Brigaglia M Storia Della Sardegna 2

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Storia e Società

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  • Storia e Societ

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  • 2002, 2006, Gius. Laterza & Figli

    Prima edizione 2006

    Lopera deriva dalla serie Storie regionali, progetto

    Laterza/IMES curato e coordinato da Francesco Benigno e Biagio Salvemini

    LEditore a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti

    sulle immagini riprodotte, l dove non stato possibile rintracciarli per chiedere

    la debita autorizzazione

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  • Editori Laterza

    Storia della Sardegna2. Dal Settecento a oggi

    a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu

    Manlio Brigaglia Luciano Carta Luciano MarrocuGian Giacomo Ortu Paola Pittalis Luisa Maria Plaisant

    Sandro Ruju Simone Sechi Salvatore TolaGianfranco Tore Raimondo Turtas

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  • Propriet letteraria riservataGius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

    Finito di stampare nel gennaio 2006Poligrafico Dehoniano -Stabilimento di Bariper conto della Gius. Laterza & Figli SpaCL 20-7838-4ISBN 88-420-7838-7

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  • PREFAZIONE

    Da almeno due secoli la Sardegna intensamente frequentata daogni tipo di studiosi della sua geografia e della sua storia, del suo am-biente naturale e umano: eppure in un recente passato e ancora og-gi vista da alcuni come una terra immobile, estranea alla dimen-sione del tempo, quasi prigioniera dei ritmi ciclici della natura.Unimmagine che stata condivisa anche da uomini che pure hannoofferto importanti contributi alla cultura sarda, come ad esempioGiuseppe Dess, lautore di Paese dombre, che nella sua prefazionea una fortunata antologia sulla Scoperta della Sardegna affermava nel1969: certo pi facile scrivere la storia naturale della Sardegnache la storia delluomo in Sardegna, pi facile parlare delle formichee delle api che popolano lisola, che parlare della storia dei giudica-ti. Perci, se penso agli uomini, li vedo come formiche o api, li vedocome specie che dura immutata nei millenni.

    Questa idea di una Sardegna senza storia, o anche di una Sarde-gna preistoria vivente, quasi ultimo relitto in Europa di un mon-do arcaico e barbaro, si afferma in realt soltanto nel Settecento,quando, confrontati con quelli dellevoluto Piemonte che nel 1720vi ha preso il posto della Spagna, i costumi e i modi di vita dellisolaappaiono assai pi arretrati, spesso quasi incomprensibili. Secondoquanto ne racconta il tedesco Joseph Fuos, cappellano di un reggi-mento sabaudo, che nel 1780 scrisse uno dei primi reportage sullaSardegna, il console inglese Taverner sarebbe stato solito esclamare:Se alla Borsa di Londra volessi raccontare ci che ho visto e uditoin Sardegna, sarei preso per un grandissimo bugiardo.

    Chiss cosa avr visto il buon console di Sua Maest britannicaper meravigliarsi tanto! La ricerca storica ci dice soltanto che ri-spetto a un modello di societ e di Stato come quello piemontese,che andava emergendo anche fra le potenze europee, la Sardegna,

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  • che lungo tutto il Seicento aveva patito, sia pure di riflesso, la lungadecadenza della Spagna, non poteva non apparire in deficit sia sot-to il profilo economico sia sotto il punto di vista pi generale dellacivilt. La sua condizione di arretratezza era insomma effettiva,come testimoniavano anche numerosi contemporanei; ma a unosguardo straniero, che vedeva le sue popolazioni soltanto come og-getto di dominio, questa condizione poteva apparire addirittura co-me la conseguenza di una inferiorit razziale. Una inferiorit che peri pi benevoli derivava essenzialmente da fattori ambientali come li-solamento, il clima, la malaria, lo spopolamento ecc., per i pi male-voli discendeva da vere e proprie tare genetiche o da costituzionalidifetti morali. Nel primissimo Ottocento, per un magistrato severoe reazionario come Joseph de Maistre il sardo era persino sprovvi-sto del pi bellattributo delluomo, la capacit di migliorarsi.

    Non erano comunque molti che arrivavano a giudizi cos radica-li. Anzi, in altri visitatori pi o meno occasionali dellisola poteva an-che insorgere un senso di simpatia per comportamenti e costumi cheapparivano pi franchi, pi genuini, pi sani rispetto a quelli diunEuropa proprio allora interessata dalle conseguenze di una rivo-luzione industriale che costringeva uomini, donne e bambini ai rit-mi massacranti del lavoro di fabbrica, e di unurbanizzazione cheaffollava gli spazi e allontanava il vivere quotidiano dalla campagnae dalla natura. Gi nel primo Ottocento, insomma, la Sardegna co-mincia ad emergere come quel magico scenario di spazi vuoti ma lu-minosi e di un ricco e colorato folklore che sul finire del Novecentone faranno un eldorado del turismo internazionale. Pochi luoghi,opponendosi alle suggestioni assimilatrici della civilt, hanno con-servato tanta parte del loro primitivo carattere, scriveva nel 1828 ilcapitano inglese William Henry Smith nella sua Relazione sullisoladi Sardegna.

    Ma anche questa suggestione del primitivo, questo fascino del bel-lo naturale hanno il loro risvolto negativo: ed , ancora una volta, il ri-schio di smarrire il profilo reale di una umanit che certo patisce con-dizioni di arretratezza e spesso di autentica miseria soprattutto daquando, a partire da met Ottocento, la tumultuosa affermazione del-la propriet privata va sottraendo a molti villaggi i tradizionali dirittiduso collettivo dei loro territori , ma che ben lontana dallesserefuori del tempo. Quegli stessi usi, riti, costumi e manufatti che at-traggono e talora incantano il visitatore forestiero non solo non sono

    VI Prefazione

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  • fossili di tempi remoti ma, anzi, sono ricchissimi di storia. Soltantoverso la fine dellOttocento, grazie ai nuovi metodi di studio dellapoesia e del canto, della musica e della danza, delle credenze e dei ma-nufatti tradizionali, matura la cultura necessaria per capire quanto laSardegna sia collegata, per ciascuna delle manifestazioni del suo folk-lore, allintera civilt del Mediterraneo. E forse soltanto in questi ul-timi decenni si comincia ad intendere come lintero patrimonio delletradizioni sarde abbia anche una sua profonda unit: non in quan-to prodotto di unanima o di un ethnos sardi, ma in quanto deposi-to, risultato di una esperienza di vita complessa e stratificata e insie-me largamente comune o condivisa entro il breve spazio insulare. Lastessa capacit dellisola di rielaborare secondo un ritmo peculiare eoriginale gli apporti esterni pi volte sottolineata da un grande et-nologo come Alberto Mario Cirese nei suoi fondamentali studi sulletradizioni popolari sarde non pu non derivarle da questa significa-tiva coesione interna delle sue popolazioni.

    Eppure tra i pi resistenti luoghi comuni sulla Sardegna c an-che quello di un suo doppio isolamento: isolamento rispetto alle-sterno, che deriva dalla condizione insulare, e isolamento nel suostesso interno, per la chiusura cantonale delle diverse sub-regionistoriche, separate una dallaltra dalla stessa geografia le alte mon-tagne, le valli profonde, i fiumi difficili da guadare e facili a strari-pare, le strade inesistenti o impercorribili.

    La verit unaltra. Gi nellet del Bronzo le relazioni della Sar-degna nuragica si espandono in tutto il Mediterraneo, dal mondo mi-ceneo a quello iberico, dalle coste tirreniche dellItalia alla Sicilia.Nella successiva et del Ferro i contatti si fanno pi intensi soprattut-to con i malfidati Fenici, preludio delle prime occupazioni stra-niere, da parte degli stessi Fenici e subito dopo dei Cartaginesi.

    Se la Sardegna non stata isolata in questa alba della sua storia,quando mai lo sar in seguito? Non certo in et romana, quandosembra che le sue citt e i loro abitanti maturino persino una certavocazione per le attivit di mare, n nel Medioevo, al tempo dei giu-dicati, quando inserita nei sapienti giochi di mercato (politico edeconomico) di Pisa e Genova, n durante i centocinquantanni di do-minio dei Catalano-Aragonesi, quando diventa una tappa importan-te della loro rotta delle isole che va dalle Baleari alle isole egee e alLevante.

    Di vero isolamento (dallesterno) della Sardegna si pu parlare

    Prefazione VII

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  • soltanto per il periodo in cui lIslam rende il Mediterraneo infre-quentabile per le navi cristiane, latine o bizantine, e cio tra lVIII eil X secolo, prima che con lanno Mille esploda lintraprendenzamercantile delle Repubbliche marinare italiane. Non per niente que-sto , in effetti, anche il periodo pi oscuro della storia sarda, un bu-co nero di quasi mezzo millennio sul quale ancora sappiamo trop-po poco.

    Laltro isolamento (quello interno), che si esprime come chiusurae separazione delle sue diverse parti, ha un fondamento reale sol-tanto per il centro montano delle Barbagie, appena lambito dalla ro-manizzazione e rimasto di fatto indipendente oltre la caduta dellIm-pero romano dOccidente. La stessa affermazione della lingua latina,da cui pure discende direttamente la lingua sarda, la pi latina del-le lingue neolatine, piuttosto tarda e si verifica pi con la cristianiz-zazione che con una conquista militare, romana o bizantina.

    Quella barbaricina (gi i Romani parlavano di civitates Barbariaeper indicarne le popolazioni) dunque anche larea in cui sembraconservarsi pi a lungo riconoscibile il fondo etnico sardo, ad ascen-denza berbera, libica e punica, e in cui restano pi a lungo operantii fenomeni di quel sincretismo pagano-cristiano che in Sardegna haun risalto maggiore rispetto allo stesso Mezzogiorno italiano. Le Bar-bagie non sono comunque n cos vaste n cos popolose da far ac-cettare lidea di una opposizione strutturale tra montagna e pianura.Semmai si pu parlare di un dualismo ideologico tra un centro mon-tano che simbolicamente comprende tutto il mondo pastorale ,nel quale si sarebbe raccolto e conservato il nucleo pi genuino eresistente dellethnos sardo, e il resto dellisola, pi esposto alle in-fluenze e alle corruzioni esterne. Lidea del mondo pastorale co-me deposito e riserva di una sardit pi autentica e meno permeabi-le alle influenze (specie a quelle negative) della civilt europea si af-ferma soprattutto tra fine Ottocento e primo Novecento, quandolallevamento acquista nuovo vigore per lo sviluppo dellindustriacasearia, a capitale quasi tutto continentale. anche il periodo incui Nuoro assume, soprattutto per lopera di artisti come la narra-trice Grazia Deledda, il poeta Sebastiano Satta e lo scultore France-sco Ciusa, i connotati di una Atene sarda che polarizza lattenzio-ne degli studiosi, non solo italiani.

    Nonostante i suoi scopi normalmente venali e le sue manifesta-zioni spesso efferate, lo stesso banditismo considerato da unam-

    VIII Prefazione

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  • pia letteratura come una forma di ribellione sociale, o addirittura co-me una sorta di resistenza nazionale ai padroni che vengono dalmare, primo fra tutti lo Stato unitario. In un suo famoso discorso alSenato del 1953 Emilio Lussu, il maggiore e pi lucido esponentedellautonomismo democratico isolano, definisce il brigantaggio sar-do come lultima discendenza e la degenerazione e la corruzione diquella che stata per tanti secoli la resistenza nazionale isolana, la re-sistenza delle comunit dei pastori della montagna, contro linvasio-ne straniera. Ma Lussu parla appunto criticamente di degenera-zione e di corruzione e si guarda bene dalleffettuare quella assi-milazione tra pastore e bandito che dettata invece da chi, insoffe-rente di una realt che sembra rifiutare pi di ogni altra una pienaomologazione ai modelli e ai valori della societ di mercato, ha tut-to linteresse a criminalizzare lintero mondo pastorale isolano.

    loperazione compiuta sistematicamente da certa criminologiapseudo-scientifica che impazza sulla scena italiana nei decenni a ca-vallo del Novecento e fornisce qualche motivazione in pi a inter-venti meramente repressivi nelle zone interne. Bisognerebbe far ve-dere a Orgosolo, a Orani, a Fonni scrive Paolo Orano in una suaridevole Psicologia della Sardegna (1895), un libro abbastanza esem-plare di questa scienza che il governo ha molti bersaglieri e mol-ti ma molti carabinieri... cos che si fa con i selvaggi; bisogna farsentire loro il peso della forza, per Dio!

    Lantica Romnia, intendendo con questo termine linsieme del-le zone di pianura e di collina dellisola, smarrisce indubbiamente as-sai prima del centro montano i primitivi profili tribali e gentilizi co-me quelli che hanno alimentato la civilt megalitica dei nuraghi, del-le tombe di giganti, dei pozzi sacri ed largamente assoggettataalleconomia a base schiavistica della villa, lazienda agricola roma-na. Dopo la caduta dellImpero dOccidente e per alcuni secoli essa quindi ricoperta da una fitta trama di queste fattorie signorili,laiche o ecclesiastiche, che utilizzano il lavoro servile. Soltanto a par-tire dallXI e XII secolo i villaggi contadini si emancipano via via daqueste case o domus signorili e aprono lepoca delle comunit divillaggio, che si prolunga attraverso i secoli sino allabolizione delfeudalesimo, gi ben dentro lOttocento.

    In questa lunga fase storica anche i villaggi di montagna, che era-no rimasti pressoch indenni dalla schiavit romana e dalla servitmedievale, sono assoggettati alla giurisdizione feudale, ma al pari dei

    Prefazione IX

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  • centri di pianura possono anche sviluppare una ricchissima espe-rienza di forme di autogoverno comunitario e di gestione collettivadelle risorse del territorio. Cos i villaggi pastorali e i borghi conta-dini attivano un intenso e costante scambio politico con i maggioripoteri del feudo e dello Stato. E nonostante la frammentazione deifeudi che sono diverse decine in tutta lisola si creano anche lecondizioni di una maggiore circolazione interna di uomini, bestiamie merci, e in definitiva di una maggiore unificazione culturale. I si-stemi di agricoltura e di allevamento in uso, come la bidatzone e latransumanza, contribuiscono a loro volta a ridurre la distanza tra lamontagna e la pianura, tra il mondo pastorale e il mondo contadino,rendendo sostanzialmente unitaria la vicenda storica delle campagnesarde in et moderna.

    Sorte quasi sempre sulla linea di costa, in rapporto diretto con imovimenti e i traffici mediterranei e dunque con funzioni premi-nenti di avamposti militari, di luoghi di raccolta di materie prime edi distributrici di merci, le citt sarde, mai numerose, hanno a lungopatito dessere considerate come dei corpi estranei e di frequenteperfino ostili rispetto al resto dellisola. vero che esse si dispongo-no sul territorio e mutano (spesso radicalmente) la propria popola-zione in rapporto agli interessi militari e commerciali dei conquista-tori di turno: questo vale per le citt-approdo fenicie e puniche co-me per le citt-colonia romane, per le citt-fortezza pisane e geno-vesi come per le citt-amministrazione spagnole. Ci non toglie chei centri urbani sardi siano stati pure, sempre, tramite e canale dei pidiversi apporti esterni: non necessariamente negativi, se vero, adesempio, che il patrimonio architettonico isolano vario e ricco pro-prio in rapporto agli stili stranieri che lo hanno successivamenteispirato e informato. Un carattere che soprattutto evidente nelle ar-chitetture det giudicale, frutto talora pregevole di una persistentee vitale dialettica tra modelli importati e rielaborazione locale, mache si coglie facilmente anche nelle espressioni dellarte e dellarti-gianato in et aragonese e spagnola, prodotto di una contaminazio-ne tra cultura dimportazione e cultura autoctona che alimenta laformazione di una civilt artistica sarda destinata ad assumere ca-ratteri di originalit.

    A partire dallet spagnola, con la fondazione nella prima metdel Seicento delle due Universit di Sassari e Cagliari, e soprattuttocon la continua circolazione di mercanti, funzionari, militari e stu-

    X Prefazione

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  • denti sardi nellambito degli smisurati confini dellimpero spagnolo,gli scambi e gli intrecci di cultura si fanno cos intensi che divienesempre pi difficile discernere nelle manifestazioni della civilt edellarte isolane lapporto esterno dal contributo locale.

    vero: neppure il rapporto prima con la Spagna e poi con il Pie-monte strappa del tutto lisola a una condizione di relativa periferi-cit; anche il bilancio finale di queste due dominazioni presenta piombre che luci. Nondimeno, gli studi pi recenti sulla societ sardatra Cinquecento e primo Ottocento stanno portando in superficie lagrande ricchezza delle sue articolazioni e delle dinamiche civili e po-litiche. Le nuove ricerche mostrano inoltre a dispetto dei molti, re-sistenti pregiudizi che la Sardegna non (fortunatamente) rimastaimmune da nessuna delle grandi correnti di cultura e di pensiero chetra il Rinascimento e lIlluminismo hanno profondamente modifica-to il paesaggio morale e mentale dellEuropa.

    Tutto va dunque verso la costruzione di una nuova immagine del-la Sardegna: unimmagine nella quale la realt prevalga sul mito, lastoria sulla natura, la complessit sul luogo comune. Unimmaginenuova, che contribuisca per la sua parte allaffermazione di una co-scienza di s dei sardi, di una loro identit morale e culturale, privadi ogni supponenza nazionalista, aperta alla collaborazione con le al-tre componenti del paese Italia e dellUnione europea e al dialo-go con tutti gli altri popoli e tutte le altre culture.

    Del resto, mentre una recente legge della Regione sarda sulla cul-tura e la lingua della Sardegna opera nel senso di una ripresa e di unariqualificazione dellintero lascito culturale della storia isolana, mol-ti giovani studiosi, imprenditori e lavoratori vanno investendo le lo-ro migliori energie nei settori economici tecnologicamente pi avan-zati. Ancora una volta, insomma, il futuro della Sardegna si giocanella dialettica vitale tra vecchio e nuovo, perch senza la disposi-zione ad accogliere linsegnamento della storia non pu esserci svi-luppo intelligente e a misura duomo, qui come altrove.

    Prefazione XI

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  • STORIA DELLA SARDEGNA

    2. DAL SETTECENTO A OGGI

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  • LA SARDEGNA SABAUDA: TRA RIFORME E RIVOLUZIONE

    di Gian Giacomo Ortu

    1. Tra Spagna e Austria

    Il 1 novembre 1700 si spegne Carlo II, lultimo sovrano spagno-lo della dinastia degli Asburgo. In assenza di un successore diretto siapre quel lungo e sanguinoso conflitto tra diversi pretendenti al tro-no che coinvolge tutte le maggiori potenze europee e va sotto il nomedi guerra di successione spagnola. La sua conclusione definitiva, con ilpatto di Londra del 2 agosto 1718, sancisce la fine della preponde-ranza spagnola in Italia e d inizio al periodo dellegemonia austriaca.

    Il patto di Londra assegna la Sardegna alla casa ducale dei Savoia,che con essa acquista anche il titolo regio. In effetti Vittorio AmedeoII era gi stato insignito di questa dignit in seguito al trattato diUtrecht del 1713, che gli aveva attribuito il Regno di Sicilia. Ma que-sto possesso di breve durata, sino appunto al patto di Londra, men-tre lunione tra Piemonte e Sardegna segner i destini dello Stato sa-baudo sino alla formazione, nel 1861, del Regno dItalia. Nei rove-sci di fortune della guerra di successione spagnola c per anche,per la Sardegna, loccasione di sperimentare il dominio dellAustria.Nellagosto del 1708 una flotta anglo-olandese sbarca a Cagliari letruppe dellarciduca Carlo dAsburgo, dal 1704 re di Spagna, con ilnome di Carlo III, per volont di una coalizione di Stati guidata dal-lAustria e dallInghilterra, mentre la coalizione avversa, guidata dal-la Spagna e dalla Francia, ha riconosciuto il trono spagnolo al fran-cese Filippo dAngi, che ha preso il nome di Filippo V.

    La conquista austriaca dellisola resa pi facile dalle divisionidellaristocrazia sarda, una parte della quale, guidata dal marchese

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  • di Villasor, don Artaldo dAlagon, manifesta subito il suo favore perle pretese di successione del principe asburgico. La componente cheparteggia per Filippo V invece capeggiata dal marchese di Laconi,don Francesco di Castelv. Come gi nel Seicento, Alagon e Castelvsi ritrovano su sponde opposte, a conferma della profondit di unafrattura che ha attraversato e continua ad attraversare lintera nobiltsarda.

    Comunque sia, il conte di Sifuentes, nuovo vicer della Sardegnain nome di Carlo III dAustria, non fatica pi di tanto ad occuparelintera isola, affrettandosi quindi a dispensare premi e riconosci-menti ai suoi sostenitori. E onora anzitutto del titolo di Grande diSpagna il marchese di Villasor, che pareggia cos il suo conto con ilrivale marchese di Laconi che a quel rango era stato elevato pocotempo prima da Filippo V. Tra gli altri nobili favoriti dai nuovi do-minatori c il tempiese don Francesco Pes, che ottiene il titolo dimarchese di Villamarina e il feudo sulla baronia di Quartu, da oltredue secoli incorporata nel demanio regio. Pi in generale, la breveparentesi austriaca si segnala soprattutto per lo scrupolo con cuiVienna si occupa di estrarre risorse dallisola, ad esempio acquisen-do nel 1714 il monopolio dei tabacchi che le rende subito tra i 14 ei 16.000 scudi lanno, e distribuendo come feudi una buona parte delrealengo. Lopinione popolare in merito al passaggio dalla Spagna al-lAustria consegnata ai posteri da una felice quartina in gallurese:

    Pal noi non vha middori, [Per noi non c migliore,N impolta lu chi ha vintu, n importa chi ha vinto,Sia iddu Filuppu Quintu sia lui Filippo Quintoo Crrulu imperadori. o Carlo imperatore.]

    La pace di Utrecht del 1713 e il trattato di Rastadt del 1714 por-tano al riconoscimento sul trono di Spagna di Filippo V, mentre Car-lo dAsburgo, che intanto asceso al trono imperiale dAustria conil nome di Carlo VI (1711), si vede confermato il possesso della Sar-degna, assieme a quello di territori molto pi appetibili: il ducato diMilano, il Regno di Napoli e la parte dei Paesi Bassi destinata a for-mare lattuale Belgio. LAustria alla Sardegna avrebbe preferito, inverit, la Sicilia, molto pi popolosa e ricca e inoltre contigua al Me-ridione dItalia. Ma solo questione di tempo, perch la preda piambita le presto consegnata, su un piatto dargento, dalla stessa

    4 Storia della Sardegna. 2. Dal Settecento a oggi

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  • Spagna, che con il cardinale Giulio Alberoni, primo ministro di Fi-lippo V, tenta una riconquista dei perduti domini italiani.

    La nuova impresa militare del leone spagnolo, che non vuole ri-nunciare a giocare in Europa un ruolo di grande potenza, cominciaproprio dalla Sardegna. La difesa austriaca si rivela fragile ed inetta,Cagliari si arrende senza combattere e lisola si rif spagnola facil-mente e senza traumi. Per poco tempo, comunque, perch la revan-che della Spagna si spegne con la distruzione della sua flotta ad operadegli Inglesi, nel 1718 a Capo Passero, e subito dopo la Sardegna an-che formalmente, con il gi citato patto di Londra, tolta allAustria eassegnata al Piemonte, che a sua volta la riceve senza gradimento.

    2. Unisola povera e sconosciuta

    Non difficile spiegare la delusione dei Savoia per il nuovo ac-quisto. Intanto la Sardegna nota per le sue limitate risorse econo-miche, tratte nella massima parte da unagricoltura e da una pasto-rizia fortemente arretrate. Una stima di Luigi Einaudi le attribuisce,per quegli anni, un sesto del valore finanziario della Sicilia: 8 milio-ni di lire contro 48 milioni e mezzo. Lo Stato sabaudo, per giunta,ha uno sbocco sul mare ancora molto ridotto e non dispone di unapotenza navale in grado di sostenerne le eventuali ambizioni medi-terranee. La difesa militare dellisola potrebbe perci rivelarsi o im-possibile o molto onerosa, sottraendo comunque mezzi ed energieper la realizzazione della maggiore ambizione dei Savoia, che restaquella di estendersi nella pianura padana, verso la ricca Lombardia.

    La possibilit di utilizzare la Sardegna come pedina di scambio perconseguire i suoi obiettivi pi tradizionali sar una costante dellazio-ne diplomatica della monarchia sabauda: in tutta coerenza, peraltro,con una concezione dinastica e patrimoniale dello Stato che condi-visa da tutte le case regnanti dEuropa. Neppure deve scandalizzare,dunque, che i primi sforzi del governo piemontese siano indirizzati aconsolidare il possesso malcerto dellisola, piuttosto che a migliorar-ne le condizioni economiche e civili. Tanto pi che lo Stato sabaudoresta ancora sulla scala europea una piccola, seppure intraprendente,potenza e che le clausole di cessione dalla Spagna al Piemonte (ma at-traverso lAustria, perch Davide non umilii Golia) impongono ai Sa-

    G.G. Ortu La Sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione 5

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  • voia il rispetto dei possessi feudali degli aristocratici spagnoli e la con-servazione degli ordinamenti tradizionali dellisola.

    Certo , tuttavia, che il primo contatto tra i Piemontesi e i Sardinon dei migliori. Un paese e una cultura ancora sospesi tra Franciaed Italia faticano non poco a trovare la chiave di comprensione di unpaese e di una cultura largamente spagnolizzati, inscritti in un oriz-zonte di valori, saperi ed usi assai differenti. E nella difficolt dellacomprensione, si sa, lunico rimedio appare spesso luso della forza.

    Specialmente nei confronti del banditismo le cui manifestazio-ni, gi endemiche, sono state acutizzate dalle divisioni tra fautori del-la Spagna e fautori dellAustria lunica linea dazione perseguibileappare quella della repressione militare. Sotto questo profilo, me-morabile o famigerato (dipende dal punto di vista) appare special-mente il governo del vicer marchese di Rivarolo, che tra il 1735 e il1738 avrebbe condannato al patibolo 432 criminali e ne avrebbemandato alle galere altri 3000. Alcuni vicer piemontesi scrivono aTorino di 400-500 omicidi compiuti ogni anno nellisola, e persinodi 1000 e pi nelle annate pi sanguinose. Qualche esagerazione de-ve esserci, in tutte queste cifre, posto che nel 1728 la Sardegna con-ta circa 310.000 abitanti, e ci troveremmo dunque di fronte ad untasso di violenza davvero inaudito. Ma visto che loggi assomiglia an-cora molto allo ieri, limmagine di uno stato di emergenza continuoche i vicer trasmettevano a Torino non doveva essere del tuttoinfondata.

    Nondimeno Vittorio Amedeo II, preoccupato tanto delle conse-guenze politiche e diplomatiche di un eventuale dissenso della feu-dalit sarda, ancora largamente legata alla Spagna, quanto di unospreco di risorse e di energie in azioni intempestive ed inefficaci perdifetto di conoscenza dellisola, ordina costantemente ai suoi uffi-ciali in Sardegna di condursi con prudenza e moderazione, rispet-tandone istituzioni, leggi e consuetudini.

    3. I primi quarantanni: un bilancio

    Un rispetto che in molti casi , peraltro, soltanto formale, comeper il ruolo attribuito allufficio del vicer, proprio della monarchiaspagnola ma non dello Stato piemontese. Esso aveva avuto sino al-lora una eminenza ed una autonomia dazione giustificate in parte

    6 Storia della Sardegna. 2. Dal Settecento a oggi

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  • dalla distanza della Sardegna da Madrid, in parte dal posto margi-nale dellisola nellimmenso impero spagnolo. Mentre ora il vicer,se da un lato pu fare soltanto quanto gli viene ogni volta ordinatoda Torino, dallaltro esercita per un potere pi incombente e mo-lesto, perch la Sardegna certo una colonia povera e arretrata,ma rappresenta nondimeno buona parte del territorio dello Stato sa-baudo ed una grossa preoccupazione sociale e politica.

    In definitiva i vicer piemontesi hanno minore prestigio e mino-re autonomia dal centro dei vicer spagnoli, ma hanno anche unmaggior potere reale e una maggiore indipendenza dalle pressionidei ceti privilegiati isolani. Questi sono stati daltronde privati dellostrumento principale per lespressione e la manifestazione delle lorovolont e dei loro interessi, e cio del Parlamento, che non statoconvocato nel tormentato periodo della guerra di successione spa-gnola e che i sovrani piemontesi non disconoscono in quanto istitu-zione (tanto da meditarne a pi riprese una riconvocazione), ma chenon si decidono mai a richiamare alle sue antiche funzioni, n per ot-tenere improbabili incrementi dellimposizione fiscale, n per solle-citare un maggior consenso delle lite nobiliari, cittadine ed eccle-siastiche. Permane soltanto la consuetudine di convocare ogni 3 an-ni le prime voci dei tre Stamenti per la conferma del donativo, fis-sato nellultimo Parlamento del 1698-99 a 60.000 scudi lanno.

    Il 31 dicembre 1721 istituito a Torino il Supremo consiglio di Sar-degna, che eredita le attribuzioni del consiglio dAragona det spa-gnola e sovrintende perci a tutte le questioni di maggiore inciden-za politica nel governo dellisola e svolge inoltre la funzione di tri-bunale supremo, cui possibile il ricorso in ultima istanza per tuttele cause civili, penali e feudali. Nellapparato di governo locale vainfine segnalato a lato del vicer acquista un rilievo eminente lin-tendente generale, cui affidato man mano il governo dellintera eco-nomia isolana, a partire dallamministrazione dei beni dello Stato.

    Il giudizio degli storici sui primi 40 anni del governo sabaudo del-la Sardegna generalmente negativo. Ed vero che, a prescinderedai molti studi, relazioni, informative, ecc., prodotti dai vari uffici efunzionari cui occorre comunque prestare attenzione perch met-tono in luce uno stile di governo che rifugge dallimprovvisazione ,non sono molti gli elementi di novit introdotti in questo periodo daiPiemontesi nella societ isolana. Tra essi vanno almeno segnalati: laformazione di un bilancio unico di tutte le entrate ed uscite, che met-

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  • te ordine in una amministrazione finanziaria dellisola che gli Spa-gnoli avevano tenuta divisa in pi rami ed uffici; la creazione di unservizio interno di poste pi efficiente; lemanazione nel 1755 dipi precisi regolamenti dei compiti e delle competenze dei funzio-nari piemontesi nellisola; e, infine, listituzione nel 1738 delle Tap-pe di insinuazione degli atti notarili (analoghe agli attuali Uffici delregistro), che ben distribuite in tutto il territorio dellisola conferi-scono maggiore certezza e affidabilit alle attivit di notariato, in cuinon erano infrequenti pratiche di circonvenzione di incapaci, di ma-nipolazione delle trasmissioni ereditarie, di truffa nelle transazionidei beni immobili.

    A met secolo il governo piemontese si sforza anche di ripopola-re alcune plaghe pi deserte dellisola. Lunico vero successo perlinsediamento nellisola sulcitana di San Pietro di una colonia di Ta-barchini (oriundi genovesi provenienti dallisoletta tunisina di Ta-barca), realizzato peraltro per iniziativa del vicer Rivarolo che evi-dentemente non si occupava soltanto di banditi, visto che a lui si de-vono anche le Tappe di insinuazione. Ma avrebbe fatto tutto per avi-dit di denaro, come sosterr nellOttocento il canonico GiovanniSpano, che laccuser daver lasciato lisola portandosi dietro un belgruzzolo, 120.000 scudi, pari allimporto di due anni di donativo?Peccato che lo Spano non dichiari le sue fonti, vizio che condividecon molti altri storici sardi del suo tempo.

    Tornando alla fondazione di Carloforte (nome che deriva da Car-lo Emanuele III, re dal 1730 al 1773), questa cittadina destinata asviluppare attivit di mare di una certa importanza, quali la pesca deltonno, ma rappresenta appunto uneccezione nel lungo seguito dicolonizzazioni fallite: a Montresta, nel Bosano, nel 1750 (con Gre-co-corsi), a SantAntioco nel 1754 (con Greci), nel salto sulcitano diOridda nel 1755 (con Maltesi), a Santa Sofia, nel Sarcidano, nel1757, allAsinara nel 1758, ecc. La causa di quasi tutti questi insuc-cessi duplice: la scarsit di mezzi impiegati, che non consente ai co-loni di far fronte ai disagi del primo periodo di insediamento (mala-ria compresa), e lostilit delle popolazioni confinanti, specie dei pa-stori che invadono e mettono a sacco, a pi riprese, i nuovi centri,come succede a Montresta e a Santa Sofia.

    Lidea che sta dietro il progetto di ripopolare lisola con coltiva-tori forestieri quella della scarsa attitudine dei Sardi alla coloniz-zazione del territorio: unidea in parte sbagliata, dal momento che

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  • nel Seicento nascono o rinascono per iniziativa dei contadini indi-geni decine di villaggi, ma in parte giusta, perch le consuetudini ru-rali dellisola sono imperniate sul sistema di coltivazione estensivodella bidatzone. Questo sistema ha prodotto nel tempo un particola-re equilibrio tra la cerealicoltura e il pascolo ovino, la cui rottura pro-voca sempre una reazione immediata, pi o meno violenta, dei pa-stori. Lesperienza delle colonie da questi devastate sar perci allabase dellopinione sempre pi convinta nel governo sabaudo dellanecessit di ridurre quei diritti comunitari duso della terra che con-sentono la conservazione del pascolo brado e impediscono laffer-mazione di aziende agricole pi moderne.

    Intanto, per, lagricoltura isolana sottoposta alle sollecitazionidi un incremento pi vigoroso della popolazione, che passa dalle310.000 unit del 1728 alle 360.000 del 1751. Negli anni Cinquantadel Settecento il raccolto annuale di grano si assesta attorno a1.370.000 starelli, consentendo di alimentare una corrente di espor-tazione del tutto benefica per le casse dello Stato. Tra il 1723 e il 1726,ad esempio, le entrate derivanti dai diritti sul grano esportato ascen-dono a 190.500 scudi lanno, pi di tre volte le entrate del donativo.

    4. Lora del Bogino

    Nel 1759 incaricato di sovrintendere agli Affari di Sardegna ilconte Giambattista Lorenzo Bogino, che dal 1742 segretario dellaGuerra e dal 1750 ministro di Stato. Uomo di governo capace e de-terminato, Bogino si da tempo convinto della necessit di rianima-re lamministrazione dellisola dallinterno, attraverso la formazionedi un ceto dirigente capace sia di intendere i bisogni locali, sia di in-terpretare le esigenze di efficienza proprie dello Stato sabaudo. Delresto, un quadro internazionale pi stabile e che al Piemonte pro-mette poco di nuovo, sia in termini positivi (lagognata espansionesulla Lombardia, ormai solidamente austriaca), sia in termini nega-tivi (leventuale revanche della Spagna, ormai ridotta a potenza di se-condordine), autorizza lattuazione di quelle riforme che il corposociale dellisola sembra reclamare.

    Il punto dattacco del ministro Bogino perci listruzione, e cioil sistema di formazione (e di selezione) dei quadri dirigenti e tecni-

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  • ci di ogni livello. Il primo intervento significativo riguarda listitu-zione a Cagliari, nel 1759, di una Scuola di chirurgia, diretta da Mi-chele Plazza, studioso piemontese di scienze naturali che pochi an-ni prima ha steso delle non banali Riflessioni intorno ad alcuni mez-zi per rendere migliore lisola di Sardegna. La scuola forma i primi ve-ri chirurghi isolani, destinati a sostituire man mano i tradizionali ce-rusici, flebotomi ed empirici.

    Lanno successivo lo stesso Bogino si interessa personalmente dicoordinare la stesura di un indirizzo sul Metodo da tenere negli inse-gnamenti della lingua latina e delle umane lettere. Previa consulta-zione dei Gesuiti e degli Scolopi che detengono da tempo il mono-polio dellistruzione media (i primi con una impostazione pi elita-ria, i secondi pi popolare), viene cos definito un corso di studi insette classi (dalla settima alla prima), che prevede ladozione di ap-positi manuali e verifiche dellapprendimento effettivo conseguito inciascuna classe. Nonostante le buone intenzioni e le costanti solleci-tazioni del governo, i risultati non sono tuttavia esaltanti, tanto chenel 1764 gli studenti non hanno ancora ricevuto che una piccola par-te dei testi inviati gratuitamente da Torino, rimasti ad invecchiare,sembra, nelle cantine del palazzo viceregio.

    Miglior fortuna arride ai progetti di rifondazione delle dueuniversit sarde, abbandonate da tempo sia dagli studenti che daidocenti. Le Costituzioni della nuova Universit di Cagliari sono ema-nate nel 1764, quelle dellUniversit di Sassari nel 1765. Entrambesono sistemate in edifici pi che decorosi e dotate di biblioteche,dapprima rifornite di libri inviati da Torino e successivamente be-neficate ( il caso di segnalarlo) dallacquisizione dei ricchi patri-moni librari dei Gesuiti, quando lordine soppresso nel 1773. Disoluzione non facile per il problema dellattribuzione delle catte-dre delle quattro facolt previste Teologia, Legge, Medicina, Filo-sofia (ma nel 1777 istituita a Cagliari anche la facolt di Matemati-ca) , sia per la mancanza nellisola di candidati idonei, sia per la ne-cessit di conferire lustro e capacit di attrazione alle universit sar-de con linserimento di alcuni studiosi di prestigio. Si deve soprat-tutto al Bogino lo sforzo, soltanto in parte coronato da successo, diconvincere qualche buon docente a trasferirsi in Sardegna (oltre ilfosso). E sono infatti ben pochi gli studiosi che hanno illustratocon il loro magistero le due universit sarde: tra loro, Francesco Ge-melli, professore di Eloquenza a Sassari, del quale riparleremo;

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  • Francesco Cetti, anche lui docente a Sassari, autore di unapprezza-bile Storia naturale di Sardegna (1774-77); Angelo Berlendis, profes-sore di Retorica a Cagliari ma soprattutto poeta; e Gian Battista Va-sco, incaricato a Cagliari del corso di Teologia ma destinato a diven-tare il maggior economista dello Stato sabaudo, dopo essere quasiscappato dalla Sardegna per lostilit e la chiusura di un ambienteper lui privo di fermenti e di stimoli scientifici e culturali adeguati.

    Nei limiti delle risorse umane e materiali cui possono attingere,le universit sarde giocano comunque un ruolo importante nel ria-prire allisola i canali della comunicazione con la maggiore culturaitaliana ed europea, formando e selezionando non pochi quadri pro-fessionali ed intellettuali disponibili a recepirne linfluenza. Ricercherecenti mostrano anche come lo stesso tipo di insegnamento impar-tito, a base classica ed umanistica, consenta la penetrazione tra glistudenti dei nuovi valori dellindividualismo e li predisponga ad unaconsiderazione diversa e pi positiva della storia nazionale o pa-tria dellisola, dalla lingua e dai costumi alle leggi ed alle istituzio-ni. Pi in generale, si attiva una nuova circolazione di idee e di co-noscenze, che agevola anche lintroduzione tra le lite di tematichepolitiche e costituzionali che conferiscono una nuova dignit agli or-dinamenti tradizionali del Regnum Sardiniae, in particolare alle rac-colte legislative e al Parlamento. Senza lazione svolta dalle due uni-versit non si spiegherebbe neppure lemergere negli anni dellaSarda Rivoluzione di un gruppo di intellettuali capaci di dare con-sistenza teorica e storica alla lotta per una condizione meno subal-terna dellisola in seno allo Stato sabaudo.

    5. I Monti frumentari

    Lazione riformatrice del governo Bogino consegue risultati al-trettanto apprezzabili anche in ambito economico, con lemanazio-ne il 4 settembre 1767 di un regolamento di riordino dei Monti fru-mentari. Si tratta di un istituto per il credito agrario esercitato at-traverso lanticipazione delle sementi agli agricoltori creato dagliSpagnoli sin dal Parlamento Vivas del 1624, ma rimasto largamentesulla carta. Nel 1766, secondo un rapporto steso dal dottor Giusep-pe Cossu su incarico del vicer Balio della Trinit, i Monti effettiva-mente funzionanti sono ben pochi.

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  • Il nuovo regolamento, in particolare, perfeziona il meccanismo dicapitalizzazione del Monte (cio la costituzione della riserva granaria)rendendo obbligatorie le corves sul terreno ad esse destinato. Assog-getta, inoltre, tutto il sistema dei Monti ad una struttura amministrati-va che capillare, con una giunta locale che regge ciascun Monte, e in-sieme centralizzata, con giunte diocesane nelle diverse circoscrizioniecclesiastiche e una giunta generale, unica per lisola, insediata a Ca-gliari. Lufficio di segretario della Giunta generale, nevralgico per la-gricoltura isolana, sar a lungo ricoperto da Giuseppe Cossu (1739-1811), lesponente pi colto e preparato di quel funzionariato sardoche si pian piano formato nellambito dellamministrazione piemon-tese. Le sue relazioni annuali sullattivit dei Monti, oltre che fornireinformazioni puntuali e documentate sul trend dellagricoltura sarda,lo mostrano aggiornato sulle tendenze pi moderne del pensiero eco-nomico, e specialmente della fisiocrazia francese. Ma il Cossu mostraanche una particolare disposizione a trasporre in termini popolari e di-vulgativi, valendosi della lingua sarda, tutte le direttive del governo inmateria agricola. Lo stesso Regolamentodei Monti fatto circolare conlaccompagnamento di un suo scritto nella variante campidanese:Istruzionis pro is amministradoris de is Montis granaticus de is biddas di-pendentis de sa Reali Giunta Diocesana de Casteddu.

    Lutilit e lefficacia della nuova istituzione emerge chiaramentedai dati sugli incrementi progressivi della produzione agraria regi-strati dallo stesso Cossu nelle sue relazioni annuali. Nei 15 anni suc-cessivi al riordino dei Monti le superfici coltivate passano da 400 a500.000 starelli circa, con un incremento del 25 per cento, mentre ilraccolto medio del grano, eccettuate le annate disastrose, si attestatra il 1770 e il 1790 attorno a 1.700.000 starelli e quello dellorzo at-torno ai 500.000.

    Non si tratta di cifre esaltanti, anche perch lincremento dellapopolazione percentualmente altrettanto vigoroso (gli abitanti del-lisola passano da 360.000 nel 1751 a 430.000 nel 1782), ma tuttaviasignificative di un impegno serio, che parzialmente riuscito a sot-trarre i contadini alla morsa delle anticipazioni usurarie.

    Questo non impedisce che sotto la pressione della crescita de-mografica molti coltivatori restino privi di terre coltivabili. Tra il1768 e il 1788, un ventennio in generale favorevole per la cerealicol-tura, i braccianti passano da 12.000 a 30.000 circa, arrivando a qua-si un terzo del totale dei contadini.

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  • La monocoltura cerealicola resta una costante negativa anche nelperiodo del maggiore slancio agricolo dellisola. Unica eccezione lacoltivazione dellulivo, che tutte le fonti ci attestano in buona crescita,pur senza fornirci dati precisi, soprattutto nei dintorni di Sassari, Al-ghero, Bosa e Cuglieri. La coltura del gelso, proposta dal ParlamentoVivas del 1624, quasi ovunque fallita, mentre quella del tabacco si concentrata nel Sassarese. Del tutto negativo anche il bilancio dellepratiche sperimentali di coltivazione del cotone e della salicornia.

    Il cotone coltivato da principio, a met secolo, nellestremo me-ridione dellisola, e quindi ancora, tra gli anni Ottanta e Novanta,nelle vicinanze di Alghero e Cagliari. In questa seconda fase linno-vatore e imprenditore pi intelligente Giovanni Maria Angioy, giu-dice della Reale Udienza, futuro protagonista dei moti rivoluziona-ri, che si sforza persino di dare alla coltivazione del cotone uno sboc-co manufatturiero. Egli tenta, infatti, la costruzione in loco dellemacchine per sgranarlo, carminarlo e filarlo: ma alla fine deve desi-stere per la mancanza nellambiente di tecniche e strumenti adegua-ti, oltre che di spirito dimpresa e dinnovazione.

    La salicornia, pianta che cresce spontanea in alcune zone umidedellisola e serviva alla produzione della soda (carbonato di sodio), pure per qualche tempo coltivata intensamente, ma presto abban-donata perch richiede tempi e ritmi di coltivazione confliggenti conil sistema della bidatzone.

    A precludere ogni durevole innovazione colturale nellagricoltu-ra sarda infine sempre il sistema agrario, a base comunitaria, dellabidatzone, con la solidariet (per quanto conflittuale) che stringe trai contadini e i pastori. Sin dal 1767 il ministro Bogino medita percidi proscrivere la comunanza delle terre promuovendone la priva-tizzazione in varie forme.

    Per non procedere senza sufficiente cognizione di causa, egli affi-da prima ad Angelo Berlendis e poi a Francesco Gemelli lincarico diuno scritto un opuscolo pi che un trattato che possa predisporrelopinione pubblica ad una profonda trasformazione degli assetti agra-ri e fondiari dellisola. Il Gemelli va per ben oltre lincarico affidato-gli, stendendo unopera voluminosa che, per quanto appesantita dal-lesibizione frequente di unerudizione superflua, manifesta in moltepagine una discreta conoscenza dellagricoltura sarda e, soprattutto,una lucidissima consapevolezza dei suoi problemi strutturali. Benchparzialmente insoddisfatto del lavoro, Bogino ne coglie subito la pie-

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  • na rispondenza delle tesi essenziali (riduzione degli usi collettivi, for-mazione dellimpresa agraria, costruzione di fattorie, ecc.) ai suoi pro-grammi di governo e decide di pubblicarlo comunque.

    Lopera, intitolata Rifiorimento della Sardegna proposto nel mi-glioramento di sua agricoltura, vede per la luce a Torino nel 1776,tre anni dopo che lattivo ministro stato licenziato dal nuovo so-vrano, Vittorio Amedeo III (1773-96). Essa comunque diviene subi-to il manifesto dellindividualismo proprietario in Sardegna, ispira-tore di una trasformazione in senso imprenditoriale e capitalisticodellagricoltura sarda e della parallela offensiva, legislativa e cultu-rale, contro gli usi collettivi delle popolazioni e contro le pratichedella pastorizia errante che si esplicher lungo tutto lOttocento.

    Qualche anno dopo la pubblicazione del Rifiorimento del Ge-melli compare un lavoro altrettanto importante del nobile sassareseAndrea Manca dellArca, Agricoltura di Sardegna, completato e da-to alle stampe nel 1780 proprio per controbattere alle tesi del gesui-ta piemontese, ma redatto in buona parte qualche decennio prima.Il Manca dellArca, fornito di una notevole esperienza e conoscenzadellagricoltura isolana, rivendica lintangibilit dei suoi equilibrieconomici e sociali, fondati su stringenti condizioni ambientali (qua-li, ad esempio, laridit dei suoli), sulla forza della consuetudine esullimprescindibile ruolo della nobilt isolana. Il suo libro rappre-senta, insomma, la difesa dufficio di un potere economico e civile abase aristocratica che nella linea di governo del Bogino e nelle pro-poste del Gemelli, tese a creare un ceto di imprenditori rurali bor-ghesi, vede una minaccia gravissima alla propria sopravvivenza.

    6. La riforma delle amministrazioni rurali

    La terza maggiore riforma del Bogino, attuata con editto del 24settembre 1771, riguarda il governo locale. Essa preceduta da unavisita ricognitiva, effettuata dal vicer Hallot des Hayes nella prima-vera del 1770, che ha messo in evidenza la disomogeneit in tutta li-sola delle forme di amministrazione comunale, specialmente in me-rito allelezione dei consigli.

    Per quanto concerne le citt, leditto del 1771 riduce le classi de-gli eleggibili da cinque a tre, lasciando del tutto fuori lo strato pi

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  • largo degli artigiani e degli esercitanti mestieri vili. Per ogni clas-se si forma una lista di quindici persone, mentre i membri del consi-glio sono fissati a nove a Cagliari e Sassari e a sei nelle altre citt: ven-gono eletti i primi tre (o due) di ogni lista, con rotazione annuale se-condo lordine di anzianit. Ogni anno scade dal mandato il primoconsigliere di ciascuna classe, passando in coda alla lista. La sostitu-zione, per decadenza o estromissione, degli iscritti nelle liste avvie-ne, da parte dellintero consiglio, su terne presentate dai consiglieridelle rispettive classi.

    Questo meccanismo di selezione dei responsabili delle ammini-strazioni municipali, basato sul principio della cooptazione, pale-semente finalizzato ad una chiusura oligarchica delle lite cittadineche serve anche a un miglior controllo delle situazioni locali da par-te del governo centrale.

    Per quanto concerne i villaggi leditto assegna il maneggio deiloro affari ad un consiglio comunitativo espresso per elezione dal-lassemblea dei capifamiglia. Una volta nominato, il consiglio, com-posto da tre a sette membri secondo la popolazione di ciascun vil-laggio, si autoperpetua, provvedendo mediante cooptazione alla so-stituzione annuale di un terzo dei suoi componenti. Salvo casi ecce-zionali e autorizzati dal vicer, non pi ammessa la riunione del-lassemblea generale della comunit.

    Alle riunioni del consiglio partecipa anche lufficiale di giustiziadel feudatario, ma senza la facolt di prender parte alla discussione ealla decisione sulle questioni trattate. Il consiglio infatti posto sottola protezione diretta del sovrano e quindi sottratto almeno in lineateorica ad ogni invadenza e prevaricazione del barone. Anche inquesto caso il meccanismo della selezione fa per s che il governo del-la comunit resti sotto il controllo di una ristretta lite di principales.

    Nondimeno, il segno antifeudale dellistituzione dei consigli co-munitativi cos immediatamente evidente che i baroni, vedendominacciate le loro prerogative giurisdizionali, esprimono subito unavigorosa protesta. Ma anche un provvedimento questo i feuda-tari non hanno interesse a riconoscerlo che conferisce dignit pie-na di soggetti politici a uomini sino ad allora vissuti stretti dai laccimai del tutto sciolti della servit medievale. Alleditto del 1771 si de-ve infatti limmediato acutizzarsi del contenzioso legale tra comunite baroni, destinato a crescere sino allincendio rivoluzionario di finesecolo.

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  • IL RIFORMISMO SABAUDO: TENTATIVI E FALLIMENTI

    di Gianfranco Tore

    1. I primi ventanni (1720-40)

    Quando, dopo la guerra di successione spagnola, le grandi po-tenze sottrassero a Vittorio Amedeo II di Savoia la Sicilia e gli asse-gnarono la Sardegna, la monarchia sabauda avvi, come era sua tra-dizione, una serie di indagini per conoscere il nuovo regno. Le rela-zioni inviate a Corte misero subito in luce larretratezza economicae civile dellisola: con le esigue entrate che essa apportava al tesorodella Corona si sarebbe potuto a malapena mantenervi lordine in-terno e difenderla da eventuali attacchi esterni. Daltra parte, le clau-sole del trattato di Utrecht impedivano alla monarchia piemontesedi introdurre innovazioni nellassetto politico e sociale del regno,che garantiva rilevanti privilegi e immunit al clero, agli abitanti del-le citt, alla feudalit e alla piccola nobilt rurale.

    Nei primi decenni di governo lo spazio di intervento dei vicersabaudi fu dunque assai limitato. Esso tese a ridurre leccessiva in-dipendenza degli ecclesiastici dalla Corona, a selezionare il persona-le dellamministrazione civile e giudiziaria (preferendo i funzionariche manifestavano sentimenti di fedelt al nuovo principe), a limita-re la corruzione e le malversazioni degli ufficiali patrimoniali, a ren-dere pi produttive le saline e lazienda del tabacco. Nel ventennio1720-40 i tentativi fatti per accrescere le entrate regie si rivelaronoinsoddisfacenti: pi della met delle entrate dipendeva dalle espor-tazioni cerealicole, che erano per legate allandamento climatico eproduttivo e alle richieste del mercato internazionale. Nelle cattive

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  • annate, assai frequenti nella Sardegna del primo Settecento, il bilan-cio del regno si chiudeva con forti passivit.

    La coltivazione dei cereali e lallevamento del bestiame venivanoinfatti effettuati utilizzando strumenti e tecniche primitivi che ridu-cevano notevolmente le rese e la produttivit e accrescevano i rischidelle carestie. Fra i ceti urbani e rurali la povert era assai diffusa. Iprivilegi, le esenzioni fiscali, luso comunitario della terra, il ferreocontrollo esercitato dai ceti abbienti sugli spazi agrari e sui pascolipi produttivi scaricavano gran parte della fiscalit regia, feudale edecclesiastica sui contadini ed i pastori poveri. Privi di capitali, que-sti ultimi erano costretti a chiedere al clero, alla piccola nobilt ru-rale ed ai ceti mercantili i capitali, le sementi e il bestiame necessariad avviare limpresa agricola o pastorale, accettando patti usurari.

    Le cattive annate e le necessit familiari avviluppavano infatti nel-la spirale dellindebitamento gran parte dei piccoli produttori ridu-cendoli alla condizione di servi o coloni parziari. I mercanti e gli ap-paltatori dei feudi, lalto e il basso clero, i ministri feudali, i nobili ei possidenti si appropriavano di gran parte della produzione concontratti di usura e la inviavano in citt per la vendita o per lespor-tazione.

    La rendita fondiaria che i ceti traevano dalla vendita dei cereali edei frutti del bestiame veniva destinata allacquisto di prodotti pro-venienti dallestero o tesaurizzata. I notabili che investivano capitalinella loro azienda erano pochi. La persistenza del regime feudale edi estesi privilegi nelluso degli spazi agrari a favore delle comunitlocali impediva o limitava la formazione della propriet privata elaccorpamento fondiario. I ceti privilegiati, daltra parte, erano po-co interessati alla trasformazione del regime comunitario e di quellosignorile. Dalla gestione degli uffici regi e feudali essi traevano infattidenaro, prestigio e potere. La mancanza di capitali, la diffusa po-vert e luso comunitario delle terre consentivano loro di controlla-re e di far coltivare con contratti di compartecipazione servile una ri-levante parte delle aree pi produttive.

    Nel primo ventennio di dominio (1720-40) la monarchia pie-montese, vincolata dai trattati di pace che aveva sottoscritto, go-vern dunque il regno con molta prudenza, rispettandone le leggi,lordine sociale, le tradizioni. La palese ostilit del clero e di granparte dellaristocrazia (che speravano in un rapido ritorno dellisolasotto la corona spagnola alla quale si sentivano legati da secolari vin-

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  • coli di fedelt) sconsigliava, daltronde, lintroduzione di nuove di-sposizioni amministrative o costituzionali.

    Le innovazioni furono pertanto marginali e vennero giustifica-te con ragioni di opportunit o di convenienza pubblica. Tra le no-vit di carattere culturale ricordiamo lintroduzione della lingua ita-liana, che divenne il mezzo di comunicazione fra governanti e go-vernati ma anche lo strumento per selezionare il personale ammini-strativo. Significative appaiono anche le norme per prevenire lin-sorgere e la diffusione di epidemie, listituzione delle Tappe di insi-nuazione e delle Conservatorie degli atti notarili, lapprovazione diun razionale regolamento per la celebrazione dei processi penali,limpegno nella lotta al banditismo e per la restaurazione dellordi-ne e della sicurezza pubblica che i ministri sabaudi consideravanocondizione indispensabile per lo sviluppo della popolazione e delleattivit economiche.

    2. Le prime riforme

    Dopo la conclusione della guerra di successione austriaca (1748)la Corona piemontese rinunci ai progetti di espansione verso laLombardia e a quelli di scambio fra la Sardegna ed altri territori diterraferma e consider lisola parte integrante dei propri domini. Aquesto fine il governo sabaudo cerc di rafforzare la sua influenza edi integrare i ceti dirigenti locali nellamministrazione del regno.

    I risultati ottenuti, anche se limitati, non furono irrilevanti. Lap-parente frammentariet delle iniziative va infatti confrontata con gliobiettivi raggiunti.

    La nobilt sarda, per essere integrata nelle funzioni di governo,dovette accettare la limitazione dei diritti di primogenitura, il con-trollo da parte della corona sabauda sulla legittimit dei titoli otte-nuti da quella ispano-asburgica e sui rapporti fra feudatari e vas-salli. Anche in ambito ecclesiastico le novit furono significative.Per evitare abusi il reggente Beltramo provvide a raccogliere linte-ra normativa sui privilegi ecclesiastici e la monarchia con un nuo-vo concordato (1740) limit i diritti di manomorta, rivendic il pa-tronato regio sulla nomina dellalto clero e sulla gestione dei bene-fici vacanti e fece designare alla direzione delle diocesi pi impor-

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  • tanti dei vescovi piemontesi. La concessione degli uffici e delle pre-bende fu condizionata al possesso di adeguati titoli di studio e al-limpegno pastorale degli interessati. Anche in ambito giudiziario ecivile la scelta dei funzionari locali venne fatta tenendo conto dellecompetenze acquisite, dellimpegno dimostrato nel servizio e dellafedelt alla corona.

    Alla fine degli anni Quaranta la monarchia sabauda riusc dun-que a disporre di una struttura politica e amministrativa nella qualei vertici e il personale intermedio si considerarono legati da vincolidi fedelt al sovrano piemontese. Anche il ceto nobiliare, mobilitatonel Reggimento di Sardegna per partecipare attivamente alla guerradi successione austriaca (conclusasi vittoriosamente per le armi sa-baude), inizi a guardare con crescente rispetto la corona sabauda erinunci a quelle sotterranee resistenze che lavevano contraddistin-to fino ad allora.

    Meno brillanti appaiono invece i risultati ottenuti sul piano eco-nomico. Per far fronte al persistente deficit delle entrate fiscali il go-verno studi con maggiore attenzione le opportunit offerte dal mer-cato di esportazione, ma la rapida intensificazione degli scambi conla Francia che si rileva nel decennio 1730-40 venne vanificata, di col-po, dallalleanza sottoscritta dal Piemonte con lAustria e lInghil-terra in funzione antifrancese.

    Fallimentari appaiono anche i ripetuti tentativi di colonizzazionedelle aree spopolate. Sebbene i funzionari regi avessero stimato di po-ter fare arrivare nellisola 26.000 famiglie, gli immigrati furono infe-riori al migliaio. Ad eccezione delle isole di San Pietro e di SantAn-tioco, nelle quali si insediarono dei coloni liguri e piemontesi, gli al-tri tentativi (Montresta, Salti di Oridda, Santa Sofia) si conclusero in-felicemente perch i pastori del luogo, rivendicando secolari diritti dipascolo, cacciarono o addirittura uccisero i coloni.

    Malgrado questi infausti episodi la politica di colonizzazione av-viata dalla Corona ebbe unimportante ricaduta perch, autorizzan-do i sudditi sardi a coltivare gli spazi agrari abbandonati da secoli eobbligando la feudalit a concederglieli, indusse in alcune aree (Sul-cis, Gallura, Nurra, Sarrabus) i pastori e i contadini ad insediarvisicon i loro gruppi familiari, a costituire nuclei di colonizzazione di-spersa e ad affermare la presenza delluomo in aree prima deserte.

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  • 3. Il problema del grano

    Quando, dopo il 1748, con la mediazione dei funzionari, del cle-ro e della nobilt del Regno, iniziarono a giungere a Torino dati par-ticolareggiati sulla popolazione, le coltivazioni, il commercio e le en-trate fiscali, lattenzione dei ministri regi si concentr sui problemiche ostacolavano lo sviluppo economico e sociale dellisola. Rispet-to al periodo precedente, i progetti governativi acquisirono maggio-re concretezza perch iniziarono a tener conto dei fattori, delle tra-dizioni e dei comportamenti che potevano influenzare negativamen-te la loro attuazione.

    Nel 1755 una speciale giunta di governo, appositamente convo-cata dal sovrano, individu nei mezzi atti a favorire lagiatezza del ce-to agricolo il vero nodo della politica economica e demografica cheil governo avrebbe dovuto attuare. A questo fine venne proposto diridurre gli interessi sui prestiti agrari e di esentare dalle imposte re-gie i contadini che avessero ottenuto le rese pi alte. Le terre dellacomunit e quelle feudali dovevano essere obbligatoriamente asse-gnate ai lavoratori che le avessero volute coltivare e doveva essere fa-cilitata in ogni modo non solo la cerealicoltura ma anche la colturadella vite, dellulivo, del gelso, del cotone, della canna da zucchero.Per ridurre il costo del denaro e spezzare la spirale dellusura, eser-citata dai possidenti nei confronti dei contadini poveri, il Cadello,giudice della Reale Udienza e consigliere dei vicer Rivarolo e Bri-cherasio, propose di istituire in ogni villaggio i Monti granatici (ofrumentari) che si erano dimostrati di una certa utilit in diversi vil-laggi della diocesi di Ales.

    Inoltre, per favorire le esportazioni e consentire agli agricoltori diinviare allestero il loro grano, venne formulato un progetto di rifor-ma delle leggi annonarie. Esso delegava alla giunta dAnnona ognidecisione in merito allapertura delle esportazioni e riservava ad es-sa anche il compito di ridurre i diritti di sacca. Sul finire del 1760 iltimore che si fosse prossimi ad una pericolosa carestia indusse il mi-nistro Bogino ad affidare la gestione della crisi annonaria al vicerTana di Santena. Questultimo, col sostegno di una folta schiera dicapaci funzionari sardi (Cadello, Cugia, Sanna Lecca, Mameli, Deid-da) e di una parte della feudalit e dellalto clero (che con sermoni eprediche invit le comunit ad impegnarsi per il bene comune), no-min i censori di agricoltura, avvi listituzione dei Monti frumenta-

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  • ri e fece pervenire nei pi lontani villaggi il grano necessario a costi-tuire la loro dote.

    Richiamando e punendo quanti si opponevano alla loro istitu-zione e premiando il clero e i notabili che si impegnavano a soste-nerle e a far parte delle giunte che avrebbero dovuto gestirle, il go-verno riusc a coinvolgere nelliniziativa gran parte dei possidenti edel ceto ecclesiastico, a impegnare le comunit nella realizzazione dirimboschimenti, canali e altre opere di pubblica utilit, a contenereil potere della feudalit quando esso ledeva gli interessi dei ceti pro-duttivi e a indurre la popolazione dei villaggi a considerare il potereregio come uno strumento di tutela e non di oppressione dei ceti me-no abbienti.

    Quando, nel 1764, una devastante carestia attravers la penisolaitaliana lasciandosi dietro decine di migliaia di morti, il sistema an-nonario appena impiantato in Sardegna ebbe modo di dimostrare lasua validit ed efficacia. Le citt principali furono rifornite con par-tite di cereali acquistate allestero. Nelle campagne, invece, attraver-so le subintendenze e le giunte diocesane il governo riusc a sposta-re le risorse cerealicole dai Monti granatici che disponevano di unsurplus verso i villaggi che ne erano privi. In questo modo il regnoevit di subire un tracollo demografico di gravi proporzioni. Tutta-via il ripetersi delle cattive annate fece riemergere, malgrado la pre-senza calmieratrice dei Monti frumentari, la piaga dellusura indu-cendo il governo ad intervenire.

    Limpegno dimostrato dai funzionari regi durante la carestia enella gestione dei Monti frumentari accrebbe notevolmente la cre-dibilit della Corona, considerata ormai dai contadini poveri comeloro protettrice nei confronti delle esose richieste degli ufficiali feu-dali, dei notabili, del clero. Quando, nellautunno dello stesso 1764,le giunte diocesane fecero pervenire al vicer le suppliche dei conta-dini i quali chiedevano di ridurre lentit degli interessi sui contrattidi prestito che erano stati costretti a sottoscrivere durante la carestia,la Corona fece preparare ed emanare dal giudice della Reale Udien-za Graneri un editto sulla moderazione degli interessi che scoraggilusura e indusse i possidenti a ricercare forme pi convenienti di im-piego del loro denaro. Per evitare parzialit e favoritismi il ministroBogino fece anche approvare un regolamento generale per la gestio-ne dei Monti granatici, che si erano ulteriormente diffusi sul territo-rio fino a ricoprire con la loro fitta rete quasi tutti i villaggi del re-

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  • gno. Leditto fissava precise norme contabili, stabiliva il tasso di in-teresse da chiedere sui prestiti in grano, precisava i compiti e le re-sponsabilit dei censori e delle giunte locali e diocesane e istituiva lafigura del censore generale, al quale veniva affidata la direzione diquesta complessa macchina amministrativa e creditizia.

    I dati sulla produzione dei cereali, relativi al ventennio 1760-80,confermano leffetto positivo che i Monti granatici esercitarono nel-la piccola azienda contadina. Essi stimolarono lespansione delle col-tivazioni sia nelle aree cerealicole che in quelle pastorali, dove si ini-zi a coltivare le terre pi fertili. Laumento della produzione con-sent al regno di accrescere il volume delle esportazioni e ai ceti ru-rali di ottenere unadeguata remunerazione delle loro fatiche.

    Per inserire lisola nel mercato internazionale dei grani era tutta-via necessario smantellare il vincolismo annonario, autorizzare le-sportazione dei cereali fin dal mese di agosto e abolire le tasse sullaesportazione in modo da rendere concorrenziale il prezzo del granosardo con quello siciliano e del Levante. Per ridurre i dazi doganalioccorreva anche incrementare la fiscalit indiretta o introdurreunimposta patrimoniale. Il clero, la nobilt e i ceti urbani si oppo-sero per a qualsiasi innovazione vanificando gli sforzi fatti per in-serire lisola nel circuito mercantile internazionale.

    4. Il miglioramento dellagricoltura

    Lopposizione della feudalit non consent al governo di varareun altro ambizioso progetto: quello del riscatto dei feudi apparte-nenti alla nobilt ispanica, posti sotto sequestro nel 1744 durante laguerra di successione austriaca. La Corona cerc tuttavia di crearele condizioni perch questiniziativa potesse realizzarsi in futuro e atal fine assunse una linea di chiara tutela delle comunit.

    Durante il governo del ministro Bogino, per consentire ai vassal-li di difendere anche per via giudiziaria gli interessi della collettivitvenne varata la riforma dei consigli civici (o comunitativi), che pote-rono cos tutelare i loro diritti per via legale. Sollecitati dai ricorsipresentati dagli avvocati che tutelavano la popolazione dei villaggi, igiudici della Reale Udienza, supremo tribunale dellisola, ebberomodo di affermare lintangibilit della propriet individuale allin-

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  • terno del feudo e lillegittimit delle pretese signorili sulle terre inuso alla comunit.

    Con qualche ritardo rispetto al Piemonte il governo sabaudo av-vi dunque anche in Sardegna quella politica di contenimento delpotere feudale che aveva come obiettivo il riscatto dei feudi e laf-fermazione della propriet privata. A questo fine nel 1767 la Coro-na affid a Pietro Sanna Lecca, reggente la Reale Cancelleria, linca-rico di preparare un progetto per dividere fra i sudditi le terre ap-partenenti alle comunit, e a Francesco Gemelli, un gesuita pie-montese professore di Eloquenza allUniversit di Sassari, il compi-to di pubblicizzare, in un agile opuscolo, i vantaggi della proprietprivata. Man mano che il Gemelli affrontava i problemi il libretto sitrasform in una ponderosa opera che mise in luce i limiti tecnici del-la cerealicoltura, della viticoltura e dellolivicoltura e del pascolobrado, e che formul proposte per migliorare questi settori.

    Il nucleo centrale dellopera faceva perno sulla necessit di costi-tuire aziende appoderate e razionali che sarebbero dovute nasceredalla divisione delle terre feudali e comunali.

    Col consenso dei pi autorevoli ministri del Regno (con i qualiaveva spesso discusso limpianto dellopera ricevendo premi e inco-raggiamenti) Gemelli propose di assegnare in propriet ai capifami-glia le terre comunali e di concedere in vendita o in enfiteusi agli abi-tanti del villaggio quelle feudali. Le proposte dellillustre gesuita fu-rono apprezzate e commentate variamente da quel ceto di notabiliche il governo era riuscito a coinvolgere nei progetti di rinnovamen-to del Regno di Sardegna. Tuttavia esse giunsero allattenzione del-lopinione pubblica quando ormai (1776), con la morte di CarloEmanuele III e lemarginazione del conte Bogino, Vittorio AmedeoIII stava avviando una svolta conservatrice, preannunciata dalla so-spensione delleditto di affrancamento dei feudi in Savoia. In questonuovo clima politico lazione fino ad allora condotta dai pi alti fun-zionari del Regno si fece pi cauta, ma essi non smisero di incorag-giare e difendere le rivendicazioni dei consigli di comunit nei con-fronti dei feudatari, di ridurre i privilegi personali che ostacolavanolesercizio del potere regio e di rafforzare ed estendere la presenzadello Stato sul territorio.

    Malgrado questa battuta darresto la politica di rifiorimentoagricolo avviata negli anni Cinquanta riusc a dare i suoi frutti. Pereffetto dellistituzione dei Monti frumentari e degli incoraggiamenti

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  • del governo la media annuale dei raccolti registr un incremento di150.000 quintali per anno, in gran parte riservati allesportazione.Favorito dalla domanda interna ed esterna anche il prezzo dei cerealilievit progressivamente garantendo adeguati introiti alla piccolaazienda contadina.

    Questultima inizi a trovarsi in difficolt alla fine degli anni Set-tanta quando la mancata riduzione del dazio sul grano tagli fuoridal mercato internazionale la Sardegna inducendo la maggior partedei contadini, costretti ormai a vendere sottocosto, a contrarre le se-mine o a rinunciare del tutto alla coltivazione della terra. Privi di ca-pitali e di mezzi, dopo essersi indebitati con il Monte granatico e coni privati, molti piccoli produttori andarono allora ad accrescere il nu-mero dei braccianti. Mentre nelle citt e nei villaggi ricomparivanogli speculatori e gli usurai, il Censorato generale, per incoraggiare ipiccoli produttori, avvi unintensa campagna di informazione eistruzione agraria che si estese alle colture specializzate e allalleva-mento. In diverse aree anche i possidenti, incoraggiati dalla doman-da e dalla redditivit delle nuove coltivazioni, ridussero la semina deicereali e iniziarono ad impiantare vigne ed oliveti traendo da essi unadiscreta rendita. Per effetto di queste iniziative nei dintorni dellacitt di Bosa, alla fine degli anni Ottanta, si contavano 55.000 alberidi ulivo, nel villaggio di Cuglieri, infeudato al duca di San Pietro,28.000 e nellagro di Sassari pi di 100.000.

    Nel Campidano di Cagliari a suscitare linteresse di nobili, eccle-siastici e semplici possidenti fu invece la vite, che contese sempre pispazio ai cereali.

    I provvedimenti emanati a favore della cerealicoltura e delle col-ture specializzate finirono col danneggiare lallevamento, che in mol-ti villaggi agricoli venne progressivamente sospinto verso i terrenimeno fertili. Quando attraverso le relazioni e le statistiche delle giun-te locali sui Monti granatici giunsero al Censorato generale detta-gliate informazioni sulle frequenti morie di bestiame e sulle difficoltin cui versava il settore, il governo promosse alcune iniziative per fa-vorire il miglioramento delle specie e lallevamento nelle stalle. Aquesto fine il vicer des Hayes autorizz la chiusura di terreni adat-ti alla produzione di fieno e mangimi, ma il provvedimento non eb-be seguito perch le comunit si opposero allintroduzione di be-stiame in aree destinate alla coltivazione del grano e alle colture spe-cializzate.

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  • Pi significativo appare il sostegno fornito agli allevatori sul pia-no tecnico. Il censore generale Cossu, su richiesta del conte Grane-ri, ministro agli Interni, pubblic un Discorso georgico col qualecerc di divulgare fra i feudatari, la piccola nobilt, il clero, i grandiproprietari di bestiame le tecniche per la selezione, lalimentazione,la mungitura, la preparazione del latte, la tosatura e la preparazionedelle lane, la difesa del bestiame ovino dalle malattie. Il dibattito chesi attiv fra i funzionari sardi e piemontesi sottoline la necessit diuna maggiore integrazione fra pastorizia e agricoltura e di una libe-razione del mercato delle carni dal vincolismo annonario che dan-neggiava i produttori e non consentiva alle citt di ottenere quantoesse chiedevano, e limportanza di miglioramenti nella preparazionedel formaggio, che costituiva una voce non secondaria nelle espor-tazioni dallisola.

    5. Il tabacco, il sale, le miniere

    Agli inizi degli anni Ottanta, mentre la crisi della cerealicoltura edella pastorizia emergeva con una certa evidenza, inizi ad essere di-battuto anche il tema delle manifatture. Gran parte delle risorse mo-netarie che il clero, la nobilt e i possidenti ricavavano dallesporta-zione del grano, del formaggio e degli altri prodotti agricoli finiva in-fatti allestero per lacquisto di manufatti.

    Sulla scia di quanto andavano affermando da tempo i philo-sophes, anche nellisola alcuni intellettuali segnalarono i vantaggi e lericchezze che si sarebbero potute trarre dalle manifatture e dal com-mercio (Giuseppe Cossu e Bernardino Pes), dalla pesca del tonno edalla lavorazione del corallo (Antonio Porqueddu), dalla trasforma-zione dei prodotti agricoli e dallimpianto di boschi (Domenico Si-mon).

    La mancanza di essenze adatte costringeva infatti i Sardi ad im-portare il legname necessario alla lavorazione dei mobili, delle bot-ti, degli infissi e perfino il legname per ledilizia. Il bosco avrebbe po-tuto fornire anche la materia prima necessaria ai cantieri navali di cuila Sardegna era priva. A causa della mancanza di una flotta mercan-tile lisola era costretta a pagare noli elevati sia per esportare che perimportare le merci necessarie. Mentre in Sardegna il problema del-

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  • le manifatture andava timidamente imponendosi allattenzione di ri-stretti circoli di notabili e funzionari, in Piemonte esso era ormai di-ventato uno dei temi centrali del dibattito politico. LAccademia del-le Scienze, la Biblioteca Oltremontana, la Societ Privata caldeggia-vano, con forza crescente, provvedimenti a sostegno delle attivitimprenditoriali. Con il loro sviluppo scienziati e funzionari sperava-no di alleviare le difficolt dei produttori agricoli e degli artigianidella seta, di attivare nuove industrie, di rinnovare larmamento del-lesercito.

    In questo quadro la Sardegna avrebbe dovuto fornire al Piemon-te minerali e materie prime (pelli, lana, seta, cotone, tabacco) e inse-rirsi nel mercato internazionale con lesportazione di grano, olio, vi-no, formaggio, sale, tonno. Il rapporto economico fra Piemonte eSardegna non doveva essere per improntato a forme di subordina-zione di tipo coloniale.

    I due regni avrebbero dovuto integrare le loro economie traendoreciproco vantaggio dagli scambi.

    A questo fine la segreteria di Stato e gli intendenti rivolsero unacrescente attenzione non solo alla viticoltura, allolivicoltura, allaproduzione del formaggio (la cui esportazione ascendeva a 20.000quintali) e alla pesca del tonno (che garantiva unentrata di 600.000lire piemontesi alle casse regie), ma anche alla coltivazione del gelso,del cotone e del tabacco.

    Al fine di diffondere la coltura del gelso e propagandarne lutilitsia Antonio Porqueddu, parroco di Senorb, sia il censore generaleCossu pubblicarono due operette nelle quali venivano date minu-ziose indicazioni sulle tecniche di allevamento del gelso e dei bachida seta. Le sollecitazioni del governo e le lettere pastorali dei vesco-vi stimolarono linteresse della feudalit verso questo tipo di coltu-ra, inducendola a diffonderne lallevamento fra i propri vassalli. Lepiante di gelso, le cassette e i forni offerti dal governo si rivelaronoper del tutto insufficienti a soddisfare le richieste avanzate dallegiunte locali di agricoltura.

    Anche gli esperimenti condotti con diverse semenze di cotone daGiovanni Maria Angioy, giudice della Reale Udienza e imprendito-re agricolo, pur lusinghieri sul piano delle rese (345 quintali per et-taro), furono frenati dalla ridotta disponibilit di sementi e soprat-tutto dalla mancanza dei capitali, delle attrezzature e delle cono-

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  • scenze tecniche necessarie a tessere un prodotto in grado di compe-tere sul mercato internazionale.

    Su questo piano i risultati ottenuti nel settore del tabacco, delleminiere e delle saline appaiono ben pi significativi.

    La manifattura del tabacco, impiantata in Sardegna durante ladominazione austriaca (1714-18) e gestita in regime di monopolio,fu progressivamente perfezionata fino a raggiungere un discretostandard di qualit. Il periodo di pi rapida espansione coincide coldecennio 1770-80. Laumento della richiesta contribu ad elevare iredditi degli agricoltori del Sassarese che si erano specializzati nellaproduzione del prodotto, ma alla fine degli anni Ottanta si ebbe unaprofonda crisi determinata dal fatto che lAzienda del tabacco, perordine del vicer e della segreteria agli Interni, si rifiut di ricono-scere ai tabacchicoltori laumento dei costi che essi avevano subto aseguito della progressiva lievitazione dei salari della manodopera.Per non chiudere in perdita i coltivatori furono costretti ad abban-donare lattivit lasciando lazienda priva di materia prima. Cos gliinvestimenti fatti nel ventennio precedente per migliorare la qualitdel prodotto furono definitivamente compromessi, costringendo ilregno a dipendere dallestero anche in questo comparto.

    Nel settore delle saline ai grandi lavori di impianto avviati du-rante il governo del ministro Bogino (1760-73) seguirono quelli perla produzione di un sale di qualit. Quando gli Svedesi individuaro-no nel sale sardo quello pi adatto alla salagione del loro pescato, laSardegna riusc ad imporsi sul mercato del Nord Europa. Con i pro-venti dellesportazione lAzienda delle saline pot effettuare rilevan-ti investimenti che garantirono alle finanze regie unelevata redditi-vit per pi di un quarantennio (1770-1810).

    Anche nel settore delle miniere furono avviate ricerche e scaviche portarono allindividuazione di alcuni importanti filoni di gale-na. Essi furono dati in concessione ad una societ amministrata daGustavo Mandell, console svedese a Cagliari, che costru a Villaci-dro una fonderia per larricchimento dei minerali pi poveri, men-tre quelli pi ricchi venivano esportati a Genova e a Livorno. Suc-cessivamente (1759) il governo sabaudo gest in proprio le miniereriservando il prodotto ottenuto annualmente (1500 quintali di piom-bo e 80 kg dargento) alle necessit civili e militari. Le difficolt fi-nanziarie in cui, alla fine degli anni Ottanta, si trov impantanato iltesoro regio non consentirono ai tecnici governativi di coltivare ra-

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  • zionalmente i filoni e la produzione, per mancanza di nuovi pozzi edi misure di sicurezza, si ridusse al punto che agli inizi dellOtto-cento soddisfaceva a malapena le necessit dellisola.

    La crisi economica che invest lo Stato piemontese agli inizi deglianni Novanta ebbe dunque pesanti ripercussioni inflazionistiche an-che in Sardegna, perch, sebbene la politica economica avviata dalministro Graneri tendesse a favorire lespansione delle colture spe-cializzate e la nascita delle manifatture, lesiguit dei mezzi finanzia-ri impiegati, la strenua difesa dei privilegi annonari, fiscali e doganalida parte del clero, della nobilt e dei ceti urbani e infine le incertez-ze politiche determinate dallinvasione francese del Piemonte e dal-lo scoppio dei moti antifeudali in Sardegna modificarono in brevetempo quel clima e quegli equilibri fra i ceti che si erano faticosa-mente formati negli anni delle riforme.

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  • LA SARDA RIVOLUZIONE (1793-1802)

    di Luciano Carta

    1. La guerra patriottica contro linvasione francese

    Alla fine del dicembre 1792 comparve nelle acque del golfo diCagliari una squadra navale francese al comando del capitano La-touche-Trville, che poi gett le ancore nel golfo di Palmas, sulla co-sta sud-occidentale dellisola, in attesa del grosso della flotta del Me-diterraneo, comandata dal contrammiraglio Laurent Truguet.

    Mentre negli Stati di terraferma la guerra si stabilizzava con la per-dita di Nizza, Villafranca e Oneglia da una parte, e della Savoia dal-laltra, nel corso dellinverno 1792-93 la guerra venne portata dallaFrancia in Sardegna, frontiera mediterranea dello Stato sabaudo. difficile offrire una spiegazione plausibile della decisione del governoe degli Stati maggiori francesi di effettuare lattacco alla Sardegna du-rante la stagione invernale. Alla scelta dovettero concorrere valuta-zioni e suggestioni diverse: la risaputa mitezza del clima anche du-rante la stagione invernale e lesigenza di approfittare della forzatapausa delle operazioni belliche sul fronte alpino per impossessarsi diun territorio utile sotto molti punti di vista; la convinzione della faci-lit dellimpresa sul piano militare per loggettiva debolezza dellap-parato di difesa e per lesiguit delle truppe dordinanza, che non rag-giungevano le 3000 unit su tutto il territorio dellisola; il malconten-to delle popolazioni contro lamministrazione piemontese, che face-va sperare in unaccoglienza entusiastica dei Francesi liberatori;lopportunit di poter disporre di una importante base di appoggionellipotesi di una guerra sul mare contro le potenze navali della Spa-gna e soprattutto dellInghilterra; la necessit di derrate alimentari.

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  • Sebbene la segreteria degli Interni avesse informato tempestiva-mente il vicer Balbiano dellinvasione della Savoia e nei dispaccisuccessivi lo invitasse ad armare la popolazione e a prendere tutte lemisure opportune per la difesa, tali misure si ridussero a ben pocacosa; soprattutto esse furono adottate senza che venissero coinvolti,come sancivano le leggi fondamentali del Regno, la Reale Udienza elo Stamento militare.

    La notizia dellinvasione venne tenuta a lungo segreta e latteg-giamento del vicer fu nel complesso di inerzia. In questo contestomatura la decisione dello Stamento militare, sostanzialmente osteg-giata dal vicer Balbiano, di autoconvocarsi e di proporre larruola-mento a proprie spese di quattromila uomini di truppa sussidiaria.

    Dietro il comportamento del vicer vi era un atteggiamento com-plessivo del governo sabaudo, cui mancava la volont di porre in es-sere quel governo misto insito nello spirito delle leggi fondamen-tali del Regno. Dalla contrapposizione tra una prassi di governo as-solutistica e la rivendicazione della policentricit della costituzionedel Regno, alimentata dalla guerra, nasce il grave conflitto tra il go-verno viceregio e gli Stamenti. Questo conflitto si manterr su un ter-reno di rivendicazione della specificit della costituzione politicadella Sardegna durante il 1793 e culminer poi, proprio come con-seguenza del mancato riconoscimento di quella specificit, nellin-surrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, con la cacciata dei fun-zionari piemontesi da tutta lisola, con la gestione del potere da par-te della Reale Udienza con la sola presenza dei giudici sardi e con lasardizzazione complessiva della pubblica amministrazione chesar resa possibile lungo larco di due anni dal fondamentale appor-to degli Stamenti.

    Quel conflitto e quella rivendicazione, rimasti allo stato latentedurante i settantanni del governo sabaudo, vengono legittimati e in-gigantiti dallesito vittorioso della difesa contro i Francesi, che fu so-stenuta quasi esclusivamente dalle forze militari pagate e organizza-te dallo Stamento militare.

    La flotta francese si attest nel golfo di Cagliari il 23 gennaio e il28 sottopose la citt ad un pesante bombardamento; tra l11 e il 13febbraio furono sbarcati presso il Margine Rosso, sul litorale diQuartu, circa 4000 uomini che tra il 14 e il 16 tentarono la conqui-sta da terra di Cagliari e Quartu, tentativo fallito per cause diverse,non ultime la vigilanza e il valore delle truppe sarde. Il contingente

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  • francese, costituito in gran parte da volontari provenzali e corsi in-disciplinati e desiderosi di bottino, chiese limmediato reimbarco trail 17 e il 18 febbraio, giorni in cui la flotta venne investita da una vio-lenta tempesta che caus gravi perdite di uomini e mezzi. La flottaabbandonava le acque del golfo di Cagliari il 22 febbraio; tra il 20 eil 25 maggio successivo una flotta spagnola liberava Carloforte eSantAntioco rimaste in mano ai Francesi. Anche la spedizione fran-co-corsa per la conquista dellisola della Maddalena, di cui facevaparte il giovane Napoleone Bonaparte, effettuata tra il 22 e il 24 feb-braio, non aveva successo.

    2. Le cinque domande: una piattaforma politica autonomista

    Niente meglio delle vicende della guerra contro linvasione deiFrancesi pu aiutare a comprendere il clima di patriottismo e diunit nazionale vissuto dalla Sardegna sul principio del 1793, sottolimpulso dello Stamento militare e del clero; a questultimo, poi, sideve ascrivere la connotazione di guerra di religione contro lem-pia Repubblica francese assunta dalla mobilitazione generale deiSardi.

    Le bugie del vicer sulle operazioni belliche e il disconoscimen-to dei meriti delle forze locali nella guerra vittoriosa contribuironoin modo decisivo al rafforzamento della coscienza nazionale e dellabattaglia autonomistica: il rientro delle truppe miliziane e dei volon-tari nei villaggi di origine nel marzo 1793 si trasform infatti in unformidabile strumento di propaganda e di risveglio di un sentimen-to che era rimasto a lungo sopito.

    Listituto parlamentare costitu il punto di riferimento di questorisveglio e la convocazione di tutti e tre gli ordini, sia per i membridi essi sia per le popolazioni che da essi in qualche modo venivanorappresentate, si caric di aspettative che si sarebbero via via espli-citate negli anni successivi, passando insensibilmente dalla richiestadi ripristino della legalit costituzionale a profonde proposte diriforma dellamministrazione dello Stato e della societ.

    Al fine di rispondere alle sollecitazioni del sovrano, il quale co-municava la propria volont di premiare adeguatamente i Sardi perla vittoriosa resistenza allinvasione francese, gli Stamenti decisero di

    L. Carta La Sarda Rivoluzione (1793-1802) 31

    Sardegna_2.QXD 11-01-2006 20:51 Pagina 31

  • convocare solennemente nella capitale per la fine di aprile i rappre-sentanti dei tre Bracci: in quella circostanza avrebbero discusso leis