Breve Storia Della Calabria

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BREVE STORIA DELLA CALABRIA Aspettando l'Italia Con il Congresso di Vienna, nel 1815, sul Regno del Sud ritornavano i Borbone, nonostante le beghe dello spodestato Gioacchino Murat, che tentò di riprendersi il Regno, approdando proprio in Calabria. Accolto con ostilità, venne prontamente imprigionato e fucilato il 13 ottobre del 1815 nel Castello di Pizzo, che oggi porta il suo nome. Ferdinando IV, ritornato sul Regno, lo chiamò delle Due Sicilie, diventò Ferdinando I e promulgò i codici che furono ben presto considerati come i migliori d'Europa. In segno di ringraziamento per il ritorno sul trono, fece costruire nel Largo di Corte, oggi piazza Plebiscito, una monumentale basilica intitolata al santo calabrese Francesco di Paola. Abolì il diritto del maggiorasco per ampliare i trasferimenti della proprietà terriera e nella regione istituì una nuova provincia, dividendo quella Ulteriore in Prima, con sede a Catanzaro, e Seconda, con capoluogo Reggio. Dovette fare fronte al primo tentativo insurrezionale del Regno, che scoppiò a Nola nel 1820, promosso da due sottufficiali, il monteleonese Michele Morelli e Giuseppe Silvati. Per reprimere la sommossa il re inviò un altro calabrese, il generale Guglielmo Pepe (nella foto), che invece di combattere gli insorti si unì a loro e mosse verso Napoli, costringendo Ferdinando I a concedere una Costituzione e a fare eleggere un'assemblea legislativa, dove uno degli esponenti di maggior spicco fu il barone calabrese Giuseppe Poerio. In soccorso dei Borbone, arrivarono gli Austriaci, che non ebbero difficoltà ad avere la meglio sull'esercito comandato da Guglielmo Pepe. Seguirono gli arresti per i capi dell'insurrezione, ma tutti furono 1

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BREVE STORIA DELLA CALABRIA

Aspettando l'Italia

Con il Congresso di Vienna, nel 1815, sul Regno del Sud ritornavano i Borbone, nonostante le beghe dello spodestato Gioacchino Murat, che tentò di riprendersi il Regno, approdando proprio in Calabria. Accolto con ostilità, venne prontamente imprigionato e fucilato il 13 ottobre del 1815 nel Castello di Pizzo, che oggi porta il suo nome.Ferdinando IV, ritornato sul Regno, lo chiamò delle Due Sicilie, diventò Ferdinando I e promulgò i codici che furono ben presto considerati come i migliori d'Europa. In segno di ringraziamento per il ritorno sul trono, fece costruire nel Largo di Corte, oggi piazza Plebiscito, una monumentale basilica intitolata al santo calabrese Francesco di Paola. Abolì il diritto del maggiorasco per ampliare i trasferimenti della proprietà terriera e nella regione istituì una nuova provincia, dividendo quella Ulteriore in Prima, con sede a Catanzaro, e Seconda, con capoluogo Reggio.Dovette fare fronte al primo tentativo insurrezionale del Regno, che scoppiò a Nola nel 1820, promosso da due sottufficiali, il monteleonese Michele Morelli e Giuseppe Silvati. Per reprimere la sommossa il re inviò un altro calabrese, il generale Guglielmo Pepe (nella foto), che invece di combattere gli insorti si unì a loro e mosse verso Napoli, costringendo Ferdinando I a concedere una Costituzione e a fare eleggere un'assemblea legislativa, dove uno degli esponenti di maggior spicco fu il barone calabrese Giuseppe Poerio. In soccorso dei Borbone, arrivarono gli Austriaci, che non ebbero difficoltà ad avere la meglio sull'esercito comandato da Guglielmo Pepe. Seguirono gli arresti per i capi dell'insurrezione, ma tutti furono graziati, tranne Morelli e Silvati, ai quali toccò la forca. Così come capitò ai responsabili di una rivolta di breve durata, che avvenne a Catanzaro nel marzo del 1823. Ad essere giustiziati furono Giacinto De Jesse, Luigi Pascale e Domenico Monaco, quest'ultimo di Mendicino.Tra il 1835 ed il 1837 Luigi Settembrini insegnò a Catanzaro, dove venne arrestato. Nel 1839 si sollevarono i paesi albanesi e quelli del cosentino, ma vennero presto ricondotti all'ordine. Cinque degli insorti furono fucilati, mentre agli altri toccò la galera. Preceduto dall'insurrezione di Cosenza del 15 marzo, che provocò la morte di quattro gendarmi e di altrettanti insorti, nel 1844 ci fu la spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera che, partendo da Corfù, sbarcarono a Crotone; intercettati a S. Giovanni in Fiore, furono arrestati dalle autorità borboniche. I fratelli Bandiera e i loro seguaci vennero fucilati nel vallone di Rovito, presso Cosenza, il 25 luglio del 1844 (nell'immagine, la ricostruzione dell'episodio).Tre anni dopo scoppiò un'altra rivolta, che si sviluppò nel reggino e nel catanzarese, a cui parteciparono anche esponenti del clero. Dopo una serie di scontri, gli insorti vennero

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arrestati e i capi della sommossa fucilati il 2 ottobre: Michele Bello, Gaetano Ruffo, Rocco Verduci, Domenico Salvatori, Pietro Mazzoni, che sono stati indicati come i "Martiri di Gerace". Il mese prima era stato ucciso a Reggio Domenico Romeo, capo dell'insurrezione.Il Quarantotto fu un anno memorabile. Il nuovo re Ferdinando II aveva concesso la Costituzione, per poi ritirarla. Anche a quelle convulse giornate napoletane avevano preso parte numerosi calabresi, e soprattutto Carlo Poerio, che ne era stato il maggiore protagonista e che svolse un ruolo di primo piano per tutto il Risorgimento. I liberali che erano in Calabria avevano accolto la concessione della Costituzione con grandi speranze, ma vedendo cambiare le cose affrontarono in uno scontro aperto l'esercito reale nella battaglia dell'Angitola, dove morirono, tra gli altri, Ferdinando de Nobili di Catanzaro, Giuseppe Mazzei di S. Stefano, Domenico Scaramuzzino di Nicastro, Domenico Morelli di Mormanno. Oltre 350 furono i condannati politici, molti dei quali costretti successivamente ad espatriare. Alcuni li troveremo tra le camicie rosse che partirono da Quarto nel maggio del 1860: Francesco Stocco, Giovanni Nicotera e Benedetto Musolino, che poi saranno anche deputati nel primo parlamento del Regno d'Italia.Erano gli anni in cui Andrea Cefaly, pittore di Cortale, uno dei più accreditati del periodo, concepiva, come simbolo della lotta contro l'oppressione, il potente quadro di Spartaco. E infine calabrese fu chi attentò, nel 1856, alla vita del sovrano, infliggendogli una pericolosa baionettata. Era Agesilao Milano, di origini albanesi, nato a S. Benedetto Ullano. Venne decapitato al largo del Cavalcatoio a Napoli.Quando si parla dell'età risorgimentale, ovviamente si ricordano i moti e si trascura tutto il resto. Va quindi detto che sul trono di Napoli, a Ferdinando I era succeduto Francesco I e poi, nel 1825, Ferdinando II, che all'inizio del suo regno venne guardato con attenzione anche dagli ambienti liberali. Ebbe molta cura dell'attività di governo e possiamo trovare testimonianze significative anche in Calabria, che Ferdinando II visitò tre volte: nel 1833, nel 1844 e nel 1852. Alla fine del regno borbonico le principali città della regione potevano comunicare tramite linee telegrafiche. Nel 1847 era stata abolita l'imposta sul macinato, che penalizzava i più poveri. Era stato dato impulso all'educazione con l'istituzione di scuole di ogni ordine e grado e a Catanzaro anche dell'Università. Si intervenne sulle strade principali della regione.Il 18 aprile del 1853 Ferdinando II decretò l'istituzione di due "Casse di Prestanze Agrarie" che rappresentarono il nucleo originario di quella che diventò nel 1861 la Cassa di Risparmio di Calabria, che avrebbe svolto una funzione fondamentale per lo sviluppo della regione. A Reggio venne completato il Teatro Comunale e promossa una Biblioteca Civica, mentre nel 1819 era stato istituito il Museo, a salvaguardia degli inestimabili reperti archeologici. A Catanzaro venne costruito il Real Teatro Francesco I, che diventò il centro culturale della vita cittadina. A Cosenza sorse il Teatro Reale Ferdinando di Borbone. A Paola, la città di S. Francesco, particolarmente cara alla dinastia, venne visitata dal re nel 1844 insieme con la regina Maria Teresa e, nel 1852, accompagnato dal principe ereditario. Sempre a Paola venne ripristinata l'attività dei monaci francescani e riaperto il protoconvento, chiuso sotto il dominio francese. Nel frattempo, all'Università di Napoli, dove insegnava logica e metafisica, il tropeano Pasquale Galluppi faceva conoscere ai suoi studenti le nuove correnti della filosofia europea, a cominciare da Kant.Ma durante questo secondo periodo borbonico si registrarono in tutta la Calabria importanti cambiamenti. Prima di tutto c'era la quasi completa possibilità di esercitare gli usi civici che consentivano a larghe masse di contadini di utilizzare i vasti demani della Sila e del Marchesato. La popolazione aumentò notevolmente tra il 1801 ed il 1861, passando dai

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750.000 a 1.140.000 abitanti. A Mongiana, nelle montagne delle Serre, funzionavano le Regie Ferriere con quasi duemila operai. Secondo alcuni, era il più importante polo siderurgico italiano, che subito dopo l'Unità venne completamente smantellato. Si tenga conto che la prima ferrovia italiana, inaugurata proprio nel Regno delle Due Sicilie nel 1839 con la Napoli-Portici, dimostrava l'importanza di queste industrie.Peraltro, calabresi erano le due persone considerate più ricche del Regno e ovviamente molto influenti presso la corte di Napoli, dove, dal 1843 erano entrambi gentiluomini di camera del re: i baroni Luigi Barracco e Luigi Compagna, che avevano dato prova di notevoli capacità imprenditoriali nella gestione moderna e produttiva dei loro feudi.Nel 1859 Ferdinando II moriva. Gli successe il giovane figlio Francesco II. Infuriava la seconda guerra di indipendenza e per il Regno delle Due Sicilie i tempi volgevano all'impossibile. Il giglio della dinastia era destinato ad appassire presto.

«A me m'ha rovinato Garibaldi»

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Parlare male di Garibaldi? Oggi, pur non avendo certo le dimensioni di un fenomeno di massa, lo si sente fare sempre più spesso anche in Calabria. Fino a qualche anno fa era considerato quasi un sacrilegio. Infatti, il mito dell'Eroe è stato sempre fortissimo in queste contrade. E dovunque Garibaldi è arrivato, ha dormito, ha desinato, forse anche presso "l'albero dove si presume sia stato adagiato", ci sono delle targhe, dei monumenti, delle iscrizioni per ricordare l'evento. Credo che in nessuna regione come la Calabria possa rinvenirsi tale ricchezza.Garibaldi era partito da Quarto i primi di maggio e quasi nessuno lo aveva preso sul serio, tranne i Mille, tra i quali c'erano anche ventuno calabresi. Una volta in Sicilia le cose cambiarono e a fine giugno si era già impossessato dell'isola. Sbarcò in Calabria, a Melito Porto Salvo, il 19 agosto. Si imbatté con le armate borboniche il 29 agosto a Soveria Mannelli, paese ritenuto fedele ai Borbone. Erano in diecimila al comando del generale Giuseppe Ghio e avevano cavalli e cannoni ma preferirono non opporre alcuna resistenza. Si arresero senza condizioni. La tradizione dice che il generale Francesco Stocco, una delle anime della spedizione, che era dei luoghi, facesse appiccare dei fuochi attorno a Soveria, facendo credere che il numero degli insorti fosse immenso. Altri preferiscono invece ricordare che Ghio si rifugiò presso l'accampamento di Garibaldi, forse per non fare la fine del generale Briganti che quattro giorni prima a Mileto era stato ucciso dalle truppe umiliate e inferocite, proprio perché si era rifiutato di combattere. Garibaldi arrivò a Napoli senza incontrare più alcuna resistenza e propose proprio al generale Ghio il comando della Piazza di Napoli. Vi rimase per pochi giorni perché venne incarcerato: qualcuno si ricordò che era stato uno dei massacratori di Pisacane. Ma appena giunti i piemontesi, fecero giustizia: lo liberarono, mettendolo subito in pensione.Ma tutta l'impresa dei Mille fu ricca di ufficiali che non combatterono e che, una volta finite le ostilità, cambiarono divisa. Sottufficiali e soldati invece andarono ad ingrossare le fila di quell'altra grande guerra civile che, subito dopo l'Unità, infiammò tutto il Sud e che interessò la Calabria in modo profondo. Nei libri di storia la chiamano "brigantaggio".

La "mala unità": o briganti o emigrati3

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L'uso delle terre silane che, nel settembre del 1860, Garibaldi aveva concesso ai contadini con il proclama di Rogliano, era stato revocato subito dopo la sua partenza per Napoli. Era stato giudicato troppo nocivo dai proprietari, con alla testa Donato Morelli, appena nominato dal dittatore governatore della Calabria Citra, che proprio in Sila possedeva 900 ettari. Né dopo andò meglio: sulle popolazioni calabresi si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria.

Era davvero una rivoluzione, che a quel tempo veniva meglio definita dalle popolazioni calabresi, come "repubblica", in quanto sinonimo di disordine. E le rivolte, spontaneamente sorte contro i conquistatori, divamparono ancora di più dopo la morte di Cavour, coinvolgendo borghi e villaggi, città e campagne. Alle rivendicazioni sociali si sommarono nostalgie dinastiche, delle quali fu protagonista anche lo spagnolo Josè Borjes, che sbarcò a Brancaleone senza troppi risultati. La Sila divenne il centro del brigantaggio, mentre a decine i comuni calabresi issarono il bianco vessillo gigliato dei Borbone. Tantissime bande operavano nel cosentino e nel catanzarese. Tra queste le più famose quelle di Pietro Monaco, di Pietro Bianco, di Nino Nanco, di Faccione. Quasi sempre erano persone di umilissime origini, però tra loro ci furono anche un sindaco, un medico e un notaio.

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La repressione fu spietata e la lotta ai briganti venne condotta in un primo tempo dal generale Cialdini, alla testa di un esercito regolare che venne impiegato in vere e proprie azioni di guerra. Ma la rivolta era non solo contro il nuovo ordine, ma anche contro le classi sociali che con l'Unità cominciavano a imporsi o consolidavano il proprio potere. Infatti, i proprietari della Sila e del Marchesato vennero a lungo terrorizzati da queste bande. Un brigante che operò anche in Calabria, il leggendario Carmine Crocco, così spiegò il suo punto di vista:

«La nostra reazione fu frutto dell'ignoranza, ciò sarà vero, anzi verissimo, ma a promuovere le reazioni vi concorsero pure questi arrabbiati signorotti di provincia che con sfacciata millanteria dicevano: "E' venuto il tempo nostro". E i poveri oltraggiati risposero: "E' venuto pure il nostro"».

Pur non raggiungendo le proporzioni di altre zone del Sud, il brigantaggio calabrese ebbe grande consenso popolare, soffuso di leggenda. E calabrese fu la più famosa brigantessa. Si chiamava Ciccilla, al secolo Marianna Oliverio, e guidò per qualche tempo la banda di Pietro Monaco. Arrestata, venne passata per le armi. La Calabria ancora una volta era in fiamme e vi rimase per lunghi anni, segnati da arresti, scontri, rapine, uccisioni. Le leggi eccezionali Pica del 1863, che esclusero la provincia di Reggio, non frenarono lo sviluppo del banditismo, che si diffuse anche nei comuni dell'alto nicastrese. Infatti, vicino Castagna operava una banda di briganti ancora nel 1868. Lo stesso anno in cui lo stesso Garibaldi, consapevole di quello che aveva comportato l'Unità, scriveva in una lettera ad Adelaide Cairoli:

«Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate».

E Garibaldi aveva ragione perché il consenso che lo aveva accompagnato nel Mezzogiorno era stato sempre massiccio. Anche quando, nel 1862, era ripartito dalla Calabria, per consegnare a Vittorio Emanuele II anche Roma. Era stato fermato sull'Aspromonte dalle truppe sabaude, che lo avevano pure ferito il 29 di agosto. Ma la storia della Calabria era da secoli la storia del Sud. Questa caratteristica si accentuò con l'Unità. E le cause che avevano provocato il brigantaggio, più alcune nuove, furono i motivi del vasto fenomeno che stravolse la società calabrese: l'emigrazione. Fino all'inizio del secolo partirono quasi 280.000 persone, quasi tutte per gli Stati Uniti. Ma gran parte di chi emigrava ritornava poi in Calabria con i frutti del proprio lavoro, maturati sempre con grandi sofferenze. Il fenomeno riguardava soprattutto le zone interne e ovviamente le persone più povere. Si trattava di braccianti, coloni, piccoli proprietari.Dal 1901 al 1913, su una popolazione media di circa 1.400.000 abitanti, abbandonarono la regione in 439.000. Di essi ritornò meno di un quinto. Anche stavolta il flusso migratorio, che si bilanciava con l'aumento delle nascite, si indirizzò nella quasi totalità verso gli Stati Uniti, l'Argentina e in misura più ridotta, il Brasile. Fu un esodo che provocò la prima grande trasformazione della regione: economica, culturale, politica.Ma oltre agli effetti devastanti, vi furono paradossalmente anche elementi positivi: l'arrivo delle rimesse degli emigrati e l'aumento dei salari, determinato dalla riduzione della manodopera. Non aveva tutti i torti Sidney Sonnino, fautore della libertà di emigrazione, scriveva nel 1879:

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«L'emigrazione migliora gradatamente le condizioni fatte ai lavoratori della terra per la diminuita concorrenza delle braccia e, quando ben diretta, può inoltre procurare al Paese nuovi capitali se gli emigrati ritornato, influenza gli sbocchi commerciali all'estero se si stabiliscono definitivamente nel luogo di emigrazione». Fu indubbio che in Calabria, pur pagando prezzi enormi, migliorarono le condizioni di vita, soprattutto delle classi più povere. L'Italia era nata e come primo risultato otteneva quello di indurre molti cittadini a espatriare. Proprio in quel periodo, anche in Inghilterra, che era la Nazione più potente d'allora, Oscar Wilde paradossalmente commentava:«L'avvenire dell'Inghilterra sta nell'emigrazione». Non a caso sulla inevitabile necessità dell'emigrazione in un certo senso si espresse negli anni Cinquanta di questo secolo anche Alcide De Gasperi, indiscutibilmente il presidente del consiglio più meridionalista di tutti, sebbene trentino.Nel frattempo il flusso migratorio che interessò la Calabria dal 1876 al 1930, coinvolse oltre un milione di persone. Con sacrifici immensi, costi sociali altissimi, linciaggi. Nel secondo dopoguerra il flusso migratorio riprese, ma con caratteristiche diverse. E nonostante questi esodi, l'aumento demografico è stato molto forte e si è passati dalla popolazione residente del 1871 di 1.200.000 persone a quasi 2.000.000 del 1971. Quasi la stessa popolazione odierna.

In mano ai galantuomini

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Subito dopo lo smantellamento dell'apparato repressivo contro il brigantaggio, in Calabria, scoppiò a Filadelfia un moto repubblicano promosso da Giuseppe Giampà, che durò dal 1869 al 1870 e che venne represso. Assistiamo alla creazione del Parlamento e quindi alla nascita di una classe politica, che venne definita: dei "notabili" in Italia e dei "galantuomini" in Calabria. Nella direzione dello Stato, ai nobili si sostituirono i deputati, alla corte il Parlamento, e i poteri del sovrano vennero notevolmente ridotti.

Con l'allargamento dell'area della gestione del potere, il ruolo degli uomini diventò ancora più importante e saranno i loro comportamenti che, più che un destino cinico e baro, influenzeranno per la Calabria il corso degli eventi. Comunque, i nobili mantennero una percentuale consistente anche nel nuovo sistema. Basti pensare che ancora nel 1900, chi sedeva nel Consiglio Comunale di Catanzaro per un quarto appartenevano a famiglie nobili. Napoli continuava a mantenere la sua centralità per la nobiltà del Sud. Infatti dei 37 senatori meridionali che intorno al 1880 sedevano al Senato, dove la presenza dei nobili era più marcata essendo di nomina regia, ben 15 risiedevano a Napoli. Le altre famiglie della nobiltà provinciale andavano invece chiudendosi in una dimensione sempre più locale, come dimostrava anche la completa assenza di matrimoni tra la nobiltà catanzarese e quella della corte borbonica dal 1799 in poi. All'inizio si votò soprattutto in base al censo e quindi in media partecipava in Italia il 2% della popolazione e in Calabria anche meno: nel 1870 era ancora l'1,63. I collegi erano 25 e tra questi, nella prima legislatura unitaria, quasi la metà erano nobili.Nel corso dei decenni, tra i deputati calabresi, erano molti gli aristocratici e furono influenti per lungo tempo i Nunziante, i Barracco e i Compagna che, avendo terre, relazioni e

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influenza politica, rappresentarono un punto di riferimento per gli interessi di tutta la nobiltà meridionale. Già dalle prime elezioni del 1861 la Calabria sedeva all'opposizione. Infatti la maggior parte dei venticinque deputati assegnati alla regione apparteneva al partito della Sinistra, che nelle elezioni del 1874 conquistò addirittura 23 seggi su 25. Nel 1876, con l'esordio della Sinistra al potere, arrivò anche il primo ministro calabrese: Giovanni Nicotera, al quale Depretis affidò il dicastero dell'Interno. Eletto a Sapri in ricordo della spedizione di Pisacane, della quale era stato uno dei superstiti, Nicotera, che era di Sambiase, fu un personaggio di primo piano nelle vicende della lotta politica italiana dopo l'Unità. Contestatissimo ma anche seguitissimo, tanto che anche a Napoli, affacciato sul lungomare, nelle vicinanze del celeberrimo negozio di cravatte Marinella, c'è oggi una statua che lo ricorda.Altro ministro calabrese fu Bernardino Grimaldi, che da responsabile delle Finanze nel 1879 fece approvare dalla Camera l'abolizione dell'odiata tassa sul macinato, ma fu costretto a fare immediatamente marcia indietro perché si accorse che senza questa entrata il bilancio non poteva quadrare. Fu una tempesta che fece cadere il governo.Cambiato il sistema elettorale con l'introduzione della proporzionale, vi fu l'aumento dei collegi e l'ampliamento del corpo elettorale, che si triplicava. I vecchi partiti tradizionali si sfaldarono e quella fu la stagione del trasformismo. Furono ministri di questi governi diversi calabresi, anche in dicasteri importanti: Luigi Miceli, Bernardino Grimaldi, Bruno Chimirri, Bernardino Giannuzzi-Savelli, Gaspare Colosimo e di nuovo Nicotera. Nel 1893, quando scoppiò uno dei più grandi scandali dell'Italia unita, quello della Banca Romana, vennero direttamente coinvolti Bernardino Grimaldi, ministro delle Finanze, Luigi Miceli, oltre a Giovanni Nicotera e a Rocco De Zerbi, il quale si suicidò. Altro deputato degno di nota è Achille Fazzari, che nel 1874 venne eletto per la prima volta con un programma preciso: la conciliazione tra Stato e Chiesa. Ma non essendo maturi i tempi, nel 1887 si dimise. In questi periodi i ricambi erano minimi e i mandati parlamentari dei calabresi assumevano le caratteristiche della lunga durata.Nel periodo giolittiano, la questione sociale si fece avvertire anche nella regione ed esplose con il terremoto del 1905 . Infatti, in mezzo secolo poco si era fatto, e anzi nuovi problemi erano sorti. Si ebbe così la legge 25 giugno 1906, proposta da Bruno Chimirri, che in sedici anni avrebbe dovuto portare la Calabria a livello delle altre regioni. Questa legge venne finanziata con 8 milioni, mentre altri 22 milioni erano stati stanziati dalle leggi sulle bonifiche del 1899, del 1900 e del 1902 per consentire la sistemazione idraulica e il recupero delle pianure calabresi invase dalla malaria. Ma gli eventi successivi vanificarono ogni buona intenzione. Infatti nel 1908 un terremoto terrificante rase al suolo Reggio e devastò 167 comuni della Calabria. Le vittime furono circa 25.000 e in quella circostanza vi fu un grande sforzo di solidarietà del governo.Nel 1913 con l'estensione del diritto di voto ci fu, per la prima volta, un ricambio consistente. Infatti 7 deputati su 23 erano nuovi. Nel dopoguerra i deputati più prestigiosi furono Giuseppe De Nava, Gaspare Colosimo e Luigi Fera. In particolare Gaspare Colosimo diventò anche vicepresidente del Consiglio nel governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando. Nel 1919 la deputazione calabrese fu rivoluzionata. Infatti entrarono combattenti, popolari, socialisti e risultò sconvolta la vecchia organizzazione elettorale delle clientele. Entrarono alla Camera i primi deputati popolari che furono Antonino Anile, Giuseppe Cappelleri, Francesco Miceli-Picardi e Francesco Sensi. Faranno il loro ingresso anche i socialisti Pietro Mancini ed Enrico Mastracchi. Questa, in grandi linee, dall'Unità al primo dopoguerra, la storia parlamentare che si intrecciava con la situazione economica e

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sociale della regione.Subito dopo il 1860, le ferriere di Mongiana vennero dapprima smantellate e quindi acquistate dalla famiglia di Achille Fazzari, garibaldino e deputato. E nonostante questo, ancora nel 1901 la Calabria, con il 26% di addetti, era più industrializzata perfino dell'Emilia-Romagna. La percentuale calabrese è rimasta sostanzialmente invariata fino al 1977, quando contava il 25% di addetti nell'industria, rappresentando l'unico caso del Paese in cui fossero diminuiti.La stampa, che con il Regno d'Italia acquistava un sempre maggiore peso, era divisa in Calabria tra i fautori delle varie fazioni, di personaggi e famiglie. Tra i pochi, si distinse soltanto il prete di Acri Vincenzo Padula che fu un patriota e fondò «Il Bruzio», un giornale sul quale dal 1864 intraprese, in solitudine e poco ascoltato, forti battaglie sulle condizioni economiche e sociali della Calabria. Le comunicazioni ferroviarie, che rappresentarono il primo grande investimento dello Stato unitario, non tardarono ad arrivare anche nella regione, agevolando in modo considerevole le comunicazioni e, soprattutto, cominciando a ripopolare lentamente le zone marine. I tre capoluoghi di provincia, nel gennaio del 1881, a vent'anni dall'unificazione, ricevettero la visita ufficiale dei sovrani Umberto e Margherita, che vennero accolti da popolazioni entusiaste.Nuove città si ingrandirono e assunsero rilievo centri come Monteleone, Tropea, Crotone, Nicastro, Paola, Castrovillari, Rossano, Palmi. Il 20 novembre del 1909, con la messa in scena dell' Aida di Verdi, venne inaugurato il Teatro Comunale di Cosenza, successivamente intitolato al musicista Alfonso Rendano. Tra le indagini parlamentari che riguardarono la Calabria la prima è stata quella sull'agricoltura, presieduta da Stefano Jacini, e poi quella del 1910 della quale fu relatore Francesco Saverio Nitti. In esse venivano messe in evidenza le grandi arretratezze, storiche e strutturali, della società calabrese. E proprio per rappresentare i bisogni delle classi popolari che cattolici e socialisti svolsero anche in Calabria delle meritevoli azioni di promozione sociale ed economica. Don Carlo De Cardona, un prete illuminato, aveva creato a Cosenza un efficiente reticolato di casse rurali, mentre i socialisti avevano dato vita ad oltre 150 Società di Mutuo Soccorso.La regione non fu interessata alle operazioni belliche, ma 20.000 calabresi morirono sul fronte. E come nelle più immani tragedie c'è anche il risvolto della medaglia: il servizio militare obbligatorio, che era stata una delle cause del brigantaggio, e quindi la guerra rappresentarono per migliaia di calabresi la possibilità di conoscere l'Italia. La Calabria con un grande lavacro di sangue si integrava nello stato unitario. Ma un altro rivolgimento, quello fascista, batteva alle porte. Per la Calabria, rappresentò uno scossone ancora più forte, conquistando questa regione alla modernità.

La Calabria, la seta, la naturale eleganza della storia

La Calabria e la seta, storia di donne, fatica e bellezzadi Luigina GUARASCI Edizione:Il Filo Rosso, Rogliano 2007Recensione a cura di Rossano ONANOPubblicata su Il Filorosso nr.43/2007

Ci sono persone che parlano sempre, e nessuno le ascolta. Altre persone siedono all'ultimo banco, ove per altro lo sguardo sulla platea è onnicomprensivo; inconsapevolmente evangeliche, aspettano che il padrone di casa le chiami dicendo: siedi qui, accanto a me.

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Allora queste persone parlano, sobrie, e la platea ascolta. Luigina Guarasci appartiene a quest'ultima categoria. Nota distintiva personale: essendo Luigina (Gina) organizzatrice culturale, spesso siede all'ultimo banco quando nello stesso tempo risulta essere la padrona di casa. Quando ciò avviene, ad invitarla al posto d'onore è Francesco Graziano, fortunato consorte e poeta, a sua volta organizzatore culturale che rispetto a Gina ha il vantaggio pratico (lo svantaggio esistenziale) di una maniacale precisione operativa. Allora Gina parla, sobria ed elegante: qualità di naturale aristocrazia.Luigina Guarasci, per le stesse qualità, rientra fra le mie scrittrici preferite. In lei non c'è ombra della battagliera animosità (l'impressione non è mia, è di Dacia Maraini) generalmente adottata dalle donne che si impegnano nella scrittura. Osserva le cose, e racconta, con superiore e soave spirito critico. Qualità confermate nell'ultimo lavoro: La Calabria e la seta. Storie di donne, fatica e bellezza (Ilfilorosso. Quaderni 7, marzo 2007). La collana è diretta da Francesco Graziano, cui spetta sicuramente il sunto esplicativo in quarta di copertina, non firmato. Il quale riporta l'argomento del libro (l'allevamento del baco, la produzione e la tessitura della seta in Calabria) entro una puntuale cornice di antropologia in senso lato politica: il futuro deve sfruttare le moderne tecnologie, senza dimenticare la grande tradizione di mestiere che affonda le radici nel territorio e nella sua storia: E' questa la strada per un moderno operare capace di valorizzare una creatività eticamente forte, in grado di lasciare il segno nelle generazioni e, quindi, di produrre bellezze da non destinare al tritacarne del consumismo. Luigina Guarasci percorre la storia secondo temperamento, non altrettanto imperioso ma forse più empatico riguardo alle vicende umane e al metasignificato delle stesse. Nel caso delle sete calabresi, spiega Gina, venivano utilizzati prodotti del territorio per la colorazione: essendo il rosso scarlatto, nel Medioevo colore della regalità, ricavato dalla radice della robbia o dalle bacche del ricino; l'azzurro dal guado, pianta erbacea che diede vita a culture intensive nelle zone a vocazione tintoria: A partire dal XIII secolo, infatti, la scelta del blu e di tutte le gamme degli azzurri fece registrare un'inversione di tendenza rispetto al passato e una brusca impennata della domanda. Come dice Michel Pastoreau, si verificò una svolta nella mentalità collettiva, per cui il blu e l'azzurro, da colori barbarici, divennero i colori del manto della vergine prima e dei re poi. All'inizio dell'Età Moderna si affermano i Comuni e la teocrazia e la monarchia di Francia: cambia la storia; cambia il metasignificato dei colori. E questa è antropologia.Rispetto all'argomento specifico, il quotidiano operare degli uomini che fanno la storia è rappresentato dal lavoro delle donne.L'attività legata all'allevamento e produzione e tessitura della seta è stato per secoli il quotidiano operare di generazioni di donne, capaci per questo di determinare la produttività dell'intera regione. Gina Guarasci si accosta alle donne ancora in grado di ricordare e raccontare la storia, prima che il silenzio intervenga; ascolta e trascrive; ne ottiene il fascinoso documentario che è (dal titolo) "storia di donne, fatica e bellezza".Storie di donne. Il filo serico ha caratteristiche di lucentezza, resistenza e splendore: qualità che attribuiamo, per abito culturale, all'essere femminile. E infatti, la storia della seta è definita all'origine, sotto forma di leggenda e poesia, dall'osservazione incantata di una donna, l'imperatrice Hsi-ling-Shih, correndo approssimativamente l'anno 2.500 a. C.: Si racconta che mentre l'imperatrice era intenta al rito del tè, insieme alle sue ancelle, all'ombra di un grande gelso nei giardini imperiali, un bozzolo cadde nella tazza colma della calda bevanda, consentendole con grande stupore di dipanarlo lentamente ottenendo un filo lucente lungo un chilometro. L'imperatrice intuisce le possibilità di utilizzo del filo,

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dando così l'avvio all'allevamento dei bachi.Rispetto all'uomo, spesso ciondolone e ruminativo, la natura femminile è tale da condurre le percezioni ineffabili, ad esempio legate alla bellezza, ad un esito speculativo.L'attività rivolta al commercio della seta, documentata a Roma nel I secolo d. C. tramite intermediari persiani, esitò nelle complesse attività produttive (allevamento, produzione, tessitura) già organizzate sotto il controllo dello stato da Giustiniano (VI secolo). Tali attività trovarono campo fertile in Sicilia e Calabria per il sincretismo culturale presente in quelle regioni, nella stagione tuttora ineguagliata di integrazione culturale dovuta all'avvicendarsi di culture diverse (bizantini, arabi, normanni, svevi, gli ebrei come sempre diacronici) che stratificarono senza conflittualità fino al periodo aureo degli aragonesi. Per ciò che riguarda specificamente la Calabria, fino a tutto il Cinquecento essa è terra di avanzato sviluppo manifatturiero. Tanto che: Maestranze catanzaresi partono per l'Europa del centro e del nord per introdurre e/o sviluppare la produzione della seta e alla fine del '400 sono chiamati a Tours per impiantare in Francia l'arte serica; già nel XIV secolo Catanzaro aveva donato al re Ladislao un pregiato parato di Damasco verde a stelle d'oro per ornare la sala del trono, opera di setaioli locali. Priva di una classe imprenditoriale forte e pronta ad investire, la Calabria divenne successivamente un grande mercato di prodotto grezzo, che alimentava le fabbriche genovesi e fiorentine. L'organizzazione serica andò strutturandosi su una serie di operazioni svolte da diverse categorie di persone nel proprio domicilio, sotto il controllo dell'imprenditore come punto d'arrivo delle varie attività. La storia della seta diventa, anche, storia di presenza femminile: Le donne, infatti, erano al centro di un vasto processo che incominciava con l'allevamento del baco e procedeva poi con le varie operazioni del ciclo di produzione, dalla trattura alla tessitura. Lucia Mondella, rappresentata nell'immaginario collettivo come soave seppure pavida contadina, era nello stesso tempo ed altrove lavorante in filanda. La storia dell'emancipazione femminile, così in Calabria come sulle sponde del lago di Como, è in buona misura storia di lavoro nel complesso ciclo dell'attività serica.Entro il quale la donna, il libro suggerisce con molta discrezione, si muove piuttosto bene. Nella maggior parte dei casi: La seta continua ad essere prodotta dalle donne che integrano i magri salari stagionali con un lavoro faticoso ma contenuto nel tempo e compatibile con altre attività e con il peso familiare. Ma, talora, l'attività femminile trovava esito in variazioni di stato più saporite: Augusto Placanica, dall'analisi dei libri parrocchiali, rileva un fenomeno insolito ed emblematico: frequenti matrimoni tra vedove e celibi. Infatti: A Catanzaro, nei secoli XVII e XVIII, avveniva spesso che donne vedove, diventate autosufficienti e talvolta benestanti con la lavorazione della seta a domicilio, potessero aspirare a un matrimonio con un uomo celibe, e forse anche più giovane. Sarebbe interessante l'analisi comparata dei libri parrocchiali, neì secoli XVII e XVIII, ad esempio sulle sponde del lago di Como: ho la personale sensazione che i matrimoni fra vedove mature e celibi giovani siano stati, in quelle lande, non altrettanto frequenti. La donna socialmente emancipata che convive o frequenta uomini giovani è attuale fenomeno di costume: non esiste comportamento umano che la terra del sud, dalla Magna Grecia in poi, non abbia in precedenza sperimentato.Luigina Guarasci racconta l'evoluzione del costume femminile senza sussulti cattedratici, da esperta delle vicende umane. Superiore coscienza fenomenologica, magnanimità.Storie di fatica. Il periodo aureo della seta calabrese dura fino al '600: Lione, soccorsa da maestranze soprattutto calabresi, diventa la città leader in Europa nel campo della creazione

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dei tessuti preziosi. L'Italia meridionale vede diminuire fortemente la produzione e I'esportazione di seta greggia, pur restando fino alla fine del '700 il principale fornitore di filato serico per la Francia e l'Inghilterra. In particolare, la seta calabrese veniva richiesta e monopolizzata da mercanti imprenditori soprattutto genovesi: D'altra parte il monopolio, soprattutto genovese, ha sempre condizionato il mercato serico genovese; la seta prodotta in Calabria era necessaria ai genovesi per la tessitura dei pregiati velluti e, grazie ai buoni rapporti che essi avevano con la corona spagnola, riuscivano a fare della Calabria un mercato per loro privilegiato imponendo sgravi fiscali e incrementando la produzione di filato serico senza che venisse introdotto alcun miglioramento tecnico che né i sovrani spagnoli né, più tardi, una classe imprenditoriale e scarsamente lungimirante voleva. Nulla di nuovo sotto il sole. Ha ragione Montale: la storia è maestra di nulla.Eppure, bisogna ammettere che non tutta l'umanità può raggiungere i vertici mercantili degli imprenditori genovesi: qualcuno che lavora sul serio ci deve pur essere. Funzione assolta, sempre, dai popoli del sud: per i quali la storia del lavoro, a partire dal '700, diventa storia epica di migrazione: Entrato in crisi il mercato, rotto l'equilibrio, la manodopera rurale si sposta in città alla ricerca di mezzi di sostentamento, ingrossando talora le file dei mendicanti e dei ladruncoli. Ma la popolazione dei casali cosentini nel '700 prende più spesso l'antica via dell'emigrazione stagionale. Si spostano in gruppi e vanno in Sicilia, in Basilicata, in provincia di Salerno per i lavori agricoli o per la lavorazione della liquirizia. La storia del lavoro diventa, anche, storia di sopravvivenza. Con una specificità d'azione contingente legata al sesso. Alla popolazione maschile spetta l'onere della migrazione. In particolare: In Sicilia andavano soprattutto gli stagionali di Rogliano, in particolare modo di Cuti che, ingaggiati da un "caporale", che spesso anticipava le spese, sottoscrivevano dei contratti per circa cinque mesi con obblighi molteplici come quello dì pagare a proprie spese il viaggio, compresa la barca per l'attraversamento dello stretto, il seguire determinati itinerari ecc. Alla componente femminile spetta l'onere della "resistenza" sul territorio. In filanda; ove (1878, provincia cosentina): Le donne erano costrette a turni massacranti: 12 ore con la sola pausa del pranzo. L'ambiente era insalubre a causa del calore dei fornelli e del vapore dell'acqua in ebollizione. I sistemi di produzione antiquati, i telai erano a mano, gli operai occupati erano 1140 di cui 1068 donne. Ma, soprattutto, organizzando il ciclo di produzione in parte a domicilio: La seta continuava ad essere prodotta dalle donne che integrano i magri salari stagionali con un lavoro faticoso ma contenuto nel tempo e compatibile con altre attività e con il peso familiare. "Resistere sul territorio significa, infatti, non abbandonare le attività connesse alla cura e custodia della casa. Nel carpigiano, Modena, un fenomeno analogo avvenne negli anni '50-'60 del secolo scorso per la lavorazione a domicilio di capi di maglieria. Mia madre, ricordo, cuciva capi di maglieria quando ero liceale. La sua fierezza nel lavoro è la massima espressione di sacrificio e dignità che la mia esperienza di vita abbia conservi.Luigina Guarasci racconta la"fatica" senza enfasi populistica: secondo l'antica saggezza delle genti che declinano il verbo "faticare" come sinonimo di "lavorare". Quando la "fatica" è "lavoro", e lavoro è resistenza nel mondo e nel territorio, non si racconta l'enfasi della storia; si racconta, invece, la verità della vita.Storie di bellezza. Fino a tutto il '500, la storia della seta di Calabria è storia di produzione di bellezza: i lavoranti catanzaresi alla fine del '400 sono chiamati a Tours per essere "maestranze" nel senso letterale del termine, ovvero per essere "maestre"dell'arte e della

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bellezza dell'arte. Quando già nel secolo precedente, puntualizza Gina Guarasci, Catanzaro aveva donato a re Ladislao un pregiato parato di damasco verde a stelle d'oro per ornare la sala del trono. Storia che diventa, anche, orgoglio e consapevolezza: Nel 1519 Catanzaro ottenne da Carlo V l'istituzione di un consolato dell'arte della seta con il compito di controllare la qualità del prodotto destinato ai mercati esteri. Non risulta sia presente, oggi, uguale determinazione per la tutela del patrimonio culturale, nelle Calabrie e nell'intero territorio italiano.Ma Gina Guarasci è donna: comprende che la bellezza non è epifenomeno artigianale di un territorio che si specializza nel produrre bellezza per esercizio volitivo e, tutto sommato, artificiale: la bellezza è, invece, vocazione primaria. La bellezza dei manufatti serici è connaturata al bellezza del territorio: non è "fenomeno" prodotto dal territorio, ma è "il territorio stesso". Gina Guarasci esprime questa verità con pudica determinazione, semplicemente colloquiando, da donna a donna,con la residua popolazione femminile ancora testimone della fatica e della bellezza prodotte. Una donna anziana racconta le procedure domestiche legate alla coltivazione del "siricu" (baco): Si cominciava dai semi piccolissimi che si compravano in piazza, un cucchiaino di semi. Poi lo mettevo in una pezza di cotone e lo ponevo al caldo nel petto finchè non nascevano tutti. L'allevamento del baco è metafora della fertilità femminile. "Il frutto del ventre tuo" era corretto, quando ero bambino, da una dizione più prudente: "sia benedetto il frutto del seno tuo".Il tutto all'interno di un paesaggio fortemente caratterizzato dalla presenza del gelso. Alle porte del Comune di Parenti, una signora racconta: In una veranda piena di sole, davanti a un panorama selvaggio e dolce nello stesso tempo; un paesaggio fatto di boschi, ma dove i gelsi non ci sono più. Bellezza e nostalgia: elegia.Luigina Guarasci parla di donne, fatica e bellezza senza concessioni enfatiche, lontana dalle coordinate in uso di natura sociologica o femminista o da furori estetizzanti. Gina, posso garantire, è una rara persona che non affida l'eleganza alla veste che indossa, essendo la veste che indossa investita dalla sua rara eleganza. Uguale connotazione di eleganza ha la sua scrittura.Qualcosa da dire sulla veste grafoica del libro. Francesco Graziano, direttore di Collana, è uomo di maniacale precisione: è uomo, anche, di profonda cultura e soprattutto poeta. E' lecito aspettarsi, per un libro simile, adeguata veste editoriale. Spetti a Gina o a Francesco il merito principale, non saprei dire: ma l'obiettivo è raggiunto, essendo la parte figurativa del volume sintonica all'elegante equilibrio della parola. Da bambino, ricordo una splendida maestra che corredava il dettato sulle varie regioni d'Italia fornendo a ciascuno di noi un francobollo da incollare, a memoria visiva delle arti e mestieri d'Italia. La scuola trasmetteva come valore, evidentemente, l'orgoglio di appartenenza nazionale, e la serie di valori bollati era splendida. La Calabria era rappresentata da una donna intenta al telaio. Il francobollo è felicemente riprodotto nel libro. Visto ora, ha l'assorta bellezza di un quadro di Vermeer.Ancora: a fine testo, il libro documenta i manufatti cosentini con un eccezionale apparato fotografico. Ad esempio, collocato a vista sul tronco di un manichino, uno spettacoloso Piviale in seta bianca con fiori policromi. Sec XX, Museo d'arte sacra, Rogliano (CS). Neppure Salomone, in tutta la sua grandezza, ha mai avuto una veste così bella.Rossano Onano

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