C. Cavalleri: L’altra storia del banditismo

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C. Cavalleri: L’altra storia del banditismo

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C. Cavalleri / L’altra storia del banditismo : Potere costituito, autodeter-minazione, “criminalità” in Sardegna

Prima edizione: (a cura di) Comitato di solidarietà con il proletariato pri-gioniero sardo deportato / Colonizzazione, autodeterminazione, crimina-lità in Sardegna : L’altra storia del banditismo.Arkiviu-bibrioteka “T. Serra”, Guasila 1993.

Seconda edizione, 2004

Arkiviu-bibrioteka “T. Serra”di C. CavalleriVia Melas n. 2409040 Guasila (CA)Tel. mobile: 349 64 19 847E.mail: [email protected]

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Potere costituito,autodeterminazione,

“criminalità” in Sardegna

Costantino Cavalleri

L’altra storia del banditismo

Editziones de suArkiviu-bibrioteka “T. Serra”

Guasila

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Indice

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Introduzione

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Vi è un mito – e i contemporanei che si sono in qualche modo occu-pati di cose sarde l’hanno fatto proprio, contribuendo a divulgarlo finoall’inverosimile – o, se si vuole, una falsità che pur nata in epoca a noirecente ha finito per essere generalmente accettata come verità. Tale falsitàvorrebbe che verso la fine del VI secolo A.E.V. (Avanti l’Era Volgare) cac-ciati i sardi indigeni dalle coste, questi si sarebbero ritirati in quella sortadi «riserva indiana» costituita dai monti del centro Sardegna.

Da ciò la presunta spaccatura dell’isola in due: «quella colonialedelle coste e delle pianure, e quella dei partigiani resistenti».

È a tale epoca ed a tale avvenimento che risalirebbe la «formazioneall’interno dell’isola di una comunità costretta ad organizzare una suaautosufficienza e a procedere, nelle condizioni di assedio permanente e diisolamento, alla faticosa individuazione e realizzazione di una propria fi-sionomia culturale, morale e giuridica» (Cabitza).

Questo punto di partenza, un vero e proprio assioma storico dellaSardegna e dei sardi, merita un minimo di riflessione e di attenzione criti-co-analitica, perché unitamente a qualche altro momento soggiace a tuttele proposte di risoluzione, finora avanzate, della Questione nazionale sar-da (titolo di un interessante lavoro di G. Contu).

Il problema non sta, per quanto ci concerne, sulla ancora dibattutaquestione se invasione cartaginese vi sia stata oppure no; sta, invece, neldare per scontato il fatto secondo cui sarebbe incontrovertibile che sia do-vuta all’approccio col colonizzatore la “formazione” delle comunità inter-ne, della loro fisionomia culturale e pertanto anche morale e giuridica.

PrefazioneLa questione sarda

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Potrebbe pure sembrare, di primo acchito, che si stia ponendo un falsoproblema, ma così non è.

Vediamo l’ipotesi corrente e la nostra un po’ più nei particolari edesaminiamone le relative estreme conseguenze.

A) Nascita/formazione ex-novo di comunità e cultura

È la teoria più accreditata, almeno sul piano dell’analisi politico-ideologica. Però è contraddetta dal fatto che la specifica civiltà sarda, quel-la nuragica, nel periodo in cui si sarebbe verificata la conquista carta-ginese dell’isola era di già secolarmente costituita ed operante. Inoltre, ipunici lungi dal “cacciare” i sardi dalle coste, se davvero avessero occupa-to l’isola, li avrebbero semmai sottomessi per assoggettarli a tributi o schia-vizzarli, essendo questo l’interesse di ogni potenza imperial-coloniale.

Se invasione vi fu – come è storicamente accertato per i romani – isardi almeno in parte scapparono dalle coste e dai Campidani dopo aversubito la sconfitta militare. Ma dato che scapparono – rifugiandosi nellezone interne di già popolate – non è forse, questo atteggiamento, resisten-ziale di per se stesso? Ciò non significa altro che la resistenzialità dei sardiera preesistente all’invasione ed alla sottomissione.

Se, infine, le zone interne erano di già abitate – ne costituiscono pro-va evidente i ritrovamenti d’epoca neolitica ma soprattutto i Nuraghi –potevano forse gli “esuli costieri” dare vita ex-novo ad una loro propriacultura e comunità specifiche, oppure – come è assai più realistico credere– si inserirono, divenendone parte attiva, nelle comunità già preesistenti,accettandone la cultura?

B) Comunità di già operanti al momento della colonizzazione

È l’ipotesi da noi sostenuta, che trova conferma diretta nei ritrova-menti archeologici ed anche in tutte le più recenti analisi etnoantropologi-che, in particolar modo nella antropologia politica. Sconvolge, è vero, tuttigli assunti storici e politici che finora l’hanno fatta da padrone, ma questopoco importa. Meglio, importa tantissimo nel momento in cui, finalmenteliberato da tali assiomi, il processo di liberazione, se liberazione vi deveessere, nazionale-etnica e sociale, viene a poggiare necessariamente solosull’autoctonia, cioè in tutti quei luoghi elaborati autonomamente dallegenti sarde. Il che, come è facile intuire, elimina ogni possibilità di sovrap-posizione ideologica ed ogni speculazione politica.

Come per ogni popolo, anche per quello sardo delle coste la resisten-zialità è atteggiamento proprio, intimo all’essere entità culturale specifica.

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Data la presenza in terra isolana dell’uomo fin dalla notte dei tempi(un periodo si risaliva ad un massimo di circa cinque mila anni A.E.V. maoggi tale datazione è retrocessa di parecchi millenni), questo, nel bene enel male, in epoca di colonizzazione (punica o romana, per prima, pocoimporta) aveva di già elaborato propri tratti morali, sociali, giuridici, lin-guistici ecc. Tenuto conto della diversità geografica, delle attività lavorati-ve/produttive, della sostanziale alterità fra le popolazioni neolitiche e me-galitiche da una parte (le prime genti che in ondate successive popolaronol’isola), e dall’altra gli Shardana (le genti che nell’ultima ondata venneroin Sardegna stabilendosi nelle coste e dando vita alle città-Stato marinare;contrariamente alle precedenti, che si insediarono nel retroterra) è chiaroche sul piano dell’organizzazione del potere tra quelle e questi vi eranoaltrettanto differenti modi di praticarla.

Ora, mentre è possibile delineare l’organizzazione politico-socialedelle città-Stato Shardana – che non poteva essere sostanzialmente dissi-mile dalla organizzazione di tutte le altre città-Stato contemporanee del-l’area Mediterranea e del vicino Oriente –, riguardo la civiltà neolitica emegalitica tutti gli storici avanzano le più inverosimili ipotesi. Come se idati provenienti dalle ricerche etnologiche non potessero dare indizi suffi-cienti – unitamente ai ritrovamenti archeologici – ad interpretare realisti-camente l’assetto politico delle comunità interne.

Per cui in parecchi popolano le tribù selvagge della civiltà nuragicadi ... re, regine e – non potendo mancare, presupponendo l’esistenza diquelli – di eserciti e di guerrieri, la cui differente gerarchia tra gli uni e glialtri sarebbe “documentata” dai bronzetti, che ci mostrano guerrieri conborchie e senza, con l’elmo ad uno oppure a due corna e così via. Appositilunghi studi e relative minuziose descrizioni ci mostrano una società ...gerarchicamente strutturata, che poi cozza “stranamente” non solo con lavivente realtà sociale dell’entroterra, sostanzialmente egualitaria, sostan-zialmente comunistica/collettivistica e sostanzialmente individualistica.Tant’è che tutti gli studiosi di cose sarde hanno riconosciuto – ovviamenteciascuno per motivi propri – l’ostilità dei sardi, anche attuali, verso ogniforma di struttura gerarchica. Ostilità che altro non è se non quella resi-stenzialità cui fa riferimento l’autore prima citato.

Se è vero che il potere nelle città Shardana era concentrato nellemani del Giudice (Yudike) e dei Maggiorenti, non è cosa strana che pro-prio ai fuggiaschi da tale situazione – una volta iniziata la conquista daparte dei colonizzatori – si attribuisca la formazione di una “fisionomiaculturale, morale e giuridica” che ad altro non corrisponde se non ai tratticulturali della “società selvaggia” delle zone interne, preesistente non soloall’invasione coloniale ma finanche alla venuta delle genti Shardana? Non

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è più conseguente affermare e credere esattamente il contrario?Che poi tale cultura sia stata sottoposta a continui tentativi di distru-

zione finendo per essere arginata, può anche essere condivisibile; purchési precisi che, lacerata quanto si vuole, latente quanto si vuole, alcuni suoitratti sono rimasti attivi in ogni parte della Sardegna. Semplicemente per-ché l’isola non venne affatto “spaccata in due” ma tra le due condizionidecretate dalla colonizzazione: dominio diretto nelle coste edaccerchiamento delle popolazioni dell’interno, legalmente, illegalmente,pacificamente o cruentemente, sempre vi son stati comunicazione, recipro-co scambio materiale e spirituale, nonché umano.

Se spaccatura vi era fra l’interno e le coste, sul piano politico – eanche noi ne siamo in parte convinti – essa era preesistente, risaliva cioèalla sostanziale diversità sussistente fra città-Stato Shardana e comunitànuragiche, quelle essendo dimidiate, queste indivise. Spaccatura che co-munque non deve essere intesa come assoluta mancanza di contatti, cheinvece vi erano. Pensiamo alla religione comune, agli scambi materiali/commerciali – ossidiana, bronzo, manufatti, ecc. – e alla partecipazione diguerrieri nuragici alle imprese “commerciali” degli Shardana, popolo dinaviganti.

Che si trattasse di universi comunicanti e non confusi fino a rappre-sentare una sola entità, ci è confermato da fatti storici inconfutabili. Primo:nessuna potenza colonialista di allora avrebbe mai potuto occupare l’isola,se a difenderla in quei pochi porti facilmente approdabili vi fosse statal’intera popolazione, per quanto scarsa potesse essere in quei tempi. Se-condo: quando i romani, attraversando il Campidano di Cagliari, tentaro-no di conquistare Kornus, il Giudice di tale città-Stato, Amsicora, si trova-va in una qualche zona interna alla ricerca di possibili alleati nelle schiattedei Pelliti; ciò è come dire che i due universi umani erano sì comunicantima non certo in sintonia. Terzo: non ci è dato sapere quante schiatte dipelliti si unirono all’esercito di Amsicora, ma tutti gli storici concordanonell’asserire che dovette trattarsi solo di una, al massimo qualche tribù; sevi avessero partecipato in gran numero l’esercito romano sarebbe stato scon-fitto non una volta sola (la prima) ma espulso definitivamente dall’isola.

Questi fatti confermano indirettamente qualche altra nostra conclu-sione: l’universo sociale interno non era affatto strutturato in una qualcheforma politica “pre-statale”, bensì ogni tribù, così come ai giorni nostriogni paese, era un microcosmo a sé stante, autodeterminato, che scuciva ecuciva alleanze alla maniera tipica di tutte le culture selvagge.

Quanto si verificava in larga misura fino a qualche lustro addietro, ein minima parte si verifica anche oggi, cioè l’attrito perenne fra paesi vici-ni/confinanti, doveva a maggior ragione verificarsi nel passato più remoto,

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ciascuna comunità riconoscendosi esattamente nel contrasto rispetto al-l’altra, o alle altre, in una rapportazione che imponeva una sempre mute-vole composizione tra lo schieramento degli amici e quello dei nemici.Tale fenomeno è tipico di tutte le società selvagge e deve esserlo anchedella nuragica.

Il perenne stato di guerra contribuisce all’unità interna di ciascunaspecifica comunità, che con l’altro da sé, speculare ad essa, costituisce quelmacrocosmo che è l’entità etnica isolana.

È, questa, la medesima situazione degli indiani d’America all’attodella colonizzazione, e di ogni popolo selvaggio. Ed è su tale condizioneche una qualsiasi potenza coloniale, anche di dimensioni molto più ridottedi quella romana, poteva imporsi: giocando sulla dispersione/frantumazio-ne della forza delle popolazioni da colonizzare.

A quanto ci è dato ricordare e sapere, solo poche nazioni selvaggeritennero opportuno confederarsi, tra cui ad es. gli Irochesi, riuscendo cosìalmeno ad arginare, ad opporre valida resistenza ed attacco alle forze im-perialiste esterne. Ciò non avvenne tra i Sardi, né fra quelli delle zoneinterne, né fra essi e le città Shardana. Addirittura forse neppure tra questeultime, tanto radicata dovette essere l’autodeterminazione.

La causa della sconfitta dei Sardi o, meglio, della riuscita opera dicolonizzazione nonché della progressiva debolezza dei Giudicati, è da ri-cercarsi proprio nella ancestrale autodeterminazione che, a partire dall’in-dividuo fino al clan e poi al villaggio, permea la cultura isolana.

Un limite? Certamente sì, in rapporto al potere accentrato: perché seè vero che quello originatosi nelle città Shardana prima, nei Giudicati inseguito può sempre essere delegittimato colpendo gli uomini, le famiglie, igruppi che lo costituiscono, al contrario quello proveniente dae su mare(dal mare) non può essere sconfitto nell’indivisione, richiedendo una forzache sia la concentrazione di tutte le energie esistenti.

Che fare?

È il problema per eccellenza, su cui ogni forza politica presente inSardegna ha cercato di sovrapporre la propria ideologia. Come quella cheè partita dall’assunto che propone la cultura sarda dell’interno “nata” aseguito della prima colonizzazione. Ovviamente non si tratta di semplice“coincidenza”.

Verità è che presupponendo che le culture nascono così, come i fun-ghi nell’arco di un avvenimento, per quanto traumatico questo possa esse-re – e la colonizzazione è comunque un trauma – anche la sua fine puòaversi allo stesso modo: ridando vita “ad un’altra cultura” ovvero impo-

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nendo o sostituendo questa a quella ideologia partitica.Così, chi si è occupato della Sardegna e delle sue sorti – in buona o in

malafede – ha infine proposto la propria strada di liberazione: mai chefosse quella di già preesistente. Tutti, almeno in seguito alla strutturazionein codice giuridico dei tratti fondamentali della prassi della vendetta ela-borata dal Pigliaru, riconoscono che si tratta di una vera e propria norma-tiva operante al cui centro vi è l’individuo, la famiglia, il clan, il villaggio;tutti concordano sul fatto che si tratta della nostra cultura, cioè di ciò percui siamo noi stessi e non altra cosa; però nessuno dice che anche la libe-razione è la nostra cultura, che è a partire da essa ed in essa che possiamoprocedere nel processo di liberazione nazionale e sociale.

Inutile negare che fa una gran paura quella realtà che, ponendo l’in-dividuo al centro del mondo umano e negando così validità a qualsiasimomento che sovrasti l’individuo, è ogni singola persona umana che stabi-lisce e ristabilisce l’ordine e la giustizia.

Fa senza dubbio orrore la prassi della vendetta, cioè il farsi giustiziada sé per i torti ricevuti, senza delegare ad altri la risoluzione dell’offesa.Suscita senza ombra di dubbio repulsione e terrore anche il semplice pen-sare che, in situazione di reale autodeterminazione, mancano il politicoche decide in nostra vece cosa è il bene e cosa è il male, il giudice checondanna chi opera il male, il carabiniere che ci protegge dai delinquentied il militare dal “nemico”!

Paura, terrore ed orrore aggrediscono in buona misura quanti auspi-cano una “società diversa”, talmente diversa da quella attuale che la so-gnano così bella da immaginarsela priva di contrasti, opposizioni, interes-si diversi; così che secondo tale concezione tutto d’un colpo l’attuale “cul-tura” dovrebbe scomparire per lasciare il posto all’uomo completamenterinnovato, buono fin nelle midolla delle più minuscole ossa e pertanto in-capace di fare del “male” al prossimo suo.

Ma terrore ed orrore aggrediscono anche coloro che non sanno con-cepire alcuna forma di vita fuori dell’ideologia del “progresso”, e stannomale finanche al semplice prospettare la distruzione della coca-cola e dellepatatine fritte in busta di plastica.

«Per carità – affermano costoro – l’autodeterminazione sarebbe unritorno indietro! Bisogna invece superare ...» e bla bla bla.

E ch’è!? La distruzione non è superamento? Ma forse è il concettostesso di distruzione a creare i maggiori problemi ...

In verità buona parte di quanti fino ad oggi hanno parlato e straparlatodi sardità, di sardismo, di liberazione sarda e finanche di rivoluzione na-zionale sarda, o vi hanno costruito sopra carriere politico-amministrativeo ancora non vi sono riusciti; in ogni caso, evidentemente, i “sardi” da

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sardizzare e da liberare erano e sono essi in quanto hanno sempre avuto dimira il potere sui sardi, non dei sardi. Vogliono dei sardi deculturati, privicioè delle caratteristiche principali della propria cultura.

Ad essere completi, parrebbe che qualche eccezione vi sia, ma a benvedere non si tratta di eccezioni.

Gianfranco Pintore, tanto per fare un esempio, che pure ha colto in-dubbiamente i momenti centrali della questione sarda, alla fine non faaltro che concludere la sua interessante analisi sovrapponendole il paraoc-chi ideologico. Afferma infatti:

«Circa la Sardegna, ... , c’è una sorta di rifiuto a considerare i ter-mini reali del conflitto tra uno Stato di conquistatori e una società con unaciviltà autonoma che, nonostante l’oppressione, ha “progetti di vita” co-stantemente in evoluzione grazie soprattutto al marxismo e al leninismo,ma anche grazie alla resistenza, ormai quasi bimillenaria ... » (pagg. 106/107).

Beh! Il testo è pur vero che risale ad un ventennio addietro, ma ilrapporto tra marx-leninismo e resistenza, almeno per pudore di ... logicità,poteva essere invertito perfino allora; che ne so, magari scrivendo: «grazieal marxismo e al leninismo, ma soprattutto grazie alla resistenza ... ».

Viene da chiedersi in base a quale “progetto di vita” i sardi hannoresistito dal VI secolo A.E.V. fino al XVIII secolo; quando non erano man-co nati né Marx né Lenin. Ma è probabile, a questo punto, che l’unico loroprogetto sia stato di resistere fino alla nascita dei due.

Tutta malignità nostra, si dirà, ma così non è purtroppo. Perché ilmedesimo autore, nella sua propositività, è conseguente all’affermazioneora riportata. Dopo aver negato “l’individualismo” del pastore sardo, comedimostrerebbe “la straordinaria varietà di forme associative inventate daipastori” (negando all’individualismo ogni forma di associazione) attribuiscea questi un “atteggiamento precapitalista nei confronti della proprietà”.Ergo:

«Il dibattito su chi debba essere l’artefice principale della liberazio-ne dallo sfruttamento coloniale non lascia spazi a dubbi: è la classe opera-ia sarda. Ma non ci sono dubbi che sono i pastori a rappresentare per orain Sardegna il nucleo più forte, più omogeneo e soprattutto portatore divalori culturali, civili, giuridici e sociali che se bisogna forse spogliare diarcaismi, si debbono recuperare per la loro contemporaneità: la resisten-za contro il capitalismo e al colonialismo, la difesa di valori comunitari e,come si dice in Barbagia, della “comunione delle terre”» (pag. 145).

Conclusione in perfetta linea con le premesse. Certo marxleninismodi maniera non può concepire una realtà storico-sociale non in perfettalinea con il dogma del “progresso storico” e delle fasi necessarie per arri-

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vare infine alla liberazione. Così che gli risulta impensabile che il pastoresia in funzione di sé stesso, autofondato e nel momento negativo – la resi-stenza – ed in quello propositivo – la liberazione dalle catene che lo co-stringono in schiavitù. Al più bisognerebbe “recuperare” alcuni valori cul-turali di cui è portatore, adeguatamente spogliati da “arcaismi”. Insommaè lo schema trito e ritrito della funzione storica della classe operaia.

Ma oggi, a tanti anni di distanza da quando vennero redatte quellerighe, quale sarà mai il destino storico di una classe che tra una reverenzaal politico, un baciamani al pontefice e le messe in piazza contro il licen-ziamento ad altro non pensa che al mantenimento del posto del lavoro,anche se completamente controproducente, e ... alla necessità di un partito,sola avanguardia che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male, pertanto gli“arcaismi” di cui spogliarsi?

Giuliano Cabitza in proposito (1968) è esplicito, togliendosi dai den-ti ogni pelo. Riferendosi alle vicende del passato afferma:

« ... Tuttavia, preziosi insegnamenti si potrebbero trarre da quellelontane vicende. Insegnamenti sulla necessità di un’organizzazione rigo-rosa delle lotte, della formazione di una direzione politica ferma nei suoipropositi ... » (pag. 108).

Questi sono autori che, in un modo o nell’altro, direttamente o indi-rettamente, hanno fatto epoca. Entrambi, per non citarne degli altri, a de-cine, sono ancora arrampicati sugli specchi della formazione di un diretti-vo di potere. In tanti sono oggi ingranaggi della mastodontica macchinastatale e dei suoi meccanismi politici ed amministrativi, sempre più inva-denti e perfettamente funzionali alla ricerca di una direzione politica. Levecchie volpi vi stanno ben annidate ed anche dopo il crollo dei muri impe-rialistici della democrazia occidentale e della dittatura sul proletariato hannotutto l’interesse a rimanervi.

Ciò evidenzia quanto colonizzata sia buona parte della intellettualitàisolana, finanche quella ritenuta – spesso autoritenuta – la più “radicale”.Non è forse negare fin dal principio l’autodeterminazione delle genti sardeil voler far credere che l’autoctona cultura altro non sia se non il riflessodella colonizzazione? Ma, viene giustamente da chiedersi, se colonizzazionemai vi fosse stata, questi strani animali di isolani avrebbero da soli datocorpo ad una specifica cultura? Oppure avrebbero atteso che menti cosìilluminate aprissero loro gli occhi, a chissà quale stadio di a-socialità?

Il fatto più tragicomico di questa intellettualità pseudoradicale e pseu-doindipendentista, è che arriva ad ipotesi interpretative a dir poco ridicole,storicamente infondate, scientificamente false e politicamente di estremapericolosità, che evidenziano al massimo grado non tanto l’imbecillità deiproponenti quanto la volpina malafede, intenzionata a giustificare ogni

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sorta di costituendo potere centralizzato che decreta, stavolta dall’interno,l’esproprio dell’individuo e quindi delle comunità di base. Arroccati inquello schematismo ideologico di derivazione metropolitana, secondo cuila storia dell’umanità sarebbe indiscutibilmente unica e costituita dallaprogressione meccanica delle tappe proprie della società capitalistica, seper altri versi negano all’etnia sarda ogni autoctona formazione arrivanoaddirittura all’assurdo storico di definire i pastori sardi “un ceto, uno stra-to particolare della classe borghese”, perché sono “proprietari di mezzi diproduzione”. Per cui:

«Non è assurdo pensare che dai pastori, attraverso una serie di pro-cessi che non vale la pena di cercare d’indovinare, sarebbe potuta uscireuna borghesia questa si “locale” o se si preferisce “nazionale”, capace disvolgere un ruolo autonomo e positivo» (Cabitza).

Capito?Seguendo una tale logica, i Nuer, o anche le donne Irochesi, o che so

io, gli Eschimesi, proprio perché proprietari dei mezzi di produzione (adesempio, degli armenti, dell’arco, delle frecce e delle fiocine), altro nonsarebbero che “ceti particolari” della borghesia che, se non impediti nelloro sviluppo autonomo dalla colonizzazione, avrebbero accumulato in-genti risorse dalle quali, adeguatamente “investite”, sarebbe sorto il capi-talismo interno a quelle rispettive comunità. Le quali, ad un dato grado delloro sviluppo avrebbero ciascuna avuto il proprio Marx, Lenin e persino unBakunin tutto specifico oltre, naturalmente, un ... proprio Cabitza, atti adirigere, in modo ferreo, senza tentennamenti o debolezze di sorta, il tra-passo al socialismo ... di Stato. Poi si sarebbe visto!

Queste le rivoluzionarie conclusioni degli intellettuali radical-indi-pendentisti. Senza dilungarci oltre, è facile intuire quale mai possa esserestata, e ancora sia, la loro posizione nel contesto sociale.

Abbiamo accennato al fatto che non si tratta semplicemente e solo diimbecillità o di bestialità teorico-ideologiche, perché in realtà fin troppi“rivoluzionari” sono andati a finire giusto giusto ad alimentare le file dellaburocrazia del potere coloniale che verbalmente dovevano invece sconfig-gere. È fin troppo opportuno definire – usando concetti assai blandi ed“educati alla buona creanza” – simili atteggiamenti puro carrierismo poli-tico-partitico, cioè volontà di tagliarsi una bella fetta del potere costituitoper fini prettamente personalistici.

Né, questo fatto, ci avrebbe fatto perdere spazio e tempo prezioso senon fosse in qualche modo legato, o slegato a quella che invece è la nostraanalisi della questione sarda e pertanto a quel progetto di liberazione dicui non siamo né vogliamo essere noi i soli portatori. Se così fosse lo attue-remo e basta ... senza dilungarci a chiarire a chicchessia il nostro senso di

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liberazione, che crediamo di ravvisare, invero, nel sociale isolano, nellanostra cultura, sia pure spesso deviata dal sovrapporsi ad essa di momentidegeneranti che gli fanno imboccare tutt’altre strade dalla reale autodeter-minazione.

La cultura sarda non è nata affatto nel contesto della colonizzazionee neppure è una “degenerazione” attuale rispetto a se stessa o ad una qual-che altra entità mistico-ideologica presupposta dagli assunti teoretici dischematismi politici beffati dalla storia e, nello specifico, dalla medesimastoria sarda. Si tratta della nostra cultura, elaborata autonomamente findalla notte dei tempi, che i vari colonizzatori hanno senza dubbio arginato,sospinto, contrastato, limitato, parzialmente frantumato con lo scopo nontanto e non solo di soddisfare esigenze sadiche e perverse, ma di spezzarela resistenza dei suoi portatori a fini di profitto e di dominio totale.

I colonizzatori non necessariamente sono venuti, e vengono, dae sumare; vi sono anche quei momenti, strutture, organismi, personalità, tutteinterne all’isola, più precisamente quei momenti di potere accentrato che,preesistenti nelle città Shardana al momento dell’impatto con i primi colo-nizzatori, si sono manifestati a livello generale anche nei Giudicati, decre-tando l’esproprio o il tentativo di esproprio, del potere diffuso nel sociale.Nulla differenzia, dal punto di vista del reale interesse delle genti isolane,la prassi genocida ed etnocida propria dei Giudicati, da quella degli statali-smi provenienti dae su mare.

Di conseguenza il processo di liberazione deve attuarsi non passandoal setaccio ciò che a ciascuno di noi è gradito, secondo una riduzione deimomenti della nostra cultura a quelle categorie ideologico-politiche appre-se per altro da indottrinamento; bensì spogliando di ogni costrizione i trat-ti caratteristici delle nostra esistenza come individui e come comunità.

Il fine che si pone l’individuo sottraendosi all’imperio della legge,non è quello di dare vita ad una autonomia più o meno ampia e comunquesolo politico-amministrativa della Regione Sarda; e neppure di dare corpoad uno Stato tutto sardo che, come per i Giudicati, altro non significhereb-be se non repressione, oppressione, impedimento, limitazione, disciplina ecosì via; si tratta invece del rifiuto puro e semplice di ogni imposizioneesterna a se stessi, ai propri canoni morali, comportamentali, materiali espirituali.

È proprio la cultura sarda che indica chiaramente l’antistatalismodei sardi, e ogni operazione – peraltro malamente messa in piedi – di bassadialettica politica, improntata sul nudo e crudo opportunismo carrieristicoo leaderistico, non è altro che strumentalizzazione della disgrazia dei più afini di potere personale o di partito che sia.

Né ci spaventano le sicure accuse di arcaismo, di barbarie, di inco-

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scienza “sanguinaria” che in parecchi ci sputeranno addosso. Vedremo chein fatto di barbarie la civiltà di Stato, esterna ed interna alla Sardegna, benpoco ha da apprendere da chicchessia. Contro un fatto di sangue dovuto afattori propri della prassi della vendetta (che pure è quotidianamente “acu-ita” dalla pressante opera di colonizzazione) si ergono le più sanguinariestragi di Stato, le forche, le sofferenze inaudite, le deportazioni, gli statid’assedio, l’affamamento, l’espoliazione, il sistematico furto, gli imprigio-namenti e le torture che colpiscono ad una volta migliaia di sardi.

Che civiltà è mai quella che ha elaborato il sistema di punizione comegiustizia e questa l’ha fatta coincidere con l’esproprio delle condizioni divita materiali e spirituali degli individui, decretandone in tal modol’ impazzimento e sottoponendoli poi a reclusione a vita, in uno stato disequestro di persona permanente, con il confessato scopo di estorcere alprigioniero, oltre al frutto del suo lavoro ed al territorio che gli appartiene,finanche l’anima?

Che civiltà è quella che mi offende quotidianamente e mi impediscepoi di vendicarmi?

Che civiltà è mai quella che impedisce all’ente offeso di riscattarsidirettamente, imponendogli il ricorso ad una entità estranea, “professiona-le” che giudica e punisce secondo metodi, regole, norme, leggi elaborateastrattamente e pertanto fuori da ogni contesto della vita reale?

No! Tale sistema non è espressione di civiltà al massimo grado, bensì– semmai esistesse una scala di valori per misurarla – all’infimo grado.Non è espressione della vita reale ma di finzione, falsificazione di tutto e ditutti, in quel teatro universale che il potere accentrato vuole estendere aogni angolo del pianeta. Noi, come sardi, come individui, come comunitàconcrete abbiamo la nostra, di civiltà, forse cruenta come quella masenz’altro più vera, sincera, umana.

Ma l’essere cruento della nostra cultura è poi da addebitare e-sclusivamente al fatto che siamo e vogliamo essere “selvaggi”? Sicura-mente no! Ed in questo caso ben ragione hanno avuto tutti coloro che han-no denunciato puntualmente i danni, le lacerazioni, le opposizioni, le ven-detta e le faide scatenate in seno alla società sarda dalla colonizzazione.

Spesso l’abigeato (per es.) non è decretato da semplici motivazioniinterne al sistema di vita (balentìa, prima di tutto) bensì dall’affamamentoimposto dal regime di dominio, oppure perché lo Stato medesimo offreesempi di come vivere del furto, della rapina ai danni degli altri. E nellostato di perenne scarsità dei mezzi di sussistenza imposto dalla colonizza-zione, ben si comprende come non solo il furto è reso obbligatorio pertroppe persone, ma anche con quale facilità esso può essere interpretato –da chi lo subisce – quale offesa che richiede risposta vendettale.

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Se poi, tra le motivazioni che incrementano a dismisura, fuori daogni comprensione ed immaginazione, il furto e finanche il sequestro dipersona, invece che la scarsità oggettiva dei mezzi di sostentamento ponia-mo i miti consumistici della vita capitalistica, propagandati dai carosellidel sistema, sagomati su di una vita lussuosa ed all’insegna dello sperperoe del superfluo, con la maschera dell’uomo vero in auto roboante o chesappiamo noi, la questione è sempre la medesima. Anzi, man mano cheavanza la colonizzazione, la cosiddetta criminalità avanzerà sempre più,per il semplice motivo che i codici autoregolamentativi dell’autoctonia,scomparendo con sempre maggiore intensità, non rappresenteranno validoargine atto a mantenere in certo equilibrio le forze prorompenti degli indi-vidui e dei raggruppamenti d’individui. Aumenterà a dismisura la lacera-zione sociale e lo Stato canterà vittoria, la nazione sarda essendo definiti-vamente sconfitta.

Sarà anche la fine della criminalità? Basta dare uno sguardo allametropoli per trovare la risposta. Qui la disumanizzazione alimenta le cau-se della delittuosità; solo che – ed è questo fatto che impone allo Stato diimpegnarsi fino in fondo nell’opera di denazionalizzazione – nella metro-poli la delinquenza non è frutto di un sostrato culturale in atto di resistenzacontro la propria scomparsa, ma semplicemente rivolta per la sussistenza,senza rappresentare reale alterità al potere costituito. Proprio perchéprogettualmente carente, il sistema ha facilmente ragione di essa, o megliola introietta quale momento essenziale della propria esistenza, facendo dellalotta alla criminalità, della difesa dei cittadini contro l’opera dei delin-quenti, uno dei pilastri portanti su cui si regge l’ordine sociale vigente.

Illusione, quando non malafede, vi è nell’assunto che la lotta allacriminalità, se portata avanti decisamente, alla fine sarà vittoriosa. La cri-minalità è nello Stato stesso, nel suo essere potere esclusivo e pertantofrutto e fautore di ineguaglianze sostanziali.

I contrasti interindividuali fanno parte della vita, così come quelli frai diversi gruppi umani (famiglie, clan, tribù, villaggi, ecc.) e sono inelimi-nabili. La cultura selvaggia ha elaborato metodi di equilibrio fra le variecomponenti il corpo sociale, per evitare che la vittoria dell’una significhila sottomissione dell’altra. Pur nell’infinità di varianti tra un popolo e l’al-tro, il sostrato politico proprio di ciascuna cultura selvaggia è che il poteredeve essere diffuso nel sociale, quindi facente capo ad ogni singolo in-dividuo, che si esplica attraverso la balentìa e si afferma nella prassi dellavendetta.

La cultura sarda è cultura selvaggia, senza e contro lo Stato, per cuiil processo di liberazione nazionale e sociale, è unico.

Fine del processo di liberazione non è la “vera” autonomia della Re-

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gione Sarda; non è neppure una sorta di federazione italiana di Stati etnici.Neppure è la costituzione di uno Stato tutto sardo, presunto indipendente elibero di federarsi con chi vuole perché in ogni caso non significherebbereale liberazione dei sardi, il cui potere sarebbe comunque espropriato edaccentrato nelle mani di pochi. Il fine del processo di liberazione è la cul-tura selvaggia, il potere diffuso, l’autodeterminazione a partire dai singoliindividui, con tutto l’armamentario della balentìa e della prassi della ven-detta, delle disamistades e delle faide.

Ma – ci si potrebbe obbiettare –, dato il grado di acculturazione rag-giunto e la disgregazione sociale in atto, le faide e le inimicizie correnti, untale processo non solo sarebbe impensabile, ma addirittura controprodu-cente. Una tale obbiezione non ha ragione di essere se si colgono anche leestreme e logiche conseguenze cui perviene il medesimo processo. Si trattadi seguire fino in fondo la estrema logicità della prassi della vendetta, diporre in essere le balentìe di tutti i sardi sfruttati e colonizzati quindi diesplicare le personalità di ciascuno di noi contro quel grande nemico ditutti che è lo Stato, i suoi uomini, le sue istituzioni giuridiche, civili edeconomiche.

L’offesa alla integrità fisica e spirituale, alla famiglia, al villaggio,alla gente sarda, non viene solo dal vicino di pascolo, da colui che mi rubale pecore o l’auto; l’offesa mi viene anche dal posto di blocco; da chi vuolecontrollare i miei spostamenti, limitando la mia libertà. Sono offesa l’in-terrogatorio del giudice e dello sbirro, le tasse e sovrattasse estorte, l’arre-sto, il furto del mio lavoro, la disoccupazione forzata, l’obbligo delle tan-genti per ammazzare il maiale e per vendere il bestiame, il ladrocinio ope-rato nelle coste dal capitale turistico; è offesa l’importazione di quelmarciume che chiamano alimenti; è offesa la recinzione delle terre, deifiumi, delle nostre coste; è offesa il rombo degli aerei militari e civili neinostri cieli, di cui lo Stato-capitale si è impadronito; è offesa il costringer-mi all’emigrazione.

Tutto questo e mille altre cose sono reale offesa alla nostra dignità diuomini liberi, alla nostra integrità, impediti come siamo nel manifestare lanostra potenza, la nostra personalità. E la rivolta a simile offesa non è altroche vendetta atta a contrastare il disegno genocida ed etnocida che vuolefare di noi e dei nostri figli dei bambocci ammaestrati per la produzione diprofitto e consenso ad un padrone.

Di conseguenza la vendetta non deve essere arginata, limitata, soffo-cata bensì – al contrario – radicalizzata, estesa, ampliata contro tutto ciò,di interno e di esterno, che vuole soffocarci come individui e come popolo.

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Parte Prima

Delitto e castigo

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1.1.1 Norma e società

Ogni società umana, in quanto aggregato stabile di individui, elaboraspecifiche norme atte a garantire l’integrità sociale, la persistenza nel tem-po della comunità e dell’ordine specifico interno che le è proprio.

La norma (o “legge”) può essere di contenuto positivo (in quantoprescrive come ci si deve comportare in una data contingenza) oppure dicontenuto negativo (perché prescrive cosa non si deve fare in uno specificofrangente). Il contenuto della norma è comunque atto a salvaguardare l’or-dine peculiare ad ogni comunità; oppure – il che è la medesima cosa – aristabilire l’ordine preesistente nel caso questo venga infranto.

Contrariamente a quanto da più parti si vuole far credere, non esistealcuna norma universale, valida cioè in tutti i tempi e in tutti i luoghi.Ciascuna società ha propri valori, spesso irripetibili, e la norma garantiscetali valori. Finanche l’omicidio, il togliere la vita a qualcuno, è valutato inmaniera assai diversa a seconda del popolo (è fra gli eschimesi, probabil-mente, che l’omicidio è un atto valutato – in una ipotetica scala di gravità– ai minimi livelli).

Tuttavia sarebbe altrettanto errato credere che la norma, una voltadata, non possa subire dei mutamenti. Questi vi sono, nel corso nel tempo,e concernono spesso suoi momenti sostanziali, altre volte formali.

Crimine, o “delitto”, è l’infrazione di una norma vigente, quindi del-l’ordine sociale. È chiaro però che il medesimo atto assume valenza diver-sa a seconda della specificità culturale. In particolare, la medesima azione,

Delitto e castigo

Capitolo Primo

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o lo stesso comportamento possono rappresentare delitto per una società,ma momento non ritenuto tale per un’altra.

Le differenze fra le norme non concernono solo il loro contenutobensì anche le modalità di emanazione e quelle fissate per ristabilire l’or-dine qualora venga infranto.

La comprensione esatta di come ciò si verifica richiede un sia purbreve richiamo all’antropologia politica (cioè a quella branca dell’antro-pologia che si occupa del manifestarsi del potere – e delle sue diverse for-me – nella società).

1.1.2 Potere e società

Il potere è il luogo sociale di emanazione delle norme e della capaci-tà di farle rispettare.

Per individuare tale luogo il nostro immaginario ricorre immediata-mente al governo, al parlamento, al re o ad un capo di Stato, oltre che atutto l’armamentario di contorno. Si percepisce in tale maniera il luogo diemanazione delle leggi.

Sarebbe tuttavia assai limitato il credere che il potere si manifestiesclusivamente secondo i canoni dello Stato (in generale, dell’ordine im-posto nelle società organizzate verticisticamente). In realtà questo è unmodo, una maniera – non la sola, evidentemente –, attraverso cui la socie-tà stabilisce le proprie norme (il proprio ordine).

Alle società con lo Stato fanno riscontro quelle senza Stato, ma nonper questo senza potere (sarebbe assurdo il crederlo anche se, ovviamente,non tutti sono disposti a rompere gli schemi ideologici in cui sono chiusi).

L’antropologia politica descrive due realtà, a seconda del modo in cuiil potere si esplica nel sociale: società con lo Stato (divise al proprio inter-no, dimidiate); società senza e/o contro lo Stato (società selvagge – chevivono nella selva, pertanto non urbanizzate –, indivise al proprio inter-no).

Le società con lo Stato sono divise in ceti, classi, gruppi alcuni deiquali privilegiati e nelle cui mani è concentrato il potere. I ceti privilegiatipersonificano le istituzioni che provvedono ad emanare le norme ed a farlerispettare. Qui la legge è stabilita dall’alto sull’intero corpo sociale e speci-fiche istituzioni repressive ne garantiscono il rispetto.

Nelle società senza Stato il corpo sociale è indiviso. Le norme si tro-vano di già emanate, quasi poste fuori dal tempo. Nessun ente concreto leha emanate e nessun ente può mai modificarle, o annullarle. Ciò – è beneribadirlo – in senso relativo, in quanto non è concepibile l’immobilità as-soluta. Inoltre, è chiaro che pur non essendo possibile far risalire una nor-

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mativa particolare a questo o quell’individuo concreto, è pur sempre possi-bile cogliere la reale portata di una legge interpretandola attraverso i miti,le leggende, la funzione sociale.

In queste società il rispetto delle leggi non è imposto da alcuna istitu-zione particolare, bensì dall’introiezione di esse da parte di ogni indivi-duo. Di conseguenza pure la rottura dell’ordine esistente e la sua ricompo-sizione viene attribuita ai singoli componenti il corpo sociale.

Così, mentre nelle società con lo Stato la norma e la sua infrazionesono momenti di competenza delle istituzioni, in quelle selvagge il tutto èposto nelle mani dei singoli componenti la comunità. Nel primo caso imembri del corpo collettivo accettano (o subiscono, poco importa in questasede precisarlo) la delega ad altri; nel secondo caso invece sono i direttiinteressati ad agire in prima persona. In quelle vi è lo sbirro, il giudice, ilsovrano che garantiscono l’ordine; in queste sono tutti i componenti lasocietà che direttamente autogestiscono i propri interessi e le proprie con-cezioni della vita.

L’etnografia chiarisce anche che nelle società senza Stato, qualoravenga infranto l’ordine vigente, la collettività interviene quando l’infra-zione colpisce tutto il gruppo, tutti i suoi componenti, o rischia seriamentedi colpirli; ma non quando a subire un torto, una offesa, in altre parole nonquando sono stati lesi interessi materiali e/o spirituali di una sua parte(individuo, famiglia, clan). In questo ultimo caso la ricomposizione del-l’ordine è rimessa nelle mani delle parti in contesa.

La società, attraverso le norme consuetudinarie che si materializzanonel comportamento pratico dei suoi membri, può spingere la parte lesa adagire per salvare il proprio onore; può anche prestabilire la gradualità concui l’ordine infranto può essere ricomposto, ma mai interviene fra due par-ti in contesa anche se ciò dovesse avvenire in maniera cruenta e sanguino-sa. Salvo che alla fine la lotta stessa non finisca per interessare/coinvolgereil corpo collettivo, determinando così il pericolo di frantumazione dellostesso.

1.1.3 Contenuto della norma

Ai due modi di manifestarsi del potere corrispondono contenuti nor-mativi contrastanti. È evidente che chi emana le leggi dà ad esse un conte-nuto atto a garantire uno specifico ordine, più precisamente l’ordine diquella particolare società, le coordinate, i valori su cui l’intero corpo col-lettivo sussiste.

Nelle società dimidiate (divise al proprio interno) si hanno delle nor-me atte a salvaguardare la struttura piramidale e pertanto i privilegi dei

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pochi a scapito delle moltitudini. Al contrario, le società indivise elabora-no norme che garantiscono esattamente l’indivisione, l’unità del corpo col-lettivo, l’ordine sociale basato sulla parità di condizioni.

In genere nelle società con lo Stato, in quanto politicamente riferiteal centro da cui vengono emanate, le leggi mirano ad un controllo semprepiù totale e ramificato nel territorio, al fine di tutto regolare e pianificaresecondo le direttive del centro (o del vertice).

All’opposto, nelle società senza o contro lo Stato la normativa si ri-duce a relativamente pochi momenti e mira a garantire l’indivisibilità del-la comunità, a graduare le risposte alle offese subite, a salvaguardare irapporti che il corpo collettivo ha instaurato col resto dell’universo.

1.1.4 Delitto e castigo

Le diversità che abbiamo fatto emergere tra i due tipi di società riflet-tono anche il modo in cui i due mondi sociali sogliono ristabilire l’ordineinfranto e, non ultimo, sul modo stesso di concepire il delitto e il castigo.

Nelle società con lo Stato emerge, nell’infliggere il castigo contro ilreo che ha infranto le leggi, la volontà di punizione; nelle società senzaStato, invece, emerge la volontà di rivalsa dell’ente offeso (individuo, clano l’intera collettività che sia), che rivendica la propria sovranità, il proprioruolo messo in discussione dall’offesa subita.

Riteniamo di fondamentale importanza questo diverso atteggiamen-to, se non altro perché l’attuale concezione della pena se da una parteinclude il momento del pentimento che redime il reo, dall’altra è esatta-mente il proseguimento del vecchio modo di intendere il castigo (comepunizione).

Considerato che le società selvagge concepiscono l’esistenza del con-trasto di interessi fra i propri componenti, e che pertanto mirano più che adebellare il “delitto” tra privati a regolarne l’evoluzione – affinché si salva-guardi l’unità collettiva – per crimine vero e proprio è da intendersi, inquesto caso, l’infrazione alle norme della comunità. Più che a punire, leleggi mirano ad eliminare, espellere dalla collettività quanti manifestanodi non accettarne le sue norme. È esclusa in ogni caso la galera, la restri-zione della libertà del reo, la punizione come momento di salvezza e diestinzione dell’azione che ha infranto la legge.

La stessa uccisione di colui che si è macchiato del delitto più atroceviene posta in essere in casi davvero eccezionali e l’infrazione riguardasempre le regole fondamentali del consorzio umano. In genere è il capo (olo sciamano) ad essere ucciso, qualora voglia trasformare il prestigio di cuigode in privilegio, in potere effettivo concentrato nelle sue mani a scapito

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della collettività. In queste società, infatti, la funzione del capo è esclusiva-mente quella di rappresentare il corpo collettivo nei contatti con altre so-cietà. Non è concepibile il rapporto comando-obbedienza ed il capo nonpuò pretendere più del prestigio di cui gode.

Particolare rilevanza assume, in tale contesto sociale, il tabu, ovveroil non rispetto di specifiche leggi che sono poste a fondamento dei rapportifra la comunità e l’universo spirituale. L’infrazione di un tabu è in genereritenuto come la traumatica rottura di un ordine che immediatamente si-gnifica la separazione del gruppo dagli “spiriti” del mondo, e pertanto ilsoggiacere alla vendetta degli stessi che vengono così offesi. A pagarne leconseguenze, disastrose, non è tanto il singolo – sia pure il reo che mate-rialmente ha posto in essere l’offesa – bensì tutta la comunità. Perciò la suauccisione, spesso, più che intendersi come punizione è da considerarsi qualeprevenzione della vendetta degli “spiriti”, oltre che momento di deterrenzaper tutti i componenti.

La società di cui stiamo discorrendo è data dall’equilibrio sempreprecario delle varie forze individuali e familiari (claniche) che la costitui-scono. La rottura di detto equilibrio si ha ogni qualvolta che viene sminu-ito o negato il prestigio di una parte. Ciò accade per mille motivi, spessoper questioni di interesse materiale ma altrettanto spesso per motivi dinatura morale-spirituale. I contrasti che ricadono in questa sfera, generica-mente definita “privata”, vengono regolati tra i diretti interessati e trovanoespressione nell’orbita della vendetta.

Tale “istituto”, prassi rimasta in vigore fino ai giorni nostri in diversipopoli anche “civilizzati”, è esattamente l’opposto della pena. Chi si ven-dica, nell’azione che pone in essere contro il proprio nemico, più che apunire mira a ristabilire la propria integrità materiale-morale posta in di-scussione all’atto dell’offesa. È l’onore della parte lesa, il prestigio messoin discussione, la sovranità che devono essere salvaguardati e reintegrati, eciò è l’aspetto fondamentale di tale istituto.

Nelle società con lo Stato la trasgressione delle norme, in tutti i casiestranee e quindi astratte per il reo, viene concepita sempre e comunquequale a-socialità. Contrariamente al caso precedente però, non si mira adespellere il colpevole dalla società, ma a costringerlo in essa, violentando-ne la volontà. La punizione inflitta mira non tanto a “salvare l’onore” delloStato, bensì anche a convincere il “criminale” ad accettarne le leggi, vo-lente o nolente. In quest’ordine sociale non è neppure concepibile che isingoli individui, o gruppi d’individui si sottraggano all’imperio della normastabilita. Non a caso, nel neppure tanto lontano passato, i delinquenti veni-vano mutilati o marchiati; segno indelebile della prepotenza di Stato chemarchia all’infamità chi non accetta le sue norme.

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1.1.5 La pena come redenzione

Se in origine lo Stato mirava a punire i criminali evidenziando l’attodi forza e d’imperio del potere costituito sui sudditi, col tempo la prassidella punizione viene giustificata anche come momento di salvezza. Inrealtà, quanto più si modifica il sistema Statale tanto più emerge la neces-sità di cercare il consenso dei sudditi per potersi perpetuare. Anche il con-cetto di castigo subisce così sostanziali modificazioni.

La punizione del criminale diventa prassi attraverso cui egli, scon-tando il castigo che gli è stato comminato, può mirare alla redenzione. Inaltre parole, considerato che la società statale è fondata essenzialmentesulla contraddizione principale della divisione sociale, causa ed effetto diulteriori contraddizioni politiche ed economiche date dalle ineguaglianzemateriali e spirituali fra gli uomini, il delitto è suo momento ineliminabile.Per cui è sorta la necessità di atteggiamenti diversi nei suoi confronti.

Non vige più l’illusione della sua eliminazione, neppure tramite l’usodella forza più brutale. Prende piede un’altra illusione: quella di infliggerea quanti ledono le leggi una pena che funga da punizione e contemporane-amente significhi per il delinquente la redenzione. Sconto di penalità chelavi il peccato, provochi pentimento e pertanto l’intima convinzione del-l’errore commesso.

In tal modo del criminale se ne vuole fare un apologeta del sistema.Il trapasso dal vecchio concetto di punizione al nuovo di pena come

salvezza non poteva che essere posto in essere dalla religione cristiana.

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1.2.1 Il concetto cristiano di pena

Il potere, nelle prime forme di Stato imperiale (azteco, incaico, egi-zio, romano, ecc.), è relativamente esclusivo e totale, essendo mediato dal-l’attenzione rivolta ai popoli via via sottomessi, dei quali si rispettano for-malmente riti e miti, credenze ed usanze. La prassi, pur costante, del geno-cidio e dell’etnocidio, non è affatto sempre funzionale agli interessi del-l’impero. La conquista di nuovi territori ha un senso solo se questi sonopopolati, in quanto è dallo sfruttamento delle popolazioni che si traggono itributi. Da ciò la necessità, una volta attuata la conquista, di forme di do-minio che manifestino rispetto dell’identità dei conquistati.

Così gli Incas se da una parte impongono il culto del loro dio, dall’al-tra non estirpano o vietano i culti tradizionali delle popolazioni conquista-te. Egiziani, Romani e via dicendo agiscono nello stesso modo, almeno nelbreve periodo e nei confronti delle popolazioni non particolarmente ostili.Una tale politica evita che i popoli soggiogati siano in perenne rivolta con-tro il conquistatore; nello stesso tempo agevola la riscossione dei tributi,che poi è il fine dell’assoggettamento.

Ovviamente vi sono le eccezioni, ma in generale questa è la preva-lente tendenza nella storia di ogni impero. Si tratta, in definitiva, del pro-cesso di acculturazione ai suoi primordi, non certo di spirito di “tolleran-za”.

L’intelligenza del potere imperiale è del tutto assente nel cristianesi-mo, almeno nella sua forma compiuta che si è istituzionalizzata nella Chiesa

Il concetto cristiano di pena

Capitolo Secondo

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cattolica apostolica romana. Tale assenza rimarca finanche il trapasso dalconcetto tradizionale di castigo al duplice significato che esso assumerà.

Per il cristianesimo, al castigo quale punizione verso il responsabileche ha infranto la norma deve affiancarsi l’atto del pentimento mirante ariconciliare il criminale con l’ordine costituito, con la legge, quindi condio. Il criminale è peccatore, ma in quanto figlio di dio può redimersi,riconciliarsi col suo creatore. La riconciliazione impone lo sconto dellapena, ma determina la salvezza, la rinascita, la resurrezione solo se inclu-de il pentimento; altrimenti non vi può essere salvezza, ma dannazione.San Tommaso l’ha chiarito a sufficienza questo aspetto.

La Chiesa nasce cattolica, cioè universale. Suo fine è portare il verbo,la “verità” su tutto il globo, convertendo – ove possibile – pagani e senzadio,quindi distruggendo ogni forma di eresia.

1.2.2 Fondamenti del cristianesimo

Il primo fondamento della dottrina cristiana è il triste monoteismoebraico, che pone Jeova signore assoluto e creatore (padrone esclusivo,quindi) di tutte le cose dell’universo. Ogni esistente ad egli è riferito, ognicosa in egli si annulla ed esiste solo in grazia sua.

Il modo di manifestarsi di questo terribile Moloch è l’ordine perento-rio e la più sanguinaria ritorsione verso quanti violano i suoi dettami. Rin-tuona, nel triste universo ebraico-cristiano, l’altisonante ed irata voce diJeova, quando, rivolto ad Eva, la maledice per tutta la durata della vitaterrena:

Moltiplicherò assai le tue pene e le doglie della tua gravidanza;avrai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardoreverso tuo marito, ed egli dominerà su di te. (Genesi)

Non meno grave è la maledizione che scaglia ad Adamo:

... La terra sarà maledetta per cagion tua; con lavoro faticosoriceverai da quella il tuo nutrimento per tutti i giorni della tuavita, essa ti produrrà spine e triboli ... col sudore di tua frontemangerai il pane, finché ritornerai alla terra, da cui sei statotratto, poiché tu sei polvere e polvere ritornerai. (Genesi)

Con questa visione, non certo gaia, della vita il popolo cristiano pri-ma, la sua gerarchia fattasi Stato poi, si rapportano con gli altri popoli e lanatura. La setta che nel mito della passione e della resurrezione del Cristo

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vede la salvezza dell’umanità dalla dannazione eterna, nega (nella di giàdisgraziata sorte dell’essere umano decretata dal barbaro Jeova) financheogni valenza nell’alterità. Né viene accettata ogni formale conversione. Lasalvezza, la rinascita è possibile solo nella “passione”, nel doloroso trava-glio, nell’intimo convincimento dell’errore.

Le “spine” che lacerano la carne viva rappresentano la passione ne-cessaria, la sofferenza del corpo e dello spirito che, indulgenza del peccato,redime, lava l’anima nel pentimento, fa rinascere alla vita eterna dell’al dilà.

Ecco la struttura mentale, l’orizzonte ideologico-culturale con cui laChiesa, religione imperiale, imporrà se stessa ed il potere che rappresentae che la rappresenta, ai popoli dell’Europa prima, del mondo intero poi.

1.2.3 L’avvento della Chiesa cattolica al potere

Quando l’imperatore Costantino eredita quel che resta del vecchioimpero romano, si trova ad affrontare una situazione sull’orlo del collasso.Crisi economica, burocrazia in stato di completo sfacelo, disorganizzazio-ne dell’esercito, province in perenne rivolta, nemici esterni che premonoai confini del “regno”, un’infinità di popoli e culture assai diverse fra loroche neppure l’ampio rispetto dei propri riti, miti, usi e costumi riesce più atenere soggiogati sotto un’unica sferza.

Il paganesimo, nella sua variante latina è in crisi. Al contrario, ilcristianesimo – assai trasformato rispetto alle sue origini – è diffusissimonon solo, ormai, negli strati sociali inferiori di quella società schiavistica,ma in tutti i ceti, finanche i più alti.

L’estendersi del cristianesimo fra tutte le classi sociali (fenomenodovuto alla crisi che imperversa ed alla caduta dei valori che sostenevanospiritualmente l’impero) ha trasformato radicalmente la struttura della set-ta, fino allora soggetta a terribili persecuzioni. Contrariamente al passatola Chiesa è, ai tempi di Costantino, una vera e propria società organizzatae strutturata gerarchicamente. Nel contesto dell’impero in profondadecomposizione, si presenta come Stato entro lo Stato.

La comunità cristiana è ormai divisa al proprio interno in due com-ponenti: clero, cioè parte eletta (la burocrazia); e laos, cioè i laici (i sem-plici credenti). Costantino, nel suo progetto di ripacificazione e ricostituzionein unità stabile dello Stato imperiale, non poteva non tenere conto dellaChiesa, sia perché numericamente consistente e diffusa in tutte le provincesia, soprattutto, perché entità gerarchicamente strutturata e ramificata nelterritorio.

Si profila l’utilizzo della Chiesa nella più vasta politica costantinia-

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na, che si concretizza da una parte in sgravi fiscali, quindi nella pratica delculto pagano del dio-sole (egli medesimo verrà eletto Pontefice Massimodel culto), infine nell’Editto di Milano (313) che sancisce il cristianesimoreligione di Stato. Così le gerarchie della Chiesa ricoprono le cariche isti-tuzionali, spesso le più alte e delicate. Lo Stato è Chiesa, la Chiesa è Stato!Potere sacrale e potere regale sono entrambi di origine divina, il primoperò di livello superiore, anche se sopra l’imperatore vi è soltanto dio.

Il cristianesimo popolare delle origini è soppresso nel sangue (dona-tisti, ecc.) ed ogni “eresia” soffocata nella più sanguinaria repressione. Isanti padri ed il clero tutto si affrettano a sancire il nuovo assetto di potere.

Paolo esplicita la nuova situazione:

O schiavi, che siate obbedienti ai vostri padroni della carne; opadroni, date agli schiavi giustizia e comprensione!

Non la libertà, evidentemente. I Concili approvano, chiariscono, ag-giungono. Così quello di Granges:

Se qualcuno, sotto il pretesto della pietà, incita lo schiavo a di-sprezzare il suo padrone, a sottrarsi alla schiavitù, a non servirecon buona volontà e rispetto, anatema lo colpisca!!!

Per diversi secoli avvenire lo schiavo, un tempo unico elemento dellacomunità cristiana, diventa “una persona vile che non può adempiere allafunzione ed alla dignità sacerdotale”, salvo non riesca a liberarsi.

1.2.4 La pena cristiana nel Medioevo: genocidio, tortura, rogo

Nonostante la riorganizzazione attuata da Costantino, l’Impero Ro-mano è destinato a soccombere. I popoli “barbari” lo invadono, frantuman-dolo e sottoponendolo a diverse angherie.

A partire dal IV secolo l’Europa assume via via una nuova fisiono-mia politica, sociale, economica. I nuovi invasori paiono trovare popola-zioni pronte ad accoglierli, tanto misera doveva essere la loro condizione.Tuttavia si rivelano ben presto simili ai precedenti.

Delle antiche forze, l’unica rimasta in vita e radicata nel territorio èla Chiesa; pertanto su di essa ricadono le speranze di pace e di sollievodelle martoriate popolazioni, ma anche dei nuovi invasori che in essa ripon-gono speranze di collaborazione per un razionale dominio sulle genti. Cosìper gli uni si fa portatrice di pace, per gli altri fautrice di attiva collabora-zione. In realtà, però, il suo agire è finalizzato al mantenimento dei privi-

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legi e del potere (nonché alla loro estensione) di cui beneficiava nel perio-do imperiale.

Nel V secolo la Chiesa si presenta come una società indipenden-te, fortemente costituita, posta in mezzo ai padroni del mondo, aisovrani, ai detentori del potere temporale, da un lato, e ai popolidall’altro, servendo da legame tra costoro ed agendo su tutti.(Guizot)

La sua politica, durante l’Alto Medioevo (Impero romano-barbarico)si esplica nel cristianizzare i barbari e nel barbarizzare le popolazioni,imponendo ai primi il proprio ruolo di compradore ed alle seconde unavisione della vita consistente nell’accettazione passiva del dominio (il po-tere non è forse volontà di dio?).

Facendosi forte del possesso esclusivo dei valori dell’antica civiltàgreca e di quella romana, modifica, falsifica tutto il preesistente a suo pro-fitto esclusivo, fino ad inventare di sana pianta donazioni che solo doposecoli si scopriranno spudoratamente false. Unica depositaria del “diritto”non conoscerà rivali in grado di contrastare la sua concezione del delitto edel castigo.

Guizot si rende conto assai bene di quanto la visione cristiana dellapena influenzi e preceda la concezione moderna:

Vi è, nelle istituzioni della Chiesa, un fatto generalmente pochis-simo notato, e cioè il suo sistema penitenziale, e l’esaminarlo èoggi tanto più interessante in quanto, per tutto quanto concernei principi e le applicazioni del diritto penale è quasi completa-mente d’accordo con le idee della filosofia moderna. Se voi stu-diate la natura delle pene della Chiesa, delle penitenze pubbli-che che erano la sua maniera principale di castigo, vi accorgere-te che avevano soprattutto lo scopo di eccitare nell’animo delcolpevole il pentimento, e in quello degli astanti, il terrore mora-le dell’esempio. Vi si unisce pure un’altra idea: l’idea di espia-zione.

È, ai suoi primordi, l’ideologia da cui scaturisce il penitenziario inepoca moderna.

Il rapporto economico, politico, sociale viene fatto gravare sui conta-dini, soggetti ad una sorta di schiavitù che li lega indissolubilmente allaterra, e pertanto ai suoi “legittimi proprietari” che concedono gli uni el’altra in feudo. In cima alla piramide sociale sta il sovrano, padrone asso-

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luto del regno per grazia divina e concessione della Chiesa. Il sovranoconcede le terre ai feudatari, i quali la concedono ai vassalli, che a lorovolta la concedono ad altri.

I vari feudatari, così come i diversi sovrani, si contendono fra di loroi feudi, per cui le guerre imperversano in lungo ed in largo per il continen-te.

La Chiesa ha propri feudi, in più riscuote ovunque la decima parte diogni prodotto del lavoro. Di conseguenza è l’entità economica più potentedell’Impero. Inoltre il dominio spirituale sulle genti è esclusivamente suo,non avendo le altre entità alcuno strumento o potere in questo settore. Ov-via la politica della Chiesa, mirante a far coincidere potere economico,potere spirituale e potere politico, concentrandoli nelle sue mani.

Alle guerre tra feudatari, tra città, tra queste e quelli, ed alle perennisollevazioni dei contadini per scuotersi dal giogo della servitù, si aggiun-gono le guerre papali a scapito degli uni e degli altri. Fanno da contorno lelotte cruente alle cosiddette eresie, che altro non sono se non progetti siste-matici di annientamento totale (genocidio vero e proprio) di popolazioniche non si riconoscono nel sistema dominante.

Da questo crogiuolo di rapporti, col trascorrere dei secoli, emergonovia via nuove forze economiche e sociali, soprattutto a partire dai secoli Xe XI. Il collante che trascina nel tempo l’esplodere delle contraddizioni èrappresentato proprio dalla Chiesa, presente ovunque, nei tuguri dei servidella gleba come al castello del feudatario ed alla corte del sovrano. È inquesta epoca che nasce e si afferma la pratica della confessione, a signifi-care l’insinuazione del potere chiesastico nella coscienza di tutti.

È la Chiesa che, manipolando le menti ed i corpi alla disciplina ed irigori del dominio, ha dimostrato storicamente che la stabilità del poterecostituito è possibile finanche ed oltre il possesso diretto di strumenti bru-talmente coercitivi: il dominio è possibile col consenso dei dominati. Ma siottiene non solo nella punizione del corpo, bensì nella manipolazione, as-similazione delle menti ai valori della classe dominante.

Signori, la Chiesa cristiana ... si proponeva appunto di governa-re il pensiero umano, la libertà umana, i costumi privati, le opi-nioni individuali ... essa mirava all’interiorità dell’uomo, al pen-siero, alla coscienza, ossia a quanto vi è di più intimo, di piùlibero, di maggiormente ribelle alla coazione. (Guizot)

Quando teniamo presente il modo di manifestarsi della Chiesa neicontraddittori rapporti economici, sociali e politici del Medioevo, chiaro ciappare il ruolo giocato da essa e la lungimiranza della sua politica. Essa è

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sì potente, economicamente e spiritualmente; la forza più potente. Eppure,salvo che nei suoi diretti domini è priva di forza militare adeguata alla suainfluenza. Se ciò le impedisce il potere politico incontrastato, sa comunqueutilizzare nel migliore dei modi la potenza spirituale per esercitare il do-minio sull’Europa. Le “sue” guerre, le lotte all’eresia, le crociate possonoattuarsi solo col ricorso alle armi ed ai militari altrui; eppure riesce anchein ciò.

Il suo operare, però, produce ulteriori contraddizioni che rafforzanoesattamente le potenze ad essa antagoniste: soprattutto i sovrani, futuricostruttori dello Stato moderno. Le lotte alle eresie, ad esempio, se distrug-gono dei nemici della cristianità eliminano finanche le popolazioni piùrefrattarie all’assimilazione, all’acculturazione necessaria per dare vita agliStati-nazione. Le future monarchie si trovano così ad agire in un camposgombro di importanti nemici: etnie non soggiogate.

È tuttavia in tali lotte che si esplica la volontà della Chiesa di assolutiz-zare il dominio e di conseguenza il sistema penale, e getta le basi dellaconcezione moderna di intendere la pena, quindi il delitto e il castigo.

L’eresia è combattuta nella sua essenza: è disubbidienza ai valori,all’ordine costituito, agli interessi del potere; è contestazione, rifiuto, alte-rità, rivolta che mette in discussione l’ordine sociale, politico, economicoin quanto non riconosce nell’emanatore della norma (intesa come verità)alcun ente accreditato.

L’eretico è chiunque non si adegua al comando ed all’ordine vigente.Per questo va brutalmente punito, castigato. Tuttavia può redimersi. Il suoatteggiamento è senza dubbio da interpretarsi come peccato, ma la terribilepena, la maciullazione del corpo è attuata in vista della salvezza dell’ani-ma; deve suscitare nel peccatore il travaglio intimo, sincero, sofferto delpentimento.

Tutto il processo ha per scopo l’interiorizzazione della norma nonaccettata. La prassi della tortura, non certo esclusiva del cristianesimo,acquisisce nel Medioevo, nello specifico con l’Inquisizione, non più solo ilsemplice significato di atto d’imperio della legalità-dominio, bensì assurgea vera forza propedeutica atta a determinare il pentimento e quindi la sal-vezza del peccatore. Non è solo castigo, ma anche espiazione ed indulgen-za.

1.2.5 L’Inquisizione

L’inquisizione si trova in nuce negli stessi principi del cristianesimo,ma come istituzione stabile, con apparati, uomini e mezzi propri si forma-lizza nei primi secoli del secondo millennio e coincide con la lotta fra

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papato ed impero per la supremazia.Essa si erge minacciosa su tutti i ceti ed ordini sociali; a significare la

potenza della Chiesa, ma anche a ... incrementarla, incamerando i benisottratti agli inquisiti. Il che ancora una volta provoca la repulsione ditutti. Ogni azione della Chiesa provoca inevitabilmente delle contraddi-zioni che poi le si ritorcono contro.

Per il sistema inquisitoriale la pena, il castigo vertono sul corpo esulla mente. La reclusione non è castigo di per se stessa, ma momento ditransito verso il tormento fisico e psichico. Alle sofferenze del corpo ilcristianesimo chiesastico ha affiancato la tortura dell’anima, dello spirito,nel tentativo di assimilare, snaturare, correggere, alienare l’altro a sé. Ilpotere potrà perpetuarsi solo se all’ubbidienza dei sudditi corrisponde l’in-timo convincimento, l’adesione volontaria ai principi che lo sorreggono.

È la concezione, in nuce, della società come penitenziario e del peni-tenziario come società. È questa grande eredità che la Chiesa lascia alloStato moderno, ormai ai suoi albori. Essa non poteva concretizzarla se nonnei modi brutali del suo tempo, così come lo Stato troverà anch’esso unasituazione contraddittoria che determinerà il suo operare sul carcerario atentoni, a tentativi che sono pregni e della contingenza storica e dell’idea-lità del sistema penitenziario perfetto.

Il modello è concepito, ma richiede oltre che “fede”, strumenti scien-tifici e materiali atti a concretizzarlo.

1.2.6 Alle soglie dello Stato moderno: i primordi del penitenziario

La sconfitta del Papato e della stessa concezione teocratica del potereè inevitabile. Le contraddizioni che minano la sua supremazia si risolvononel vantaggio politico altrui. Il persistere nel rafforzare la potenza tempo-rale fa sì che anche le plebi s’allontanino sempre più dalla Chiesa. Infine lecittà, vere e proprie potenze economiche tormentate dall’invadenza inqui-sitoriale, non tardano a comprendere che dietro il castigo delle anime e deicorpi di ... facoltosi cittadini, si cela la bramosia della Chiesa di imposses-sarsi delle loro ricchezze.

Tutto converge contro la teocrazia. Potenti progressi tecnici e cultu-rali investono via via le campagne, innovazioni tecnologiche, ricchezzeenormi, nuove professioni ed arti traboccano dalle città. Le menti si apronoa nuove prospettive, e nuove prospettive decretano valori nuovi.

Nella cristianità del periodo la rottura col vecchio, col superato nonpuò che avvenire come scontro col potere della Chiesa. La frattura è totale,irreparabile. È l’epoca della Riforma, che contesta non i massacri, i geno-cidi, le torture perpetrate in nome e per conto dell’unico signore del creato.

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Quel che si contesta al Papato è di ridurre la vita dei cristiani ad un infernosulla terra. È la struttura mentale del borghese, del mercante, del cittadinoche si ribella. È la necessità del capitale, della ricchezza accumulata chepretende nuovi rapporti sociali, politici, ideologici atti a garantirne lo svi-luppo in ogni sua potenzialità.

Per i Riformatori il corpo è si momento di passaggio, veicolo in cuialberga solo momentaneamente l’anima cristiana; ma questo non deve si-gnificare abbrutimento, lassismo, passività. Tutt’altro! La vita dev’esseremanifestazione di attività, di grandezza, di servizio all’immensità dell’operadivina, che è anche questo mondo materiale, per cui deve concretizzarsi inoperatività.

Così, una volta esplose le contraddizioni, gli effetti devastanti – spo-polamento delle campagne, radicalizzazione ed espansione della miseria,pestilenze, guerre, vagabondaggio di immense schiere di indigenti,disoccupazione, ecc. – sono differentemente valutati ed arginati da partedei paesi riformati, da un lato, e dall’altro da parte di quelli fedeli allaChiesa di Roma (paesi della Controriforma). In tale contesto emerge conevidenza chi e che cosa viene valutato come crimine e criminale.

Nell’area della Riforma anche la disoccupazione assurge a delitto ilpiù assurdo, sia pure addebitabile a fattori totalmente estranei alla volontàindividuale. Il non lavorare, il non produrre è valutato crimine vero e pro-prio, e pertanto viene punito.

Nell’area cattolica tradizionale emerge invece, almeno nel primo pe-riodo, la pratica della pietà, che meglio si adegua alla struttura ideologicain vigore.

In tal modo è possibile intravedere negli uni e negli altri paesi unapolitica atta a limitare i nuovi fenomeni a seconda degli indirizzi mentalipropri della Riforma e della Controriforma.

Nei secondi la risposta è in prevalenza il pietismo, proprio del signo-re feudale nei confronti del disgraziato, dell’accattone, manifestantesi nel-l’elargizione dell’elemosina. In pieno Medioevo il mendico era figura digrande rilievo sociale in quanto il “ricco” poteva esercitarsi cristianamentenell’accoglierlo e nel rifocillarlo, cosa assai gradita al dio cristiano.

Nell’area della Controriforma, almeno nel primo momento, agliimpestati, ai vagabondi, ai mendici, ai disoccupati, alle prostitute, ai bam-bini orfani, ecc. si elargisce la pietà, in linea con il passato. Ma la pesteimpone l’isolamento del malato – e tutti costoro vengono considerati incerto qual modo al pari dei malati, peccatori “veniali” incorsi nel castigodivino – onde tenerlo lontano dalla popolazione sana. A tale scopo si co-struiscono specifici luoghi, edifici ove rinchiudere i derelitti della societàemergente. Nascono gli Hospital, le Case di Ricovero, ove vengono am-

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massati gli indigenti, gli esclusi dal consorzio umano. Qui la pietà e labontà si elargiscono a piene mani. È il ‘500, anno del signorecontroriformato.

Nel medesimo secolo, nei paesi della Riforma le menti cristiane scis-sioniste ed aperte al “nuovo”, onde arginare il crescente fenomeno del va-gabondaggio e della miseria nonché l’atteggiamento refrattario verso lanuova disciplina richiesta dal lavoro, proprio di decine di migliaia di pove-ri cacciati dalle campagne ed esuberanti nelle città, scandalosamente “de-diti” alla vita passiva consumata nell’ozio, qui le menti “illuminate” co-struiscono le Workhouse, le Case di Lavoro. Veri e propri laboratori diproduzione artigianale, le Case di Lavoro “rigenerano” gli internati, ov-viamente secondo i canoni ed i valori emergenti: la produzione di beni e diprofitto, il lavoro produttivo a costo zero. Siamo ai primordi del carceremoderno. Il castigo verso la vittima del sistema, o comunque verso quantinon si adeguano o non possono adeguarsi, è ormai concepito non solo comeritorsione ma anche come momento di “pulizia” interiore, di intimo penti-mento che lava il peccato e ricongiunge l’anima del reo a dio (inteso comeil sistema vigente).

La pena è finalmente disciplina del corpo e della mente ai nuovivalori religiosi, morali e materiali.

Malgrado le differenze che inizialmente caratterizzano l’interventorepressivo nei paesi della Riforma e della Controriforma, la medesima uni-versalizzazione del modo di produzione capitalistico imporrà via via, nelledue realtà, una progressiva convergenza, se non ideologica sicuramentepratico-operativa. La Chiesa, nel corso dei secoli ha ampiamente dimo-strato che la gestione del dominio richiede, per essere stabile e duraturo, ladisciplina delle menti; la Riforma dimostra le possibilità della disciplinadel corpo, come richiesto dalla produzione capitalistica.

L’uno e l’altro momento convergono infine, alle soglie della moder-nità, per razionalizzare il dominio dell’uomo sull’uomo.

1.2.7 Lo Stato moderno

Fino all’avvento del cristianesimo al potere, ed in parte per tutto ilMedioevo cristiano, la pena inflitta al delinquente altro non rappresentavase non punizione assoluta, supplizio. Il potere medesimo, coincidente conla persona del sovrano, determinava una tale realtà.

Alle soglie dello Stato moderno le leggi penali non prevedevano af-fatto il carcere, la reclusione – se non momentanea – come luogo di estin-zione del castigo. La pena consisteva in altri momenti, a seconda del cetodi appartenenza del reo-inquisito: carcere per i nobili, fustigazione pubbli-

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ca per i servi della gleba; sanzioni pecuniarie per i primi, lavori forzati peri secondi; assoluzione per i ricchi, la forca per i poveri. In genere era la“legge del taglione” a farla da padrone, almeno per gli strati inferiori dellasocietà, quindi per la maggiorparte degli uomini.

Nel Medioevo soprattutto, delitto e castigo erano realtà dal contenutoassai variegato, essendo il feudatario stesso per lo più a determinare, entroil proprio feudo, il buono e il cattivo tempo, l’ingiusto ed il giusto; che cosìvariavano anche sostanzialmente da un luogo all’altro. Il potere essendopersonale anche la norma lo era, come il castigo da infliggere a colui cheinfrangeva la volontà del signore.

Un argine poderoso al personalismo del sistema di potere feudale erarappresentato dalle consuetudini delle popolazioni, che regolamentavano irapporti vuoi tra appartenenti alla comunità che fra questa ed il feudatario.Tuttavia, col trascorrere dei secoli e col mutare dei rapporti di forza a van-taggio di quest’ultimo, ogni impaccio sulla strada dell’accentramento delpotere veniva man mano eliminato. Eliminazione che significava – siadetto per inciso – la scomparsa delle culture e delle popolazioni soggette aldominio feudale.

In questo processo di assoggettamento ed omologazione, di espropriodel potere delle popolazioni, il Papato sia pure contraddittoriamente hagettato le basi ideologiche del nuovo modo di dominio, che poi sfocerànella costituzione degli Stati moderni. Se gli imperi tradizionali facevanocoincidere il potere con il sovrano, concreto, visibile – sia pure concepitoideologicamente e posto materialmente in uno spazio deificato – la Chiesacattolica apostolica romana ha dato vita ad un potere spirituale concepitoastrattamente, che va ben oltre la persona del sovrano. È lo Stato in essen-za, esattamente lo Stato moderno, così come viene concepito oggi.

Lo Stato quale entità astratta che non rappresenta né il governo né igovernati né l’unione di entrambi ... Stato impersonale, oggetto di dedi-zione e di rispetto universali sia da parte dei governanti che da parte deigovernati. (Shennan)

Un tale nuovo concetto di potere politico, per estendersi dal camporeligioso a quello sociale, ha dovuto attraversare i secoli tra i più bui del-l’umanità, in un processo di incredibili mutamenti culturali ed economici,oltre che politici, che ha attraversato i popoli europei in lungo ed in largo.

Il processo di accumulazione originaria del capitale ha richiesto l’in-dividuazione e la circoscrizione di aree geoumane da omologare, che ga-rantissero, con una politica economica adeguata, l’esclusione della concor-renza, la “libera” circolazione della manodopera (proletarizzazione dei servidella gleba), l’intervento di un potere sovrano (e riconosciuto tale da tutti)in grado di salvaguardare l’integrità delle nuove forze economico-sociali

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emergenti. Il moderno Stato è richiesto anche dai nuovi modi di produzio-ne, ma ideologicamente la Chiesa l’aveva di già concepito. Inoltre, la suabattaglia “all’eretico”, promosse il processo di omologazione delle genti,che nella prassi dell’etnocidio e del genocidio arrivò quasi a compimento.

Ma la Chiesa introduce anche alcune varianti nel principio stesso diconcepire il domino. Se dio è uno, una è la verità, una la legge. Si togliecosì ogni valenza – finanche come entità nemica – a tutto ciò che non siriconosce, non si riconduce e non si fa ricondurre a tale unità. È il princi-pio assolutista per eccellenza. Il diverso, l’altro, chi non si adegua, siapagano o eretico, oppure criminale, viene concepito, riconosciuto solo se,rinunciando alla propria specificità, si confonde con l’uno (dio, verità, leg-ge, Stato), in esso si annulla.

È questo il principio fondamentale che sta alla base della prassi cri-stiana di intendere e vivere il rapporto con l’altro da sé; è in esso che siesplicano le ragioni dei roghi purificatori, della tortura, dei genocidi inter-ni ed esterni all’Europa. Ed è su questa visione, implicita nel nuovo mo-dello di Stato (Stato-nazione), che emergono i concetti moderni del delittoe del castigo. Il principio-guida è l’assimilazione, la disciplina delle mentie del corpo all’ordine richiesto dall’assetto politico-economico nuovo.

Pur tra mille contraddizioni, il modello di carcere che prende piedecon la nascita dello Stato moderno è quello atto a disciplinare il reo, pu-nendolo ma dandogli anche la possibilità della redenzione. La nuova so-cietà richiede non semplici schiavi, ma schiavi consenzienti. Non è forse,lo Stato-nazione, quella entità ideale ed impersonale che può sopravviveresolo nella dedizione e nel rispetto universali?

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1.3.0 Il trapasso dal vecchio al nuovo

In quasi tutta l’Europa il periodo che va dal XV al XVIII secolo ècaratterizzato dal progressivo emergere, fino a diventare dominante, delmodo di produzione capitalistico. Sul piano politico si ha il superamentodella figura del Principe/sovrano come entità “proprietaria” del regno edelle popolazioni; superamento che si concretizza infine nella nascita del-lo Stato modernamente inteso.

Il potere temporale acquisisce in tal modo l’accezione di esclusivacompetenza degli uomini, eventualmente illuminati dalla religione, in unprimo periodo, dalla sola ragione in quello successivo; ragione mitigatamagari dalla certezza del divino, se non altro perché necessaria all’accetta-zione del dominio da parte dei subalterni. “Se dio non esistesse, bisogne-rebbe inventarlo”, ha tenuto a precisare un illuminista.

Dopo la colonizzazione interna all’Europa, l’omologazione delle et-nie preesistenti alla ragione del capitale e del nuovo assetto del potere po-litico, prende avvio il processo di colonizzazione dei nuovi continenti viavia scoperti. Il mercato si forma e si amplia su scala planetaria; l’intensifi-cazione della produzione artigianale nel giro di qualche secolo sfocerà nel-la nascita della media officina, preludio alla fabbrica vera e propria; nuovetecniche agricole determineranno l’aumento delle derrate alimentari. In-somma un nuovo mondo viene via via alla nascita.

L’economia tipica feudale è superata: i servi della gleba, costretti adabbandonare le campagne ormai privatizzate, si riversano sulle città o ai

Nascita e sviluppo del penitenziario

Capitolo Terzo

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suoi bordi. Immense schiere di indigenti, vagabondi, miserabili rappresen-tano col trascorrere del tempo un problema consistente per l’ordine costi-tuito, e richiede interventi atti ad arginarlo. Data la gravità del fenomenola risoluzione non può avvenire secondo il classico metodo della pietà cri-stiana; altri momenti debbono essere adottati. I valori emergenti dalla fasedi accumulazione originaria del capitale, innanzittutto l’etica del lavoro,rappresentano momenti che, affiancati alla pietà, mirano ad arginarel’espandersi dei delitti e l’indecenza della miserabile condizione in cuisono costretti decine di migliaia di uomini e donne.

All’atto della scissione dei paesi in Riformati e Controriformati lesoluzioni divergono, prevalendo nei primi l’intervento mirante alla disci-plina del lavoro (pura etica capitalistica), nei secondi la razionalizzazionedella pietà (pura etica cattolico-cristiana). A nostro avviso, però, una taledivergenza non deve essere interpretata in senso assoluto. La risposta delleautorità ad un fenomeno sconosciuto fino allora in quelle proporzioni, è –nel primo periodo – assai contraddittoria. L’apparente arretratezza dellarisposta dei paesi Controriformati, in realtà nasconde il progetto che neisecoli si manifesta vincente. D’altra parte sarà proprio una delle tendenzedella Riforma che, per prima, concepirà il penitenziario come luogo diisolamento totale del detenuto, che così potrà “confrontare” la propria nul-lità innanzi al nuovo potere, assoluto, invisibile, onnipossente; isolamentoche non verrà interrotto neppure dal sacrosanto dovere del lavoro. I duemodi di procedere convergeranno verso non una ma molteplici soluzioni,l’una non escludente affatto tutte le altre.

1.3.1 I primordi del penitenziario: Workhouse e Hospital

Nel ‘500 vengono costruite le Case di Lavoro e gli Hospital. Ciò cheviene perseguito, com’è facile intuire, non è tanto un nuovo modello dipena, che ancora per qualche secolo continuerà ad essere quello tradizio-nale della forca, della fustigazione pubblica, della tortura e della deporta-zione-condanna ai lavori forzati nelle navi (galere) del sovrano/Principe.Si cerca, più che altro, di arginare il fenomeno del vagabondaggio e dellamiseria, nonché di disciplinare le schiere di nuovi proletari alle esigenzedella produzione, quindi di alienarli ai valori emergenti che ripudiano“l’ozio”.

Non crediamo tuttavia di dover attribuire alle Workhouse (Case diLavoro) un ruolo produttivo o esclusivamente produttivo, come paiono avan-zare diverse interpretazioni. Non sono penitenziari nel vero senso dellaparola ed anche il disciplinamento è ancora brutale, riguardando esclusi-vamente il corpo dei reclusi. Il ruolo “produttivo” delle Case di Lavoro è

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assai limitato, come evidenzia Ignatieff, che afferma essere assai scarsa larichiesta di reclusi, a causa della loro poca redditività, da parte degli im-prenditori privati, che prefereiscono rivolgersi alla manodopera disponibi-le sul mercato dei liberi.

L’ideologia della Riforma, che eleva a valore assoluto il lavoro, laproduzione, la vita attiva ha ben poca influenza sulle masse diseredate senon accompagnata da riscontri concreti sul livello di vita materiale. Ma lafase di accumulazione del capitale non è affatto adatta ad un tale riscontro.Sarà, al contrario, l’ideologia della Controriforma che saprà portare a sin-tesi le esigenze della produzione (disciplinamento dei corpi) e del nuovoassetto del potere (disciplinamento delle menti, plasmazione, assimilazio-ne ai nuovi valori).

La disciplina, l’adeguamento del corpo dei lavoratori ai ritmi dellaproduzione via via sempre più accelerati, è possibile ai suoi massimi livellisolo se i lavoratori, o una fetta consistente del proletariato, ricevono unincentivo almeno spirituale dato che la fase di accumulazione del capitalenon può garantirne di materiali. Sarà l’ideologia che sottende lo Statomoderno a dare una tale incentivazione.

Il nuovo Stato non è il regno del Principe, dominio esclusivo delSignore/Sovrano. È, al contrario, la “patria di tutti”, signori e servi, padro-ni e diseredati. Il nuovo Stato è tutta la popolazione (l’insieme dei “citta-dini”, appositamente omologati) intesa come entità reale, viva, organica.Per cui ogni singolo deve riconoscersi in esso. È lo Stato-nazione, concepi-to come territorio, corpo collettivo con una sorta di intelligenza, una solapropria comune storia e specifici tratti culturali: linguistici, di usi e costu-mi, di riti e credenze, di miti e razionalità. Poco importa – e perciò vienetaciuto e negato – se il Moloch di nuovo conio viene costruito sulle ceneridel genocidio e dell’etnocidio, della omologazione forzata di popoli, etniee territori alla presupposta unica base dello Stato-nazione!

È tale ideologia che, unitamente al disciplinamento dei corpi per esi-genze produttive, può incentivare le menti a lasciarsi plagiare, all’interio-rizzazione dei valori della nuova società capitalistica-statuale.

Lo Stato, inteso modernamente, richiede per la grandezza di se stessola sottomissione di ciascuno. La sua è la grandezza di tutti, per cui tuttidevono riconoscervisi e contribuirvi attivamente, fino ad annullarsi in esso.L’ideologia richiesta affratella i “cittadini” al di là della loro condizionemateriale; fra gli uni e gli altri sovrana deve regnare la comprensione eciascuno deve svolgere il proprio ruolo con convinzione.

In quest’ottica chi pecca, delinque, sbaglia è pur sempre figlio dellostesso consorzio umano. Di conseguenza se deve essere punito, anche nellamaniera più dura, deve pure potersi riscattare, poter lavare col pentimento

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e lo sconto della pena il peccato/delitto consumato, rinascere con adeguatecure nel corpo e nella mente alla grande famiglia di cui alla fine condivide-rà i valori.

È in questo spirito che il modello di correzione “workhouse” vienesuperato ancora una volta da quel potere antico che conosce, prevede ed inparte determina le esigenze del nuovo assetto politico ed economico: ilpapato.

Il superamento è nella logica delle cose. Così, alla costruzione delprimo carcere per recalcitranti (figli di ricchi non del tutto consapevoli delproprio ruolo sociale) e vagabondi (Casa di Lavoro), avvenuta nel 1650 aFirenze per opera di Filippo Franci, segue ad appena mezzo secolo di di-stanza, ancora per ispirazione di Franci e del francese Jean Mabillon, lacostruzione del carcere vaticano di San Michele (Roma, 1700 circa).

Per la sua struttura architettonica, per le regole che vi dominano, perl’intrecciarsi razionale del momento della costrizione al lavoro e di quelloalla preghiera, della forzata riflessione cui sono costretti i detenuti il carce-re di S. Michele è da ritenersi, a nostro avviso, il primo vero penitenziariodella storia. I modelli successivi, dal Panopticon fino al Filadelfia edall’Auburn, non sono che modifiche architettoniche ed accorgimenti tecni-ci di disciplina e manipolazione fisica e psichica dei detenuti, determinatiin parte dai progressi delle tecniche e delle scienze di manipolazione dellementi, in parte dalla specificità del potere che li concretizza.

Fra la costruzione della prima Casa di Lavoro e degli Hospital da unlato, il carcere di S. Michele dall’altro, vi è l’esperienza del carcere diGreat Law, il modello quacchero del 1628, realizzato sotto progettazionedi William Penn, in quello che diverrà lo Stato di Pennsylvania, nel NordAmerica.

Mentre nelle workhouse il momento saliente della segregazione è illavoro, e di conseguenza l’intero arco della giornata del recluso è in fun-zione della produzione e della disciplina del corpo, l’Hospital privilegia ilmomento della pietas, della consolazione, della preghiera. Il carcere quac-chero supera l’uno e l’altro, ponendosi come preludio al S. Michele.

Il modello realizzato da Penn elimina completamente il lavoro e latortura fisica (prassi rimasta costante, altrove, fino ai giorni nostri, anchese sempre più sostituita da quella psichica). Poi assegna ad ogni detenutouna singola cella, per quanto piccola, priva di ogni arredo se non dellostrettamente necessario. In questo spazio limitato e nudo, nel glaciale si-lenzio, nel soffocamento di ogni attività sensoriale il detenuto trascorre ilsuo tempo. Solo con se stesso, con la propria coscienza, con i propri “pec-cati”. Condizioni ottimali per il confronto fra il singolo ed il nuovo potere,onnipossente, invisibile ma presente, Moloch immaginato ma reale in tut-

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ta la sua potenza, che annulla, soffoca l’infinita piccolezza del recluso.Contemplazione mistica, confronto, pentimento, plasmazione (autoplasma-zione), soggiogamento dell’anima del prigioniero non debbono essere in-terrotti neppure per l’attività lavorativa. Questa la mistica visione del pe-nitenziario quacchero.

Considerata la strana somiglianza con il carcere speciale dei giorninostri, viene spontaneo chiedersi come mai, da allora, non si sia impostocome modello universale. La risposta è possibile, a nostro avviso.

Prima di tutto è necessario rifarsi alle condizioni materiali del perio-do e valutare concretamente la possibilità di estendere il modello anche aipaesi europei di allora, quando il fenomeno criminale comprendeva vaga-bondaggio, ed ozio, furtarelli e miseria, prostituzione e ribellione ... tale darenderlo di immense proporzioni: era mai possibile, nella fase di accumu-lazione capitalistica, dedicare una consistente parte del profitto ad alimen-tare decine di migliaia di persone improduttive? Certamente no.

Inoltre il modello di Penn non sentiva l’esigenza, nella sua misticitàassoluta, di realizzare anche architettonicamente un penitenziario che fos-se simbolo del potere emergente, dello Stato moderno, onnicomprensivo,onnipresente, da cui tutto si diparte ed in cui ogni cosa confluisce annul-landosi. È infine carente sotto l’aspetto della individuazione delle caratte-ristiche peculiari del detenuto; in altre parole non prevede la personalizza-zione della pena, della correzione, dell’omologazione.

Più che un modello “troppo avanzato” il carcere Great Law risulta,alla nostra analisi, assai carente rispetto alle condizioni del periodo in cuivenne realizzato.

1.3.2 Il carcere vaticano: San Michele

Il carcere di Firenze prima e quello di S. Michele in seguito (ed inumerosi altri che furono man mano costruiti in numerose città: Venezia,Napoli, Torino, ecc.), pur essendo nati come Case di correzione per ricchigiovani recalcitranti, abbiamo affermato essere, dopo quello quacchero, iprototipi del penitenziario vero e proprio.

Già l’architettura circolare, in cui le celle sono disposte sulla circon-ferenza e separate dal centro da un ampio spazio, è il primordio del Panop-ticon. L’obelisco centrale, la navata della struttura domina su tutto; al suoapice la cappella simboleggia la potenza della Chiesa, del potere.

La segregazione in singole celle è, in atto, la pratica della differen-ziazione, con l’aggiunta che stavolta il recluso non è lasciato solo a con-templare se stesso e la propria miserabilità rispetto al “centro/potere”. Lanavata da cui si dipartono i raggi che delimitano le celle è punto di domi-

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nio e di osservazione non solo dello spazio fisico ma di ogni detenuto, intutti i momenti della sua esistenza. Esso viene individuato, controllato,seguito, classificato, valutato. A ciascuno è applicata “la correzione speci-fica”, in base alle sue propensioni, ai suoi reali comportamenti ed atteggia-menti, alle “carenze” manifestate.

Il lavoro, pur essendo momento essenziale non è quello esclusivo: sivuole correggere mens et corpore, anima e corpo ed è tutto funzionale atale correzione.

Solo l’armamentario ideologico e pratico del cattolicesimo potevaconcepire una siffatta architettura, rispecchiante simbolicamente certo ilpotere della Chiesa ma riflettendo finanche il potere del nuovo Stato, asso-luto come quello, totale come quello, onnipossente ed onnipresente comequello. È la realizzata fusione dei due modelli di potere costituito: invisibi-li ma altrettanto reali e potenti, impersonali ma materialmente accessoriatidi orecchi ed occhi, di armi e di uomini per punire, condannare, corregge-re. Il nuovo potere aveva necessità di essere simboleggiato in maniera taleda venire introiettato nella coscienza di ciascuno, soprattutto dei non omo-logati. Solo la Chiesa cattolica, dominio ormai millenario, era in grado diassolvere questo compito.

Ecco perché il suo modello, ulteriormente perfezionato, verrà fattoproprio anche dai paesi riformati e che per volere ed ispirazione di Ben-tham prenderà esattamente il nome di Panopticon (letteralmente “visionetotale”). Si tratta, invero, della laicizzazione del modello cattolico. Il pro-getto benthamiano fu realizzato a Richmond, nella Virginia, alla fine del‘700 (1797). È il modello che realizza pienamente la sintesi fra simbolo-gia, controllo totale, disciplina, differenziazione: la nuova autorità è ormainella sua piena maturità.

1.3.3 Il carcere moderno: modelli e finalità

Prima di concludere questa prima parte del lavoro, crediamo utileuna breve parentesi per mettere a fuoco alcuni momenti su cui i vari stu-diosi hanno basato l’esistenza del penitenziario, la sua funzione, le even-tuali contraddizioni e le riforme che hanno imposto modelli nuovi.

Il carcere è nato esattamente nel momento in cui è sorta la necessitàper il potere costituito di amalgamare le coscienze, i comportamenti, i cor-pi e le menti vuoi alle esigenze del modo di produzione capitalistico, vuoiai nuovi valori. Ma sia il modo di produzione, sia i nuovi valori generanocontraddizioni insanabili: se vi è padrone vi è pure schiavo; il privilegiorichiede come contropartita la miseria dei più; l’accumulazione è esproprio;il potere istituzionalizzato si esercita sui comandati. La ribellione è

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ineliminabile per cui il processo di omologazione delle coscienze non èfacile, soprattutto nel momento in cui la soppressione fisica, il massacro disingoli e di popoli non è più giustificabile. Il pretendere l’adeguamento,comunque, ai valori fondamentali di un sistema sostanzialmente basatosulla ineguaglianza, sfruttamento, obbedienza cieca, necessita di giustifi-cazioni ideologicamente fondate.

I principi su cui si basa il penitenziario, vale a dire quel sistemapunitivo che prevede lo sconto della pena inflitta entro una struttura archi-tettonicamente definita e regolata da proprie norme, che privano l’interna-to della libertà e dei rapporti propri della società civile, sono stati indivi-duati in:1) rieducazione del condannato;2) deterrenza della pena e del carcere;3) proporzionalità fra delitto e castigo.

Oltre alle contraddizioni che verranno fatte emergere più avanti, èbene chiarire che per rieducazione del condannato si intende la sua assimi-lazione ai valori che in un modo o nell’altro non ha rispettato, quindi chenon gli appartengono.

Il principio della deterrenza è quello che vuole letteralmente terro-rizzare e il condannato e la società tutta, affinché non incorrano in disubbi-dienze all’ordine decretato.

La proporzionalità fra il delitto commesso ed il castigo inflitto de-nuncia la consapevolezza della ineliminabilità del fenomeno delinquenzialein un sistema socialmente, economicamente e politicamente ingiusto, percui è necessario usare nell’atto repressivo una sorta di graduatoria tra gliattacchi sostanziali e quelli invece marginali.

Tutti e tre principi sono stati posti in discussione anche di recente,quando è divenuto ormai evidente alla coscienza comune il divario tra ifini perseguiti ed i pratici riscontri. La rieducazione è marginale: non acaso la recidivia è comune fra i reclusi. La deterrenza manifesta i proprilimiti nel momento in cui il fenomeno criminale diventa sempre più consi-stente. La proporzionalità fra delitto e castigo è del tutto invalidata vuoidalla carcerazione preventiva, vuoi dal fatto che la galera comminata è infunzione, oggi, più che del delitto commesso, della persona che lo com-mette.

Anche l’analisi che ha fatto dipendere meccanicisticamente il carce-re e le sue riforme dai momenti salienti dell’evoluzione del modo di produ-zione capitalistico, si è dimostrata alla luce dei fatti sostanzialmente ideo-logica. Così ci appare del tutto inconsistente il tentativo di far coincidere ilpenitenziario nei suoi modelli storici, con le varie “fasi” del capitalismo:“carcere mercantile”, quello “capitalistico-industriale” nelle sue pratiche

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realizzazioni di “carcere concorrenziale” e “carcere monopolistico”; finoall’apice che si presume ultima fase del capitalismo, il modello di “carcereimperialista” (Controinformazione).

Se è indubbio che il momento economico ha contribuito in qualchemisura alla “forma carcere”, ci appare peraltro forzato parlare di varianteproduttiva e variante improduttiva del penitenziario.

In realtà il sistema penitenziario, a nostro parere, non è altro chel’esito per tentativi ed errori di razionalizzare più che sul momento pretta-mente economico su quello del consenso al potere costituito le contraddi-zioni, le opposizioni, le alterità etniche, culturali ed individuali, entro unprogetto di massima mirante all’assenso generalizzato necessario per tene-re in piedi un sociale lacerato e lacerante. Tentativi ed errori che si affina-no via via nell’utilizzo delle scienze e delle tecniche di manipolazionedelle menti e dei corpi (psicologia, psichiatria, sociologia ecc. ecc.). Untale progetto lascia ampio spazio ai diversi sostrati ideologici propri dellearee specifiche ai singoli Stati, e propri delle riforme che in ciascun’areapoi si verificano.

Superata la fase primordiale del penitenziario, che vede divergere sulpiano pratico il modo di intendere il carcerario da parte della Riforma edella Controriforma, tutto converge verso un’unica soluzione che, oltre ledifferenze di ordine tecnico, si confondono nel contenuto e nelle finalità.Sarà la Chiesa tradizionale ad individuare contenuti e finalità perseguiti,proprio in quanto forte dell’esperienza millenaria di gestione del potere.

Anche la prassi della pena capitale, della tortura, della differenzia-zione, nonché della deportazione trovano nell’ideologia cristiano-cattolicail proprio fondamento, estremamente funzionale al nuovo potere tanto cheneppure i riformatori razionalisti la elimineranno del tutto. Il teorizzare“Dei delitti e delle pene” (Beccaria) sulla inutilità della tortura, se puòessere soddisfacente dal punto di vista teoretico in quanto conforme al-l’ideologia che permea lo Stato moderno, nella sua applicazione praticadeve scontrarsi da una parte con l’irriducibilità alla ragion di Stato di indi-vidui perciò definiti “criminali incalliti irrecuperabili”, dall’altra con l’al-terità di culture e di etnie assolutamente estranee ai valori della civiltàdell’Europa capitalistica.

Da qui la prassi della tortura ancora ai nostri giorni, se si vuole più“pulita” ma non per questo meno tortura; da qui il mantenimento dellapena capitale in tanti luoghi; da qui la prassi del genocidio, della sistema-tica eliminazione fisica di quanti, singoli individui o popoli non si ricon-ducono alle ragioni imposte dal dominio.

Il carcerario dei nostri giorni è appunto ancora tutto ciò.Vi è contraddizione con l’ideologia della religione cristiana della sal-

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vezza? Assolutamente no! La contraddizione è solo apparente.Il principio fondante vuoi della Chiesa vuoi dello Stato-nazione ri-

siede nel loro ritenersi assoluti, esclusivi, unici. Tutto ciò che ad essi siriconduce ed in essi si annulla è degno di valenza; è privo di ogni valoretutto ciò che invece è altro, irriconducibile ad essi, irriducibile alle lororagioni. Si mira al recupero per quanti si rendono disponibili; alla tortura,alla forca, all’annientamento per gli altri. I primi assurgono a fratelli che“sbagliano”, i secondi vengono ridotti a quello che in realtà rappresentano:entità altre, non riconosciute, e pertanto appartenenti ad una sorta di esserisubumani (eretici secondo le categorie cristiane).

È il duplice atteggiamento di chi ripone ogni valore nell’ente assolu-to, nell’uno onnipotente; di chi in patria rifocilla il derelitto, la prostituta,il mendico, ma che contemporaneamente impala, arrostisce, tortura, squarta... e perpetra genocidi. È la prassi dello Stato che fa la ramanzina allaprostituta, al drogato o allo scippatore, ma che allo stesso tempo lacera leossa e l’integrità psichica dei compagni prigionieri e dei proletari irriduci-bili.

L’alterità può essere immediatamente politica oppure indirettamentetale, ma non muta assolutamente nulla. Per questo motivo il carcere spe-ciale di oggi è la cayenna vuoi dei compagni rivoluzionari, vuoi dei prole-tari che per un motivo o l’altro rappresentano alterità rispetto ai canoniprefissati e propri del potere costituito.

L’illusione secondo cui il progresso delle scienze e delle tecniche dicontrollo e di manipolazione delle coscienze alla fine avrebbe determinatola scomparsa della tortura, dell’esecuzione capitale, della deportazione edel carcere ha perso ogni consistenza. L’epoca del positivismo è stata forsequella che maggiori speranze ha dato in questo senso, quando pareva averindividuato nelle orecchie a sventola, nella forma cranica e nel naso aqui-lino l’origine del crimine. Ma poi il tutto è finito nel nulla.

Il “superamento” del penitenziario, l’estendere su tutto il sociale lafunzione propria del carcerario è ipotesi che presuppone l’adeguamentosempre e comunque di tutti alle norme vigenti. Il che è praticamente assur-do. È necessaria, unitamente a quella forma di “carcere diffuso nel socia-le”, l’esistenza della variante definita “Torre di Londra”, luogo di annien-tamento, di isolamento totale e di tortura degli irriducibili; pena l’esisten-za dello stesso sistema vigente. Il quale deve pur sempre fare i conti contutta una serie di varianti: realtà individuali, territoriali, collettive altre.

A fianco del carcere “normale” vi sarà sempre quello “speciale”, aregime duro.

Il penitenziario come deterrenza nel sociale ha sicuramente persoconsistenza. Però continua a manifestarsi uno dei momenti ideologici che

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nella pratica perenne dell’emergenzialità assolve una reale funzione: assu-me il ruolo di catalizzatore dell’attenzione della civile società in tutti queimomenti critici in cui il sistema vede vacillare il consenso.

Il regime della differenziazione dei detenuti e della detenzione ri-chiede pure la sussistenza dei “braccetti speciali”, la cui funzione è pretta-mente interna, di deterrenza per il corpo prigioniero “comune”. Frantumai carcerati tra “buoni e cattivi”, tra “speciali e comuni”. Ciò spiega da unlato l’esistenza del carcere nella sua variante “speciale” (la Torre di Lon-dra) e dall’altro la contemporanea esistenza del circuito carcerario “comu-ne”. L’uno e l’altro non risolvono il “problema criminale” in alcun modo,ma rappresentano la più razionale sistematizzazione della contraddizionepropria della società divisa in classi ed il suo utilizzo per la creazione delconsenso, in un progetto che manipola le coscienze e le utilizza a fini distabilità.

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Parte Seconda

Il fenomeno criminale sardonella sua specificità’

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2.1.0 La problematica

Il processo politico ed economico generale che ha caratterizzato l’Eu-ropa dalla dissoluzione dell’impero romano ha interessato la Sardegna soloparzialmente. Nello specifico non vi è stato né processo di accumulazioneoriginaria del capitale, né quel movimento politico che ha determinato lacostituzione dello Stato Moderno. Non perché fosse assente un qualcheimpulso in tal senso, bensì in quanto, paradossalmente, gli impulsi au-toctoni vengono soffocati nel rapporto di colonizzazione determinando, apartire dalla occupazione iberica (intorno al XIV secolo), un’evoluzionestorica inversa a quella del resto del continente.

Vedremo infatti che a seguito della dissoluzione dell’impero bizanti-no – di cui l’isola è stata una provincia per diversi decenni – l’antica realtàdella città-Stato Shardana, liberata dalla presenza di occupanti, si evolvein Stato vero e proprio (Giudicato) grazie anche alla struttura millenariadel colono ed ai danni da questo fatti a scapito delle comunità selvaggedell’entroterra.

Il Giudicato, che per certi versi rappresenta in nuce, con mille annid’anticipo, lo Stato-nazione, si erge sullo sviluppo del potere accentratodella civiltà Shardana da un lato, e dall’altro sul tentativo che mira a sna-turare, quindi ad espropriare il potere autodeterminato e diffuso nel socia-le, proprio delle comunità interne. La brutalità con cui vuole imporsi, esten-dendosi dalle città costiere alle zone interne, è in un certo qual modo me-diata dalla strumentalizzazione di alcuni istituti comunitari, attraverso i

Capitolo PrimoLa cultura resistenziale

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quali si manifesta l’autodeterminazione delle comunità selvagge.Il tentativo di trasformare i bonos omines dei villaggi in burocrati del

Giudicato è un esempio della politica statale autoctona. Ciò prova da unaparte l’estrema intelligenza dei “Principi” nostrani, d’altra parte l’alta pro-babilità della statizzazione delle popolazioni dell’interno se un tale proces-so non fosse stato bruscamente interrotto dall’occupazione spagnola.

L’avvento della colonizzazione iberica rompe il meccanismo di intel-ligente progressivo esproprio del potere selvaggio e determina l’imposi-zione del sistema feudale “puro” in tutta l’isola, nell’esatto momento incui altrove ha di già preso piede il processo del suo superamento. Cosìimportato, il feudalesimo rimarrà in pieno vigore in Sardegna fino allametà del XIX secolo.

Le comunità dell’entroterra, come vedremo ben poco consenzientialla politica di deculturazione avanzata dai Giudicati nell’arco di sei seco-li, si irrigidiscono del tutto con gli iberici, in una posizione di resistenzia-lità che non è solo umana, fisica, ma culturale.

Tuttavia sono gli spagnoli ad attuare una radicale inversione di ten-denza nei confronti della società selvaggia, ampliando a dismisura le ma-glie di quei limes che, eretti dai romani e riedificati dallo Stato giudicale,hanno la funzione di arginare la dirompente forza delle comunità dell’in-terno, che fino ad allora non hanno mai dismesso la possibilità/utopia dellariappropriazione dell’intera isola. Gli iberici, infatti, applicano la politicadella relativamente libera circolazione delle genti e soprattutto degli ar-menti, bisognosi stagionalmente dei pascoli delle Baronie e dei Campida-ni; liberalizzazione che avviene ovviamente dietro compenso (tot a capo dibestiame).

La transumanza delle greggi e la circolazione delle genti se da unlato ravvivano i mai dismessi contatti fra le popolazioni dell’interno e quelleprossime alle coste – contribuendo in tal modo a mantenere in vita la cul-tura autoctona in lungo ed in largo –, dall’altro lato (e lo vedremo megliopiù avanti) creano le condizioni per la nascita delle prime contraddizioniche sono alla base della divisione sociale delle comunità dell’entroterra. Èin questo frangente che il “banditismo” assume una fisionomia struttural-mente diversa rispetto al passato, e che – accentuato a partire dalla occupa-zione piemontese (1720) – caratterizzerà il fenomeno fino ai giorni nostri.

La “criminalità” specifica sarda altro non è che il momento salientedel rapporto di forza che si instaura tra l’entità statuale esterna (colonizza-tore) ed interna (prima la città-Stato Shardana, poi il Giudicato) da unaparte, e dall’altra la società selvaggia costituita dai villaggi dell’entroterra;rapporto di guerra totale il cui esito finale è o la statizzazione delle gentiisolane, oppure la sconfitta della società con lo Stato. È la guerra tra due

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culture altre, irriconducibili a simbiosi. La vittoria di una decreta la scon-fitta totale dell’altra, senza possibilità di compromessi.

È in questo quadro succintamente anticipato che prendono forma ilbanditismo e la specificità della repressione statale, la resistenzialità cultu-rale isolana e la particolare conformazione della “lotta alla criminalità”sarda.

2.1.1 Società selvaggia e città-Stato Shardana: l’autoctonia

Non entreremo nel merito della questione relativa al fatto se l’isolaabbia oppure no sofferto del dominio punico. Si tratta di questione contro-versa su cui le antiche e le recenti interpretazioni storiche possono essereribaltate da sempre più accurate ricerche archeologiche.

D’altra parte, però, ci sembra evidente che le più accreditate – fino aqualche decennio addietro – tesi storiche “unilaterali”, sono destinate adessere completamente capovolte, soprattutto rispetto al ruolo attribuito allaSardegna, troppe volte costretta a subire, in tali ricostruzioni, una situazio-ne di assoluta passività, culturalmente, militarmente, politicamente.

Nello specifico, il suolo isolano sembrerebbe – fin dalla notte deitempi – una sorta di foglio bianco su cui tutti i potenti dell’area mediterra-nea hanno scritto qualcosa; unici esclusi gli stessi sardi, ovvero quelle gen-ti che, in tre ondate successive, sono approdate all’isola, stabilendovisidefinitivamente almeno dal 5000 circa Avanti la Nostra Era (A.N.E.).

A tale epoca infatti i “reperti” archeologici daterebbero la prima on-data di genti neolitiche che hanno popolato l’isola. In tempi a noi più re-centi, una seconda ondata, stavolta di schiatte megalitiche, vi si stabilisceugualmente, amalgamandosi con le prime. Da questa confusione di gentidiverse si sviluppa la civiltà nuragica, vera e propria cultura “circolare”che anche architettonicamente riflette la società selvaggia isolana.

La civiltà nuragica si estende, almeno fino alla parziale occupazioneromana, in tutta l’isola, dalle coste al più remoto entroterra. Ne fanno fedei circa 8 mila nuraghi che la costellano in lungo ed in largo, di cui diversecentinaia hanno resistito quasi integri alla barbarie del tempo e degli uo-mini. Indelebili testimonianze di una società caratterizzata dalla indivisio-ne economica e sociale, il cui “principio che reggeva la loro organizzazio-ne era di libertà e uguaglianza” (R. Carta Raspi).

Gli studi etno-antropologici hanno definitivamente chiarito che l’or-ganizzazione, la struttura primordiale della specie umana sul piano socia-le, non è la famiglia ma la tribù: insieme di famiglie strutturate in clan.Non potrebbe fare eccezione la società nuragica, per cui non condividiamoappieno la tesi di Carta Raspi che afferma essere, i “villaggi” attorno ai

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grandi plessi nuragici, strutture atte ad ospitare quanti vi si recavano inoccasione delle fiere, feste comuni ecc.

Si tratta, a nostro parere, di strutture di villaggio abitate stabilmente,quindi di spazi occupati dalle singole tribù, più o meno distanti le une dallealtre, sia pure in stretto rapporto tra di esse. Rapporto che non è da inten-dere come pacifico o solo pacifico, ma anche cruento, in quell’universo diprecario ordine intertribale, in cui gli amici ed i nemici vengono costante-mente rivalutati a seconda delle specifiche circostanze. Fatto che trova con-ferma ancora oggi nella costellazione dei paesi “amici” e di quelli invececonsiderati “nemici”, tipica di ciascuna comunità.

Anche la composizione della singola tribù è attraversata all’internodai contrasti interindividuali e interclanici, per cui l’ordine sociale è costi-tuito dall’equilibrio sempre precario dei rapporti di forza presenti. Infine, isingoli clan sono a loro volta legati da vincoli di sangue a clan di altrivillaggi, per cui, spesso, si intrecciano amicizie e contrasti che finisconoper coinvolgere diverse tribù.

Come in tutte le società selvagge, anche in quella nuragica il poterenon è accentrato in alcuna componente né individuale né collettiva. È indi-viso nell’amalgama dei rapporti dei singoli e dei clan. Ciascuno gode delsuo specifico prestigio, che mantiene manifestando la propria valenza, ilproprio valore, la propria balenthìa.

Per balenthìa è da intendersi forza fisica, intelligenza, astuzia, capa-cità di relazionarsi nel sociale, di stringere amicizie, di allargare il proprioambito d’influenze, di ben selezionare i possibili alleati. È pure possibileavanzare l’ipotesi che anche per quella nuragica l’indivisione interna dellatribù sia almeno in parte determinata dal perenne stato di guerra-guerreg-giata con l’altro da sé, cioè il “nemico”, identificato ora con questo ora conun’altro villaggio, in quella sempre mutevole composizione cui abbiamoaccennato più sopra, che è l’universo degli amici e dei nemici. Ciò non èaffatto da escludersi perché solo la guerra – concepita più che col fine diannientare l’altro da sé, come momento capace di ammortizzare i contrastiinterni a ciascuna tribù – verso l’esterno ridetermina un nuovo sia purprecario equilibrio tra le varie componenti il gruppo sociale.

Per equilibrio interno non deve intendersi l’assenza di contrasti, com-petizioni, diversità, antagonismi. Questi, al contrario, sono momenti sem-pre presenti, scaturenti dal fatto che reali sono i particolari interessi diogni individuo, ogni famiglia, ogni clan, e per questo motivo vengono ascontrarsi con l’interesse degli altri. Particolare attenzione merita, nell’eco-nomia del nostro lavoro, il modo in cui nascono i contrasti e la prassi postain essere per ricomporli. Vedremo che la costante che emerge nei singolicasi trattati, concernenti il fenomeno del banditismo sociale e delle faide, è

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il porre in essere alcuni specifici momenti della cultura selvaggia sarda;per cui non possiamo esimerci dal trattarne sia pure molto succintamentein questa sede.

La cultura selvaggia garantisce ed è espressione della sovranità de-gli individui, delle famiglie, dei clans, della comunità. La sovranità è de-terminata da un ambito materiale e spirituale posto in essere dall’ente spe-cifico, che manifesta la forza di tenerselo e ne pretende il rispetto daglialtri (kustu est su meu – questo è il mio). Nel momento in cui un enteesterno mette in discussione tale sovranità, il contrasto è inevitabile. Aquesto punto l’equilibrio preesistente è posto in discussione. Si tratta divalutare se tra le parti in conflitto vi sia oppure no volontà di offesa aidanni dell’avversario.

L’offesa nell’universo culturale che trattiamo, è da intendersi comenegazione di valore, non riconoscimento della sovranità altrui. Chi subi-sce l’offesa deve dunque porre in essere atteggiamenti atti a dimostrare ilpossesso effettivo del proprio spazio di sovranità, in altre parole deve ma-nifestare la propria balenthìa (il proprio valore, in quanto entità che vale).Tali atteggiamenti si concretizzano come prassi della vendetta, attraversocui l’ente offeso dimostra all’altro ed a se stesso la propria validità nell’or-dine sociale e pretende il rispetto della sua sovranità.

Se offesa non vi è il contrasto può essere ricomposto vuoi dalle tratta-tive dirette intercorrenti fra le parti in causa, vuoi facendo ricorso a quantodice il bon’omine (figura che non è da intendersi sovra pares, semmaifuori dalle parti). Nella ricomposizione degli attriti, avvenuta in questomodo – cioè pacificamente – può anche esservi il risarcimento del dannosubìto da una delle due parti, a seconda dei casi reali specifici.

Se invece la ricomposizione non avviene, si entra nell’ambito delladisamistade (inimicizia), caratterizzata da ritorsioni vendettali graduatesulla base dell’offesa che si riceve. In una situazione non determinata dafattori esterni (quali la presenza di una entità che dall’esterno coarta lasituazione conflittuale, ad esempio in situazione di colonizzazione) anchela disamistade può trovare soluzione senza spargimento di sangue da ambole parti.

La comunità, infatti, è ben attenta a valutare la gradazione delleritorsioni, seppure non interviene in altro modo nel conflitto. La valenza diun ente è strettamente connessa alla sua adesione alle normative della co-munità, tra cui si annovera la risposta adeguata all’offesa ricevuta. Pertan-to, di solito, le fazioni in lotta si attengono a su konnotu (il conosciuto,quindi la normativa vigente).

Anche nella vera e propria faida, che inizia quando le ritorsionivendettali causano la morte di qualcuno, la comunità non interviene; al-

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meno fino a quando non viene posta in discussione l’esistenza di tutti el’ordine sociale comunitario. Spesso le faide finiscono per vedere schieratanelle fazioni contrapposte anche quasi la totalità dei componenti dei vil-laggi interessati, ma ciò è documentabile esclusivamente in epoca di pienodominio coloniale, per cui è intuibile l’influenza che l’occupante esercitaallo scopo di determinare l’autoconsunzione delle comunità.

La prassi della vendetta è la logica conseguenza dell’autodetermina-zione del singolo e del corpo collettivo. Gli enti in contrasto agiscono di-rettamente, in prima persona, senza delegare ad altri la ricomposizionedell’ordine che sentono infranto. È esclusione dell’altro da sè dall’orbitadella propria sovranità, è azione diretta, non delegata ad alcuno, mirante aristabilire l’equilibrio in cui deve trovare posto la propria valenza, messain discussione dalla rottura dell’ordine preesistente.

Nella società selvaggia è assai rilevante il ruolo svolto dal “capo”.Contrariamente a certa concezione eurocentrica però, il “capo” selvaggio –al pari di tutti gli altri componenti la comunità – non ha effettivo potere dicomando: se pure desse ordini a qualcuno, nessuno gli ubbidirebbe, e nonavrebbe alcun mezzo per supportare l’imperio.

Il “capo”, nonostante tutto, ha grande prestigio e ciò è dovuto alle suedoti di uomo saggio, ponderato, ricco di esperienza, pertanto in grado didare credibili consigli. Le comunità riconoscono queste doti non solo inuno, ma in più individui; si tratta dei bonos omines. La funzione sociale ditali figure ed il prestigio di cui godono sono strettamente derivanti dal fattoche dicono il vero, cioè esprimono pareri validi, giudizi saggi qualora in-terpellati.

Il bono omine incarna la figura ebraica del giudice; così come incar-na la figura del capo selvaggio amerindio – ben descritto da Clastres – ilcui compito è di parlare, quindi di esprimere giudizi, pareri. La lingualatina ha egregiamente tradotto il termine ebraico che la esprimeva: ius-dicis (da cui judex dicis) cioè colui che dice il dritto, il giusto. Fino aquando rimarrà una traccia di cultura sarda, il ricorso a sos bonos omines(andare a omine) avverrà ogni qualvolta i contrasti fra componenti la co-munità rischiano di scadere in faida.

L’esistenza stessa del bon’omine, ancora oggi – sia pure nelle solecomunità dell’interno – pregna di prestigio, ma assolutamente priva dipotere d’imperio, testimonia della sopravvivenza fino ai giorni nostri ditratti e momenti della cultura selvaggia elaborata nel corso dei millennidalle genti neolitiche e megalitiche che popolarono l’isola.

Sappiamo pure, però, che lo judex dicis, il giudice ebraico, nel tra-scorrere dei secoli ha finito per accentrare su di sé potere d’imperio effetti-vo, quindi la capacità di emanare norme e di farle rispettare: in altre parole

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è divenuto “re”. La medesima cosa possiamo constatare in quella realtà acui hanno dato vita le ultime genti approdate il Sardegna, gli Shardana,stabilitisi in riva al mare quando la civiltà nuragica ha ormai raggiunto lapropria piena fisionomia: si tratta delle città-Stato costiere (Nora, Bithia,Tharros, Kornus, ecc.).

È certo che fra le prime genti neolitiche e megalitiche da una parte,gli Shardana dall’altra, si è stabilito una sorta di modus vivendi che hapermesso un reciproco scambio spirituale e materiale, provato dal fatto chel’arte nuragica del bronzo è presente in molteplici coste del Mediterraneo.Il fatto poi che i bronzetti rappresentino, tra le altre cose, navicelle conindubitabili guerrieri nuragici è pure prova incontrovertibile della parteci-pazione dei componenti le popolazioni dell’interno alle “imprese” marina-re – commerciali o di altra natura poco importa in questa sede stabilire –delle città Shardana. Si tratta quasi di sicuro non di partecipazione di “mas-sa”, bensì individuale: mercenari, hanno avanzato alcuni, ma non è daescludersi qualsiasi altra forma di compartecipazione alle imprese via mare.

Imprese guerresche o commerciali che fossero i sardi Pelliti (cosìvengono appellati i sardi delle zone interne dai cronisti latini o romanizzati,a causa delle loro vesti in pelle, o meglio della mastruca sulle vesti), posso-no così manifestare le proprie energie di valorosi guerrieri finanche neldifendere sul mare ed altrove i propri carichi, o nell’aggredire nei posti disbarco chi volesse opporsi alla loro presenza.

Contatti stretti e continui fra Shardana e Pelliti, ma non simbiosi,soprattutto sul piano politico. Possiamo presupporre anche un certo livellodi sincretismo culturale (specialmente sul piano religioso); ma è chiaroche la società nuragica non perverrà, per millenni ancora, al potere accen-trato, come invece si verifica nelle città Shardana. Non poteva essere altri-menti!

La città, grosso agglomerato di popolazione e strutture edificate, im-pone un sistema di vita che nel villaggio è escluso. Nella città la stessarealizzazione di strutture ed infrastrutture (strade, fogne, porti, acquedotti...) richiede da una parte competenza, dall’altra la delega ad organi prepo-sti non solo alla costruzione ma finanche alla loro gestione. Contrariamen-te a quanto accade nella vita di villaggio, in cui tutte le funzioni fanno capoad ogni individuo, autofondato ed autosufficiente, nella città il capo, o icapi hanno nel corso del tempo possibilità non solo di stabilire definitiva-mente il proprio ruolo ma finanche di concentrare su di sé, via via, tuttauna serie di funzioni che in seguito sub-delegheranno ad altri (funzionari).

Così è per le città-Stato Shardana. Qui, le istituzioni in cui si esplicail potere sono: il Giudice, il Senato e l’Assemblea dei cittadini. Si tratta distrutture tipiche di tutte le città-Stato conosciute. Il che è sicuro indizio per

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approfondire – oltre le schermature ideologiche – la tematica propria del-l’antropologia politica, sull’origine del potere accentrato dalla situazionedi potere diffuso nel sociale. Le tre istituzioni ora dette rappresentano laforma compiuta della città-Stato. È lo stadio in cui il potere accentrato èlimitato in un certo qual modo dall’assemblea dei cittadini che ratifica orettifica le decisioni del Giudice, oppure che decide ex-novo su qualcosa diimportante. È evidente che si tratta dello stadio in cui emerge la figura del“re” da quella di “capo” (judex dicis).

Non raramente il capo selvaggio è anche colui che ha doti dicondottiero in guerra. Nella situazione determinata dallo stanziamento dellatribù in un dato territorio, in cui si da corso alla guerra-scaramuccia travillaggi più o meno vicini, il fattore belligerante, se pure è momento co-stante della vita viene ad inserirsi comunque entro una situazione più ge-nerale, consistente anche in rapporti di continue pacificazioni ed altrettan-ti mutamenti nella costellazione dell’universo degli “amici” e dei “nemi-ci”. Questa condizione viene a mancare nel momento in cui si verifica losciamare di una tribù, di un popolo, di una schiatta alla ricerca di quelloche infine diverrà il proprio territorio. Soprattutto qualora il pellegrinag-gio perduri nel tempo.

In tale frangente i ruoli di judex dicis e condottiero vengono non soloa confondersi ma a stabilizzarsi definitivamente. Non esistendo più limitealcuno fra la guerra e la vita civile, essendo in realtà la medesima condi-zione, il capo finisce per trasmutare il prestigio originario in potere effetti-vo. Il rapporto comando-obbedienza, riconosciuto solo in particolari fran-genti (precisamente nell’ambito della guerra e della caccia), prende consi-stenza. La stessa carica di capo-re, date le condizioni, diviene infine eredi-taria e gli stessi guerrieri finiscono per diventare un vero e proprio ceto. Ladimidiazione della comunità ha fatto la sua comparsa.

A questo punto il fatto che la società intera cerchi di erigere argini dafrapporre al progressivo accentramento del potere da parte del re (Giudice)e dei ceti privilegiati (Senato, costituito dai Principas, nelle città Sharda-na), le periodiche assemblee a null’altro servono se non a legalizzare l’espro-prio del potere collettivo, quindi la dimidiazione sociale. La società selvag-gia è ormai scomparsa per lasciare il posto a quella statuale.

Riteniamo che la civiltà nuragica sia rimasta selvaggia o perché lasciamatura dei neolitici e megalitici che hanno popolato l’isola sia duratarelativamente poco tempo, per cui non si è verificata la condizione di guer-ra appena descritta; oppure in quanto i meccanismi della dimidiazione,una volta stabilitisi in Sardegna, sono stati in certo qual modo riassorbitidalla cultura a-statale. Al contrario, riteniamo che la cultura dei Shardana– anche perché si tratta di schiatte già urbanizzate – o ha di già introiettato

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gli elementi di organizzazione statale al momento della sciamatura; oppu-re ha subìto la condizione di cui sopra prima di approdare nell’isola.

Il Giudice Shardana assomma nelle proprie mani il potere “civile” equello militare. Contrariamente a quanto potrebbe credersi, almeno nelprimo periodo non ha affatto il potere di giudicare gli eventuali “crimina-li” (tale compito spetta ai magistrati civili). Egli rappresenta l’unità, l’iden-tità politico-umana del gruppo sociale e contemporaneamente è il capomilitare. Come tale ha imperio nell’ambito della guerra ed è in quest’am-bito che si concretizza il rapporto comando-obbedienza. Il potere civilealtro non è che la rappresentanza della comunità nei confronti delle entitàaltre (amici, nemici, ecc.). Esattamente come il capo dei selvaggi delleAmeriche, che è allo stesso tempo “colui che dice il giusto” (jus dicis),condottiero in guerra, e rappresentante della tribù nei contatti con “l’este-ro” (una sorta di ministro degli esteri – Clastres – solo che questi rappre-senta lo Stato, non le popolazioni).

Il Giudice Shardana quasi sicuramente è affiancato da un altro suopari, in parte per coadiuvarlo nelle sue funzioni o per controllarlo alloscopo di evitare che agisca oltre i compiti che gli sono propri.

Come in tutte le altre città-Stato, anche in quelle degli Shardana lacarica di Giudice è elettiva ed annuale. Il controllo sul suo operato spetta alSenato, costituito dai Principas, rappresentanti dei ceti privilegiati per ric-chezza .

L’Assemblea cittadina si riunisce solo per eventi straordinari e nelsuo seno viene eletto il Giudice, ma non si sa con certezza se anche ilSenato. Per cittadini si intendono i liberi ed i servi. Quando tratteremo deiGiudicati vedremo meglio la condizione di questi ceti.

Come è facile vedere, la situazione politica delle città Shardana èpre-statale; non a caso da esse si svilupperà lo Stato Giudicale. Si tratta diuna condizione affatto diversa da quella nuragica.

Sul piano della giustizia l’individuo è del tutto espropriato del potereche invece vanta nell’ambito della vendetta. Sul piano della normativasociale basta pensare che mentre la interna società selvaggia non accordaprivilegi ad alcuno, quella Shardana non ammette che i principas, per quantocaduti in miseria, possano comunque essere ridotti alla infima classe deiservi (Carta Raspi). Ciò a significare quanto distanti siano i due universisociali.

Nel momento in cui avviene la sicura occupazione romana la situa-zione dell’isola è caratterizzata dalla presenza sulle coste delle città-Statopresumibilmente con un loro entroterra, da una parte, e dall’altra i nuragi-ci (i pelliti, secondo alcuni, gli iliensi secondo altri appellattivi), occupantiil resto della Sardegna ed equamente presenti dai limiti dell’entroterra cit-

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tadino fino ai più interni monti.I rapporti tra questi due universi, pur esistenti, data la sostanziale

diversità politica non possono pervenire a confusione e quando i coloniz-zatori conquistano le città e il loro entroterra, ed estendono la loro presen-za fin nelle pianure, i nuragici si ritraggono per quanto possono verso leimpervie zone montuose dell’interno, senza rinunciare ancora per secoliall’attacco contro l’invasore per cacciarlo dalle terre un tempo loro. Impe-diti nell’utilizzo di quei territori e costretti ad una assai limitata circolazio-ne, si adattano ad una vita materiale che nell’allevamento del bestiame enella scarsa agricoltura praticabile, nonché nella caccia trova i suoi ele-menti principali.

2.1.2 La “bardana” classica: attacco all’occupante Romano

Nel III secolo A.E.V. i Romani conquistano prima Olbia (236), l’an-no successivo Cagliari e quindi le altre città-Stato, eccetto Kornus. Fino al231 una sola volta vengono a contatto con i Pelliti, quasi di sicuro nell’at-tuale Trexenta, dove inizia il Campidano di Cagliari, anche questo occupa-to dalle legioni dell’invasore.

Nel 215 A.E.V., sconfitte tutte le altre città costiere, i romani s’appre-stano a conquistare Kornus. Nel momento in cui intrattengono la primabattaglia con le armate della città, il Giudice Amsicora non vi può parteci-pare, essendosi recato a chiedere aiuto alle tribù dell’interno, di cui soloalcune si uniscono ad esso.

Dopo la prima vittoria sugli invasori (ben 4 legioni romane sonosconfitte, secondo alcuni storici) l’esercito sardo è sgominato. Kornus vie-ne completamente distrutta tanto che ancora oggi è difficile trovarne i restie l’esatta ubicazione.

Caduta Kornus per l’occupante vi è la certezza della definitiva con-quista di tutta l’isola, ma così non è. La stessa situazione or ora descrittadimostra incontrovertibilmente non solo la separatezza dell’universo Shar-dana da quello nuragico, ma altresì l’assoluta indipendenza di questo e latotale autonomia di ciascuna tribù (non a caso solo una, al massimo qual-che tribù delle miriadi che costellano l’isola si uniscono ad Amsicora).

Per i Romani inizia non l’epoca della “pacificazione” ma quella piùcruenta della perenne difesa dei territori occupati (Baronie, Campidani ecittà costiere) dai quotidiani attacchi dei Pelliti per liberarli. Ogni tentati-vo di sottomettere i nuragici è destinato a fallire.

Come già accennato, i nuragici presenti nelle zone costiere si ritrag-gono verso l’interno. Qui cercano di mantenere integri gli istituti socio-culturali propri, nella piena indipendenza. Ben presto però devono fare i

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conti con la presenza romana che non solo pretende la loro resa, ma impe-disce perfino la libera circolazione delle genti e degli armenti. Costretti aduna sorta di monocoltura pastorale (data la conformazione dei territori) iPelliti si trovano ben presto nella necessità di attaccare l’invasore. La par-ticolare composizione delle tribù però non permette una alleanza generaleentro una qualche sorta di confederazione che, unendo le energie, concretizziuna possente forza militare in grado di sconfiggere l’occupante. Carenzache col trascorrere del tempo decreta la sopravvivenza nella ristrettezzamonocolturale, una trasformazione sia pure lenta della cultura d’attacco incultura di difesa, resistenziale, quindi lo svanire nel corso dei secoli del-l’utopia della liberazione.

È l’inizio della storia della colonizzazione materiale e spirituale del-la Sardegna, ove si scontrano da un lato la volontà degli autoctoni di resi-stere ai colpi inferti, dall’altro quella degli invasori mirante e ridurre aragione gli appellati barbari (per i romani erano barbari tutti i popoli chenon soggiacevano all’imperio della loro colonizzazione, così anche i sardiPelliti. Barbagie venivano di conseguenza definite le zone non conquista-te, ed occupate dai nuragici). Scontro cruento in cui ciascuno perde qual-cosa, modifica qualcosa, inventa nuove strategie per non cedere definitiva-mente al nemico.

È nel processo di questa perenne guerra che la cultura selvaggia sar-da è costretta a modificare alcuni dei suoi tratti, a perdere alcuni suoi isti-tuti, ad accentuare alcuni suoi momenti. È il processo della lotta per l’esi-stenza non solo fisica ma anche culturale, per mantenere integra non solola vita ma l’essere se stessi, autofondati, autodeterminati.

D’altro canto l’occupante si rende conto assai presto che la vittoriasui Pelliti è possibile solo se si frantuma, si spezza, si lacera la loro cultura,di conseguenza se verranno a mancare loro gli istituti dell’unità sociale edell’autodeterminazione. Non si tratta di ottenere delle vittorie militari,bensì di lacerare all’interno il sostrato culturale della società contro lo Sta-to.

Si apre così l’altra storia della Sardegna, quella che esprime nel rap-porto di colonizzazione l’alterità delle sue genti rispetto al colono di turno;alterità che nel processo storico diviene resistenza, criminalità, banditismo,delitto.

I Romani, dopo molteplici tentativi di penetrare e stabilirsi nei bar-bari montes, data l’opposizione radicale dei Pelliti, decidono infine di ab-bandonare il progetto e di costruire invece degli argini, i famigerati Limes,che a semicerchio delimitano le zone occupate. Non è una “muraglia cine-se”; sono presidi stabili di soldatesche e strutture del colono atte a contene-re vuoi i movimenti delle genti per scopi diciamo “civili”, vuoi soprattutto

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le sistematiche invasioni degli armenti Iliensi nelle pianure, vuoi infine leperiodiche razzie poste in essere da bande di armati di intere tribù alloscopo di approvvigionarsi delle derrate che altrimenti non possono avere.Sono, queste ultime, le epiche bardanas, che permettono agli iliensi disuperare le ristrettezze di sopravvivenza decretate dalla monocoltura pa-storale.

Vere e proprie forme di esproprio ai danni dell’occupante, allebardanas partecipano tutti i guerrieri del villaggio, presumibilmente an-che di diversi villaggi amici, considerato che si tratta di eserciti guerri-glieri consistenti spesso in centinaia di armati. La strategia posta in essereè quella di aggredire all’improvviso, fare razzia di tutto (bestiame, cereali,ecc.) quindi di riportarsi velocemente verso le zone interne, conosciutepalmo per palmo e pertanto garanti della incolumità per i bardaneris, chebruciano durante la fuga di rientro nei propri territori quanto non possonotrasportare.

Fino a quando le tribù dell’interno hanno goduto del pieno possessodel territorio, le bardanas vengono compiute da tutti gli uomini validi delvillaggio. Situazione perdurata, secondo alcuni studiosi, fino all’occupa-zione spagnola, quindi periodo Giudicale compreso.

A caratterizzare la bardana classica da quella successiva (in partico-lar modo da quella del XIX secolo) è da un lato l’indivisione del grupposociale che la attua, quindi la spartizione egualitaria del frutto della razziafra tutti i suoi componenti. Il relativo isolamento fa si che la cultura selvag-gia si manifesti integra almeno fino al XVII secolo.

Tuttavia la politica attuata dagli Iberici è quella di porre fine agliantichi limes romani, permettendo la libera transumanza delle greggi dal-l’interno verso Baronie e Campidani. Fatto questo che secondo alcuni hadecretato la divisione sociale. Riteniamo utile soffermarci un attimo sul-l’argomento perché sarebbe a questo punto, per i motivi che ora diremo,che si verificherebbe il trapasso dalla bardana al cosidetto banditismo so-ciale.

2.1.3 Dalle bardanas al banditismo sociale: l’autoctonia nel processo dicolonizzazione

Mentre alle bardanas classiche partecipa attivamente l’intera collet-tività, il banditismo sociale è caratterizzato dal fatto che a bardanare, equindi alla macchia si danno, per quanto numerosi siano, solo alcuni com-ponenti (che tuttavia continuano a godere dell’appoggio materiale e spiri-tuale del gruppo). Evidentemente l’una e l’altra realtà sono espressione diassai diversi momenti sociali.

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Di sicuro almeno parecchie delle tesi che hanno voluto dare ragionedel trapasso dalle prime bardanas a quelle successive risentono dell’assun-to – mai provato storicamente – secondo cui fino ai tempi recenti le“Barbagie” (intese nell’accezione generica di “zone interne”) non avreb-bero subìto la presenza dello Stato/colono. Di conseguenza si cerca esclusi-vamente in presunti meccanismi interni il trapasso dalle une alle altre.

Rilevante la tesi sostenuta da chi (come A. Ledda) ha voluto interpre-tare come statizzazione della famiglia i legami di sangue ed affettivi, quin-di quella particolare componente della comunità “pastorale” che vivrebbein funzione di se stessa, sempre vigile sulle altre, con le quali intratterreb-be rapporti più di antagonismo che di solidarietà. Secondo tale ottica ilperenne antagonismo si ripercuoterebbe anche in seno alle bande, nellavita alla macchia; ciò avrebbe impedito la persistenza della resistenza col-lettiva manifestantesi nelle bardanas, quindi decretato il trapasso alla resi-stenza individuale, identificata nel banditismo.

È a nostro parere, un modo di interpretare le cose assai carente. In-nanzittutto perché fa retrodatare l’occupazione delle Barbagie fino all’epocaRomana, cosa smentita dall’esistenza dei limes, riportati alla luce daindubitabili scavi archeologici (a meno che non si escludano le originariebardanas dal fenomeno che si è voluto interpretare. Ma allora non avrebbesenso alcuno parlare del trapasso da quelle al banditismo).

Infatti, se le zone interne, occupate dai Pelliti, non sono invase dalcolono, che senso ha affermare che le bardanas sono attuate da gente “allamacchia” che tuttavia non si darebbe una struttura organizzativa stabile acausa del frapporsi dei rapporti antagonistici dovuti alla statizzazione del-la famiglia? Fino all’occupazione anche delle zone interne da parte deicolonizzatori, i Pelliti non hanno alcuna necessità di bandidare, possonotranquillamente vivere nei loro villaggi, stanziali!!!

Altra carenza cogliamo poi nell’assolutizzare l’antagonismo tra i grup-pi familiari, fino a non rendersi conto che la dialettica che anima la societàselvaggia è esattamente dell’unità nel contrasto. La società “pastorale” sarda(rurale, precisiamo noi) è data dal sempre precario equilibrio tra i contra-stanti interessi materiali e spirituali dei singoli e delle famiglie. Non sitratta, è evidente, di “contraddizioni” che, superate da sintesi sempre nuo-ve, pervengono al fatidico assoluto. Ben al contrario, se di sintesi è lecitoparlare, l’unica possibile è data dagli equilibri sempre nuovi e sempre pre-cari, che ricostruiscono l’universo collettivo sulla base dei continui rappor-ti di forza in evoluzione. Rapporti propendenti da un lato dalla parte diinteressi soggettivi e dall’altro dalla parte dell’intero gruppo sociale, ilquale richiede sempre la propria integrità. Il collante di tutto ciò è precisa-mente l’orizzonte politico-culturale, il contenuto normativo condiviso da

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tutti e pertanto garante dell’ordine e della sostanziale unità della comuni-tà. Dal contrasto, preso per sé stesso, non può nascere la divisione/dimidiazione.

Ovviamente il discorso muta radicalmente nel contesto dellacolonizzazione, che inibisce qualche meccanismo oppure ne apporta altri,disgreganti.

Né ci appare sufficiente, a sostegno della tesi, far coincidere la rottu-ra interna alla collettività col sorgere della ricchezza privata a seguito del-l’apertura dei limes da parte degli occupanti Iberici. Prima di tutto perchéla ricchezza non è sempre espressione di una classe, né esprime un ceto,una categoria di persone socialmente privilegiata. Poi perché è senza dub-bio “permessa” in ogni società selvaggia, allo scopo di non frustrare ilprocesso di esplicazione della libertà individuale. Solo che, nel momentoin cui essa tende a concentrarsi in maniera tale da rappresentare pericoloserio di effettivo privilegio, scattano una serie di meccanismi culturali attia redistribuirla nel sociale.

Così, per gli indiani delle praterie il possesso di cavalli era non solopermesso ma addirittura stimolato, rappresentando fonte di grande presti-gio per il proprietario. Ma ancora più prestigio acquistavano coloro che nefacevano dono a conoscenti, amici, vicini di tenda ... Invece, qualora ma-nifestassero poca generosità perdevano ogni considerazione, oltre che sti-ma, amicizia, conoscenze e vicini di tenda. Cosa ovviamente poco graditanell’universo selvaggio, ove i rapporti nel sociale contano ... tutto.

Presso i Nuer, popolo pastorale nilotico, la proprietà privata dellemandrie era sacra (intoccabile). Quanta più numerosa e di ottima qualitàera la mandria, tanto più prestigio poteva vantare il proprietario. Ma alloscopo di ridimensionare l’ingente quantità di capi che spesso raggiungeva-no gli armenti, i Nuer usavano inventarsi di sana pianta i più che quotidia-ni pretesti onde festeggiare in giganteschi e collettivi “spuntini” a base dicarne di bufala. Eppure la loro dieta-base escludeva il consumo di carne,salvo non si trattasse di eventi “sacri”. Da qui l’invenzione del “sacro”,delle feste. Oltre a ciò vigeva l’obbligo morale di “prestare” le propriebestie a quanti, per un motivo o per l’altro, ne erano privi.

Aspetto assai molto simile, questo dei doni e dei prestiti “obbligati”,a quanto vige nei paesi sardi, ad esempio quando qualcuno perde il proprioarmento, che gli viene almeno in parte “ricostruito” con poste collettive acui difficilmente si risponde in maniera negativa; oppure quando si uccideil maiale, parte del quale finisce nella pratica ad imbandire le tavole diamici, parenti e vicini.

Sono meccanismi attraverso cui la ricchezza viene fatta circolare,ridistribuendola, quindi evitandone l’eccessiva concentrazione, che inevi-

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tabilmente creerebbe effettivo privilegio, quindi potere accentrato, quindidimidiazione. Ciò prova incontrovertibilmente che la ricchezza, di per sestessa non produce divisione sociale. Per cui, salvo l’intervento di mo-menti estranei all’ambito culturale selvaggio, i ricchi (cioè i proprietari dibeni altamente significanti per il corpo collettivo) non sono da confondersiné con sos printzipales (concetto che esprime la classe o il ceto dei privile-giati quando la società è perdavvero divisa) né, tantomeno, con sos meres(identificati, secondo il modo d’intendere comune, con quanti sono altririspetto alla comunità e che per di più intrattengono con essa un rapportodi colonizzazione).

Eppure è anche vero che nel momento in cui i documenti storici “par-lano” di una qualche forma di “criminalità” sarda (periodo iberico senzadubbio, ma anche quello precedente Giudicale), questa assume di già laconformazione di banditismo sociale, a cui si deve pur dare una origine eduna ragione d’essere.

Noi crediamo che scomparsi i Bizantini per “naturale estinzione”(tesi sostenuta da Carta Raspi) il mondo sociale isolano si sia in un certomodo rifatto alla situazione preesistente all’occupazione Romana, con inpiù le storture dovute a mille anni di esperienza coloniale subìta. Almenoin un primo tempo, armenti e popolazioni possono ricircolare liberamentein tutta l’isola, fino a quando il costituirsi dello Stato Giudicale lo permet-te. Dopo di che, compiuto il processo di maturazione, prende avvio la siste-matica repressione della cultura e delle genti nuragiche, con una sostan-ziale modificazione rispetto al passato: a differenza del periodo Romano loStato è penetrato o vuole penetrare fin nei più remoti villaggi ed insinuadall’interno l’autodeterminazione e l’indivisione sociale.

Anche se non ci è possibile confermare quanto dicono coloro chevogliono che pure i Giudicati abbiano ripristinato i limes di antica data (P.Marongiu, per tutti), è indubbio però che i quattro Stati sardi impongonolimiti alla sopravvivenza della società selvaggia. La sopportata transuman-za delle greggi, dai monti in pianura, l’allargarsi dei commerci e delleattività sicuramente decretano il parziale arricchimento anche di individuie famiglie Pellite; che tuttavia rientrando ai propri villaggi stagionalmente– o finanche risiedendovi stabilmente – sono costretti a fare i conti con imeccanismi della cultura tradizionale, cioè con la prassi della redistribuzionedella ricchezza. Meccanismi che – come vedremo in seguito – lo Statogiudicale insinua ma che solo parzialmente riesce a scalfire. La divisionesociale non è ancora avvenuta. Una tale situazione ereditano gli Iberici.

Che gli Spagnoli, così come i Giudicati, siano in qualche modo pre-senti istituzionalmente nei villaggi dell’entroterra non abbiamo dubbi, an-che se la loro presenza non è così radicata e lacerante quanto lo sarà quella

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dei Piemontesi e degli Italiani in seguito.Così che con gli iberici è ancora possibile per le comunità interne

mantenere vivi i legami e l’unità sostanziale del gruppo sociale, nonché itratti dell’autodeterminazione. “Semplicemente” sono soggette non solo aitributi feudali ma anche ad un “controllo” per quanto superficiale delleautorità, le quali, così come avviene fin da epoca Giudicale, con il mante-nimento dell’istituto dell’inkarriga, addossano all’intera collettività le re-sponsabilità di quei momenti identificati dal sistema statale come “crimi-ni”.

È, questa, la sola condizione da cui può prendere realtà il fenomenodel banditismo perché:a) i villaggi non godono più del controllo assoluto ed esclusivo dei propriterritori, dovendo fare i conti con la presenza dello Stato;b) se sono ancora possibili forme della bardana delle origini, tendono co-munque a scomparire sotto la repressione delle collettività decretatadall’inkarriga;c) data la presenza delle istituzioni, che possono risalire all’identificazionedei “criminali” o comunque possono addossare all’intero gruppo sociale i“delitti” consumati, ai presunti e reali colpevoli non rimane che darsi allamacchia, sia perché si pongono (o vengono obbligati) fuori dalla legge, siaperché da banditi possono agire indisturbati.

Una volta costretti fuori dalla comunità i banditi si aggregano inbande, organizzativamente strutturate secondo i principi validi nella socie-tà civile d’origine. In tal modo i banditi non solo si fanno garanti dell’in-columità del villaggio ma questo, nella sua totalità, garantisce loro prote-zione, solidarietà, ospitalità, “connivenza” materiale e spirituale.

Questo fenomeno non avviene da un giorno all’altro, ma si manifestacome lungo processo le cui origini risalgono al definitivo crollo dei limesromani, passando quindi attraverso l’espansione dei Giudicati all’internodell’isola. Il trapasso dal vecchio al nuovo segna tuttavia finanche la finedi un atteggiamento culturale e l’inizio di un altro.

Il banditismo sociale assume la fisionomia di sola resistenza, il feno-meno si caratterizza per la volontà di non perire: è l’atteggiamento delladifesa, non dell’attacco. La liberazione, sia pure come processo più o menolungo, viene a scomparire.

Per quanta simbiosi vi possa essere tra bandito e comunità origina-ria, data la condizione generale or ora sommariamente descritta, le popola-zioni risultano essere comunque non solo assediate dall’occupante, ma anchemonche di certi suoi validissimi componenti. Inoltre le comunità risultanosempre più impossibilitate a porre in essere la prassi della redistribuzionedella ricchezza: quella di quanti sono alla macchia non è neppure più

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valutabile con estrema sicurezza, sfuggendo ad ogni controllo sociale; quelladelle famiglie pastorali più forti, sempre più consistente anche grazie allapossibilità della transumanza, pur se ancora non raggiunge dimensioni diprivilegio (o tale non è ancora valutata) le raggiungerà durante l’occupa-zione piemontese

Fino ad allora però è, a nostro avviso, impossibile parlare diprintzipales come ceto/classe scaturita dal sociale selvaggio. Una cosa è ilcolono, che determina con l’uso della forza il pagamento dei tributi ed ilcontrollo sulla comunità a cui si sovrappone; altra cosa sono i meccanismiinterni alla popolazione colonizzata, ogni gruppo della quale, a secondadelle condizioni storiche concrete, può autogestire le autoctone forme so-ciali in maniera più o meno integrale.

Non ci è possibile perciò confondere la figura ed il ruolo del princepcon quella del printzipale, come invece fanno alcuni studiosi. Il princep èil condottiero, il capo militare nelle azioni di razzie; la sua funzione èlimitata pertanto a tale contingente ma, oltre esso, non presuppone nessunrapporto di tzerakìa (servaggio) con i componenti la banda, o in seno alvillaggio. Di conseguenza anche nella spartizione del bottino non vi sonoprivilegi o iniquità. Il printzipale, al contrario, presuppone di già ladimidiazione del corpo sociale: è non solo figura privilegiata economica-mente e socialmente, ma rappresenta finanche il padrone in un rapporto diservitù (tzerakìa, appunto).

2.1.4 Printzipales e Bardanas nei secoli XVIII e XIX

I limes eretti dai Romani vengono dunque “superati” vuoi dai Giudi-cati vuoi dalla “liberale” politica iberica, determinando in un certo qualmodo anche l’arricchimento di pastori/famiglie delle zone interne. Senzaapprofondire l’argomento, è anche probabile che limitatamente ad alcunecomunità diverse famiglie se ne siano separate per far parte, come alcunistudiosi avanzano sulla base della toponomastica e nomenclatura di alcunecasate, della nobiltà e della burocrazia Giudicale prima, “spagnolizzata”in seguito. Tuttavia, al limite, si tratta non di printzipales, ma di meres verie propri, postisi pienamente fuori e contro la collettività.

La figura del printzipale emerge invece a partire dall’epoca ibericaper definirsi durante l’occupazione piemontese, soprattutto a seguito dellaintroduzione per decreto (e per forza) della perfetta proprietà capitalistica(in un arco di tempo che copre i primi tre quarti dell’800). Il concettostesso, a nostro avviso, non deve essere confuso con quelli di princep oprincipas a cui è etimologicamente legato.

La sua significanza, ben al contrario, è da ricercarsi nel rapporto che

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si instaura fra il ricco (proprietario in un primo momento di armenti) ed ilsotziu (“socio”) che si dedica ad accudire le greggi quando quello ne èimpossibilitato (perché alla macchia, ad esempio). Si tratta di una forma di“mezzadria” (soccida) del tutto particolare in quanto su sotzu (il rapportodi “società”) pressuppone l’equa ripartizione una volta terminata la duratatemporale stabilita (che varia a seconda del bestiame). Salvo un sotzu par-ticolare (anche questi previsti) tra su sotziu che pone quel che si dice illavoro vivo, e su sotziu printzipale che ha messo il bestiame, si divide ametà.

Sia il contratto che i due concetti sono tuttora viva attualità. Chi poneil bestiame viene definito sotziu printzipale semplicemente perché l’ar-mento è considerato la ricchezza sociale per eccellenza. Infatti tra i duenon vi è in origine, e neppure oggi, alcun rapporto di servitù (tzerakìa).

Il rapporto di servitù ha iniziato a prendere piede quando su printzipalesi garantisce il cumulo della ricchezza non più secondo i meccanismi sta-biliti dalla normativa selvaggia (astuzia, bravura, abigeato, ecc.), bensì daquelli statali. Ciò si verifica radicalmente ed in modo capillare nell’inver-sione di tendenza imposta dagli occupanti di casa Savoia, che così inaugu-rano la fine del relativo liberismo iberico.

Prima di tutto i Piemontesi non si accontentano più dei tributi tradi-zionalmente riscossi dai predecessori: abbisognano di ben altro per saziarela bramosia di regno e la politica espansionista di cui sono fautori; in se-condo luogo devono imporsi militarmente su una situazione politico-so-ciale determinata dalla compresenza di due poteri entrambi nemici: lafeudalità spagnola/sarda (e per un breve periodo anche filoaustriaca) da unlato, le collettività autodeterminate dall’altro. La rigidità del suo interven-to è nella logica delle cose.

La radicale trasformazione imposta colpisce feudalità e comunità,salvaguardando però – in seno a quest’ultima – gli interessi delle realtàeconomicamente forti, i printzipales, la cui ricchezza è non solo stimolatama garantita dalle leggi dello Stato. Ciò emerge chiaramente quando, conle leggi dette delle chiudende (chiusura), si istituisce la “perfetta” proprie-tà privata delle terre. In tal modo i printzipales, che dispongono delle ener-gie necessarie a costruire i muri di recinzione ed hanno tutto l’interesse afarlo, consumano ai danni della propria comunità un vero e proprio crimi-ne. La loro consistenza economica non è più sentita (giustamente) come ilfrutto della loro balenthìa, ma finanche quale esproprio dei beni fonda-mentali della comunità (terra e diritti su di essa).

In tale contesto pure il rapporto di su sotzu viene fatto rientrare entroi limiti dei contratti determinati da servitù: nasce così sa tzerakìa.

Il printzipale non è più solo il proprietario del gregge e, ora, delle

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tankas (grossi appezzamenti di terra), ma assume funzioni di comando sulsotziu. Questi non è più un pari, bensì un subalterno, è ridotto a tzeraku(servo, appunto). Il rapporto padrone-servo raramente scade però nellalesione della dignità (onore, sovranità) del secondo; il ruolo di su tzerakunon riesce a determinare la scomparsa del sostrato fondamentale su cui siregge tutta la cultura selvaggia, in particolar modo l’istituto della salva-guardia della sovranità individuale: se questa viene posta in discussione olesa, scatta comunque il meccanismo della vendetta.

Su tzeraku, ora, mette a disposizione del printzipale tutta la sua capa-cità personale, non più in uno specifico campo (cura delle greggi e dellaterra), ma in tutti gli interessi del padrone contemporaneamente e indistin-tamente. Come accudisce gli armenti, deve essere disponibile nella caccia,oppure nella grassazione, o anche (infine) nel sequestro di persona (sa fura‘e s’omini). Il tutto per conto del proprio printzipale. Ovviamente, essendoiniquo il rapporto di tzerakìa, anche la spartizione del bottino è iniqua, lamaggior parte (quando non tutto) venendo incamerata dal padrone. È que-sto contorto meccanismo che sta alla base di numerosissime faide del pas-sato ed attuali.

Tuttavia rimane ancora da chiarire il perché sos printzipales, purricchi, si danno alla grassazione, alle bardanas, al sequestro di persona,all’abigeato; momenti senza dubbio criminali per la normativa del domi-nante, tanto più che questo garantisce ai printzipales la ricchezza rispettoai tentativi mai dismessi delle comunità di risocializzare tutto. Qui, piùche altrove, è necessario cogliere l’atteggiamento del ceto ormai realmenteprivilegiato nel contesto culturale autoctono insinuato senza dubbio dalladimidiazione.

Ormai la collettività valuta la ricchezza dei printzipales come espro-prio, per cui agisce su di essi facendo sentire tutto il disprezzo possibile e lavolontà di vendetta per il tradimento consumato. D’altro canto i printzipalessi sentono nella grande maggioranza dei casi parte integrante della comu-nità d’origine, ed in essa vivono. Raramente abbandonano il proprio vil-laggio per trasferirsi in città; ciò significherebbe porsi fuori definitivamen-te dalla comunità per integrarsi nel sistema del colono. Un tale atteggia-mento l’hanno assunto sos meres, che occupano finanche posti di rilevan-za nel meccanismo della colonizzazione, divenendo di fatto compradores.Malgrado il loro sentirsi parte integrante – spesso la più balente – dellacomunità, i printzipales da questa sono fatti oggetto della propria azionevendettale.

Le sommosse contro le chiudende confermano quanto affermiamo;fenomeno costante non solo a partire dalla prima legge del 1820, ma ogniqualvolta si lede l’interesse collettivo: dal divieto di pascolo in alcune zone

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arbitrariamente adibite a coltura – già operante in periodo Giudicale – finoai recenti e recentissimi tentativi di privatizzare il poco di “comunale”scampato alle chiusure, ed istituire i parchi “nazionali” (leggi statali) vo-lendo così portare a compimento il processo di esproprio alle comunità delloro territorio.

Il ceto dei printzipales sente quindi tutto l’odio nei suoi confronti,ma non vuole estraniarsi dal resto della società isolana. Però non ha nep-pure alcuna intenzione di rinunciare alle ricchezze possedute. La via d’uscitaviene “trovata” ponendo in essere la balenthìa, tanto più che da essa posso-no trarre ulteriore ricchezza e contemporaneamente farne circolare nellacomunità, gratificandola. Ecco perché i printzipales sono parte rilevantenel banditismo del XVIII e soprattutto del XIX secolo; ciò definisce anchela specificità delle bardanas ottocentesche, in cui la balenthìa si esplica intutto il suo antico splendore.

Ma vi è pure da dire che non di raro alle azioni criminali (bardanas,sequestri o altro) i printzipales non vi partecipano di persona, soprattuttoin tempi recentissimi, bensì vi mandano gli tzerakus. Per i printzipales,pertanto non vi è rischio alcuno, essendo gli tzerakus eventualmente a pa-garne di persona le conseguenze.

Col trascorrere del tempo il rapporto di tzerakìa viene sostenuto nonpiù soltanto dall’imporsi del printzipale, ma anche dalla servitù volonta-ria: man mano che i decenni si susseguono e la colonizzazione culturaleavanza, il ricco non è visto come colui che si è impossessato della ricchez-za collettiva, ma sempre più come colui che “dando lavoro” permette agliespropriati di tutto di campare.

Al mutamento dei tempi corrisponde finanche un adeguarsi del feno-meno; prendono il via tutte quelle nuove forme di razzia adeguate allacontingenza storica. Non a caso il primo sequestro di persona a scopo diestorsione risale all’ultimo quarto del secolo scorso. E quando il danaroinizia a circolare ampiamente anche in Sardegna – ciò che si verifica nelsecondo dopoguerra – prende forma pure il fenomeno della rapina, conmetodi guerriglieri nelle pubbliche vie, con metodi semi-metropolitani nellebanche e negli uffici postali.

Questa valutazione dà ragione non solo delle bardanas dell’800 nellaloro specificità, ma anche del perché la comunità infine garantisce prote-zione, solidarietà e rispetto non solo ai printzipales costretti a darsi allamacchia dalla repressione statale, ma all’intero ceto nella sua generalità,che così è riuscito in un certo qual modo ad evitare l’ostracismo.

È evidente che i printzipales non hanno operato consapevolmente lascelta di porsi “fuori” da quella stessa legge di Stato che li protegge egarantisce nel privilegio: il comportamento del ceto è nell’ottica delle cose.

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Non a caso il nuovo corso del banditismo in cui i printzipales hanno unruolo non secondario, è tutto riversato verso l’esterno della comunità, se-condo il dettato normativo che stabilisce essere delitto il rubare in casapropria (furat kini furat in domu sua), ma non il farlo in casa altrui. Inol-tre, essendo mutati i tempi, solo i printzipales, che godono di credito nel-l’ alta società (quella del dominio) sono in grado di conoscere perfettamen-te non solo territori e paesi lontani, bensì anche le specifiche abitazioni sucui operare bardanas, rapine e sequestri.

Tuttavia la dimidiazione, persistendo la colonizzazione, non è stataricomposta. Alla gratificazione della comunità non corrisponde una realeredistribuzione della ricchezza. Inoltre il rapporto di tzerakìa determinacomunque una spartizione iniqua del bottino. Infine il ceto dei printzipalesrappresenta – ancora oggi, per certi versi – l’appendice del sistema colo-niale ramificato nel territorio. Conta amicizie e legami con i potentati po-litici ed economici dell’occupante, che ben sfrutta a suo vantaggio ma cherichiedono anche, in cambio, attiva “collaborazione” nel momento dellabisogna. Non è affatto raro che sos printzipales rappresentino veri e propricarrozzoni politico-elettoralistici legati/dipendenti da questo o quel pila-stro del sistema. D’altro canto la loro “mentalità” è tale che non sono e nonsaranno più, ormai, sostanzialmente capitalisti.

Radicati nei propri villaggi, alla loro cultura ma anche alla loro ric-chezza (sempre più ridotta al rango di relativo privilegio materiale), nonhanno voluto o potuto trasmutarsi in veri e propri capitalisti. Per cui se daun lato i propri interessi particolari ne fanno un ceto compradore (chemedia cioè la penetrazione del sistema dominante in colonia), dall’altrohanno contribuito a mantenere in vita momenti essenziali della culturaautoctona, spesso pagandone di persona le conseguenze; in termini di re-pressione ma anche sullo stesso piano della vita materiale, ridotti comesono nell’attualità a semplici benestanti.

Una condizione contraddittoria, la loro, che ineluttabilmente la ge-nerale contingenza dell’attualità chiama a definitiva risoluzione, determi-nando il loro schieramento anche spirituale o dalla parte del sistema (dicui saranno dei semplici inclusi, ma non parte essenziale e privilegiata),oppure dalla parte della liberazione totale dal regime di servitù.

Le condizioni sono tali da poter prevedere che in buona parte opere-ranno la scelta di ricomporsi pienamente nelle comunità, essendo ai giorninostri ridotti economicamente a condividerne non soltanto orizzonti cultu-rali ma finanche i bassi livelli di vita materiale.

2.1.5 La criminalità quale esito del rapporto di colonizzazione

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La cultura sarda trova espressione in quel sostrato della “pastoralità”di cui è pregna. Per pastoralità non deve affatto intendersi esclusivamenteil modo di concepire la vita ed i rapporti sociali propri del ceto pastorale.Non riteniamo valido neppure l’assunto secondo cui la cultura isolana “vera”sarebbe quella propria delle aree a “prevalente economia pastorale”. Unasimile visione concettualizza assunti sostanzialmente ideologici e storica-mente falsi, partendo come fa dal dogma della riserva assolutamente chiu-sa, assolutamente popolata da pastori, assolutamente pura nei suoi fonda-menti.

In realtà il pastore puro è caso raro; di norma svolge anche altreattività, specialmente la coltivazione del suolo. Inoltre la circolazione umanae pertanto spirituale e materiale, se pure è stata arginata e controllata ècostante in tutta la storia dell’isola; per cui se vi sono indubbiamente dellevarianti zonali, spesso da comunità a comunità anche viciniore (esemplarela diversità di linguaggio), comune a tutti vi è un sostrato culturale checaratterizza il modo di comportarsi, gli atteggiamenti, la significanza at-tribuita a determinati eventi, la risposta che suscitano alcuni accadimenti.

Fatta eccezione di specifiche aree oramai del tutto acculturate/denazionalizzate (anche a causa del loro ripopolamento con genti di altrisiti: è il caso delle città, spesso e volentieri riservate alla burocrazia colo-niale; oppure degli attuali siti turistici popolati per lo più da forestieri),l’ offesa tale è sentita da Nuraminis a Orgosolo, e come tale provoca lareazione tipica della vendetta. Semmai, il grado di disgregazione dellaspecifica comunità determina il tipo di gradazione della ritorsionevendettale, o anche il consenso o il dissenso ad essa. Sostanzialmente, per-tanto, è possibile proporre una assai vaga distinzione tra aree in cui lacultura autoctona opera ancora a livello collettivo, ed aree in cui – essendola comunità lacerata – si manifesta come sostrato ancestrale sul piano indi-viduale.

Per pastoralità intendiamo quei valori di autoctonia, di autodeter-minazione in parte ancora vivi nella attività pastorale, ma fino al recentepassato impregnanti anche l’attività agricola, quella artigianale ed ognialtra.

È l’orizzonte di quanti intendono la propria vita fondata essenzial-mente sul possesso del frutto del proprio lavoro e degli strumenti ad essonecessari, la padronanza vuoi degli strumenti, che della tecnica, che delprodotto del lavoro.

Questo orizzonte spirituale è alla base della concezione della vitaautodeterminata, autofondata e si concretizza, come meglio vedremo, nelpotere diffuso nel sociale, facente capo ad ogni singolo componente. Allimite la pastoralità – secondo l’accezione che noi diamo a tale termine –

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potrebbe persistere finanche dopo la scomparsa dei pastori, come tessutoculturale in grado di determinare una specifica visione della vita e deirapporti sociali. È il codice autoregolamentativo delle comunità dell’inter-no che – sopravvissuto fino ai giorni nostri – ci dice assai più di tuttol’inchiostro messo assieme che è stato versato sull’argomento, sia rispettoalla composizione sociale che sui momenti propri della civiltà sarda.

Scopriamo così che non si tratta di civiltà “pre-statale”, secondo con-cetti propri della “scienza politica positivistica-deterministica”, ma più esat-tamente di civiltà antistatale o a-statale.

Prima di tutto non vi è sostanziale differenza fra i membri della co-munità, individui o famiglie, tutti essendo posti nelle medesima condizio-ne, se non rispetto alla ricchezza sicuramente rispetto ai valori che la per-mettono. L’onore leso, l’offesa ricevuta va lavata secondo i meccanismiprevisti che neppure il più ricco, o la figura più prestigiosa del gruppopossono infrangere impunemente.

Il bestiame, ovviamente quello ovi-caprino ed anche suino in un pri-mo tempo, è il simbolo della ricchezza e del prestigio sociale; di conse-guenza su di esso si catalizza l’attenzione di tutti. Quanto più se ne possie-de tanto più prestigio sociale si ha. Esso è di proprietà del singolo, o dellasua famiglia.

Tuttavia ricchezza e prestigio non possono scadere in concentrazio-ne di potere, per cui il principio sostanziale del comunitarismo prevede laprassi della redistribuzione della ricchezza: il furto del bestiame (abigeato)è lecito, purché salvaguardi l’onore dei derubati, cioè che non rechi lorooffesa in altro modo. L’abigeato da un lato limita l’accumularsi eccessivodella ricchezza nelle mani del singolo, dall’altro – in tempi di ristrettezzaimposti dalla colonizzazione – permette la sopravvivenza anche di quantisono più sfortunati o non hanno capacità di gestione degli armenti.

Sicuramente prima che la dimidiazione assumesse consistenza per-cettibile, l’abigeato e la razzia (bardana), erano diretti esclusivamente al-l’esterno del gruppo. Tuttavia, l’esclusione dal campo del lecito del furto“operato in casa” più che su di un fattore etico è fondata su una questionedi ordine sociale più ampia: evitare che si creino in seno alla comunitàattriti dannosi che possono essere evitati indirizzando verso l’esterno letensioni esistenti; se non altro perché il furto ai danni del “vicino” (appar-tenente alla medesima comunità) può essere sempre interpretato più checome “fura” (furto), come offesa vera e propria, che in quanto tale richiederitorsione vendettale.

L’esistenza stessa di un codice atto a garantire la liceità dell’abigea-to, quindi la redistribuzione della ricchezza sociale, testimonia dell’im-possibilità della dimidiazione in seno alla collettività per motivi “interni”.

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Molti studiosi hanno confuso la figura del princep, cioè del valentecondottiero delle opere di razzia (bardanas), con quella di una sorta diprintzipale – pertanto con un compradore effettivo –, ma in verità si trattadi letture effettuate con gli schemi mentali di coloro che non concepisconoorganizzazione sociale senza potere accentrato.

Il princep, il condottiero di bardanas e delle azioni guerrigliere era –come tutti i “capi” selvaggi –, un valido organizzatore di azioni di guerra,ma fuori di quell’ambito non possedeva alcun potere d’imperio, alcunapossibilità d’imporre il proprio volere.

L’ordinamento barbaricino, così come sintetizzato ed interpretato daPigliaru, proprio perché esclude gerarchie ed ogni principio di potere ac-centrato, economico e politico, non può che essere scaturito da una culturacontro lo Stato, da una civiltà espressa da una società indivisa ed autofondatae che tale vuole restare. Se vi fosse un ente, individuo o ceto, che assommassein sé le possibilità del privilegio, la ritorsione vendettale verrebbe esclusadalle norme (sia pure non scritte) e la punizione farebbe capo non agli entioffesi, ma a tali individui o ceti privilegiati.

Tale dato di fatto chiarisce anche, secondo quanto si sa dalle fontiscritte, l’atteggiamento di Ospitone, eretto a “re” di alcune tribù barbaricinedalla fantasia ristretta dei suoi contemporanei stranieri. Ospitone avrebbedichiarato di essersi convertito al cristianesimo, ma le “sue” genti, ben alcontrario, non manifestarono affatto conversione alcuna. Ospitone, sicura-mente valida figura di resistente, non poteva che parlare di sé e per sé; secredette di rappresentare le genti di cui faceva parte, lo fece o per prendereper i fondelli i colonizzatori papalini, oppure lo fece esclusivamente pervantare un prestigio che non aveva. Nell’uno e nell’altro caso è storica-mente certo che nessun Ospitone ha mai potuto imporre la propria volontàalle popolazioni dell’interno.

Come le altre culture antistatali, anche quella sarda esclude il rap-porto comando-obbedienza ed il “capo” non è dotato di alcun effettivo po-tere per imporre a chicchessia la propria volontà, se non nello specificocampo in cui dimostra specifica competenza.

L’abigeato, e mille altri atteggiamenti, è considerato delitto esclusi-vamente nel rapporto che le genti isolane sono costrette a subire dal colo-nizzatore. ´È per il colonizzatore che rappresenta crimine da punire, fi-nanche nella maniera più brutale, considerato che le ragioni risiedono nontanto e non solo nelle disperate condizioni economiche in cui versa chi lopone in atto, quanto nell’essere prassi costante di una cultura altra, irridu-cibile all’ordine che si vuole imporre. Non a caso ancora oggi, nel 1993,vige nella Sardegna – unico caso – la legislazione sull’abigeato.

La particolare crudeltà con cui la legge giudicale puniva i “crimini”

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propri della cultura delle collettività dell’interno, lascia trasparire almenodue fatti di capitale importanza.

Primo: che le stesse genti soggette a dominio statuale (sia pure diorigine interna, Shardana per l’esattezza) non erano – come non lo sonoancora oggi – del tutto acculturate almeno rispetto ai tratti legati alla prassidella vendetta ed al modo di intendere la ricchezza sociale; infatti, se vigela legislazione contro il furto di bestiame, significa che l’abigeato è prassicorrente; se inoltre come punizione è prevista le “legge del taglione” e nonla sanatoria in “multe”, come per altri delitti, significa ancora che il feno-meno è ben radicato; il fatto poi che spagnoli e piemontesi abbiano pun-tualmente rispolverato la legislazione giudicale non può significare altrose non che il fenomeno, pure sotto il loro dominio, è assai radicato; come loè anche sotto l’imperio dello Stato italiano che mantiene in piedi una legi-slazione risalente al secolo scorso.

Secondo: che il periodo giudicale non è affatto un passo avanti versocondizioni di vita migliori per le genti isolane, dato che il sistema venneeretto non solo a scapito delle popolazioni delle città-Stato, ma finanche diquelle dell’entroterra, nel miraggio di snaturarle della loro autodetermina-zione; inoltre le leggi sulla ricettazione, dure quanto quelle sull’abigeato,lasciano intravedere come gli argini, i limes di antica data imposti fra ilcentro dell’isola e le zone costiere non fossero in realtà tenuti in grandeconto dalle popolazioni sarde, intercorrendo fra di esse perenni e maidismessi contatti di ogni genere che hanno permesso fin nelle zone di pe-renne occupazione il mantenimento di un sostrato dell’antica comune cul-tura.

Lungi dall’essere codificazione scritta degli istituti culturali dell’en-troterra, la legislazione dei Giudicati altro non fù se non il tentativo disoffocare, stavolta dall’interno, i codici comunitari, accentrando il poterenelle sole mani dei ceti privilegiati delle antiche città Shardana, costituitisiin vero e proprio Stato. L’accecamento di un occhio, il taglio di una o dientrambi le mani dell’autore del furto, non rappresentano altro che delegaallo Stato, impersonato dal Giudice, nel mantenimento dell’ordine sociale.La punizione dell’omicida da parte del Giudicato (dello Stato) altro non èche espropriazione del potere degli individui, delle famiglie, delle comu-nità, a vantaggio di un Ente che si pone fuori e al di sopra di tutti, tentandocosì per la prima volta nella storia dei sardi la realtà del rapporto coman-do-obbedienza.

Quanto vale per l’abigeato vale a maggior ragione per la prassi dellavendetta ed in genere per l’intera normativa sociale autoctona. Ciò che ècrimine per lo Stato, spesso non lo è per le genti sarde; ciò che è crimineper entrambi, per i sardi trova risoluzione attraverso un meccanismo che

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nega lo Stato e le sue leggi. Di conseguenza, seppure i colonizzatori diturno avessero posto in essere una strategia diversa nel loro impostare irapporti con le genti isolane, se avessero finanche favorito lo “sviluppo”dell’agropastorizia, con gli interventi miranti a modificare strutturalmentel’assetto della proprietà fondiaria che si è venuta evolvendo a partire daiprimi del secolo scorso, è pur sempre ipotetica la reale soluzione del pro-blema nazionale sardo.

Perché non è affatto scontato – e questi ultimi anni lo dimostrano –che ad un consistente innalzamento del tenore di vita materiale (secondo iparametri del capitale) e la trasmutazione del pastore in “imprenditore”,segua necessariamente e meccanicamente la scomparsa del sostrato cultu-rale vecchio di millenni.

Non a caso riteniamo, proprio nel momento in cui ridotti al minimosarebbero dovuti essere gli influssi della cultura originaria, che alla suavitalità attuale sia in realtà dovuta l’incredibile impennata che hanno as-sunto fenomeni storicamente riconducibili entro “la specifica criminalità”:latitanza, banditismo, sequestro di persona, estorsioni e via dicendo. A si-gnificare che, sia pure accomodati nel salotto in vera pelle, con la TV acolori davanti ed il fuoristrada nel garage, la mentalità del sardo non èancora del tutto soffocata.

Anche il fatto che, spesse volte, l’atteggiamento “bardaneri”, crimi-nale, venga visibilmente a coincidere con l’arricchimento (personale e/ofamiliare) non vuol dire assolutamente – come in troppi ormai soglionosignificare – che il fenomeno nella sua variante contemporanea abbia per-so l’antica significanza culturale, che tanti continuano ad interpretare inmodo esclusivamente romantico, secondo l’ottica del “buon selvaggio” postoin un suo ambiente fuori del tempo e dello spazio.

L’abigeato, il furto, la grassazione, l’assalto ai mezzi carichi di dana-ro, le rapine in banca ... sono azioni che mirano di per se stesse anche adincrementare la ricchezza privata, o a crearne per chi non è ha. Ma ancheil dopo lavoro, lo straordinario, l’investimento in BOT e CCT, incrementa-no o creano ricchezza. Evidentemente però non è solo questa la molla chefa scattare a così ampio raggio il fenomeno. Ciò che lo caratterizza rispettoper esempio alle medesime azioni poste in essere nella metropoli, è il fattoche emergono da un sostrato sociale caratterizzato da una vitalità propria,da un visione di vita ancora altra rispetto all’esistente, da una concezioneindividualista e collettivista che permane tuttora come possibilità reale dialternativa alla miseria materiale e spirituale imposta.

Tanto più che la avversata condizione statuale non crea e non puòcreare neppure volendolo, concrete alternative che decretino condizionisociali in cui certi valori persistano, e siano superate contemporaneamente

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le condizioni inumane che fanno degenerare in conflitti insoluti normalicontrasti che invece troverebbero rapida e sicura soluzione nell’autoctoniaautodeterminata.

Perché mai, infatti, l’ente offeso dovrebbe porre nelle mani dellajustitzia la risoluzione di una offesa subìta? Nell’atto vendettale è l’enteoffeso che deve confermare a se stesso ed agli altri la propria valenza, ilproprio ruolo nell’ordine sociale. Una simile visione della vita, non può dicerto annullarsi meccanicamente con la scomparsa di alcuni momenti ma-teriali e/o spirituali, o con l’adozione di tecniche e di strumenti nuovi perquanto estranei questi possano essere.

Si potrebbe obiettare che la vendetta, soprattutto quando esplode nelsangue, è barbara, incivile ed altre amenità. Ma, come vedremo, la legisla-zione penale dello Stato non è certo contornata da principi di nonviolenzae fratellanza. Inoltre non rende affatto giustizia all’ente offeso, chiedendo-gli in pratica di rinunciare alla propria vita.

La “specifica criminalità” sarda si riduce pertanto a quelle azioni chepur non infrangendo l’ordine sociale interno alle comunità, sono però incontrasto con l’ordine di Stato, lo negano; così come negano i suoi mecca-nismi atti a ristabilire l’ordine una volta infranto.

2.1.6 Sugli interventi dello Stato in Sardegna

La società isolana, soprattutto quella dell’interno che più ha avutopossibilità di conservare “integra” la cultura, esprime quella civiltà fuoridalla legge dello Stato, che uno studioso della tematica del banditismo haipostatizzato nel titolo della propria fortunata ed interessante opera (Al-berto Ledda: La civiltà fuorilegge). Ma l’essere, il vivere, lo svilupparsifuori, oltre la legge dello Stato non significa affatto essere fuori da ogniordinamento. Si vive semplicemente entro un ordinamento altro, ma ugual-mente valido per la convivenza sociale.

La comprensione di questo dato di fatto è propria di molti studiosidelle cose sarde ma tutti, infine (tra cui lo stesso Ledda), nelle loro conclu-sioni manifestano una qualche devianza e contraddizione rispetto agli as-sunti di base, dovute al paraocchi ideologico di ciascuno.

Tutti concordano, a conclusione delle loro analisi, sulla necessità perlo Stato – che tutti vogliono oggi democratico-repubblicano, ieri ovvia-mente di altro genere – di impostare una radicalmente diversa politicad’intervento per “risollevare” le sorti della Sardegna.

Per cui propongono, chi interventi miranti a ridurre la prepotenzadei latifondisti onde favorire il mondo pastorale; chi la costituzione delMonte Pascoli; chi l’eliminazione del fenomeno della transumanza; chi

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l’industrializzazione secondo poli di sviluppo; chi, sicuramente tra i piùsolerti in termini di sostegno al sistema dominante e pertanto alla politicadi denazionalizzazione, dagli scranni comodissimi dell’Assessorato Re-gionale all’Agricoltura, propaganda come risoluzione definitiva la distru-zione dell’intero assetto pastorale.

La trasmutazione di un problema essenzialmente politico (cioè dipotere) in questione prettamente tecnico-economica è in tal modo il puntofermo di ogni meditazione ed intervento statale.

Né le cose mutano se al posto degli intellettuali organici ai partitiitaliani, poniamo quelli organici ai partiti nostrani. A parte il ruolo di ap-pendice compradora del sistema di potere vigente che questi (in particolarmodo i vertici dei partiti incluso il P.S.d’Az.) hanno storicamente svolto,non si capisce quale radicale mutamento potrebbe verificarsi nel momentoin cui al tribunale dello Stato italiano si sostituisce il tribunale dello Statocagliaritano! Forse che muterebbero le condizioni e la struttura mentale (lacultura) che tiene in vita l’ordinamento della vendetta? Sarebbe semplice-mente travolto, distrutto.

Non si tratta, conviene rimarcarlo, neppure di rendere più “celere” egiusta la prassi della giustizia statale (sarda o italiana poco importa; laprassi della vendetta le esclude entrambe). Anche il ricorso a quelle figureche nella comunità assolvono il compito di paceri, perché altamenteprestigiose, di cui la tradizione e l’attualità traboccano, ha la funzione nondi comminare ed eseguire condanne, bensì di valutare secondo il giusto, ecome tale riconosciuto dalla comunità.

La pacificazione tra le parti, oppure la disamistade (e la consumazio-ne della eventuale vendetta) è di esclusiva competenza delle parti in causa;ovvero dell’intera comunità qualora essa si senta lesa come tale. È il casodell’uccisione del padre snaturato di Bithi, che usò prima violenza e poiuccise la propria figlioletta. Ed è anche il caso, almeno così vuole unaversione dei fatti, della tragica fine di Tandedhu, il cui atteggiamento dit-tatoriale gli costò la vita.

Il ricorso ad uno “Stato giusto”, a soluzioni economiciste e via di-scorrendo, altro non è che porre in essere misure atte a perpetrare, in ma-niera quanto più indolore possibile, l’etnocidio, poco importa se ingenua-mente oppure astutamente voluto. La reale soluzione, se problema vi è, stanel riprendersi, il sardo, come individuo e come comunità, l’autodetermi-nazione, la libertà, il potere di disporre di se stessi e del proprio territorio,liberando da fattori esterni – economici, politici nonché ideologici – lapropria forza materiale e spirituale. Autodeterminazione implicita nel no-stro codice comportamentale, nella nostra cultura, che pone il potere nonnelle mani di pochi privilegiati ma di tutti, indistintamente.

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Vero criminale è chi impedisce, rinchiude in riserve, limita, impone;non chi viene impedito, rinchiuso, limitato ed a tale condizione si ribella,secondo propri metodi e mezzi. Non sono pertanto le riforme “giuste”, lagiustizia più “giusta” che risolverebbero le sorti dell’isola, quanto il realeprocesso di liberazione nazionale e sociale.

Ci pare altresì chiaro che ogni soffocamento, ogni strumentalizza-zione della cultura degenerano in perdita di identità e quindi in perdita dipotere reale da parte dei sardi, a livello individuale e collettivo. Non a casotutti gli interventi statali, e/o delle sue appendici locali, a partire esatta-mente da quelle “radicali trasformazioni” dell’assetto economico-produtti-vo dell’agropastorizia, hanno in realtà espropriato dignità, identità, pote-re di gestione e di controllo alle genti isolane.

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2.2.0 Il banditismo

Non faremo né la cronologia storica né un’analisi complessiva delfenomeno. Ci soffermeremo su alcuni momenti salienti da cui emergeran-no chiaramente i più significativi tratti della cultura autoctona che confer-mano l’analisi fin qui avanzata. Ci è sufficiente riassumere il perché ci sidà alla macchia e al “delitto”, la consistenza del fenomeno, la strutturaorganizzativa delle bande, il sostrato culturale che sorregge le aggregazioni,l’emergere di “figure storiche” che più di altre condensano la concezioneresistenziale isolana, infine l’ambiente in cui le bande ed i singoli banditi/latitanti possono trovare relativa libertà e rispetto.

Si tratterà di una sorta di preludio alla trattazione del sistema puniti-vo applicato in Sardegna, del modo e delle finalità che caratterizzano l’in-tervento della giustizia di Stato nell’isola. Evidenzieremo in altre parole leragioni del manifestarsi della specificità dell’opposizione culturale sardaad una entità non riconosciuta. Ragioni che risiedono non nella “cattivaamministrazione” ma nella consapevolezza della propria alterità, vera mollapropulsiva che caratterizza il fenomeno.

Il banditismo, inteso nelle due accezioni di aggregazione in bande di“malfattori” , e di banditi (espulsi) dalla legge, ha attraversato la storiadella Sardegna fin dal principio della occupazione straniera. Per il periodoprecedente l’occupazione iberica, però, i documenti e le fonti sono spora-diche, per cui non vi è possibilità di una rigorosa ricostruzione delle vicen-de relative. I resoconti degli “storici”, per lo più apologeti della civiltà

Capitolo SecondoIl banditismo sardo

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coloniale, mirano non alla descrizione della struttura interna, dei motivi,dei modi di agire dei banditi, bensì all’elogio delle “meravigliose” gesta,del coraggio, dell’arditezza delle milizie dell’occupante, nonché a infiori-re fino all’assurdo periodiche quanto improbabili stragi di isolani.

Secondo qualche cronista latino, addirittura in un sol colpo sarebbe-ro stati trucidati o fatti prigionieri ben 80 mila sardi irriducibili alla ragiondi Roma. Tenuto conto del periodo (177 A.E.V.) in cui tale evento si sareb-be verificato, chiaro ci appare che una simil balla mirava a porre la “storicaimpresa” del console Tiberio Sempronio Gracco né più né meno nel mede-simo ambito delle molteplici conclamate “sconfitte definitive” della resi-stenza sarda.

Come spesso accade, a dire molto di più che tali “verità storiche” cirimangono altri documenti, nello specifico le legislazioni degli Stati: Co-dici Civili, Codici Criminali, Pregoni ecc., da cui è possibile attingere siapure indirettamente aspetti fondamentali per la comprensione dei fenome-ni esaminati.

La repressione di questo o quel “delitto”, la gravità attribuita a questoo quel fenomeno, ci mettono in condizione di comprendere l’organizzazio-ne delle bande, i rapporti fra queste e la comunità, il luogo d’azione e dipermanenza, i vincoli di varia natura che legano la società civile ed i ban-diti. Fonti preziosissime che confermano come, al di là delle contingenzestoriche determinate dal particolare infierire sulle popolazioni da parte del-l’occupante, il fenomeno del banditismo è sorretto sostanzialmente dal per-durare di tratti culturali endogeni che si manifestano attuali e propulsorifino ai giorni nostri.

2.2.1 Il banditismo fino al termine dell’occupazione spagnola

Ovviamente, così come oggi la ricchezza sociale è concentrata suprecisi beni, in passato lo era su altri, specifici dell’epoca (bestiame, oro, ecosì via). Il bandito, nel suo persistere alla macchia si riversa, per ottenerei mezzi necessari alla propria sopravvivenza, su tali beni.

Diviene bandito colui che si pone fuori dalla cerchia della legge diStato. Se la legge di Stato domina nella civile società, il bandito è costrettoad una esistenza fuori da essa: dalla propria casa, dal proprio ovile, daipropri interessi materiali ed affettivi.

Condottosi fuori dalla normale esistenza, volontariamente o perchévi è spinto dalla repressione, deve pur sopravvivere. Essendo e sentendosi,ogni individuo isolano, autofondato non si ridurrà mai – di sua spontaneavolontà – ad elemosinare per sé e per la propria famiglia i mezzi di sosten-tamento. Dal momento che la legalità gli impedisce la cura dei propri inte-

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ressi, è nella totale illegalità che si procura i mezzi di cui necessita.Anche nella latitanza, per quanto i codici comunitari gli garantisca-

no l’ospitalità ed i mezzi di sostentamento che un’infinità di amicizie glifanno avere, il bandito non rinuncia al proprio orgoglio e non rappresenta,se non in momenti veramente imprevedibili, un peso economico per chi glioffre protezione. Dignità, necessità, mentalità sono elementi che, nell’in-sieme, determinano chi si da alla macchia a prendersi il necessario.

Soprattutto oggi, necessità di costosissime difese giudiziarie, di ga-rantire i bisogni della famiglia, di mantenersi nella latitanza per mesi,anni, spesso decenni spingono il latitante all’unica strada che gli restapercorribile: consumare reati su reati.

L’epoca della dominazione iberica è caratterizzata dalla massicciapresenza di bandeados e di saltadors de camins. In genere, si dà alla mac-chia colui che, accusato dalla giustizia statale di un qualche delitto – colpe-vole o meno che sia – ad essa si sottrae stabilendosi nelle campagne.

Centinaia, in alcuni periodi migliaia di banditi abitano monti e fore-ste. Nella vita alla macchia hanno occasione, o necessità, di tessere rappor-ti gli uni con gli altri e di organizzarsi in vista di azioni comuni, nonché dirazzie di bestiame e di assalto e rapina ai danni di viandanti facoltosi. Lebande, spesso a composizione stabile, operano una strategia prettamenteguerrigliera, attuando il colpo e spostandosi velocemente da un luogo al-l’altro. Perfetti conoscitori dei territori e delle genti sanno con profittosfuggire la persecuzione, sfruttando ogni contraddizione a loro favore, comel’immunità garantita dai luoghi e dall’ospitalità propri del clero nel conte-sto rurale e, spesso, finanche dei ceti nobili.

Il banditismo di quest’epoca è talmente diffuso e numericamente con-sistente che gli iberici sono costretti ad incrementare la repressione a livel-li inauditi, fino a ricorrere alle più subdole armi miranti a snaturare ilfenomeno dal di dentro. Non solo lasciano in vigore le normative propriedella Carta de Logu, ma le integrano con las pragmaticas (leggi emanatedal sovrano) e los capitulos (leggi proposte dai tre ordini del parlamento –stamento – ed approvate dal sovrano), quindi nel disporre l’impunità (pur-ché non si sia commesso crimine di lesa maestà) per qualsiasi delitto oltread eventuale compenso e salvacondotti per altri criminali, per chiunqueuccida o catturi un bandito. Si incitano in tal modo gli appartenenti stessialle bande a consumare il tradimento.

Già in questa epoca è documentabile il fenomeno che vede darsi allamacchia migliaia di persone dei centri rurali, allo scopo di non sottostaread un regime non riconosciuto. Il fatto poi che, copiando per l’isola quantoavviene nel continente, vengano repressi il cosiddetto ozio e vagabondag-gio, alimenta enormemente le schiere di latitanti e quindi la consistenza

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delle bande, in molti non essendo disposti a fungere da servi. Soprattuttonel 1600 i bandeados esasperano il “pacifico” sistema coloniale iberico.

La banda più famosa è quella di Filippo de Campo, che gode dellavasta solidarietà della popolazione del Logudoro, nonché di una vasta retedi amicizie su un immenso territorio.

Oltre al Logudoro, le zone ospitanti le bande si estendono dal Nordpiù estremo (Gallura, Nurra, Anglona) fino alle soglie del Campidano diCagliari (Barbagie, Trexenta, Marmilla, ecc.).

I decenni a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo segnano anche l’af-fiancarsi al banditismo tradizionale di una sorta di banditismo politicodato dal contrasto fra una parte della feudalità sarda e gli interessi spagnolidella corona. Fenomeno che ritroveremo in tutto il ‘700, scaturente daicontrasti antipiemontesi della feudalità iberica o filospagnola.

Nella seconda metà del 1600, parte della feudalità sarda tenta di strap-pare più potere al sovrano, nel momento in cui la Corona richiede undonativo (prestito) di 70.000 ducati per far fronte ai suoi impegni militarinel continente. La lotta viene a concentrarsi, per vecchi rancori tra le fami-glie, tra il Marchese di Castelvì e il Vicerè Marchese di Camarassa. Nel1668 viene ucciso Don Agostino di Castelvì da sicari/funzionari del vicerè;un mese dopo la sua morte identica sorte tocca al vicerè per mano di uomi-ni della opposta famiglia. La lotta fra le fazioni del potere costituito deter-mina la fuga dall’isola di alcuni nomi della feudalità isolana, ed il darsialla latitanza di altri.

Ciò che a noi qui interessa cogliere è il fatto che pur di sconfiggere imarchesi-banditi (prima di tutti il marchese di Cea, Don Giacomo Artal,che una volta datosi alla macchia si unisce con propri fedeli a schiere dialtri banditi con i quali ingaggia guerra alla corona) il nuovo vicerè pro-mette ai banditi la completa libertà in cambio di Don Giacomo. Ovviamen-te l’offerta viene rifiutata con sdegno, ed anzi valido sostegno i latitantidanno affinché il nobile sardo sia fatto fuggire in Corsica.

In questo frangente il tradimento arriva da altri banditi, esattamenteda appartenenti alla medesima feudalità isolana i quali, col pretesto dicontare sull’appoggio di innumerevoli bande sarde pronte alla lotta controgli spagnoli, riescono a far rientrare in Sardegna il Marchese di Cea edaltri feudatari sardi riparati all’estero, quindi a farli cadere nella trappolaall’uopo preparata unitamente al vicerè.

A tradire furono i banditi Don Giacomo Alivesi e Don Gavino Delitala.A cadere sotto i colpi del loro tradimento sono il marchese Aymerich, ilCao e il Portogues (uccisi dai primi). Il marchese di Cea, consegnato alvicerè, è costretto a percorrere in lugubre corteo l’intera Sardegna fino aCagliari e qui viene decapitato nel 1671. Il corteo è preceduto dalle teste

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dei tre nobili uccisi nell’imboscata. La civile legge iberica impone che leteste dei nobili sardi siano tenute in vista, entro apposita gabbia appesa allaTorre dell’Elefante (a Cagliari), per ben 17 anni.

In questo episodio inizia ad avere un minimo di luce quell’aspettoche sarà poi più evidente nel XVIII secolo: cioè il tentativo delle fazioniche, venute a rottura col potere costituito e risultando perdenti, nella vitaalla macchia mirano a strumentalizzare per propri fini il banditismo socia-le.

2.2.2 Il banditismo nel ‘700 savoiardo

Contrariamente ai dominatori precedenti, i reali di Savoia intrapren-dono, fin dal primo giorno di occupazione dell’isola (avutala grazie al Trat-tato di Londra, nel 1720) la lotta per la sottomissione totale di essa, nonammettendo che una parte del suo territorio e della sua popolazione possa-no essere in relativa libertà.

Dal 1720 per le genti rurali sarde inizia un ciclo nuovo, decretato dalterrore delle forche, degli assassinii in massa, della perseguita sistematica-mente denazionalizzazione. La strategia etnocida, tipica del periodo in esa-me, determina un radicale mutamento nella forma del banditismo.

Fino ad allora le comunità dell’interno oltre a garantire ai banditi/latitanti solidarietà e ospitalità, godono esse stesse del controllo quasi esclu-sivo dei propri territori. In un certo qual modo sono, nel complesso, padro-ne del proprio destino, sia pure entro i limiti costituiti dalla presenza del-l’occupante. Dal 1720 i piemontesi si impongono nei villaggi con la pro-pria forza militare, i propri codici, la propria “cultura”. In tal modo soppri-mono o riducono notevolmente la di già scarsa libertà precedente; gli anti-chi limes non sono più ai margini del territorio, bensì nel bel mezzo di ognicomunità. La legge del colonizzatore non deve più essere sistematicamenterispettata solo nei Campidani e nelle Baronie, ma nelle medesime“Barbagie”.

Prassi e codici millenari di autoregolamentazione e distribuzione dellaricchezza sociale diventano in un attimo proibiti, e perseguiti in modo ilpiù sanguinario. Quanti non hanno responsabilità di famiglia si sottraggo-no alle prepotenze dei nuovi arrivati dandosi alla macchia ed accettando lostato di guerra imposto.

L’essersi spinti fino all’interno, nei villaggi più sperduti e pergiuntastabilendovisi con armi armati e funzionari, permette ai piemontesi di ri-cattare chi si è dato alla macchia tormentando i suoi familiari, i sospettatidi “connivenza”, i presunti che “sanno ma non parlano”. È l’inizio, que-sto, della rottura dell’unità delle comunità.

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La prassi del ricatto, le promesse di immunità ed impunità, spesso letaglie, il denaro offerto a traditori e delatori e spie, alla fine decretano odireciproci, lacerazioni, inimicizie, sospetti vergognosi anche tra personelegate da lunga amicizia e da vincoli parentali. I piemontesi per primimettono in pratica la strategia della disintegrazione del nemico “dall’in-terno”; non solo nei confronti delle bande di latitanti, ma delle stesse interecomunità. Ciò determina disamistades ed infine faide che incrementano ilnumero dei latitanti in misura da non credersi.

La politica di occupazione totale e di denazionalizzazione viene com-pletata con l’istituzione della “perfetta proprietà privata”, sancita da unalegislazione dilatata nell’arco di mezzo secolo, a partire dal 1820 (singolidecreti però risalgono all’inizio del medesimo secolo e prevedono specifi-che agevolazioni: rispetto alla recinzione di terreni adibiti ad uliveti, ades.).

In coincidenza di un tale sconvolgente avvenimento, le comunità ma-nifestano una crisi al proprio interno caratterizzata dalla rottura degli equi-libri fra le varie componenti. La compattezza della resistenza al processodi acculturazione risulta fortemente inclinata, anche se non distrutta. Allarottura dell’unità della risposta collettiva segue il definirsi del nuovo corsodel banditismo: quello caratterizzato dall’emergere di spiccate personalitàche catalizzano su di sé l’attenzione e delle comunità e della medesimaentità colonizzatrice.

Intorno alla metà del XVIII secolo emergono la figura e la banda diLeonardo Marcedhu, di Putzumajore. Datosi alla latitanza per un delitto“d’onore”, grazie alle sue doti di coraggio lealtà onestà ed intelligenza,catalizza attorno a sé diversi banditi. La banda lo fa suo portavoce nelmomento in cui l’autorità savoiarda, non riuscendo a sconfiggere con learmi il fenomeno, promette a Marcedhu ed agli altri capibanda, tra cuiGiovanni Fais di Kiaramonti, a cui si era unito, impunità e danari purchéabbandonino e denuncino i propri compagni di latitanza.

Marcedhu risponde a tale promessa che pur essendo la grazia gover-nativa cosa assai gradita in quanto permette il rientro/ritorno alla pacificavita familiare di persone da anni e decenni ai margini del consorzio civile,più “cara è la fede verso gli amici”. Pertanto il re deve estendere a tutti loroil condono: “o rientrerebbero tutti nelle loro case o continuerebbero insie-me quella vita di asprezza e di pericoli” (Lodho Canepa).

Purtroppo il coraggioso e leale bandito cade a sua volta nelle mani diun altro latitante (Francesco Bazzone), che non si fa scrupoli nel conse-gnarlo alle autorità in cambio di impunità e di un premio in danaro. Iltradimento inzia ad essere, più che per il passato, prassi costante che perio-dicamente mina all’interno il fenomeno.

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Anni dopo, lo stesso Giovanni Fais che si unì a Marcedhu, rimpatria-to dalla vicina Corsica su cui riparò dopo la battaglia epica a Montecuccarofra banditi e truppe regie (1745), ormai settantenne viene ucciso da altridue latitanti ai quali è promessa amnistia e premio in danaro (1774). An-che Fais, appena quindicenne, si diede alla macchia dopo aver ucciso unuomo nella piazza del paese, sottraendosi così alla legge di Stato. Parteg-giò per una delle due fazioni che a Nulvi diedero corso alla lunga faidadella nobile famiglia Delitala, che espresse anche la bellissima ed interes-santissima figura di Donna Lucia, banditessa passata alla storia per il grandecoraggio e la destrezza manifestata nell’uso delle armi e nel cavalcare,superando addirittura il più valoroso degli appartenenti all’altro sesso.

Verso la fine del ‘700, quando la occupazione savoiarda compie l’80°anno, la repressione dei moti antifeudali decreta un fuoriuscitismo politicoed il darsi alla latitanza di numerosi personaggi appartenenti agli stratisociali alti. Gli esuli, spesso nella vicina Corsica, ed i latitanti politici de-vono ben presto fraternizzare col mondo dei banditi, e con esso condivide-re se non ideali sicuramente condizioni di vita e di lotta contro il comunenemico. Tuttavia, così come avvenne per il banditismo della feudalità“antispagnola”, anche in questo caso i contatti non sono altro che un datocontingente. Gli anjoyani infatti, pur accolti fraternamente dalle bande di“fuorilegge” che agiscono tra la Sardegna e la Corsica dedicandosi in modoparticolare al contrabbando ed alla esportazione di bestiame rubato, devo-no ben presto rendersi conto che l’accoglimento è occasionale.

Non sappiamo fino a che punto possa essere accreditata l’ipotesi se-condo cui la collusione fosse vista dai banditi esclusivamente in funzionedella sicura amnistia di cui avrebbero beneficiato nel caso i repubblicanifossero davvero riusciti a sconfiggere la monarchia savoiarda. Ma una taleipotesi dà comunque il senso della distanza fra gli ideali degli uni e laconcezione degli altri. Con ciò è facile intuire che dopo il primo soffertoappoggio ai rivoluzionari, nel momento in cui questi credono di strumen-talizzarlo per propri fini, i latitanti lo tolgono definitivamente.

Pietro Mamia, che catalizza attorno a sé decine di banditi, appoggiaall’inizio l’idea di una generale sollevazione popolare che, a partire dalCapo di Sopra, getti le basi per la proclamazione dell’indipendenza. Dopoperò si sottrae a un tale impegno, sicuramente perché ha compreso fintroppo bene che il suo concetto di indipendenza è affatto diverso da quellodei repubblicani francesizzanti. Ciò dimostra che non vi è possibilità distrumentalizzazione del banditismo da parte di alcuna ideologia “alterna-tiva”.

Essendo espressione di una cultura che resiste e si manifesta validapur nel concreto rapporto determinato dalla colonizzazione, il banditismo

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non abbisogna di alcuna ideologia atta a giustificarlo, di programmi chenon gli appartengono. Semplicemente perché trova in se stesso ogni fonda-mento e giustificazione. Non è un “alternativo sistema politico” che miraad instaurare; bensì a sconfiggere, anzi a sottrarsi a, quello dominante. Perassurgere “alla dignità di forza storica” il banditismo non dovrebbe affattodivenire una componente subordinata (Pietro Marongiu) della rivoluzione“anjoyana”, né di qualsiasi altra rivoluzione a carattere partitico/ideologi-co. Bensì, esattamente il contrario, è nel suo manifestarsi stesso che assur-ge a dignità umana e politica in quanto resistenza di un popolo e di unacultura che non vuole perire sotto la sferza della colonizzazione. Ed è in sestesso che per non perire di autospossamento deve trovare oltre la resisten-za, oggi più che mai, la necessità dell’attacco contro l’occupante e tuttiquei momenti che non gli sono propri.

2.2.3 Il banditismo nell’800

Caratterizzata dai momenti messi precedentemente in risalto, la do-minazione piemontese deve infierire massimamente nel XIX secolo quan-do, con appositi atti normativi (le Leggi delle Chiudende) decreta tra il1820 ed il 1868 l’esproprio delle terre comunitarie, dei diritti ademprivilidelle collettività sulle terre comunali e feudali, insomma quando si consu-ma il massimo dei delitti ai danni delle genti sarde: l’introduzione perdecreto della perfetta proprietà capitalistica. Come è facile intuire vienestravolto l’assetto economico su cui si sostenta la specifica cultura. Ciòdetermina non solo l’incremento dei latitanti e del banditismo ma anchel’emergere dei printzipales, che parteciperanno direttamente al nuovo cor-so delle bardanas.

Al rifiuto delle popolazioni di recintare le terre comunitarie in cuitrovano per buona parte il proprio sostentamento, corrisponde l’azioneopposta dei feudatari, dei borghesi cittadini che vantano ancora interessinelle campagne, delle famiglie ricche pastorali che recintano tutto: boschi,strade, sorgenti.

Le comunità vengono espropriate della terra, dei pascoli, del dirittodi fare legna e di cacciare. Inevitabile la ribellione nei villaggi, che si sol-levano uniti dal Capo di Sopra fino agli estremi Campidani.

I grossi printzipales dell’interno, avendo costruito la propria ricchezzanon più secondo i canoni accettati dalla cultura, bensì grazie alla condivi-sione del colonizzatore, hanno definitivamente posto in essere ladimidiazione, la divisione sociale. Sicuramente individui e famiglie rino-mate e stimate, altamente valorose secondo i canoni tradizionali, sentonoora su di sé l’odio della comunità, nei confronti della quale hanno consu-

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mato il più alto tradimento. La loro ricchezza non corrisponde più allabalentìa e neppure allo sfruttamento sapiente delle conoscenze ed amicizievantate in seno ai colonizzatori: per buona parte è stata estorta con le armidello Stato alla comunità, nella quale gli stessi printzipales devono purvivere.

In queste condizioni si acuiscono le inimicizie, avanzano le vendette,nascono nuove faide. Gli omicidi intracomunitari non si contano più ecoloro che si danno alla macchia assommano a diverse migliaia. L’insoffe-renza dei printzipales è tale che pur di alleviare odio e disprezzo nei loroconfronti, sono pronti a dimostrare, armi alla mano, non solo le propriequalità di balentes, ma finanche le capacità di condottieri in quelle anticherazzie che furono le bardanas, procurando ricchezza a tutta la comunità.

Particolarmente interessante, perché possibile ricostruirne quasi tuttii momenti, è la bardana di Tortolì, ridente paesone nella costa orientale,consumata il 13 novembre 1894. La grassazione avviene ai danni del ric-chissimo cav. Vittorio Depau.

Un centinaio di uomini armati assediano l’intero paese, occupando-ne i punti strategici in modo tale che eventuali impreviste visite, in entrataed in uscita dall’abitato, siano immediatamente comunicate a quanti, inve-ce, si occupano della razzia nella casa prescelta. Uno dei servi di Depau,che si oppone armi in pugno alla rapina, viene eliminato. La stessa caser-ma dei carabinieri è circondata ed adibita per l’occasione a carcere deglistessi militari, costretti dai bardaneris a restarvi rinchiusi.

Com’è d’obbligo in casi del genere, nessuno del paese interviene perevitare la grassazione, anche se l’intero abitato è centro di una vera e pro-pria sparatoria. L’abitazione è saccheggiata; il bottino assai consistente:monete e marenghi d’oro, gioielli e posate in metallo prezioso, ecc.

Durante l’azione uno dei bardaneris viene gravemente ferito, per cuinella strada del rientro verso casa, a saccheggio terminato, muore. I com-pagni gli mozzano la testa e lo denudano, affinché non possa essere ricono-sciuto, né si possano facilmente individuare il suo ceto sociale ed il paesedi origine (ciò che potrebbe portare a scoprire anche l’identità degli altri).

Il centinaio di uomini a cavallo è sceso dai monti del nuorese verso laridente cittadina. Il cadavere decapitato del bardaneri rimasto mortalmen-te ferito porta calzini delicati e le bianche e tenere mani lasciano intendereche trattasi di persona appartenente a ceto sociale elevato. Così gli “indizi”lasciati sul terreno danno ad intendere che almeno alcuni componenti labanda appartengono al ceto dei printzipales, che dopo la grassazione han-no tranquillamente goduto della normale vita civile.

Questo fatto è confermato indirettamente dalla testimonianza di altrapersonalità che, invitata ad una festa in casa di benestanti di un paese

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dell’interno, si accorge che le posate in metallo prezioso di cui si serve perla consumazione dei pasti, sono state precedentemente rapinate in casa diun altro suo conoscente, in altro lontano paese.

A questo aspetto del banditismo, che rimanda alle antiche razzie con-tro romani, bizantini e così via, si affianca l’emergere delle più alte e rino-mate figure di banditi/latitanti che ancora oggi son rimaste vive nella me-moria di chi ha vissuto la tradizione orale come unico mezzo di trasmissio-ne della storia.

Una di queste è Giovanni Corbedhu, di Oliena, pastore.Accusato ingiustamente di abigeato si sottrae alla justitzia dandosi

alla macchia. Qui si unisce in banda ad altri latitanti ed in un agguato tesodai carabinieri, appositamente informati da un printzipale del paese, certoSaggia, perde la vita un suo carissimo amico.

La vendetta viene puntualmente consumata: Saggia è ucciso daCorbedhu in una imboscata. Della sua morte sono accusati però dueaccompagnatori dell’ucciso; per evitare che lo Stato consumi l’ennesimaingiustizia condannando due innocenti, Corbedhu, in una dichiarazionegiurata scagiona i due, attribuendosi la paternità dell’eliminazione del “tra-ditore del popolo”. Continua a vivere di abigeato ed altri “reati” restandonel contempo nell’ambito del proprio paese. Qui partecipa, “anonimamen-te” alle pubbliche feste, significando ciò l’assoluta simbiosi e simpatia conla comunità d’origine.

Epica la vendetta ai danni del maggiore dei carabinieri di Nuoro,certo Spada, che promette a Corbedhu l’assoluzione per sé ed i suoi com-pagni di macchia qualora si fossero costituiti. Se il bandito rifiuta nonsenza sdegno, forse annusando puzza d’imbroglio, altri latitanti della suabanda, sicuri della promessa di avere un processo equo, si costituiscono maal dibattimento subiscono pesantissime condanne rispetto ai reati loroascritti. Spada si manifesta soddisfatto dell’esemplarità delle pene e pub-blicamente porta vanto di aver sconfitto (!) il banditismo nell’isola.

Il 4 maggio 1887 Corbedhu assalta la diligenza che da Nuoro porta aMacomer, in cui si trova finanche il maggiore Spada. Fattolo scendere siimpossessa tranquillamente delle sue armi, quindi lo denuda completa-mente lasciandolo in balìa del pubblico disprezzo e della derisione popola-re.

Ma anche il bandito di Oliena è destinato a cadere, il 2 settembre1898, sotto i colpi dei carabinieri che gli tendono una trappola a riu deMonte, dietro delazione. Viene eliminato assieme al sedicenne FrancescoDore, con fucilate alla schiena sparate dal franco tiratore scelto AventinoMoretti, vero e proprio cecchino che troverà la morte nella zona diMorgogliai, il 9 luglio dell’anno successivo, per mani dei latitanti con i

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quali le forze armate intrattengono un’altra storica battaglia-carneficina.Mentre la giunta comunale di Oliena plaude alla vigliaccata del

cecchino, elogiandone il coraggio e la bravura, nessun olianese ritiene op-portuno rendere omaggio alla justitzia di Stato, tanto che il ProcuratoreGenerale deve pubblicamente ricordare il “vergognoso atteggiamento de-gli olianesi” (segno che si viveva per davvero assai diversamente dall’og-gi, se si pensa e si confronta tale dignitoso comportamento con quanto èaccaduto in tempi recenti, a Osposidha).

All’atto dell’eliminazione, a Corbedhu viene trovata addosso lascimitarra sottratta al maggiore Spada, portante la scritta “viva il re diSardegna” che tanto ha fatto teorizzare studiosi di banditismo sociale, po-litici e criminologi, senza che mai, tuttavia, nessuno abbia chiarito e stabi-lito se tale incisione fosse dovuta al bandito oppure al carabiniere.

Significativo, infine, il suo intervento, sicuramente richiesto da per-sone a cui non poteva negare favori, per la liberazione dell’imprenditoredel legno, il francese Regis Pral, sequestrato assieme a due suoiaccompagnatori (subito rilasciati, di cui uno sardo) nelle campagne fraAritzo e Seulo il 25 luglio 1884. L’intervento, fruttuoso, di Corbedhu solle-va lo Stato da una vergognosa vertenza internazionale e pone in evidenzache fra le diverse bande sparse per la Sardegna esistono comunque contat-ti, spesso assai stretti, basati non sulla “temibilità” di questo o quell’altrobandito – che dominerebbe in tal modo sugli altri – bensì sulla reciprocastima e, perché no, sullo scambio di favori. In quel frangente il banditoolianese, a quanto si dice, rifiuta sdegnosamente ricompense, ma malgra-do tutto non è affatto certo che alcuno abbia mai pagato il riscatto richiesto(lo fece, come è presumibile supporre, lo Stato medesimo).

Per sottrarsi alla legge, un’infinità di altri sardi, spesso ingiustamen-te accusati, dopo aver operato la vendetta così come richiesto dal propriocodice, si danno alla macchia.

È il caso di Giovanni Tolu, di Florinas, latitante dal giorno in cuitenta invano di uccidere il parroco del paese che insinua sua moglie; la sualatitanza dura circa mezzo secolo.

Così è anche per Vincenzo Fancellu, di Dorgali, noto col sopranno-me di “Berrina”, che subisce un processo in cui notevole importanza accu-satoria ha il printzipale Antonio Dore. Su quest’ultimo si riversa quinditutto l’odio del latitante, fino a che lo costringe a barricarsi in casa, impe-dendo chiunque di accudire alle sue proprietà.

Per aver ucciso in una colluttazione il presunto abigeatario che gliruba un toro, si dà alla macchia anche Giovanni Moni Godhe di Orune, nel1891, conosciuto come “Lotze”.

Michele Moro “Torracorte” e Liberato Onano condividono circa

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trent’anni di latitanza nella zona del Sarcidano e delle Barbagie di Seulo eBelvì, senza necessità di effettuare grassazioni perché contano sul pienoappoggio e protezione delle locali popolazioni.

Significativo il caso di Paolo Solinas, di Sarule, il cui padre è con-dannato a due anni di galera dietro accuse del maestro/possidente del pae-se, Antonio G. Porcu. Allo scopo di vendicare il padre, Solinas diffida icompaesani (come hanno fatto innumerevoli altri banditi) dal mandare ifiglioli a scuola e dall’accudire le proprietà del nemico.

Giovanni Serritu, di Mamoiada, dopo aver subito l’esproprio di unfazzoletto di terra per non aver pagato le tasse all’erario, si vendica controgli esattori dai quali “riscuote” gli oneri fiscali e li ridistribuisce ai piùbisognosi del paese.

Il XIX secolo si conclude assai tristemente per il banditismo isolano,che nella trappola tesagli in località Morgogliai, agro di Orgosolo, devesubire un duro colpo infertogli all’unisono da carabinieri e militari del-l’esercito, assommanti ad oltre 200 uomini.

La “Caccia grossa” (titolo di un famigerato libro dell’altrettanto fa-migerato autore, il militare Giulio Bechi che partecipò a tutte le operazionidi “pulizia” negli ultimi anni del secolo), a Morgogliai costa la vita aifratelli Elias e Giacomo Serra-Sanna, di Nuoro, a Pau ed a Virdis, mentre“Lovicu” (Giuseppe Lodho) riesce a sfuggire all’agguato.

La trappola in agro di Orgosolo fa parte di un intervento complessivoche anticipa di decenni la pratica nazista antiebrea, e decreta l’arresto e ladeportazione in massa di intere popolazioni, l’uccisione di 8 latitanti, l’ar-resto di altri 31 mentre 30 si costituiscono in seguito all’arresto-ricatto deipropri familiari.

2.2.4 Il banditismo nel XX secolo

L’intervento “civilizzatore” dello Stato italiano raggiunge l’apice allafine dell’800. Il processo repressivo, destinato comunque a fallire pur nellabrutalità dei metodi, data la consistenza sociale del banditismo, può esseremeravigliosamente riassunto nella storica notte di “San Bartolomeo” (G.Bechi), a cavallo fra il 14 ed il 15 maggio 1899, quando il capitano Petella,con schieramento militare segretamente organizzato, irrompe allo scocca-re della mezzanotte in tutti i centri del circondario di Nuoro e Otzieri,arrestando circa 500 persone fra donne, bambini, vecchi ed uomini i quali,dopo un primo concentramento in “depositi” di prigionieri, vengono de-portati nelle galere del capoluogo sardo, di Sassari e della terraferma.

Stessa civile operazione viene ripetuta la notte tra il 14 ed il 15 ago-sto del medesimo anno nei paesi della Barbagia di Seulo.

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Queste operazioni di alta civiltà, unitamente alla strage di Morgogliaichiudono in bellezza un secolo di colonizzazione e segnano l’inizio delsuccessivo, destinato come il precedente a subire medesima sorte. Vienedecretata la “definitiva sconfitta” del banditismo sardo, e all’inizio del 1900se ne fa portavoce l’allora procuratore del re in Nuoro, Efisio Marcialis.

A partire dal 1903 prende il via la faida di Orgosolo, che termineràsolo nel 1916 quando i morti da ambo le parti assommano a diverse decine.In questo specifico caso diviene evidente il ruolo giocato dalle istituzionistatali nell’acuire il contrasto, parteggiando visibilmente per una delle partiin causa e pertanto logorando entrambi nella lotta fratricida.

Il contrasto iniziale nasce per questioni legate all’eredità di DiegoMoro, frutto di una consistente bardana a quanto si dice non spartita. Lefazioni si costituiscono attorno ai nipoti del ricco scomparso: GiovanniAntonio e Angela Rosa Corraine (i Corraine) da una parte; DomenicaCorraine (in Podha) e la sorella Giovanna in Cossu (i Cossu) dall’altra.Falliti i tentativi di risolvere pacificamente i contrasti tra le due fazioni,non deve trascorrere molto tempo prima che il sangue faccia la sua com-parsa.

I Corraine (la fazione economicamente e politicamente più debole edininfluente) subiscono la morte di Carmine, figlio di Giovanni Antonio,ucciso con una fucilata dal cugino Egidio Podha. Giovanni Antonio, consi-derata l’evidenza del delitto, ma anche perché consapevole della delicatez-za del momento e della sua posizione svantaggiata, denuncia il nipote allamagistratura.

Il perché della denuncia rimane comunque ipotetico, non potendosiescludere che il padre dell’ucciso abbia fatto ricorso allo Stato allo scopo di“garantirsi” nel momento in cui porrà in atto la propria vendetta.

Malgrado le prove e l’evidenza del fatto, però, l’uccisore viene assol-to. Ciò pone in evidenza l’influenza dei Cossu che vantano anche l’appog-gio del prete don Diego, le cui amicizie spaziano ovunque. Da questo mo-mento è un susseguirsi di morti da entrambe le parti, anche se all’inizio iCorraine devono subire la peggio.

Carabinieri e magistratura fanno sempre pendere l’ago della bilanciaa favore dei Cossu, per cui alla fine i Corraine si danno alla latitanza permeglio agire nella vendetta. Alla macchia la loro debolezza politica edeconomica viene superata dall’arditezza delle azioni e dalla completa li-bertà. Sotto la spinta dei Cossu, i carabinieri allora attuano una ennesima“notte di San Bartolomeo”, stavolta a scapito dei Corraine, prorogata perben sei giorni. Nel solo primo tempo dell’operazione vengono arrestati seidonne e quindici uomini. Alla fine gli arresti ammontano a 52. I Corrainerispondono dalla macchia, tra l’altro uccidendo anche 3 ragazzi dei Cossu.

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Questi, alla fine, accettano in certo qual modo la sconfitta ed avanzanotrattative di pace, effettivamente avvenuta nel 1916 (pages de sanbene).

Contrariamente alle interpretazioni romantiche, questa ed altre do-cumentate “recenti” faide e disamistades, provano che la guerra tra fazioniavverse avviene, una volta scatenata, con pochissime regole, soprattuttoperché la costante presenza delle istituzioni statali impedisce i meccanismidell’autoregolamentazione. Inoltre le istituzioni intervengono direttamen-te fra i contendenti al fine di acutizzare i momenti degeneranti dello scon-tro.

La faida è comunque esclusivamente guerra per sconfiggere l’avver-sario, per cui ogni metodo alla fine è buono, finanche il tentativo di utiliz-zare le istituzioni.

La fine della disamistade è un atto pubblico, che viene sancito dal-l’intera collettività. Giganteschi banchetti chiudono un’epoca e ne apronouna nuova. Data la presenza dello Stato, delle sue leggi e soprattutto dellesue istituzioni civili e militari, che perseguitano i coinvolti nella faida, ègiocoforza decretare la pace alla presenza delle massime autorità locali,che di solito portano vanto di averla esse stabilita. Invero, il loro realecoinvolgimento non avviene per altri motivi se non quello di ottenere lachiusura definitiva di tutti i procedimenti giudiziari, assolvendo gli impu-tati di tutte le fazioni. Così accadde per la disamistade di Orgosolo.

Anche Onorato Succu, della fazione dei Corraine, rientra “assolto”ad Orgosolo, dopo anni alla macchia. Si unisce in matrimonio sicuro dipoter godere la vita che gli resta in relativa tranquillità. Ma l’odio deicarabinieri nei suoi confronti è tale che lo sottopongono sempre a partico-lare controllo e repressione. Tanto che, nel 1920, viene da essi accusato diaver ucciso l’appuntato Mayocca. Deve quindi darsi di nuovo alla latitan-za.

Onorato Succu è una prestigiosa figura di bandito, che riesce ad otte-nere la simpatia e l’appoggio della popolazione. Quando è alla macchia,nel corso della disamistade, la banda di cui fa parte viene in un dato fran-gente dimezzata ed in quella occasione perdono la vita suoi fratelli di san-gue. Amico di Samuele Stocchino (di Artzana, ancora oggi vivo nella me-moria dei sardi per le sue gesta e per la determinazione con cui combattè lespie) con egli condivide vita randagia ma anche coraggio, astuzia, deter-minazione ... e morte violenta per mano dei carabinieri, in seguito adelazioni.

Di Succu è interessante il fatto che, nella seconda latitanza, avendo-gli addebitato la responsabilità del sequestro di alcuni bambini (sicura-mente per il fatto che nel corso della faida di Orgosolo a lui si addebitaronole morti dei tre ragazzi della fazione dei Cossu) riesce a scrollarsi di dosso

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tale infamità scoprendo i veri responsabili e denunciandoli pubblicamente.Accrescono in tal modo la fama ed il rispetto di cui gode.

Ma l’infamia è in agguato. In agro di Mamoiada, in località sas Fossas,il 29 maggio del 1927 una spiata ai carabinieri decreta la morte di Onoratoe della sua banda. I sempre fedeli allo Stato, ora fascista, compiono lasolita efferata strage: vengono crivellati di colpi Succu e tre suoi compagniche perdono così la vita; sono invece arrestati il fratello Giovanni Antonio,Antonio Tandedhu e Agostino Mele. Il regime esulta e decreta l’ennesimasconfitta del banditismo sardo. Ma ...

2.2.5 Il banditismo del secondo dopoguerra

In tempi a noi più recenti, esattamente negli anni a cavallo tra il ’50ed il ’60 a Sedilo, paesone sito ai margini nord occidentali della Barbagiadi Ollolai, si scatena un’altra faida di gigantesche proporzioni. Stavoltaperò la causa non è una eredità, bensì pare che nasca da contrasti tra fazio-ni operanti nel medesimo territorio, su cui una vorrebbe il predominio as-soluto. La posta in gioco è il controllo del bestiame rubato, presumibilmen-te di grassazioni, rapine e anche di sequestri di persona.

La faida stavolta non termina nella page de sanbene, ma nella vitto-ria/sconfitta di una fazione: vittoria sugli avversari; sconfitta perché infineil “vincitore” viene condannato all’ergastolo, tradito anch’egli “dall’inter-no”.

Ma le figure che forse più di altre meritano una pur breve cronistoriasono Pasquale Tandedhu e Liandru, entrambi di Orgosolo.

Alla fine del 1948, appena ventiduenne, Tandedhu si dà alla macchiaperché rifiuta di mettersi a “disposizione della magistratura” che, interro-gatolo per un tentato furto, gli impone la permanente disponibilità perulteriori accertamenti.

Nel Supramonte vi sono all’epoca più di cento latitanti, per cui anchese assai giovane trova maestri adatti alla bisogna e ben presto impara aguadagnarsi da vivere.

Al Supramonte è di casa anche Giovanni Battista Liandru, rinomatopersonaggio scomparso di recente. Liandru, servo-pastore di un printzipaledi Orgosolo, viene da questi licenziato. Liandru ruba pertanto un cavalloall’ex-printzipale, cosa che gli costerà assai cara. Il proprietario riesce acatturarlo e proprio nel Supramonte lo sottopone a tortura ed a morte certalasciandolo appeso ad un alto albero per le mani. Il che però non è cosìoffensivo come l’atteggiamento successivo: non contento di aver inflittouna così pesante ritorsione all’ex-servo pastore, il printzipale lo denunciaalla magistratura per il furto del cavallo. Recidivo, Liandru viene condan-

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nato a ben otto anni di galera, da scontare in quella di Mamone. Per ilprintzipale è la condanna a morte.

Liandru riesce ad evadere e si vendica su colui che lo ha mortalmenteoffeso, uccidendolo nello stesso modo a cui egli invece scampò: il suo ne-mico viene appeso ad un albero del Supramonte e così trova la morte. PerGiovanni Battista Liandru l’atto gli vale il massimo rispetto.

Nel periodo, oltre al bestiame la ricchezza sociale inizia ad essererappresentata sempre più finanche dal denaro, che circola maggiormenteche in passato. Normale di conseguenza l’estendersi del furto anche alla“nuova” ricchezza. All’abigeato si affianca l’assalto agli autobus di linea,ma soprattutto agli automezzi che trasportano danaro, spesso rappresenta-to dalle buste-paga dei dipendenti delle imprese che operano nella zona.

A Monte Maore, il 13 agosto 1949, viene assalito un furgoncino della“Società Flumendosa”, che trasporta le buste-paga degli operai dellacostruenda diga sul fiume omonimo: 9 milioni di lire, a quanto si viene asapere. I carabinieri di scorta, anche in questo periodo fedeli al capitale eallo Stato, aprono il fuoco. Sfortunatamente per essi i banditi però nonsono sprovveduti, stavolta, per cui rispondono prontamente al fuoco. È unastrage: tre carabinieri rimangono uccisi, uno gravemente ferito, un altroperirà in seguito alla ferita riportata. Prima dell’assalto guerrigliero i ban-diti ben pensano di isolare i civili in transito, imponendo loro di starsenebuoni e quieti.

La reazione all’assalto di Monte Maore da parte dei carabinieri è,come sempre, delle più barbare: pestaggi e torture ai danni di chi cadenelle loro mani, così che possono infine fare incetta di diversi latitanti.

L’anno successivo (1950) cade nelle loro mani lo stesso Liandru, or-mai semi-cieco, stanco, distrutto dalla malattia. La sua cattura è semprestata oggetto di ipotesi, tutte più o meno plausibili. Comunque sia lo Statofa pagare a quest’uomo tutto ciò che gli fa comodo, ma Liandru, malgradol’età e le sue condizioni fisiche, manterrà sempre un atteggiamento distac-cato, negando ogni addebito. Subirà le condanne in assoluto silenzio ed ingalera farà altrettanto. Infine, graziato, potrà rivedere la libera luce delSupramonte, non prima di aver subito trent’anni di galera, da cui riuscì astrappare la sua esistenza.

Arrestato Liandru le istituzioni trovano subito chi porre, a capo delbanditismo sardo, quale suo sostituto, Pasquale Tandedhu, ispirato a quan-to si racconta dal più anziano zio Giovanni.

È evidente che in tutta la storiografia che vuole ricostruire il fenome-no vi è presente sempre il tentativo di attribuire al momento aggregativodei latitanti gli stessi metodi e le stesse norme valide nella società di Stato.Questo modo di procedere emerge nelle ricostruzioni operate sul “perso-

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naggio Tandedhu”, messo a capo di una banda gerarchicamente strutturatache avrebbe avuto in eredità da Liandru. In realtà una tale interpretazionecozza mirabilmente con la forma mentis propria di chi si è dato alla mac-chia, che esclude il volontario sottoporsi ad un comando esterno all’indivi-duo medesimo. Così tutto ciò che viene addebitato quale opera esclusiva diTandedhu deve essere in effetti inteso come opera collettiva, cui tutti han-no contribuito ciascuno nella sua specificità.

Sicuramente quest’uomo aveva doti non comuni, non escluse certemanie di accentramento di potere, e vi è come al solito colui che affermache voleva imporsi se non sul resto dei latitanti, sull’intera comunità diappartenenza. Ma la sua tragica fine è l’evidente prova che la presuntamania di cui era vittima non trovò spazio – se non nei termini di prestigio(riconoscimento della balentìa) – nell’ambiente culturale in cui viveva.

Pare che dietro ispirazione di Pasquale venga affissa, nella porta del-la chiesa di Orgosolo, quella assai nota lista dei 25 nomi corrispondenti adaltrettante spie-confidenti-delatori della justitzia. Il che, come già feceStocchino e tanti altri, significa la loro eliminazione.

Lo Stato è nemico, il nemico numero uno e qualsiasi collaborazionecon esso, da parte di chiunque, altro non è se non tradimento dei valoridella comunità, e della sua autodeterminazione. Pertanto dev’essere elimi-nato per non nuocere più.

Tra le vittime, la medesima moglie di Liandru, Madalena Soro, chepare avesse più volte manifestato il proposito di confessare alla polizia, purdi salvare il marito dall’ingiusta condanna, chi fossero i reali responsabilidei reati ascritti all’anziano latitante. Errore imperdonabile che gli costa lavita. Anche questa uccisione viene attribuita a Tandedhu, ma nulla vi è dicerto anche se, a dire il vero non si può escludere.

Pochi giorni prima dell’uccisione della Soro, esattamente il 9 settem-bre 1950, in agro di Nuoro, località Sa Ferula, vi è l’assalto ai danni di unautomezzo dell’ERLAA, l’ente americano che sperimenta nella nostra iso-la, per la prima volta su larga scala (verrà irrorato in elicottero sull’interaisola) il D.D.T. col pretesto della lotta antimalarica. Il conflitto che nesegue coi carabinieri della scorta è sanguinoso: tre di essi restano uccisi edaltri feriti.

Così come si comportano le forze militari nei confronti della popola-zione isolana, i latitanti-guerriglieri si comportano coi carabinieri. Vieneresa pariglia finanche degli sfregi che, spesso, i militari sogliono fare suicorpi dei caduti: i cadaveri dei carabinieri vengono crivellati di proiettili.Anche l’assalto di Sa Ferula viene attribuito alla “banda Tandedhu”.

Poco tempo dopo una spiata decreta la fine dello zio di Pasquale,Giovanni, e di altri latitanti. Puntualmente nuovi nomi di delatori compa-

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iono nella lista affissa alla chiesa di Orgosolo: si tratta di individui daeliminare. In 4 anni ben 30 persone vengono uccise.

Altre epiche gesta guerrigliere si contano a decine, in questo imme-diato secondo dopoguerra, con sequenza impressionante, come quella del9 maggio ’51 nei pressi di Urtzulei.

Comunque sia, l’attività di Tandedhu e la sua giovane vita sono bru-scamente interrotte da una ventagliata di mitra che quasi divide in due illatitante. Sconosciuto l’autore dell’omicidio anche se, come al solito, laversione dello Stato vuole che il famoso bandito sia stato fatto fuori dallesue forze armate. Sembra però più consona a verità la versione che lo dàgiustiziato per mani della medesima popolazione del paese d’appartenen-za, o di altri latitanti, che mal sopportavano il rigido atteggiamento e larisolutezza di Pasquale.

L’uccisione del fratello Pietro, ad egli attribuita vox populi, anche sela responsabilità di fronte alla magistratura se la prese il padre della fidan-zata, Pasquale Rubanu; il fatto che Tandedhu manifestasse prepotentemen-te il potere di vita e di morte che mai nessuno gli aveva dato né volevadargli; questi ed altri elementi propendono a pensare che l’uccisione del,per certi versi eroico, latitante sia avvenuta per mani di quanti ormai sen-tono l’esigenza di porre fine ad un uomo i cui atteggiamenti rischiano diimporsi su tutti.

La testimonianza di un pastore, l’unico in grado di sapere lo svolgi-mento delle cose nella loro verità, afferma che in seguito alla ventagliata dimitra che uccide Pasquale, non carabinieri vi sono attorno al cadavere ben-sì solo la fuggevole sagoma di uno “del posto” che s’allontana velocemen-te.

2.2.6 Abigeato furto sequestro vendetta: la costanza del fenomeno

Dal punto di vista diacronico il “banditismo” in Sardegna si presentacome costante che risale fino all’epoca della dominazione romana (IV se-colo Avanti la Nostra Era).

Fino alla dominazione spagnola era caratterizzato dal fatto che, lecomunità essendo indivise, le azioni di razzia e di attacco control’accerchiamento politico ed economico del colonizzatore avvenivano “inmassa”.

A partire dalla presenza spagnola il carattere di massa è attenuatodalla lungimirante politica di apertura dei limes imposti precedentementealle comunità, favorendo dietro ricompensa, la transumanza libera degliarmenti e lo spostamento delle genti. Questo fatto determina da un latol’arricchimento di alcuni pastori/famiglie di pastori, dall’altro l’inizio del-

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la dimidiazione delle comunità.È necessario però rammentare che non è la ricchezza per se stessa a

determinare la divisione, bensì il fatto che questa, soprattutto dopo l’occu-pazione piemontese, venga garantita dallo Stato.

La proprietà privata garantita dallo Stato (ed in parte espropriata allecomunità) è il momento che determina la reale separatezza del ricco dalresto della comunità di appartenenza, in quanto ciò che possiede non è piùsolo il frutto della propria balenthìa, bensì in parte esproprio della colletti-vità, per il resto garanzia che lo Stato offre ai privati in cambio dell’aliena-zione.

Entro un periodo durato quattro secoli circa, prende forma anche unasorta di banditismo “politico” determinato dalle lotte intestine ai vari gruppidi potere (feudatari). È possibile ipotizzare una certa connivenza, oltre cheforme di convivenza, fra il banditismo “politico” e quello resistenziale-sociale, ma in ogni caso si è trattato di rapporti marginali ed occasionali.

Fin dall’inizio della presenza piemontese (1720) il banditismo si at-tua nelle storiche bardanas, nell’abigeato, nella grassazione. Segno evi-dente vuoi della relativa autonomia delle comunità dell’entroterra, che dellanecessità per queste di saccheggiare in altri territori quanto viene ad essenegato di produrre nei propri.

L’occupazione savoiarda decreta un mutamento radicale delle cose.Le popolazioni sono assediate al loro interno per cui più che come nemichevengono trattate da criminali. La guerra non è più oltre i limes, è nel pro-prio villaggio, per la sopravvivenza fisica e culturale delle comunità, inquanto entità collettive specifiche, etniche. Le radicali “riforme” operatedai reali più pezzenti d’Europa, che stravolgono le secolari maniere divivere e concepire i rapporti interindividuali, determinano la criminaliz-zazione dell’intera Sardegna, periodicamente soggetta a sistematiche ope-razioni genocide.

Il ceto dei printzipales, ormai proprietari perfetti di terre e di armen-ti, economicamente legato allo Stato coloniale, determina la dimidiazionedefinitiva delle comunità. L’introduzione anche nell’isola di metodi, uo-mini ed attività prettamente capitalistici, amplia l’orizzonte delle possibi-lità di azioni predatorie nuove: verso la fine del XIX secolo prende via ilfenomeno “sequestro di persona a scopo di estorsione”.

Le bardanas dell’800 inoltre, sono caratterizzate rispetto al passatodal fatto che spesso vengono attuate con l’attiva partecipazione deiprintzipales, non deculturati del tutto. Sicuramente trattasi di un fenome-no nuovo, anche perché la divisione del bottino frutto delle grassazioninon avviene secondo equità, come per il passato, bensì sulla base del rap-porto di tzerakìa, esistente tra il printzipale (che organizza la bardana e

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che spesso dirige) e parte dei bardaneris, spesso legati a quello in quantosuoi servi (tzerakus). Questo fenomeno si trascina fino ai giorni nostri edecreta in un certo qual modo l’emergere della contraddizione del rapportoprintzipale-tzeraku (padrone-servo), alla base spesso di fratture per “que-stioni di mala divisione” dei frutti dell’attività “delittuosa”.

Le comunità anche dell’entroterra subiscono in tal modo la divisionesociale, cui corrisponde il nuovo corso del banditismo, la militarizzazionepermanente, l’acculturazione sempre più insinuosa. Ciò decreta l’arroccarsisul piano della resistenzialità, la riduzione della prassi dell’attacco a mo-menti contingenti per di più all’insegna dell’avvenuta dimidiazione che siripercuote su tutti i livelli.

La perenne presenza dello Stato influenza negativamente anche ilmanifestarsi di quei tratti più autoctoni non ancora scomparsi nel processodeculturante. Così, per esempio, se da un lato il modificarsi degli schiera-menti nell’ambito di una faida – cioè la modificazione della strutturacompositiva delle fazioni – è prassi costante e propria del medesimo uni-verso culturale, l’interferire dello Stato in seno a tale sviluppo ha conse-guenze disastrose, in cui i vantaggi finiscono per essere esclusivamente diquest’ultimo. La medesima cosa accade nel momento in cui una delle fa-zioni, per motivi propri, ricorre alle istituzioni nel tentativo di indebolirel’avversario, oppure nell’illusione del loro utilizzo a proprio vantaggio. Inentrambi i casi chi viene indebolito è comunque l’universo culturale sardo.Così che, nel presente storico, affermare la vitalità e l’integrità come nelpassato delle genti sarde e della loro cultura, sarebbe oltre che falso deltutto fuorviante.

Invero, oggi la criminalità sarda se da un lato si manifesta come lalegittima erede del processo di resistenza definito “banditismo”, è ancorapiù lacerata nelle sue componenti fisiche, spirituali, umane, culturali. Si-curamente perché oggi lo Stato è molto più presente di ieri e più potenterispetto ai mezzi di acculturazione e denazionalizzazione (TV, radio, gior-nali, scuole, ecc.). Ma non si tratta solo di questo.

Idealità (non in quanto tali malefiche) esterne sono piombate nel-l’isola nella loro degenerazione in ideologie, a cibarsi del banditismo edella “specifica criminalità”; e cibarsi significa alimentare se stessi, non ilcadavere da cui si trae alimento. Le ideologie hanno mirato sempre allastrumentalizzazione, a cavalcare questo come ogni altro dissenso socialediffuso contro l’ordine presente.

Oggi forse vi è la consapevolezza, in tanti di noi criminali ecriminalizzati, dei tentativi strumentalizzanti di ogni ideologia, ma spessoè assente la volontà di portare alle estreme conseguenze politiche tale con-sapevolezza, preferendo ciascuno combattere la propria battaglia isolata-

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mente, individualmente pur di non riconoscere che l’unica possibilità perevitare il genocidio o, nel migliore dei casi, l’etnocidio, è di porre a fonda-mento del nostro operare esattamente quei codici comportamentali che comepopolo e in quanto individui caratterizzati da questa nostra specificità cihanno permesso di vivere fino ad oggi, con due millenni e mezzo di domi-nio coloniale sulle spalle.

Anche lo Stato ha compreso che può vincere la battaglia continuandoa criminalizzare da una parte, e dall’altra accentuando le fratture, le divi-sioni, l’isolamento, la parcellizzazione di noi stessi in quanto entità indivi-duali ma collettivamente legate. L’uccisione, il massacro, la strage di mas-sa non è più la sola strada per con-vincere un popolo; l’emarginazione, lagalera, il confino ed infine la deportazione dei non omologati ed omologabilisono altrettanto funzionali, soprattutto in periodo di formale rispetto deidiritti “umani”.

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2.3.1 Il “crimine” in Sardegna

Dall’esame sia pure sommario del fenomeno del banditismo sardoemergono con chiarezza alcuni tratti che costituiscono sue fondamentalicaratteristiche: la vendetta, l’abigeato, la grassazione, e così via.

Possiamo ascrivere alla vendetta tutte quelle azioni poste in essere dachi si sente offeso ai danni di chi (o quanti) lo hanno offeso. Il “meccani-smo” che scatta nel momento in cui una persona (o una famiglia) si sentelesa nella propria integrità, è di lavare l’onta subìta. L’ordine infranto vie-ne ricomposto solo nella ritorsione diretta. Ciò non esclude, ovviamente,che si ricorra, in casi “dubbi” a entità riconosciute come imparziali (manon sovra-pares), allo scopo di intervenire in senso pacificatorio, oppureper confermare l’interpretazione data ai fatti.

Tali entità tuttavia si limitano a dare consigli, a valutare le cose, adesprimere giudizi assolutamente senza possibilità di imporre alcunché anessuno (anche in quanto non ne hanno la forza reale). Si tratta di perso-nalità riconosciute nell’ambito della comunità, il cui prestigio è punto diriferimento per entrambe la fazioni in lotta.

Di recente è divenuta prassi anche il ricorso alle istituzioni statali,molte volte da parte della fazione più debole, non tanto nella speranza chenon scatti il meccanismo della vendetta, quanto per garantirsi rispetto allarepressione. Non è escluso, anzi è spesso appositamente posto in essere, ilricorso alla justitzia con il fine del suo utilizzo ai danni della fazione nemi-ca.

Capitolo TerzoIl crimine di stato

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Tale “apertura” è comprensibile se pensiamo non solo alla persisten-te acculturazione, ma al fatto che oggi le vendette che terminano nellefaide vanno combattute con mezzi ed uomini le cui possibilità tecnichehanno raggiunto livelli talmente sofisticati da richiedere disponibilità eco-nomico-finanziarie e cognizioni scientifiche che non tutti possono avere.Inoltre le clientele politiche, quindi le conoscenze in alto loco (politici,giudici, ecc.), possono far pendere la bilancia della justitzia da una partedelle fazioni in guerra; il che determina anche il ricorrere ad essi primache alla prassi dell’azione diretta.

In definitiva si ricorre più spesso alle istituzioni statali in parte perconvinzione (acculturazione), in parte nell’illusione di determinarescompensi nel campo della parte avversa (ciò emerge con evidenza dallafaida di Sedilo cui accenniamo più avanti); in parte per l’impossibilitàmateriale, per le entità più deboli, di contare su mezzi ed uomini capaci dicondurre alla vittoria la lunga stagione della faida.

È evidente che, acculturazione o meno, la prassi della vendetta oggirischia comunque di degenerare più che altro per il ricorso sempre piùconsistente alle capacità altrui (sia in quanto si ricorre appunto agli appa-rati di Stato, sia perché si possiede danaro per cui si può pagare una perso-na estranea per far fuori il nemico, ecc.).

Sarebbe un errore il credere che la vendetta sfoci sempre nel sangue,nella faida. Questa è la conclusione sanguinosa di molti attriti non ricompostiin modo pacifico, ma è in ogni caso l’ultimo stadio che il codice comporta-mentale cerca di evitare graduando le ritorsioni sulla base della gravitàdell’offesa. Solo il sangue richiede vendetta con altro spargimento di san-gue. Il furto, di norma, non deve essere inteso come offesa, salvo non siaattuato in certi modi ed in determinate contingenze: ai danni di chi è im-possibilitato alla cura dei propri beni (carcerati, ecc.), ad esempio.

Fino a quando le azioni predatorie e guerriere vengono dirette fuoridalla comunità specifica in cui si vive le faide sono circoscritte, limitate,più controllate in seno al gruppo (salvo non si verifichino per altri motivi,come ad esempio accade nel rapporto di tzerakìa già esaminato).

Col manifestarsi della divisione sociale però, le azioni predatorie siverificano sempre più anche in seno alla medesima comunità, ai giorninostri soprattutto, anche per l’estendersi dei fenomeni tipici della crimina-lità metropolitana. I ceti privilegiati (kompradores) hanno sempre tentatodi riversare fuori dal villaggio le azioni predatorie (bardanas del secoloscorso) senza tuttavia riuscire a superare non solo la contraddizione socia-le ma finanche le cause del furto, spesso dettate da necessità di ristrettezzeeconomiche. La persistenza della miseria e della ricchezza non è contrastoche possa essere superato se non nella redistribuzione di quest’ultima.

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D’altra parte la miseria rompe spesso gli argini decretati dai codici.Chi nulla possiede, per sopravvivere prende ciò di cui necessita da chi lopossiede, anche se questi fa parte della stessa comunità (ad Orani vieneclassificato thitule – persona di poca valenza, miserabile – colui che, purnecessitato, invece di operare il furto nelle altre comunità lo fa nella pro-pria, ai danni dei suoi stessi paesani). Così, oggidì, non sono affatto rari ifurti, l’abigeato non solo nella medesima comunità ma addirittura ai dannidi chi poco possiede.

Ciò determina l’insorgere a catena di odi, disamistades, tensioni cheesasperando gli animi rappresentano il primo passo verso le faide. È assaifacile interpretare in condizioni di esasperazione come offese gravi quantoinvece è semplice furto. Tanto più che, essendo i legami individuali e quel-li interfamiliari assai indeboliti rispetto al passato, non è più tanto facileneppure contare, come un tempo, sulle figure dei personaggi pregni diprestigio.

Con lo Stato ormai insinuato in ogni villaggio, in ogni via a rendereassai ardua la ricomposizione del gruppo, anzi significativamenteacutizzando le tensioni ed alimentando disamistades, faide e sospetti, a chivive secondo il proprio codice altra via non rimane che quella di sottrarsiall’imperio degli organi militari e giudiziari dandosi alla latitanza. Chi siattiene ai propri codici per non sottostare all’imperio di una legge altra,diviene criminale, “bandito” in una accezione assai ampia del significato.

Anche l’abigeatario, figura valorosa per ogni sardo nonmetropolizzato, viene additato dallo Stato come delinquente, malgrado nonvia sia isolano che, almeno una volta nella sua vita (se vissuto dalla/nellacampagna) non abbia rubato una bestia.

Se fattori propri del meccanismo della faida spingono uno o più com-ponenti a darsi alla macchia anche per meglio operare nella ritorsionevendettale, se non vi fossero la repressione e la presenza costante delleistituzioni giudiziarie e militari mai nessuno si darebbe alla latitanza per-ché autore del furto di bestiame. Dato di fatto che pone in evidenza comebuona parte della criminalità sarda, è creatura dello Stato.

2.3.2 La criminalità di Stato

Un altro momento, che è necessario sottolineare, è che le istituzioni,oltre alla criminalità indiretta (di cui al precedente paragrafo) creano an-che direttamente ulteriore criminalità. L’assoluta negazione dell’alteritàfa sì che la justitzia colpisca “nel mucchio”. In questo modo “colpevoli” ed“innocenti” sono accomunati al medesimo destino della persecuzione pe-renne. Gli innocenti, al pari di coloro che hanno posto in essere le azioni

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considerate delitto dallo Stato, non possono che sottrarsi ad esso dandosialla macchia. Qui, salvo rare eccezioni, la vita dev’essere condotta da tuttialla medesima maniera: nella palese illegalità.

È indispensabile infine considerare, per le implicanze anche di carat-tere più propriamente politico, i contatti reali e sempre possibili fra il feno-meno criminale e le ragioni culturali che lo sottendono, da una parte, edall’altra le ideologie proprie di alcuni partiti politici che paiono con quel-le affini e che tentano di sussumerle smussandone i contenuti radicali.

Nello specifico sia il P.S.d’Az., sia il P.C.I. sembra abbiano esercitatosu alcune personalità un certo fascino, che i due partiti hanno poi tentato inqualche modo di utilizzare per portare ovviamente acqua al proprio muli-no di potere, facendosi portatori – dopo apposita opera di snaturamento –di alcuni contenuti che sostengono il banditismo e l’articolazione socialesarda. Tuttavia, alla fine, possibili legami ed influenze nonché ricercatesimilitudini si son concretizzate palesemente come manipolazioni effet-tuate a scopo speculativo.

Fatto è che risulta assolutamente impossibile una vera e propria sim-biosi fra le due realtà.

Il banditismo è in ultima istanza il frutto scaturente da un dato asset-to culturale nel rapporto di colonizzazione e non vuole scomparire di fron-te alla repressione imposta da una entità altra. È autofondato ed ogni pos-sibile “somiglianza” con ideologie sia pure “rivoluzionarie” è di esclusivocarattere contingente. Tanto più quando l’ideologia è emersa dal seno dellamedesima realtà a cui si oppone.

La forma di organizzazione partito, modernamente inteso come sta-bile corpus teorico e struttura di uomini gerarchicamente organizzati non èaltro che, nel suo piccolo, esattamente lo specchio fedele di quella realtàcombattuta dal banditismo, quindi precisamente l’opposto della culturache nel banditismo si esprime. Appartenere ad un partito, se pure l’ideolo-gia che lo anima può essere attraente e condivisibile a titolo personale,significa rinunciare comunque alla libertà di singolo ente, sottomettersi arapporti di obbligo e di rinuncia che annullano l’individuo, alienato al-l’ideologia. Se ciò avviene per parecchi sardi, banditi o meno, per altret-tanti scatta la molla del rifiuto, almeno fino a quando vive ed operanti sonole ragioni del persistere della propria cultura, della identità etnica ed indi-viduale.

Il bandito sardo, meno di qualsiasi altro, non potrà mai essere “orga-nico” ad un partito politico, poiché mai accetterà la disciplina che questorichiede ai suoi membri. È un’aspetto della tragedia di Tandedhu, ad esem-pio, sicuramente esaltato nello spirito e nelle gesta dall’ideologia del P.C.I.Ma il partito sempre ripudierà ogni Tandedhu, esattamente a causa della

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sua manifestata indisciplina e libertà.Nessuna ideologia potrà mai risolvere il banditismo, così come nes-

sun economicismo di maniera. La risoluzione deve essere globale, comeglobale è la questione sarda; questione di potere, quindi politica per eccel-lenza, cioè concernente la capacità di emanare le norme sociali e di farlerispettare. Il che non può avvenire se non nella piena e totale messa in attodell’autodeterminazione delle genti sarde, che hanno mantenuto vivi par-te almeno di quei momenti della propria autonomia che pongono il concre-to individuo al centro dell’universo ed i rapporti fra gli enti reali nellemani di ciascuno.

Non vi è ideologia e tantomeno partito in grado di ricomporre lagiustizia sociale che decreterà la definitiva scomparsa della “criminalità”sarda. Gli elementi esterni alla società selvaggia, materiali ed ideologici,se pure hanno oggi una qualche ragione per essere presi comunque in con-siderazione “critica”, non devono soffocare, sovrapponendosi ad essi, imomenti di autodeterminazione. Sono questi che, dall’interno, devono su-perare se stessi negli aspetti negativi e contraddittori, così come l’uomoadulto supera se stesso fanciullo senza con ciò dare vita ad un altro ente.

È questo l’immane compito della lotta di liberazione nazionale ed ètale lotta che il colonizzatore, nel processo di denazionalizzazione, accul-turazione e repressione mira a soffocare, impedendogli di svilupparsi. Aben vedere in tale processo trova apposito spazio anche l’ideologizzazionedi tutti i momenti dell’autoctonia appositamente assimilati ora a questoora a quell’altro momento che nulla di più sono se non strumenti dellaacculturazione: cristianismo, comunismo ideologico, costituzionalismo,democraticismo e via discorrendo.

2.3.3 Lotta alla criminalità: la justitzia (di Stato) in Sardegna

Affermare oggi che lo Stato italiano è incapace di cogliere l’alterità ele ragioni che la sottendono, se pure corrisponde a verità è comunque ope-razione tautologica mistificante in assoluto. In realtà più che di incapacitàdovuta ad incomprensione si tratta di impossibilità storica del potere ac-centrato (e quindi dello Stato) di accettare l’alterità, dovendo la propriaesistenza precisamente alla negazione dell’autodeterminazione, quindi allasoppressione dell’altro da sé.

Il potere accentrato deve omologare tutto a coordinate che, nella so-stanza, da esso partono e ad esso riconfluiscono. Anche quei momenti diformale riconosciuta autonomia di cui godrebbero individui e gruppi uma-ni, non sono che dipendenza a doppio filo dal centro. Non a caso la cosid-detta unità politica dello Stato è inviolabile. Al più, se ciò è più convenien-

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te, si concede una più o meno vasta “autonomia amministrativa”.Si tratta di palliativi formali che lasciano intatta la sostanza della

dipendenza/subalternità dal centro, tanto più pericolosi quanto più sonoaccettati non solo dai kompradores ma finanche da quanti sono davveroaltri rispetto all’esistente. Questo meccanismo centripeto (motropolicentrico,secondo la felice coniazione di un compagno) mirante a sopprimere l’altroda sé, scatta anche riguardo al fenomeno della lotta alla “criminalità”.

Il potere accentrato crea il crimine, e per perpetuarsi non può elimi-narlo. Il suo intervento mira però a costringerlo in precisi momenti, a sna-turarlo del suo contenuto più proprio per assimilarlo ai valori del presentestorico. Lo crea in maniere assai diverse:

a) tramite le sue leggi, che stabiliscono essere delitto anche azioniche per i più non lo sono;

b) accusando, imprigionando, additando al pubblico disprezzo, colsuo “sparare nel mucchio”, gente innocente e pertanto ponendola in condi-zioni di delinquere per poter sopravvivere alla macchia;

c) impedendo (negando loro ogni validità) ai codici di autocontrolloe di autoregolamentazione comportamentale delle specifiche comunità diesplicarsi, allargando così a dismisura la frantumazione sociale el’autospossamento;

d) intervenendo direttamente nelle contraddizioni emergenti dallasituazione di decretata illegalità dei codici comunitari, nonché con ricatti epremi garantiti a spie e traditori; continuando ad alimentare le cause didisgregazione e di guerra fratricida.

La sistematicità di tali interventi pongono in chiaro che non si trattadi possibili “errori”, bensì di razionale esplicazione del potere accentratoche mira all’etnocidio, quando il genocidio non è più compatibile con ilgalateo del mondo “civile”.

Tutte le “riforme” poste in essere, così come le “controriforme”: dal-l’istituzione della “perfetta proprietà” all’industrializzazione per poli di“sviluppo”, altro non sono che interventi mirati al raggiungimento esatta-mente di ciò che si è raggiunto. Ogni altra operazione o non avrebbe datogli stessi risultati, oppure non è stata presa in considerazione perché tem-poraneamente utopica. Basti pensare che parecchio dei cosiddetti piani dirinascita, altro non fù che quanto proposto, di volta in volta, dai massimicultori della razionalizzazione dello sfruttamento capitalistico e della pe-netrazione statale; per essere espliciti, quanto elaborarono gli allora rifor-misti “avanzati” dei partiti della sinistra storica.

Essendo tutti nell’alveo del potere, chi più chi meno non poteva cheproporre “soluzioni” alla criminalità che invero hanno mirato a distrugge-re l’autoctonia, soprattutto il potere autodeterminato della comunità:

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capitalistizzazione di momenti materiali non riducibili direttamente allalogica del mercato; smembramento delle collettività; riduzione a “necessi-tà create da bisogni materiali di sopravvivenza” di ciò che invece altro nonè che manifestazione di una cultura antagonista all’esistente basata sul-l’azione diretta, sull’autodeterminazione dei singoli e dei gruppi umani.

Per questi motivi, tutti coloro che furono, sono e saranno tra i promo-tori/fautori anche vagamente “critici” delle soluzioni colonizzatrici adot-tate – eufemisticamente definiti “piani di rinascita sarda” – devono inveroannoverarsi tra coloro che si sono resi responsabili della tragedia dellaSardegna.

Spetterà ai liberi adottare appositi “piani” di lotta contro tali vericriminali.

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Parte Terza

La Sardegna criminalizzata

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3.1.1 La giustizia romana

Non ci è dato sapere della resistenza opposta dalle città Shardana aimolteplici tentativi romani d’invasione, prima dell’occupazione di Caglia-ri. Sappiamo che dopo Cagliari cadono via via tutte le altre; la stessa Kor-nus, infine, che viene rasa al suolo.

Inizia così l’era infelice delle genti isolane che, direttamente o indi-rettamente, devono subire storia di massacri e schiavitù, tuttavia conser-vando viva, se non integra, almeno la dignità di popolo autodeterminato,con quel senso autoctono della giustizia che verrà d’ora in poi ad essereloro sempre negato.

Lo negano i romani, che di giustizia applicano la loro: quella apposi-tamente elaborata per i più fervidi nemici del barbaro impero.

Riteniamo che le città Shardana, pur se federate fra loro, non potes-sero competere per mare e per terra, a lungo andare, con la straordinariaforza militare della gigantesca macchina imperiale romana, disponente diuomini e mezzi, soprattutto di finanze estorte ad una miriade di altri popo-li. Tuttavia non dovette essere estranea alla sconfitta la divisone internadella società cittadina isolana, lacerata in signori, liberi e servi, che co-munque si dica frantuma in rivoli semisterili l’immane forza dell’unitàcollettiva.

Cadute le città marinare, i loro antichi traffici e le altre attività ven-gono poste in mano ai discendenti dei “figli della lupa”. Ma la conquista diun territorio e del suo popolo non è affatto completa con la semplice occu-

Capitolo PrimoLa repressione di stato

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pazione di una parte delle terre. In Sardegna si instaura invero un rapportodi forza che tanto costa ai sardi ma che altrettanto costa ai colonizzatori, senon altro in consumo di energie per tenere l’isola perennemente sotto lasferza di un contingente di armati, che secondo alcuni storici non è inferio-re alle 20-25 mila unità. Non disperse/distribuite in tutta la Sardegna, sibadi bene, ma concentrate nelle città e nel loro immediato entroterra, terri-tori sicuramente i più fertili per lo sfruttamento agricolo considerato cheassumono ben presto il ruolo di uno dei grandi granai di Roma.

Giustizia e codici romani nell’isola sono queste decine di migliaia diarmati che costringono in schiavitù quanti, cittadini e non, sono impeditinella fuga verso i barbari montes. Le città non completamente rase al suo-lo diventano decentramenti amministrativi e politici dell’impero. Le cam-pagne sono militarizzate permanentemente, allo scopo di difenderle dagliattacchi dei Pelliti liberi.

Anche gli agglomerati urbani, in complesso, ancora dopo secoli nonsono affatto amici dei figli di lupa. Alla schiavitù i sardi rispondono conl’ostilità, con la fuga, con gli attacchi. Non è un caso che, allo scopo diripopolare la parte dell’isola occupata, i romani effettuano periodicamentedeportazioni massicce di genti di ogni dove, che vengono poi a costituire laforzalavoro necessaria per la produzione cerearicola e per lo sfruttamentodelle altre risorse fatte confluire nella capitale imperiale.

D’altra parte, che giustizia potrebbe mai essere quella sancita dalleXII tavole dei romani, pergiunta valida solo per i riconosciuti “cittadini”?Giustizia del taglione, decretata da magistrati e da birri eseguita, sia purecamuffata sotto le vesti della democrazia repubblicana. Quella, per inten-derci, che da un canto stabiliva:

Chiunque rechi danno a parte del corpo di una persona ... saràpunito con danno uguale a quello commesso. (Tavola VIII)

Sicuramente in un secondo tempo, quando il potere del patriziato èormai dominante e gli stessi schiavi sono merce pregiata, si affianca allalegge del taglione quella della ... multa; ovviamente per quanti possonopagarla.

Chiunque con la mano o col bastone rompa un osso ad altrapersona, sarà condannato a pagare una multa di 300 assi; se ilcolpito è uno schiavo, la multa sarà di 150 assi.

Curiosa e tragica la sorte dei debitori – ed è facile intuire il loro ceto– che non possono onorare il dovuto. Se dopo alcuni tentativi, nessuno

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garantisce il pagamento del debito, il creditore può tenere il debitore “le-gato a ceppo di peso non inferiore alle 15 libbre” per 60 giorni; dopo diche, se ancora insolvibile, deve essere “tagliato a pezzi. Se i pezzi sarannopiù o meno grandi non importerà” (Tav. III).

Per equità, la giustizia romana stabilisce che ogni “pezzo” del di-sgraziato vada in mano a ciascun creditore, fortunatamente senza stabilirela proporzionalità fra il credito vantato ed il pezzo ricevuto.

Che dire inoltre quando la civiltà latina sancisce, in codice di Stato,la facoltà del padre di vendere quali schiavi i propri figlioli per ben trevolte, prima che possano essergli sottratti dal barbaro imperio (Tav. IV)?

Inutile ricordare la condizione legale della donna, schiava del padre,poi del marito, poi dei fratelli e nel caso venissero a mancare tutti costoro,schiava di chiunque altro purché di sesso maschile?

I sardi ridotti ovviamente nella stragrande maggioranza dei casi abarbari, se liberi, a schiavi, se “civilizzati”, si vedono le proprie membravalutate appena la metà di quelle dei cittadini della lupa; perché solo incasi contingenti sono valutati “cittadini” dell’impero.

Vedremo nel successivo capitolo che tanta della giustizia romana verràfatta propria dallo Stato Giudicale; a significare che, qualunque veste in-dossi il potere accentrato, per le comunità sarde nulla muta.

In tale infinita inciviltà, agli isolani altro non rimane che tacere,meditando vendetta e fuga verso i propri montes, da cui dare vita a quellaforma di guerriglia ed alle azioni predatrici (bardanas) che, se non altro,limitano i danni del furto delle risorse operato dagli occupanti.

Inutile e pesante sarebbe in questa sede elencare tutte le operazioni di“alta civiltà” imperiale operate in Sardegna, soprattutto sul piano dellagiustizia. E che altro può apportare quel potere la cui barbarie arriva a talpunto di degenerazione da fare pubblico spettacolo dello scannarsi a vicen-da e del dare in pasto alle belve inferocite dalla fame esseri umani indifesi?

Per quanto concerne i nostri avi, oltre all’appellativo di barbari, diladruncoli mastrucati (così il savio Cicerone), Livio li appella: «sardi davendere», onorando quel Tiberio che ottiene “tra le altre cose il Trionfoper la quantità numerosa di schiavi che seco trasse il vincitore” dallaSardegna (Manno).

Tralasciamo l’elenco delle stragi che, se per davvero ed in tali pro-porzioni perpetrate, secondo i cronisti romani o latinizzati, avrebbero sicu-ramente almeno dieci volte desertificato l’isola. Ci sembra indispensabileinvece ricordare che la Sardegna, in periodo imperiale, poi vandalico edinfine bizantino, diviene sistematicamente terra di deportazione di cristia-ni, di pagani, di “eretici” che a troppe vengono fatti approdare nelle coste,a portare ciascuno la sua fede nel riscatto e nella resurrezione ... in altro

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vissuto, oltre il terreno, e la sopportazione stoica di ogni tormento inflittoin questa vita.

Sicuramente le ingenti schiere di schiavi, ora cristiani “puri” ora ere-tici (a seconda di chi li valutava), costituiscono quelle forti braccia e, alme-no in parte, quelle docili creature acculturate alla romanità ed al dominioche riempiono periodicamente i granai di Roma, fino ad essere necessariocostruirne di nuovi per contenere tutto il frumento rapinato all’isola. Non èinsensato credere che, nel corso dei secoli, il perseverare di questi schiavinella propria fede, nonostante le persecuzioni, finanche il loro sottrarsialla schiavitù per raggiungere i liberi “barbari” delle zone interne, abbianogettato i semi vuoi della cristianizzazione – sia pure con mille ed un conte-nuto pagani – vuoi della latinizzazione linguistica dei sardi Pelliti.

Ai romani seguono i Vandali, nel 455 della nostra era. Il loro domi-nio non è diverso da quello precedente. Nota ricordarlo sia per la deporta-zione di un’intera comunità di Mauritani (i Maurredhinus, che poi si stabi-liscono liberi nella zona del Sulcis), sia per essersi cimentati nella rapinadelle risorse e delle terre di già occupate dai romani, senza peraltro modi-ficare alcunché.

Dopo appena (!) 50 anni di presenza vandalica, inizia l’occupazionebizantina, a dire il vero assai poco radicata. Questa si caratterizza per laparticolare struttura burocratica, civile, militare e per la pesante presenzaanche degli impiegati alla contabilità finanziaria che, secondo i disegnidell’assai distante corte imperiale, eviterebbero lo “sperpero” delle ricchezzeestorte in colonia, nel passaggio dalla Sardegna a Bisanzio!

Le schiere imperiali di impiegati e di armati, nella lontana coloniadell’estremo Mediterraneo, mai rinunciano di loro spontanea volontà nonsolo ad estorcere i propri stipendi legali ed illegali, ma neppure a spedirealla corte i tributi dovuti. In quale maniera ci dicono le fonti storiche, mi-rabilmente riassunte da Carta Raspi:

Difficilmente l’ingente somma necessaria per pagare gli stipendia tutti i funzionari e agli impiegati di rango inferiore ... e piùancora dell’esercito, poteva essere raggiunta da tributi regolariimposti agli abitanti dell’isola, o, per meglio dire, a quelli sotto-posti all’azione fiscale ... Conosciamo però di quali metodi siservisse il fisco bizantino ... In questo, sì, aveva ereditato dalgoverno romano ... angherie di ogni genere che gli agenti fiscaliimponevano ai soggetti affidati alle loro cure; l’intervento dellostesso Giustiniano per combattere le vessazioni dimostra come ilmale fosse radicato profondamente ... I governatori provincialitaglieggiavano le popolazioni senza misericordia ... vendevano

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la giustizia a chi meglio pagava ... trovavano man forte nei militiper costringere le popolazioni al pagamento delle molteplici im-poste dirette e indirette ... [infatti] Al fianco dell’amministrazio-ne civile vi era quella militare ...

A conclusione della breve attenzione rivolta alla “giustizia” bizanti-na non possiamo non fare almeno un cenno a due avvenimenti di impor-tanza storica. Il primo è relativo alla trattativa di pace intercorsa fra legenti barbaricine ed i colonizzatori, verso la fine del VI secolo. Ciò dimo-stra l’irriducibilità delle prime ed il perenne conflitto in corso. Il secondo èrelativo alla lettera del papa Gregorio Magno ad uno dei supposti capibarbaricini, Ospitone, in cui esorta quest’ultimo a cristianizzare le “sue”genti, troppo aduse ai riti pagani.

Questa fonte, l’unica sicura in mezzo a secoli di quasi assoluto silen-zio, è stata interpretata dagli storici come il primo passo verso lacristianizzazione delle Barbagie. Ma più che fatto certo è ipotesi poco cre-dibile.

Prima di tutto perché Ospitone, per capo che sia, lo è sicuramente diuna sola tribù, al massimo è “portavoce” di qualche sorta di confederazio-ne di villaggi, non dei barbaricini, come si è voluto leggere.

In secondo luogo, al pari di tutti i capi selvaggi, non ha potere diimporre alcunché a nessuno: è un semplice bon’omine, nulla di più. Infattiin tempi successivi, altri papi monsignori vescovi e prelati vari hanno re-clamato per la paganità delle genti dell’interno, che evidentemente se nesono strafottute dei presunti comandi del loro presunto capo cristianizzato,Ospitone.

In ogni caso il processo di penetrazione del cristianesimo, nel VIsecolo, è di già in fase avanzata, iniziato sicuramente dalle ampie schieredei deportati. Ciò non esclude, come si può documentare in tutte le sagre diogni nostro paese, che la nuova ideologia, lungi dallo far scomparire i ritie le credenze autoctone, ad esse si sovrappone, spesso impossessandosene,ma senza riuscire mai a decretarne la morte.

Per cui è più realistico credere che Bonifacio non voglia affatto, inquella sua lettera, dolersi del naturale sincretismo dei riti religiosi, masfruttare a suo profitto, niente affatto spirituale, la conversione di Ospito-ne. La Chiesa contava in Sardegna immense ricchezze estorte alle popola-zioni fin dall’Editto di Milano. Terra di martirio e deportazione di santi,santoni, santini e papi, nel momento in cui Costantino pone in mani catto-liche la riorganizzazione dell’impero, ben si capisce lo scempio operatodai cristiani, novelli burocrati dello Stato nell’isola. Accaparrano ricchez-ze immense che dopo il breve periodo di presenza vandalica ritengono di

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proprietà della Chiesa. Non a caso il patrimonio di questa nell’ultimo peri-odo Giudicale è incommensurabile.

Così il Gregorio poco santo e molto pratico di cose terrene, temendola perdita delle ricchezze qualora l’isola cada in mano ai barbaricini – datala fragilità e la imminente dissoluzione dell’impero di Bisanzio –, sapendodella conversione di uno stimato capo selvaggio tenta di strumentalizzarlo,trattandolo con reverenza e “stima”, come si trattasse di un vero e propriocapo di Stato.

Non ci è dato sapere degli ulteriori avvicendamenti di Ospitone, nése sia andato a finire dalla parte del papa. Certo è, invece, che nonostanteil frenetico costruire di chiese, il processo di cristianizzazione dell’isola,nell’epoca, non ha avuto brusche accelerate, soprattutto non ha affatto de-cretato la resa delle genti dell’interno.

È certo anche che la brutalità con cui i prelati amministrano i benidella chiesa, il barbaro trattamento che riservano ai propri schiavi, donatiad essa o catturati direttamente, incutono in Gregorio Magno la convinzio-ne matematica che i Pelliti, se vittoriosi nei confronti dell’occupante, nonavrebbero di certo riservato ai possedimenti cattolici nell’isola sorte mi-gliore di quella degli altri colonizzatori.

3.1.2 La giustizia in periodo Giudicale

A partire dai primi anni del secolo VIII la presenza bizantina, se pureancora se ne può parlare, è del tutto ininfluente, fino a che scompare com-pletamente. L’isola si libera anche degli ultimi suoi coloni.

Il declino del vecchio mondo, con le sue inaudite vicende di barbarieè ormai cosa certa, decretato dalla stessa sua terribile evoluzione. Per isardi, distanti dalla terraferma e pertanto franchi da nefaste influenze sipresenta l’occasione di ricominciare daccapo. Su quali basi? Esattamentesu quelle che i romani secoli addietro avevano cercato di distruggere.

Le genti mai dimenticarono, nella loro triste sorte che le tormentòper un millennio, la libertà originaria. D’altro canto, a moltitudini rifugia-tesi in quelli “insani montes” che le orde romane non riuscirono a penetra-re, e qui unendosi ai preesistenti abitatori che mai abbandonarono al pro-prio destino il resto dell’isola, hanno potuto mantenere le autoctone formedi vita e di convivenza sociale.

Così, nell’esatto momento in cui in Europa la millantata civiltà cat-tolico-romana si abbrutisce ulteriormente nell’invasione delle orde barba-riche, i sardi si riprendono la loro terra integralmente.

Non vi sono fonti (o almeno non sono state ancora storicamente esa-minate) per stabilire con esattezza cosa accade nei secoli dall’ VIII al XII.

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Tuttavia è possibile tracciare a grandi linee gli avvenimenti.Si rimette in piedi il sistema sociale preesistente: da un lato l’orga-

nizzazione delle città-Stato Shardana e dall’altro quella delle comunitàdell’interno. Stavolta però più amalgamate che nell’antichità. Ricompaionoil Giudice, i Maggiorenti, i bonos omines, oltre alla Corona (il Consigliodella comunità), più o meno interagenti.

Ciò che stupisce è che – nel momento in cui parlano le fonti dirette,risalenti alla fine dell’XI secolo – la Sardegna si presenta suddivisa inquattro Giudicati, veri e propri Stati moderni per certi versi ancora in em-brione. Le collettività dell’interno mantengono i propri istituti di autode-terminazione, ma sono minacciate dall’opera di svuotamento progressivodi cui diremo appresso. Il che parrebbe contrastare la tesi da noi fin quisostenuta, circa l’antistatalismo della cultura isolana. Tuttavia anche que-sto fatto è spiegabile, e semmai viene a sostegno del nostro modo di inten-dere le cose, soprattutto circa la costituzione del potere accentrato comeprogressivo esproprio del potere diffuso nel sociale.

Per secoli le genti isolane restano separate dal resto del continente(VIII-XI secolo). Pertanto possono autogestire la propria vita esclusiva-mente basandosi sui valori tradizionali e ... tenendo conto delle continueaggressioni degli arabi che sul finire del VI secolo hanno di già conquista-to l’Africa del nord e parte della penisola Iberica. Non si tratta – comeavverrà in seguito – di semplici razzie limitate alle zone costiere. Al con-trario, sono vere e proprie spedizioni miranti a conquistare l’isola al fine dioccuparla perennemente. La Sardegna, una volta assoggettata verrebbe acostituire nella strategia di conquista araba dell’intero continente, una so-lida base, tanto più che in Spagna l’invasione ha trovato un rigido argine.

Nel 710 vi è il primo tentativo arabo di occupare l’isola; in seguitosarà un continuo ritentare. Il Mediterraneo a quei tempi è in mano aimusulmani e nessuna potenza è in grado di contrastarli. Ai sardi non restache trasformarsi in popolo perennemente in armi per scongiurare il perico-lo di nuove occupazioni. È quanto può constatare il geografo arabo Edrisi,riportato da Carta Raspi, che afferma sulla base dei riscontri della sua gen-te in Sardegna: “i sardi sono gente valorosa, che non lascia mai l’arme”.

Dopo numerose sconfitte gli arabi si rendono conto dell’impossibili-tà di assoggettare l’isola, per cui mutano radicalmente strategia: sbarcanosulle coste all’improvviso, assaltano i villaggi immediatamente a portatadi mano, fanno razzia di tutto che, senza spingersi oltre, stivano nelle navi,poi scompaiono in mare. È questa la ragione per cui gli isolani son costret-ti perennemente in armi, pronti a respingere gli invasori che, da un mo-mento all’altro possono arrischiarsi a penetrare nell’interno.

È la condizione che determina anche la stabilità della funzione di

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capo di guerra del bono omine (lo “jus dicis”). Inoltre i villaggi hannodato vita ad una sorta di rete confederale per meglio disporre la difesa intutta l’isola.

Sia pure lentamente, per avere a tempo indeterminato l’ufficio dicapo militare, il jus dicis finisce per acquisire definitivamente tale incari-co, momento essenziale per crearsi vuoi un sostrato economico grazie aidonativi delle comunità, vuoi un necessario stuolo di armati permanenti aisuoi ordini (vero e proprio apparato burocratico-militare).

Fino all’anno Mille è assodato che il potere non è ancora concentratonelle sue mani. Ciò emerge dal fatto che l’amministrazione della giustizianon riguarda il contenuto penale, essendo questo regolato secondo la pras-si della vendetta. Infatti i Giudici (a cui compete l’amministrazione dellagiustizia nella Corona de Logu, cioè il Giudicato), i Mayores de Villa (iGiudici della Corona della Villa) i Curatori (i Giudici della Corona diCuratoria, divisione amministrativa del Giudicato) “dirigevano il proces-so ma non giudicavano” (Carta Raspi). Il verdetto è dato dal collegio deibonos omines.

In questa prima fase le Corti di Giustizia giudicano esclusivamentesu controversie relative al diritto privato – come diremmo oggi – e più chemirare alla condanna, in verità cercano la conciliazione delle parti. Sel’accordo non è possibile la Corte costringe il soccombente a risarcire laparte lesa della cosa danneggiata o sottratta. Si può già qui notare il primoparziale esproprio dell’autodeterminazione individuale da parte del colle-gio dei bonos omines, che hanno non solo la funzione di esprimere pareri,ma anche il potere di emettere vere e proprie sentenze, nonché di imporrein certo qual modo il verdetto a scapito della parte uscita perdente dal“processo”.

La fase successiva vedrà il Giudice non solo portavoce della sentenzadella Corona, ma egli medesimo giudicante. Compito e potere del Giudicenon son più limitati a dirimere controversie di carattere civile-privato, bensìa reprimere il “ crimine” comminando sentenze penali vere e proprie, quin-di a porre in essere la punizione.

Non è possibile stabilire fino a che punto una tale strutturazione dellagiustizia sia in questa fase ramificata nel territorio. È presumibile però cheessa sia più accentuata nella città e nelle zone ad essa più prossime, mentrein quelle più interne sia meno accentuata, semplicemente perché la città èla sede dello Stato giudicale. Senza alcun dubbio, però, il Giudicato tendea trasformare i bonos omines in funzionari Statali. Fin da questo stadiosono evidenti la sperequazione economica e una sostanziale divisione so-ciale, in misura maggiore in prossimità delle città capoluogo del Giudica-to.

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È la prima fase dell’organizzazione statuale.Al vertice del Giudicato (su Logu) vi è il Giudice, cui fa capo il potere

civile (di rappresentanza dell’intero logu) e militare (capo di guerra) en-trambi delegati alla burocrazia che via via si ramificherà sempre più. Alsuo fianco, in tutti gli atti da esso compiuti, siede un secondo Giudice, unasorta di controllore degli atti e delle azioni poste in essere dal primo, alloscopo di garantire il suo conformarsi alla volontà di “su Logu”. I Mayorales(sorta di consiglieri sul piano politico amministrativo), cioè i Maggiorenti,ricoprono le cariche più alte della burocrazia amministrativa; il Giudiceagisce con il loro consenso. I liveros, o liberos (cittadini liberi) occupanosolo in parte incarichi burocratici minori. Infine vi sono i servi, che rap-presentano la stragrande maggioranza della popolazione.

I bonos omines dei villaggi, cui fanno capo le diverse funzioni giudi-ziarie ed amministrative, appartengono a tutti i ceti, anche a quello deiservi. I Mayorales (al cui ceto appartiene il Giudice) anche se cadono nellamiseria più assoluta, non possono mai ridursi allo stato di servaggio. AllaCorona de Logu (l’assemblea generale dei “delegati” di tutta la popolazio-ne del Giudicato) partecipano anche i servi.

La proprietà delle risorse: terre, fiumi, sorgenti, miniere, stagni, sali-ne, ecc. dovette essere originariamente collettiva; ciò che è provato, indi-rettamente, dal modo in cui si costituisce in seguito la proprietà deiMayorales, del Giudice, della Chiesa e degli altri ceti. Il processo di nasci-ta di tali proprietà avviene “senza dubbio per sekatura de rennu, e cioèconcesse staccandole (sekare = segare, tagliare ecc.)” dalla proprietà col-lettiva (Carta Raspi). È opportuno tentare di ricostruire il modo in cuipresumibilmente si verifica la sekatura de rennu.

I Mayorales, in origine, altri non potevano essere che i bonos ominesche ogni comunità esprime. Il perenne stato di guerra decretato dai tentati-vi di conquista degli arabi impone la costanza dell’esercizio delle armi eduna rete organizzativa in grado di attuare una strategia di difesa su tuttal’isola. È probabile che la rete organizzativa confluisca verso le città co-stiere (Cagliari, Oristano, Olbia, Sassari), siti più soggetti agli attacchi delnemico. I bonos omines della città, e i numerosi altri a stretto contatto conessi, sono perennemente impegnati nel disporre una valida e sicura difesa.Inoltre vi è necessità di una struttura militare – esercito permanente – im-mediatamente disponibile, ai loro ordini. La collettività si addossa il so-stentamento degli uni e degli altri.

Ma se la truppa può essere costituita semplicemente dalla rotazionedei guerrieri, non così accade per la struttura nelle cui mani ricade il com-pito dell’organizzazione strategica generale dei bonos omines. Nasce lanecessità di garantire collettivamente il sostentamento de sos bonos omines

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e delle loro famiglie. Nelle comunità pastorali tutti gli uomini accudisco-no, a rotazione, gli armenti del bono omine. In un momento successivodev’essere parso assai più razionale adibire un salto in cui pascere le suegreggi. Qui, con turni di ore o di giornate di lavoro, gli uomini non impe-gnati nell’uso delle armi, accudiscono gli armenti e si dedicano a coltivaregli interessi dei bonos omines.

Con il trascorrere del tempo, un arco di ben tre secoli, sia il salto(parte del territorio di una comunità) che la prestazione d’opera diventanoprassi comune tanto che alla fine vengono intesi quali diritti acquisiti. D’al-tro canto non è neppure possibile supporre che senza una qualche necessitàvitale la collettività rinunci alla proprietà collettiva della terra ed alla pras-si della redistribuzione della ricchezza. Inoltre una tale ipotesi dà contofinanche della particolarità del regime di servaggio del periodo Giudicale.

La condizione dei servi è affatto dissimile da quella dei servi dellagleba del sistema feudale europeo; sono “cittadini” liberi e possono riscat-tare la loro condizione; infine sono completamente slegati, senza vincolicioè, dal fondo (proprietà) in cui svolgono la loro opera. Il servaggio è dinatura esclusivamente economica (debito di lavoro, diremmo oggi): i servidevono prestare tot ore o giornate di lavoro nella terra del Giudicato, delGiudice, della Chiesa, dei Mayorales e finanche dei liberos (o liveros). Laservitù non va oltre questa prestazione. Si tratta, invero, di servo-colliberto,per cui è ignorato il “possesso” di esso materialmente inteso.

“La persona fisica non era asservita; anzi era completamente libe-ra”. (Carta Raspi)

La prestazione di lavoro è ripartita secondo un massimo di giornatemensili: può trattarsi di servu integru (alla lettera “servo integrale”, cherisulta debitore del massimo delle giornate previste, stabilite in 16 al mese);servu latu (dal latino latus = ladus in sardo = la metà del massimo dellegiornate mensili di debito, 8 giorni); servu de pede (un piede = unu pede,cioè un quarto, 4 giornate mensili di lavoro). Tale misura, è evidente, vienestabilita in riferimento a come si suole valutare la bestia (in latino pecus =in sardo pegus = pecunia/moneta/unità di misura negli scambi). Ciò dimo-stra come l’orizzonte di valutazione delle cose sia tipico della cultura pa-storale sarda.

Il massimo di 16 giorni al mese di debito è rispettato anche se il servodeve prestarle a più persone. Solo nell’ultimo periodo Giudicale, con l’in-fluenza nefasta della politica dello Stato e del sistema statale anche conti-nentale, la realtà sarda sarà sempre più infeudata, fino ad esserla del tuttoa partire dalla occupazione iberica.

Col trascorrere dei decenni, dei secoli, la originaria indivisione per-viene alla dimidiazione. I Mayorales trasformano la momentanea conces-

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sione delle terre in proprietà privata. Esattamente come accade per gli ar-menti. Infine la proprietà si trasferisce di padre in figlio, permanendo an-che sotto forma di debito la prestazione del lavoro servile.

Anche se il Giudice e i Mayorales hanno le rispettive proprietà bendistinte da quelle del Giudicato, il sempre maggiore potere dell’uno e deglialtri decreta il privilegio di effettuare donazioni a manca e a dritta, ovvia-mente a scapito della proprietà collettiva rimanente. Accade così l’irrepa-rabile, nonostante le comunità frappongano argini alla potenza Giudicale.Nel XIII-XIV secolo l’esproprio del potere comunitario è lapalissiano. IlGiudice è ormai un vero e proprio Principe, il Giudicato una Signoria.

A portare a compimento il processo contribuisce la necessità di cer-care alleati nella difesa contro i mai cessati tentativi arabi. A chi rivolger-si? Non ai

pontefici cui non tornava mai il conto fra il miglio e le castagne,non all’imperatore ed ai suoi lurchi non ancora usciti dalle tane,non alle navi di Pisa e di Genova che se ne stavano chiuse neiloro porti, tantomeno ai marchesi ed ai conti e visconti pisani elunigiani che dalle loro capanne non erano ancora saliti ai ca-stelli. (Carta Raspi)

Non restano che i Franchi, di già alleati con i Corsi per far frontecomune contro gli insistenti arabi. Così nell’815 delegazioni dei quattroGiudicati rompono l’accerchiamento e l’isolamento recandosi in Francia.Da quell’anno in poi è un susseguirsi di dannazioni che decretano il sem-pre maggiore interesse per l’isola da parte prima del papato (che alla fine,tra le altre cose, vanta finanche il pieno diritto sulla Sardegna), quindi deivari mercanti attratti dalle ricchezze sarde, infine di casate più o menoprincipesche e marinare che accentuano pure i conflitti fra le diverse fami-glie di Mayorales che vantano ormai un patrimonio ed un potere inestima-bili (e che a più d’uno fa gola impossessarsene).

In questa bolgia di interessi i Giudici elargiscono a piene mani ilpatrimonio collettivo a Chiese e conventi, e richiedono a più riprese l’invionell’isola di “letterati” frati, da adibire a scribacchini di latino nelle cortiGiudicali, incrementando in tal modo la burocrazia statale e la sua poten-za, sempre più coincidente con quella dei Mayorales.

Giudice e mayorales intrattengono sempre meno matrimoni fra diloro preferendo le dame delle aristocrazie pisana e genovese che – soprat-tutto l’aristocrazia pisana – finiscono per rappresentare vere e proprie po-tenze straniere che ributtano l’isola nelle condizioni dei secoli di domina-zione romana.

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Mano a mano che la situazione evolve in tal senso, le popolazionisempre più espropriate si ritirano in se stesse, fino a restringersi nuova-mente in quelli insani montes di latina memoria, i cui confini stavolta siestendono fino alle soglie della città. Chi resta sotto l’influenza del Giudi-cato deve sottostare ad un destino che si vuole dimenticato: quello dellaschiavitù.

«Nel breve giro di pochi decenni, troviamo stabiliti nel Logudoro iDoria e i Malaspina, in Cagliari i Massa e i Donoratico; nell’Arborea iBasso; in Gallura i Visconti». (Carta Raspi)

Verso la fine del XIII secolo, invece,

... di tutta l’isola almeno la metà era in mano ai Pisani: gli anti-chi Giudicati di Cagliari e di Gallura, varie terre del Logudoro ealcune dell’Arborea, che garantivano a Pisa un reddito di circa100.000 fiorini all’anno». «A titolo di curiosità ricordiamo cheun fiorino corrispondeva grosso modo al guadagno settimanaled’un artigiano. (G. Todde)

Ma non è ancora tutto; mancano coloro che nell’immediato futurosaranno i reali padroni della Sardegna: gli Spagnoli e la Chiesa.

Alla fine dell’XI secolo le ricchezze della Chiesa nell’isola sono inpratica incalcolabili. Alla fine del XII secolo i monasteri sono i più grossiproprietari di terre, di servi e di bestiame, assieme a pochi maggiorenti chehanno conservato intatto il loro patrimonio (Pais Serra). E vediamo qual’èla giustizia dei pisani in terra sarda.

Prima di tutto è vietato ai sardi il pernottamento nel “castello” diCagliari (cioè nella città) e precise disposizioni legislative proibiscono gliufficiali di pranzare con gli isolani. Le amorevoli cure riservate alle popo-lazioni sono di tal tenore che lo stesso vescovo di Civita (Olbia) si «lamen-tava che i villaggi della sua diocesi avevano subito un notevole calo dipopolazione perché molti abitanti, non essendo in grado di far fronte alleimposizioni [fiscali], erano fuggiti [alla macchia] ... ». (G. Todde)

Lo stesso studioso riporta quanto annota Clemente Lupi in proposito:

La guarnigione pisana era di stipendiati tanto oltremontani [cioèneppure peninsulari] che italiani ... Ufficiali del Comune nel-l’isola (tutti pisani salvo poche eccezioni) ... Malgoverno: incet-ta frumento (tutto portato a Cagliari e di là a Pisa), in Sardegnanon ne rimaneva, vessazioni alle persone sarde, estorsioni. Daidocumenti nostri si fa evidente che i sardi non dovettero nullatemere l’invasione aragonese ...

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Quando arrivano gli Aragonesi, espellono senz’altro dal “castello” diCagliari i Pisani, ma il posto di questi non è certo preso dai sardi bensìdalla migliore “crema” dei Catalani, Aragonesi, Valenziani e Maiorchini.Gli Iberici vengono in Sardegna nel secondo decennio del XIV secolo,invitati dal Giudice d’Arborea, Ugone II, dietro promessa di“incoronamento” dell’isola. A tal punto arriva la degenerazione di quantisono ancora oggi valutati i “difensori” della libertà sarda, e del loro siste-ma! Ma ne vedremo di peggio e ne parleremo più avanti.

Ora dedichiamo un po’ d’attenzione a quell’altra potenza che nel-l’isola avrebbe determinato vera libertà e vera giustizia: la Chiesa cattolicaapostolica romana, che a partire dall’anno Mille – grazie alla “lungimi-rante” politica dei Giudici e dei Mayorales – si ramifica in tutta l’isolasottoponendola alla “vera civiltà”.

La varietà di monaci benedettini chiamati in terra sarda dai nostranicapi di Stato è assai ricca: Vittorini, Lerinensi, Cassinesi, Camaldolesi,Vallombrosani e infine Cistercensi. “Ufficialmente” – cioè quanto vienefatto credere alle popolazioni sulle cui spalle poi ricadono – l’orda di santipadri dovrebbe occuparsi di cultura e della rinascita dell’agricoltura, il cuiabbandono è in parte dovuto alla monocoltura imposta dai romani, in partealla fuga delle genti decretata dalla politica repressiva Giudicale. In realtàben altri sono i motivi della loro calata.

Ricordiamo di sfuggita che fino al 1080 la Chiesa, nella nostra isola,non possiede più nulla, le sue proprietà essendo state redistribuite alla col-lettività a cui le aveva estorte in epoca imperiale. Solo per intercessione deiGiudici vengono fatti prima dei donativi al papato in conto crociate anti-infedeli, che putacaso si trasformano in tributi annuali. In seguito i donati-vi per sekatura de rennu si fanno più consistenti, via via che degeneral’operato del sistema Giudicale in Stato vero e proprio.

All’inizio del

1200 la Sardegna contava, all’incirca, una cinquantina di mona-steri benedettini, tra maggiori e minori, nonché un numero anco-ra vistoso di chiese proprietarie di ricche aziende agrarie ... Era-no, nell’isola, vere e proprie baronie ecclesiastiche ... veri e pro-pri feudi, comprendenti numerose ville e parrocchie, con una im-ponente massa di servi con le loro famiglie». (F. Cherchi Paba)

La proprietà del monastero di S. Maria di Bonarcado, tanto per farequalche esempio, consiste in una estensione superiore ai 30 mila ettari,con tutto ciò che vi è dentro: cose, case, villaggi, animali ed uomini. Quella

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di S. Nicolò di Trullas era di 20 mila ettari.Contrariamente ai miserabili sardi, tutti i monasteri hanno quote di

proprietà nelle saline ed inoltre vantano diritti annuali di pesca negli sta-gni. Considerata la nomea di monasteri, che si vorrebbe poveri o comun-que costituiti da miseri lasciti dei credenti, è opportuno precisare che inSardegna così non è mai stato. Vi è senz’altro qualche donazione di poveristraccioni, ma è cosa risibile in confronto alle donazioni fatte dai Mayoralesed ancor più dai Giudici (i quali, per intenderci, non donano certo le loroprivate proprietà).

Così se il nobile Murtinu dona al Monastero di Bonarcado 800 peco-re, 30 vacche, 200 capre ecc. ecc.; il Giudice di Torres dona ad altro mona-stero 10.000 pecore, 500 vacche, 2.000 porci, 1.000 capre ... oltre a sconfi-nate estensioni di terre. Ma è un’inezia anche questo donativo, se confron-tato con quello che Costantino Giudice d’Arborea fa, ancora al monasterodi Bonarcado, nei primi anni del 1200: tutto ciò che era stato delle chiesegreco-bizantine, con “masones d’omnia sinnu de grussu e minudu”; qual-cosa di incommensurabile, di cui non è possibile fare neppure oggi l’elen-co, per approssimativo che sia.

Per avere un’idea della ricchezza monacale basti pensare che uno deimonasteri pisani che ha proprietà nella nostra terra, di dimensioni assaipiccine a dire il vero, solo dagli affitti riscuote annualmente 200 fiorinid’oro.

Monaci e papato navigano nell’oro. Ma sono poi essi dediti alla curadella mastodontica ricchezza, in regime di vita claustrale e parsimoniosacome si addice ai papalini? Assolutamente no! I santi padri, nel loro per-manere in Sardegna sono sempre occupati a diffondere la “cultura”scribacchina del Giudicato a peso d’oro; che costa un occhio di dio (CartaRaspi) ai miserabili abitanti, tanto da rappresentare una vera e proprialucrosa attività svolta all’ombra dell’altare e dello Stato in regime di asso-luto monopolio. Anche perché i Giudici, col fine confessato di magnificarela ricchezza dei loro Stati, hanno reso obbligatoria ogni prassi burocraticacon l’uso del paperi bullatu (carta bollata), e pertanto redatta come si con-viene ai “civili” , ricorrendo agli unici scribi dell’epoca: i frati.

Terminata l’opera civilizzatrice di scribacchini a peso d’oro, i santipadri non si dedicano di certo alla attività agropastorale, bensì si trastulla-no in partite di caccia, grossa e minuta, nonché in odisseici banchetti edorge cui partecipano, debitamente selezionati tra i Mayorales, gli indigeni.

Nonostante tutto questo daffare, i frati trovano il tempo di dedicarsianche all’amministrazione della giustizia nei propri possedimenti. Ed inciò si distinguono perdavvero come sinceri cristiani. Sentiamo ancoraCherchi Paba, che riassume quanta bontà emani dai bordelli infernali dei

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monaci:

A servizio di queste grandiose baronie ecclesiastiche erano i co-siddetti quadrupedia [cioè i servi integrus]... La bassa, inumanaconsiderazione che si aveva da parte dei monaci di questa umile,derelitta umanità, ci è data dagli stessi condaghi [resoconti dellavita non solo amministrativa nei possedimenti monacali] dove,specie in quello di Trullas, i figli piccoli delle serve-schiave ven-gono chiamati “fedu”, dal latino dispregiativo “foedus”, che inSardegna si usa oggi, come ieri, per il nato da bestia. Può illettore immaginare quali angherie, torture morali ed anche fisi-che subissero detti servi-schiavi che, spesso si ribellavano e fug-givano cercando pietà e libertà ad un tempo, ma invano perché,ripresi, venivano sottoposti a giudizio e legati nuovamente alleloro pesanti catene dalle Corone giudicali, di curatoria o DeLogu.«Né per essi vi era possibilità di scampo, a giudicare dalle sen-tenze riportate da certe schede dei condaghi: possibios ut servianta Sancta Maria de Bonarcatu, et filios suos, et nepotes nepotorumsuorum usque in sempiternu.

La giustizia monacale prevede, tra le altre gioie terrene, che il servopossa essere fustigato, strozzato, impiccato, molto probabilmente anchemarchiato col fuoco (Cherchi Paba).

La barbarie non ha limiti, per questi santi padri. Allo sposo, liberu,che voglia in sposa una serva, si impone di essere a sua volta sottoposto aservitù; pena il rifiuto del matrimonio.

Pur di ottenere quanto desiderano non si fanno scrupoli nel mentire,ordire, servirsi di falsi testimoni; così che possono ridurre a serva certaMaria Capra, strappandola alla libertà ed al proprio marito.

Il martirio viene a cessare nel momento in cui, per cause dipendentida fattori economici propri della città-metropoli, Pisa “libera” i servischiavizzati. In tale contesto, circa 40.000 di essi scappano letteralmentedalle baronie monacali, rifiutando ogni forma di lavoro “libero” alle di-pendenze degli infernali tonacati. Tanto che da questo momento la finedella ricchezza dei monasteri è decretata dalla mancanza di manodopera.Ed i santi padri non si ingegnano di certo a rimboccarsi le maniche!

Ma se i sardi si liberano da una forma di schiavitù, un’altra ancorapeggiore li attende: quella tutta laica posta in essere, stavolta per iscritto,dai propri capi di Stato. Già da tempo questi cercavano in ogni modo ilsostegno della Chiesa al loro potere, tanto che hanno pure concesso ad essa

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in esclusiva l’acqua delle sorgenti naturali, vietandone così l’uso alle po-polazioni. Ancora nel 1321, a “liberazione” avvenuta, i Giudici sardi per-mettono al papato di fare mercato dei servi schiavi, né più né meno comegli altari e le bestie. Così, Fra’ Severino del monastero di Solio, può dare inaffitto a Federico de Campo, di Bonifacio, unitamente a Chiesa ed altari,anche ancelle e schiavi (Cherchi Paba).

Nonostante tutto, non ci è possibile perché contrasterebbe con i datidi fatto, affermare come si tende a fare, che il degenerare dei Giudicati inSignorie semifeudali sia dovuto esclusivamente a sos ki benin’ dae su mare(a quanti vengono dal mare). È ipotesi tendente ad accreditare la tesi della“purezza”, della giustizia, della libertà che sarebbe propria dello Stato tut-to sardo.

L’accentramento progressivo del potere, in verità, è processo di giàin atto nel momento in cui parlano le fonti storiche. E lo Stato sardo nonpotrebbe essere diverso da ogni altro. I contatti col papato, come anche conpisani, genovesi, iberici e francesi avviene tra corti sovrane, tra Principi equelli sardi non sono a meno degli altri. Inoltre tutti i sistemi delle città-Stato dell’antichità hanno degenerato in tirannia; così è avvenuto per iGiudicati nostrani.

Il fatto che nei Giudicati siano incorporati i territori dell’interno del-l’isola ci fa propendere per la tesi di Carta Raspi, che vuole le comunitàdell’entroterra soggette al loro sistema politico. Diversi Giudici sarebberodi origine barbaricina e ciò non può che significare il coinvolgimento di-retto almeno dei ceti che si sono separati da quelle comunità (sos meres).Nel momento in cui il processo di esproprio del potere di autodetermina-zione individuale e collettivo avanza inesorabilmente però, avviene la rot-tura tra il Giudicato e l’entroterra. Il mondo della “pastoralità” si ritrae insé stesso, opponendosi alla degenerazione politico-economica ed alla spre-giudicatezza giudicale degli intrighi e delle alleanze, atti a determinarel’emergere della Signoria vera e propria.

Quando il sovrano iberico, dopo oltre un secolo di cruente lotte, rie-sce ad occupare l’isola, gli istituti Giudicali, per unanime consenso deglistorici hanno di già operato il parziale esproprio delle comunità e l’accen-tramento in Stato.

Nel momento in cui ci parlano le fonti storiche, il Giudice non è piùil capo selvaggio, né il bono omine, ha il potere politico effettivo che sub-delega ad una stabile burocrazia di maggiorenti, accomunati da un unicointeresse materiale e spirituale: mantenere ed estendere i propri privilegidi classe. Ed è esattamente per contrasti dovuti alla spartizione del potereche si sviluppano in seno al ceto dominante le lotte tra famiglie.

Formalmente resta in piedi l’istituto della democrazia che, tramite

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delegati della collettività (bonos omines) esprimono via via le Corona deVilla, de Curatoria, de Logu. Ma la politica dei Giudici crea una fitta retedi intrighi, di interessi tali che alla fine Bonifacio VIII, precisamente nel1297 proclama Giacomo II d’Aragona legittimo possessore della nostraterra. Pur tralasciando ogni diatriba su di un tale “diritto” del papa sullaSardegna, è necessario ricordare che fin dai secoli precedenti i Giudiciisolani accordano al papa, per ingraziarselo in vista di formali investiture,un volontario tributo, che poi per volontà “divina” diventa annuale, crean-do uno stramaledetto precedente storico a scapito delle popolazioni, senzache per altro queste ne abbiano in qualche modo avuto un minimo di bene-ficio. Salvo che tale non voglia intendersi l’opera di eccelsa civiltà mate-riale e spirituale dei monaci, cui abbiamo già accennato.

Poi ci sono i donativi che, strappati alle sarde genti dal GiudiceMariano, vanno in sostegno alle crociate a seguito della intercorsa corri-spondenza tra questi e Caterina da Siena. Che prò possono averne le popo-lazioni sarde a cui il nome del santo sepolcro da riconquistare non diceassolutamente nulla di nulla?

Infine, logico corollario di tutta la vicenda che puntualizza da cheparte realmente stanno Giudici e Mayorales, non bisogna dimenticare ilriconoscimento di Pietro II d’Arborea, avvenuto il 3 aprile del 1237 aBonarcado, del supremo dominio della Chiesa romana sopra il suo Giudi-cato, “prestando giuramento di fedeltà e vassallaggio nelle mani di Ales-sandro, legato pontificio inviato espressamente in Sardegna da GregorioIX” (Cherchi Paba). Tale investitura – sia detto tra parentesi – costa alleplebi sarde il censo annuo di 1.100 bisonti d’oro da versare alla poco spiri-tuale cassa apostolica. Inoltre, decedendo il Giudice senza prole legittima,il regno – viene statuito – deve finire in mani al papato!!!

Possiamo immaginare lo scompiglio che tutti questi intrighi di pa-lazzo decretano nelle masse. Ad evidenziare ancor più la degenerazionedell’antica forma di potere cittadino, compaiono negli ultimi secoli di vitagiudicale i codici scritti, che vogliono sancire il definitivo esproprio delpotere sociale. Qui la giustizia raggiunge il suo apice, tanto che la famige-rata Carta de Logu, emanata sul finire del XIV secolo da Eleonora giudicessad’Arborea, dai colonizzatori spagnoli prima e piemontesi dopo non solonon viene modificata ma addirittura estesa a tutta la Sardegna, lasciandolain vigore per ben quattro secoli e mezzo. Non certo per la presunta “altaciviltà” che emanerebbe e “l’alto senso di giustizia” che da più parti leviene attribuito; quanto perché neppure la più infernale mente al serviziodel potere costituito di allora ne ha potuto escogitare di ancor più barbaraper tenere aggiogate al bestiale sfruttamento le sarde plebi.

Non a caso! La Carta de Logu è la razionale sintesi della “scienza”

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del dominio dei maggiorenti genovesi, della foga di potere della casatadegli Arborea, della diabolica potenza materiale e spirituale del papato edinfine della più raffinata efferatezza della corte aragonese-catalana, a cuiattinsero in abbondanza non solo il padre ma tutta la famiglia della sconsi-derata giudicessa.

Al padre di Eleonora d’Arborea spetta la responsabilità dell’emana-zione della precedente Carta Rurale che in certo qual modo mira a ricon-durre alla ragione dello Stato la ribellione delle genti isolane ridotte allavergognosa e miserabile condizione di dover abbandonare la coltura agra-ria a causa della politica compradora del giudicato. È a questo periodo eda tali condizioni che risale la rottura dei vecchi vincoli di solidarietà comu-nitaria: la contrapposizione fra pastori e contadini che perdura in certamisura anche oggi.

Così, sia per salvaguardare il minimo di produzione colturale ancorapraticata, sia per incrementarla, sia per ricondurre a ragione l’atteggia-mento centrifugo delle genti pastorali, al bestiame – secondo la Carta Ru-rale – è fatto divieto di transito, e non solo di pascolo, nelle zone adibite acoltura. L’agricoltore deve, dal canto suo recintare il podere con siepe ofossato e qualora qualche bestia sconfini nel fondo, può sopprimerla adde-bitando poi il danno al proprietario. Viene altresì fatto obbligo di denunciaalla burocrazia di Stato del pur minimo sconfinamento del bestiame; aquanti si esonerano da tale obbligo vengono comminate salate multe.

Ciò non può non determinare odi, vendette, faide. Naturalmente lepene per i contravventori sono “ben umane”: fustigazione, mutilazione,accecamento, morte cruenta come precisiamo più avanti.

Quel che è più barbaro – e che nessun’altro potere costituito, a quan-to ci è dato sapere, ha mai posto in essere così sistematicamente – è l’isti-tuto dell’inkarriga, cioè l’addebitare non più solo al Curatore ma all’interovillaggio, danni e multe qualora non venga scoperto e consegnato alla giu-stizia il cosiddetto criminale. Secondo gli emanatori, l’applicazione dellalegge dev’essere inesorabile, e tale è!

Inizia una nuova tragedia, che apprendiamo dalla Carta de Logu,frutto della insana mens accecata dal potere dei principi d’Arborea, piissi-mi e coltissimi per i più, famigerati semplicemente per le genti che nesostengono tutto il peso. Anche uno dei più grandi apologeti dei Giudicid’Oristano (o d’Arborea, che infine sono la medesima cosa), il Carta Raspipiù volte da noi citato, non può esimersi dal confermare (sia pure dubbio-samente) la triste condizione in cui versano i sardi sotto la sferza del Giu-dicato.

Attraverso la legislazione dei tre Giudici [Mariano, Ugone ed

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Eleonora] si ha quasi l’impressione di assistere al dilagare dellacriminalità, coi reati di sangue, le rapine, i venefici, per nonparlare della violenza, dei furti e dell’immoralità; e nello stessotempo le leggi e le ordinanze che via via, come argini, vengonoelevati, sempre più alti ... Con le pene sempre più severe, più cheintimorire si vuole atterrire, con la mutilazione delle membra euna morte atroce, oltre alla confisca dei beni».

Appare chiaro che la terribile condanna se da un canto serve a “sosmalos” (i “delinquenti”) da “pena e terrori”, dall’altro mira ad essere “deexemplu at assos ateros” (esempio per gli altri).

La politica dei Giudici ed il loro accanimento contro le popolazionirurali soprattutto, non viene meno neppure quando, nel corso delle trattati-ve per la pace fra Eleonora ed il sovrano aragonese, vengono “convocate”dalla giudicessa le “popolazioni “ delle città e delle ville, per sottoscrivereil trattato. Qui Carta Raspi non fa che contraddirsi; da un lato perché ritie-ne ancora operanti le “strutture assembleari” delle comunità, dall’altro per-ché le svuota, a seconda della convenienza, di ogni contenuto e potere.

In tal modo, durante il giudicato di Ugone è sicuro di ritrovare un’as-semblea di popolo (ad Oristano) riunita per decidere sulle trattative in cor-so tra il giudice ed il fratello del sovrano di Francia, Luigi d’Anjou. Asostegno della sua incredibile tesi, riporta le annotazioni di viaggio di unodegli ambasciatori Franchi. Il quale a dire il vero fa la cronistoria di unaconvocazione dei cittadini, a cui assiste direttamente, ove il principearborense a mezzo della bocca del vescovo di Ales rende edotti i proprisudditi della sua baldanzosa potenza e del proprio modo di operare, finan-che con i reali di Francia qualora questi vengano meno alla parola data.Ma non si tratta di assemblea, come appare agli occhi del nostro CartaRaspi, ma di semplici bandi giudicali, in cui viene ripetuto continuamenteai sudditi, fatti appositamente convenire: “Udite e giudicate”!

In tale frangente ai sudditi non viene affatto data opportunità di valu-tare collettivamente, di approvare oppure disapprovare quanto stabilito dalPrincipe. Se ciò fosse accaduto, in pieno 1378, possiamo essere certi che icronisti ambasciatori del sovrano francese l’avrebbero annotato di sicuro,essendo l’assemblea di popolo decisionale luogo politico scomparso ormaida diversi secoli in tutto il mondo allora conosciuto.

Pur interpretando tale convocatoria (che possiamo con più realismoconsiderare comizio di un dittatore) come fosse una assemblea popolarecon potere decisionale, lo stesso autore esaminando un fenomeno simile diappena dieci anni successivo, assicura i propri lettori che si tratta di una“montatura” appositamente orchestrata. È, quest’ultimo, il caso della con-

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vocazione delle comunità sarde per decidere sul Trattato fra Eleonora ed ilsovrano aragonese nel 1388. Secondo Carta Raspi tale assemblea sarebbefasulla (!) e per buona parte le genti non sarebbero in grado di comprende-re quel che fanno (per un apologeta dello Stato sardo e della democrazianon c’è che dire!).

A dimostrazione della sua tesi afferma:

Non priva di significato è pure l’assenza tra i partecipanti alleassemblee, ... dei maggiorenti, ... Molti dei nuovi cognomi cheora compaiono tradiscono inoltre la condizione sociale:mercantucci ... agricoltori, salariati, “pastori di bestiame”, tuttagente sollecitata in vario modo dai potestà e dai sindaci i qualierano stati nominati dalla cancelleria giudicale ...

Ora, o l’istituto della democrazia è in vigore, oppure non lo è. I fau-tori della prima ipotesi debbono essere conseguenti oppure non ha sensoalcuno la loro presa di posizione. Non è possibile affermare, per un trattatodi capitale importanza come quello con gli iberici, che i convocati nonerano in grado di comprendere. Se poi si afferma che le assemblee eranouna semplice montatura, beh! inutile insistere sulla tesi della democraziain vigore ...

Fatto è che ormai da qualche secolo la “gente adunata” (soprattutto iceti sociali che l’autore di cui sopra sembra portare in spregio) non contapiù nulla, se non in quanto forza da sfruttare. La “Carta de Logu” – ilcodice di Stato sardo per eccellenza – è la prova più evidente della nostraasserzione. Il potere civile e penale è tolto dalle mani dei diretti interessatied anche le storiche figure dei bonos omines vengono ridotte al rango diappendici del potere giudicale nella comunità. Lo Stato li trasforma in suoifunzionari, i più infimi; se ne serve adibendoli a quelle funzioni che piùritiene opportuno allo scopo di non inimicarsi le comunità che li esprimo-no.

Il Codice tutto sardo mira a gestire e regolare i momenti della vitaeconomica e sociale di assoluta rilevanza: dissesto dell’agricoltura; il dila-gare delle grassazioni; la prassi della vendetta; l’abigeato; il furto; ecc.Momenti contrastanti le esigenze del potere accentrato e del privilegio eco-nomico.

La repressione brutale si erge ormai, superandolo ed annullandolo,su ogni intervento pacificatorio tra le parti in causa. In mezzo all’umanitàferita a morte da cicliche pestilenze, da guerre perenni fra maggiorentisardi, pisani, genovesi, catalani, aragonesi e papalini, dall’ingordigia diun potere ormai senza fondo che spreme tributi su tributi, l’ultimo dei

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giudici isolani porta a compimento l’infame tragedia ai danni del suo po-polo, non volendo rinunciare neppure in tale frangente alla propria vanitàdi sovrano sui sardi. Le tristi sorti decretate sugli isolani dalla stupidaingordigia e dai fasti degli antichi giudici, vengono ricambiate con impic-cagioni e torture, squartamenti ed accecamenti nonché mutilazioni di ognigenere, in modo sistematico.

Solo grazie alla ormai quasi bimillenaria resistenza le popolazioni ela cultura potevano uscire quasi indenni, in ogni caso vive, da simile ma-cello.

CARTA DE LOGU,A LAUDE DE JESU CHRISTU

I. Se persona dovesse offendere la famiglia reale [giudica-le], o ciò consentisse: «depiat esser posta supra unu carru, edattanaggiada per tottu sa terra nostra de Aristanis, e posca sideppiat dughiri attanaggiandolla infini assa furca, ed innies’infurchit» (dev’essere caricata su di un carro ed attanagliata,percorrendo tutto il territorio del regno poi, condotta alla forca,qui attanagliata e quindi impiccata).

II. Se persona dovesse mai togliere alla famiglia reale: «ter-ra, over castellu ... deppiat esser istraxinada a choa de cavalluper tota sa terra nostra d’Aristanis e posca infini a sa furca, edinnie s’infurchit ch’indi morgiat, ed issos benis suos siantappropiados a su rennu» (terre o castelli ... dev’essere legata adun cavallo e trascinata per tutto il regno, così portata alla forca equi impiccata fino a causarne la morte; i suoi beni devono essereincamerati in quelli del regno).

III. Se: «persona occhirit homini ... siat illi segada sa testain su logu dessa justicia» (persona uccide altra persona ... vengaad essa mozzata la testa nell’apposito Logu della giustizia).

Se poi, quanti fossero per disgrazia in compagnia dell’omi-cida non si presentassero a testimoniare «ch’issos siant punidos,e condennados a morti» (che siano puniti [cioè sottoposti a tortu-ra] quindi condannati a morte).

V. Chi somministrasse veleno a persona: «siat infurcadu»(sia impiccato); se la persona avvelenata non dovesse morirne, altentato omicida «siat illi segada sa manu destra» (gli venga moz-zata la mano destra).

VI. In questo ed altri Capidulos della Carta de Logu, per laprima volta nella storia è codificata l’espulsione (bandire) dalRennu dell’omicida: “isbandidu dae sas terras nostras”. Ovvia-

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mente i suoi beni vengono annessi a quelli del regno.IX. Per il feritore si comminano grosse multe (come per

tutto il resto, d’altra parte) e, qualora non le pagasse “siataffrustadu” (venga frustato); ma se la qualità (calidade – ceto)del ferito è assai quotata, il feritore sia “affrustadu per sa terra”,cioè pubblicamente per tutto il regno. Se per disgrazia poi il feritodovesse perdere qualche membra, il feritore “perdat su simigiantimembru” (gli venga recisa membra uguale).

Le multe non mancano mai, dal “delitto” considerato piùgrave a quello più infimo e se qualcuno non potesse pagarle – enon ci vuole molto a comprendere a quali ceti sociali possa appar-tenere – immediatamente subentra la pena corporale, dopo qual-che settimana di attesa (massimo due mesi) in carcere.

X. In caso di rissa senza ferimenti, qualora non fosse possi-bile stabilire o scoprire chi l’avesse originata, tutti indistintamen-te devono pagare la multa stabilita.

XIII. De robaria de strada publica (sulla grassazione nellapubblica via). Il grassatore “siat impiccadu” (impiccato). Qualo-ra la grassazione avvenga fuori dalla pubblica strada è previsto ilpagamento di una multa, diversamente “infurchintillu” (venga in-forcato-impiccato).

A queste pene capitali fanno seguito quelle più “leggere”:– per stupro: taglio di un piede oppure di un orecchio, a secondadei casi;– falsificazione di atti notarili: taglio della mano destra;– furto di cosa sacra: se si tratta di primo furto viene punito colcavamento di un occhio, ma per la seconda volta è previstal’impiccagione;– per l’abigeato, a seconda che sia il primo oppure il secondofurto ed a seconda della quantità e qualità delle bestie: taglio diorecchio-forca, taglio dei due orecchi-forca;– il furto in casa è cristianamente punito con l’impiccagione “perisa gula” (per la gola);– “chi spiantasse vigna altrui” paghi multa salata, e se non pagadopo 15 giorni di prigione “seghitsilli sa manu destra” (che glivenga mozzata la mano destra).

Potremmo proseguire col taglio della lingua, il rogo, l’esse-re trascinati per tutto il regno poi affondati nel letamaio quindiimpiccati; oppure con l’essere la lingua infilzata da un amo, ma... ci fermiamo qui. Con questa amorevole cura degli interessidelle sarde genti, proprie degli Statisti autoctoni, chiudiamo il

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paragrafo.È evidente che ormai si punisce, non si riconciliano le parti

in disaccordo. Inoltre si punta a favorire la delazione (facendosempre obbligo di denuncia per ogni infrazione, anche da parte dicolui che avesse subito il danno) espropriando in tal modo le partidirettamente interessate a dirimere le controversie fra di esse.

3.1.3 La giustizia iberica

Secondo alcuni storici la dominazione iberica in Sardegna si caratte-rizza per l’infeudazione dell’isola. Ciò corrisponde a verità solo in parte,essendo di già preesistenti (e ne fanno fede in primo luogo e le Condaghi ela medesima Carta de Logu) forme avanzate di rapporti tipici del sistemafeudale. I rapporti tra le istituzioni della Chiesa ed i “liberti”, ricalcano apieno titolo forme di puro sistema feudale, tanto che questi ultimi vengonoceduti né più né meno unitamente ai possedimenti.

Vero è però che nel momento in cui i sovrani iberici – dopo la cente-naria guerra contro il Giudicato di Arborea – prendono pieno possessodell’isola, buona parte della Sardegna viene concessa in feudo ai fedelidella Corona che nella conquista si compromisero con armi, uomini e fi-nanze. Solo le città, ed il relativo entroterra, sono direttamente ammini-strate dalla Corona e godono di un’infinità di privilegi che gravano, plum-bei ed opprimenti quanto mai, sulle ville rurali, pertanto sulla di già im-possibilitata situazione economico-sociale agropastorale.

Fare l’elenco dei privilegi di cui godono le città sarebbe assai lungo etutto sommato inutile, in questa sede; per cui ci limiteremo ai termini assaigenerali della questione.

I “cittadini” sono esenti dai tributi feudali, usufruiscono delle caricherelative all’amministrazione della colonia, concentrano le ricchezze, i da-nari, i commerci, l’artigianato ed inoltre sono garantiti nell’approvvigio-namento delle derrate alimentari di prima necessità a prezzi politici (ilpane, ad es.). Infine, gravame il più infido e vergognoso, le città devonocomunque essere approvvigionate di un quantitativo prestabilito di cerea-le; finanche nelle annate pessime.

La ruralità viene letteralmente soffocata da mille ed un tributo e daincredibili gravami che ogni singolo feudatario ritiene opportuno imporre,non esistendo se non formalmente alcun controllo effettivo da parte dellaCorona sul modo in cui i signori amministrano il proprio feudo.

In un tale sistema non può non svilupparsi discrasia, inimicizia, con-trapposizione, antagonismo fra la città e le campagne. Fra i due mondi sicompie quella insanabile frattura che perdura ancora ai giorni nostri. Non

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a caso le sommosse, le ribellioni, i sollevamenti che accompagnano la sto-ria delle classi subalterne sarde sono caratterizzati dalla assoluta mancan-za di contatti fra la città e la campagna. Assenza che finisce per alimentareil facile gioco del potere coloniale e la sua presenza nell’isola, agevolatadalla realtà del dividi et impera.

La divisione arriva a tal punto che, spesso e volentieri, i privilegicittadini finiscono per ledere finanche gli interessi della Chiesa e dei feu-datari (o, meglio, degli amministratori dei feudi, in quanto i titolari effetti-vi risiedono tranquillamente in Spagna malgrado l’obbligo formale impo-sto dalla Corona di risiedere ciascuno nei relativi feudi concessi).

L’immobile sistema di sfruttamento della ruralità, insostenibile intempi normali, determina genocidio, stragi, pestilenze ad ogni brutta an-nata, raccolto andato a male, aumento delle derrate per le necessità cittadi-ne, che riducono a livelli insostenibili le già precarie condizioni di vita dipastori ed agricoltori, provocando infinite sollevazioni delle ville al fiancodelle quali non è assolutamente impossibile contarvi prelati e signori feu-dali, in tema di veder diminuite le entrate di loro competenza.

Ad accentuare la rabbia delle popolazioni rurali, contribuisce l’asso-luta libertà con cui gli amministratori dei feudi riscuotono tributi e ne im-pongono di nuovi. Inoltre, nell’ambito del feudo, la stessa amministrazio-ne della giustizia è nelle mani del signore feudale, per cui si può immagi-nare con quanta ferocia questi dominino. Da qui il fenomeno della “crimi-nalità” in bande più o meno stabili, e la consistenza numerica che raggiun-ge dimensioni incredibili. Il fenomeno del banditismo, come noi oggi loconosciamo in Sardegna, affonda le proprie radici esattamente nel trapassodalla situazione Giudicale (in cui non ha avuto il tempo di svilupparsi) aquella del dominio spagnolo.

Tuttavia la condizione dell’isola non ha ancora raggiunto il peggio(cui si perverrà con la colonizzazione piemontese prima ed italiana in se-guito). Non a caso risulta che diverse ville “montane” abbiano mai pagatotributi feudali alla corona “spagnola”; sintomo che gli iberici sono benconsapevoli del fatto che imporsi brutalmente su situazioni caratterizzateda particolari avversità umane e culturali, avrebbe sicuramente decretatoinsurrezioni di non facile soffocamento. Le genti pellite, hanno quasi “li-bero” accesso nella transumanza degli armenti verso le pianure e collinedei Campidani e delle Baronie, vera e propria valvola di sfogo e di conteni-mento della rabbia covata da quelle comunità.

Anche se non esistono dati certi, il fenomeno della ribellione tipicadelle genti sarde, il banditismo “modernamente” inteso, in periodo ibericoraggiunge punte altissime tanto che la Carta de Logu, dev’essere integratadall’autorità regia nel 1574 con le tristi Prammatiche sui bandeados. Ri-

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spetto al periodo Giudicale, il banditismo è ormai sviluppato ed articolato,con i dentellati che affondano nell’humus della collettività e civiltà agro-pastorale. Ciò che l’autorità iberica vuole stroncare è esattamente questolegame, criminalizzando la società intera nel tentativo di dissuaderla dal-l’ ospitare nel suo seno i banditi.

Le Prammatiche stabiliscono ed ordinano: che ogni persona accusatadi crimine o delitto che sfugga la giustizia, anche se mai citata in giudizioné “schedata” come criminale, tale deve comunque essere considerata; chechiunque dia loro aiuto, rifugio, solidarietà venga punito con le stesse penein cui incorrono “i protettori” di banditi, oppure in pena minore (a secondadel ceto di appartenenza) ad esclusiva volontà del giudice (Cap. Primo).

Inoltre, “essendo le terre del Regno di Sardegna popolate di uominiperversi che vanno in bande uccidendo e trafugando bestiame”, per il solofatto di essere armati è prevista la pena di 10 anni di galera (cioè di lavoriai remi delle navi del sovrano), oppure in altra pena minore, corporale opecuniaria, a esclusivo giudizio del luogotenente, a seconda del genere dipersona e del delitto commesso (!). Infine, cosa notevole, che estende lafamigerata inkarriga anche ai singoli, chiunque fosse visto, o comunque siaccompagnasse ai banditi, dev’essere punito e castigato con le stesse penepreviste per i banditi.

Ciò che maggiormente turba la “tranquillità” dei colonizzatori è ilfatto che i banditi si strutturino in bande di più persone, dando vita adorganizzazioni anche militarmente consistenti. Per cui particolare atten-zione viene posta nel Capitolo Quarto a questo riguardo.

In tale Capitolo si fa divieto di girare armati, da soli o in più di trepersone, di congetturarlo semplicemente, sotto pena “dell’allontanamen-to” dal regno o della condanna all’ergastolo oltre che della confisca deibeni. Qualora, pur non ospitando i banditi, questi venissero “rifocillati” inarmi o polvere da sparo, la pena prevista è assai pesante: 1.000 ducati dimulta e 10 anni di galera, oppure anche di più, sempre a seconda del censoe ceto del “favoreggiatore”.

Le Prammatiche altro non sono se non gravami, pene, torture,deportazioni, galera previsti per le genti agropastorali. Al contrario, lePrammatiche prevedono privilegi per le città, per i nobili, per i feudatari,per gli ecclesiastici (Carta Raspi).

Di conseguenza, nel momento in cui prende vigore l’Inquisizionespagnola le genti di campagna poco hanno di che terrorizzarsi. La giusti-zia inquisitoriale ha un gran daffare negli intrighi di palazzo, fra le diversefazioni del potere costituito in perenne lotta. A farne le spese tra gli altri èil cagliaritano d’origine aragonese, Sigismondo Arquer, che paga con ilrogo la denuncia della bestialità e barbarie con cui il clero partecipa in

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Sardegna allo sfruttamento coloniale. Arquer non manca di denunciare il“Generale” inquisitore che in Sardegna:

Procede contro le persone sospette con tanta severità che è per-sino difficile spiegare a parole. Infatti, i malcapitati vengono rin-chiusi in carcere per diversi anni e qui interrogati e torturatiprima di essere condannati oppure assolti.

Arquer, nel 1571, dopo il solito internamento nel carcere dell’Inqui-sizione, non avendo “nulla confessato”, viene arso vivo. Ha avuto il tortodi appartenere alla fazione contraria di un potentato politico-economicoche in Sardegna, e non solo in essa, non vuole dividere il potere.

Se ben triste è la sua sorte, non migliore è quella dei vassalli sottol’impressionante milizia regia che nell’isola garantisce “l’ordine” con ben20.000 unità.

3.1.4 La giustizia savoiarda

Quando la Sardegna viene data in Regno ai Savoia, e questi ne pren-dono possesso indirettamente (1720), a significare il loro disprezzo perquella terra e per quelle genti da cui trarranno prestigio, ricchezze e lamedesima corona reale, l’isola è a tal punto prostrata che le sue condizionidevono apparire del tutto stomachevoli ai nuovi colonizzatori.

Ai secolari malanni dovuti al furto operato dagli iberici, al sistemati-co sfruttamento di ogni risorsa naturale ed umana, alle cruenti e ferocilotte intestine alle varie fazioni del potere, si aggiungono le altrettantosanguinose contrapposizioni tra filo-austriaci, filo-spagnoli e filo-piemon-tesi. Infatti, la dominazione dei Savoia è preceduta da una breve occupa-zione austriaca che ha modo di allacciare promettenti legami con partedella nobiltà e del clero fino a dar vita ad un vero e proprio partito che offreai ceti privilegiati presenti in Sardegna ben altre prospettive, in ricchezze eprivilegi, di quanto possa dar loro la stracciona casa savoiarda.

A completare il quadro concorre il fenomeno del banditismo, ormaidi gigantesche proporzioni di massa.

Nel concedere ai Savoia il privilegio di re, il Trattato relativo imponeai nuovi sovrani il rispetto dei diritti di feudatari, clero e città. La presa dipossesso della Sardegna è caratterizzata dal fatto che apparentemente esostanzialmente nulla deve mutare rispetto al passato.

La bramosia di trarre ricchezze dall’isola malgrado la sua condizio-ne, la necessità di domarla alla civiltà del colono per poterla così venderea non improbabili interessati in cambio di territori nella terraferma, deter-

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minano i colonizzatori piemontesi nell’intraprendere quella politica di pro-gressivo accentramento del potere a scapito non solo delle popolazioni ru-rali ma finanche di ogni altra forza economico-sociale antagonista. Il pro-cesso di esautoramento del potere delle realtà sociali preesistenti non è nésemplice né lineare, tuttavia sistematico a partire dall’ultimo quarto delXVIII secolo.

Ai tentativi di cessione dell’isola si affianca l’opera di trasformazio-ne radicale per spremerne più sostanziosi tributi da far convergere, qualicapitali da investire, nella terraferma. La radicale trasformazione abbrac-cia ogni campo: politico, sociale, economico, linguistico, culturale in ge-nere.

Lungi dall’essere un intervento malauguratamente irrazionale, o sem-plicemente burocratico-autoritario-militare, in realtà la politica dei Savoiaè sapientemente e scientemente indirizzata ad un ben preciso fine. Trala-sciamo le affermazioni sul presunto impegno civile, sociale, umanitario,paternalistico – a sentire alcuni storici – dei sovrani, miranti per amor deisudditi isolani a “risollevarli dalle tristi sorti” riservate loro da un “desti-no” maligno.

I Savoia sopprimono le “illegalità” dei feudatari e della Chiesa e ancorpiù soffocano nel sangue, seminando il terrore fra le popolazioni rurali,ogni minima ribellione ed autoctonia delle genti agropastorali. Ma la re-pressione, per quanto sistematica sia, non produce ricchezza. Questa, se-condo la visione del tempo, deve scaturire dalla terra e dal regime di per-fetta proprietà capitalistica (fisiocrazia), per cui il “progresso ed il benes-sere della nazione” impongono di liberarla dai vincoli che ne impedisconoil pieno possesso ed il massimo della rendita.

Ciò significa rivoluzionare l’assetto feudale e, soprattutto, decretarela morte del regime comunitario di gestione dell’agricoltura e della pa-storizia. È dalla necessità di estrarre tributi che casa Savoia medita la stra-tegia a lungo termine. Il che è ben altra cosa dal conclamato umanitarismoed affezionamento dei sovrani alle genti sarde.

Il progetto di trasformazione radicale richiede l’accentramento nellemani della burocrazia statale di ogni momento della vita economica, civi-le, culturale. Per cui la corte mira fin da subito a creare – soprattutto nellecittà, centri propulsori della colonizzazione e del nuovo potere – una schie-ra di fedelissimi compradores che col tempo assumono le alte cariche bu-rocratiche. Nel contempo concretizza la lotta più dura per soffocare ogni“covo” di ribellione chiesastica e feudale, incrementando le “simpatie” neipiù dubbiosi e meno schierati nelle file dell’antipiemontesismo, soppri-mendo gli altri.

Alle popolazioni rurali, considerate alla stregua di banditi nella loro

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totalità, tocca invece il ruolo di teatro permanente in cui vicerè seguiti daschiere di assassini prezzolati, si cimentano in impalamenti, squartamenti,roghi, forche, nel tentativo di spezzare ogni resistenza e residuo di “barba-rie” ed “inciviltà”. Ovviamente quei feudatari che manifestano rispetto epartito preso per i sovrani savoiardi, possono continuare nelle antiche scor-rerie nei propri feudi; l’essenziale è che comunque assicurino agli umanis-simi reali i donativi che questi chiedono di volta in volta.

Ai primi del XIX secolo i sovrani possono sconfiggere il partito av-verso dei feudatari e le ultime frange della ribellione filo-francese; poi sicimentano, progressivamente, nel porre giuridicamente fine al sistema feu-dale, risarcendo i feudatari in modo tale da soddisfare pienamente le loroesigenze quindi accollando alle comunità espropriate di tutti i tradizionalidiritti, usi e costumi i costi della gigantesca “rivoluzione”.

È col vicerè don Carlo Amedeo Battista, marchese di S. Martino diRivarolo, vice sovrano dal 1735 al 1738 che inizia ad emergere lasistematicità della giustizia novella in Sardegna. A questo sanguinario uomosi deve la prima caccia grossa ai banditi, identificati con tutti gli isolanipoco soggetti alle “virtù” dei Savoia. La sua intenzione è di radere al suoloil sostrato umano-culturale, cioè la società sarda che alimenta il banditismo.In soli tre anni, questo portatore di vera civiltà, impicca 532 persone edaltre 3.000 le fa arrestare oppure deportare dall’isola. Intendendo lo strettorapporto fra le popolazioni e quanti nel mondo rurale si pongono fuoridalla legge, i suoi non sono altro che atti di guerra contro un nemico osti-le.

Il semplice sospetto, pur se infondato, nei riguardi di chicchessia,determina il sanguinario vicerè nella “impiccagione, l’attanagliamento coiferri roventi, la combustione dei cadaveri e la dispersione al vento delleceneri”, nonché lo squartamento, la tortura e finalmente il rogo purifica-tore.

La malata ossessione del tristo figuro lo determina finanche, nell’ul-timo anno del suo viceregno, nell’emanare quel famigerato e stupido pregone(del 9 maggio 1738) “sull’abolizione delle lunghe barbe” esplicitamenteriservato ai soli sardi, in cui, ribadito che è “propizio ai delinquenti meri-tevoli, di essere estirpati con ogni mezzo”, ordina e comanda che nell’av-venire nessuno, per alcun motivo possa portare la “barba cresciuta piùd’un mese”, sotto pena la prima volta di un mese di carcere e quattro scudidi multa; del doppio per la seconda volta, ma per i più ostinati anche “altrepene arbitrarie”. Ovviamente un terzo della pecunia deve andare “all’ac-cusatore ed al ministro che ne fa l’esecuzione” (e possiamo ben immagi-nare quante denuncie ed esecuzioni questi sono interessati a fare).

Il tutto è minutamente elaborato e trascritto in carta regale anche se

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poi la miserabile operazione viene posta in essere a causa dell’estremaignoranza del civile Rivarolo, il quale crede di trovare “l’etimologia” deltermine barbaricini nel fatto che molti di essi portano la barba lunga ...Operazione ancor più ridicola se pensiamo che in altri tempi, un altro civi-le suo pari impose che i sardi Pelliti ... portassero invece la barba lunga inmodo da non confondersi con gli stranieri (e rendere così più agevole l’operadei boia).

Pago degli assassinii perpetrati e della strage compiuta, il miserabileignorante vicerè porta vanto d’aver finalmente “estirpato” il banditismosardo. Ma la gloria ben poco dura, se solo qualche anno di poi della suadipartita, il successore vicerè marchese Carretto di S. Giulia (in azione dal1745 al 1748) deve nuovamente organizzare l’esercito di lanzichenecchisavoiardi per dare corso a quella tristemente ricordata guerra controLeonardo Marcedhu e le altre innumerevoli bande.

Talmente barbara e crudele è la politica genocida del Rivarolo che lostesso sovrano lo richiama ripetutamente alla moderazione, senza tuttaviariuscire a porgli in qualche modo il freno. I suoi successori non sono co-munque da meno, tanto che uno di essi è passato alla storia (oltre che per lestragi compiute) per non riuscire a prendere sonno se prima non impiccaalmeno 6 o 7 sardi (il lettore ci perdonerà per la nostra imprecisione sul-l’esatto numero necessario a dare sollievo all’emerito assassino, ma siamoconvinti di non tralasciare, in fondo, alcuna cosa di estremamente impor-tante ...).

Quanto accaduto col Rivarolo si ripete esattamente con il viceregnodi Valguarnera, che sale agli allori dell’ambita carica nel 1748. Questi,solo con l’utilizzo sistematico dell’esercito e le armi del tradimento riescea fare strage di ribelli in Gallura, fino al 1751.

È tuttavia sotto le direttive del ministro Bogino che i vicereali effet-tuano ancor più stragi, in maniera matematica tanto che le civili cure delConte sono ricordate dai sardi nel conio di un nuovo vocabolo: su Bujinu(su bujinu così è sinonimo di dimoniu = demonio). Sotto l’egida di questobarbaro statista alla prassi genocida si affianca l’intensa opera della politi-ca colonialista sabauda, mirante a modificare a vantaggio del colono vuoigli ordinamenti amministrativi, vuoi le colture minerarie, vuoi l’agricol-tura. Mentre le miniere vengono date in concessione a capitali forestieri, lapastorizia è sottoposta ad un regime di ulteriori ristrettezze, costretta aripiegarsi su territori sempre più poveri ed insufficienti, a causa dell’esten-sione e del privilegio accordati alle vecchie e nuove coltivazioni (tabacco,per es.).

Come se non bastasse tutto ciò e la Carta de Logu, i Pregoni e lePrammatiche di vario genere, nell’esatto momento in cui nell’intera Euro-

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pa prende piede l’abolizione della tortura (non dimentichiamo che il testodi Cesare Beccaria: Dei delitti e delle pene, viene stampato nel 1764),l’Editto “ per l’amministrazione della giustizia nel Regno di Sardegna” del13 marzo 1759 non solo la estende in maniera ancor più sistematica diprima, come pena aggiuntiva/collaterale alle altre di diversa natura, bensìne rimarca il fine di essenzialità nell’incutere terrore. Corregge la Cartade Logu ed in generale adegua ai tempi, anche sul versante criminale del“diritto”, la lotta al banditismo ed alla specifica criminalità.

Ricettatori ed acquirenti di cose rubate hanno la stessa pena dei ladri;se poi s’inseriscono (mèdiano) semplicemente nel commercio delle coserubate la pena può estendersi fino alla galera perpetua. Ed è il caso diricordare che per galera, in un tale contesto e per decenni ancora, è daintendersi come lavori ai remi nelle navi del sovrano.

Il Capitolo Quinto dell’Editto, esplicita la prassi prettamente inqui-sitoriale che l’amministratore della justitzia (di Stato) deve tenere nell’as-solvere le sue funzioni di boia. In particolare afferma che, per i reati com-messi “si avranno, fra gli altri, sospetti specialmente i vagabondi, e quellisfaccendati senza esercizio di mestiere” che “si vedranno pubblicamente afrequentare i giuochi, osterie, taverne e luoghi simili” (vedremo che atutt’oggi su questi punti significativi nulla è mutato per i sardi).

Alcuni capitoli successivi riguardano le pene da comminarsi ai ladried agli abigeatari con una gradualità che, se esistente per i primi, è sostan-zialmente inesistente per i secondi.

Il furto “egregio”, sia pure il primo, viene punito con la morte. Aidomestici ladri è data la medesima pena, anche se il valore della cosa ruba-ta non è “egregio”, bensì pari almeno al valore di 50 scudi. Nel caso divalore inferiore per la prima volta viene comminata la galera a vita, per laseconda la morte.

Il primo furto con scasso è punito, se di lieve entità, con la galera a 5anni e la marchiatura a fuoco sul braccio destro ... Anche il semplice pos-sesso di “chiavi false”, ferri o grimaldelli di varia natura “adatti allo scas-so”(!), è punito con la galera per almeno tre anni; se si tratta di minore dianni venti, ma d’età superiore ai diciotto, la pena è di almeno un anno allacatena.

Il primo furto semplice viene punito con la catena a tempo; se superai 50 scudi di valore con la fustigazione in pubblico. Per il secondo furto lapena è la morte.

Il “contorno” dell’Editto è tutta una dolcezza: galera, fustigazione,marchiatura a fuoco, ergastolo, morte. Soffermiamoci brevemente sulle penepreviste per l’abigeato.

La prima volta 10 anni di galera, la seconda volta galera a vita, la

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terza volta morte. Se però il valore del bestiame rubato supera i 125 scudila pena prevista è di morte, anche se si tratta del primo furto.

Se poi i furti, anche semplici, o l’abigeato, vengono commessi ingruppo di almeno cinque persone la galera a vita è assicurata, con l’ag-giunta obbligatoria della pena seguente: i banditi devono “esser condottiper mano del boia nelle strade pubbliche passando sotto il patibolo collaccio al collo e con il remo in spalla”.

In caso di grassazione è prevista la pena di morte.A scanso di dimenticanze da parte degli esecutori della justitzia, ed

anche del possibile fraintendimento dei nostri dieci lettori, il Capitolo Ot-tavo, paragrafo VI, stabilisce ed impone che le sentenze, quantunque soloa tempo, devono prescrivere sempre la tortura, che si praticherà anche peraltri furti, abigeati, grassazioni non dedotti in processo, allo scopo di sco-prirne i complici.

Sempre lo stesso Editto dispone che ogni anno devesi redigere il Ca-talogo dei banditi condannati in contumacia, ad iniziare proprio da quelfatidico 1759.

Ed è dal Catalogo di tale anno che estraiamo qualche significativasentenza a titolo di esempio della civiltà savoiarda in terra sarda.Francesco Usai: condannato ad essere “strascinato e squartato”;Michele Perreddu: condannato “alla frusta ed a tre anni di esilio”;Francesco Artea: ha la condanna più mite, 10 anni ai remi.

Viene anche chiarito che i banditi di cui al Catalogo sono “espostialla pubblica vendetta, si possono arrestare nonché impunemente uccide-re”.

Si potrebbe obiettare che questi sono i tempi in cui ovunque si agiscein tal modo e di conseguenza i Savoia si comportano esattamente comeogni altro sovrano. Il che è senza dubbio vero, almeno in parte! Ma se cosìè tutti i sovrani sono degli emeriti criminali, compresi i Savoia. Non vi è diche attribuire a questi ultimi propositi mai avuti né manifestati, tantomenouna sorta di illuminato umanitarismo e paternalismo, nonché “fraternaattenzione” per le sorti dei “regnicoli” (come ci classificavano).

Non a caso, nel momento in cui i savoiardi boia in vesti da vicerèriducono l’isola a una immensa bolgia infernale di impiccati, squartati,torturati, con sperpero di finanze inaudite, nella sola Cagliari i sovrani“fraterni ed umanitari” lasciano crepare di vaiolo ben 500 bambini, senzache per contrastare la crudele morte spendano un solo scudo, né garanti-scano misure igienico-sanitarie atte a limitare la diffusione della terribilepestilenza. Nessuna pietas dunque per le popolazioni sarde, né sentimentidi presunto “affetto”. Solo razionale intervento genocida mirato a strappa-re alle genti isolane più di quanto possano e vogliano dare.

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A dover semplicemente riassumere le carneficine compiute dalla giu-stizia piemontese non basterebbero interi volumi. Tuttavia non possiamonon accennarne almeno qualcuna.

Per esempio, quanto accade a Bono (villa non tanto distante da Sassarie Nuoro), nell’ambito della lotta contro i moti popolari antifeudali.

Nel 1796 i presunti reali umanitaristi ed amici del popolo sardo repu-tano necessario costituire un vero e proprio esercito atto a radere al suolo ilpaese di Bono (ed altri paesi che si sono sollevati contro il regime feudale),e fare carneficina degli abitanti con tale crudeltà da terrorizzare l’interaisola.

Ma neppure per tali loro esigenze i sovrani più pezzenti d’Europarinunciano agli introiti del dominio; per cui, allo scopo di non intaccare lacassa reale, per costituire l’esercito di cui necessitano ricorrono all’immu-nità di quanti vengono considerati fino al giorno prima “criminali da estir-pare con ogni mezzo”. Questi possono avere completa ... remissione deipeccati, un po’ di denaro e salvacondotti purché si arruolino nelle orde diStato il cui compito è null’altro che compiere impunemente stragi, stavoltalegali ed altamente civili in quanto decretate dal re.

Uomini alla macchia da anni, spesso da decenni, sottoposti a vitaraminga e miserevole, permanentemente rincorsi da spie e militari alloscopo di assicurarne morte crudele, non possono in tanti rinunciare all’oc-casione loro offerta dalla justitzia della civiltà, per cui non disdegnanol’arruolamento. Ovviamente gli arruolati intervengono contro popolazioniad essi sconosciute, nemiche, ostili (è esattamente quanto ogni colonizza-tore ha fatto in tutti gli angoli del globo, sfruttando a suo esclusivo vantag-gio l’antagonismo permanente della società selvaggia).

La villa di Bono viene letteralmente rasa al suolo, saccheggiata, bom-bardata e quindi incendiata. I militi del civile sovrano si accaniscono sul-l’unica persona che non vuole scappare dal paese assieme ai compaesani,forse sicura che nulla le può accadere: una povera vecchia paralitica! Lafuria bestiale dell’orda reale si accanisce sull’impotente donna, che vieneorrendamente straziata ed alla quale, miserevole atrocità savoiarda, ven-gono recise finanche le mammelle.

Non trovandovi altri villici, fortunatamente fuggiti, la furia omicidadell’esercito reale viene riversata sugli animali abbandonati dai bonesi nellafuga: delle bestie abbandonate in parte viene fatta razzia e quante nonpossono essere razziate vengono squartate vive, fatte a pezzi e quindi spar-se su tutto il territorio del villaggio.

Purtroppo non si tratta di una eccezione; simili barbarie si ripetonoquotidianamente ad un ritmo incalzante. Ogni paese nostro porta impressonella memoria almeno uno di tali truci episodi, tramandato di generazione

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in generazione, a disprezzo della “più avanzata civiltà” che oltre il nostromare si vuole abbia preso piede.

Così gli Orrolesi più anziani tramandano lo strazio subito in epocaprecisamente non databile, da certo Mathia Anedha, orribilmente tortura-to, mutilato quindi impiccato e lasciato appeso al patibolo per un tempoindeterminato, col fine di terrorizzare i popolani. Anche per tale avveni-mento il poeta della comunità di Orroli, ha immortalato alla vergogna del-la storia la civiltà dello Stato:

Sa morti de Mathia AnedhaNon dha fatza’ nemusMama de filhu batiauKa pro dh’inpikaiFuant una xedhaE non dhu ia’ nemusA ki’’ dhu lhastimai!

(La morte di Mattia Anedha, non possa mai farla nessun’altro; ma-dre di figlio battezzato. Ad impiccarlo furono in molti, ma nessuno vi erache lo rimpiangesse [e consolasse]).

Il nuovo secolo non conclude le atrocità. Anzi, nella prima metàdell’800 le popolazioni rurali vengono costrette a subire l’attacco più radi-cale ed incisivo al proprio modo di vita che questo ne rimane sconvolto persempre.

Assicuratosi il consenso dei feudatari, del clero (almeno in parte ) edei compradores, umiliate e decimate le popolazioni, divise le comunità inlaceranti odi, disamistades, vendette che sconvolgono interi paesi di cui lemigliori energie spesso sono alla macchia, i dispensatori di civiltà portanoa compimento l’opera iniziata dal Bujinu.

Nel 1820 viene emanato il primo Editto (detto delle “chiudende”)che sancisce l’inizio dell’esproprio della terra e dei suoi frutti ai dannidelle popolazioni rurali, nonché l’introduzione forzata di rapporti capitali-stici che, lungi dall’indebolire gli antichi privilegi dei ceti feudali, nonsolo li rafforzano, ma di nuovi ne aggiungono.

I ceti compradores delle città sono a questo punto talmentepiemontesizzati, per cultura ed interessi, che nel 1848 chiedono ed otten-gono la “perfetta fusione” con gli Stati di terraferma, rinunciando d’orainnanzi a qualsiasi richiesta di pur velleitaria “autonomia”. Ai ceti ruraliben poco sarebbe importata una tale rinuncia, se non che la prima imme-diata conseguenza hanno a soffrirla proprio essi: dall’oggi al domani, in-fatti, viene estesa pure “ai regnicoli” la leva obbligatoria, fino allora del

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tutto sconosciuta.Nel contempo, mentre altrove viene abolita la tortura ed ogni paese

via via si adegua, in Sardegna ciò avviene solo in contemporanea (putacaso) con l’emanazione dell’Editto delle Chiudende, nel 1820 (quando sidice la logica “del bastone e della carota”...). Finanche l’abolizione delle“esemplarità” (l’infierire sul cadavere), viene decretata (con Pregone del13 luglio 1832) nella nostra terra ben un anno dopo rispetto agli Stati diterraferma. È necessario però chiarire che si abolisce non tanto la barbariesui vivi, quanto sul corpo ... dei sardi cadaverizzati. Da tale giorno in poinon è più tollerato “il taglio e l’affissione al patibolo del capo del giusti-ziato”, nonché la riduzione in quattro (squartamento) del cadavere dellosventurato. In tutti i modi, l’introduzione o l’abolizione di una legge, perquanto importante sia, non scalfisce manco per un poco il trattamento ri-servato agli isolani, né gli insani rapporti tra Stato sabaudo e la Sardegna.

Quotidianamente gli armati di Stato irrompono nei villaggi massa-crando e torturando col fine di ricondurre le plebi ora proletarizzate allaciviltà del perfetto sfruttamento capitalistico. Lo stato d’assedio viene quo-tidianamente decretato, così che quanto abolito formalmente da una legge,viene comunque praticato nella realtà della guerra permanente.

Qualora i giudici siano assai “lievi” nell’infliggere condanne, inter-vengono, come per il passato, direttamente i sovrani, i vice, i loro ministri,tutti abituati a trattare l’isola ed i sardi come personali possedimenti.

Finanche poco prima della conquista di quelle terre e popolazioniche poi saranno costrette a costituire lo Stato italiano, ed esattamente nel1852, il famigerato conte/ministro Camillo Cavour, rimprovera aspramen-te i magistrati sassaresi che non infliggono pene cruente ed esemplari aipopolani arrestati in massa a seguito di una rivolta determinata dalla mise-ria in cui è costretta la città dalla rapace politica coloniale. Come conse-guenza immediata dell’intervento ministeriale, un popolano che in un pri-mo tempo si diede alla macchia (e non venne processato assieme agli altri),costituitosi in seguito alla relativamente mite pena comminata nel primoprocesso, subisce condanna tanto grave da suscitare “scandalo” financhenei benpensanti.

Lo stato d’assedio, infine, è misura talmente comune che i civili so-vrani la decretano per un nonnulla. Ad Oskiri, ad esempio, viene addirittu-ra decretato nel corso dell’imperversare del colera! Suscita scalpore, poi,quando è decretato per l’uccisione di un ingegnere che segue la costruzio-ne di una strada, anche se l’assassinio è dovuto, e subito si scopre e si sa, amotivi esclusivamente di natura privata!!!

3.1.5 La “justitzia” italiana

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Nel momento in cui si costituisce, per estensione del regno dei Savo-ia, lo Stato italiano, la Sardegna è una delle realtà che malgrado il propriopassato di colonizzazione si mantiene come specificità etnoculturale, affat-to integrata in quelle “magnifiche sorti e progressive” che già altrove han-no decretato la nascita dei cosiddetti Stati-nazionali.

Se i centri propulsori e gangli della struttura politica, amministrati-va, militare della colonizzazione, in altre parole se le città isolane e qual-che altro centro dell’entroterra hanno “optato” per la simbiosi – sia pure atitolo di subalternità – col potere costituito, che elargisce carichi ed incari-chi nonché privilegi ai compradores, a tutto scapito dei villaggi e del-l’agropastorizia, il mondo rurale, ben al contrario, si mantiene come alte-rità rispetto alla presunta patria italiana.

Ovviamente i processi di espropriazione a cui abbiamo accennato nelcorso di tutto il lavoro, hanno in qualche modo scalfito tradizioni e potereautodeterminato, così come hanno esacerbato le tensioni interne alle sin-gole comunità e tra di esse. Ed è sulle fratture interne, su odi e vendettesanguinose che il novello Stato affonda il coltello, col fine di portare acompimento il processo di denazionalizzazione ed acculturazione.

In tale ambito sorge l’esigenza della nuova entità politica, di plasma-re tutte le popolazioni alle necessità del capitalismo di terraferma ed agliinteressi dei gruppi di potere economico-finanziario che al Nord hannoimpiantato il proprio quartier generale. Il convogliamento delle risorse versotali interessi deve essere affiancato però dalla prassi della mistificazioneassoluta della storia dei popoli assoggettati al nuovo regime, col fine nep-pure tanto inconfessato di dare corpo a quella chimera che è lo Stato-nazio-ne italiano.

Dopo essere stata presuntamente punica, quindi romana, quindivandalica, quindi bizantina, quindi spagnola, quindi austriaca, quindi pie-montese, la Sardegna diviene infine “italiana”. Finalmente! secondo alcu-ni che di chiunque l’anno voluta fuorché delle sue medesime genti. Così,gli stessi compradores col ruolo di storici che fino alla fine del regimeprecedente s’arrabattavano sulle cattedre della “storia” a convincerci diessere senza ombra di dubbio e iberici e austriaci e piemontesi, d’ora inavanti si danno l’illustre compito di falsificare, nascondere, travisare conl’intento, lautamente retribuito dalla patria loro di scoprirci “italiani”. Ciraccontano che isola ed isolani si sarebbero ricongiunti alla loro vera pa-tria, culla della “meravigliosa civiltà” la più civile, nonché della giustiziala più giusta.

Ed ecco sociologi, glottologi, psicologi, antropologi, criminologi, evia discorrendo, patrii, a scrivere i loro lunghi e falsi “trattati” in cui dimo-

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strerebbero le ricercate radici italiane di una terra di già fondamentalmen-te costituita da milioni d’anni, quando lo stivale italico altro non era cheuno sputo di minuscoli isolotti immersi nell’acqua stagnante dei pantani.E sarebbe questo melmoso sputo ad avere “attratto” l’isola nostra, ad averead essa dettato le ragioni dell’incivilimento, togliendo dalla barbarie pre-sunta i “mastrucati” padri nostri, che invero a tutt’altro pensavano fuorchéa quell’originario popolo di sanguinari figli di lupa che dovettero torturaree schiavizzare, per l’ingordigia dei suoi ceti privilegiati e delle sue plebiabbrutite, tutto il mondo a quei tempi conosciuto.

I signori della Storia, quella tutta vera per carità, ci propinano inun’infinità di salse la lunga serie di piccole o giganti falsità che dimostre-rebbero da un lato le nostre radici italiche (ovviamente gli iberici avevanol’interesse a dimostrarci la nostra “ibericità”, i piemontesi la “piemontesità”,e così via), dall’altro quanta cura, modestia, impegno, interesse, solidarie-tà, soprattutto quanta umanità avrebbero caratterizzato i sovrani – realiieri, oggi semplici parlamentari – nell’incivilirci tutti, costringendoci abuttare a mare mastruca e barbarie ... nonché la nostra incivile e sanguina-ria giustizia. Nostro malgrado!

Ed arriva l’italiana, di giustizia, foriera di gentilezze e libertà, diuguaglianza e diritto! Che ci accingiamo succintamente a raccontare.

Come per spagnoli e piemontesi, già al primo impatto l’isola si pre-senta ai coloni più che domata materialmente e spiritualmente, in un pro-fondo stato di abbrutimento, lacerazione, miseria, sfruttamento inaudito.Questa condizione non può che emergere nella caratteristica propria dellasocietà isolana rurale: la criminalità ed il banditismo.

Nel pieno della miseria e della fame che strazia gli ormai proletariz-zati isolani, il governo italico ben pensa di affinare le armi degli interventi... della repressione e del genocidio. Si inizia con una inchiesta che è tuttoun programma: riorganizzazione della giustizia (quella di Stato); riorga-nizzazione delle prigioni esistenti e costruzione di nuovi penitenziari, ov-viamente moderni come il carcere di S. Sebastiano di Sassari, a strutturacellulare; aumento dei contingenti dell’esercito e dei carabinieri, nonchéistituzione di nuove provincie e pertanto di nuovi prefetti militari. Vengo-no così moltiplicati giudici e magistrati, corti di giustizia e carabinieri ...

Gli isolani si ribellano alla chiusura e spartizione delle proprietà col-lettive? All’abolizione dei loro diritti sulle terre comunali ancora scampatealla “perfetta” privatizzazione? Al pagamento dei tributi non più in naturama in sonante danaro, ora più che raddoppiati rispetto al passato? Un buonapparato militare e giudiziario porrà le cose al posto giusto, nell’ambitodella vera civiltà! Qualche civilizzato manifesta dubbi in proposito? Levarie Commissioni, fra cui quella parlamentare (la prima in assoluto) can-

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celleranno ogni dubbio.Esempio concreto: le carceri sarebbero sotto stretto e costante con-

trollo di una Commissione visitatrice, costituita dai più “eminenti e rino-mati” cittadini, che avrebbe lo scopo di sorvegliare “internamente tutto ciòche concerne il vitto, il materiale, la salubrità, la disciplina, le punizioni”ecc. Peccato, però, che lo stesso sottoprefetto, a ben due anni di distanzadalla costituzione di tali Commissioni, con circolare del 5 ottobre 1863,lamenti che mai nessuna visita sia stata effettuata dalla stessa, ad es. nelcarcere di Nuoro!

E che mai potrebbe apparire di sconcio ai “più eminenti e rinomati”cittadini nuoresi, o cagliaritani, in quel terribile inferno riservato ad indi-vidui di ben altra estrazione e provenienza?

Ben più solleciti sono, siffatti “eminenti” cittadini nel chiedere che ilgoverno mandi più sbirri e magistrati, nonché nel chiedere al medesimo ildomicilio coatto nelle provincie continentali, con trasporto a viva forza,per gli “oziosi ed i vagabondi”, oltre al ripristino del giuramento neidibattimenti affinché gli eventuali testimoni d’accusa non si sottraggano aldovere “civile” di fare la spia contro i propri simili.

La prova generale dell’applicazione della giustizia tutta italiana, av-viene nel momento in cui l’ultimo decreto delle leggi eufemisticamentedenominate di “abolizione del feudalesimo”, sancisce l’esproprio delle landedi terre comunali in cui trovano ancora spazio gli autoctoni modelli mate-riali e spirituali di convivenza collettiva: si tratta della vendita a “perfettiprivati” delle centinaia di migliaia di ettari (500 mila circa) di terre comu-ni scampate alla rapacità dei latifondisti, in cui le plebi rurali hanno dirittodi pastura e di legnatico, di coltura e di raccolta. Non pago delle precedentileggi che decretarono la chiusura e la concentrazione nelle mani di ex-feudatari, borghesi e preti vari, della più parte dell’isola, lo Stato italianodeve completare l’esproprio delle collettività.

Come per il passato, le rivolte popolari scoppiano ovunque e subito.Nel 1868 prendono il nome di “motti per su konnotu”, per salvare il cono-sciuto e ritornare al conosciuto, cioè alla tradizione. I motti rivendicanoquindi l’intoccabilità almeno delle porzioni di autoctonia materiale scam-pate allo scempio della privatizzazione.

In tale anno, a Nuoro, la sollevazione si scatena a seguito della deli-bera del consiglio comunale che pone in vendita i terreni di sa Serra; diconseguenza i pastori che vi tengono le greggi devono trasferirle altrove.Alla rivolta le istituzioni rispondono con lo stato di assedio, l’arresto inmassa, la più dura repressione. Il medesimo consiglio provinciale di Sassa-ri (sotto cui cade il Circondario di Nuoro) è costretto ad una petizione alministro dell’Interno (4 ottobre 1868), tanta è la brutalità con cui si proce-

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de.

I Consiglieri del Circondario di Nuoro ... non invocavano in que-sto momento rimedi eccezionali ... in quantoché credono che coisoli mezzi ordinarii, ove di fatto e subito vengano adottati si pos-sa far cessare tanta colluvie di mali. Il rimedio più pronto e piùefficace nella via degli ordinari rimedi, essi lo riconoscevanonell’aumentare il numero dei RR.CC. [Regi Carabinieri], nellospendervi una forza imponente di truppa come quella deiBersaglieri, che, negli anni addietro, unitamente all’arma, pre-starono ottimi servizi, e vi mantennero l’ordine.Osservavano eziandio, come a seguito dei fatti che si ebbero adeplorare nella sommossa dell’aprile scorso, l’autorità giudizia-ria, volendo mantenere forza alla legge, fece procedere ad unacinquantina di arresti di molti padri di famiglia, i quali, ora,languiscono nelle carceri con danno delle famiglie prive del lorosostegno, con scapito gravissimo dell’erario dello Stato, che devealimentare tanta gente. Che a seguito di tanti arresti, centinaiadi persone, per tema di essere arrestate, si sono rese latitanti e sirifugiano nei monti.E siccome questi individui sono tutti nullatenenti, vivono ruban-do, e ciò che più conta, somministrano un grosso contingentealle bande dei facinorosi ...Quindi il ridonarli alle loro famiglie sarebbe opera provvida esalutare, ciò che si potrebbe conseguire con un decreto di amni-stia, esclusi, ben inteso, i Capi ed i promotori dei disordini ...

Coloro i quali dovessero intravedere in questa Petizione la volontàumanitaria semplicemente, o più in generale un alto senso di giustizia deiConsiglieri provinciali e del Circondario di Nuoro, miranti a liberare ipadri di famiglia razziati dalla giustizia di Stato, prendono un grosso abba-glio, quando non sono veri e propri mistificatori della realtà. In verità, iConsiglieri (a quel tempo ancor più di oggi selezionati fra i “più eminentie rinomati” cittadini), da un lato mirano a farsi scudo delle vendette deirivoltosi (di cui chiedono amnistia) dall’altro vogliono finalmente convin-cere il governo a porre in essere le loro antiche richieste di militarizzazio-ne totale dei paesi allo scopo di meglio garantirsi nelle ricchezze e nellavita. Non a caso la Petizione ripropone:

Primo: ricorrere, seduta stante, al Signor Ministro dell’Internoperché interponga i suoi uffici presso il Ministro della Guerra

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onde l’Arma dei RR.CC. venga aumentata nella stazione di quelCircondario e vi spedisca prontamente una forza imponente nonminore ad un battaglione di bersaglieri.

Il logico coronamento di siffatta visione avviene l’anno successivo,quando i medesimi Consiglieri del Circondario di Nuoro avanzano alladetta Commissione d’Inchiesta il famigerato Memoriale in cui:

Si richiede la riunione della Regione di Nuoro in un ente morale,ossia in una separata Provincia, con bene organizzata polizia equel numero di carabinieri e d’altra truppa che saranno neces-sari alla prevenzione e scoperta dei delitti, destinandovi almenoper le prime un militare per prefetto ... ripristinazione del giura-mento nel processo scritto ed adozione del domicilio coatto.

Quanti affermano che tali repressioni sanguinarie e tali richieste ver-gognose da parte dei compradores sono dovute ai tempi lontani e pertantoad una visione alquanto ristretta di intendere i rapporti con la giustizia diStato, potrebbero aver ragione se si trattasse di cose risalenti a sempre piùremoti periodi storici. Tuttavia, il vedere la storia costellata di quotidianiepisodi simili, che scorrono fin sotto i nostri occhi e le nostre vite e chescorreranno sotto gli occhi e le vite dei nostri figli se non vi poniamo rime-dio, toglie ogni pur minima significanza alle loro affermazioni. Anzi, pro-prio negli storici, che possono più di ogni altro constatare la costanza esistematicità dell’intervento della justitzia, mirante a sottrarre alle comu-nità ogni spazio di autoctonia, è impossibile oggi trovare obbiettività ebuonafede.

Il 1868 è solo la prima tappa del processo di abbrutimento che vedesoggette le popolazioni sarde all’imperio della legge italiana. Ricordiamoqualche altro episodio.

La rivolta che scoppia a Sanluri nel 1881, quando gli interventi go-vernativi mirano a garantire l’applicazione di una sovraimposta di circa40.000 lire per sopperire ed incrementare le dilapidazioni degli ammini-stratori locali, in pasta con i perfetti proprietari prima francesi poi genove-si a cui i sovrani, sempre di manica larga quando si tratta di togliere aisardi e dare agli altri, hanno donato stagni e circa 1.000 ettari di terrenisottratti alle popolazioni contadine e pastorali di Sanluri, Samassi eVillacidro.

La donazione è del 14 agosto del 1838 da parte di Carlo Alberto afavore di U. Ferrand, R. Ehrsam ed E. Cullet, tutti di Montarfier. Si trattadegli stagni di Sanluri e di Samassi nonché dei territori circostanti, che

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vengono ceduti per il prosciugamento e la costituzione di “poderi modello”da far vergognare i sardi, in regime di perpetua, libera ed assoluta proprie-tà. Al podere si da il nome di “stabilimento Vittorio Emanuele” per glorifi-care il civile sovrano. Ovviamente stagni e terreni vengono sottratti allepopolazioni locali, che prima vi vantavano ogni diritto collettivo!

Manco a farlo apposta il “Vittorio Emanuele” fallisce miseramente!Tuttavia, con imbrogli e speculazione di bassa lega, nonché con l’ulteriorecorruzione degli amministratori locali e del medesimo governo, i conces-sionari trasformano il fallimento in ... Società Anonima e riescono a farsidare, previo esproprio alle popolazioni, altri 800 ettari delle migliori terredel Circondario, nonché altro stagno di S. Gavino, di 37 ettari d’estensio-ne. Ciò facendo vantano di aver tenuto fede all’impegno della concessione,facendo bella mostra dei terreni “risanati” che in verità altri non sono senon quelli sottratti al lavoro degli agricoltori locali. Ma neppure siffattemiserabili operazioni e la camorra governativa riescono ad impedire il fal-limento della società. Lo Stabilimento viene venduto per sole 570.000 lireal Marchese Pallavicini di Genova. Fino a quel punto, attenendosi alle solesomme gettate nello stagno per il prosciugamento, vi si erano spesi ben 5milioni di lire del periodo. Insomma, un vero affare per il genovese!

Quale il danno a scapito dei pastori e dei contadini?Non solo gli espropri delle terre, non solo il divieto sugli stagni di

pesca ed altro, non solo l’impedimento del pascolo nelle terre un tempoloro, ma finanche l’inondazione dei propri terreni sui cui, impunemente,vengono fatte confluire le acque nei tentativi di prosciugamento. Inoltresono impediti nell’utilizzo delle sorgenti che, pur interne allo stabilimentosono tuttavia ancora di gestione pubblica. Così pastori e contadini sanluresiinvadono il Vittorio Emanuele con le loro greggi, prendendosi di fatto quantoil diritto Statale ha loro estorto. In tale occasione però vengono cacciati daun’armata di ben 500 villacidresi.

Questo il contesto in cui si impone la sovrimposta e nascono i mottidi Sanluri. Malgrado l’iniquità che i popolani soffrono nei confronti del“Vittorio Emanuele” ed il convogliare delle risorse locali verso questo, itributi che dovrebbero pagare nel 1880 ammontano a ben 120 mila lire,cioè circa 80 lire per abitante. Per rendersi conto di quanto gravoso sia untale strozzinaggio basti pensare che la giornata di un bracciante agricolo èdi appena 75 centesimi, percepiti per sole tre stagioni all’anno. Nonostanteciò nell’81 l’amministrazione comunale decreta l’ulteriore gettito fiscaledi 37 mila lire. I popolani stufi delle continue truffe e della pesante situa-zione, si concentrano il 7 agosto di fronte alla casa del sindaco pretenden-do la definitiva abolizione della sovrimposta. I tre sempre fedeli carabinie-ri della locale caserma non si pongono scrupoli nello sparare sulla folla,

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uccidendo una donna incinta e ferendo gravemente un contadino. All’ecci-dio i popolani si infuriano a tal punto che, armatisi di bastoni e tridenti,zappe e quanto altro possono racimolare, ben pensano di fare fuori l’exsindaco Antioco Murru, uno dei maggiori responsabili della disastrosadilapidazione delle finanze comunali.

La justitzia a questo punto fa convogliare nel paese, la medesimasera, un battaglione di linea e numerosi carabinieri che si danno alla bruta-le mira sulla plebe, lasciando sulla piazza Eleonora morti e feriti quantinon mai.

Nonostante la strage perpetrata a due riprese, la civiltà di Stato non siappaga, e impone il famigerato processo alla fame: un centinaio di popo-lani, costretti alla vergogna dell’agonia in carcere, nel 1883 vengono con-dannati a pene ben poco civili. Degli 82 individui processati ben 44 vengo-no condannati:

12 a tre mesi di carcere e 51 lire di multa4 a sei mesi di carcere e 102 lire di multa1 a sei mesi di carcere1 a un anno di carcere1 a tre anni e tre mesi di carcere e 51 lire di multa1 a un anno e tre mesi di carcere e 51 lire di multa1 a tre anni ed un mese di carcere2 a tre anni di carcere1 a dieci anni di carcere2 a sedici anni ai lavori forzati17 ai lavori forzati a vita1 ebbe estinta la pena ... perché suicidato in prigione.

Tenuto conto delle ruberie, provate, messe in atto dagli amministra-tori, del fatto che solo i carabinieri erano armati e spararono sulla folla, chequesti arrestarono senza aver visto nulla e nessuno, eccetera eccetera lasentenza inorridisce finanche i cuori più duri ed abituati alla repressione;tanto più che dei sempre fedeli nei secoli solo due – e non vi è di chemeravigliarsi, essendo essi armati di schioppi e la folla di sole pietre –hanno leggere escoriazioni.

Roba dell’800 si dirà, e così è. Ma il trapasso al nostro secolo, ancoraper fare un qualche esempio, non è da meglio. Tra le stragi perpetrate finoalla fine del XIX secolo ed i primi anni del ‘900 (tra cui quella di Cagliaridel 1906, quella di Bugerru del 1904 ... ) ci soffermeremo un attimo sullaguerra sistematica decretata dallo Stato e dalla sua giustizia a scapito dellepopolazioni delle Barbagie, così come ci viene raccontata da uno dei mas-

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simi lanzichenecchi della benemerita arma dei sempre fedeli (anche quan-do si tratta di trucidare donne, vecchi e bambini).

Ormai è in auge il combattere il “banditismo” con ogni mezzo mili-tare, tra cui anche l’arruolamento di volontari o finanche la costituzione ditruppe di civili, ovviamente “di rinomati ed eminenti cittadini”. Così av-viene nel Circondario di Nuoro tra il 1871 ed il 1872, quando una squadri-glia di ben 40 borghesi, organizzata e comandata dal nobile Gavino Bellisai,si da alla caccia grossa, dando man forte ai RR.CC. ed ai militari.

Ma la strategia genocida di fine secolo viene posta in essere dal pre-sidente del consiglio Pelloux che, anche questi, vuole porre fine al banditi-smo isolano. Invia così in Sardegna adeguati rinforzi e la notte tra il 14 edil 15 maggio 1899 prende il via la triste diaspora dei barbaricini che labandiera della civiltà a centinaia sbatte in carcere, o al cimitero. In quellanotte, nei Circondari di Nuoro e di Otzieri vengono arrestati in massa:

I parenti, gli amici, i manutengoli dei latitanti, e scortati daisoldati e dai carabinieri vennero immediatamente portati allecaserme od alle vicine stazioni ferroviarie, dove altri soldati ealtri carabinieri attendevano e vigilavano.E nelle prime ore del mattino i treni, ai quali si erasegretissimamente fatto dare un largo sussidio di vetture, toglie-vano da ogni stazione tutto quel dolore, tutta quella sciagura,quell’orda di pezzenti e di proprietari, di madri e di sorelle pian-genti, di sindaci, segretari, preti, vecchi e fanciulli trasportando-li nei capoluoghi delle due provincie e nelle altre città dell’isola,dove per alcuni giorni una immensa folla continuò ad attenderealtri treni di arrestati, fra mille commenti a casaccio di altri ar-restati, di stato d’assedio, di rigore e di forca, ... (Castiglia, Un-dici mesi nella zona delinquente, Sassari 1899, riportato daAA.VV., La Sardegna contemporanea)

Ma è Giulio Bechi, sottufficiale dei RR.CC. a dirci quanta simpatiahanno i lanzichenecchi di Stato nei confronti della nostra terra e delle sueplebi. Non possiamo esimerci dal riportare almeno alcune considerazionidel primo approccio che il carabiniere ha avuto con l’isola.

Nuoro: un brulichio nerastro di villaggio steso fra le stoppiegiallicce, in uno scenario fantastico di monti, dei pastori vestiti[di] pelli, delle vie di granito battute dal vento, delle campanemartellanti un eterno tintinnio di tarantella, la capitale delbrigantaggio ci appare come un grosso e squallido borgo, dove il

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vescovo mitrato, il sottoprefetto e il comandate del presidio fan-no l’effetto di una commenda sulla casacca di un villano.

Umanissima poi la considerazione che nel significativo testo (Cacciagrossa) il Bechi fa dire ad un suo amico, ovviamente R.C. in servizio aLula: «Bella giornata! peccato che non si impicchi nessuno! fa rabbiaquel bell’azzurro sprecato su questo sporco paese!»

Ed è con questo alto spirito di civiltà ed abnegazione umanitaria chearriva la notte di S. Bartolomeo.

La bomba è scoppiata: nella stessa notte, alla stessa ora, unagran retata di tutti i grossi favoreggiatori in tutti i comuni delcircondario.Quel diavolo di capitano, zitto zitto, aveva già ideato un pianod’assedio. La città spartita in sette rioni, il personale, carabinie-ri e questurini, in sette gruppi: pronti i depositi dei prigionieri:mucchi di manette, di catene, di corde: tutto calcolato e prepara-to da mesi, senza che ne trapelasse nulla ad anima viva ...Scocca la mezzanotte: è uno sguinzagliare in tutti i sensi di cara-binieri, guardie, soldati. Un fremito è nel cuore di tutti. Riusciràil colpo audace che deve tagliar le gambe al brigantaggio addor-mentato? Il giovine prefetto si gioca in questa notte la sua bril-lante carriera. Egli si è addossato ogni responsabilità, facendosigarante del successo, ma certo a quest’ora veglia nella smaniadei primi dispacci. Guai se un barlume di sospetto è balenato aquelle quattro o cinque barbe che spadroneggiano in paese! Guaise esse sobillano il popolo! Si avrà la rivoluzione, le fucilate perle vie e correrà del sangue!Ma è tutto scuro e silenzio; una notte da assassini ...

Il civile carabiniere, in quella terribile notte di assassini che si pren-dono tutt’intera i suoi colleghi, si preoccupa per la brillante carriera delgiovane sottoprefetto, ma non batte ciglio alla consapevolezza del fatto chese solo vi è un’avvisaglia sulla retata infame, per le vie dei paesi sarebbecorso parecchio sangue. Tutti i “civili” sono cinici par suo, per cui non ci simeravigli se un suo collega, in quel frangente, manifesta il proposito dilegare in un sol fascio tutte le donne che sarebbero l’origine di tutti i mali... Trattasi delle donne sarde, è evidente, non della civile “marchesa B o dilady K”, che nel bel mezzo della miseria in cui giacciono i sardi a causadel convogliar le loro ricchezze nelle mani di quelle, possono dedicarsi apreparar “pranzi squisiti, fatti a soffi” da consumare nel “flirt ”, in mezzo

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“ai cristalli e ai fiori, in cui lo champagne corre giocondo come il riso”(ancora G. Becchi).

Così a quell’ora della notte, si bussa alle porte di ogni casa, buttando-le giù nel caso non vengano aperte all’istante dagli occupanti. Alsettantacinquenne padre dei Serra-Sanna non viene risparmiata neppure lavergogna di essere ammanettato, a quella età e nel bel mezzo del tramorti-mento del sonno. Alla figlia accade uguale, per cui legati entrambi, luiancora scalzo, vengono trascinati in strada nel mezzo delle carabine dellabenemerita. E quando:

da una casa vicina scaturiscono col lanternino in mano due vec-chie in berretta gesticolanti e fanno per abbracciar Maria Antonia[la sorella dei Serra-Sanna]... una guardia fa un salto, taglia lastrada, e ... patapum! con una botta sola le manda a ruzzolareentro la porta di faccia, si sbacchia dietro l’uscio ... non c’è tem-po di veder quel che c’è stato.

Quella notte vengono arrestate 450 persone a Nuoro e dintorni.

E lì uno spavento pazzo, un correr via all’aperto, strascinandosidietro i fagotti e i figlioli, come se in paese battesse il terremo-to», ci racconta della mattina successiva il civile Bechi. Man manoche gli arresti vengono compiuti, «quel mazzetto, che va crescen-do via via come la spazzatura» viene fatto confluire al “deposito”centrale, ove è sito il comando.Dal deposito centrale, ogni poco, una lunga sfilata di gente am-manettata, fiancheggiata dal luccichio delle baionette e seguitada un codazzo di donne in pianto, si avvia alla ferrovia, dove untreno è pronto a riceverla.

Anche su tali inumane tragedie la gente civile è sempre pronta asprecare cinismo ...

L’audacia del colpo è stata tale, che dopo tre giorni ne sonoancora sbalorditi. Si è creduto a uno stato d’assedio, a una gran-de repressione ... Nuoro è nostra».Dopo gli arresti, i sequestri. A chiunque è in odore di amiciziacon qualche bandito, si sequestra il bestiame e si manda a pasco-lare altrove sotto la paterna vigilanza della benemerita.– Volete le vostre bestie? sta bene: fateci avere il vostro amico.Chi è ormai famoso per queste razzie è il brigadiere di Oliena. Si

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è rifatto vivo dalla madre del latitante Pau. Va là col suo bravobollo [S.G. = Sequestro Giudiziario] e:– Dimmi un po’: o che aspetta tuo figlio per costituirsi?– Mah! che ne so io?– Ah si? Allora guarda.E tac, tac si mette a bollare tutto ciò che gli capita sotto. Vaall’ovile, fa una razzìa di tutti i porci e li manda al camposantonuovo, dove carabinieri e soldati non riparano a timbrare a fuo-co le natiche delle bestie, tra una sinfonia di grugniti, di belati.Poi sgranando due occhiacci spiritati e levando il terribile arne-se sul viso sbigottito della vecchia:– E se in settimana non mi fai costituire il tuo figliolo ... quant’èvero Dio bollo anche te!Indi a suon di tamburo fa un bando in piazza.– Pochi discorsi e buoni: avete visto dove sono andati i porci delPau? Se fra otto giorni l’amico non si costituisce, piglio tutte levostre vacche, tutte le vostre bestie e faccio viaggiare anche quelle.

Ovviamente i metodi della “grande patria” dei sardi e della verajustitzia, ricattando in tal modo tutta la popolazione dell’entroterra sorti-scono effetti notevoli. Vedendo tanta sofferenza abbattersi sui familiari esugli innocenti, i latitanti sono costretti ad arrendersi a troppe.

E si costituiscono infatti. Da due a tre giorni vengono, vengonocircondati dalla famiglia, sui cavallucci, sui carri; e uno tiral’altro come i matrimoni e gl’impiccati!

L’esito di siffatta azione giustiziera è l’arresto e l’incriminazione diben 700 persone, accusate tutte, oltre di delitti specifici, di associazione adelinquere.

Inizia quindi la deportazione delle centinaia di “criminali”, 600 deiquali vengono tenuti in galera dalle cure dei magistrati. Poco importa sepoi, dopo mesi, dopo anni di galera solo 320 sono rinviati a giudizio percui gli altri dopo mesi di carcere preventivo vengono rilasciati. Risulteran-no comunque pre-giudicati. Ed ancor meno interessa alcuno dei civili se alprocesso, lo stesso procuratore generale non può esimersi dal chiedere percirca 300 dei 320 rinviati a giudizio, il pieno proscioglimento ... L’esito deldibattimento è alquanto pesante ugualmente. In ogni caso il problema chesi è voluto risolvere non è rappresentato solo dai condannati, ma dall’inte-ra popolazione che si è torturato ...

Come al solito, non vi è stato alcun errore giudiziario, quindi ...

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3.1.6 La contemporaneità: il secondo dopoguerra

Leggiamo dalla Relazione del Gruppo Carabinieri di Nuoro al Pre-fetto, del 25 novembre 1944:

Il perdurare dello stato di guerra con i suoi profondi sconvolgi-menti d’ordine morale, sociale, economici e politici, aggravatidalla disfatta militare [!], non lasciano sperare in una sollecitanormalizzazione della situazione.L’abolizione della pena di morte [!], pena che era una remoraspecie in Sardegna, per gli elementi pericolosi per delitti di san-gue e reati gravi contro il patrimonio, ha influito [!] ad aumenta-re la delinquenza; ed a ciò devesi aggiungere la rallentata azio-ne dell’autorità giudiziaria nel portare sollecitamente a terminealmeno i procedimenti più gravi.... L’ordine pubblico si mantiene ancora normale, ma l’insuffi-cienza della razione del pane, la mancanza di grassi alimentari,di sapone, di vestiario, di calzature e di molte altre cose indi-spensabili alla vita, nonché il vertiginoso aumento dei prezzi,potrebbero in un momento all’altro portare ad esplosioni di mal-contento.

Nonostante ciò e, quanto più conta, malgrado la sobrietà dell’analisisullo stato in cui versano le genti sarde (tralasciamo le allucinanti premes-se dei semprefedeli ... al proprio ruolo di servi e di forcaioli), la justitzianon demorde. E sulle di già miserevoli vite degli isolani brutale e violentasi accanisce la furia assassina della legge di Stato.

Qualche esempio concreto.Anni ’70, una sera di gennaio, in campagna i benemeriti sono in

servizio per “prevenire i crimini”. Secondo la loro versione intravedono un“tipo sospetto” per cui gli scaricano addosso le armi. Nel compilare il rap-porto della brillante operazione anticrimine, armano addirittura l’assassi-nato con un moschetto, allo scopo di farne un terribile e pericolosissimobandito. In realtà si tratta di un ragazzo sordomuto, minorato, di appena17 anni: Matteo Fois, di Illorai. Il ragazzo, accorgendosi dei semprefedeli,tenta di scappare, intimorito dalla loro presenza. Semplicemente si trovain campagna a gironzolare, a farsi i fatti propri. Già quest’avvenimento,

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nella sua allucinante assurdità, rileva che tipo di rapporto “civile” è instau-rato nella Sardegna democratico-repubblicana.

Un altro caso, tra le migliaia che si potrebbero raccontare.1964, una mattina di marzo. Giuseppe Murredhu, di Fonni, dalla sua

campagna ove è al lavoro viene prelevato dalla polizia del commissariatodi Orgosolo. Formalmente viene “indagato” per una rapina avvenuta in unlontanissimo paese. Non si conoscono affatto gli indizi a suo carico; mapoco importa ai poliziotti di averne e di giustificarne. Nel commissariatoviene letteralmente maciullato dalle torture e massacrato di botte tanto che,dopo aver cercato di mascherare il tutto, i poliziotti lo consegnano mortoall’ospedale e pretendono pure che il registro d’ingresso venga redatto dandoMurredhu per vivo. Anche in questo caso, come per il precedente e tutti glialtri simili, non ci saranno assassini: solo servi dello Stato che hanno fattoil loro mestiere di ... servi!

Casi isolati, si dirà, e comunque da inserire in quel generale contestoriguardante specifiche persone ed addebitabili a pochi “sconsiderati” poli-ziotti, o carabinieri, o giudici. Invero, si tratta di “parecchi” casi. Ma nonproseguiremo oltre, in questa sede. Ci interessa maggiormente, prima diterminare il capitolo, accennare almeno ai “metodi di massa” che caratte-rizzano l’intervento della justitzia democratico-parlamentare in Sardegna,in questo ultimo scorcio di secolo.

Non possiamo esimerci dal riportare ampi stralci di un testo, di quelliche venti anni addietro solevano dedicarsi ai fenomeni di criminalità, an-che se, a dire il vero, ai nostri occhi il libello ci appare più una apologiadella Criminalpol e del suo funzionario Guarino, che un qualcosa di serio(ma questo nostro giudizio, ne siamo sicuri anche noi, non può di certosignificare l’inficiamento della “notevole opera” di civiltà che, “nel suocomplesso” la forma Stato ha apportato all’isola di Sardegna). Stiamo par-lando di “L’Anonima sequestri”, di Mario Guerrini.

Cagliari, fine novembre del 1968. Polizia e carabinieri si logo-rano alla ricerca di Antonio Mannatzu e dei suoi rapitori. Arrivauna telefonata in questura. È mezzogiorno e mezzo.Presto, venite. Mi vogliono rapire!È Franco Trois. Pantere e gazzelle cariche di agenti e carabinie-ri sono in un baleno nel viale Trieste. È qui che Trois ha i suoiuffici, a cento metri da quelli di Nanni Fodde. È da qui che hatelefonato. Fermano tre persone. Gente di fuori, dei paesi del-l’interno dell’isola. Li riconoscono subito dall’aria contadina,dall’abbigliamento goffo. Sono due pastori di Ollolai, AntonioArbau e Michele Casula, e il proprietario d’una cava di marmo

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di Borore, Francesco Angelo Ibba. Un’auto dei carabinieri vasino a Sarule. Fermano una quarta persona. Salvatore Sini, uncommerciante.Vengono incriminati per tentato sequestro di persona. La stessasorte, giorni più tardi, toccherà ad altri due uomini e ad unadonna, moglie di uno degli indiziati.È un bel colpo per le forze di polizia. Finalmente sono riuscite amettere le mani sui fuorilegge prima ancora che attuassero il loropiano criminoso. È un fatto senza precedenti.

Questo di sparare sentenze pare sia abitudine di coloro che dall’altodegli scranni del potere (stavolta da quelli dei pisciainchiostro), appena sidedicano a trattare di cose sarde, si sentono in dovere di dire tutto ciò chepassa loro per la testa! Anche le cose più assurde e più false. Così è per ilsig. Guerrini, che evidentemente non s’è affatto preoccupato di andare avedere se il caso avesse oppure no dei precedenti.

Se l’avesse fatto si sarebbe accorto di sicuro che questi vi sono, eccome.Però, vogliamo credere, quel senza precedenti, lo abbia voluto riferire alfatto che, ormai – così come per il vicerè Rivarolo (ricordate?) che accomu-nava barba e banditi – inizia l’identificazione dei criminali non più inbase all’essere sardi, bensì “sull’aria contadina”, o sull’essere “pastori” oancora più semplicemente sul fatto di essere “delle zone dell’interno”. Questisono di per sé se non sicure prove, altrettanti indizi sufficienti per sbatterela gente in galera. Se poi a tali indizi si aggiunge il fatto che persone aventi“l’aria” di cui sopra, se ne stanno a gironzolare per la metropoli cagliarita-na, magari alla ricerca di un bar in cui bersi ciò che si ha voglia di bere;beh, questa è prova che sicuramente stanno pensando di organizzare unpossibile delitto. Se poi si fanno coincidere i neppure tanto insani timori diricchi compradores che in ogni persona sconosciuta, solo però se non in-dossa giacca e cravatta, vedono un possibile sequestratore, si ottiene perdavvero un “bel colpo per le forze di polizia”!

In realtà il tentato sequestro di persona di cui vengono accusati i“contadini ed i pastori”, insomma “quella gente dei paesi dell’interno”,altro non è se non pura immaginazione di Franco Trois, che deve farsi“curare una forma d’insonnia ... da quando ha rischiato d’essere rapito”(Guerrini). Per lui, ormai, per il sig. Guerrini e le forze di polizia, ogniombra di pastore o contadino è un attentato al privilegio!

E come Franco Trois ve ne sono a decine, in Sardegna. Così cheprende piede, via via, una nuova strategia altrettanto sistematica ed altret-tanto “scientifica” di reprimere l’alterità sarda. In pieno periodo repubbli-cano!

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La nuova strategia è semplice. Se sei delle zone interne (cioè “cittadi-no” non statizzato) sei sicuramente un pericoloso criminale per cui vaiarrestato; se sei pastore sicuramente sei un sequestratore e quindi vai arre-stato; se poi non sei un criminale, stai progettando di esserlo, e quindi vaiarrestato; se infine non stai neppure progettando alcun crimine, al momen-to stai pensando di farlo, e vai arrestato!

Che il sig. Guerrini, nel suo approfondito studio sul banditismo iso-lano, sentenziando che l’arresto delle persone di cui sopra, sia “un fattosenza precedenti”, intendesse in verità affermare il battesimo di questanuova “logica” inquisitoriale che d’ora in avanti prende piede? Glielo au-guriamo di cuore! Se così non è farebbe bene – se ancora in vita – a mutareil mestiere di scribacchino per dedicarsi alle barzellette.

Vediamo il clima in cui la nuova “logica” repressiva si innesta.Peppino Marotto:

In annate di ghiande, con i maiali si guadagna. Nel ’49 avevo unbel branco, ma in agosto è passata le peste suina, i maiali ebberogiramenti di testa e vomito e mi sono morti tutti. Tutti i maialisono morti a Orgosolo nel ’49, e i pastori si videro all’improvvi-so disoccupati e avviliti dai debiti. Ero segretario dei giovanicomunisti, volevamo cancellare la stupida tradizione secondo cui“chi non è buono a rubare non è buono a nulla”. Difficile. Moltipresero a rubare bestiame, per rifarsi il gregge, e avvenivanorapine e vendette, episodi gravi di banditismo, e la polizia mette-va a soqquadro le case, andava negli ovili, prendevaindiscriminatamente gli uomini trovati a lavorare in punti vicinial luogo del delitto e se non c’erano le prove niente processo, maugualmente li getta al confino.

Più oltre:

Il 16 settembre 1950 uccisero a Orgosolo il barbiere Taras. L’in-domani mattina presto, trecento carabinieri assediano il paesepersino con mitragliatrici: fanno perquisizioni, rovesciano le stan-ze, arrestano un’infinità di gente. Io mi alzavo e vedo entrare incasa, pallidi in faccia, il mitra spianato, una ventina di carabi-nieri. Nonostante le mie proteste, fui ammanettato. Mamma guar-dava disperata. Vedendomi rapito, cadde nelle scale con fortedolore al cuore e non si rialzò più. Dopo due mesi è morta, senzache ci rivedessimo.M’hanno tenuto incarcerato e non dicevano l’accusa. Poi eccola:

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favoreggiatore di banditi. Non c’erano prove. Inventandosi lamia pericolosità sociale, riuscirono a spedirmi al confino, quat-tro anni da passare a Ustica. È stato un viaggio terribile, qua-ranta giorni nei vagoni cellulari, sostando in prigioni di transito,sporchi, maltrattati nel rancio. Non potevamo cambiarci il vesti-to, non ci permettevano di fare la doccia, perché eravamo in tran-sito. Arrivati a Ustica ci mettono a gruppi in cameroni che eranoscuderie per cavalli ... Percepivamo una “mazzetta” di 150 lireal giorno, delle 300 che ci spettavano. Il fatto è che la metà an-dava in tasca a un industriale palermitano, padrone delle terremigliori di Ustica. Cioè un suo dipendente tratteneva 150 lireper la pulitura dei lenzuoli, distribuzione di brande eccetera.Questo lavoro lo faceva un confinato per 150 lire al giorno, ecosì l’industriale ingrassava dai soldi succhiati a noi. Eravamouna quarantina di sardi ...

Se si fosse aggiornato un attimino di più, il sig. Guerrini, si sarebbeaccorto che l’arresto preventivo, addirittura prima anche di aver pensato diprogettare ... era prassi costante da parecchio tempo. Tuttavia, ci si potreb-be opporre che in ogni caso si tratta di tempi remoti e che oggi certe cosenon accadono più.

Dicembre 1979. Orune (NU). Località sa Yanna bassa. Notte fonda.In una cruenta sparatoria muoiono 2 persone, centrate dal fuoco dei

carabinieri, non più Regi ma semplicemente democratico-repubblicani anchese ancora benemeriti e semprefedeli. La loro versione dei fatti: nel corso diuna perlustrazione, dopo un controllo ad un posto di blocco di alcunepersone che viaggiavano in auto e le cui spiegazioni non ci hanno convin-to, illuminiamo l’ingresso di un ovile in cui ci siamo recati per prevenireeventuali azioni criminali, e da cui provenivano delle voci “sospette”. Trepersone che stavano fuori, illuminate dal fascio di luce, ci sparano addos-so, ferendo il comandante dell’intrepida squadra. Rispondiamo al fuoco ementre uno del terzetto riesce a fuggire, gli altri due restano cadaveri perterra.

Nel corso del “conflitto” rimane ferito il comandante, che per l’ecce-zionale azione anticrimine viene promosso, oltre ad essere medagliato dal-l’allora presidente della repubblica Sandro Pertini, oggi sicuramente inparadiso. Vengono arrestati tutti coloro che al momento si trovano dentrol’ovile: si tratta di persone tutte pre-giudicate (e infatti la gigantesca con-danna non gliela toglie nessuno). I due cadaveri si scopre, poi, che appar-tengono a “pericolosi” latitanti. La versione, diciamo così, ufficiale, è po-sta in dubbio da tutta una serie di riscontri contraddittori, e cozza con fatti

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incontrovertibili. Seguiamo quanto afferma Carmelino Coccone, proprie-tario dell’ovile e quella notte arrestato assieme ad altre sette persone che, oerano con lui, dentro l’ovile, al momento della sparatoria, oppure lo eranomolto prima.

La presenza dei latitanti, anche se fuori dalla casa, “dimostra-va” che il mio ovile era un “covo di banditi”, come dicevanoloro, un nido di vespe che andava distrutto. E la brama distrutti-va andavano sfogandola man mano che si adoperavano nellaricerca di chissà quali cose. Iniziarono un centinaio di sacchi dimangime per il bestiame, squartandoli e spandendone il conte-nuto, tagliuzzarono tutte le forme di formaggio; il tetto della casafu scoperchiato, i muri ed il pavimento scavati. Per un paio digiorni non fu permesso a nessuno di avvicinarsi all’ovile, neppu-re per mungere le pecore: le ricerche continuarono per mesi ...In occasione del nostro arresto, in Sardegna erano in corso di-versi sequestri di persona, tra i quali quello dei noti cantantiDori Ghezzi e Fabrizio De Andrè, nonché quello degli Schild,una famiglia inglese: due coniugi con la loro figlia. Per gliinquirenti, la presenza di tante persone nel mio ovile, tra cui duelatitanti, stava a significare che si stava operando su qualcosa di“losco”. Immancabilmente doveva essere nelle nostre maniqualcuna, almeno, delle persone che si trovavano ancora in ostag-gio. Nei primi giorni anche la stampa si fece interprete degliinnumerevoli motivi che dovevano giustificare quella “grossa riu-nione”, avanzando sospetti ed illazioni in modo particolare sulsequestro dei cantanti. Ma dopo qualche giorno dal nostro arre-sto venne rilasciata la Ghezzi e subito dopo anche il compagno,entrambi ad un centinaio di km dal mio ovile. Dalle loro dichia-razioni fu chiaro che il luogo della prigionia non era così lonta-no dal luogo del rilascio, perché entrambi furono d’accordo nelsostenere d’aver percorso poca strada prima della liberazione.Però un ruolo ed una finalità a quella che gli organi informatividefinirono, già condannandola, una “riunione d’affari” bisognavapur trovarli e poco importava se tutti i presenti, dico tutti, persi-no i latitanti, avevamo ragioni “quotidiane”, se non banali, pertrovarci in quel luogo (diversi eravamo nel nostro posto di lavoroe i latitanti, ancora più naturalmente, vicino ai familiari). Non sipoteva ridurre al vero “quella riunione” ridimensionandone cosìla portata criminale senza rischiare di rendere ridicola la “bril-lante operazione” che l’aveva interrotta. La morte delle due per-

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sone ed il ferimento del militare dovevano essere presentati inuna luce ancor più cruenta di quanto non si presentasse sponta-neamente. La sanguinosa sparatoria non doveva significare lafine della fuga di due latitanti in cerca di riparo per l’imperver-sare del cattivo tempo, ma il solito eroico “arrivano i nostri” cheaveva ragione di una pericolosa banda in azione. L’azione ...apparentemente non c’era, ma doveva esserci, diversamente bi-sognava inventarla. Per cui, vista naufragata in quel momento la“tesi” riguardante il sequestro dei due cantanti, l’attenzione digiornalisti e inquirenti, virò in altra direzione: il pluri-sequestroSchild. Il giudice di Tempio, già una settimana dopo il nostroarresto, inviò a tutti una comunicazione giudiziaria inerente talesequestro. Qualche mese dopo pure questa “verità” giornalisti-ca e giudiziaria venne clamorosamente smentita: quelli che sidissero responsabili del sequestro Schild ammisero la loro parte-cipazione al fatto. Nessuno dei presenti quella notte nel mio ovilevi risultò implicato. Esattamente come per il sequestro Troffa chea suo tempo si cercò di addebitarmi ... ... La versione del capitano [l’ufficiale che rimase ferito nelloscontro a fuoco avvenuto la notte del dicembre ’79 a sa Yannabassa, di cui sopra] che nessuno potè smentire, perché nessunovide, oltre i carabinieri che erano con lui. Forse neppure questierano in grado di dire come veramente si erano svolti i fatti, inquelli attimi drammatici. In ogni caso è evidente che neanchevolendolo avrebbero potuto smentire il loro superiore.Tuttavia anche solo leggendo le carte processuali i dubbi sullaveridicità di quanto raccontato, e fatto credere dall’ufficiale, ri-sultavano innumerevoli. Uno, il più lampante, arriva dal ritrova-mento dei bossoli della pistola del capitano nel punto esatto doveavrebbe dovuto trovarsi quando dice di aver dato l’alt e acceso ilfaro. Non è vero quindi che abbia sparato solo dopo essere statocolpito, perché da questo punto a dove sono stati trovati i bossolidella sua pistola vi sono circa dieci metri di distanza. Ed è pococredibile quando dice di essersi limitato, all’inizio, solo a segui-re con la luce della torcia il terzo fuggitivo (quasi volesse aiutar-lo a fuggire illuminandogli la strada, senza badare invece aglialtri due che avrebbe visto nell’atto di impugnare le armi).È più logico pensare che appena i tre vennero illuminati dallaluce del faro e istintivamente presero a fuggire, lui iniziò a spa-rare (come la posizione dei bossoli confermava), sicuramentecolpendoli prima che riuscissero a varcare il cancello. Tant’è

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che caddero entrambi appena qualche metro più in là. Uno diessi, poi, vedendosi colpito, ha fatto partire i due o tre colpi difucile che si dice abbia esploso. Così si spiega il fatto che, nono-stante la breve distanza (un paio di metri) ed il facile bersaglio,considerato che l’ufficiale doveva avere in mano la torcia, rag-giunse lo stesso solo con due o tre pallini. Non c’è dubbio, quin-di, che quei colpi siano partiti dall’arma di uno dei due latitantiche moriva, negli spasimi dell’agonia.L’altro, che si dice fosse ugualmente armato sino ai denti, nonesplose neppure un colpo.Se quei latitanti avessero voluto sostenere una sparatoria, invecedi fuggire, una volta varcato il cancello sarebbe stato sufficientemettersi dietro il muretto (che a dire del militare avrebbero supe-rato subito indenni) per far fronte, senza correre alcun rischio diessere colpiti a loro volta, non a una ma a cento persone armate.È ancora inspiegabile, infine, il perché gli altri due carabinierisentendo sparare, non abbiano anche loro fatto uso delle armi.Eppure erano lì, davanti alla porta e ad un metro dai morti, quandomi affacciai appena finiti gli spari, mentre il capitano, ferito, eraancora a terra ed il faro lo teneva in mano un altro carabinierenon l’ufficiale.Per questi, è chiaro, non sarebbe cambiato niente se avesse am-messo di aver sparato prima, anziché dopo, sui latitanti; ma havoluto inventare questa storia, alquanto dubbia per chi si prendela briga di esaminarla attentamente, semplicemente per “argo-mentare” il suo eroismo esagerando volutamente il pericolo cor-so.Viene anche da pensare che con la sua favola abbia voluto na-scondere la realtà dei fatti per chissà quali motivi ... Certo, imisteri su quella notte restano tanti, né mi sento in grado di sco-prirli completamente. Sarà il tempo stesso, forse, a spazzare leombre che per il momento celano la verità.Al processo queste cose furono argomentate dagli avvocati, maovviamente non sono state prese in considerazione. Del resto,dato il clima del periodo, non c’era neppure da sperarlo. Si pote-vano forse mettere in dubbio le parole di quel valoroso militareferito, che aveva rischiato la propria pelle per compiere il suodovere?A sparare per primi, si sa, devono per forza essere i latitanti, ibanditi, i fuorilegge, individui che non vogliono sentire di rien-trare in prigione!

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I carabinieri sono sempre corretti e non sparano mai se non perdifendere la legge o se stessi. E se anche succede che a caderesotto il “piombo giusto” sia gente inerme, evidentemente qual-cuno di loro, come sempre, è scivolato. I latitanti invece sarannosempre colpevoli e la loro eliminazione sarà un fatto legale apriori. Gente senza valore, persone nocive, che diritto hanno allavita? E poi girano armati ... Quale prova migliore per dirli col-pevoli? Solo un uomo della legge può girare armato! Gli altridevono assoggettarsi. Chi si arma, fosse pure soltanto per difen-dersi dai cacciatori di taglie, coperti e armati dalla legge, è diper se un criminale: è il rispetto delle regole che sancisce l’one-stà, non quello della vita. Perché uno sfugge alla cattura? Se nonè un criminale il “cittadino” deve restare bello e tranquillo adaspettare che vengano a prelevarlo per seppellirlo vivo, a volteper il resto dei suoi giorni. Questa è la legge e la legge è la“Giustizia”.Non per niente, dopo alcuni mesi da questi fatti, a quell’ufficia-le, oltre ad un nuovo grado, gli venne conferita una medagliad’oro al valore militare dal capo dello Stato. L’anno seguente,mentre era in appostamento alla periferia di Orgosolo, uccise unaltro giovane, padre di famiglia, che rientrava pacifico a casadopo aver sistemato le bestie. Non aveva addosso nessun’arma,ma il valoroso ufficiale ritenne ugualmente di fare fuoco più vol-te su di lui, sicuro in ogni caso di non finire in prigione come unqualsiasi assassino. Per questo ennesimo atto di eroismo non haavuto altri encomi, ma neppure alcun ... rimprovero». (Carmeli-no Coccone: Autobiografia / Zustiscia mala)

Beh! tra la versione di un pre-giudicato e quella di un “onesto” bene-merito, fregiato della medaglia al valor, sicuramente i più pii ed onesticittadini accreditano quest’ultima. Ma è possibile che almeno una volta cisi possa sbagliare? Ed è sempre vero che un capitano dei CC dev’essere perforza un galantuomo?

Manco a farlo apposta, ci viene in aiuto una notizia ampiamente ri-portata e commentata dai due quotidiani isolani, esattamente del 3 aprile1992.

L’Unione sarda:

... il tenente colonnello Enrico Barisone [l’allora capitano dellasquadriglia CC che nei fatti di sa Yanna bassa restò ferito edebbe medaglia e gradi assicurati], comandante del Gruppo di

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Vercelli, è stato denunciato per abuso di potere, concorso in de-tenzione illegale di armi, falso ideologico, calunnia nei confrontidella polizia e peculato militare.

La Nuova Sardegna, è più precisa:

Per la seconda volta, Enrico Barisone, ..., infaticabile inquirente,si trova nella scomoda posizione di inquisito ... Sempre in unastoria di armi, ma questa volta si trattava di un traffico a livellointernazionale, era spuntato il suo nome nel corso della maxi-inchiesta condotta dal giudice Palermo. Era l’85. Allora gliinquirenti ritenevano che avesse smerciato 44 rivoltelle. Lui sidifese dicendo di averle acquistate per sondare [!!!] l’effettivaportata del canale di rifornimento nel quale i due principali im-putati del processo avrebbero avuto la parte dei fornitori.

Ora, si può certo comprendere la strategia investigativa dell’onestoCC semprefedele, ma siccome non siamo imbecilli al punto di non usareun minimo di logica, siamo purtuttavia convinti che i conti non quadrano.Se, infatti, il medagliato tenente colonnello neo doveva sondare i rifornitoridi armi – e pertanto acquista da essi le rivoltelle e non sappiamo se purealtro ... – che necessità aveva poi di smerciarle? a che prò? per sondareforse anche, dopo i rifornitori, gli acquirenti, dato che le ha rivendute?Misteri inquisitoriali. Certo è che in quel primo processo il neo tenentecolonnello “fu convincente”, tanto che ovviamente venne assolto del tutto.

Il cronachista de “La Nuova” quindi prosegue:

L’ufficiale è ora coinvolto in una vicenda poco chiara che ri-guarda il ritrovamento di due pistole in possesso di un pregiudi-cato. Insieme con lui devono rispondere degli stessi reati tresott’ufficiali dell’Arma ... Il tenente colonnello Barisone, per ilmomento è stato sospeso dall’incarico, così come i tresott’ufficiali. Secondo quanto ha rivelato il procuratore della re-pubblica ..., la vicenda che vede coinvolti i cinque prende le mossenel dicembre scorso, quando i carabinieri inviarono un verbalealla magistratura sul ritrovamento di una vecchia pistola Berettain una cantina della casa del Domis [il pregiudicato confidentedei CC]. Qualche tempo dopo, la stessa arma fu trovata dallapolizia dopo una perquisizione in casa del pregiudicato. Que-st’ultimo, che pare sia un “collaboratore” delle forze dell’ordi-ne, inviò un esposto alla magistratura, dicendosi perseguitato

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dagli uomini della Questura di Vercelli. Interrogato dalla magi-stratura l’uomo avrebbe chiamato in causa il tenente colonnelloBarisone, dicendo che da lui aveva avuto la Beretta e anche un’al-tra pistola, una calibro 7,65, custodita nella sede del comandocarabinieri di Vercelli. Dall’inchiesta, sempre secondo quantoha affermato il procuratore Scalia, è poi emerso che il verbale dirinvenimento della pistola Beretta era fasullo e che sarebbe statoredatto con la complicità dei sottufficiali su ordine dell’ufficiale.

Beh! come onorabilità del semprefedele e compagnia varia non vi èche dire. Ma siamo comunque sicuri che anche stavolta il medagliatosemprefedele riuscirà ad essere “convincente” con i giudici. A ciascuno lesue conclusioni.

A noi basta ricordare che, come riporta il medesimo cronista della“Nuova Sardegna”, nel 1984

arrivarono in Sardegna due commissari del ministero di Grazia eGiustizia per vedere chiaro su un interrogatorio del giudiceLombardini al boss Raffaele Cutolo, interrogatorio al quale avreb-be partecipato Barisone. Ma in quel caso si stabilì [come al soli-to] che il maggiore dei carabinieri era presente all’Asinara solocasualmente proprio il giorno in cui Lombardini sentiva “don”Raffaele.

A noi tale “casualità” pare una bella balla: primo perché simile coin-cidenza non poteva mai avvenire; secondo perché, che noi si sappia, uncarabiniere per quanto medagliato non ha certo libero accesso ad un carce-re, pergiunta speciale e pergiunta in una isola dove vi si sarebbe dovutorecare appositamente; terzo perché Barisone ed il giudice Lombardini rap-presentano un’accoppiata che insieme a tanti altri, hanno posto in esserenell’isola, negli ultimi due decenni, quel sistematico terrorismo di massala cui logicità è la sapiente repressione preventiva a suon di ricatto, arrestidi interi nuclei familiari, costruzione di megaprocessi neppure indiziarima basati esclusivamente sui parametri individuati dal sapiente cultore dibanditismo sardo qual’è lo scribacchino Guerrini. Stavolta con l’uso scien-tifico di “pentiti” appositamente creati nelle caserme e negli uffici giudi-ziari.

Ce lo rammenta lo stesso cronista della “Nuova Sardegna”:

Certo è che il suo campo attivo [di Barisone], in Sardegna, ave-va un ampio raggio, ma pur spaziando in diverse direzioni trova-

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va nelle inchieste sui sequestri le sue migliori performance. Tan-t’è che i contorni dell’Anonima Gallurese andarono delinenandosiproprio nella sua caserma di Abbasanta: è lì che Contini e Baliainiziarono a pentirsi, mentre arrivava da Tempio il giudiceLombardini.

Un centinaio di sardi “di quelli delle zone interne”, per intenderci,furono allora internati nelle galere, e deportati poi in Italia sulla base delleindicazioni di “colpevolezza” di pentiti in seguito liberati, nonostante laloro confessata partecipazione attiva a delitti truci.

Ancora prima della “Superanonima Gallurese”, vi fu la altrettantogigantesca operazione politico-terroristica-giudiziaria denominata“Superanonima Sarda”, con 91 imputati alla sbarra, il cui processo siconcluse nel dicembre del 1982.

Inutile rimarcare il fatto che, nonostante spie e delatori, confidenti ecomunque pseudo-pentiti manipolati e manovrati neppure tanto abilmentedalle febbrili mani e menti di magistratura e forze dell’ordine, per decinedi imputati vi fu l’assoluzione per “non aver commesso” nulla. Restò sullaloro gobba l’atto repressivo, dilapidazioni patrimoniali per spese processuali,avvocati, confino, soggiorni, abbandono delle attività ...; poi il carcere intotale isolamento anche per 6, 8 e pure 9 mesi.

Ma quanti, dei condannati, sono effettivamente innocenti? Noi pos-siamo dire e documentare solo alcuni casi, neppure tanto esemplari: il fe-nomeno è di proporzioni talmente gigantesche che sarebbe impossibile,anche volendolo, riuscire a condensarlo in centinaia di volumi. Speriamosolo di aver dato – sia pure per linee generali – i contorni di un fenomenoin evoluzione continua, che ha preso piede a partire sicuramente dal IIIsecolo avanti la nostra era.

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3.2.0 La repressione sociale

Il momento saliente dei rapporti tra i diversi colonizzatori che si sonosusseguiti nell’isola, da una parte, ed i ceti sociali della ruralità, dall’altro,è stato sempre il tentativo di spezzare la resistenzialità materiale e spiri-tuale di quest’ultimi. Pur di raggiungere tale fine, romani e successori nondisdegnano il ricorso alla prassi della “emergenzialità”, che giustifica ogniazione, anche la più brutale ed illegale rispetto agli stessi codici dello Sta-to.

I romani se da un lato decretano l’isola una provincia dell’impero,dall’altro non dismettono neppure per un attimo lo stato di guerra perma-nente contro i sardi non romanizzati. Da qui la costante prassi delladepotazione di ampie schiere di ribelli, trascinati in catene nella capitaledella “civiltà”.

Se gli iberici alla fine rinunciano a conquistare alla “spagnolità” ivassalli isolani, non sono affatto pietosi nei loro confronti ogni qualvolta ildominio viene posto in essere. Per cui è praticamente un controsenso par-lare di diritto, diritti e giustizia in Sardegna, riducendosi ogni rapportocon le istituzioni (incluse quelle giudicali) allo stato di guerra ed alle sueferree leggi basate sul rapporto di forza reale. Inoltre il sistema penaleelaborato dallo Stato Giudicale è rimasto sostanzialmente inalterato finoalla metà del XIX secolo, integrato solo dei momenti sovvenuti nel trascor-rere del tempo.

Già le pene giudicali abbiamo visto essere assai esplicite sul come

Capitolo SecondoRepressione e carcere in Sardegna

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s’intenda combattere l’autodeterminazione delle comunità e la loro cultu-ra. Fustigazione, marchiatura a fuoco, tortura, squartamento, impiccagionesono i momenti essenziali della penalità “civile”; il massacro genocida èinvece quello saliente dello stato di guerra. Entrambi talmente in simbiosiche non è affatto possibile separare e distinguere gli uni dagli altri.

La prigione, in un sistema simile, si riduce a ben poca cosa: i possi-denti possono evitarla pagando la multa, mentre per i nullatenenti nonrappresenta affatto l’essenza della punizione, essendo questa o corporale odi natura più violenta. In tutti i casi la prigione è prevista per le pene dilieve entità oppure per chi è in attesa di giudizio. Per cui anche il tempo direclusione è assai ristretto.

La condizione dei carcerati è, a dir poco, miserevole. Ad amministra-re la giustizia sono preposti nei singoli feudi gli stessi feudatari; nei terri-tori della corona le Corti di giustizia. Queste giudicano in appello sullesentenze emesse nei feudi, sui delitti considerati “gravi”, sui contrasti trafeudatari e vassalli. I ricorsi in appello sono, in pratica, inesistenti almenoper i vassalli, per il semplice fatto che non possono permettersi di affron-tarne le spese. Eccessive ed insostenibili anche per i piccoli possidenti,perché avvocati e burocrazia, come concordano storici e contemporanei,fanno di tutto per allungare i tempi delle cause onde giustificare parcelleenormi ed incrementare illeciti introiti “sottobanco” dagli inquisiti facol-tosi.

I feudatari hanno il compito di gestire le prigioni ed i prigionieri deipropri feudi, per cui usufruiscono di uno specifico tributo. Ma nessuno diessi ha la benché minima volontà di spendere un soldo per le une e per glialtri. Così le carceri feudali, quando esistono, altro non sono che edificipericolanti, spesso privi di infissi ed affatto insicuri, quando non addirittu-ra mancanti di qualche parete perché crollata nell’incuria. Qui i detenuti egli stessi carcerieri possono solo pernottare in un miserabile giaciglio. I“detenuti” di giorno vengono lasciati completamente liberi di circolare nellevie delle ville ad elemosinare la propria sopravvivenza, in quanto il feuda-tario, o chi per esso, nulla stanzia né per vitto né per altro. Non è affattoraro il caso che i prigionieri (!) vengano liberati da bande di armati, cheassaltano i carceri baronali più sicuri, tanto che a più riprese, soprattutto ipiemontesi, si lamentano della deplorevole questione.

Tale condizione perdura fino alla fine del ‘700 e, modificata solosuperficialmente, per tutta la prima metà del secolo successivo, quandoanche in Sardegna vengono costruiti i carceri cellulari ed il sistema feuda-le è scomparso, ultimo in tutta Europa, per lasciare il posto al penitenziariocome luogo (quasi) unico ove scontare le condanne. “Ritardo” funzionalealla politica colonialista spagnola e piemontese, che lasciano intatto lo sta-

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to di guerra permanente contro le popolazioni rurali, non addomesticatealla sferza della rapina economica e dell’acculturazione.

Una caratteristica che emerge di già nel periodo iberico, ma che sievidenzia in modo assoluto durante la dominazione piemontese ed italia-na, è il fatto che qualora i responsabili delle repressioni siano sardi, supe-rano sempre in ferocia gli stessi colonizzatori, andando ben oltre il compi-to loro assegnato. Ciò, in parte per ingraziarsi i padroni, latori del loroincarico, ma soprattutto al fine di perpetrare vendette ed eliminare impu-nemente pericolosi concorrenti ed avversari.

È il caso delle ritorsioni cui viene costretto il Sulis, capo delle miliziedella città di Cagliari, che godrebbe di vasta stima fra le masse popolari delcapoluogo. I suoi nemici, pur di eliminarlo, non si fanno scrupoli nell’in-ventare di sana pianta un complotto contro la famiglia reale, di recentesbarcata per la prima volta nell’isola, in seguito alla fuga dai ducati diterraferma invasi dalle truppe francesi. Corre l’anno 1799.

In un primo tempo (il 13 aprile) due sostenitori del Sulis vengonoarrestati ed immediatamente tradotti nelle celle della torre dello Sperone,ad Alghero. Successivamente altre cinque persone vengono catturate e de-portate a Minorca, all’epoca sotto il dominio inglese. Sono però rifiutati datali autorità, per cui vengono tradotti nelle segrete della Torre dello Spero-ne. In seguito numerosi altri vengono arrestati, tra cui diversi esponentidella borghesia cagliaritana.

Infine viene arrestato lo stesso Sulis e tradotto sotto scorta di circa200 militari piemontesi nelle celle della Torre dell’Aquila (14 settembre1799). Data la personalità dell’imputato questi ha salva la vita, ma è con-dannato al carcere perpetuo. Solo nel 1821 ottiene la grazia. I giudici im-piegano ben 5 settimane nel dibattimento. Si oppongono energicamente ledue fazioni della borghesia cittadina: da una parte i progressisti, che ilSulis difendono sostenendone l’innocenza; dall’altra i reazionari/assolutisti,che quello accusano. Gli atti processuali dimostrano con quanto accani-mento gli stessi compradores isolani vogliono far fuori una persona nongradita ai piemontesi a causa della vasta simpatia che gode presso le massecagliaritane. Si deve ricordare, infatti, che il Sulis, grazie all’ascendentesui cagliaritani riesce a frenare sempre la radicalità delle loro proteste,incanalandole verso il mantenimento dello status quo. Le sue milizie noncondividono il moto antifeudale poi cavalcato dall’Anjoy, e solo dopo chesottoscrive la petizione ai sovrani questi si degnano di trasferirsi a Caglia-ri; il Sulis garantendo, in pratica, la loro incolumità da eventuali aggres-sioni di popolo.

Tuttavia è proprio il suo carisma a rappresentare un serio pericoloper lo Stato coloniale. I Savoia mal sopportano che un sardo goda di tal

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prestigio; meglio non fidarsi, per cui viene fatto di tutto per esautorarlo dacapo delle milizie cittadine. Caduto il Sulis in disgrazia, si provvede allaradicale riforma delle truppe militari, in modo che dipendano completa-mente dai sovrani o da uomini di loro assoluta fiducia. La “Centuria Leg-gera” composta esclusivamente di elementi sardi, viene soppressa e moltidei suoi uomini finiscono nel “Corpo dei dragoni leggeri”, gli addetti allarepressione del banditismo.

Al posto della “Centuria Leggera” viene istituita la “La Centuria diCacciatori Esteri”, i cui miliziani, tutti “esteri” appunto, vengono postisotto il comando del capitano tedesco Pruner. Solo nel 1808 questi sonoinquadrati nel “Corpo dei Cacciatori di Savoia”, in cui vengono ammessi,ma solo per mancanza di elementi esteri, anche i sudditi isolani.

Già il “riordino” delle truppe, la loro composizione e funzione, gio-cano un ruolo fondamentale nella repressione sociale. Altro elemento con-nesso al dichiarato coprifuoco è che “per motivi di ordine pubblico” siimpone il disarmo dei sardi, la limitazione dei loro movimenti ...

Tanto timore incutono le armi in mano ai sudditi isolani che vengonoproibiti persino i fuochi artificiali in tutte le occasioni, anche religiose!

Il carcere rimane un sistema di punizione nella pratica inesistenteper i poveri. I “tratti di corda” e la “bastonatura” sono i sistemi più comunidi infliggere pene di “lieve entità”. Tanta è l’umiliazione nel subire talipene corporali, pergiunta in pubblico, ancora ai primi dell’800 che, rac-conta nei suoi diari l’avvocato Lavagna, cagliaritano, un pescatore si viderifiutare dalla promessa sposa il matrimonio, di già stabilito (1802).

Bastonatura pubblica subiscono anche 4 sanluresi, di cui due vecchi,nel 1799 allorché in delegazione (in tutto un centinaio di persone) si reca-no a Cagliari per protestare contro l’iniqua ripartizione dei tributi feudalinel grosso centro campidanese.

3.2.1. Il carcere in Sardegna

Ancora in pieno ‘800 il sistema carcerario isolano si riduceva alledue realtà di tipo feudale: Cagliari che disponeva delle carceri della Torredi S. Pancrazio, della Torre dell’Aquila e della Torre dell’Elefante (le ul-time due per i detenuti politici); Alghero che disponeva delle celle dellaTorre dello Sperone.

Erano queste le carceri reali, ovvero quelle atte a contenere i prigio-nieri incorsi nella giurisdizione della giustizia del sovrano. Vi finivano ipopolani delle città per brevi periodi di tempo; oppure gli appartenenti aiceti privilegiati se condannati o indagati per reati gravi o politici (il Sulis,come abbiamo visto, per esempio); infine coloro che erano in attesa di

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giudizio, ma sempre di competenza della giurisdizione reale.L’esistenza delle altre molteplici punizioni (corporali, ai remi, capi-

tali, ecc.) limitava enormemente la funzione di carcere come deterrenzasociale, ed il suo scopo, riguardo al prigioniero, non era affatto teso al“recupero”, quanto all’afflizione. Il carcere integrava, semplicemente, ilresto del sistema penale. Il terrorismo repressivo di massa sosteneva l’inte-ro sistema, con le forche permanentemente innalzate per ridurre a ragionei ribelli sociali.

Nelle terre feudali, lo abbiamo anche accennato, vi erano le prigionidel feudo in ogni capoluogo di circoscrizione e nelle ville di dimensioniragguardevoli. Mentre le carceri regie rappresentavano vere e proprie “tor-ri di Londra”, vuoi per la sicurezza che per l’architettura, quelle baronalierano nelle miserevoli condizioni che abbiamo accennato più sopra. Inol-tre nelle prime almeno agli albori dell’800 vi erano dei medici col compitodi vegliare sulla salute dei prigionieri e, pare, vi fosse istituita – almenonella Torre di S. Pancrazio – una sorta di infermieria.

Se i baroni feudali mai ebbero ad occuparsi più di tanto delle propriecarceri, dei carcerieri e dei carcerati, nella pratica lasciando che questifossero dipendenti finanche nella sopravvivenza dall’elemosina dei villici,non migliori erano le condizioni di vita nei carceri reali. Vi si moriva inentrambi di stenti, di malattia, per denutrizione, per l’assoluta carenzad’igiene, per il freddo e l’umidità, per l’aria malsana ...

Nel 1805, in pochi mesi, perirono in queste condizioni ben tre pri-gionieri (Lavagna).

Cosa assai tragica era il trasferimento dei detenuti, nel tempo prassicostante a causa della noncuranza dei feudatari, dalle carceri feudali a quellereali. Nei piccoli centri rurali se non altro i prigionieri potevano contaresugli alimenti e gli altri sostegni provenienti dai parenti; ma una voltatrasferiti nelle città, per tanti di essi veniva decretata morte sicura, finan-che se ancora in attesa di giudizio. Le tre morti cui si riferiva Lavagnaavvennero esattamente a seguito di un tal nutrito trasferimento. Tanto piùche anche i sovrani, o chi per essi, ben poco disponevano per il sostenta-mento dei reclusi preferendo ingaggiare lanzichenecchi tedeschi o fare sfarzodi corte sulla miseria del popolo sardo.

Anche i carcerieri reali rimanevano per lungo tempo senza stipen-dio, ma questi infami parassiti potevano cavarsela... togliendo ai prigio-nieri quel poco che loro proveniva dall’elemosina di Enti o dai propri fami-liari.

I sovrani, spinti sicuramente da quella notevole umanità che semprenutrirono nei confronti dei villici isolani (da loro definiti spregiativamentevassalli “regnicoli”) non mancarono di porre le cose al posto giusto ... non

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tanto rinunciando semplicemente a qualche sfarzo per alimentare i prigio-nieri, bensì impedendo che i detenuti delle carceri feudali venissero trasfe-riti nelle reali, salvo gli imputati di “gravi reati” per i quali a nessuno erapermesso di togliere al re ed alla sua corte la soddisfazione di infliggere ilgiusto castigo.

Così, nel 1806 Vittorio Emanuele I, nel 1815 Carlo Felice dovetteroaffrontare di petto il grosso problema della “frequente fuga dalle Carceridi molti delinquenti in esse detenuti” (Carlo Felice), “procurata in alcuneeziandio colla forza, e violenza de’ facinorosi, e prepotenti in disprezzodella Regia autorità” (Vitt. Emanuele), “e dalla facilità di rimettere aquella di S. Pancrazio gli arrestati, e ditenuti senza previa partecipazioneal Governo” (Carlo Felice). Per cui si rifecero entrambi ad una circolaredel 1804 (7 febbraio) che cercò fin da quell’anno di responsabilizzare ifeudatari sul loro compito, ma tutto rimase esattamente come prima: i de-tenuti potevano tranquillamente crepare!

La situazione rimase formalmente tale fino al 1828, data di emana-zione del Codice delle “Leggi civili e criminali” di Carlo Felice; ma nellarealtà fino alla costruzione delle prime carceri cellulari dell’isola.

È solo intorno alla metà dell’800 che i sardi conobbero il carcere veroe proprio, nella sua variante cellulare.

I più importanti penitenziari vennero costruiti a Cagliari (Buoncam-mino) ed a Sassari (San Sebastiano); ma in seguito nei furono costruiti adOristano, Tempio, Lanusei, Nuoro. A questi devono aggiungersi le prigio-ni site, in pratica, nelle caserme o negli altri edifici pubblici (municipi,ecc.) in ogni paese dell’isola, consistenti in qualche cella sita spesso alpian terreno ma anche negli scantinati di tali edifici, evidentemente atte aprigione per il solo momento dell’arresto o per qualche giorno; oppurecome “stazione” di transito all’atto delle traduzioni dei detenuti.

Il carcere di S. Sebastiano, a Sassari, venne terminato nel 1872 circa,ma i lavori di costruzione iniziarono molti lustri prima, tanto che lo scan-daloso sperpero di finanze nonché il prorogare a tempo indefinito il “can-tiere di lavoro” furono oggetto a suo tempo di una denuncia parlamentaredi un noto personaggio politico sardo. San Sebastiano copre un’estensionedi circa settemila metri quadrati, tra spesse mura, gelide celle, cortili inter-ni e disimpegni vari. Sito alla periferia della città, all’atto della costruzio-ne, oggi è invece parte integrante del circuito urbano. Proprio perciò fatanta stizza ad un sacco di buoni cittadini che lo vorrebbero chiuso pererigerne uno tutto nuovo nella attuale estrema periferia, lontano dalla tran-quillità di quanti sogliono godersi in santa pace il sistema vigente.

La capienza del maschio sassarese è di circa 200 detenuti, ma unatale cifra è da considerarsi oggi del tutto esagerata, essendo totalmente

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diversi rispetto al passato i criteri di spazio – anche semplicemente fisico –, sufficiente per non ridurre in bestialità l’essere umano. In questi anni inmedia vi soggiornano oltre 100 detenuti in più ma, a quanto affermano lefonti giornalistiche, le condizioni di sopravvivenza “non sarebbero stra-volgenti”. Tuttavia, a parte il sovraffollamento (in pratica vi stanno il dop-pio di prigionieri di quanti dovrebbero esserci), i casi di autolesionismo eduna presenza di tossicodipendenti non indifferente lo rendono una vera epropria cayenna, pur senza raggiungere il record del famigerato carcerecagliaritano. Come se non bastasse il 50% dei detenuti di S. Sebastiano èdi “passaggio”, in transito cioè verso altre carceri; il che la dice assai lungasul tipo di rapporti con cui devono fare i conti i prigionieri “stabili”.

Più bestiale di tutti è l’inferno di Buoncammino, a Cagliari, costruitoverso la metà del XIX secolo. Si racconta che l’ideatore/progettista, unavolta visto terminato il frutto della sua insana mens, consapevole delladisumana struttura che aveva partorito e resosi conto delle inaudite soffe-renze che avrebbe causato a decine di migliaia di esseri umani, si fosse concoraggio tolto la vita, non riuscendo a sopportare tanto peso nella propriacoscienza. Non sappiamo se ciò corrisponda a verità; sappiamo però dicerto che nessun altro responsabile delle atrocità che vi si consumano si ètolto l’esistenza, contribuendo in tal modo a che tanti dei reclusi se la to-lgano dalla disperazione. In ogni caso, il fatto stesso che circoli una tal“verità”, la dice assai lunga su che tipo di struttura infernale possa maiessere Buoncammino.

A noi, che pure seguiamo le vicende di carceri e carcerati, comuni e“speciali”, non ci è mai capitato di leggere tanta unanimità sulle bruttureche animano questo penitenziario. Non solo per la struttura, di per se stes-sa; non solo per lo spazio lugubre; non solo per il personale e la direzione;bensì per tutte queste cose messe assieme. Gli stessi direttori e secondini,tanta dev’essere la loro immedesimazione con il lavoro che svolgono e conla struttura medievale della galera, con essi entrano in piena simbiosi, siconfondono. Per cui è assai difficile scindere di chi mai possa essere laresponsabilità della inumana condizione che son costretti a sopportare inmedia ben oltre – ormai – 700 reclusi, qualche decina di donne incluse.Tanti sono oggi i detenuti, eppure la struttura, quando venne realizzata,già a quei tempi non poteva contenere che un massimo di 300-350 prigio-nieri.

La composizione dei reclusi, allo stato attuale, è per l’80% di tossico-dipendenti, un quarto dei quali sieropositivi di cui un imprecisato numerodi malati riconosciuti di AIDS. Considerate le assolutamente inesistenticondizioni igienico sanitarie, gli “spazi” non solo malsani ma financheridotti a zero, Buoncammino è considerato da tutti i prigionieri che

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malauguratamente vi hanno soggiornato, sardi e no, come un vero e pro-prio lazzareto, sicuramente il reclusorio più infamante e peggiore dellanon piccola collezione che vanta lo Stato. Tanto che tutti – dal sindacodella città al ministro delle galere – sono concordi nel decretarlo “bolgiainfernale” da distruggere, ma nessuno lo fà ... Evidentemente vi sono pa-recchi interessi politici, economici e di altra natura, che lo tengono in pie-di. Né è da addebitare, una tale efferatezza, a questo particolare periodostorico, che tutti affermano essere caratterizzato dalla massiccia presenzain galera dei tossicodipendenti.

Riportiamo la descrizione fattane da un detenuto e riferita alla situa-zione di qualche decennio fà:

A Cagliari in quel periodo si viveva la segregazione più alluci-nante: dai trenta ai quarantacinque minuti d’aria al giorno (se-condo il turno nella rotazione dei cortili). In un cortile quadratodi 7 o 8 metri per lato – nessun riparo per il sole o la pioggia –venivano rinchiusi da 40 a 50 detenuti. I muri divisori erano altipoco più di due metri, ma era vietatissimo affacciarsi dall’altraparte. Chi contravveniva questa regola pagava con la cella sot-terranea a pane ed acqua, da 5 a 10 giorni.Vi era un unico cesso fuori dai cortili di cui si servivano a turno,in quei minuti d’aria, i detenuti di tutti i cortili (sei complessiva-mente). Non sempre era consentito accedervi, C’era il “perico-lo” di incontri non “legali” tra compagni di causa durante iltragitto obbligatorio. Era impedito, del resto, qualunque contat-to non predeterminato dalla amministrazione carceraria: ognidetenuto poteva avere rapporti soltanto con i compagni di cellao di cortile.Le celle erano quelle di adesso con le ottocentesche bocche dilupo. Ognuno aveva la sua branda pieghevole che poteva, anzidoveva, aprire per restarvi coricato dalle otto di sera fino allesette del mattino. Durante tutto il giorno doveva restare piegata.Anche per mangiare ci si sedeva nella pedana fissata alla brandatenendo la gavetta nelle mani. Allora non esistevano tavolini osgabelli. Come posata ci veniva consegnata una palettina di le-gno che doveva fungere da cucchiaio, forchetta e all’urgenzaanche da coltello, ma di fatto era un problema utilizzarla perognuno di questi servizi.Alle sette del mattino suonava la sveglia e ci alzavamo. Doveva-mo alzarci perché alle otto la conta doveva trovarci tutti in piedi,ognuno davanti alla sua branda piegata. Se qualcuno si attardava

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a letto senza aver “segnato visita” medica finiva in cella di puni-zione.Chi chiedeva visita medica non poteva andare all’aria, altrimen-ti era evidente che stava simulando. Alle otto di sera passava laguardia ordinandoci di andare a letto ed alle nove silenzio tota-le.Una domenica sì e una no eravamo obbligati ad assistere allaMessa che veniva celebrata al piano terra della sezione. Per tut-ta la durata della funzione restavamo in piedi, inquadrati a pic-coli gruppi separati uno dall’altro da una fila di guardie, perevitare che qualcuno potesse scambiare qualche parole con pri-gionieri dell’altro “quartino”. Chi trasgrediva il regolamentofiniva nel sotterraneo, dove c’erano apposite celle a seconda dellagravità della punizione, o il tipo di detenuto: c’era quella colpancaccio; quella col letto di contenzione per i detenuti ritenutiviolenti; quella con la camicia di forza e, infine, quella imbottitadi crine. In tutti i casi l’alimento non cambiava: una minestra algiorno, due pagnotelle e mezzo, acqua a volontà. Da queste tom-be per vivi ogni notte ci giungevano i lamenti dei “sofferenti”.Avevamo l’impressione, durante quelle ore, di essere in contattocon le anime dell’aldilà. Qualcosa di vero però nelle nostre brut-te impressioni doveva esserci, visto che molti da quelle celle sene sono andati al cimitero. Nè può dirsi un caso se questo carce-re ha sempre tenuto il triste primato dei suicidi e delle protesteautolesioniste e disperate: non passava giorno che non trovassi-mo le scale che conducevano al passeggio imbrattate di sanguefresco... (C. Coccone)

Alle condizioni di vita di già inumane dettate dalla triste strutturaarchitettonica e dalla invivibilità dell’ambiente, si aggiunge la prassi ter-roristico/paternalistica e ricattatoria posta in essere da direzione e perso-nale secondino. L’utilizzo del ricatto, della “selezione” rispetto a quel po-chissimo lavoro che vi è (scopino, biblioteca e ... basta!), ad esempio, creadi per sé divisione ed antagonismo fra i reclusi; ciò che porta acqua almulino della politica criminale del dividi et impera. Ma il peggio è il timo-re di finire in “foresta”, ove la bestialità dei guardiani di uomini in gabbiasi sfoga contro il corpo dei reclusi, le cui orripilanti urla impregnano l’ariae terrificanti si sollevano fino alle celle più alte, penetrando nelle ossa e neinervi di ogni altro prigioniero.

È questo l’inferno che detiene il primato assoluto dei morti suicidi: idetenuti son spinti verso l’atto estremo vuoi dal sistema giudiziario, vuoi

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da quello carcerario, ma non raramente finanche dalla sozza bestialitàsecondina, abbruttita ulteriormente dal “mestiere più infame”, che spingedirettamente o indirettamente il prigioniero più debole – o attraversante unperiodo di crisi esistenziale dovuta a tanta scempiaggine inumana – a to-gliersi la vita.

Buoncammino è il maschio isolano per antonomasia, vero museo de-gli orrori e centro di irradiazione della civiltà di Stato, che domina sullacittà capoluogo.

A Nuoro esisteva, tristemente noto fino al termine degli anni ’60 ilvecchio carcere di via Roma, brutale, zozzo, malsano. Ma in tali annivenne “dismesso” ed al suo posto iniziò a funzionare il nuovo modello diBadu ’e karros, sito nell’omonima zona, ancora all’estrema periferia dellacittadina. Fù il generale Dalla Chiesa che incluse il penitenziario di Badu’e karros tra quelli da trasformare in speciali, cioè in circuiti di annienta-mento totale, psico-fisico, dei detenuti irriducibili, “terroristi” politici ocomuni che fossero.

La Prima Sezione della galera nuorese divenne in tal modo partico-larmente famigerata, e non solo in Sardegna, purtroppo, avendo “ospitato”tanti compagni e proletari di ogni sito. Luogo di “massima sicurezza” edeterrenza in cui rivoluzionari ed antistatalisti si sono a lungo scontraticon il potere genocida.

Oggi vi sono rinchiusi 300 prigionieri (tra cui alcune donne) ma ven-ne progettato per una capienza massima di poco più della metà. In progettovi erano anche le strutture (poi costruite) atte a laboratorio per lavori arti-gianali per i detenuti, ma i macchinari non sono mai stati acquistati. An-che qui, come in tutte la galere isolane, l’attività lavorativa non è altro cheuna chimera.

Contrariamente alle altre prigioni isolane ed alle colonie penali, aBadu ‘e karros la stragrande maggioranza dei detenuti è sarda (circa l’80%).Solo una dozzina però sono ergastolani (i restanti essendo deportati ...) e diquesti ve ne sono alcuni non sardi. Il 70% ha subito condanna per omici-dio, il 38% per sequestro di persona, solo il 7% per associazione mafiosa ocamorristica (deportati dalla loro terra).

Il fatto che la metà dei reclusi sia originario del nuorese, rende adoggi le condizioni generali assai “migliori” – se questo dovesse essere iltermine adatto – rispetto agli altri sardi deportati o ai reclusi dei due mag-giori penitenziari isolani, se non altro perché i prigionieri possono averecolloqui periodici con familiari e parenti, per cui mantengono stretti lega-mi con l’ambiente di appartenenza. Badu ’e karros, da questo punto divista parrebbe almeno in parte smentire una delle tesi qui sostenute (sulladeportazione) ma vedremo più avanti che invece viene confermata.

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Contrariamente a quanto più volte prospettato dalle autorità per icarceri di Buoncammino e S. Sebastiano, nessuna istituzione ha mai cre-duto opportuno protestare per la presenza del penitenziario nuorese, venu-to ad occupare spesso le prime pagine dei media per l’orribile trattamentoriservato ai reclusi. Proprio nel mentre che volge a termine questo nostrolavoro, i secondini della galera sono ormai da mesi che avanzano proteste– per motivi loro ovviamente – che, come al solito, finiscono per gravare,plumbee, sulla gobba dei detenuti e dei familiari, costretti a condizioniancora più restrittive del solito e finanche a vedersi i colloqui impediti.Ebbene politici, pretaglia, sindacalisti, e compagnia varia hannosolidarizzato e si stanno impegnando per risolvere la questione. Mai che sisiano sentiti, ‘sti becchini (e potevano mai farlo, visto che tali sono in virtùdel sistema?) a favore delle lotte dei prigionieri ...

Non ci soffermeremo sui carceri di Oristano, a suo tempo tra i piùfamigerati ed orripilanti per le vergognose e scandalose condizioni subumanecui erano costretti i reclusi da parte della barbarie secondina e della dire-zione (oggi vi sono 100 detenuti); su quello di Alghero, oggi dismesso (maverrà riaperto dal sig. Amato, così come tutti gli altri); sulla Rotonda diTempio, coi suoi quasi cento detenuti; né su quello di Lanusei, circa 50prigionieri. Nel complesso carcerario sardo hanno oggi perso d’importan-za almeno rispetto ai moloch cagliaritano, sassarese, nuorese ed a quellodell’Asinara, anche se, come appena detto rifunzioneranno presto a pienoritmo.

La cayenna dell’Asinara, già “protocollata” come parco naturale quan-do si stavano lentamente trasferendo gli ultimi prigionieri in altri siti,ridiventerebbe per decreto cayenna di massima sicurezza per presunti bossmafiosi e camorristi, tanto che nel giro di qualche settimana, ad inizioestate ’92, si riempie nuovamente fino a contenere 350 detenuti. In via dismantellamento fino ad un anno addietro vuoi a causa dell’invivibilità del-le sue strutture, in parte diroccate dalla rabbia dei reclusi qualche annoaddietro, vuoi per porre fine alla famigerata, ladra e veramente criminalegestione del boss legale Cardullo e gentile signora sua pari, pare ormaidestinata a riprendere il ruolo di primaria importanza che aveva nel passa-to. Non solo nella specifica realtà sarda ma finanche nel complesso delsistema carcerario statale.

Su l’Asinara, già dall’estate scorsa, si scatena la gigantesca guerratra i vari trusts politico- economici, alcuni dei quali avevano preparato ipiani di intervento per lo sfruttamento turistico “ecologico”. Ma le fazionicontrapposte (capitale politico-carcerario) non sono disposte a mollare néa cedere di un millimetro i propri interessi; ben più generali che la sempli-ce speculazione alberghiera. Non che questa manchi del tutto, per carità;

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solo che per volontà democratico-parlamentare i soli turisti ammessi do-vranno essere rigorosamente appartenenti alla razza padrona, quindi ac-curatamente selezionati fra i politici (e relative famiglie ed amanti) ed idipendenti del ministero di Grazia e Giustizia (con relativo seguito dimagnaccia e baldracche). Saranno i soli, a poter osservare da vicino quel-l’umanità ridotta in servitù rappresentata dalle centinaia di proletari co-stretti a fare le scimmie per divertire alcuni dei pilastri del sistema!

A pagarne le conseguenze sono stati per prima la medesima isola, perbuona parte incendiata a più riprese; poi i detenuti, costretti in condizioni“ai limiti della tortura” (dichiarazione di tre deputati, in visita all’Asinaraai primi di settembre ’92); quindi le popolazioni costiere, espropriate di unpezzo del loro territorio e letteralmente sommerse di militari in divisa edin borghese, il cui compito è garantire che dalla cayenna non fuoriescanessuno. Inutili le democratiche proteste dei cittadini di Portotorres, chegià sognavano finito un incubo: i democratici responsabili se ne sono de-mocraticamente strafottuti!!!

È però necessario precisare che non è oro colato lo strombazzare op-portunistico delle diverse fazioni del potere costituito. Prima di tutto nonesistono carceri “per boss” e quello rinnovellato dell’Asinara (come anchequello gemello di Pianosa) non può fare eccezione. Non esistono semplice-mente perché non vi sono tanti “boss” quanti ne servirebbero per raggiun-gere neanche la centesima parte dei soli detenuti dell’Asinara. E neancheper raggiungere la decima parte di quelli classificati “speciali”, della solasezione di fornelli (150), riverniciata per l’occasione. Non stiamo certoaffermando che mafia, camorra e ‘ndrangheta non esistono: ben al contra-rio! Solo che, essendo strutture organizzate in maniera piramidale, i verti-ci cui tutto fa capo e da cui tutto si diparte, non possono che essere costitu-iti da poche persone, con addentellati – come in parte stà venendo fuori inquesto periodo – nel sistema legale. Per questo motivo i boss non finisconoin galera, e se pure vi finiscono, stiamo pur certi – salvo rivoluzioni all’in-terno degli equilibri del sistema – non saranno centinaia, ma qualcuno piùcompromesso e solo per poco tempo. In galera vi finiscono i poveri mortalicriminali, spesso costretti alla “affiliazione” a causa delle miserabili con-dizioni cui li relega la legalità. Le galere sono piene esattamente di questiproletari.

Se così non fosse, ma avesse ragione l’informazione di regime cheafferma esserci in galera centinaia di boss, il problema della criminalità distampo mafioso sarebbe risolto da un bel pezzo. Così non è; tant’è vero checontinuano ad arrestare “boss” ogni settimana, ma il problema è semprepiù consistente. Che ci sia imbroglio, in tutta questa messinscena?

Si tranquillizzino quindi “le anime belle” della Sardegna che si scan-

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dalizzano non per le galere di per se stesse, ma semplicemente perché sisono convinti siano piene di capi-mafia. Dai proletari siciliani, calabresi,campani che le popolano e che non sono nostri nemici, non hanno nullatemere!!!

Per terminare vi sarebbe da dire qualcosa sulle colonie penali nel-l’isola: Is Arenas, Mamone, Isili. Ma i dati riportati nelle tabelle allegatesulla consistenza delle prigioni e sulla composizione dei detenuti parlanoda soli.

3.2.2 Diffida, ammonimento, sorveglianza speciale, confino

Anche nella modernità sarda, che sul fronte della penalità di Statoabbiamo visto essere iniziata circa tre secoli dopo che altrove, il carcerenon è il solo o il prevalente sistema di punizione vigente. Perché ciò che simira a punire non è tanto e non solo il “delitto”, quindi l’infrazione ad unaspecifica legge penale, quanto l’individuo e le comunità che persistononell’essere altri , irriducibili . Questo fatto spiega la criminalizzazione verae propria di un’intera area, la politica repressiva-militare cui è stata sem-pre sottoposta, la strategia permanente dello stato di guerra e d’assediodella ruralità.

In carcere vi finiscono a migliaia, perché in attesa di giudizio o con-dannati sommariamente per lo più popolani. Quando però non è possibilenulla di tutto ciò, si ricorre allo stato d’assedio; alle terroristiche retate chetrafugano ogni angolo di tutte le case proletarie; alle misure di poliziaancora più arbitrarie perché le forze dell’ordine non debbono provare asso-lutamente nulla, ma solo “accusare” nella più fumosa genericità i motiviper cui una persona, sarda, specialmente se della “zona pastorale”, devesubire restrizioni alla propria libertà e dignità personali, oppure la depor-tazione in Italia.

Fino ad appena tre lustri addietro la sorveglianza speciale, la diffida,il confino (poi definito più democraticamente soggiorno obbligato) copri-vano interi paesi. Da allora il fenomeno sembrerebbe ridimensionato, maproprio a partire dal momento in cui volge a termine questo lavoro pareabbia subìto un’improvvisa impennata. Che coincide con la nuova strate-gia etnocida messa in atto dal potere democratico.

Il “primo grado” delle misure restrittive di polizia è la diffida, checonsiste nell’imporre anche verbalmente da parte delle forze armate diStato, alla persona inquisita, di non frequentare certi posti, locali ed amici-zie, di cercarsi un lavoro (!) se ne è privo, di rientrare a casa ad una certaora, di non effettuare continui spostamenti, ecc.

Si tratta, in pratica, di umiliazioni alla dignità di qualsiasi uomo che

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si senta tale anche solo al 10%. Figurarsi poi chi si dovrebbe o non dovreb-be frequentare nei nostri paesi, spesso di poco più di un migliaio di anime;dove i locali e le amicizie che si hanno solo quelle che ... vi stanno. Esclusoil Comune, il prete e la caserma, tutto il resto rientra benissimo nel calderonedel “diffamato”, diffamante e pre-giudicato. Per cui è assai chiaro a cosa simira, essendo praticamente impossibile, anche volendolo, adeguarsi a taliinaudite restrizioni.

La diffida, per quanto infima, ha conosciuto tempi in cui accompa-gnava la stragrande maggioranza dei componenti la comunità interna. Ingenerale ogni pastore, ogni famiglia di pastori risulterebbe diffidata alme-no una qualche volta, nel passato o nel presente.

Considerata la materiale impossibilità per i diffidati di non fare quantoad essi vietato, i più incorrono nel travaglio successivo: la sorveglianzaspeciale. Se quella era lesiva della dignità di una persona, questa è un’of-fesa vera e propria che rinchiude l’individuo entro un territorio più o menolimitato ed entro certi orari, che gli cadenzano l’esistenza.

Si tratta, in pratica, di un vero e proprio carcere nel sociale, psi-cologicamente peggiore del penitenziario perché si è sempre in bilico tral’incertezza e la certezza del minuto, del luogo, dell’azione, della personacon cui si stà. Un nonnulla e si finisce in galera per non aver rispettato lamisura di polizia decretata.

Eventualmente però, si passa prima nella via crucis del confino (mi-sura abolita formalmente alla fine degli anni ’50 – venne istituita nel 1926dal regime mussoliniano – ma praticamente in vigore nella sorveglianzaspeciale, che può essere imposta in un comune qualsiasi dello Stato italia-no, pertanto anche diverso dal proprio).

Qui si è in balia vuoi del proprio carattere che di quello di birri,sindaci, preti e popolazioni spesso appositamente aizzate e manipolate percui risulteranno immediatamente ostili ai confinati. Non ultimo, infine,questi devono fare i conti con ... le proprie finanze, sempre scarse o inesi-stenti in quanto colpiscono per lo più dei semplici proletari. In quanti rie-scono, e per quanto tempo, a sopportare simili torture che dissanguanoogni risorsa dei deportati e delle loro famiglie, costretti come sono alla finea ridursi a nulla più che elemosinanti?

Unu pedulianu bagamundude me’ nd’ant fatu, pro s’antzianìa.Ma su ruolu mi paret anzenue nde crepo de rabbia e belenu.

(Un questuante vagabondo / han fatto di me, per l’anzianità. / Ma

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tale ruolo non mi appartiene / e ne soffro avvelenato dalla rabbia).Matteo Calia, nel suo Cantigu dae presone, ha voluto riassumere in

versi cocenti quanto grande sia la sofferenza di coloro che vengono sotto-posti a tali vergognose angherie. Qualche verso prima riporta la “calorosaaccoglienza” riservatagli dal sindaco di un paese sardo, in cui dovette ri-siedere dopo l’esperienza del confino a Lampedusa e Ustica.

Una parte de tempio est in rissa;tramite s’istampa allumadu ant su focu.Su sindacu respinghet cun orroreun’ipotetico secuestradore.

(Una parte degli abitanti di Tempio [il paese sardo in cui gli vieneassegnato il nuovo “confino”] è in rissa / le notizie di stampa han scatenatoun incendio / Il sindaco respinge con orrore / un’ipotetico sequestratore).

Che il lettore non inorridisca; non si tratta di esperienze di un lonta-no passato, ma risalgono semplicemente alla fine degli anni ’80 di questonostro secolo! Nè si pensi che ormai tali misure siano ricordi del passato. Ildocumento recentissimo di cui all’appendice documentaria, e relativo allarichiesta della Questura di Nuoro per l’applicazione della sorveglianzaspeciale a Carmelino Coccone – da appena un anno uscito dal carceredopo averne scontato circa 13 per i fatti di sa Yanna Bassa di cui abbiamodetto prima – è esattamente del 14 dicembre 1992. La Commissione vera-mente “speciale” si è riunita ai primi di gennaio ’93 ed ha ammesso quantochiesto dalla Questura, su ogni punto. Da tale richiesta possiamo appren-dere con più cognizione di causa uno dei modi con cui le forze armatevogliono arginare ufficialmente il “fenomeno criminale”, in realtà soffoca-re quei sardi non ancora statizzati. Il contenuto della proposta avanzatadalla Questura di Nuoro merita un minimo di attenzione da parte nostra.

Si inizia con l’esprimere un giudizio sprezzante sulla famiglia dellapersona inquisita, definita dalle “pessime qualità morali”; come se la poli-zia, i poliziotti, la Questura siano un qualche ente di elevata notoria mora-lità ed il loro compito istituzionale fosse di esprimere giudici etici. Il “no-minato in oggetto” inoltre, sarebbe “insofferente nei riguardi delle Istitu-zioni dello Stato e delle norme sulla civile convivenza”. Qui viene consu-mata ancora una volta una delle falsificazioni che vorrebbero ricondurre laciviltà statale alla civile convivenza, confondendole appositamente. Se poi,nei confronti delle leggi si nutre “insofferenza”, beh allora siamo punibilitutti quelli non integrati. I solerti poliziotti di Nuoro dovrebbero però farein modo che una qualche novella legge del loro Stato punisca l’insofferen-za ...

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I richiami “all’ordine” avanzati verbalmente dai questurini nei con-fronti del “nominato”, l’avrebbero stimolato sulla “via del delitto e deireati in genere”. Questo è addirittura grottesco e, per i questurini stessi,semplicemente vergognoso e disonorevole. Ma come! una persona che con-trollano così minutamente compirebbe delitti e reati ed essi, tutori dell’or-dine, non fanno che ... proporre la sorveglianza speciale, invece di denun-ciarlo per i crimini commessi o arrestarlo! Suvvia, tutto ciò è semplice-mente ridicolo!

Agghiacciante poi “l’escursus criminale”, subdolamente ricostruitoe manifestamente tendenzioso e sprezzante finanche della medesima ma-gistratura sarda ed offensiva per lo stesso Tribunale Penale di Nuoro, alquale la Proposta è inviata. Prima di tutto si fa un unico fascio tra delittiche il “nominato in oggetto” avrebbe commesso, e per i quali comunque hascontato la pena inflitta dai tribunali, con quelli che non ha commesso perammissione degli stessi giudici che lo hanno di volta in volta processato edassolto, non prima che avesse scontato la galera preventiva. Ora, le cosesono due, non tre come propone la Questura. Dato che per i delitti di cui èstato condannato, Carmelino ha scontata per intero la pena inflitta, i poli-ziotti non si capisce in base a quale criterio possono impunemente aggiun-gere o togliere qualcosa che la stessa legge di Stato non prevede. Se per idelitti non commessi, e per i quali vi è stata assoluzione da parte dellaMagistratura, nessuna legge almeno per il momento prevede la punibilità,in base a quale criterio, se non la repressione pura e semplice, una qualchecondanna può essere decretata e comminata dalla Questura?

Si dichiara il falso asserendo, come si fa, che l’inquisito era colpevo-le dei delitti per i quali il medesimo Stato lo ha assolto, ma siamo certi chenessun questurino per ciò verrà condannato. Più che il “curriculum crimi-nale” di Coccone, la Questura di Nuoro, a dire il vero, ha esposto ilcurriculum criminale dello Stato nei confronti dell’orunese. Perché emer-ge con quanta determinazione le istituzioni repressive si diano da fare percreare ad arte un delinquente: repressioni per motivi legati alla leggesull’abigeato (contravvenzioni per la dimenticanza di bollettini al pascolo,non dichiarazioni di spostamento del bestiame, ecc.; insomma per questio-ni strettamente burocratiche vigenti esclusivamente in Sardegna);incriminazioni e assoluzioni su assoluzioni si susseguono nell’elenco.

Denunciando vistosamente con quanta “facilità” si ingaleri, si ricat-ti, si torturi le persone pre-giudicate, più che una condanna di Coccone, ilcuriculum è la condanna dello Stato, delle sue istituzioni criminali, del suosistema.

Ridicola la menzione sugli spostamenti dell’inquisito (addirittura ...sarebbe salito sull’autobus, ad una data ora, in partenza per Sassari!); mi-

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serabile, infine – e chiudiamo così – l’elenco delle amicizie (ampiamenteselezionato) nonché il far presente che “si intrattiene a lungo nei pubbliciesercizi ove spende ingenti somme di danaro in generi voluttuari”. E dovemai, nei “pubblici esercizi” (leggi bar) a Nuoro si potrebbero spendereingenti somme? Dove dovrebbe trascorrere il proprio tempo una personache è stata rinchiusa per oltre vent’anni in galera, di cui tredici anni difilata terminati di scontare appena un anno prima? Tanto più se fa parte diquella non indifferente quantità di sardi (oltre 200 mila per l’esattezza)che godono il privilegio della disoccupazione?

Per vedere quanto sia consistente il fenomeno delle misure di poliziaricordiamo che per il solo anno 1966-67 si hanno i seguenti dati: 119 pro-poste di soggiorno obbligato fuori dall’isola, 58 assoluzioni, 45 provvedi-menti di sorveglianza speciale, 35 provvedimenti di soggiorno obbligato incomuni dell’Italia, un divieto di soggiorno nella provincia di Nuoro (Cabi-tza).

3.2.3 La deportazione: ultima fase dell’etnocidio?

Ad iniziare dalla colonizzazione spagnola la deportazione – cioè latraduzione forzata all’estero (della Sardegna ovviamente) – è fenomenocostante, quotidiano, strategico del processo di denazionalizzazione.

Fenomeno di massa fino al recentissimo passato, oggi è applicato inmaniera sistematica ai danni degli ultimi “mohicani” sardi, “liberi” o car-cerati che siano. Il mutamento dei tempi registra lo smembramento siapure relativo delle comunità originarie, l’acculturazione “di massa”, l’espro-prio di una buona fetta del potere di autodeterminazione.

In questa realtà determinate è l’allontanamento dal corpus sociale diquanti in un modo o nell’altro sono tuttora radicati nella cultura tradizio-nale, esprimendo tratti sostanzialmente altri rispetto al sistema vigente. Laloro presenza in seno alle comunità è di impedimento al definitivo trionfodel processo etnocida.

In generale, l’alterità viene espressa oggi dalla ruralità delle zoneinterne, che ancora mantiene vivi diversi momenti dell’autodeterminazio-ne (economico-produttiva e sociale nel complesso). Inoltre, la specifica“criminalità” essendo espressione del sostrato culturale autoctono rimanetutt’oggi il fenomeno macroscopicamente meno sussumibile entro i para-metri del sistema vigente.

È questo “mondo” che subisce in maniera sistematica la repressionecriminalizzante. La sua persistenza nel sociale rischia di riconnettere di-verse maglie ormai lacerate della totalità culturale, permanendo sul pianoindividuale e per certi versi familiare, in modo ancestrale, quei momenti

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dell’autodeterminazione originaria che non scompaiono meccanicamentecon il venire meno del tessuto autoctono nella sua integrità.

Nel passato remoto la deportazione veniva ideologicamente travesti-ta dai concetti penali di galera (lavoro ai remi), esilio, lavori forzati. Isardi, ritenuti criminali incoercibili, scampati alla justitzia sommaria delleforche e degli stati d’assedio, venivano prima puntualmente torturati spes-so in pubblico, e fustigati, quindi deportati. L’unico scampo a siffatta sorteera l’arruolamento volontario in quelle barbare orde che erano le armateagli ordini dell’occupante. Dalla mattina alla sera “tali incalliti criminali”diventavano in tal modo “onorabili ed onorati” cittadini di Stato, che svol-gevano un immane e sacro compito di civiltà. Ma evidentemente non era-no poi molti “gli arruolati civilizzati”, data la costanza della deportazione.

Diaspora assai rilevante ai tempi delle rivolte per su konnotu; diasporaa fine secolo, in pieno periodo di “caccia grossa”; diaspora sarda nel secon-do dopoguerra; diaspora oggidì. I “confinati”, quelli sottoposti a soggiornoobbligato, i prigionieri sardi deportati, rappresentano oggi, al pari di ieri,il filo rosso della sistematica repressione del mondo agropastorale che puravendo ceduto tanto nel processo di acculturazione forzata, manifesta an-cora una propria vitalità, nell’intero corpo sociale e non solo nelle “catego-rie” degli agricoltori e dei pastori.

Nel passato, data la condizione di alterità di massa, si trattava dicolpire nel mucchio, deportando interi paesi dal proprio territorio o alme-no le forze più vive. In tal modo gli abitanti venivano privati del sostratogeoumano su cui manifestare la propria alterità. Chi veniva spedito in ga-lera, chi al confino, chi in “villeggiatura”, chi subiva la sorveglianza spe-ciale. Per quanti restavano era facile ricattarli, intimorirli, sequestrarli nelloro stesso mondo, facendo leva esattamente sugli ostaggi di Stato sui qualigravavano misure sempre più restrittive alla dignità ed alla personalità.

Ciò si verifica, a partire dal secondo dopoguerra, in modo radicale esofisticato, perché accompagnato dal sistematico indottrinamento sul “ne-cessario cambiamento”, sul civile progresso, sulla necessità di far accetta-re la civiltà, l’ineluttabile progresso storico sinonimo di travolgimento-superamento della barbarie di cui la cultura sarda sarebbe portatrice. In-somma è l’ideologia del/dominante che si impone sul colonizzato facendo-gli sentire/pesare la sua vergognosa diversità.

La sincronia dei media – tv, radio, giornali – ha quindi dato l’esitosperato, accompagnata dagli interventi distruttivi in campo economico,scolastico, religioso, sociale in generale.

Con quanti, deportati o meno, hanno manifestato in qualche modocedimenti, ragionevolezza, “senso di responsabilità”, lo Stato democraticosi è dimostrato generoso, elargendo ad ampie mani pensioni risibili ed

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elemosine di ogni tipo, nonché la “revisione” della fedina penale e la re-missione dei peccati. Anche questo poco, per quanti tutto hanno avuto espro-priato, ed hanno vissuto sempre in condizioni di repressione e precarietà,finendo nel non avere/vedere alcuna prospettiva di reale liberazione (cul-tura resistenziale, appunto), anche questo poco dovette apparire qualcosa,se non altro la fine della sistematica repressione.

La fase di pacificazione ricattatoria è accompagnata, per i più fortu-nati ovviamente, dall’apertura verso l’impiego, pubblico e privato. È ilboom tutto sardo: il tempo delle gigantesche ciminiere dei petrolieri cheavrebbero dovuto importare tanta civiltà e ben 75 mila posti di lavoro. Atanto assommavano i nuovi occupati secondo i propagandati calcoli deicentri del potere politico coloniale. E la fabbrica significa “classe operaiacosciente” cioè inquadrata in seno alle clientele partitiche sindacali; e di-gnità, moralità, civiltà ... che avrebbero dovuto finalmente eliminare allaradice le cause materiali della vitalità di un mondo e della specifica crimi-nalità di cui è portatore.

Venne così anche il tempo di dedicare particolare attenzione ai con-tadini ed ai pastori, non deportati o ex-deportati; in nome dei quali venne-ro e vengono elargiti migliaia di miliardi confluiti nelle tasche degli indu-striali dei mezzi agricoli, dei mangimifici, dei concimi chimici e deglianticrittogamici, delle sementi manipolate e del monopolio italo-europeo,nonché di società sportive, pubblicitarie, di marchi doc esistenti soltantosulla carta ma che pure costano centinaia di miliardi. Infine venne il tempodi tutta una serie di enti inutili e spesso dannosi e dei tanti convegni edincontri e pranzi e viaggi “tutto pagato” dalla cassa della sarda regione.Che ha decretato l’affossamento quasi definitivo dell’autoctonia produtti-va e l’introduzione in regime di monopolio del sistema capitalistico disfruttamento ... dei pastori e dei contadini, della terra e degli armenti.

Boom durato poco, a dire il vero, appena due lustri a ben fare gliesatti calcoli, ma che sapientemente accompagnato dalla repressione poli-tico-poliziesca, dal continuo lavorio dei media e della scuola di Stato, hadeterminato l’esproprio di parte consistente del potere di autodetermina-zione.

Perciò è mutata anche la consistenza della deportazione, infierendooggi in maniera articolata su specifici “elementi”.

Non si tratta più di incidere sulla compattezza del gruppo comunita-rio, almeno in parte di già intaccato, quanto di isolare dalla comunità lace-rata gli elementi ritenuti più pericolosi non per la presunta efferatezza deidelitti di cui li si vuol fare portatori – che spesso non ne hanno commessoalcuno – quanto per l’ascendente che vantano tuttora su una parte consi-stente della collettività, come persone dignitose, stimate, e per l’ampia cer-

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chia di amicizie di gui godono. Ascendente non generico, bensì portatore/fautore di valori tradizionali. È attorno a tali figure ed al loro ascendente –su cui negli ultimi anni lo Stato ha indirizzato l’opera repressiva – che siinnesta il nuovo modo di applicazione del sistema penale in Sardegna, e ladeportazione.

Il sistema di “individualizzazione” del criminale mira a colpire nontanto l’entità o la gravità del reato, quanto la personalità e le motivazionidi fondo dell’aver leso la legge. Da questa prospettiva si esamina il com-portamento assunto durante la prigionia, l’incriminazione, nel rapportocon la magistratura e la polizia, nel dibattimento, di coloro che cadononella mani della justitzia. Poco importa la “gravità” del reato. L’abigeato èpur sempre furto, per cui non si può più, oggi, comminare l’ergastolo o iltaglio della mano destra. Anche il sequestro di persona non è più, semmailo è stato, monopolio dei sardi. Pertanto, nonostante le rinnovellate propo-ste “umanitarie” sul ripristino della pena di morte, non si possono tran-quillamente da un lato ammazzare i sardi come tordi, nei raccordi anularie nelle operazioni di “caccia grossa”, e dall’altro essere semplicemente ...paternalistici poniamo con gli industrialotti nordici che sequestrano le fi-glie del loro socio in affari. Sarebbe ridicolo per lo Stato democratico pro-seguire su questa strada, che pure è quella fino ad oggi sostanzialmente invigore.

Meglio agire sulla personalità del detenuto-inquisito-condannato. UnLigresti, un Craxi, un ladro arcivescovo o cardinale (senza fare nomi, percarità, tanto ... sono esattamente tutti nello stesso brodo) possono cosìimmediatamente pentirsi, rinnovellarsi e rinascere alla piena libertà di con-tinuare a fare ciò che hanno sempre fatto: rubare, sfruttare, affamare. Purcolti con le mani nel sacco! Un certo Tanassi, così come un tal Longo,ministri onorevoli della repubblica democratica “antifascista”, dopo averrubato tutto quello che hanno potuto, una volta finiti in galera perché èvenuto fuori un tantino della loro opera realmente criminale, si sono affi-dati subito a quanto previsto dalle leggi in materia di delinquenza e carce-re. Per cui dopo appena una notte in galera, in camera singola e col telefo-no a portata di mano, valutati all’uopo dalla Commissione prevista per lavalutazione dei detenuti, si sono subito resi conto dell’errore commesso eravveduti, quindi scarcerati immediatamente. Possiamo star certi che tutticoloro che in questo frangente storico risultano la fazione perdente delsistema di dominio di statale, si ravvederanno come per incanto ...

Anche il sardo che si è fatto il suo bel sequestro, orribile criminequando ad essere sequestrati sono i pilastri umani del sistema vigente, pos-sono anch’essi usufruire, se lo vogliono, di tutta una serie di benefici ...purché dimostrino pentimento, collaborazione e soprattutto non manifesti-

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no con ostentazione le ragioni della propria identità etno-culturale, cioèatteggiamenti ostili al lavaggio del cervello. Situazione che parrebbe con-traddetta dal recentissimo, liberticida, famigerato decreto Scotti-Martelliil quale ha decretato per certi delitti, tra cui il sequestro di persona, ilristabilimento, in pratica dell’ex art. 90 (oggi 41 bis).

Anche una bella comunità di sardi (circa 50) condannati a lunghepena e già usufruenti del regime di semilibertà, sono ritornati in galera esottoposti ad inaudite restrizioni. Inutile blaterare che la criminalità sardanon è strutturata “mafiosamente”! Che accade dunque? Semplice. A questisi chiede “più convinzione” nel pentimento, maggiore collaborazione conlo Stato, cioè delazione, tradimento, rinuncia sicura alla propria dignitàpersonale ed etnica. Ci sarà, crediamo, qualche tentativo di forzatura, malo Stato è ben attento a non svegliare il can che dorme. Non a caso dopo unprimo periodo di rinchiusura in galera, i sardi sono stati rimessi in regimedi semilibertà; il loro è diritto acquisito, ormai.

Tuttavia, d’ora in poi non sarà più permesso alcun atteggiamento diformale rispetto delle leggi e dei regolamenti carcerari, si pretenderà laintima convinzione, la manifestazione esplicita del riconoscimento dellalegalità di Stato; ciò che presuppone il farsi spie, delatori, traditori. Non acaso tutti i grandi delinquenti che nell’ultimo mezzo secolo hanno rubatoimpunemente stanno cantando a ruota libera; ciò è dimostrazione dell’in-troiezione in essi del sistema e possiamo stare certi che il tutto, per loro, sirisolverà con accordi di alta politica democratica.

Per i sardi ribelli il nuovo corso della repressione si risolverà invece– salvo una reale opposizione – nella sicura deportazione, più massiccia diquanto accade oggi; nella reclusione nei braccetti speciali (la “Torre diLondra”) fino all’espiazione a regime duro della pena comminata (a cui sidebbono poi aggiungere le misure di polizia). Non caso, semplici proletariin galera per rapina, condannati a pene risibili (5, 6, 7 anni) se la sono fattatutta negli speciali, da deportati. Si tratta invero, come per il passato, dispedire alla cayenna gli irrecuperabili, gli anarchici, i sovversivi, insommale “mele marce” per evitare che contagino il sociale.

Nel 1991, un elenco incompleto dei detenuti deportati sardi, compi-lato nell’arco di pochi mesi dal Comitato di Solidarietà con il ProletariatoPrigioniero Sardo Deportato, contava circa 150 nomi; ma si trattava diuna lista manchevole in quanto le notizie scarse, la censura delle autoritàcarcerarie ecc., avevano eretto un muro che impedì di andare oltre. Deideportati di allora, dopo la clamorosa iniziativa dell’ultimo quadrimestredel 1989, numerosi sono stati rimpatriati o avvicinati per colloquio con ifamiliari.

Tuttavia il problema resta in tutta la sua gravità, essendo fenomeno

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esclusivamentepolitico non certo dovuto alle solite paventate e propagan-date carenze di tipo strutturale e burocratico. La risposta del ministero diGrazia e Giustizia per il trasferimento dagli speciali di Francesco Catgiu(Sirbone), ed in un carcere isolano per Claudio Cadinu, di questi ultimissi-mi mesi ne è la conferma.

I deportati, salvo coloro che tali non si sentono, da anni in galera, oanche neo-incarcerati, sono coloro che nel corso del tempo hanno sempremanifestato integrità etnica ed etica, cioè attaccamento ai propri valoriculturali, e che spesso hanno partecipato attivamente, e promosso le batta-glie dei prigionieri contro l’annientamento psico-fisico e la distruzionedella dignità personale. Altrettanto spesso non sono state molle politico-ideologiche a fare scattare il loro atteggiamento di irriducibilità, quantoquella ancestralità culturale, etnica, che pone l’individuo autodeterminato,autofondato quale entità irrinunciabile, contro ogni Stato, ordine, valore,giustizia esterna-estranea.

Ed è la loro autodeterminazione che deve essere, nel modo più asso-luto, tenuta lontano dalle comunità originarie, in cui il seme dell’addome-sticamento ha già fatto parecchie vittime. La loro presenza, sia pure nellegalere dell’isola, sarebbe estremamente pericolosa; o tale è comunque rite-nuta. Potrebbe infatti contrastare il processo di totale denazionalizzazione.Per questo motivo sono deportati!

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Le diverse strategie del potere costituito hanno intaccato il potereindividuale e sociale dei sardi. Sarebbe un errore nascondercelo, o tacerlo;non servirebbe ad altro se non a dare vita ad una gigantesca illusione,troppo preziosa per lo Stato, troppo dannosa per noi.

Ma un’altra illusione pare abbacinare le genti proletarie sarde: quel-la secondo cui la perdita del “vecchio”, di “su konnotu” non sarebbe poiuna sconfitta bensì una vittoria, il “nuovo” avendo dato un “benessere”impensato, inimmaginabile fino a pochi lustri addietro. Il che potrebbeessere anche vero, in parte, ma soprattutto se ... fosse vero!

In realtà il boom, per i proletari sardi come per tutte le aree marginalie marginalizzate dallo Stato e dal capitale, è una comparsa che dura poco:quanto un sogno, per bello che sia. Ed il nostro è di già terminato, è duratolo spazio di una sola generazione. Nel frattempo abbiamo avvelenato lenostre terre, dimenticato almeno in parte i nostri valori, consumato ettolitridi birra , coca-cola, whisky, “vecchia” e mille altre delizie del capitale, checosì si è rafforzato ulteriormente ai nostri danni.

Abbiamo goduto del “sano minestrone” usa e getta e poi dell’auto-mobile ultimo modello, quello che sprigiona chissà quanti cavalli di poten-za tanto da fare invidia al vicino di casa. Abbiamo abbandonato vestiario escarpe tradizionali, per indossare gli stivali “ultimo grido”, molto simili aquelli degli sceriffi USA. Poi ci siamo talmente civilizzati che invece diusare i barbari sissi, nossi o andat beni, pure noi usiamo il civile okay. Ciglorifichiamo di fronte allo schermo TV, che trasmette messaggi della “ci-viltà”, di quella a cui tanti di noi si sono ormai alienati.

Conclusioni e prospettive

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Hanno rinunciato in molti a gestire direttamente, in prima persona,la loro esistenza, tanto che il pastore non riesce più a farsi il formaggioneppure per il proprio consumo familiare. In tanti hanno delegato ai poli-tici i loro interessi, i loro scazzi, la giustizia. In cambio si sono ingozzati dicose non nostre e creduto che il consumo, lo spreco (che altri peggio di noipagano a caro prezzo) sia la vita, il vero vivere.

Fatto ancora più inverosimile, le condizioni in cui ci hanno costrettomillenariamente, rinchiudendoci in galere o riserve nella nostra stessa ter-ra, espropriandoci della nostra vita materiale e spirituale, del territorio edelle sue risorse, depredandoci del frutto del nostro lavoro, ci hanno infineridotto alla improduttività, beffardamente definita non-competitivita, quindiad un popolo di elemosinanti, quindi a criminali incalliti.

Proprio i criminalizzati, quanti rifiutano i valori del capitalismo edello Stato, la sacralità della proprietà privata propinataci per decreto, leleggi che sanciscono l’ineguaglianza e l’iniquità della distribuzione dellaricchezza sociale, il sacrificio e il lavoro servile; proprio i criminali, gliirriducibili, i non cedenti manco un millimetro della propria dignità, paio-no aver assunto la bandiera della resistenzialità ad oltranza, incuranti del-la repressione e delle possibili “offerte” che il potere costituito concede aquanti rinunciano ad essere se stessi.

Ma ciò, se assume indubbiamente un alto valore positivo, rappresen-ta anche – oggi e sempre più nel futuro – la fondamentale contraddizionedella resistenzialità isolana. L’abigeato, il furto, la rapina, lo stesso seque-stro di persona ed in generale tutti i fenomeni della specifica criminalità,pur rappresentando resistenzialità nel processo etnocida e genocida, se nonpervengono ad un più ampio progetto di attacco e di liberazione sociale, siriducono a “crimine metropolitano”, a semplice azione di sopravvivenza.E la sopravvivenza non è mai buona consigliera per cui determinerà allafine un tipo di organizzazione strutturata gerarchicamente, quindi la defi-nitiva separazione del “criminale” dalla collettività, la sua alienazione dalreale processo di liberazione, finendo egli medesimo vittima dell’organizza-zione di tipo mafioso a cui ha dato vita.

Moralismo, il nostro? Oppure consapevolezza della contraddizionesorta dall’avanzare della acculturazione? Sicuramente non moralismo!

Non è più sufficiente la sola resistenza, cioè l’atto di difesa.Partendo dall’analisi dei rapporti di classe e della nuova composizio-

ne politica, economica, sociale, culturale che si è venuta a determinare inSardegna, è necessario inserire l’attacco in un progetto complessivo cheproceda verso la individuazione di ciò che è nostro e di quanto, invece, nonlo è, e come tale da eliminare-contrastare-combattere.

È solo tramite l’analisi e l’individuazione di precisi obiettivi, che si

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porrà fine alla disgraziata guerra fratricida che in parte sta logorando lenostre energie, ed alla politica di annientamento propria del potere costitu-ito nei confronti nostri come individui e come etnia. Il che significa attuareil delitto non più indistintamente, ma ai danni di questo o quel sostenitoredel potere costituito; indirizzare la balentìa, la nostra rabbia non più indi-stintamente contro gli altri, ma ai danni di precise strutture coloniali, delleistituzioni, del capitale che ci stà riducendo in elemosinanti.

Si tratta, è evidente di semplici indicazioni di natura generale perintendere le ragioni di un modo diverso di concepire la resistenzialità. Ilprogetto complessivo, da elaborare nell’ambito del progressivo attacco, deveessere più ricco, sapientemente articolato in base a quanto esprime e rece-pisce il sociale isolano.

È chiaro che il “criminale”, anche quello sardo, non ha in mentealcuna liberazione, limitandosi a porre in essere ciò che egli è, una entitàin parte autofondata e che pertanto trova in sé stessa i valori materiali espirituali. Ma si tratta di entità limitata, contrastata, ostacolata, repressain quanto i suoi stessi valori o vengono riassorbiti dall’etica dominante – ilpossesso della ricchezza in funzione del consumo di merci –, o vengonocomunque annullati nel processo di deculturazione. Questo è innegabile;da ciò il progressivo allontanamento dalla società civile di persone ed azio-ni che appena un decennio addietro avevano alta valenza culturale.

Il “criminale” e, in senso più ampio il resistente, si limita a vivac-chiare negli spazi sempre più ristretti che l’esistente impone a quanti glisono contro, finendo in tal modo per diventare parte integrante di questosistema, sia pure ai suoi margini e solo apparentemente ad esso antagoni-sta.

È oggi indispensabile superare tali limiti e porsi come strategia ilmutamento radicale dell’esistente, in un progetto basato sulla ricchezzadei valori etnici che impregnano ciascun sardo, soprattutto i valori dell’au-todeterminazione individuale e comunitaria.

Progetto che, come abbiamo visto, non è da intendersi come organiz-zazione partitica, gerarchica, verticistica, essendo questa letteralmentel’opposto dei nostri valori, dell’autodeterminazione. Al contrario, deve es-sere la materiale articolazione di un processo individuale e collettivo, diresistenza e di attacco, che pone l’individuo sardo come punto di partenzae di arrivo di ogni lotta, senza forzature e schermature ideologiche che nonci appartengono.

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