Bouquin Del Ponte

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Carla Del Ponte's experience when she was the prosecutor in the Hague for the war crime trials committed in the former Yugoslavia

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  • Occhiello di collana

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  • Frontespizio

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  • Giangiacomo Feltrinelli Editore MilanoPrima edizione mondiale in Serie Bianca aprile 2008

    Traduzione dallamericano diBRUNO AMATO

    ISBN 978-88-07-17144-4

    www.feltrinelli.itLibri in uscita, interviste, reading,commenti e percorsi di lettura.Aggiornamenti quotidiani

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  • Per mia madre, Angela

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  • Quando ha finito di bendarmi, mi sono addormentato in braccio a lui,

    perch non dormivo da tanto, tanto tempo...

    Siamo rimasti l fino al mattino...e mi ha svegliato

    e mi ha chiesto: Dove andiamo?.

    Io ho detto: Non lo so.

    Deposizione processuale del Testimone O,Il Procuratore contro Radislav Kristic, 13 aprile 2000

    (Dopo essere stato ferito in un campodi sterminio di Srebrenica

    si trascin via dalla catasta di mortie fugg vivo con un solo altro sopravvissuto)

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  • Durante la mia prima visita a Washington come Procurato-re capo dei Tribunali per i crimini di guerra delle Nazioni Uni-te, mi sono rivolta a uno degli uomini pi potenti della Terraper chiedergli aiuto. Questo accadeva un mercoled pomeriggiodella fine di settembre del 2000, allinizio della lunga serie diappelli che nel corso degli anni avrei rivolto a funzionari gover-nativi e capi di organizzazioni internazionali. Avevo bisognoche forzassero la mano di stati non collaborativi come la Ser-bia, la Croazia e il Ruanda; avevo bisogno che ci aiutassero aottenere materiale di prova; e, soprattutto, avevo bisogno che ciaiutassero ad arrestare latitanti imputati di crimini di guerra.La sede di questo specifico appello era adiacente alla CasaBianca, nellOld Executive Office Building. Un assistente ac-compagna me e i miei consulenti attraverso il portone dingres-so. (Tante colonne decorative che fingono di sostenere tantecornici e architravi decorative; una simile battaglia persa percomunicare vigore, stabilit e permanenza, non la vedevo dal-lultima volta che sono passata da Palazzo Borbone al centro diParigi.) Attraversiamo un corridoio che rimbomba dei nostripassi. Poi, entrando in un ufficio come tanti, ci troviamo facciaa faccia con il Potere, sotto le spoglie di George Tenet, direttoredella Central Intelligence Agency. oberato di impegni, impe-gni pressanti. Dieci anni dopo linvasione irachena del Kuwait elimposizione di sanzioni economiche che hanno distrutto la vi-ta di centinaia di migliaia di iracheni, Saddam Hussein anco-ra al potere. Tutti si lamentano che il prezzo del petrolio siabalzato a trentacinque dollari al barile, e tra poche ore a Geru-salemme Sharon salir sul Monte del Tempio, lHaram al-Sha-rif, accendendo la miccia della Seconda intifada. Forse Tenet sagi che nellarco di qualche settimana la folla invader le stradedi Belgrado rovesciando Slobodan Miloyevic. Nella Corea del

    Prologo

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  • Nord, Kim Jong-il si balocca con le armi nucleari. Gli agentidella Cia sono sulle tracce di Osama bin Laden. All11 settem-bre mancano ancora undici mesi.

    Quello di cui ho bisogno che Tenet coordini le attivit dellaCia con gli sforzi del nostro ufficio e di altre agenzie di intelli-gence per aiutarci a catturare due degli uomini pi ricercati almondo, Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Il Tribunale li ha in-criminati con imputazioni relative, tra laltro, allassedio e albombardamento di Sarajevo, a operazioni di pulizia etnica chehanno provocato centinaia di migliaia di profughi, e alluccisio-ne di quasi settemilacinquecento prigionieri musulmani, uomi-ni e ragazzi, a Srebrenica: il pi vasto massacro avvenuto in Eu-ropa dopo quelli delle settimane che seguirono la fine della Se-conda guerra mondiale, quando gli squadroni della morte co-munisti passarono per le armi innumerevoli migliaia di prigio-nieri che gli Alleati avevano rimpatriato forzosamente in Iugo-slavia. Il mio inglese incerto. Per tutta la mattina i miei colla-boratori mi hanno sottoposta a una raffica di domande, anchemolto cattive, per prepararmi a questo colloquio. Tenet sa checosa hanno fatto Karadzic e Mladic in Bosnia, e in particolare aSrebrenica. Ci intendiamo, pare, in pochi momenti. La mia opi-nione che potrebbe metterci a disposizione le informazioniraccolte dalla Cia nelle sue operazioni di sorveglianza, intercet-tazioni telefoniche, consigli e sostegno per gli arresti... qualsiasicosa che possa accelerare la cattura di questi e altri fuggiaschi.

    Tenet commenta che Karadzic gli ricorda un capomafia sici-liano. Non mi sfugge lironia. Di boss mafiosi ne so qualcosa. ETenet, con le sue origini greche, trasuda una passione mediter-ranea, una forza di volont autoritaria e altre qualit tipiche deicapimafia siciliani. La cosa mi va a genio, perch ogni capo diunorganizzazione di spionaggio ha bisogno di queste qualitperch le sue attivit siano efficaci. Mi assicura che la Cia atti-vamente impegnata nella caccia alluomo, ma che mettere lemani su Karadzic, che non parla mai al telefono n firma maiuna carta, un compito impervio: Di gente cos ne sto inse-guendo in tutto il mondo... Ci abbiamo messo sette giorni pertrovare Noriega, con ventimila GI. Butta l il nome di bin La-den. Poi aggiunge: Karadzic la mia priorit numero uno.

    Sono elettrizzata. Eccoci qui, a poche settimane dalle elezio-ni che porteranno George W. Bush alla presidenza, e il top dellespie dellunica superpotenza mondiale ci ha appena assicuratoche la sua agenzia sta facendo il possibile per scovare uno deinostri latitanti pi ricercati. Ripercorro i corridoi echeggianti edemergo in un pomeriggio autunnale ricco di possibilit. (Ora,quella miriade di colonne e cornici sembrano trasudare vigore,stabilit e permanenza.) Di l a qualche settimana comparir

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  • davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per riferireche, da molti punti di vista, il nostro primo anno stato un an-no di successi. Stiamo concentrando i nostri sforzi sullincrimi-nazione dei livelli pi alti che ci sia possibile perseguire. Lesquadre dei procuratori del Tribunale per il Ruanda stanno pre-parandosi per i processi di decine di gnocidaires. Il governo del-la Croazia ha cominciato a fornirci documenti che confermanoil nesso tra il defunto Franjo Tudjman e altri croati di alto rangocon i crimini commessi durante la guerra in Bosnia-Erzegovina.Sembra che il vento politico stia cambiando in una Serbia chenon sar di Miloyevic ancora per molto. Penso che dovrei esserein grado di risolvere i problemi dellimpegno della Procura ver-so il Tribunale della Iugoslavia, di ottenere il materiale probato-rio indispensabile, di catturare gli imputati, farli condannare,spegnere la luce e passare a nuove sfide.

    Non dovrei essere tanto ingenua. Confido che Tenet facciaseguire i fatti alle parole. Non immagino che stia innalzandoquello che noi di lingua italiana chiamiamo il muro di gom-ma, il rifiuto travestito da qualcosa che non sembra un rifiuto.Spessissimo, quando si rivolge a gente di potere qualche richie-sta o qualche domanda sgradita, le parole rimbalzano. Ti sem-bra di sentire quello che vorresti sentirti dire. Potresti persinoavere la sensazione che il tuo sforzo abbia prodotto qualche ri-sultato concreto.

    La mia carriera ha avuto inizio con una lunga serie di colli-sioni con il muro di gomma, collisioni seguite talvolta da formedi resistenza pi rozze, quando non da minacce fisiche. Mi sonoscontrata e continuer a scontrarmi con il muro di gomma in oc-casione di incontri con molti personaggi potenti, da finanzieridella mafia a banchieri e politici svizzeri, da capi di stato comeGeorge Bush e primi ministri come Silvio Berlusconi, a burocra-ti responsabili di uffici governativi e di vari dipartimenti delleNazioni Unite e, pi avanti nel mio incarico, ministri degli Este-ri europei che sembravano prontissimi ad accogliere la Serbianellabbraccio dellUnione europea anche quando leader politici,poliziotti e militari serbi davano rifugio a uomini responsabilidelluccisione a sangue freddo, sotto gli occhi del mondo, di mi-gliaia di prigionieri. Lunico modo che conosco per sfondare ilmuro di gomma e servire gli interessi della giustizia consiste nelcercare, con costanza e persistenza, di imporre la mia volont.

    Trovo divertente che il sommo sacerdote filosofico della vo-lont umana, Arthur Schopenhauer, rigido pessimista tedescodellOttocento, abbia toccato un livello di stupidit tale da scri-vere che il difetto fondamentale del carattere femminile sia nel-la mancanza del senso di giustizia:

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  • Esso ha la sua origine anzitutto nella [...] mancanza di raziocinio edi riflessione, ed inoltre favorito dal fatto che le donne, in quantopi deboli, sono costrette dalla natura a far ricorso non gi alla for-za, ma allastuzia; da qui derivano la loro istintiva scaltrezza e lin-sopprimibile tendenza alla menzogna. [...] La natura, come ha ar-mato il leone di artigli e denti, lelefante e il cinghiale di zanne, il to-ro di corna e la seppia dellinchiostro che intorbida lacqua, cos hadotato la donna dellarte di fingere per proteggersi e difendersi [cfr.il muro di gomma]...1

    Le donne hanno dimostrato che Schopenhauer aveva torto.Purtroppo, nazionalisti estremisti hanno abbracciato la sua glo-rificazione della volont, e durante i due secoli pi sanguinosidella storia umana hanno presieduto a crimini di guerra in cuisono andate perdute milioni di vite. La cosa mi appare parados-sale, perch mi sembra che il processo in cui sono stata impe-gnata, il processo che desidero contribuire a far progredire conle rivelazioni contenute in queste memorie la campagna inter-nazionale per mettere fine allimpunit di cui hanno goduto nelcorso della storia figure come Pol Pot, che ha inondato di san-gue i campi di sterminio della Cambogia; i militari che hannoordinato la morte di quelle migliaia di prigionieri iugoslavi rim-patriati con la forza nel 1945; e presunti, ancora presunti, omi-cidi di massa come Karadzic e Mladic in sostanza una lottabasata innanzitutto sulla volont umana, e solo in secondo luo-go su qualche clausola subordinata presente in statuti e conven-zioni, o su sottosezioni di norme procedurali. Mettere dietro lesbarre criminali di guerra dipende dalla volont di donne e uo-mini, e in particolare di donne e uomini del campo giudiziario,la volont di mettere in discussione presupposti che potrebberoessere benintenzionati, di gridare s quando il coro sta intonan-do no, di pretendere giustizia e ancora giustizia, anche quandoquesto significhi esporsi al ridicolo con un atteggiamento appa-rentemente donchisciottesco.

    Ho cominciato a confrontarmi con il muro di gomma pocodopo linizio della mia carriera nella procura penale, nel 1981.Mi presentavo nelle banche svizzere chiedendo che chi ci lavo-rava uomini e donne in pregiati abiti e scarpe italiani, uominie donne al riparo dietro lo scudo della burocrazia e della ric-chezza fornisse libri contabili e ricevute di versamento e docu-menti di trasferimento tra conti controllati dai trafficanti di dro-ga della mafia italiana. Chiedevo che questi banchieri svizzeri sicomportassero in un modo che era estraneo alla loro subcultu-ra. Chiedevo che compissero azioni che, nel breve periodo,avrebbero avuto un impatto negativo sui profitti delle loroaziende e avrebbero messo a repentaglio le loro preziose gratifi-che annuali. Giorno dopo giorno, attraversavo porte scorrevoli

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  • di vetro, entravo in un universo di lucido marmo decorato di ar-te astratta, seguivo una receptionist lungo un dedalo di corridoie di box fino a una sala riunioni o a un ufficio pannellato, e spie-gavo che quegli istituti finanziari dovevano consegnare i lorodocumenti perch esistevano elementi di prova sufficienti per-sino sotto leggi bancarie come quelle svizzere che, se posso per-mettermi il luogo comune, avevano pi buchi di un emmenthal a dimostrare che il denaro conservato in quei conti rappresenta-va i profitti di attivit criminali. Sorrisi e dinieghi e mezze veriterano allordine del giorno. Poi, una volta fatto breccia nel murodi gomma, arrivarono le minacce telefoniche e le bombe teleco-mandate della mafia, e i funerali degli amici. Questi furono unaprova pi dura del muro di gomma. Ma io avevo dalla mia ilvantaggio della legge e la certezza di essere nel giusto.

    Le prove di forza di volont proseguirono in modo diversoquando nel 1994 divenni la massima autorit preposta allappli-cazione della legge. Non ero il burocrate dello stereotipo, conge-nitamente calcolatore, conservatore, e sulle sue. Ricorsi a tuttala mia passione mediterranea e allautorit del mio ufficio percercare di convincere il Parlamento del paese a emendare le leg-gi della confederazione per fissare dei limiti al segreto bancarioe chiudere le scappatoie che facilitavano il riciclaggio del dena-ro da parte di chiunque, dai cartelli della droga ai leader politicicorrotti e alle aziende di risorse naturali che hanno portato ladevastazione in tanti stati, soprattutto in Africa e in altre zonedel mondo in via di sviluppo. Percorrere i corridoi del Parla-mento e del governo svizzero giorno dopo giorno, chiedere cheuomini e donne vincolati da imperativi politici e burocraticicambiassero una legge che negli ultimi sessantanni aveva con-tribuito ad arricchire tanti, dentro e fuori i confini della Svizze-ra, comportava uno scontro pressoch quotidiano con il murodi gomma. Ero felice di contribuire a questo impegno. E, unavolta che il Parlamento ebbe adottato una nuova legge antirici-claggio, fui felice di contribuire a migliorare limmagine tantodella Svizzera quanto delle sue istituzioni finanziarie incrimi-nando titolari di depositi di denaro sporco convinti di poter go-dere ancora dellimpunit.

    Mi hanno detto che tra i banchieri svizzeri si sono stappatebottiglie di champagne quando, nel settembre 1999, ho lasciatoil mio posto a Berna e sono andata a lavorare per le NazioniUnite come procuratore capo del Tribunale penale internazio-nale per lex Iugoslavia e del Tribunale penale internazionale peril Ruanda. Non occuper mai pi una posizione come quellache ho avuto con questi due incarichi combinati. Questo lavoromi ha portato ad affrontare la realt del genocidio e dei criminicontro lumanit: il fetore delle fosse comuni, gli sguardi vuoti

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  • delle vittime degli stupri, la disperazione dei milioni di sradica-ti, la scena rivoltante di intere comunit rase al suolo. Criminidi questa portata non sono mai faccende locali. Questi delittitoccano ognuno di noi, dovunque viviamo. Violano principipreziosi e calpestano i diritti e la dignit umani. In termini pra-tici, i leader nazionali troppo spesso mancano della forza di vo-lont, e i tribunali nazionali dellautorit e del coraggio, neces-sari a perseguire gli individui di vertice responsabili di questiatti. La giustizia internazionale rappresenta lunica alternativaallimpunit.

    Dare efficacia alle attivit della Procura dei Tribunali penaliinternazionali imponeva, a me e ai membri dellUfficio dellaProcura, di raccogliere tutta la forza di volont per affrontarelennesimo muro di gomma, il pi alto e il pi spesso fra tuttiquelli che avessi mai incontrato, per continuare a esigere chestati e leader riluttanti cooperassero con questi Tribunali, percontinuare a esigere la trasmissione di documenti incriminantiper potenti figure politiche e militari, per continuare a esigere laprotezione di testimoni anche quando ricevevano minacce, percontinuare a esigere che gli accusati fossero arrestati e conse-gnati alla custodia dei Tribunali. Sono temi ristretti. La loro co-stante ripetizione metteva alla prova la tenuta dellattenzionedei media, continuamente alla ricerca di qualcosa di nuovo daraccontare, per cui non potevamo contare su di loro per fare ap-pello al sostegno popolare. Le nostre richieste inoltre esaspera-vano burocrati e leader, che ci sorridevano, ci stringevano lamano, ci facevano promesse e, acquattandosi dietro il muro digomma, nel complesso facevano poco o niente. Io ripetevo le pa-role: arrestateli, arrestateli, arrestateli... Miloyevic, Karadzic,Mladic, Gotovina, Kucic... Mi lasciavo diventare la caricatura diuna donna affetta da ecolalia. Mi esponevo alla critica di non es-sere in contatto con le realt politiche di luoghi non collaborati-vi come la Serbia e, quando si tratt di indagare sulla miliziatutsi, come il Ruanda. Mi esponevo al ridicolo con ambasciato-ri, ministri ed esperti, compresi alcuni che avevano persino trat-to profitto dalle loro relazioni con quegli stati. Avvertivo le pres-sioni a non emettere imputazioni contro determinati accusatinellex Iugoslavia, e persino per non indagare sulla morte di unarcivescovo, due vescovi e altri sacerdoti cattolici in Ruanda. Ri-cordo linvito, del segretario generale delle Nazioni Unite, asmetterla di fare politica, quando stavo cercando di indurre Sta-ti Uniti e Unione europea a fare pressione sulla Serbia con laminaccia di ritirare lassistenza finanziaria. Ricordo di aver ri-cevuto istruzioni dal Segretariato delle Nazioni Unite a NewYork e consigli da Washington di non accettare un invito, nel2000, a visitare il Montenegro, perch secondo informazioni di

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  • intelligence di alto livello Miloyevic e i suoi generali intendevanoarrestarmi come criminale di guerra. (Dopo un pranzo a base dipesce a Dubrovnik, feci una corsa lungo la costa adriatica finoin Montenegro, non incontrandovi niente di pi minaccioso del-lalto muro di gomma montenegrino.)

    Queste memorie non pretendono di essere un resocontocompleto dei procedimenti penali celebrati dai Tribunali dellOnudal 1999 al 2007, gli otto anni che ho trascorso allAia. Sonopiuttosto una ricostruzione di come io, procuratore svizzero cheaveva acquisito una certa esperienza internazionale, sia arrivataa questi Tribunali e come i membri della mia squadra e io ci sia-mo sforzati di servire la giustizia ottenendo la collaborazione dipersone che troppo spesso non avevano alcuna voglia di colla-borare e consideravano la cosa relativamente poco urgente. IlTribunale per la Iugoslavia e quello per il Ruanda, i primi Tribu-nali internazionali sui crimini di guerra costituiti da quando fu-rono emesse le sentense a Norimberga e a Tokyo alla fine dellaSeconda guerra mondiale, non godevano dellautorit dei loropredecessori. Dispensare la giustizia del vincitore a Norimbergae a Tokyo fu un compito relativamente semplice, a paragone conil lavoro che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite siaspettava dal Tribunale per la Iugoslavia, e in alcuni casi dal Tri-bunale per il Ruanda. Gli eserciti vittoriosi diedero alla pubblicaaccusa a Norimberga e a Tokyo lautorit necessaria ad avere ac-cesso ai testimoni, a ottenere prove documentali, ad arrestaregli accusati di crimini di guerra, anche se solo tedeschi e giap-ponesi, i nemici sconfitti. Privi della stessa autorit, ci toccatousare tutta la nostra abilit e forza di volont per perseguire ipi alti livelli possibile da tutte le parti dei conflitti in Ruanda enellex Iugoslavia. Abbiamo ricevuto in effetti un certo sostegnoa livello diplomatico e a volte un appoggio fondamentale da par-te di alcuni leader politici in Croazia e in Serbia: leader consa-pevoli che processare criminali di guerra avrebbe contribuito aistituire lautorit della legge nei loro paesi e a riconciliare po-poli divisi da ricordi orrendi. A volte i mutamenti politici ci por-tavano fortuna. A volte il nostro tempismo era giusto. A volte letendenze politiche si scontravano con noi. A volte facevamo de-gli sbagli. A volte litigavamo tra noi.

    Le lezioni da trarre dai successi e dai fallimenti dei Tribunalisono importanti, perch si tratta di sforzi senza precedenti. Sisono svolti lungo la linea di spartizione che divide sovranit na-zionale e responsabilit internazionale, nella zona grigia tralambito giudiziario e quello politico. Si tratta, per procuratori egiudici, di un regno in linea di massima inesplorato. Un regno icui abitanti leader politici e diplomatici, militari e spie, mer-canti darmi e criminali danno troppo spesso per scontato che

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  • possono godere di impunit, che possono commettere il gran de-litto senza essere chiamati a risponderne. un regno intersecatoda muri di gomma e punteggiato di trabocchetti nascosti, un re-gno per il quale donne e uomini impegnati nella giustizia inter-nazionale, dal Libano alla Sierra Leone, dal Ruanda al Congo,dallOlanda alla Cambogia, devono ora sviluppare mappe e stru-menti di navigazione di migliore qualit. Il mio desiderio chequesto libro contribuisca a sviluppare una simile attrezzatura.

    Ogni volta che sentivo arrivare lo scoraggiamento o mi sem-brava di non poterne pi, mi bastava ripensare alle vittime dellaIugoslavia e del Ruanda, soprattutto le donne e i bambini, e alcoraggio che hanno mostrato giorno dopo giorno allAia e adArusha testimoniando contro gli uomini, e qualche donna, ac-cusati di aver commesso crimini di guerra. Una di queste vitti-me, il Testimone O per laccusa nel primo processo di Srebreni-ca, aveva diciassette anni nel luglio 1995, quando le forze serbe,presumibilmente al comando di Radovan Karadzic e Ratko Mla-dic, occupavano la cittadina dando inizio al massacro. Il 14aprile 2000, a nemmeno quaranta passi dal mio tavolo, il Testi-mone O sale sul banco dei testimoni per deporre contro Rado-slav Kristic, uno dei generali di pi alto grado di Mladic, chesar poi giudicato colpevole di complicit e istigazione al geno-cidio. Il teste ricorda di essersi arreso a soldati serbo-bosniaci intuta mimetica. Ricorda di aver avuto lordine di togliersi gli in-dumenti, sporchi di orina, e di allinearsi sul margine di un cam-po di sterminio disseminato di cadaveri:

    Cerano diversi soldati serbi... in piedi alle nostre spalle... pensavoche sarei morto in fretta, che non avrei sofferto. E pensavo che miamadre non avrebbe mai saputo che fine avevo fatto...Qualcuno disse: Mettiti gi. E quando cominciammo a cadere...cominciarono gli spari... e non lo so che cosa successe. Non pensa-vo... Pensavo solo che era la fine. Non so se persi conoscenza a quelpunto, forse ero ancora cosciente... Quello che so che mentre erosteso a terra sentii una fitta nel lato destro del petto...Pensavo che forse facevo bene a chiamarli perch mi finissero, per-ch soffrivo troppo. E pensai che forse se non fossi morto l, sareisopravvissuto e allora magari mi avrebbero... portato via vivo e chele mie sofferenze sarebbero soltanto continuate... A un certo pun-to... vidi uno stivale militare che si piantava a terra vicino alla miafaccia. E continuavo a guardare, non chiudevo gli occhi. Ma luomomi scavalc, era un soldato, e tir un colpo alla testa di uno che sta-va vicino a me. E in quel momento chiusi gli occhi e fui colpito allaspalla destra...Ero come tra la vita e la morte. Non sapevo pi se volevo vivere omorire. Decisi di non chiamarli per farmi dare il colpo di grazia, mastavo come pregando Dio che venissero a uccidermi...

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  • Quando i carnefici furono andati via, il Testimone O sollevla testa e vide un altro sopravvissuto in mezzo ai morti. Lochiam e trascinandosi sopra i cadaveri lo raggiunse e riusc amettere le mani legate davanti alla bocca dellaltro, perch po-tesse spezzare con i denti la corda che le stringeva: Luomo ave-va una T-shirt, verde, e una canottiera... Se l tolte e le ha fatte astrisce... Quando ha finito di bendarmi, mi sono addormentatoin braccio a lui, perch non dormivo da tanto, tanto tempo...Siamo rimasti l fino al mattino... e mi ha svegliato e mi ha chie-sto: Dove andiamo?. Io ho detto: Non lo so.2

    Avevo sentito tante testimonianze simili a questa quando,nella primavera del 2001, ho avuto il mio secondo incontro conil Potere nelle vesti di George Tenet. Questa volta il luogo era ilquartiere generale della Central Intelligence Agency, un com-plesso di vetro, acciaio e cemento sormontato da antenne cheproiettavano i voleri di questuomo e dei suoi superiori in ognicapitale e in ogni angolo del mondo devastato da una guerra. Aquel punto Miloyevic era caduto e si trovava in una cella di Bel-grado. George W. Bush si era installato alla Casa Bianca e avevadimostrato di non simpatizzare con gli sforzi per istituire unTribunale internazionale permanente sui crimini di guerra. Par-tecipo allincontro con Tenet accompagnata da membri dellostaff dellufficio del Dipartimento di stato sui crimini di guerra,i quali sembrano pi che altro interessati a frenare la mia reto-rica e le mie richieste. Uno di loro mi dice di non dimenticare diringraziare le persone con cui sto per incontrarmi, di ringraziar-le calorosamente per il rilevante sostegno che gli Stati Uniti cistanno dando. Il Segretario di stato di Bush, Colin Powell, ap-poggia i nostri sforzi per ottenere il trasferimento di Miloyevic edi altri imputati alla custodia del Tribunale per la Iugoslavia.Ma il generale Powell lho gi ringraziato; e quanto ad alcuni de-gli altri, comincio a essere stufa di riversare vuoti convenevoli inorecchie sorde. A volte, purtroppo, mi capita di non esprimermiin maniera troppo diplomatica dopo aver battuto la testa controil muro di gomma.

    Tenet esce a ricevermi nel corridoio subito prima del nostrocolloquio. Carla, esclama, la mia cara Madame Prosecutor.Poi vengono i bacini-bacetti, che tanto mi danno sui nervi. En-triamo in una sala riunioni senza finestre e con le pareti rivesti-te di pannelli, forse legno di ciliegio. Tenet si siede alla testa deltavolo, dopo che io ho preso la sedia accanto alla sua. Dice qual-che bagattella in tono informale. Specifica che non pu dirmitutto quello che la Cia sta facendo. comprensibile. Assicurache arrestare i nostri latitanti rimane una priorit alta. Dice chesono state condotte operazioni che non hanno avuto successo.

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  • E queste dichiarazioni mi facilitano abbastanza il compito divenire al punto senza tanti discorsi infiorettati e mielate espres-sioni di gratitudine. Forse stato un errore immaginare che Te-net, il top delle spie della superpotenza, luomo mediterraneodallo stile netto e diretto, non scambier la mia franchezza permancanza di rispetto: George, ci siamo visti a settembre. Allo-ra mi hai detto che Karadzic era la priorit numero uno dellaCia. Ma sono passati sei mesi e, visti i risultati, faccio fatica acrederti.

    I pezzi grossi dellintelligence non amano che qualcuno chenon faccia parte del giro dica loro come fare il loro mestiere, emolti pensano di non aver nulla da guadagnare e molto da per-dere mettendosi a inseguire criminali di guerra in terre lontane.Forse a Tenet brucia che io abbia detto quelle cose davanti alsuo staff. Ma sa che non sono venuta a ringraziare gli Usa per illoro appoggio finanziario alle Nazioni Unite. Sa che sono l perdiscutere di come assicurare larresto di Karadzic e Mladic. Aquesto punto so che quello che ha fatto nel nostro precedenteincontro di settembre stato innalzare il muro di gomma, quan-do mi assicurava che Karadzic era una priorit allo stesso livel-lo di bin Laden. Ma se il direttore della Cia mi dice che arresta-re Karadzic una priorit, io presumo che gli operativi della Ciasiano sufficientemente competenti per realizzare tempestiva-mente gli obiettivi del loro direttore. Quali misure sono stateprese per assicurare gli arresti? domando. In che modo la Ciapu cooperare con il Tribunale? LUfficio della Procura ha in-tenzione di formare un team che si occupi di rintracciare i fug-gitivi, gli dico. Poi propongo di elaborare una nuova strategiaper arrestare Karadzic. Penso che, entro i limiti della legge degliStati Uniti, dovremmo essere in grado di scambiare informazio-ni e di lavorare di conserva con le agenzie di intelligence di altripaesi, in particolare di Francia, Gran Bretagna e Germania. Senon avete intenzione di fare qualcosa, dico, penso che dovrestealmeno sostenere i nostri sforzi.

    Guarda, Madame, risponde Tenet, che di quello che pensitu non me ne frega un cazzo.

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  • Sono andata a caccia di serpenti con i miei fratelli, Flavio eAngelo da quando non avevo ancora dieci anni. Vipere e altrespecie velenose vivono nei boschi e negli scoscesi affioramentidi granito che circondano il luogo dove sono nata: Bignasco, unpaesino di circa duecento anime presso lestremit superiorechiusa di una valle, la Valle Maggia, nelle Alpi svizzere sopra Lo-carno. Verso linizio degli anni cinquanta, una linea ferroviariacollegava Bignasco con il mondo esterno. Ogni settimana dove-vo prendere il trenino azzurro che mi portava a fondovalle finoa Locarno, per le lezioni di piano. Anche se avevo solo nove an-ni quando ho cominciato a suonare il pianoforte, mia madre milasciava andare da sola alle lezioni, perch Locarno era ad appe-na unora di viaggio, e la Svizzera era un posto sicuro ed effi-ciente. Mio fratello maggiore, Flavio, presto scopr un giardinozoologico vicino alla casa del maestro di piano. Accanto allo zoocera un laboratorio clinico che raccoglieva vipere vive per pro-durre un antidoto, lantitossina per il trattamento di chi era sta-to morso da un serpente. La cosa che ci pareva particolarmenteinteressante era il fatto che il laboratorio pagava cinquantafranchi svizzeri per ognuno di quei rettili color rame e bruno.Cinquanta franchi erano una bella somma negli anni cinquanta.Da anni i miei fratelli e io tormentavamo i serpenti. Attivit nonmeno pericolosa che dar loro la caccia.

    Per incassare la taglia, dovevamo mantenere le vipere in vitaper tutto il tragitto fino al laboratorio di Locarno, e non poteva-mo far sapere ai nostri genitori quello che stavamo combinan-do. Il nostro cane, un bastardo nero di nome Cliff, era un esper-to nello stanare vipere, e non ne aveva paura anche se una voltaera stato morsicato; Flavio gli aveva iniettato il siero antivelenoche portavamo sempre con noi per sicurezza, e Cliff dovette lot-tare tra la vita e la morte per due o tre giorni. Quando si fu ri-

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    Il muro di gomma fino al 1999

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  • stabilito, i miei fratelli e io gli andavamo dietro su per il fiancodella montagna. Immancabilmente Cliff ci portava a un serpen-te, che immobilizzavamo con un bastone biforcuto. Poi uno dinoi lo afferrava da dietro la testa e, mentre quello si dimenava,lo gettavamo in un sacco e lo portavamo a casa.

    Ero io quella che andava regolarmente a Locarno, per cuiconsegnavo io le vipere al laboratorio, usando una scatola dascarpe con un piccolo buco per laria. Cacciavamo per tutta le-state, e il nostro gruzzolo segreto cresceva. Ci comprammo unatrappola e uno speciale contenitore di vetro per tenere i serpen-ti vivi sotto il letto di Flavio. E con il passare delle settimanesentivo che i miei fratelli cominciavano ad accettarmi come unaloro pari. Una volta, mentre ero sul treno, una delle vipere presea spingere il muso ritorto fuori dal foro dellaria tentando discappare. Era un campione di grossa taglia. Io continuavo a ri-mandarla dentro a colpi di libro di musica ma lei continuava asforzarsi di sgusciare via. Ero preoccupata, ma non avevo pau-ra, e riuscii a portarla fino al laboratorio e a incassare i cin-quanta franchi. Sapevo che era vietato far viaggiare in treno unserpente velenoso. Durante una di queste consegne, il controllo-re si insospett. Mi chiese cosa avessi in quella scatola. Sapevoche non potevo dirgli una bugia, e gli spiegai che portavo una vi-pera. Sulle prime si mise a ridere: I tuoi lo sanno?.

    Be, no, risposi, cercando di farlo apparire irrilevante. Dopo ogni fermata, il controllore faceva il giro del treno per

    bucare i biglietti e mi chiedeva come stesse il mio serpente. Do-vette incontrare mia madre qualche giorno dopo, perch lei ar-riv a casa infuriata e ci castig, proibendoci di continuare nel-le nostre battute di caccia. Ci mancarono, quegli incassi.

    Sapevo che non potevo mentire al controllore per il rispettoche dovevo a mia madre. Le lezioni dellinfanzia che hanno gui-dato le scelte che la vita mi ha permesso di fare sono cos sem-plici che ricordarle non richiede il minimo sforzo, cos sempliciche sembra banale tirarle in ballo qui. Ricordo, per esempio,quando mia madre mi insegnava le buone maniere. Era unadonna fiera, Angela, dallo spirito libero, che non traboccava maidi emozioni, ma faceva sollevare parecchie sopracciglia nei vil-laggi lungo la nostra valle svizzera quando sfrecciavamo a bor-do della sua MG Roadster, capotte abbassata e capelli al vento.Quando avevo sei o sette anni, mi faceva mettere in fondo a unlungo corridoio che cera in casa, e lei si sedeva allaltra estre-mit su un gradino della scala che portava al piano di sopra; iodovevo avanzare verso di lei, ben eretta e con landatura giusta,e salutarla con un inchino come se fosse una signora estranea.Ricordo che mi diceva che se mai mi fossi trovata in qualche pa-

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  • sticcio, se mai avessi dovuto lottare, finch avessi saputo di es-sere nel giusto e fedele a me stessa, lei mi avrebbe sostenuta. Miripeteva tante volte questa assicurazione. Ricordare le sue paro-le, nel corso degli anni, mi ha colmato di forza. Ogni volta chemi sono trovata sotto pressione, che ho percepito un pericolo osentito il bruciore di una critica, mi sono chiesta se, al centrodel mio cuore, fossi nel giusto e se fossi fedele a me stessa. Se larisposta era s, sentivo il suo appoggio. Mi dava forza. Perseve-ravo. Semplicistico? Lo riconosco. Un clich? Senza alcun dub-bio. Ma sincero.

    Senza il sostegno di mia madre e la fiducia che questo mi in-stillava, avrei potuto prendere unaltra strada da Bignasco, forsenon avrei mai avuto il coraggio di andare a caccia di vipere o didiventare avvocato, magistrato inquirente, o pubblico ministe-ro. Forse non avrei mai lasciato il Canton Ticino, n imparato aimporre la mia volont. Nei primi anni della mia vita non homai sentito di aver ricevuto un torto. Quindi non posso dire cheuna qualche pulsione inconscia a compensare mi abbia spintolungo una carriera che mi ha portato in aule di tribunale a di-mostrare la colpevolezza di persone che ero convinta fosserocriminali. Provenivo da un luogo fiorente in un paese florido emulticulturale, per il quale neutralit, ricchezza, stabilit politi-ca e rispetto per lautonomia locale hanno costituito le fonda-menta della propria identit e per tanti decenni lhanno messoal riparo dalle devastazioni delle guerre. Forse, piuttosto, la miaconfortevole infanzia e la societ ordinata in cui sono cresciutami hanno fornito un senso di equilibrio, e ho voluto applicare ilmio talento e la mia energia al sistema della giustizia penale perrestaurare unarmonia che a causa di qualche sbaglio altri ave-vano perso nella loro vita. Forse ho semplicemente ereditatouna motivazione profondamente radicata a sconfiggere il male.Forse una parte di me ambiziosa, forse una parte desidera a ri-cevere attenzione ed emozione, come lattenzione che mia ma-dre mi dedicava da bambina e le sensazioni che provavamorombando per le Alpi svizzere sulla sua Roadster. Oggi, per, soche la ricerca diventata qualcosa di pi di una ricognizione diattenzione ed emozione o di una spinta a prevalere sul male. arrivata a un livello superiore. il desiderio di contribuire ascalzare limpunit che per tanto tempo ha permesso ai potentidi seminare calamit tra milioni di persone, dai negozianti co-stretti a pagare il pizzo per ricevere protezione a quelli scacciatidalle loro case dai militari per subire stupri e massacri.

    Da generazioni i Del Ponte abitano a Bignasco e possiedonoterre attorno al paese. I miei antenati risiedevano da cos tantotempo nei pressi dellantico ponte di pietra del villaggio, che daquello trassero il cognome. Mio zio aveva un emporio che ven-

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  • deva di tutto, dalle uova agli esplosivi. Mio padre aveva un pic-colo albergo, ricopriva la carica di segretario comunale, e avevala direzione dellospedale locale; stava distribuendo le tessereannonarie durante la Seconda guerra mondiale quando conob-be mia madre, una ventenne infermiera di pediatria che era ve-nuta a Bignasco per occuparsi dei figli di una famiglia di ricchi.La mia nascita avvenne durante linverno che fece tremare tuttaEuropa, il 9 febbraio del 1947. Ero la seconda di quattro figli,lunica femmina. I miei fratelli mi insegnarono, senza volerlo, alottare per i miei diritti. Mi ricordavano continuamente che erouna femmina e allinizio cercarono di impedirmi di unirmi a lo-ro quando andavano a pesca di trote nella Maggia, il fiume chescorre sul fondo della nostra valle. Dicevano che la corrente del-la Maggia era troppo pericolosa perch una femminuccia vi siavventurasse per catturare qualche pesce, come se non avessepotuto portarsi via altrettanto facilmente dei maschietti. Fu miamadre a insegnarmi a lanciare la lenza, e volle che fosse un an-ziano del paese a insegnarmi a fissare lesca. Per cui, ovviamen-te, mi aggregavo. Seguii i miei fratelli, contro nuove obiezioni,quando andavano a caccia nei boschi di montagna, e mi arram-picavo sulla cima degli alberi per guardare la valle, le foreste e lemontagne scoscese, e il fiume eterno.

    A Bignasco e nei comuni vicini non cerano n la scuola me-dia n le superiori. Quando avevo undici anni i miei genitori mimisero in collegio in un monastero cattolico di Bellinzona, unacittadina che a quel tempo mi sembrava lontanissima da Bi-gnasco. Non tornavo a casa tutti i fine settimana, e non potevopi correre libera come facevo un tempo per la nostra ValleMaggia. Ma il collegio non era affatto una prigione, e non sof-frii mai, forse perch una delle suore era una mia zia, sorella dimio padre.

    Dopo le medie entrai in un altro istituto religioso, un ginna-sio di Ingebohl, un centro nella zona di lingua tedesca dellaSvizzera, dove completai gli studi per lesame di diploma. Erauna scuola prestigiosa. Tra i suoi studenti cerano ragazze chearrivavano da molti paesi. Il luned e il marted eravamo tenutea parlare solo inglese; il gioved e il venerd solo francese; e glialtri giorni, tedesco. Credo che sia necessario possedere partico-lari tratti di carattere per sopportare la vita in un collegio tuttofemminile senza riportarne danni permanenti. Occorre posse-dere un forte senso di indipendenza e di fiducia in se stesse, co-me quello che mi aveva trasmesso mia madre, per accettarne leregole e la rigida disciplina. Le suore mi insegnavano a organiz-zare il mio tempo, e io prendevo da loro il meglio che avevanoda dare: studi accademici, lezioni di piano, tennis, equitazione...Le mie compagne e io ogni tanto tagliavamo la corda e raggiun-

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  • gevamo la cittadina pi vicina, dove cera un collegio cattolicomaschile. Durante i miei ultimi due anni, fui autorizzata a con-dividere un appartamento con altre tre ragazze a Brunnen, uncentro di villeggiatura sul lago di Lucerna. Eravamo completa-mente libere. Niente genitori. Niente suore, tranne che a scuola.Nessuno che ci assillasse. Era una vita fantastica per unadole-scente. Ma avevamo gli esami da superare e, of course, ci cava-vamo gli occhi a studiare notte dopo notte.

    Mio padre diceva che non voleva che mi iscrivessi alluniver-sit. Diceva che non cera bisogno che continuassi a studiare.Ma forse stava solo mettendo alla prova la mia risolutezza. Tusei una donna, diceva. Ti sposerai. Non farmi spendere dei sol-di per te. Io sognavo di trovare qualcosa al di l delle quattropareti di una casa piena di figli. E cos, per sfida, mi iscrissi al-lUniversit di Berna e non divenni quella cuoca che le mogli ita-liane avevano il dovere di essere. Inizialmente, avrei voluto se-guire lesempio di mio fratello Flavio e studiare medicina. Mascoprii che la laurea in medicina richiedeva sette anni di studio,e questo per me era decisamente troppo. Allora decisi di pren-dere la via della giurisprudenza. Vissi per un anno a Berna sottola supervisione di Flavio. Lesperienza risult positiva. Avevamolti amici che venivano a trovarlo, e io volevo conoscerli tutti.A volte andavo con lui alle sue lezioni e gli indicavo i giovani fu-turi medici che mi interessavano, e lui me li portava a casa perfarmeli conoscere.

    Dopo quellanno a Berna, mi trasferii alla facolt di giuri-sprudenza di Ginevra e, nel 1972, mi laureai. Il percorso dellamia vita non avrebbe potuto essere pi convenzionale. Sposai ilmio fidanzato delluniversit, Pierre-Andr Bonvin, figlio di unpresidente della Confederazione svizzera, Roger Bonvin. La no-stra era una relazione a distanza. Lui rimase a Ginevra per com-pletare gli studi di legge mentre io tornavo a Lugano e iniziavolattivit privata. Il nostro matrimonio naufrag quando mi in-namorai di Daniele Timbal, un avvocato specializzato in dirittocommerciale a Lugano. Prima ancora che ci sposassimo, Timbalmi consigli di dedicarmi allassistenza legale delle donne incause di divorzio. Era un buon consiglio... fino a un certo punto.Avevo buoni risultati. Ero pagata bene. Timbal e io aprimmouno studio legale. Acquistai la mia prima borsa di Louis Vuit-ton, e ne avrei regalata una anche a mia madre, ma lei di borsene aveva accumulate gi abbastanza. Imparai a correre su autosportive al circuito di Hockenheim, in Germania, e arrivai a Bi-gnasco con la mia Porsche 911SC per portare mia madre e suamadre a correre a duecento allora. Ma il lavoro di divorzistacominciava ad annoiarmi. Me ne stavo seduta in un ufficio gior-no dopo giorno, ascoltando le clienti che mi descrivevano i pi

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  • banali particolari dei loro amori e delle loro vite andate a male,cercando al tempo stesso di farle venire al punto. Di tanto intanto il tribunale locale mi assegnava la difesa di qualcuno in-criminato per qualche reato, per lo pi furti con scasso e rapine,cosa che mi permise di accumulare una certa esperienza in di-ritto penale. Mi rendo conto che indispensabile che chi accu-sato di un reato abbia lefficace difesa di un consulente legale.Ma questo per me non era un lavoro soddisfacente, soprattuttosotto il sistema giudiziario in vigore nellEuropa continentale.Come consulente legale della difesa, si riceve un fascicolo; si leg-ge lenunciazione del caso; si esaminano le prove; e si vede che,quasi sempre, limputato colpevole. Andavo a colloquio in car-cere con i miei clienti e loro piagnucolavano: Non sono statoio, ma non offrivano nessun alibi credibile. E io perdevo la pa-zienza. Mi faceva venire il mal di stomaco alzarmi in unaula digiustizia a difendere qualcuno che sapevo doveva trovarsi dietrole sbarre. E penso che la lezione di mia madre sullessere fedelea me stessa mi abbia generato dei ripensamenti, non solo suquelli che difendevo, ma sul lavoro di difesa in generale. Nella-gosto 1977 nacque mio figlio Mario. Per qualche tempo lavoraisolo mezza giornata e presi una bambinaia che si occupasse dilui quando io ero via.

    Nel 1980 presentai la domanda per il mio primo incarico inprocura: juge dinstruction, giudice istruttore, il magistrato in-quirente che conduce le indagini e trasmette il fascicolo con i ri-sultati a un pubblico ministero, il quale presenta il caso in tri-bunale. In Svizzera, a quel tempo, quasi tutti i magistrati inqui-renti erano uomini. Ricordo che dovetti passare davanti a unacommissione di giudici e di avvocati per il colloquio. Una delledomande che la commissione ritenne di dovermi fare fu se ave-vo intenzione di avere un altro figlio. A quel tempo ero sposata;non ero una candidata alle prime armi; i miei capelli castaniavevano gi cominciato a mostrare qualche filo grigio e, aggrap-pandomi disperatamente alla mia giovinezza, avevo cominciatoa tingerli di biondo. E qui i membri del comitato stavano chia-ramente sottintendendo che se avessi voluto altri figli non avreiottenuto lincarico. La domanda bast da sola a mandarmi inbestia, tanto pi che il giudice che me laveva fatta era una don-na. Risposi al fuoco. Spiegai alla commissione che non aveva ildiritto di chiedere informazioni su questioni cos personali. Lamia vita privata, dissi, riguardava solo me, ed era scorretto e di-scriminatorio fare domande in proposito. Insomma, mi difesiattaccando. Ebbi ugualmente il posto.

    Durante gli anni in cui lavorai come giudice istruttore mispecializzai in casi riguardanti reati finanziari. Lugano era il

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  • luogo ideale per investigare sui giochi di prestigio finanziari. Lacitt si trova sul confine svizzero con lItalia, a cavallo di un im-portante corridoio di traffico che va da Ginevra a Zurigo a Mila-no, Venezia, Firenze, Roma, e le altre ricche citt e porti dellIta-lia. I controlli di frontiera e doganali tra i due paesi si sono ri-dotti al minimo poco dopo la Seconda guerra mondiale. Lugano sede di operatori bancari che parlano italiano, la lingua opera-tiva della mafia siciliana. E, cosa pi importante, Lugano, comeil resto della Svizzera, ha una tradizione decennale di garanziadel segreto bancario. Alcuni svizzeri si consolano credendo allastoria che le leggi che proteggono il segreto bancario furono ap-provate per difendere i patrimoni degli ebrei tedeschi vittimedei ricatti della Gestapo dopo lascesa di Hitler al potere. Ma laversione pi convincente, come la conosco io, afferma che neiprimi anni trenta le autorit francesi fermarono a Parigi alcunibanchieri svizzeri in visita a clienti che stavano usando gli isti-tuti svizzeri per evadere le tasse; i banchieri avevano con loro fa-scicoli con centinaia di numeri di conto accompagnati dai nomidei loro titolari. Lo scandalo che segu indusse il Parlamentosvizzero ad approvare la Legge bancaria del 1934. Questa leggerendeva reato penale, punibile con consistenti pene pecuniarie edetentive, la violazione da parte dei banchieri svizzeri della pri-vacy dei loro clienti, a meno che le autorit non dimostrasseroche i conti bancari contenevano fondi derivati da attivit crimi-nali: attivit che non comprendevano, secondo la legge elvetica,n levasione fiscale n altre attivit che in Svizzera si configura-vano come illeciti e non come reati. Cos, nel sistema svizzero, ilriciclaggio di denaro sporco la pratica con cui si eseguonotransazioni finanziarie in modo tale da nascondere lidentit, lafonte e la destinazione del denaro per evadere le tasse e per co-prire tracce che condurrebbero ad attivit criminali esisteva inuna sorta di giuridica terra di nessuno. Le banche in Svizzeraconsentivano lanonimato dei conti; e i banchieri del paese trop-po di rado facevano domande sulle origini di significativi depo-siti o sulla destinazione di cospicui trasferimenti in uscita. evidente quanto possa essere utile un simile ambiente finanzia-rio ai trafficanti di droga, ai mercanti illegali darmi, ai funzio-nari governativi corrotti e alle organizzazioni criminali.

    Ho cominciato a occuparmi di casi finanziari quando ungiudice istruttore italiano venne a Lugano a chiedere lassisten-za del nostro ufficio per indagare su reati riguardanti la mafiasiciliana. Gli altri inquirenti dellufficio di Lugano erano gi im-pegnati in altri casi. Chiaramente non avevano nessuna inten-zione di perdere del tempo o di mettere a repentaglio la carrieralavorando con uno straniero venuto a elemosinare un aiuto, tan-to pi perch chiedeva di mettersi in contrasto con la comunit

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  • bancaria locale, rischiando la carriera e, con la mafia sicilianadi mezzo, anche la vita. Io ero appena arrivata in quellufficio edero ancora la pi giovane dei magistrati inquirenti. Tutto ci chesapevo della mafia era quello che avevo letto nei gialli italiani enei romanzi e nei film del Padrino, sulla famiglia dei Corleone.E ora mi veniva fatta unofferta che non potevo rifiutare, unof-ferta che avrebbe cambiato la mia vita dandole uno scopo, ilsenso di una missione da compiere.

    Il magistrato che veniva dalla Sicilia si sarebbe poi rivelatouno dei personaggi pi formidabili che lItalia abbia prodottonel Ventesimo secolo. Giovanni Falcone era un belluomo spin-to dallurgenza, quasi una monomania, di mettere fine alla cul-tura dellimpunit di cui la criminalit organizzata godeva datroppo tempo nel suo paese. Era venuto a Lugano nel 1981 perindagare sul transito di somme di denaro sul conto di una ban-ca locale. Poich portava con s le prove che si trattava di de-naro sporco, mi fu possibile anche sotto le leggi svizzere conge-lare il conto e ottenere la documentazione. Quindi, chiese di in-terrogare i banchieri che gestivano il conto; doveva raccogliereinformazioni sul titolare e sulle persone che se ne occupavano.Per la legge del paese, agli interrogatori in cui siano coinvoltimagistrati di altri paesi deve presenziare un magistrato inqui-rente svizzero. Chiesi ufficialmente ai testimoni e ai loro avvo-cati se accettavano che fosse direttamente Falcone a porre lesue domande. Nessuno si oppose. Il primo caso portato da Fal-cone a Lugano condusse a un secondo caso. Il secondo a un ter-zo e a un quarto. Falcone aveva una personalit carismatica.Durante i colloqui che conducemmo insieme, cercavo di assor-bire tutto quello che diceva e di impadronirmi quanto pi pos-sibile dei suoi metodi, formandomi una particolareggiata map-pa mentale di Cosa nostra, delle sue personalit e dei suoi siste-mi. Visitai ripetutamente le banche di Lugano chiedendo bilan-ci patrimoniali e documenti sulle transazioni di conti sporchi.Pi e pi volte le banche mi risposero picche. Pi e pi volte mitrovai di fronte al muro di gomma e ripartii alla carica insisten-do con le mie richieste. E, molto spesso, la spuntai. Era unatti-vit soddisfacente, e mi insegn a imporre la mia volont in no-me della giustizia.

    Pi o meno nello stesso periodo in cui cominciavo a lavoraresui casi di mafia, ebbi conferma di quello che pensavo degli uo-mini italiani, meridionali e macho, totalmente contrari alli-dea che una donna tornasse dal lavoro pi tardi del marito, al-lidea di trovare al rientro il fornello freddo e nessun piatto dipasta in tavola. Il mio secondo e ultimo matrimonio fin per mu-tuo consenso. Mario venne con me, e assunsi una bambinaianotte e giorno. I divorzi fecero arrabbiare mio padre, mentre

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  • mia madre non fece una piega. Nel 1983, quando Mario stavaper cominciare la scuola, mia madre e io decidemmo che du-rante la settimana nei giorni di lavoro si sarebbe occupata lei dimio figlio, nella casa dove io avevo passato linfanzia. Bignascoera molto pi tranquilla di Lugano. Mario avrebbe frequentatouna scuola vicina e avrebbe avuto una vita pi normale con miamadre che con una tata. Io lo avrei raggiunto il venerd sera, conunora di viaggio in auto da Lugano lungo la Valle Maggia. Con-tinuammo cos per tre anni scolastici, fino a quando mio padrefu colpito da un ictus e ci lasci.

    Nel 1982 cominciai a lavorare su aspetti finanziari del casoin cui era coinvolto Roberto Calvi, la cui morte misteriosa, avve-nuta a Londra in quel mese di giugno, avrebbe per anni occupa-to le prime pagine dei giornali e stimolato limmaginazione diteorici del complotto di tutto il mondo. Calvi era il presidentedella seconda banca italiana, il milanese Banco Ambrosiano,che aveva legami con il Vaticano e con la mafia. Da anni gli or-gani di controllo dubitavano dellintegrit di questo istituto dicredito. Nel 1978 la Banca dItalia rivel che il Banco Ambrosia-no aveva trasferito illegalmente allestero svariati miliardi di li-re. Nel 1981 un tribunale condann Calvi a quattro anni di re-clusione e a una pena pecuniaria di milioni di dollari. Fu messoin libert in attesa del processo dappello, e nellarco di qualchemese il Banco Ambrosiano si dissolse. Calvi spar da Roma efugg dallItalia, probabilmente attraverso la Iugoslavia, con unpassaporto falso. Otto giorni dopo, un impiegato postale londi-nese scorse il suo corpo appeso a unimpalcatura sotto un pontesul Tamigi, il Blackfriars Bridge. Aveva al polso un Patek Philippe.Il suo portafoglio era pieno di franchi svizzeri e di banconote dialtre valute. Le autorit britanniche dichiararono che Calvi eramorto suicida.

    La polizia di Lugano arrest un italiano, Flavio Carboni, im-plicato nellaffare Banco Ambrosiano. Interrogai io Carboni eseguii le pratiche per lestradizione in Italia. Nellinterrogatorio,Carboni non rivel nulla. Neg ogni coinvolgimento nella mortedi Calvi, ma riconobbe di essersi incontrato con lui la sera pri-ma che fosse trovato impiccato sul Tamigi. Si dovuto aspetta-re lottobre del 2002 perch una perizia scientifico-legale indi-pendente stabilisse che Calvi era stato ucciso. Tre anni dopo,Carboni e altri quattro imputati sono stati processati a Roma.Sono stati tutti prosciolti nel giugno 2007.

    Il lavoro di Falcone port agli arresti che rivelarono la famo-sa Pizza Connection, che sarebbe sfociata in uno dei pi com-plessi processi penali della storia italiana e statunitense. La Piz-za Connection, con la sua base in Sicilia, distribu tra il 1975 e il1984 una somma stimata in 1,6 miliardi di dollari in eroina e al-

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  • tre droghe tramite una rete di pizzerie negli Stati Uniti. La cosacominci a venire alla luce quando la polizia arrest allaeropor-to di Palermo un certo numero di individui che stavano cercan-do di introdurre clandestinamente denaro nel paese. Pi di ven-ti persone, tutte siciliane, furono mandate sotto processo; unafu assassinata prima che il processo avesse inizio; altre duementre le udienze erano in corso. Un informatore, uno dei co-siddetti pentiti, accett di testimoniare dopo che la cosca deicorleonesi aveva ucciso membri della sua famiglia e aveva ten-tato di ammazzare anche lui.

    Poco prima della fine del processo della Pizza Connection, lapolizia di Lugano arrest un uomo della mafia, Oliviero Togno-li, in connessione con il riciclaggio di milioni di dollari fruttodella vendita di eroina e di altre droghe. Sia la Svizzera sia lIta-lia avevano emesso un mandato di arresto. Tognoli decise di co-stituirsi a noi e non volle che si sapesse che lo aveva fatto di suavolont. Alla fine sarebbe stato condannato a tre anni di carcere.

    Gli sviluppi del caso Tognoli richiedevano che mi recassi aPalermo. Era la prima volta. In un primo momento Falcone misconsigli di andare: era troppo pericoloso. Pi tardi, nel giugno1986, mi diede il via libera. Mi incontrai con lui nel suo ufficio.Avevamo tutti e due una scorta di guardie del corpo italiane ven-tiquattrore su ventiquattro. Per me era unesperienza soffocante,ma per qualche giorno ero disposta ad accettarlo; non riuscivo acapacitarmi di come facesse Falcone a sopportare unintrusionecome quella nella sua vita privata ogni ora delle sue giornate, unanno dopo laltro. Il giorno prima del mio rientro in Svizzera, an-dammo a cena in un ristorante. Falcone mi disse che lindomani,visto che avremmo finito di lavorare presto, potevamo andare inuna casa al mare che aveva in affitto, per fare una nuotata. Nonrisposi n s n no. Non avevo voglia di andare a fare il bagno.Stavo per partire per una lunga vacanza al mare ma, per non es-sere scortese, non lo dissi. Cambiai argomento e la conversazio-ne prese unaltra piega. Quando lindomani mattina mi incontraicon Falcone nel suo ufficio, gli dissi che avrei preferito piuttostofare un giro per Palermo, visitare la citt e fare un po di compe-re. E cos della gita al mare non se ne fece niente. Il cambiamen-to di programma fu una fortuna. Qualcuno al ristorante quelloera stato lunico luogo dove avevamo parlato dellidea di andareal mare dovette ascoltare la nostra conversazione e informarela mafia. Sotto la casa sulla spiaggia il giorno dopo la polizia rin-venne una sacca con cinquantasette chili di esplosivo collegato aun detonatore radiocomandato.

    Verso il 1988 assunsi la carica di procuratore del Canton Ti-cino. Le indagini svolte dal mio ufficio in collaborazione conFalcone e altre procure italiane portarono allarresto di molte

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  • persone, tra cui alcuni banchieri luganesi. La mafia cominci ariferirsi a me con lappellativo di la Puttana. Forse era un se-gno di rispetto, lindicazione che ci stavamo avvicinando. Pitardi venimmo a sapere che alcune banche svizzere stavano as-sumendo account manager di lingua italiana per i loro uffici diGinevra, di Zurigo e di altre citt, per tenere i rapporti con gliitaliani che stavano spostando le loro transazioni da Luganoperch, a quanto ci disse un pentito, era troppo alto il rischioche congelassimo i loro conti. Ricordo di aver sentito dire cheun paio di finanzieri della mafia meno sofisticati ritirarono ifondi dalla Svizzera per portarli in un altro dei tradizionali cen-tri europei di riciclaggio del denaro, lisola di Man; qui per do-vettero scoprire con sgomento che le banche erano situate infragili edifici di legno, una specie di bungalow, e tornarono dicorsa alle rassicuranti facciate di pietra e ai caveau blindati diZurigo e Ginevra.

    Mi sentii lusingata quando Falcone, in unintervista a ungiornale, mi defin la personificazione della testardaggine. Edero fiera che mia madre seguisse sui quotidiani e alla televisionelattivit del mio ufficio. A volte mi ammoniva di non essere co-s inflessibile. A volte aveva paura per me. I miei fratelli e io do-vevamo chiamarla regolarmente per dirle che stavamo bene, iolo facevo almeno una volta alla settimana. Anche tra mia madree mio figlio si era formato un legame molto stretto, e non sonopentita del tempo che ha trascorso con lei anzich con me. A Bi-gnasco Mario era pi felice. Poteva correre liberamente. Avevatanti amici. Non gli mancava nulla.

    Ero a Bignasco con mia madre, quel sabato 23 maggio 1992.Non ricordo che cosa stavo facendo quando verso le sei del po-meriggio suon il telefono. Era la polizia. Mi comunicavano cheFalcone era morto. Poi vidi alla televisione i servizi da Palermo.Gli attentatori avevano fatto esplodere con un telecomando unabomba che aveva distrutto lautomobile di Falcone, uccidendolui e sua moglie, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e treguardie del corpo. Lesplosione aveva provocato un cratere nelterreno riducendo lauto di Falcone in frammenti di metallocontorti e bruciati sparsi in un campo lungo la strada. Non riu-scivo a credere ai miei occhi, e non potevo distoglierli dalloschermo. Non piansi. Ma mi sentivo bruciare di rabbia contro lamafia, soprattutto quando seppi che lattentato era opera del ca-po della famiglia dei corleonesi, Salvatore (Tot) Riina, il pre-sunto boss dei boss della criminalit organizzata siciliana. Avreivoluto partecipare al funerale di Falcone. I rischi per la sicurez-za a Palermo lo resero impossibile, e tornai a casa non solo conla perdita di un amico e di un maestro ma anche con un profon-do senso di vuoto. Vedevo la sorte che pu toccare a chiunque

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  • osi lottare apertamente contro limpunit di cui troppo spessogodono potenti personaggi criminali e politici, e sentivo lincer-tezza della mia stessa situazione e la responsabilit che avevoverso mio figlio. Presi in considerazione lidea di abbandonare.Pensai di tornare a occuparmi di divorzi e al tedio di quelle con-versazioni sullamore tradito. Pensai a quanto avrei guadagnatodi pi, alle Porsche che avrei potuto comperarmi. Pensai chenon avrei pi dovuto guardarmi le spalle, non mi sarei pi scon-trata con il muro di gomma. Poi parlai con Ilda Boccassini,unamica che avevo alla procura di Milano, che era stata colla-boratrice di Falcone. Anche lei provava rabbia. Ma disse chenon avrebbe gettato la spugna. E questo per me fu di conforto.

    Andai in ufficio quel luned mattina e parlai con diversi gior-nalisti. Gli investigatori della polizia italiana vennero da me ilgiorno seguente. E circa tre giorni dopo il mio cellulare squilldi nuovo. Questa volta una voce pacata con accento siciliano mitrasmise un messaggio da lontano: Ha visto che cosa succes-so al suo amico. Poi la comunicazione fu interrotta. Il senso delmessaggio era chiaro: Devi essere buona e gentile con noi.Qualche settimana dopo le minacce telefoniche, unaltra bombadi Riina uccise lalleato di Falcone, Paolo Borsellino, e cinquedelle sue guardie del corpo. Da allora in poi le autorit svizzeremi hanno tenuto sotto scorta. (Questa esperienza ha ostacolatola mia vita in molti modi, alcuni anche buffi. Mi piacerebbe po-ter dire, per esempio, che fu mia madre a insegnarmi a portarela borsa con un atteggiamento che esprime sicurezza. E invecesono state le mie guardie del corpo svizzere, e per un motivopratico. Ogni volta che uscivo di casa o da un edificio, le guardievolevano che riducessi il pi possibile la quantit di tempo chepassavo allaperto, spostandomi dalla porta allauto o dallautoallufficio o allaereo. Fino ad allora mi ero sempre tirata dietropersonalmente valigie e ventiquattrore. Ora era la scorta a occu-parsi del bagaglio. Le mie mani erano libere di portare solo laLouis Vuitton.)

    Gli omicidi di Falcone e Borsellino infiammarono lopinionepubblica italiana e costrinsero una buona volta il governo delpaese a dare un giro di vite alla criminalit organizzata. IldaBoccassini condusse le indagini in Sicilia, e con successo. Il 15gennaio 1993 il capitano dei carabinieri Sergio di Caprio, un uo-mo coraggioso noto al tempo solo con il nome in codice di Ca-pitano Ultimo, cattur il boss mafioso Tot Riina arrestandolonel traffico di Palermo. Riina neg lesistenza della mafia. Negdi sapere che da quasi un trentennio era luomo pi ricercatodella Sicilia. Messi a nudo davanti agli occhi del popolo italiano,i vertici delle forze dellordine del paese dovettero ammettereche per trentanni il massimo latitante della Sicilia, questo ses-

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  • santaduenne ammalato di diabete, aveva vissuto in tutta tran-quillit a Palermo, e per tutto quel tempo praticamente tutti incitt sapevano dove si trovasse. Senza lo sdegno pubblico susci-tato dagli omicidi di Falcone e Borsellino, le autorit italianenon avrebbero mai avuto la volont necessaria per arrestare Rii-na e mettere fine allimpunit di cui aveva goduto grazie al de-naro, allinfluenza politica e alla violenza cui era pronto a ricor-rere per difendere la propria posizione.

    Dopo lattentato a Falcone evitai di recarmi a Palermo perdue anni. Ma continuai a indagare su casi di mafia. Lavorai an-che con Antonio Di Pietro, magistrato del tribunale di Milano,che nei primi anni novanta stava raccogliendo materiale di pro-va per formulare imputazioni di corruzione contro leader poli-tici nel tentativo di introdurre in Italia trasparenza e responsa-bilit. Entro la primavera del 1994 aveva individuato un consi-stente numero di conti bancari nel Canton Ticino contenentidepositi di denaro proveniente da attivit di corruzione in Ita-lia. Aprii unindagine sul riciclaggio in collaborazione con DiPietro, ma la Camera dei ricorsi penali in Ticino non ci permisedi approfondire ulteriormente la cosa. Non so che cosa ceradietro questa decisione, ma ebbi limpressione che avesse unamotivazione politica.

    Salvatore Cancemi, un pentito del clan dei corleonesi, finper confessare a un giudice di Palermo che una volta era andatoa Losanna per ritirare dieci milioni di dollari in contanti ma, pernon rischiare un sequestro del denaro da parte delle autorit do-ganali al confine, non era voluto rientrare in Italia con tutta lasomma. Aveva raggiunto quindi una fattoria che una coppia diitaliani aveva preso in affitto nei pressi di Lugano. Marito e mo-glie, assicurava, erano solo amici, senza alcun legame con lamafia; era rimasto loro ospite due o tre giorni durante i qualiaveva confezionato una serie di pacchetti impermeabili conmazzette di banconote da cinquanta e cento dollari, per un tota-le di sei milioni; aveva sistemato i pacchetti in un bidone metal-lico per il latte e lo aveva sepolto in giardino, contando di torna-re in seguito sul posto per recuperare il denaro. Intanto la poli-zia italiana lo aveva arrestato. Lo facemmo venire a Lugano dal-la sua cella di Palermo e ci facemmo accompagnare alla fattoriae al giardino. Non dubitavamo dellautenticit della storia che ciaveva raccontato Cancemi. Ma sperare di ritrovare sei milioni didollari rimasti sepolti per otto anni era un po troppo. Il metaldetector che usammo ci fece ritrovare vecchie posate, lattine ealtra robaccia buttata via, ma alla fine il segnale acustico del-lapparecchio si fece sentire di nuovo. Pochi minuti dopo, unavanga urtava contro il bidone metallico. Il proprietario della fat-toria mi disse che aveva in programma di far costruire una nuo-

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  • va casa sul posto, e cos avrebbe trovato lui il denaro. statofortunato a non trovarlo, gli dissi. Noi avremmo trovato il suocadavere, e gli investigatori non avrebbero mai scoperto il mo-vente dellomicidio.

    Cancemi ci disse che stava trasportando il denaro per contodi Salvatore Riina. E senza arrivare al presunto proprietariodei sei milioni di dollari non avremmo potuto confiscare legal-mente la somma a nome delle autorit svizzere. E cos colsi loc-casione per recarmi al carcere palermitano dellUcciardone, se-de dei celebri processi alla mafia negli anni novanta, e interro-gare il capo della cosca corleonese, luomo che aveva ordinatolattentato al mio amico e maestro Falcone. Il carcere dellUc-ciardone una struttura fatiscente. Al suo interno stata erettauna moderna aula di tribunale a prova di proiettili, a prova dibomba, e dotata di gabbie metalliche per sventare ogni tentativodi evasione perch la polizia carceraria non debba affrontare iproblemi associati con il trasporto di decine di imputati, tutti igiorni, attraverso strade esposte alle bombe della mafia e ai ri-schi di fuga. Siedo al banco del giudice accanto al mio omologo,il magistrato italiano. C unatmosfera tranquilla e strana. La-ria condizionata offe un sollievo assai gradito al soffocante calo-re estivo.

    Le guardie trattano Riina con deferenza quando lo introdu-cono in aula e lo fanno accomodare su una sedia a un paio dimetri da me. Sembra che abbiano paura che questuomo, cheporta camicia e calzoni di sartoria e un bel paio di scarpe anzi-ch la tuta di ordinanza del carcere, possa rovinar loro la vitacon una sola telefonata allesterno del penitenziario. Il magistra-to italiano mi d la parola. Mi presento. Dico che vengo da Lu-gano. Riina mi guarda in cagnesco mentre riferisco come abbia-mo recuperato i sei milioni di dollari e scoperto la connessionetra il denaro e il traffico di droga. Pi vado avanti e pi la facciadi Riina si fa rossa. Vedo la rabbia che monta dentro di lui. E aun tratto esplode: Che venuta a fare qui? Perch mi sta dicen-do queste cose? Io con questo non centro niente. Se ne torni alsuo paese e ci resti.

    Non reagisco alle sue espressioni di scherno. Mi sono prepa-rata a conservare la calma. Ci ho pensato in anticipo. So di tro-varmi faccia a faccia con il principale responsabile della mortedel mio amico, con quello che ha osato pensare che facendo as-sassinare uomini di legge avrebbe intimidito lintero governoitaliano al punto da restaurare, circondata da un muro di gom-ma, la cultura dellimpunit, la cultura che semina tanta paurache persino i tutori dellordine non riescono a imporre la legge.Vorrei interrogarlo a proposito di Falcone, ma questo esula dalmio mandato. Per alzo la voce: Non intendo tollerare questo

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  • suo atteggiamento. Ho un lavoro da fare, che le piaccia o no. Houna dichiarazione che la coinvolge. Lui si rifiuta di collaborare.E la seduta finisce bruscamente. Prima che le guardie lo riporti-no via, per, Riina si rivolge ancora a me. Mi scuso, mi scuso,dice con un tono smaccatamente falso in cui riconosco una mi-naccia. In questo stesso periodo, i tirapiedi di Riina stanno spar-gendo il terrore in Italia facendo esplodere bombe in luoghi fre-quentati dai turisti, come la Galleria degli Uffizi a Firenze. Cpersino un piano per far crollare la Torre di Pisa. Dieci personeinnocenti hanno perso la vita e centinaia sono rimaste ferite.

    Nel 1994 diventavo procuratore generale della Svizzera, lamassima carica giudiziaria a livello federale. Indirizzai una par-te considerevole dellattenzione del mio ufficio alla lotta contro itentativi della criminalit organizzata di usare le banche svizze-re per il riciclaggio del denaro. Lanciai anche una campagna perconvincere il Parlamento che era interesse della Svizzera, e an-che delle sue banche che per anni avevano goduto dei frutti diquesta attivit, emendare la legislazione riguardante gli istitutifinanziari e porre fine al riciclaggio del denaro sporco.

    Una nuova legge, entrata in vigore il primo gennaio 1995, in-troduceva il reato di riciclaggio e rendeva i banchieri penalmen-te responsabili del mancato esercizio della dovuta diligenza inoccasione dellapertura di nuovi conti, dellaccettazione di depo-siti e dellesecuzione di trasferimenti. Le autorit di controllodelle banche in seguito emisero una batteria di dettagliate nor-mative, obbligando in pratica le banche a utilizzare quipe di le-gali e funzionari per controllare le attivit di riciclaggio del de-naro. Le nuove leggi autorizzano il governo svizzero a fornireinformazioni alle autorit di polizia di altri paesi nei casi previ-sti dagli accordi di mutua assistenza.

    Avere leggi rigorose non serve a nulla se le autorit compe-tenti non ne impongono lapplicazione. Colsi al volo loccasionedi applicare la nuova legislazione federale. Il primo caso impor-tante che ricordo si present nel novembre 1995, quando la po-lizia svizzera arrest Paulina Castaon, moglie di Ral Salinas,il fratello di Carlos Salinas, lex presidente messicano. Al mo-mento dellarresto, la Castaon stava tentando di prelevare pidi ottanta milioni di dollari da una banca svizzera usando unpassaporto falso. Il mio ufficio ricevette le prove che milioni didollari depositati da Ral Salinas sotto vari nomi presso diversebanche svizzere erano connessi con il traffico di droga, e imme-diatamente congelai quei conti. Gli avvocati di Salinas afferma-vano che il loro assistito stava gestendo un fondo di investi-mento per imprenditori messicani; noi sostenevamo che queifondi erano i proventi del traffico di stupefacenti, e dichiarai al-

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  • la stampa che, se era vero che le transazioni bancarie di RalSalinas riguardavano un fondo di investimenti, i suoi metodierano scorretti e contrari alle consuetudini finanziarie. Una de-cisione della Corte suprema svizzera ci obblig a ritirare le ac-cuse di riciclaggio di denaro contro Ral Salinas, e fummo co-stretti a consegnare al Messico tutta la nostra documentazioneperch si potesse avviare un procedimento contro di lui sul po-sto. I tribunali messicani avevano gi condannato a pene deten-tive Ral Salinas per corruzione e per lomicidio di un avversa-rio politico.

    Ebbi loccasione di interrogare Ral Salinas nel dicembre1995, durante una visita a un penitenziario messicano con Va-lentin Rorschacher, capo dellUfficio centrale svizzero per il traf-fico di droga. Salinas ovviamente neg ogni accusa, ma la suadescrizione delle transazioni che aveva eseguito ci diede unachiara indicazione del fatto che i mutamenti nel regime banca-rio svizzero stavano producendo gli effetti desiderati. Ci fidava-mo del segreto bancario svizzero, ci disse Salinas con larro-ganza di chi era certo di poter godere dellimpunit.

    Lapplicazione del nuovo regime bancario sconvolse moltinelle lussuose sale dei consigli di amministrazione e negli stabi-limenti termali e country club del paese, uomini, per lo pi, chesi erano battuti per preservare lo status quo e i profitti dei loroistituti. Alcuni critici cominciarono a chiamarmi Carla la Sini-stroide o Carla la Rossa; uno dei banchieri mi defin, sembra,un missile senza guida. Segnali, ancora una volta, che si senti-vano braccati.

    Pi tardi, congelai i conti dellex primo ministro del PakistanBenazir Bhutto, figlia dellex presidente pachistano. Tornata alpotere con le elezioni del 1993, rimase in carica fino al 1996,quando il suo governo cadde per la seconda volta sotto laccusadi corruzione. Una commissione dinchiesta venne in Svizzeradal Pakistan per raccogliere informazioni sul marito della Bhut-to, che era stato incriminato per corruzione e arrestato. La com-missione pachistana era in possesso di informazioni e provesufficienti perch la Svizzera aprisse unindagine. Localizzam-mo consistenti somme di denaro a Ginevra e le prove che Bena-zir Bhutto aveva ricevuto una tangente su importanti contratticontrollati dal governo. Bloccai ognuno dei conti relativi e ricor-do di aver ricevuto lettere di protesta dalla signora Bhutto e dadiversi legali. Ricordo anche che lambasciatore svizzero a Isla-mabad rifer di manifestazioni inscenate davanti allambasciata.Me lo disse ridendo, ma non era troppo divertito, perch si tro-vava praticamente bloccato nella sua residenza ufficiale.

    Un altro caso importante si present il 17 novembre 1997,ma non riguardava n banche n forti somme di denaro. Quel

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  • giorno, sei uomini armati si presentarono travestiti da membridelle forze di sicurezza egiziane a Deir el-Bahri, un celebre sitoarcheologico che sorge sulle sponde del Nilo di fronte alle rovi-ne di Luxor. Verso le nove meno un quarto del mattino, gli uo-mini caricano le loro armi automatiche, scendono dal tempiofunerario di Hatshepsut, la prima regina regnante nota alla sto-ria, e attaccano un gruppo di turisti. Ne uccidono una sessanti-na, tra cui trentacinque svizzeri. Alcuni li decapitano; altri lisventrano; alle donne riservano un colpo alla testa. Ne segueuno scontro a fuoco con la polizia e forze militari egiziane, nelquale gli attentatori vengono uccisi o si tolgono la vita. Gli auto-ri della strage, raccogliendo il modus operandi di al Qaeda, mi-ravano a privare lEgitto di entrate in valuta straniera di cui ilpaese aveva un bisogno disperato, cercando di scoraggiare lar-rivo dei turisti stranieri.

    Il mio ufficio apre unindagine sullattacco di Luxor. Autono-mamente possiamo fare ben poco, perch le autorit egiziane sisono assunte il grosso dellimpegno investigativo. Contattiamolufficio della procura egiziano, e mi reco al Cairo per incon-trarmi con il procuratore. un colloquio infruttuoso. Credoche lui resti sorpreso quando mi vede entrare nel suo ufficio ecapisce che sono una Carla e non un Carlo. reticente e bru-sco e non mostra alcuna volont di collaborare con me. Al mi-nistero degli Interni, per, le cose vanno diversamente. E dopoche ho assegnato a un investigatore di sesso maschile il compi-to di seguire il caso, riceviamo tutte le informazioni di cui ab-biamo bisogno.

    Nel 1998 ci impegnammo nella lotta contro la corruzione ela cultura dellimpunit in Russia. La massima autorit giudi-ziaria in Russia, Yuri Skuratov, aveva promosso unindagine sul-la Mabetex, unimpresa edilizia con sede a Lugano che negli an-ni novanta aveva firmato rilevanti contratti in Russia, tra cuiquelli per la ristrutturazione del Cremlino e per i lavori di ripa-razioni al Palazzo del Parlamento danneggiato dalle cannonatedei carri armati di Eltsin nel 1993. Skuratov ci mand una ri-chiesta di assistenza per controllare le transazioni bancarie inSvizzera. Nel gennaio 1999 emetto un mandato di perquisizioneper gli uffici della Mabetex. Tra le carte dellazienda la poliziatrova fotocopie di carte di credito intestate a Boris Eltsin, lallo-ra presidente russo, e a Tatyana Dyachenko, sua figlia e consi-gliera personale. Lo scandalo che ne risulta minaccia di far pre-cipitare la Russia in una crisi politica. Ricordo di aver visto, nelmio secondo o terzo viaggio a Mosca, un gruppo di manifestan-ti con dei cartelli con su il mio nome. Pensavo che protestasserocontro di me; e invece mi spiegarono che erano persone che ave-vano perso tutto nella situazione di illegalit e corruzione che

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  • stava trasformando la Russia da cleptocrazia del Partito comu-nista in cleptocrazia della polizia segreta, e che mi esortavano apartecipare alle elezioni per la presidenza e a fare pulizia. Pur-troppo le indagini sul Cremlino misero fine alla carriera di Sku-ratov come procuratore generale della Russia. Non molto tempodopo la televisione russa mostr il video di un uomo che asso-migliava a Skuratov in una sauna in compagnia di due prostitu-te, e Skuratov, dopo unaspra lotta, fu costretto a dimettersi. Hoparlato in seguito con Skuratov di quel video, e gli ho credutoquando mi ha detto che era contraffatto.

    Della Iugoslavia sapevo poco pi di quanto avevo visto in te-levisione o letto sui giornali, perch il lavoro non mi lasciavatempo sufficiente per informarmi pi approfonditamente. Altempo in cui la Iugoslavia andava in pezzi, io ero impegnata nel-le indagini sui flussi di denaro della mafia. Nel maggio 1992,quando i serbi lanciavano le loro operazioni di pulizia etnica inBosnia-Erzegovina, il clan dei corleonesi assassinava Falcone.Nel gennaio 1993, quando la Croazia lanciava la sua guerra perprocura contro i musulmani bosniaci, io ero presa dalla catturadi Salvatore Riina, il superboss dei corleonesi. Nel 1995, quandogli armati serbi di Bosnia e di Serbia massacravano migliaia diprigionieri musulmani presso Srebrenica, io tentavo di applica-re la nuova legge svizzera sui servizi finanziari per indagare suldenaro sporco negli istituti bancari del mio paese. Ma ancheguardando da lontano lo svolgersi di questi tragici eventi, nonriuscivo a credere che si potesse commettere un crimine del ge-nere in Europa allalba del Ventunesimo secolo: la pulizia etni-ca, in televisione (talvolta in diretta), a unora di volo dal pacifi-co e ordinato Canton Ticino. Ricordo che mi sentivo cos indi-gnata da Radovan Karadzi3, che quando arriv a Ginevra per inegoziati di pace, poco dopo la mia nomina a procuratore gene-rale della Svizzera, avrei voluto farlo arrestare e consegnarlo alTribunale dellOnu allAia per i crimini di guerra. Il mio staff e ione discutemmo. Innanzitutto volli controllare se il Tribunaleaveva preparato unincriminazione contro di lui; poi pensai chepotevamo aprire noi stessi unindagine. A quel tempo arrivam-mo alla conclusione che la Svizzera, da parte sua, non avevagiurisdizione in proposito perch non aveva ratificato la Con-venzione internazionale contro il genocidio. E in quella occasio-ne apprendemmo che il Tribunale per la Iugoslavia non avevaemesso alcun mandato di arresto contro di lui. E cos non fa-cemmo niente di pi. Oggi mi pento di non essere stata pi ag-gressiva, anche se non so in che modo avrei potuto esserlo. Sre-brenica era ancora soltanto una area di sicurezza delle Nazio-

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  • ni Unite, e se lo avessimo arrestato avremmo potuto contribuirea cambiare la storia.

    Nel 1998 un gruppo insurrezionalista albanese, lUck, lEser-cito di liberazione del Kosovo, stava compiendo unescalationnegli attentati contro la polizia serba, e i civili albanesi subivanole rappresaglie di questultima. Aprii unindagine sugli albanesiche in Svizzera stavano raccogliendo con le estorsioni fondi cheusavano per acquistare armi da mandare allEsercito di libera-zione del Kosovo. Seguimmo due tir carichi di armi fino al ter-ritorio italiano, dove vennero bloccati dalle autorit del paese.Avevo fatto arrestare alcuni albanesi in Svizzera in connessionecon questo traffico, ma non potevo continuare loperazione per-ch dal Kosovo o dalla Serbia non ci veniva alcun aiuto e nonpotevamo dimostrare dove finissero le armi provenienti dallaSvizzera e che uso ne venisse fatto. Mandai un viceprocuratorea Priytina per indagare. Ricevemmo minacce dagli albanesi, mapoche informazioni utilizzabili come prove.

    Alla fine degli anni novanta, latteggiamento della comunitbancaria in Svizzera nei miei confronti inizi a cambiare... al-meno in superficie. Credo che qualcuno cominciasse a rendersiconto dei vantaggi di una situazione in cui le banche operasseroentro una struttura legislativa che non consentiva il riciclaggiodel denaro e altre pratiche legate alla mafia. Fare affari con lamalavita distrugge la credibilit anche delle imprese che opera-no nella legalit, soprattutto banche e studi legali. E il buon no-me delle banche svizzere restava sempre pi macchiato a ogninuova rivelazione della loro associazione con i trafficanti di dro-ga e altri esponenti della criminalit organizzata. Oggi la Sviz-zera uno dei paesi pi progrediti del mondo in termini di lottaal riciclaggio a livello bancario. Continuare questa lotta soloun fatto di volont.

    Nel 1998 un giornalista del Time mi aveva chiesto di de-scrivere il lavoro dei miei sogni. Vorrei essere il Procuratore ca-po della Corte penale internazionale, avevo risposto. Il Trattatodi Roma, quello che istituiva il Tribunale, era appena stato rati-ficato, ma sarebbero passati anni prima che la prima Corte in-ternazionale permanente per i crimini di guerra aprisse le sueporte. Non ho mai cercato attivamente di diventare Procuratorecapo dei Tribunali che le Nazioni Unite avevano istituito perprocessare responsabili di crimini di guerra in Iugoslavia e inRuanda. Ero convinta che avrei continuato a fare il Procuratorein Svizzera fino alla pensione. Nel giugno 1999, mentre il mioteam stava istruendo un caso di corruzione contro un alto gradodelle forze armate svizzere, ho ricevuto una telefonata del Se-gretario di stato federale del paese, Jakob Kellenberg, che oggi

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  • presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa. Michiedeva se avessi qualcosa in contrario al fatto che il governosvizzero presentasse il mio nome come candidata per il posto diProcuratore capo dei Tribunali dellAia. Non avevo alcuna obie-zione. Ma accettavo solo perch presumevo che non avrei mairicevuto lincarico e perch la Svizzera, paese risolutamenteneutrale che per decenni aveva fatto resistenza a un proprio in-gresso tra gli stati membri delle Nazioni Unite, stava prendendonuove iniziative per esservi ammessa. Kellenberg appariva ras-sicurante: Non si preoccupi, lei non ha nessuna probabilit,perch la Svizzera non membro n della Nato n dellUnioneeuropea.

    A luglio mi trovo in vacanza in Toscana. Ricevo una telefona-ta da Berna che mi informa che Kofi Annan, il Segretario gene-rale delle Nazioni Unite, vuole vedermi immediatamente a NewYork per discutere la mia nomina al posto di Procuratore capoallAia. Continuo a pensare che non ho alcuna probabilit di ot-tenere lincarico. Anzi, quellincarico proprio non lo voglio. Ecos rispondo che non ho intenzione di interrompere le vacanzee arrivare fino a New York per un colloquio che non avr alcunesito. Ho in programma un viaggio in Messico tra un mese, peruna missione relativa al caso in corso su Salinas. Dico che po-trei passare per New York in quella occasione se Annan vorrancora vedermi. Cos, per qualche giorno in agosto, mi fermo aNew York. Alla missione svizzera presso le Nazioni Unite vengoa sapere che Annan ha davvero intenzione di nominarmi allAia.I bombardamenti Nato della Serbia sono appena cessati, e Rus-sia e Cina non desiderano che il nuovo procuratore venga da unpaese Nato; i paesi della Nato ovviamente non vogliono nessunoche venga dalla Russia o dalla Cina o da uno degli ex paesi nonallineati; il primo procuratore del Tribunale veniva dal Sudafri-ca; quindi la Svizzera, che non fa parte della Nato n dellUnio-ne europea n delle Nazioni Unite, rappresenta un accettabilecompromesso. No, non posso accettare, dico. Assolutamenteno. Sono procuratore generale della Svizzera. Ho in corso unprocesso importante. Solo io posso farlo. Il mio vice non pu oc-cuparsene. Il giorno prima dellincontro, vado a fare jogging inCentral Park. Penso: Bene, gli dir, No grazie. No, no, no, e gra-zie. Il mattino dopo, prima di raggiungere la sede centrale del-lOnu, lambasciatore della missione svizzera mi dice che il pre-sidente del mio paese, Ruth Dreifuss, desidera parlare con me altelefono. Dreifuss mi dice che importante per il prestigio dellaSvizzera che io accetti lincarico. Insiste con energia. A conclu-sione del colloquio, le dico che ci penser.

    Avevo gi avuto occasione di incontrare Kofi Annan, quandoera a capo del Dipartimento operazioni di peacekeeping dellOnu.

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  • Mio fratello Flavio, quello che aveva salvato il nostro bastardoiniettandogli il siero antivipera, quello che mi faceva conoscerei futuri medici ai tempi in cui era studente, era diventato chirur-go e aveva conosciuto Annan al tempo in cui lavorava per le ope-razioni di pacificazione. Durante i miei anni di procuratore ge-nerale svizzero venivo invitata allannuale Forum mondiale sul-leconomia di Davos. Un anno mio fratello mi aveva chiesto dicercare Annan e dargli i suoi saluti; ed era stato cos che lavevoconosciuto. Allora non avevamo parlato di molto oltre che diFlavio e di due indagini sulla corruzione, e per niente della Iu-goslavia. La mattina del mio incontro a New York insiste perportare avanti la mia nomina alla carica di Procuratore capo deiTribunali. Mi esorta ad accettare il posto e mi ricorda che que-sto anche il desiderio del governo svizzero. Gli chiedo quantotempo ho per decidere. Mi concede una settimana. In questa vi-ta, una settimana non sufficiente per capire dove ti trovi o checosa stai facendo. Se avessi avuto un mese per pensarci, sicura-mente avrei rifiutato. Sapendo quello che so adesso, sono certache di quel rifiuto mi sarei pentita.

    Tornata a Berna, mi incontro con Ruth Dreifuss e con i mini-stri degli Esteri e della Giustizia. Ripeto che non desidero lavo-rare per le Nazioni Unite in Olanda. Ho del lavoro importanteda fare in Svizzera. Lo stipendio ha la sua importanza; voglio es-sere in grado di permettermi le borse Louis Vuitton che intendocontinuare ad acquistare. Anzich usare la settimana andando aparlare con Louise Arbour, che al momento il Procuratore ca-po dei Tribunali, rimango a Berna a combattere per rimanervi.Sono sicura che molti membri del governo vorrebbero che an-dassi allAia per elevare il profilo della Svizzera nella comunitinternazionale. Altrettanto sicura sono che ci sono banchieri erappresentanti della burocrazia militare e civile svizzeri che mivorrebbero fuori dai piedi. Forse c anche un presidente russoche lo vorrebbe.

    Passano due o tre giorni prima che io informi la Dreifuss cheaccetter il posto. Il gioved successivo, il 12 agosto 1999, Annan in visita in Svizzera per il cinquantesimo anniversario dellafirma delle Convenzioni di Ginevra, i trattati della comunit in-ternazionale sulla guerra e i diritti umani. Dopo le celebrazionialla Sala dellAlabama nel palazzo municipale ginevrino, ho uncolloquio con Annan per concludere laccordo. Il ministro degliEsteri mi invia un promemoria perch non mi tiri indietro al-lultimo minuto.

    Annan immediatamente mi conduce in presenza di diversecentinaia di giornalisti. Non che mi senta proprio come la sposain un matrimonio forzato, ma sono pi in ansia che in un voloper Palermo. La mia padronanza dellinglese nonostante i lu-

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    01_016_FELTR_Allinseguimento 28-02-2008 8:59 Pagina 41

  • ned e marted esclusivamente in inglese al collegio di Ingebohl rudimentale. Riesco a dire che un onore per me e per la Sviz-zera che le Nazioni Unite mi abbiano scelto come Procuratorecapo dei due Tribunali. Esprimo la mia sentita gratitudine adAnnan per avermi nominata. Sottolineo che indagher con lamassima energia sui crimini contro le donne e i bambini. Nonsono mai stata al servizio di nessuno tranne che della legge, di-co ai giornalisti. Mi pr