Breve introduzione allo studio delle antichità cristiane ... · Antonio M. Corda Breve...

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Antonio M. Corda Breve introduzione allo studio delle antichità cristiane della Sardegna Ortacesus 2007

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  • Antonio M. Corda

    Breve introduzione allo studio

    delle antichità cristiane della Sardegna

    Ortacesus2007

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    c©dicembre 2007 - Nuove Grafiche Puddu EditoreVia del Progresso, 6

    09040 - Ortacesus (Cagliari)ISBN 88-89061-41-1

    Collana diretta daAntonio M. Corda, Franco Loi, Antonio Piras

    Questo testo è stato compilato con LATEX2ε; la bibliografia è stata composta utilizzando

    BibTEX e il pacchetto jurabib (schema bibliografico ’oxford’).

    studioTypewritten TextAd uso esclusivo degli studenti dell'Univ. di Cagliariai fini del corso di Epigrafia Latina 2 (A.A. 2011/2012)

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    studioTypewritten TextESTRATTO DAL VOLUME (pp. 30-121)

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  • 30 Quadro storico

    Penisola che dal 40 al 38 non potè più contare sull’afflusso granario sardo se nonper un brevissimo periodo, quando l’Isola venne riconquistata (nell’anno 40) daEleno, liberto di Ottaviano. Menodoro riuscì però, quasi subito, a cacciare letruppe di Eleno così da indurre Ottaviano ed Antonio ad addivenire a patti conSesto Pompeo, al quale assegnarono, oltre alla Sardegna e la Corsica, anche unaserie di proventi derivanti dall’esazione di tasse nel Peloponneso. L’accordo, si-glato nel 39 a Miseno, non fu però rispettato da entrambe le parti e la situazionesarebbe tornata ad essere quella di prima se non vi fosse stato il tradimento,risolutivo, di Menodoro che passò dalla parte di Ottaviano agli inzi dell’anno38. La transizione dell’Isola nelle mani di Ottaviano sarà definitiva e anche nellaguerra contro Antonio la Sardegna giurerà fedeltà al futuro Augusto.

    1.2.3 La Sardegna in età imperiale

    Tra le province affidate alla cura diretta di Augusto venne esclusa, nel 27a.C., la Sardegna, la cui amministrazione venne invece assegnata direttamenteal Senato, secondo il criterio in base al quale a quest’ultimo dovevano essereaffidate le province con le popolazioni più integrate e quelle con i confini piùtranquilli. Tale valutazione venne quasi subito modificata dagli eventi, poichésappiamo che, a partire dal 6 d.C., la situazione locale sarda richiese l’invio diun grosso contingente militare per sedare dei tumulti. A capo di questo contin-gente venne inviato un comandante militare di nomina imperiale con funzionidi governatore provinciale. Le truppe, forse un reparto legionario, si trattenneroin Sardegna per lungo tempo fino almeno all’anno 14 d.C., anno della morte diAugusto, anche se sappiamo per certo che con questa data non finirono i pro-blemi, giacché, pur nella scarsezza generalizzata delle fonti, vari indizi lascianosupporre una situazione non ancora stabile. Una importante iscrizione rinvenutanell’area di Forum Traiani (l’odierna Fordongianus) ricorda per l’anno 19 unadedica all’imperatore Tiberio da parte delle Civitates Barbariae.

    L’espressione, purtroppo ricorrente in un testo fortemente lacunoso, indicaquei popoli delle aree interne che con quest’atto intendevano ’ribadire’ la propriafedeltà (o una propria sottomissione) a Roma. Questa sostanziale instabilità civiene inoltre confermata dalle fonti che ci attestano, almeno fino all’anno 46d.C., l’esclusivo invio in Sardegna di governatori a forte connotazione militarecosì come sembrano suggerire i titoli utilizzati per definire i loro incarichi al po-

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    sto del più normale titolo di procurator : vediamo infatti come si passi dal primoprolegatus del 6 d.C. fino all’ultimo praefectus del 46 d.C. Il primo funzionarioimperiale conosciuto con il normale titolo di procurator sarà solo del 67 d.C. e,paradossalmente, è noto proprio nella prima parte dell’anno in cui la Sardegna,che rimarrà, per quasi tutta la sua storia assegnata all’amministrazione direttadell’imperatore, passava al Senato in cambio della Grecia, provincia tradizio-nalmente senatoria e liberata da Nerone. Sono noti infatti per via epigrafica apartire da questo periodo tutta una serie di governatori di rango pretorio, se-natori quindi, con il titolo di proconsul. A partire da Vespasiano in poi, forsedall’anno 73, la situazione veniva ristabilita con la riassegnazione della Grecia alSenato e il nuovo passaggio della Sardegna all’amministrazione diretta da partedel principe. A questo punto i governatori provinciali saranno tutti di ordineequestre e verranno insigniti di quel titolo di procurator, la cui forte connotazio-ne militare verrà però asseverata dal titolo di procurator Augusti et praefectuscon cui è nota buona parte dei funzionari nominati a partire da Settimio Se-vero. Questa titolatura si alternerà sempre più spesso con quella di procuratorAugusti praeses provinciae Sardiniae. Entrambi i titoli risultano, in Sardegna,solitamente riferiti a procuratori imperiali di rango ducenario e quindi portatida individui di un certo livello a testimonianza indiretta, se mai ve ne fossebisogno, dell’importanza economica e strategica attribuita ad un’area così vici-na al cuore stesso dell’impero. La Sardegna continuerà per i secoli successivi arifornire di grano e altre materie prime la capitale e, nella riorganizzazione del-l’impero voluta da Diocleziano, venne affidata a Massimiano Augusto, il quale,una volta abdicato a favore della seconda tetrarchia, si vide succedere nel 305,nell’amministrazione della Sardegna, dal Cesare Severo.

    Le vicende degli anni successivi sono ben note e la Sardegna, così come citestimoniano le fonti epigrafiche rappresentate da due miliari, si schiererà infavore sia dell’usurpazione di Massenzio (308-309), sia dell’usurpazione, controlo stesso Massenzio, di L. Domizio Alessandro [vedi figura 1.1].

    L’avventura africana di L. Domizio Alessandro finirà dopo tre anni e nel310/311 Massenzio, ripresosi la Sardegna, provvederà a punirla di questa suadefezione spogliandola letteralmente dei suoi beni con un’aggressiva politica fi-scale. Si era del resto nell’immediata vigilia del grande confronto con CostantinoMagno avvenuto il 28 ottobre del 312 presso Ponte Milvio e nel quale Massenziorisulterà soccombente.

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    Figura 1.1: Miliario di L. Domitio Alessandro (disegno di G. Sotgiu).

    Il regno di Costantino sarà lungo e caratterizzato da grande stabilità. Diquesta situzione si avvalse la Sardegna che, amministrativamente parlando, ver-rà inquadrata dall’imperatore nella sua riforma del 325 nella diocesi italicianadella quale facevano parte, oltre ovviamente alla stessa penisola italica, le altregrandi isole del Mediterraneo, la Tracia, la Macedonia e l’Illirico. Il governatoredella Sardegna, che da questo momento in poi avrà sempre il titolo di praeses(cosa peraltro che abbiamo già visto accadere anche precedentemente seppu-re in maniera non esclusiva), risponderà direttamente al vicarius urbis Romae,responsabilile a sua volta di una divisione della stessa diocesi italiciana compren-dente le regioni a sud dell’Appennino e le isole mediterranee. Questa strutturaamministrativa rimarrà in piedi per lungo tempo e da essa la Sardegna non verràmai, sia pure con le vicissitudini che vedremo, scorporata. Alla politica religiosapromossa da Costantino, che com’è noto fu favorevole al cristianesimo tanto darenderlo una sorta di religione di stato (cosa che giuridicamente avverrà solocon Teodosio nel 380), si deve, indirettamente, l’avvio della cristianizzazionedella società sarda. Immediatamente dopo il cosiddetto editto di Milano infattisi incomincia ad avere nelle fonti qualche riferimento a comunità cristiane piùo meno organizzate ed ampie come quella di Carales, di cui conosciamo, nel314, il vescovo Quintasius [vedi infra §1.4]. Da una lettura globale delle fonti sipuò indicare nel VI secolo inoltrato il momento di una totale conversione allanuova religione (in questo senso sembra convenire la letteratura più recente e,

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    a mio avviso, più critica). Una volta morto Costantino, nel 337, la successione,ancorché pianificata dal grande imperatore, non fu né indolore né pacifica e daquesta situazione non poté certamente affrancarsi una Sardegna che, proprioperché regione periferica, fu sballottata qua e là dai partiti dei vari contendentie subì piuttosto passivamente gli eventi.

    Sono sempre i cippi miliari, vero e proprio manifesto politico, a darci chiariindizi cronologici sulla posizione sarda nel panorama politico più ampio. Allamorte di Costantino II, in guerra da tempo con il fratello Costante, l’Isola, cheera stata sempre dalla parte del primo, riconobbe nel 340 il secondo come impe-ratore. Lo stesso atteggiamento ebbe poco tempo dopo, si era nel 350, quandoriconobbe Magnenzio che ebbe la meglio su Costante. A sua volta Magnenzio,sconfitto dalla reazione di Costanzo II imperatore romano d’Oriente, morirà sui-cida nel 353 a Lugdunum: puntualmente la Sardegna con i soliti miliari ricorderàl’imperatore vincente. Pochi anni dopo, nel 360, una nuova usurpazione, partitaquesta volta dalle Gallie, attraeva l’anno successivo nella propria orbita la Sar-degna. Giuliano ebbe in poco tempo dalla sua il favore delle province europeee delle grandi isole mediterranee mentre al contrario l’Africa rimase assoluta-mente fedele a Costanzo. Questi però morì per cause naturali lasciando erededel proprio dominio lo stesso Giuliano. L’intricata situazione politica, soprattut-to in relazione alle successioni vedrà ancora la Sardegna schierarsi nel 387 dallaparte di Magno Massimo, usurpatore e causa dell’assassinio nel 383 di Graziano.Questo suo aperto schierarsi costò, quando la rivolta fu sedata, una citazione ingiudizio per alcuni senatori sardi che, come ci dicono le fonti, erano stati parti-colarmente attivi. Una iscrizione funeraria cristiana di Turris Libisonis datataal giugno del 394 ci indica con certezza che l’Isola non seguì l’usurpazione diEugenio che due anni prima era stato acclamato imperatore in Gallia. Eugenioverrà sconfitto da Teodosio nel novembre del 394 e l’Isola, dopo la morte di que-st’ultimo del gennaio 395, passerà sotto il governo di Onorio. Nell’ultima grandecrisi del IV secolo, la rivolta di Gildone in Africa, la Sardegna sarà dalla partedel legittimo imperatore, che essa sosterrà con la forza delle sue scorte granariee di materie prime. Questa rivolta particolarmente grave verrà comunque sedatae la reazione onoriana causerà la morte del ribelle nel 398. Ormai, alle porte delV secolo, l’avventura dell’impero romano di Occidente volgeva al termine e, ap-profittando della morte avvenuta nel 408 del grande generale Stilicone che purelo aveva sconfitto nel 402 a Pollenzo, il re Visigoto Alarico riuscirà nel 410 a

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    saccheggiare Roma. La morsa sulla città eterna si farà ancora più stretta quandofra il 429 e il 439 la ricca provincia d’Africa, il serbatoio di risorse più grande eimportante per la pars occidentis dell’impero, cadrà in mano ai Vandali, i quali,dopo aver preso Cartagine (il 19 ottobre 439), decisero nel 440 di estendere iloro domini anche al di là del mare. Fonti attendibili ci raccontano di come iVandali cercassero di occupare le due grandi isole mediterranee, la Sardegnae la Sicilia, con una serie di spedizioni di piccoli contingenti con il compito didevastare le coste e le città più importanti. La Sicilia rimarrà sostanzialmentein mano ai Vandali fino alla fine del secolo, mentre in Sardegna il dominio sarà,come vedremo, lievemente più lungo. In quest’ottica, e in relazione alla Sarde-gna, va vista tutta una serie di dati archeologici che ci propongono un possibilecontatto con la popolazione di origine germanica già nella prima metà del Vsecolo. Sembrano infatti doversi ricondurre ad apprestamenti difensivi costruiticontro i Vandali le fortificazioni rinvenute a Turris Libisonis, Tharros e Cornus,dove sembra sia stata fortificata l’acropoli della città. Il blocco navale operatodai Vandali nei confronti della Sardegna sarà fortissimo e forse per questa si-tuazione di esasperazione l’Isola non corrispose, per lungo tempo, i tributi allacapitale. Di questa ribellione fiscale abbiamo un’eco nell’esclusione, punitiva neiconfronti dell’Isola, dal dispositivo imperiale di condono dei debiti fiscali dovutifino al 448 a causa di un loro precedente mancato pagamento. Con l’andare deltempo i Vandali, sempre più forti, diventarono proporzionalmente più temerarifino ad arrivare il 2 giugno del 455 a saccheggiare Roma e successivamente, inun periodo imprecisato tra il 456 e il 468, a conquistare la Sardegna che rimarràin loro possesso fino al 534.

    Orientamenti bibliografici ai §§1.2.2 e 1.2.3

    Età repubblicana. G. Brizzi, Nascita di una provincia: Roma e la Sardegna, in: Carcopino,Cartagine e altri scritti, Sassari: Chiarella, 1989; P. Meloni, La Sardegna romana, II edizione.Sassari: Chiarella, 1990, 43-69; Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 61-90. Unmodo un po’ differente di vedere le guerre puniche (e cioè dalla parte degli sconfitti) è quellodi F. Barreca, La civiltà di Cartagine, Cagliari: Editrice Sarda F.lli Fossataro, 1964 che sipone tra le righe il problema di come sarebbe stato il mondo antico con Roma soccombente.Età imperiale: Meloni, La Sardegna romana, op.cit. (vedi 1.2.3), 139-227 e Mastino, LaSardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 125-163.

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    1.2.4 Vandali e Bizantini

    La prima preoccupazione dei Vandali, una volta conquistata larga parte delloscomparso impero romano d’Occidente, fu di consolidare per via diplomatica laposizione acquisita col riconoscimento internazionale della legittimità del lororegno.

    Ciò avverrà una prima volta nel 460 grazie a Leone I e successivamente nel467, quando lo stesso imperatore dovrà venire a patti con Genserico in occasionedella sconfitta della flotta bizantina in seguito alle imprese del duca Marcellino.Questo dux, che pure era riuscito a riconquistare la Sardegna, non potrà peròassicurarne il possesso all’impero bizantino se non per breve tempo.

    Nel 477 a Genserico succederà il figlio Unnerico, che però non riuscì dimo-strare la stessa lucidità politica ed energia del padre. Nel proseguire la politica“mediterranea” del padre si caratterizzò per l’estrema rigidità con cui sostennel’arianesimo in Africa, vicino al centro del potere, e per la relativa “tolleranza”con cui sopportò la presenza dei suoi nemici nelle terre d’oltremare come la Sar-degna. In realtà, sembra più corretto parlare di disinteresse nei confronti dell’at-tività di predicazione dei vescovi ortodossi esiliati nell’Isola e di lucidità politicanel non aver voluto eliminare fisicamente personaggi comunque ingombranti, lacui soppressione sarebbe stata per lui politicamente insostenibile.

    Il nome di Unnerico è legato indissolubilmente al Concilio di Cartagine del484, quando il re vandalo volle convocare nella sua capitale vescovi cattolici edariani perché sviluppassero quegli aspetti cristologici che il Concilio di Niceadel 325 aveva solo marginalmente toccato. A quel concilio parteciparono ben 5vescovi sardi guidati dal metropolita cagliaritano Lucifero II.

    La speranza di Unnerico, disillusa dal nulla di fatto prodotto dai vescovi par-tecipanti, era quella di riuscire a dirimere a favore dell’arianesimo la questionerelativa alla natura umana del Cristo. Dopo questa empasse la ripresa delle osti-lità nei confronti dei cattolici da parte di Vandali fu più aspra di prima, anchese bisogna rimarcare che i successori di Unnerico, Guntamondo e Trasamondo,ebbero a questo riguardo atteggiamenti ben diversi: tanto tollerante ed apertoil primo quanto duro e inflessibile il secondo.

    Sarà il solo Trasamondo a comminare infatti nuovamente ed in manierasistematica l’esilio per i vescovi che predicavano l’ortodossia con la successivanomina di vescovi ariani per le sedi rese in questo modo vacanti. Le tristi vicendepersonali di questi vescovi perseguitati ed esiliati rappresentarono al contrario

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    una grande fortuna per la Sardegna che vide arrivare persone del calibro diFulgenzio di Ruspe, a cui vengono attribuite la fondazione di un monastero aCagliari presso la basilica di San Saturnino e di uno scriptorium particolarmenteimportante.

    Nel 523 Ilderico, succeduto a Trasamondo, cambierà rotta cercando di ripor-tare nel proprio regno la pace sociale richiamando i vescovi esiliati, che venneroprontamente reinsediati, e cercando in campo internazionale di acquisire cre-dibilità e soprattutto affidabilità. Grazie all’attività sovversiva di Amalafrida,moglie di Trasamondo, il regno di Ilderico durò solo 7 anni e nel 530 diventerà reGelimero, ariano convinto: a causa di ciò la repressione nei confronti dei cattoliciriprenderà con toni molto alti.

    Paradossalmente Gelimero riuscì dove i suoi predecessori avevano fallito conle politiche “di distensione”, facendo in modo che nel 476 l’imperatore Zenonericonoscesse le conquiste territoriali vandale. Tale atto ufficiale venne, così comeci racconta Procopio di Cesarea, messo successivamente in crisi da Giustiniano(assurto alla porpora nel 527) che, preoccupato dalla figura e dall’ambizione diGelimero, inviò un messaggio al re vandalo chiedendogli di ripristinare la legalitànella successione al trono.

    La sdegnosa risposta di Gelimero rese chiara a Giustiniano l’impossibilitàdi una soluzione diplomatica della crisi e fu così che entrambi i regni inizia-rono a preparare la guerra ammassando grossi quantitativi di armati. Gelime-ro richiamò in Africa alcuni reparti militari di stanza in Sardegna lasciandol’Isola non solo sguarnita, ma in mano ad un liberto germanico di nome Go-da che, vista la criticità del momento, pensò di trarne un vantaggio personaleautoproclamandosi, col titolo di re, indipendente dalla madrepatria africana.

    Contestualmente Goda cercò di ottenere da Giustiniano, sotto la forma diuna richiesta di aiuto militare, il riconoscimento del proprio status di indipenden-za. Giustiniano concesse immediatamente l’assistenza richiesta e inviò un mes-saggio, tramite l’ambasciatore Eulogio, nel quale si assicurava l’invio di truppesul territorio sardo. Gli avvenimenti successivi dimostreranno quanto il tenta-tivo di Goda sia stato poco accorto e quanto mai politicamente maldestro. Acausa di esso infatti il neo-re si trovò per così dire tra l’incudine e il martello:da una parte si vide affiancare quello che sembrava, più che un diplomatico, unproconsole-governatore bizantino, dall’altro proprio la partenza per la Sardegnadi un contingente di armati mise in allarme Gelimero che inviò in Sardegna il

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    proprio fratello Tzazon a capo di un nutrito esercito.Tzazon, liberatosi velocemente di Goda, riportò l’Isola sotto le bandiere van-

    dale, ma questo allontanamento di un grosso contingente militare ebbe un effettonegativo sulla guerra, poiché i Bizantini diretti in Sardegna, appresa la notiziadella sconfitta del vandalo ribelle, fecero immediatamente rotta verso l’Africa,dove si riunirono al resto delle truppe già presenti sul continente agli ordini diBelisario.

    Gli avvenimenti successivi sono noti. Nei pressi di Cartagine il 13 settembre533 i Vandali subirono una grossa sconfitta e furono costretti a ritirarsi a nord-ovest della capitale a Bulla Regia, da dove richiamarono Tzazon perché desseloro man forte per la battaglia risolutiva. A Tricamarum nel 533 finiva conla morte di Gelimero e Tzazon il regno Vandalico e la Sardegna tornava adessere bizantina nel 534, quando Belisario inviò Cirillo a riconquistarla. L’Isoladiventò così una della sette province africane dipendenti dal prefetto del pretorioincardinato a Cartagine: Carales rimase sede del praeses, mentre Forum Traiani,grazie alla sua rilevante posizione strategica, diventò sede del dux, il comandantemilitare. L’attività di Giustiniano e dei suoi successori si caratterizzò per unaintensa azione di consolidamento del controllo del territorio, che si manifestòprincipalmente con l’edificazione di strutture fortificate certamente orientate adeffettuare una sorta di “taglia-fuori” nei confronti delle aree interne dell’Isola masoprattutto come strumento di controllo centrale della viabilità [vedi infra ad2.5 esempio il φρούριον di Forum Traiani che con ragione Mauro Dadea vedepiù collegato a quest’ultimo aspetto che allo stesso centro urbano] Nel 552 gliOstrogoti di Totila occuparono Carales che però rimase nelle loro mani appenaun anno per poi ritornare nelle mani di Giustiniano, il quale l’anno successivoemanò uno dei documenti più celebri dell’antichità: la Prammatica Sanzione.

    Con questo testo del 554 Giustiniano affermava la restaurazione dell’imperoe soprattutto che vi era una unica legge che governava l’Orbis. Vi è da direche nel suo piccolo la Sardegna diede sempre qualche grattacapo al “sovranoorientale” e ai suoi duces.

    Edantius (589), Theodorus, Zabarda (594) ed Eupator (599) ebbero infattiil loro bel da fare con le popolazioni dell’interno e tra essi, il solo Zabarda,viene ricordato per essere riuscito, in un modo o nell’altro, a contrastarli inmaniera efficace e soprattutto per avere tentato di risolvere diplomaticamenteil conflitto nel 594. La Sardegna sopravviverà all’apparato statale bizantino in

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    Occidente anche quando l’Ifriqiya verrà conquistata dagli Arabi diUqba ibn Nafi,che nel 670 fonderanno la moschea di Qayrawan, e quando nel 698 Hassan ibnan-Numan conquisterà Cartagine facendo così cadere l’esarcato d’Africa.

    Nel VII secolo la Sardegna bizantina conoscerà le incursioni del mondo arabotese a separare dal resto l’ultimo lembo di mondo bizantino esistente nel Me-diterraneo occidentale. Le fonti parlano di una serie di scorribande effettuate apartire dalla baia di Cartagine, da Radhes in Tunisia, con l’obiettivo di creareun corridoio sicuro per la navigazione verso la costa provenzale. Altre incursionicaratterizzeranno la metà del VII secolo e per un cinquantennio circa alcune areedella Sardegna saranno obbligate a pagare una certa somma (la gizyah dovutadagli infedeli per evitare attacchi).

    La situazione cambierà radicalmente quando i Longobardi nel 751 occuparo-no l’esarcato di Ravenna da cui dipendevano dalla fine del VII secolo la Corsicae la Sardegna. L’Isola, abbandonata a se stessa e sempre più lontana da quellaBisanzio che non aveva più la forza di controllare il Mediterraneo occidentale,iniziò a vedere nello iudex provinciae l’unico punto di riferimento certo. Tuttoil IX secolo fu costellato di attacchi alle coste sarde e vi furono eventi talmentecatastrofici che ne abbiamo eco in una lettera che il pontefice Leone III inviònell’813 a Carlo Magno, in cui scriveva che una grande flotta araba era statadistrutta a causa di una tempesta al largo della Sardegna. Per una serie di mo-tivi, non ultimi la relativa lontananza dalle basi arabe e la strenua difesa deisardi, le città isolane non subiranno la sorte di piazzeforti tutto sommato benpiù agguerrite e munite come Palermo, caduta nell’830, e dell’intera parte suddella Penisola. La mancata conquista della Sardegna da parte dei nuovi domi-natori del bacino meridionale del Mediterraneo favorirà la lenta evoluzione diun’amministrazione locale bizantina nelle forme della straordinaria esperienzatutta sarda dei Giudicati. Giuseppe Meloni non esclude che i contatti con gliArabi residenti in Ifriqiya e in al-Andalus e l’esempio dei qwadha (regioni ammi-nistrative) e qwadhi (giudice) possano avere in qualche modo influenzato questosviluppo. La Sardegna rimarrà formalmente sotto Bisanzio fino all’XI secolo.

    Orientamenti bibliografici al §1.2.4

    Età vandalica: L. Pani Ermini, La Sardegna e l’Africa nel periodo vandalico. in: A.

    Mastino (ed.), L’Africa Romana II, Sassari: Gallizzi, 1985; Età bizantina: P. G. Spanu,

  • 1.3 Economia e Società 39

    La Sardegna bizantina tra il VI e il VII secolo. Oristano: S’Alvure, 1998, Mediterraneo tar-

    doantico e medievale. Scavi e ricerche 12; G. G. Ortu, La Sardegna dei Giudici, Nuoro: Il

    Maestrale, 2005, La Sardegna e la sua storia, 3, 21-52; Mondo arabo in relazione alla Sarde-

    gna: M. Terrasse, Islam et Occident méditerranéen: de la conquête aux Ottomans, Paris:

    Ed. du CTHS, 2001, Orientations et méthodes, 15-106; M. G. Stasolla, La Sardegna nelle

    fonti arabe, in: P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini dell’impero. Storia, arte e

    archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002

    1.3 Economia e Società

    1.3.1 La gestione delle risorse dalla prima età storica altardoantico

    Passato il periodo degli scali stagionali, utilizzati come empori e come portidi transito per le rotte occidentali, i Fenici si attestarono stabilmente in alcunearee particolarmente felici per posizione e possibilità economiche dell’immediatoentroterra. Nonostante qualche piccolo incidente di tipo militare, i rapporti conle popolazioni autoctone, avviati da tempo, proseguirono con rinnovato vigore ei rinvenimenti archeologici di materiali di importazione effettuati nelle localitàpiù interne dell’Isola indicano, senza ombra di dubbio, che questo flusso di mercida e verso l’esterno è stato per lungo tempo garantito proprio da vettori semiti.

    Ciò non significa affermare che ci sia stata un’integrazione tra i due popoli sututto il territorio, anzi, al contrario, è evidente, proprio dalle fonti archeologiche,come nella Sardegna della prima età storica del IX/VIII-VI sec. a.C. vi fosseuna sorta di dualismo tra le zone costiere occupate dai fenici e quelle in manoai sardi dell’interno. In comune, oltre ai mercati in cui effettuare gli scambi, iFenici e i Sardi ebbero, sia pure in modi e per ragioni diverse, lo stesso marcatoindividualismo che li portò a non sentire la necessità di organizzarsi in uno statounitario. Questo tipo di organizzazione o di mancata organizzazione statale, iSardi per gruppi ristretti e i Fenici per città stato, farà sì che lo sfruttamentodel territorio, da una parte e dall’altra, risultasse non organizzato e limitato aifabbisogni contingenti di ciascuna realtà locale.

    Al momento dell’ingresso sulla scena di Cartagine, operato come abbiamovisto con grande determinazione e incisività anche col ricorso ad una spedizionemilitare effettuata da Malco sul finire del VI secolo a.C., la situazione, pur rima-

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    nendo immutata nei suoi contenuti generali (e cioè mondo punico ad occuparele coste e i Sardi ad occupare le aree più interne del territorio), verrà modifi-cata proprio perché alle spalle dell’attività punica in Sardegna vi era l’autoritàcentrale di un impero mercantile che aveva un progetto politico organizzato suvasta scala. La sostanziale pacificità fenicia lascerà quindi il posto ad una politi-ca di occupazione del territorio che non tarderà ad avvalersi, quando necessario,della forza per fare proprie le risorse da utilizzare per il funzionamento dell’im-pero e non, come avveniva nel periodo precedente, delle sole colonie sarde. Lagrande appetibilità della Sardegna, che giustificò infatti l’intervento armato diMalco motivato non solo da una ribellione locale, ma anche dal desiderio di pre-venire un’azione greca, risiedeva infatti, oltre che nella sua posizione strategicaal centro del Mediterraneo occidentale, soprattutto nelle ricchezze provenientidall’agricoltura e dalle risorse minerarie presenti nell’Isola.

    Dell’importanza delle prime per il mondo punico abbiamo un’eco chiarissi-ma nelle fonti, quando a più riprese il grano sardo servirà, come poi accadràpuntualmente in età romana, a sfamare le truppe cartaginesi impegnate altrove.Nel 480 a.C. il grano prodotto in Sardegna sostenterà le truppe di Amilcaresbarcate in Sicilia contro Gelone di Siracusa; nel 396, sempre in Sicilia, Imilconeconterà sul grano sardo per le truppe da impiegare nell’assedio di Siracusa edinfine, ribaltando discorsi e situazioni, lo stesso Agatocle di Siracusa, volendoportare la guerra in Africa contro Cartagine, si arrovellò a pensare in che modoavrebbe potuto impedire che dalla Sardegna arrivassero rifornimenti granari peri suoi avversari.

    La miriade di insediamenti punici individuati nell’entroterra delle principa-li città conferma quanto indirettamente suggeriscono le fonti ed anzi dimostracome questi piccoli agglomerati urbani avessero la doppia valenza di centro diproduzione e di contenimento nei confronti delle popolazioni locali. Emblema-tico, al riguardo, non solo il caso di Santu Teru-Monte Luna a Senorbì con ilsuo villaggio fortificato convertito in una azienda agricola, ma anche l’allesti-mento di un sistema difensivo organico, a ridosso del quale vivevano, in unapletora di fattorie, intere famiglie di agricoltori. Nei primi due secoli di domi-nazione punica avverrà l’integrazione tra le componenti locali rimaste lungo lefasce più esterne del territorio e l’elemento punico. Un prodotto di questo fe-nomeno sarà ad esempio Ampsicora, il capo della rivolta del 215 a.C., che, purtrovando assolutamente naturale accompagnarsi a un consigliere militare punico

  • 1.3 Economia e Società 41

    come Annone, non si fece problema di andare a chiedere aiuto ai Sardi pelliti.Su questo esempio dobbiamo supporre che molti di questi sardi, perfettamenteintegrati, si siano trovati ad accumulare ingenti patrimoni e che, ancora, moltidi essi, in una società pluristratificata come quella antica, si trovarono ad esserecollocati nelle varie fasce sociali da quelle più ricche fino ad arrivare ai più umililavoratori liberi. I sardi non integrati, catturati forse durante scaramucce conle popolazioni libere dell’interno, finirono però per perdere la libertà ed essereridotti in schiavitù: molti di essi vivranno questa condizione nelle città dellastessa Sardegna.

    Dal punto di vista istituzionale le città sarde erano modellate, così come latotalità delle colonie puniche, secondo il modello classico, rappresentato da ungoverno locale amministrato da una coppia di supremi magistrati, noti col nomedi sufeti, che avevano nell’assemblea popolare locale un organo consultivo e dicontrollo. L’arrivo di Roma non fu certamente indolore per i grandi proprietarisardo-punici, che del resto, a conferma, si mostreranno successivamente come ipiù accaniti, almeno in certi periodi, contro i nuovi padroni.

    I territori in loro possesso furono infatti incamerati dall’erario e riassegnatiin affitto alle stesse popolazioni locali o almeno a coloro che non furono par-ticolarmente schierati dalla parte cartaginese in quel fatidico 238 a.C. Per ilresto dobbiamo supporre che non sia cambiato, almeno nell’immediato, alcunindirizzo strategico per un’economia locale che continuerà per lunga pezza aprodurre in grande quantità principalmente grano e ad estrarre dalle proprieminiere metalli pregiati.

    Il primo governatore provinciale noto in Sardegna sarà del 227, anche se èlecito pensare che ben prima, e cioè già negli stessi anni della conquista, forsegià a partire dal 237 al pari della Sicilia e della Corsica, la Sardegna sia stataconsiderata e organizzata di conseguenza come una provincia dalla quale trarre,con una politica fiscale precisa, notevoli introiti. Del resto è difficile credere cheper oltre 10 anni i Romani non abbiano pensato ad una qualche strutturazioneamministrativa della provincia per poi presentarsi con un impianto organico dipolitica fiscale solo nel 227.

    La situazione mostrerà segni di modificazione quando nel II secolo inizierà,così come ci dicono principalmente le fonti archeologiche, un buon afflusso di in-dividui di origine medio-italica che importeranno, oltre ai capitali, la mentalitàdinamica di una classe imprenditoriale orientata, oltre che verso la tradizionale

  • 42 Quadro storico

    attività legata alla terra, anche verso il commercio. Eco di questo afflusso sono,per altri aspetti, le novità proposte da modelli urbanistici inusitati per la Sarde-gna: si veda ad esempio come Carales in questo periodo sembri riprendere schemitipici delle città terrazzate medioitaliche e come ad ambiti culturali diversi daquelli già presenti sul territorio si rifacciano monumenti come il tempio di ViaMalta, il monumento a fregio dorico di Via XX Settembre e, per esaminare ildato epigrafico, le serie onomastiche allogene presenti nelle iscrizioni.

    Fatto determinante è la prosecuzione, in maniera ben più marcata in que-sto periodo rispetto a quello tardopunico, dell’erosione dei territori ai danni deiSardi in favore della creazione di un nuovo latifondo che andrà ad affiancarsi aquello tradizionale sardo-punico. L’organizzazione dello spazio rurale diventeràquindi sempre più complessa mano a mano che l’area della Barbària, le aree nel-le quali abitavano con un’economia di sussistenza le popolazioni interne menoromanizzate, si riduceva a favore della Romània, l’area completamente roma-nizzata. Il processo di integrazione con i locali inizierà ad essere evidente per iRomani, così come era avvenuto per il mondo punico, a meno di due secoli dallaconquista. La presa di coscienza dell’autorità centrale di questo processo com-porterà nell’immediato sia l’elevazione di qualche comunità locale al rango dimunicipo (Carales), sia la deduzione di una colonia di cittadini romani (TurrisLibisonis). Gli altri centri più importanti saranno interessati da provvedimentianaloghi nello spazio di poco più di un secolo.

    Nella prima età imperiale si incomincia inoltre ad assistere ad un timidoma evidente tentativo di differenziazione delle colture agricole con l’ulterioreincremento della produzione d’olio, iniziata peraltro durante il periodo repub-blicano, e forse di vino, anche se il grande latifondo continuò ad essere dedito allaproduzione granaria. Le mutate condizioni politiche porteranno ad una ulteriorearticolazione dell’organizzazione del possesso della terra: avremo così diversi tipidi latifondo. Accanto a quello privato, più antico, concesso in usufrutto alienabilee trasmissibile, si avrà quello pubblico e infine quello di proprietà imperiale.

    Il dato epigrafico ci consente, per la Sardegna, di conoscerli tutti e tre e diverificare come ad esempio la casa imperiale ebbe tutta una serie di possedi-menti concentrati nelle aree più ricche: Claudio, Nerone e forse gli Antonini adOlbia, sempre Claudio a Sulci e in area cagliaritana quelli di Marco Aurelio eLucio Vero o di Settimio Severo (che era stato funzionario statale nell’Isola) eCaracalla. Questi possedimenti, condotti originariamente da procuratori impe-

  • 1.3 Economia e Società 43

    riali (dei liberti) furono poi, tra il I e il III secolo, concessi in affitto e, dopo leriforme volute da Costantino, frazionati e assegnati in enfiteusi a dei conduc-tores. Diversi cippi terminali rinvenuti in alcune località sarde ci attestano glialtri due tipi di latifondo.

    L’economia sarda, anche nel periodo più tardo, sarà legata indissolubilmentealla produzione granaria e questo sarà il fil rouge di tutta la storia economicaregionale. A variare nei secoli saranno infatti le politiche agrarie e non il tipo dicolture. Ma il nome della Sardegna è legato, così come ci testimoniano le fon-ti, anche alla sua grande ricchezza di giacimenti minerari: piombo argentifero,ferro, rame. Tra le varie menzioni dovute a fonti di diverse epoche sembra parti-colarmente descrittivo l’appellativo di “Isola dalle vene d’argento” (Ἀργυρόφλεψ)attribuito all’Isola da uno scoliasta del Timeo di Platone.

    Anche il geografo Tolomeo usando un’espressione simile (Μολιβόδης νῆσος= Plumbaria insula = Isola del piombo), attribuisce al territorio sardo unamarcata vocazione estrattiva da collegare anche ad un commercio di materialiper il tramite portuale di Sulci.

    La localizzazione delle miniere coltivate nell’antichità non è sempre agevole,ma dalle indagini archeologiche, mirate soprattutto alla ricerca di scorie di la-vorazione da utilizzare come elemento guida, sembra evidente che già i punicinel VI-V sec. a.C. avessero localizzato nel Sulcis un’area particolarmente riccae, cosa più importante, facilmente utilizzabile. I nomi sono poi gli stessi che atutt’oggi vengono collegati all’industria estrattiva sarda: Gonnesa, Malacalzettae Monteponi per il piombo e l’argento, Funtana Raminosa presso Gadoni per ilrame. Nei pressi di Antas, nel cuore dell’Iglesiente, venne fondato in età romanaun centro abitato il cui nome,Metalla = Le Miniere, la dice lunga sulla vocazionedel territorio. Altre aree della Nurra e del Sarrabus, nonostante le potenzialità,vennero sottoutilizzate probabilmente per impedimenti di tipo tecnico. Il rinve-nimento di diversi pani di piombo bollati provenienti dall’Iglesiente ci attesta chesia Augusto che Adriano ebbero il possesso di miniere localizzate forse vicino aBuggerru. Nel IV secolo dalle fonti, rappresentate da diversi provvedimenti presiper arginare il fenomeno della fuga dei metallarii (=i lavoratori delle miniere)dal proprio posto di lavoro (si era ormai nel momento in cui veniva vietato perlegge a qualsiasi lavoratore di cambiare mestiere), la Sardegna viene menzionatain maniera abbastanza nebulosa in relazione a supposte miniere d’oro. La no-tizia, diffusa in un baleno nel bacino del Mediterraneo occidentale, richiamerà

  • 44 Quadro storico

    sul territorio tutta una serie di figure del settore che cercheranno in Sardegnaun’attività più redditizia. Non ci è data purtroppo la possibilità di localizzarele miniere di richiamo, anche se sappiamo bene, anche da eventi contemporanei,che l’oro in Sardegna esiste davvero, sebbene per essere cavato abbia bisogno dioperazioni tecnicamente complesse e molto costose, irrealizzabili nell’antichità.Questo secondo aspetto rende perciò particolarmente problematica una correttavalutazione della notizia di una “febbre dell’oro” riguardante il mondo antico.

    1.3.2 Viabilità e cursus publicus

    Il sistema viario della Sardegna, noto principalmente dai cippi miliari e da al-cune fonti letterarie-geografiche (Itinerario Antoniniano, Cosmografia dell’Ano-nimo Ravennate, Tabula Peutingeriana), risulta piuttosto sviluppato a dispettodi una popolazione piuttosto scarsa. Le motivazioni che spinsero i Romani acostruire così tante strade sono comunque evidenti e vanno da motivi legati allasicurezza fino ad arrivare al concetto che la romanizzazione stessa del territoriocorreva, per così dire, lungo le strade. Esse saranno infatti, e questo vale non soloper la Sardegna ma per l’intero mondo romano, uno strumento, sicuramente frai più importanti, con il quale l’autorità centrale gestirà nel concreto la propriaamministrazione e, di conseguenza, il potere.

    Sulle strade viaggeranno infatti i senatori e i magistrati romani che sarannoresponsabili dell’amministrazione locale, gli oggetti di proprietà dello stato, imessaggi contenenti disposizioni militari, amministrative, legislative e, in sintesi,tutto ciò che doveva spostarsi rapidamente e in sicurezza da un capo all’altrodi un territorio nell’interesse dello stato. Precedentemente al periodo romano,in età punica, il sistema viario si sviluppò in maniera da andare a coprire,sia pure in maniera più discontinua e meno completa dei periodi successivi,una buona parte del territorio. Allo stato attuale della ricerca, il sistema viariopunico può essere schematizzato per tre grandi direttrici a seguire le aree dimaggiore densità di popolazione e di importanza strategica dal punto di vista siamilitare che economico. Riconosciamo così una via dell’asse mediano da Karalìa Turris Libisonis, una via del perimetro costiero sardo la cui percorrenza, acausa della discontinuità del tracciato, doveva essere integrata per via maredalla navigazione sotto costa, e tutta una serie di vie di penetrazione versol’interno o verso altri centri costieri a seguire le vie fluviali.

  • 1.3 Economia e Società 45

    Un esempio di quest’ultima categoria sono le vie, ben tre, che da Sulci con-ducevano a Karalì attraverso le valli del Flumentepido e del Cixerri, attraversoil passo di Campanasissa, in prossimità dell’attuale centro di Siliqua, e infine arisalire il rio di Santadi e il Gutturu Mannu.

    L’importanza del centro di Sulci in età punica giustificava ampiamente que-sta pletora di strade, che peraltro venivano aperte anche per altri motivi comequelli legati all’estrazione di minerali o al commercio. In quest’ottica dobbiamoinfatti valutare la “via del rame” che portava da Karalì a Funtana Raminosa op-pure le vie dell’asse mediano sardo, costruite per aprire nuovi mercati di scambiocon le popolazioni più interne. I Romani ricalcheranno questo schema amplian-dolo a seguire tutte le grandi vallate regionali, così da permettere spostamentipiù rapidi e confortevoli. Il miliario più antico della Sardegna, datato agli ultimidecenni del II sec. a.C. è stato rinvenuto nei pressi di Cornus sulla strada a Ti-bulas Sulcos; la strada più frequentata fu quella che si può definire come dorsalesarda che seguiva l’andamento dell’attuale S.S. 131 e la cui denominazione piùutilizzata in antico fu quella di a Karalibus Turrem, espressione che indica inCarales il nodo di partenza.

    Analogamente al tracciato odierno, la strada partiva appunto da Carales perdividersi intorno alla zona di Campeda in due tronconi: uno per Turris Libisonise l’altro per Olbia. Il centro gallurese era raggiungibile anche tramite un’altrastrada, la per Mediterranea definita dalle fonti alio itinere ad Ulbia Caralis, che,attraversando il centro montuoso toccava località importanti come Caput Tyrsi,vicino a Buddusò, e Sorabile nei dintorni di Fonni. Due altre strade attraversa-vano poi l’Isola in senso longitudinale, lungo la costa occidentale e lungo la costaorientale. Quella occidentale fu sicuramente la più importante in quanto andavaa toccare i centri più antichi ed economicamente più floridi della provincia. Forsea causa di ciò le fonti la denominano variamente, separando in diversi tronconiuna via che fisicamente non aveva alcuna soluzione di continuità: abbiamo in-fatti attestata nell’Itinerario antonino la a Tibula Sulcis, la a Sulcis Nura e laa Caralis Nura, nelle epigrafi dei tronconi denominati a Nora Karalibus, a NoraBithiae e forse a Tharros Cornus. La denominazione della strada orientale fu,così come ci riporta sempre l’Itinerario antonino, la a Portu Tibulas Caralis.È sufficiente poi dare uno sguardo al sistema viario, così come proposto dallacarta, per rendersi conto di come una serie di diverticoli stradali, permettesse diraggiungere la meta del viaggio nella maniera più rapida ed economica possibile.

  • 46 Quadro storico

    Figura 1.2: La viabilità romana della Sardegna (da Mastino 2005).

  • 1.3 Economia e Società 47

    Volendo per esempio andare per affari da Valentia (Nuragus) a Turris Libiso-nis (Porto Torres) era sufficiente, senza fare percorsi troppo tortuosi, seguire laper Mediterranea fino a dopo Sorgono e, girando a sinistra, immettersi in untroncone viario che portava, attraverso Augustis (Austis) fino alla località di AdMedias (Abbasanta) sulla a Karalibus Turrem per poi proseguire, sempre dritti,a destinazione.

    1.3.3 Popolazione, centri urbani e insediamenti rurali

    I centri urbani

    Famosissimi in essa (cioè in Sardegna) tra i popoli (non urba-nizzati) gli Iliensi, i Balari, i Corsi; tra le popolazioni delle 18 cittàa statuto peregrino (oppida), i Sulcitani (di Sulci -Sant’Antioco), iValentini (di Valentia-Nuragus), i Neapolitani (di Neapolis), i Viten-si (di Bithia-Chia), i Cagliaritani, cittadini romani, e i Norensi (diNora); una sola colonia chiamata Turris Libisonis (Porto Torres).

    Con queste parole Plinio il Vecchio ci propone nella sua Naturalis Historia laformula provinciae, cioè la struttura organizzativa della provincia di Sardegna.Il testo pliniano propone nella sua stringatezza molti problemi, e non solo quellioriginati da una traduzione certamente non agevole. Il punto più controverso èad esempio quello relativo al numerale XVIII, variamente inteso in riferimentoai termini immediatamente precedenti o successivi, che presenta, anche nella let-tura accolta, il problema di non vedere elencati come promesso tutti e diciotto ipopoli relativi agli oppida sardi. Si può quindi pensare che Plinio, pur conoscen-do ben diciotto popoli legati ad altrettante città, si sia limitato a menzionaresolo quelli più importanti. Oltre a questo aspetto, vi è da considerare inoltrecome il testo pliniano sia stato scritto ben più tardi della conquista romana delterritorio sardo e che quindi non conosciamo in realtà che tipo di situazionesia stata fotografata e a che periodo essa si debba riferire. L’elenco proposto èpurtuttavia più che attendibile, poiché menziona i centri a noi più noti e cheerano caratterizzati, in molti casi, già ai tempi di Plinio da una lunga storia apartire da un’età ben precedente alla conquista romana. L’occupazione umanadel territorio sardo ricalcherà infatti, in periodo romano, sostanzialmente quelladel mondo punico, in quanto dopo il 238 a.C. i nuovi padroni non muterannoindirizzo nello sfruttamento del territorio.

  • 48 Quadro storico

    Poli di attrazione rimarranno quindi le aree costiere, quelle di maggiore pro-duzione agricola e, in un secondo momento, le aree toccate dalle grandi strade.Accanto a questo tipo di insediamenti si avranno inoltre quelli più interni origi-nati da una funzione prettamente militare. La completa integrazione delle popo-lazioni locali comporterà, già nel I sec. a.C., l’elevazione a municipio di cittadiniromani del centro di Carales e la deduzione della colonia di Turris Libisonis.Nei successivi due secoli altre città verranno infatti investite da provvedimentianaloghi (Nora, Sulci, Bosa come municipi e forse Tharros e Cornus come colo-nie). Nel 158 d.C., grazie ad un’iscrizione latina, una tabula patronatus, abbiamoattestata, presso l’attuale centro di Usellus, una nuova colonia denominata co-lonia Iulia Augusta Uselis. A partire dal V sec. d.C. le città incominceranno amostrare le modificazioni tipiche delle città tardoantiche rappresentate princi-palmente dall’erezione di strutture fortificate e di mura, dall’occupazione dellearee suburbane e, in relazione a fenomeni tipicamente cristiani, dalla costru-zione di impianti di culto di nuove tipologie. Oltre a questi fenomeni vi è dasegnalare quello delle sepolture urbane, assolutamente impensabile solo qualchesecolo prima. Dal punto di vista demografico si registra, in questo periodo, unacontrazione della popolazione che si rifletterà pesantemente sia sulle campagneche nei centri urbani.

    Nel recente volume sulla Sardegna romana, edito a cura di Attilio Mastino,vengono presentate due carte che disegnano in maniera particolarmente efficacela romanizzazione della Sardegna. Nella prima viene rappresentata la viabilitàprovinciale, nella seconda la localizzazione dei populi che vissero in Sardegna.

    Recenti rinvenimenti epigrafici consentono di integrare e forse rettificare laseconda di queste due carte con lo spostamento di una popolazione, i Fifenses,grazie alla rilettura (Corda, 2007) di un testo epigrafico proveniente da Valler-mosa (CIL X 7840) e con l’inserimento dei Barsani sulla base di un nuovo testoproveniente da Barumini [Corda e Piras (cds)].

    Gli insediamenti rurali

    Analogamente al mondo fenicio-punico, che costellò di una miriade di piccoleunità insediative umane le campagne sarde dell’immediato retroterra delle gran-di città costiere sia con funzione militare sia legandole allo sfruttamento dellerisorse agricole, anche nel periodo romano assistiamo alla creazione di grandifattorie nelle aree più ricche e comunque in prossimità degli assi viarii. Col ter-

  • 1.3 Economia e Società 49

    Figura 1.3: I popoli della Sardegna romana (elaborazione con modifiche daMastino 2005).

  • 50 Quadro storico

    mine di villa rustica, utilizzato sia dalle fonti che in archeologia per indicarequesto tipo particolare di insediamento umano, dobbiamo quindi intendere nonun piccolo casolare sperduto nelle campagne, ma una vera e propria aziendaben strutturata che poteva garantire ai proprietari comfort simili alla città eallo stesso tempo gli impianti logistici per una efficiente gestione dell’impresa.Purtroppo, sia per la connaturata occasionalità dei rinvenimenti archeologiciche per una precisa scelta di indagine, non abbiamo in Sardegna molti esempiscavati ed editi di tali strutture, anche se sia i dati legati all’attività di prospezio-ne del territorio sia il semplice ragionamento legato alla storia economica dellaprovincia Sardiniae ne fanno supporre una grande diffusione. Esempi ne sonola villa rurale di S’Imbalconadu individuata ad Olbia e forse quella scavata, inparte, in loc. S. Abba Druche presso Bosa. Accanto alla pars urbana della villa,nella quale viveva tra gli agi il padrone di casa, corroborato da tutta una seriedi lussi tra cui risultava costante la presenza di una terma privata, si aveva lapars rustica, nella quale vivevano i servi addetti al buon funzionamento dell’a-zienda. In età tardoantica questa situazione continuerà a permanere e, perfinodopo l’età vandalica, abbiamo notizia di strutture simili anche di proprietà dellachiesa.

    Orientamenti bibliografici al §1.3

    Economia: A. Guillou, La lunga età bizantina. Politica ed economia, in: M. Guidetti

    (ed.), Dalle origini alla fine dell’età bizantina, Storia dei Sardi e della Sardegna, Milano: Jaca

    Book, 1988b; Ortu, La Sardegna dei Giudici , op.cit. (vedi 1.2.4) Viabilità: Mastino, La

    Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 333-392; A. Corda e A. Mastino, Il più antico milia-

    rio della Sardegna della strada a Tibulas Sulcos, in: G. Paci (ed.), Contributi all’epigrafia di

    età augustea. Actes de la XIIIe réncontre franco-italienne sulr l’épigraphie du monde romain

    (Macerata, 9-11 dicembre 2005), Tivoli: Editrice Tipigraf, 2007; Popolazione: A. Terro-

    su Asole, L’insediamento umano medioevale e i centri abbandonati tra il secolo XIV ed il

    secolo XVII, Roma: CNR, 1974; Meloni, La Sardegna romana, op.cit. (vedi 1.2.3), 229-316;

    Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 205-332

  • 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 51

    1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini

    Come si è detto il primo vescovo noto con certezza in Sardegna fu taleQuintasius che, unitamente al diacono Ammonius, partecipò al Sinodo di Arlesnel 314.

    Il più autorevole storico e storiografo della Chiesa sarda, Raimondo Turtas,suppone, sulla scorta di questa notizia, che nell’Isola dovesse esistere da circaun cinquantennio, almeno a Carales, una comunità cristiana gerarchicamentestrutturata, organizzata e, lascia intendere, significativamente numerosa. In ef-fetti, la Sardegna viene associata in data anteriore alla pace della Chiesa allareligione cristiana in più occasioni. Resta da stabilire che peso dare a questenotizie.

    Alla fine del II secolo l’imperatore Commodo (161-192), su sollecitazionedella sua concubina Marcia, graziò alcuni condannati ad metalla che si trovavanoin Sardegna in base ad un elenco stilato da papa Vittore. Siamo nel 190 etra coloro che vennero liberati perché correligionari di Marcia ci fu, ancorchénon menzionato nella missiva, anche Callisto che sarà papa e martire (217-222;Hippol. Philosophumena 9,12). Costui non fu però l’unico pontefice ad essererelegato in Sardegna. Come ci dice il Catalogo Liberiano il vescovo di RomaPonziano fu mandato nell’Isola con un diacono di nome Ippolito. Vecchio, malatoe detenuto in condizioni malsane, morì esule prima di poter anche solo sperarenella liberazione.

    Queste notizie, ancorché importanti perché parlano in di personaggi di rilievocome Callisto, Ponziano e Ippolito (forse quello dei Philosophumena) e di eventistoricamente significativi come il Sinodo di Arles, nulla ci dicono sull’effettivaconsistenza della comunità cristiana sarda di II-III sec. I damnati ad metalladel II secolo non possono, questo possiamo tranquillamente affermarlo, essereascritti ad un tentativo di evengelizzazione della Sardegna: non sono stati inviatida alcuno con questa missione né, cosa lampante, si può sostenere siano andatiin Sardegna di spontanea volontà.

    A suggerire la presenza di una comunità cristiana caralitana di una certaconsistenza rimane a questo punto l’attestazione del solo Quintasius, che nullaesclude possa essere stato inviato in Sardegna come avanguardia di una “erigen-da” comunità piuttosto che come pastore di una ecclesia preesistente. In questosecondo caso avremmo avuto per il III-IV secolo un buon numero di iscrizio-

  • 52 Quadro storico

    ni, materiali mobili e quant’altro, mentre, fino a prova contraria, non abbiamoalcuna di queste attese testimonianze archeologiche.

    Ciò che Quintasius stesso e altri personaggi di grande caratura collegati alterritorio sardo dimostreranno ampiamente è che la comunità sarda, quale chefosse la sua dimensione numerica e la sua estensione territoriale fu capace diesprimere dei protagonisti di valore assoluto come Lucifero (†370 ca.), vescovodi Carales, e di dare i natali ad Eusebio (definito infatti natione sardus), vesco-vo di Vercelli. Tra i due, com’è noto, fu il secondo a primeggiare per dottrinae capacità; eppure papa Liberio scelse il primo a rappresentarlo al Concilio diMilano del 355 preferendolo per le sue qualità di combattente dotato di unaspessa corazza di “impermeabilità dottrinale”. A questo riguardo Antonio Pirasnell’introduzione alla sua edizione del De non conveniendo cum haereticis scrivemolto bene della scelta di Liberio caduta non su “uno [i.e. Eusebio] che aprisseal dialogo, ma uno [i.e. Lucifero] che martellasse come un basso ostinato”. Uncombattente a cui però lo stesso papa affiancò in quella occasione un riluttanteEusebio di Vercelli, a cui in tre lettere viene ricordato e chiesto di spendere,al fianco di Lucifero la sua dottrina, la sua moderazione e la sua obbedienzaal servizio della Chiesa (Liber. Ep. I-III ad Eusebium). Eusebio, ammesso conriluttanza e solo dopo qualche giorno al consesso dei vescovi conciliari sarà riso-lutivo nel fare in modo che il credo niceno venisse salvato ottenendo quello che sipuò definire volgarmente un “pareggio”, che però al momento, se si considera chegli ortodossi erano in netta minoranza, fu una vera e propria sonante vittoria.

    Lucifero ed Eusebio, in conseguenza delle posizioni espresse e per la lorostrenua difesa di Atanasio di Alessandria, vennero condannati da Costanzo (fi-loariano) ad un esilio lungo ben 6 anni (355-361) e che terminò solo a causadella morte dell’imperatore a Mopsucrene e grazie all’amnistia voluta da Giu-liano l’Apostata. La successiva presa di posizione a favore dei seguaci di Eustaziodi Antiochia (270-337), vescovo ortodosso morto in esilio prima della riabilita-zione generale dei vescovi esiliati da Costantino I, sarà la naturale prosecuzionedella sua linea teologica, che peraltro lo aveva spinto a scrivere anche durantel’esilio libelli (come il citato De non conveniendo) contro l’arianesimo di grandeasprezza. Allo stesso modo Eusebio, esiliato prima a Scitopoli e successivamentevia via in zone sempre più isolate della Tebaide, non aveva smesso di utilizzare,né avrebbe in verità potuto, il suo carisma personale per fare proseliti. Come siè detto, entrambi vennero liberati alla morte di Costanzo e quindi si riunirono

  • 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 53

    nell’affermazione della fede nicena attorno ad Atanasio che organizzò per il 362un Concilio ad Alessandria. Lucifero non raccolse l’invito recandosi al contrarioad Antiochia, dove era stato richiamato da suoi fedeli per sostenere il prete Pao-lino contro il suo vescovo Melezio. L’integralismo di Lucifero questa volta creògravi danni, perché il nostro ebbe la brutta idea di ordinare vescovo Paolinopermettendogli di partecipare al Concilio voluto da Atanasio e creando di fattoun vero e proprio scisma. Dopo questi eventi Luciferò rientrò a Cagliari, scom-parendo per sempre dalla ribalta internazionale e dove si ritiene morisse intornoal 370. Alla chiusura del concilio Eusebio, insoddisfatto della tiepida formulacristologica voluta da Atanasio, si recò ad Antiochia, senza però prendere posi-zione nel conflitto locale originato da Paolino. Inizierà così da questa città unlungo ritorno via terra a Vercelli, dove continuerà la sua battaglia antiariana epotenzierà, forte dell’esperienza orientale e di esilio, il monachesimo. Un’ultimavolta ancora Eusebio calcherà la grande ribalta, quando, assieme ad Ilario, nel364 combatterà a Milano l’ariano Aussenzio. Sarà un grande sconfitta perchéValentiniano crederà ad una (probabilmente falsa) affermazione di fede “nicena”di Aussenzio e intimerà a Ilario ed Eusebio di tornare nelle proprie diocesi.

    Circa duecento anni dopo questi eventi, la polemica antiariana riprese nuova-mente forza in Sardegna grazie alla grande personalità di Fulgenzio di Ruspe chevi fu esiliato tra il 507-508 e il 523 nel quadro delle relegazioni dei vescovi orto-dossi volute dai re vandali (Vict. Vit. pers., II, 18). Fondatore di monasteri, diuno scriptorium e scrittore egli stesso entrò non solo nel merito dell’arianesimo,ma anche dell’eresia pelagiana affermatasi in Africa nel IV-V secolo che sminuivail sacrificio del Cristo ai fini della salvezza dell’uomo. Nel 484 ben cinque vesco-vi sardi parteciparono al Concilio di Cartagine (Lucifero II di Carales, Vitaledi Sulci, Martiniano di Forum Traiani, Bonifacio di Senafer, Felice di Turris)e si può supporre che l’istituzione delle 4 nuove diocesi possa essere avvenutaprima dell’invasione vandalica della Sardegna con il vescovo di Roma come me-tropolita (vicariato dell’Italia Suburbicaria) e che, successivamente, durante ladominazione vandalica l’Isola possa essere stata organizzata in provincia eccle-siastica autonoma con Carales come sede metropolitana. Gli oltre cento vescoviche vennero esiliati in Sardegna lasciarono certamente un segno indelebile por-tando con sé culti, tradizioni e una cultura che in quel momento doveva essereben superiore a quella della regione ospitante e che è possibile riscontrare anchein aspetti della cultura materiale. Secondo la tradizione Feliciano, vescovo di

  • 54 Quadro storico

    Cartagine, portò con sé il corpo di S. Agostino, anche se è molto probabile cheabbia ragione Luciano Gastoni quando sostiene che a farlo furono gli Arabi inun momento ben più tardo. Come Feliciano, è possibile che un vescovo abbiaportato le reliquie del martire Vincentius che vennero conservate nella cassetta-reliquiario di San Giuliano a Selargius [edizione in Casu e Corda (2003)], cheper forma, formulari e onomastica richiama ambiti africani.

    A questo VI secolo sembra doversi ascrivere l’istituzione delle diocesi di Thar-ros (per gemmazione da Cornus) e Fausiana nei pressi di Olbia. Il tutto mentresalivano al soglio pontificio altri due papi sardi: Ilaro/Ilario (461-468) e Simmaco(498-514).

    La celebre missiva del maggio 594 di Gregorio Magno (590-604) ad Ospitonepropone un quadro della cristianizzazione dell’Isola con da una parte le aree giàcontrollate dai Romani ormai completamente (o quasi) “conquistate“ dall’altral’antica Barbaria, dove i Barbaricini ancora adoravano ligna et lapides. Le 39 let-tere scritte da questo grande pontefice e dirette ai vescovi sardi ci descrivono inmaniera sufficientemente chiara una chiesa sarda ben strutturata e organizzatanel territorio e strettamente controllata da funzionari civili (notarii e defensoressu tutti) per conto del soglio pontificio. Sempre da queste lettere conosciamo lestrutture collegate all’attività caritativa e di assistenza sul territorio (xenodo-chia), peraltro già note grazie ad alcune iscrizioni ascrivibili a quadri cronologicicompatibili.

    Su tutto il territorio erano disseminati monasteri sia maschili che femmini-li: in una bella iscrizione rinvenuta a Carales viene ricordata ad esempio unaRedemta abb(atissa) monasterii Sancti Laurenti [vedi infra scheda 3.1.7]. Il fe-nomeno monastico inizierà, come si è detto, grazie a Fulgenzio di Ruspe e pro-seguirà rinforzandosi in età gregoriana per poi arrivare nel VII secolo con unincremento dovuto ad afflussi orientali. In ogni caso, pur ospitando monaci dilingua greca, la Sardegna da un punto di vista ecclesiastico sarà sempre collegataa Roma e non a Bisanzio. Si hanno casi anche in Sardegna di quella contiguitàliturgica che risulta essere piuttosto comune ad esempio nel resto della peni-sola italica e che ha portato nelle stesse aree all’utilizzo di rituali e di culti ditradizione occidentale e orientale.

    Si ha quindi l’arrivo del culto di santi quali Elena, Nicola di Mira, Barbara,Basilio e Gregorio, Pantaleone, Giorgio Megalomartire e altri più specifici eparticolari come quelli collegati a MariaΘεοτόκος o alla tradizione della κοίμησις

  • 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 55

    Figura 1.4: Iscrizione di Karissimus da Tharros (foto archivio Dip. Scienzearcheologiche - Università di Cagliari; Corda 1999, THA003).

  • 56 Quadro storico

    di Maria. L’influenza bizantina si attenuerà lentamente con il passare degli anni:come abbiamo detto, dopo il X secolo si aprirà per la Sardegna la stagione deiGiudicati.

    Orientamenti bibliografici al §1.4

    Pani Ermini, La Sardegna e l’Africa nel periodo vandalico., op.cit. (vedi 1.2.4); Guillou,

    La lunga età bizantina. Politica ed economia, op.cit. (vedi 1.3.3); A. Guillou, La diffusio-

    ne della cultura bizantina, in: M. Guidetti (ed.), Dalle origini alla fine dell’età bizantina,

    Storia dei Sardi e della Sardegna, Volume I, Milano: Jaca Book, 1988a; T. Pinna, Gregorio

    Magno e la Sardegna, Sassari - Cagliari: 2D Editrice Mediterranea, 1989, Lingua e Cultura

    2; L. M. Gastoni, Le reliquie di S. Agostino in Sardegna, in: A. Mastino (ed.), L’Africa

    Romana 6, Sassari: Gallizzi, 1989; A. Piras, Appunti su alcune specificità del cristianesimo in

    Sardegna, Theologica & Historica, V (1996); Spanu, La Sardegna bizantina tra il VI e il VII

    secolo., op.cit. (vedi 1.2.4); A. M. Corda, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al

    VII secolo, Volume LV, Studi di antichità cristiana, Roma: Pontificio Istituto di Archeologia

    Cristiana, 1999; R. Turtas, Storia della chiesa in Sardegna : dalle origini al Duemila, Roma:

    Città Nuova, 1999; G. Mele, Il monastero e lo scriptorium di Fulgenzio di Ruspe a Cagliari

    nel VI secolo tra culto, cultura e il Mediterraneo, in: G. Mele e N. Spaccapelo (eds.), Il

    papato di San Simmaco (498-514). Atti del convegno internazionale di studi: Oristano, 19-21

    novembre 1998, Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, 2000, Studi e Ricerche di Cultura

    Religiosa, Nuova Serie II; P. G. Spanu, Martyria Sardiniae. I santuari dei martiri sardi, Ori-

    stano: S’Alvure, 2000, Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche 15; R. Turtas,

    La Chiesa sarda tra il VI e l’XI secolo, in: P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini del-

    l’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002; A. Piras,

    La circolazione del testo biblico in Sardegna in età tardoantica, in: P. G. Spanu (ed.), Insulae

    Christi. Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, Oristano: S’Alvure, 2002a,

    Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e Ricerche 16; E. Morini, Il Monachesimo, in:

    P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia della

    Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002; A. Piras, Gli scritti di Lucifero di Cagliari: genere

    letterario e modalità di produzione, in: Comunicazione e ricezione del documento cristiano

    in epoca tardoantica (XXXII incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 8-10 maggio

    2003), Roma: Institutum Patristicum Augustinianum, 2004, Studia Ephemeridis Augustinia-

    num 90; G. Corti, Lucifero di Cagliari : una voce nel conflitto tra chiesa e impero alla

    metà del IV secolo, Milano: Vita e Pensiero, 2004, Studia Patristica Mediolanensia 24; R.

  • 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 57

    Martorelli, Gregorio Magno e il fenomeno monastico a Cagliari agli esordi del VII secolo,

    in: L. Casula, G. Mele e A. Piras (eds.), Per longa maris intervalla. Gregorio Magno e

    l’Occidente mediterraneo fra tardoantico e altomedioevo. Atti del Convegno internazionale di

    studi (Cagliari 17-18 dicembre 2004), Cagliari: Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna,

    2006a, Studi e ricerche di Cultura Religiosa, IV; R. Martorelli, La diffusione del culto dei

    martiri e dei santi in Sardegna in età tardoantica e medievale, in: M. G. Meloni e O. Sche-

    na (eds.), Culti, santuari, pellegrinaggi in Sardegna e nella penisola iberica tra medioevo ed

    età contemporanea, Genova: Brigati, 2006b; P. B. Serra, I Barbaricini di Gregorio Magno,

    in: L. Casula, G. Mele e A. Piras (eds.), Per longa maris intervalla. Gregorio Magno

    e l’Occidente mediterraneo fra tardoantico e altomedioevo. Atti del Convegno internazionale

    di studi (Cagliari 17-18 dicembre 2004), Cagliari: Pontificia Facoltà Teologica della Sarde-

    gna, 2006, Studi e ricerche di Cultura Religiosa, IV; A. Piras, s.v. Lucifero di Cagliari, in:

    A. Di Berardino, G. Fedalto e M. Simonetti (eds.), Letteratura patristica, Torino: San

    Paolo, 2007;

  • Capitolo 2

    I siti

    2.1 Carales - Cagliari

    Foglio IGM 234, IV SE; città capoluogo della Sardegna. Sulle fonti classiche èancora utile la scheda di Th. Mommsen in CIL X, p. 787; tra i luoghi citati si vedain particolare, per la notevole importanza dal punto di vista topografico, Claud.De bello Gild., I, 520 ss. che ci descrive la città vista dal mare in occasionedell’approdo della flotta di Stilicone nel territorio sardo.

    Gli insediamenti preistorici finora localizzati sembrano non presentare so-vrapposizioni insediative di età punica, periodo in cui, del resto, il centro abi-tativo gravava in loc. S. Igia, area ben più ad ovest di quella successivamenteoccupata in età romana. Quest’ultimo spostamento fece si che l’originaria Karalìdiventasse un’area suburbana della civitas romana che ebbe il proprio centro,per dirla con S. Angiolillo, in un’area “gravitante intorno all’attuale piazza delCarmine”.

    In età alto e medio-imperiale (fino al III sec. d.C. ca.) l’area abitata eradelimitata ad ovest dalla necropoli di S. Avendrace in uso fino a tutto il III sec.d.C., a nord dall’anfiteatro e ad est dalla necropoli di viale Regina Margheri-ta. Ad occidente il tessuto urbano era organizzato da un sistema organico, giàattestato a partire dal II sec. a.C., di unità abitative di non grandi dimensioni,con aree sepolcrali proprie e con un’economia a valore d’uso di tipo agricolo checomunque non soddisfaceva il mercato interno.

    59

  • 60 I siti

    L’autonomia del modello urbanistico caralitano romano rispetto ai prece-denti punici è stato di recente sottolineato e vi è infatti chi individua in modelliitalici ed in una precisa scelta della classe dominante medio-imprenditoriale lo-cale la selezione di un’area determinata compresa tra piazza del Carmine e viaXX Settembre. Tale opzione sarebbe stata originata da diversi motivi, quali lanatura del terreno, la presenza di falde d’acqua ed infine la particolare posizionerispetto al sistema viario.

    Lo studio dell’area di via Malta e soprattutto la ricostruzione delle curvedi livello originarie ha permesso di ipotizzare la classificazione di Carales tra lecittà terrazzate di tipologia italica. I lacerti viarii noti dalla bibliografia hannosuggerito l’ipotesi di una rete orientata est-ovest a seguire le curve di livello. DalIV sec. d.C. si assiste ad una radicale risistemazione di queste aree, come testi-monierebbero le vicende costruttive ed i cambiamenti subiti da alcuni complessiedilizi afferenti viale Trieste e dintorni. Proprio viale Trieste assicurava non soloi collegamenti fra la città e i sistemi viari del Campidano e del Sulcis-Iglesiente,ma anche fra questa e la necropoli di S. Avendrace. Oltre a ciò, la documenta-zione archeologica ed il rinvenimento di un certo numero di epigrafi attestano,dal IV sec. d.C. fino al VII, l’uso funerario di parte della vasta area compresafra viale Trieste e Fangariu.

    In conclusione, pare di potere ravvisare una politica di forti investimenti edilinel suburbio occidentale di Cagliari, con una situazione insediativa incentratasu due assi principali: viale Trieste e S. Gilla, cadendo così la netta distinzionefra suburbio e città, fra aree abitate e aree esclusivamente funerarie.

    Tale spostamento rispetto al nucleo originario romano troverebbe spiegazionenella necessità di un approvvigionamento idrico legato alle modalità e ai mezzidi produzione dei nuovi proprietari, che l’acquedotto, dismesso, non poteva piùassicurare. Nel corso del VI sec. d.C. il polo occidentale si identifica in manierasempre più decisa con le zone di viale S. Avendrace e S. Gilla, che la tradizioneidentificherà come l’area occupata dalla capitale giudicale. L’antica zona ovestdel suburbio, ormai periferica e affidata in gestione alla Chiesa, viene interes-sata da costruzioni chiesastiche, in un secondo tempo incorporate all’internodi costruzioni a carattere difensivo, analogamente a quanto si riscontra nellastessa S. Gilla. Riguardo al settore orientale della civitas, si ha testimonianzadi alcune preesistenze puniche, ma non è possibile tracciare un quadro definitofino a dopo il periodo romano imperiale. Sicuramente importante doveva essere

  • 2.1 Carales - Cagliari 61

    Figura 2.1: Cagliari. Cippo terminale (disegno da Salvi 2002).

    l’attuale viale Regina Margherita che accoglieva nella sua porzione medio-altauna vasta necropoli in uso dall’età repubblicana. Il viale andava a ricollegarsi,verso Sud, con il porto e con un impianto industriale, risalente alla tarda repub-blica, ubicato nella via XX Settembre. Altri spazi funerari, fra il I e il III sec.d.C., sono stati segnalati in via Eleonora d’Arborea, via S. Lucifero, piazza S.Cosimo, colle di Bonaria, via S. Bartolomeo con particolari evidenze, e non solofunerarie, per il tratto fra via Sonnino e il colle di Bonaria. Nel IV sec. e finoal VI/VII sec. d.C. continua l’espansione delle sepolture a caratterizzazione cri-stiana e vi è chi vede nella differenziazione delle tipologie sepolcrali, nelle fasi diutilizzazione di alcuni edifici, nell’ipotesi dello sfruttamento del colle di Bonarianon solo come cimitero ma anche come cava di materiale per l’edilizia, gli indizidi un’organizzazione socio-economica strutturata ponendo in rilievo l’esclusivitàdella presenza cristiana e soprattutto dei maggiori rappresentanti della gerarchiaecclesiastica. Il fenomeno sarebbe da ricollegare alla costruzione nel VI sec. d.C.della basilica di S. Saturnino, con probabilità sorta su un possesso imperiale,nell’ambito della politica costantiniana all’indomani della pax religiosa e dello

  • 62 I siti

    sforzo di legittimazione del culto dei martiri da parte di papa Damaso. Un altroedificio di culto, anch’esso forse dedicato a S. Saturnino, è attestato fra il IV e ilVI/VII sec. nel viale Regina Margherita, ma con la definitiva consacrazione del-la basilica presso piazza S. Cosimo come luogo privilegiato, dovette perdere diimportanza fino ad essere dimenticato. Oltre all’area di scavo di Vico III Lanuseia cui è stata dedicata di recente una importante pubblicazione, gli archeologihanno appuntato l’attenzione sull’area sottostante la chiesa di S. Eulalia a Ca-gliari, dove sotto un imponente scarico di detriti e materiali di V-VI secolo,ascrivibili prevalentemente ad importazione africana, è stata messa in luce unastrada basolata con andamento nord-ovest/sud-est probabilmente di cronologiaposteriore al V secolo. La possibile relazione intercorrente fra queste strutture ela grande vasca circolare rinvenuta al di sotto della chiesa del Santo Sepolcro ericavata dall’escavazione di un potente banco di roccia propone suggestivamenteuna riflessione sulla possibile ubicazione in quest’area dell’insula episcopalis.

    Di recente è stato rinvenuto e pubblicato un cippo terminale [cfr. figura 2.1;Salvi (2002)] indicante il confine tra la proprietà ecclesiastica e la proprietà deldemanio e la cui lettura è (croce) [l]ime[s] // curiae [vacat] // (croce) limes{a}ecl(esiae). L’impaginazione non buona del testo è forse originata dal fattoche il lapicida ha voluto realizzare un testo ’passante’ da una faccia all’altra delcippo per farlo leggere di sbieco.

    2.1.1 La basilica di S. Saturnino

    Saturnino, secondo la tradizione locale martirizzato nel 304 sotto Dioclezia-no, ebbe il privilegio di vedersi dedicare in un periodo probabilmente precedenteal 450 d.C. una chiesa che, secondo la Vita Fulgentii scritta agli inizi del VI se-colo, non era solo nota allo stesso vescovo di Ruspe, ma addirittura funse inqualche modo come polo di attrazione per il monastero che egli volle fabbricar-gli vicino. Sulla doppia dizione Saturno-Saturnino si è già espresso nel secoloscorso con grande autorevolezza B. R. Motzo che sosteneva come si dovesse di-sgiungere, nei documenti risalenti all’attività dei monaci vittorini in Sardegna, ilnome Saturno, identificante un martire locale cagliaritano, dal nome Saturninoda riferirsi al santo venerato nel santuario tolosano. La nostra basilica sarebbequindi da definire, secondo Motzo, come di ’S. Saturno’. Questa visione, finoa tempi recentissimi condivisa dalla maggior parte degli studiosi di storia sar-

  • 2.1 Carales - Cagliari 63

    Figura 2.2: Carales. Basilica di San Saturnino (da Insulae Christi, p. 216).

  • 64 I siti

    da, è stata messa in crisi e ribaltata da una nuova lettura della Passio SanctiSaturnini di A. Piras e dall’edizione di un manufatto epigrafico, a cura di D.Artizzu, menzionante un Sanctus Saturninus proveniente dall’agro di Solanas(CA) e datato al VII-VII sec. Ciò che importa è che la chiesa così come noi lavediamo, modificata e restaurata dai Vittorini di Marsiglia, trae la sua origineda un originale corpo cupolato a croce greca con bracci mononavati confronta-bili con consimili strutture orientali datate addirittura al IV secolo (martyriumdi San Babila ad Antiochia-Kaousiye del 378). In base ad alcune considerazionisulla struttura, è possibile ipotizzare che la prima fase costruttiva di V secolo siastata interrotta per cause a noi non ben note (Renata Serra sembra attribuirlealla presenza vandala in Sardegna) e che i lavori siano stati forse ripresi grazieall’esilio sardo di Fulgenzio di Ruspe.

    Al suo interesse sarebbe infatti da attribuire all’inizio del VI secolo l’am-pliamento dell’edificio con bracci trinavati sul modello (così Renata Serra) diQal’at Sim’an (s. Simeone Stilita), mentre ad età vittorina sono ovviamente daattribuire le trasformazioni in chiave romanica terminate nel 1119. Letizia PaniErmini differisce nella lettura dell’area proponendo, a partire da una fase pub-blica tardopunica caratterizzata dalla presenza di blocchi bugnati, una letturastratigrafica che vede in successione, oltre alla già citata fase preromana, unanecropoli romana di II-IV secolo, un primo impianto chiesastico absidato mono-nave e infine alla metà del VI secolo il San Saturnino fulgenziano con impiantoa croce.

    L’importanza del San Saturnino nella storia dell’arte e dell’architettura re-gionali consiste nel fatto che questo impianto sarà il prototipo a cui si rifaràin maniera più o meno fedele tutta una serie di chiese altomedievali, tra cuiricordiamo in particolare l’impianto di Sulci (martyrium di Antioco) e quelli diS. Giovanni di Sinis, Bonarcado, Sant’Elia di Nuxis, San Salvatore di Iglesiase Santa Maria di Cossoine in un arco cronologico ampio oltre cinque secoli apartire dal V.

    2.2 Nora - Pula

    L’area archeologica di Nora è compresa all’interno del territorio comunaledi Pula in prov. di Cagliari, da cui dista km 29 a SO. A detta delle fonti clas-siche (Paus. X, 17, 5; Solin. IV,2), Nora venne fondata da Norace, capo di un

  • 2.2 Nora - Pula 65

    gruppo di Iberi provenienti da Tartesso. In realtà sappiamo che questo centro,nonostante alcune tracce pertinenti alla civiltà nuragica, è certamente di originefenicia, come ci dimostra l’iscrizione c.d. Grande Norense conservata presso ilMuseo Nazionale di Cagliari che viene ormai datata al più tardi all’VIII sec.a.C.

    Figura 2.3: Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. La Grande Norense.

    Le strutture edilizie finora poste in luce non ci consentono per ora di risalire,per la fondazione, oltre il VII sec. a.C. Del periodo preromano abbiamo, se nonle strutture, almeno delle aree urbane nelle quali risulta evidente una sovrappo-sizione dell’elemento romano a quello precedente. Basti pensare ad esempio alsantuario di Eshmun-Esculapio situato nella Punta de su Coloru e il cosiddetto“Tempio di Tanit”, del quale ci sfugge appieno la funzione, ma che sembra sia daascrivere ad una supposta funzione militare originaria. L’acropoli della città èprobabilmente da collocare sul promontorio del Coltellazzo. L’importanza che lacittà ebbe durante il dominio punico in Sardegna venne mantenuta anche in etàromana e, prima che prevalesse Carales, fu la sede del governatore comandantela guarnigione militare di stanza in Sardegna. Notizia di un notevole sviluppo

  • 66 I siti

    in età alto-imperiale ci proviene dall’epigrafia e da importanti presenze monu-mentali quali un teatro datato dalla prima metà del I sec. d.C. al principatodi Adriano (117-138). Particolarmente importanti le Terme centrali (II-III sec.d.C) e le Terme a mare di fine II sec. d.C., mentre l’afflusso delle merci in cittàera garantito dai due porti già usati dai punici. Nel I sec. a.C. il centro fece dasfondo alle torbide vicende collegate alla Pro Scauro di Cicerone che riuscì, conuna difesa aggressiva a far assolvere da una pesante accusa di malversazioneM. Emilio Scauro, reo di aver letteralmente depredato i Sardi durante il suomandato di governatore della Provincia Sardinia nel 55.

    Figura 2.4: Nora. Basilica (a) [elab. da Bejor 1994].

    In età tardoantica, nel V sec., venne restaurato l’acquedotto e a partire daquesto periodo, lungi dall’essere abbandonato, il centro di Nora subirà quelle

  • 2.3 Sulci - Sant’Antioco 67

    trasformazioni tipiche di adeguamento urbanistico dovute alle nuove contingen-ze storiche. Si può convenire quindi con chi, con ragione, parla di mutazione edi continuità urbanistica, con aggiustamenti quali, ad es., la fortificazione delleTerme a mare e l’inserimento, urbanisticamente forzato, di una basilica posizio-nata esattamente di fronte al cd. macellum. Sempre in un periodo “non anterioreal V sec.”, tornano le attività produttive a qualificare una notevole vitalità cheavvicina il centro sardo a Tharros e ai grandi centri africani.

    Già dal 1994 si è pensato di proporre la possibile interpretazione cristianadell’impianto basilicale appena menzionato: questa soluzione sanerebbe in qual-che modo quella che sembra essere un’anomalia di Nora e cioè la mancanza diuna cattedrale urbana. Risulta infatti molto difficile pensare che un centro cosìimportante come questo, non abbia avuto edifici di culto urbani adeguati tantopiù che è opinione di molti studiosi, che là dove sorgerà nell’XI secolo la chiesadi S. Efisio ci possa essere stato un martyrium precedente dedicato allo stessosanto. La vicinanza delle diocesi di Carales e Sulci ha nuociuto pesantementeal centro norense che, preso come in una morsa, non ha visto, a dispetto di unastoria urbana quanto mai ricca e prestigiosa, vedersi riconoscere la dignità disede episcopale.

    2.3 Sulci - Sant’Antioco

    Foglio IGM 232, II, SE; comune in prov. di Cagliari da cui dista 68 km. Nellefonti classiche Sulci è ricordata da Zon. VIII, 12 in relazione alle attività navalidi C. Sulpicio Patercolo ed Annibale che, invece di accettare una battaglia inmare aperto, si rinchiuse nel porto cittadino facendosi bloccare, e successivamen-te battere, dai Romani (259-258 a.C.). A fianco di Pompeo durante la guerracivile, la città venne duramente punita nel 46 a.C. (Caes. Bell. Afr. XCVIII,1ss.) per essere comunque elevata, un secolo dopo circa, al rango di municipium.

    Numerose notizie ci provengono dall’epigrafia, e in particolare da un te-sto edito in CIL X, 7513 abbiamo una importante iscrizione bilingue (latino-neopunico) datata al I sec. a.C., che testimonia non solo il perdurare nell’u-so della lingua, ma soprattutto la presenza istituzionale, a livello cittadino, di“un’assemblea rappresentativa di tipo punico”. Nonostante non manchino traccedi insediamenti cronologicamente anteriori (cultura Ozieri e nuragico), il cen-tro di Sulci è legato, nella storia dell’Isola, principalmente al periodo punico-

  • 68 I siti

    romano. Come ci testimonia la tipologia delle urne degli strati più antichi deltophet, il primo centro insediativo fenicio di slky deve attribuirsi almeno allametà dell’VIII sec. a.C. Il ruolo economico di Sulci non cambia in età romana,quando dovrà svolgere il compito di terminale marittimo per le miniere del-l’Iglesiente. La fusione dell’elemento sardo-punico, già rilevato nell’epigrafia, èconfermato anche dal dato più strettamente archeologico: al II sec. a.C. è daascriversi il monumento noto come Sa Presonedda, che tipologicamente richia-ma analoghi monumenti tardo-punici nord africani, mentre i famosi leoni punicidi VI sec. sono stati rinvenuti, reimpiegati, in un colonnato romano di III-IIsec. che insiste su una fase punica. Al I-II sec d.C. vengono datati un anfitea-tro (pochi resti) e due isolati di case. Nel periodo alto-imperiale è presente aSulci una comunità ebraica che dobbiamo supporre abbastanza importante. Gliipogei certamente giudaici sono due: quello c.d. di Beronice e quello ritrovatonei pressi della casa Pintus-Trullu. Suggestiva l’ipotesi di chi accosta il nomeBeronice, dipinto sulla parete di fondo di un arcosolio proveniente da un ipogeogiudaico, con il testo di un’iscrizione sulcitana, in cui vengono menzionate leuniver[sae tribus] e i Beroni[cen]ses. P. Meloni suppone che si possa trattaredi una popolazione rurale locale legata, in qualche modo, alla Beronice di IL-Sard 30 e proveniente da Berenice, l’attuale Bengasi, nei primi decenni del IId.C. La catacomba cristiana di Sant’Antioco a Sulci è l’unico monumento diquesto genere finora noto in Sardegna: si tratta di un ipogeo di modestissimeproporzioni che riutilizza una precedente necropoli punica (vedi infra). L’usodella catacomba è stimato in un arco cronologico che va dalla fine del IV sec.d.C. al VII sec. d.C.

    Il nome che qualifica la catacomba come di Sant’Antioco proviene da CIL X,7533, un titulus che, ora nella cattedrale di Iglesias, avrebbe contraddistinto, se-condo Mons. D’Esquivel, il sepolcro venerato nella catacomba; oltre al problemadell’autentica del manufatto si propone quello spinoso della datazione. Si passainfatti da un VI-VIII sec. del prof. B. R. Motzo ad un XII sec. di vari autori(P. Martini ed altri). Una posizione intermedia è quella che vuole il testo comecopia del VII-IX sec. di una più antica iscrizione metrica musiva. La letturacritica dell’impianto chiesatico è stata in tempi recenti affrontata da R. Serrache propone, per il supposto impianto cruciforme originario, una datazione dinon oltre il VI sec., massimo inizi del VII, mentre altri propendono per una datanon anteriore al VII sec.

  • 2.3 Sulci - Sant’Antioco 69

    Figura 2.5: Planimetria della catacomba di Sant’Antioco di A. Taramelli.

    Lo studio e di fatto l’identificazione del castrum bizantino si devono a Rena-ta Serra, che trova, riguardo ad esso, “significativi riscontri” con l’architetturamilitare bizantina del Nord-Africa (principalmente con Thamugadi -Timgad).

    2.3.1 La catacomba di Sant’Antioco

    Sul monumento, nel suo genere unico in Sardegna, si sono soffermati diversistudiosi, tra i quali vanno segnalati come particolarmente attenti e felici nellalettura archeologica Antonio Taramelli e, da ultimo, Leone Porru, al quale sideve la definizione certa del monumento.

    Nella sua analisi, come al solito estremamente dettagliata, Antonio Tara-melli cercò i confronti per il nostro monumento negli impianti consimili roma-ni e siracusani. Non trovando confronti possibili arrivò alla conclusione che,tipologicamente, le catacombe sulcitane fossero un unicum nell’orbis.

    Ubicazione e sviluppo topografico

    Il complesso catacombale di Sant’Antioco propone due nuclei ben distinti:il più importante noto come c. di Sant’Antioco ubicato a NW della chiesa-martyrium e il meno importante, ma paradossalmente ubicato in posizione cen-

  • 70 I siti

    trale rispetto all’aula di culto, noto come catacomba di S. Rosa. Attualmentel’accesso al monumento è garantito nel lato W del transetto: come vedremo, nonè da considerarsi come l’ingresso originario del complesso. Analizzando la plani-metria proposta da L. Porru nel 1989 (fig. 2.6) e seguendo il suo ragionamento,si evince come i fossori abbiano utilizzato ad hoc strutture preesistenti rappre-sentate da una serie di tombe ipogeiche puniche, allargandole, creando ambientidi passaggio e rendendole in poche parole funzionali ad un utilizzo cimiteria-le cristiano. Lo sviluppo catacombale attualmente noto è probabilmente quellomassimo mai raggiunto in quanto i “risparmi” delle camere puniche operati nellazona N e in quella S lasciano supporre che i fossori non abbiano voluto ingran-dire ulteriormente la catacomba. Tale considerazione, pur essendo fortementeprobabile, è comunque da tenere, come sempre in archeologia, accompagnata daun bel punto interrogativo.

    Le tombe puniche riutilizzate erano di tipo “standard” per il mondo semitacon il dromos di accesso composto da una scala e da un vestibolo che conducevaad uno spazio propriamente funerario con una o più camere. La ricostruzioneproposta da Leone Porru nella figura rende evidente l’operato dei fossori e conragione l’editore del monumento suppone che l’ingresso originario, e cioè quel-lo utilizzato dagli operai per scavare la catacomba, sia stato quello relativo alprimo ambiente occupato (AB) e contrassegnato in pianta dalla lettera L. Suc-cessivamente, per esigenze di spazio, si pensò di allargare gli esigui vani puniciricavandone un ambiente absidato più ampio che più tardi verrà ripartito neglispazi nell’XI sec. da sei colonne (vedi fig. 2.6, vano A). Dell’originaria tombapunica in quest’area non è rimasto praticamente niente se non un’esile traccianel piccolo setto divisorio risparmiato immediatamente alle spalle di quella chesappiamo essere stata la tomba venerata. Il resto della catacomba sfrutta conminori modifiche l’andamento delle tombe puniche che, non sempre comunicantitra loro, vennero unite grazie ad alcuni sfondamenti di parete (ad es. da B a D)e tramite un corridoio (C). Le tombe puniche utilizzate furono dunque 5, facil-mente identificabili perché dotate, almeno all’origine di un ingresso autonomo: aN i gruppi B+E+D, a S F+G; come si è detto questi due gruppi vennero messiin comunicazione da C. La storia del monumento, che L. Porru fa iniziare nelIV sec., continua con alcuni interventi particolarment