BRUCE WEBER Viaggio Nel Sogno Americano

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L'opera di uno dei grandi fotografi di moda degli anni '80 che ha rivoluzionato il modo di fare fotografia fashion.

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Copyleft Marco Maraviglia; consentite la trasmissione, distribuzione e stampa

gratuite nella sua forma itegrale. Vietata la commercializzazione.

Testo:Marco [email protected]

Grafica e Impaginazione:Marco Maraviglia

Realizzato nel Gennaio 2011

www.photopolisnapoli.org

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BRUCE WEBER(Greensburg 29 Marzo 1946)

Un viaggionel sognoamericano

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Bicipiti, pettorali torniti e tartarughe ventrali, ragazzoni sportivi che scoppiano di salute.

Ragazzi comuni. Studenti o nullafacenti che non ambiscono probabilmente nemmeno a conquistare una copertina di Vogue-Uomo perché per loro è sufficiente palestrarsi per rimorchiare.Divertirsi. Niente droghe, tanto sport, vita sana, sesso e un po’ libertini, finti scambisti, stare insieme come gattoni che si coccolano tra di loro rasentando l’omosessualità, senza invidiare la bellezza dell’amico, senza stare a contare l’addominale. Col viso che sembra la fotocopia di un giovane Chet Baker, o di un “moderno” Michael Bubblè come i fratelli di Matt Dillon (posarono per un commercial di El Charro). Poi se un fotografo li recluta per realizzare la campagna di Ferrè o di YSL, tanto di guadagnato, in soldi e divertimento.

Una felicità estrema, che contrasta l’obesità nota dell’americano, che contrasta con il disagio dei reduci

del Vietnam abbandonati a se stessi dal sistema americano. Ma fomentano il mito americano. L’America che è scritta nei libri di storia americana, nei film, di

quelli degli “arrivano i nostri”. Dove è tutto big, large, better, tutto okay. Dove si continua a credere che il telefono sia stato inventato da un americano (Alexander Graham Bell) e non dall’italiano Antonio Meucci.Dove l’industria di Hollywood acquista i diritti dei film stranieri per riadattarli con gli stereotipati simboli (la bandiera USA che compare in tutti i film americani, ad esempio) e abitudini di vita americani imposti dalla società dei consumi. “La società dello spettacolo”, come direbbe il filosofo francese, politicamente scorretto, Guy Debord.

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La società dell’apparenza, il fake. Costruire la bella facciata per indurre al consumo, indurre

all’omologazione, per la gioia delle industrie che imboccano il popolo con i prodotti che “si devono acquistare”. Dove l’FBI vigila affinchè tutto questo equilibrio non venga intaccato. Perché gli interessi economici del potere industriale sono superiori al reale benessere del popolo.

Forse per questo Bruce Weber ebbe un vasto consenso mediatico negli anni ‘80. Abbracciava la cultura di

massa popolare, l’edonismo reganiano, divenendo presto un cult-photographer che caratterizzava le sue immagini pubblicitarie non per il prodotto da promuovere, ma per l’aver coltivato un sogno. Il sogno americano.Dove l’ombra dell’AIDS di quegli anni è tenuta lontana senza terrorismi psicologici ma pubblicizzando stili di vita sani o tenendo attivo il desiderio con propaganda catalizzatrice. Come le foto di Weber in cui l’immagine del gioco sessuale è più narcisismo, emulazione fisico-sportiva, esplicito contatto di corpi anche se promiscuo, sviluppando un erotismo mentale nell’osservatore che placherebbe il desiderio dell’atto sessuale.E’ un gioco di seduzione dell’immaginario collettivo, in cui Arte e Consumo interagiscono facendo leva sulla “cultura psichica” del “villaggio globale” che secondo le teorie di Marshall Mc Luhan caratterizza la società delle comunicazioni di massa.

“Ma poi inizi a conoscere i dettagli. Scopri che quel brav’uomo che aveva sempre una gomma da masticare in più per te si è completamente ammattito e ha ucciso la moglie, che l’ex sacerdote della chiesa in cui sei cresciuto è un alcolizzato che ha fracassato tre automobili. Vieni a sapere che i genitori del tuo migliore amico, che erano sempre perfetti, stanno divorziando…. Nessuno in America ha una vita normale.”Da America, un diario visivo;Andy Warhol; Donzelli Editore.

Andy Warhol apprezzava il lavoro di Bruce Weber, gustandone probabilmente con ironia il

messaggio che propagavano le sue immagini che ricalcavano l’onda della Pop-Art e ne pubblicò alcune interviste sulla sua rivista Interview. Lo stesso Andy coinvolse Bruce nel 1975 per fotografare i Jackson Five, il gruppo dei fratelli adolescenti di Michael Jackson, sempre per la sua rivista. Ed è forse la sua prima foto più importante della sua carriera. La collaborazione a Interview di Weber, continuò poi negli anni.

Nel 1969 i genitori gli impedirono di andare al raduno musicale del secolo: Woodstock. Lui si chiuse

nella sua camera maturando l’idea che avrebbe fatto il fotografo. Almeno questo racconta la leggenda.

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Nato Nel 1946, a 20 anni, si trasferisce da Greensburg a New York per studiare cinema

e fotografia alla New York University. Al Greenwich Village, noto quartiere frequentato da ex hippies e artisti che iniziavano a creare il movimento della Pop-Art. Conosce in un caffè Diane Arbus (fotografa di moda ma più famosa per aver ritratto dei freaks), la quale lo presenta a Lisette Model che lo accoglie tra i suoi studenti alla New School for Social Research. Nel frattempo, si mantiene posando come modello per vari fotografi, tra cui Richard Avedon.Nel 1974 inizia un sodalizio di vita e lavoro con Nan Bush, sua attuale moglie, che da subito diventa suo agente e collaboratrice.

Nel 1973 espone per la prima volta in una mostra collettiva e solo un anno dopo allestisce la sua

prima personale. Alla fine degli anni 70, pubblica le sue prime fotografie di moda su GQ e inizia a lavorare per Calvin Klein (sodalizio durato fino agli anni ‘90), producendo campagne pubblicitarie che desteranno scandalo e stupore per il suo inconfondibile stile omoerotico. Nell’arco di pochi anni Weber è diventato un cult photographer, lavorando per le più importanti testate del mondo: Vogue, GQ, Vanity Fair, Elle, Life, Interview, e Rolling Stone. È conosciuto dal grande pubblico per le sue campagne pubblicitarie per Versace, El Charro, Pirelli, Revlon e Ralph Lauren in cui da subito pretende di visionarne i layout per scegliere lui stesso tagli ed inquadrature delle sue immagini, rivendicandone la paternità come fotografo-artista.Ha inoltre girato videoclips per i Pet Shop Boys e Chris Isaak e svolto attività

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di video-documentarista: celebre è il suo cortometraggio su Chet Baker “Let’s Get Lost” in cui si evince il feeling instaurato tra lui e il sassofonista, tipico di ogni buon fotografo di ritrattistica che possiede sviluppato senso di empatia e di conoscenza del genere umano.Ha esposto in tutto il mondo in gallerie e musei e ha pubblicato una 20ina di libri di nudo e ritratto (tra i quali i celebri Shufly, The Chop Suey Club, A House is not a Home, Gentle Giants, O Rio de Janeiro).

Bruce Weber diede negli anni’80 uno scossone non indifferente al settore editoriale-pubblicitario

della fotografia fashion che ormai si era arenato su idee ormai obsolete. La sua impronta consisteva nel creare storie, concetti, sensazioni umane nelle immagini, facendo superare il limite del prodotto stesso. Le sue “storie” sono appunto il sogno ludico, l’edonismo attraverso il quale passa il messaggio del prodotto, contribuendo alla creazione del brand, dell’immagine di esso.Immagini prevalentemente in bianconero e in high-key per sottolineare la solarità delle sue “storie” e per richiamare atmosfere da dolce vita del divismo americano che va dagli anni ’30 ai ‘60, talvolta leggermente virate con intonazioni seppia.

È probabilmente il primo tra i fotografi del boom della pubblicità degli anni ’80, ad effettuare

casting senza servirsi di modelli/e professionisti, ma selezionandoli dai Campus, battendo palestre, piscine, gare di beach-volley, come testimonials di vita reale, per poter meglio plasmare le sue atmosfere non senza tirar fuori la loro spontaneità, studiandone i movimenti, la voce, la personalità, senza dover quindi subìre condizionamenti delle personalità professionali di modelli/e già affermati/e. Una pratica questa, che gli costerà in quel periodo, di impressionare anche 25 rullini alla volta per raggiungere lo scatto memorabile e che sarà completato da didascalie con nome dei modelli, professione o ambizione, città di provenienza, per rendere il “sogno” fruibile dall’osservatore.

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Il mosso, il sovraesposto, lo sfocato è volutamente utilizzato da Weber per dare senso del ritmo, dell’azione sul set

in cui si è realizzato lo shooting. Spesso il tutto corredato graficamente da citazioni fatte da documenti (objets trouvés) come foto d’epoca a cui il fotografo si è ispirato, le didascalie di cui sopra (luogo, nome del modello…), scontrini fiscali, disegni del suo collaboratore Richard Giglio, rafforzando il significato delle immagini e rendendo l’osservatore più partecipe alla fruizione visiva e mentale. Collages che appaiono alla fine come taccuini di viaggio, diari di bordo dove l’empatia fotografo/modelli cattura maggiormente la curiosità e l’attenzione del fruitore finale.

Fotografo ma artista, neobarocco, camaleontico in quanto il suo stile non è sempre lo stesso, Bruce

Weber è stato forse il fotografo che meglio ha saputo avvicinare il pubblico americano cogliendone le sue aspettative e riuscendole ad interpretare grazie all’indipendenza, che si è creato fin dall’inizio, da art-director e stilisti che hanno comunque apprezzato il suo modo di operare.Il suo amico dalle altrettante grandi intuizioni, Andy Warhol, aveva visto bene adottandolo nella scuderia di Interview.

“La pubblicità per me è una forma d’espressione artistica del nostro tempo. Guardo la pubblicità come andrei a visitare i musei” –Andy Warhol-

Marco Maraviglia.

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