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C. BRUNETTI – M. ZICCONE Diritto Penitenziario Simone Editore Diritto & Civiltà www.dirittopenitenziario.it 1 IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO: PRINCIPI DIRETTIVI 1. IL CONCETTO DI TRATTAMENTO PENITENZIARIO ADOTTATO DALLA LEGGE N. 354/75: GENERALITÀ Il 31 ottobre 1972 il disegno di legge Gonella n. 2624, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, fu riportato in Senato che, dopo avervi apportato alcune modifiche, lo approvò definitivamente con la legge 26 luglio 1975, n. 354. Per la prima volta la materia relativa agli aspetti applicativi delle misure penali privative e limitative della libertà veniva ad essere regolata con legge formale. La legge n. 354/75 ha adeguato, in particolare, il trattamento dei detenuti ai sistemi più avanzati di privazione della libertà personale, recependo così i principi enunciati nelle regole minime dell’O.N.U. (1955) e del Consiglio d’Europa 1 . L’attuale art. 1 O.P. statuisce, infatti, che: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.” Il concetto stesso di trattamento 2 penitenziario, a cui già accennava il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, viene, nel 1975, concretamente valorizzato e dettagliatamente regolamentato. 1 L. DAGA, Le nuove regole penitenziarie europee, in Documenti giustizia, 1988, fasc. 2, 97.

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1

IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO: PRINCIPI DIRETTIVI

1. IL CONCETTO DI TRATTAMENTO PENITENZIARIO ADOTTATO DALLA LEGGE N.

354/75: GENERALITÀ

Il 31 ottobre 1972 il disegno di legge Gonella n. 2624, recante “Norme sull’ordinamento

penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, fu riportato in

Senato che, dopo avervi apportato alcune modifiche, lo approvò definitivamente con la legge 26

luglio 1975, n. 354.

Per la prima volta la materia relativa agli aspetti applicativi delle misure penali privative e

limitative della libertà veniva ad essere regolata con legge formale.

La legge n. 354/75 ha adeguato, in particolare, il trattamento dei detenuti ai sistemi più

avanzati di privazione della libertà personale, recependo così i principi enunciati nelle regole

minime dell’O.N.U. (1955) e del Consiglio d’Europa1.

L’attuale art. 1 O.P. statuisce, infatti, che:

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto

della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a

nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate

restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non

indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non

sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo

che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il

trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche

condizioni dei soggetti.”

Il concetto stesso di trattamento2 penitenziario, a cui già accennava il terzo comma dell’art.

27 della Costituzione, viene, nel 1975, concretamente valorizzato e dettagliatamente regolamentato.

1 L. DAGA, Le nuove regole penitenziarie europee, in Documenti giustizia, 1988, fasc. 2, 97.

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Viene riconosciuta, in particolare, la necessità di pervenire, attraverso l’osservazione

scientifica della personalità del condannato, alla individualizzazione del trattamento in rapporto alle

condizioni specifiche del soggetto e ai particolari bisogni della sua personalità, perché si possa, con

l’espiazione della pena, ottenere il risultato ottimale del recupero del reo e del suo reinserimento

nella vita sociale.

In quest’ambito, l’individualizzazione non riguarda più esclusivamente il tentativo di far

corrispondere la sanzione al quantum di danno cagionato e di responsabilità dell’autore, ma

comprende anche le esigenze del trattamento. Di conseguenza, essa si sviluppa su due linee di

azione: quella che riguarda i programmi di trattamento interni all’esecuzione di ciascuna misura, e

quella di una modulazione della misura applicata sempre al fine di adattare la risposta penitenziaria,

intesa al recupero sociale del condannato, alle effettive e attuali esigenze della personalità3.

Nella legge penitenziaria si parla distintamente di trattamento penitenziario (o, più

brevemente, con analogo significato, solo di trattamento) e di trattamento rieducativo.

Il trattamento penitenziario, nella più vasta e comprensiva accezione, comprende quel

complesso di norme e di attività che regolano ed assistono la privazione della libertà per

l’esecuzione di una sanzione penale4. Rientrano, dunque, nel trattamento penitenziario le norme

dirette a tutelare i diritti dei detenuti, i principi di gestione degli istituti penitenziari, le regole che

attengono alle somministrazioni ed alle prestazioni dovute a chi è privato della libertà.

Il trattamento rieducativo, invece, costituisce una parte del trattamento penitenziario, in

quanto nel quadro generale e nei principi di gestione che regolano le modalità della privazione della

libertà personale, si inserisce il dovere dello Stato di attuare l’esecuzione della pena o della misura

di sicurezza in modo tale da “tendere alla rieducazione del soggetto”5.

Il trattamento rieducativo si attua nei confronti dei condannati e degli internati6.

2 L’espressione “trattamento” ricorreva già nel Regolamento del 1931, dove assumeva due differenti significati, entrambi rispondenti a concezioni diverse da quella attuale. Un primo significato era limitato ad indicare che cosa dovesse essere fornito ai detenuti per la soddisfazione dei loro particolari bisogni di mantenimento e di cura. Un secondo significato, più ampio, era inteso ad indicare il regime di vita instaurato negli istituti. Solo eccezionalmente, nel detto Regolamento, affiorava un’accezione del termine “trattamento” che anticipava, in qualche modo, l’attuale. In particolare, nei punti in cui si parlava di trattamento del condannato nel periodo iniziale di isolamento, per prevedere che “esso esige la particolare attenzione dell’autorità dirigente”, e dove era previsto che il trattamento “è rivolto al miglioramento delle condizioni fisiche e psichiche del condannato” (DI GENNARO). 3 G. DI GENNARO - R. BREDA - G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè ed., 1997, 6; C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Manuale di diritto penitenziario, La Tribuna, Piacenza, 2005. 4 V. M. CANEPA, Personalità e delinquenza, Milano, 1974; M. CANEPA - S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè ed., 2002, 107. 5 Gli interventi trattamentali degli operatori penitenziari devono sostanzialmente mirare a realizzare tre obiettivi particolari: a) evitare che la pena possa determinare effetti desocializzanti o criminogeni; b) recuperare i valori sociali mortificati con la commissione dei reati; c) risocializzare il condannato. Cfr. S. CELLETTI, Compendio di diritto penitenziario, ed. giu. Simone, 1998, 44. 6 V. schema sulle categorie di soggetti privati della libertà posizionato al termine di questo capitolo.

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Nei confronti degli imputati7, invece, l’ordinamento non ha previsto l’attuazione di un

trattamento rieducativo e ciò perché:

• da un lato, l’esistenza di una presunzione di non colpevolezza è preclusiva ad un’azione

di rieducazione e di risocializzazione che presuppone, appunto, il riscontro di note delinquenziali

della personalità;

• dall’altro, l’elemento sostanziale riferibile alla piena ed assoluta libertà di difesa

potrebbe essere posta in dubbio ove si effettuassero, sul soggetto, interventi significativi di

contenuto psicologico8.

Naturalmente anche l’imputato è assoggettato al trattamento penitenziario.

2. L'INDIVIDUALIZZAZIONE DEL TRATTAMENTO E L'OSSERVAZIONE DELLA

PERSONALITÀ9

Il legislatore afferma che la finalità del trattamento deve essere quella di promuovere un

processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva

partecipazione sociale (art. 1, comma 2, reg. esec.) in modo da raggiungere l'obiettivo finale,

individuato nel "reinserimento sociale" (art. 1, comma 6, O.P.).

L'art. 13 O.P., come abbiamo peraltro anticipato, definisce tre momenti fondamentali per il

perseguimento della finalità individuata dall’art. 1, comma 6, O.P.: il punto di partenza è

rappresentato dalla individuazione delle carenze del soggetto e delle cause del suo disadattamento

sociale; il secondo momento è costituito dalla osservazione scientifica della personalità, che deve

permettere all’istituzione di predisporre interventi appropriati; il terzo e ultimo momento è

rappresentato dal reinserimento sociale.

L'individualizzazione del trattamento comporta innanzitutto che questo risponda "ai

particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" (art. 13, comma 1, O.P.) e, a questo fine, è

disposta nei confronti dei condannati e degli internati l'osservazione scientifica della personalità.

7 V. schema sulle categorie di soggetti privati della libertà posizionato al termine di questo capitolo. 8 M. CANEPA – S. MERLO, Manuale…, cit., 118. 9 Sul sito intitolato “L'altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm vedasi, in particolare, la ricerca di T. BARBERIO, L'osservazione scientifica della personalità del detenuto.

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L'osservazione scientifica della personalità è diretta, quindi, "all'accertamento dei bisogni di

ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali…"

(art. 27, comma 1, reg. esec.)10.

Il secondo comma dell’art. 13 O.P., nella sua prima parte, collega l'osservazione scientifica

della personalità al trattamento, indicando il fine a cui l'attività dell'osservazione è diretta, e cioè

all'individuazione dei bisogni individuali a cui il trattamento deve rispondere.

L'attenzione è posta in ugual misura sia verso le carenze fisico-psichiche sia verso le altre

cause del disadattamento sociale, segno evidente che si è ormai abbandonato l'orientamento

criminologico deterministico che attribuiva un nesso inscindibile tra comportamento criminale e

carenze fisico-psichiche. Allo stesso tempo risulta superato anche l'orientamento deterministico

sociologico che sosteneva, invece, che a cause simili corrispondessero necessariamente effetti

comportamentali simili.

Alla luce di quanto osservato, sembra potersi affermare che le cause del disadattamento

devono sempre venir analizzate in relazione alla storia specifica del soggetto ed, in particolare, al

suo vissuto familiare.

L'osservazione non deve essere un momento statico ma deve essere proseguita durante tutto

il corso dell'esecuzione penale.

In un primo momento l'osservazione serve ad inquadrare le problematiche della singola

personalità e a cogliere le indicazioni che servono a formulare una prima ipotesi di trattamento.

Questa ipotesi va continuamente verificata, integrata e modificata tenendo conto, da un lato, dei

mutamenti che a livello personale e di vita di relazione si manifestano presumibilmente per effetto

degli interventi attuati e, dall'altro, delle nuove esigenze che possono sopraggiungere, anche

indipendentemente da quelli.

Il rilevamento delle carenze personali e delle altre cause di disadattamento, cui si riferisce il

secondo comma dell’art. 13 O.P., avviene, come indicato dal primo comma dell'art. 27 del

regolamento di esecuzione, attraverso l'accertamento dei bisogni che, in relazione ad esse, ciascun

soggetto attualmente presenta.

L'analisi deve essere orientata per comprendere in che modo il soggetto ha vissuto e

attualmente vive le sue esperienze, cercando di individuare, in relazione a questo personale vissuto,

la disponibilità del soggetto ad usufruire delle opportunità offertegli dal trattamento.

10 Con tale formulazione, il regolamento esecutivo sembra avvicinarsi in modo più aderente alla realtà rispetto a quanto non faccia la legge. In particolare, infatti, l'accertamento dei bisogni sarebbe sintomo dell'abbandono di qualunque approccio deterministico (tanto medico che sociologico), laddove il minor interesse per il dato eziologico lascia spazio ad una rinnovata attenzione "per il modo in cui il soggetto ha vissuto e vive le sue esperienze".

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L'osservazione della personalità viene compiuta da un gruppo di lavoro interdisciplinare,

detto comunemente équipe11, di cui fanno parte: il direttore dell'istituto, che presiede il gruppo e

sotto la cui responsabilità e coordinamento si svolgono le attività; l'educatore; l'assistente sociale;

altre figure non espressamente indicate dalla normativa, quali il medico e un rappresentante del

personale di Polizia penitenziaria; infine, tra il personale non dipendente dall'Amministrazione i

professionisti indicati nell'art. 80 O.P. È ragionevole, inoltre, pensare che possono essere chiamati a

partecipare alle attività di osservazione altre figure di operatori che siano in grado di portare un

contributo significativo.

Ogni componente ha una competenza specifica in un'area d'indagine.

11 L’équipe è un “gruppo ristretto, a rilevanza esterna, presieduta dal Direttore dell’Istituto (o dal suo sostituto ma non dal suo delegato), la cui presenza è di suprema importanza: non è un compito delegabile ad altra figura, né riconducibile ad una presa d’atto del lavoro dei membri dell’équipe”. La composizione dell’équipe fa riferimento ad alcuni articoli (28 e 29) del Regolamento di Esecuzione: direttore, educatore, assistente sociale (incaricata del caso), esperto, comandante. Si tratta soltanto di figure istituzionalmente competenti alla gestione dell’esecuzione della pena e, quindi, a definire formalmente la sintesi o aggiornamento dell’osservazione ed una ipotesi di trattamento intra o extra murario. L’équipe è il momento formale in cui - posto il lavoro preliminare del G.O.T. - si cristallizza con il contributo degli operatori (formalmente indicati dalla legge) un documento avente rilevanza esterna, una sintesi o aggiornamento, un’ipotesi di trattamento, intra o extra murario, da inviare per l’approvazione/ratifica alla competente Magistratura di Sorveglianza, o ancora la relazione contenente le notizie per la medesima Magistratura in ordine alla richiesta dei benefici. L’educatore, quale segretario tecnico, è l’elemento di continuità tra G.O.T. ed équipe. Il buon coordinamento tra équipe e G.O.T. dovrebbe permettere all’équipe di utilizzare positivamente tutte le riflessioni, informazioni ed ipotesi frutto del lavoro di tutti gli operatori del G.O.T. In una sintesi estrema si potrebbe dire che il gruppo di osservazione e trattamento discute e crea le basi affinché l’équipe possa decidere nelle migliori condizioni. V. Circolare D.A.P., Le Aree educative degli istituti, datata 09/10/03. Figura 1 – Équipe e gruppo osservazione e trattamento (G.O.T.)

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I dati relativi alla famiglia e all'ambiente da cui il soggetto proviene presentano un rilevante

interesse sotto diversi punti di vista: quello interpretativo, per i significati correlati alle vicende

comportamentali del soggetto; quello dell'intervento immediato per il mantenimento dei legami

affettivi; quello della previsione, per il ruolo importante che il fattore famiglia-ambiente può giocare

in un programma di trattamento futuro.

La competenza sul versante sociologico e antropologico che l’Ufficio di esecuzione penale

esterna esprime, svolge la sua funzione principalmente all'interno di un quadro di riferimento in cui

si cerca di considerare e comprendere pienamente i profondi collegamenti esistenti tra momenti

personali-strutturali e momenti relazionali-sociali dell'adattamento.

L'inchiesta sociale12 predisposta dall’ufficio di esecuzione penale esterna, solitamente

definita come una raccolta ed una organizzazione dei dati che concernono la vita del detenuto sia

nelle relazioni con la famiglia sia con l'ambiente sociale di appartenenza, offre informazioni

preziose agli operatori che si occupano del trattamento e alla magistratura di sorveglianza, che, in

particolare, deve assumere una decisione sulla base di una valutazione complessiva che includa

aspetti “esterni” alla vita in istituto e determinanti per la comprensione del caso.

Sul piano sostanziale si può, peraltro, osservare che la validità dell'inchiesta sociale resta

comunque fondamentalmente legata alla disponibilità del soggetto e dei suoi familiari a collaborare

con l'assistente sociale nell'esame della situazione che li riguarda13.

L’art. 13, comma 2, O.P. chiarisce, poi, come per ciascun condannato e internato, in base ai

risultati dell’osservazione, si debbano formulare indicazioni in merito al trattamento rieducativo da

12 In passato era comunemente ritenuto necessario esporre minuziosamente nell'inchiesta una serie di dati anamnestico-descrittivi sia sul detenuto sia sul nucleo familiare, quasi nel tentativo di ricostruire i vari passaggi psico-socio-pedagogici che avevano caratterizzato il processo evolutivo del caso, sino alla condizione attuale. Il motivo di tale procedura va naturalmente ricercato nel concetto particolare di diagnosi che accompagnava in quel tempo l'attività di osservazione in campo criminologico, così come in altri settori di intervento psicologico-sociale. In tempi recenti si è fatto strada l'orientamento secondo cui l'inchiesta sociale, senza trascurare di dare un quadro significativo della "storia del caso" nei suoi aspetti più salienti, deve tuttavia considerare soprattutto la vita attuale del detenuto e della sua famiglia ed il modo con cui le persone in causa percepiscono attualmente la condizione in cui si trovano e le relative prospettive di evoluzione. In tale ambito di indagine e di analisi, maggiormente informato a principi fenomenologici, la massima importanza viene data al processo di interazione esistente tra il soggetto, il suo ambiente prossimo e la comunità di appartenenza, con particolare riguardo ai problemi di ruolo e di status emergenti a seguito della carcerazione. Inoltre, il modo del detenuto e della sua famiglia di percepire se stessi in relazione alle opportunità offerte dalla realtà circostante così come la capacità di progettare il futuro diventano elementi determinanti in questa prospettiva che privilegia, rispetto all'interpretazione del passato, la comprensione del presente in funzione della programmazione dell'immediato futuro. 13 Al di là dei mascheramenti e delle difese che sono comprensibilmente attuati con l'intenzione di far apparire agli operatori il lato migliore delle cose, non è difficile ottenere dagli interessati una collaborazione autentica. La diffidenza scompare, o almeno si attenua, quando risulta chiaro che la chiave di lettura della realtà in cui il detenuto si trova, offerta proprio dagli assistenti sociali, può fornire elementi di conoscenza indispensabili per la magistratura di sorveglianza. È infatti facilmente intuibile come la non conoscenza da parte dei giudici rischi di tradursi automaticamente in un aumento di perplessità e di riserve sulla opportunità di concedere qualsiasi beneficio.

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effettuarsi e si debba compilare il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le

esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione stessa.

In tal senso, l’art. 27 reg. esec. precisa, al comma 2, che la formulazione del programma

individualizzato di trattamento deve aversi entro il termine di nove mesi.

La valutazione, che costituisce la base del programma di trattamento, comprende almeno tre

aspetti fondamentali:

a) la comprensione del vissuto del soggetto riguardante il suo passato, gli avvenimenti

che lo hanno condotto alla situazione attuale, i problemi personali e familiari che

costituiscono lo sfondo affettivo e sociale su cui si colloca la vicenda umana;

b) la comprensione di come il soggetto si percepisce oggi, come giudica se stesso e le sue

capacità e come guarda agli altri;

c) la comprensione delle intenzioni e delle disponibilità del soggetto nei confronti del

futuro e delle possibilità concrete che il sistema penitenziario è in grado di offrirgli.

Sulla scorta di questo processo interpretativo unitario, che trova i suoi confini nella

considerazione concreta e attuale dei problemi del soggetto, si può giungere alla formulazione,

appunto, di un programma di trattamento in cui le esigenze del soggetto stesso sono confrontate

con le diverse opportunità disponibili nell'ambito del sistema e il profilo degli interventi può essere

delineato con riferimento a ciò che è veramente possibile e attuale.

Il programma di trattamento confluisce in una apposita relazione di sintesi dell’équipe.

Nel corso del trattamento potranno esservi altre relazioni di sintesi.

Le relazioni di sintesi sono il frutto dell'apporto di ogni singolo operatore, apporto che viene

offerto come un elemento da rifondere nella dialettica della discussione per arrivare ad una visione

e ad un'interpretazione integrate delle esigenze e dei problemi del soggetto.

La relazione di sintesi fornisce in particolare gli elementi necessari per decidere

sull'ammissione alle varie misure premiali e alternative.

Sulla base della formulazione del programma di trattamento individualizzato viene disposta

l’assegnazione definitiva del condannato ad un istituto (art. 30, commi 3 e 4, reg. esec.), che insista,

ove possibile, su di un territorio prossimo alla residenza del soggetto.

Sulla base delle indicazioni di trattamento dovrebbe essere, poi, formata, una cartella

personale del soggetto14 prevista dall’art. 13, comma 4, O.P. (in relazione al trattamento) e dall’art.

63, comma 3, O.P. (in relazione all’osservazione).

14 La cartella personale è il documento che dovrebbe seguire il soggetto in tutto il corso dell’esecuzione penitenziaria. In caso di successivo ingresso in istituto, la direzione richiede, infatti, al Dipartimento notizie su eventuali precedenti detenzioni al fine di acquisire la preesistente cartella personale (art. 23, comma 4, reg. esec.).

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Nella cartella personale dovrebbero essere annotati i dati giudiziari, biografici e sanitari,

oltre alle notizie generali e particolari riguardanti il trattamento. La compilazione della cartella

dovrebbe iniziare all’atto dell’ingresso in istituto dalla libertà e seguire il soggetto in caso di

trasferimento15.

Allo stato attuale, però, si provvede, invece, alla raccolta di tutti gli elementi relativi ad un

soggetto ed alla detenzione in atto attraverso una cartella biografica che cessa di svolgere ogni utile

funzione con la riacquisizione della libertà da parte del detenuto.

3. IL MUTAMENTO DI INDIRIZZO METODOLOGICO NELL'APPROCCIO DIAGNOSTICO-

RIABILITATIVO DETERMINATO DALLA LEGGE N. 354/75 E SUCCESSIVE MODIFICHE

Premessa

In passato, come abbiamo già osservato, le procedure tipiche della psichiatria e della

psicologia erano state trasferite nel settore penitenziario con l'idea di una loro assoluta validità per

la diagnosi della personalità dell'“uomo delinquente”. Oggi, nei sistemi avanzati, pur non

rinunciando, quando necessario e opportuno, a ricorrere a strumenti “scientifici di indagine”, ci si

muove però su schemi liberi. Ciò sostanzialmente significa che “…si fa leva sulla validità del

rapporto interpersonale che ha l'attitudine, se bene instaurato e mantenuto, di realizzare canali di

comunicazione tra il soggetto da osservare e l'osservatore…”16.

La cartella personale, che deriva dalla cartella biografica del precedente regolamento, è documento basilare per ogni detenuto e internato. Nel sistema della legge la cartella è prevista specificatamente anche per i detenuti in semilibertà. Nel caso di successivo affidamento al servizio sociale essa resta custodita nell’istituto in cui il condannato o l’internato è dimesso. La magistratura di sorveglianza ne riceve solo copia. Sotto il profilo formale, la cartella personale si distingue in una parte (che l’art. 26 reg. esec. qualifica “intestazione”), dedicata all’identificazione della persona e in una parte che certifica lo stato e l’evoluzione delle condizioni e delle situazioni personali del soggetto. In questa seconda parte, la cartella si articola in varie aree. Quelle comuni a tutti i detenuti e internati sono le aree dei dati giudiziari, biografici, sanitari, disciplinari e relativi ai permessi e ai trasferimenti, nonché delle annotazioni dei giudizi espressi dalla direzione. Tali annotazioni si riferiscono anche agli imputati, per quella che può essere l’applicazione del beneficio della riduzione della pena, una volta passata in giudicato la sentenza. Vi è poi un’altra area nella cartella destinata esclusivamente ai condannati e agli internati. In questo settore sono raccolte le risultanze dell’osservazione, le indicazioni del programma di trattamento e gli effetti degli interventi di trattamento. Il sistema instaurato è del tipo prevalentemente analitico, per quanto sia prevista la formulazione di un giudizio complessivo all’atto del trasferimento del soggetto. La cartella biografica non è una sorta di schedatura, ma “uno strumento tecnico indispensabile per fornire il necessario apporto documentale alle complesse operazioni di trattamento” (DI GENNARO). 15 Il legislatore ha previsto che resti custodita nell’archivio dell’istituto da cui il detenuto e l’internato è dimesso. Di tale custodia, poi, dovrebbe essere data tempestiva notizia al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. 16 G. DI GENNARO - R. BREDA - G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, cit., 89.

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La concezione moderna della eziologia criminale è testimoniata dalla previsione normativa

che colloca sullo stesso livello le carenze fisico-psichiche e le altre cause del disadattamento

sociale.

Come abbiamo già osservato, si è abbandonato ormai l'orientamento deterministico, basato

sul rapporto fra carenze fisico-psichiche e comportamento criminale e allo stesso tempo è stato

bandito il determinismo sociologico e la pretesa che a cause simili corrispondano comportamenti

simili.

Nelle intenzioni del nuovo approccio metodologico, non si è più interessati ad un’attività di

analisi storica degli avvenimenti eziologici, ma al modo in cui il soggetto ha vissuto e vive le sue

esperienze ed alla sua disponibilità ad usufruire delle opportunità del trattamento che gli vengono

offerte.

Il contenuto delle norme sull'osservazione sopra descritte ha mantenuto la sua validità

nonostante il superamento del modello medico-clinico e la ragione di ciò è sicuramente da ricercare

nella elasticità della struttura del linguaggio usato dal legislatore del ‘75.

Quest'ultimo, infatti, adoperando categorie extragiuridiche riprese dalle discipline socio-

criminologiche ha lasciato comunque assumere al testo normativo caratteristiche di flessibilità e di

voluta approssimazione.

Lo stesso termine di trattamento “penitenziario”, che dà il nome al titolo I della legge e ne

costituisce l'ossatura, non assume un significato univoco e rigoroso, potendosi individuare in esso

sia la scelta di una “terapia di riadattamento sociale”, collegata alla convinzione di derivazione

lombrosiana secondo la quale era possibile individuare le cause del delitto e quindi rimuoverle, sia

la rinuncia all'ipotesi che esistano specifici fattori della delinquenza orientandosi verso una generica

offerta di interventi di sostegno17.

Nel regolamento di esecuzione, poi, le espressioni sociologiche trionfano, ma allo stesso

tempo danno l'impressione di non volersi precludere alcuna strada anziché quella di imboccarne

taluna.

La riforma varata nel 1975 si situava, quindi, al crocevia di linee antitetiche, l'impianto

teorico assunto negli ultimi anni non poteva, infatti, essere radicalmente ribaltato cancellando i

lavori che da un trentennio la accompagnavano.

3.1. L'osservazione penitenziaria prevista dalla legge del '75 come mezzo per vagliare l'idoneità ad

usufruire delle misure alternative alla detenzione

17 Anche riguardo all’individualizzazione del trattamento l’uso di termini diversi dimostra che il linguaggio è usato per sfumare e non per esprimere.

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Il legislatore del '75 ha disegnato un modello di esecuzione penale che al contrario del

Regolamento del '31, ruota attorno al “diritto alla risocializzazione”, inteso come necessità di

favorire un graduale e progressivo processo di recupero sociale del condannato sulla base di una

reale conoscenza scientifica della persona.

Il carcere cessa di essere considerato come un’istituzione “terminale” in cui il condannato

viene abbandonato a consumare passivamente la sua pena, ma diventa luogo in cui vanno poste in

essere per il detenuto tutte le iniziative individuate a suo favore dal gruppo di osservazione e

trattamento (c.d. G.O.T.)18 e che gli consentano di assumere un nuovo o diverso orientamento di

vita, giungendo così alla rieducazione auspicata dall'art. 27, comma 3, Cost.

Le norme dell'ordinamento penitenziario del '75 prevedono che il trattamento venga

realizzato sia all'interno degli istituti sia attraverso le misure alternative alla detenzione e che esso

vada attuato senza alcuna discriminazione nei confronti di ogni detenuto.

Attraverso le misure alternative, poste affianco al preesistente istituto della liberazione

condizionale, s'intese, infatti, eliminare la separatezza tra carcere e società libera. Esse diedero al

condannato la possibilità di influire con il proprio comportamento sulla durata della pena e, quindi,

di riorganizzare la propria vita in vista dell'anticipata riconquista della libertà.

L'esame scientifico della personalità, in tal senso, abbraccia sia la diagnosi criminologica,

con la quale si vogliono evidenziare le carenze individuali e i bisogni del soggetto, sia la prognosi

criminologica sulla personalità come giudizio di predizione probabilistica sul futuro comportamento

del reo nell'ambiente libero.

La prova sulla non pericolosità viene in sostanza a coincidere con la realizzazione del

programma di trattamento e la partecipazione del condannato a quest'ultimo.

Se, dunque, può affermarsi che le misure alternative delineate dall'ordinamento penitenziario

del '75 esprimono a pieno titolo il c.d. diritto alla risocializzazione del condannato, consentendo

un'apertura verso la società esterna, dall'altro si può anche osservare come il rischio di una tale

apertura per la società sia stato in parte limitato dal legislatore con la previsione di una osservazione

della personalità del detenuto finalizzata ad escludere appunto dal meccanismo sopracitato i soggetti

che non si appalesino idonei a ritornare in libertà, perché ancora potenzialmente pericolosi per la

società.

3.2. La legge n. 663/86

18 Vedi nota 11 del presente capitolo.

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Alla necessità di ricercare con ogni mezzo la rieducazione del detenuto, si è venuta

affiancando nel corso del tempo l'esigenza di far sì che la pena, per lo meno, non sia

desocializzante.

E’ opportuno, quindi, soffermarsi sul processo legislativo che negli anni successivi ha in

parte modificato l’assetto normativo così come inizialmente proposto dal legislatore del ’75.

Al riguardo, è da rammentarsi l’importanza della legge n. 663 del 1986, detta legge Gozzini.

L'obiettivo principale della legge Gozzini fu quello di far sì che l'esecuzione tendesse a

favorire il graduale processo di reinserimento nella società del soggetto, attraverso un allargamento

della possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, con la previsione di determinati

meccanismi che incentivassero la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto all'opera di

trattamento19.

Come si è anticipato, l'innovazione più importante della Gozzini fu quella di proporre una

nuova concezione dell'osservazione legata alla possibilità di ottenere, almeno in parte, le misure

alternative direttamente dallo stato di libertà.

In tal senso la legge Gozzini, nell’ottica della decarcerizzazione, ha previsto la possibilità di

concedere le misure alternative20 indipendentemente dalla osservazione scientifica della personalità

con il preciso scopo di sottrarre il condannato dal contatto con l'ambiente carcerario.

Nella dottrina penitenziaria e nella criminologia, infatti, era ormai pacifico come fosse

inutile e dannoso, per i soggetti autori di reati di lieve entità o comunque meno gravi, scontare la

pena in un carcere. Tale ultima possibilità avrebbe favorito solamente il contagio criminale

producendo effetti dannosi sulla personalità di soggetti che potevano essere meglio trattati fuori

dalle mura di un istituto penitenziario.

S'impose quindi, con la legge Gozzini, la necessità di un nuovo modello di sinallagma

penitenziario, come scambio tra la modifica della pena e determinati comportamenti. Meno

attenzione era riposta sulla “persona”, oggetto tipico dell'osservazione scientifica, mentre maggiore

interesse veniva polarizzato sul “fatto” inteso come comportamento21.

L’osservazione scientifica della personalità, chiave di volta della riforma del ‘75 con il

programma di trattamento fondato sui bisogni del detenuto, cede il posto ad una valutazione del

magistrato di sorveglianza sul comportamento e sul percorso trattamentale. Dal controllo e dalla

19 La legge Gozzini tentò, altresì, di risolvere il problema della sicurezza degli istituti penitenziari che si era già posto dopo la legge del '75 in seguito all'esplosione di un nuovo tipo di criminalità a carattere organizzato, di matrice terroristica o di tipo mafioso. 20 Trattasi delle cosiddette misure alternative ab initio. 21 Non si può, infatti, non sottolineare l'assoluta distanza del sistema che nasceva dalla Gozzini rispetto allo schema teorico della “indagine sulla personalità e sulla pericolosità” ai fini di un trattamento individualizzato finalizzato alla riduzione della recidiva, proprio e tipico dello schema iniziale della riforma del 1975.

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verifica dei risultati del trattamento intramurale, si passa alla valutazione delle condotte tenute in

libertà dal condannato, dal momento della commissione del fatto a quello in cui dovrebbe iniziare

l'esecuzione della pena.

Il passaggio a questo nuovo tipo di valutazione, non comporta però il venir meno del

tradizionale contributo fornito dagli operatori del carcere per la valutazione che la magistratura farà

sul soggetto. Adesso tuttavia tale contributo non è più il solo e necessario elemento da vagliare, in

quanto assumono rilevanza altri tipi di valutazione per la concessione delle misure alternative; è

solo nei casi di richiesta di misure ab initio che la “relazione del carcere” viene ad escludersi22.

Il tribunale di sorveglianza varia, con le novità introdotte dalla legge Gozzini, l'angolazione

della sua attività conoscitiva, in quanto il suo giudizio in alcuni casi non ha più come oggetto

immediato la personalità del condannato, ma principalmente riscontri fattuali forniti quasi

esclusivamente dagli organi di polizia o dalle inchieste dell’ufficio di esecuzione penale esterna, che

vengono a sostituirsi alla relazione di sintesi dell’équipe di osservazione e trattamento e sulle quali

vanno poi effettuate le valutazioni prognostiche del caso per la concessione delle misure alternative.

Quello che si richiede agli operatori o agli esperti del carcere, in particolare a seguito della

legge Gozzini, è una prognosi di “reinseribilità” utilizzando come elementi significativi, ai fini della

formulazione, aspetti psico-comportamentali rilevanti in ambito istituzionale ed utilizzandoli come

indici predittivi del comportamento che potrebbe essere posto in essere nel sistema interattivo

esterno ovvero in presenza di una rete di rapporti affettivi, sociali, culturali che non trovano

riscontro nella realtà istituzionale e che costituiscono, invece, il tessuto connettivo che struttura e

sostiene l’esperienza umana.

Ad uno spostamento dell’attenzione dal trattamento in carcere a quello da realizzare

all'esterno, si accompagna, quindi, una implicita ridefinizione dei confini entro i quali devono

muoversi l'osservazione scientifica della personalità e l’oggetto della relazione di sintesi. La

prognosi diventa sociale, per quanto centrata sulla pericolosità “esecutiva”, e, dunque, si sostanzia

in una valutazione di tipo predittivo circa la possibilità di commettere altri reati23.

3.3. La normativa restrittiva degli anni 1991 – 1992 e l’evoluzione normativa recente

22 Tra l'altro la non rilevanza della sola indagine personologica, ma l'accertamento di fatti materiali, quali la condotta in libertà o il comportamento durante l'attuazione delle misure o la specifica situazione concreta del condannato, sotto il profilo economico o lavorativo, erano elementi che venivano valutati già allorché si trattava di revocare le misure alternative. 23 Tra l'altro, secondo alcuni studiosi, in tale prospettiva si neutralizzerebbero definitivamente le capacità di intervento dell'esperto, che difficilmente riuscirebbe a valutare dinamiche il cui ambito è esterno all'istituzione. Ciò a differenza di altri operatori penitenziari, come gli educatori e gli assistenti, per i quali la proiezione di attività anche sul sociale è, in parte sancita dalla normativa sui permessi premio che prevede una loro collaborazione con gli operatori sociali del territorio.

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Sia a seguito della diffusione di una criminalità sempre più violenta e pericolosa, autrice,

peraltro, di gravissime aggressioni e attentati, sia di un'aspra critica nei confronti di alcuni episodi di

applicazione delle misure premiali a condannati di “alto livello criminale”, si è avvertita l'esigenza,

verso la fine degli anni ’80, di delimitare e ridefinire i presupposti per l'applicazione delle misure

alternative.

In tal senso la legge 12 luglio 1991, n. 203 di conversione del D.L. 13 maggio 1991, n. 152 e

la legge 7 agosto 1992, n. 356 di conversione del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, hanno fortemente

derogato al principio dell’uguaglianza di tutti i condannati nella fase dell’esecuzione della pena,

principio enunciato dalla legge 354/7524.

Il legislatore attraverso la decretazione di urgenza del biennio 1991-‘92 si è mosso sulla base

di due direttrici:

a) ha previsto nell'art. 4 bis O.P. una serie di restrizioni e di esclusioni nei confronti dei

condannati per i delitti riferibili alla criminalità organizzata;

b) ha escluso tali inasprimenti per coloro che pur appartenendo a tale categoria

collaborassero con la giustizia, nei termini definiti dall'art. 58 ter O.P.

Si è creato, secondo buona parte della dottrina, un regime di “doppio binario” per l'accesso

alle misure alternative25; da un lato si è venuto a delineare un irrigidimento verso i soggetti ad “alta

pericolosità sociale”; dall'altro è possibile evincere una sorta di tolleranza per i soggetti per i quali è

da valutare la sussistenza di una “pericolosità” di tipo “amnistiale” per la mancanza di adeguati

strumenti sociali di controllo che permettano di valutare la c.d. “pericolosità residua”26.

In conseguenza della predetta legislazione emergenziale e premiale il trattamento dei

condannati viene ora diversificato sia rispetto alle modalità della privazione della libertà, sia in

relazione alle condizioni e alle prospettive di fruizione di benefici penitenziari.

Queste previsioni normative, però, hanno suscitato molte perplessità e sono state oggetto di

intervento della Corte costituzionale.

La Corte con la sentenza n. 306/9327 ha, infatti, da un lato, messo in luce una rilevante

compressione della finalità rieducativa della pena, dall’altro, ha ritenuto di dover fissare, quali limiti

per il legislatore, due fondamentali criteri:

1. ogni provvedimento negativo incidente sul regime penitenziario del detenuto deve essere

conseguente ad una condotta addebitabile al condannato;

24 M. CANEPA – S. MERLO, Manuale.. cit., 460. 25 G. LA GRECA, La riforma penitenziaria a venti anni dal 26 luglio 1975, in "Diritto penale e processo", 885-886. 26 F. CORBI, L'esecuzione nel processo penale, Giappichelli, Torino, 360-361. 27 Corte costituzionale 11 giugno 1993 n. 306, in Cass. Pen., 1994, 837, con nota di ACCONCI, Ordinamento penitenziario e criminalità organizzata al vaglio della Corte costituzionale.

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2. in nessun caso la finalità di prevenzione generale e di difesa sociale propria della pena può

spingersi fino al punto da rendere lecito il pregiudicare la finalità rieducativa della stessa.

Sulla stessa linea di ragionevolezza si sono poste le successive sentenze n. 504/95, n. 445/97

e n. 137/199928.

Nell’ottica, invece, di evitare il carcere a soggetti che potrebbero solo trarne nocumento e al

fine di garantire l'accesso alle misure alternative a tutti i condannati astrattamente meritevoli, nel

1998 il legislatore ha introdotto, con la legge 27 maggio 1998, n. 165, c.d. legge “Simeone-

Saraceni”, la sospensione automatica dell'esecuzione da parte del pubblico ministero o l'obbligo di

avviso per il condannato sulla possibilità di presentare istanza al tribunale di sorveglianza per la

concessione della misura.

Anche con questa legge si assiste ad una "mutazione genetica delle misure alternative e alla

generalizzazione di una procedura già contemplata dall'ordinamento penitenziario, a partire dalla

riforma del 1986, che suggerisce e prelude ad una loro utilizzazione in chiave sostitutiva della pena

detentiva"29.

Si assiste ad una estromissione definitiva delle misure alternative dalla sola logica

trattamentale; la loro concessione non può più far leva esclusivamente sui tradizionali canoni

applicativi che si basano sugli esiti dell'osservazione della personalità e sulla partecipazione del

condannato alle offerte del trattamento istituzionale.

4. PARITÀ DI CONDIZIONI DI VITA ED ESERCIZIO DEI DIRITTI

Negli istituti penitenziari deve essere assicurata ai detenuti ed agli internati parità di

condizioni di vita (art. 3 O.P.). Con l’espressione in parola ci si è voluto riferire soprattutto alle

condizioni materiali, al fine di evitare sperequazioni, specialmente in ordine alla diversa estrazione

sociale dei detenuti.

Con l’articolo 3 della legge penitenziaria il legislatore ha, infatti, voluto assicurarsi che, in

ordine alle condizioni economiche dei detenuti, il carattere di imparzialità del trattamento

penitenziario, sancito dall’art. 1, comma 2, O.P., non rimanga un fatto meramente formale. Ha così

attribuito ai redattori del regolamento di esecuzione il compito di limitare, in nome del suddetto

principio di parità di condizioni di vita, il diritto dei detenuti ad utilizzare le proprie risorse materiali

28 Tali pronunzie hanno in parte determinato l’intervento legislativo venutosi recentemente ad avere in materia con la legge 23.12.2002, n. 279. 29 A. PRESUTTI, Le misure alternative alla detenzione. Le nuove figure. I presupposti, le procedure e le revoche, in "Incontro sul tema: la legge 27/05/1998 n. 165", Frascati 1998, 7-13.

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ed economiche. Ma se per queste ultime il regolamento di esecuzione ha assolto fino in fondo il

mandato (art. 57 reg. esec.), per i generi e gli oggetti ricevibili, acquistabili o detenibili dai ristretti

ha, invece, delegato i regolamenti interni dei singoli istituti, limitandosi a specificare alcuni divieti e

criteri indicativi al fine di contenere la discrezionalità delle varie direzioni penitenziarie.

E’, inoltre, da considerarsi che la parificazione economica dei ristretti è anche un valido

input al lavoro penitenziario per i soggetti più facoltosi, che altrimenti potrebbero adagiarsi

passivamente sul proprio benessere.

I detenuti e gli internati esercitano, poi, personalmente i diritti loro derivanti dalla legge

penitenziaria anche se si trovano in stato di interdizione legale (art. 4 O.P.)30. Il legislatore ha inteso

conservare al detenuto tutti quei diritti che non siano assolutamente incompatibili con le necessità

della esecuzione penitenziaria31.

La normativa penitenziaria ha, quindi, fatto sì che l’individuo sottoposto all’esecuzione

penale non sia più destinatario passivo di interventi amministrativi e tecnici, ma eserciti

personalmente i diritti che a lui derivano dalla legge e sia chiamato a partecipare all’azione condotta

nell’interesse della sua effettiva reintegrazione nella comunità. La partecipazione sarà tanto più

proficua e produttiva quanto più si accompagnerà alla convinzione della necessità di adeguare il

proprio comportamento alle generali esigenze di ordine e di disciplina32.

La partecipazione dei detenuti alla gestione dei loro interessi deve essere preoccupazione

assorbente e deve trovare possibilità di estrinsecarsi in tutte le forme consentite.

Il legislatore concepisce le istituzioni penitenziarie come veri e propri servizi di comunità

integrati nel contesto sociale con il quale devono istaurarsi gli opportuni contatti33.

5. L’ORDINE E LA DISCIPLINA NEGLI ISTITUTI

Le esigenze di ordine e di disciplina34 negli istituti sono affermate dall’art. 1 della legge

penitenziaria come condizioni basilari per l’effettiva realizzazione delle finalità del trattamento.

30 La disposizione in questione è dettata da un’esigenza di chiarezza, poiché anche senza di essa sarebbe stato difficile dubitare che i diritti attribuiti dalla presente legge non potevano essere esercitati personalmente dai destinatari delle previsioni. 31 V. Circ. Min. n. 2251/4706 del 20.08.1975. 32 V. anche DI GENNARO – VETERE, I diritti dei detenuti e la loro tutela, Rass. Studi Penit., 1975. 33 Al riguardo si rimanda all’attuale concetto di “rete sociale”, intesa come insieme coordinato di interventi da attuarsi sul territorio ad opera dei servizi territoriali. 34 La disciplina è il controllo del comportamento e della condotta che viene ottenuto mediante premi e punizioni. Si distingue una disciplina preventiva, intesa a prevenire condotte non commendevoli, da una disciplina punitiva, diretta a modificare la condotta non commendevole di un individuo mediante punizioni di vario grado che operano come deterrente per il singolo e come monito per coloro che potrebbero incorrere in condotte antisociali.

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L’affermazione che l’ordine e la disciplina devono essere mantenuti è stata, peraltro, inserita

nella legge con lo scopo evidente di contrastare l’equivoco che vi sia incompatibilità fra il

trattamento e l’ordinato svolgimento della vita penitenziaria35.

Sono finalizzati, ad esempio, al mantenimento dell’ordine e della disciplina negli istituti

penitenziari il regime di sorveglianza particolare (art. 14 bis O.P.), il regime disciplinare (art. 36

O.P.) e la sospensione delle normali regole di trattamento (art. 41 bis O.P.).

Il direttore dell’istituto deve provvedere al mantenimento della sicurezza, dell’ordine e della

disciplina, avvalendosi della collaborazione del personale civile e di Polizia penitenziaria, secondo

le rispettive competenze (art. 2 reg. esec.).

In relazione al mantenimento della sicurezza, dell’ordine e della disciplina negli istituti

penitenziari, la vigente normativa ha fatto, quindi, applicazione del principio basilare secondo cui la

responsabilità della gestione degli organismi complessi deve essere conferita al solo direttore, il

quale ha anche il potere e la responsabilità esclusivi di chiedere, quando necessario, al Prefetto

l’intervento delle forze di polizia e delle altre forze eventualmente poste a sua disposizione, ai sensi

dell’articolo 13 della legge 1° aprile 1981, n. 121, informandone immediatamente il magistrato di

sorveglianza, il Provveditore regionale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (art. 93

reg. esec.).

Dell’esercizio delle sue attribuzioni il direttore risponde esclusivamente al Provveditore

regionale ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. (art. 3, comma 3, reg. esec.)36.

6. IL REGOLAMENTO DELL’ISTITUTO

Gli istituti per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, come abbiamo già detto in

precedenza, devono essere differenziati sia in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli

internati37 sia in relazione alle necessità di trattamento individuale o di gruppo degli stessi.

Per quanto, quindi, il trattamento penitenziario sia organizzato secondo le direttive che

l’Amministrazione penitenziaria impartisce, essendo tra loro diversi gli istituti penitenziari,

altrettanto differenziati saranno i regolamenti interni che del trattamento disciplinano le modalità

applicative (art. 16 O.P.).

35 Va notato che, in una precedente redazione del testo in discussione al Parlamento, era aggiunta l’espressione “con fermezza” e ciò, in aderenza alla disposizione contenuta nella regola 27 dell’O.N.U. 36 In materia di sicurezza, ordine e disciplina il Ministero ha diramato varie circolari. 37 V. schema posizionato al termine di questo capitolo.

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Il regolamento interno è predisposto e modificato da una apposita commissione38, composta

dal magistrato di sorveglianza39 che la presiede, dal direttore, dal medico, dal cappellano, dal

preposto alle attività lavorative, da un educatore e da un’assistente sociale (art. 16, comma 2, O.P.).

La commissione può avvalersi della collaborazione degli esperti40 indicati nel quarto comma

dell’art. 80 O.P.41

Il regolamento interno e le sue modificazioni sono approvate dal Ministero della Giustizia42.

Il regolamento in parola, che costituisce lo strumento normativo attraverso il quale si

realizza il trattamento individualizzato dei detenuti, oltre alle modalità degli interventi di

trattamento43, disciplina, in ogni caso, le seguenti materie (art. 36, comma 2, reg. esec.):

a) gli orari di apertura e di chiusura degli istituti;

b) gli orari relativi all’organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o

internata;

c) le modalità relative allo svolgimento dei vari servizi predisposti per i detenuti e per gli

internati;

d) gli orari di permanenza nei locali comuni;

e) gli orari, i turni e le modalità di permanenza all’aperto;

f) i tempi e le modalità particolari per i colloqui e la corrispondenza anche telefonica;

g) le affissioni consentite e le relative modalità;

h) i giochi consentiti.

Il regolamento interno può disciplinare alcune delle materie sopra indicate in modo

differenziato per particolari sezioni dell’istituto.

38 La previsione della collegialità nella redazione del regolamento interno evidenzia l’intento del legislatore di volere che tutti gli operatori penitenziari agiscano in modo integrato, stante la complessità della materia e le sue implicazioni interdisciplinari. 39 Il ruolo del magistrato di sorveglianza si giustifica con la sua funzione di garanzia in considerazione del coinvolgimento dei diritti e degli interessi dei soggetti rispetto alle modalità di trattamento (DI GENNARO). 40 Negli istituti in cui non sia possibile disporre dell’opera degli educatori e degli assistenti sociali per adulti, le funzioni previste dall’art. 16 legge penitenziaria sono conferite ad esperti in pedagogia o in servizio sociale, ai sensi del quarto comma dell’art. 80. 41 L’attribuzione regolamentare data agli operatori dei singoli istituti non costituisce un riconoscimento di autonomia normativa in senso proprio, ma rappresenta l’attribuzione di competenza a preparare schemi che disciplinano tassativi settori di attività con riferimento alla particolare situazione di ciascun istituto, nonché alle caratteristiche del trattamento penitenziario con riguardo alle esigenze dei gruppi dei detenuti e degli internati ivi ristretti (art. 16 O.P.). 42 Nella predisposizione del regolamento interno, la commissione prevista dal secondo comma dell’articolo 16 della legge penitenziaria deve uniformarsi alle direttive impartite dall’Amministrazione penitenziaria ai sensi del primo comma dell’articolo 16 della legge penitenziaria e del comma 1 dell’articolo 36 reg. esec.. Nel caso di direttive sopravvenute, le norme del regolamento interno non conformi ad esse cessano di avere applicazione e devono essere modificate dalla commissione, per uniformarle alle direttive medesime, entro venti giorni dal loro ricevimento. 43 In tema di modalità di trattamento (art. 16 O.P.) e degli interventi di trattamento (art. 36 reg. esec.), occorre, nella redazione del regolamento interno, indicare le “opportunità” di trattamento (per raggiungere le finalità specificate nell’art. 1 reg. esec.) e cioè i servizi esistenti nell’istituto, o comunque disponibili da parte dei detenuti e degli internati. Rientra sempre nel tema del trattamento la regolamentazione delle modalità degli interventi degli operatori penitenziari (v. Circ. Min. n. 2386/4840, dell’11.1.77).

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Il regolamento interno disciplina, altresì, i controlli cui devono sottoporsi tutti coloro che, a

qualsiasi titolo, accedono all’istituto o ne escono.

Il regolamento può, infine, prevedere, che, senza carattere di continuità, sia consentita ai

detenuti e agli internati la cottura di generi alimentari di facile e rapida preparazione, stabilendo i

generi ammessi, nonché le modalità da osservare (art. 13, comma 7, reg. esec.).

Il regolamento interno, ai sensi dell’art. 36, comma 5, reg. esec., deve essere portato a

conoscenza dei detenuti e internati.

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CATEGORIE DI SOGGETTI

In riferimento alle posizioni giuridiche in cui i singoli possono trovarsi è dato fare le seguenti distinzioni in:

Imputati

Giudicabili Soggetti detenuti o non detenuti (arresti domiciliari, remissione in libertà, etc.) per i quali è stato avviato un procedimento penale e che sono, quindi, in attesa del giudizio di primo grado; Appellanti Soggetti detenuti o non detenuti (arresti domiciliari, remissione in libertà, etc.) per i quali è intervenuta una sentenza di condanna e che sono in attesa del secondo grado di giudizio (Appello); Ricorrenti Soggetti detenuti o non detenuti (arresti domiciliari, remissione in libertà, etc.) per i quali sono intervenuti i primi due gradi di giudizio e che sono in attesa dell'esito del ricorso in Cassazione.

Condannati

Soggetti nei cui confronti è intervenuta la sentenza definitiva di condanna:

• detenuti (arrestati, reclusi, ergastolani); • in misura alternativa alla detenzione (affidamento, detenzione domiciliare, etc.); • sottoposti ad una sanzione sostitutiva (semidetenzione, libertà controllata, etc.).

Soggetti sottoposti a misura di sicurezza

Internati Soggetti sottoposti a misure di sicurezza detentiva; Soggetti in libertà vigilata

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IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO 1

PRINCIPI DIRETTIVI

CONDIZIONI GENERALI

OSSERVAZIONE DELLA PERSONALITA’

INDIVIDUALIZZAZIONE TRATTAMENTALE

RISPETTO DELLA PERSONA

ESERCIZIO DEI DIRITTI

SALVAGUARDIA DELL’ORDINE

REGOLAMENTO INTERNO

PREVENZIONE E PROFILASSI

VESTIARIO E CORREDO IGIENE PERSONALE

EDILIZIA PENITENZIARIA

LOCALI PER SOGGIORNO E

PERNOTTAMENTO

PERMANENZA ALL’APERTO

LOCALI DI SOCIALIZZAZIONE

ALIMENTAZIONE SERVIZIO SANITARIO

MODALITA’ ED ELEMENTI DEL TRATTAMENTO

ISTRUZIONE LAVORO

ATTIVITACULTURALI, RICREATIVE E

SPORTIVE

RELAZIONI FAMILIARI RELIGIONE

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