Buddhismo (di Gianfranco Bertagni)

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Buddhismo Di Gianfranco Bertagni Abbiamo per ora sommariamente presentato alcuni aspetti delle tre religioni monoteistiche, quelle che – per molti versi – sono le più vicine alla nostra storia culturale, alla nostra civiltà e alla sua genesi. Adesso consideriamo, come titolo esemplificativo di differenza radicale rispetto alla cultura monoteistica, gli elementi centrali della dottrina buddhista delle origini, che – lo vedremo chiaramente – tanto differisce da quella che è stata l’esperienza religiosa di cui sopra abbiamo parlato. Siddhattha Gautama Colui il quale diventerà il Buddha (il risvegliato) nacque verso la metà del VI secolo a.C. nella famiglia dei Sakya, figlio di Suddhodana e Maya, nella città di Kapilavattu, la capitale di uno staterello aristocratico tra gli attuali India e Nepal, governato repubblicamente dalla stessa famiglia dei Sakya,. Al re Suddhodana fu detto da un indovino interpellato alla nascita del figlio che il neonato sarebbe in futuro diventato o il più grande degli asceti o il migliore condottiero. Il padre, preoccupato che la profezia prendesse la svolta sfavorevole alla sua successione e convinto che una scelta ascetica viene sempre presa sulla base della constatazione della presenza del male nel mondo, decise di farlo vivere solo all’interno del perimetro della reggia, dando ordine che nessuna scena o incontro con la sofferenza e con il dolore potesse incontrare i suoi occhi. Ma Siddhattha decise di uscirne e fece quattro incontri per lui estremamente decisivi: prima un anziano (e conobbe per la prima volta la condizione di vecchiaia), poi un malato (mai aveva saputo prima che l’uomo potesse essere colpito da malattia), successivamente un morto (anche qui fu la prima occasione in cui il futuro Buddha ebbe conoscenza del destino di ogni essere umano) e in ultimo un asceta, il quale lo colpì positivamente per la serenità del suo sguardo e la radicalità della sua scelta di vita. Decise dunque quale sarebbe stato il suo destino e scappò dalla sua reggia, tagliandosi i capelli, scambiando le sue vesti con quelle di un cacciatore e trasformandosi – anche lui – in asceta. Divenne prima discepolo di un maestro del tempo (Alara Kalama), di cui imparò nei minimi dettagli la sua filosofia e di cui sperimentò fino ai suoi esiti finali la pratica meditativa da lui insegnata, fino a divenire il migliore dei suoi allievi ed ricevere la proposta da parte del maestro di divenire suo aiutante, suo braccio destro. Ma, convinto che non fosse quella la corretta via alla verità, la via che conduceva al definitivo superamento della sofferenza, abbandonò la scuola. Divenne poi discepolo di un altro maestro (Uddaka Ramaputta) e anche qui successe ciò che era accaduto con il suo primo maestro: divenne il suo primo allievo, gli venne proposto qualcosa di analogo a ciò che gli era stato detto da Alara Kalama, ma anche in questo caso e per la stessa motivazione, il futuro Buddha non accettò la lusinga e abbandonò anche questo secondo insegnante. Decise dunque di darsi a un radicale ascetismo. In questo venne accompagnato da altri cinque asceti che videro in lui un modello da imitare. Così passarono 6 anni, tra le pratiche ascetiche più dure. Successe però che egli arrivò a una debilitazione tale che non considerò degna di un uomo nobile. Ruppe così con i suoi digiuni e i suoi cinque compagni interpretarono questa scelta come un tradimento delle intenzioni originarie e lo abbandonarono. Egli rimase così solo. Ormai deciso di voler a tutti i costi sperimentare la verità suprema e liberarsi dalla catena della sofferenza, si sedette sotto il cosiddetto albero del risveglio, una ficus religiosa nei pressi del boschetto di Uruvela, nelle vicinanze del fiume Neranjara ed entrò in meditazione, dicendo a se stesso che non si sarebbe alzato fino a quando non avesse raggiunto la vera comprensione. Secondo certi testi, così stette 49 giorni, al termine dei quali raggiunse il cosiddetto nirvana. All’età di 35 anni, Siddhattha divenne il Buddha.

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Buddhismo Di Gianfranco Bertagni Abbiamo per ora sommariamente presentato alcuni aspetti delle tre religioni monoteistiche, quelle che – per molti versi – sono le più vicine alla nostra storia culturale, alla nostra civiltà e alla sua genesi. Adesso consideriamo, come titolo esemplificativo di differenza radicale rispetto alla cultura monoteistica, gli elementi centrali della dottrina buddhista delle origini, che – lo vedremo chiaramente – tanto differisce da quella che è stata l’esperienza religiosa di cui sopra abbiamo parlato. Siddhattha Gautama Colui il quale diventerà il Buddha (il risvegliato) nacque verso la metà del VI secolo a.C. nella famiglia dei Sakya, figlio di Suddhodana e Maya, nella città di Kapilavattu , la capitale di uno staterello aristocratico tra gli attuali India e Nepal, governato repubblicamente dalla stessa famiglia dei Sakya,. Al re Suddhodana fu detto da un indovino interpellato alla nascita del figlio che il neonato sarebbe in futuro diventato o il più grande degli asceti o il migliore condottiero. Il padre, preoccupato che la profezia prendesse la svolta sfavorevole alla sua successione e convinto che una scelta ascetica viene sempre presa sulla base della constatazione della presenza del male nel mondo, decise di farlo vivere solo all’interno del perimetro della reggia, dando ordine che nessuna scena o incontro con la sofferenza e con il dolore potesse incontrare i suoi occhi. Ma Siddhattha decise di uscirne e fece quattro incontri per lui estremamente decisivi: prima un anziano (e conobbe per la prima volta la condizione di vecchiaia), poi un malato (mai aveva saputo prima che l’uomo potesse essere colpito da malattia), successivamente un morto (anche qui fu la prima occasione in cui il futuro Buddha ebbe conoscenza del destino di ogni essere umano) e in ultimo un asceta, il quale lo colpì positivamente per la serenità del suo sguardo e la radicalità della sua scelta di vita. Decise dunque quale sarebbe stato il suo destino e scappò dalla sua reggia, tagliandosi i capelli, scambiando le sue vesti con quelle di un cacciatore e trasformandosi – anche lui – in asceta. Divenne prima discepolo di un maestro del tempo (Alara Kalama), di cui imparò nei minimi dettagli la sua filosofia e di cui sperimentò fino ai suoi esiti finali la pratica meditativa da lui insegnata, fino a divenire il migliore dei suoi allievi ed ricevere la proposta da parte del maestro di divenire suo aiutante, suo braccio destro. Ma, convinto che non fosse quella la corretta via alla verità, la via che conduceva al definitivo superamento della sofferenza, abbandonò la scuola. Divenne poi discepolo di un altro maestro (Uddaka Ramaputta) e anche qui successe ciò che era accaduto con il suo primo maestro: divenne il suo primo allievo, gli venne proposto qualcosa di analogo a ciò che gli era stato detto da Alara Kalama, ma anche in questo caso e per la stessa motivazione, il futuro Buddha non accettò la lusinga e abbandonò anche questo secondo insegnante. Decise dunque di darsi a un radicale ascetismo. In questo venne accompagnato da altri cinque asceti che videro in lui un modello da imitare. Così passarono 6 anni, tra le pratiche ascetiche più dure. Successe però che egli arrivò a una debilitazione tale che non considerò degna di un uomo nobile. Ruppe così con i suoi digiuni e i suoi cinque compagni interpretarono questa scelta come un tradimento delle intenzioni originarie e lo abbandonarono. Egli rimase così solo. Ormai deciso di voler a tutti i costi sperimentare la verità suprema e liberarsi dalla catena della sofferenza, si sedette sotto il cosiddetto albero del risveglio, una ficus religiosa nei pressi del boschetto di Uruvela, nelle vicinanze del fiume Neranjara ed entrò in meditazione, dicendo a se stesso che non si sarebbe alzato fino a quando non avesse raggiunto la vera comprensione. Secondo certi testi, così stette 49 giorni, al termine dei quali raggiunse il cosiddetto nirvana. All’età di 35 anni, Siddhattha divenne il Buddha.

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Deciso, in forza della sua estrema compassione, della necessità di fare conoscere la verità da lui scoperta ed esperita al genere umano, il Buddha iniziò quindi a predicare la sua dottrina – predicazione che durerà fino alla sua morte. Decise allora di ritornare dai cinque asceti che lo avevano abbandonato per fare conoscere loro la via per l’uscita dal dolore. Essi si trovavano nel “Parco delle gazzelle” di Isipatana, distante sei kilometri da Benares. Qui ebbe luogo il suo primo discorso, chiamato anche “Discorso di Benares”, e che racchiude in modo conciso il nocciolo della dottrina del Buddha. Le quattro nobili verità L’insegnamento del Buddha si presenta come via di mezzo. Due estremi, dice il Buddha, vanno evitati: sia quello dell’abbandono incosciente alle brame che quello dell’ascetismo estremo. Bisogna quindi seguire una via mediana, la sola che porta alla vera vittoria sulla sofferenza. Questa via è enucleata nelle cosiddette quattro nobili verità . La prima nobile verità consiste nel ritenere che la vita sia intessuta della condizione di dolore. La seconda nobile verità riguarda l’origine del dolore: la brama. La terza nobile verità è la verità intorno alla cessazione del dolore ed è la diretta conseguenza della seconda nobile verità, ovvero. Essa dice: la soppressione del dolore consiste nel distacco dalla brama. La quarta nobile verità presenta la via che conduce alla cessazione del dolore. Essa consiste in una serie di otto indicazioni: il nobile ottuplice sentiero, di cui ora presenteremo sommariamente gli elementi. Retta visione. Consiste nel riconoscimento delle quattro nobili verità considerate come la perfetta e precisa descrizione della realtà delle cose; è quindi – potremmo dire – il fondamento teorico su cui si fonda tutta la pratica buddhista successiva. Retta risoluzione. È il piano del proposito fermo: ci si decide di astenersi dalle brame, dall’astio, dalla crudeltà. È quindi la spinta verso un certo tipo di pratica. Retta parola. Qui iniziamo a entrare nell’aspetto etico del messaggio del Buddha. Retta parola significa astenersi dalla menzogna, dalla denigrazione, dall’offesa e dal vaniloquio. Cioè dal non imporre a denti stretti il proprio ego contro gli altri attraverso l’arma della parola. Retta azione. La pratica etica continua nell’ambito dell’agire. Ci si astiene dal togliere la vita agli esseri viventi, dal prendere il non dato (che è qualcosa di sottilmente diverso dal semplice non rubare), dal comportamento scorretto nella sfera dell’amore. Retti mezzi di vita. Qui si conclude la dimensione morale dell’ottuplice sentiero. Questo aspetto riguarda il modo in cui ci si guadagna da vivere. È necessario che la propria attività lavorativa non produca sofferenza: non si può guadagnarsi da vivere in modo illegale, ricorrendo alla sopraffazione, alla violenza, all’inganno. Quindi attività quali la caccia, la prostituzione, il commercio di armi, ecc. non sono permesse. Retto sforzo. Qui entriamo nella parte dell’ottuplice sentiero dedicata alla pratica mentale. Qui ci si addestra in realtà a quattro tipi di sforzi: che cattivi stati mentali non ancora sorti nella mente, non abbiano a sorgere; che cattivi stati mentali già sorti, vengano abbandonati; che stati mentali salutari non ancora sorti, abbiano a sorgere; che stati mentali salutari, una volta sorti, persistano e si moltiplichino. Si tratta quindi di un’attenta indagine dei propri pensieri, una costante osservazione di ciò che è prodotto dalla propria mente, per accettare ciò che va accettato e allontanare ciò che è considerato deleterio per il percorso di liberazione. Retta consapevolezza. Si tratta dell’attenzione pura, della presenza mentale. Qui abbiamo il centro della pratica meditativa. Il praticante deve mantenere uno stato di attenzione osservante, che sarebbe auspicabile si mantenesse in qualche modo non solo durante la pratica meditativa, ma anche nella vita quotidiana. Questa attenzione va applicata al corpo, alle sensazioni, alla mente e agli oggetti mentali. La consapevolezza di cui qui si parla è uno stato di attenzione non giudicante che si applica quindi ai vari fenomeni psico-fisici nel loro semplice presentarsi nel qui e ora.

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Si comincia quindi con il corpo, iniziando dall’osservazione del respiro, passando poi alle varie posizioni in cui si può venire a trovare il corpo. Si passa poi a un più sottile screening delle parti del corpo, dai piedi fino alla testa. Si passa poi alle sensazioni, passando da uno stato succube di esse, fatta spesso di distrazione e di inconsapevolezza, a una condizione di osservazione. Attraverso la classica suddivisione delle sensazioni secondo il buddhismo, provando una sensazione piacevole, il praticante sarà consapevole di provare una sensazione piacevole; provando una sensazione spiacevole, sarà consapevole di provare una sensazione spiacevole; provando una sensazione neutra, sarà consapevole di provare una sensazione neutra. Successivamente vi è la consapevolezza della mente, cioè l’accorgersi in che stato essa si trova (se è in uno stato di brama, di avversione, di confusione, di concentrazione, di esaltazione, ecc.). In ultimo vi è la consapevolezza degli oggetti mentali, in altre parole: i pensieri coscienti. Retta concentrazione. Si tratta dell’ultimo fattore dell’ottuplice sentiero. Consiste in una intensificazione del fattore precedente, la retta consapevolezza, e si riassume nella penetrazione progressiva – attraverso la pratica meditativa – di quattro cosiddetti “assorbimenti” (jhana), attraverso i quali la mente del praticante passa da uno stato di concentrazione su se stessa (primo jhana), a una condizione di abbandono del ragionamento della mente raziocinante (secondo jhana), a uno stato in cui cessa anche quella gioia sensibile legata alla quiete esperita (gioia che denuncia ancora l’essere affascinati e succubi dai mutevoli stati emotivi), all’ultimo assorbimento (il quarto) dove viene superato qualsiasi dualismo, in cui l’equilibrio raggiunto è perfetto. Peculiarità dell’insegnamento buddhista Rispetto alle religioni che abbiamo considerato fino ad ora, il buddhismo originario ha elementi di grande differenza. Prima di tutto il suo carattere eminentemente antropocentrico. Il Buddha è una persona normale che raggiunge la liberazione e comprensione totale della verità attraverso il suo semplice sforzo e impegno. Secondariamente la condizione di nirvana che è l’esito massimo del percorso buddhista non può essere accostabile ai diversi modi in cui la vita eterna è stata descritta nei tre monoteismi. Ciò è motivato dal fatto che, mentre in questi ultimi, l’individualità della persona permane anche dopo la sua morte (che sia il suo destino paradisiaco o infernale), nel buddhismo invece (e su questo vi è pieno accordo con l’induismo) l’individualità sfuma, si perde, si scioglie come (metafore spesso usate nei testi di questa tradizione) il sale nell’acqua o la goccia nell’oceano. O meglio: volendo essere più precisi, dobbiamo dire che per il buddhismo non esiste in realtà nessun io che viene perduto nel nirvana, per il semplice motivo che l’io è solo un’illusione, non essendo mai esistito. Più correttamente dovremmo dire che il nirvana è l’abbandono definitivo dell’illusione di avere un io. È proprio questa illusione che, secondo il buddhismo, è alla base del ciclo delle nascite, delle morti e delle rinascite; è proprio questo rimanere attaccati al – usando una terminologia buddhista – “io e mio” che si permane in una condizione di sofferenza. In realtà l’io non esiste, non esistendo nulla di stabile, fisso nell’essere umano; credere di avere un io è solo causato dallo stato di ignoranza (avijja ) proprio di ogni uomo. Il buddhismo invece ritiene che l’individuo sia costituito da cinque aggregati (khanda) in perenne mutevolezza: la forma (cioè l’organismo fisico e i sei organi di senso – il buddhismo, come l’induismo, aggiunge ai nostri classici cinque organi, anche la mente); le sensazioni (cioè gli effetti prodotti dai sensi una volta che entrano in contatto con uno dei loro oggetti); le percezioni (la consapevolezza delle sensazioni stesse, cioè l’atteggiamento di desiderio, avversione o indifferenza nei confronti di questa o quella sensazione); le funzioni mentali (ovvero i condizionamenti mentali, quella serie di imprint culturali, riflessi inconsci, abitudini, reazioni automatiche, ricordi subconsci presenti in ogni essere umano); in ultimo la coscienza, attraverso la quale si conoscono i fenomeni e si ha esperienza del mondo (la si potrebbe definire come quell’aggregato che tiene le fila degli altri quattro khanda). Vediamo come tutto ciò sia estremamente lontano dalla credenza nell’esistenza di un’anima

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nell’uomo, così come concepita nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islam. Poi abbiamo visto che il problema centrale per il Buddha è la sofferenza e la sua eliminazione. Altri problemi di ordine metafisico, filosofico in generale vengono considerati questioni non pertinenti per la soluzione della vera questione per il Buddha. Qui è possibile riscontrare un approccio – tipico del Buddhismo delle origini – molto distante da qualsiasi preoccupazione teologica. Non c’è dio che ti possa salvare, sembra suggerire il Buddha: sta solo all’essere umano risolvere il suo problema. Questo ci ricorda un elemento della storia delle religioni: non tutte le religioni sono teiste, cioè non tutte credono nell’esistenza di uno o più dei. Il caso del Buddhismo è l’esempio più lampante tra le religioni a-teiste. Un altro tratto caratteristico del Buddhismo e che lo pone su un altro piano rispetto alle religioni monoteiste è il suo ritenersi non una dottrina a cui identificarsi, ma come un puro strumento. È famosa la metafora della zattera usata dallo stesso Buddha per descrivere il suo insegnamento: la zattera ha la funzione di traghettare all’altra riva. Ma una volta giunti ad essa, stolto sarebbe chi se la mettesse sulla testa e così continuasse il suo viaggio: “Vi ho mostrato, o monaci, come l’insegnamento sia simile a una zattera, la quale è costruita allo scopo di traghettare e non di mantenercisi attaccati”. Questo ci ricorda ciò che può essere definita l’estrema pragmaticità del buddhismo. Quando il popolo dei Kalama pose al Buddha la questione della pluralità degli insegnamenti delle varie scuole filosofiche, dei vari maestri, dei tanti sacerdoti induisti e della difficoltà di comprendere quale potesse essere la verità tra le così tante offerte, la sua risposta fu estremamente anti-tradizionale, pratica e assolutamente non fideista: “Non fatevi influenzare da mirabolanti racconti, né dalla tradizione, né dal sentito dire. Non fatevi convincere dall’autorità dei testi religiosi, né dalla mera logica o dalle supposizioni, né dal piacere della speculazione intellettuale, né dalla plausibilità, né dall’idea «questo è il mio maestro». Ma, Kalama, dopo averle attentamente esaminate, accettate soltanto quelle cose che avete sperimentato e trovato giovevoli e lasciate perdere, invece, le cose che presentano caratteristiche insane”. Altro aspetto che differenzia l’insegnamento del Buddha da tante religioni è l’assoluta mancanza di norme di tipo ritualistico: Buddha rifiuta i riti, li considera inutili, puri formalismi, che non hanno alcuna funzione per la liberazione. Del resto il Buddha non si presenta tanto quanto un sacerdote tipicamente religioso, piuttosto invece come un medico. Un medico speciale: un medico della mente, una sorta di terapeuta. Le quattro nobili verità ci parlano di una malattia: la sofferenza. La prima verità è la sua diagnosi: definizione della malattia, cioè il dolore. La seconda verità è l’eziologia, cioè la causa della malattia (la brama). La terza verità è la guarigione, cioè il motivo della cessazione di questa causa (l’eliminazione della brama); e in ultimo la quarta nobile verità è la terapia, ovvero il mezzo per ottenere la guarigione da questa malattia (l’ottuplice sentiero). Motivi del successo del Buddhismo in Occidente Cosa fa del Buddhismo qualcosa di vicino a un certo sentire occidentale moderno, che lo rende così affascinante a molti? Abbiamo già ripetuto più volte che la questione principale per il Buddha è la sofferenza e il suo superamento. Questo naturalmente è qualcosa di appetibile in un’ottica quale quella moderna, tesa febbrilmente all’eliminazione delle negatività presenti nel corso della vita. L’uomo soffre, è nel dolore e cerca un modo di uscirne: questo accomuna l’istanza dell’uomo in quanto tale con la prima e la quarta nobile verità. C’è poi la caduta della metafisica e delle certezze ideologiche, politiche, filosofiche, religiose, tipica dell’era contemporanea. A tutto questo viene incontro quella che abbiamo detto essere l’estrema pragmaticità del Buddhismo. Va considerata anche la scientificità del Buddhismo. Il Buddha, come dicevamo, si presenta come una sorta di medico e anche l’incedere delle sue argomentazioni che possiamo leggere nei suoi discorsi hanno qualcosa di molto simile a una dialettica logicamente stringente, convincente, affine

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alla struttura persuasiva dei dialoghi platonici. Il suo discorso si presenta quasi come una concatenazione di sillogismi. Ma la vicinanza tra Buddhismo e scienza non si ferma solo alle origini di questa religione. Spesso si sono notati e studiati paralleli tra le nuove acquisizioni della scienza contemporanea e gli insegnamenti buddhisti. Abbiamo anche già ricordato l’approccio antropocentrico del Buddhismo, in linea con un’epoca – la nostra – che pone l’uomo come giudice di tutto, al centro della natura, un uomo solo dopo la fuga degli dei, degli ideali, delle certezze. Un uomo che sente che la propria salvezza può venire solo da sé. Non va dimenticata neppure la scarna gerarchizzazione del mondo buddhista, la mancanza di un’autorità religiosa, di un clero che indichi ciò che è corretto o meno tra le interpretazioni del messaggio del Buddha, l’assenza di dogmi incontrovertibili. Tutto questo è visto con una certa simpatia da quei molti che oggi provano fastidio davanti a qualsiasi clero religioso, morale, culturale in genere che si arroghi il diritto di imporre ciò che è giusto o sbagliato, vero o falso. La stessa morale buddhista non si presente come una serie di devi e non devi, ma come una via di purificazione, di indicazioni con una propria finalità all’interno di un percorso di liberazione. Un altro punto di forza del Buddhismo agli occhi di un membro della nostra società è a necessità esplicitamente ribadita dagli esponenti di questa spiritualità di una pulizia e di una quiete interiore, tanto più in un mondo dai ritmi velocissimi quale è il nostro, in cui è difficile rintracciare ordine, misura, senso. Da qui anche il successo delle pratiche meditative che si sono sviluppate in questa tradizione, per acquietare la mente, per liberarla dalle sue tensioni, dai suoi filtri, dal suo rumore incessante di sottofondo. In ultimo non si può negare che la visibilità a livello massmediatico della figura dell’attuale Dalai Lama ha giocato un ruolo non piccolo nella conoscenza del Buddhismo nel mondo occidentale. Anche se non si può certamente considerare il Dalai Lama il leader spirituale di tutti i buddhisti e nemmeno di tutto il Buddhismo tibetano (essendo presenti in Tibet anche altre scuole buddhiste esterne al lamaismo), egli, con i suoi innumerevoli viaggi, le sue partecipazioni a conferenze, seminari, convegni, con la sua prolifica produzione editoriale, è diventato agli occhi di moltissimi occidentali la porta attraverso la quale hanno iniziato un percorso di approfondimento della cultura buddhista (tibetana o meno).