Book mostre personali

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BOOK PRESENTAZIONE LAVORI ARTISTICI Personali e collettive d’arte FabbroniArte Perugia – Via G. Giorgi n.14 – 06125 Perugia Cell. +39 3662589779 – [email protected] http://fabbroniarte.over-blog.com

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BOOK DELLE MOSTRE PERSONALI REALIZZATE DAL 1994 AL 2015 DALL'ARTISTA FABRIZIO FABBRONI

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BOOK PRESENTAZIONE LAVORI ARTISTICI

Personali e collettive d’arte

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Fabrizio Fabbroni, Architetto, progettista urbano ed ambientale, designer, scenografo, nasce a Perugia dove vive. Come artista è uno sperimentatore su materiali e tecniche diverse, ha partecipato a numerose mostre collettive e realizzato mostre personali in varie località italiane e straniere. Le sue opere si ispirano alla sperimentazione, alla libertà del segno, allo studio di testi antichi. Presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia è stato Direttore dall’anno 2006 all'anno 2009 e Vice Direttore dall’anno 1999 all’anno 2003 e nell' anno 2005, è stato Docente Ordinario della Cattedra di Scenografia dal 1980. Dal gennaio 2013 è Presidente della Fondazione Fabbroni. Come Architetto è stato project manager del “Museo Paleontologico di Pietrafitta”, curando anche il progetto di allestimento interno; ha realizzato il Piano Regolatore del Comune di Piegaro; il progetto del Parco Naturalistico-Archeologico della “Città Fallera”, a Piegaro, l’allestimento Pinacoteca del Comune di Marsciano presso il Palazzo Pietromarchi. Come designer, segue, la realizzazione di prototipi in ceramica ed in ferro per l'architettura per allestimenti museali. Come scenografo ha progettato scenografie per opere teatrali, televisive e cinematografiche, ha curato gli allestimenti per numerose mostre d'arte e tematiche, suo l'allestimento del primo evento di “Terra di Maestri” a Villa Fidelia di Spello.

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Personale “CRAZY” (2015)Spazio arte – Mandarini arredamenti – Perugia

Dopo l’ultima personale, che concluse il trittico 2010, 2011, 2012, un lungo periodo di meditazione. Mi ci vuole tempo e maturazione, trascorrono tre anni con partecipazioni a collettive in tutta Italia. E’ un periodo proficuo di informazioni e verifiche ed ora mi sento pronto ad affrontare una mostra personale con opere tutte nuove pensate e calibrate su di una sperimentazione di colore e forme. La mostra nasce da concomitanze, che, come spesso avviene, aprono a sensazioni e pensieri. In macchina mi capita di ascoltare la canzone “Crazy” degli Airosmith, e, questa estate mi appassiono nella lettura del libro “Dove sei stanotte” di Alessandro Robecchi: il protagonista è l’autore di una trasmissione televisiva il cui nome è “Crazy Love”, questa parola comincia a girarmi in testa, vado a vedere il significato su internet e leggendo mi accorgo che, il termine inglese mi intriga è tutto ed il contrario di tutto, da spassoso a pazzo, da ameno ad assurdo, da rocambolesco a sciocco, e così via. Per mia natura non sono un anglofono, al contrario vorrei riportare in auge i termini italiani, ma, in questo caso questa parolina racchiude un mondo con più significati e ciò mi intriga parecchio. Sto sperimentando un sistema di colorazione spalmando, mescolando e scegliendo colori che tra loro non si coniugano, un modo un po’ pazzo, un po’ raffinato, un po’ sciocco, un po’ ameno ed assurdo, quindi “Crazy”. Il gusto della sperimentazione giunge ad un punto elevato, tra la scelta della tecnica, del colore, del supporto, ogni parte è un insieme e più opere costituiscono l’insieme, è una lettura complessa e profonda, le parole impresse accennano ad un significato recondito, lettura nella lettera ascoltando la voce di dentro, la voce lontana che ci unisce sulla superficie dell’opera. L’ambiente di cui sono ospite è uno spazio, all’interno di una importante struttura che commercializza mobili di arredo e di design, uno spazio dedicato alle mostre: una parete orizzontale ed una parete ondulata, bello, è proprio quello che cercavo. Le mie personali sono composite nel senso che si presentano due o tre ambiti di ricerca, anche lontanissimi tra loro, in questo caso ne presento due, con materiali diversissimi e che potrebbero sembrare antitetici, ma collegati tra loro dal titolo che ho voluto dare alla mostra. Sulla parete liscia vi sono opere realizzate con questa nuova tecnica, che invitano a riflettere sulle parole, sui gesti, sul colore; sulla parete ondulata lastre di ceramica dipinta e sculture in ceramica, montate su supporti di design in ferro arrugginito. Nasce la mostra personale “CRAZY”. Fabrizio Fabbroni

“La parola d’ordine per aprire lo sguardo alle nuove opere di Fabrizio Fabbroni è: sperimentazione. Sin da piccoli ne abbiamo bisogno, sin da bambini ci è capitato di dover mettere le mani sul fuoco per capire che brucia. Ed è proprio con gli occhi di chi deve scoprire il mondo per la prima volta che nasce la vera voglia di analizzare, entrare ed andare fino in fondo ad ogni quadro dell’artista. Ogni opera ha più strati, più livelli, più scalini nei quali si affonda e si scende senza rendersene conto. E’ un percorso naturale e spontaneo. Il risultato è entusiasmante. Si rimane scossi e arricchiti da movimenti ordinati creati da colori, tecniche e materiali a primo impatto scoordinati. “Crazy” è il titolo della nuova personale di Fabrizio Fabbroni, ritengo non vi sia nessun appellativo più pertinente. Mi è stato comunicato telefonicamente e, lì per lì, mi ha fatto sorridere, o meglio, mi ha incuriosita. L’artista, in un secondo momento, mi ha invitato a osservare le opere, e nell’esatto istante in cui la mia attenzione si è posata sulle figure fluttuanti dipinte, ho capito che il caos non è un caso. Un giro di parole che richiama l’interiorità di ognuno, ma anche il desiderio di dare un ordine alle vicende che si susseguono nella vita. Adesso a me, e probabilmente a voi che avete l’opportunità di esserci, manca l’ultima parte: l’abbandono alla totalità. Sì, a volte è follia, altre è necessità, ma quanto è bello avere, alla fine, la visualizzazione dell’insieme? Quanto è importante la ricerca dell’armonia? E soprattutto, quanto arricchisce l’aver provato a trovare il senso? E mi piace riflettere con voi sulla scelta dei gesti che l’artista ha compiuto e sul movimento che le sue opere trasmettono. Quello che resta è la spinta vitale che trascina il corpo e i pensieri come fossero sospesi sulle onde del mare”. (Floriana Lenti – personale “Crazy” – ottobre/novembre 2015)

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Foto opere:

Crazy 1

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Crazy 2

Crazy 3

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Crazy 4

New York

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Tramonto sul Mar Nero

Mondi

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Allestimento

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inaugurazione

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Personale “I RICORDI FUTURI” (2012)Ex chiesa Santa Maria della Misericordia – Perugia

La mostra personale “I RICORDI FUTURI”, realizzata nell’anno 2012 conclude l’esperienza del “Trittico del tempo” iniziato nel 2010. La mostra ha avuto vari momenti di esecuzione il primo è avvenuto presso la ex chiesa di Santa Maria della Misericordia – Perugia, con il vernissage il 12.12.2012.La mostra si compone di tre sezioni:“Videomundi”, selezione di 1000 foto che costituiscono quattro grandi pannelli montati alle pareti bianche della ex chiesa. Rappresentano grandi schermi in cui sono rappresentati insieme di immagini caotiche come è caotico il nostro mondo e come sono caotici i pensieri, solamente quando ci si sofferma di fronte ad uno di essi si vede e si comprende l’attimo in cui la foto è stata scattata e quindi ritorna vivo il pensiero;“La valigia della memoria”, iconografia personale voluta, in cui, in b/n, sono riprodotte foto di “famiglia” dei miei 65 anni trascorsi. Qui i ricordi ed pensieri sono riprodotti su di una lunga striscia e le immagini sono consequenziali. La scelta del b/n trova la sua logica nel voler rimarcare una diversità in cui i ricordi passati sono molto sfumati, se pur nitidi;“Frammenti”, 500 foto che costituiscono un libro d’artista, finemente rilegato e numerato, in cui sono presenti gli scatti migliori, quelli che raccolgono un senso profondo. L’origine della mostra sono stati cinquemila scatti realizzati in vari anni con il solo uso di telefoni cellulari, cercando di fermare attimi, atmosfere e spesso sentimenti; solo le foto della “Valigia della memoria” sono realizzate con macchina fotografica analogica e digitale.Una particolarità della mostra è una sorta di autarchismo di produzione, cioè, ho voluto realizzare una mostra a km.0; tutto ciò che si vedrà nell’allestimento è prodotto nel mio studio. Lungo il percorso saranno posizionati dei leggii con testi di interventi del critico e di alcuni amici che scriveranno sul tema della mostra. L’evento che si inaugura il 12-12-2012 non si conclude il 27-12-2012, data di chiusura della mostra, ma prosegue il 02-01-2013 con l’esposizione del “videomundi” in aperta campagna.Il giorno 12-12-2012:Mattina: ore 12,00 presentazione della mostra alla stampa. Pomeriggio: apertura alle ore 18,00 della mostra al pubblico con breve saluto dell’Ass.re Cernicchi, intervento del critico Antonio Senatore e di altri amici, presenza di una musicista con arpa e si assaggerà un sapore antico quale è il “torcolo col vin santo”.Il giorno 02-01-2013Mattina: alle ore 12,00, con qualsiasi tempo atmosferico, in loc. Ponte d’oddi, Via G.Giorgi, Perugia, in aperta campagna saranno posizionati i quattro grandi pannelli della sezione “Videomundi”, fissati con picchetti e lasciati alle intemperie; il loro degrado nel tempo sarà documentato con foto e video. Tutto il materiale prodotto diverrà un video autoprodotto dal titolo “I RICORDI FUTURI”.Macchinari usati per la produzione:- Cellulare Nokia N82, 5MP- Cellulare HTC touchphone, 3,2MP- Cellulare Sony Ericson J10i2, 5 MP- Cellulare BlackBerry 8900, 3,2 MP- Macchina fotografica digitale Casio Exilim, 7,2 MP- Computer portatile HP- Computer fisso Fujitsu Simens Scaleo P- Scanner HP Scanjet 2410- Stampante Canon Pixma IP4200- Plotter hp design jet 450

Fabrizio Fabbroni

contributi“Il mese di dicembre, l’ultimo dell’anno solare, è tradizionalmente dedicato ai bilanci. Bilanci di chiusura e bilanci di previsione per l’anno futuro, una pratica che è obbligo di legge per gli enti e le aziende ma che finisce per influenzare fatalmente anche la psicologia e le abitudini delle singole persone, più inclini in questo periodo a fare i conti con il passato appena trascorso e a progettare impegni per i mesi in arrivo. Nel caso di specie, però, non si tratta di valutare solamente i numeri - benché i numeri nella concezione di Fabrizio Fabbroni, artista che mostra un’inclinazione particolare per la numerologia come testimonia anche questo “terzo movimento” dedicato alla sequenza 12.12.’12, sembrino celare un’anima profonda e misteriosa - ma anche i fatti realizzati, le esperienze vissute e le idee da cui entrambi scaturiscono. La mostra “I ricordi futuri” ha, infatti, il sapore di un redde rationem di percorso. E’ una

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riflessione per immagini su ciò che è stato e su ciò che potrà essere nella vita di un artista, che contemporaneamente è stato ed è anche maestro, padre, figlio, amico, compagno di vita etc... L’arte in questo caso, utilizzando come principale mezzo espressivo la fotografia ed ogni sua possibile derivazione più e meno tecnologica, diviene quindi la chiave interpretativa e personalissima per leggere e valutare la vita nel suo complesso, la propria innanzi tutto ma anche quella altrui, compresa la nostra. Tutti quegli aspetti in cui si articola l’esperienza umana e intellettuale di una persona, trova in questa istallazione una sistemazione razionale, organicamente presentata nelle tre sezioni di cui si compone: “videomundi”, “la valigia della memoria” e “frammenti”. Tre modi di riflettere che suonano familiari a ciascuno di noi, perché a nessuno può non essere capitato di vagare a random tra i ricordi o di sforzarsi di analizzarne alcuni in sequenza cronologica o, ancora, di soffermarsi a far riemergere dal loro caos indifferenziato i più significativi, i migliori, nella speranza, comunque, di potere ancora a lungo arricchire i file zippati della nostra memoria. La suggestione di questa mostra è qui, in questa scoppiettante sequenza di immagini fisicamente organizzate secondo uno schema di ascisse e ordinate che ci racconta, attraverso la vita di Fabrizio Fabbroni, il fluire degli ultimi decenni, con le loro caratteristiche acconciature – emblematica a tal proposito l’immagine guida dell’esposizione, in cui l’artista è immortalato a bordo del suo primo mezzo di trasporto autonomo -, la trasformazione degli ambienti domestici, l’evolversi del gusto testimoniato da particolari di oggetti e manufatti vari accuratamente selezionati, ingranditi, estrusi dal contesto ed elevati a simbolo. Una storia “secondo lui”, insomma, che egli testimonia ed esibisce non soltanto mostrando le immagini del proprio vissuto ma anche raccontando – penso alla suggestiva sequenza dedicata alle sue stesse mani - il farsi del processo creativo. Tutti elementi che potrebbero appartenere a ciascuno di noi ma che Fabbroni, invece, deforma, trasforma e interpreta fino a creare altro da essi, in una sorta di benevola ossessione generata da un’ incoercibile abitudine e essere visionario, trasgressivo, originale, come ogni artista che si rispetti”. (Andrea Cernicchi – personale “I ricordi Futuri” – ex Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Perugia – dicembre 2012)

"La prima volta che ho visto Fabrizio Fabbroni in realtà non l'ho visto, ma ascoltato. Era nel silenzio sospeso del Cassero di Porta S.Angelo, tra i riflessi opachi dei suoi scudi, mitologica e cinica sintesi della fragilità, non tanto della condizione umana in quanto tale, ma del suo contorcersi cultural-sociale fatto di edonismo, visioni distorte ed inutili idolatrie. Questo almeno è quello che respirai allora, con quelli che sono i miei polmoni... Ascoltato dicevo, si, perchè la presenza/assenza dell'artista era pregnante: l'ironia, lo spessore del mito, la consapevolezza, l'imponenza delle opere e la lucidità del messaggio (con tanto di monito subliminale), tendevano ad insinuare un poco di soggezione nella pancia. Timore reverenziale sostanzialmente evaporato nell'affabile stretta di mano dell'uomo Fabbroni e nell'apertura dei suoi occhi buoni, in cui, a guardar bene si scorgono, tra pieghe di composta saggezza, lampi birbi di bambino. Ed è probabilmente anche da questa ambivalenza che si dipana lo scheletro di "Ricordi Futuri", in cui Fabrizio si mette a nudo accostando passato, presente e futuro. Innanzitutto ci mostra le sue radici, come immagini "storiche" che sono solo sue, ma al contempo di tutti, perchè capaci, con i loro toni e contorni sfumati di rievocare il passato di ognuno, in una sorta di memoria collettiva e al tempo stesso personale. E poi c'è il presente, rappresentato, in perfetto equilibrio dinamico, da un caotico rincorrersi di immagini; immagini semplici, quotidiane, macchie di mondo, il suo mondo, completamente svincolate da qualsivoglia canone estetico. Flash, sguardi, battiti di ciglia che si affastellano e si mescolano come un rutilio di pensieri pensati; frammenti liberi, ognuno col suo piccolo, prezioso tesoro che vanno a formare un unico insieme in divenire, plastica sintesi del nostro patrimonio interiore. Ma ciò che più mi piace e mi calza è che tutto questo è destinato ad essere lasciato all'aperto, al giudizio della natura, alla casualità degli eventi e così tra una sorta di buddhismo e di possibilismo cosmico, ciò che siamo sarà contaminato, scomposto, sparpagliato, rimescolato e quindi riassorbito, in modo da poter essere di nuovo aria e respiro e idea. Ciclo." (Paolo Marcucci - personale “I ricordi Futuri” – ex Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Perugia – dicembre 2012) “La mostra “I ricordi futuri”, è profondamente legata all'idea del viaggio. Sarà per la valigia da cui scaturisce il riassunto per immagini dell'esistenza di Fabrizio Fabbroni, o per la distesa di fotografie che raccontano, come diapositive, la fase più recente del suo percorso, oppure potrebbe essere per lo stimolo a leggere nei suoi ricordi i nostri, ricordando, appunto, quella volta che. Di solito, nell'affrontare una mostra, il primo stimolo che subisco è una specie di voglia di mettere ordine: di individuare, in un caos apparente, nell'impatto improvviso, forse inatteso, con la moltitudine di stimoli che la costituiscono, un itinerario la cui meta è l'ordine, non inteso come indicatore di un inizio e di una fine, quanto come chiave di lettura e interpretazione. “I ricordi futuri” proposti da Fabbroni non impongono un itinerario preciso. Potrei limitarmi a leggere la pelle della mostra, le sequenze fotografiche, i valori cromatici, gli equilibri compositivi, l'importanza della valigia... e, racimolando qualche luogo comune e due frasi fatte, restituirne un ritratto critico fascinosamente impenetrabile. Oppure no. Potrei, come sto cercando di fare, non senza un pizzico di irrequietezza, raccontare il sussulto, la fiammata, l’incontenibile appetito per l’esistenza che ne costituiscono il senso. “I ricordi futuri” rappresentano il brusio suggestivo e luminoso della ricerca. Quella meravigliosa ed attraente scoperta che qualcosa è diverso e potrà ancora, sempre, essere diverso. L'impatto con le mille foto che tappezzano le pareti,

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all'inizio straniante, si risolve dapprima nell'imposizione di una distanza ideale tra lo spettatore e l'opera, alla quale segue, in capo a pochi attimi, la sensazione di un deja-vu, di aver conosciuto i luoghi e i volti fotografati, di aver vissuto i ricordi che ci vengono mostrati. Le fotografie che nella nostra vita abbiamo personalmente scattato, sommate a una a una, equivalgono alla totalità di un intervallo in cui siamo stati assenti. Si scatta per estrarre un momento dal regolare fluire del tempo, così da conservare la prova di una presenza, dell'essere stati nel luogo e nel tempo dell’accaduto, in compagnia di questa o quella persona, ma, senza accorgercene, paghiamo, come pegno, la perdita di quel momento. Il nostro sguardo, perso nell’inquadrare la scena, si ferma a pochi metri dal luogo in cui la scena si realizza. Vediamo, registriamo, ma non ci siamo; siamo lì fisicamente ma un meccanismo fotografico si occupa di confermare la nostra assenza, lasciandoci l’eredità di un ricordo vissuto e veduto in scala. In questo senso, confrontarsi con la mole di foto presentata da Fabbroni equivale a confrontarsi con la quantità di ricordi dai quali ci siamo volontariamente, inconsciamente assentati. La visione dei luoghi, delle persone, dei sorrisi e dei momenti che l'artista ha immortalato ha una tale portata da indurre la mente a perdersi, a recuperare la nostalgia dei nostri momenti e dei nostri sorrisi, dei luoghi e delle persone che abbiamo fotografato. Ogni volta che ci siamo fatti da parte per acquisire un ricordo fotografico, ci siamo posti come registi della nostra vita, lasciando a altri il compito di viverla come attori protagonisti, alleggerendo il nostro curriculum vitae dell’hic et nunc esperienziale e sostituendo il ricordo alla sperimentazione dell’istante, la nostalgia all’impressione. Così, nel rivivere quelli che, parafrasando Marc Augé, potremmo chiamare non-momenti – momenti cioè, che tendono a non compiersi nell’attimo, ma nella nostalgia cui lo scatto di quel dato attimo darà vita in un futuro – ci si volge al centro della sala a fissare, ancora una volta 'in doppio', cioè sovrapponendo alla visione materiale, i ricordi dell'artista, una visione mentale, i nostri ricordi, la compensazione ideale del tempo che abbiamo smarrito astraendoci dal qui ed ora di cui sopra. Una valigia – inizio ideale di un viaggio, di un'esperienza, di un'epopea familiare – partorisce una storia alternativa a quella che adorna le pareti. Si tratta delle fotografie che ritraggono l'artista. I ricordi che spesso non ricordiamo, perché impegnati a viverli mentre venivano immortalati. Una nuova distanza si apre tra chi guarda e chi è guardato. Un differente approccio ci obbliga a rimappare il territorio del nostro vissuto in relazione a ciò che ci viene mostrato. Naturalmente il territorio non cambia, ma ridefinisce il proprio spazio antropologico inglobando il vecchio, obbligandoci a rivederne le tendenze e i contenuti. Lo spazio del fotografare, lo spazio del vissuto e lo spazio stesso che idealmente occupiamo sono determinati da una distanza che non può più collimare con la geografia fisica. Lo iato che intercorre tra chi ha scattato e chi ha vissuto fisicamente lo scatto diventa un vuoto incolmabile, una distanza siderale, un percorso che non potendosi realizzare fisicamente, annulla la contiguità geografica e ne definisce un'altra, emozionale e ipotetica. Se ogni sguardo mediato dalla macchina fotografica pone nella situazione di superiorità chi inquadra, e in quella di oggetto da esaminare colui che è inquadrato, il percorso si rinnova nella visione degli scatti. Nello spazio fisico, l'osservatore fissa, forse giudica, la fotografia; nello spazio mentale, allo stesso osservatore si chiede di diventare il soggetto fotografato e pertanto l'oggetto esaminato, e di ricordare, immedesimandovisi, gli scatti subiti, nel tentativo di annullare quella distanza a favore di una nuova contiguità, squisitamente concettuale e mnemonica”. (Antonio Senatore - personale “I ricordi Futuri” – ex Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Perugia – dicembre 2012) “Che cos’è la fotografia? Apparentemente la risposta può sembrare molto semplice. La fotografia è quella tecnica che permette, a chiunque, di riprendere fatti, avvenimenti, manifestazioni della realtà e della vita. Ma addentrandoci più approfonditamente nel suo significato, il discorso si complica nel senso che dobbiamo, per forza, inserire ulteriori elementi. Non possiamo, ad esempio, non tenere conto del punto di vista di chi fotografa o dello strumento impiegato per fotografare o, ancora, del contesto entro cui si effettua la foto. Questi tre elementi concorrono ad arricchire di significati e, anche, di funzioni la foto e permettono al fruitore di analizzare e di interpretare con più precisione la foto. Possiamo dire che tra questi tre elementi ci sono dei collegamenti intertestuali che ci permettono di comprendere il messaggio che la foto vuole trasmetterci. Ma procediamo con ordine. Il punto di vista rappresenta l’”occhio” del fotografo, la sua sensibilità e il suo interesse per un dato fatto ripreso sia esso un’espressione umana o un avvenimento naturale. Il punto di vista è sempre una personale interpretazione, possiamo affermare che non esiste un punto di vista obiettivo od oggettivo. Lo strumento fotografico ha un ruolo importante nell’interpretazione della foto perché ogni strumento ha un proprio linguaggio: un telefonino sarà diverso da una macchina fotografica, un tablet sarà diverso da una telecamera, ecc. Ma soprattutto è diverso la funzione per cui sono “nati” che implica e guida una prima interpretazione. Infine, il contesto rappresenta il primo elemento per iniziare ad ipotizzare delle interpretazioni. Per una buona analisi della foto non bisogna tralasciare il linguaggio proprio della fotografia: dall’inquadratura al fuoco, alla prospettiva, all’illuminazione. Dall’unione di tutti questi elementi evidenziati riusciamo, o dovremmo, riuscire a comprendere il messaggio che la foto vuole trasmetterci. Nello specifico dei lavori di Fabbroni , possiamo dire che le foto assumono di per sé un significato particolare: sono scatti che fermano nell’immediatezza fatti e momenti di vita quotidiana che hanno colpito la sensibilità di Fabrizio, non importa la qualita’ dello scatto, ma nella loro semplicita’ amatoriali rappresentano una profondita’ di visioni che ti rapiscono e ti fanno riflettere su tante cose che ci circondano e nella fretta di tutti i giorni ci sfuggono Fabrizio in questo senso con un telefonino, a nostro avviso, è riuscito nel mostrarci tutto cio’. Il telefonino, infatti, rappresenta l’immediatezza e la velocità del nostro tempo. A differenza della foto in studio o, comunque, preparata con le dovute strumentazioni (cavalletti, luci, contrasti, ecc.), la foto con il

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telefonino rappresenta l’improvvisazione e la “cattura casuale” di un momento. Ed è forse questo il punto di forza di questo tipo di foto: cogliere casualmente un’istantanea della realtà. Complimenti “ (GianCarlo Belfiore - personale “I ricordi Futuri” – ex Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Perugia – dicembre 2012)

Allestimento - inaugurazione

Fase 1: mostra

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Smontaggio

Fase 2: istallazione nella natura

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04.01.2013

07.02.2013

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25.02.2013

04.03.2013

fase 3: pubblicazione video

https://www.youtube.com/watch?v=EgkxqMSPLrE

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Personale “GLI SCUDI DI GIASONE” (2011)Cassero di Porta Sant’Angelo – Perugia

La mostra attuale ha origini lontane. Erano gli anni settanta, avevo iniziato l’Università e tutta la famiglia si era trasferita nella nuova casa, immersa nella campagna a ridosso della città. Oltre alle lotte del ’68, avevo un’altra passione: il mito e la mitologia greca; due momenti che potrebbero sembrare all’opposto. In realtà non lo erano.Le prime sculture furono “gli dei”. Una serie di sculture in legno d’olivo in cui volevo rappresentare i volti degli dei come io me li immaginavo. Poi. Una mostra personale nel 1984, allestita a Corciano dal titolo “Allegorie d’amore”, in cui ho voluto affrontare la vita dell’uomo, partendo dalle storie d’amore e di morte presenti nei poemi epici greci, con una particolare attenzione alle Argonautiche di Apollonio Rodio, per me, il più grande poeta epico del tardo ellenismo. Oggi, la mostra “Gli scudi di Giasone” Apollonio narra di Giasone, eroe ed antieroe allo stesso tempo, impegnato in un percorso umano complesso in cui l’amore con Medea diviene così salvifico che quasi lo soffoca come uomo, ma accettato per il raggiungimento del Vello d'Oro. È un errore parlare di Giasone come uomo, per me, egli è un “maschio” con tutti gli istinti primordiali e acquisiti, anche i più reconditi, che spingono il maschio contemporaneo al suo successo, al raggiungimento dello scopo della sua vita a qualsiasi prezzo. Sebbene scritte nel II sec. A.C. nelle Argonautiche si rilegge un percorso di vita e come non vedere nella storia di Giasone un “maschio” contemporaneo che pur di raggiungere il suo scopo scende a qualsiasi compromesso, sino ad accettare di sposare Medea pur di raggiungere e conquistare il vello d’oro. Giasone ha uno scopo ben prefissato nella sua mente: per riavere il suo regno DEVE raggiungere il vello d’oro, come non pensare al detto di Guicciardini “il fine giustifica i mezzi”, che per alcuni secoli ha giustificato molteplici nefandezze. Trasponiamo Giasone e Guicciardini oggi.Come non vedere il mio malessere nel vivere in un momento in cui, l’essere Giasone e Guicciardini porta alla mancanza di rispetto dell’altro pur di raggiungere il proprio scopo ed il proprio tornaconto. Ma Giasone e Medea sono proprio eroi negativi ? La VERITA’ vera è da scoprire in questa mostra.

Fabrizio Fabbroni

“Fin dall’antichità l’esegesi del testo mitico ha riconosciuto in esso l’allegoria, la metafora in cui sono adombrate le stesse verità espresse compiutamente nel “logos”, ovvero nel discorso razionale. E così, se Platone ancora attribuiva al mito la capacità di esprimere quelle verità che, pur’essendo logiche, non possono essere oggetto di una conoscenza in senso proprio, già Aristotele riteneva il mito un racconto fantasioso, nel quale tutt’al più è racchiusa una piccola parte di verità, rivelabile con chiarezza soltanto dal pensiero razionale. Tutttavia lo sforzo millenario di prendere le distanze definitivamente dalla irrazionalità sottesa a questi oscuri racconti, in tutta la storia del pensiero occidentale non è mai riuscito a compiersi definitivamente e l’attrazione ch’essi esercitano ancora oggi ha trovato proprio nell’arte un canale di espressione e di trasmissione privilegiato. Nella figurazione, infatti, l’immagine diviene il mediatore capace di fondere il nome con la forma, il ché fa assumere all’opera una duplice valenza “Del nome ha l’ èidos, l’idea, della forma, moprhé, la palese sembianza (eikòn), senza la quale l’idea non potrebbe mostrarsi” (G. Marchianò, La cognizione estetica tra oriente e Occidente, 1987, p. 168). Le Argonautiche di Apollonio Rodio, più che un mito in senso proprio narrano in forma di poema un ciclo eroico, famoso fin dall’epoca di Esiodo e di Eschilo, i quali con diversi accenti e ben prima del bibliotecario alessandrino, avevano narrato le vicende di Giasone e di Medea, protagonisti complicate peripezie e tragici eventi legati a una contesa pelliccia di montone, il vello d’oro, capace di assicurare prosperità e ricchezza a chi lo avesse custodito. E’ questo lunghissimo racconto il tema ispiratore delle opere di Fabrizio Fabbroni, un artista eclettico che in questa mostra si misura con la fragilità. Una sfida, la sua, che non investe solo l’aspetto tecnico e materiale delle opere, per la maggior parte realizzate in cartapesta o gesso, ma che, piuttosto, è tesa a riflettere sulla la vulnerabilità come elemento ontologico della psicologia maschile. Guerriero valoroso, certamente, ma spesso indeciso, riflessivo, quasi timoroso sulla strada da prendere per raggiungere il suo obiettivo, Giasone rappresenta l’uomo contemporaneo, che sa cogliere le opportunità, sa cavalcare le occasioni ma non esita a divincolarsi dai legami affettivi, dagli obblighi di gratitudine, dalle situazioni scomode quando questi non siano più convenienti. Un opportunista, di certo, ma anche un personaggio carico di umanità, eroe e antieroe allo stesso tempo, condannato dalla sua stessa incertezza, dal senso di inadeguatezza che lo domina, a non veder mai compiersi del tutto i suoi ambiziosi progetti. Anni luce lo separano da quella passione tragica e sconvolgente che invece anima Medea, prima sua sposa, poi vendicatrice crudele del suo tradimento. Protagoniste della mostra sono dunque le fragilità morali di un guerriero di cartapesta, rappresentate da otto grandi oploi dipinti e decorati, che si richiamano alle indimenticabili descrizioni omeriche: […]e stagno,/oro prezioso e argento e bronzo inconsumabile gettò nel fuoco; e poi/ pose sul piedistallo la grande incudine, afferrò in mano/ un forte maglio, con l’altra afferrò le tanaglie./ E fece per primo uno scudo grande e pesante,/ ornandolo dappertutto; un orlo vi fece, lucido,/ triplo, scintillante, e una tracolla d’argento […] (Omero, Iliade, Libro XVIII, vv. 474-480). Segni distintivi, ornamenti e strumenti di difesa allo stesso momento, questi scudi così effimeri riescono comunque a evocare, lontano, il fragore della battaglia, reso credibile

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dallo spazio scenico offerto dalle mura dell’antico Cassero. Ma non manca un omaggio a Medea, fautrice infaticabile dell’eroismo del suo uomo, espressione di una femminilità e di una grazia giovanile che nell’evolversi si corrompe, tramutando la virtù della fedeltà e dell’amore in cieca, inumana follia. A lei è dedicata un’opera in gesso dipinto, dorato e innestato con sottili lamine bronzee che in cinque “quadri” sintetizza il tragico compiersi del suo destino di figlia, sorella fratricida, compagna di avventure, sposa tradita e madre assassina. Tra le opere compaiono alcune figure lignee, muti simulacri di divinità olimpiche, come Zeus, al cui volto imperturbabil le venature dell’olivo, sapientemente scolpite e dipinte, donano un colorito ambrato, Athena, immaginata dall’artista come un’antica Magna Mater, una divinità cicladica dalla femminilità esondante più che non la dea sapiente e guerriera protettrice degli eroi, e altre figure ancora, a segnalare il ricorrere di un tema che a Fabbroni è caro da tempo. Queste plastiche antropomorfe, infatti, come pure il grande scudo rettangolare in gesso, anch’esso ricco d’intarsi in rame, di dorature preziose, di campiture colorate, sono elementi di una mostra realizzata nel 1968, oggi rivisitati, restaurati e posti in dialogo con la contemporanea fragilità degli scudi. In questa mostra si confrontano così due modi quasi opposti d’interpretare il mito, sia sotto il profilo teorico e contenutistico che, di riflesso, sotto quello tecnico ed estetico. Interprete però è lo stesso artista, la stessa persona; forse, però, non lo stesso uomo che era e che è”. (Marina Bon Valsassina – personale “Gli scudi di Giasone” – Museo delle mura urbiche, Cassero di Porta Sant’Angelo, Perugia – 11 novembre 2011)

“Oggi, ci troviamo di fronte ad un fenomeno di emancipazione femminile molto diffuso, che riguarda ogni aspetto sia del pubblico che del privato. Questo tipo di emancipazione, però, è molto diverso da quello che ci si prefigurava agli inizi del pensiero femminile: sarebbe meglio definirlo, quindi, come un'assimilazione che si rapporta ai modelli meno significativi del maschile. Risulta necessario ancora riflettere, pensare, analizzare quale sia il modello di civiltà a cui si chiedono diritti, pari opportunità e potere; la riflessione si è conclusa troppo presto, per la fretta di occupare un posto, senza però vedere in che modo. La fede eroica delle donne le ha condotte a concepire l'emancipazione o nell'imitazione dell'uomo in campo pratico e ideale o nell'ergere un muro tra i due sessi, il muro della differenza, dove ognuno rimane dalla propria parte, senza alcuna possibilità di comunicazione. Le donne alla definizione data del femminile da parte degli uomini ne hanno aggiunta un'altra, compiendo così lo stesso errore. La "maternità sociale delle donne" di cui parlavano le prime femministe, come tentativo di estendere alla vita sociale un sapere ed una competenza che apparteneva a ruoli domestici, e le cosiddette "virtù del cuore", sono state messe da parte dalla frenesia per la lotta, per l'affermazione di un nuovo primato. La figura dell'isterica, volto patologico del femminile, ci ha consegnato un enorme materiale per riflettere sulla sessualità, la creatività, l'individuazione delle peculiarità femminili, ma anche su questo aspetto la riflessione si è bloccata troppo presto. Allo stato odierno si dà priorità alla logica del potere, della contrattazione, del mercato e le donne vivono con trionfalismo i propri corpi, la propria seduzione, la propria fatica per arrivare a questi traguardi, senza accorgersi della profonda contraddizione in cui incorrono. La tenacia che accompagna queste donne di oggi fa sì che esse parlino di problemi che le riguardano da vicino, ad esempio quello della fecondazione assistita, come se parlassero d'altro e d'altri. Il legame con la sfera privata, da cui si è partiti, va mantenuto a tutti i costi, la zona lasciata alla casualità, alla precarietà, che rappresenta la vita di ogni singolo, va preservata. Ci sono stati degli strappi violenti o forse in quel momento necessari, che vanno ricuciti, per donare continuità ad una riflessione, che solo se sarà lenta e non si farà perdere dall'inganno della facile conquista, potrà dare i suoi frutti. La donna è sempre stata identificata con qualsiasi figura, tranne quella che le appartiene realmente. Essa, a causa del suo modo di pensare e di agire differente da quello degli uomini, non è mai stata vista da questi ultimi come loro simile. La cosa più triste è che la donna ha reso proprio questo modo maschile di concepire il suo universo ed ha accettato di essere una mancanza; ha quindi avuto continuo bisogno dell'appoggio dell'uomo per divenire completa. La donna è stata condotta a "preferire la verità dell'altro e a usare come criterio di verità la coincidenza del proprio pensiero con il pensato e il pensabile dell'altro", ad essere quella Penelope, regina del focolare, capace solo di attendere il suo Ulisse, uomo astuto e audace, dimenticando però che quella stessa Penelope è capace di inventare uno stratagemma, al pari del cavallo di Troia dell'amato, ovvero l'inganno della tela. La donna è relegata quindi all'attesa e all'ascolto. Il pensiero della differenza vuole, invece, fare in modo che essa faccia proprie l'azione e la parola, una parola che non si rivolga alla concretezza dell'universo maschile, ma che sappia di femminile. In un rapporto vero, basato sul prendersi cura, l'io e il tu non rimangono immutati, ma sono in trasformazione: l'io vede il tu come straniero, come mistero, ed è attratto da questa mancanza, distanza, esitazione, in cui lo spazio e il tempo acquistano un valore diverso, in cui il futuro rappresenta una rottura per l'ingresso in una realtà nuova, dove possa regnare una coesistenza pacifica di tutte le forme di differenza". (Marta Mentasti – personale “Gli scudi di Giasone” – Museo delle mura urbiche, Cassero di Porta Sant’Angelo, Perugia – 11 novembre 2011)

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Tabloid tascabile

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Gli scudi degli Argonauti

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Lo scudo di Giasone

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Il vello d’oro

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Inaugurazione

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Personale “COME PER INCARTO” (Anno 2010)Salone d’Onore Palazzo della Provincia di Perugia

Fabbroni è tornato a esprimersi in forma plastica, rivolgendo la sua attenzione alla ceramica, un materiale da sempre legato alla tradizione artigianale e artistica umbra, oggi presente a pieno titolo anche nella produzione seriale meccanizzata. Ed è proprio dalla materia utilizzata per la lavorazione industriale che Fabbroni trae le sue forme. Il sodalizio professionale ormai stretto da tempo con la ditta Carini di Gualdo Tadino gli ha permesso, infatti, di conoscere nel dettaglio le diverse fasi del processo che conduce un certo quantitativo di sabbia, argilla e altri elementi che costituiscono il composto inorganico originario a trasformarsi, grazie all’acqua, prima in una palla duttile e omogenea, poi in una lastra morbida e pastosa destinata ad assumere la forma di un oggetto specifico attraverso l’impressione di uno stampo o attraverso una modellazione manuale. Una volta essiccata all’aria, la “creazione” così ottenuta viene cotta in forno a più di 900-1000°, trasformandosi così in un oggetto rigido e al tempo stesso fragilissimo, da decorare e poi ricuocere a temperature lievemente più basse (intorno ai 900°) affinché gli smalti si fondano, acquistino lucentezza e diventino un tutt’uno con il supporto sul quale sono stati stesi. Preziose finiture applicate utilizzando la foglia d’oro e d’argento o la madreperla vengono in ultimo fissate in maniera omogenea attraverso una nuova cottura, la terza, che imprime all’oggetto la capacità di riverberare tutt’intorno la sua brillantezza abbagliante. Proprio così un tempo nasceva il prezioso vasellame “da pompa”, destinato a rallegrare le mense principesche, quello che, per intenderci, ha reso famosa nel mondo la produzione dell’eugubino Giorgio Andreoli; scriveva di lui Giovanbattista Passeri “ I suoi lavori supplivano allora nelle case dei principi e dei gran cavalieri luogo di argenterie, onde questa arte doveva essere in gran pregio e la pittura, esercitava gran prestigio dei gran signori, passava per esercizio nobile” (“Istoria delle pitture in maiolica fatte in Pesaro”, 1752). Oggi, con procedimenti meno empirici – ma anche meno suggestivi e straordinari - dopo innumerevoli tentativi otto-novecenteschi volti a ritrovare quell’antico “segreto” dell’arte rinascimentale italiana andato irrimediabilmente sepolto con la fine della bottega di Mastro Giorgio, si è raggiunto un buon compromesso tra padronanza tecnica del procedimento e creatività artistica nella fabbricazione di opere “da esposizione”. Partendo da queste premesse, cioè dalla conoscenza della millenaria storia della ceramica e del suo strettissimo legame con la storia artigianale e artistica dell’Umbria, ciò che più ha interessato e attratto Fabbroni è stata la possibilità d’intervenire inserendosi nel processo industriale e traendo da esso la materia per le sue opere. A monte vi è una riflessione consapevole intorno all’uso della tecnologia nel campo ceramico che ha coinvolto nel processo ideativo e produttivo anche l’architettura e il design, ambiti nei quali Fabbroni già da tempo opera professionalmente. Quelle lunghe, interminabili strisce di creta spesse all’incirca 1 centimetro e larghe 17, che escono dal nastro in un continuum dall’apparenza inarrestabile, hanno attratto l’attenzione dell’artista, suggerendogli inedite forme e soluzioni originali, alle quali ispirarsi per realizzare i lavori presentati in questa mostra. Tra le sue mani quei nastri di argilla bianca o rossa prendono vita, trasformandosi in sculture suggestive e avvolgenti, alle quali le pennellate larghe e spesse - date utilizzando per lo più i colori freddi (blu, verde, violaceo) della ceramica industriale, oppure le calde tonalità dei coloranti per il legno - imprimono il senso dell’opera d’arte, impreziosita dagli intarsi realizzati utilizzando la foglia d’oro o d’argento o gli smalti perlescenti che rimandano riverberi in ogni direzione. Una prima esemplificazione di questo tipo di creazioni, per la verità, Fabbroni l’aveva già offerta lo scorso luglio, presentando alla mostra “Retaggi”, allestita presso il Museo della Canapa di San’Anatolia d’Inarco, alcune sculture realizzate lavorando il medesimo materiale; la decorazione in quel caso si atteneva però strettamente ai criteri di quella esposizione, volta a esaltare il valore di una produzione agricola – quella della canapa, appunto – assunta a emblema di una tradizione e di una cultura contadina ormai irrimediabilmente scomparse. Protagoniste di Come per incarto, le sculture di Fabrizio Fabbroni si presentano invece, nella mostra perugina, come lunghi nastri in ceramica, ora annodati morbidamente a formare ampie volute, ora compressi in anse strette a cui smalti pastosi e sottili corde di rame o di ottone conferiscono la forma d’insoliti strumenti musicali; o, ancora, stesi orizzontalmente con annodature dall’apparente casualità, organizzano lo spazio del “biscotto” suddividendolo in tasselli alternati di smalti e metalli.Tre serie nettamente distinte di opere, che numericamente obbediscono a una meditata teoria numerologica - 5 o suoi multipli che si confrontano con una data quasi palindroma, 10.10.10 – alla quale l’Artista obbedisce rigorosamente. Sotteso vi è il fascino di Fabbroni per gli antichi procedimenti aritmetici, dalla sezione aurea quale ideale medio-proporzionale di bellezza e armonia espressa dalla formula

Ø = 1 +√5 ≈1,6180339887 2alla cosiddetta successione di Fibonacci e alla suggestione del numero “10”, simbolo ciclico di completamento cui segue necessariamente un cambio di circostanze. La prima serie, quella dei “Nastri”, trova spazio nella grande Galleria del Palazzo della Provincia e sembra richiamare per la seducente morbidezza delle forme e la serica, lucente, trasparenza del decoro, lo svolazzare delle vesti, dei veli e delle eleganti cinture di Perugino o di Raffaello, quasi fossero isolati particolari macroscopicamente estesi. A seguire la seconda, intitolata “Corde di violino”. La materia in questo caso si presenta totalmente trasformata: strette piegature mutano la rigidità della terracotta in una flessuosa

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compressione, esaltata da stratificate pennellate stese utilizzando coloranti per il legno. Le venature così ottenute e le corde di rame o di ottone che si tendono verticalmente, trasformano questi oggetti in sconosciuti strumenti musicali dal suono misterioso, disposti come se mani di musicisti invisibili fossero pronte ad avviarne il concerto. Mi hanno fatto pensare a Schopenauer, quando scrive che la musica “oltrepassa le idee, risulta essere del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, anzi lo ignora e potrebbe in qualche modo sussistere anche se il mondo non esistesse” (A. Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro III, § 52) Infine la terza serie, “Alchimie”, presenta 5 pezzi che alludono in forma d’arte alla ricerca esoterica dell’onniscienza, conquistata attraverso complessi processi che combinano chimica, fisica, metallurgia, arte e filosofia. Collocate nella Sala Partecipazione, queste opere realizzate con strisce in pasta rossa che assumono forme allungate orizzontalmente sono decorate utilizzando i colori a vetro (bianco, giallo, blu e nero) e impiegando la foglia d’argento, d’oro e di rame, rifinita con vernice lucida a finire. Un sogno alchemico di terzo millennio che testimonia il perdurare nei secoli di una ricerca esoterica intesa come crescita spirituale, strettamente connessa con la sperimentazione fisica e la trasformazione realizzata su oggetti materiali, da cui scaturiscono, in questo caso, opere d’arte. (Marina Bon Valsassina – personale “Come per Incarto” – Palazzo della Provincia, Perugia – 10 ottobre 2010)

Note in margine a “come per incarto” Vengo da terra in cui il mito mastrogiorgesco riassumeva in se e contemplava suggestioni ceramiche millenarie. Il che ha voluto dire, al tempo della pianificazione del Museo del Vino, volgere alla ceramica un interesse raziocinante e, considerato il collegamento che essa ha con la bevanda in oggetto per preparazione, consumo, storia, avviare con la ceramica la prima delle raccolte. Oggi le note che nel percorso museale commentano reperti di civiltà remote e quelle che evidenziano influenze, svolte, ricerche avvenute nell’ultimo millennio, rimandano a vicende politiche, economiche, a costumi, a correnti di gusto e di pensiero. La suggestione emanante dalla terra modellata dalla mano dell’uomo in inscindibile connubio, è evidente e costante. Giunti alla grande metamorfosi, profilatasi con il connubio arte- industria e realizzatasi con la meccanizzazione, l’uso di materiali e colori inattesi, confesso le sofferte incertezze. Risolvemmo affidando a un bel boccale a lustro della C.A.M.A. , d’eco dannunziano, celebrante una mostra nazionale di vini in Chianti e a contrapposto, coevo Gio Ponti, il passaggio al contemporaneo; avviammo così l’apertura di un settore che nei primi anni ’90 fu in realtà il primo, piccolo museo di ceramica contemporanea in Umbria. Sono consapevole da tempo della validità di materiali e tecniche che sempre più hanno legato la ceramica alla scultura, alla grafica, alla pittura, tutto consentendo, dall’astrattismo alla emotività della citazione e guardo ai “nastri” di Fabbroni come a felice conferma di quanto la sapiente creatività dell’artista può trarre da altro, similare connubio costituito da nuove terre e da macchina offerente. La varietà stessa degli usi, investiti di simboli, che il nastro può assumere ne segnarono l’ assegnazione alla donna secondo la logora concezione che di lei si aveva, prova ne è il languoroso “nodo d’amore”. I nastri in realtà evocano nodi e dal gordiano, tagliato dalla spada di Alessandro, ai tanti che si incontrano nella favolistica, nel quotidiano - ivi comprendendo quello delle cravatte ahimé abbandonate - è tutto un ripetersi allegorico di ostacoli da superare. I nastri di Fabbroni sono altra cosa, sono forme che evocano nastri tessuti e lanciati in aria nel corso di lontani giochi rituali, ripresi o lasciati fluttuare e cadere, avvolti su sé tessi ma sono anche rotoli di papiro o pagine di un volumen su cui restano tracciati brani di poesia, come a Torgiano nel piatto di Pianezzola. Evocano il colore di ceramiche ancestrali di ambito mediterraneo e non, delle ittite, ma anche il fondo attico della ceramica a figure nere. I segni richiamano nel loro tracciato la geometrica laziale, la daunia, la precolombiana, tutto coralmente e gioiosamente affastellando. Il colore. La suggestione del lustro islamico, le ricerche quello che fu l’impareggiabile successo del lustro rinascimentale rivivono nelle opere esposte in “Come per incarto” una nuova vita. Indubbio richiamo alle ricerche alchemiche e alla tramutazione dei metalli, questi nuovi lustri divengono messaggi insoliti, che grazie alla forte carica poetica e all’eco musicale sollecitano al futuro.

Maria Grazia Marchetti LungarottiLa ceramica di Fabrizio Fabbroni“A mezzo di trafile manuali o meccaniche si può sagomare l'argilla in diversi modi, in forma di contenitori di vario tipo, di elementi decorativi per l'architettura, di manici per brocche, strisce e bordure decorative”. Così Nino Caruso a proposito delle tecniche di trafilatura ed estrusione per la produzione di ceramica. La creatività di Fabrizio Fabbroni ne ha colto rapidamente le potenzialità artistiche e, dal flusso continuo dall'estrusione dell'argilla allo stato plastico, ne ha ricavato una molteplicità di varianti non affidate al caso, ma in rapporto progettuale tra le caratteristiche del mezzo, della materia e risultato estetico, quasi a voler attualizzare l'idea di arte industriale che ebbe fortuna dalla metà dell'Ottocento e forte impulso nei primi decenni del secolo scorso. Oggetti-scultura originali, con linee sinuose annodate, arricciate, o a forma di cartigli svolazzanti, rese da nastri interrotti che si sviluppano in senso orizzontale o verticale, che l'artista denomina semplicemente “Nastri” ricavati da argille da maiolica o terraglie dipinte sotto invetriatura, o su terracotta con interventi pittorici a freddo che divengono perciò “Alchimie” per la trasformazione chimica dei colori-ossidi metallici sotto l'azione del fuoco. “ Corde di violino”, infine, allorché la ceramica supporta applicazioni di metalli filiformi o si avvolge di una fitta rete metallica che, a noi del

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mestiere, ricorda la tradizione popolare del restauro all'uso di pentole e brocche. Ma la dimestichezza di Fabbroni con le tecniche e i linguaggi della ceramica rivisitati con originalità e modernità tutta personale, è espressa, in ultimo, dalle iridescenze metalliche dei lustri e riflessi che applica ad impreziosire le sue opere, nel rispetto di una consolidata tradizione custodita nella fabbrica Carini di Gualdo Tadino.

Giulio BustiConservatore del Museo Regionale della Ceramica

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“NASTRI”

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“CORDE DI VIOLINO”

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“ALCHIMIE”

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Personale “RETAGGI” (Anno 2010)Museo della Canapa - Sant’Anatolia di Narco (TR)

“Una rete metallica imbriglia e circoscrive un intero universo e, di fatto, indirizza lo sguardo di chi osserva in un cono prospettico quasi obbligato, al cui interno sono sistemati, come fossero concetti materializzatisi in oggetti, alcuni elementi fondamentali e pertinentissimi se si tiene conto del contesto, insoliti e curiosi se se ne astrae: ora sono chicchi di canapa, ora un filo, ora un pezzo di corda, che sbalzano dallo smalto omogeneo del supporto ceramico, esaltati dalla pennellata verdognola e densa del decoro, a volte impreziosita dai riverberi aurei del lustro. Un intreccio di linee, un sistema di chiusura a maglie larghe racchiude così un microcosmo. E’ questa l’espressione scelta da Fabrizio Fabbroni per esordire in pubblico come artista, collocandosi all’interno di un contenitore – il Museo della Canapa – che gli è caro e familiare.Architetto e scenografo, Fabbroni ha infatti collaborato al progetto e all'allestimento di questo museo dedicato alla cosiddetta “cultura materiale”, rimanendo affascinato, quasi prigioniero, di quell’antico mondo rurale, ormai scomparso, nel quale affondano le radici della gente umbra. Un’esperienza simile, del resto, come museaografo l’ha realizzata anche a Piegaro, curando il progetto del Museo Paleontologico di Pietrafitta, un work in progress che intorno ai fossili va costruendo l’identità culturale di un territorio, da tramandare ai posteri assieme alle memorie del passato più remoto della civiltà umana nel nostro territorio.E’ proprio da qui, da questo itinerario della memoria che scaturiscono le opere ceramiche di un apparente outsider, ovvero di un artista che pur non vantando una carriera tradizionale come pittore o scultore in senso stretto, può comunque rivendicare un impegno per l’arte che dura letteralmente “da una vita” e che va assommando alla ricerca e alla sperimentazione di materiali e tecniche, la pratica di progettista e di designer professionista. Figlio di un restauratore, pittore, scultore di buon livello come Fernando Fabbroni, Fabrizio ha trascorso molta parte della sua vita nell’Accademia di Belle Arti di Perugia - dove tuttora insegna e della quale è stato anche Direttore in anni recenti - confrontandosi quotidianamente con colleghi e studenti in un mondo fervido e stimolante, irrequieto, perennemente alla ricerca di nuovi traguardi e di contaminazioni tra linguaggi che spesso anticipano le evoluzioni stesse della storia e del pensiero. Guardando questi lavori e penetrando attraverso essi il senso stesso che l’artista ha voluto dare alla sua mostra, è ineludibile estendere il discorso a una riflessione su Fabbroni museografo. Anzi possiamo dire che “creatore” e “creatura” risultano cosi complementari da sospettare, legittimamente, che le opere ceramiche qui presentate concludano compiutamente un percorso espositivo attentamente meditato, concretizzando in qualche modo l’auspicio che molti anni fa faceva Bruno Toscano in un bel saggio dal titolo Arti “meccaniche”, musei “liberali” (in Antiche maioliche di Deruta, catalogo della mostra, Spoleto 26 giugno – 13 luglio 1980). “[…] Non si pretende, naturalmente, che il museo “esponga” ogni tipo di conoscenza riconducibile agli oggetti presenti. Ma non è dubbio che quando la raccolta di cui disponiamo non possiede sufficientemente caratteri di organicità, continuità, rappresentatività, l’esigenza di testimoniare adeguatamente il rapporto tra ciò che è rimasto e ciò “che non è più” (o che non è più qui) deve trovare una risposta nell’ambito del museo […]”. E, ancora, “[…] In un museo così rinnovato, nelle sue componenti stabili e nelle attività che esse saranno capaci di realizzare, l’arte potrà essere studiata anche come strumento interpretativo dell’area culturale in cui si vive: a più forte ragione l’arte “minore”, la cui storia è anche, in modo tutto particolare, storia di forme d’uso del territorio e delle sue risorse […]”.E’ infatti nell’insieme che vanno viste e interpretate le opere di Fabbroni, in un contesto largo che comprende ed esalta in primis il percorso espositivo sulla storia della produzione di canapa a Sant’Anatolia di Narco, ma che si estende, attraverso l’uso della ceramica, alla secolare tradizione di artigianato artistico dell’intera Umbria, chiarendoci così come i fili metallici delle reti “da pollaio”, o quelli realizzati con la canapa intrecciata che serrano i piatti, alludano a un apparato radicale profondo, ancestrale, che costituisce appunto un “retaggio” di civiltà che affiora alla memoria e muove la mano dell’artista”. (Marina Bon Valsassina – personale “Retaggi” – Museo della Canapa, Sant’Anatolia di Narco, luglio/dicembre 2010)

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piatti

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sculture

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Inaugurazione

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Pietanze a base di canapa

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personale pleine air “OPERA UNICA” (2005)Azienda Agricola “Valcastagno” - Ponte d’Oddi - Perugia

Una carta “fatta a mano” da un maestro cartaio, una foglia di oro zecchino, il desiderio di creare un mondo fantastico. Così nasce l’azione artistica di “opera unica” inserita nella natura. 200 opere di piccolo formato che vogliono fermare un attimo e conquistano la loro posizione nella natura, perché è li la loro naturale collocazione. Realizzate con materie prime naturali, i fiocchi di cotone per la carta, l’oro, i colori in polvere miscelati con chiara d’uovo, ritornano alla natura e lasciano un segno indelebile tramite la fotografia dell’evento.

Alcune opere

Personale “PORTA DI ACCESSO” (2004)Galleria Spazio Possibile – Perugia

“Porta di accesso” è una mostra personale che utilizzando una nuova sperimentazione vuol entrare nel mondo dell’arte e della cultura all’interno di uno spazio galleria. Le opere realizzate in gesso sottile riprendono la tecnica dell’affresco e dell’encausto, sperimentandolo ed aggiornandolo. Il procedimento segue il tempo, il suo ritmo attendendo l’asciugatura, la coloritura, la sovrapposizione di colori naturali.

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Personale “LA VOCE DELLA PIOGGIA È LA MIA VOCE” (1999)Sala Vincioli Agello

La mostra nasce da un appassionato studio e lettura sugli “indiani d’america”, in particolare sulle poesie della tribù dei Navajos. Da sempre appassionato delle vicende degli indiani, dei loro concetti di vita nella natura, della loro arte, del loro culto della morte, del loro modo di pensare il mondo, ho letto e riletto un libretto di poesie, che mi hanno aperto un mondo fantastico di pensieri profondi legati alla natura ed al modo di vivere nel rispetto della natura. Da qui la mostra realizzata su pannelli di legno con carte incollate, colori primari naturali.

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Personale “MUSICA, SEGNO E MATERIA”Scuola di Lingue Estere dell’Esercito a S. Giuliana – Perugia, (1998)

“Si scopre, osservandone le opere come Fabrizio Fabbroni ami ispirarsi alle favole, al mito e come nel contempo ciò vada a costituire un tema che l'artista si dà;poiché questo modo di procedere non solo è adatto a tutelare il suo modo di fare arte, ma anche a prendere le distanze da tutto ciò che ancora persiste nei generi e nelle ormai esaurite tensioni della gran parte dell'arte attuale.Allora dal tema di Iside e Osiride o del corpo del faraone, sparso a formare la terra d'Egitto, emerge un'analogia con il tema della luce e dell'ombra, con la ragione vitale, che consente alle idee, alla capacità intuitiva, alla zona leggera e diffusa dell'Essere senza forma, di divenire forma dell'Essere. Rinnovata forma d'arte persistente.Si tratta di un sentire alto, di percepire la sonorità del mondo, di entrare dentro la composizione delle cose.“Di sciogliere le cose dure e fisse per fissare le cose leggere e volatili”; allora la composizione, come l'accostamento o la combinazione di elementi o di materie diverse compongono non solo il rinnovamento dell'arte, inteso come linguaggio, ma fondono il fenomeno unitario dell'opera, ove ancora una volta l'opera è caricata di vita propria, a rifondare la vita propria dell'opera, dell'opera d'arte”.(Edgardo Abbozzo - personale “Musica, segno, materia – Chiostro Complesso di Santa Giuliana, Perugia 1998)

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personale “ALLEGORIE D’AMORE” (1994)Torrione di S. Maria– Corciano

Un periodo particolare della vita personale, un matrimonio a pezzi, sintomi di separazione, ci si guarda dentro e nascono delle opere che partendo dalla lettura di testi antichi sugli eventi mitologici, sulle opere dei greci antichi, sulle religioni e sui rapporti tra unomo e donna hanno portato alla realizzazione di opere di forte impatto emotivo.Lo spazio, lo splendido torrione di Santa Maria a Corciano, con la sua ruvidità strutturale ha contribuito nell’atmosfera che mi ero prefissato.

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