno promosse (e che non vengono certamente soddisfatte ove si ritenga che la struttura sociale si muova e operi in un campo diverso dal sistema normativo) occorre ammettere un rapporto giuridicamente rilevante fra l'ordine concreto di una società ed il sistema costituzionale positivo instaurato in questa, e pertanto postulare un'omogeneità di natura fra i due termini, una qualche corrispondenza negli elementi da ritenere costitutivi di entrambi. Ora se ogni costituzione formale assume, secondo si è detto, una funzione strumentale (rivolta com'è alla soddisfazione, non già solo del generico interesse ad una convivenza ordinata, ma di un interesse qualificato dal particolare tipo di convivenza, quale risulta dai valori che la caratterizzano, dal modo di valutare le posizioni dei singoli che entrano a comporla e dal sistema dei rapporti ad esse corrispondenti) è necessario che la società ad essa sottostante si presenti non già come entità del tutto amorfa, o tenuta insieme solo dalla comunanza dei fattori ambientali, psicologici, naturalistici (i quali possono venire in considerazione solo come presupposti), bensì già in sé strutturata sulla base di certi fondamentali orientamenti, sufficienti ad ispirare il sistema dei rapporti economici, religiosi, culturali, ecc. che in essi svolgono. In altri termini, l'organizzazione sociale, per porsi a base della costituzione, deve presentarsi in qualche modo già politicamente ordinata, secondo la distribuzione delle forze in essa operanti e le posizioni di sopra e di sotto-ordinazione che queste determinano. Sono i gruppi, prevalenti in virtù del potere di fatto esercitato, che ricercano nella costituzione lo strumento idoneo alla tutela degli interessi di cui sono portatori, al consolidarsi dei princìpi di vita associativa che meglio giovano alla stabilizzazione ed al più ordinato svolgimento del potere stesso. Questi gruppi preminenti possono diversamente denominarsi, benché l'espressione «classe governante» appaia quella più adeguata a raffigurare il fenomeno che si vuol mettere in rilievo del potere reale su cui poggia quello legale. Classe governante è qui intesa in un senso ampio, comprensivo degli individui e dei gruppi detentori delle varie posizioni che di fatto sono capaci di assicurare un predominio (il possesso delle armi, o del suolo, o di beni mobili, o di quello che può chiamarsi patrimonio spirituale, costituito da valori religiosi e culturali). Una specificazione del concetto si ottiene quando si distinguono dai titolari di tali forme di possesso (cui può darsi il nome di «classe dirigente») i detentori del potere di esercizio dell'attività attraverso cui si estrinseca la volontà dello Stato (che compongono la «classe politica» ). Questi ultimi, anche nel caso che siano reclutati fra i primi, operano (organizzandosi nel loro interno secondo una struttura oligarchica) quale strumento tecnico della classe dirigente, in quanto, sotto l'influenza della medesima, concretano, di volta in volta, e per la migliore realizzazione dei fini suoi propri, gli orientamenti dell'azione statale (66) . La distinzione fra le due sottospecie della classe governante si riflette nel fenomeno della non corrispondenza, a volte riscontrabile, tra i fini che effettivamente muovono gli appartenenti alla prima e le proclamazioni di principio (quelle che il MOSCA designò con il nome di «formule politiche») desunte da convinzioni popolari o dottrinali, spesso di carattere mitico (67) elaborate e diffuse da coloro che

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compongono la seconda. Fenomeno nel quale si manifesta l'esigenza di occultare, sotto apparenze suggestive, i reali interessi che alimentano quei fini ed offrire una giustificazione del potere posseduto di fatto, onde meglio assicurargli consensi quanto più possibile vasti. Di fronte a quella dominante sta la classe dominata, includente quanti non sono partecipi del potere o lo sono in posizione di effettiva subordinazione. Per ottenere tale risultato si escludono (finché ciò si renda possibile) i portatori di interessi non coincidenti con quelli dei ceti privilegiati dalla titolarità dei diritti politici, e si limita altresì nei loro confronti l'esercizio degli altri diritti ad essi strettamente connessi (come la libertà di stampa e di associazione). Anche quando gli esclusi si fanno promotori di movimenti rivolti ad ottenere la partecipazione alla vita politica e riescono nel loro intento, l'opera delle forze dominanti si svolge nel senso di neutralizzarne l'efficienza e di indebolire la spinta verso la trasformazione, nelle vie legali, dell'assetto sociale esistente. A ciò giova sia l'uso arbitrario del potere statale (dalla messa fuori legge dei partiti che si definiscono «non di governo», alla corruzione elettorale, all'impiego, a scopi di repressione o di intimidazione, delle forze di polizia e di quelle armate), sia l'utilizzazione dei mezzi offerti dal predominio economico, verso il quale gravitano anche, in ragione della convergenza di interessi materiali che viene a determinarsi, gruppi religiosi, culturali, ecc., e che si esplicano nelle forme più varie (dalla influenza sulla formazione della pubblica opinione attraverso la disponibilità quasi esclusiva degli strumenti di diffusione del pensiero, con la conseguente formazione di ideologie, di miti, costituenti la cosiddetta sovrastruttura ideologica del regime esistente; dalla formazione artificiosa di organizzazioni di partito o sindacali, indirizzata allo scopo di rompere l'unità delle forze avverse, agli allettamenti diretti a captare frazioni a queste appartenenti, alla minaccia di sanzioni religiose, ecc.). Dev'essere chiaro che alle distinzioni fatte per precisare il modo di essere della costituzione materiale è da attribuire valore di tipizzazione generalissima, che però trova riscontro nelle varie costituzioni positive, sia pure in forme.più o meno composite, in relazione alle varie situazioni ambientali. In particolare è da mettere in rilievo come la «classe» non può essere considerata quale blocco unitario e compatto, risultando invece composta da più ceti (o sottoclassi), che possono anche trovarsi in lotta fra loro. Ed in conseguenza, fino a quando le forze estranee alla classe dominante rimangono fuori della lotta politica, i ceti in essa inclusi (ad esempio: agrari e industriali) sono di questa i soli protagonisti, sicché l'alternativa al potere degli uni e degli altri, nella dialettica di governo-opposizione, si presenta come mezzo normale del suo esercizio, reso possibile dalla comune concordanza ai valori fondamentali che reggono la consociazione statale, ed è tale da assicurare l'omogeneità sociale necessaria al regolare funzionamento delle istituzioni statali (68) . Quanto si è detto vale a contestare la validità dell'obiezione che è stata formulata contro il modo qui assunto di intendere la costituzione materiale da coloro che considerano la realtà dello Stato come prodotto di un processo circolare, nel quale ognuno dei componenti esercita una funzione attiva, quale si ha anche con la stessa obbedienza che, essendo libera, potrebbe essere rifiutata facendo venir meno il dominio (oboedientia facit imperantem). È facile obiettare che l'obbedienza, in quanto comportamento passivo, non può considerarsi elemento costitutivo, mentre sono i fattori politicamente attivi, che, operando nel senso di prevenire o combattere la resistenza ad essi, conferiscono all'obbedienza media dei soggetti valore di prodotto e non già di producente del potere statale. Ciò appare comprovato dalla considerazione che la disobbedienza, anche quando sia diffusa, se pur può determinare la decadenza di un ordinamento giuridico, non è di per sé suscettibile di porre alcunché al suo posto (69) . Risulta così chiarito che la società da cui emerge ed a cui si collega ogni particolare formazione statale possiede una sua intrinseca normatività, quale le è appunto data dal suo ordinarsi intorno a forze ed a fini politici. Tale normatività si differenzia da quella propria del sistema delle norme derivate per la mancanza di forme precostituite (il che non contraddice alla qualifica assegnata, se è vero, come afferma anche il ROMANO (70) , che diritto non è solo e necessariamente forma), ed altresì per la diversità del contenuto: ciò perché essa non opera una specifica predeterminazione di comportamenti, ma si limita ad enucleare interessi associativi, che si impongono come scopi dell'azione statale (e non vi è ragione di dubitare della giuridicità di criteri di giudizio concretantisi nell'indicazione di fini da conseguire). Il che porta anche a far ritenere che l'ordine fondamentale intrinseco ad una società non può mai esprimersi

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in una sola norma-base, qual è stata configurata dal punto di vista formalistico proprio del KELSEN, ma in una molteplicità di princìpi, che si presentano quali particolari aspetti di una Weltanschauung politica (71) . Come vi è una considerazione funzionale-teleologica di singoli istituti positivi, che non può sfuggire all'interprete che voglia cogliere l'intimo loro significato, così sussiste un'analoga considerazione nei confronti dell'intera normazione costituzionale, che non può pienamente intendersi se non risalendo agli interessi fondamentali dei gruppi sociali di cui è espressione. 17. Esame delle obiezioni. È stato obiettato che l'esistenza della costituzione formale ostacola il conferimento di una diretta rilevanza giuridica al sostrato sociale, poiché si determinerebbe altrimenti un invincibile dualismo fra quest'ultimo e la prima (72) . Tale obiezione viene però a perdere di valore quando si tenga presente la necessità, messa prima in rilievo, di ricondurre la validità della costituzione alla sua effettività. Infatti se la positività (intesa non già nel senso di puntuale attuazione concreta di singole statuizioni - ciò che sarebbe constatabile solo a posteriori - bensì come probabilità di attuazione e normale previsione di questa) si consideri quale contrassegno dell'ordine giuridico primario, questo non può non farsi derivare da un assetto di forze capace di esprimere e far valere un orientamento generale che unifichi la complessiva attività statale, e la mantenga almeno relativamente costante così da indurre la fondata presunzione della sua realizzazione. La natura dell'ordine sociale di cui si parla si presenta dunque quale sintesi di essere-dovere. La formula «fatto normativo» appare idonea ad esprimere il concetto, a patto però che si escluda la necessità, affermata invece dallo JELLINEK, di una formazione consuetudinaria del fatto medesimo, e ciò perché la struttura sociale la quale presenti i caratteri messi in rilievo, di per sé, anche all'infuori del decorso del tempo, può porsi quale fonte primaria dell'ordinamento giuridico. L'effettiva obbedienza dei soggetti non può ritenersi componente autonoma dell'effettività di questo, bensì sua conseguenza, laddove la constatazione della sua normale mancanza per un certo tempo ha valore solo di condizione negativa, idonea a far cadere la presunzione che nasce da quell'assetto (73) . Si dovrebbe pertanto concludere, muovendo dal punto di vista enunciato, che non la validità si deduce dalla legalità, ma che viceversa quest'ultima in tanto opera come elemento dell'ordine giuridico, in quanto sia collegata al più profondo ordine sociale che la legittima. Di conseguenza l'indagine rivolta alla conoscenza dei fattori che conferiscono effettività, lungi dal dar luogo ad una visione dualistica dell'ordine, si rende necessaria per potere ricondurre ad unità il complesso delle manifestazioni di vita dell'ordinamento (74) . 18. Rapporto fra le due costituzioni (sostanziale e normativa). Funzione della costituzione normativa. Al rimprovero di dualismo si deve poi opporre la considerazione che le forze dominanti, nel dar vita ad una costituzione formale, tendono di norma a conferirle la specifica funzione di consolidare, stabilizzare e meglio garantire il proprio dominio. È stato di recente messo in rilievo efficacemente la sussistenza di una reciproca condizionalità di costituzione giuridica e di realtà sociale, resa possibile in quanto si attribuisca alla prima una propria forza (la «normativa forza del normativo») (75) ; forza che rimane tuttavia condizionata a certi presupposti e circoscritta in limiti variabili secondo le situazioni concrete. Se è vero, infatti, che di solito si affida al sistema delle norme positive la soddisfazione degli interessi collegati alle forze dominanti, è vero tuttavia che il primo riveste sempre valore strumentale rispetto a questi ultimi. Sicché, ove in determinate contingenze le norme legali non riescano ad assolvere a tale loro funzione, si dà vita ad attività che, pur non potendosi inquadrare negli schemi legislativi, entrano a fare validamente parte di quel più ampio sistema giuridico che comprende ogni manifestazione promossa e giustificata da quegli stessi valori giuridici ai quali la costituzione formale è condizionata. Il rapporto da porre fra la costituzione sostanziale e quella formale può giustificare il procedimento di pensiero che parta da quest'ultima per risalire alla prima: ma perché tale procedimento riesca proficuo e non si risolva in vuota astrazione è necessario tener conto non già solo delle formule normative bensì della loro vigenza, dell'effettiva funzionalità degli istituti da esse regolati. Quando si muova da una

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considerazione integrale del modo di svolgersi di un ordinamento, evitando ogni apriorismo, sarà possibile giungere alla identificazione dei caratteri dell'entità sociale su cui esso poggia. È chiaro come l'esigenza del ricorso al detto procedimento è meno avvertita allorché sussistano situazioni di equilibrio sociale tali da non determinare divergenze notevoli fra le norme costituzionali e l'applicazione che in realtà se ne fa. Per quanto la cosa appaia paradossale è da rilevare che la costituzione formale è destinata ad acquistare il massimo grado di vincolo quanto più il suo contenuto corrisponde alla realtà sociale e quanto più quest'ultima si presenta stabilizzata in un sistema armonico di rapporti sociali, cioè proprio nei casi in cui la importanza pratica che le si può riconoscere viene ad attenuarsi, essendo il limite posto dalla medesima all'esercizio del potere radicato nella stessa configurazione della società. Invece in situazioni diverse, caratterizzate dalla eterogeneità degli interessi, resa palese dal prorompere di nuove forze che si oppongono a quelle prima detentrici esclusive del potere senza tuttavia riuscire a superarle, si affida alla costituzione scritta una funzione di garanzia delle posizioni di compromesso raggiunte (nelle varie forme che questo può assumere). Avviene così che proprio là dove più gravi si presentano i pericoli per la stabilità dell'assetto cui si dà vita, più accentuata si manifesta la tendenza ad irrigidire la funzionalità del sistema, moltiplicando le garanzie ed ampliando la serie delle proclamazioni di principio, con il risultato di aggravare il distacco fra i precetti costituzionali e la prassi. È infatti quest'ultima che, influenzata dai rapporti di forza quali riescono di fatto ad instaurarsi, conduce lo svolgimento della vita dello Stato verso una o altra direzione svuotando via via di significato le «menzogne convenzionali» consacrate nella Carta e conferendo alle formule un significato diverso da quello che esse esprimono. Una concezione «relativistica» di costituzione si afferma anche quando, com'è avvenuto negli Stati socialisti, le forze divenute dominanti, pur non dovendo ricercare dei compromessi con altre, essendo loro riuscito di eliminarle, si trovano tuttavia di fronte al problema di organizzare rapporti associativi che, per essere privi di ogni addentellato con il passato, esigono un procedimento di progressiva adeguazione alle situazioni concrete e quindi non tollerano l'eccessivo irrigidimento che proviene dalle normazioni costituzionali. In altri termini, sono la composizione e le finalità delle forze sociali, in relazione all'ambiente in cui operano, che conducono ad assegnare alla costituzione formale valore diverso, a ricondurre e ad assorbire in essa l'intera realtà dell'ordinamento, considerandolo valore in sé, oppure a relativizzarla e a strumentizzarla, facendola piuttosto considerare solamente parte di un sistema più ampio, che nella sua totalità sfugge alla normazione formale, e rispetto a cui quest'ultimo assume valore di mezzo, necessitata perciò a piegarsi al fine. Si ispira al primo orientamento l'ideologia costituzionalistica di tipo liberale, e con essa la dottrina giuridica influenzata dalla medesima, che affidando allo Stato, inteso come Stato di diritto, un fine solo negativo, qual è quello della tutela della libertà dei singoli, lo vede interamente soddisfatto con il rispetto delle strutture formali a ciò preordinate dalla costituzione. Il concetto di costituzione, così costruito sulla base di una razionalità tecnica e formale, viene ad occultare la sostanza politica che in realtà vi sottostà (poiché nessuno Stato può esaurire il proprio compito nella tutela della libertà). Sostanza politica che, secondo quanto prima si è osservato, non avrebbe avuto bisogno di apposita protezione perché la trovava già nello stesso modo di intendere la funzione dell'ordine giuridico positivo, considerato il più idoneo a mantenere in vita il tipo di assetto sociale quale era allora dominato dalle aristocrazie detentrici del potere economico-politico (76) . I precedenti svolgimenti conducono a far ritenere: 1) che la costituzione scritta è sempre solo una parte del complessivo ordine statale e richiede che si risalga ad una fonte dalla quale trae origine e che pertanto non può non avere essa stessa natura giuridica; 2) che tale fonte (risultante dall'organizzazione delle forze sociali stabilmente ordinate intorno ad un sistema di interessi e di fini ad esse corrispondenti) è assolutamente primaria, non potendosi ritrovare al di sotto della medesima nessuna altra volontà organizzata, ma unicamente bisogni, aspirazioni, valori, suscettibili di offrire solo la materia per la scelta degli elementi fra i quali sono da operare le sintesi politiche; 3) che l'organizzazione di base trova nel sistema dei poteri costituzionali lo strumento necessario a stabilizzare ed a garantire la soddisfazione degli interessi cui è rivolta (nel grado massimo reso possibile dall'ambiente in cui opera)

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senza tuttavia esaurirsi nel sistema stesso, dato che, in determinate contingenze, si fa valere direttamente, e comunque piega il funzionamento del sistema predetto alle finalità che lo condizionano; 4) che il giurista non può considerare estranea al proprio compito l'indagine relativa alla costituzione non scritta, tenuto conto non solo della funzione che essa adempie, nel senso già visto di fonte e di garanzia, ma altresì del fatto che la medesima offre gli elementi necessari sia per interpretare ed integrare in modo unitario il sistema delle norme, e sia per identificare la forma dello Stato ed insieme stabilire i limiti entro i quali si rende possibile apportare modifiche alla costituzione, senza che ne riesca alterata la forma essenziale. Adempiendo a tale compito, il giurista non fa della sociologia perché non ricerca i fattori i quali hanno determinato il sorgere delle forze e delle ideologie che stanno alla base dello Stato, né tanto meno esprime giudizi in ordine alle medesime; ma, risalendo ai caratteri necessari a conferire giuridicità a comportamenti e rapporti sociali, enuclea dai fatti emersi dalla osservazione dell'effettivo svolgersi dei rapporti stessi in un dato ordinamento, quelli che sono da considerare parte della costituzione reale (77) . 19. Sulla possibilità di distinguere nel testo della costituzione fra norme costituzionali in senso materiale ed in senso solo formale. Le considerazioni finora svolte hanno mostrato come una nozione di costituzione che voglia assumere valore generale non è configurabile altrimenti che con riferimento al suo contenuto, al complesso dei fini istituzionali intorno ai quali si ordinano le forze poste, in virtù della detenzione dei mezzi atti ad assicurare l'esercizio del potere sociale, in una posizione di sopraordinazione. È dalla identificazione di tali elementi, da effettuare per ogni ordinamento statale positivo, che si desumono i criteri necessari a determinare il tipo dello Stato, il momento del suo sorgere e quello del suo estinguersi. Requisiti relativi alle forme di esercizio del potere non possono mancare, quale che sia la fonte, scritta o consuetudinaria, da cui derivano. Ma tali forme, per lo stesso fatto di assumere una funzione strumentale rispetto al nucleo che identifica un particolare tipo di ordine concreto non possono ritenersi coessenziali ad esso: sicché il loro mutamento, a differenza di quello che incide sugli elementi veramente costitutivi, non ne altera l'identità. Un significato diverso da quello finora visto assume il problema della materia costituzionale quando venga proposto allo scopo di ricercare se ed in che modo si renda possibile operare una differenziazione tra le norme che entrano a comporre un testo costituzionale, così da attribuire ad alcune una posizione di primarietà e di supremazia per il fatto di riguardare la materia tipica, veramente propria della costituzione, in contrapposto alle altre, le quali, pur costituzionali sotto l'aspetto formale, non lo sono sotto quello sostanziale (78) . In un senso parzialmente analogo al precedente, sempre con riferimento ad una costituzione formale, lo stesso problema della differenziazione di forma e di materia costituzionale si può poi porre quando si ritenga possibile attribuire rango costituzionale (o per lo meno posizione sopraelevata rispetto alle leggi ordinarie) a norme non inserite nel testo, ma affidate alla legge, o ai regolamenti parlamentari o alla consuetudine, con funzione integrativa del testo medesimo (79) . Contestano il valore giuridico della distinzione fra un concetto materiale ed un altro formale di costituzione coloro che fanno derivare il contrassegno distintivo delle norme costituzionali dalla loro inserzione nel documento cui si dà il nome di costituzione, dalla quale discende la loro collocazione in un rango superiore a quello delle altre norme che non ne fanno parte, quale che sia la materia disciplinata. Ma poiché tale risultato non potrebbe conseguirsi, né la superiorità farsi concretamente valere se le norme inserite nel testo potessero essere modificate per opera dello stesso organo che procede all'emanazione di norme subordinate, uopo è considerare contrassegno essenziale delle leggi costituzionali la sottoposizione di ogni loro mutamento a procedimenti differenziati e più complessi rispetto a quelli richiesti per l'emanazione delle altre leggi (80) . Non è il caso di ripetere quanto si è già osservato sui risultati aberranti cui conduce tale opinione, perché da una parte elimina ogni rilievo giuridico per le costituzioni flessibili, dall'altra fa venir meno la funzione di garanzia e di conservazione propria del potere di revisione, poiché, non fornendo alcun criterio suscettibile di porre dei limiti ad esso, apre l'àdito ad ogni mutamento, anche il più radicale.

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20. Opinioni che considerano sostanzialmente costituzionali solo le norme organizzative (di relazione). I sostenitori della distinzione nel seno della costituzione formale di una parte che sarebbe anche sostanzialmente costituzionale sono portati a configurare quest'ultima in modo diverso, sulla base dei differenti presupposti che, in via esplicita o sottintesa, assumono, secondo cioè l'accentuazione data all'elemento soggettivo o all'elemento oggettivo del concetto di diritto postulato dai medesimi. Così coloro che muovono dal primo dei punti di vista ora accennati considerano specifico dell'ordine costituzionale solo la determinazione delle strutture organizzative supreme destinate ad assumere le attribuzioni che costituiscono il logico e necessario presupposto di tutte le altre, ed in particolare della funzione legislativa, cui compete in grado primario siffatta funzione condizionatrice (81) . L'esclusione di ogni diverso contenuto dall'àmbito proprio della costituzione viene dedotta da considerazioni diverse. Si dice in primo luogo che qualsiasi statuizione avente ad oggetto la regolamentazione di altre materie (ed anche di quelle che disciplinassero l'attività degli organi amministrativi o giudiziari), non assumerebbe funzione autonoma di limite, data la possibilità della sua eliminazione mediante il ricorso alle procedure aggravate. Cosicché le prescrizioni di contenuto verrebbero ad essere assorbite da quelle di carattere formale (82) . Si aggiunge che l'imposizione al legislatore di vincoli di contenuto che implicassero un fare positivo, sarebbe destinata a rimanere inoperante, per l'impossibilità di richiedere ed ottenere la loro osservanza. Si sostiene, poi, come sia ripugnante alla natura della costituzione l'inclusione di norme regolative di rapporti dei soggetti fra loro o con lo Stato, e ciò sotto riguardi diversi. Da un punto di vista di opportunità, si osserva come ciò contraddica all'esigenza di porre a base della costituzione il consenso più vasto possibile, perché il prendere posizione in ordine al modo di regolare i rapporti predetti ha per effetto di restringere l'ampiezza di tale consenso. Si adduce anche un motivo più tecnico, desunto dalla funzione della costituzione la quale, esigendo la stabilità e la sua sottrazione a revisioni troppo frequenti, non può contenere vere e proprie norme tanto particolareggiate da riuscire a disciplinare direttamente rapporti concreti, ma deve limitarsi a porre proposizioni formulate in modo generico ed elastico, così da potersene effettuare l'adattamento ad una serie di situazioni assai varie fra loro. Se ne deduce che tali proposizioni, in quanto si risolvono in pure massime enunciative di indistinte tendenze politiche, risultano sfornite di ogni pratico rilievo giuridico. In ogni caso, le norme materiali inserite nel testo costituzionale hanno come loro esclusivo destinatario il legislatore e solo attraverso la «auctoritatis interpositio» del medesimo se ne rende possibile la traduzione e svolgimento in vere e proprie norme, efficaci nei riguardi dei soggetti e da essi invocabili (83) . Pertanto la parte della costituzione dedicata ai diritti dei cittadini non è sufficiente ad offrire a costoro una diretta garanzia, ma vale esclusivamente come limite per il legislatore, limite che diventa operante solo quando questi ritenga opportuno intervenire dettando un'apposita disciplina. La tesi in esame crede poi di rinvenire un motivo di rafforzamento dalla constatazione che in alcuni ordinamenti le statuizioni diverse da quelle meramente organizzative sono collocate fuori del testo della costituzione, ed inserite in «preamboli» o «dichiarazioni» o «princìpi», poiché da ciò ritiene di potere argomentare un'implicita volontà del costituente di sottrarre loro ogni efficacia vincolante (84) . 21. Osservazioni critiche. Nessuna delle argomentazioni riferite sembra però idonea a sostenere l'opinione che intende far valere. Infatti, quella che vorrebbe ricondurre il limite di natura contenutistica all'altro d'indole formale non considera che la predisposizione di un'istanza diversa e superiore all'altra legislativa ordinaria risponde proprio all'intento di garantire, nei confronti degli atti da questa emananti, l'osservanza delle prescrizioni contenutistiche (che naturalmente non debbono risolversi nella mera «riserva di legge»), il che si ottiene facendoli venire meno quando, anche se regolari nella forma, vi contravvengano. Ciò presuppone il possesso da parte delle medesime di una propria validità, dell'autonoma loro funzione di offrire i criteri necessari ad accertare il vizio conseguente alla loro violazione, funzione che non viene meno pel fatto che il limite posto dalle medesime possa venire rimosso (e sarà da vedere fino a qual punto) con il ricorso alle procedure aggravate.

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Da quanto si è detto si deduce che destinatario delle norme costituzionali materiali non è solo il legislatore. Infatti, a parte la considerazione che anche le norme costituzionali, considerate, come devono essere, non già isolatamente ma nel complesso del sistema di cui fanno parte, si rivolgono a tutti i possibili soggetti che rivestano le qualità e si trovino nelle posizioni che esse prevedono, è da osservare che, almeno quando sia consentito il sindacato giudiziario della costituzionalità delle leggi, le norme stesse non potranno non rivolgersi anche al giudice. E neppure vale invocare la genericità che caratterizzerebbe i precetti materiali della costituzione. Il fatto che questi siano destinati a permanere nel tempo non toglie che possano assumere una sufficiente concretezza, e l'osservazione mostra come ciò accada di norma per quelli che esprimano valori e soddisfino interessi considerati basilari per il tipo di Stato a cui si riferiscono (85) . Ma anche quegli altri che danno vita a «norme di scopo» perché si limitano a prescrivere indirizzi di azione da svolgere in futuro, o procedono ad astratte proclamazioni di diritti senza determinarne il contenuto o i mezzi per la loro soddisfazione, lungi dal potersi ritenere sforniti di valore normativo, entrano a costituire l'ordine giuridico, dando vita anche a pretese azionabili rivolte a richiedere la loro osservanza da parte del legislatore. Se è vero che non sono pensabili pretese del genere quando richiedessero che questi segua determinati comportamenti positivi, è vero tuttavia che esse possono farsi validamente valere per impedire che nell'esercizio delle varie specie di attività discrezionale, compresa quella propria del legislatore, si contraddica comunque al principio costituzionale. Deve quindi escludersi che vi siano norme «direttive» o meramente «programmatiche» sfornite di valore giuridico per il fatto che non se ne possa enucleare alcun precetto concreto (86) , e ciò perché ogni statuizione inserita nel testo costituzionale entra a comporre il sistema positivo e non può non influenzarlo, almeno in quanto concorre a fornire criteri per la sua interpretazione. Tanto meno esatto sarebbe poi contestare l'efficacia vincolante di norme le quali, pur riconoscendo in modo esplicito e preciso un determinato diritto, rinviano ad una legge futura la determinazione dei limiti al loro esercizio, o di una loro disciplina meglio specificata (come per esempio, fanno gli art. 36 e 40 cost. it.). Sembra chiaro che prima dell'intervento di tale legge la loro efficacia non rimarrà sospesa, ma spetterà ricavare dal sistema i limiti e le modalità dell'esercizio del diritto. Può accadere che lo stesso costituente intenda limitare l'efficacia delle norme di principio, come per esempio ha fatto quello della IV Repubblica francese, che all'art. 39 ha sottratto al controllo di costituzionalità delle leggi i princìpi contenuti nel «Preambolo»: ma proprio tale circostanza, mentre dimostra l'esattezza dell'opinione qui sostenuta (poiché fa argomentare che, senza quel divieto, i princìpi avrebbero assunto la funzione di limite sostanziale pieno del potere del legislatore; funzione che del resto non viene interamente meno, rimanendone possibile l'esercizio da parte di organi non vincolati al divieto dell'art. 93, e così per esempio del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione), mette in rilievo d'altra parte il sottinteso politico, celato negli assunti teorici che si sono confutati. Infatti, poiché la positivizzazione di prescrizioni generali a contenuto non precisamente determinato è sempre resa possibile all'interprete, e si giunge a dar vita, attraverso la prassi giurisdizionale, a norme secondarie integrative, gli ostacoli che siano posti a tale opera dell'interprete, o le limitazioni che quest'ultimo ponga di fatto alla propria attività, sono da considerare espressione, i primi, dei fini politici ai quali si vuole indirizzare la struttura statale, considerati tali da esigere per la loro soddisfazione la preminenza del legislatore e, con essa, l'instaurazione di uno «Stato di legislazione» anziché di uno «di amministrazione» o «di giurisdizione»; gli altri, delle convinzioni da cui gli interpreti sono ispirati, e che conducono di volta in volta, a far dichiarare determinati princìpi applicabili o no a fattispecie concrete, allegandone o la normatività, o al contrario la programmaticità, secondo che si ritengano consentanei o no con le convinzioni stesse (87) . Poiché il grado di vincolo delle dichiarazioni di principio si trae, come si è detto, dal sistema, appare chiaro che debba differire secondo che le dichiarazioni stesse siano consacrazione di un equilibrio sociale già conseguito che trova il suo armonico riflesso nelle varie parti della costituzione, o invece siano espressione (secondo suole avvenire nelle costituzioni di compromesso, poggianti sul temporaneo accordo di forze sociali portatrici di interessi non omogenei) di orientamenti politici non in tutto convergenti, o addirittura in certa misura contrapposti, e perciò non fusi ma giustapposti fra loro, e soggetti nella loro applicazione alle fluttuazioni delle forze da cui traggono alimento.

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22. Opinioni che considerano costituzionali solo le norme di azione, e loro critica. Contrapposto all'orientamento di pensiero finora considerato è quello che, vedendo in ogni costituzione l'incarnazione di una filosofia politica, considera essenziali solo quelle norme materiali che traducono e svolgono l'ideologia di base, mentre tende a considerare le altre, aventi carattere organizzativo (se non proprio prive di giuridicità, come le considera chi muove dalla erronea opinione della mancanza, nei confronti degli organi di una stessa persona, della alterità dei soggetti necessaria a dar vita a rapporti giuridici) rivolte ad una funzione strumentale e quindi poste in una posizione subordinata (88) . In realtà nessuna costituzione può dispensarsi dal porre princìpi organizzativi, se non altro per la funzione che ad essi compete di garantire la positività dell'ordinamento. Sicché il problema che si prospetta è quello di accertare il rapporto da ritenere sussistente nei singoli ordinamenti positivi fra determinate norme «di azione», relative all'organizzazione, e le altre «di relazione», d'indole materiale, che appaiono espressione degli interessi fondamentali incorporati nei medesimi; determinare, cioè, se ed in quale misura sussista una reciproca condizionalità fra le une e le altre, o, come potrebbe anche dirsi quando fosse chiaro il rispettivo significato dei due termini, tra forme di governo e forme di Stato (89) . Può ritenersi in generale che, mentre vi è un certo grado di fungibilità delle prime, tale da consentire l'assunzione da parte di ordinamenti ispirati a differenti fini politici di strutture organizzative analoghe, sussiste tuttavia un limite alla detta capacità di adattamento, dato che alcune di tali strutture appaiono così essenziali, in quanto poste in un rapporto di reciproca implicazione con il senso politico della costituzione, da non potere venir meno senza che venga a cadere quest'ultimo o risulti compromessa la sua attuazione, senza cioè che si determini la scomparsa del tipo di ordinamento che era caratterizzato da quel senso politico e la sua trasformazione in un altro non più ricollegabile al precedente. Appare chiaro come quando si risalga ad una forma essenziale, quae dat esse rei, nel senso ora accennato, viene meno la distinzione fra parte formale e parte sostanziale della costituzione. 23. La materia costituzionale e la graduazione di valore delle norme della costituzione. Con riserva di esaminare in seguito più specificamente il rilievo che i valori contenuti nella costituzione assumono in ordine ai mutamenti taciti del testo costituzionale, quali si effettuano attraverso l'attività interpretativa ad esso rivolta, è qui da considerare l'influenza che sull'attività stessa esercitano le valutazioni di contenuto nei casi in cui: a) sia da circoscrivere l'àmbito di applicazione di determinati istituti, genericamente indicati; b) oppure si tratti di decidere circa la diversità delle conseguenze che sono da fare derivare dalla violazione dell'una o dell'altra delle statuizioni inserite nel testo; c) o infine si proponga il problema della possibilità di apportare deroghe al sistema dei procedimenti prescritti per i vari gradi di normazione, sia nel senso di consentire mutamenti di disposizioni inserite nel testo (in ragione del minore rilievo loro attribuito), senza il ricorso alla procedura prescritta per la modifica; sia nell'ipotesi, contraria alla precedente, della sottoposizione a tali procedure (o comunque a procedimenti diversi e più aggravati rispetto a quelli propri delle leggi ordinarie) di altre disposizioni non facenti parte del testo ma tuttavia ritenute di maggiore importanza. Il che può verificarsi o per il riferimento più o meno generico che la costituzione faccia ad una «materia costituzionale», o, anche all'infuori di tale ipotesi, in considerazione della natura degli istituti o rapporti dalle medesime regolati. Mentre per i punti prima ricordati il problema cui si accenna si presenta negli stessi termini sia per le costituzioni flessibili che per quelle rigide, l'ultimo presuppone la rigidezza. Si tratta in ogni caso di procedere a graduazioni di norme, ben differenti però sia da quelle deducibili solo in via logico-formale, come vuole la concezione gerarchica dell'ordine giuridico, che ne ordina le manifestazioni sulla base del rapporto in cui ciascuna di esse si trova rispetto alle altre per il fatto di condizionarle o viceversa di esserne condizionata, e che conduce a disporle in una serie di gradi diversi (possibili a rinvenirsi anche nell'àmbito di una stessa fonte, come avviene per esempio nei confronti delle norme costituzionali che, pel fatto di regolare i procedimenti di revisione, si differenziano dalle altre), in un ordine determinato dal passaggio progressivo dal più generale al più particolare, secondo lo schema kelseniano; sia dalle altre effettuate in ragione del carattere e della posizione rivestita dagli

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organi da cui le manifestazioni stesse emanano, secondo il diverso orientamento della dottrina francese (90) . La graduazione della quale qui si parla sarebbe invece da argomentare in base a considerazioni meramente materiali, attinenti al contenuto delle norme e derivabili dalla diversa loro importanza, oppure dal rapporto in cui esse rispettivamente si trovano di fine e di mezzo, e simili. L'impossibilità di attribuire uguale valore ad ogni specie di norma inserita nella costituzione è stata rilevata con riferimento a diverse ipotesi (91) . Così si è osservato dalla dottrina penalistica e da quella costituzionalistica che i «reati di alto tradimento» o di «attentato alla costituzione» non potrebbero essere identificati se ci si riferisse alla costituzione formale, occorrendo invece risalire ai supremi princìpi istituzionali (92) . Non diversamente dovrebbe procedersi quando si ritenesse di dover circoscrivere secondo criteri di rilievo politico i reati ministeriali. Considerazioni di uguale natura sono da far valere per il caso del giuramento di fedeltà alla costituzione. Ai princìpi istituzionali si dovrebbe avere altresì riguardo per la determinazione dell'àmbito consentito all'esercizio del diritto di resistenza che fosse riconosciuto al popolo, oppure al fine di precisare quali siano le parti abilitate a stare in un giudizio di costituzionalità, quando manchi una espressa e precisa loro individuazione (dubbio in tal senso potrebbe sorgere per i partiti, per le minoranze etniche ecc.), o infine per la stessa determinazione del concetto di «lite costituzionale» (93) . Si è ricordato altresì il caso di riserva dei princìpi costituzionali che sia apposta in trattati internazionali (come in quelli di arbitrato) e che può importare la necessità di risalire ad un'obiettiva determinazione del contenuto di questi ultimi, sulla base appunto di una valutazione contenutistica. Può rendersi altresì necessario, in ordine al punto richiamato sub b), risalire alla diversa importanza attribuibile all'una o all'altra delle prescrizioni del testo costituzionale onde decidere circa le conseguenze da far derivare dalla loro violazione, in confronto sia ai soggetti che se ne sono resi responsabili sia agli atti posti in essere, che potrebbero, secondo i casi, venire colpiti da nullità, da annullabilità, o da semplice inefficacia (94) . 24. Applicazioni di tale graduazione alla revisione delle norme della costituzione. Per quanto riguarda l'ultima delle questioni accennate, è da osservare come, pur dovendosi ritenere, da un punto di vista astratto, corrispondente ai princìpi della costituzione rigida attribuire ad ogni regola inserita nel testo costituzionale un ugual grado di resistenza di fronte alla legge ordinaria, tuttavia non possa escludersi una conclusione diversa quando dal complesso del sistema positivo sia dato desumere dei criteri valutativi delle singole regole, sotto l'aspetto della materia regolata dalle medesime, i quali autorizzino ad assegnare ad alcune di esse indole non già cogente ma solo dispositiva, con la conseguente possibilità di sottrarle, pur nel silenzio della costituzione, alla disciplina prescritta per i mutamenti costituzionali (95) . Il quesito così posto può poi rovesciarsi, e chiedersi se le leggi ordinarie, sempre in base alla considerazione del loro contenuto, siano suscettibili di assumere rilievo superiore a quello del grado cui appartengono, sottraendole così alla cedevolezza che sarebbe loro propria di fronte a successive manifestazioni di volontà dello stesso legislatore dal quale ebbero origine. È da richiamare, in ordine alle questioni prospettate, l'esigenza fatta prima presente di tenere distinta la trattazione di tale punto da quella relativa ai mutamenti taciti della costituzione, sembrando che i fenomeni qui considerati siano, a differenza di questi ultimi, il risultato di interpretazioni non già difformi dal testo, ma ricavabili dal sistema delle norme in esso consacrate sulla base di quella graduazione di valore cui si è accennato. Diverso è il caso che si presenta allorché la considerazione della materia debba condurre a richiedere forme di modifica del testo diverse da quella prescritta in via ordinaria, e ciò o nel senso della sua attenuazione o in quello contrario di un maggiore aggravamento (prescindendosi anche per questo punto dal considerare le ipotesi in cui tali deviazioni risultino espressamente prescritte, come avviene da noi in virtù dell'art. 54 st. Sa. che prevede per le sue modifiche procedure superaggravate, o dell'art. 50 ultimo comma st. V. d'A. che viceversa ne consente altre attenuate). Così, secondo alcuni, una fattispecie riconducibile a quella del superaggravamento si avrebbe per la modifica dell'art. 139 cost. it., che esigerebbe la sottoposizione in ogni caso a referendum popolare, ed invece rigidità attenuata

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rivestirebbero le norme dei patti lateranensi (sempreché si acceda alla opinione, inesatta, della loro costituzionalizzazione) dato che per la modifica delle stesse sarebbe sufficiente un accordo fra Stato e Chiesa. La possibilità di distinguere fra parte e parte della costituzione formale sulla base del diverso rilievo della materia è stata formulata più volte (96) , specie tenendo presente la tendenza rilevabile in varie fasi storiche (97) , e più particolarmente in quella contemporanea, di inserire nel testo disposizioni le più varie. Sulla base di tale criterio si è creduto di giustificare il mutamento dell'art. 77 Statuto albertino avvenuto con semplice proclama del re, anziché con legge (98) . L'esempio può sembrare non probante della tesi voluta affermare e il fenomeno rilevato dovrebbe essere diversamente spiegato quando si attribuisca alla bandiera la funzione di simbolizzare non solo un singolo Stato, ma più specificamente la particolare forma che esso assume (99) . Si è pure negato carattere sostanzialmente costituzionale ad altri articoli dello Statuto, come all'art. 80 e altresì all'art. 78, relativo agli ordini cavallereschi ed alle onorificenze. In realtà la materia considerata per ultimo, e più specialmente quella relativa ai titoli nobiliari, può assumere valore diverso secondo che la disciplina pel loro conferimento, o eventualmente il divieto che di esse si faccia, sia da: ritenere espressione di princìpi coessenziali alla costituzione in cui l'una o l'altro siano inseriti, come rispettivamente il principio aristocratico o quello democratico della parità di dignità sociale. Ad una distinzione di materia può anche risalirsi quando si tratti di decidere della possibilità di affermare la sopravvivenza, pur dopo la cessazione di un testo costituzionale, di singole norme in esso inserite, nella considerazione del loro carattere sostanzialmente non costituzionale. Così sotto il vigore delle costituzioni francesi del 1814 e del 1830, per dare ragione del mantenimento in vita dell'art. 75 della costituzione dell'anno VIII (relativa ad una forma di «garanzia amministrativa») si fece valere la distinzione fra «materie fondamentali» e «materie regolamentari». È infine da mettere in rilievo come la differenza di importanza attribuita alle varie norme può esercitare un'influenza indiretta, quale quella che sì verifica in via di interpretazione facilitando le deroghe tacite delle disposizioni ritenute meno rilevanti. 25. Altri casi di riferimento alla materia costituzionale. Un'ipotesi diversa da quella prima considerata, nel senso cioè della sopravvivenza di norme anteriori alla entrata in vigore di una costituzione in considerazione della loro natura di leggi sostanzialmente costituzionali, si riscontra nella vigente Costituzione italiana, che nella sua XVI disposizione transitoria fa riferimento ad esse allo scopo di disporne il coordinamento con le proprie norme. Il criterio per giudicare della costituzionalità sostanziale delle disposizioni anteriori non può desumersi che dalla Costituzione sopravvenuta, sicché l'ipotesi potrebbe realizzarsi solo nell'eventualità in cui una di tali disposizioni in materia riservata alla costituzione debba ritenersi non assorbita e non derogata dalla medesima, e quindi destinata a sopravvivere con il rango costituzionale che le proviene esclusivamente sulla base del proprio contenuto, mentre la legge ordinaria prevista dalla XVI disposizione, ove emessa a scopo di coordinamento, sarebbe meramente dichiarativa del carattere proprio di tale contenuto (100) . Un'altra categoria di norme, che, pur consacrate in leggi ordinarie, si ritengono fornite, per la intrinseca natura della materia regolata, di un'efficacia che trascende quella che loro deriverebbe dalla forma rivestita perché condizionano la pratica applicazione delle statuizioni sia materialmente che formalmente costituzionali, è stata rinvenuta nelle norme (contenute in Italia nelle «Disposizioni sulla legge in generale») dedicate alla interpretazione ed applicazione delle leggi, nonché in quelle sul diritto internazionale privato (101) . L'esigenza di risalire alla materia si fa sentire anche per determinare l'àmbito della competenza di un'apposita istanza costituzionale, quando si dia vita a questa senza possibilità di delimitarla altrimenti che con il riferimento appunto alla materia. Tale ipotesi si è verificata in virtù del d.l.lt. 16 marzo 1946, n. 98, che affidava all'Assemblea costituente la disciplina dei rapporti di carattere costituzionale, senza alcuna altra precisazione. Analogo quesito faceva sorgere la l. 9 dicembre 1928, n. 2663, per chi la interpretava nel senso che l'elenco delle materie considerate costituzionali dell'art. 12 non fosse tassativo (102) .

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Meno facile a verificarsi è il caso che una costituzione rigida, specie se «lunga» come quella vigente in Italia, disponga un generico conferimento di carattere costituzionale ad una materia e la assoggetti alla stessa disciplina di quella inserita nel testo, senza tuttavia procedere ad alcuna sua specificazione, che viene pertanto lasciata alla discrezionalita dell'interprete. Tale ipotesi si sarebbe realizzata, secondo alcuni, in virtù dell'art. 72 (che esclude dal procedimento in commissione la formazione delle leggi in materia costituzionale), nonché dell'art. 138 (che sottopone agli stessi aggravamenti di procedura previsti per la modifica della Costituzione la modifica delle altre leggi costituzionali). I tentativi fatti dai sostenitori dell'opinione orientata in questo senso (103) sono da considerare non riusciti. Sembra pertanto doversi ritenere, in primo luogo, che l'art. 138 ha oggetto diverso dall'art. 72 e che le «altre leggi costituzionali», cui ivi si fa cenno, riguardano o le leggi costituzionali alla cui emanazione fanno obbligo alcuni articoli del testo (come l'art. 137 comma 1, o l'art. 116 o la XI disposizione finale), oppure quelle che risultano dalla "costituzionalizzazione", effettuata con l'adozione del procedimento di cui al detto art. 138, di materie prima affidate alla legge ordinaria e tale da non importare alcuna modifica delle preesistenti norme inserite nel testo, neppure sotto la specie della loro sussunzione a princìpi anche in parte divergenti da quelli in esso consacrati. Tale costituzionalizzazione rimane affidata alla piena discrezionalità del legislatore costituzionale, per il conseguimento delle finalità politiche di sottrarre la loro disciplina a maggioranze occasionali, e di sottoporre il controllo della loro osservanza alle speciali garanzie del giudice costituzionale (104) . Quanto all'art. 72 è da chiedersi se, escluso per quanto si è detto che esso possa offrire argomento alcuno a sostegno della tesi estensiva dell'àmbito assegnato alla legislazione costituzionale, la formula adoperata consenta di includere nella categoria dei disegni di legge per i quali è fatto divieto del procedimento di approvazione in commissione, anche quelli appartenenti a materie non comprese nell'art. 138. Si sostiene che la formula stessa (originariamente inserita per comprendervi le leggi per le quali si era proposto di richiedere una maggioranza più elevata di quella relativa di cui all'art. 64) riguarda le leggi ordinarie di contenuto costituzionale (105) . Effettivamente si dovrebbe addivenire a tale conclusione pensando che essa rimarrebbe priva di ogni significato se si fosse voluta riferire a norme formalmente costituzionali (106) ; senonché si incontra la solita difficoltà di rintracciare un criterio di discriminazione, cosa tanto più difficile quando si pensi all'espressa menzione fatta delle leggi elettorali, che non sembra effettuata a scopo meramente esemplificativo (107) . Forse più aderente al testo dell'art. 72 potrebbe risultare un criterio, informato alla più stretta analogia con i casi espressamente in esso considerati, che condurrebbe a far rientrare nella categoria: a) le leggi di indirizzo politico assimilabili alle altre ivi menzionate, come sono quelle relative ai rapporti con altri ordinamenti (deliberazione dello stato di guerra - ove si ritenga che per esse sia da adottare tale forma di deliberazione -; leggi di esecuzione di trattati internazionali di natura politica o importanti variazioni del territorio nazionale, e di ratifica di concordati, ecc.); b) le leggi relative ai rapporti fra legislativo ed esecutivo che importino spostamenti delle sfere della rispettiva competenza, o controllo dell'uno sull'altro, come sarebbero quelle che mutino la disciplina delle inchieste a carico del Governo o dell'amministrazione; c) le leggi richiedenti l'osservanza di norme di altri ordinamenti, o modalità speciali per la loro emanazione, ciò che in genere è disposto a tutela di autonomie costituzionalmente garantite (per esempio dagli art. 8, 10 comma 2, 132, 133); d) le leggi relative agli elementi costitutivi dello Stato, come quelle sulla cittadinanza, oppure rivolte a condizionare l'intera attività d'applicazione del diritto, come sono le norme sull'interpretazione. Le leggi «con riserva d'assemblea» non costituiscono però un vero grado distinto da tutte le altre di fatto approvate dal Parlamento con la procedura ordinaria, e pertanto, sotto questo riguardo, non potrebbero assimilarsi alle «leggi organiche», note alla tradizione costituzionale francese, la cui emanazione, a tenore della costituzione del 1848, doveva avvenire ad opera della stessa assemblea costituente (art. 115), e che quella vigente affida ad una procedura speciale (art. 46). La questione prospettata riveste notevole importanza ove si ammetta il sindacato della Corte costituzionale sul procedimento di formazione della legge (108) e si ritenga che l'ultimo comma dell'art. 72 ha avuto proprio lo scopo di sottrarre all'autonomia delle Camere la disciplina della materia considerata, ciò che porta ad escludere che la determinazione dell'àmbito della materia possa effettuarsi sulla base di apprezzamenti assolutamente discrezionali di carattere politico.

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26. Il problema costituzionale dell'interpretazione. Le considerazioni fatte sulla funzione che alla costituzione compete, di riunire in un'unità, quanto più possibile coerente ed armonica, la complessa serie degli innumerevoli rapporti che si svolgono nell'àmbito dell'ordinamento da essa sorto, sono sufficienti a fare intendere il rilievo che assume il problema dell'interpretazione delle norme in essa racchiuse, essendo chiaro che l'unità di cui si parla può risultare effettivamente conseguita, e con essa assicurata la positività della costituzione, solo nel caso che i vari atti di esecuzione delle norme stesse, affidati ad una molteplicità di organi diversi, confluiscano, almeno in via di media, verso soluzioni coordinabili fra loro in quanto siano promosse da una comune ispirazione. Poiché la difficoltà di realizzare tale armonia si accentua quanto più varie ed estese siano le istanze chiamate ad interpretare la costituzione, si ricorre a mezzi diversi secondo i tipi organizzativi cui si informa lo Stato, data la stretta correlazione che vi è fra gli uni e gli altri. Così in epoche storiche nelle quali è prevalente la tendenza a preservare da ogni deviazione gli indirizzi voluti affermare nella legislazione rivolta a stabilizzare un ordine nuovo, l'unità è ricercata accentrando nello stesso organo della produzione legislativa primaria il potere di decidere sull'interpretazione delle leggi in caso di contestazione. L'istituto del référé législatif è un esempio tipico dell'accentramento rilevato. Quando invece si conferisce maggior peso al principio della separazione dei poteri il principio stesso si interpreta, onde non compromettere l'esigenza messa in rilievo, proprio nel senso di farne discendere il divieto per i giudici di procedere al controllo di costituzionalità degli atti legislativi, come pure all'altro rivolto a sindacare la legittimità degli atti dell'amministrazione, mentre si tende ad assicurare la conformità di questi ultimi agli indirizzi di cui il legislatore è artefice con il ricorso a mezzi indiretti di collegamento fra i due poteri, com'è quello che consiste nel preporre ai vari rami della amministrazione uomini di fiducia della maggioranza parlamentare, e collegando in unità tutti gli uffici di ciascun grado mediante il vincolo della subordinazione gerarchica. L'istituto della cassazione provvede poi alla unità dell'interpretazione delle leggi, ed in prevalenza di quelle attinenti a rapporti d'indole non pubblicistica (109) , mentre nei Paesi di Common Law lo stesso fine è raggiunto con il ricorso alla regola del precedente, nonché ad una gerarchia delle istanze giudiziarie rivolta ad assicurare l'osservanza del principio stesso. La qualificazione che il MONTESQUIEU dava alla funzione giudiziaria, di potere «en quelque façon nulle», rifletteva appunto la concezione della medesima quale attività strettamente esecutiva, ciò che sembrava corrispondere all'esigenza ritenuta fondamentale, per il tipo di Stato cui si aveva riguardo, della più ampia garanzia di certezza e prevedibilità nel campo dei rapporti giuridici. In altri momenti storici, caratterizzati da una situazione in certo modo inversa alla precedente, perché di rapida trasformazione del complessivo assetto dell'ordinamento, quando ancora non si è consolidato un corpo organico di leggi, si è portati a dare prevalenza alle decisioni concrete rispetto alle norme astratte, lasciandosi all'interprete di derogare a queste ultime quando la loro applicazione letterale verrebbe a contraddire al fine cui sono rivolte, o più generalmente allo spirito o ai valori fondamentali dell'ordinamento. L'adozione di tale tipo non realizzerebbe le finalità politiche perseguite se la scelta dei titolari degli uffici cui sono demandate le decisioni concrete non fosse tale da assicurare la loro fedeltà ai valori predetti, o se altrimenti non fosse operante sui titolari stessi la pressione di forze (come quelle del partito predominante quando si ricorra all'elezione popolare dei medesimi, o del partito unico in altri casi) ritenute meglio in grado di interpretare i valori stessi. Il problema costituzionale relativo alla determinazione del potere cui compete una influenza predominante nella dichiarazione del diritto in confronto ai rapporti concreti, si riproduce, assumendo aspetti analoghi a quelli che caratterizzano le soluzioni estreme prima ricordate, quando, come suole avvenire nell'epoca contemporanea nei Paesi di civiltà occidentale, si ritenga che la separazione dei poteri non solo non escluda, ma anzi richieda l'accertamento della effettiva osservanza delle norme che vincolano l'attività dello Stato di fronte ai cittadini, ma nello stesso tempo si esiga che tale accertamento sia sottratto alle valutazioni soggettive dell'interprete ed invece ancorato ad una volontà resa obiettiva. In apparenza il problema si trasforma in quello, anch'esso di carattere costituzionale (110) , del «come» si deve interpretare, e si risolve nel senso di circoscrivere il potere dell'interprete, vincolando la sua attività all'osservanza di canoni legali di interpretazione, a conferma o in aggiunta a regole logiche o di

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esperienza o consuetudinarie riguardanti l'esercizio dell'attività stessa. Si ritiene che l'esistenza di queste regole giovi a comprovare il carattere meramente esecutivo dell'interpretazione, ciò che in pratica seconda la tendenza ad estendere il sindacato del giudice ad ogni atto statale di attuazione di norme astratte, e perciò anche di quelli che lo stesso legislatore compie in ottemperanza ai precetti della costituzione. Senonché la fissazione di tali canoni non si palesa sufficiente in pratica a contenere le divergenze, poiché esse stesse si palesano, a loro volta, bisognevoli di interpretazione e nella disputa sul loro valore e sul modo di intenderle riaffiora l'antagonismo fra le due correnti: l'una oggettiva orientata verso la assegnazione di preminenza alla formula normativa, quale risulta dal suo tenore letterale e dall'intenzione del legislatore che le ha dato vita (111) , l'altra soggettiva tendente invece ad accentuare il carattere creativo assunto dall'interpretazione, cui si attribuisce una «funzione normativa» (112) , nell'opinione che essa non possa esimersi dal considerare le finalità cui le singole formule legislative sono rivolte rispetto alle esigenze concrete cui vogliono provvedere ed all'intero sistema di cui fanno parte, e che da tali elementi debba ricavarsi il loro vero significato, anche se divergente da quello voluto conferire da chi ebbe ad emanarle. 27. L'interpretazione delle norme costituzionali: influenza sulla medesima dei valori politici. È ben noto come, per quanto si voglia essere fedeli al precetto che vincola l'interpretazione al significato proprio delle parole della legge secondo la loro connessione, la sua osservanza diviene tanto più difficile quanto più vago e indeterminato ne sia il dettato, e quanto più ampio sia il grado di discrezionalità che essa lascia all'attività dell'organo deputato ad attuarla. Le norme costituzionali sono quelle per le quali, in ragione anzitutto del loro oggetto che è il generale ordine politico dello Stato, nonché della maggiore stabilità e più lunga durata, rese necessarie dalla stessa funzione cui adempiono, si manifesta assai spesso necessario assumere formulazioni dotate di un carattere di più accentuata elasticità. La peculiarità del problema della loro interpretazione deriva appunto dalla maggiore difficoltà di giovarsi dello strumento letterale e dalla esigenza di trascenderlo per giovarsi soprattutto del metodo logico. Potrebbe sembrare che nell'uso di tale metodo il ricorso all'elemento subiettivo derivabile dall'intenzione del costituente dovesse sfuggire ad alcune delle obiezioni che contro di esso si sogliono muovere, e ciò in considerazione della maggior autorità dell'organo straordinario che ha dato vita alla costituzione, delle minori difficoltà di coglierne i propositi che ebbero ad ispirarlo, specie quando l'organo stesso rivesta carattere individuale (113) . Ma che così non sia si deduce dal fatto che le difficoltà che si presentano quando ci si voglia giovare della ricerca storiografica per la determinazione del significato attribuito ad una norma dal suo autore non possono non accrescersi ove la norma sia formulata in termini generici proprio al fine di renderla adattabile a situazioni nuove, lasciando aperto l'àdito all'accoglimento di significati non previsti né prevedibili al momento della sua emanazione. È inoltre da osservare come lo stesso elemento sistematico che deve necessariamente sussidiare l'interpretazione, affinché attraverso essa si operi l'unificazione delle varie manifestazioni concrete dell'ordinamento, sminuisce il rilievo della volontà che ha dettato le singole norme (114) . Naturalmente in modo ben diverso è da valutare l'elemento storico quando sia utilizzato per individuare l'insieme della situazione politico-sociale dalla quale la costituzione è emersa, ponendosi quale espressione e garanzia degli interessi fondamentali in essa radicati, e, come tali, destinati ad alimentare in ogni sua fase la vita della medesima, fissandone la linea direttiva e nello stesso tempo il limite del suo svolgimento nel tempo. L'elasticità delle norme costituzionali nelle costituzioni criptoliberali dell'800 era fatta servire all'intento di riservare all'autorità il massimo potere di compressione delle libertà che venivano pertanto riconosciute in modo generico. Il processo che ha portato a dare alle norme stesse, in epoca più recente, una più precisa formulazione (secondo si è realizzata per esempio con la sostituzione alla pura e semplice riserva di legge, che rendeva il legislatore arbitro del se e del modo della concreta disciplina degli istituti, di riserve specializzate e rinforzate, che viceversa accrescono il potere dell'interprete) ha dovuto poi cedere alle nuove tendenze, le quali hanno fatto assumere allo Stato compiti di intervento

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più o meno penetrante nei rapporti sociali, meno suscettibili che non quelli rivolti alla semplice garanzia negativa delle libertà di venire disciplinati in modo analitico e preciso. Se l'essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l'interpretazione dovrà attingere l'ispirazione necessaria a determinare l'esatto significato dei princìpi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti (115) . La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l'intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato. Si è fatta valere la necessità di distinguere i princìpi costituzionali veri e propri da quelli meramente ideologici o politici, che l'ordinamento positivo storicamente presuppone, ma che ne rimangono al di fuori, con valore di semplice tendenza, tale da potere influenzare oggettivamente l'interprete senza vincolarlo, almeno fino a quando la tendenza non abbia preso corpo in norme concrete (116) . Riaffiora in questa distinzione l'opinione relativa alla non giuridicità delle enunciazioni programmatiche, che si è confutata e che risulta in certo modo smentita dall'ammissione che gli stessi sostenitori della distinzione fanno della sindacabilità delle norme che contraddicano a quei princìpi: ciò infatti non potrebbe accadere se essi non avessero efficacia limitativa della discrezionalità del legislatore, efficacia che appunto attesta il loro carattere giuridico. La polemica contro l'interpretazione che prende a base i valori informativi del nucleo fondamentale della costituzione è, come si è visto, giustificata dall'esigenza di conferire certezza e prevedibilità all'ordine giuridico. Ma, a parte la considerazione che la certezza, più ancora che dalle singole norme, è da ricavare dal sistema e quindi rimane condizionata al consolidamento delle varie istituzioni ed al grado di armonizzazione che esse sono riuscite a conseguire fra loro e con il tutto, è da osservare che per quanto riguarda le norme costituzionali l'insufficienza dell'interpretazione meramente letterale appare ancora più palese che non per le altre categorie di norme, in ragione della più elevata carica di politicità in esse racchiusa, rivolte come esse sono a dare immediata espressione alla concezione che presiede al complessivo sistema dei rapporti sociali e che non sempre né facilmente può trovare nelle singole norme svolgimenti adeguati, tali da farne cogliere gli aspetti ed i significati essenziali. Ciò richiede all'interprete un'attività ricostruttiva ed interpretativa dei princìpi che, caratterizzando l'intero ordinamento, devono essere presenti in ogni sua manifestazione (117) . Attività che non è da confondere con quella integrativa, rivolta ad enucleare dall'esame di singole norme o di gruppi delle medesime, attraverso successive generalizzazioni, i princìpi in esse racchiusi, poiché tende invece a ricercare princìpi di diversa natura, quali sono quelli che precedono e condizionano tutti gli altri, (dovendo fornire il criterio per la scelta e l'impiego dei mezzi necessari a colmare le lacune della legge, ad inserire ogni norma al posto che le compete, conferendole il significato meglio corrispondente all'interesse cui è rivolta) e consentono così di raccogliere in un'unità quanto più possibile armonica ogni specie di manifestazione rilevante per l'ordinamento, da quelle del legislatore alle altre dei minori operatori del diritto (118) . La ricostruzione dei princìpi fondamentali, nel senso ampio precisato, quale si ottiene, da una parte, con la elaborazione degli elementi risultanti in modo esplicito, o implicitamente argomentabili dalle statuizioni della costituzione (e specie di quelle delle quali la dottrina positivista, come si è notato, tende a contestare la giuridicità, muovendo dalla considerazione del loro contenuto solo programmatico) e, dall'altra, con la scoperta delle esigenze istituzionali latenti, appare quindi strumento necessario per la funzione della quale si è parlato di coordinamento e di unificazione, in ogni singolo momento della vita dello Stato e nella successione delle fasi attraverso cui essa si evolve e si adatta alle situazioni nuove, senza che tuttavia ne riesca alterato l'intimo spirito che l'anima (119) . 28. Funzione dei princìpi generali dell'ordinamento. La funzione di cui si parla si esplica anzitutto nel dirigere l'esercizio dell'attività discrezionale, non solo di quella affidata agli organi dell'esecuzione, ma altresì dell'altra che compete ai soggetti abilitati ai

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compiti di decisione politica, anch'essi (contrariamente a quanto si ritiene da alcuni) vincolati all'osservanza dei fini fondamentali di carattere costituzionale. L'esistenza di tale vincolo deve indurre l'interprete, in caso di imprecisa formulazione della legge, ad attribuirle il significato più conforme ai princìpi; e ciò sulla base di una presunzione generale di fedeltà alla costituzione. Allo stesso modo, ogni contrasto della legge rispetto ai princìpi impone la sua disapplicazione (o, secondo i casi, il suo annullamento), così come giustifica la pretesa dei soggetti i cui interessi riescano da esso lesi ad ottenere una pronuncia in tale senso (120) . Sono altresì i princìpi quelli che colorano diversamente le norme sociali a contenuto solo genericamente determinato, come quelle di giustizia, equità, buona fede, ordine pubblico cui la costituzione o le leggi facciano rinvio. Inoltre, se non si risalga ai princìpi, non si rende possibile affrontare problemi quale quello (in parte già accennato nel trattare del diverso rilievo che le norme inserite nella costituzione rivestono quando siano considerate sotto l'aspetto del loro contenuto) cui dà luogo la coesistenza di più norme inserite nel testo della costituzione o in leggi costituzionali che siano in contrasto fra loro o con i princìpi, trattandosi di decidere circa la prevalenza da accordare all'una o all'altra statuizione. Analogo quesito sorge in presenza di disposizioni che si presentano con carattere di eccezione rispetto ad altre più generali, dovendosi accertare l'ambito entro cui sia da contenere la deroga (121) . Alla interpretazione dei princìpi si deve poi risalire per determinare l'estensione da dare loro, individuare cioè i rapporti ai quali essi possono essere applicati (122) . Via non diversa è da seguire onde potere determinare l'estensione del campo in cui opera l'ordinamento, nel senso del numero e della natura dei rapporti da ritenere per esso rilevanti, e correlativamente stabilire se un rapporto non disciplinato dal diritto positivo debba o no farsi rientrare fra quelli forniti di interesse per lo Stato; se, in altri termini, si debba o no postulare l'esistenza di una lacuna, e, nell'ipotesi affermativa, in quale modo debba venire regolata in concreto (123) . È stata già ripetutamente dimostrata l'impossibilità di risolvere le difficoltà accennate in via meramente logica, secondo risulta comprovato anche dalla stessa contraddittorietà dei risultati ai quali giungono coloro che per tale via arrivano a far valere come esigenza di ragione il ricorso o all'analogia, o viceversa all'argomento a contrario per colmare le lacune. Il problema delle lacune, se non è esclusivo, come pure è stato sostenuto, della materia regolata dal diritto costituzionale, assume tuttavia per la medesima un particolare rilievo, in ragione dei caratteri già messi in rilievo, propri della normazione che la riguarda, i quali conducono ad accentuare l'influenza dei fattori politici sul procedimento rivolto ad accertare la sussistenza della lacuna ed a determinare l'adozione del criterio per poterla colmare. Sono infatti tali fattori che (agendo a volte anche inconsapevolmente) ispirano il ricorso all'uno o all'altro dei procedimenti integrativi menzionati, con risultati tanto più apprezzabili quanto più approfonditamente l'interprete ricerchi le loro connessioni con l'intero sistema e con il fine fondamentale che lo informa. Oltre che nella scelta del mezzo di completamento, i fattori in discorso intervengono anche nella sua pratica applicazione ai singoli casi, essendo chiaro che il giudizio circa la somiglianza o la divergenza delle fattispecie concrete rispetto a quelle normative implica apprezzamenti rivolti a decidere della prevalenza di uno o di un altro dei caratteri presentati dalle medesime: apprezzamenti da effettuare alla stregua dei valori tenuti presenti dall'interprete al momento dell'applicazione. 29. Fattori che ostacolano lo svolgimento unitario del sistema. La soddisfazione dell'esigenza unitaria, da raggiungere attraverso l'interpretazione del testo sulla base degli orientamenti ora ricordati, non può ottenersi se non in misura media ed in via di larga approssimazione, o in altri termini come risultato di un processo sempre rinnovantesi che si svolge percorrendo una linea tortuosa di sviluppo. Ciò trova facile spiegazione quando si pensi alla molteplicità degli organi che cooperano alla funzione interpretativa, alla diversità dei procedimenti di scelta dei loro titolari, a volte forniti di particolari garanzie di indipendenza che rendono meno facile il coordinamento della loro attività con quella di altri organi (124) . Il conseguimento dell'unità diviene tanto più arduo quanto più la costituzione contenga princìpi o norme non in tutto concordanti o che addirittura esprimano valori contrastanti fra loro o designino fini cui non corrispondano i mezzi di attuazione, oppure prevedano mezzi che non trovano riscontro nei fini (125) . In tali evenienze, quali si producono nelle costituzioni che emanano dal concorso di forze divise fra loro da interessi divergenti, la stabilizzazione si ottiene quando qualcuna di tali forze riesca a

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far prevalere, attraverso il consolidamento raggiunto dalla prassi, le interpretazioni meglio conformi alle esigenze che essa esprime. Si è già osservato come ciò si ottenga assumendo criteri di graduazione delle norme che conducono a far dichiarare eccezionali quelle che tali non sarebbero, o a negare efficacia a princìpi, anche quando siano proclamati fondamentali dalla costituzione, sotto il pretesto del loro carattere non vincolante, o a far ritenere inesistenti termini finali, pure se essi siano stati solennemente statuiti proprio allo scopo contrario di precludere ogni arbitrio nell'esercizio del potere di dare attuazione ai precetti costituzionali (126) . Ai fattori che si sono rilevati e che conducono ad ampliare il potere dell'interprete di fronte alle norme costituzionali, se ne aggiunge uno derivante dal carattere degli organi chiamati ad effettuarne l'interpretazione, che loro deriva dall'essere situati in posizione di sovranità, con conseguente insindacabilità dei loro pronunciati. Quando sia consentito che tali pronunciati assumano efficacia erga omnes può derivarne la conseguenza che l'interpretazione fatta valere dai medesimi esplichi in pratica effetti analoghi a quelli propri dell'interpretazione autentica; con la differenza che, mentre quest'ultima, ove venga effettuata dal solo organo a ciò giuridicamente competente, e cioè da quello designato per la revisione costituzionale, assume carattere assolutamente vincolante e condizionante ogni altra volontà, l'altro tipo di interpretazione, che impropriamente si denomina autentica, deve cedere alla contraria manifestazione di volontà che si effettui con il procedimento della revisione (127) . Le osservazioni che precedono consentono di intendere la differenza sussistente fra l'interpretazione evolutiva, quale opera in un ordinamento che presenta carattere di intrinseca coerenza e quella che invece si fa valere nei casi in cui esso contenga nel suo seno elementi di contrasto. È opinione comune che tale procedimento interpretativo assuma particolare rilievo allorché si applica alle norme costituzionali, e ciò per effetto del più rapido ritmo dello svolgimento delle parti dell'ordinamento riguardanti i rapporti permeati di elementi politici, ed in correlazione con la particolare struttura delle norme stesse (128) . Non può però essere ricondotta alla progressiva adeguazione di queste al naturale evolversi delle esigenze sociali (quale si effettua allorché si utilizzi la forza di espansione delle norme stesse giovandosi degli strumenti tecnici propri dell'interpretazione, ma sempre mantenendosi nell'alveo segnato dai princìpi istituzionali e dalla fedeltà ad essi), quella diversa prassi che invece emerge dalla vittoria di una fra le varie tendenze in contrasto, e che solo impropriamente si può ricondurre all'interpretazione perché è sostanzialmente innovativa rispetto a singoli princìpi o a norme consacrate nel testo, o addirittura sovvertitrice di interi settori dell'ordinamento o del complesso degli orientamenti fondamentali su cui esso poggia. La serie di fenomeni indicati per ultimo (per quanto a volte possa riuscire in pratica difficile distinguerli dagli altri per ciò che riguarda i loro effetti) deve essere oggetto di distinto esame, qual è quello che sarà dedicato al problema delle modifiche della costituzione. 30. Rapporto fra stabilità e mutabilità della costituzione. Si è visto come la costituzione dia vita ad un sistema che, da una parte, non si realizza e non può mai realizzarsi interamente nelle norme, perché non è in nessun caso ordine compiuto, e che, dall'altra, pur caratterizzato com'è dall'esigenza di durare onde dirigere l'ordinamento in tutto il corso della sua esistenza, deve poter adeguarsi agli eventi sempre nuovi che sopravvengono durante tale corso, senza quindi che possa assumere carattere di immodificabilità. Non ha senso pertanto porre il problema dell'astratta possibilità di apportare modifiche alla costituzione, poiché anche nell'ipotesi che questa non contenga alcuna disposizione sul proprio mutamento o addirittura inibisca espressamente ogni modifica, non sarebbe lecito né desumere dal silenzio una clausola di assoluta immodificabilità, né ritenere assolutamente vincolante il divieto (129) . Tale affermazione non contrasta con l'esigenza già messa in rilievo, e che troverà in seguito i necessari svolgimenti, di contenere il mutamento entro quei limiti assoluti che valgono a salvaguardare la funzione propria della costituzione di identificare per tutta la sua vita il particolare tipo di ordinamento cui essa si riferisce, e ciò perché mentre siffatti limiti corrispondono alla natura dell'istituzione e sono garantiti dalle forze in essa operanti (almeno fino a quando queste rimangono efficienti), gli altri, appunto perché non coessenziali all'intima struttura della medesima, anche se ritenuti tali al momento

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dell'instaurazione, e pur esercitando una funzione politicamente rilevante, non possono prevalere sugli eventi sopravvenuti, quando questi siano tali da richiedere interventi non previsti, o non congruamente previsti dalla costituzione. Sicché in pratica i divieti assoluti producono il solo effetto di indurre ad una più ampia adozione di comportamenti che sono rivolti ad eluderli in via di fatto e che raggiungono effettivamente detto risultato. Il rapporto fra stabilità e mutamento, fra statica e dinamica, nel senso che risulta dai termini ora indicati, è comune a qualsiasi tipo di ordinamento costituzionale positivo. La tendenza contemporanea all'irrigidimento della costituzione che si realizza con il dar vita ad un grado a sé stante nella gerarchia delle fonti, immediatamente subordinato alla costituzione ma superiore alla legge ordinaria, costituisce il mezzo più diffuso di garanzia del rispetto del testo, onde ottenere che le sue modifiche siano, almeno in certi limiti, non impedite, bensì circondate da speciali garanzie, onde far presumere che esse risultino da una più approfondita ponderazione e poggino su un consenso sufficientemente diffuso. La legittimità e l'opportunità della rigidezza sono contestate da quegli orientamenti che si sono ricordati, comuni tanto alle concezioni legittimiste (secondo cui ogni concessione limitativa del potere del monarca non può essere invocata per ostacolare la sua revocabilità in ogni momento da parte di costui) quanto a quelle della sovranità nazionale, o della democrazia radicale che escludono ogni remora alla immediata espressione della volontà della nazione o del popolo sovrano. Facendo rinvio a quanto si è prima detto sugli equivoci che alimentano tali opinioni, basterà qui osservare come illusorio sia il concepire la rigidezza quale garanzia di assoluta integrità del testo scritto, poiché anche le procedure di aggravamento richieste per le revisioni costituzionali, alla pari degli altri impedimenti all'attività degli organi costituiti, non possono assumere valore pienamente vincolante tale da precludere l'attuarsi di modifiche per vie diverse da quella prescritta: possibilità quest'ultima tanto più facile a verificarsi quanto più complicate siano le procedure predisposte per effettuarle. Visto che l'adozione di sistemi di irrigidimento dev'essere valutata in base a considerazioni di opportunità politica, si può chiedere se tale opportunità ricorra nei confronti delle costituzioni dette di compromesso, perché risultanti dall'accordo di forze eterogenee e pertanto espressione di princìpi non fusi tra loro in unità. Si è sostenuto che in tali contingenze il richiedere maggioranze qualificate, rendendo difficile o impossibile la revisione, conduce ad accentuare il contrasto fra le forze politiche, compromettendo il rispetto e l'efficienza del sistema costituzionale. Si può opporre che se i valori così configurati si considerino legati all'esigenza di assicurare un ordinato sviluppo delle istituzioni, tale da condurre all'attuazione di quelli fra gli orientamenti costituzionali che abbiano raggiunto una sufficiente maturazione nello spirito collettivo, così da far presumere una loro sufficiente stabilizzazione, dovrebbe apparire giustificata l'esclusione di revisioni affidate a maggioranze semplici, e, perché tali, legate a situazioni contingenti e mutevoli (130) . 31. Nozioni generali sulle varie specie di modifiche. Ordine della trattazione. Poiché, come si è rilevato, la predisposizione di appositi procedimenti per la revisione costituzionale non è sufficiente a precludere in concreto modifiche poste in essere diversamente, si rende necessario, ove si vogliano abbracciare in una visione di insieme le varie specie di mutamento della costituzione, esaminare distintamente quelle conformi alle predisposizioni costituzionali e le altre che invece se ne distaccano. Saranno pertanto esaminati, in primo luogo, i procedimenti di revisione, quali risultano dal diritto comparato degli Stati moderni, ordinandoli in tipi e sottotipi, sulla base di criteri vari di classificazione, relativi o al procedimento (come quelli che hanno riferimento all'organo abilitato ad effettuare gli emendamenti o alla natura ed alle modalità dell'aggravamento stesso), oppure all'indole della deliberazione di modifica, secondo che questa sia espressa o tacita, permanente o temporanea, generale o singolare. La trattazione sarà, in secondo luogo, dedicata alle modifiche che hanno luogo senza l'impiego delle forme legali per esse previste, e cioè per opera di fonti diverse da quella abilitata alla formazione delle leggi di revisione (quali possono essere la legge ordinaria, i regolamenti parlamentari, le pronunce giudiziarie; fonti queste che possono venire in considerazione o come tali, oppure essere assorbite in una comune fonte consuetudinaria, ove le modifiche si considerino operanti solo in quanto si siano consolidate in una prassi, più o meno ben definita).

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32. Requisiti necessari alla rigidezza della costituzione. Prima di esporre la tipologia delle procedure di revisione è da chiedersi se siano da esigere per esse requisiti minimi, in mancanza dei quali non potrebbe ritenersi realizzato un sistema costituzionale fornito di rigidezza. La questione si è presentata per quegli ordinamenti i quali richiedono modalità riferentisi non già al momento deliberativo ma alla fase ad esso preliminare, come sono quelle che si concretano in semplici pareri non vincolanti. Si è sostenuto che non le particolarità meramente procedimentali bensì solo le altre inerenti alla deliberazione, se ne operino una differenziazione secondo che sia rivolta alle leggi costituzionali o alle ordinarie, sono idonee a far conseguire l'effetto di cui si parla, e si è aggiunto che, altrimenti, non si riuscirebbe a distinguere le prime da quelle ordinarie «rinforzate». In contrario si è obiettato che la distinzione fra costituzioni rigide e flessibili diverrebbe empirica ed arbitraria ove si assumesse il criterio così proposto della diversità del modo di manifestazione della volontà cui si demanda la deliberazione sulle modifiche costituzionali, dovendosi invece ritenere che ogni specifica modalità del procedimento in qualunque delle sue fasi, ed anche se in sé considerata appaia sfornita di rilievo sostanziale (purché sia imposta in modo obbligatorio e non si esaurisca in atti o attività di carattere puramente interno), è sufficiente a irrigidire la costituzione, mentre poi la differenziazione fra le leggi di revisione e quelle «rinforzate» deve farsi discendere dal diverso oggetto cui le une e le altre si riferiscono (131) . Non è contestabile il rigore logico dell'argomentazione ricordata per ultimo. È tuttavia da osservare come proprio la stessa valutazione che si richiede in ordine alla natura delle formalità prescritte per la formazione della legge costituzionale, allo scopo di poterle qualificare quali requisiti immediati dell'atto o invece elementi del procedimento interno all'organo, risulta influenzata dalla considerazione dei suoi caratteri sostanziali, quali sono da valutare in loro stessi e nel sistema di cui fanno parte (132) . Sicché non potrebbe non far sorgere dubbi sulla effettiva rigidezza l'imposizione per esempio di aggravamenti per le leggi costituzionali che risultassero meno rilevanti di quelli previsti per leggi semplici «rinforzate». In realtà la funzione dell'aggravamento non si adempie per il semplice fatto di rendere più difficile la formazione della legge costituzionale, risultando essa piuttosto dal ricorso a certe particolari difficoltà idonee a conferirle un'impronta di maggiore autorità o a raccogliere intorno ad essa un consenso più vasto, o ad attestare l'esistenza di una volontà meglio consolidata. 33. I vari tipi dei procedimenti di revisione. L'esattezza delle osservazioni che precedono risulta confermata dall'esperienza che mostra come il potere di revisione si soglia concentrare negli organi di suprema decisione politica e la sua disciplina venga effettuata in modo da assicurare il conseguimento delle finalità indicate. Pertanto il criterio generale che appare più idoneo a differenziare fra loro i vari tipi storici del procedimento di revisione è quello che si collega alla distinzione delle forme di reggimento: autocratici, aristocratici, democratici, mentre i numerosi sottotipi risultano dalle varie combinazioni possibili ad attuarsi fra gli elementi propri di un tipo con alcuni degli altri (133) . Appartengono al primo tipo i procedimenti che affidano la deliberazione al principe, nel quale si riassume il potere sovrano. Nel secondo tipo sono da far rientrare i casi in cui la revisione si accentra negli organi rappresentativi, con esclusione di ogni intervento diretto o indiretto del popolo, mentre il terzo comprende quelli che richiedono come essenziale l'intervento di quest'ultimo. Trascurando, per il loro scarso rilievo, le forme proprie del potere individualizzato, sono da esaminare anzitutto le altre che fanno valere in modo integrale il principio rappresentativo, concentrando la competenza alla revisione in organi elettivi, con esclusione di ogni specifico mandato popolare. Nell'àmbito di tale categoria sono da distinguere gli ordinamenti che attribuiscono la competenza in parola allo stesso organo della legislazione ordinaria. In tal caso la differenziazione fra questa ed il procedimento di revisione può risultare: 1) dalla imposizione di modalità attinenti alla fase preliminare alla presentazione o discussione del progetto (come nel caso che si richieda l'iniziativa da parte di altri organi, o la previa audizione di pareri obbligatori); 2) dalla richiesta di maggioranze speciali (ad esempio art. 146 cost. russa, che esige il voto favorevole di almeno 2/3 dei membri di ciascuna delle due Camere del Soviet supremo; art. 79 cost. Germania occidentale); 3) dall'aggiunta al requisito della maggioranza

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speciale anche di uno speciale quorum (l'art. 76 cost. Weimar esigeva la presenza dei 2/3 dei membri del Reichstag, ed il voto favorevole dei 2/3 dei presenti); 4) dall'esigenza della ripetizione del voto favorevole all'emendamento, da effettuarsi ad intervalli di tempo determinati (art. 90 cost. francese 1946) oppure nel corso di successive sessioni (art. 112 cost. norvegese). Sistemi misti sono quelli che richiedono, insieme a votazioni ripetute, anche maggioranze speciali, per tutte le deliberazioni o solo per quella conclusiva (art. 136 ultimo comma cost. italiana). Altre sottodistinzioni possono poi ricavarsi facendo riferimento ad elementi diversi: e così per esempio per il fatto che le successive approvazioni richieste abbiano lo stesso oggetto; o invece uno diverso, come nel caso che una di esse si limiti a statuire che la modifica di una determinata parte della costituzione debba aver luogo, mentre l'altra contenga la concreta deliberazione sul tenore della modifica stessa; oppure la prima determini il contenuto dell'emendamento da apportare mentre la seconda si limiti ad approvarlo o rigettarlo senza potervi apportare modifiche. Una seconda ipotesi è che l'organo speciale della revisione sia diverso da quello legislativo. Ciò si verifica quando tale funzione sia attribuita: a) ad un'assemblea costituita dalle due Camere insieme riunite (richiedendosi o non una precedente deliberazione di ciascuna camera rivolta alla convocazione dell'assemblea - esempio della prima ipotesi offre l'art. 8 cost. francese del 25 febbraio 1875); b) ad un'assemblea speciale formata dalle stesse Camere con l'aggiunta di altri membri estranei; c) ad un'assemblea formata ad hoc (come avviene negli Stati Uniti d'America, quando, adottandosi uno dei due procedimenti colà sperimentabili in via alternativa si proceda alla formazione di apposita «convenzione»). Passando ora all'altro tipo, caratterizzato dall'intervento popolare nel corso della procedura di revisione, è da mettere in rilievo come esso presenti una grande varietà di forme, potendosi l'intervento stesso richiedere: o in ogni caso, come condizione necessaria alla perfezione del procedimento revisivo, o invece come condizione solo eventuale. Rientrano in quest'ultimo tipo i casi in cui la pronuncia popolare sia prescritta solo in sostituzione di altro procedimento che ne prescinde, e solo nel caso che quest'ultimo non riesca a perfezionarsi. Ciò può verificarsi: a) per risolvere il dissenso sorto fra le due Camere in ordine alla proposta di revisione, e ciò in modo automatico (ad esempio art. 120 e 121 cost. svizzera) oppure su richiesta della Camera dissenziente (art. 76 ultimo comma cost. Weimar); b) in sostituzione di altro organo competente a decidere da solo, purché si verifichino certe condizioni, come quella del raggiungimento di apposite maggioranze, ove queste non si realizzino: tale ipotesi è prevista dall'art. 138 cost. italiana che richiede l'obbligo della sottoposizione a referendum popolare solo di quegli emendamenti approvati dal Parlamento con maggioranza inferiore a quella dei 2/3. Analogamente disponeva l'art. 90 cost. francese del 1946. Anche la vigente Costituzione francese del 1958 congegna il responso popolare in forma alternativa, ma statuisce che si possa prescinderne non già in considerazione dell'entità della maggioranza raggiunta in Parlamento, bensì per decisione del Capo dello Stato, in base alla quale l'approvazione definitiva viene deferita al Parlamento convocato in congresso, che però deve darla con la maggioranza dei 3/5 dei voti validi (art. 89). Invece l'ipotesi di responso popolare imposto quale condizione necessaria, in ogni caso, per sanzionare l'emendamento approvato dal Parlamento si realizza nella Costituzione svizzera (art. 120 commi 5 e 6) (134) . Un posto a parte deve essere assegnato a quei sistemi risultanti dalla contaminazione di elementi sia del tipo rappresentativo che di quello democratico. Essi trovano il loro modello nell'art. 131 cost. belga, che prevede una prima fase, costituita dalla deliberazione da parte del potere legislativo sulla necessità della revisione di una o più disposizioni costituzionali, tassativamente indicate. Ad essa segue l'automatico scioglimento delle due Camere, e l'inizio, dopo l'espletamento delle elezioni, di una seconda fase nella quale ha luogo la concreta decisione sulla modifica per opera delle nuove Camere (È da avvertire che il quorum e la maggioranza speciale richieste dalla Costituzione belga, non sono contrassegno necessario del sistema in esame). In questo tipo il giudizio del corpo elettorale sulla revisione progettata è solo indiretto, e la sua influenza eventuale, subordinata com'è, pel fatto del divieto di mandato imperativo, al grado di organizzazione politica che il popolo riesce a conseguire attraverso l'opera dei partiti. Per esaurire l'esposizione relativa ai tipi delle revisioni effettuate in via formale, è da mettere in rilievo come, nel silenzio della costituzione, nessun peso sia da attribuire al cosiddetto principio del

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«parallelismo delle forme», secondo il quale ogni modifica delle norme costituzionali dovrebbe avvenire nelle stesse forme adottate per la loro formazione originaria e per opera delle stesse autorità da cui sono emerse. È stato esattamente osservato come non sia possibile perpetuare nel tempo procedimenti ed organi che hanno esaurito la loro funzione con l'emanazione della costituzione (135) . 34. Le modifiche tacite. Sempre con riguardo alle modifiche costituzionali effettuate con l'impiego degli appositi procedimenti si discute se sia consentito che esse vengano effettuate in modo tacito, ossia con l'emissione di leggi costituzionali che contrastano con princìpi o norme consacrate nel testo senza che venga dichiarata in modo esplicito la volontà di modificare gli uni o le altre (136) . In altri termini si tratta di stabilire se il principio dell'abrogazione tacita (che vale per le leggi ordinarie fino a quando non sia diversamente disposto) trovi applicazione anche nei confronti delle leggi costituzionali, sempreché non sia sancito un apposito divieto, come per esempio per l'art. 203 cost. Paesi Bassi o l'art. 79 cost. Germania occidentale, che consentono solo leggi le quali modifichino o completino il testo «espressamente» (137) . Il dubbio così formulato trae origine dalla considerazione dell'incertezza che consegue alle modifiche tacite per la difficoltà che da esse deriva di accertare la portata delle medesime, il valore voluto loro conferire di temporaneità o di permanenza: incertezza che si afferma sia da evitare pel danno che produce, che, se è grave in ogni campo del diritto, in modo particolare lo diviene in quello del supremo ordine costituzionale. Si aggiunge che la redazione per iscritto delle norme da cui esso risulta tende appunto ad eliminare tale incertezza, rivolta com'è a farne intendere con precisione il contenuto: fine che sarebbe frustrato se non si rendesse possibile ai cittadini, con la piena consapevolezza delle innovazioni apportate al testo, di possedere un quadro esatto dei fondamenti giuridici dello Stato. Una più specifica ragione di opposizione alle modifiche tacite è poi addotta da coloro che fanno discendere dalle medesime un particolare effetto: quello cioè di alterare l'efficacia propria delle norme sulle quali incidono operandone una decostituzionalizzazione e perciò sottraendo gli ulteriori mutamenti che fossero loro apportati all'adozione dell'apposito procedimento di revisione. Si deve senz'altro respingere quest'ultima opinione, pur autorevolmente sostenuta (138) , perché trascura di considerare che l'accertamento del valore da assegnare ad una legge approvata con lo speciale procedimento di revisione è da compiere sulla base non già di presunzioni, bensì dell'oggettivo contenuto della medesima. Pertanto ogni mutamento comunque apportato alla disciplina della materia formalmente costituzionale non può mai sottrarsi all'obbligo di assumere la veste prescritta per questa, rimanendo così sempre coperta dalle garanzie ad essa inerenti (e ciò tanto più quando sia disposto, come fa l'art. 138 cost. italiana che le «leggi costituzionali» subiscono lo stesso trattamento della Costituzione). Se mai un dubbio potrebbe essere formulato nell'ipotesi contraria, di approvazione con la procedura della revisione di norme estranee al contenuto della Costituzione, sembrando più esatto ritenere che la loro "costituzionalizzazione" debba risultare da una volontà espressa in tal senso. In realtà, a prescindere dal punto per ultimo accennato, non vi è nessun serio motivo che possa indurre a trattare le leggi di revisione diversamente dalle altre in ordine al loro assoggettamento ai princìpi generali sulla abrogazione. Ciò appare tanto più vero quando si tenga presente che la delimitazione dell'effettivo valore e del concreto àmbito di una norma, quando non sia ricavabile in modo testuale dalla sua formulazione, spetta all'interprete, che dalla «formula» deve ricavare la «norma». La questione, del resto, riveste scarsa importanza pratica, per lo meno in quei procedimenti in cui è richiesta l'indicazione testuale degli articoli che sono oggetto della modifica. Ma anche quando la legge di revisione in null'altro differisce da quella ordinaria se non per l'esigenza che gli organi competenti per quest'ultima deliberino con una maggioranza speciale, basta che essa si formi in ordine ad una materia inserita nella Costituzione perché il mutamento si effettui, anche all'infuori di ogni consapevolezza di tale effetto, o per mero errore da parte del legislatore, sempreché, naturalmente, sia prescritto che la particolarità della procedura seguita debba risultare dalla formula di promulgazione (139) . Una volta accolto il punto di vista qui sostenuto nessuno specifico problema si presenta sul punto se la modifica apportata in modo tacito assuma valore di eccezione o di regola, abbia carattere temporaneo o permanente, dovendo la soluzione di tali quesiti affidarsi alle norme generali sull'interpretazione.

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35. Le rotture della costituzione. Ad un differente ordine di fenomeni si riferisce la cosiddetta «rottura» della costituzione, espressione adoperata per designare le modifiche apportate ad essa, nelle forme a ciò prescritte, ma rivolte a derogare solo per singole fattispecie a determinate norme, le quali pertanto rimangono in vigore continuando a regolare tutte le altre (140) . Le obiezioni rivolte a contestare il potere del legislatore costituzionale di disporre deroghe singolari sono, analogamente a quelle formulate contro le leggi ordinarie dello stesso contenuto, desunte dal carattere della generalità che si ritiene coessenziale ad ogni normazione e più specialmente a quella costituzionale, in ragione della funzione che le è propria di porre i princìpi ispiratori, comuni a tutti i comportamenti particolari, e, perché tali, non derogabili per singoli casi. Chi considera la generalità quale carattere «naturale» della legge è condotto a negare l'inclusione delle disposizioni singolari in tale categoria di atti ed a considerarle quali «misure» (Massnahmen), rispetto alle quali lo Stato agisce non già in veste di legislatore, bensì nella pienezza della sovranità, nella sua «essenziale» supremazia di fronte alla legge (141) . Non sembra però che al principio della generalità debba assegnarsi siffatto valore universale ed assoluto, né sembra che le norme per il fatto di essere singolari perdano la loro natura di leggi, nel senso proprio del termine di statuizioni di grado primario, innovative dell'ordine preesistente; a prescindere poi dalla considerazione che possono esservi deroghe anche di carattere generale, valide per una serie indeterminata di casi, dovendosi considerare determinante per caratterizzare la «rottura» non tanto la singolarità della statuizione in deroga quanto la sua eccezionalità rispetto ad una regola (142) . La soluzione della questione deve essere desunta non da presupposti aprioristici bensì dai princìpi dell'ordinamento positivo. Si tratta anzitutto di distinguere l'ipotesi dell'espressa inibizione da parte della costituzione di ogni deroga particolare (come per esempio avviene in virtù dell'art. 19 n. 1 cost. fed. tedesca, secondo cui un diritto fondamentale coperto da riserva di legge non può essere limitato per casi singoli; oppure per effetto degli art. 3, 13, 16, 21 della cost. it. che sanciscono uguale riserva di legge generale) dall'altra di mancanza di ogni disposizione al riguardo. Non sembra che la inibizione possa, almeno in via generale, farsi rientrare in quei princìpi fondamentali che, caratterizzando il regime, sono da ritenere assolutamente intangibili e perciò sottratti anche alla potestà dell'organo di revisione. Infatti non è ammissibile un'assoluta preclusione a far fronte a quelle fra le esigenze di svolgimento della vita dello Stato (imprevedibili nei particolari aspetti che il corso del tempo può loro conferire) alle quali non si rende possibile provvedere se non con l'emanazione di norme in deroga di quelle previste in forma generale dalla costituzione (143) . Si è chiesto se eguale influenza sulla soluzione della questione in esame sia da attribuire alla presenza nello stesso testo costituzionale di norme in deroga ad altre in esso sancite, cui si dà il nome di «autorotture» (come avviene per esempio nella vigente Costituzione italiana che con le disp. finali XII e XIII limita il godimento di diritti costituzionalmente garantiti nei riguardi degli appartenenti alla famiglia prima regnante, o al disciolto partito fascista). Non sembra che da tale circostanza possa trarsi alcuna deduzione sia nel senso dell'assoluto divieto di estensione delle deroghe previste, sia nel senso contrario dell'implicito consenso a tale estensione. In realtà la soluzione deve farsi discendere dall'interpretazione sistematica, e non già del solo testo, bensì del complessivo ordine costituzionale, e più precisamente degli interessi e valori fondamentali che, come si è visto, ne formano l'elemento vitale. Alla stregua di tale criterio le disposizioni finali della Costituzione italiana che si sono ricordate non dovrebbero considerarsi eccezioni, apparendo piuttosto espressione della posizione assunta dal nuovo ordinamento di antitesi rispetto ai princìpi che ispiravano il precedente ed alle forze che ne erano il sostegno, e della conseguente volontà di distacco da ogni elemento del passato regime. In conclusione sono da ritenere ammissibili tutte quelle deroghe le quali non contrastano con i fini della costituzione, ma anzi tendono a salvaguardarli di fronte ad eventi sopravvenuti, che senza una disciplina in deroga ne comprometterebbero la soddisfazione. Così di fronte ad una legge di revisione rivolta ad aggiungere altri casi di proroga della legislatura oltre quella prevista dall'art. 60 cost. italiana, il giudizio sulla sua costituzionalità dovrebbe formularsi in senso positivo quando si accertasse che la deroga si proponga non già di attentare al principio democratico rappresentativo, che esige la rinnovazione della

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composizione delle assemblee elettive a brevi intervalli, ma di preservarlo da pericoli che possano recargli pregiudizio. Alla stregua del criterio medesimo è da decidere se la deroga trovi nella norma della costituzione cui si riferisce solo un ostacolo formale, superabile mediante la sua previa rimozione, da operare mediante la generica modifica della medesima, o invece anche un impedimento sostanziale non rimovibile, e altresì se, ammessa la derogabilità di norme generali di organizzazione, essa possa effettuarsi solo nel senso dello spostamento dell'ordine delle competenze dall'uno all'altro organo costituito, o anche con l'esercizio diretto della competenza mediante la legge di revisione (144) . È quindi il criterio predetto che può di volta in volta far decidere se la deroga alla costituzione sia da considerare «rottura» o invece «colpo di Stato»; figura quest'ultima che si ha appunto quando la modifica apportata opera la sovversione di un elemento che contrassegna il tipo di Stato (145) . 36. Le sospensioni della costituzione. Figura distinta dalla «rottura» è l'altra della «sospensione» della costituzione che ne differisce non solo perché non dà necessariamente vita ad atti con contenuto singolare, ma anche e soprattutto perché presenta sempre un carattere di provvisorietà, rivolta com'è a provvedere a situazioni transitorie di emergenza, ed opera pertanto solo sull'efficacia della norma costituzionale cui si riferisce, senza incidere sulla sua validità che rimane integra, consentendole perciò di riprendere il suo vigore appena sia cessato il periodo della sospensione. La dottrina di solito tratta promiscuamente le due figure: ciò che può spiegarsi pel fatto che comune è il loro fondamento più generale e che in pratica può riuscire a volte non facile il distinguerle, per le ragioni che si sono considerate parlando delle modifiche tacite. Così, per esempio, ove una legge costituzionale disponga, in un sistema bicamerale, il prolungamento della durata di una sola camera rimane incerto se si sia voluto dare alla disposizione validità solo provvisoria o invece permanente (146) . L'opportunità della distinzione si deduce, oltre che dalla precedente osservazione sulla diversità degli effetti, anche dal rilievo che mentre per le deroghe viene in considerazione, quale procedimento valido ad effettuarle in via legale, la legge di revisione, e si pongono i problemi già visti relativi all'esigenza della previa eliminazione dell'impedimento ad effettuarle, quando esso sia espressamente stabilito; viceversa le sospensioni difficilmente possono venire disposte in via di legislazione costituzionale, né per esse dovrebbe presentarsi l'obbligo della modifica del testo. Ciò si desume facilmente dalla stessa finalità delle sospensioni medesime che è, come si è detto, di provvedere ad eventi pregiudizievoli per lo Stato che si producono di improvviso con carattere di straordinarietà e rivestono tale gravità da non potere essere fronteggiati con l'esercizio dei poteri ordinari, richiedendo invece misure eccezionali, extra ordinem. Subordinare l'adozione di tali misure all'impiego della procedura di revisione, per sua stessa natura lenta e complessa, potrebbe significare di fatto l'impossibilità di intervenire in modo tempestivo ed efficace. A questa considerazione di carattere pratico se ne accompagna un'altra dedotta dalla natura e funzione della revisione, di provvedere ai mutamenti della costituzione, mutamenti che le sospensioni non sono rivolte ad effettuare. Che se invece si ritenga che anche la temporanea interruzione del vigore delle norme costituzionali sia da assimilare ai mutamenti del testo, e che gli aggravamenti di procedura non siano di ostacolo, in determinati casi, all'adozione di misure di difesa adeguate al pericolo insorto, non dovrebbe sorgere dubbio sulla possibilità di utilizzare a tale scopo l'organo di revisione. Le considerazioni fatte valere a fondamento del potere di operare delle «rotture» sono a più forte ragione da invocare nel caso delle sospensioni. Né per giungere a conclusione contraria potrebbe farsi appello al «principio di legalità» che dovrebbe operare nel senso di inibire ogni arresto dell'efficacia delle norme consacrate nel testo, e ciò per il carattere strumentale che queste assumono in confronto ai fini della conservazione dell'ordinamento (147) . Conservazione che può assumere due aspetti, secondo che riguardi l'integrità materiale di esso di fronte ad eventi capaci di pregiudicarla (epidemie, terremoti, invasione da parte di altri Stati), o invece quella istituzionale, quando si manifestino tentativi di sovversione avverso le strutture del regime.

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Anche a proposito delle sospensioni si è chiesto, come per le rotture, se ed in che misura le soluzioni in ordine alla loro ammissibilità, o all'organo competente a disporle, o ai limiti entro cui sono da contenere siano influenzate da disposizioni consacrate nel testo. Occorre notare (per meglio chiarire il vario contenuto racchiuso nella figura delle sospensioni) che le disposizioni cui si fa cenno possono avere ad oggetto o solo la temporanea sostituzione di un legislatore straordinario a quello ordinario per l'emanazione di vere e proprie norme, destinate, a volte previo sindacato dell'organo ordinario, a disciplinare stabilmente i rapporti cui si riferiscono (legislazione di urgenza - Gesetzsgebungsnotstand), oppure la sottrazione alla disciplina costituzionale di interi settori dell'attività statale, e perciò anche di quella affidata ad organi diversi dal legislativo (differentemente qualificata con i termini di stato di pericolo, di assedio, di guerra, o più comprensivamente designata come situazione di necessità dello Stato - Staatsnotstand). Le figure ora così distinte poggiano tutte su uno stesso fondamento: tuttavia la varietà del loro contenuto fa sorgere questioni di interpretazione quando, come nel nostro diritto, la costituzione preveda formalmente solo la prima (art. 77), tacendo delle altre, o accennando solo allo stato di guerra esterna (art. 78). Può verificarsi il caso che venga espressamente inibita ogni sospensione totale o parziale della costituzione, come fa per esempio l'art. 130 cost. belga. Non sembra però che la volontà così formulata dal costituente valga effettivamente a preservare da quelle evenienze che impongono di trascendere l'ordine formale. Sicché nessuna sostanziale differenza (neanche sotto l'aspetto della previa rimozione dell'ostacolo costituito dal divieto) viene in pratica a sussistere fra l'ipotesi prospettata e quella opposta di testuale previsione della potestà di sospendere l'impero della costituzione (ad esempio art. 93 cost. franc. anno VIII). L'esigenza di evitare per quanto possibile l'arbitrio e mantenere anche nei casi di emergenza alcune garanzie formali proprie dello Stato di diritto (o, in altri termini, di attenuare al massimo il distacco fra costituzione formale e costituzione reale) ha condotto ad includere nelle costituzioni contemporanee una qualche disciplina delle sospensioni stesse per quanto riguarda sia l'organo competente a dichiarare la sussistenza degli eventi straordinari e ad assumere i poteri dai medesimi richiesti, sia le modalità di emissione e le specie delle misure destinate a fronteggiarli, sia i controlli sulle medesime. È tuttavia da osservare come le dette predisposizioni non possono vantare la pretesa ad una rigida osservanza, e ciò per la natura stessa delle situazioni di emergenza tale da far loro assumere gli aspetti più imprevedibili. Esse rivestono un valore di semplice indizio delle valutazioni compiute dal costituente circa la maggiore idoneità di certi organi a meglio interpretare, in relazione alla struttura dell'ordinamento, la natura e l'entità degli eventi richiedenti misure di eccezione, nonché la congruenza a tale scopo di determinati procedimenti. Indizio utilizzabile allo scopo sia di far identificare gli altri organi che meglio siano in grado di prendere il posto di quelli designati dalla costituzione, allorché essi vengano a mancare, sia di indirizzare alla scelta di quelle procedure esperibili eventualmente quando, una volta cessato lo stato di emergenza e reintegrata la normalità, si avverta l'esigenza di sottoporre a sindacato l'attività svolta durante il medesimo. Dall'esame comparativo delle costituzioni moderne si desume una grande varietà di disposizioni riguardo alla designazione degli organi cui compete dichiarare lo stato di necessità ed assumere i relativi poteri. Così alcune affidano allo stesso legislatore di disporre le sospensioni, consentendo che solo nel caso di vacanza di detto organo si sostituisca provvisoriamente ad esso il Governo (art. 92 cost. francese anno VIII), altre invece investono il Capo dello Stato di tale potere (art. 48 cost. Weimar; art. 16 cost. francese 1958; art. 202, 203 cost. olandese); altre ancora ne affidano la titolarità al Governo (art. 86 cost. turca; art. 28 cost. irlandese), o prevedono distinte competenze del Governo e del Capo dello Stato secondo la natura degli eventi e delle misure correlative (art. 77 e 78 cost. italiana; art. 16 e 36 cost. francese), oppure richiedono il concorso di entrambi detti organi (art. 18 cost. austriaca 1929). In presenza di siffatta varietà vi è motivo di dubitare della possibilità di enucleare princìpi generali suscettibili di farsi valere per interi tipi di Stato, nel caso di silenzio della costituzione (148) . È piuttosto da risalire alle strutture organizzative di base dei singoli ordinamenti onde enuclearne i princìpi impliciti che conducano ad individuare il titolare dei poteri di emergenza (così negli U.S.A. la posizione di guida politica del Presidente conduce a conferire a lui le potestà straordinarie per i casi di insurrezione e di guerra civile). Analoga varietà si riscontra nelle norme relative alla natura dei provvedimenti adottabili.

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In alcuni casi il costituente ha avuto cura di elencare in modo tassativo le norme costituzionali suscettibili di sospensione (ad esempio art. 48 cost. Weimar; art. 18 cost. austriaca), in altri nessun limite del genere è stato posto (art. 16 cost. francese), in altri ancora la sospensione di norme costituzionali non è prevista, ed anzi potrebbe sembrare esclusa (art. 77 cost. italiana). Inoltre in alcune la predisposizione normativa è limitata solo agli eventi derivanti dalla guerra avverso nemici esterni, altre la estendono ai casi di rivolta o torbidi interni. Secondo si è osservato, i limiti posti dalla costituzione in ordine all'indole dei provvedimenti da adottare o alle loro forme non possono assumere valore assolutamente vincolante. Tuttavia la medesima esigenza messa in rilievo di utilizzare nella misura massima possibile le prescrizioni della costituzione formale deve indurre ad interpretare estensivamente la normazione in materia, allo scopo appunto di circondare i provvedimenti emessi, anche se diversi da quelli previsti, dei requisiti formali richiesti per questi ultimi. Così, mentre sembra che l'art. 77 cost. italiana limiti la deroga all'ordine dei poteri costituzionali solo nel senso di conferire in via provvisoria al Governo la potestà di emettere atti legislativi di competenza del Parlamento, tuttavia è da includere in essa anche quella di derogare ad altre norme, sia pure sostanziali, della Costituzione (intendendo perciò la «forza di legge» conferita ai provvedimenti provvisori altresì nel senso di «forza di legge costituzionale») tutte le volte che ricorra il presupposto richiesto dei casi straordinari di necessità e di urgenza (149) . Siffatta estensione trova i suoi limiti, oltre che nella eccezionalità degli eventi che potrebbero rendere impossibile il rispetto dei termini cui l'art. 77 condiziona la validità dei provvedimenti provvisori, anche nella natura di questi ultimi i quali, pel fatto di violare precetti della costituzione, non sarebbero suscettibili di venire «convertiti» in legge ordinaria. Sicché l'intervento del Parlamento non potrebbe essere rivolto a novare la fonte dell'atto promanante dal Governo, venendo invece ad assumere valore solo di controllo politico e di sanatoria della responsabilità assunta da questo per la violazione operata della Costituzione. Si è chiesto, in ordine all'àmbito consentito alla sospensione, se questa possa estendersi all'intero assetto costituzionale, anche all'infuori dei casi nei quali sia prevista (come avveniva nella costituzione romana con l'istituto della dittatura cosiddetta «commissariale») la presenza di un organo straordinario nel quale si riassuma la pienezza dei poteri. È da ritenere che pure tale evenienza sia da ammettere quando se ne palesi la necessità al fine della conservazione dell'ordinamento. Si possono quindi raffigurare gradi diversi di sospensioni, potendo queste riguardare o singole norme della costituzione o un complesso di istituti, con la sostituzione di alcuni organi costituzionali a quelli ordinari (come nel caso dello «stato di assedio»), o la totalità dell'ordine costituzionale. In ogni caso si ha la sostituzione temporanea di alcune regole ad altre, o addirittura dell'intero ordinamento positivo o di parte di esso con altro di carattere provvisorio. Le osservazioni fatte riguardo alle «rotture», che conducevano ad escludere l'esattezza della distinzione fra «norme» e «misure» trovano applicazione anche per le sospensioni (150) . Si potrebbe eccepire che sussiste per queste ultime un particolare motivo che dovrebbe suffragare l'esclusione del carattere normativo degli atti in cui si concretano: e cioè la inidoneità di questi (quando assumano il contenuto loro più proprio, che non è quello delle «ordinanze» generali soggette a conversione, e destinate a durare) a produrre l'abrogazione delle disposizioni alle quali contraddicono. La risposta a tale eccezione importa che si richiamino i princìpi relativi al fondamento giuridico delle attività extra ordinem, che come è noto è oggetto di vive discussioni. Sono da escludere quelle fra le soluzioni del problema che pervengono al risultato di contestare in sostanza la giuridicità delle sospensioni: ciò sembra accadere allorché esse vengano considerate quali mere situazioni di fatto, suscettibili di una legittimazione solo ex post, cioè se e nella misura in cui riescano in concreto ad essere attuate ed accettate come valide; in nulla così distinguendosi dalle altre (alle quali è invece da riconoscere natura e fondamento del tutto diversi) che tendono a sovvertire l'ordinamento nel quale operano ed a porsi come instaurative di uno nuovo e differente (151) . Neppure sembra che riesca soddisfacente il richiamo che si fa alla necessità intesa come fonte che opera con immediata efficacia, come forza originaria e creatrice di ogni specie di diritto (152) . Per rendere utilizzabile tale concetto ci si deve invece richiamare ad una necessità «istituzionale», che resti cioè nell'orbita di un ordinamento in atto, e sia promossa dal bisogno della sua conservazione, la quale, riuscendo pregiudicata dall'osservanza dell'ordine legale, richiede si dia vita ad un ordine diverso, destinato a sostituirglisi temporaneamente, in tutto o in parte. Ma se è così, se l'elemento che

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promuove tale sostituzione, ne circoscrive l'àmbito ed individua l'organo o gli organi da ritenere abilitati ad effettuarla deve ritrovarsi nei fini istituzionali (o detto in altri termini nella costituzione materiale), sembra allora chiaro che la fonte del potere straordinario sia da riporre in questi, mentre alla necessità è da attribuire piuttosto la funzione di condizione di fatto, tale da rendere immediatamente operanti i fini stessi, in sostituzione delle norme predisposte per realizzarli in via ordinaria. La duplicità degli ordinamenti che viene così a determinarsi, quando a quello legale, che rimane allo stato quiescente, se ne aggiunge uno effettivamente operante (contra legem ma secundum constitutionem), dà ragione del come lo spiegarsi della normatività di quest'ultimo non esplichi effetti sulla validità delle statuizioni cui essa contrasta; ed inoltre di come la duplicità stessa, appunto perché poggia su uno stesso sostrato ed è espressione delle stesse esigenze, che si manifestano sotto specie diverse secondo i particolari momenti, non solo non rompa la sostanziale unità del sistema, ma invece si presenti quale risultante della composizione delle varie forme di manifestazione di cui è potenzialmente capace (153) . 37. Le modifiche consuetudinarie e convenzionali. L'esame compiuto del fenomeno delle sospensioni di singole disposizioni o di parti più o meno ampie della costituzione per opera di fonti diverse da quella abilitata alle modifiche costituzionali e ad essa subordinate comprova la fallacia dell'opinione che vede nel procedimento di revisione il grado più alto della volontà statale e nella sua disciplina il contenuto più specifico di ogni carta costituzionale. Ciò risulta ancor meglio riaffermato dalla osservazione degli ordinamenti statali la quale mostra come operino sempre fatalmente in essi, quali che siano le loro strutture, fattori produttivi non già solo di temporanee interruzioni del vigore delle norme costituzionali, del genere di quelle già viste, ma di mutamenti più o meno estesi che assumono carattere permanente. Le norme sulla revisione, alla pari delle altre, sono «costituite» e, come tali, anch'esse subordinate alla soddisfazione degli interessi posti a base del tipo di consociazione, secondo sono valutati dalle forze in esso operanti. Sicché, come trovano negli interessi predetti i limiti che ne circoscrivono l'applicazione, così non sono suscettibili di impedire l'invasione di altre fonti nella sfera loro propria. Su queste modifiche tacite, diverse dalle altre prima considerate perché caratterizzate non già solo dal mancato mutamento del testo, ma dalla loro derivazione da soggetti diversi da quelli cui è affidato in via esclusiva il potere di effettuarle ed attraverso congegni anche diversi da quelli formali (e per le quali la dottrina tedesca usa il termine Verfassungswandlungen) è ora da fermare l'attenzione, prendendo in considerazione il vario oggetto che assumono, i soggetti per opera dei quali sono messi in essere, i procedimenti impiegati per effettuarli, il fondamento che li giustifica (154) . Non è da accogliere l'opinione (enunciata, fra gli altri dal HSU DAU LIN) secondo cui il problema preso in esame si presenta esclusivamente nelle costituzioni rigide, poiché esso, non riguardando solo le deroghe alla costituzione per opera del legislatore ordinario, interessa ogni tipo di ordinamento, e quindi anche quelli poggianti sulla consuetudine. La dottrina ha schematizzato in modi e secondo orientamenti differenti le manifestazioni del fenomeno in esame, ma spesso adottando criteri fra loro eterogenei (155) . Poiché il fenomeno stesso risulta dal distacco che si determina fra il testo scritto e la realtà costituzionale, la classificazione dovrebbe muovere dalla considerazione della specie e del grado di tale distacco. Sotto questo riguardo sembra debba effettuarsi una bipartizione considerando, da una parte, i mutamenti che, pur rispettando la lettera di una disposizione, contraddicono alla ratio che l'aveva ispirata, oppure, giovandosi della indeterminatezza della norma costituzionale, tale da poter ricevere più significati, o dell'assenza di specifiche disposizioni, sostituiscono al significato attribuito ad essa in un primo tempo, o al modo prima seguito nel colmare la lacuna, significati e modi differenti, e, dall'altra, quei mutamenti che invece si pongono in netto irriducibile contrasto con le formule consacrate nella costituzione (156) . La storia delle costituzioni offre un'abbondantissima messe di esempi. Così fra i mutamenti che appaiono rispettosi della lettera ma in contrasto con lo spirito o con lo scopo cui le norme erano indirizzate, o che comunque innovano al diritto prima vigente, sono da ricordare la trasformazione operatasi nella forma di governo del Regno di Sardegna da costituzionale in parlamentare; la formazione negli U.S.A. di un «Cabinet» presidenziale in rapporto con le commissioni del Congress (che aveva avuto nel regime prussiano «a cancellierato» un precedente in qualche modo analogo con

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l'istituzione dei rappresentanti del Cancelliere); ed ancora di maggior rilievo la preminenza assunta dal Presidente americano rispetto al Congress. Inoltre l'impiego dell'istituto inglese dell'impeachment all'infuori del caso di veri e propri reati ministeriali; l'uso di utilizzare la dichiarazione di urgenza di una legge da parte dell'assemblea federale svizzera al solo scopo di escludere la sottoposizione della medesima al referendum, anche fuori dei casi di effettiva necessità della sua immediata entrata in vigore. Ugualmente, e forse più numerosi, gli esempi di vere e proprie deroghe a precise statuizioni. Fra quelli più rilevanti si possono ricordare: la sostanziale abrogazione del potere di scioglimento della Camera dei deputati che era conferito al Presidente della Repubblica francese dalla Costituzione del 1875; la sostituzione nell'U.R.S.S. del Presidium al Soviet supremo nella formazione di molte leggi, ed anche di quelle costituzionali, limitandosi quest'ultimo a ratificare quanto già disposto dal primo; l'introduzione della delega legislativa negli U.S.A. sebbene non prevista dalla costituzione rigida. Nel recente diritto italiano si è derogato all'art. 79 cost. che prevede una ripartizione di compiti fra Parlamento e Capo dello Stato nella concessione dell'amnistia; all'art. 81 per quanto riguarda la predisposizione dei mezzi per far fronte a nuove spese, che si effettua sovente con legge non sostanziale, nonché l'annualità dell'approvazione del bilancio consuntivo; all'art. 64 relativo al quorum prescritto per la validità delle sedute delle Camere; all'art. 72 per la previsione fatta dal regolamento della Camera di un procedimento cosiddetto «di urgenza», diverso da quelli ivi previsti, ecc. 38. I procedimenti derogatori. La consuetudine. Quanto ai mezzi attraverso cui le deroghe si effettuano, si sogliono distinguere quelle che si concretano in atti (leggi ordinarie (157) , regolamenti delle Camere parlamentari o più generalmente di organi costituzionali, decisioni giudiziarie) dalle altre che invece si realizzano mediante fatti, cioè comportamenti, diversamente qualificabili, messi in opera da singoli organi o dal concorso di più fra essi. Deve però rilevarsi come l'applicazione della categoria degli atti giuridici alle attività di cui si parla, che sono quelle contrastanti con l'ordine dei poteri costituzionali, appare impropria; ciò perché un atto rimane privo dei contrassegni che consentono tale qualifica e viene retrocesso a fatto quando straripa dalla sfera che gli è assegnata e si consideri produttivo di effetti diversi da quelli che le predisposizioni normative ne fanno derivare. Inoltre affinché una deroga a precetti costituzionali possa prodursi non è, di solito, sufficiente l'emanazione di un atto singolo, occorrendo invece una sua ripetizione nel tempo, cioè l'intervento di un fattore estraneo all'atto stesso tale da trasformarne l'efficacia. Può essere anche osservato che considerare l'attività contra constitutionem come se si esplicasse attraverso atti (intesi in senso proprio) corrisponde anche all'intento pratico, spesso comune a coloro che la mettono in essere, di dare alla medesima un'apparenza di legalità. Con il ricondurre le manifestazioni del fenomeno in esame alla categoria dei fatti non si intende però aderire alle concezioni positivistiche, perché queste, rinunciando a ricercare una fonte di legittimazione che non si identifichi con la costituzione formale, sono condotte (contrastando con le risultanze dell'esperienza), a contestare in blocco ogni validità ai comportamenti contrari al testo (anche se siano uniformemente seguiti) e li considerano non suscettibili di garanzia istituzionale, perché giuridicamente non qualificabili (158) . Per sfuggire a tale conclusione senza tuttavia rinunciare alle premesse da cui il positivismo muove, occorrerebbe rinvenire norme aventi rilievo costituzionale le quali operino un rinvio formale a fonti extrasistematiche, conferendo alle statuizioni che ne promanano o una posizione di prevalenza rispetto a quelle del legislatore costituzionale (come nel caso che si sancisca l'adattamento dell'ordinamento rinviante a norme del diritto naturale o del diritto internazionale generale o della consuetudine) o invece una funzione subordinata, di integrazione delle lacune. Questa via ha in sostanza percorso la dottrina italiana che, con riferimento alla fonte consuetudinaria, si è rivolta all'interpretazione dell'art. 8 preleggi, per ricavarne un criterio idoneo a giustificare l'assunzione della medesima onde applicarla, in luogo dei comuni procedimenti analogici, nei casi in cui difetti la regolamentazione relativa a concrete fattispecie. Partendo dal presupposto del valore sostanzialmente costituzionale delle preleggi, si è ritenuto che la disposizione di cui all'articolo predetto, mentre per le materie espressamente regolate è da invocare allo scopo di poter escludere l'efficacia della consuetudine tutte le volte che la legge non ne faccia espresso richiamo, viceversa può essere assunta a fondamento del concreto valore normativo della consuetudine medesima o quando (secondo alcuni) manchi ogni statuizione positiva, oppure (secondo altri) allorché

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le statuizioni sussistano, ma non siano sufficientemente specifiche, precise e univoche (159) . A parte ogni esame della possibilità di attribuire valore sostanzialmente costituzionale alle preleggi, e della applicabilità dell'art. 8 ai rapporti costituzionali (160) , è da osservare come il presupposto da cui muove la tesi che accorda preferenza alla consuetudine quale mezzo di integrazione delle lacune rispetto al procedimento analogico di cui all'art. 12 è quello secondo cui, rivolgendosi quest'ultima disposizione al giudice (dato che la sua applicabilità è limitata solo alle sfere dell'ordinamento nelle quali possono sorgere controversie suscettibili di decisioni giudiziali) ed essendo da ritenere che ciò non si verifichi per i rapporti costituzionali, se ne deve dedurre che questi rimangano sottratti al vigore della disposizione medesima. Anche ad ammettere l'esattezza di tale interpretazione, il presupposto è destinato a cadere quando un controllo giudiziario sia consentito anche per conflitti di carattere costituzionale. Né varrebbe invocare, a sostegno dell'opinione confutata, la discrezionalità consentita dalla costituzione per l'esercizio delle funzioni supreme dello Stato, poiché il vincolo al fine cui la discrezionalità deve essere rivolta, imposto anche per le funzioni di cui si parla, non può non limitare tale esercizio, ed il controllo sulla sua osservanza dovrebbe essere consentito anche al giudice della legittimità degli atti costituzionali, con la conseguenza di obbligare questi all'applicazione del criterio analogico di cui all'art. 12. Si può aggiungere che in ogni caso, anche a ritenere superabili le obiezioni mosse alla tesi che vuole dedurre l'efficacia delle consuetudini dalle preleggi, tale fonte sarebbe idonea a legittimare solo le consuetudini secundum o praeter legem, non già quelle contra legem, che vengono specialmente in considerazione nel campo dei rapporti costituzionali. Una soluzione della questione stessa si è creduto di trovare quando si è sostenuto che, essendo necessaria alla formazione della consuetudine costituzionale la partecipazione di organi statali, ed essendo sempre riferibile allo Stato il comportamento di costoro, è la volontà dello Stato stesso che si manifesta in ogni caso, anche tacitamente, attraverso quel comportamento (161) . È facile rilevare l'inaccettabilità di tale spiegazione che lascia senza risposta il quesito del come possano imputarsi allo Stato comportamenti difformi, o sotto il rispetto del procedimento seguito o del contenuto dell'attività esplicata, dalle prescrizioni che regolano l'uno o l'altro, e del perché debbano prevalere su queste quelle formate in via consuetudinaria. Neppure soddisfacente sembra l'opinione che ricerca il fondamento delle consuetudini in parola risalendo ad una norma più generale, sorta anch'essa in via consuetudinaria che le richiama (162) . Infatti, a parte la considerazione che questa tesi non dà ragione del come la norma presupposta si coordini in unità con il sistema delle leggi scritte, è da osservare come una tale norma, lungi dal potere assumere il valore di fondamento delle singole consuetudini presuppone che queste già sussistano con efficacia vincolante, e siano quindi fornite di una loro intrinseca giuridicità. Riguardo ad altre teorie che fanno derivare tale giuridicità dalla forza normativa del fatto (163) , o dalla necessità valgono le osservazioni formulate in precedenza con le quali si è messa in rilievo la loro genericità, dato che tali fonti sono invocabili per ogni specie di produzione spontanea del diritto, e non rispondono all'esigenza che sorge di ricercare il valore idoneo a conferire al fatto quella particolare giuridicità che rende possibile il suo inserimento in un particolare sistema positivo (164) . Osservazioni analoghe di genericità sono da fare nei confronti della tesi che si richiama al bisogno di certezza, che dovrebbe condurre a far prevalere sulla legge l'uso che riesca a formarsi in contrasto con la medesima (165) , oppure delle altre le quali invocano la forza creativa della coscienza popolare da cui la consuetudine rampolla, o si rifanno al potere costituente originario (166) . Una più recente dottrina ha ricollegato il particolare significato che le consuetudini costituzionali rivestono ai caratteri che sono loro propri dell'effettività ed obiettività, che conducono ad escludere la necessità, onde renderle valide, di apposite norme sulla produzione, ed ha enunciato soluzioni in ordine tanto al problema della prevalenza di tali consuetudini sulla legge scritta, quanto a quello dell'inapplicabilità alle lacune della costituzione del principio di analogia (e in conseguenza della sostituibilità delle norme consuetudinarie al posto delle altre che discenderebbero da tale principio), facendo osservare: pel primo punto, che le norme sulla produzione, a differenza delle altre, posseggono un valore solo relativo, nel senso che la loro validità debba ritenersi in certo modo sospesa perché condizionata alla dimostrata capacità di venire osservate in concreto; e pel secondo che le consuetudini

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integrative desumono la loro ragione dalla «singolarità» delle disposizioni costituzionali, o anche dalla semplice opinione che di tale singolarità abbiano gli organi dai quali emanano i comportamenti consuetudinari (167) . Può osservarsi, con riferimento alla prima questione, che i caratteri dell'effettività e dell'obiettività, se attestano la intrinseca giuridicità delle consuetudini, non spiegano ancora il perché del loro inserimento nell'ordine legale, né valgono a far determinare il limite di tollerabilità di tale inserimento. Il pericolo insito nella dottrina in esame di cadere in una raffigurazione meramente esistenziale del fenomeno giuridico appare più grave quando si tenga conto che essa dal carattere condizionato delle norme sulla produzione è condotta ad attribuire anche ad ogni singolo atto difforme dalle medesime, indipendentemente dalla formazione di consuetudini, valore creativo di diritto. In realtà, anche se è vero che l'unità di un ordinamento possa risultare da autonomi atti di produzione del diritto, è tuttavia da presupporre un supremo criterio che consenta di qualificare tali atti, sotto l'aspetto non necessariamente della loro corrispondenza a requisiti formali, bensì della loro aderenza obiettiva ai fini dell'ordinamento. Per quanto poi riguarda l'altro aspetto del problema, l'ammissione fatta dall'ESPOSITO del carattere meramente soggettivo che può rivestire l'attribuzione del carattere della singolarità alle norme costituzionali, al solo scopo di potere invocare la consuetudine con funzione integrativa, anche se in contrasto con il chiaro dettato delle medesime, viene a svuotare la considerazione fatta valere di ogni vero valore esplicativo. Se infatti l'accordo fra gli organi costituzionali deve ritenersi decisivo per giungere a sottrarre le norme in parola all'interpretazione che se ne dovrebbe effettivamente dare, allora si torna alla tesi prima considerata, che fa dipendere dalla volontà degli organi stessi la validità delle consuetudini e la loro preminenza sulle altre fonti. È degno di nota come uno degli autori che più recisamente ha contestato la inseribilità nel sistema giuridico delle consuetudini contra costitutionem, messo di fronte ai dati dell'esperienza che attestano la estensione e persistenza del fenomeno, è giunto ad ammettere che una garanzia tali fatti derogativi devono pure ottenere per riuscire a farsi valere, e l'ha ritrovata nell'azione delle forze politiche e sociali (168) . Il problema è però di stabilire il rapporto da porre fra tali forze e gli organi dello Stato che necessariamente partecipano, con la loro azione o omissione, all'affermarsi della prassi contra legem, e come possa quest'ultima sussistere senza dar vita ad un dualismo rispetto al complesso delle altre attività che si svolgono in senso conforme alla costituzione formale. Non è dubbio che nessuna consuetudine del genere di quelle di cui si tratta, anche se sia sorta in occasione di rapporti fra singoli o enti subordinati, potrebbe acquistare vigore nell'ordine statale se non con il concorso, o attivo o passivo, dei suoi organi, ed in ultima istanza di quelli costituzionali, sicché questi ultimi, mentre cooperano sia pure indirettamente all'inserimento nel sistema delle consuetudini in genere, sono poi gli autori immediati e diretti di quelle che hanno per oggetto rapporti di diritto costituzionale. Ora, per risolvere l'antinomia fra tale fatto e quanto prima si è rilevato sull'impossibilità di imputare allo Stato, considerando esplicazione della attività dei suoi organi i comportamenti di costoro difformi dalle prescrizioni che li regolano, non vi è altro modo se non quello di individuare le forze politiche, nonché le leggi che ne regolano l'azione, deducendo dai modi dell'inserimento delle forze stesse nella costituzione giuridica dello Stato il fondamento degli eventi risultanti dall'esperienza del concreto funzionamento della medesima, e nello stesso tempo il limite entro cui le manifestazioni di volontà difformi dalla costituzione formale sono da contenere affinché esse siano imputabili all'ordinamento senza che ne riesca compromessa l'unità alla quale qui si ha riguardo: un'unità cioè più vasta e coerente di quella che il sistema delle leggi di per sé solo è capace di assicurare. Risulta da quanto si è detto che la spiegazione del particolare rilievo assunto dalle consuetudini nel campo dei rapporti costituzionali non può desumersi dalla elasticità, genericità ed indeterminatezza delle norme che li disciplinano (poiché norme elastiche si riscontrano anche in altri campi, e d'altra parte la via agli interventi derogativi della consuetudine non è preclusa, come l'esperienza dimostra, dalla tassatività e rigidezza delle statuizioni), né dalla loro singolarità, in quanto, come si è ricordato, lo stesso autore il quale ha messo in rilievo tale carattere ha bene avvertito come essa venga spesso affermata sulla base non già di una logica astratta, bensì concreta e storica, che pertanto fa valere come vere quelle che in realtà sono solo pseudo-lacune, onde eludere l'ostacolo posto dal documento

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costituzionale al raggiungimento del fine politico perseguito (169) , ed infine neppure dalla loro sottrazione al sindacato giurisprudenziale, dato che, secondo anche qui i risultati dell'esperienza, l'esistenza del medesimo non ha precluso lo spiegarsi delle consuetudini contrastanti con la costituzione. Si tratta infatti di elementi i quali esercitano un'influenza solo marginale, e come tali non necessari né sufficienti a spiegare il fenomeno. Giova piuttosto fare riferimento alla posizione occupata dagli organi che a tale fenomeno danno vita perché è essa che determina una più stretta aderenza alle forze politiche le quali sono interpreti delle esigenze di vita e di sviluppo dell'ordine politico generale dello Stato, e che conferiscono effettiva garanzia ai mutamenti verificantisi in deroga alla legge, pur quando questa espressamente ne contesti la validità, e quale che sia la specie delle consuetudini che tali mutamenti producono: attive o omissive (nella forma della desuetudine) (170) , innovative in senso formale, in quanto modificative della lettera di singole disposizioni, oppure solo in senso materiale, e cioè incidenti, anche se nel rispetto apparente del testo, sullo spirito e sul significato delle medesime. 39. Le convenzioni della costituzione. La consuetudine (ove si accolga l'opinione che considera essenziale a costituirla la ripetizione nel tempo dei comportamenti in cui si concreta) non può considerarsi strumento esclusivo di mutamenti costituzionali (171) . È appunto la presenza di comportamenti derivanti da decisioni o da accordi fra organi costituzionali, i quali si fanno valere senza che possa invocarsi un loro consolidamento sulla base del decorso del tempo, che ha richiamato l'attenzione su un'altra possibile fonte di deroghe alle norme scritte, e precisamente quella che dà vita alle cosiddette «convenzioni della costituzione». Le opinioni che negano ad esse valore giuridico, e quindi possibilità di contrastare alle norme del testo, sono spesso originate (oltre che dai falsi presupposti assunti circa il modo di intendere i fatti giuridici o dagli equivoci che derivano dal comprendere sotto la stessa denominazione cose diverse) dal fatto che, analogamente a quanto avviene per le consuetudini, anche le convenzioni si fanno valere sotto l'apparenza del rispetto delle formule costituzionali, ma piegandole ad un'interpretazione tale da includervi significati diversi da quelli che si vollero attribuire loro: sicché la dottrina solo perché si è fermata a quest'apparenza e non ha considerato il mutamento apportato allo spirito informatore delle norme ha potuto giungere a quella conclusione negativa (172) . La ragione di distinguere le convenzioni dalle consuetudini deve trovarsi non solo nella circostanza, già rilevata, che il carattere obbligatorio è conferito loro dal solo fatto dell'accordo, anche se inespresso, raggiunto per una singola fattispecie, quando abbia voluto risolvere il possibile contrasto di opinioni sul modo di intendere la norma cui esso si riferisce risalendo ad una ratio decidendi che trascenda il caso concreto; ma anche nella diversità del loro modo di operare perché gli accordi così raggiunti possono, sotto determinate circostanze, rimanere in singoli casi inosservati, non perché se ne disconosca il carattere vincolante, ma perché si conviene nel ritenere non sussistente in quelle particolari fattispecie la situazione di fatto che avrebbe imposto di uniformarsi al precedente; ciò che, com'è ovvio, non potrebbe verificarsi per le consuetudini, dato che queste, una volta sorte, assumono valore sempre obbligatorio (173) . È pertanto da ritenere che le norme convenzionali posseggono una propria autonomia concettuale, e sono valide di per se stesse, non già come semplice elemento pregiuridico o fase del procedimento formativo di una consuetudine; e che inoltre la loro funzione non si esaurisce solo nella mera interpretazione del testo (anche se poi spesso esse si camuffino sotto tale veste per giungere ad una sostanziale alterazione della norma che dicono di interpretare), né si rivolge alla pura e semplice soluzione di questioni concrete, dato che, come si è osservato, tali soluzioni possono esser fatte derivare dalla formulazione di criteri destinati a durare oltre il caso concreto. Alle convenzioni deve dunque assegnarsi un compito più vasto, anche di innovazione del testo scritto, ed appunto perché legate, alla pari delle consuetudini, alle forze politiche che sostengono il regime, compete loro la posizione di fonti istituzionali (174) . 40. Modifiche della costituzione e giurisdizione di costituzionalità. L'opinione che la presenza di organi di giustizia costituzionale possa eliminare il fenomeno ora considerato deve ritenersi sostanzialmente infondata, come può argomentarsi anche dalla esperienza del

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funzionamento del più antico di tali organi, quello nord-americano (175) . Non è qui da esaminare la convenienza dell'adozione del controllo di costituzionalità delle leggi o degli altri atti provenienti dagli organi costituzionali, ma solo da mettere in rilievo come l'attività che ogni giudice esplica per l'adeguazione delle formule normative alle mutevoli situazioni dei rapporti sociali assume, quando si rivolga alle norme costituzionali, aspetti solo quantitativamente diversi da quelli che la caratterizzano nel suo esplicarsi negli altri campi del diritto, in correlazione ai ben noti caratteri propri delle medesime (176) . Caratteri che conducono ad esigere nei giudici costituzionali il possesso di una particolare sensibilità, tale da rendere loro meno difficile intendere le finalità cui le singole norme sono indirizzate e cogliere le sintesi politiche che esse, considerate nella loro connessione e reciproca implicazione, esprimono, e che è necessario riflettere in qualche modo nelle concrete decisioni. Può essere vero che l'abito mentale del giudice, la sua attitudine a riferirsi a norme precostituite ostacolino l'acquisto in grado sufficiente di tale sensibilità e pertanto abbiano per effetto di far valere interpretazioni in senso tradizionalista e conservatrici della costituzione, in opposizione a quelle degli organi governanti (177) ; ma tale fenomeno, se è suscettibile di ritardare l'affermarsi dei mutamenti (e sotto questo aspetto l'instaurazione di controlli giurisdizionali di costituzionalità viene a conferire una specifica impronta al sistema che assuma nel suo seno tale particolare tipo di garanzia) non può già impedirli. Deve quindi ritenersi che il giudice costituzionale partecipi, esso stesso, al processo che ha come risultato la modifica tacita della costituzione, non solo quando interpreta le sue norme in modo da mutarne il significato sostanziale, ma anche attraverso il contributo che egli dà con le proprie pronunce alla formazione di consuetudini o di convenzioni sorte in difformità a precetti del testo; ciò ove si accolga la tesi che attribuisce alla pronuncia del giudice di fronte al quale si fa valere una consuetudine valore non meramente dichiarativo (178) . Tesi che si presenta ancora meglio fondata se la si consideri con riguardo alle consuetudini costituzionali, dato il carattere più spiccatamente politico che queste rivestono e che vieppiù consente al giudice di far prevalere le proprie tendenze, sia pure in grado diverso secondo la natura degli orientamenti cui la costituzione si informa, oppure secondo che essa rifletta un ordine già composto in armonia in tutte le sue parti, o invece uno solo provvisorio di tipo compromissorio. Da quanto si è detto sembra potersi desumere la conclusione che il giudice costituzionale, in presenza di consuetudini sia praeter che contra constitutionem, dovrebbe dichiarare non solo la validità delle leggi ad esse conformi, ma altresì la invalidità di quelle in contrasto con le medesime (179) . 41. Esame delle opinioni negatrici della esistenza di limiti. La precedente trattazione ha offerto gli elementi necessari alla esatta valutazione del problema dei limiti entro i quali si rendono possibili i mutamenti costituzionali, sicché non rimane che riassumerne i risultati per procedere agli svolgimenti ed alle applicazioni necessarie a farne meglio intendere i termini e la portata. Si è già visto come il problema dei limiti sia sostanzialmente connesso all'altro della continuità dell'ordinamento, e ciò perché contenere il mutamento della costituzione entro certi argini null'altro può significare se non avvertire l'esigenza di sottrarre ad esso quelle sue parti considerate essenziali a contrassegnare l'ordinamento. È infatti la medesimezza della fonte suprema, quale può essere accertata prima e dopo il mutamento, che vale ad attestare la sua permanenza nel tempo. Sicché per giungere a negare l'esistenza di limiti relativi alle strutture costituzionali si renderebbe necessario risalire ad una fonte sempre uguale a se stessa, ad onta di ogni anche più radicale trasformazione, e questa non può essere altrimenti rinvenuta se non nell'inesauribile potere costituente del popolo come elemento personale dello Stato. Senza ripetere quanto si è detto sulla impossibilità di considerare il popolo inorganizzato quale centro di efficiente potere politico e sulla dissoluzione cui tale opinione conduce del concetto stesso di costituzione (che, come è stato osservato, verrebbe a risolversi in una dialettica senza oggetto), con la conseguente impossibilità di distinguere mutamento da rivoluzione, è da aggiungere come questo stesso richiamo al concetto di popolo non offre elementi sufficienti a spiegare in che modo esso possa assolvere la funzione di identificazione dell'ordinamento che gli si vuole fare assumere allorché siano intervenuti mutamenti nella sua composizione e struttura, sia in un senso quantitativo che qualitativo. La tesi negatrice di ogni limite al mutamento (che in sostanza deriva dalla duplice confusione da una parte fra fonte materiale e fonte giuridica della costituzione, e dall'altra

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fra potere costituente e potere di revisione) è stata anche prospettata in termini diversi, ma sostanzialmente convergenti quando si è sostenuto che le disposizioni le quali limitano i mutamenti costituzionali sono sfornite di ogni significato poiché lo Stato non si identifica con la costituzione, né si compone in unico ordine con questa, ma invece, in quanto unità corporativa sovrana, si pone quale sua fonte, e pertanto può sempre mutarla senza limiti (180) . Si tratta di opinioni che non riescono ad apportare alcun elemento di giudizio nuovo rispetto a quelli posti a base delle altre precedentemente considerate, che appunto si richiamano ad entità che sfuggono a qualificazioni giuridiche (tale apparendo uno Stato che preesista alla costituzione). Secondo una diversa corrente di opinioni si sostiene che il problema dei limiti al mutamento della costituzione si deve considerare privo di base, e ciò perché, essendo ogni costituzione insuscettibile di modifiche effettuabili in forme giuridiche, in quanto essa opera quale limite assoluto a se stessa, una questione relativa alla determinazione di limiti specifici ed ai modi attraverso cui siano da far valere non si pone. È il BURCKHARDT che con maggior rigore ha formulato tale opinione sostenendo che le norme sul mutamento per potersi configurare in termini giuridici dovrebbero dedursi da una fonte superiore secondo criteri normativi-logici. Non risultando ciò possibile, ogni attività rivolta alla revisione è da considerare mero fatto prodotto di forze sociali, e, conseguentemente, non potrebbe in nessun caso comunque si svolga, venire qualificata in termini giuridici, dato che le prescrizioni le quali la disciplinano non condizionano la validità delle norme che ne derivano (181) . A parte i rilievi (che sono stati a suo tempo mossi) in ordine all'opinione che considera non costruibile giuridicamente la formazione di una nuova costituzione, è da osservare come non sia giustificato estendere alle norme sulla revisione lo stesso carattere che si attribuisce alla costituzione da cui derivano, identificando così potere costituente e potere di revisione. In realtà la disciplina di quest'ultimo è da considerare eteronoma non autonoma, ed è appunto tale posizione che spiega la sussistenza di un problema di limiti. 42. Classificazione delle varie specie di limiti. A smentire l'esattezza delle tesi negatrici dei limiti alla revisione può essere addotto (oltre a quanto è stato in precedenza osservato e che sarà più oltre svolto) il fatto, che non può considerarsi privo di significato, della frequente apposizione in numerose carte costituzionali di limiti di tal genere, variamente formulati e riguardanti o l'assoluto divieto di mutare determinate disposizioni, o di mutarle prima del decorso di un certo periodo di tempo, o di mutarle senza il ricorso a procedure superaggravate (182) . Sulla scorta delle norme positive e di ulteriori elaborazioni la dottrina ha proceduto ad una classificazione delle varie specie di limiti (183) , distinguendoli: a) in formali o sostanziali, secondo che riguardino i procedimenti da seguire o i termini da osservare per la validità delle revisioni, o invece abbiano ad oggetto il contenuto delle statuizioni (distinzione che ha ragion d'essere tanto per le costituzioni flessibili - essendo da respingere l'opinione che ritiene possibili per esse solo i limiti formali - quanto per quelle rigide, dato che è errato ricondurre ai formali quelli attinenti al contenuto); b) espressi o impliciti, secondo che trovino la loro precisa formulazione nel testo o invece si desumano da particolari qualificazioni che accompagnano le normazioni relative a determinati rapporti (come nel caso di diritti proclamati «inviolabili») oppure siano argomentabili dal sistema considerato nel suo complesso o da singole sue parti (184) ; c) assoluti o relativi secondo che, dalla volontà espressa del costituente o in modo implicito, risulti che i limiti siano da considerare insuperabili, o superabili solo per mezzo di procedimenti super-aggravati; d) eteronomi o autonomi, secondo che si ricolleghino ad altri ordinamenti (il diritto della Chiesa, quello internazionale, o delle unioni fra Stati) o anche a presupposti giusnaturalistici, o invece prescindano da siffatti riferimenti e trovino la loro fonte nel testo costituzionale. Quest'ultima distinzione può essere fonte di equivoci se non si chiarisca che anche i limiti qualificati eteronomi non possono non ricondursi allo Stato che fa ad essi richiamo, e che perciò può sempre disconoscerli. Ove si riscontri un limite veramente estrinseco allo Stato, nel senso che possa esser fatto valere da un potere da esso diverso (come nel caso di Stato membro d'una federazione) allora si è fuori dell'ipotesi in esame, per la mancanza nell'ordinamento della piena sovranità, che invece deve essere postulata affinché non riescano alterati i termini del problema considerato (185) . Tanto meno poi potrebbe accogliersi una categoria di limiti eteronomi ove

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questi si facessero derivare o da princìpi di diritto naturale, o di astratta giustizia (186) (diversa perciò da quella giustizia relativa a singole situazioni storiche, secondo è valutata dalle forze dominanti, ineliminabile da qualsiasi disciplina di rapporti di diritto), o infine da postulati di sedicente logica giuridica, come sono quelli, prima considerati, dai quali si vorrebbe argomentare il divieto di modifiche tacite, o singolari, nonché quello di procedere a temporanee sospensioni. 43. I limiti assoluti. Interesse per la presente trattazione rivestono non già i limiti relativi, perché essi riguardano solo le modalità del procedimento di revisione, secondo si è fatto prima osservare, bensì quelli assoluti, detti anche essenziali perché riguardano parti costitutive dell'essenza della costituzione, e come tali del tutto sottratti ad ogni specie di mutamento. Si tratta di vedere se sia da ammettere tale categoria di limiti e, nell'affermativa, quale ne sia il fondamento e con quali criteri essi siano da determinare. Una delle correnti di opinioni manifestatesi in argomento, mentre afferma che nessun limite del genere di quelli considerati sia da ammettere se non in quanto esplicitamente statuito dal costituente, sostiene poi che questi ultimi non rivestono carattere di assolutezza, importando solo che la loro modifica avvenga attraverso un duplice procedimento di revisione: il primo rivolto ad eliminare la norma che sancisce il divieto del mutamento, il successivo avente ad oggetto la nuova disciplina della materia che era dichiarata intangibile (187) . A sostegno di tali punti di vista si son fatti valere argomenti di logica giuridica, quale quello che si esprime nel principio della lex posterior, ed altri di carattere pratico dedotti dall'esigenza di escludere ogni eccessivo irrigidimento che comprometterebbe l'adeguazione della costituzione alle imprevedibili esigenze della realtà sociale (188) . È da osservare in contrario come, a parte ogni indagine sulla validità del principio invocato della lex posterior, la sua applicabilità presuppone l'identità della fonte da cui emanano le leggi che si sono succedute nel tempo, ciò che sarebbe da dimostrare, e non è invece dimostrabile neanche nel caso in cui l'organo costituente e quello di revisione derivino la loro investitura da procedimenti che presentino elementi di affinità. Non si contesta l'esigenza che la costituzione si adegui alle nuove situazioni, quali si producano nell'ambiente in cui deve operare, ma si vogliono solo individuare i criteri idonei a differenziare gli emendamenti dell'ordine costituzionale in atto dal sovvertimento che ne segna la soppressione e la sua sostituzione con uno nuovo. Sicché è vano recare a sostegno dell'opinione confutata l'esperienza positiva dei mutamenti verificatisi in alcuni Stati, trattandosi appunto di valutarli onde poter stabilire quale qualifica sia da attribuire loro (189) (190) . È poi da osservare come l'esigenza di stabilità che deve farsi valere come essenziale alla costituzione, non sarebbe in nessun modo assicurata pel fatto di subordinare il mutamento ad una doppia votazione. È infatti evidente che la decisione relativa al mutamento si esaurisce con l'approvazione dell'emendamento abrogativo, che nessun significato può avere se non quello di far venire meno, o alterare nella sua sostanza la norma che era oggetto della speciale garanzia di immodificabilità. 44. (Segue): loro fondamento. La ricerca del fondamento necessario a dar ragione delle limitazioni imposte all'organo di revisione fa leva sulla differenza di grado sussistente fra la costituzione e la legge di revisione, fra organo costituente ed organo costituito, fra la fonte che crea il potere e l'attività che esercita il potere stesso e che non può esplicarsi altrimenti che nell'àmbito degli interessi e dei fini per i quali gli si è data vita, se non si vuole compromettere il mantenimento della funzione spettante alla predetta fonte originaria (191) . La legge di revisione viene quindi ad assumere di fronte alla costituzione, sotto l'aspetto rilevato, una figura analoga a quella della legge delegata rispetto alla delegante, pur dovendosi escludere che sussista fra le prime due un rapporto assimilabile a quello delegatorio. L'avere riannodato l'intangibilità dei princìpi coessenziali ad un ordinamento positivo alla stessa funzione propria della costituzione che li consacra e li garantisce, conduce a respingere l'opinione la quale attribuisce alla intangibilità medesima un valore solo relativo, in quanto la ricollega alla eccezionalità delle forme e dei procedimenti dai quali la costituzione ha tratto la sua vita, e pertanto ritiene necessaria la rinnovazione delle une e degli altri per potere procedere alle modifiche riguardanti i princìpi stessi. A parte le obiezioni che sono da muovere per contestare la sopravvivenza di situazioni

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per loro natura contingenti e straordinarie (192) , è da osservare che l'esigenza del limite assoluto verrebbe ad essere compromessa se questo non rivestisse un'indole tale da imporsi allo stesso organo costituente, non fosse cioè insuperabile anche nei suoi confronti, oltreché sufficientemente concreto e specifico (senza perciò risolversi in generici richiami, per esempio al popolo sovrano), riuscendo altrimenti compromessa quella funzione identificatrice di un singolo ordinamento positivo su cui si è richiamata l'attenzione. È stato già chiarito che la garanzia del rispetto di tale limite non può trovarsi nel parallelismo fra le forme seguite nel momento dell'instaurazione dell'ordinamento e quelle della revisione e neppure nella perpetuazione del potere degli uomini che ebbero ad imporre la costituzione bensì nella permanenza della struttura sociale su cui essa poggia e dei valori fondamentali intorno a cui si ordina. 45. Criteri per la determinazione di limiti assoluti. Alla luce del criterio ora indicato è da considerare la questione relativa alla determinazione degli oggetti o della materia, che per loro intrinseca natura operano quale limite assoluto. Secondo alcuni tale carattere rivestono le norme sul procedimento richiesto per la revisione. Ciò viene argomentato dalla considerazione che le statuizioni apportanti modifiche alle norme predette stanno logicamente in un grado superiore ad esse (anche se provengano dalla stessa istanza), avendo la funzione di porre le condizioni per la loro validità e di concludere il sistema, sicché la nuova norma, non essendo deduttivamente desumibile dalla vecchia, non potrebbe venire in vita se non per via di rivoluzione (193) . La tesi riferita (che si richiama a quella già ricordata del BURCKHARDT, senza però giungere a negare la stessa giuridicità delle norme sulla revisione) ha il merito di affermare (in contrasto con quanto è sostenuto da coloro che, come il KELSEN, considerano possibile ricondurre alla stessa fonte originaria ogni mutamento della norma suprema, purché effettuato nel rispetto delle forme per esso prescritte), l'esigenza propria di ogni sistema costituzionale di un punto fermo, della permanenza delle situazioni di potere che condizionano le manifestazioni di volontà in esso operanti e che ne consentono la identificazione, pur nelle trasformazioni cui è sottoposto nel corso del tempo. Tuttavia deve osservarsi come tale tesi, fondata su un presupposto normativo-logico, esclude ogni discriminazione fra le varie specie di mutamento, quale che sia la loro portata, la loro incidenza sull'ordinamento nel suo complesso, e non può pertanto essere accolta perché contrastante con il criterio qui assunto. Criterio che sembra meglio aderente alla natura e funzione della costituzione (le quali richiedono che ogni apprezzamento relativo al limite debba rifarsi al sistema, allo spirito che lo informa ed in cui trova l'elemento di stabilizzazione) e che quindi conduce ad escludere ogni generalizzazione, per affidare, invece, la decisione in ordine alla incidenza del mutamento apportato alle norme disciplinanti la revisione sulla conservazione del sistema, a valutazioni da effettuarsi di volta in volta, con riferimento ai valori ai quali esso è collegato. Analoga soluzione deve darsi alla questione pure prospettata relativa alla intangibilità della forma di governo o a quella delle proclamazioni dei diritti fondamentali. Occorre accertare, nei singoli casi, se e fino a che punto la forma di governo abbia funzione meramente strumentale rispetto ai fini coessenziali ad un ordinamento, o appaia invece parte integrante della forma di Stato, e, correlativamente, quale posizione rivesta nella totalità il sistema dei diritti, così come risulta dalle norme costituzionali (194) . Da quanto si è detto si deduce un concetto materiale di limite, la cui determinazione deve rimanere affidata a fattori che sono da qualificare «istituzionali», nel senso già noto. È sotto questo riguardo che appare manifesta la insostenibilità di revisioni totali prima ricordate: esse (anche se previste espressamente, come dalla costituzione francese del 1848 e da quelle americana e svizzera) non possono che riguardare il rifacimento formale o di dettaglio della costituzione, non mai toccarne il nucleo sostanziale. Assunto tale punto di vista, si attenua fino a perdere sostanziale rilievo il valore della distinzione fra limiti espliciti e impliciti, formali e sostanziali. Ciò perché da una parte, il carattere di assolutezza del limite non può risultare solo dalla testuale statuizione in tal senso fatta dal costituente bensì dalla interpretazione che di essa deve compiersi alla luce del sistema; e, dall'altra, la trasgressione delle forme prestabilite per la revisione può, in determinate circostanze, non fare venire meno la conformità della medesima ai princìpi dell'ordinamento, mentre viceversa il rispetto delle prescrizioni formali non è di

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per sé sufficiente a far giudicare della conformità di questa ai princìpi predetti, e quindi a ricondurre le norme che ne sono oggetto sotto il vigore della stessa fonte. Ciò che del resto risulta comprovato da una recente esperienza offerta dai radicali mutamenti di regime verificatisi in alcuni Paesi europei in forme legali (195) . Il punto di vista qui assunto non si distacca in definitiva dalla considerazione di logica normativa che conduce a far ritenere immodificabile la norma che dichiara la inviolabilità di determinati precetti; solo che per identificare l'una e gli altri risale dalla costituzione formale a quella sostanziale ed identifica i soggetti capaci di far concretamente valere il limite assoluto nelle forze che presidiano ogni singolo regime positivo. 46. Il problema dell'influenza dei mutamenti costituzionali sulla permanenza dello Stato. Le tesi negative. L'esame compiuto dei limiti assoluti posti alla revisione consente di prendere posizione sul problema dell'influenza che il rispetto o l'infrazione di questi ultimi ha sulla continuità dello Stato in cui tali eventi intervengono. L'opinione ancora dominante, consacrata da una lunga tradizione di pensiero, è nel senso della irrilevanza dei mutamenti delle strutture costituzionali, quali che esse siano, sulla durata in vita dello Stato: opinione che ha trovato la sua epressione nella ben nota formula, secondo cui «forma regiminis mutata, non mutatur ipsa civitas». Quando però si proceda all'indagine (resa necessaria dall'esigenza di interpretare il significato di tale formula) rivolta ad accertare quale sia l'elemento costitutivo della «civitas» che rimane fermo ed immutato ad onta delle trasformazioni dei regimi, si scorge la fragilità delle basi su cui l'opinione riferita si regge. È evidente infatti che questa, in tanto può giungere a negare l'esistenza di limiti suscettibili di frenare il libero espandersi dell'attività creatrice dell'ordinamento in quanto presuppone esistente in questo un'entità, per così dire, noumenica, nella quale operi un limite ad essa intrinseco che le consente di permanere sempre uguale a se stessa, non solo non toccata dalle mutazioni fenomeniche che si svolgono nel suo seno ma capace di dirigerle; depositaria in altri termini di un potere, giuridicamente ordinato, che si pone quale fonte unitaria dei regimi che si succedono nel tempo. Secondo alcuni l'entità che si deve postulare esistente con i caratteri ora detti sarebbe costituita dalla personalità dello Stato (196) . Ma se la personalità si intenda in termini giuridici, si presenta quale creazione del diritto, che di essa si giova come di uno dei possibili strumenti attraverso cui si unificano atti provenienti da soggetti diversi, o si perpetuano nel tempo gli effetti di manifestazioni di volontà di soggetti venuti a cessare. Essa presuppone quindi la preesistenza di un ordine giuridico che conferisca e disciplini tale personalità, sicché il fare ad essa riferimento (quando si prescinda dalle strutture che compongono il regime e che vengono meno con il mutare di questo) lascia insoluto il problema della determinazione degli elementi necessari a rendere lo Stato capace di agire. Se si risale al sostrato che dovrebbe alimentare il potere dello Stato sempre uguale a se stesso non si riesce a trovarne altro di diverso all'infuori dell'identità del popolo localizzato su un dato territorio (197) , cioè di un elemento che, come si è visto, si presenta privo di ogni capacità d'azione giuridica. Analogo riferimento a concetti già prima svolti deve compiersi per quanto riguarda la possibilità di far capo ad una comunità reale, contrassegnata non solo da consonanze spirituali e da interessi convergenti (quali quelle che si esprimono nel sentimento nazionale), ma anche dal conseguimento dell'unità politica, poiché tale unità non si concreta altrimenti che attraverso una determinata forma di Stato, e pertanto rimane da decidere che cosa sopravviva alla continuità storica dello stesso popolo, come fattore autonomo di attività giuridica primaria a sé stante, nel caso del totale mutamento della forma stessa (198) . Un tentativo di maggiore precisazione è stato compiuto quando si è avuto riguardo al popolo come titolare del potere costituente, in virtù di un principio non già di mero diritto naturale (o tanto meno della acquiescenza popolare al fatto compiuto) bensì di diritto positivo. Si è detto che il mutamento rivoluzionario, anche il più radicale, apportato non solo alla costituzione scritta ma anche alla decisione politica che la ispirava, non compromette la continuità quando continui a sussistere la potestà costituente del popolo, nella quale rimane presente «un minimo di costituzione» (199) . È chiaro che nessun superamento delle difficoltà prospettate si riesce a conseguire se la potestà costituente di cui si parla venga intesa astrattamente all'infuori di un ordinamento positivo che la disciplini, potendo il popolo assumere aspetti diversissimi fra loro secondo le modalità qualitative e quantitative attraverso cui è chiamato ad operare. A riprova della debolezza della tesi esposta può

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riuscire utile ricordare il pensiero del BELING (200) , che nel farsi sostenitore della medesima (sia pure con qualche incertezza), è risalito alla radice del contrasto fra essa e quella opposta (che dal mutamento della forma fondamentale fa discendere la frattura fra un tipo di Stato e un altro), individuandola nel diverso modo di intendere la connessione concettuale fra diritto e Stato. Infatti solo con l'identificazione dei due termini si può giungere alla conseguenza di far discendere dal mutamento la fine dello Stato, mentre secondo il BELING il soggetto stato è il dato sociale primitivo, che, come tale, forma il prius del diritto, mentre questo è solo un posterius, una funzione del soggetto o un suo predicato, e pertanto l'individualizzazione dell'ordine giuridico non può esser data dal contenuto delle norme che lo costituiscono e neppure dalla loro forma (che potrebbero le une e l'altra essere in tutte le loro parti uguali a quelli di altri stati) bensì dalla formazione sociale che ne sta a base e che, finché rimane immutata, fa rimanere lo Stato uguale a se stesso. Si può sottoscrivere a quanto il BELING afferma sulla necessità di risalire ad un dato sociale, a patto però di precisare che tale dato interessa il giurista solo in quanto presenti un ordine cosiffatto da consentire l'esplicarsi di un'azione efficiente rispetto ai fini ad esso specifici, ed ascrivibile quindi alla sfera del diritto. Non accettabile sembra poi la tesi che, pur riconoscendo che lo Stato sorge con la costituzione e si rinnova con il mutamento di questa, ritiene tuttavia che il legame fra le varie costituzioni capaci di raccoglierle in unità proviene dal diritto internazionale che, con il riconoscimento da esso fatto di ogni singolo Stato, imputa al medesimo tutti gli eventi svolgentisi nel suo seno riguardo all'ordinamento dei poteri (201) . Il presupposto monistico dal quale tale tesi parte, della dipendenza dell'ordinamento statale da quello internazionale, appare tutt'altro che accettabile, ed in ogni caso possibile ad attuarsi solo assumendo criteri di qualificazione contingenti o di incerta portata (202) , così da non potere offrire una soluzione adeguata ad un problema di carattere generale. 47. La sopravvivenza di norme dell'ordinamento cessato. Un argomento che fa molta presa ed è invocato per consolidare l'opinione che qui si confuta è desunto dalla constatazione che la trasformazione, anche se rivoluzionaria, dell'assetto costituzionale non pretende mai di «cominciare tutto daccapo» ma rispetta settori più o meno estesi del precedente sistema. Si riscontra così il mantenimento di norme attinenti ai rapporti tanto dello Stato con i cittadini (ad esempio leggi sulla cittadinanza), quanto dei cittadini fra di loro, sia di carattere sostanziale che organizzativo (come nel caso del mantenimento di organi e dei loro titolari) e perfino di alcune appartenenti al diritto costituzionale (203) . Non sembra che da tale fenomeno (che si verifica, sia pure in diversa misura, nel caso di estinzione dello Stato in conseguenza della sua annessione ad un altro, pel quale non è certo possibile parlare di persistenza dell'ordinamento) (204) possa argomentarsi alcunché di incompatibile con l'opinione della discontinuità. Infatti di assolutamente nuovo, e pertanto non trasmissibile da altro ordinamento quando ne sia mutata la forma, è solo la potestà suprema (intesa nel senso che si è detto di forze sociali e di fini ad esse coessenziali), mentre nulla impedisce che altre disposizioni dell'ordinamento precedente continuino ad essere applicate. Il fatto che sia estinta la fonte da cui esse traevano la loro validità non ostacola tale permanenza, dovendosi ciò attribuire alla volontà del nuovo Stato; volontà che non opera nel senso di far risorgere dalle loro ceneri le disposizioni ormai caducate (205) , bensì in quello ben diverso di disporre un rinvio materiale (possibile anche se effettuato con riguardo a norme di ordinamenti estinti, o privi di ogni carattere giuridico) al testo che conteneva le medesime, in quanto non incompatibili con il nuovo ordine. Con l'ovvia conseguenza di conferire loro significati e delimitare sfere di applicazione ben diversi da quelli che possedevano nell'ordinamento da cui ebbero a trarre vita, secondo appare richiesto dalla loro inserzione in un sistema informato a princìpi irriducibili a quelli del precedente. L'opinione confutata potrebbe assumere un'apparenza di esattezza ove si ritenesse necessaria un'espressa manifestazione del legislatore costituzionale rivolta alla recezione. Di solito i documenti da cui ha origine il nuovo ordine contengono statuizioni di tale genere (sia pure in forma negativa, come l'art. 81 cost. di Weimar che manteneva vigore alle leggi anteriori non contrastanti); ma anche in loro assenza è la stessa esigenza di completezza, intrinseca ad ogni ordinamento, che conduce l'interprete a ricercare nell'assetto giuridico preesistente la disciplina di rapporti non ancora regolati (206) . La

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medesimezza del popolo e del territorio sono elementi che conducono a far ritenere mantenuti i caratteri materiali dei rapporti sociali che avevano motivata la loro disciplina, e quindi offre una ragione pratica della conservazione di quest'ultima, ma non può mai porsi a fondamento giuridico di tale conservazione; fondamento di tal genere potendo essere costituito solo dalla volontà degli organi del nuovo ordinamento (207) . A conferma delle difficoltà che la soluzione del problema della continuità incontra, quando lo si voglia risolvere muovendo dalla considerazione del mantenimento di una stessa base personale e territoriale, si possono ricordare i casi nei quali, essendosi verificate variazioni in ordine a tali elementi, si presenta dubbio il giudizio circa la persistenza o no della base stessa, dovendosi ricercare un criterio che consenta di poterlo emettere, e risultando arbitrario il desumerlo dalla considerazione puramente quantitativa delle variazioni stesse. Anche in tali casi sembra necessario risalire ai princìpi istituzionali onde potere accertare quanta e quale parte di questi sia da ritenere sopravvissuta, così da collegare in unità passato e presente (208) . 48. Influenza della volontà dello Stato sulla continuità. Neanche soddisfacente è da ritenere l'opinione secondo la quale decisiva per la questione in esame deve ritenersi la volontà dello Stato che subentra e che ha piena libertà di riconoscersi o no continuatore dell'altro (209) . Ciò non solo perché tale volontà può mancare ma altresì pel fatto che, anche quando questa sia espressa, si rende necessario procedere alla sua interpretazione, potendo una manifestazione essere stata imposta da forze esterne allo Stato, o essere il risultato di un calcolo politico e palesarsi perciò non corrispondente con la situazione reale, quale emerge dalla considerazione obiettiva delle istituzioni e del loro spirito. Se ad una volontà ci si deve riferire essa non è quella dichiarata dalle formule normative bensì l'altra che effettivamente emerge ed è fatta valere dal ceto dirigente che indirizza l'azione dello Stato verso gli interessi e le concezioni di cui è portatore (210) . Quando siffatti interessi e concezioni risultino irriducibili a quelli che orientavano l'assetto prima vigente deve ritenersi verificata una rivoluzione, che non cesserebbe di essere tale anche se attuata con mezzi pacifici e con il rispetto delle forme ch'erano prescritte per i mutamenti legali, operando cioè una «frode alla costituzione», secondo la formula prima ricordata (211) . Il rispetto del limite della forma dello stato, intesa nel senso qui assunto di costituzione materiale, è quindi la condizione che consente di ritenere la continuità fra costituzioni le quali si succedono in uno stesso stato (212) . 49. I princìpi fondamentali della Costituzione e loro significato giuridico-politico. La Costituzione, dettata dall'Assemblea (v. Assemblea costituente ) che per la prima volta nella storia d'Italia ha riunito i rappresentanti di tutto il popolo, raccolto in una stessa ansia di civile rinnovamento, quale si era maturata nella tragica esperienza della dittatura e della sconfitta, si apre con una solenne dichiarazione di «princìpi fondamentali». La volontà di considerare tali princìpi non solo quali parti integrative della costituzione ma di porli a base delle altre, conferendo loro diretta ed immediata efficacia normativa nei confronti sia del legislatore sia di ogni altro soggetto, ed anzi efficacia potenziata, di «superlegalità costituzionale», è resa palese dal rigetto della proposta, che pure era stata formulata, di trasferirli in un «preambolo», proprio nell'intento di eliminare la possibilità di dubbi sul carattere da attribuire loro, analoghi a quelli sorti in passato in Francia a proposito delle Dichiarazioni dei diritti formulate in documenti distinti da quelli della costituzione. Carattere che si ebbe cura di ben delineare mediante la qualifica loro attribuita di «fondamentali», con la quale si volle esprimere la funzione ad essi assegnata di porre le linee direttive del disegno poi svolto nelle parti successive, di fornire il criterio generale di interpretazione, suscettibile di riunire in un insieme unitario le molteplici manifestazioni di vita dello Stato, segnando altresì i limiti invalicabili ad ogni mutamento costituzionale. La serie delle dichiarazioni si apre con quella consacrata nell'art. 1, la quale, qualificando l'Italia «repubblica democratica fondata sul lavoro», enuncia il motivo, o meglio l'idea-forza che ispira e nello stesso tempo riassume in efficace sintesi tutte le altre, cosicché da essa si rende possibile ricavare gli elementi essenziali tanto della forma di stato quanto di quella di governo. Infatti il richiamo al lavoro quale fondamento della forma di governo repubblicano, mentre serve a meglio individuare il tipo di

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reggimento voluto instaurare, pone il più generale criterio regolativo dell'intero sistema dei rapporti dei cittadini fra loro e con lo stato: il criterio cioè che, ponendosi al vertice della gerarchia delle norme, determina il grado da assegnare a ciascuna e ne consente la più esatta interpretazione. Collocando a base dello stato il lavoro, pertanto, non si è inteso solo riepilogare le molteplici disposizioni costituzionali che lo prendono ad oggetto, ma si è piuttosto ubbidito all'intento polemico di esprimere una volontà di netto distacco dalle costituzioni del passato (le quali riflettevano strutture sociali basate sulla proprietà privata dei beni di produzione, proclamata e tutelata come bene «sacro e inviolabile») e così invertire il valore attribuito ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest'ultimo sul primo (213) . Non è necessario ricordare come lo stato liberale, mentre non era riuscito a conseguire il fine del massimo benessere collettivo invocato a giustificare la pienezza della libertà concessa alla proprietà ed all'iniziativa economica privata, aveva visto compromessa la propria saldezza dalla frattura determinatasi fra parte e parte della popolazione. Lo «Stato di diritto», caratterizzato dal progressivo perfezionamento delle tecniche dirette a proteggere dagli arbitrari interventi del potere politico la sfera riservata all'autonomia del singolo, si era rivelato impotente a mantenere un minimo di coesione sociale, perché l'abissale ineguaglianza delle posizioni di effettivo potere determinatasi fra i cittadini rendeva apparente la parità che la legge assicurava alle parti dei rapporti sociali, e privava la massa della popolazione del godimento delle libertà astrattamente riconosciute. Si rendeva quindi necessario promuovere condizioni di vita associata idonee a ricostituire quel minimo di omogeneità della società sottostante allo stato, cui è legata la vita di ogni regime democratico. È stato coniato il termine di «Stato sociale» per designare la nuova dimensione assunta dalle strutture statali le quali si propongano di rimuovere i fattori di dissoluzione e di assicurare a tutti condizioni minime di vita e di sviluppo della persona. La costituzione francese del 1946 e quella che la Germania occidentale si è data nel 1949 hanno appunto assunto la denominazione ora richiamata a qualificazione degli ordinamenti cui davano vita. La costituzione italiana si differenzia dalle predette perché, mentre ha rinunziato ad adottare la formula «Stato sociale», di significato assai equivoco, ha curato invece di enunciare con assai maggiore precisione e completezza di quanto non abbiano fatto le altre due i presupposti del sistema cui si dava vita, il valore assunto a qualificare il posto del cittadino nello stato, i fini proposti all'azione statale, i mezzi necessari a riequilibrare i rapporti fra le classi. Il passaggio dal tipo di ordinamento astensionista a quello interventista, se trasforma sostanzialmente la struttura statale, trae tuttavia la sua origine dagli stessi presupposti che erano alla base del primo dei detti tipi: e cioè il riconoscimento dei diritti naturali ed imprescrittibili propri di ogni uomo, la cui conservazione veniva posta a scopo di qualsiasi specie di consociazione politica. Infatti l'intervento richiesto allo stato rivolto a modificare le condizioni che influenzano i rapporti contratti dai singoli, a correggere i risultati derivanti dal giuoco delle forze sociali contrapposte, si propone di consentire a tutti, e non solo ad alcuni privilegiati, l'uso effettivo della libertà, la possibilità per ogni uomo di esplicare le capacità insite in lui, svolgendo pienamente la propria personalità. Si tratta in sostanza dell'attuarsi di una nuova fase del processo di espansione del principio liberale che implica l'enucleazione, da un astratto concetto di libertà, di singole libertà, differenziate secondo il grado della loro connessione con le esigenze di sviluppo della persona, e delimitate dalla necessità di evitare il pregiudizio che la loro esplicazione da parte di ciascuno può recare all'eguale libertà degli altri. La derivazione dei due tipi di stato da un comune postulato ideologico dà ragione dell'esigenza avvertita che il nuovo corso da imprimere all'ordine politico si realizzi senza pregiudizio delle finalità di tutela dell'individuo di fronte ad interventi arbitrari della pubblica autorità, o, per dirla in altri termini, che lo «Stato sociale», lungi dal contrastare, si coordini con lo «Stato di diritto». Ma tale risultato non potrebbe raggiungersi se non si accogliesse un principio di differenziazione fra le libertà essenziali alla persona, e pertanto suscettibili di estendersi ad ogni soggetto senza danno per gli altri, e le libertà meno essenziali, o comunque tali, per il loro oggetto, da sottrarsi alla possibilità di un godimento illimitato (quelle, per dirla con Dante, «dove per compagnia parte si scema») (214) . 50. Applicazione dei princìpi in ordine alle garanzie delle libertà civili.

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La costituzione italiana ha proceduto nella direzione ora indicata in modo più deciso e coerente delle altre prima menzionate, secondo si è rilevato, e come apparirà chiaro dai cenni che seguono. Se si analizza l'art. 2 che dichiara la posizione del cittadino nello stato, ponendo così il presupposto della forma di stato adottata, si rileva come alla riaffermazione dei diritti inviolabili dell'uomo si accompagnino due enunciazioni rivolte a integrarla e a delimitarla. La prima riguarda la estensione alle formazioni sociali (riconosciute, in contrasto con le costituzioni dell'800, necessarie allo svolgimento della personalità dei singoli) degli stessi diritti e delle stesse garanzie accordate a questi ultimi. La seconda (riecheggiante un motivo fondamentale del pensiero mazziniano, che trova riscontro nelle vigenti costituzioni socialiste) rivolta a sancire una stretta correlazione fra il godimento dei diritti e l'adempimento dei doveri «inderogabili», necessari a realizzare la solidarietà nel campo dei rapporti politici economici sociali: correlazione che viene poi riaffermata in modo più specifico nell'art. 4, con riferimento al diritto e al dovere dell'esplicazione della capacità lavorativa attraverso cui ognuno dà il suo contributo più significativo alla società di cui è parte. Analoghi caratteri di novità si riscontrano nell'art. 3, nella parte in cui alla proclamazione dell'uguaglianza di tutti i cittadini avanti alla legge, si aggiunge quella dell'uguale «dignità sociale» di tutti e si riconosce la pretesa di ciascuno al concreto godimento dei diritti (recependosi anche qui dalle costituzioni socialiste il requisito dell'«effettività» ritenuto necessario ad integrare l'astratto riconoscimento di situazioni soggettive di vantaggio). Nel quadro di questi due motivi, della libertà e della solidarietà, si spiega la complessa articolazione della prima parte della costituzione. Sono da menzionare anzitutto le disposizioni le quali non si limitano solo a riprodurre le norme di garanzia relative ai classici diritti di libertà civili e politici consacrati nelle vecchie costituzioni, ma si propongono di diffonderne il godimento e potenziare la tutela del loro esercizio. L'indirizzo in questo senso si è svolto in varie direzioni. In primo luogo conferendo dignità costituzionale a diritti che prima rimanevano affidati alla legge ordinaria. Così, mentre lo statuto albertino garantiva solo le libertà della persona, del domicilio, della stampa, delle riunioni, ora la disciplina è stata estesa a numerose altre (di corrispondenza, art. 16; di circolazione, soggiorno e espatrio, art. 16; di associazione, art. 18; di fede e di confessione religiose, art. 19 e 8; di insegnamento, art. 33, del diritto a non essere privati della capacità, della cittadinanza, del nome, art. 22). La garanzia costituzionale non è stata solo estesa, bensì anche qualitativamente trasformata perché alla pura e semplice riserva della legge, che prima assicurava le libertà predette, si è in molti casi sostituita una riserva rinforzata, rivolta a circoscrivere in precisi limiti la discrezionalità del legislatore. Inoltre il costituente ha escluso di norma che l'esercizio delle libertà essenziali di cui si parla possa essere condizionato al consenso preventivo delle pubbliche autorità. Ancora si sono concentrate nel potere giudiziario le potestà necessarie alla repressione dei reati, e conferito rilievo costituzionale ai princìpi che garantiscono la persona dei violatori della legge penale da ogni eccesso della reazione sociale contro di essi (art. 25-26). Si è poi avuto cura di inibire ogni restrizione all'esercizio del diritto di azione giudiziaria (specie se rivolta contro la pubblica amministrazione) nonché di quello della difesa in giudizio, che è stata resa possibile anche ai non abbienti (art. 24, 111, 113), ed altresì ampliata la protezione del singolo che abbia subito pregiudizio per opera dei pubblici funzionari, associando la responsabilità dello stato a quella di costoro. L'insieme veramente imponente delle menzionate garanzie, così organicamente ordinate fra loro, deve essere apprezzato non solo per il suo valore diretto di protezione della persona, ma altresì per l'influenza indiretta che la maggior parte delle medesime esercita sul buon esercizio delle libertà politiche, [anch'esse oggetto di una disciplina che ne assicura il pieno godimento a tutti (art. 48)] e quindi sulla funzionalità del complessivo regime democratico. 51. L'effettività del godimento dei diritti di libertà ed i mezzi per assicurarla. Meno felice deve ritenersi la normazione relativa all'uso dei mezzi attraverso cui alcune delle libertà ricordate possono, o devono (in caso di mezzo unico) esercitarsi. La consapevolezza dell'importanza che la disponibilità di tali mezzi assume, specie nei confronti delle libertà, come quella di manifestazione del pensiero, che più direttamente condizionano la partecipazione dei singoli alla vita sociale, e che è confermata dal richiamo fatto al principio di effettività, non ha suggerito formulazioni suscettibili di

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conferire garanzie efficaci, ma solo vaghe enunciazioni, come quella dell'art. 21 che fa un generico rinvio ai vari mezzi di diffusione del pensiero, il cui uso può risultare, e da noi risulta, di fatto sottratto alla generalità dei cittadini, rimanendo i mezzi stessi concentrati nelle mani dei detentori del potere economico, o delle maggioranze che detengono il potere politico (215) . In questo come in altri casi il costituente ha ritenuto di doversi affidare all'azione degli strumenti indiretti di pressione, cui fa riferimento il già ricordato comma 2 dell'art. 3 quando impone allo Stato di rimuovere le situazioni di grave disparità sociale che, perdurando, danno vita da una parte a privilegi e dall'altra alla privazione dei beni pure riconosciuti necessari allo svolgimento della personalità. Si è esattamente fatto rilevare (216) come il carattere polemico, di valutazione negativa del sistema dei rapporti sociali in atto, rivestito dalla norma ora ricordata, costituisca l'aspetto più originale della nostra costituzione e le conferisca il suo significato più pregnante. Tuttavia scarsa importanza pratica essa rivestirebbe se non trovasse svolgimento in disposizioni, armonicamente coordinate fra loro, rivolte, per una parte, a darle immediata concretezza, e per l'altra a specificare le direzioni verso le quali lo Stato deve avviarsi onde assolvere all'obbligo impostogli, consentendo o imponendo i comportamenti attraverso ai quali dovrà essere attuata la trasformazione dell'attuale assetto societario, onde giungere a tutelare in concreto l'uguale dignità dei cittadini e realizzare la sostanziale convergenza dei loro interessi nel «bene comune». 52. Applicazione dei princìpi ai diritti sociali ed alla loro attuazione per opera dello Stato. Nella seconda parte, dedicata ai rapporti economici, e rivolta appunto a svolgere il principio ricordato, risiede l'elemento innovatore più significativo, che dà una propria fisionomia alla nostra costituzione. Il significato di insieme della disciplina dei rapporti predetti e così pure la congruenza della medesima rispetto al fine perseguito potrà meglio cogliersi dopo una succinta esposizione delle più importanti norme da cui essa risulta: norme che sono da distinguere secondo il loro contenuto, o più specificamente sostanziale o invece strumentale. Una volta rigettata l'adozione di un sistema economico di tipo collettivista e rispettata in via generale la proprietà privata dei mezzi di produzione, il costituente doveva preoccuparsi della pretesa della parte della popolazione, addetta alla produzione ma sfornita della disponibilità dei beni stessi, a ottenere un minimo di sicurezza, qual è data dalla possibilità di soddisfare ai bisogni inerenti alla qualità di persona. Anche pel raggiungimento di tale fine esso ha curato di perfezionare e di conferire dignità costituzionale al complesso di misure, in parte preesistenti, che, muovendo dalla constatazione della inferiorità della posizione dei lavoratori, tendono a correggerla mediante il conferimento a costoro di una serie di pretese rivolte alla protezione della loro integrità fisica, e che entrano a comporre la cosiddetta legislazione sociale (art. 36, 37, 38 e 41), ma ha poi innovato in modo radicale alla disciplina precedente in due direzioni: e cioè riconoscendo il diritto al lavoro (art. 4) e conferendo ai lavoratori la pretesa a collaborare alla gestione delle aziende cui siano addetti (art. 46). La critica fatta alla prima delle statuizioni richiamate, rivolta a contestarne il carattere giuridico, potrebbe ritenersi esatta solo a patto di astrarla dal complesso delle altre disposizioni che predispongono i mezzi sufficienti a rendere operante in concreto l'imperativo che l'art. 4 rivolge al legislatore, e che differenziano in modo sostanziale questo precetto da altri analoghi di costituzioni o del passato (come quella francese del 1848), o attuali (come per esempio il «Fuero degli Spagnoli» di cui alla «legge fondamentale» del 1945, a tacere del cenno contenuto nel «Preambolo» della cost. francese del 1946). Se è giusto ritenere inammissibile l'azione che fosse promossa dal disoccupato rivolta a ottenere un posto di lavoro, non può viceversa disconoscersi il suo diritto a far dichiarare l'illegittimità di quegli atti i quali facciano venir meno, senza nulla sostituire ad essi, i mezzi attualmente predisposti per favorire l'occupazione, o che comunque si palesino contrastanti con il precetto costituzionale, nonché l'altro diritto ad ottenere, in difetto dell'occupazione, le prestazioni assistenziali di cui al comma 2 dell'art. 38, che sono sempre dovute per tutto il periodo di disoccupazione. Queste infatti rivestono carattere di risarcimento pel mancato conferimento del posto di lavoro, realizzando così una conversione dell'obbligo di procurarlo, anche se poi non riescono a soddisfare in pieno l'esigenza posta dall'art. 4 perché, pur se giungessero a procurare il mezzo di sussistenza, non consentirebbero l'esplicazione delle

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capacità personali, che costituisce l'oggetto precipuo della norma in parola, e che è resa possibile solo con la prestazione del lavoro (217) . L'attuazione dell'obbligo costituzionale richiede quindi allo stato una politica dell'occupazione, la quale non potrebbe in altro consistere (visto che il lavoro si paga con il ricavato della produzione) se non con il promovimento di un costante incremento della produttività: incremento che, una volta caduta la credenza in automatiche riequilibrazioni del mercato di lavoro capaci di contenere la disoccupazione nei limiti normali (stagionali, tecnologici ecc.), deve attendersi dagli interventi statali rivolti ad influenzare l'iniziativa economica dei privati. Il costituente ha ritenuto non più sufficienti a tal fine i mezzi indiretti, tradizionalmente affidati alla politica dei tributi, dei trattati commerciali, del credito, dei trasporti ecc. ed invece ha curato, con gli articoli da 41 a 44, di predisporne altri più diretti e ben più penetranti, i quali hanno a loro presupposto l'attribuzione di carattere funzionale alla proprietà ed all'iniziativa economica privata, e che si concretano nell'imposizione di limiti e di obblighi attinenti alle forme e modalità della gestione delle imprese. E poiché tali interventi non potrebbero riuscire adeguati ove non ubbidissero ad una veduta di insieme delle esigenze produttive da soddisfare e delle mete da raggiungere, sufficiente a coordinare le varie attività produttive fra loro e con quelle assunte dallo stato (sia nel campo dei lavori pubblici, sia in quello economico-industriale), l'art. 41 affida alla legge di ricorrere allo strumento a ciò più idoneo: la predisposizione di appositi programmi, cui è da attribuire carattere vincolante per i soggetti ai quali si rivolgono, secondo può desumersi dal riferimento fatto dall'articolo stesso ai controlli, evidentemente rivolti ad accertare l'adempimento di quanto il programma prescrive. Dallo stesso testo costituzionale si deduce inoltre come la legge possa, oltreché disporre programmazioni solo per singoli settori di produzione, estenderle ad un più vasto campo di attività produttiva, fino ad abbracciarla nel suo insieme quale si svolge in tutto il Paese, sempreché ciò sia richiesto dal fine di conseguire l'utilità sociale cui fa riferimento l'art. 41 suscettibile di realizzarsi attraverso quella più diffusa e più stabile occupazione che consegue all'incremento della produzione Non è possibile in questa sede esaminare in quale àmbito siano da contenere le prescrizioni dei programmi affinché riesca salvaguardato quel tanto di autonomia privata necessaria al mantenimento dell'economia di mercato (218) . È piuttosto da mettere in rilievo come, nel caso l'esperienza rivelasse l'impossibilità, per determinati settori, di armonizzare le esigenze di pubblico interesse fatte valere dagli interventi statali con quelle di carattere privato rivolte al conseguimento del massimo profitto, deve ritenersi aperta la via ai provvedimenti espropriativi previsti dall'art. 43. È vero che questo li limita alle imprese di carattere monopolistico, o che abbiano ad oggetto fonti di energia, o servizi pubblici essenziali: ma l'elasticità di quest'ultima formula è tale da accostarla alquanto a quella dell'art. 156 della cost. di Weimar, che prevedeva il trasferimento in proprietà collettiva delle imprese suscettibili di socializzazione, e quindi da consentire l'estensione delle forme di gestione statale o collettiva a tutti i casi in cui queste dovessero palesarsi necessarie all'adempimento degli obblighi costituzionali (219) . L'interpretazione qui accolta di tali obblighi conduce a ritenere inesatta l'opinione che, muovendo dalla formulazione letterale dell'art. 41, è condotta a conferire valore preminente al suo primo comma, ed in conseguenza a considerare eccezionali i limiti ivi previsti, a negare carattere vincolante ai programmi, a circoscrivere nei termini più ristretti i casi di espropriazione (220) . Sembra che tale opinione non tenga conto della gerarchia stabilita dalla costituzione fra i princìpi fondamentali e le norme particolari e trascuri di considerare il capovolgimento effettuatosi (come già si è messo in rilievo), nel rapporto lavoro-proprietà, la diversa posizione attribuita alle esigenze del lavoro, che sono appunto oggetto dei detti princìpi, rispetto a quelle della proprietà dei beni produttivi, la quale non è più compresa fra i diritti inviolabili della persona. Non potrebbe opporsi che il carattere di inviolabilità proviene alla proprietà privata dalla funzione ad essa inerente di garanzia dell'individuo rispetto all'onnipotenza che assumerebbe lo stato nel quale si concentrasse la gestione di tutta la produzione, poiché, anche se tale concentrazione fosse possibile - il che non è, dato che la costituzione prevede una molteplicità di forme di gestione - la garanzia che si ricerca dev'essere trovata nelle strutture organizzative dello stato, nelle forme democratiche che esse devono assumere. Ancora più importante è il rilevare come la garanzia che si vorrebbe derivare dalla proprietà privata sarebbe limitata solo ad una parte (e quella meno

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numerosa) della popolazione e come d'altra parte la stessa proprietà, quando assumesse proporzioni cospicue, sarebbe in grado di influenzare il potere politico in modo da deviarne l'azione a danno della parte della popolazione priva di beni (221) . La costituzione non ha affidato ai soli mezzi che si sono finora menzionati [ed ai quali si deve aggiungere la riduzione delle grandi proprietà terriere (art. 44)] l'assolvimento del compito stabilito dal comma 2 dell'art. 3, poiché ha anche imposto (innovando pure per questo punto al sistema delle altre costituzioni occidentali del secondo dopoguerra che affidano la materia alla piena discrezionalità del legislatore) di effettuare redistribuzioni della ricchezza prodotta, non solo al fine di destinare la quota parte prelevata dallo stato a fini sociali, ma anche per limitare l'eccessivo accumulo di potere economico che, oltre ad accentuare le sperequazioni fra parte e parte della popolazione, tende come si è or ora accennato a trasferire il suo peso nella lotta politica alterando l'equilibrio delle forze che ad essa concorrono. Alla meta indicata sono rivolte le norme che prescrivono di informare il sistema tributario a criteri di progressività (art. 53), o di prelevare, sulle eredità, una quota destinata allo stato, secondo si desume dall'interpretazione sistematica dell'art. 42, che ha inteso fare di tale prelievo uno strumento, oltre che fiscale, più direttamente sociale, in applicazione del principio che conduce a considerare meno favorevolmente l'acquisizione di ricchezza non legata all'attività produttiva di chi ne beneficia. La riequilibrazione di posizioni sociali, oltre che alla riduzione del potere degli abbienti è poi affidata all'elevamento dei non abbienti forniti di naturali, cospicue capacità, perché ad essi debbono dischiudersi, a spese dello stato, gli alti gradi degli studi. Il disposto in questo senso dell'art. 34 comma 2 cost. riveste straordinaria importanza, e se ne sarà data fedele attuazione, con l'impiego degli imponenti mezzi che questa richiede, varrà meglio di altre misure a realizzare l'imperativo sancito negli articoli 2 e 4 di assicurare lo sviluppo della personalità di ciascuno secondandone le naturali capacità, e potrà conferire una salda base al regime democratico, cui ripugna ogni incrostazione di potere, e che invece richiede una rapida circolazione delle élites, reclutate in tutte le classi sociali. 53. Attuazione dei princìpi sociali per opera delle categorie economiche. Accanto ai mezzi affidati all'iniziativa dello stato, il costituente ha considerato quelli della contrattazione collettiva e dello sciopero che, consentiti alle associazioni operaie, rendono possibile l'autotutela di categoria necessaria a compensare la disparità di forze esistenti fra datori di lavoro e lavoratori. Senza indugiare sulla dimostrazione dell'impossibilità, nella situazione dei rapporti di forze quale si verifica nell'attuale organizzazione sociale, di fare intervenire al detto scopo uffici dello stato, né fermarsi sulle modalità predisposte dall'art. 39 per coordinare con il principio affermato della libertà sindacale l'altro dell'applicazione dei contratti collettivi a tutti gli appartenenti alle categorie, indispensabile per un'efficace difesa di costoro, è qui da porre in chiaro rilievo il travisamento che si opererebbe della volontà del costituente se si ritenesse consentito ai datori di lavoro l'uso degli stessi mezzi di lotta previsti per i lavoratori, come ha fatto la Corte costituzionale, quando ha interpretato l'art. 40 nel senso che esso conferisca al legislatore piena discrezionalità in ordine alla disciplina giuridica della serrata. Se non si sancisse l'illiceità penale di questo strumento di lotta si verrebbe a svuotare di efficenza l'art. 40, che invece deve considerarsi pietra angolare del sistema (222) . Non è poi da tacere l'importanza che potrebbe assumere l'organizzazione sindacale ove all'opera di rivendicazione dei diritti dei salariati si affiancasse quella di formazione in costoro di una coscienza produttiva, allo scopo di facilitare l'attuazione del già ricordato istituto della cogestione operaia delle aziende produttive, che deve consentire l'apporto ad esse dello spirito di osservazione, delle attitudini critiche o creative che possono rinvenirsi in ogni lavoratore, e soprattutto realizzare una cooperazione fra i fattori della produzione tale da eliminare o attenuare il ricorso agli strumenti di lotta. 54. Disciplina delle formazioni sociali. In particolare princìpi regolativi delle confessioni religiose. Lo stesso spirito che informa di sé le norme sulle associazioni sindacali e vuole rivolgerle a promuovere, con l'ammissione del pluralismo sindacale e la prescrizione dell'ordinamento interno a base democratica, lo svolgimento della personalità dei singoli, si ritrova nella disciplina rivolta alle altre formazioni sociali: la famiglia, la scuola, le minoranze linguistiche, le confessioni religiose.

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In ordine a queste ultime è da porre in rilievo come l'uguaglianza giuridica ad esse garantita e la piena libertà loro conferita di costituzione e di funzionamento non deve ritenersi compromessa dalla posizione di privilegio di cui gode la Chiesa cattolica: posizione che trova la sua giustificazione (ma anche il suo limite), nel fatto dell'adesione al cattolicesimo di una gran parte dei cittadini, e che si concreta sia nel riconoscere validità per lo stato a determinati atti della Chiesa, sia nel consentire determinate esenzioni o prerogative a titolari dei suoi uffici, sia nel far concorrere in alcuni casi l'opera dello stato alla soddisfazione dei bisogni religiosi di gruppi di cattolici che si trovino in particolari situazioni (ad esempio, forze armate). Se quello indicato è il fondamento della condizione speciale fatta alla Chiesa di Roma, nulla se ne può dedurre che contrasti con il carattere laico da attribuire alla Repubblica italiana, la quale vuole rimanere aperta a tutte le correnti di opinioni e tutelare la libera esplicazione di ciascuna (223) . La previsione contenuta nell'art. 8 cost. di leggi, da emettere sulla base di intese con singole confessioni diverse da quella cattolica, allo scopo di regolare i loro rapporti con lo Stato, fa ritenere che anche le attività di quelle fra tali confessioni, le quali, per i caratteri della loro organizzazione o per il numero dei fedeli, assumono di fatto una cospicua importanza, possono essere considerate suscettibili di venire utilizzate dallo stato per fini suoi propri, ed offre quindi la riprova del carattere di imparzialità in materia religiosa che si è inteso conferire all'ordinamento statale. Carattere che, come si è detto, dà anche ragione del limite entro il quale è da contenere la rilevanza attribuibile agli atti di autorità religiose, onde non ne riesca violato il principio dell'art. 3 che esclude ogni discriminazione fra cittadini nel godimento dei diritti fondamentali in ragione dell'appartenenza ad una o altra religione (224) . 55. Conclusioni sulla prima parte della Costituzione. I lineamenti tracciati degli aspetti più caratteristici della prima parte della costituzione sembrano sufficienti a mostrare l'infondatezza delle tesi che, in tanto hanno potuto contestarne l'organicità raffigurandola quale mera giustapposizione di princìpi e di orientamenti diversi o addirittura confliggenti fra loro, in quanto hanno trascurato le esigenze dell'interpretazione sistematica, e rigettato nel pregiuridico le enunciazioni poste dal costituente a base della sua costruzione (225) . Si è visto invece come l'adozione di corretti canoni ermeneutici consenta di cogliere le linee direttive che riescono a collegare le varie parti in un sistema sufficientemente armonico, perché offrono i criteri necessari a graduare le norme secondo la loro diversa posizione gerarchica risolvendo così i dubbi che alcune norme, se isolatamente considerate, potrebbero far sorgere. Nulla in contrario sarebbe argomentabile dal rilievo (che fu fatto valere con riguardo alla costituzione di Weimar) della coesistenza nella costituzione di tre motivi ispiratori: il cristiano, il liberale, il socialista, poiché, se si prescinde dal fondamento dottrinale (o strettamente confessionale, o illuminista, o materialista) posto a sostegno rispettivamente di ciascuna delle ideologie, fatte apparire di volta in volta nel corso storico in polemica l'una rispetto all'altra, e si ha invece riguardo al nucleo dei valori più essenziali presupposti da ognuna, si scorge la loro sostanziale affinità, muovendo tutte dalla stessa esigenza della tutela e del potenziamento della persona, che trova la comune radice nel messaggio evangelico, nel quale persona e società sono collegati fra loro come due aspetti di una stessa realtà Intorno a questa «persona sociale» si impernia il complesso intreccio dei princìpi consacrati nella prima parte, i quali pertanto, lungi dal giustaporre fra loro individualismo e solidarismo, vogliono comporli nell'armonia richiesta da ciò che costituisce l'essenza di ciascuno dei due termini. Armonia che perciò trascende quella la quale viene fatta dipendere da provvidenze di carattere meramente assistenziale, o che viene ricercata solo con misure di redistribuzione della ricchezza prodotta, volendo essere invece costruita su un fondamento più saldo: qual è quello dato dalla possibilità garantita a ciascuno di una sua partecipazione ai vari settori di vita associata, in condizioni di libertà, di consapevolezza, di responsabilità. Vista in questo quadro, l'espansione dei poteri statali non solo non ripugna all'esigenza personalistica ma anzi può in determinate contingenze meglio soddisfarla, a patto che lo Stato sia costruito «a misura d'uomo» rimanendo organicamente collegato con la società, onde trarre da essa, dai singoli e dai gruppi che la compongono, costante impulso alla sua azione. 56. L'adeguazione delle strutture organizzative al sistema dei princìpi sostanziali. Difficoltà che essa presenta.

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Si dovrà ora vedere se, e in che misura, sia riuscito al costituente di dar vita ad un'organizzazione corrispondente alla varietà di esigenze prospettata, e dotata altresì del dinamismo adeguato alle prospettive di sviluppo da esso delineate, così da poter superare gli ostacoli opposti alla loro realizzazione dai rapporti di forza ancora esistenti e radicati nel vecchio assetto. Bisogna subito affermare che, se antinomie e contrasti sono da rilevare nel contesto della costituzione, esse attengono alla imperfetta adeguazione della parte organizzativa alle finalità cui dovrebbe informarsi. Ciò deve però considerarsi male che non si sarebbe potuto evitare, se si tiene conto, da una parte, del contrasto esistente fra le forze sociali, di cui il costituente dovè prendere atto, indicando le vie per superarlo senza poterlo però eliminare, e, dall'altra, dello scarso affidamento che nuovi congegni organizzativi avrebbero offerto ove ad essi si fosse dato vita senza alcuna esperienza della loro funzionalità e prima ancora della maturazione dei presupposti dai quali dovevano attingere validità. Le antinomie alle quali ci si è riferito si presentano sotto aspetti diversi, pur derivando da una stessa fonte. Uno di essi risulta dal contrasto che viene a verificarsi fra l'esigenza garantista (che conduce ad una integrale applicazione del principio della separazione dei poteri, al potenziamento dei freni e dei contrappesi, alla moltiplicazione dei controlli, e che, in una situazione di tensione fra le classi come quella attuale, appare sollecitata dal fine non già solo della tutela dei diritti dei singoli, bensì anche della prevenzione dal pericolo che le maggioranze detentrici del potere ne usino per rivolgerlo contro gli avversari, precludendo, con la possibilità dell'alternativa alla direzione dello stato, l'osservanza del metodo democratico), da una parte, e, dall'altra, quella che richiede per l'azione dello stato rivolta ai nuovi compiti assunti nel campo economico-sociale requisiti di tecnicismo, di rapidità, di stabilità, di concentrazione, quali non sono riscontrabili nelle istituzioni ereditate dagli ordinamenti di tipo liberale. Analogo contrasto deriva fra il bisogno di accentramento di una direzione unitaria che presieda alla manovra delle varie leve che sono nelle mani dello stato, e l'altro che invece esige il collegamento della direzione stessa con i gruppi o gli enti periferici, necessario non solo per impedire un accumulo di forza al centro suscettibile di volgersi verso forme dittatoriali, ma anche per dare concretezza all'azione del centro così da renderla aderente ai bisogni concreti e sottrarla al dominio della burocrazia. Altro aspetto dell'antinomia di cui si parla è quello che si presenta fra il potere giuridico attribuito agli organi statali dalla costituzione ed il potere reale, qual è assunto dai raggruppamenti germinati spontaneamente nel seno della società per l'impulso associativo promosso dalla convergenza degli interessi, e che sono condotti a far valere il peso di cui dispongono onde imporre la loro volontà allo stato. Così per esempio i partiti, sorti per dare un volto ed una voce alle masse degli elettori, sono venuti ad assorbire di fatto i poteri di decisione politica propri del Parlamento effettuando in sostanza una dislocazione delle competenze costituzionali, la quale si presenta particolarmente grave per la difficoltà di far valere nei confronti dei nuovi titolari delle competenze di direzione politica garanzie di rappresentatività, oppure di regolarità e di pubblicità nella formazione della loro volontà paragonabili a quelle realizzate per le assemblee parlamentari. Ancora più grave è la constatazione che le formazioni partitiche non riescono a far confluire in armonica unità gli interessi sociali che esse intendono rappresentare, poiché i più potenti fra tali interessi trovano in apposite organizzazioni autonome il mezzo per premere o sui partiti stessi o direttamente sugli organi dello stato facendo prevalere sull'utilità generale quella di settore. La situazione risultante da siffatto pluralismo di centri di autorità, in nessun modo o malamente coordinati fra loro, è stata efficacemente rappresentata da chi l'ha designato con il termine di neo-feudalismo (226) . Le costituzioni del primo dopoguerra intesero far fronte alla trasformazione avvenuta nell'ambiente sociale ed ai nuovi compiti che essa addossava allo stato, per un verso, conferendo rilievo costituzionale al principio della rappresentanza politica proporzionale, onde consentire che nelle assemblee legislative si riflettesse la varietà delle correnti e degli orientamenti derivata dall'eterogeneità prodottasi nel tessuto sociale, e per un altro, operando una «razionalizzazione» della disciplina tanto dei rapporti fra assemblea legislativa e governo, nell'intento di mettere quest'ultimo al riparo da crisi troppo frequenti (onde assicurare una qualche stabilità alla sua azione, secondo richiedeva la natura stessa dei nuovi compiti assunti), quanto di quelli fra i componenti del gabinetto onde conferire al suo capo una preminente funzione direttiva. Oltre i limiti della razionalizzazione, fino a deviare dallo schema tradizionale del

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regime parlamentare, si era poi spinta la costituzione di Weimar con l'accentrare nel Capo dello stato, che traeva un particolare prestigio dalla sua diretta derivazione dal suffragio popolare, una somma di poteri tali da farne un centro di autonoma azione politica. L'esperienza si è incaricata di mostrare la fragilità dei congegni escogitati nell'una e nell'altra direzione. Infatti i governi di coalizione, quali erano resi necessari dalla rappresentanza proporzionale, non potevano trarre garanzie di durata dalla disciplina del voto di fiducia, rimasta perciò inapplicata e sostituita dalla prassi delle crisi extra-parlamentari, mentre la funzione di remora all'instabilità governativa che si era creduto di affidare al Capo dello stato doveva invece esplicarsi in una ben diversa direzione e condurre all'eliminazione del regime democratico (227) . 57. L'adozione della forma parlamentare. Disciplina dei rapporti tra Parlamento e Governo. Struttura interna dell'organo governativo. Le costituzioni del secondo dopoguerra, pur in presenza di tale esperienza fallimentare, non poterono discostarsi di molto dai modelli offerti dalle precedenti perché gli eventi intercorsi fra i due conflitti, lungi dal consentire un qualche miglioramento della situazione la quale aveva resa ardua la soluzione del problema organizzativo dello stato, ne avevano operato un'involuzione. Ciò deve dirsi in special modo per la costituzione italiana che dovette essere elaborata in un clima di disfacimento, in un paese sconvolto dalla dittatura e dalla sconfitta militare, profondamente diviso per effetto dell'esasperarsi delle gravi sperequazioni fra le classi e le regioni già prima esistenti. Rimasta senza eco un'isolata proposta di adozione di un regime di governo presidenziale, e confluiti gli orientamenti di tutti i gruppi verso la forma parlamentare, un contrasto si determinò fra l'estrema sinistra che l'avrebbe voluta di tipo assembleare e gli altri settori che invece propugnavano l'introduzione di un sistema di freni atti ad impedire l'onnipotenza parlamentare, ma non tale tuttavia da dar luogo al dualismo che si sarebbe determinato ove si fossero fatti coesistere più centri di direzione politica non coordinati né coordinabili fra loro. Pel conseguimento di siffatto intento si pensò di adottare un bicameralismo pienamente paritario, con derivazione di ciascuna delle due camere dalla diretta investitura popolare, mentre la differenziazione fra le medesime venne ricercata non solo e non tanto nella diversa durata o nelle diverse età degli elettori o degli eleggibili, quanto e soprattutto nella diversa base, nazionale per l'una regionale per l'altra. Rivolte ad operare nello stesso senso sono, per un lato, l'istituto dello scioglimento di entrambe le Camere per opera del Capo dello stato, la cui iniziativa non è legata al verificarsi di condizioni che ne irrigidiscano l'esercizio, nonché quello del referendum popolare di abrogazione delle leggi; per un altro lato, la disciplina effettuata dei rapporti fra parlamento e governo, la quale, se si ispira al principio, proprio della forma parlamentare, del costante mantenimento del rapporto fiduciario fra i due organi quale deriva dal consenso prestato dal parlamento alla formazione del governo, vuole altresì conformarsi all'evoluzione resa necessaria dagli eventi prima ricordati, che ha condotto a modificare in parte la distribuzione dei compiti fra i due organi, ed ha correlativamente richiesto, insieme ad una più ampia autonomia del governo di fronte al parlamento, una maggiore concentrazione nell'esercizio del potere suo proprio. Deve essere notato come il costituente (che intenzionalmente ha evitato ogni riferimento all'equivoco termine di «potere esecutivo»), nell'atto stesso di potenziare la funzionalità del governo, ha avuto cura di distinguerlo dalla pubblica amministrazione, e ciò ha fatto allo scopo di mettere in rilievo come la funzione a questa propria di strumento per il concreto attuarsi dell'indirizzo politico emanante dal primo si esplichi nel rispetto delle forme legali ed in modo imparziale, secondo giustizia, a tutela dell'eguale diritto di tutti i cittadini ed a protezione più specialmente delle minoranze ostili al governo in carica, le quali altrimenti potrebbero trovarsi esposte all'arbitrio delle autorità che ne dipendono. La costituzione ha voluto preservare da tale pericolo imponendo una organizzazione amministrativa tale da renderla anch'essa strumento dello stato di diritto (228) . Passando ai mezzi ai quali è stato affidato il compito di sottrarre la vita dei Governi a troppo frequenti mutamenti, è da notare come essi riecheggino in parte quelli caratteristici dei procedimenti «razionalizzati» già menzionati, ma forse, se confrontati con altri di ordinamenti stranieri, coordinati con maggiore organicità. Sono fra essi da ricordare: il conferimento al Capo dello stato tanto del potere

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di nomina del governo quanto di quello di accettazione delle dimissioni da questo presentate in seguito a voto di sfiducia, con la possibilità da parte sua di non accettarle e di procedere invece allo scioglimento di una o entrambe le camere; il condizionare il voto di sfiducia all'adempimento di modalità rivolte a preservarlo da manovre avventate; il consentire il mantenimento in carica del governo anche dopo che singole sue proposte siano state respinte dalle camere (art. 94). Altre misure, che pur si sarebbero potute escogitare allo scopo perseguito (come per esempio il richiedere una maggioranza qualificata pel voto di sfiducia, o l'adozione del cosiddetto «voto costruttivo», qual è previsto dalla costituzione della Germania occidentale) solo in apparenza si presentano dotate di maggiore efficacia, dovendosi tener presente che il vantaggio della stabilità governativa non può farsi consistere nella permanenza in carica delle stesse persone bensì nella continuità di un medesimo indirizzo politico, e tale continuità può riuscire compromessa quando le proposte di legge formulate dal governo per l'attuazione del proprio indirizzo vengano sistematicamente respinte dalla maggioranza del parlamento, resa impotente a rovesciare il governo ma capace invece di arrestarne l'azione. Quanto poi alla redistribuzione dei poteri fra parlamento e governo l'esigenza prospettata di attribuire a quest'ultimo il primato nell'attività politica, onde costituirlo in «comitato direttivo» del parlamento, si è realizzata conferendo al suo capo la responsabilità dell'indirizzo e dotandolo dei poteri necessari all'adempimento di tale funzione. Questa non potrebbe efficacemente effettuarsi se non si consentisse al predetto, oltre alla iniziativa vincolante nella nomina e revoca dei componenti il gabinetto da lui presieduto ed a lui necessariamente legati da un rapporto fiduciario (art. 92 ultimo comma), nonché alla potestà di promuovere e coordinare l'attività di costoro affinché essa s'informi costantemente all'indirizzo politico generale (art. 95), anche la possibilità di esigere dalla maggioranza parlamentare che la funzione legislativa si svolga secondo le linee da lui tracciate. Appare infatti chiaro che l'indirizzo rimarrebbe sterile se non si collegasse ad esso la totalità degli interventi statali, quale che sia il loro contenuto, e che d'altra parte il Parlamento, una volta che abbia approvato il programma del Governo, non può non rimanere vincolato almeno alle linee generali secondo cui questo ritiene debba essere realizzato. Sulla disciplina dei rapporti fra Parlamento e Governo ha influito dannosamente, nel senso di precludere anche un timido avviamento verso nuove direzioni, il peso della tradizione che induceva ad assegnare a quest'ultimo il rango di «comitato esecutivo» del primo, peso aggravato dalla preoccupazione di evitare ogni ritorno a forme riecheggianti l'ordinamento fascista del Governo. È tuttavia da rilevare che il nostro costituente si è sottratto alle suggestioni della costituzione della IV Repubblica francese ammettendo, a differenza di questa, tanto il potere del Governo della decretazione di urgenza, quanto di quella delegata. La prassi non ha però utilizzato adeguatamente quest'ultimo istituto, che potrebbe, se fosse bene attuato, corrispondere alle esigenze dell'ampliamento verificatosi nell'attività normativa, ed anzi ha dato luogo ad una esagerata accentuazione degli interventi del Parlamento in questa. Ciò è potuto avvenire in virtù dell'introduzione delle commissioni parlamentari deliberanti (art. 72), - del tutto ignote alle costituzioni contemporanee democratiche - che, oltre a facilitare l'inflazione dell'iniziativa parlamentare rivolta a soddisfare interessi di settore o di clientela, e ad essere meno facilmente controllabili dal Governo, con risultati perciò pregiudizievoli all'unità dell'indirizzo politico e finanziario, conducono all'incremento della produzione legislativa ed alla estensione della normazione primaria anche ai minuti dettagli, senza peraltro far raggiungere il vantaggio di una più accurata redazione tecnica, né quello del coordinamento delle norme dei singoli testi fra loro e con la restante legislazione. Più vantaggioso sarebbe stato restringere gli interventi del Parlamento, almeno nelle materie che non siano coperte dalla riserva assoluta di legge, alla determinazione delle statuizioni di maggior rilievo, affidando poi al Governo la normazione più particolare, da emettere nella forma delegata piuttosto che in quella regolamentare, e curando di far controllare da organi del Parlamento la fedeltà dell'esecuzione del mandato conferito alle linee direttive prefissate da quest'ultimo. Altra critica potrebbe formularsi (pur dando atto della difficoltà di provvedere nel senso qui messo in rilievo) in ordine al mantenimento della pienezza dell'iniziativa legislativa dei membri del Parlamento nella materia finanziaria: iniziativa che la ben nota trasformazione operatasi nella posizione dei

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medesimi dovrebbe condurre a sopprimere, come è avvenuto nel regime parlamentare inglese che meglio di ogni altro ha saputo adeguare il suo funzionamento alla situazione sopravvenuta. 58. La Presidenza della Repubblica. Se si passa ora a considerare l'ordinamento dell'istituto presidenziale non si può negare che esso realizza un felice equilibrio di esigenze diverse, così da differenziarsi tanto dai sistemi (come quello della IV Repubblica francese) che riducono la funzione del Presidente della Repubblica a mero simbolo dell'unità dello stato, quanto dagli altri (sul tipo della costituzione di Weimar) che ne fanno un centro autonomo di direzione politica (229) . Fatto eleggere dal Parlamento con l'integrazione dei rappresentanti delle regioni, per un periodo di tempo più lungo della durata della legislatura, sottratto ad ogni possibilità di revoca dalla carica e reso irresponsabile (salvo che per i reati di tradimento e di attentato alla costituzione) (art. 8, 5, 85, 90), il Presidente della Repubblica italiana è fornito di un complesso di poteri assai ampio che gli consente, non già di sovrapporre la propria volontà a quella degli organi cui compete la responsabilità dell'indirizzo politico, bensì di influenzare in modo non vincolante la loro attività, e ciò o con l'opposizione del suo veto alla emanazione degli atti legislativi o di governo che devono essere a lui sottoposti, nei casi nei quali egli li ritenga illegittimi o semplicemente inopportuni, sospendendone così temporaneamente il corso (art. 73), oppure con l'invio di messaggi alle camere onde segnalare l'esigenza di dare soddisfazione ad interessi tutelati dalla costituzione (art. 87), o ancora con l'esercizio del potere, che riveste maggior rilievo degli altri, di richiedere sulle crisi di fiducia che si verifichino fra Parlamento e Governo il responso popolare. Il Presidente può pertanto bene configurarsi quale quarto potere dello stato, a patto però di non equivocare sull'esatta sua portata, che è da intendere quale «potere di influenza», indirizzato in via prevalente ad assicurare il rispetto del metodo democratico. Se è esatta l'affermazione secondo cui gli interventi presidenziali operano in senso limitativo dell'azione affidata al binomio maggioranza parlamentare-Governo (230) , è tuttavia da mettere in rilievo che fino a quando i due soggetti non sono divisi da dissensi, e fino a quando i loro atti non assumano carattere di reati rivestenti la natura di quelli imputabili al Capo dello stato, gli interventi stessi, ove l'influenza morale che se ne potrebbe attendere non susciti alcuna eco, sono destinati a rimanere privi di ogni efficacia pratica. Sicché non può considerarsi aderente al diritto positivo l'opinione di chi attribuisce al Capo dello stato un potere di indirizzo politico costituzionale, distinto dall'indirizzo politico governativo, e che dovrebbe avere la funzione di piegare quest'ultimo ai precetti della costituzione (231) . Essa infatti, in quanto intenda affermare la sussistenza di poteri presidenziali diversi da quelli che si sono richiamati, darebbe luogo, se accolta, ad una duplicazione di orientamenti circa la condotta da imprimere all'attività dello stato che il costituente volle evitare. Pertanto al Capo dello stato non si può chiedere che predetermini una linea generale informatrice dei singoli suoi interventi, né attribuire una competenza specifica alla prevenzione o repressione delle varie specie di infrazioni della costituzione, essendo per tali compiti predisposti altri organi. 59. L'ordinamento della comunità sociale. La rappresentanza partitica. Germi di rappresentanza degli interessi. L'esame compiuto del sistema dei poteri centrali dello stato dev'essere integrato con la considerazione sia delle forze sociali prese in considerazione dal costituente per la loro funzione di collegamento con il popolo, e sia degli istituti di decentramento che li integrano e nello stesso tempo ne limitano l'azione. La costituzione italiana ha, per prima, dato consacrazione formale alla posizione che i partiti erano venuti assumendo di fatto, quali tramiti necessari di comunicazione fra base sociale e organizzazione statale, provocando nel funzionamento delle istituzioni politiche un mutamento di tale entità da indurre ad una rielaborazione della teoria delle forme di governo, nel senso di suddistinguerle in sottotipi alla stregua di criteri desunti dal numero dei partiti ammessi o operanti di fatto nell'ordinamento, dalla loro composizione sociale e dalle ideologie propugnate, nonché dal loro grado di compattezza interna. L'art. 49 dedicato ai partiti è stato collocato nella parte relativa ai diritti dei cittadini, il che sembra da approvare poiché in tal modo è stato bene messo in rilievo la funzione loro propria di rendere operante il diritto dei cittadini di esercitare un'influenza sulla determinazione della politica nazionale, non essendo essa possibile se ai sentimenti ed alle aspirazioni di costoro non si desse il modo di riconoscersi e di ordinarsi in sintesi politiche idonee ad influenzare la volontà dello stato.

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Il compito così assunto dai partiti fa sorgere due ordini di problemi: il primo riguardante la loro organizzazione interna affinché essa sia tale da consentire la partecipazione degli iscritti alla funzione loro affidata, gli altri attinenti ai rapporti esterni con gli altri partiti e con lo stato. Quanto al primo, pur dovendosi riconoscere in via di massima l'esigenza che la struttura partitica si informi a princìpi democratici, è da escludere tuttavia che sulla base delle norme costituzionali possa la pubblica autorità sindacare il modo dello svolgimento dei rapporti interni fra l'associazione ed i propri soci, dovendosi ritenere limitati i suoi interventi solo nel senso di garantire la piena libertà dei singoli di dar vita ad ogni specie di formazioni politiche, di impedire ogni coazione anche indiretta rivolta ad indurre alla iscrizione o ad ostacolare l'esodo, o di sottoporre a critica il loro operato senza incorrere in alcuna sanzione. Inducono a tale opinione tanto argomenti esegetici, desumibili dal silenzio serbato dall'art. 49 sul punto della democraticità interna (particolarmente significativo per il fatto del rigetto degli emendamenti che tendevano alla disciplina di tale punto), nonché dal confronto con l'art. 39 (che espressamente fa obbligo per i sindacati dell'osservanza di detto requisito), quanto considerazioni desunte dalla mancanza di qualsiasi disciplina relativa alle procedure da adottare per gli interventi repressivi di attività contrastanti con le esigenze della democraticità interna, nonché dalla difficoltà di provvedervi in modo da prevenire il pericolo che di essi si giovino i partiti detentori del potere per combattere ed eliminare quelli avversari. È stato poi giustamente osservato come, nell'attuale clima politico di grave tensione fra le classi ed i gruppi politici che ne sono esponenti, un certo grado di autocrazia si rende necessaria onde conferire ai partiti l'efficienza adeguata ai bisogni della competizione (232) . Nessun dubbio sorge invece in ordine ai rapporti dei partiti fra loro, essendo l'esigenza del mutuo rispetto richiesta, prima ancora che dalla testuale disposizione dell'art. 49, dalla struttura stessa del regime che si svolge attraverso il ritmo dell'alternativa al potere delle forze di volta in volta ad esso pervenute in virtù del libero responso popolare. L'assunzione dei partiti all'esercizio di potestà statali che così si compie dà luogo ad una specie di unione personale, facendo assumere ai titolari dei medesimi che ne sono investiti la duplice qualità di esponenti di partito e di preposti a cariche pubbliche, e con essa, il vincolo ad una doppia fedeltà. Al problema che così sorge deve intendersi rivolta la statuizione del divieto di mandato imperativo contenuta nell'art. 67, il quale pertanto non è da ritenere, come vorrebbe una opinione diffusa, mera sopravvivenza storica, conservando invece la funzione di salvaguardare la libertà dei titolari di cariche elettive, in quanto consente loro di sottrarsi alla disciplina di partito allorché richieda comportamenti che sono sentiti come ripugnanti alla loro coscienza civica, senza che ciò influisca sul mantenimento delle cariche stesse, secondo sarebbe richiesto dalla logica del sistema proporzionalistico. Il fenomeno già rilevato della progressiva espansione dell'impulso associativo nei gruppi portatori di interessi sociali ha fatto sorgere il problema della convenienza per lo stato di prenderne atto, di utilizzarlo al fine di arricchire l'attuale rappresentanza politica di tipo partitico, mettendole accanto una rappresentanza degli interessi organizzati attraverso i gruppi predetti. L'immaturità dei tempi ha però consigliato di rinunziare al tentativo di sperimentare siffatte forme di integrazione degli istituti rappresentativi con carattere deliberante ed ha indotto ad adottare una soluzione di ripiego, qual è quella che si è concretata con la formazione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (art. 99), organo questo composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura corrispondente alla importanza numerica e quantitativa delle medesime, ed abilitato a funzioni, per ora modeste, di iniziativa legislativa, di consulenza, di normazione secondaria; funzioni divenute in pratica ancor più limitate per effetto della legge che, nel regolarle, non ha fatto menzione dell'ultima. Ciò che ha contribuito, insieme al carattere non elettivo conferito all'organo, a depotenziarne la già debole posizione ad esso attribuita dal costituente, forse indotto a ciò dalla prova fallimentare che era stata data dal più pretenzioso «Consiglio economico del Reich», previsto dalla costituzione di Weimar. La lezione dell'esperienza conferma la difficoltà di dar vita a efficienti istituti di rappresentanza degli interessi quando sussista un'organizzazione della produzione di tipo privatistico, e quando nel seno dei fattori che vi intervengono si agitino contrasti di fondo che sono espressione di un processo in corso di accentuata trasformazione sociale.

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60. Il decentramento regionale. L'innovazione che meglio di ogni altra avrebbe dovuto, nell'intento del costituente, condurre ad un sostanziale mutamento dell'intera struttura statale deve considerarsi il decentramento su base regionale. Tale risultato si sarebbe dovuto raggiungere in primo luogo con il conferimento alle regioni, formate sulla base del suffragio universale, di un'ampia competenza normativa ed esecutiva, esercitabile in piena indipendenza, assicurata da un'efficiente autonomia finanziaria e preservata da ogni tentativo di invasione da parte dello stato in virtù del ricorso contro di esso alla Corte costituzionale; secondariamente con l'attribuzione agli enti stessi di alcuni compiti influenti sull'organizzazione costituzionale dello stato (concorso nell'elezione del Capo dello stato, iniziativa del referendum abrogativo, o di leggi del Parlamento), e ancora con l'utilizzazione delle circoscrizioni regionali per la formazione della seconda Camera: ciò che avrebbe potuto offrire (ove si fosse fatto ricorso ad adeguati congegni elettorali) l'elemento più rilevante di differenziazione fra le due Camere, e nello stesso tempo costituire un fattore efficace di migliore collegamento fra lo stato ed i grandi nuclei di vita locale. Il costituente, nell'attribuire alle regioni competenze più o meno estese secondo il tipo di autonomia consentita (più ampia per le isole o per le zone di frontiera mistilingui), mentre ha reso possibile l'adattamento alle esigenze locali, assai varie da parte a parte della penisola, dei princìpi dell'ordinamento o delle leggi statali, effettuabile sulla base degli orientamenti politici predominanti di volta in volta in ciascuna regione, non ha tuttavia trascurato di salvaguardare il bisogno di direzione unitaria, particolarmente avvertita negli stati moderni (e che ha visto negli stessi ordinamenti federali l'accrescimento dei poteri dello stato centrale), e ciò mediante la predisposizione di una serie di limiti suscettibili di arrestare l'attività della regione quando essa si ponga in contrasto con la direzione stessa. Pertanto la riforma regionale, ove se ne colga esattamente lo spirito da cui fu animata e venga attuata con idonei strumenti, lungi dal depotenziare l'azione statale, dovrebbe condurre a renderla più rapida ed efficiente, concentrandola nei compiti di portata più generale, e nello stesso tempo arricchendola dell'iniziativa e degli impulsi provenienti da una ricca ed intensa vita locale, quale è resa possibile dalla più diretta, informata, responsabile partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Contributo di particolare efficacia potrebbe poi provenire dall'istituto regionale allo svolgimento, in senso democratico, dell'attività di programmazione economica, onde renderla più aderente alle situazioni di fatto e meglio assicurandone il rendimento (233) . 61. Il sistema delle garanzie costituzionali. Il vasto disegno organizzativo tracciato dalla costituzione, che l'esame compiuto ha fatto apparire bene armonizzato nelle sue grandi linee, trova la sua integrazione in un sistema di garanzie più ampie e meglio articolate di quelle che ebbero a caratterizzare in passato lo «Stato di diritto». Così, in radicale contrapposizione alla flessibilità dello statuto albertino, si è conferito carattere rigido alla costituzione (art. 138), onde preservarla da facili mutamenti da parte di effimere maggioranze parlamentari, ma si è anche affermata in modo solenne l'esigenza di sottrarre alla revisione il nucleo di princìpi (come quelli riguardanti i diritti fondamentali o la forma repubblicana - art. 2 e 139) che, caratterizzando il tipo di stato, non potrebbero venir meno se non trascinando con loro nella rovina l'intero sistema costituzionale. Ancora più rilevante è l'innovazione recata con la sottrazione al giudice ordinario del potere di accertamento della costituzionalità delle leggi e la sua attribuzione ad un nuovo organo, la Corte costituzionale, posta in una posizione di assoluta indipendenza, formata in modo da far presumere il possesso nei suoi componenti, oltre che di idoneità tecnico-giuridica, di viva sensibilità costituzionale, e fornita della potestà di emettere sentenze di annullamento di leggi ritenute incostituzionali con efficacia erga omnes. Spettano poi alla Corte, oltre che la funzione di garantire il rispetto delle sfere di competenza assegnate rispettivamente allo stato ed alle regioni, anche altri compiti, come la decisione sulle accuse penali contro il Presidente della Repubblica ed i ministri, nonché la risoluzione dei conflitti di competenza fra i supremi poteri dello stato. Compiti questi ultimi d'indole più spiccatamente politica, dato il largo margine di discrezionalità lasciato dalle norme disciplinanti tali materie. L'influenza che deriva alla Corte dalla natura ed estensione delle sue competenze potrà riuscire benefica se varrà a

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suscitare nel Paese quella coscienza e sensibilità costituzionali di cui esso è scarsamente dotato, e che pure costituisce il primo e più saldo fondamento di ogni libero regime, e se, correlativamente, la sua giurisprudenza saprà non ostacolare, ed anzi, nella misura ad essa possibile, dare impulso alla progressiva attuazione dello spirito innovatore latente nella costituzione. Integra il sistema delle garanzie un altro organo di nuova istituzione, il Consiglio superiore della magistratura, competente a deliberare su tutti i provvedimenti riguardanti il reclutamento e la carriera dei giudici della giurisdizione ordinaria, indirizzato al fine di preservare costoro da ogni pericolo di interferenza da parte degli altri poteri, legislativo ed esecutivo, e di realizzare così più efficacemente il presupposto di una adeguata tutela dei diritti dei cittadini. Tale organo trae particolare prestigio, oltre che dalla sua assunzione a dignità costituzionale, dalla presenza del Capo dello stato che lo presiede. 62. I princìpi regolativi dei rapporti con l'ordinamento internazionale. Il costituente infine non poteva rimanere insensibile al moto storico che conduce ad una progressiva attenuazione del principio della sovranità dello stato e ad attuare una più intima compenetrazione fra il suo ordinamento interno e quello internazionale. Essa si manifesta sotto due aspetti: il primo attiene all'accrescimento delle garanzie di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, quale si consegue rendendo possibile ai singoli (i quali vengono così progressivamente assumendo una posizione in certo senso assimilabile a quella di soggetti di diritto internazionale) di proporre innanzi ad istanze supernazionali le proprie doglianze contro le violazioni di tali diritti, quando i mezzi sperimentati nell'ordinamento interno non sono valsi a reprimerle. Il secondo aspetto riflette la tendenza che va diffondendosi negli stati moderni all'attuazione di un regime di solidarietà fra essi e si esprime con l'attribuzione di efficacia vincolante nel diritto interno alle norme generali di diritto internazionale ed ancora nel consentire altre limitazioni di sovranità, quali sono rese necessarie ad assicurare una pacifica convivenza fra gli stati su una base di giustizia (art. 10-11). Lo svolgimento per ultimo menzionato conferma la volontà di attuare il principio democratico in tutte le sue implicazioni, secondando la tendenza espansiva che lo contrassegna e che conduce, da una parte, a tutelare l'uomo più intensamente del cittadino, anche a costo della rinuncia a qualcuno degli attributi della sovranità statale, e, dall'altra, a riaffermare nei rapporti fra i popoli quegli stessi valori di reciproco rispetto e di solidarietà fatti valere nei confronti dei singoli. 63. Conclusioni sulla forma di Stato. Il quadro tracciato dei principali orientamenti costituzionali ha mostrato come essi, visti nelle loro linee più generali, siano espressione di una concezione unitaria. Se pure è vero che la Carta repubblicana è il risultato di un compromesso (come del resto avviene per ogni costituzione di regimi non totalitari), non è meno vero che essa non ha assunto solo il valore di patto di garanzia fra parti contrapposte rivolto a sottrarre ciascuna dal pericolo di sopraffazione per opera delle altre, poiché ha invece voluto esprimere con sufficiente chiarezza ed univocità un'esigenza di rinnovamento del sistema dei rapporti associativi, poggiante su un fondo di idee comuni ai gruppi più rappresentativi dell'assemblea. Sicché, se si fa riferimento a tale piattaforma, lo stato cui la Carta ha dato vita deve definirsi, oltre che garantista e democratico per la sua derivazione dal suffragio universale, «popolare», intesa tale espressione in un senso specifico che vuole indicare tanto l'omogeneità della base sociale (da conseguire in virtù della piena attuazione del principio personalistico) quanto la sua strutturazione pluralistica e decentrata rivolta a realizzare nei vari momenti della vita statale, la presenza attiva di ogni forza sociale. 64. Vicende del procedimento di attuazione della Costituzione. È però subito da aggiungere che, se l'assenso dato all'affermazione dei princìpi costituzionali messi in rilievo fosse da valutare alla stregua dell'esperienza maturata successivamente alla loro entrata in vigore, sarebbe da presumere che sussistevano in parecchi di coloro che ebbero a darlo molte riserve mentali e di conseguenza ritenere che i troppo frequenti rinvii alla legge da parte del costituente, più che significare il proposito di una loro attuazione graduale, corrispondessero al sottinteso di rinviarla sine die (234) .

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Si spiega come, una volta fallito il tentativo di far deliberare dalla stessa Costituente alcune delle principali riforme di struttura da essa previste, e rimaste pertanto immutate le precedenti posizioni di potere, particolarmente efficienti in una società contraddistinta da accentuate sperequazioni fra le classi e le regioni, dovessero inevitabilmente prevalere le resistenze ad ogni mutamento dal quale fosse da temere un indebolimento delle posizioni medesime. È così avvenuto che, mentre le gravi disuguaglianze alimentavano nei ceti che le subivano movimenti di sovversione, l'esistenza di questi ultimi veniva invocata dagli altri a giustificazione del ritardo nell'attuazione degli imperativi costituzionali; mostrando così di obliare che proprio ad evitare tale circolo era stato dettato l'ultimo comma dell'art. 3. Il periodo nel quale più accentuata è stata la violazione dell'obbligo di osservanza della costituzione coincide con la durata della prima legislatura (1948-1953) nella quale si affermò il dominio del partito che aveva ottenuto nelle elezioni la maggioranza assoluta, e che lo esercitò senza incontrare alcun limite efficiente per opera dei piccoli partiti fiancheggiatori. Il proposito di perpetuare tale dominio suggerì la presentazione (d'accordo con questi ultimi) di una legge elettorale che prevedeva un elevatissimo premio di maggioranza a favore dei gruppi collegati i quali avessero ottenuto la metà più uno dei suffragi. Al fallimento di tale tentativo è connesso l'inizio di un nuovo corso, che, se pure in modo lento, incerto e tortuoso, ha rimosso la precedente situazione di inerzia ed ha consentito che alcuni degli istituti essenziali al funzionamento del nuovo stato venissero in vita. Ciò è avvenuto per la Corte costituzionale, che ha potuto tenere la sua prima memorabile udienza il 23 aprile del 1956; per il Consiglio superiore della magistratura, nonché per il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, sorti rispettivamente negli anni 1957 e 1958. Rimangono tuttavia inosservati altri obblighi, anch'essi inerenti a parti essenziali integranti il sistema di governo. La mancata formazione delle regioni a statuto ordinario crea una situazione di grave sperequazione rispetto alle altre già istituite; l'omissione della disciplina del referendum rende inapplicabile il procedimento di revisione che ne esige l'impiego, ed impedisce l'esercizio del potere popolare abrogativo di leggi, previsto come freno all'onnipotenza del Parlamento; ed altresì quella del riordinamento delle giurisdizioni speciali (fra le quali assume particolare rilievo il Tribunale supremo militare) perpetua assai dannosamente la situazione di carenza delle garanzie richieste dall'art. 102 di indipendenza e di idoneità delle medesime; mentre l'altra che riguarda l'ordinamento della Presidenza del Consiglio compromette l'efficienza e l'omogeneità tanto della funzione di direzione politica quanto di quella amministrativa (già pregiudicata quest'ultima dalla permanenza di strutture antiquate, del tutto inadatte ai nuovi tempi), nonché della stessa legislazione cui fa difetto il coordinamento di cui abbisognerebbe, e che si svolge altresì con scarso rispetto per l'equilibrio del bilancio, in conseguenza della deficiente osservanza data in pratica all'art. 81 che avrebbe dovuto garantirlo. Non più soddisfacente si presenta poi il quadro che si offre quando si volga lo sguardo al modo come sono stati osservati i precetti rivolti a segnare nuove vie ai rapporti fra stato e cittadini. Mentre è rimasto in piedi (se si prescinde dalla legge sulla stampa votata dalla stessa costituente, da qualche modifica apportata al codice di rito penale, nonché dal rifacimento di alcuni articoli della legge di p.s. dopo che essi erano stati annullati dalla Corte costituzionale) tutto l'apparato restrittivo delle libertà civili ereditato dal vecchio regime, che appare sempre più pernicioso per lo sviluppo di una sana vita democratica, nessuna iniziativa si è presa nel senso di dare svolgimento ai princìpi relativi alla parità dei sessi, all'istruzione gratuita, alla estensione di questa, per i meritevoli, anche agli alti gradi degli studi, all'ordinamento sindacale, alla perequazione tributaria, all'incremento dell'occupazione. Passando poi ad esaminare il contributo dato dalla giurisdizione nel far valere i nuovi princìpi nella materia dei diritti, è da rilevare come quello dei giudici ordinari nel periodo anteriore alla entrata in funzione della Corte costituzionale sia stato molto oscillante; nelle linee generali, appare restrittivo in ordine all'esercizio delle libertà ed invece spesso più aderente allo spirito della costituzione per quanto riguarda i rapporti economici (235) . L'avvento della Corte ha segnato una svolta importante nel processo di corrosione del vecchio ordine, avendo essa rivendicato pienezza di sindacato sulle leggi anteriori alla costituzione, e fatto in conseguenza decadere molte fra esse, mentre ha d'altra parte affermato il carattere precettivo vincolante dei principi fondamentali, sancendo, fra l'altro, la validità delle leggi di attuazione della riforma fondiaria. Un ostacolo al pieno spiegarsi del sindacato della Corte proviene dal sistema adottato, secondo cui rimane precluso ai singoli il potere di provocarlo in modo

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diretto, ed è invece affidato al giudice della controversia principale la pronuncia sulla fondatezza della questione di costituzionalità sollevata. Pronuncia che, mentre dalle magistrature di grado inferiore è formulata nel senso voluto dalla costituzione, di sommaria delibazione, è viceversa emessa da quelle più elevate previo approfondito esame del merito della questione stessa, e per giunta con criteri non sempre aderenti allo spirito delle norme costituzionali invocate a suo sostegno, ciò che conduce in pratica al risultato di limitare dannosamente gli interventi della Corte. Altra remora l'applicazione dei princìpi costituzionali, quali sono interpretati dalla Corte, incontra nell'inerzia che a volte il Parlamento oppone di fronte all'esigenza che vi sarebbe di colmare le lacune determinate dalle sentenze di annullamento, o comunque di coordinare con queste la restante legislazione (236) . La constatazione di così numerose violazioni della Carta fondamentale, le carenze, i ritardi, le omissioni segnalate e tutte le altre che potrebbero aggiungersi non sono tuttavia sufficienti a far concludere per una involuzione dell'idea animatrice del movimento dal quale essa sorse. La vitalità della costituzione poggia sulla corrispondenza del nucleo fondamentale dei suoi princìpi allo spirito dei tempi, sulla sua consonanza con il moto suscitato in tutti i continenti da un irresistibile impulso di liberazione dai vincoli che tolgono all'uomo di essere pienamente se stesso; sicché non è a dubitare che forze sempre meglio agguerrite sapranno eliminare gli ostacoli sinora opposti al suo pieno svolgimento (237) .