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BUON NATALE

dagli insegnanti delle classi seconda G e H

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LE NOSTRE STORIENatale 1997

Una storia é per sempre.Le storie, le favole vengono raccontate da secoli, e una volta

sentite restano nella vita di una persona per sempre. Nella no-stra classe raccontiamo spesso delle storie e facciamo anche dei lavori di scrittura, recita, disegno su quelle che piacciono di più ai ragazzi. Spesso i ragazzi chiedono di raccontare una storia soprattutto se le conoscono già.

Questo libretto serve per aiutare a ricordare le storie che sono piaciute di più e che i ragazzi chiedono sempre di sentire: con qualche frase e dei disegni fatti dai ragazzi stessi ognuno avrà un punto d’appoggio per ricordare.

La serie comincia con Il brutto anatroccolo perché vorrem-mo aiutare ogni ragazzo a riconoscersi, a scoprire in sé stesso quanto di bello e di buono possiede. Questo é il nostro lavoro di insegnanti ed anche il nostro augurio per il Natale e per l’anno nuovo, ai ragazzi e alle loro famiglie.

Gli insegnanti di classe

Classi seconda G e seconda H - Scuola elementare Salvemini

di Napoli-Barra

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IL BRUTTO ANATROCCOLOUn uovo di cigno é finito tra quelli dell’anitra: quando nasce il

pulcino tutti lo prendono in giro perché é diverso e dicono che é brutto. Solo la madre adottiva lo protegge, ma alla fine il piccolo cigno solo e disperato se ne va per il mondo finché non si ferma sulle rive di un lago, dove lo accoglie uno stormo di cigni.

Ma il piccolo cigno non sa di essere un cigno, e quando lo stor-mo parte rimane sul lago, finché, durante l’inverno, debole per la fame sta per morire intrappolato dal ghiaccio.

Viene curato e nutrito da una famiglia di contadini, finché a pri-mavera torna sul lago pieno di nostalgia per i suoi amici cigni.

A lago non trova nessuno, ma mentre beve vede riflessa l’im-magine di un cigno bellissimo: incomincia a parlare con lui, finché arriva lo stormo, e il re dei cigni, ridendo gli dice:

“Che fai parli da solo”. Ormai era diventato un giovane cigno e sposò la principessa

dei cigni

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I TRE LINGUAGGIIl figlio di un ricco mercante andava a scuola e non imparava

niente. il padre allora lo mandava da grandi professori in città lontane, ma ogni volta lui tornava e diceva di aver imparato il linguaggio degli animali: prima il linguaggio dei cani, poi quello delle rane, infine quello degli uccelli.

La terza volta il padre lo cacciò di casa e lui si avviò per le strade del mondo.

Per prima cosa conoscendo il linguaggio dei cani liberò una principessa prigioniera di un branco di cani; poi sentì dalle rane che sarebbe diventato Papa di Roma, infine, quando giunse a Roma e iCardinali lo nominarono Papa, lui che non sapeva la lin-gua della chiesa, seppe dire la messa perché una colomba si posò sulla sua spalla e gli suggeriva tutto quello che doveva dire.

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FRATELLINO E SORELLINAFratello e sorella se ne vanno per il bosco cacciati dalla matrigna

cattiva. Il viaggio é lungo ed il bambino ha sete, ma ogni volta che si avvicina ad una sorgente, la sorella sente una voce magica che avvisa di non bere, se no si trasforma in un animale feroce.

La terza volta il fratello non resiste: beve e viene trasformato in un capriolo.I due fratelli vivono per anni nel bosco, finché un giorno durante la caccia, il capriolo, per la voglia di divertirsi a farsi inseguire dai cacciatori, non rimane ferito ed il re scopre il loro rifugio.

Il re chiede alla ragazza di sposarlo e così il capriolo si trasfe-risce nelle stalle del re.

Dopo un anno nasce un bambino; ma la strega trova il modo di far morire la mamma, e di mettersi al suo posto. Senonché il fantasma della ragazza riesce a far capire al re come stanno le cose e questo butta la strega nel fuoco: nello stesso momento il capriolo diventa uomo e la principessa ritorna in vita.

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HANSEL E GRETELHansel e Gretel vengono abbandonati nel bosco e perdono la

strada di casa. Cammina cammina finché trovano una casa con le pareti di marzapane ed i vetri di zucchero filato. Dopo essersi mangiati un pezzo di casa, vengono ospitati da una vecchina che é la padrona. Ma il giorno dopo Hansel viene chiuso in gabbia e Gretel é incaricata di farlo ingrassare per darlo da mangiare alla strega.

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Passa molto tempo perché con un trucco Gretel fa credere che il bambino non ingrassa mai, finché un giorno questa decide di mangiarlo comunque. Mentre si scalda il forno, Gretel con un trucco fa avvicinare la strega al fuoco: con una pinta la getta dentro e la fa bruciare. Così i due ragazzi si liberano, prendono le ricchezze che stanno nella casa e ritornano dal padre che li piangeva ancora per morti.

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GIANNI DELL’ORSOUna povera ragazza viveva raccogliendo i frutti del bosco, finché

l’orso non la rapì e la chiuse con un masso nella sua tana. L’orso in fondo era bravo e non le faceva mancare niente così alla fine nacque anche un bambino che aveva il corpo peloso come il padre e la faccia rosa come la madre.

A sette anni era già diventato così forte da spostare la pietra che chiudeva la tana, così lui e la madre tornarono al paese.

La gente, anche se il ragazzo era un po’ strano, gli dava da lavorare e stavano bene madre e figlio, finché Gianni dell’Orso, a quattordici anni, disse alla madre che era il tempo di vedere un po’ il mondo. Gianni parte, fa amicizia con un altro giovane forte come lui, e se ne vanno in un castello disabitato. Qui all’ora di pranzo arriva una vecchietta che picchia tanto forte che il suo amico “Torciscassa” resta svenuto.

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Gianni Dell’Orso affronta la vecchia e la fa svenire, ma poi questa, alla prima distrazione, se ne scappa in fondo al pozzo.

Gianni la insegue fin laggiù, e si fa calare con una fune per ben tre giorni. Giunto al fondo libera una bellissima principessa e la fa salire per prima. Ma Torciescassa prende con sé la principessa e non cala più la fune.

Un aquila, ricordando che Gianni aveva salvato i suoi figli, scende nel pozzo ad aiutarlo, ma ha bisogno di carene per poter volare. Per sei giorni durante il volo Gianni le passa pezzi di carne cruda, ma quando stanno per arrivare in cima la carne fini-sce e Gianni non può fare altro che tagliarsi un pezzo di coscia per nutrirla. Così Gianni ritorna al castello, libera la principessa ed accetta di sposarla. Ripulito dal barbiere era un bellissimo giovane, ma la gente commentava: ‘L’anello l’ha messo al dito o al naso’?

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MASTRO ACCONCIA E GUASTAMastro Acconcia e Guasta dalle cose vecchie faceva mobili

nuovi. Ma non era questa la sua sola stranezza: per lavorare chie-deva solo chiodi e colla, e la colla che avanzava la teneva per sé. Sembrava che viveva solo, ma invece di notte si sentiva dalla sua bottega un chiasso come se ci fosse un gran pranzo. Quando gli chiedevano cos’era, rispondeva che mangiava coi suoi sei figli: seghina, tenaglina, .... e succhiello.

Quest’uomo suscitò l’invidia del Re che seppe dalle sue spie come il Mastro ripetesse sempre: ho la bocca come il re.

Il re e le sue guardie lo perseguitano finché mastro Acconcia e Guasta é costretto a mangiare la colla che aveva conservato. Quando finisce la colla i figli cominciano a morire di fame, ma contemporaneamente muoiono uno dietro l’altro cinque figli del re.

Uno dei ministri del re capisce che i figli del re muoiono per-ché muoiono i figli del falegname. Così per salvare sua figlia il re promette al Mastro che sua figlia avrebbe sposato il suo ultimo figlio Succhiello.

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Dopo questa promessa il re cercava di non mantenerla dicendo che il matrimonio si poteva fare solo dopo che Succhiello era di-ventato uomo, e prendeva in giro il mastro.

Un giorno il mastro si mise a raccontare una storia: “una volta un principe cattivo pensava di aver ucciso il fratello

buono, ma questo non era morto... Il re capì finalmente che quello era suo fratello e voleva dargli la corona.

Ma mastro Acconcia e guasta disse: “Né io né tu, ma i nostri figli“

Succhiellino ritornò uomo, sposò la figlia del re e vissero molti anni felici e con molti figli.

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LA PRIMA SPADA E L’ULTIMA SCOPA

Un commerciante ricco tutti i giorni canzonava un suo concorrente perché questo aveva sette figlie femmine e diceva:”Come stanno le tue sco-pe?”

Un giorno la più piccola delle ragazze stufa di questa storia decise di lanciare una sfida al più grande dei maschi, la prima spada: “Chi porta Napoli lo scettro e la corona del re di Francia prenderà le ricchezze di tutti

e due i commercian-ti”

Così la prima Spada col suo grande cavallo pensava di vincere sulla ragaz-zina e la sua cavalli-na. Invece per essere troppo precipitoso, si impigliò nei rami della foresta, preci-pitò dalla montagna

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ed infine fu portato via dal fiume. La Ragazza invece arrivò a Parigi e li, travestita da uomo, riuscì

ad introdursi alla corte del re.Il re, nonostante il travestimento, si innamorò della ragazza

e voleva vedere se non fosse una donna, e per questo chiedeva consiglio alla madre. Ma ogni prova falliva perché la cavallina suggeriva alla ragazza le risposte giuste. Finché la madre disse al re suo figlio, di portare il paggio a fare il bagno, così non avrebbe potuto più nascondere la verità. Al momento del bagno, la ragazza

finse di inseguire il cavallo fuggito, poi andò dalla regina e disse: “Hanno rubato i vestiti di tuo figlio e ora le guardie lo vogliono

arrestare. Datemi lo scettro e la corona, così le guardie capiranno chi é veramente”. Prese lo scettro e la corona, ritornò a Napoli cantando

” Fanciulla son partita, fanciulla sono tornata, lo scettro e la corona ho conquistato”.

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GIUSEPPE VENDUTO DAI FRATELLIGiuseppe, figlio di Giacobbe era preferito dal padre e riceveva

da lui lodi e bei vestiti. Era anche amato da Dio che gli inviava sogni profetici; ma ogni volta che raccontava i suoi sogni i fratelli erano ancora più gelosi perché sembrava che lui volesse diventare

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il loro capo. Così un giorno pensarono di ucciderlo e solo all’ul-timo momento decisero di metterlo in un pozzo per poi venderlo ai mercanti di schiavi.

Giuseppe dopo molte avventure fu chiamato alla corte del Fa-raone per interpretare un sogno che nessuno sapeva spiegare: sette vacche grasse che pascolavano in un ricco prato erano divorate da sette vacche magre.

Giuseppe capì che quel sogno significava che dopo sette anni di raccolti abbondanti sarebbero venuti sette anni di carestia. Il Faraone incaricò proprio lui di conservare il grano da usare negli anni di carestia.

Quando giunsero gli anni di carestia tutti andavano da Giusep-pe per rifornirsi e fra i tanti arrivarono anche i fratelli. Giuseppe con un trucco arrestò Beniamino, l’ultimo dei figli di Giacobbe e quello preferito. Quando vide che i fratelli erano disposti a morire per salvare Beniamino capì che erano cambiati, si fece riconoscere, fece arrivare il padre nella sua reggia e vissero tutti insieme in pace.

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DAVIDE, GOLIA E SAUL

Golia era un guer-riero Filisteo che con la sua sola presenza spaventava i guerrieri ebrei che così con-tinuavano a perdere una battaglia dietro l’altra.

Davide era un pastorello che girava per il campo a rifornire i fratelli e vedendo che tutti si ritiravano decise di offrirsi per sfidare il gigante.

Il re Saul accettò e così Davide avanzò sul campo avendo solo una fionda e tre sassi. Golia vedendolo piccolo e senz’armi cominciò a ridere e a canzonar-lo, ma proprio mentre faceva questo Davide

lo colpì con precisione nel centro della fronte.

Il Gigante cadde e Davide lo decapitò con la sua stessa spada. I nemici vedendo Davide con la testa del gi-gante, fuggirono impauriti e furono sconfitti.

La sera ci furono grandi feste e le donne cantavano

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‘’Cento ne uccise Saul, ma mille Davide’. Il re Saul cominciò ad esser roso dalla gelosia e anche se aveva promesso di dargli sua figlia in sposa , nella realtà cercava di far morire Davide.

Quando vide che Da-vide, anche in mezzo a molti nemici sapeva combattere e vincere, orga-

nizzò addirittura di uccider-lo durante una festa. Ma il figlio stesso di Saul che era molto affezionato a Davide, lo avvisò.

Davide si mise in salvo rifugiandosi in una grotta nel territorio dei Filistei e fingendosi pazzo.

Intanto gli Ebrei, senza Davide, cominciarono ad essere di nuovo sconfitti, finché il figlio di Saul suggerì di richiamare Da-vide.

Il ritorno di Davide dette agli Ebrei la forza di attaccare e vin-cere, ma il re Saul, ancora roso dalla invidia,durante la battaglia si spinse molto avanti per fare bella figura, finché non rimase cir-condato dai nemici che uccisero tutti i guerrieri che lo difendevano e il suo stesso figlio. Vedendo le disgrazie che aveva provocato a sé e alla propria famiglia, Saul si uccise, e Davide diventò un grande re del popolo ebraico.

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PAPPAFICOPappafico era capitato al paese non si sa come e viveva con

una vecchina che lo trattava come un figlio. Il suo nome veniva dall’unico lavoro che sapeva fare e faceva: lanciava in aria fichi di tutte le specie: rossi, bianchi, grandi, piccoli e li prendeva a volo con la bocca: scommetteva: sempre lo stesso soldo, e la gente si divertiva a scommettere e lui vinceva sempre e portava qualche soldo alla donna.

Un giorno mentre girava in cerca di fichi trovò un vecchio bor-sellino e ci mise dentro il suo unico soldo, ma la sera quando lo aprì scoprì che era pieno di monete d’oro. Così, anche se continuava a scommettere, in segreto prendeva i soldi d’oro dal borsellino e li dava alla vecchia. Questa però ebbe paura che lui rubasse e lo cacciò.

Pappafico si mise in viaggio e dopo poco trovò un uomo che piangeva: aveva perso il suo borsellino magico, l’unico che lo poteva aiutare a trovare suo figlio: infatti solo in mano del figlio si riempiva di monete d’oro.

Così Pappafico scoprì di essere figlio di un Re ed andò nel palazzo reale. Era vestito bene e c’erano sempre grandi feste, ma lui non dimenticava la vecchina e le sue scom-messe, così di nascosto entrava nella sua stanza e continuava a fare il gioco dei fichi. Regnò molti anni e fu un buon re.

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Il brutto anatroccolo �di Hans Christian Andersen � � �

Fuori era delizioso; era estate. Nei campi il grano era d'oro e l'avena era verde; nei prati il fieno era raccolto in grandi mucchi, e la cicogna con le sue lunghe ampe rosse vi passeggiava in mezzo parlando egiziano perche quella era la lingua che aveva imparato da sua madre. Intorno ai campi verdi c'erano dei grandi boschi, e in mezzo ai boschi c'erano stagni e laghi profondi. Si, si stava bene l fuori. Un vecchio maniero I si ergeva da solo nella pianura, circondato da canali profondi, e dalle crepe delle sue mura giu fino all'acqua crescevano farfaracci2 cosi grandi che sotto le loro foglie potevano stare in piedi i bambini piccoli. Sotto quel grande bosco selvatico di farfaracci, un'anitra stava accovacciata sul nido. Covava i suoi anatroccoli, ma ormai era veramente stufa perche la cosa si era protratta troppo per le lunghe ed essa non aveva quasi mai ricevuto visite. Le altre anatre infatti preferivano nuotare nei canali invece di sedersi con lei a chiacchierare sotto le foglie di farfaraccio. Finalmente le uova si ruppero, una dopo l'altra:--Pip, pip!--si senti. E tutti i tuorli erano diventati vivi pulcini e tiravano fuori la testina.

--Qua, qua!--disse l'anatra. Gli anatroccoli si sparpagliarono da tutte le parti sotto le foglie verdi, e la mamma li lasciava fare finche volevano perche il verde fa bene agli occhi. --Com'e grande il mondo,--dissero i piccoli, i quali adesso avevano molto piU spazio che dentro 1 uovo. --Credete forse che questo sia il mondo?--disse la madre.--Il mondo si estende molto oltre il giardino, fino al campo della casa parrocchiale, ma io non ci sono mai stata. Voi ci siete tutti, vero?--chiese. E si alzo. --No, non ci siete tutti! L'uovo piu grande e ancora qui. Ma quanto tempo gli ci vorra per aprirsi? Ne ho proprio abbastanza adesso. E si sedette di nuovo. --Come va?--chiese una vecchia anatra venuta in visita. --Ci vorra tempo con quest'uovo,--disse l'anatra che stava covando.--Non 375 Si vede neanche un buchino. Ma vai a vedere un po' gli anatroccoli: sono dei tesori. Assomigliano tutti al loro padre, e quel briccone non e venuto a trovarmi nemmeno una volta. --Fa' un po' vedere l'uovo che non vuole aprirsi,--disse la vecchia anatra.-- Credi a me, quello e un uovo di tacchino. E capitato una volta anche a me, e non ti dico la fatica che ho fatto con quel piccolo. Pensa, aveva paura dell'acqua, e per quanto continuassi a chiamare, non riuscivo a farlo entrare in acqua. Mostrami quell'uovo! Ma si che e un uovo di tacchino! Lascialo perdere, e preoccupati di insegnare ai tuoi piccoli a nuotare. --No, preferisco covare ancora un poco,--disse l'anatra.--Ora che sono in ballo, giorno piu giorno meno non ha molta importanza. --Come ti pare,--disse la vecchia. E se ne ando. Finalmente l'uovo si ruppe. --Pip, pip!--disse il piccolo; e salto fuori. Era grande e brutto. L'anatra lo guardo. --E un figlio molto robusto,--disse,--ma non somiglia a nessuno degli altri. Che sia un pulcino di tacchino? Vedremo subito, entrera in acqua anche a costo di buttarcelo. Il giorno dopo era una giornata magnifica, e il sole splendeva tra i farfaracci illuminandoli tutti. Mamma anatra scese al canale con tutta la sua famiglia e pluf! si butto nell'acqua. --Qua, qua! --chiamo. L'uno dopo l'altro gli anatroccoli si buttarono: andavano sotto, ma subito ricomparivano e le loro zampe si muovevano automaticamente nell acqua. Si sentivano proprio a loro agio, e perfino il brutto anatroccolo grigio nuotava. --No, non e un tacchino,--disse l'anatra. --Guarda come muove bene le zampine e come nuota ben diritto. E proprio un mio piccolo, e in fondo e anche bello se lo guardi bene. --Qua, qua !, venite con me. Vi faro vedere il mondo e vi presentero al pollaio. Badate di starmi sempre vicino per non venire calpestati, e state attenti al gatto Entrarono tutti nel pollaio, proprio mentre c'era un rumore infernale perche due famiglie litigavano per la testa di un'anguilla che alla fine fu presa dal gatto. --Vedete cosa succede nel mondo?--disse mamma anatra. E si lecco il becco perche anche lei avrebbe voluto prendere la testa dell'anguilla. --Sbrigatevi adesso, su le zampe! E inchinatevi davanti a quella vecchia anatra li, la piu importante di tutti. Ha sangue spagnolo nelle vene, e per questo e cosi grossa. Come vedete, ha una pezza rossa attorno alla zampa, e questa e la cosa piu bella che possa capitare ad un'anatra perche significa che non

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vogliono perderla e serve per farla riconoscere alle persone ed agli animali. Su, veloci, le zampine bene in fuori come fa ogni anatroccolo educato e come fanno anche mamma e papa, guardate, cosi! E adesso inchinate le testine e dite qua!

Gli anatroccoli ubbidirono. Le altre anatre li guardarono e dissero: --Caspita, adesso si aggiunge a noi tutta quella truppa, come se gia non fossimo in troppi. Bah ! Ma che brutto aspetto ha quel piccolo li, non lo vogliamo vicino a noi. E subito un'anatra si precipito su di lui e lo colpi nel collo --Lascialo in pace,--disse la madre,--non fa male a nessuno!

Questo no, ma ha un aspetto cosi strano ed e cosi grande che vien voglia di dargliele. --Sono belli i tuoi piccoli,--disse alla madre l'anatra con la pezza rossa attorno alle zampe;--salvo quello la che e venuto proprio male. Dovresti correggerlo. --

Non e possibile, illustrissima,--disse la madre.--Certamente non e bello, ma e buono di carattere e sa nuotare come gli altri; anche meglio direi. Credo che diventera bellissimo e alle lunghe prendera proporzioni normali. E stato troppo tempo nel suo uovo, e per questo non ha un bell'aspetto. [...] --

Gli altri tuoi piccoli sono molto carini; cio considerato, fai come se fossi a casa tua. E se trovi una testa di anguilla, portala pure a me.

Fecero come se fossero a casa loro. Ma il povero anatroccolo, che era uscito dall'uovo per ultimo e che aveva un cosi brutto aspetto, venne preso in giro, calpestato e morsicato sia dalle anatre che dalle galline. --

E troppo grande,--dissero tutti. E il gallo dei tacchini che era nato con gli speroni e percio pensava di essere l'imperatore, si gonfio come una nave con tutte le vele, corse verso di lui, fece chicchirichi e divento rosso come un peperone. Il povero anatroccolo non sapeva dove andare, e si sentiva morire di tristezza per essere cosi brutto e preso in giro da tutto il pollaio.

Questo accadde il primo giorno, ma poi ando sempre peggio. Il povero anatroccolo era scacciato da tutti, e perfino i suoi fratelli e le sue sorelle gli ripetevano continuamente: --

Vorremmo che il gatto ti portasse via, brutto mostriciattolo. Un giorno anche sua madre gli disse: --Vorrei che tu fossi lontano da qui. Le anatre lo mordevano, le galline lo beccavano, e la ragazza che doveva portare da mangiare agli animali lo scansava con il piede. Allora scappo e volo oltre lo steccato. Gli uccellini negli arbusti si spaventarono e scapparono. --Solo perche sono cosi brutto,--penso l'anatroccolo. Si asciugo gli occhi e continuo a camminare. Arrivo ad una grande palude dove abitavano le anatre selvatiche e rimase li tutta la notte, stanco e triste. Alla mattina le anatre selvatiche si levarono e scorsero il loro nuovo compagno. --

Chi sei mai?--dissero. L'anatroccolo si giro di qua e di la e saluto come meglio pote. --Sei veramente brutto! ma non interessa finche non pretenderai di sposare qualcuno dei nostri. Il poveraccio non pensava dawero a sposarsi! L'unica cosa che desiderava era quella di riposarsi un po' tra le canne e di bere un sorso di acqua dalla palude. Rimase nello stagno due giorni, finche una mattina passarono di li due oche

selvatiche, due giovani paperi usciti da poco dal guscio ed ancora piuttosto imprudenti

--Senti un po', piccolo !--dissero,--sei tanto brutto che quasi ci piaci. Vuoi venire con noi? Non lontano da qui c'e un'altra palude piena di ochette tutte femmine che sanno dire << qua >>. Chi puo

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saperlo, forse avrai successo con loro nonostante la tua bruttezza. Pim, pum, pam!, si senti. I due paperi caddero morti in mezzo alle canne e l'acqua divenne rossa di sangue.

Pum, pam!, si udi ancora. E tutto il gruppo di anatre selvatiche volo via. Di nuovo si sentirono colpi: era una grande battuta di caccia, i cacciatori erano sparsi per tutta la palude ed alcuni si erano perfino arrampicati sugli alberi, alla posta. Il fumo della polvere si alzava in piccole nuvolette tra gli alberi scuri e rimaneva sospeso sull'acqua. I cani da caccia arrancavano nel fango, splasch splasch!; le canne ed i giunchi vacillavano. Per il povero anatroccolo furono momenti terribili: giro la testina per nasconderla sotto l'ala, ma all'improwiso si vide davanti un cane enorme con la lingua penzoloni e con gli occhi infuocati. Spalanco la bocca a un millimetro dall'anatroccolo, e mostro i suoi denti, poi... splasch!, si allontano senza piu curarsi di lui.

Per fortuna! -- sospiro l'anatroccolo; -- sono talmente brutto che nemmeno i cani si degnano di mordermi. Rimase immobile mentre le rose degli spari volavano tra le canne e le pallottole fischiavano. Soltanto nel pomeriggio inoltrato torno la calma, ma egli attese ancora perche non osava guardare. Alla fine si decise, corse disperatamente fuori dalla palude e con grande fatica attraverso campi e prati avanzando contro vento. A sera giunse ad una vecchia bicocca di contadini, cosi miserella che si puo dire stesse in piedi per non sapere da quale parte cadere. Il vento intanto infuriava cosi forte che l'anatroccolo dovette appoggiarsi sulla coda per resistere; e piu se ne stava li, piu la situazione peggiorava. Ad un tratto si accorse che la porta della catapecchia era semiaperta perche uno dei gangheri3 aveva ceduto, e senza por tempo in mezzo si infilo neUa stanza attraverso la fessura. Li abitava una vecchia con un gatto ed una gallina: il gatto, che lei chiamava Figliolo, sapeva inarcare la schiena e fare le fusa, e sprizzava scintille quando lo si accarezzava contro pelo. La gallina Gambacorta, perche aveva le zampe molto corte, deponeva puntualmente le sue uova e per questo era amata dalla vecchia che la teneva come una figlia. Al mattino gli animali notarono subito l'anatroccolo, e il gatto comincio a fare le fusa e la gallina a chiocciare.

Cosa c'e?--disse la vecchia guardandosi attorno. E siccome non ci vedeva bene, scambio l'anatroccolo per una grossa anatra smarrita e disse: --Questa si che e mandata in sorte! Adesso avremo uova di anatra, purche non sia un maschio. Staremo a vedere. Cosi l'anatroccolo venne messo alla prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto che era il padrone di casa e la gallina che era la padrona, parlottavano tra loro come se fossero i padroni della meta del mondo, e di quella migliore per giunta!

L'anatroccolo provo a sostenere che si poteva avere anche un'opinione diversa, ma questo la gallina non lo sopporta: -Sai fare l'uovo?--gli chiese. --No. --E allora tieni il becco chiuso! E il gatto disse: --Puoi fare la gobba? Puoi fare le fusa? --No.

--E allora le tue opinioni tienile per te, taci e ascolta quando le persone

intelligenti parlano. L'anatroccolo si sedette in un angolo triste ed amareggiato. Penso all'aria aperta e al sole, ed ebbe tanta voglia di galleggiare sull'acqua che non pote trattenersi e lo disse alla gallina. --Cosa ti viene in mente?--disse la gallina.--Non hai niente da fare, e per questo ti vengono le fantasie. Fai le uova oppure fai le fusa, e vedrai che ti passa.

Ma per me niente e piu bello che galleggiare sull'acqua, -- rispose l'anatroccolo;--mettere la testa sotto, tuffarsi fino al fondo --Oh si, dev'essere proprio un bel divertimento,--disse la gallina,--chiedilo al gatto che e la persona piu intelligente che io conosca. Sentiremo se a lui piace stare a galla sull'acqua e tuffarsi. Quanto a me, non parliamone neppure! Domanda alla nostra padrona, una vecchia che saggia come lei non c'e nessuno al mondo. Credi che a lei piaccia galleggiare sull'acqua

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e tuffarsi fino al fondo?

Voi non mi capite,--disse l'anatroccolo. --E se noi non ti capiamo, allora chi ti capisce? Non pretenderai di essere piu intelligente del gatto o della padrona, per non parlare di me! Non darti tante arie,bamboccio, e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti e stato dato. Non hai forse trovato una bella stanza calda ed una compagnia di gente che puo insegnarti qualcosa? E che tu sei difficile e non e gradevole trattare con te. Credimi pure, se ti dico cose spiacevoli lo faccio per il tuo bene, e proprio da cio si riconoscono gli amici! Dai retta, mettiti a fare le uova, oppure impara a fare le fusa.

-- Preferisco girare il mondo,--disse l'anatroccolo. --E fallo allora!--disse la gallina.

Cosi l'anatroccolo parti. Galleggio sull'acqua, si tuffo al fondo, ma tutti gli animali lo trascuravano per quella sua orrenda bruttezza. Venne l'autunno. Le foglie del bosco si colorarono di giallo e oro, e il vento le afferro e le fece turbinare nell'aria sempre piu gelida. Le nuvole si fecero basse, pesanti di acqua e di neve, e sulla siepe la cornacchia gracidava dal gran freddo:Crrah. crrah!

Vengono i brividi soltanto a pensarci, povero anatroccolo com'era conciato! Una sera che il tramonto era splendido come non mai, passo uno stormo di grandi uccelli stupendi. L'anatroccolo non aveva mai visto uccelli cosi belli in vita sua: erano di un bianco abbagliante con lunghi colli flessuosi, erano cigni. Essi mandarono un grido strano, aprirono le grandi ali superbe, e partirono dai luoghi freddi diretti in volo verso paesi piu caldi dove le acque non gelano mai.

Si alzarono in volo, e salivano sempre piu in alto lasciando una strana impressione nel piccolo anatroccolo, una specie di nostalgia nel fondo del cuore.

Egli si giro nell'acqua come una trottola, tese il collo in aria verso di loro e mando un grido cosi acuto e strano che se ne spavento lui stesso. Oh, non pote dimenticare i bellissimi uccelli, quegli uccelli felici!

E quando non pote piu vederli, si tuffo al fondo dell'acqua e poi riemerse alla superficie quasi fuori di se. Non sapeva che uccelli fossero, ne dove andassero, eppure li amava come non aveva ancora amato nessuno.

Non li invidiava; e come poteva sperare per se stesso una bellezza simile? Si sarebbe accontentato che le anatre lo avessero tenuto con loro, povera brutta bestiola !

L'inverno fu freddo, tanto freddo. L'anatroccolo doveva nuotare continuamente perche l'acqua non si gelasse attorno a lui, ma ogni notte lo spazio gli si restringeva attorno. Gelava cosi forte che la crosta del ghiaccio scricchiolava; e l'anatroccolo nuotava nuotava per mantenere un buco libero. Ma alla fine esausto si fermo e rimase preso nel ghiaccio.

Al mattino di buonora venne un contadino, lo scorse, spezzo il ghiaccio con lo zoccolo di legno e lo porto a casa da sua moglie. L'anatroccolo si riebbe e torno in se. I bambini volevano giocare con lui, ma egli temette che volessero fargli del male e dalla paura ando a cadere dentro il secchio del latte rovesciandolo per terra. La donna si mise a gridare e ad agitare le braccia, l'insegui con l'attizzatoio mentre i bambini lo rincorrevano per prenderlo ridendo e urlando. Per fortuna la porta era aperta, e l'anatroccolo volo fuori tra i cespugli in mezzo alla neve caduta di fresco.

E li resto come morto.

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Sarebbe troppo triste raccontare tutte le sventure che egli dovette sopportare nel durissimo inverno. Si trovava tra i giunchi nella palude quando il sole comincio a risplendere e le allodole tornarono a cantare. Era venuta la primavera

Allora l'anatroccolo aperse le sue ali che frusciarono in modo insolito e lo sollevarono con forza nel cielo. Senza nemmeno accorgersene, egli si trovo in un grande giardino dove i meli erano in fiore e dove le serenelle odorose piegavano i lunghi rami verdi fino alle acque correnti dei canali. Com'era bella qui la dolce primavera !

Dal folto dei cespugli, proprio davanti a lui, spuntarono tre bellissimi cigni bianchi i quali galleggiavano sull'acqua leggeri ed eleganti. L'anatroccolo riconobbe in loro i magnifici uccelli e si senti invadere da un sentimento strano di tristezza.

--Voglio andare da quegli uccelli regali, e non mi importa se mi morderanno tutto perche brutto come sono ho osato awicinarmi a loro. Meglio essere uccisi da loro che morsicati dalle anatre, beccati dalle galline, pestati dalla serva che bada al pollaio... che morire gelati d'inverno! E volo nell'acqua verso i magnifici cigni. Essi lo videro, e gli si awicinarono con le ali levate.

--Uccidetemi pure!--disse il povero animale. E piego la testa aspettando la morte. Ma cosa vide mai nell'acqua chiara? Vide riflettere la propria immagine, e non era piu l'uccello di una volta goffo, grigio e brutto: era anche lui un cigno.

Che importa nascere in un pollaio se siamo usciti da un uovo di cigno? Era felicissimo. Avendo vissuto tutte quelle disgrazie e sventure, poteva apprezzare adesso maggiormente la sua felicita e la sua bellezza. I grandi cigni gli nuotarono intorno e lo accarezzarono col becco.

Un gruppo di bambini entro nel giardino, e getto pane e granelli nell'acqua. Il piu piccolo del gruppo esclamo: --Ce n'e uno nuovo! E tutti i bambini gridarono: --Si, ce n'e uno nuovo!

E batterono le mani e saltarono e poi andarono a chiamare il padre e la madre perche venissero a vedere. E tutti gettavano pane e dolci e dicevano: --Com'e giovane e bello il nuovo venuto!

E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui. Egli si senti intimidito e mise la testa tra le piume senza sapere bene cosa provasse. Era troppo felice, ma non superbo, perche un cuore provato 4 non puo mai essere superbo. Penso a come era stato schernito e perseguitato, mentre ora si sentiva dire che era il piu bello di tutti! Le serenelle piegavano i loro rami fino all'acqua ed il sole splendeva caldo. Allora mosse le ali, eresse il collo flessuoso e giubilo 5 dal profondo del suo cuore:

--Tanta felicita non l'ho mai sognata quando ero un brutto anatroccolo!

(Il brutto anatroccolo, trad di H. van den Berg, Dentro le fiabe, Nicola Milano Editore, Cuneo).

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I tre linguaggi Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 033 C'era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un unico figlio, ma così stupido che non riusciva a imparare nulla. Allora il padre disse: -Ascolta, figlio mio, per quanto io faccia non riesco a cacciarti niente in testa. Devi andare via di qui; maestri insigni proveranno a fare ciò che io non ho potuto-. Il giovane fu così mandato in un'altra città e rimase presso un maestro per un intero anno. Trascorso questo periodo, tornò a casa e il padre gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?- Il figlio rispose: -Babbo, ho imparato quello che dicono i cani-. -Dio guardi!- esclamò il padre -è tutto qui? Devi andare in un'altra città, presso un altro maestro.- Il giovane andò e, anche questa volta, vi si fermò un anno. Quando ritornò, il padre disse: -Ebbene, che cosa hai imparato?-. Il figlio rispose: -Babbo, ho imparato quello che dicono gli uccelli-. Allora il padre andò in collera e disse: -Sciagurato. Hai perduto tutto quel tempo prezioso senza imparare nulla, e non ti vergogni di comparirmi davanti? Ti manderò da un terzo maestro, ma se anche questa volta non impari nulla, non voglio più essere tuo padre-. Così il giovane fu portato da un terzo maestro presso il quale rimase un altro anno. Quando finalmente ritornò a casa, il padre gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?-: -Caro babbo- rispose -quest'anno ho imparato quello che gracidano le rane.- Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò la servitù e disse: -Quest'essere non è più mio figlio, io lo scaccio e vi ordino di condurlo nel bosco e di ucciderlo-. Essi lo presero e lo condussero fuori, ma al momento di ucciderlo ne ebbero pietà e lo lasciarono andare. Poi strapparono a un capriolo gli occhi e la lingua e li portarono al vecchio come prova della sua morte. Il giovane si mise in cammino e dopo qualche tempo giunse a un castello dove chiese asilo per la notte. -Sì- disse il castellano. -Se vuoi pernottare laggiù nella seconda torre, va' pure, ma ti avverto che rischi la vita: è piena di cani feroci che abbaiano e latrano senza tregua e, a ore fisse, bisogna consegnare loro un essere umano che essi divorano subito.- Per questo, nella zona, ognuno era in lutto e in grande tristezza, senza sapere tuttavia che cosa fare. Il giovane disse: -Lasciatemi andare da quei cani feroci e datemi qualcosa da gettare loro in pasto; a me non faranno nulla-. Poiché‚ questa era la sua volontà, gli diedero un po' di cibo per gli animali e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani gli scodinzolarono amichevolmente intorno senza torcergli un capello e mangiarono ciò che egli mise loro davanti. Il mattino seguente, con grande stupore di tutti, uscì sano e salvo dalla torre e disse al castellano: -I cani mi hanno rivelato nel loro linguaggio perché‚ se ne stanno qua ad arrecar danno al paese: sono stregati, devono custodire un gran tesoro nella torre e non si cheteranno fino a quando non sarà dissotterrato. I loro discorsi mi hanno inoltre rivelato come fare-. A queste parole tutti si rallegrarono, e il castellano disse: -Se riesci a recuperare il tesoro, ti darò in sposa mia figlia-. Il giovane accettò l'impresa, disseppellì il tesoro e i cani sparirono. Così sposò la bella fanciulla e vissero insieme felici. Dopo un certo periodo di tempo i due si misero in viaggio per recarsi a Roma. Per via passarono davanti a uno stagno

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in cui gracidavano delle rane. Il giovane conte capì quello che esse si stavano dicendo, ed era triste e pensieroso, tuttavia non disse nulla alla moglie. Infine giunsero a Roma: era appena morto il papa e, fra i cardinali, c'era grande incertezza su chi dovesse essere designato come successore. Finalmente convennero che fosse eletto papa colui che manifestasse un segno miracoloso della volontà divina. Avevano appena preso questa decisione quando entrò in chiesa il giovane conte, e subito due colombe bianche come la neve gli si posarono sulle spalle e là rimasero a sedere. Il clero riconobbe in questo fatto il segno divino e, senza attendere oltre, gli domandò se volesse diventare papa. Egli era esitante e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe lo convinsero ad accettare e rispose di sì. Allora fu unto e consacrato, e così si compì quello che, con tanta costernazione, egli aveva udito dalle rane per strada: che sarebbe diventato il Santo Padre. Poi dovette cantar messa, e non ne sapeva neanche una parola, ma le due colombe gli stettero sempre sulle spalle e suggerirono ogni parola che doveva dire.

FINE  

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Fratellino e sorellina

Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 011

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Il fratellino prese la sorellina per mano e disse: -Da quando è morta la mamma, non abbiamo più avuto un'ora di bene: la matrigna ci picchia ogni giorno e quando andiamo da lei ci caccia a pedate. I tozzi di pane raffermo sono il nostro cibo, e il cagnolino sotto la tavola sta meglio di noi: a lui getta ogni tanto qualcosa di buono. Dio mio, se lo sapesse la nostra mamma! Vieni, ce ne andremo insieme per il mondo-. Camminarono tutto il giorno attraverso prati, campi, sentieri sassosi, e, mentre pioveva, la sorellina disse: -Dio e i nostri cuori piangono insieme-. La sera giunsero in un gran bosco, ed erano così stanchi per il pianto, la fame e il lungo cammino, che si sedettero dentro a un albero cavo e si addormentarono. La mattina dopo, quando si svegliarono, il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi penetravano ardenti all'interno dell'albero. Allora il fratellino disse: -Sorellina ho sete; se sapessi dov'è una fonte andrei a bere; credo di averne sentito il mormorio-. Il fratellino si alzò, prese la sorellina per mano e volevano cercare la sorgente. Ma la cattiva matrigna era una strega e aveva visto benissimo che i due bambini se ne erano andati; li aveva seguiti quatta quatta, di nascosto, come fanno le streghe, e aveva stregato tutte le sorgenti del bosco. Quand'essi trovarono un

rivolo che saltellava scintillando sulle pietre, il fratellino volle bere; ma la sorellina udì la fonte mormorare: -Chi beve della mia acqua diventa una tigre! Chi beve della mia acqua diventa una tigre!-. Allora la sorellina gridò: -Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi una belva feroce e mi sbrani-. Il fratellino non bevve, anche se aveva una gran sete, e disse: -Aspetterò fino alla prossima sorgente-. Quando arrivarono alla seconda fonte, la sorellina udì che anche questa diceva: -Chi beve della mia acqua diventa un lupo! Chi beve della mia acqua diventa un lupo!-. Allora gridò: -Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un lupo e mi divori-. Il fratellino non bevve e disse: -Aspetterò fino alla prossima sorgente, ma allora dovrò bere; puoi dire quello che vuoi, ho troppa sete-. E quando giunsero alla terza fonte, la sorellina udì mormorare: -Chi beve della mia acqua diventa un capriolo! Chi beve della mia acqua diventa un capriolo!-. La sorellina disse: -Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un capriolo e scappi via-. Ma il fratellino si era subito inginocchiato presso la sorgente, si era chinato e aveva bevuto l'acqua; non appena le prime gocce gli toccarono le labbra, giacque a terra, trasformato in un piccolo capriolo. La sorellina pianse sul povero fratellino stregato, e anche il piccolo capriolo piangeva, standosene tutto triste accanto a lei. Infine la fanciulla disse: -Chetati, caro caprioletto, io non ti abbandonerò mai-. Sciolse la sua giarrettiera d'oro e la mise intorno al collo del capriolo, poi divelse dei giunchi e ne intrecciò una corda flessibile. Legò l'animaletto, lo condusse con s‚ e si addentrò sempre di più nel bosco. Cammina, cammina, giunsero finalmente a una casetta; la fanciulla guardò dentro e siccome era vuota pensò: "Qui possiamo fermarci ad abitare". Cercò allora foglie e muschio per fare un morbido

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giaciglio al capriolo e ogni mattina usciva e raccoglieva radici, bacche e noci, e al capriolo portava erba tenera; ed esso la mangiava dalla sua mano, era felice e giocherellava davanti a lei. La sera quando la sorellina era stanca e aveva detto le sue preghiere, posava il capo sul dorso del piccolo capriolo: quello era il suo cuscino e su di esso si addormentava dolcemente. E se il fratellino avesse avuto la sua figura umana, sarebbe stata una vita meravigliosa. Per un certo periodo di tempo vissero così, soli, in quel luogo selvaggio. Ma avvenne che il re di quella zona tenesse una gran caccia nel bosco. Echeggiò fra gli alberi il suono dei corni, il latrato dei cani e le grida allegre, e il piccolo capriolo ascoltava e gli sarebbe tanto piaciuto essere della partita. -Ah- disse alla sorellina -lasciami andare alla caccia, non posso più resistere!- E la pregò così a lungo che ella infine acconsentì. -Però- gli disse -ritorna questa sera. Davanti ai feroci cacciatori io chiuderò la porticina: per farti riconoscere, bussa e di': "Sorellina mia, lasciami entrare!". Ma se non dici così, non aprirò.- Allora il capriolo saltò fuori, e stava tanto bene, ed era così allegro all'aria aperta! Il re e i suoi cacciatori videro il bell'animaletto e lo inseguirono; ma non riuscivano a raggiungerlo, e quando credevano di prenderlo, il capriolo saltava nella boscaglia e spariva. Quando fu buio corse alla casetta, bussò e disse: -Sorellina mia, lasciami entrare!-. Allora la porticina gli fu aperta, egli saltò dentro e dormì tutta la notte sul suo morbido giaciglio. Il mattino dopo la caccia ricominciò, e quando il capriolo udì nuovamente il corno e il grido dei cacciatori, non ebbe più pace e disse: -Sorellina aprimi, devo uscire-. La sorellina gli aprì la porta e disse: -Ma questa sera devi essere di nuovo qui con la tua parola d'ordine-. Quando il re e i suoi cacciatori rividero il capriolo con il collare d'oro, lo inseguirono tutti, ma egli era troppo rapido e svelto. La caccia durò tutto il giorno, ma finalmente a sera i cacciatori lo accerchiarono e uno lo ferì leggermente a una zampa, cosicché‚ egli si mise a zoppicare e corse via più adagio. Allora un cacciatore gli andò dietro pian piano fino alla casetta e l'udì esclamare: -Sorellina mia, lasciami entrare!- e vide che la porta gli veniva aperta e subito richiusa. Il cacciatore tenne tutto bene a mente, andò dal re e gli raccontò ciò che aveva visto e udito. Allora il re disse: -Domani andremo a caccia ancora una volta-. Ma la sorellina si spaventò terribilmente quando il piccolo capriolo rientrò ferito. Lavò la ferita, ci mise sopra delle erbe e disse: -Va' al tuo giaciglio, caprioletto mio, così guarisci-. Ma la ferita era così piccola che al mattino il capriolo non sentiva più nulla e quando udì nuovamente il tripudio della caccia disse: -Non posso resistere, devo andarci; non sarà così facile acchiapparmi-. La sorellina pianse e disse: -Adesso ti uccideranno; non ti lascio uscire-. -E io ti morirò qui di tristezza, se mi trattieni- rispose il capriolo. -Quando sento il corno da caccia mi sembra di non stare più nella pelle!- Allora la sorellina dovette cedere, gli aprì la porta con il cuore grosso e il capriolo corse nel bosco vispo e felice. Quando il re lo scorse, disse ai suoi cacciatori: -Inseguitelo per tutto il giorno fino a sera, ma che nessuno gli faccia del male!-. Come il sole fu tramontato, il re disse al cacciatore: -Vieni e mostrami la casetta nel bosco-. E quando fu davanti alla porticina bussò e gridò: -Sorellina cara, lasciami entrare!-. Allora la porta si aprì e il re entrò e trovò una fanciulla così bella come non ne aveva mai viste. Ma la fanciulla si spaventò quando vide entrare un re con una corona d'oro al posto del suo piccolo capriolo. Il re la guardò amorevolmente, le diede la mano e disse: -Vuoi venire con me al mio castello

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e diventare la mia cara sposa?-. -Ah sì- rispose la fanciulla -ma deve venire anche il capriolo, non lo abbandono.- Disse il re: -Rimarrà con te finché‚ vivi e non gli mancherà nulla-. In quel momento entrò a salti il capriolo; la sorellina lo legò di nuovo alla fune di giunco che prese in mano lei stessa, e insieme a lui lasciò la casetta nel bosco. Il re condusse la bella fanciulla nel suo castello, dove le nozze furono celebrate con gran pompa; ora ella era Sua Maestà la regina, e vissero insieme felici per lungo tempo; il capriolo era ben nutrito e ben curato e ruzzava nel giardino del castello. Ma la cattiva matrigna, per via della quale i bambini se ne erano andati per il mondo, credeva che la sorellina fosse stata sbranata dalle bestie feroci nel bosco e che il fratellino, trasformato in un capriolo, fosse stato ucciso dai cacciatori. Quando sentì che erano felici e che stavano così bene, l'invidia e la gelosia le si destarono in cuore e non le davano pace, e non pensava che al modo di procurar loro un'altra sciagura. La sua figlia vera, che era brutta come la notte e aveva un solo occhio, protestava e diceva: -Diventare una regina! Questa fortuna spettava a me!-. -Sta' tranquilla- disse la vecchia e aggiunse allegramente: -Al momento buono, saprò cosa fare-. E quando venne il momento e la regina diede alla luce un bel maschietto, mentre il re era a caccia, la vecchia strega prese le sembianze della cameriera, entrò nella stanza dove giaceva la regina e disse alla puerpera: -Venite, il bagno è pronto, vi farà bene e vi rinforzerà; presto, prima che diventi freddo-. C'era anche sua figlia; insieme trasportarono la regina, debole com'era, nella stanza da bagno, la misero nella vasca e se ne andarono in fretta chiudendo la porta. Ma nella stanza da bagno avevano acceso un fuoco d'inferno, cosicché‚ la bella giovane regina soffocò ben presto. Ciò fatto, la vecchia prese sua figlia, le mise una cuffia in testa e la pose nel letto al posto della regina. Le diede anche la sua figura e il suo aspetto, ma non pot‚ restituirle l'occhio perduto. Ma perché‚ il re non si accorgesse di nulla, si dovette coricare dalla parte dove le mancava l'occhio. La sera, quando il re ritornò e udì che gli era nato un bambino, fu pieno di gioia e volle recarsi al letto della sua cara moglie per vedere come stava. Subito la vecchia esclamò: -Per carità, lasciate chiuse le cortine: la regina non sopporta ancora la luce e deve riposare!-. Il re si ritirò e non sapeva che nel letto c'era una falsa regina. Ma quando fu mezzanotte e tutto taceva, la bambinaia, che sedeva nella camera del bambino accanto alla culla ed era l'unica a vegliare ancora, vide aprirsi la porta ed entrare la vera regina. Ella tolse il bambino dalla culla, lo prese fra le braccia e lo allattò; poi sprimacciò il suo piccolo cuscino, lo rimise a letto e lo coprì con la piccola coltre. Ma non dimenticò neanche il capriolo, andò nell'angolo dove si trovava e lo accarezzò sul dorso. Poi uscì silenziosamente dalla porta e la bambinaia, la mattina dopo, domandò alle guardie se durante la notte avessero visto qualcuno entrare nel castello; ma esse risposero: -No, non abbiamo visto nessuno-. La regina venne per molte notti, senza dire mai una parola; la bambinaia la vedeva sempre, ma non osava dire nulla a nessuno. Quando fu trascorso un certo periodo di tempo, una notte la regina incominciò a dire:-Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino? Ancor due volte fin qui verrò, ma una terza non tornerò.-La bambinaia non le rispose, ma quando fu scomparsa andò dal re e gli raccontò tutto. Disse il re: -Mio Dio, che cosa è mai questa! Voglio vegliare accanto a mio figlio la prossima notte-. La sera andò nella camera del bambino; a mezzanotte apparve

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ancora la regina e disse: -Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino? Ancora una volta fin qui verrò, ma una seconda non tornerò.- E si prese cura del piccino come sempre, prima di sparire. Il re non osò rivolgerle la parola, ma la notte seguente vegliò di nuovo. Ella disse:-Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino? Per l'ultima volta son giunta quaggiù un'altra volta non torno più.-Allora il re non pot‚ più trattenersi, corse a lei e disse: -Tu non puoi essere che la mia cara sposa-. Ella rispose: -Sì, sono la tua cara sposa-. E in quel momento, per grazia divina, tornò a vivere, fresca, rosea e sana. Poi raccontò al re il crimine commesso dalla strega cattiva e da sua figlia. Il re le fece giudicare entrambe, ed esse furono condannate: la figlia fu condotta nel bosco, dove le bestie feroci la sbranarono non appena la videro; la strega fu invece gettata nel fuoco e dovette bruciare miseramente. E quando fu ridotta in cenere, il piccolo capriolo si trasformò e riacquistò il suo aspetto umano; e sorellina e fratellino vissero felici insieme fino alla morte.

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Hansel e Grethel Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 015 Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna che non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hansel e Grethel. Infine giunse un tempo in cui non pot‚ più provvedere neanche a questo e non sapeva più a che santo votarsi. Una sera, mentre si voltava inquieto nel letto, la moglie gli disse: -Ascolta marito mio, domattina all'alba prendi i due bambini, dai a ciascuno un pezzetto di pane e conducili fuori in mezzo al bosco, nel punto dov'è più fitto; accendi loro un fuoco, poi vai via e li lasci soli laggiù. Non possiamo nutrirli più a lungo-. -No moglie mia- disse l'uomo -non ho cuore di abbandonare i miei cari bambini nel bosco, le bestie feroci li sbranerebbero subito.- -Se non lo fai- disse la donna -moriremo tutti quanti di fame.- E non lo lasciò in pace finché‚ egli non acconsentì. Anche i due bambini non potevano dormire per la fame, e avevano sentito quello che la madre aveva detto al padre. Grethel pensò che per loro fosse finita e incominciò a piangere amaramente, ma Hansel disse: -Stai zitta Grethel, non ti crucciare, ci penserò io-. Si alzò, si mise la giacchettina, aprì l'uscio da basso e sgattaiolò fuori. La luna splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete nuove di zecca. Hansel si chinò, ne ficcò nella taschina della giacca quanti pot‚ farne entrare e se ne tornò a casa. -Consolati Grethel e riposa tranquilla- disse; si rimise di nuovo a letto e si addormentò. Allo spuntar del giorno, ancor prima che sorgesse il sole, la madre venne e li svegliò entrambi: -Alzatevi bambini, vogliamo andare nel bosco; qui c'è un pezzetto di pane per ciascuno di voi, ma siate saggi e conservatelo per mezzogiorno-. Grethel mise il pane sotto il grembiule perché‚ Hansel aveva le pietre in tasca, poi si incamminarono verso il bosco. Quando ebbero fatto un pezzetto di strada: Hansel si fermò e si volse a guardare la casa; così fece per più volte. Il padre disse: -Hansel, che cos'è che ti volti a guardare e perché‚ ti fermi? Su, muoviti!-. -Ah, babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole dirmi addio.- Disse la madre: -Ehi, sciocco, non è il tuo gattino, è il primo sole che brilla sul comignolo-. Hansel però non aveva guardato il gattino, ma aveva buttato ogni volta sulla strada uno dei sassolini lucidi che aveva in tasca. Quando giunsero in mezzo al bosco, il padre disse: -Ora raccogliete legna, bambini, voglio accendere un fuoco per non gelare-. Hansel e Grethel raccolsero rami secchi e ne fecero un mucchietto. Poi accesero il fuoco e quando la fiamma si levò alta, la madre disse: -Adesso stendetevi accanto al fuoco e dormite, noi andiamo a spaccare legna nel bosco; aspettate fino a quando non torniamo a prendervi-. Hansel e Grethel rimasero accanto al fuoco fino a mezzogiorno, poi ciascuno mangiò il proprio pezzetto di pane. Credevano che il padre fosse ancora nel bosco perché‚ udivano i colpi d'accetta; invece era un ramo che egli aveva legato a un albero e che il vento sbattéva di qua e di là. Così attesero fino a sera, ma il padre e la madre non tornavano e nessuno veniva a prenderli. Quando fu notte fonda Grethel incominciò a piangere, ma Hansel disse: -Aspetta soltanto un poco, finché‚ sorga la luna-. E quando la luna sorse, prese Grethel per mano; i ciottoli

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brillavano come monete nuove di zecca e indicavano loro il cammino. Camminarono tutta la notte e quando fu mattina giunsero alla casa patema. Il padre si rallegrò di cuore quando vide i suoi bambini, poiché‚ gli era dispiaciuto doverli lasciare soli; la madre finse anch'essa di rallegrarsi, ma segretamente ne era furiosa. Non passò molto tempo e il pane tornò a mancare in casa, e Hansel e Grethel udirono una sera la madre che diceva al padre: -Una volta i bambini hanno ritrovato il cammino e io ho lasciato correre: ma adesso non c'è di nuovo più niente, rimane solo una mezza pagnotta in casa; devi condurli domani più addentro nel bosco, perché‚ non ritrovino la strada: per noi non c'è altro rimedio-. L'uomo si sentì stringere il cuore e pensò: "Sarebbe meglio se dividessi l'ultimo boccone con i tuoi bambini". Ma siccome aveva già ceduto una volta, non pot‚ dire di no. Quando i bambini ebbero udito quel discorso, Hansel si alzò per raccogliere di nuovo i ciottoli, ma quando giunse alla porta, la madre l'aveva chiusa. Tuttavia consolò Grethel e disse: -Dormi, cara Grethel, il buon Dio ci aiuterà-. Allo spuntar del giorno ebbero il loro pezzetto di pane, ancora più piccolo della volta precedente. Per strada Hansel lo sbriciolò in tasca; si fermava sovente e gettava una briciola per terra. -Perché‚ ti fermi sempre, Hansel, e ti guardi intorno?- disse il padre. -Cammina!- -Ah! Guardo il mio piccioncino che è sul tetto e vuole dirmi addio.- -Sciocco- disse la madre -non è il tuo piccione, è il primo sole che brilla sul comignolo.- Ma Hansel sbriciolò tutto il suo pane e gettò le briciole per via. La madre li condusse ancora più addentro nel bosco, dove non erano mai stati in vita loro. Là dovevano di nuovo sedere accanto al fuoco e dormire e alla sera i genitori sarebbero venuti a prenderli. A mezzogiorno Grethel divise il proprio pane con Hansel, che aveva sparso tutto il suo per via. Ma passò mezzogiorno e passò anche la sera senza che nessuno venisse dai poveri bambini. Hansel consolò Grethel e disse: -Aspetta che sorga la luna: allora vedrò le briciole di pane che ho sparso; ci mostreranno la via di casa-. La luna sorse, ma quando Hansel cercò le briciole non le trovò: i mille e mille uccellini del bosco le avevano viste e le avevano beccate. Hansel pensava di trovare ugualmente la via di casa e si portava dietro Grethel, ma ben presto si persero nel grande bosco; camminarono tutta la notte e tutto il giorno, poi si addormentarono per la gran stanchezza. Poi camminarono ancora tutta una giornata, ma non riuscirono a uscire dal bosco, e avevano tanta fame, perché‚ non avevano nient'altro da mangiare che un po' di bacche trovate per terra. Il terzo giorno, quand'ebbero camminato fino a mezzogiorno, giunsero a una casina fatta di pane e ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente. -Ci siederemo qui e mangeremo a sazietà- disse Hansel. -Io mangerò un pezzo di tetto; tu, Grethel, mangia un pezzo di finestra: è dolce.- Quando Grethel incominciò a rosicchiare lo zucchero, una voce sottile gridò dall'interno:-Chi mi mangia la casina zuccherosa e sopraffina?-I bambini risposero:-E' il vento che piega ogni stelo, il bel bambino venuto dal cielo.-E continuarono a mangiare. Grethel tirò fuori tutto un vetro rotondo e Hansel staccò un enorme pezzo di focaccia dal tetto. Ma d'un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia decrepita venne fuori piano piano. Hansel e Grethel si spaventarono tanto che lasciarono cadere quello che avevano in mano. Ma la vecchia scosse il capo e disse: -Ah, cari bambini, come siete giunti fin qui? Venite dentro con me, siete i benvenuti-. Prese entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita

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una buona cena, latte e frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hansel e Grethel si coricarono e pensavano di essere in Paradiso. Ma la vecchia era una strega cattiva che attendeva con impazienza l'arrivo dei bambini e, per attirarli, aveva costruito la casetta di pane. Quando un bambino cadeva nelle sue mani, lo uccideva, lo cucinava e lo mangiava; e per lei quello era un giorno di festa. Era proprio felice che Hansel e Grethel fossero capitati lì. Di buon mattino, prima che i bambini fossero svegli, ella si alzò, andò ai loro lettini, e quando li vide riposare così dolcemente, si rallegrò e mormorò fra s‚: -Saranno un buon bocconcino per me!-. Poi afferrò Hansel e lo rinchiuse in una stia. Quando questi si svegliò, si trovò circondato da una grata, come un pollo da ingrassare, e poteva fare solo pochi passi. Poi la vecchia svegliò Grethel con uno scossone e le gridò: -Alzati, poltrona, prendi dell'acqua e vai in cucina a preparare qualcosa di buono; tuo fratello è là nella stia e voglio ingrassarlo per poi mangiarmelo; tu devi dargli da mangiare-. Grethel si spaventò e pianse, ma dovette fare quello che voleva la strega. Ora ad Hansel venivano cucinati ogni giorno i cibi più squisiti, poiché‚ doveva ingrassare; Grethel invece non riceveva altro che gusci di gambero. Ogni giorno la vecchia veniva e diceva: -Hansel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso-. Ma Hansel le sporgeva sempre un ossicino ed ella si meravigliava che non volesse proprio ingrassare. Dopo quattro settimane, una sera disse a Grethel: -Vai a prendere dell'acqua, svelta; grasso o magro che sia, domani ammazzerò il tuo fratellino e lo cucinerò; nel frattempo mi metterò a impastare il pane da cuocere nel forno-. Con il cuore grosso, Grethel portò l'acqua nella quale doveva essere cucinato Hansel. Dovette poi alzarsi di buon mattino, accendere il fuoco e appendere il paiolo pieno d'acqua. -Ora fa' attenzione- disse la strega. -Accendo il fuoco nel forno per cuocere il pane.- Grethel era in cucina e piangeva a calde lacrime mentre pensava: "Ci avessero divorato le bestie feroci nel bosco! Almeno saremmo morti insieme senza dover sopportare questa pena, e io non dovrei far bollire l'acqua che deve servire per la morte di mio fratello. Buon Dio, aiuta noi, miseri bambini!- La vecchia gridò: -Grethel, vieni subito qui al forno!- e quando Grethel arrivò, disse: -Dai un'occhiata dentro se il pane è ben cotto e dorato; i miei occhi sono deboli e io non arrivo a vedere fin là. E se anche tu non ci riesci, siediti sull'asse: ti spingerò dentro, così potrai controllare meglio-. Ma la perfida strega aveva chiamato Grethel perché‚ pensava, una volta spintala dentro al forno, di chiuderlo e di farla arrostire per mangiarsi pure lei. Ma Dio ispirò alla fanciulla un'idea, ed ella disse: -Non so proprio come fare, fammi vedere tu per prima: siediti sull'asse e io ti spingerò dentro-. La vecchia si sedette e, siccome era leggera, Grethel pot‚ spingerla dentro, il più in fondo possibile; poi chiuse in fretta la porta e mise il paletto di ferro. Allora la vecchia incominciò a gridare e a lamentarsi nel forno bollente, ma Grethel scappò via, ed ella dovette bruciare miseramente. Grethel corse da Hansel, gli aprì la porticina e gridò: -Salta fuori, Hansel, siamo liberi!-. Allora Hansel saltò fuori, come un uccello quando gli aprono la gabbia. Ed essi piansero di gioia e si baciarono. Tutta la casetta era piena di perle e di pietre preziose: essi se ne riempirono le tasche e se ne andarono in cerca della via che li riconducesse a casa. Ma giunsero a un gran fiume che non erano in grado di attraversare. Allora la sorellina vide un'anatrina bianca nuotare di qua e di là e le gridò: -Ah, cara anatrina, prendici

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sul tuo dorso-. Udite queste parole, l'anatrina si avvicinò nuotando e trasportò prima Grethel e poi Hansel dall'altra parte del fiume. Dopo breve tempo ritrovarono la loro casa: il padre si rallegrò di cuore quando li rivide, poiché‚ non aveva più avuto un giorno di felicità da quando i suoi bambini non c'erano più. La madre invece era morta. Ora i bambini portarono ricchezze a sufficienza perché‚ non avessero più bisogno di procurarsi il necessario per vivere.

FINE  

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Jean dell'orso T. 301 B. C'era una volta una ragazza di un villaggio che raccoglieva delle more sulla montagna. Ad un certo

momento l'orso, che stava nascosto dietro i cespugli, cominciò a seguirla. D'improvviso la sollevò come una piuma e la portò nella sua tana in mezzo al bosco. Poi con un'enorme

pietra chiuse l'entrata della grotta. La ragazza poteva gridare, ma nessuno l'avrebbe sentita. Era prigioniera del "bruto" della montagna. Egli non la faceva vivere male nella sua tana. Le portava il pesce che pescava nel ruscello, le pecore

catturate nei pascoli, frutta, miele, e, per farle piacere, scendeva persino a rubare della biancheria che era ad asciugare nei prati.

Il tempo passava. Era un brav'uomo d'orso e poiché era, malgrado tutto, buono, successe quel che successe: ebbero un figlio!

Nacque loro un bambino, con le membra ed il corpo tutti pelosi ma con il viso rosa e pulito come un Gesù bambino. La madre lo chiamò Jean.

In inverno le notti sono fredde tra le montagne e, alcune sere, il piccolo andava a rannicchiarsi tra sua madre, tutta bianca, e la pelliccia tutta nera dell'orso, suo padre. Stava ben al caldo, là, per dormire.

Il tempo passò. Spesso, quando restavano da soli, la madre gli parlava della vita degli uomini, giù, nel villaggio. Allora il bambino cercava di spostare la grossa pietra dall'entrata della grotta. Ma essa non si muoveva nemmeno.

Una storia si racconta in fretta, ma più lentamente le cose si fanno. Infine, a sette anni, nutrito di latte, di carne cruda e di frutta, il piccolo Jean era divenuto forte quasi

quanto suo padre. Una mattina, mentre l'orso era andato a rubare cibo per loro, tre colpi di spalla e Jean rovesciò il masso.

Essi fuggirono lontano dal bosco, giù, fino al villaggio. "Che cos'è quella cosa?" diceva la gente quando passava. Ma quando si seppe la storia lo chiamarono Jean dell'orso in ricordo di suo padre Jean dell'orso si stabilì in una capanna e poiché era, malgrado tutto, buono gli si dava da lavorare perché

era forte come l'orso, suo padre. A mezzogiorno mangiava un pezzo di bue salato e la sera succhiava il latte da sua madre. Guardando le braccia pelose dei boscaioli che tagliavano la legna sulla montagna, spesso pensava che

anche ad altri era dovuta capitare la sua stessa avventura. Una sera, nel suo dialetto, disse a sua madre: "Madre, sono ormai due volte sette anni che voi avete per me "la poppa lattea". E' tempo che io assaggi il vino chiaretto. Il fabbro, mio padrino, mi ha forgiato un bastone da cento quintali. Esso mi aiuterà per correre per il vasto mondo. Addio madre. Che Dio vi protegga."

Il giorno dopo, prima del canto del gallo, era già partito. E cammina , cammina! Il caldo era grande. A mezzogiorno si stese all'ombra di un albero e si addormentò. Un momento dopo fu risvegliato da un baccano sopra la sua testa: un enorme serpente attaccava un nido per rubarne le uova. Con il suo bastone di cento quintali, Jean dell'orso stritolò il grande serpente. Fatto ciò, egli si apprestava a riprendere il suo cammino, quando una grande aquila della montagna si posò sopra la sua testa e gli disse:

"Jean dell'orso, io ti ringrazio. Tu hai salvato i miei piccoli, non avrai a che fare con un ingrato." E la grande aquila della montagna se ne volò via. Jean dell'orso riprese il suo cammino. E cammina, cammina, ecco che incontra un pezzo d'uomo forte che si divertiva a sradicare le querce come sefossero delle semplici carote. Egli le scuoteva per farne cadere le ghiande che dava poi ai suoi maiali. In seguito, ripiantava gli alberi con le radici per aria. Jean dell'orso lo guardò mentre faceva ciò per un lungo momento:

“Vedo che sei un pezzo d'uomo forte! Come ti chiami?” “ Torticasse! Ciò che torco (tords), io te lo rompo (casse)!” “ Ebbene, Torticasse, vieni con me a correre per il vasto mondo.” E cammina, cammina, sopraggiunge la

notte. Essi bussano alla porta di un castello. Nessuno risponde. Entrano. Ancora nessuno. Tuttavia la tavola era imbandita e il fuoco scoppiettava nei caminetti. I due si siedono a tavola, mangiano e bevono come si deve, allegramente, poi si addormentano senza essere inquieti. Il mattino dopo Jean dell'orso uscì per andare a caccia.

“Tu, Torticasse, preparerai la zuppa e suonerai la campana a mezzogiorno quando il pranzo sarà servito.” Un po' prima di mezzogiorno, mentre Torticasse era occupato a mescolare la zuppa, una piccola vecchia con

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randello e manganello (trique traque à la matraque) lo attaccò. In men che non si dica egli era talmente tempestato di colpi che a mezzogiorno non aveva più la forza di suonare la campana. Jean dell'orso restò a lungo nella foresta. Poi la fame lo fece rientrare. Trovò Torticasse sul pavimento, tutto rotto e stordito. Egli mormorava:

“ Il boccone mi ha soffocato, ... soffocato... soffocato.” “ Se non è che questo, il danno non è enorme” rispose Jean dell'orso aprendo la finestra. Il giorno dopo

mandò Torticasse a caccia nella foresta mentre lui restò al castello. Jean dell'orso era occupato a mescolare la zuppa quando la piccola vecchia con randello e manganello (trique traque à la matraque) lo attaccò.

“Se non è che questo” disse, fece un mulinello con il suo bastone da cento quintali e la vecchia fu subito rigida sul pavimento, tutta rotta e stordita.

A mezzogiorno in punto la campana suonò. Il tempo di aprire la porta a Torticasse e la vecchia era sparita nel fondo del pozzo. Jan pensò di andare a prendere la vecchia in fondo al pozzo, così disse a Torticasse di appendersi alla

fune del pozzo, che lui lo avrebbe calato. Torticasse si aggrappò al secchio e Jean dell'orso lo fece discendere svolgendo la corda “Tieni! Suonerai la campana se c'è pericolo” gli disse. Era veramente scuro in quel buco. Ding, ding, ding. Molto presto la campana suonò. Fu necessario allora

far risalire quel fifone di Torticasse che aveva paura della Bestia cattiva! Allora Jean dell'orso scese. A lui il buio non faceva paura! Discese...la campana non suonò; discese...la campana non suonò; discese... la campana non suonò. Una storia si racconta in fretta, ma più lentamente le cose si fanno. Tre giorni dopo toccò il fondo del pozzo. Udì dei lamenti. Si avvicinò: in una gabbia di ferro, c'era sulla

paglia una principessa dai capelli d'oro, bella, bella come il giorno. Aveva ancora nei capelli la sua corona che brillava nella notte.

Con il suo bastone da cento quintali Jean dell'orso sfondò la gabbia. “Salite nel secchio e aggrappatevi bene” le disse. Suonò la campana, ding, ding, ding, e la principessa risalì verso il sole. Poi aspettò, aspettò, aspettò... Aveva un bel agitare il sonaglio, ding, ding, ding... ding, ding, ding... ding, ding, ding...! Più niente da

lassù! Non c'era più nessuno all'altro capo per tirarlo su di lì. “Torticasse mi ha tradito, ha preso la principessa. Non perde niente ad aspettare! “ Mentre diceva ciò, sentì un piccolo colpo di becco che lo pizzicava sul collo. La grande aquila della

montagna era là che lo guardava: “Jean dell'orso, tu non hai a che fare con un ingrato, io posso farti risalire sulla terra ma occorrerà

nutrirmi di carne cruda quando griderò.” Jean dell'orso caricò la metà di un bue sulla sua spalla e si arrampicò sulla grande aquila che volò via. A metà cammino l'uccello si indebolì: “Carne! Carne!” E hop! un pezzo di carne! L'uccello riprese il suo volo. “Carne! Carne!” E hop! un pezzo di carne! L'uccello riprese il suo volo. “Carne! Carne!” E hop! un pezzo di carne! L'uccello riprese il suo volo. Sei volte Jean dell'orso le gettò un grande pezzo di carne. Già si vedeva il chiarore della cima del pozzo.

La grande aquila si indebolì e gridò per la settima volta: “Carne! Carne!” Ma non c'era più carne...Che fare? Allora Jean dell'orso con il suo coltello tagliò un lungo pezzo della sua coscia e la gettò alla grande

aquila della montagna che subito riprese il suo volo. Un momento dopo erano arrivati sul bordo del pozzo. Non c'era nessuno al castello. Egli corse al riparo. Dalla collera faceva girare il suo bastone da cento quintali sulla sua testa come se fossero le pale di un mulino. Torticasse, che l'aveva visto arrivare saltò dalla finestra e se ne scappò. Nessuno l'ha più rivisto.

“Se sei d'accordo, mio padre ci sposerà” disse la principessa dai capelli d'oro.

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“Sono d'accordo”. Il giorno stesso il re li sposò. Jean dell'orso passò dal barbiere, fu vestito come un principe, con dei nastri, un garofano e l'orologio da taschino. Fu spillato il vino da sette botti per cantare e danzare per tutta la notte.

Matrimonio o marchiatura L'anello al dito o al naso? Chi lo sa? Il gallo cantò. Il mio racconto finisce qui.

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MASTRO ACCONCIA-E-GUASTA di LUIGI CAPUANA

C'era una volta un vecchio falegname, che aveva una botteguccia e pochi arnesi del suo mestiere:

una sega, un succhiello, una pialla, uno scalpello, un martello, una tanaglia, il pancone e nient'altro. Lavorava di grosso, e ordinariamente gli davano ad acconciare cose vecchie; per questo gli

avevano appiccicato il nomignolo di Mastro Acconcia-e-guasta. Guastava un uscio e rimediava una cassa, un tavolino, due sportelli, secondo la richiesta. La colla e i chiodi dovevano comprarli gli avventori.

- Perché, mastro Acconcia-e-guasta? - Perché sì. I chiodi che avanzavano li rendeva, la colla no; la metteva da parte. - Perché, mastro Acconcia-e-guasta? - Perché sì. Era la sua risposta; e tirava su una presa di tabacco. Guadagnava pochino: intanto se la scialava meglio di un principe. Di dove li cavava tanti

quattrini? La mattina andava al mercato per far la spesa: - Macellaio, quel filetto di bue quanto costa? - Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia-e-guasta; è per la tavola del Re. - Ho la bocca come lui l Glielo dicevano a posta ogni volta per fargli rispondere così. E tutti ridevano: - Bravo, mastro Acconcia-e-guasta! - Pesciaiolo, quello storione quanto costa? - Non è per la vostra bocca, mastro Acconcia-e-guasta; è per la tavola del Re. - Ho la bocca come lui! E tutti ridevano: - Bravo mastro Acconcia-e-guasta! Comprava un monte di roba, carne, pesce, formaggio, salame, erbe, frutta, le meglio cose. - Chi se la mangia tutta cotesta roba, mastro Acconcia-e-guasta? - Io e i miei figliuoli. - O che avete dei figliuoli? - Sì: Seghina, Piallina, Scalpellino, Martellino, Tanaglina e Succhiellino che è il minore. E la gente rideva: - Buon appetito a tutti, mastro Acconcia-e-guasta! Tornato a bottega, riponeva in un canto la cesta con la roba, e si metteva a lavorare senza mai

smettere fino a tardi, finché vi si vedeva. - E il desinare, mastro Acconcia-e-guasta? - Lo preparano, in cucina. A un'ora di notte, mastro Acconcia-e-guasta si chiudeva in bottega e metteva tanto di spranga

alla porta. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di coltelli smossi, quasi

lì dentro apparecchiassero una gran tavola. E, poco dopo, risate, strilli, e mastro Acconcia-e-guasta che gridava:

- Sta' buona, Seghina!... Attento, Scalpellino! Tu mi rompi quella bottiglia!... Bada, non conciarti, Tanaglina!... Sporcaccione di Martellino!... Piallina, Succhiellino, a posto le mani!

I vicini, dietro la porta, stavano a sentire, stupiti. La mattina: - Gran pranzo, eh, mastro Acconcia-e-guasta? I figliuoli vi fanno disperare. - Eccoli lì, cheti cheti.

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E mostrava gli arnesi attaccati a una parete della botteguccia; ma la cesta era vuota, e di quel monte di roba da mangiare non restava briciolo, neppure le lische del pesce, o i nòccioli della frutta.

I vicini non sapevano che almanaccare per scoprire il mistero di mastro Acconcia-e-guasta; e perdevano il tempo inutilmente.

Di giorno vedevano un povero vecchio che si rompeva le braccia a lavorare fino a tardi in quel bugigattolo che pareva una tana. E tutta la roba da mangiare? E l'acciottolìo de' piatti, e le risa, e gli strilli?

Invano avean tentato più volte di far un buco alla porta per guardare dentro. Il legno sembrava mezzo fradicio; non c'era però succhiello che potesse arrivare a penetrarlo.

- Che legno è questo, mastro Acconcia-e-guasta! - Legno-ricotta. - Allora perché non ve lo mangiate? - La ricotta non mi piace. - Non ce la date a intendere, mastro Acconcia-e-guasta! Egli alzava le spalle e tirava su una presa di tabacco: - Lasciatemi in pace. La cosa giunse fino all'orecchio del Re: - Ah! dice: Ho la bocca come lui? E ordinò che a mastro Acconcia-e-guasta i venditori dessero la peggiore roba che avevano, pena

la vita. Quella mattina, mastro Acconcia-e-guasta dovette rassegnarsi a portar via certa carnaccia che

non l'avrebbero voluta neppure i cani; pesce guasto, formaggio inverminito, frutta mézza. - Siete contento, mastro Acconcia-e-guasta? - Se son contento io, non saran contenti gli altri. - Perché? - Perché sì. Il Re dava un pranzo al Ministri e al dignitari di corte. Portano in tavola, e Re, Ministri, dignitari

arricciarono il naso. La carne puzzava come una carogna, il formaggio camminava da sé su pei piatti, tanto formicolava di vermi, la frutta ammorbava di fracidume.

- Come mai? - urlò il Re. - Venga qui quel birbante del cuoco. Il povero cuoco giurò e spergiurò che aveva comprato roba buona; ci aveva i testimonii. In

cucina, le pietanze spandevano un odore da resuscitare anche un morto. Re, ministri, dignitari dovettero acconciarsi con un po' di pan duro, bagnato nell'acqua; altrimenti

sarebbero morti di fame. - Questo è un tiro di mastro Acconcia-e-guasta! - disse uno dei Ministri. - Vo' andare a vedere se

è vero. Si travestì e via dal falegname, portando addosso una cassaccia vecchia, per pretesto. - Acconciatemi questa cassa, mastro Acconcia-e-guasta. - Posatela lì. Andate a comprare i chiodi e la colla. - Colla ce n'avete tanta! - Quella serve per me. - Che buon odore di vivande, mastro Acconcia-e-guasta! - Sono i resti del desinare; eccoli là. Il ministro si sentì venire l'acquolina in bocca a vedere un bel tòcco di filetto arrosto e mezzo

pesce con la salsa che dicevano: Mangiami, mangiami! - O dove l'avete comprata questa buona roba? - Dove si vende, in mercato. - So che c'è ordine reale di non darvi roba buona. Mastro Acconcia-e-guasta alzò le spalle e tirò su una presa di tabacco. Il Ministro rapportò tutto al Re. Tennero consiglio.

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- Questo mastro Acconcia-e-guasta dev'essere un Mago! Leviamogli tutti gli arnesi; vediamo che farà.

Andarono le guardie e gli sequestrarono pialla, succhiello, martello, sega, ogni cosa. Il Re li volle riposti in una stanza accanto alla sua camera, e per maggior cautela si legò alla cintura la chiave dell'uscio.

Durante il giorno, gli arnesi stettero cheti; ma dopo l'un'ora di notte, in quella stanza si udì un rumore d'inferno: la sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia attanagliava; e, dopo un pezzetto, strilli e pianti.

- Abbiamo fame! Abbiamo fame! Il Re corse ad aprire; gli arnesi stavano al loro posto per terra, dove li avevano buttati alla

rinfusa. Appena richiuso l'uscio, rumore daccapo, strilli e pianti: - Abbiamo fame! Abbiamo fame! Per quella notte il Re non poté dormire neppure un minuto. La sera appresso fu peggio. Il Ministro disse: - Maestà, proviamo a dar loro da mangiare. La sega segava, la pialla piallava, il martello martellava, il succhiello succhiellava, la tanaglia

attanagliava. - Chetatevi, in nome di Dio! Ecco qui da sfamarvi. E chiusero l'uscio. Ed ecco, acciottolìo di piatti, tintinnìo di bicchieri, rumore di argenteria e di

coltelli smossi, quasi lì dentro stessero ad apparecchiare una gran tavola; e poi, risa e strilli: - Tu mi conci! Tu mi strappi! Tu mi inzuppi. Un portento. - Oh, mastro Acconcia-e-guasta dev'essere un Mago! Il Re spedì le guardie e se lo fece condurre davanti: - Che è questo, mastro Acconcia-e-guasta? I vostri arnesi parlano e mangiano; come mai? Colui si strinse nelle spalle, e tirò una presa di tabacco. - Se non svelate il mistero, vi faccio tagliare la testa. - Che mistero o non mistero, Maestà! Essi sono i miei figli. - E perché ridotti in quello stato? - Per aiutarmi a buscarci il pane. Il Re gli credette, e ordinò che gli restituissero ogni cosa. - Badate però di non dire più: Ho la bocca come lui! Ve ne pentirete. Mastro Acconcia-e-guasta riprese a lavorare. Ma gli avventori diventarono scarsi; la gente avea

paura di aver che fare con lui. Invano egli andava attorno per le vie, gridando a ogni quattro passi: - C'è mastro Acconcia-e-guasta! Chi ha roba da guastare e da acconciare! Nessuno lo chiamava. - E ora come farete, mastro Acconcia-e-guasta? - Finché c'è colla, s'ingolla! Infatti di colla in bottega n'aveva una catasta. Di giorno in giorno però essa veniva mancando.

Mangia oggi, mangia domani, colla non ce ne fu più. - E ora come farete, mastro Acconcia-e-guasta? Mastro Acconcia-e-guasta alzava le spalle e tirava su grandi prese di tabacco. Il Re aveva sei figliuoli, tre maschi e tre femmine, tutti belli e di ottima salute. Ma appunto in

quei giorni si ammalarono tutti e sei, e il medico non capiva di che male. Languivano, senza appetito, senza poter tollerare il più leggiero cibo nello stomaco.

Consulti dietro consulti, medicine, intrugli d'ogni sorta non giovavano a niente. La figliuola maggiore morì.

Mentre la portavano a seppellire, ecco mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla che andava dietro l'accompagnamento:

- Chi vi è morto, mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morta Seghina!

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Il giorno dopo morì uno dei maschi; e mentre lo portano a seppellire, ecco mastro Acconcia-e-guasta, con una cassettina da morto su la spalla, che andava dietro l'accompagnamento:

- Chi vi è morto mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Martellino! Così, ogni giorno, ora moriva un figliuolo, ora una figliuola del Re, e mastro Acconcia-e-guasta

appariva dietro l'accompagnamento con una cassettina da morto su la spalla: - Chi vi è morto, mastro Acconcia-e-guasta? - Mi è morto Scalpellino! Mi è morta Piallina! Il Ministro, che era furbo, saputo che mastro Acconcia-e-guasta era stato veduto ogni volta con

una cassetta da morto su la spalla dietro l'accompagnamento dei figliuoli del Re, disse: - Maestà, se non volete morti tutti i vostri figliuoli, mandate a chiamare mastro Acconcia-e-

guasta. La disgrazia vi viene da lui. Oramai restava in vita una sola figliuola del Re, ed era già all'agonia. - Ah, mastro Acconcia-e-guasta, salvate la mia cara figliuola! - Ah, Real Maestà, salvate il mio caro Succhiellino! - In che modo? - C'è un solo modo: farli sposare! Il Re, lì per lì, per amor della figliuola stimò giusto acconsentire: - Poi, gliela farò vedere io, a mastro Acconcia-e-guasta! - disse fra sé. La Principessa, che era diventata Reginotta perché più non c'erano altri figliuoli, in pochi giorni

guarì. Il Re disse a mastro Acconcia-e-guasta: - Conducete Succhiellino a palazzo. - Badate, Maestà: di giorno sarà proprio un succhiello, la notte no. Per ora, la sua sorte è questa. - E dopo? - Dopo, quando Dio vorrà, sarà altrimenti. - Allora, del matrimonio non ne facciamo nulla per ora. - Come piace a Vostra Maestà. Di tratto in tratto, il Re domandava a mastro Acconcia-e-guasta: - È ancora succhiello il giorno e la notte no? Ancora, Maestà - Allora del matrimonio non ne facciamo nulla. - Come piace a Vostra Maestà. Gli anni passavano. Il Re era contento che il matrimonio della Reginotta con Succhiello andasse

per le lunghe, e si divertiva a canzonare mastro Acconcia-e-guasta: - Questo è latte che non rappiglia! E voi che fate, mastro Acconcia-e-guasta? Ora non avete più

arresi e vi rimane soltanto il succhiello. - Racconto fiabe a Succhiellino. Ieri glien'ho raccontata una bella assai. Volete sentirla, Maestà? - Sentiamola, mastro Acconcia-e-guasta! - C'era una volta un Re che aveva due figliuoli, uno buono e l'altro cattivo. Quello buono era il

Reuccio e alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al fratello cattivo. Il Re si turbò, e lo interruppe: - La vostra fiaba non mi piace. - State a sentire, Maestà: il bello comincia qui. Dunque, al cattivo non garbava e pensò di disfarsi

del fratello buono, per diventare Re lui alla morte del padre. Disse al fratello: «Andiamo a caccia». E andarono. Quando furono in un bosco, lontani dalle persone del séguito, cava fuori la spada e dà addosso al fratello che non si aspettava il tradimento.

Il Re si turbò maggiormente, e lo interruppe: - No, no, la vostra fiaba non mi piace.

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- Ecco il più bello, Maestà; state a sentire. Egli credeva di averlo ammazzato, e lo lasciò lì per morto dopo averlo coperto con erbacce e rami d'albero. E al padre riferì: «Lo hanno sbranato le fiere!».

- Ahimè! - gridò il Re. - Tu sei mio fratello! Perdona! E gli si buttò ai piedi, tremante e piangente: - Non mi far male!... Eccoti la corona! Non mi far male! Sii Re! - Né tu, né io! - rispose mastro Acconcia-e-guasta. - Il Re sarà Succhiellino e la tua figliuola

Regina. Mastro Acconcia-e-guasta indossò abiti principeschi; non sembrava più lui, e andò a prendere

Succhiellino. Non era più un succhiello, ma un bel giovane che pareva proprio nato a posta per essere Re. La

Reginotta non era da meno di lui. I due fratelli si abbracciarono, si baciarono; e colui che poco prima aveva il nome di mastro

Acconcia-e-guasta raccontò la propria storia: in che maniera era scampato da morte; e poi diventato falegname. La gente la dice la fiaba della Figlia dell'Orco; ve la racconterò un'altra volta.

Succhiellino e la Reginotta si sposarono con grandi feste, vissero lieti lunghi anni ed ebbero molti figli.

E chi più ne vuole più ne pigli.

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La prima spada e l’ultima scopa

C'erano una volta due mercanti, che stavano uno dirimpetto all'altro. Uno aveva sette figli maschi e l'altro sette figlie femmine. Quello dei sette figli maschi, ogni mattino quando apriva il balcone e salutava quello delle sette figlie femmine gli diceva: “Buongiorno mercante dalle sette scope”.

E l’altro ci restava male ogni volta: si ritirava in casa e si metteva a piangere di rabbia. La moglie a vederlo cosí ne aveva pena, e ogni volta gli domandava cosa avesse; ma il marito, zitto, e piangeva.

La più piccola delle sette figlie aveva diciassett'anni, era bella come il sole, e il padre non vedeva che per i suoi occhi.

“Se mi volete bene come dite, padre mio, - gli disse un giorno - confidatemi la vostra pena”.

E il padre: “Figlia mia, il mercante qui dirimpetto ogni mattina mi saluta così: “Buongiorno, mercante dalle sette scope”, e io ogni mattina resto lì

e non so cosa rispondergli”. “Solo questo, caro papà? - disse la figlia - Sentite a me. Quando lui

vi dice così, voi rispondetegli: “Buongiorno, mercante dalle sette spade. Facciamo una

scommessa: prendiamo l'ultima scopa mia e la prima spada tua, e vediamo chi fa prima a prendere lo scettro e la corona al Re di Francia e a portarli qua. Se riesce mia figlia tu mi darai tutta la tua mercanzia, e se riesce tuo figlio perderò io tutta la mercanzia mia”. Cosi gli dovete dire. E se accetta, nero su bianco, fategli firmare subito un contratto”.

Il padre stette a sentire tutto questo discorso a bocca aperta. E quando fu finito, disse:

“Ma, ma, figlia mia, ma cosa dici? Mi vuoi perdere tutta la mia roba?”

“Papà, non abbiate paura, lasciate fare a me: pensate solo a fare la scommessa, che al resto penso io”.

Alla notte il padre non poté chiudere occhio, e non vedeva l'ora che venisse il giorno. S’affacciò al balcone prima del solito, e la

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finestra di fronte era ancora chiusa. S'aprì tutt’a un tratto, apparve il padre dei sette figli maschi e gli buttò in faccia come al solito il suo:

“Buongiorno mercante dalle sette scope!” E lui, pronto: ”Buongiorno, mercante dalle sette spade, facciamo una

scommessa: io prendo l’ultima scopa mia e tu la prima spada tua, gli diamo un cavallo e una borsa di quattrini per uno e vediamo chi riesce a portarci la corona e lo scettro del Re di Francia.

Scommettiamo tutta la nostra mercanzia: se vince mia figlia mi piglio tutta la roba tua, se vince tuo figlio ti prendi tutta la roba mia”.

L’altro mercante lo guardò un po’ in faccia, poi scoppiò in una risata e gli fece segno se era matto.

“Così ti metti paura! Non ti fidi?” Gli fece il padre delle sette figlie. E l’altro colto sul vivo disse:

“Per me accetto, firmiamo subito il contratto e facciamoli partire” e andò subito a dire tutto al suo figlio maggiore.

Il figlio maggiore pensando che avrebbe fatto il viaggio con quella bella figliola, fu tuttto contento. Ma quando al momento della partenza la vide arrivare vestita da uomo in sella a una cavallina bianca, capì che non c’era tanto da scherzare. Difatti quando i genitori, firmato il contratto diedero il via, la cavallina partì a gran carriera e il suo robustissimo cavallo faticava a tenerle dietro

Per andare in Francia si doveva passare un bosco fitto e buio senza strade né sentieri. La cavallina ci si buttò dentro come fosse a casa sua: girava a destra d'una quercia, voltava a sinistra d’un pino, saltava una siepe di agrifogli, e riusciva sempre ad andare avanti. Il figlio del mercante invece non sapeva dove dirigere il suo cavallone: ora sbatteva col mento in un ramo basso e cadeva giù di sella, ora gli zoccoli scivolavano in un pantano nascosto dalle foglie secche e la bestia finiva pancia in terra, ora si aggrovigliavano in un roveto e non riuscivano più a districarsi. La ragazza con la sua cavallina aveva già superato il bosco e galoppava via lontano.

Per andare in Francia si doveva valicare una montagna tutta dirupi e burroni. Era giunta alle sue pendici quando sentì il galoppo del cavallone del figlio del mercante che stava per raggiungerla. La

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cavallina prese di petto la salita e, come fosse a casa sua, gira e salta in mezzo a quei pietroni e trova sempre la via per arrivare fino al passo, e di lí corre giú per i prati. Il giovane invece spingeva a strappi di redini il cavallo che dopo tre passi veniva riportava al punto di prima da una frana, cosicché finì per farlo azzoppare.

La ragazza correva ormai lontana via verso la Francia. Ma per arrivare in Francia bisognava traversare un fiume. La

cavallina, come fosse a casa sua, sapeva dove c’era un guado e si buttò in acqua correndo come sulla via battuta. Quando risalirono sull’altra riva si voltarono indietro videro il giovane che arrivava col suo cavallone e lo spronava in acqua inseguendole.

Ma non sapeva i passi del guado e appena non toccò più terra la corrente trascinò via il cavaliere e il suo destriero

A Parigi la ragazza vestita da uomo si presentò a un mercante che la prese per garzone. Era il mercante che forniva Palazzo reale e per portare le mercanzie al Re cominciò a mandare questo giovane di così bell’aspetto. Appena il Re lo vide gli disse:

“Chi siete?” Mi sembrate forestiero. Come siete giunto fin qua?” “Maestà - ripose il giovane - mi chiamo Temperino e preparavo il

tabacco per il Re di Napoli. Un seguito di sventure mi ha condotto fin qua.

“E se vi trovassi un posto per preparare il tabacco alla Real Casa di Francia, - disse il Re, - vi piacerebbe?”

“Maestà, lo volesse il cielo!” “Bene, parlerò col vostro padrone”. Difatti sia pur a malincuore il mercante cedette il garzone al Re.

Ma più lo guardava, più un sospetto si faceva strada nella sua mente. Finché giorno si confidò con la madre:

“Mamma, in questo Temperino c’è qualcosa che non persuade. Ha mano gentile, ha vita sottile, suona e canta, legge e scrive, Temperino è la donna che mi fa morire!”

“Figlio mio sei matto” rispondeva la Regina madre “Mamma è donna vi dico. Come posso fare per saperlo di sicuro?”

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“Il sistema c’è - disse la Regina madre - Va a caccia con lui: se va dietro le quaglie è una donna che ha testa solo per l’arrosto; se va dietro ai cardellini é uomo che ha testa solo per il gusto della caccia.

Così il Re diede un fucile a Temperino e lo portò a caccia con lui. Temperino montava la sua cavallina che aveva voluto portare sempre con sé. Il Re per trarlo in inganno si mise a sparare solo sulle quaglie. Ma la cavallina ogni volta che appariva una quaglia, sterzava via e Temperino capì che non voleva che sparasse alle quaglie.

“Maestà - disse allora Temperino - permettetemi l’ardire, ma vi pare una bravura sparare sulle quaglie? Ormai l’arrosto ve lo siete fatto. Sparate anche voi ai cardellini che è più difficile”.

Quando il Re tornò a casa disse alla madre: “Sì, sparava ai cardellini e non alle quaglie ma io non sono

persuaso: ha mano gentile, ha vita sottile, suona e canta, legge e scrive: Temperino è la donna che mi fa morire

“Figlio mio, prova ancora, - disse la Regina - portalo nell’orto a cogliere insalata. Se la coglie in cima in cima è donna, perché noi donne abbiamo più pazienza, se la strappa con tutte le radici, è un uomo”.

Il Re andò nell'orto con Temperino e si mise a piluccare insalata in cima in cima. Temperino stava per fare la stessa cosa quando la cavallina, che l'aveva seguito, prese a mordere e sradicare via cespi d'insalata interi, e Temperino capì che bisognava far così. In fretta in fretta riuscì a riempire un canestro d'insalata strappandola con le radici e la terra attaccata.

Il Re condusse Temperino tra le aiole dei fiori. “Guarda che belle rose,” Gli disse. Ma la cavallina gli indicava col

muso un'altra aiola. “Le rose pungono, - disse Temperino - pigliatevi garofani e

gelsomini non rose”. Il Re era disperato, ma non s’arrendeva “Ha mano gentile, ha vita sottile, - ripeteva alla madre, - canta e

suona, legge e scrive, Temperino è la donna che mi fa morire. “A questo punto, figlio mio, non ti resta che portarlo con te a fare

il bagno”.

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Cosi il Re disse a Temperino: “Vieni andiamo a fare un bagno nel fiume”.

Arrivati al fiume, Temperino disse: “Maestà spogliatevi prima voi,” e il Re si spogliò e scese in acqua. “Vieni anche tu! - disse a Temperino. In quella si sentì un gran

nitrito e apparve la cavallina correndo imbizzarrita con la spuma alla bocca.

“La mia cavallina! - gridò Temperino - Aspettate, Maestà, che devo correre dietro alla cavallina imbizzarrita,” e scappò via.

Corse a Palazzo reale. “Maestà, - disse alla Regina - c'è il Re che si è spogliato in fiume e certe guardie, non riconoscendolo, lo vogliono arrestare. M'ha mandato a prendere il suo scettro e la sua corona per farsi riconoscere”.

La Regina prese scettro e corona e li consegnò a Temperino. Appena ebbe scettro e corona, Temperino montò sulla cavallina e galoppò via cantando:

Fanciulla son venuta, fanciulla son tornata

Lo scettro e la corona ho conquistata Passò il fiume, passò il monte, passò il bosco, e tornò a casa, e suo

padre vinse la scommessa (Napoli)

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Predilezione di Giacobbe per Giuseppe   Or Giacobbe dimorò nel paese dove suo padre aveva soggiornato, nel paese di Canaan. Questa è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe, all'età di diciassette anni, pascolava il gregge coi suoi fratelli; il giovinetto stava con i figli di Bilhah e con i figli di Zilpah mogli di suo padre. Or Giuseppe riferì al loro padre la mala fama che circolava sul loro conto. Or Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio della sua vecchiaia; e gli fece una veste lunga fino ai piedi. Ma i suoi fratelli, vedendo che il loro padre lo amava più di tutti gli altri fratelli, presero ad odiarlo e non gli potevano parlare in modo amichevole.

I sogni di Giuseppe   Or Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai suoi fratelli; e questi lo odiarono ancora di più. Egli disse loro: «Udite, vi prego, il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando dei covoni in mezzo al campo, quand'ecco il mio covone si drizzò e rimase dritto, mentre i vostri covoni si raccolsero e si inchinarono davanti al mio covone». Allora i suoi fratelli gli dissero: «Dovrai tu regnare su di noi, o dovrai tu veramente dominarci?». E lo odiarono ancor di più, a motivo dei suoi sogni e delle sue parole. Egli fece ancora un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli, dicendo: «Ho fatto un altro sogno! Ed ecco il sole, la luna e undici stelle si inchinavano davanti a me». Egli lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli; e suo padre lo rimproverò e gli disse: «Cosa significa questo sogno che hai fatto? Dovremo proprio io, tua madre e i tuoi fratelli venire a inchinarci a terra davanti a te?». E i suoi fratelli gli portavano invidia, ma suo padre serbava la cosa dentro di sé.

Giuseppe gettato in un pozzo e venduto dai fratelli   Or i fratelli di Giuseppe erano a pascolare il gregge del padre a Sichem. E Israele disse a Giuseppe: «I tuoi fratelli non stanno forse pascolando il gregge a Sichem? Vieni, che ti manderò da loro». Egli rispose: «Eccomi». Israele gli disse: «Va' a vedere se i tuoi fratelli stanno bene e se il gregge va bene, e poi torna a riferirmelo». Così lo mandò dalla valle di Hebron, ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli vagava per la campagna, un uomo lo trovò e gli chiese: «Che cerchi?». Egli rispose: «Sto cercando i miei fratelli; per favore, dimmi dove si trovano a pascolare». Quell'uomo gli disse: «Son partiti di qui, perché li ho sentiti dire: "Andiamo a Dothan"». Allora Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli, e li trovò a Dothan. Essi lo scorsero da lontano e, prima che fosse loro vicino, complottarono contro di lui per ucciderlo. E dissero l'un l'altro: «Ecco che arriva il sognatore! Ora dunque venite, uccidiamolo e gettiamolo in un pozzo; diremo poi che una bestia feroce lo ha divorato; così vedremo che ne sarà dei suoi sogni». Ruben udì questo e decise di liberarlo dalle loro mani, e disse: «Non gli togliamo la vita». Poi Ruben aggiunse: «Non spargete sangue, ma gettatelo in questo pozzo nel deserto e non colpitelo di vostra mano». Diceva così, per liberarlo dalle loro mani e riportarlo a suo padre. Quando Giuseppe fu giunto presso i suoi fratelli, lo spogliarono della sua veste, della lunga veste fino ai piedi che indossava; poi lo presero e lo gettarono nel pozzo. Or il pozzo era vuoto, senz'acqua dentro. Poi si misero a sedere per prendere cibo; ma, alzando gli occhi, ecco videro una carovana di Ismaeliti, che veniva da Galaad coi loro cammelli carichi di spezie, di balsamo e di mirra, in viaggio per portarli in Egitto. Allora Giuda disse ai suoi fratelli: «Che guadagno avremo a uccidere nostro fratello e a nascondere il suo sangue? Venite, vendiamolo agli Ismaeliti e non lo colpisca la nostra mano, perché è nostro fratello, nostra carne». E i suoi fratelli gli diedero ascolto. Come quei mercanti Madianiti passavano, essi sollevarono e tirarono Giuseppe fuori dal pozzo e lo vendettero agli Ismaeliti per venti sicli d'argento. E questi condussero Giuseppe in Egitto. Or Ruben tornò al pozzo, ed ecco, Giuseppe non era più nel pozzo. Allora egli si stracciò le vesti. Poi tornò dai suoi fratelli e disse: «Il fanciullo non c'è più; e io, dove andrò io?».

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Giacobbe piange Giuseppe come morto   Così essi presero la lunga veste di Giuseppe, uccisero un capro e immersero la veste nel

sangue. Poi portarono la lunga veste dal padre e dissero: «Abbiamo trovato questo; vedi un po' se è la veste di tuo figlio». Ed egli la riconobbe e disse: «È la veste di mio figlio; lo ha divorato una bestia feroce; certamente Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe allora si stracciò le vesti, si mise un cilicio ai fianchi e fece cordoglio di suo figlio per molti giorni. E tutti i suoi figli e tutte le sue figlie vennero a consolarlo; ma egli rifiutò di essere consolato e disse: «Io scenderò nello Sceol da mio figlio facendo cordoglio». Così suo padre lo pianse. Intanto i Madianiti vendettero Giuseppe in Egitto a Potifar, ufficiale del Faraone e capitano delle guardie.

Giuda e Tamar   Or in quel tempo avvenne che Giuda lasciò i suoi fratelli per andare a stare con un uomo di

Adullam, di nome Hirah. Qui Giuda vide la figlia di un uomo Cananeo, chiamato Shua; la prese in moglie e si unì a lei. Ed ella concepì e partorì un figlio, che egli chiamò Er. Poi ella concepì nuovamente e partorì un figlio, che egli chiamò Onan. Ella concepì ancora e partorì un figlio, che chiamò Scelah. Or Giuda era a Kezib, quando ella lo partorì. Poi Giuda prese per Er, suo primogenito, una moglie di nome Tamar. Ma Er, primogenito di Giuda, era malvagio agli occhi dell'Eterno, e l'Eterno lo fece morire. Allora Giuda disse a Onan: «Va' dalla moglie di tuo fratello, sposala e suscita una discendenza a tuo fratello». Ma Onan, sapendo che quella discendenza non sarebbe stata sua, quando si univa alla moglie di suo fratello, disperdeva il suo seme per terra, per non dare discendenza al fratello. Ciò che egli faceva dispiacque agli occhi dell'Eterno, che fece morire anche lui. Allora Giuda disse a Tamar sua nuora: «Rimani come vedova in casa di tuo padre, finché mio figlio Scelah sia cresciuto». Perché pensava: «Temo che muoia anch'egli come i suoi fratelli». Così Tamar se ne andò e dimorò in casa di suo padre. Dopo parecchio tempo, la moglie di Giuda, la figlia di Shua, morì; quando ebbe terminato il cordoglio, Giuda salì da quelli che tosavano le sue pecore a Timnah, egli col suo amico Hirah, l'Adullamita. Di questo fu informata Tamar, e le fu detto: «Ecco, tuo suocero sale a Timnah a tosare le sue pecore». Allora ella si tolse le vesti da vedova, si coperse con un velo e si avvolse tutta; poi si pose a sedere alla porta di Enaim, che è sulla strada verso Timnah; aveva infatti visto che Scelah era ormai cresciuto, ma lei non gli era stata data in moglie. Come Giuda la vide, pensò che ella fosse una prostituta, perché aveva il viso coperto. Quindi egli si accostò a lei sulla strada e le disse: «Lasciami entrare da te». Non sapeva infatti che ella fosse sua nuora. Lei rispose: «Che mi darai per entrare da me?». Allora egli disse: «Ti manderò un capretto del mio gregge». Ella chiese: «Mi dai un pegno finché me lo manderai?». Egli disse: «Che pegno ti devo dare?». Quella rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Egli glieli diede, entrò da lei, ed ella concepì da lui. Poi ella si levò e se ne andò; si tolse il velo e si rimise le sue vesti da vedova. Or Giuda mandò il capretto per mezzo del suo amico, l'Adullamita, per poter ritirare il pegno dalle mani di quella donna; ma egli non la trovò. Allora domandò agli uomini del luogo dicendo: «Dov'è quella prostituta che stava a Enaim, sulla strada?». Essi risposero: «Non c'era alcuna prostituta qui». Così egli ritornò da Giuda e gli disse: «Non l'ho trovata; inoltre gli uomini del luogo mi hanno detto: "Non c'era alcuna prostituta qui». Allora Giuda disse: «Si tenga pure il pegno, che non abbiamo a incorrere nel disprezzo. Ecco, io ho mandato questo capretto e tu non l'hai trovata». Ora circa tre mesi dopo vennero a dire a Giuda: «Tamar tua nuora si è prostituita; e, a motivo della sua prostituzione, ella è pure incinta». Allora Giuda disse: «Conducetela fuori e sia arsa!». Come la conducevano fuori, ella mandò a dire al suocero: «È l'uomo a cui appartengono queste cose che mi ha resa incinta». E disse: «Vedi se puoi riconoscere di chi siano queste cose: il sigillo, il cordone e il bastone». Giuda li riconobbe e disse: «Ella è più giusta di me, perché io non l'ho data a Scelah mio figlio». Ed egli non ebbe più rapporti con lei. Quando venne il tempo in cui doveva partorire, ecco che lei aveva in grembo due gemelli. Mentre partoriva, uno di essi mise fuori una mano, e la levatrice la prese e vi legò un filo scarlatto, dicendo: «Questo è uscito per primo». Ma egli ritirò la sua mano, ed uscì fuori suo fratello. Allora la levatrice disse: «Come ti sei aperto una breccia?». Per

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questo motivo fu chiamato Perets. Poi uscì suo fratello, che aveva attorno alla mano il filo scarlatto; e fu chiamato Zerah.

Giuseppe in Egitto   Or Giuseppe fu portato in Egitto; e Potifar, ufficiale del Faraone, capitano delle guardie, un

Egiziano, lo comprò dagli Ismaeliti che lo avevano portato laggiù. L'Eterno fu con Giuseppe; ed egli prosperava e stava nella casa del suo padrone, l'Egiziano. E il suo padrone vide che l'Eterno era con lui, e che l'Eterno faceva prosperare nelle sue mani tutto ciò che faceva. Così Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui ed entrò al servizio personale di Potifar, che lo fece soprintendente della sua casa e mise nelle sue mani tutto quanto possedeva. Dal momento che l'ebbe fatto soprintendente della sua casa e di tutto quanto possedeva, l'Eterno benedisse la casa dell'Egiziano a motivo di Giuseppe; e la benedizione dell'Eterno fu su tutto quanto egli aveva, in casa e in campagna. Così Potifar lasciò tutto quanto aveva nelle mani di Giuseppe e non si preoccupava più di cosa alcuna, tranne del suo proprio cibo. Or Giuseppe era bello di forma e di bell'aspetto. Dopo queste cose, avvenne che la moglie del suo padrone mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Coricati con me». Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: «Ecco, il mio padrone non si preoccupa di quanto ha lasciato in casa con me e ha messo nelle mie mani tutto quanto ha. Non c'è alcuno più grande di me in questa casa; egli non mi ha proibito nulla tranne te, perché sei sua moglie. Come dunque potrei io fare questo grande male e peccare contro Dio?». Nonostante il fatto che lei ne parlasse a Giuseppe ogni giorno, egli non acconsentì a coricarsi con lei né a darsi a lei. Un giorno avvenne che egli entrò in casa per fare il suo lavoro, e non vi era in casa nessuno dei domestici. Allora ella lo afferrò per la veste, e gli disse: «Coricati con me». Ma egli le lasciò in mano la sua veste, fuggì e corse fuori. Quando ella vide che egli le aveva lasciato in mano la sua veste e che era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici, e disse loro: «Vedete, egli ci ha portato in casa un Ebreo per prendersi giuoco di noi; egli è venuto da me per coricarsi con me, ma io ho gridato a gran voce. Come egli mi ha udito alzare la voce, gridare, ha lasciato la sua veste vicino a me, è fuggito ed è corso fuori». Così ella tenne accanto a sé la veste di lui, finché il suo padrone non fu tornato a casa. Allora ella gli parlò in questa maniera: «Quel servo Ebreo, che tu ci hai portato, è venuto da me per prendersi giuoco di me. Ma come io ho alzato la voce e ho gridato egli ha lasciato la sua veste vicino a me ed è fuggito fuori». Così, quando il suo padrone udì le parole di sua moglie che gli parlava in questo modo dicendo: «Il tuo servo mi ha fatto questo!», si accese d'ira. Allora il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise in prigione nel luogo dove erano rinchiusi i carcerati del re. Egli rimase quindi in quella prigione. Ma l'Eterno fu con Giuseppe e usò verso di lui benevolenza, cattivandogli le grazie del direttore della prigione. Così il direttore della prigione affidò a Giuseppe tutti i detenuti che erano nel carcere; ed egli era responsabile di tutto quanto si faceva là dentro. Il direttore della prigione non controllava più nulla di quanto era affidato a Giuseppe, perché l'Eterno era con lui, e l'Eterno faceva prosperare tutto quanto egli faceva.

Giuseppe spiega i sogni del coppiere e del panettiere del Faraone   Dopo queste cose, avvenne che il coppiere e il panettiere del re di Egitto offesero il loro

signore, il re d'Egitto. E il Faraone si adirò con i suoi due ufficiali, con il capocoppiere e il capopanettiere, e li fece mettere in carcere, nella casa del capo delle guardie, nella stessa prigione dove era rinchiuso Giuseppe. E il capitano delle guardie li affidò alla sorveglianza di Giuseppe il quale li assisteva. Così essi rimasero in prigione per un certo tempo. Nella stessa notte, il coppiere e il panettiere del re d'Egitto, che erano rinchiusi nella prigione, fecero entrambi un sogno, ciascuno il suo sogno, col suo particolare significato. Il mattino seguente, Giuseppe venne da loro, e vide che erano preoccupati. Allora egli interrogò gli ufficiali del Faraone che erano con lui in prigione nella casa del suo padrone e disse: «Perché avete oggi il viso così mesto?». Essi gli risposero: «Abbiamo fatto un sogno e non vi è alcuno che lo possa interpretare». Allora Giuseppe disse loro: «Le interpretazioni non appartengono a DIO? Raccontatemi i sogni, vi prego». Così il

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capocoppiere raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse: «Nel mio sogno, ecco mi stava davanti una vite; e in quella vite vi erano tre tralci; appena ebbe messo i germogli, fiorì e diede dei grappoli di uva matura. Ora io avevo in mano la coppa del Faraone; presi l'uva, la spremetti nella coppa del Faraone e misi la coppa in mano del Faraone». Giuseppe gli disse: «Questa è l'interpretazione del sogno: i tre tralci sono tre giorni; in capo a tre giorni il Faraone ti farà rialzare il capo, ti ristabilirà nel tuo ufficio e tu darai in mano al Faraone la coppa, come facevi prima, quando eri suo coppiere. Ma ricordati di me quando sarai felice; ti prego, usa benevolenza nei miei confronti, parlando di me al Faraone, e fammi uscire da questa casa; perché io fui portato via di nascosto dal paese degli Ebrei, e anche qui non ho fatto nulla da essere messo in questa prigione sotterranea». Il capopanettiere, vedendo che la interpretazione era favorevole, disse a Giuseppe: «Anch'io nel mio sogno, ecco, avevo tre canestri di pane bianco sul capo; e nel canestro più alto vi era ogni sorta di vivande cotte al forno per il Faraone; e gli uccelli le mangiavano dal canestro che avevo sul capo». Allora Giuseppe rispose e disse: «Questa è l'interpretazione del sogno: i tre canestri sono tre giorni; in capo a tre giorni il Faraone ti asporterà la testa dalle spalle, ti farà impiccare a un albero, e gli uccelli ti mangeranno le carni addosso». Ora il terzo giorno, il giorno del compleanno del Faraone, avvenne che egli fece un banchetto per tutti i suoi servi; e fece alzare il capo al capocoppiere e alzare il capo al capopanettiere in mezzo ai suoi servi. Così ristabilì il capocoppiere nel suo ufficio di coppiere, perché mettesse la coppa in mano del Faraone, ma fece impiccare il capopanettiere secondo la interpretazione che Giuseppe aveva loro data. Il capocoppiere però non si ricordò di Giuseppe, ma lo dimenticò.

Giuseppe spiega i sogni del Faraone   Or avvenne, in capo a due interi anni, che il Faraone fece un sogno. Egli stava presso il fiume, ed ecco salire dal fiume sette vacche, di bell'aspetto e grasse, e mettersi a pascolare tra i giunchi. Dopo quelle, ecco salire dal fiume altre sette vacche brutte di aspetto e scarne, e fermarsi accanto alle prime sulla riva del fiume. Ora le vacche brutte di aspetto e scarne divorarono le sette vacche di bell'aspetto e grasse. Quindi il Faraone si svegliò. Poi si riaddormentò e sognò una seconda volta; ed ecco, sette spighe grosse e belle, venir su da un unico stelo. Poi ecco, sette spighe sottili e arse dal vento orientale, germogliare dopo di quelle. E le spighe sottili inghiottirono le sette spighe grosse e piene. Allora il Faraone si svegliò, ed ecco, era un sogno. Al mattino il suo spirito era turbato, e mandò a chiamare tutti i maghi e tutti i savi d'Egitto; quindi il Faraone raccontò loro i suoi sogni, ma non ci fu alcuno che li potesse interpretare al Faraone. Allora il capocoppiere parlò al Faraone, dicendo: «Ricordo oggi i miei falli. Il Faraone si era adirato con i suoi servi e mi aveva fatto mettere in prigione in casa del capo delle guardie: me e il capopanettiere. Entrambi facemmo un sogno nella stessa notte, io e lui; ciascuno fece un sogno con il suo proprio significato. Ora con noi vi era un giovane ebreo servo del capo delle guardie; a lui raccontammo i nostri sogni, ed egli ce li interpretò dando a ciascuno l'interpretazione del suo sogno. E le cose avvennero esattamente secondo l'interpretazione da lui dataci: Il Faraone ristabilì me nel suo ufficio e fece impiccare l'altro». Allora il Faraone mandò a chiamare Giuseppe che fu subito tratto fuori dalla prigione sotterranea. Così egli si rase si cambiò le vesti e venne dal Faraone. E il Faraone disse a Giuseppe: «Ho fatto un sogno e non vi è alcuno che lo possa interpretare; ma ho sentito dire di te che, quando hai udito un sogno tu lo puoi interpretare». Giuseppe rispose al Faraone, dicendo: «Non sono io; ma sarà DIO a dare una risposta per il bene del Faraone». Allora il Faraone disse a Giuseppe: «Ecco nel mio sogno io stavo sulla riva del fiume, quand'ecco salire dal fiume sette vacche grasse e di bell'aspetto e mettersi a pascolare tra i giunchi. Dopo quelle ecco salire altre sette vacche magre, bruttissime di aspetto e scarne, tali che non ne vidi mai di così brutte in tutto il paese d'Egitto. E le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche grasse; ma anche dopo che le ebbero divorate, nessuno poteva riconoscere che le avevano divorate, perché esse erano di brutto aspetto come prima. Così mi svegliai. Poi vidi nel mio sogno sette spighe venir su da un unico stelo, piene e belle; ed ecco altre sette spighe avvizzite, sottili e arse dal vento orientale, germogliare dopo quelle. Quindi le spighe sottili inghiottirono le sette spighe belle. Io ho

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raccontato questo ai maghi, ma non vi è stato alcuno capace di darmi una spiegazione». Allora Giuseppe disse al Faraone: «I sogni del Faraone sono uno stesso sogno. DIO ha mostrato al Faraone quello che sta per fare. Le sette vacche belle sono sette anni, e le sette spighe belle sono sette anni; è uno stesso sogno. Anche le sette vacche magre e brutte, che salivano dopo di quelle, sono sette anni; come pure le sette spighe vuote e arse dal vento orientale sono sette anni di carestia. Questo è quello che ho detto al Faraone: DIO ha mostrato al Faraone quello che sta per fare. Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutto il paese di Egitto; ma dopo questi verranno sette anni di carestia, e tutta quell'abbondanza sarà dimenticata nel paese d'Egitto; e la carestia consumerà il paese. E nel paese non si ricorderà più la precedente abbondanza, a motivo della carestia che seguirà, perché questa sarà molto dura. Il fatto poi che il sogno sia stato dato al Faraone due volte vuol dire che la cosa è decretata da DIO, e DIO la farà accadere presto. Or dunque cerchi il Faraone un uomo intelligente e savio e lo stabilisca sul paese d'Egitto. Il Faraone faccia così: costituisca sul paese dei soprintendenti per prelevare il quinto dei prodotti del paese d'Egitto, durante i sette anni di abbondanza. Radunino essi tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire e ammassino il grano sotto l'autorità del Faraone, e lo conservino per l'approvvigionamento delle città. Questi viveri saranno una riserva per il paese, in vista dei sette anni di carestia che verranno nel paese d'Egitto; così il paese non perirà per la carestia».

Giuseppe viene fatto vicerè d'Egitto   La cosa piacque al Faraone e a tutti i suoi funzionari. E il Faraone disse ai suoi funzionari: «Potremmo noi trovare un uomo come questi, in cui ci sia lo Spirito di DIO?». Allora il Faraone disse a Giuseppe: «Poiché DIO ti ha fatto conoscere tutto questo, non vi è alcuno che sia intelligente e savio come te. Tu sarai sopra la mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te». Il Faraone disse a Giuseppe: «Vedi io ti stabilisco su tutto il paese d'Egitto». Poi il Faraone si tolse l'anello dalla propria mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece quindi montare sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: «In ginocchio!». Così il Faraone lo costituì su tutto il paese d'Egitto. Inoltre il Faraone disse a Giuseppe: «Il Faraone sono io ma, senza di te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto». E il Faraone chiamò Giuseppe col nome di Tsofnath-Paneah, e gli diede in moglie Asenath figlia di Potiferah, sacerdote di On. E Giuseppe partì per visitare il paese d'Egitto. Ora Giuseppe aveva trent'anni quando si presentò davanti a Faraone, re d'Egitto. Quindi Giuseppe lasciò la presenza del Faraone e percorse tutto il paese d'Egitto. Durante i sette anni di abbondanza, la terra produsse copiosamente; e Giuseppe radunò tutti i viveri di quei sette anni prodotti nel paese d'Egitto e ripose i viveri nelle città; in ogni città ripose i viveri del territorio circonvicino. Così Giuseppe ammassò grano come la sabbia del mare, in così gran quantità, che si smise di tenere i conti perché era incalcolabile.

Nascita dei figli di Giuseppe. Inizio della carestia   Prima che venisse l'anno della carestia, nacquero a Giuseppe due figli che Asenath, figlia di Potiferah, sacerdote di On, gli partorì. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse perché disse: «DIO mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre». Al secondo invece pose nome Efraim, perché disse: «DIO mi ha reso fruttifero nel paese della mia afflizione». I sette anni di abbondanza che vi furono nel paese d'Egitto finirono, e cominciarono a venire i sette anni di carestia, come Giuseppe aveva detto. Ci fu carestia in tutti i paesi, ma in tutto il paese d'Egitto vi era del pane. Poi tutto il paese d'Egitto cominciò ad aver fame, e il popolo gridò al Faraone per aver del pane. Allora il Faraone disse a tutti gli Egiziani: «Andate da Giuseppe, e fate quello che vi dirà». La carestia si era sparsa sulla superficie di tutto il paese, e Giuseppe aperse tutti i depositi e vendé grano agli Egiziani. Ma la carestia si aggravò nel paese d'Egitto. Così la gente di tutti i paesi veniva in Egitto da Giuseppe per comprare del grano, perché la carestia era grave in tutta la terra.

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I figli di Giacobbe, mandati in Egitto, sono riconosciuti da Giuseppe   Or Giacobbe, venendo a sapere che vi era del grano in Egitto, disse ai suoi figli: «Perché vi state a guardare l'un l'altro?». Poi disse: «Ecco, ho sentito dire che vi è del grano in Egitto; andate laggiù a comprare del grano per noi, affinché possiamo vivere e non abbiamo a morire». Così i dieci fratelli di Giuseppe scesero in Egitto per comprarvi del grano. Ma Giacobbe non mandò Beniamino, fratello di Giuseppe, con i suoi fratelli, perché diceva: «Che non gli succeda qualche disgrazia». I figli di Israele giunsero dunque per comprare del grano, in mezzo agli altri arrivati, perché nel paese di Canaan vi era la carestia. Or Giuseppe era il governatore del paese; era lui che vendeva il grano a tutta la gente del paese; e i fratelli di Giuseppe vennero e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma si comportò come un forestiero con loro e usò parole dure con loro, e disse loro: «Da dove venite?». Essi risposero: «Dal paese di Canaan per comperare viveri». Così Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma essi non riconobbero lui. Giuseppe allora si ricordò dei sogni che aveva fatto intorno a loro e disse: «Voi siete delle spie! Siete venuti per vedere i punti indifesi del paese!». Essi gli risposero: «No, signor mio; i tuoi servi son venuti a comperare dei viveri. Siamo tutti figli di uno stesso uomo; siamo gente onesta; i tuoi servi non sono delle spie». Ma egli disse loro: «No, voi siete venuti per vedere i punti indifesi del paese!». Allora essi dissero: «Noi, tuoi servi, siamo dodici fratelli, figli di uno stesso uomo nel paese di Canaan. Ed ecco, il più giovane è oggi con nostro padre, e uno non è più». Ma Giuseppe disse loro: «La cosa è come vi ho detto; siete delle spie! Ecco come sarete messi alla prova: Com'è vero che il Faraone vive, non uscirete di qui prima che il vostro fratello più giovane sia venuto qui. Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; e voi resterete qui in carcere, perché le vostre parole siano messe alla prova, e si veda se c'è del vero in voi; altrimenti com'è vero che il Faraone vive, siete delle spie!». Così li mise assieme in prigione per tre giorni.

Giuseppe pretende che gli portino Beniamino   Il terzo giorno, Giuseppe disse loro: «Fate questo e vivrete; io temo DIO! Se siete gente onesta, uno di voi fratelli resti qui incatenato nella nostra prigione, e voi andate a portare il grano per la vostra famiglia che muore di fame; poi conducetemi il vostro fratello più giovane; così le vostre parole saranno verificate e voi non morrete». Ed essi fecero così. Allora si dicevano l'un l'altro: «Noi siamo veramente colpevoli nei confronti di nostro fratello, perché vedemmo l'angoscia dell'anima sua quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci è venuta addosso questa sventura». Ruben rispose loro, dicendo: «Non ve lo dicevo io: "Non commettete questo peccato contro il fanciullo!"? Ma non mi deste ascolto. Perciò ecco, ora ci si chiede conto del suo sangue». Essi non sapevano che Giuseppe li capiva, perché fra lui e loro vi era un interprete. Allora egli si allontanò da loro e pianse. Poi ritornò presso di loro e parlò loro; e prese fra loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi. Poi Giuseppe ordinò di riempire di grano i loro sacchi e di rimettere il denaro di ciascuno nel suo sacco, e di dare loro provviste per il viaggio. E così fu fatto. Essi caricarono quindi il loro grano sui loro asini e se ne andarono. Ora, nel luogo dove pernottavano uno di essi aperse il suo sacco per dare del foraggio al suo asino e vide il proprio denaro; ed ecco che stava alla bocca del suo sacco; così disse ai suoi fratelli: «Il mio denaro mi è stato restituito; eccolo qui nel mio sacco». Allora il cuore venne loro meno e, tutti spaventati, dicevano l'un l'altro: «Che è mai questo che DIO ci ha fatto?».

Giacobbe rifiuta di mandare Beniamino   Così giunsero da Giacobbe, loro padre nel paese di Canaan e gli raccontarono tutto quanto era

loro accaduto, dicendo: «L'uomo, che è il signore del paese, ci ha parlato aspramente e ci ha trattato come spie del paese. E noi abbiamo detto: "Siamo gente onesta; non siamo delle spie; siamo dodici fratelli, figli di nostro padre; uno non è più, e il più giovane è oggi con nostro padre nel paese di Canaan". Ma quell'uomo, signore del paese, ci ha detto: "Da questo conoscerò se siete gente onesta: lasciate presso di me uno dei vostri fratelli, prendete dei viveri per la vostra

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famiglia che muore di fame e andate; poi portatemi il vostro fratello più giovane. Così conoscerò che non siete delle spie ma gente onesta; io vi renderò il vostro fratello, e voi potrete commerciare nel paese"». Or come essi vuotavano i loro sacchi, ecco che l'involto del denaro di ciascuno era nel suo sacco; così essi e il loro padre videro gli involti del loro denaro e furono presi da paura. Allora Giacobbe loro padre disse: «Voi mi avete privato dei miei figli! Giuseppe non è più, Simeone non è più, e mi volete togliere anche Beniamino! Tutto questo ricade su di me!». Ruben disse a suo padre: «Se non te lo riporto, fa' morire i miei due figli. Affidalo a me, io te lo ricondurrò». Ma Giacobbe rispose: «Il mio figlio non scenderà con voi, perché il suo fratello è morto e questi solo è rimasto: se gli succedesse qualche disgrazia durante il viaggio fareste scendere nel dolore la mia canizie alla tomba». Giacobbe acconsente con dolore alla partenza di Beniamino� Or la carestia era grave nel paese; e quando ebbero finito di mangiare il grano che avevano portato dall'Egitto, il padre disse loro: «Ritornate a comprarci un po' di viveri». Ma Giuda gli rispose dicendo: «Quell'uomo ci ha formalmente messi in guardia dicendo: "Non vedrete la mia faccia, se il vostro fratello non sarà con voi". Se tu mandi il nostro fratello con noi, noi scenderemo e ti compreremo dei viveri; ma se non lo mandi non scenderemo, perché quell'uomo ci ha detto: "Non vedrete la mia faccia, a meno che il vostro fratello non sarà con voi"». Allora Israele disse: «Perché mi avete dato questo dolore di dire a quell'uomo che avevate ancora un fratello?». Quelli risposero: «Quell'uomo ci interrogò con molta accuratezza intorno a noi e al nostro parentado, dicendo: "Vostro padre è ancora vivo? Avete qualche altro fratello?". E noi gli rispondemmo in base a queste sue domande. Potevamo noi mai sapere che ci avrebbe detto: "Portate quaggiù il vostro fratello"?». Poi Giuda disse a Israele suo padre: «Lascia venire il fanciullo con me e ci leveremo e andremo perché possiamo vivere e non morire, sia noi che tu e i nostri piccoli. Io mi rendo garante di lui; ne domanderai conto alla mia mano. Se non te lo riconduco e non te lo rimetto davanti, ne porterò la colpa davanti a te per sempre. Se non ci fossimo indugiati, a quest'ora saremmo già tornati per la seconda volta». Allora Israele, loro padre, disse loro: «Se è così, fate questo: prendete nei vostri sacchi alcuni dei prodotti migliori del paese, e portate a quell'uomo un dono: un po' di balsamo, un po' di miele, degli aromi e della mirra, dei pistacchi e delle mandorle. Prendete con voi doppio denaro e riportate il denaro che fu rimesso alla bocca dei vostri sacchi; forse è stato uno sbaglio. Prendete anche vostro fratello, e levatevi, tornate da quell'uomo; e il Dio onnipotente vi faccia trovare grazia davanti a quell'uomo, così che egli vi rilasci l'altro vostro fratello e Beniamino. Quanto a me, se devo essere privato dei miei figli, che lo sia!».

L'accoglienza fatta da Giuseppe a Beniamino   Essi dunque presero il dono, e presero con sé il doppio del denaro e Beniamino; quindi si

levarono e scesero in Egitto, e si presentarono davanti a Giuseppe. Quando Giuseppe vide Beniamino con loro, disse al maggiordomo di casa sua: «Conduci questi uomini in casa, uccidi un animale e prepara un banchetto, perché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». Or l'uomo fece come Giuseppe gli aveva ordinato e li condusse in casa di Giuseppe. Ma essi ebbero paura, perché erano condotti in casa di Giuseppe, e dissero: «Siamo condotti qui a motivo di quel denaro che ci fu rimesso nei sacchi la prima volta, per trovare un'occasione contro di noi, piombarci addosso e prenderci come schiavi coi nostri asini». E accostatisi al maggiordomo della casa di Giuseppe parlarono con lui sulla porta di casa e dissero: «Mio signore, noi scendemmo in realtà una prima volta a comperare viveri; e avvenne che, quando fummo giunti al luogo dove pernottammo, aprimmo i sacchi, ed ecco il denaro di ciascuno stava alla bocca del suo sacco; il nostro denaro col suo peso esatto; ora lo abbiamo riportato con noi. E abbiamo portato con noi dell'altro denaro per comperare viveri; noi non sappiamo chi possa aver messo il nostro denaro nei nostri sacchi». Ma egli disse: «Datevi pace, non temete; il DIO vostro e il DIO di vostro padre ha messo un tesoro nei vostri sacchi. Io ebbi il vostro denaro». Poi condusse loro Simeone. Quell'uomo li fece entrare in casa di Giuseppe, diede loro dell'acqua affinché si lavassero i piedi e diede del foraggio ai loro asini. Allora essi prepararono il regalo, aspettando che Giuseppe venisse

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a mezzogiorno, perché avevano inteso che sarebbero rimasti a mangiare in quel luogo. Quando Giuseppe arrivò a casa, essi gli presentarono il dono che avevano portato con sé in casa, e si inchinarono fino a terra davanti a lui. Egli domandò loro come stessero e disse: «Vostro padre, il vecchio di cui mi parlaste, sta bene? È ancora in vita?». Essi risposero: «Il tuo servo, nostro padre, sta bene; è ancora in vita». E si inchinarono per rendergli riverenza. Poi Giuseppe alzò gli occhi, vide suo fratello Beniamino, figlio di sua madre, e disse: «È questi il vostro fratello più giovane di cui mi parlaste?». E aggiunse: «DIO ti sia propizio, figlio mio!». Allora Giuseppe si affrettò ad uscire, perché si era profondamente commosso a motivo di suo fratello, e cercava un luogo dove piangere. Entrò così nella sua camera e lì pianse. Poi si lavò la faccia ed uscì; e, facendosi forza, disse: «Servite il pranzo». Fu dunque servito per lui a parte, per loro a parte e per gli Egiziani che mangiavano con lui a parte, perché gli Egiziani non possono mangiare con gli Ebrei; ciò sarebbe cosa abominevole per gli Egiziani. Così essi si misero a sedere davanti a lui: il primogenito secondo il suo diritto di primogenitura e il più giovane secondo la sua età; e si guardavano l'un l'altro con meraviglia. E Giuseppe fece loro portare delle porzioni dalla sua stessa tavola; ma la porzione di Beniamino era cinque volte maggiore di quella di ogni altro di loro. E bevvero e stettero allegri con lui.

Giuseppe fa mettere la coppa nel sacco di Beniamino   Giuseppe diede quest'ordine al maggiordomo di casa sua dicendo: «Riempi i sacchi di questi uomini di tanti viveri quanti ne possono portare e metti il denaro di ciascuno alla bocca del suo sacco. Inoltre metti la mia coppa, la coppa d'argento, alla bocca del sacco del più giovane, assieme al denaro del suo grano». Ed egli fece come Giuseppe aveva detto. La mattina, non appena fu giorno, quegli uomini furono fatti partire coi loro asini. Erano appena usciti dalla città e non erano ancora lontani, quando Giuseppe disse al maggiordomo di casa sua: «Levati, insegui quegli uomini e, quando li avrai raggiunti, di' loro: "Perché avete reso male per bene? Non è quella la coppa in cui il mio signore beve, e della quale si serve per indovinare? Avete fatto male a fare così"». Egli li raggiunse e disse loro queste parole. Essi allora gli risposero: «Perché il mio signore ci rivolge parole come queste? Lungi dai tuoi servi il fare una tale cosa! Ecco, noi ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che avevamo trovato alla bocca dei nostri sacchi; come avremmo potuto rubare dell'argento o dell'oro dalla casa del tuo signore? Quello dei tuoi servi presso il quale si troverà la coppa, sia messo a morte; e noi pure diventeremo schiavi del tuo signore». Egli disse: «Ebbene, sia fatto come dite: colui presso il quale la coppa si troverà sarà mio schiavo; e voi sarete innocenti». Così ciascuno di loro si affrettò a mettere a terra il suo sacco, e ciascuno aprì il suo. Il maggiordomo li frugò, cominciando col maggiore, per finire col più giovane; e la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. Allora essi si stracciarono le vesti ricaricarono ciascuno il suo asino e tornarono nella città. Giuda e i suoi fratelli arrivarono alla casa di Giuseppe, che si trovava ancora là, e si gettarono a terra davanti a lui. E Giuseppe disse loro: «Che azione è questa che avete fatto? Non lo sapete che un uomo come me è in grado di indovinare?». Giuda rispose: «Che diremo al mio signore? Quali parole useremo, o come ci potremo giustificare? DIO ha ritrovato l'iniquità dei tuoi servi. Ecco, siamo schiavi del mio signore, tanto noi quanto colui in mano del quale è stata trovata la coppa». Ma Giuseppe disse: «Lungi da me il fare questo! L'uomo, in mano del quale è stata trovata la coppa, sarà mio schiavo; quanto a voi, ritornate in pace da vostro padre».

Giuda supplica Giuseppe di lasciar tornare Beniamino dal padre � Allora Giuda si accostò a Giuseppe e disse: «Di grazia, signor mio, permetti al tuo servo di far udire una parola al mio signore, e non si accenda l'ira tua contro il tuo servo, perché tu sei come il Faraone. Il mio signore interrogò i suoi servi, dicendo: "Avete voi padre o fratello?". E noi rispondemmo al mio signore: "Abbiamo un padre che è vecchio con un giovane figlio, natogli nella vecchiaia; suo fratello è morto, così egli è rimasto l'unico figlio di sua madre; e suo padre l'ama". Allora tu dicesti ai tuoi servi: "Portatemelo, perché lo possa vedere coi miei occhi". E noi dicemmo al mio signore: "Il fanciullo non può lasciare suo padre, perché se lo dovesse lasciare, suo

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padre morrebbe". Ma tu dicesti ai tuoi servi: "Se il vostro fratello più giovane non scende con voi, voi non vedrete più la mia faccia". Così quando fummo risaliti dal tuo servo, mio padre, gli riferimmo le parole del mio signore. Allora nostro padre disse: "Tornate a comperarci un po' di viveri". Noi rispondemmo: "Non possiamo scendere laggiù; solo se il nostro fratello più giovane verrà con noi, scenderemo; perché non possiamo vedere la faccia di quell'uomo, se il nostro fratello più giovane non è con noi". E il tuo servo, mio padre, ci rispose: "Voi sapete che mia moglie mi partorì due figli; uno di essi mi lasciò, e io dissi: Certo, egli è stato sbranato; e non l'ho più rivisto da allora; or se mi togliete anche questi e se gli avviene qualche disgrazia voi farete scendere nel dolore la mia canizie nella tomba". Or dunque quando giungerò dal tuo servo, mio padre, se il fanciullo non è con noi, poiché la sua vita è legata a quella del fanciullo, avverrà che appena avrà visto che il fanciullo non è con noi, egli morirà; e i tuoi servi avranno fatto scendere nel dolore la canizie del tuo servo, nostro padre, nella tomba. Ora, siccome il tuo servo si è reso garante del fanciullo presso mio padre e gli ha detto: "Se non te lo riconduco sarò per sempre colpevole verso mio padre", deh, permetti ora che il tuo servo rimanga schiavo del mio signore al posto del fanciullo, e che il fanciullo se ne torni con i suoi fratelli. Perché, come potrei ritornare da mio padre, se il fanciullo non è con me? Ah, che io non veda il dolore che coglierebbe mio padre!».

Giuseppe si fa conoscere ai suoi fratelli   Allora Giuseppe non poté più contenersi di fronte a tutti gli astanti e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così nessuno rimase con Giuseppe quando egli si fece conoscere ai suoi fratelli. E pianse così forte che gli Egiziani stessi lo udirono, e lo venne a sapere anche la casa del Faraone. Quindi Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sono Giuseppe; è mio padre ancora in vita?». Ma i suoi fratelli non gli potevano rispondere perché erano sgomenti alla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Deh, avvicinatevi a me!». Quelli si avvicinarono, ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse condotto in Egitto. Ma ora non vi contristate e non vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi condotto quaggiù, poiché DIO mi ha mandato davanti a voi per conservarvi la vita. Infatti è già due anni che vi è carestia nel paese; e vi saranno altri cinque anni, durante i quali non vi sarà né aratura né messe. Ma DIO mi ha mandato davanti a voi perché sia conservato per voi un residuo sulla terra, e per salvarvi la vita con una grande liberazione. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è DIO; egli mi ha stabilito come padre del Faraone, come signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto. Affrettatevi a ritornare da mio padre e ditegli: "Così dice tuo figlio Giuseppe: DIO mi ha stabilito come signore di tutto l'Egitto; scendi da me, non tardare; tu dimorerai nel paese di Goscen e sarai vicino a me: tu e i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, le tue greggi, i tuoi armenti e tutto quello che possiedi. E là io ti sostenterò, perché ci saranno ancora cinque anni di carestia, affinché tu non sia ridotto in miseria: tu, la tua famiglia e tutto quello che possiedi". Ed ecco, i vostri occhi e gli occhi di mio fratello Beniamino vedono che è la mia bocca quella che vi parla. Raccontate dunque a mio padre tutta la mia gloria in Egitto e tutto quello che avete visto, e affrettatevi a condurre mio padre quaggiù». Poi si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse, e Beniamino pianse stretto al suo collo. Egli baciò pure tutti i suoi fratelli e pianse stretto a loro. Dopo questo, i suoi fratelli si misero a parlare con lui.

Il Faraone favorisce i piani di Giuseppe   Il rumore della cosa si sparse nella casa del Faraone, e si disse: «Sono arrivati i fratelli di

Giuseppe». Questo fece piacere al Faraone e ai suoi servi. Allora il Faraone disse a Giuseppe: «Di' ai tuoi fratelli: "Fate questo: Caricate le vostre bestie e andate; tornate nel paese di Canaan. Poi prendete vostro padre e le vostre famiglie, e venite da me; io vi darò il meglio del paese d'Egitto e mangerete i prodotti migliori del paese". Tu hai l'ordine di dir loro: "Fate questo: Prendete con voi dal paese di Egitto dei carri per i vostri piccoli e per le vostre mogli; prendete vostro padre e venite. E non preoccupatevi per le vostre masserizie, perché il meglio di tutto il paese d'Egitto sarà

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vostro"». I figli di Israele fecero così, e Giuseppe diede loro dei carri, secondo l'ordine del Faraone, e diede loro delle provviste per il viaggio. A tutti diede un abito di ricambio per ciascuno; ma a Beniamino diede trecento sicli d'argento e cinque mute di vestiti; e a suo padre mandò questo: dieci asini carichi delle migliori cose d'Egitto, dieci asine cariche di grano, di pane e di viveri per suo padre durante il viaggio. Così congedò i suoi fratelli e, mentre essi partivano, disse loro: «Non fate litigi per la strada». Allora essi risalirono dall'Egitto e arrivarono nel paese di Canaan da Giacobbe, loro padre. E gli riferirono ogni cosa, dicendo: «Giuseppe è ancora in vita, ed è il governatore di tutto il paese d'Egitto». Ma il suo cuore rimase freddo, perché egli non credeva loro. Quando però essi gli riferirono tutte le parole che Giuseppe aveva loro detto ed egli vide i carri che Giuseppe aveva mandato per condurlo via, allora lo spirito di Giacobbe loro padre si ravvivò, e Israele disse: «Basta; il mio figlio Giuseppe è ancora in vita; io andrò a vederlo prima di morire».

Dio appare a Giacobbe e Giacobbe scende in Egitto   Israele dunque partì con tutto quello che aveva e, giunto a Beer-Sceba, offrì sacrifici al DIO di suo padre Isacco. E DIO parlò a Israele in visioni notturne e disse: «Giacobbe, Giacobbe!». Egli rispose: «Eccomi». Dio allora disse: «Io sono Dio, il DIO di tuo padre; non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione. Io scenderò con te in Egitto e ti farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi». Allora Giacobbe partì da Beer-Sceba, e i figli di Israele fecero salire Giacobbe loro padre, i loro piccoli e le loro mogli sui carri che il Faraone aveva mandato per trasportarlo. Così essi presero il loro bestiame e i beni che avevano acquistato nel paese di Canaan e vennero in Egitto, Giacobbe e tutti i suoi discendenti con lui. Egli condusse con sé in Egitto i suoi figli, i figli dei suoi figli, le sue figlie, le figlie dei suoi figli e tutti i suoi discendenti.

I discendenti di Giacobbe che scesero in Egitto   Questi sono i nomi dei figli di Israele che vennero in Egitto: Giacobbe e i suoi figli. Il primogenito di Giacobbe: Ruben. I figli di Ruben: Hanok, Pallu, Hetsron e Karmi. I figli di Simeone: Jemuel, Jamin, Ohad, Jakin, Tsohar e Saul, figlio di una Cananea. I figli di Levi: Ghershom, Kehath e Merari. I figli di Giuda: Er, Onan, Scelah, Perets e Zerah; (ma Er e Onan morirono nel paese di Canaan). I figli di Perets furono: Hetsron e Hamul. I figli di Issacar: Tola, Puvah, Job e Scimron. I figli di Zabulon: Sered, Elon e Jahleel. Codesti furono i figli che Lea partorì a Giacobbe a Paddan-Aram, oltre sua figlia Dina. I suoi figli e le sue figlie erano in tutto trentatré persone. I figli di Gad: Tsifion, Haggi, Shuni, Etsbon, Eri, Arodi e Areli. I figli di Ascer Jmna, Jshua, Jshni, Beriah e Serah loro sorella. E i figli di Beriah: Heber e Malkiel. Codesti furono i figli di Zilpah che Labano aveva dato a Lea sua figlia; ed essa li partorì a Giacobbe: in tutto sedici persone. I figli di Rachele moglie di Giacobbe: Giuseppe e Beniamino. E a Giuseppe, nel paese d'Egitto, nacquero Manasse ed Efraim, che gli partorì Asenath, figlia di Potiferah, sacerdote di On. I figli di Beniamino: Belah, Beker, Ashbel, Ghera, Naaman, Ehi, Rosh, Muppim, Huppim e Ard. Questi furono i figli di Rachele che nacquero a Giacobbe: in tutto quattordici persone. Il figlio di Dan: Huscim. I figli di Neftali: Jahtseel, Guni, Jetser e Scillem. Questi furono i figli di Bilhah che Labano aveva dato a Rachele sua figlia, ed essa li partorì a Giacobbe: in tutto sette persone. Le persone che vennero con Giacobbe in Egitto, discendenti da lui, senza contare le mogli dei figli di Giacobbe, erano in tutto sessantasei. I figli di Giuseppe, che gli nacquero in Egitto, erano due. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe che vennero in Egitto erano in totale settanta.

Giuseppe va incontro a suo padre   Or Giacobbe mandò Giuda davanti a sé da Giuseppe, perché lo introducesse nel paese di

Goscen. Così essi giunsero nel paese di Goscen. Allora Giuseppe fece attaccare il suo carro e salì a Goscen incontro a Israele, suo padre; appena lo vide, gli si gettò al collo e pianse lungamente stretto al suo collo. E Israele disse a Giuseppe: «Ora lascia pure che io muoia, poiché ho visto la

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tua faccia, e tu sei ancora in vita». Allora Giuseppe disse ai suoi fratelli e alla famiglia di suo padre: «Io salirò a informare il Faraone e gli dirò: "I miei fratelli e la famiglia di mio padre, che erano nel paese di Canaan, sono venuti da me. Essi sono pastori, perché sono sempre stati allevatori di bestiame, e hanno portato con sé le loro greggi, i loro armenti e tutto quello che posseggono". Quando il Faraone vi farà chiamare e vi dirà: "Qual è la vostra occupazione?", voi risponderete: "I tuoi servi sono stati allevatori di bestiame dalla loro fanciullezza fino ad ora, tanto noi che i nostri padri", perché possiate abitare nel paese di Goscen. Poiché gli Egiziani hanno in abominio tutti i pastori».

La famiglia di Giacobbe si stabilisce nel paese di Goscen   Giuseppe andò quindi a informare il Faraone e gli disse: «Mio padre e i miei fratelli con le loro greggi, con i loro armenti e con tutto quello che hanno, sono venuti dal paese di Canaan; ed ecco, sono nel paese di Goscen». Quindi prese cinque uomini tra i suoi fratelli e li presentò al Faraone. Allora il Faraone disse ai fratelli di Giuseppe: «Qual è la vostra occupazione?». Essi risposero al Faraone: «I tuoi servi sono pastori, tanto noi che i nostri padri». Poi dissero al Faraone: «Siamo venuti per dimorare in questo paese, perché non vi era più pastura per le greggi dei tuoi servi, poiché vi è una grande carestia nel paese di Canaan. Deh, permetti ora che i tuoi servi dimorino nel paese di Goscen». Allora il Faraone parlò a Giuseppe, dicendo: «Tuo padre e i tuoi fratelli sono venuti da te; il paese d'Egitto è a tua disposizione; fa' abitare tuo padre e tuoi fratelli nella parte migliore del paese; dimorino pure nel paese di Goscen. E se tu sai che fra loro ci sono degli uomini capaci, falli soprintendenti del mio bestiame». Poi Giuseppe condusse Giacobbe suo padre dal Faraone e glielo presentò. E Giacobbe benedisse il Faraone. Il Faraone allora disse a Giacobbe: «Quanti sono gli anni della tua vita?». Giacobbe rispose al Faraone: «Gli anni del mio pellegrinare sono centotrent'anni; gli anni della mia vita sono stati pochi e cattivi, e non hanno raggiunto il numero degli anni della vita dei miei padri, nei giorni del loro pellegrinare». Giacobbe benedisse ancora il Faraone e si ritirò dalla presenza del Faraone. Così Giuseppe stabilì suo padre e i suoi fratelli e diede loro una proprietà nel paese di Egitto, nella parte migliore del paese, nella contrada di Ramses come il Faraone aveva ordinato. E Giuseppe sostentò suo padre, i suoi fratelli e tutta la famiglia di suo padre, rifornendoli di pane, secondo il numero dei figli.

L'amministrazione di Giuseppe durante la carestia   Or in tutto il paese non c'era pane, perché la carestia era gravissima; il paese d'Egitto e il paese di Canaan languivano a motivo della carestia. Giuseppe ammassò tutto il denaro che si trovava nel paese d'Egitto e nel paese di Canaan in cambio del grano che essi compravano; e Giuseppe portò questo denaro nella casa del Faraone. Or quando nel paese d'Egitto e nel paese di Canaan venne a mancare il denaro, tutti gli Egiziani vennero da Giuseppe e dissero: «Dacci del pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Poiché il nostro denaro è finito». Giuseppe disse: «Date il vostro bestiame; e io vi darò del pane in cambio del vostro bestiame, se è finito il denaro». Allora essi portarono a Giuseppe il loro bestiame; e Giuseppe diede loro del pane in cambio dei loro cavalli, delle loro greggi di pecore, delle loro mandrie di buoi e dei loro asini. Così fornì loro del pane per quell'anno, in cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell'anno, tornarono da lui l'anno seguente e gli dissero: «Non possiamo nascondere al mio signore che, siccome il denaro è finito e le mandrie del nostro bestiame sono passate in proprietà del mio signore, nulla più resta che il mio signore possa prendere tranne i nostri corpi e le nostre terre. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi, noi e le nostre terre? Compra noi e le nostre terre in cambio di pane, e noi con le nostre terre saremo schiavi del Faraone; e dacci da seminare affinché possiamo vivere e non morire, e il suolo non diventi un deserto». Così Giuseppe acquistò per il Faraone tutte le terre d'Egitto, perché gli Egiziani vendettero ciascuno il proprio campo, poiché la carestia li colpiva gravemente. Così il paese diventò proprietà del Faraone. Quanto al popolo, lo spostò nelle città, da un capo all'altro dell'Egitto; solo le terre dei sacerdoti non acquistò, perché i sacerdoti ricevevano una provvigione assegnata loro dal Faraone e vivevano della provvigione che il Faraone dava loro; per questo essi

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non vendettero le loro terre. Poi Giuseppe disse al popolo: «Ecco, oggi ho acquistato voi e le vostre terre per il Faraone; eccovi del seme; seminate la terra; al tempo del raccolto, ne darete il quinto al Faraone, e quattro parti saranno vostre per la semente dei campi, per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra, e per il nutrimento dei vostri bambini». E quelli dissero: «Tu ci hai salvato la vita! Ci sia dato di trovar grazia agli occhi del mio signore, e saremo schiavi del Faraone». Giuseppe fece di questo una legge nel paese d'Egitto, che dura fino al giorno d'oggi, secondo la quale si deve dare la quinta parte del raccolto al Faraone. Soltanto le terre dei sacerdoti non diventarono proprietà del Faraone.

Giuseppe giura a Giacobbe di seppellirlo coi suoi padri   Così Israele abitò nel paese d'Egitto, nel paese di Goscen; là essi ebbero dei possedimenti,

furono fruttiferi e si moltiplicarono grandemente. Or Giacobbe visse nel paese d'Egitto diciassette anni; e la durata della vita di Giacobbe fu di centoquarantasette anni. Quando il tempo della morte per Israele fu vicino, egli chiamò suo figlio Giuseppe e gli disse: «Deh, se ho trovato grazia agli occhi tuoi, metti la tua mano sotto la mia coscia e usa con me benignità e fedeltà; di grazia, non seppellirmi in Egitto! Ma, quando mi riposerò coi miei padri, portami fuori d'Egitto e seppelliscimi nel loro sepolcro!». Egli rispose: «Farò come tu dici». Allora Giacobbe disse: «Giuramelo». E Giuseppe glielo giurò. Quindi Israele, appoggiandosi al capo del letto, adorò.

Giacobbe benedice Efraim e Manasse   Dopo queste cose, avvenne che fu detto a Giuseppe: «Ecco, tuo padre è ammalato». Così egli

prese con sé i suoi due figli, Manasse ed Efraim. Quando fu riferito a Giacobbe: «Ecco, tuo figlio Giuseppe viene da te», Israele raccolse le sue forze e si mise a sedere sul letto. Allora Giacobbe disse a Giuseppe: «Dio onnipotente mi apparve a Luz nel paese di Canaan, mi benedisse e mi disse: "Ecco, io ti renderò fruttifero, ti moltiplicherò, ti farò diventare una moltitudine di popoli e darò questo paese alla tua discendenza dopo di te, come una proprietà a perpetua". Ora i tuoi due figli, che ti sono nati nel paese d'Egitto prima che io venissi da te in Egitto, sono miei. Efraim e Manasse sono miei, come Ruben, e Simeone. Ma i figli che hai generato dopo di loro saranno tuoi; nel territorio della loro eredità saranno chiamati col nome dei loro fratelli. Quanto a me, mentre tornavo da Paddan, Rachele morì vicino a me durante il viaggio, nel paese di Canaan, a breve distanza da Efrata; e l'ho sepolta là, sulla via di Efrata, che è Betlemme». Quando Israele vide i figli di Giuseppe, disse: «Chi sono questi?». Giuseppe rispose a suo padre: «Sono i miei figli, che DIO mi ha dato qui». Allora egli disse: «Deh, falli avvicinare a me, e io li benedirò». Ora gli occhi di Israele erano offuscati a motivo dell'età, e non ci vedeva più. Giuseppe li fece avvicinare a lui, ed egli li baciò e li abbracciò. Quindi Israele disse a Giuseppe: «Io non pensavo più di rivedere la tua faccia, ma ora DIO mi ha dato di vedere anche la tua discendenza». Giuseppe li ritirò dalle ginocchia di suo padre e si prostrò con la faccia a terra. Poi Giuseppe li prese ambedue: Efraim alla sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse alla sua sinistra, alla destra di Israele, e li fece avvicinare a lui. Allora Israele stese la sua mano destra e la posò sul capo di Efraim che era il più giovane, e posò la sua mano sinistra sul capo di Manasse incrociando le mani, benché Manasse fosse il primogenito. Così benedisse Giuseppe e disse: «Il DIO, davanti al quale camminarono i miei padri Abrahamo e Isacco, il DIO che mi ha pasturato da quando esisto fino a questo giorno, l'Angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi fanciulli! Siano chiamati col mio nome e col nome dei miei padri Abrahamo e Isacco, e moltiplichino grandemente sulla terra!». Or quando Giuseppe vide che suo padre posava la sua mano destra sul capo di Efraim, ciò gli dispiacque; prese quindi la mano di suo padre per levarla dal capo di Efraim e metterla sul capo di Manasse. Giuseppe disse quindi a suo padre: «Non così, padre mio, perché il primogenito è questo; metti la tua mano destra sul suo capo». Ma suo padre si rifiutò; e disse: «Lo so, figlio mio, lo so; anche lui diventerà un popolo, e anche lui sarà grande; tuttavia il suo fratello più giovane sarà più grande di lui, e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni». E in quel giorno li benedisse, dicendo: «Per te Israele benedirà, dicendo: "DIO ti faccia come Efraim e come

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Manasse!"». Così egli pose Efraim prima di Manasse. Poi Israele disse a Giuseppe: «Ecco, io sto per morire, ma DIO sarà con voi e vi ricondurrà nel paese dei vostri padri. Inoltre io do a te una porzione in più che ai tuoi fratelli: quella che conquistai dalle mani degli Amorei, con la mia spada e col mio arco».

Giacobbe benedice i suoi figli  

Poi Giacobbe chiamò i suoi figli e disse: «Radunatevi perché io vi annunci ciò che vi accadrà nei giorni a venire. Radunatevi e ascoltate, o figli di Giacobbe! Date ascolto a Israele, vostro padre! Ruben, tu sei il mio primogenito, la mia forza, la primizia del mio vigore, eminente in dignità ed eminente in forza. Impetuoso come l'acqua, tu non avrai la preminenza, perché sei salito sul letto di tuo padre e l'hai profanato. Egli è salito sul mio letto. Simeone e Levi sono fratelli: le loro spade sono strumenti di violenza. Non entri l'anima mia nel loro consiglio, non si unisca la mia gloria alla loro adunanza! Poiché nella loro ira hanno ucciso degli uomini, e nella loro caparbietà hanno tagliato i garretti ai tori. Maledetta la loro ira, perché è stata violenta, e il loro furore perché è stato crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele. Giuda, i tuoi fratelli ti loderanno; la tua mano sarà sulla nuca dei tuoi nemici; i figli di tuo padre si inchineranno davanti a te. Giuda è un giovane leone; tu risali dalla preda, figlio mio; egli si china, si accovaccia come un leone, come una leonessa; chi osa destarlo? Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando di fra i suoi piedi, finché venga Sciloh; e a lui ubbidiranno i popoli. Egli lega il suo asinello alla vite e il puledro della sua asina alla vite migliore; lava la sua veste nel vino e il suo manto nel sangue dell'uva. Egli ha gli occhi lucenti per il vino e i denti bianchi per il latte. Zabulon abiterà sulla costa dei mari e sarà un rifugio per le navi; il suo confine si estenderà verso Sidone. Issacar è un asino robusto, sdraiato fra gli ovili. Egli ha visto che il riposo è buono e che il paese è gradevole; ha curvato la spalla per portare il peso ed è divenuto un servo del lavoro forzato. Dan giudicherà il suo popolo, come una delle tribù d'Israele. Dan sarà un serpente sulla strada, un aspide sul sentiero, che morde i talloni del cavallo, si che il cavaliere cade all'indietro. Io aspetto la tua salvezza, o Eterno! Gad, una banda di razziatori lo assalirà, ma egli a sua volta li assalirà alle calcagna. Da Ascer verrà il pane saporito ed egli fornirà delizie reali. Neftali è una cerva messa in libertà; egli dice delle belle parole. Giuseppe è un ramo d'albero fruttifero; un ramo d'albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami corrono sopra il muro. Gli arcieri l'hanno provocato, gli hanno lanciato dardi, l'hanno perseguitato; ma l'arco suo è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, (da colui che è il pastore e la roccia d'Israele), dal Dio di tuo padre che ti aiuterà, e dall'Altissimo che ti benedirà con benedizioni del cielo di sopra, con benedizioni dell'abisso che giace di sotto, con benedizioni delle mammelle del grembo materno. Le benedizioni di tuo padre sorpassano le benedizioni dei miei antenati, fino alle cime dei colli eterni. Esse saranno sul capo di Giuseppe e sulla corona di colui che fu separato dai suoi fratelli. Beniamino è un lupo rapace; al mattino divora la preda, e la sera spartisce le spoglie». Tutti questi sono le dodici tribù d'Israele; e questo è ciò che il loro padre disse loro, quando li benedisse. Li benedisse, dando a ciascuno la sua benedizione particolare.

La morte di Giacobbe   Poi Giacobbe ordinò loro e disse: «Io sto per essere riunito al mio popolo; seppellitemi coi

miei padri nella spelonca che è nel campo di Efron l'Hitteo, nella caverna che è nel campo di Makpelah di fronte a Mamre, nel paese di Canaan, quella che Abrahamo comperò col campo da Efron l'Hitteo, come sepolcro di sua proprietà. Là furono sepolti Abrahamo e Sara sua moglie; là furono sepolti Isacco e Rebecca sua moglie, e là io seppellii Lea. Il campo e la caverna che vi si trova furono comperati dai figli di Heth». Quando Giacobbe ebbe finito di dare questi ordini ai suoi figli, ritirò i suo piedi nel letto e spirò, e fu riunito al suo popolo.

Sepoltura di Giacobbe nel paese di Canaan  

Allora Giuseppe si gettò sulla faccia di suo padre e pianse su di lui, e lo baciò. Poi Giuseppe

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ordinò ai medici che erano al suo servizio di imbalsamare suo padre; e i medici imbalsamarono Israele. Ci vollero quaranta giorni perché tale è il tempo necessario per l'imbalsamazione; e gli Egiziani lo piansero settanta giorni. Quando i giorni del lutto fatto per lui furono passati, Giuseppe parlò alla casa del Faraone, dicendo: «Deh, se ho trovato grazia ai vostri occhi, riferite al Faraone queste parole: Mio padre mi ha fatto giurare e mi ha detto: "Ecco, io sto per morire; seppelliscimi nel sepolcro che ho scavato per me nel paese di Canaan". Ora dunque permetti che io salga a seppellire mio padre; poi tornerò». Il Faraone rispose: «Sali e seppellisci tuo padre come egli ti ha fatto giurare». Allora Giuseppe salì a seppellire suo padre; e con lui salirono tutti i servi del Faraone, gli anziani della sua casa e tutti gli anziani del paese d'Egitto, e tutta la casa di Giuseppe, i suoi fratelli e la casa di suo padre. Nel paese di Goscen lasciarono soltanto i loro bambini, le loro greggi e i loro armenti. Con lui salirono pure carri e cavalieri, così da formare un enorme corteo di gente. Come furono giunti all'aia di Atad, che è oltre il Giordano, vi fecero grandi e solenni lamenti; e Giuseppe osservò per suo padre un lutto di sette giorni. Or quando gli abitanti del paese, i Cananei, videro il lutto dell'aia di Atad, dissero: «Questo è un grave lutto per gli Egiziani!». Perciò quel luogo fu chiamato Abel-Mitsraim che è oltre il Giordano. I suoi figli fecero per lui quello che egli aveva ordinato loro. I suoi figli lo trasportarono nel paese di Canaan e lo seppellirono nella spelonca del campo di Makpelah, di fronte a Mamre, che Abrahamo aveva comperato col campo da Efron l'Hitteo, come sepolcro di sua proprietà. Dopo aver sepolto suo padre, Giuseppe tornò in Egitto con i suoi fratelli e con tutti quelli che erano saliti con lui a seppellire suo padre.

Giuseppe rassicura i suoi fratelli  

I fratelli di Giuseppe, quando videro che il loro padre era morto, dissero: «Chissà se Giuseppe non nutra rancore verso di noi, e non ci renda tutto il male che gli abbiamo fatto?». Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire diede quest'ordine dicendo: "Così direte a Giuseppe: Deh, perdona ora ai tuoi fratelli il loro misfatto e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male". Deh, perdona dunque ora il misfatto dei servi del DIO di tuo padre!». Giuseppe, quando gli parlarono così, pianse. Poi vennero anche i suoi fratelli e si gettarono davanti a lui, e dissero: «Ecco, siamo tuoi servi». Giuseppe disse loro: «Non temete; sono io forse al posto di DIO? Voi avete macchinato del male contro di me; ma DIO ha voluto farlo servire al bene, per compiere quello che oggi avviene: conservare in vita un popolo numeroso. Ora dunque non temete; io provvederò il nutrimento per voi e per i vostri figli». Così li confortò e parlò al cuore loro con dolcezza.

Vecchiaia e morte di Giuseppe   Così Giuseppe dimorò in Egitto, egli e la casa di suo padre, e visse centodieci anni. Giuseppe

vide i figli di Efraim, fino alla terza generazione; anche i figli di Makir, figlio di Manasse, nacquero sulle sue ginocchia. Poi Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sto per morire; ma DIO per certo vi visiterà e vi farà salire da questo paese nel paese che promise con giuramento ad Abrahamo, a Isacco e a Giacobbe». Giuseppe fece quindi giurare i figli d'Israele, dicendo: «DIO per certo vi visiterà; allora voi porterete via da qui le mie ossa». Poi Giuseppe morì, in età di centodieci anni; lo imbalsamarono e lo posero in una bara in Egitto. 

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Davide a servizio di Saul

[14]Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul ed egli veniva atterrito da uno spirito cattivo, da parte del Signore. [15]Allora i servi di Saul gli dissero: «Vedi, un cattivo spirito sovrumano ti turba. [16]Comandi il signor nostro ai ministri che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio». [17]Saul rispose ai ministri: «Ebbene cercatemi un uomo che suoni bene e fatelo venire da me». [18]Rispose uno dei giovani: «Ecco, ho visto il figlio di Iesse il Betlemmita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell'aspetto e il Signore è con lui». [19]Saul mandò messaggeri a Iesse con quest'invito: «Mandami Davide tuo figlio, quello che sta con il gregge». [20]Iesse preparò un asino e provvide pane e un otre di vino e un capretto, affidò tutto a Davide suo figlio e lo inviò a Saul. [21]Davide giunse da Saul e cominciò a stare alla sua presenza. Saul gli si affezionò molto e Davide divenne suo scudiero. [22]E Saul mandò a dire a Iesse: «Rimanga Davide con me, perché ha trovato grazia ai miei occhi». [23]Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui.

Davide e Golia

Golia sfida l'esercito israelita

[1]I Filistei radunarono di nuovo l'esercito per la guerra e si ammassarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azeka, a Efes-Dammìm. [2]Anche Saul e gli Israeliti si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono a battaglia di fronte ai Filistei. [3]I Filistei stavano sul monte da una parte e Israele sul monte dall'altra parte e in mezzo c'era la valle.

[4]Dall'accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. [5]Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. [6]Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. [7]L'asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell'asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero. [8]Egli si fermò davanti alle schiere d'Israele e gridò loro: «Perché siete usciti e vi siete schierati a battaglia? Non sono io Filisteo e voi servi di Saul? Scegliete un uomo tra di voi che scenda contro di me. [9]Se sarà capace di combattere con me e mi abbatterà, noi saremo vostri schiavi. Se invece prevarrò io su di lui e lo abbatterò, sarete voi nostri schiavi e sarete soggetti a noi». [10]Il Filisteo aggiungeva: «Io ho lanciato oggi una sfida alle schiere d'Israele. Datemi un uomo e combatteremo insieme». [11]Saul e tutto Israele udirono le parole del Filisteo; ne rimasero colpiti ed ebbero grande paura.

Davide giunge all'accampamento

[12]Davide era figlio di un Efratita da Betlemme di Giuda chiamato Iesse, che aveva otto figli. Al tempo di Saul, quest'uomo era anziano e avanti negli anni. [13]I tre figli maggiori di Iesse erano andati con Saul in guerra. Di questi tre figli, che erano andati in guerra, il maggiore si chiamava Eliab, il secondo Abìnadab, il terzo Samma. [14]Davide era ancor giovane quando i tre maggiori erano partiti dietro Saul. [15]Egli andava e veniva dal seguito di Saul e badava al gregge di suo padre in Betlemme.

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[16]Il Filisteo avanzava mattina e sera; continuò per quaranta giorni a presentarsi. [17]Ora Iesse disse a Davide suo figlio: «Prendi su per i tuoi fratelli questa misura di grano tostato e questi dieci pani e portali in fretta ai tuoi fratelli nell'accampamento. [18]Al capo di migliaia porterai invece queste dieci forme di cacio. Informati della salute dei tuoi fratelli e prendi la loro paga. [19]Saul con essi e tutto l'esercito di Israele sono nella valle del Terebinto a combattere contro i Filistei». [20]Davide si alzò di buon mattino: lasciò il gregge alla cura di un guardiano, prese la roba e partì come gli aveva ordinato Iesse. Arrivò all'accampamento quando le truppe uscivano per schierarsi e lanciavano il grido di guerra. [21]Si disposero in ordine Israele e i Filistei: schiera contro schiera. [22]Davide si tolse il fardello e l'affidò al custode dei bagagli, poi corse tra le file e domandò ai suoi fratelli se stavano bene. [23]Mentre egli parlava con loro, ecco il campione, chiamato Golia, il Filisteo di Gat, uscì dalle schiere filistee e tornò a dire le sue solite parole e Davide le intese. [24]Tutti gli Israeliti, quando lo videro, fuggirono davanti a lui ed ebbero grande paura.

[25]Ora un Israelita disse: «Vedete quest'uomo che avanza? Viene a sfidare Israele. Chiunque lo abbatterà, il re lo colmerà di ricchezze, gli darà in moglie sua figlia ed esenterà la casa di suo padre da ogni gravame in Israele». [26]Davide domandava agli uomini che stavano attorno a lui: «Che faranno dunque all'uomo che eliminerà questo Filisteo e farà cessare la vergogna da Israele? E chi è mai questo Filisteo non circonciso per insultare le schiere del Dio vivente?». [27]Tutti gli rispondevano la stessa cosa: «Così e così si farà all'uomo che lo eliminerà». [28]Lo sentì Eliab, suo fratello maggiore, mentre parlava con gli uomini, ed Eliab si irritò con Davide e gli disse: «Ma perché sei venuto giù e a chi hai lasciato quelle poche pecore nel deserto? Io conosco la tua boria e la malizia del tuo cuore: tu sei venuto per vedere la battaglia». [29]Davide rispose: «Che ho dunque fatto? Non si può fare una domanda?». [30]Si allontanò da lui, si rivolse a un altro e fece la stessa domanda e tutti gli diedero la stessa risposta.

[31]Sentendo le domande che faceva Davide, pensarono di riferirle a Saul e questi lo fece venire a sé.

Davide si offre per accettare la sfida

[32]Davide disse a Saul: «Nessuno si perda d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo». [33]Saul rispose a Davide: «Tu non puoi andare contro questo Filisteo a batterti con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d'armi fin dalla sua giovinezza». [34]Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo custodiva il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. [35]Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la preda dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l'afferravo per le mascelle, l'abbattevo e lo uccidevo. [36]Il tuo servo ha abbattuto il leone e l'orso. Codesto Filisteo non circonciso farà la stessa fine di quelli, perché ha insultato le schiere del Dio vivente». [37]Davide aggiunse: «Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell'orso, mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo». Saul rispose a Davide: «Ebbene và e il Signore sia con te». [38]Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e gli fece indossare la corazza. [39]Poi Davide cinse la spada di lui sopra l'armatura, ma cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: «Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato». E Davide se ne liberò.

La singolar tenzone

[40]Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li

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pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia; prese ancora in mano la fionda e mosse verso il Filisteo.

[41]Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, mentre il suo scudiero lo precedeva. [42]Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto. [43]Il Filisteo gridò verso Davide: «Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone?». E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dei. [44]Poi il Filisteo gridò a Davide: «Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche». [45]Davide rispose al Filisteo: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai insultato. [46]In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri dell'esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. [47]Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché il Signore è arbitro della lotta e vi metterà certo nelle nostre mani». [48]Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. [49]Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. [50]Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. [51]Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga.

[52]Si levarono allora gli uomini d'Israele e di Giuda alzando il grido di guerra e inseguirono i Filistei fin presso Gat e fino alle porte di Ekron. I Filistei caddero e lasciarono i loro cadaveri lungo la via fino a Saaràim, fino a Gat e fino ad Ekron. [53]Quando gli Israeliti furono di ritorno dall'inseguimento dei Filistei, saccheggiarono il loro campo. [54]Davide prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme. Le armi di lui invece le pose nella sua tenda.

Davide vincitore e presentato a Saul

[55]Saul, mentre guardava Davide uscire incontro al Filisteo, aveva chiesto ad Abner capo delle milizie: «Abner, di chi è figlio questo giovane?». Rispose Abner: «Per la tua vita, o re, non lo so». [56]Il re soggiunse: «Chiedi tu di chi sia figlio quel giovinetto». [57]Quando Davide tornò dall'uccisione del Filisteo, Abner lo prese e lo condusse davanti a Saul mentre aveva ancora in mano la testa del Filisteo. [58]Saul gli chiese: «Di chi sei figlio, giovane?». Rispose Davide: «Di Iesse il Betlemmita, tuo servo».

Gelosia di Saul verso Davide

[1]Quando Davide ebbe finito di parlare con Saul, l'anima di Giònata s'era gia talmente legata all'anima di Davide, che Giònata lo amò come se stesso. [2]Saul in quel giorno lo prese con sé e non lo lasciò tornare a casa di suo padre. [3]Giònata strinse con Davide un patto, perché lo amava come se stesso. [4]Giònata si tolse il mantello che indossava e lo diede a Davide e vi aggiunse i suoi abiti, la sua spada, il suo arco e la cintura. [5]Davide riusciva in tutti gli incarichi che Saul gli affidava, così che Saul lo pose al comando dei guerrieri ed era gradito a tutto il popolo e anche ai ministri di Saul.

Il sorgere della gelosia di Saul

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[6]Al loro rientrare, mentre Davide tornava dall'uccisione del Filisteo, uscirono le donne da tutte le città d'Israele a cantare e a danzare incontro al re Saul, accompagnandosi con i timpani, con grida di gioia e con sistri. [7]Le donne danzavano e cantavano alternandosi:

«Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila».

[8]Saul ne fu molto irritato e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: «Hanno dato a Davide diecimila, a me ne hanno dato mille. Non gli manca altro che il regno». [9]Così da quel giorno in poi Saul si ingelosì di Davide. [10]Il giorno dopo, un cattivo spirito sovrumano s'impossessò di Saul, il quale si mise a delirare in casa. Davide suonava la cetra come i giorni precedenti e Saul teneva in mano la lancia. [11]Saul impugnò la lancia, pensando: «Inchioderò Davide al muro!». Ma Davide gli sfuggì davanti per due volte. [12]Saul cominciò a sentir timore di fronte a Davide, perché il Signore era con lui, mentre si era ritirato da Saul. [13]Saul lo allontanò da sé e lo fece capo di migliaia e Davide andava e veniva alla testa del suo gruppo. [14]Davide riusciva in tutte le sue imprese, poiché il Signore era con lui. [15]Saul, vedendo che riusciva proprio sempre, aveva timore di lui. [16]Ma tutto Israele e Giuda amavano Davide, perché egli si muoveva alla loro testa.

Davide e Gionata

Gionata favorisce la partenza di Davide

[1]Davide lasciò di nascosto Naiot di Rama, si recò da Giònata e gli disse: «Che ho fatto, che delitto ho commesso, che colpa ho avuto nei riguardi di tuo padre, perché attenti così alla mia vita?». [2]Rispose: «Non sia mai. Non morirai. Vedi, mio padre non fa nulla di grande o di piccolo senza confidarmelo. Perché mi avrebbe nascosto questa cosa? Non è possibile!». [3]Ma Davide giurò ancora: «Tuo padre sa benissimo che ho trovato grazia ai tuoi occhi e dice: Giònata non deve sapere questa cosa perché si angustierebbe. Ma, per la vita del Signore e per la tua vita, c'è un sol passo tra me e la morte». [4]Giònata disse: «Che cosa desideri che io faccia per te?». [5]Rispose Davide: «Domani è la luna nuova e io dovrei sedere a tavola con il re. Ma tu mi lascerai partire e io resterò nascosto nella campagna fino alla terza sera. [6]Se tuo padre mi cercherà, dirai: Davide mi ha chiesto di lasciarlo andare in fretta a Betlemme sua città perché vi si celebra il sacrificio annuale per tutta la famiglia. [7]Se dirà: Va bene, allora il tuo servo può stare in pace. Se invece andrà in collera, sii certo che è stato deciso il peggio da parte sua. [8]Mostra la tua bontà verso il tuo servo, perché hai voluto legare a te il tuo servo con un patto del Signore: se ho qualche colpa, uccidimi tu; ma per qual motivo dovresti condurmi da tuo padre?». [9]Giònata rispose: «Lungi da te! Se certo io sapessi che da parte di mio padre è stata decisa una cattiva sorte per te, non te lo farei forse sapere?». [10]Davide disse a Giònata: «Chi mi avvertirà se tuo padre ti risponde duramente?». [11]Giònata rispose a Davide: «Vieni, andiamo in campagna».

Uscirono tutti e due nei campi. [12]Allora Giònata disse a Davide: «Per il Signore, Dio d'Israele, domani o il terzo giorno a quest'ora indagherò le intenzioni di mio padre. Se saranno favorevoli a Davide e io non manderò subito a riferirlo al tuo orecchio, [13]tanto faccia il Signore a Giònata e ancora di peggio. Se invece sembrerà bene a mio padre decidere il peggio a tuo riguardo, io te lo confiderò e ti farò partire. Tu andrai tranquillo e il Signore sarà con te come è stato con mio padre. [14]Fin quando sarò in vita, usa verso di me la benevolenza del Signore. Se sarò morto, [15]non ritirare mai la tua benevolenza dalla mia casa; quando il Signore avrà sterminato dalla terra ogni uomo nemico di Davide, [16]non sia eliminato il nome di Giònata dalla

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casa di Davide: il Signore ne chiederà conto ai nemici di Davide». [17]Giònata volle ancor giurare a Davide, perché gli voleva bene e lo amava come se stesso. [18]Giònata disse a Davide: «Domani è la luna nuova e la tua assenza sarà notata perché si guarderà al tuo posto. [19]Aspetterai il terzo giorno, poi scenderai in fretta e ti recherai al luogo dove ti sei nascosto il giorno di quel fatto e resterai presso quella collinetta. [20]Io tirerò tre frecce da quella parte, come se tirassi al bersaglio per mio conto. [21]Poi manderò il ragazzo gridando: Và a cercare le frecce! Se dirò al ragazzo: Guarda, le frecce sono più in qua da dove ti trovi, prendile!, allora vieni, perché tutto va bene per te; per la vita del Signore, non ci sarà niente di grave. [22]Se invece dirò al giovane: Guarda, le frecce sono più avanti di dove ti trovi!, allora và perché il Signore ti fa partire. [23]Riguardo alle parole che abbiamo detto io e tu, ecco è testimonio il Signore tra me e te per sempre».

[24]Davide dunque si nascose nel campo. Arrivò la luna nuova e il re sedette a tavola per mangiare. [25]Il re sedette come al solito sul sedile contro il muro; Giònata stette di fronte, Abner si sedette al fianco del re e il posto di Davide rimase vuoto. [26]Ma Saul non disse nulla quel giorno, perché pensava: «Gli sarà successo un inconveniente: non sarà mondo. Certo, non è mondo». [27]Ed ecco l'indomani, il secondo giorno della luna nuova, il posto di Davide era ancora vuoto. Saul disse allora a Giònata suo figlio: «Perché il figlio di Iesse non è venuto a tavola né ieri né oggi?». [28]Giònata rispose a Saul: «Davide mi ha chiesto con insistenza di lasciarlo andare a Betlemme. [29]Mi ha detto: Lasciami andare, perché abbiamo in città il sacrificio di famiglia e mio fratello me ne ha fatto un obbligo. Se dunque ho trovato grazia ai tuoi occhi, lasciami libero, perché possa vedere i miei fratelli. Per questo non è venuto alla tavola del re». [30]Saul si adirò molto con Giònata e gli gridò: «Figlio d'una donna perduta, non so io forse che tu prendi le parti del figlio di Iesse, a tua vergogna e a vergogna della nudità di tua madre? [31]Perché fino a quando vivrà il figlio di Iesse sulla terra, non avrai sicurezza né tu né il tuo regno. Manda dunque a prenderlo e conducilo qui da me, perché deve morire». [32]Rispose Giònata a Saul suo padre: «Perché deve morire? Che ha fatto?». [33]Saul afferrò la lancia contro di lui per colpirlo e Giònata capì che l'uccisione di Davide era cosa ormai decisa da parte di suo padre. [34]Giònata si alzò dalla tavola acceso d'ira e non volle prendere cibo in quel secondo giorno della luna nuova. Era rattristato per riguardo a Davide perché suo padre ne violava i diritti.

[35]Il mattino dopo Giònata uscì in campagna, per dare le indicazioni a Davide. Era con lui un ragazzo ancora piccolo. [36]Egli disse al ragazzo: «Corri a cercare le frecce che io tirerò». Il ragazzo corse ed egli tirò la freccia più avanti di lui. [37]Il ragazzo corse fino al luogo dov'era la freccia che Giònata aveva tirata e Giònata gridò al ragazzo: «La freccia non è forse più avanti di te?». [38]Giònata gridò ancora al ragazzo: «Corri svelto e non fermarti!». Il ragazzo di Giònata raccolse le frecce e le portò al suo padrone. [39]Il ragazzo non aveva capito niente; soltanto Giònata e Davide sapevano la cosa. [40]Allora diede le armi al ragazzo che era con lui e gli disse: «Và e riportale in città». [41]Partito il ragazzo, Davide si mosse da dietro la collinetta, cadde con la faccia a terra e si prostrò tre volte, poi si baciarono l'un l'altro e piansero l'uno insieme all'altro, finché per Davide si fece tardi. [42]Allora Giònata disse a Davide: «Và in pace, ora che noi due abbiamo giurato nel nome del Signore: il Signore sia con me e con te, con la mia discendenza e con la tua discendenza per sempre». Saul commettte suicido

Battaglia di Gelboe. Morte di Saul

[1]I Filistei vennero a battaglia con Israele, ma gli Israeliti fuggirono davanti ai Filistei

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e ne caddero trafitti sul monte Gelboe. [2]I Filistei si strinsero attorno a Saul e ai suoi figli e colpirono a morte Giònata, Abinadàb e Malkisuà, figli di Saul. [3]La lotta si aggravò contro Saul: gli arcieri lo presero di mira con gli archi ed egli fu ferito gravemente dagli arcieri. [4]Allora Saul disse al suo scudiero: «Sfodera la spada e trafiggimi, prima che vengano quei non circoncisi a trafiggermi e a schernirmi». Ma lo scudiero non volle, perché era troppo spaventato. Allora Saul prese la spada e vi si gettò sopra. [5]Quando lo scudiero vide che Saul era morto, si gettò anche lui sulla sua spada e morì con lui. [6]Così morirono insieme in quel giorno Saul e i suoi tre figli, lo scudiero e ancora tutti i suoi uomini. [7]Quando gli Israeliti che erano dall'altra parte della valle e quelli che erano oltre il Giordano, videro che l'esercito d'Israele era in fuga ed erano morti Saul e i suoi figli, abbandonarono le loro città e fuggirono. I Filistei vennero e vi si stabilirono. [8]Il giorno dopo, quando i Filistei vennero per depredare i cadaveri, trovarono Saul e i suoi tre figli caduti sul monte Gelboe. [9]Essi tagliarono la testa di lui, lo spogliarono dell'armatura e inviarono queste cose nel paese dei Filistei, girando dovunque per dare il felice annunzio ai templi dei loro idoli e a tutto il popolo. [10]Posero poi le sue armi nel tempio di Astàrte e appesero il suo corpo alle mura di Beisan. [11]I cittadini di Iabes di Gàlaad vennero a sapere quello che i Filistei avevano fatto a Saul. [12]Allora tutti gli uomini valorosi si mossero: partirono nel pieno della notte e sottrassero il corpo di Saul e i corpi dei suoi figli dalle mura di Beisan, li portarono a Iabes e qui li bruciarono. [13]Poi presero le loro ossa, le seppellirono sotto il tamarisco che è in Iabes e fecero digiuno per sette giorni.

Samuele 2 Capitolo 1:1-15

Davide apprende la morte di Saul

[1]Dopo la morte di Saul, Davide tornò dalla strage degli Amaleciti e rimase in Ziklàg due giorni. [2]Al terzo giorno ecco arrivare un uomo dal campo di Saul con la veste stracciata e col capo cosparso di polvere. Appena giunto presso Davide, cadde a terra e si prostrò. [3]Davide gli chiese: «Da dove vieni?». Rispose: «Sono fuggito dal campo d'Israele». [4]Davide gli domandò: «Come sono andate le cose? Su, raccontami!». Rispose: «E' successo che il popolo è fuggito nel corso della battaglia, molti del popolo sono caduti e sono morti; anche Saul e suo figlio Giònata sono morti». [5]Davide chiese ancora al giovane che gli portava le notizie: «Come sai che sono morti Saul e suo figlio Giònata?». [6]Il giovane che recava la notizia rispose: «Ero venuto per caso sul monte Gelboe ed ecco vidi Saul appoggiato alla lancia e serrato tra carri e cavalieri. [7]Egli si volse indietro, mi vide e mi chiamò vicino. Dissi: Eccomi! [8]Mi chiese: Chi sei tu? Gli risposi: Sono un Amalecita. [9]Mi disse: Gettati contro di me e uccidimi: io sento le vertigini, ma la vita è ancora tutta in me. [10]Io gli fui sopra e lo uccisi, perché capivo che non sarebbe sopravvissuto alla sua caduta. Poi presi il diadema che era sul suo capo e la catenella che aveva al braccio e li ho portati qui al mio signore».

[11]Davide afferrò le sue vesti e le stracciò; così fecero tutti gli uomini che erano con lui. [12]Essi alzarono gemiti e pianti e digiunarono fino a sera per Saul e Giònata suo figlio, per il popolo del Signore e per la casa d'Israele, perché erano caduti colpiti di spada. [13]Davide chiese poi al giovane che aveva portato la notizia: «Di dove sei tu?». Rispose: «Sono figlio di un forestiero amalecita». [14]Davide gli disse allora: «Come non hai provato timore nello stendere la mano per uccidere il consacrato del Signore?». [15]Davide chiamò uno dei suoi giovani e gli disse: «Accostati e ammazzalo». Egli lo colpì subito e quegli morì. [16]Davide gridò a lui: «Il tuo sangue ricada sul tuo capo. Attesta contro di te la tua bocca che ha detto: Io ho ucciso il consacrato del Signore!».

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Saul commettte suicido

Battaglia di Gelboe, morte di Saul

[1]I Filistei attaccarono Israele; gli Israeliti fuggirono davanti ai Filistei e caddero, colpiti a morte, sul monte Gelboe. [2]I Filistei inseguirono molto da vicino Saul e i suoi figli e uccisero Giònata, Abinadàb e Malchisùa, figli di Saul. [3]La battaglia si riversò tutta su Saul; sorpreso dagli arcieri, fu ferito da tali tiratori. [4]Allora Saul disse al suo scudiero: «Prendi la spada e trafiggimi; altrimenti verranno quei non circoncisi e infieriranno contro di me». Ma lo scudiero, in preda a forte paura, non volle. Saul allora, presa la spada, vi si gettò sopra. [5]Anche lo scudiero, visto che Saul era morto, si gettò sulla spada e morì. [6]Così finì Saul con i tre figli; tutta la sua famiglia perì insieme. [7]Quando tutti gli Israeliti della valle constatarono che i loro erano fuggiti e che erano morti Saul e i suoi figli, abbandonarono le loro città e fuggirono. Vennero i Filistei e vi si insediarono.

[8]Il giorno dopo i Filistei andarono a spogliare i cadaveri e trovarono Saul e i suoi figli che giacevano sul monte Gelboe. [9]Lo spogliarono asportandogli il capo e le armi; quindi inviarono per tutto il paese filisteo ad annunziare la vittoria ai loro idoli e al popolo. [10]Depositarono le sue armi nel tempio del loro dio; il teschio l'inchiodarono nel tempio di Dagon.

[11]Quando gli abitanti di Iabes vennero a sapere ciò che i Filistei avevano fatto a Saul, [12]tutti i loro guerrieri andarono a prelevare il cadavere di Saul e i cadaveri dei suoi figli e li portarono in Iabes; seppellirono le loro ossa sotto la quercia in Iabes, quindi digiunarono per sette giorni.

[13]Così Saul morì a causa della sua infedeltà al Signore, perché non ne aveva ascoltato la parola e perché aveva evocato uno spirito per consultarlo. [14]Non aveva consultato il Signore; per questo il Signore lo fece morire e trasferì il regno a Davide figlio di Iesse. 

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PAPPAFICHI di LUIGI CAPUANA

C'era una volta un ragazzo che sembrava nato proprio per fare il buffone. Già, bastava guardarlo per mettersi a ridere. Testa a pera, con capelli che parevano setole; occhi,

labbra, mani continuamente irrequieti, quasi egli portasse dentro il corpo un congegno che gli impedisse di star fermo.

Ma questo era niente a petto di certi gridi stranissimi - della gola? dello stomaco? - che non si capiva bene donde quella specie di burattino potesse cavarli.

Inoltre, di tratto in tratto, come se qualcuno gli avesse dato un pizzicotto, scattava con balzi e salti, faceva rapide giravolte da sembrare una trottola; e, sùbito, si rimetteva serio serio, impalato, guardando attorno, fissando negli occhi le persone che a quelle smorfie ridevano, ridevano fino a dover gridargli:

- Basta! Basta, Pappafichi! - E allora era il caso che Pappafichi non la finisse più. Perché gli avevano dato quel buffo nomignolo? Perché, durante la stagione dei fichi, egli passava

le giornate scommettendo con tutti: - Venti, trenta, cinquanta fichi, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la

bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui! E lo mostrava. Tutti sapevano anticipatamente di perdere la scommessa; ma era un gran divertimento veder

Pappafichi che lanciava i fichi per aria e, con le mani dietro la schiena, li riceveva in bocca, e li inghiottiva senza sbucciarli, quasi fossero pillolette. Un vassoio, o una cesta, o un paniere; li posava su una seggiola, su uno sgabello; e, un pezzetto guardava, anzi si mangiava con gli occhi i bei fichi freschi là ammucchiati, poi: - E uno! E due! - Un fuoco d'artifizio. I fichi, ripiombandogli in bocca, facevano un piccolo scoppio. - E tre! E quattro! E cinque! - Uno scendeva giù, e l'altro andava su, senza intervalli, finché il vassoio, o la cesta, o il paniere non erano vuotati.

Avrebbero dovuto fargli indigestione, dargli dolori di stomaco: niente! Vinta una scommessa in un posto, si avviava verso un altro. - Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui!

E lo mostrava. Di chi era figlio? Non lo sapeva nessuno. Pareva che non lo sapesse neppur lui. Dov'era nato?

Non lo sapeva nessuno. E se lo domandavano a lui, rispondeva con un gesto che significava: lontano, lontano, lontano!

- Sei piovuto dal cielo? - Può darsi. - E non ti sei rotto il collo? Prendeva la testa tra le mani, la voltava a destra, la rivoltava a sinistra, tirandola in su,

allungando il collo per dimostrare: - Ecco! È sano! - E il gesto era così espressivo,buffo che la gente si sforzava invano di trattenere le risa per evitare che, sùbito dopo, Pappafichi non chiedesse: - Ora datemi un soldo! Due soldi!

Gli servivano per mostrarli nel momento delle scommesse; mostrarli soltanto, perché le rare volte che gli accadeva di perdere, buttava il soldo per aria, lo prendeva in bocca e faceva il verso d'inghiottirlo, come aveva praticato coi fichi. Lo nascondeva sotto la lingua, apriva la bocca, perché vedessero che era andato giù; oppure fingeva che gli era rimasto a mezza gola, e si agitava tutto, facendo strani versacci per provocare le risa. Aveva fin la sfacciataggine di soggiungere:

- Ho perduto un soldo! Peccato! Figuriamoci, dunque, la maraviglia della gente quando, da un giorno all'altro, Pappafichi parve,

per dir così, mutato di bianco in nero, cioè così serio, da non riconoscerlo affatto. - Pappafichi, che t'è accaduto? - Non é questo il mio nome!

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- Qual è? Dillo. - Mi chiamo... E voltava le spalle alla gente. - Pappafichi è malato! - Pappafichi è ammattito! - Pappafichi vuol morire. Non fa ridere più! Lo compiangevano sinceramente. Sembrava che a tutti fosse venuto meno qualcosa, non potendo

più godere le buffonerie di Pappafichi. Non era malato, né ammattito e non aveva punto voglia di morire. Stava soltanto in gran

pensiero per un portamonetino ritrovato. Lo aveva visto su un mucchio d'immondizie, tra bucce di aranci, minuzzoli di carta, foglie di verdura, cocci di ogni sorta. Di pelle rossastra, unto e bisunto, col fermaglio arrugginito, era stato buttato là, pareva, come cosa inservibile; ma per lui poteva passare quasi quasi per nuovo.

Si era forse mai sognato di arrivare un giorno a possederne uno? Quei tre, quattro soldi che formavano qualche volta la sua ricchezza gli sballottavano, mezzo sperduti, in una tasca dei calzoni. Ficcava la mano e doveva brancicare per trovarli in fondo alla tasca. Oh quel portamonetino gli faceva comodo davvero! Giusto quel giorno egli era troppo ricco: possedeva cinque soldi! Lo aperse, e con grande stupore lo vide foderato nell'interno di velluto cremisi nuovo. Meglio! I cinque soldi vi sarebbero stati come Principi!

Disse proprio così. Nell'osservarlo attentamente, si accorse che, in un lato, impresse in oro, si potevano leggere tre

parole: «Chiedi e avrai!». Il suo stupore si accrebbe. Pareva che il portamonetino gli tremasse fra le dita, palpitasse come cosa viva, impaziente nell'attesa di un comando, facendogli luccicar sotto gli occhi le strane parole: «Chiedi e avrai!».

Vi aveva già riposto il suo tesoretto, e stava per chiudere il fermaglio; per chiasso, gli venne l'idea di dire: - Voglio dieci soldi! - Lo chiuse, lo aprì: lo richiuse, lo riaprì. I soldi là dentro erano sempre cinque, i suoi cinque! Se non che, appena serbatoio nella tasca dei calzoni, sentì che il peso di esso era aumentato tutt'a un tratto. Lo cavò fuori, lo aperse e... trattenne a stento uno strillo. Avea detto: - Voglio dieci soldi! - e i dieci soldi erano là.

Egli dormiva in uno stambugino concessogli, per carità, da una vecchietta che gli faceva da madre, e gli diceva spesso:

- Invece di fare il buffone, dovresti lavorare. - Anche questo è lavoro. Intanto bado a crescere! - rispondeva Pappafichi. E così era arrivato a dodici anni. Quella mattina la vecchietta lo vide ritornare insolitamente a casa e chiudersi nello stambugio col

paletto di dentro. Dapprima non ci fece caso. Poi le parve disentir rimescolare delle monete di suono argentino. Stette a origliare: non si era ingannata! Pappafichi si divertiva a rimestare… qualcosa che dava il suono di molte monete di argento. La vecchia non poteva immaginare che si trattasse davvero di monete d'argento. E picchiò all'uscio: - Pappafichi, che rimesti?

Pappafichi aperse l'uscio a fessura: - Nonna, ho trovato questi due scudi. Non so che farmene; ve li regalo. Il rimescolio continuava, ma questa volta il suono era di monete di oro. La vecchietta picchiò

all'uscio: - Pappafichi, che rimesti? Pappafichi aperse di nuovo l'uscio a fessura: - Nonna, ho trovato queste due monete di oro. Non so che farmene; ve le regalo. La chiamava Nonna per rispetto. La vecchia credette che Pappafichi avesse commesso una mala azione, e da dietro l'uscio gli

gridò: - Ah! Pappafichi! Che hai fatto? Non voglio ladri in casa mia! Vattene! Vattene! Non voglio

ladri in casa mia!

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Si sentì un più forte rimescolio di monete; poi Pappafichi venne fuori, con le braccia ciondoloni, in maniche di camicia come soleva andare di estate, scalzo, coi calzoni stretti ai fianchi da una cinghia di cuoio; e, fatta una smorfia, disse:

- Addio, Nonna! Il ladro se ne va! Questo fu il primo dispiacere che il portamonetino gli cagionò: farlo scambiare per ladro! Il

secondo fu di fargli perdere la voglia dei fichi freschi. Pareva fatto a posta! Quell'anno n'erano venuti abbondantissimi, di ogni sorta: lardai, bitontoni, verdoni, asinacci, cavalieri, rossellini, gentili, vettaioli; una maraviglia, tutti col miele in cima. Ma Pappafichi, non che invitar la gente: - Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo! - ora che di qua, di là gridavano: - Ehi, Pappafichi! Si scommette? Guarda che bellezza! - faceva una spallucciata, e non si voltava neppure. Aveva ben altro per la testa!

Chiedeva, e il portamonetino rigurgitava di monete. Aveva scoperto, per caso, che dicendo: - Grazie tante! - le monete rientravano nel portamonete e sparivano. Meglio così? Intanto, tra la paura di perderlo e il non saper che cosa fare con quella fortuna del: «Chiedi e avrai!». Pappafichi aveva smarrito la gaiezza, la tranquillità. Era brutto, era buffo; ma ora, con quella mùtria, sembrava anche più brutto e più buffo.

Gli era venuto, tutt'a un tratto, il desiderio di ricercare i suoi parenti. Doveva averli: non era davvero piovuto dal cielo. E si decise di andare attorno pel mondo, per tentar di rintracciarli. Si rimpannucciò, comperò un paio di scarpe, tutta roba grossolana da non dar nell'occhio, e via.

Si accorse di un omo che gli andava sempre dietro, con una lanternuccia attaccata a una cordicella, e accesa anche di giorno. Lui svoltava una cantonata, e quegli svoltava la cantonata; lui si fermava a guardare un edifizio, una piazza, e quegli si fermava a guardare lo stesso edifizio, la stessa piazza. Lo trovava ogni mattina davanti all'uscio della casa o della locanda dov'era andato ad alloggiare, e se lo sentiva alle spalle, o se lo vedeva allato, sempre con la lanternuccia accesa anche di giorno, quasi la luce del sole non bastasse a fargli scorgere quel che cercava, curvo, frugando dappertutto con gli occhi.

Pappafichi cominciò ad essere atterrito di quella malombra che più non lo lasciava di un passo. - Chi era? Che voleva da lui? E un giorno, bruscamente, glielo domandò.

- Mi fu rubata - rispose quell'omo - la mia buona sorte. L'ho cercata invano da un anno; e neppur ora, che la sento e la fiuto vicina, riesco a trovarla. Mi fu rubato anche il Reuccio mio figlio.

- Siete Re? - Che mi vale? - E in che consisteva quella buona sorte? - In un vecchio portamonetino. - Questo qui? - Questo qui! Pappafichi non aveva potuto far a meno di mostrarglielo e l'omo gliel'aveva levato rapidamente

di mano. Tremante di gioia, però, lo guardava, lo tastava, tutto deluso. - Ah, tu non sei mio figlio il Reuccio! No! No! - Io sono Pappafichi. - Il Reuccio era bello! - Ed io sono brutto, purtroppo! Ma la voce... la voce!... Ma gli occhi, sì, gli occhi!... Dovresti venire con me, dal mago Sabino. Il

cuore mi dice che tu sei il Reuccio mio figlio. Hai addosso la malia di una strega che voleva esser sposata da me per diventare Regina, e che ti portò via, non so dove, forse… forse!...

Pappafichi, udito dal mago Sabino che si trattava proprio di malia e che con un certo bagno sarebbe ritornato com'era una volta, non si rallegrò molto della fortuna di diventare Reuccio. E prima di tentare la prova di quel certo bagno, volle tornare al paesetto dove tutti lo conoscevano e gli volevano bene e farvi :parecchie belle scorpacciate di fichi, per onorare il nomignolo che stava per perdere.

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Lo videro ricomparire con gli stessi cenci, com'era andato via, scalzo, coi calzoni fermati ai fianchi da una cinghia di ,cuoio.

- Venti, trenta, cinquanta, fin cento alla volta; voi ci mettete i fichi, io ci metto prima la bocca e poi la pancia. Se sbaglio, pago un soldo; eccolo qui.

E lo mostrava. Fu una gran festa per tutto il paese. Vassoi, ceste, panieri, mucchi di fichi freschi! E Pappafichi: -

E uno! E due!... - Un fuoco di artifizio! I fichi, ripiombandogli in bocca, facevano un piccolo scoppio. - E tre! - E quattro! - E cinque!... - Uno scendeva giù e l'altro andava su, senza intervalli!... Un'intera settimana.

Pappafichi diventò Reuccio; alla morte del padre, diventò Re. Ma in mezzo ai sopraccapi delle cure del regno egli rammentò quasi ogni giorno le belle scommesse dei fichi freschi. E quand'era la stagione, scendeva nel giardino del palazzo reale, cercava il posto più appartato; e i giardinieri, che avevano ordine di non avvicinarsi, udivano: - E uno! E due! E dieci! E cento!... - lontani mille miglia dal supporre che il Re si divertisse a lanciare in aria i bei fichi fatti cogliere allora allora, e a prenderli in bocca, come quand'era Pappafichi.

Lardai, verdoni, dottati... Bisogna mangiarli sbucciati! Se non vi siete annoiati... Bisogna mangiarli sbucciati!