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n. 1-2 | Gennaio - Giugno 2017 Tribunale di Roma n.2114 del 27-4-1951 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70%-C/RM/DCB Bollettino ufficiale dell’A.N.E.I. - Associazione Nazionale Ex Internati - Pubblicazione trimestrale destinata ai soci - 00165 Roma - Via S. Francesco di Sales, 5 - Registrazione del Memoria significa sce- gliere la giustizia al posto della legalità for- male. Dobbiamo ricor- dare per lottare». Lo ha detto il sindaco di Na- poli, Luigi de Magistris, aprendo l’incontro tra Raffaele Arcella, presi- dente nazionale dell’asso- ciazione ex internati nei Lager nazisti, e gli stu- denti dei licei classici napoletani Sannazaro, Umberto, Vittorio Ema- nuele e De Nicola. «Cre- do – ha affermato il sin- daco – che non ci sia modo migliore per ricor- dare che ascoltare una testimonianza per evitare che simili tragedie si ripetano, anche se in alcune parti del mondo già si rivivono». Raffaele Arcella, classe 1920, notissimo avvocato del Foro di Napoli, ha raccontato agli studenti la sua storia, da quando era giovane studente del liceo Sannazaro a quando fu chiamato alle armi, fino alla drammatica esperienza della prigionia nei Lager nazi- sti. Con la consueta lucidità egli ha rievocato, fin nei dettagli, le terribili situazioni vissute per non aver voluto aderire alla RSI di Mussolini, e, quanto al periodo della guerra, ha detto ai giovani con sollievo di essere riuscito a non usare le armi contro nessuno Il sindaco al termine della sua testimonianza, che è stata una lezione di umanità impossibile da dimenticare, ha consegnato al nostro Presidente una medaglia della città di Napoli ed una targa, in segno di profonda gratitudine ed ammirazione per la sua instan- cabile attività a difesa e per l’af- fermazione dei diritti della perso- na umana. amc La città di Napoli al nostro Presidente Palazzo San Giacomo - 3 aprile 2017

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n. 1-2 | Gennaio - Giugno 2017

Tribunale di Roma n.2114 del 27-4-1951 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - C/RM/DCBBollettino ufficiale dell’A.N.E.I. - Associazione Nazionale Ex Internati - Pubblicazione trimestrale destinata ai soci - 00165 Roma - Via S. Francesco di Sales, 5 - Registrazione del

“Memoria significa sce-gliere la giustizia alposto della legalità for-male. Dobbiamo ricor-dare per lottare». Lo hadetto il sindaco di Na -poli, Luigi de Magistris,aprendo l’incontro traRaffaele Arcella, presi-dente nazionale dell’asso-ciazione ex internati neiLager nazisti, e gli stu-denti dei licei classicinapoletani Sannazaro,Umberto, Vittorio Ema -nuele e De Nicola. «Cre -do – ha affermato il sin-daco – che non ci siamodo migliore per ricor-dare che ascoltare unatestimonianza per evitare

che simili tragedie si ripetano, anche se in alcune parti del mondo giàsi rivivono». Raffaele Arcella, classe 1920, notissimo avvocato delForo di Napoli, ha raccontato agli studenti la sua storia, da quandoera giovane studente del liceo Sannazaro a quando fu chiamato allearmi, fino alla drammatica esperienza della prigionia nei Lager nazi-sti. Con la consueta lucidità egliha rievocato, fin nei dettagli, leterribili situazioni vissute per nonaver voluto aderire alla RSI diMussolini, e, quanto al periododella guerra, ha detto ai giovanicon sollievo di essere riuscito anon usare le armi contro nessunoIl sindaco al termine della suatestimonianza, che è stata unalezione di umanità impossibile dadimenticare, ha consegnato alnostro Presiden te una medagliadella città di Napoli ed una targa,in segno di profonda gratitudineed ammirazione per la sua instan-cabile attività a difesa e per l’af-fermazione dei diritti della perso-na umana. amc

La città di Napoli al nostro PresidentePalazzo San Giacomo - 3 aprile 2017

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SOMMARIOs

s

Direttore responsabile ed editoriale: Anna Maria Casavola

Redazione: Antonio Bernabei, Ilaria Conte, Maria Trionfi

Comitato Scientifico:

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Alessandro Ferioli (presidente)

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Finito di stampare nell’aprile 2017

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Le opinioni espresse dagli autori degli articoli pubblicati non impegnano in alcun modo la Direzionedel Bollettino. L’ANEI autorizza la riproduzione dei testi purché venga citata la fonte.

ANEI - Associazione Nazionale Ex Internati Ente morale dei Reduci dai Lager nazistiD.P.R. n. 403/1948 - Iscritta nel registro delle persone giuridiche della Prefettura diRoma n. 836/2011 - Codice Fiscale 80225230582Presidente Nazionale: Avv. Raffaele Arcella - Presidente emerito: Gen. Max Giacomini

Il prezzo della pace (Anna Maria Casavola) pag. 3

Calendario: Sessant’anni fa nasceva l’Europa pag. 7

Primo Levi, un testimone del suo e del nostro tempo(Alessandro Ferioli) pag. 8

V. Emanuele Giuntella, Primo Levi e gli ebrei (Anna Foa) pag. 14

Gli orrori della pace (Paolo Mieli) pag. 16

La congiura del silenzio intorno alle “foibe” ealla questione adriatica (Anna Maria Casavola) pag. 19

L’ANEI a Berlino: inaugurazione della Mostra IMI(Antonella De Bernardis) pag. 23

Enrico Toti, l’eroe con la stampella (Paolo Brogi) pag. 27

Soldati vittime delle esecuzioni sommarie(Giorgio Giannini) pag. 30

La Linea Gustav (Pietro Giovanni Liuzzi) pag. 32

Vito Artale, un Caduto alle Fosse Ardeatine pag. 36

Il linciaggio di Donato Carretta (Livia Serra di San Leo) pag. 37

Rosso Tevere (Marco Riscaldati) pag. 38

A settant’anni da Monte Sole (Alberto Mandreoli) pag. 39

Ricordiamoli pag. 43

Il genocidio dimenticato dei Rom (Giorgio Giannini) pag. 44

Calendario: 500 anni di riforma protestante pag. 47

Calendario: 25 anni fa “Mani Pulite” pag. 47

Libri segnalati pag. 48

Attività della Federazione di Padova pag. 50

Corrispondenza con le sezioni e con i soci pag. 54

Ricordo di Lino Fornale pag. 58

Bortolo Lot: un sommerso nel Kz “Laura” (P.Vittorio Pucci) pag. 59

L’ANEI e i giovani (Orlando Materazzi) pag. 61

Luigi Einaudi, discorso del 29 luglio 1947 pag. 64

“Il dovere del cittadino è un delittoquando faccia dimenticare il doveredell’uomo… Se sapessi qualcosa chegiovasse alla mia patria e nocesseall’Europa oppure che giovasse al -l’Europa e nocesse al genere umano,lo considererei come un delitto”:“Sono uomo prima di essere franceseo meglio sono necessariamente uomoe francese soltanto per caso”.

Charles Louis de Secondatbarone di La Brede e di Montesquieu

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IL PREZZO DELLA PACEIl trattato con l’Italia

Parigi 10 febbraio 1947

Le conseguenze gravissime della sciagurata guerrafascista a fianco della Germania negli anni 40-43, pensia-mo siano poco conosciute dagli italiani di oggi, se tantevolte si sente rimpiangere dall’uomo della strada i tempiin cui “ si stava meglio quando si stava peggio” e c’era inItalia “ un uomo solo al comando”. Dobbiamo dire che,salvo le leggi razziali, attribuite tra l’altro alla responsabi-lità di Hitler, non si è mai sentito veramente deprecare laguerra rovinosa nella quale Mussolini precipitò il nostropaese. Si tratta di amnesia, di rimozione o di scarsa o nes-suna conoscenza? Anche i libri di testo adottati nelle scuo-le, i manuali di storia, per decenni hanno omesso l’infor-mazione sugli argomenti più scabrosi, favorendo una revi-sione indulgente del fascismo, che in certi ambienti duratuttora. Così pure solo adesso, grazie all’apertura degliarchivi della ex Unione Sovietica, si comincia a sapere delnumero altissimo degli italiani non più ritornati dallafolle campagna di Russia, analogamente nell’ombra èrimasto il dramma dei 650 mila militari italiani internatinei Lager perché resistenti al nazifascismo, entrambi argo-menti per i loro risvolti politici lasciati al dimenticatoio.Similmente si è sorvolato sulle pesanti condizioni di pace

cui fu costretta l’Italia - considerata nazione nemica nonostante la Resistenza e l’apporto della cobellige-ranza. Il blocco sovietico, l’Inghilterra e la Francia agirono esclusivamente in funzione dei loro interessi dipotenza e di sicurezza; quanto agli Stati Uniti, pur costituendo il maggior punto di riferimento dell’Italianella trattativa, la loro preoccupazione fu piuttosto di arrivare ad un accordo che intervenire sui contenu-ti di questo. La pace fu sottoscritta a Parigi il 10 febbraio 1947, proprio 70 anni fa e, nella delusione gene-rale, il compito di firmare venne affidato al segretario generale della delegazione Antonio Meli Lupi diSoragna in qualità di semplice funzionario e non di politico, per conferire al gesto il basso profilo di unadempimento meramente formale]. Sul prezzo di questa pace vogliamo qui doverosamente richiamare l’at-tenzione *. Essa in particolare comportò, nella parte orientale, la perdita di lembi non piccoli del territo-rio nazionale, conquistati con grande sacrificio di sangue nella prima guerra mondiale, e il dramma dellapopolazione giuliana costretta a lasciare quei territori passati sotto la sovranità della ex Iugoslavia. Unesodo imponente di oltre 250 mila persone di cui in Italia si è avuta poca percezione se non fosse che daqualche anno è stato istituito, con la Legge 30 marzo 2004 n. 92, il Giorno del Ricordo da celebrarsi il 10febbraio per commemorare le vittime delle foibe del 1943-1945 e l’esodo, nel dopoguerra, di circa250.000 persone di lingua italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Quindi non solo l’esodo ma anche le stra-gi di italiani precipitati nelle foibe carsiche, prima della fine della guerra e poi a guerra finita, sono statiun altro colpevole gravissimo buco nero della nostra memoria nazionale.

* La struttura del Trattato di Pace con l’Italia era stata messa a punto nel luglio del 1946 e gli sforzi fatti da De Gasperi e dalla diplomazia italiana findalla conferenza di Londra del settembre dell’anno precedente e quindi da quella di Parigi, avevano avuto un esito molto parziale. L’Italia perdeva laVenezia Giulia in gran parte assegnata alla Jugoslavia e in parte costituita in entità autonoma senza rispettare la linea etnica, sulla cui base era stata for-mulata la proposta americana; perdeva inoltre Briga e Tenda cedute alla Francia; rinunciava unilateralmente a tutte le colonia, cedeva il Dodecannesoalla Grecia, l’isolotto di Saseno all’Albania. Limiti erano poi fissati ai suoi armamenti e valutata in cento milioni di dollari l’entità delle riparazioni diguerra dovute all’URSS.

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Fu una pace punitiva, senza condizioni, all’Italia non fu concesso di presentare alcun emendamento, trattatacome una nazione sconfitta. Questo rimarcò con amarezza nel suo esordio alla conferenza di Parigi del 10agosto 1946 Alcide De Gasperi, il Presidente del nuovo Governo della nuova Italia. «Prendo la parola in que-sto consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia quali-fica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hannogià formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione (…).

Forse il silenzio dei politici e dei media come pure la mancata epurazione dei vertici compromessicon il passato regime e la mancata punizione dei crimini commessi nella guerra fascista 1940-43, furonoconsigliati dalla paura che si rinfocolassero conflitti a destra e a sinistra e si ripetesse quella situazione diturbolenze che aveva caratterizzato, per la cosiddetta “vittoria mutilata,” il primo dopoguerra. Del resto ilcomunista Palmiro Togliatti si fece lui stesso sostenitore della concessione di un’amnistia per i reati com-messi in quel periodo e considerati politici, e l’atmosfera della guerra fredda, che già si respirava in queglianni, consigliava di sopire i risentimenti verso la Germania. Certo è che, in nome di una discutibileRealpolitik, per il perseguimento di una politica di pacificazione, si sacrificarono le vittime, la giustizia e laverità. Ora la Storia può essere maestra se la si legge nella sua interezza, nelle parti che ci piacciono e quel-le che non ci piacciono, perchè solo se conosciamo correttamente il passato, tutto il passato, possiamo direchi siamo e di quale memoria vogliamo essere eredi. Conseguenze di queste operazioni politiche di rimo-zione, occultamento, conoscenza parziale o manipolata dei fatti sono state la svalutazione della Resistenzaagli occhi degli stessi italiani, la sopravvalutazione del ruolo svolto degli Alleati, la difficile giustizia sui cri-mini di guerra perpetrati dai tedeschi e dai loro complici repubblichini sulle popolazioni civili in Italia, dicui si è avuta notizia solo negli anni 90 con la scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna”.. Certo lasvalutazione della Resistenza italiana si profilò già durante i lavori della Conferenza di pace e colse di sor-

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presa i nostri delegati, primo fra tutti Alcide De Gasperi, che si videro trattati come i rappresentanti di unpaese nemico, non di un’Italia che a prezzo di tante sofferenze, innumerevoli vittime e macerie si era libe-rata dalla dittatura fascista. De Gasperi si era fatto accompagnare dal padre dei sette fratelli Cervi:Agostino, Aldo, Antenore,Ettore, Fernando, Gelindo e Ovidio tutti uccisi per una rappresaglia e da EmmaDell’Ariccia, rappresentante dei partigiani della pace, e madre dei cinque fratelli Perugia, di cui tre:Giovanni, Mario e Settimio morti ad Auschwitz e solo due, Angelo e Lello, ritornati. Doveva essere unaspecie di biglietto di visita dell’Italia antifascista sotto il tallone tedesco. Ma il trattamento fu quello di unanazione sconfitta, una pace senza condizioni. Il testo era stato preparato dai Quattro Grandi, all’Italia nonfu consentito di presentare emendamenti.. A questo si aggiungeva l’aperta ostilità dell’opinione pubblicafrancese; la stampa annunciava a caratteri cubitali che l’Italia sconfitta si presentava al tribunale dei vinci-tori per pagare il fio delle sue colpe. Scrisse in quei giorni il New York Times “l’ironia della posizione diDe Gasperi è che egli debba subire la punizione dei peccati commessi dal regime che egli ha combattutoper tutta la vita”.

La testimonianza di Giuseppe Brusasca, ex presidente del CNL Alta Italia e componente della dele-gazione ci fornisce particolari inediti (cfr. Un uomo solo in difesa dell’Italia, edizione Movimento anzia-ni, Roma, 1984) e ci permette di ricostruire nei dettagli a situazione:

“Il 10 agosto 1946 all’ora fissata la delegazione italiana si presentò alla Conferenza. Venimmo ricevuti dalCapo del Cerimoniale del Senato francese che ci condusse in un locale di attesa dove rimanemmo fino a quan-do venne aperta la seduta. Nella mia esperienza di avvocato ebbi l’impressione del trattamento fatto agli impu-tati tenuti in camera di sicurezza fino all’ingresso in aula dei giudici. De Gasperi era tesissimo e si appartavanei vani delle finestre. Chiamati finalmente in aula, venimmo accompagnati ai seggi che ci erano stati riserva-ti: cinque per parte al centro dell’ultima fila in alto. Il nostro ingresso fece scattare innumerevoli macchine foto-grafiche e cinematografiche, mentre noi eravamo scrutati con la morbosa curiosità riservata agli imputati deigrande processi. Con un secco colpo di lunga bacchetta, George Bidault che presiedeva l’assemblea, dichiarò aper-ta la seduta … chiamato alla tribuna, pallidissimo, con il tormento della tremenda responsabilità che gravavasu di lui, De Gasperi iniziò con voce accorata il suo discorso che resterà sempre fra le più elevate difese degli inte-ressi di tutti i popoli “

Da italiano e da rappresentante di un paese che si era liberato dal fascismo egli rivendicò il valore dellaguerra di Liberazione e della cobelligeranza, che pure era stato riconosciuto all’Italia nel comunicato diPotsdam del 2 agosto 1945 nel quale si diceva chiaramente che l’Italia era stata la prima delle potenzedell’ASSE a rompere con la Germania, ma che era sparito nel preambolo del trattato e nei 78 articoli deltrattato stesso, cosicché si era cancellato il ruolo di riscatto avuto dal popolo italiano. Purtroppo anche lapromessa di entrare subito a far parte dell’organismo dell’ONU che sembrava compensazione alla bellige-ranza non fu mantenuta, l’Italia vi sarebbe entrata solo nel 1955 alla pari con altri Stati e De Gasperi, chemorì nel 1954, attese invano.

Ricordiamo le sue parole ferme, vibranti di giusta indignazione“Ora non v’ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avveni-

menti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lungacospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degliscioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parla-mentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di stato.(…).

“ Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo ita-liano che fu protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal popolo, attraverso l’AssembleaCostituente della Repubblica, merita meno considerazione sul terreno democratico?

La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: “delleForze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania”.

Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i ser-vizi di retrovia, del “Corpo Italiano di Liberazione”, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e “last butnon least” dei partigiani, autori soprattutto dell’insurrezione del nord. (…)

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Le perdite nella resistenza con-tro i tedeschi, prima e dopo la dichia-razione di guerra, furono di oltre100 mila uomini tra morti e disper-si, senza contare i militari e civilivittime dei nazisti nei campi di con-centramento ed i 50 mila patrioticaduti nella lotta partigiana. “

Ma, dopo aver contestatopunto per punto con lucidità dia-lettica e passione il diktat alleato,soprattutto nella parte riguardantela questione giuliana, a De Gasperinon restò che inchinarsi alle supe-riori ragioni dei vincitori. Lo fececon grande fierezza, con grandedignità, attingendo argomenti allanostra tradizione cristiana, umani-taria ed europeista e invocandodalle potenze una pace generale estabile. E una collaborazione tra ipopoli Come italiano, come democratico e rappresentante della nuova Repubblica, nella perorazione fina-le ai delegati sentì di potersi fare garante di quello che sarebbe stato il cammino futuro dell’Italia: “Signoridelegati, vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni prontoad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto, più umano”.

E davvero possiamo dire che l’Italia in breve riuscì a risalire la china e ad acquistare una sua autore-volezza in Europa nel dopoguerra, non solo per le capacità che dimostrò nel risollevarsi dalle macerie masoprattutto nel promuovere insieme con Germania e Francia le prime forme di comunità europea. La Cecacomprendente Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi nacque infatti nel 1951, comepatto di collaborazione economica per il mercato del carbone e dell’acciaio. Naturalmente l’artefice di que-sto avvicinamento fu Alcide De Gasperi, nella convinzione che solo un regime di libertà e di giustiziasociale, allargato a più Stati fino a comprendere tutta l’Europa, avrebbe potuto salvare la pace dalla minac-cia di altre terribili guerre. Insomma prendeva corpo il sogno dell’Europa unita. Già Piero Calamandreinel 1947, l’aveva visto incarnato nell’art. 11 della nostra Costituzione Repubblicana, paragonato “ad unafinestra da cui si potevano intravvedere, quando il cielo non è nuvoloso, qualcosa come gli Stati Uniti d’Europae del Mondo”. Quel sogno che oggi, a 60 dal trattato di Roma, che diede origine alla CEE, è fortementein crisi per il riemergere degli egoismi nazionali sotto l’onda del fenomeno epocale delle migrazioni e,dopo l’uscita della Gran Bretagna lo scorso anno, si profilano altre scissioni

Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, se l’Europa finirà o non finirà, ma l’Italia, secondo noi, nonpuò dimenticare la sua tradizione umanista ed europeista vecchia di due secoli da Carlo Cattaneo adAltiero Spinelli, che costituisce il fondamento della sua cultura, e a questa deve informare la sua politica,per migliorare non rinunciare al progetto Europa. Diceva Luigi Einaudi, altro grande europeista: “ Questoè l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare, l’unico ideale capace di salvare la vera indipendenza dei popo-li… Difendendo i nostri ideali a viso aperto, noi avremo assolto il nostro dovere.” Certo ci attendono tempidifficili ma i nostri padri, usciti dal massacro di due guerre, loro sono stati capaci di concepire questa spe-ranza:

L’idea europea è in cammino. Potrà momentaneamente sostare o deviare, ma nessuno può fermar-la. È come un fiume che scompare a fondo valle, ma dopo un cammino sotterraneo ricompare sottoforma di lago o di sorgente nuova.

Anna Maria Casavola

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CALENDARIO

Premio Nobel per la Pace per l’anno 2012 assegnato all’Unione Europea

L’Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace e della riconciliazio-ne, della democrazia e dei diritti umani in Europa.

Negli anni tra le due guerre, il Comitato norvegese per il Nobel ha attribuito diversi premi a persone chehanno lavorato per la riconciliazione tra Francia e Germania. Dal 1945, la riconciliazione è diventata una realtà.La terribile sofferenza nella Seconda guerra mondiale ha dimostrato la necessità di una nuova Europa. In un perio-do di settant’anni, Germania e Francia hanno combattuto tre guerre. Oggi la guerra tra la Germania e la Francia èimpensabile. Questo dimostra come, attraverso sforzi ben mirati e con la costruzione di fiducia reciproca, nemicistorici possono diventare stretti partner.

* * *“Proprio mentre l’Unione Europea sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali” – si

legge nel comunicato stampa – “il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più impor-tante risultato dell’UE: l’impegno coronato dal successo per la pace, la riconciliazione, per la democrazia”.

SESSANT’ANNI FANASCEVA L’EUROPA

ROMA,25 MARZO 19576 STATI

ROMA,25 MARZO 201727 STATI

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Due soli dati: pochi mesi fa Einaudi ha pubblicatole Opere complete di Levi, in due volumi per oltre3000 pagine, molto arricchite rispetto all’edizione del1997, con testi da poco recuperati e ben 200 pagine dinote critiche; inoltre due anni fa negli USA l’editoreLiveright ha stampato The Complete Works, in trevolumi per circa 3000 pagine, con tutte le opere levia-ne fino allora note tradotte ex novo o ritradotte meglioche in passato: cosicché Primo Levi è tra i pochi scritto-ri italiani proposti in inglese (il che significa in tutto ilmondo) dalla prima all’ultima paginai. Parlare di luisignifica parlare di un grande testimone del Lager, maanche e soprattutto di un grande scrittore.

Era la mattina del 19 ottobre 1945 quando PrimoLevi giunse alla stazione Porta Nuova di Torino, reduceda una breve esperienza di lotta partigiana terminatacon la cattura da parte dei fascisti; come ebreo, era statointernato nel campo di Fossoli e poi deportato adAuschwitz; dopo la liberazione del Lager, avvenuta il 27gennaio ‘45, aveva trascorso mesi prima di ritornare in

Italia. Una volta entrato in casa, in corso Re Umberto75, iniziò a parlare del Lager a famigliari e amici, tra-scorrendo giorni e notti a raccontare senza interruzione:«Voi non potete sapere – diceva – il bene che mi falasciar venir fuori tutto quello che mi sono tenuto den-tro. Il mio unico pensiero era di sopravvivere per rac-contare»ii. Cominciò inoltre a scrivere la sua esperienza,mentre riprendeva l’attività lavorativa come chimico deicolori e sposava Lucia Morpurgo. La spinta alla scrittu-ra stava quindi alle origini nell’urgenza di testimoniaree liberarsi da un peso: nella maturità Levi sostenne che,tra i motivi che spingono a scrivere, vi è quello di «libe-rarsi da un’angoscia. […] Non ho nulla da obiettare achi scrive spinto dalla tensione […]. Gli chiedo peròche si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarlacosì com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge:altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allonta-narla da sé»iii.

Alcuni memoriali sui campi nazisti furono compo-sti subito dopo il ritorno, talvolta mentre l’autore era

Primo Leviun testimone del suo e del nostro tempo

Nel 2017 ricorrono il 70° anniversario dalla prima edizione del libro “Se questo è un uomo” e il 30° dallamorte del suo autore. In questi ultimi decenni la figura di Primo Levi è diventata sempre più importante nelcampo non soltanto della letteratura concentrazionaria (dove è il massimo autore assieme a Elie Wiesel) ma del-l'intera letteratura occidentale contemporanea.

CONTRIBUTO STORIOGRAFICO

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ancora in convalescenza, proprio per rispondere al biso-gno di narrare: ricordo quelli di David Rousset,L’univers concentrationnaire (1945); di Robert Antel -me, L’Espèce humaine (1947); di Oreste Del Buono,Racconto d’inverno (1945). In quel periodo tanti redu-ci di guerra o prigionia inviavano alle case editrici i lorodattiloscritti per la pubblicazione; anche Levi lo fece,ma l’editore Einaudi rifiutò il suo libro: non piaceva lasua prosa limpida, in un periodo dominato dallo speri-mentalismo, e perfino l’argomento fu ritenuto prema-turo. Lo pubblicò invece Franco Antonicelli, un intel-lettuale antifascista, per la casaeditrice De Silva: il libro uscì in2500 copie col titolo Se questo èun uomo. Antonicelli riconobbesubito il valore dell’opera e perdescriverne la complessità usòparole lapidarie: «memoria, docu-mentario, opera d’arte»iv. Le ven-dite furono scarse, ma nel 1958 ilvolume fu stampato (con aggiun-te e varianti) da Einaudi e da quelmomento divenne una pietramiliare nella letteratura del Lager.La sua importanza sul piano sto-rico è enorme: Auschwitz avevaallora una notorietà minima,come del resto la Shoah, e l’argo-mento era imbarazzante perchéchiamava in causa le leggi razziali e il collaborazionismonelle deportazioni. Levi, che pure era stato partigiano,mise in primo piano le vicende degli ebrei: e questo fuun merito, ma anche una scelta scomoda.

Lo stile di Levi traeva ispirazione dagli studi licealiavendo come punti di riferimento Dante, l’AnticoTestamento, Omero, Shakespeare, Baudelaire, Rabelais,Dostoevskij e Mann; autori da lui assimilati, rielabora-ti e restituiti attraverso la scrittura: «l’influsso d’assiemedi questi maestri – è stato osservato – produceva unaprosa senza termini di paragone nella letteratura italia-na del ventesimo secolo», che proprio per la sua lonta-nanza dalla ricerca di quegli anni apparve ai critici del-l’epoca fuori dal tempov. Nella misura classica Levitrovò la compostezza necessaria per far decantare ildolore e riorganizzare il suo animo sconvolto. Egli ricer-cava la chiarezza come antidoto contro la retorica e per-ché gli appariva forse l’unico modo per contrastare ciòche d’irrazionale e ambiguo v’è in noi tutti. Anni piùtardi dichiarò che «non si dovrebbe scrivere oscuro, per-ché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speran-za di diffusione e di perennità, quanto meglio vienecompreso e quanto meno si presta ad interpretazioniequivoche»vi.

A sostenerlo nella ricerca della chiarezza di pensie-ro e scrittura – come regola assieme estetica ed etica –era la sua formazione scientifica: per lui intraprenderestudi di chimica era stata una scelta politica, ovvero ilrifiuto delle menzogne del regime fascista a cui s’oppo-nevano il razionalismo e lo spirito critico; la scienzainsomma rappresentava la verità capace di squarciare ilvelo della falsità, e la scrittura – come del resto avevainsegnato Galileo Galilei – doveva adeguarvisi. La pro-fessione di chimico lo aveva abituato alla compostezzanella descrizione dei fenomeni; all’esattezza nel «cercare

e trovare, o creare, la parola giu-sta, cioè commisurata, breve eforte»; all’obiettività del giudi-zio. Inoltre gli aveva portato indote la sintesi, ovvero descrivere«col massimo rigore e il minimoingombro». «Lo stesso mio scri-vere – ricordava – diventò un’av-ventura diversa, non più l’itine-rario doloroso di un convale-scente, non più un mendicarecompassione e visi amici, ma uncostruire lucido […] un’opera dichimico che pesa e divide, misu-ra e giudica su prove certe, e s’in-dustria di rispondere ai perché».A Philip Roth disse in seguito:«Ricordo di aver vissuto il mio

anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezio-nalmente viva […] non ho mai smesso di registrare ilmondo e gli uomini intorno a me […]. Avevo un desi-derio intenso di capire, ero costantemente invaso dauna curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica,quella del naturalista che si trova trasportato in unambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamentenuovo»vii. Accanto al conforto si faceva strada il piaceredi far emergere l’ordine dal caos della materia, produ-cendo un duplice punto di vista: quello dell’internatogettato nell’inferno di Auschwitz e quello dell’osserva-tore capace di sollevarsi al di sopra dei fatti per indagar-li razionalmente. Quel tono misurato che appartiene aLevi implica la rinuncia alla rabbia e ai particolari crudi,nella convinzione che insistere sulle atrocità nonaggiunga nulla alla comprensione dei fatti: «È più effi-cace una testimonianza fatta con ritegno che una fattacon sdegno: lo sdegno dev’essere del lettore, non del-l’autore […] Io ho voluto fornire al lettore la materiaprima per il suo sdegno»viii.

Eppure Levi ben conosceva le camere a gas: anzi, ilsuo primo scritto sui Lager fu un rapporto, redatto allafine del ’45 assieme al medico Leonardo De Benedettidietro richiesta delle autorità sovietiche, sulle condizio-

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ni igienico-sanitarie del campo di Monowitz; inoltre,oggi sappiamo che Levi tra il 1946 e il ’47 analizzò chi-micamente il gas dello sterminio, lo Zyclon Bix. Ma nellibro tutto questo non c’è; esso non fa leva su crudeltàeclatanti e ottiene forse l’effetto migliore, perché inatte-so, nella descrizione di piccoli atti. È il caso del kapòAlex, che trovandosi una mano sporca di grasso dopoaver spostato un grosso cavo metallico se la pulisce sullaspalla di Levi, strofinando prima il palmo e poi il dorso.È il caso inoltre della rapida occhiata che si scambianoLevi e quel dottor Pannwitz che lo esamina in chimicaprima di ammetterlo a lavorare nel laboratorio, e chenon sembra losguardo tra dueuomini ma quelloche passa «tra dueesseri che abitanomezzi diversi». Nederiva «un capola-voro letterarioproprio per l’im-pulso e il frenomeditatissimi chela pudica verità eil profondo senti-re morale hannoim presso alla nu -da cronaca»x.Quel tono misu-rato, in quantoresiste al tempo, siè rivelato il più adatto a trasformare la testimonianzaindividuale in uno dei più pesanti atti d’accusa controil nazifascismo e in memoria collettiva di tutti noi.

Tra ciò che colpisce di più nel discorso sul Lagerfigurano aspetti della quotidianità che ad Auschwitz ave-vano assunto un più profondo significato, pronto a rie-mergere nella memoria involontaria, ovvero quella chenon cerchiamo e che ci assale quando meno ce lo aspet-tiamo. Così avviene per la musica che accompagnava gliinternati al lavoro e poi li accoglieva al rientro: quellemarce suonate dall’orchestrina di Auschwitz – scriveLevi – «giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ul-tima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la vocedel Lager». Così avviene per gli odori. Proprio in chiu-sura di un elzeviro dedicato agli odori, Levi ricorda diesser stato colpito, in una visita ad Auschwitz nel dopo-guerra, dal puzzo di carbon fossile usato per il riscalda-mento delle case, un frammento del mondo libero cheegli aveva spesso percepito dall’interno dei reticolati:«Mi ha percosso come una mazzata: ha risvegliato a untratto un intero universo di ricordi, brutali e concreti,che giacevano assopiti, e mi ha mozzato il respiro»xi.

Tuttavia l’internamento ad Auschwitz rappresentauna condizione a tal punto “indicibile” che Levi, cometanti altri scrittori del Lager, ricorre a immagini ed echilinguistici tratti dall’Inferno dantesco. Il capitolo II (Sulfondo) mostra una nuova realtà popolata di demonihitleriani e caratterizzata dalla spogliazione spiritualedell’uomo, che comincia fin dalla porta d’ingresso alcampo, la cui scritta Arbeit macht frei ricorda quellainfernale Lasciate ogni speranza, o voi che entrate. Equesta non è una metafora ma un’allegoria, poichéAuschwitz non è come un inferno, ma è l’inferno: nona caso Levi parla di «discesa nell’universo concentrazio-

nario». Dante èquindi un puntodi riferimento persuggerire quantodi maligno risultaimpossibile de -scrivere, ma nonperde il suo valo-re di simbolod’italianità e dimo dello cultura-le, al punto cheLevi si serve pro-prio della Com -media per inse-gnare i rudimentidell’italiano aPikolo, sceglien-do quei versi del

Canto XXVI dell’Inferno in cui Ulisse esalta la pienez-za esistenziale dell’uomoxii.

Primo Levi può essere definito a pieno titolo unumanista, poiché si sforza di conoscere l’uomo e perchési serve della letteratura per indagare il senso della vitae per dare un senso alla vita, intessendo costantementeun dialogo con gli altri. In Se questo è un uomo l’ap-pello al lettore avviene sin dalla poesia proemiale («Voiche vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi chetrovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici…»),che contiene due imperativi – di scolpire nel cuore e diripetere le parole del libro ai figli – e lancia una maledi-zione finale nel caso in cui il lettore non adempia l’ob-bligo («O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedi-sca, / I vostri nati torcano il viso da voi»). Gli interlocu-tori di Levi sono dunque coloro che non sanno (o nonvogliono sapere) e che invece devono conoscere. Perciòquando egli vide alcuni tedeschi, nel viaggio di rimpa-trio, provò un’emozione forte: «Ci sembrava di averequalcosa da dire, – scrive – enormi cose da dire, ad ognisingolo tedesco, e che ogni tedesco avesse da dirne anoi. […] Sapevano, “loro”, di Auschwitz, della strage

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silenziosa e quotidiana, a un passo dalle loro porte? Sesì, come potevano andare per via, tornare a casa e guar-dare i loro figli, varcare le soglie di una chiesa? Se no,dovevano, dovevano sacramente, udire, imparare danoi, da me, tutto e subito»xiii. Levi chiede insomma allettore uno sforzo di comprensione, di penetrare in unarealtà molto diversa da quella che le parole esprimono,ma lo incarica altresì di formulare un giudizio. Quindiil suo bisogno non è solo di raccontare, ma pure di ren-dere gli altri partecipi. In occasione di una presentazio-ne del libro scrisse: «Mi auguro che venga letto comun-que: non solo per ambizione, ma anche nella sottile spe-ranza che il lettore si accorga che le cose loriguardano»xiv.

Nel 1963 Levi pubblicò La tregua, un libro conambizioni letterarie e stile più elaborato, che riaggan-ciandosi alla conclusione di Se questo è un uomo rac-contava la liberazione del campo da parte dell’Armatarossa e il difficile rimpatrio. Se il primo libro aveva nar-rato la discesa nell’inferno dantesco, questo s’ispirava almodello omerico dell’Odissea, dominato dalla speranzadi far ritorno a casa. In un frangente in cui milioni diprigionieri e internati dovevano rimpatriare, la rete fer-roviaria era in larga parte danneggiata e i trasporti mili-tari avevano la precedenza, Levi intraprese un lungo tra-gitto della durata di nove mesi fra viaggio in treno esoste nei campi di smistamento sovietici, passandoattraverso Polonia, Russia, Romania, Ungheria, Ceco -slovacchia, Germania e Austria. Anche qui Levi è ingrado d’illuminare il mondo del Lager attraverso unagalleria di personaggi inimmaginabili. Tra questi tocca-no il cuore del lettore i bambini di Auschwitz: uno èKleine Kiepura, un dodicenne che era stato il favoritodel kapo e dopo la liberazione non si capacitava che ilsuo mondo fosse imploso, sognava nel suo delirio diessere diventato un kapo, insultava gli ebrei e minaccia-va di mandarli in forno; un altro è Hurbinek, un bam-bino di tre anni nato nel Lager, paralizzato, che nonsapeva parlare, si esprimeva con uno sguardo struggen-te e morì a breve.

Fu di nuovo la professione di scienziato a fornirgli– assieme ad Auschwitz – la materia prima, d’ispirazio-ne per i personaggi e gli intrecci. Uscirono così i volu-mi di racconti Storie naturali (1966), Vizio di forma(1971) e Lilìt (1981). Le novelle sono per lo più di fan-tascienza o fantabiologia, popolate di animali immagi-nari o d’improbabili combinazioni fra elementi umani,animali e vegetali, e sembrano anticipare un futuroinfestato di innovazioni scientifiche dall’effetto ambi-guo, con prodotti industriali quali il Mimete, cheduplica gli oggetti, o il Knall, un cilindretto che uccidecon discrezione nel raggio d’un metro. I racconti dise-gnano così una società futuribile dominata da macchi-

ne inventate dall’uomo ma a cui l’uomo ha delegatotroppo, al punto da perderne in libertà, responsabilità eabilità. Il “vizio di forma” è dunque un’anomalia nellaciviltà e nella moralità che prefigura i volti ambiguidello sviluppo. Va inoltre menzionata un’opera decisivaper la comprensione di Levi: Il sistema periodico(1975), una raccolta di racconti dove a ogni elementodella Tavola periodica di Mendeleev corrisponde unepisodio della vita dell’autore.

Col romanzo La chiave a stella (1978) Primo Levicreò il personaggio di Tino Faussone, un montatore distrutture metalliche. Attraverso di lui volle rendereomaggio al lavoro tecnico, che presuppone periziamanuale e intelligenza ed è lo strumento che permetteall’uomo di misurarsi col mondo esterno. La frase pro-nunciata da Tino: «Ogni lavoro che incomincio è comeun primo amore», è la dichiarazione che l’uomo non èfatto per odiare il lavoro, ma anzi per esprimere attra-verso di esso un’etica delle cose ben fatte. E difatti,come colse Roberto Vacca, Faussone ha «un rapportovitale, inventivo e anche passionale con tutti i lavori chefa»xv. Nel 1982 Levi pubblicò “Se non ora, quando?”,un romanzo d’invenzione (ma basato su dati storici)sulle vicende di un gruppo di ebrei dell’Europa orienta-le che, dopo aver formato una banda partigiana, mettea segno furti di camion, assalti ai treni e azioni di guer-riglia dove talvolta i tedeschi sono costretti a fuggire.Con questo libro Levi affrontava il problema della resi-stenza ebraica in Russia e in Polonia, aprendo una rifles-sione sui momenti in cui, avendone la possibilità, gliebrei (la pretesa razza inferiore) si erano difesi cononore: «Combattiamo per salvarci dai tedeschi, – diceGedale – per vendicarci, per aprirci la strada; ma soprat-tutto […] per dignità». Entrambi i romanzi, pur cosìdiversi, erano accomunati da un’originale ricerca lingui-stica: nella Chiave a stella Levi fa parlare Faussone conl’italiano regionale delle fabbriche del nord Italia, pove-ro nella sintassi ma ricco di tecnicismi, mentre per Senon ora, quando? elabora una parlata basata sulla linguayiddish degli ebrei dell’Europa centro-orientale.

Ho ricordato diversi scritti di Levi, anche non lega-ti alla testimonianza del Lager, perché oggi la criticaevidenzia l’importanza della sua opera per intiero e loconsidera uno scrittore che usa più generi letterari ediverse forme espressive. Del resto le sue due linee nar-rative fondamentali – la testimonianza e la finzione –sono spesso in una relazione di coesistenza e di comple-mentarità. Ciò è attestato da un capitolo del Sistemaperiodico, Vanadio, in cui Levi narra del suo contattocasuale nel dopoguerra con un chimico della I.G.Farben col quale ha una corrispondenza di lavoro.Riconoscendo in lui un tecnico di Auschwitz, Levivuole stabilire un rapporto privato che gli consenta di

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approfondire la vicenda di quell’uomo, che non haavuto responsabilità diretta nello sterminio, eppure eralì, nel 1945, a lavorare serenamente in una fabbrica ali-mentata dal lavoro schiavistico degli internati: unuomo che Levi giudica «né infame né eroe» e con cuivorrebbe fare un bilancio del passato. Ebbene, è statodimostrato che in quel racconto Levi non soltanto hacambiato il nome del chimico tedesco (lo chiamaMüller anziché Meyer), ma ha altresì “aggiustato” i fattiin modo tale da semplificarli senza cambiarne la sostan-za, così da produrre una narrazione più efficace e fun-zionale alla testimonianzaxvi.

Il bisogno di scandagliare Auschwitz e i suoi orga-nizzatori lo portò a impegnare decenni a smontare erimontare – come nel gioco del meccano che gli piace-va tanto da piccolo – il sistema dei Lager, nel tentativodi comprenderlo. Nel 1985 scrisse la prefazione all’au-tobiografia di Rudolf Höss, che di Auschwitz era statocomandantexvii. Verso la fine della sua vita riprese dinuovo il discorso pubblicando I sommersi e i salvati(1986), risultato di quarant’anni di riflessioni. QuiLevi, in un importante capitolo, formulò la nota defini-zione di zona grigia come quella categoria particolare diprigionieri che in vario modo avevano collaborato coinazisti e, perciò, avevano avuto privilegi indispensabilialla sopravvivenza, ma conquistati e goduti a scapito dialtri internati. Ancora una volta Levi spiazzò tutti, per-ché rifiutò la parte più comoda e rassicurante, quelladella vittima, per rimettere in discussione i ruoli all’in-terno del Lager: dai kapo agli scritturali, dai capibarac-ca ai cuochi secondo diverse gradazioni di collusione,questa «classe ibrida dei prigionieri-funzionari» (Promi -nenten) illustrava la capacità dei nazisti di servirsi di

ausiliari tratti dalle loro vittimeper gestire il potere e, al con-tempo, svelava la disponibilitàdegli oppressi a collaborare pertrarne un vantaggio. Ne scatu-riva un ripensamento del siste-ma concentrazionario che rico-nosceva nel contagio del malel’operazione più diabolicacompiuta dai nazisti, i qualiassociarono a sé parte delle lorovittime caricandole di ambi-guità o addirittura – come nelcaso dei Sonderkommando cheavevano gestito le camere a gas– di responsabilità orrende.Insomma, allo stesso mododegli elementi chimici il male ètalvolta così impercettibile eben nascosto all’interno del-

l’uomo che è difficile snidarlo. Levi affrontò anche ilproblema della vergogna del sopravvissuto, un “disagio”che può derivare dal non essersi ribellato ai nazisti (ecome?) e di essere sopravvissuto al posto di altri inveceingoiati dal Lager; oppure dall’aver mancato verso icompagni in termini di solidarietà; o infine – e questala chiama “vergogna del mondo” – per il fatto cheAuschwitz era comunque una realizzazione di uomini eil frutto di una civiltà comune. La conclusione de Isommersi e i salvati è un’ammonizione: «È avvenuto,quindi può accadere di nuovo». La testimonianza èinsomma per Levi un modo per meritare la vita, maanche un modo per costruire il futuro, perché la cono-scenza di ciò che è stato consente di decidere che tipodi società realizzare e in quale mondo vivere.

Non si può però trascurare che la testimonianza èsoprattutto una reazione alla politica nazista dellamemoria, che aveva fra i suoi obiettivi la negazionedella realtà e la cancellazione dei fatti avvenuti. DifattiLevi fu testimone del Lager non solo in ambito lettera-rio ma anche in quello giudiziario. Quando a Berlino,tra la fine del 1971 e i primi mesi del ’72, si tenne ilprocesso al maggiore delle SS Friedrich Bosshammer,egli consegnò al pubblico ministero Dietrich Hölzneruna lista contenente 76 nomi di compagni di viaggioche, da Fossoli, erano stati deportati ad Auschwitz pertrovarvi la morte, perlopiù nelle camere a gas. In occa-sione della sua deposizione, Levi donò al magistratouna copia di Se questo è un uomo, che fu allegata agliatti del processo. Bosshammer fu poi condannato all’er-gastolo per la deportazione di 3500 ebrei italianixviii. Ilsignificato della presenza attiva dell’uomo che “erastato” nel Lager riemerse alla fine degli anni settanta

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con l’apparire degli storici negazionisti. Quando i gior-nali francesi dettero spazio alle teorie di RobertFaurisson, che contestava la finalità omicida delle came-re a gas e il progetto nazista di sterminio degli ebrei,Levi intervenne pubblicamente: «Se lei nega la stragecompiuta dai suoi amici di allora, – scrisse – deve spie-garci perché i diciassette milioni di ebrei del 1939 eranoridotti a undici nel 1945. […] Deve smentire ciascunodi noi sopravvissuti»xix.

Primo Levi si occupò, nella maturità, anche di temidi attualità. Uno di questi fu il conflitto tra arabi e israe-liani. Egli ovviamente difendeva il diritto all’esistenza diIsraele, lo Stato creato nel 1948 da una generazione discampati allo sterminio e che rappresentava l’unicoluogo ove gli ebrei potessero costruire una patria e vive-re sicuri, ma in più occasioni disapprovò l’aggressivitàdel governo di Israele e, per esempio, denunciò pubbli-camente l’invasione del Libano del 1982, attirandosi lecritiche di esponenti della comunità ebraica. L’altrotema su cui intervenne spesso fu il rapporto fra scienzae letteratura, che per lui non costituivano due cultureseparate ma una sola. Perciò agli scienziati chiedeva unpreciso impegno etico, cioè di non nascondersi dietro«l’ipocrisia della scienza neutrale» ma di sapere e valuta-re il fine delle proprie ricerche; anzi, propose persino ungiuramento per gli studenti dei corsi scientifici che liobbligasse a usare le loro competenze per la causa dellapacexx. Ma anche gli scienziati hanno attinto spunti di

riflessione da Levi: è noto che Franco Basaglia, il medi-co che riformò gli ospedali psichiatrici in Italia metten-dosi dalla parte del paziente, aveva letto Se questo è unuomo come la descrizione di un grande esperimentoscientifico-antropologico, trovando lì la conferma allesue tesi che portarono alla cosiddetta “legge Basaglia”del 1978 sui manicomixxi.

Primo Levi è morto l’11 aprile 1987 – forse per sui-cidio, poiché soffriva di una grave depressione. NellaTregua aveva narrato di essersi reso conto fin dal ritor-no a casa dell’impossibilità di liberarsi di quello chechiamava «il veleno di Auschwitz» e aveva raccontatod’un sogno nel sogno, dove tutto era finto fuorchéAuschwitzxxii. Inoltre al suo ex compagno di prigioniaJean Samuel (quello che chiama Pikolo nel libro) si erafirmato spesso col numero di matricola che portavatatuato sul braccio: «Primo, ex 174517»xxiii. Eppure,nonostante tutto, anche davanti ai peggiori pericoli(dalle guerre ai rischi ambientali) aveva sempre cercatodi trasmettere ai lettori la speranza e l’ottimismo, soste-nendo che non si possa affrontare la vita convinti diperderexxiv. Oggi è ancora utile accostarsi all’opera diPrimo Levi come a un mezzo privilegiato per compren-dere aspetti oscuri e controversi non solo del Lager maanche del mondo in cui viviamo, fino a renderci contoche, come il viaggio di Dante, l’esperienza di PrimoLevi è un’autobiografia di noi tutti.

Alessandro Ferioli

1 P. Levi, Opere complete, a c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016; P. Levi, The complete works of Primo Levi, edited by Ann Goldstein, LiverightPublishing Corporation, New York-London 2015.

2 M. Anissimov, Primo Levi o la tragedia di un ottimista, Baldini&Castoldi, Milano 1999, p. 446. Cf. anche M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di pro-filo, Guanda, Milano 2016.

3 P. Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1985, pp. 33-34.4 E. Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007, p. 30.5 D. Scarpa, Il terzo incomodo: un invito a frequentare Primo Levi, «Quaderns d’Italià», 19 (2014), pp. 11-27.6 P. Levi, Dello scrivere oscuro, «La Stampa», 11 dicembre 1976. Cf. inoltre P. V. Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi, in: Primo Levi: un’antologia della

critica, a c. di E. Ferrero, Einaudi, Torino 1997.7 P. Levi, Cromo, in Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975; P. Roth, Salvarsi dall’inferno come Robinson, «La Stampa», 26 novembre 1986.8 P. Levi, Conversazioni e interviste: 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, p. 214.9 P. Levi con L. De Benedetti, Così fu Auschwitz: testimonianze 1945-1986, Einaudi, Torino 2015.10 F. Antonicelli, L’ultimo della catena, «La nuova Stampa», 31 maggio 1958.11 P. Levi, Profumo di donna, «La Stampa», 7 ottobre 1984.12 P. Levi, La tregua, Torino, Einaudi 1967, p. 18. Cf. T. Taterka, Dante Deutsch. Studi sulla letteratura dei Lager, Sette Città, Viterbo 2002.13 Levi, La tregua cit., pp. 248-249.14 Ferrero, Primo Levi cit., p. 21.15 R. Vacca, Primo Levi: lavorare col ferro e poi scrivere, «Tuttolibri attualità», 10 febbraio 1979.16 C. Angier, Il doppio legame. Vita di Primo Levi, Mondadori, Milano 2004; Anissimov, Primo Levi cit., pp. 314-341.17 R. Höss, Comandante ad Auschwitz, pref. di P. Levi, Einaudi, Torino 1985.18 Primo Levi racconta al magistrato di Berlino gli orrori di Auschwitz, «La Stampa», 4 maggio 1971. Cf. Levi, Così fu Auschwitz cit., e D. Scarpa, La

memoria chimica di Levi, «Il Sole 24 ore», 25 gennaio 2015.19 P. Levi, Ma noi c’eravamo, «Corriere della Sera», 3 gennaio 1979.20 P. Levi, Covare il cobra, «La Stampa», 21 settembre 1986; Levi, Conversazioni… cit., p. 174; Anissimov, Primo Levi cit., pp. 665-666.21 M. Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi, Torino 2011.22 Levi, La tregua cit., pp. 251-253.23 J. Samuel con J.-M. Dreyfus, Mi chiamava Pikolo, Frassinelli, Milano 2008.24 Levi, Conversazioni… cit., p. 179.

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Così, nel suo libro Il nazismo e i Lager,Giuntella descrive il suo primo incon-tro con i deportati ebrei. Ebrei e inter-nati militari si affiancano in questoricordo, come si affiancano in questapagina di Primo Levi:

«Intorno all’8 settembre, essendoebreo e quindi tagliato fuori dall’esercito edalle università, mi sono aggregato ad ungruppo di partigiani. Incontravamo masse di militari ita-liani provenienti dalla Francia, da tutta Italia che viag-giavano in senso opposto; chi per andare a casa, chi allaricerca di armi, chi alla ricerca di un capo. Tutti questi exmilitari, con cui parlavamo, avevano da dire una cosa sol-tanto: non si doveva più fare la guerra con i tedeschi, per-ché avevano visto cosa essi avevano fatto: erano stati alfronte in Grecia, in Jugoslavia, in Russia e dicevano:“Questa non è guerra, questi non sono alleati, non sono sol-dati non sono uomini”. L’unità che ci ha legati è nata daquesta umanissima evidenza che è quella dell’umanitàpura e semplice, che in Italia, malgrado molti difetti degliitaliani, vive ancora. Questo è, mi pare, un primo elemen-to da non trascurare per delineare l’apporto degli interna-ti militari» dice Levi nel 1967 in questo testo pubblica-to nel 1967 nei Quaderni dell’ANEI, scritto a soli ven-t’anni dalla Liberazione: la scelta. La scelta è ciò chePrimo Levi riconosce senza esitazione ai militari depor-tati nei campi come ai detenuti politici, deportati neicampi per la loro attività antifascista ed antinazista.

Un testo straordinario in cui già emerge e vienedecisamente respinta quella che molto più tardi saràdefinita la concorrenza delle vittime. Un tema che con-tinua ad essere proposto, nonostante le ricerche chehanno arricchito enormemente l’immagine dell’interouniverso concentrazionario e reso quanto mai inade-guata ogni prospettiva di concorrenza tra le vittime.Una scelta che a sua volta Giuntella sottolinea in untesto del 1991: «Il Lager degli italiani non fu un univer-

so di vinti e di affamati; fu un mondo diresistenti, che prese su di sé la dignità el’onore di un Paese, che aveva assistito alcrollo di ogni autorità militare e civile, elottò in condizioni che non è esageratodefinire eroiche. Fu la presa di coscienzadi un gruppo di italiani, che nella mag-gior parte aveva avuto come sola esperien-za politica quella del fascismo, ma che

aveva valutato direttamente e sulla propria pelle i disastridella guerra fascista, che l’imbelle retorica dei suoi gerarchinon poteva più nascondere. Nel Lager avvenne un fattoanomalo. Proprio lì, in un mondo dove era preclusa ognivolontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli italiani perla prima volta di esprimere individualmente una adesio-ne, o un rifiuto, e si pronunciarono in massa per il rifiu-to».

Una scelta, badate, ci dice ancora Levi, che gli altri,gli ebrei, non hanno potuto fare non perché non aves-sero voluto (e il richiamo da lui nello stesso scritto e inaltre pagine alle rivolte sulla soglia delle camere a gas loribadisce) ma perché non avevano avuto la possibilità discegliere. Vecchi, bambini in culla, donne incinte, por-tate nei campi per quello che erano: «Detto questo, ebenché io sia stato arrestato come partigiano, porto qui,questa sera, la testimonianza di tutti coloro che non pote-vano scegliere, mentre per i giovani, per i giovani della miagenerazione, una scelta ci poteva essere (e nel mio caso c’erastata dopo): la scelta del no, del non aderire. Porto la testi-monianza di quelli che non potevano scegliere, vale a diredi tutti i cittadini ebrei italiani e stranieri».

Questo della scelta, non tanto le condizioni delladetenzione nei campi, sono ciò che differenzia la condi-zione dei “razziali”, per usare il linguaggio dell’imme-diato dopoguerra, da quella dei politici. Certo, c’eranole camere a gas e i crematori, sottolinea Levi, e questofaceva un’enorme differenza, ma «I prigionieri italianinon stavano molto meglio di noi; è vero che nei loro

V. Emanuele Giuntella, Primo Levi e gli ebreiLa scelta

«Gli ebrei erano molto pochi; a Lipsia, nel settembre del 1943, alla nostra tradotta di carri bestiame si era affian-cata un’altra tradotta, piena di donne e bambini. Noi eravamo militari e non ci sembrava strano esser fatti pri-gionieri dai tedeschi; ma rimanemmo molto scossi a vedere donne e bambini che non potevano che essere ebrei.Non riuscimmo a parlare, cosa che invece accadde poi nel secondo campo a Deblin Irena, dove al di là del nostroreticolato c’era un muro, al di là del quale c’erano delle ebree che si dicevano superstiti (per il momento) al mas-sacro del ghetto di Varsavia. Parlando in francese, cercavamo di tranquillizzarle, dicendo che sarebbe finita laguerra, anche perché in Italia non avevamo saputo nulla dei Lager nazisti e non sapevamo nulla della persecuzio-ne degli ebrei (e questo era molto grave); e queste ci raccontavano che cosa era successo nel ghetto di Varsavia”.

ANNIVERSARIO

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campi non c’erano le camere a gas con i crematori equesto è un particolare molto importante, ma … lecondizioni ambientali e di vestiario non erano moltodiverse dalla nostre».

Quando Primo Levi scrive queste pagine è il 1967:un anno cruciale per la costruzione e la trasmissionedella memoria della Shoah. Negli Stati Uniti, si discu-teva dell’unicità della Shoah, e Elie Wiesel l’avrebbeimposta al mondo intero come un dogma, contro l’uni-versalismo di Georges Steiner. In questa battaglia, Leviera universalista di spirito, anche se ha sempre sostenu-to con forza l’unicità della Shoah. Ma questo non lo hamai portato a quella che è stata definita la “concorren-za delle vittime”. L’unicità stava, più che altro, nelLager, macchina della morte principalmente per gliebrei, ma non solo per loro, non nel fatto che ad esser-ne vittime fossero gli ebrei.

Del resto, il dilemma sull’appartenenza, se apparte-nere a quanti erano deportati per quello che avevanofatto o per quello che erano, Primo Levi se lo era postogià all’inizio, quando era stato arrestato come partigianoed aveva dichiarato di essere ebreo: «preferii dichiarare lamia condizione di “cittadino italiano di razza ebraica”poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare altri-menti la mia presenza in quei luoghi troppo appartatianche per uno sfollato e stimavo (a torto come si vide poi)che l’ammettere la mia attività politica avrebbe comporta-to torture e morte certa», scrive in “Se questo è un uomo”.

Forse non tanto a torto, se molti partigiani sonostati fucilati o impiccati sul terreno, o morti in seguitoalle torture come Emanuele Artom o Willy Jervis.Certo, quello che allora Levi non poteva immaginareera il campo di sterminio, le camere a gas, il lavoro for-zato e la morte certa nel Lager. Questa seconda scelta diLevi (dopo la prima, di salire in montagna) non è quin-di quella fra due identità ma quella di chi cerca di sal-varsi, almeno momentaneamente.

Giuntella e Primo Levi si conobbero nel 1960, soloquindici anni dopo il Lager, e strinsero amicizia: «Cieravamo conosciuti qui a Torino in una memorabileserata, nel 1960, a parlare, in un teatro, ad una folla digiovani (e non più giovani) della deportazione. Mi colpìin quella prima volta (e da allora tutte le volte che citrovammo insieme a parlare) la chiarezza della sua espo-sizione, la semplicità del suo stile, l’assenza di risenti-mento personale, ma anche l’estrema nettezza, senzacompromessi, o mascheramenti, della sua posizione. Ilmale di Auschwitz, aveva scritto in Se questo è unuomo, ha contaminato gli uomini e si è diffuso comeuna pestilenza e il contagio è inarrestabile se non lo sifronteggia con energia. Forse il titolo del volume cheseguì a Se questo è un uomo, La tregua, voleva pro-prio riferirsi ad un esito, che poteva essere provvisorio».

L’incontro tra Giuntella e Levi non è quindi l’in-contro fra il portavoce degli internati militari e quellodegli ebrei deportati ma quello tra due sopravvissuti chesi ritrovano nel ricordare il Lager, testimoniarlo, raccon-tarlo. E se nei primi anni del dopoguerra Primo Levi siè sentito solo nel raccontare, comer il suo famoso sognoesprime, è anche vero che per Giuntella il percorso diricostruire la storia e la memoria dei settecentomilainternati militari è stato in salita. Non è che non sivolesse sentir parlare dello sterminio degli ebrei, non sivoleva sentir parlare dei campi, della deportazione.Dopo gli anni Settanta, il percorso di Giuntella è anco-ra più difficile perché la costruzione dell’oggetto“Shoah” relega nell’oblio gli internati, i politici, i testi-moni di Geova, gli omosessuali, gli zingari. Ho unricordo chiaro dei miei primi anni di insegnamento allaSapienza, in cui l’oggetto degli studi di Giuntella cisembrava, a noi che ci richiamavamo alla storiografiamarxista, alieno: internati militari, zingari. Il frutto diuno sguardo religioso ed etico più che storico. La nostrastupidità era pari solo alla nostra boria.

Di quei militari che preferirono essere deportatiche aderire a Salò, cioè al mondo dei massacratori, lascelta è stata riconosciuta con difficoltà. Ancora recen-temente, ho letto in un intervento in qualche convegnodi qualcuno che diceva che i militari non avevanodignità pari a quella degli ebrei perché erano stati fasci-sti. Versione assai bassa della concorrenza delle vittime.Dobbiamo ricordare l’adesioine al fascismo degli ebreiitaliani? Se il criterio di essere o meno stati fascisti fossequello discriminante, si salverebbero ben pochi, forsesolo quelli che subivano una condanna per antifascismoo erano al confino. Per fortuna, il quadro è più com-plesso. Quei ragazzi, fossero o non fossero stati fascisti,avevano imparato usando i loro occhi, la loro intelligen-za e il loro cuore a rifiutare il fascismo. Avevano, appun-to, fatto una scelta. Anche gli ebrei, anche se massacra-ti per quello che erano, avevano fatto una scelta, però.Alcuni già nei primi anni del fascismo, altri dopo leleggi razziali (e penso in particolare al gruppo di PrimoLevi, Artom, ecc. nella Scuola ebraica di Torino) primadi scegliere la lotta partigiana, altri nel Lager stesso,come i membri del Sondercommando che si ribellaro-no sulla soglia della camera a gas ricordati da Levi che ocome i partigiani ebrei che Levi scelse a protagonisti delsuo romanzo Se non ora quando?

È una scelta che non ci da tregua, che si ripresentaad ogni momento. E, in questi tempi oscuri, convienericordarlo.

Anna Foa

Intervento della prof. Anna Foa al convegno del 16 novembre 2016 allabiblioteca del Senato in onore del prof. V. Emanuele Giuntella nel ven-tennale della sua scomparsa.

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Alla fine del 1943, quando i tedeschi intuironoche il loro Paese avrebbe potuto essere sconfitto, sidiffuse in Germania una battuta che conteneva unpresentimento: “Godiamoci la guerra, perché lapace sarà terribile”. Fu proprio così. E non solo nelPaese che era stato di Hitler. “Gli amici dicevano:“questo è peggio della guerra” ed io li capivo” scri-veva Christopher Isherwood, tornato a Londradalla California alla fine del 1945. E WinstonChurchill in questo modo descrisse l’Europa deimesi successivi alla fine del conflitto: “In vasteregioni, grandi masse tremanti di esseri umani tor-mentati, affamati, angosciati e smarriti guardanocon sconcerto le rovine delle loro città, delle lorocase e scrutano foschi orizzonti temendo l’approssi-marsi di qualche nuovo pericolo, tirannia o terrore…Tra i “vincitori” vi è una babele di voci discordanti, trai vinti un cupo silenzio di disperazione”. Effettivamentequei mesi furono tra i più tragici del Novecento. Quasicome quelli degli anni di combattimento vero e pro-prio. Lo descrive in modo assai dettagliato VictorSebestyen in “1946. La guerra in tempo di pace” edito daRizzoli.

Il primo anno di dopoguerra fu davvero terribile.Da molte parti le armi non furono mai deposte:l’Ucraina si sollevò contro i sovietici, i nazionalisticombatterono contro i russi ed anche contro i polacchiin un brutale conflitto che fece oltre cinquantamila vit-time; la Grecia fu sconvolta da una guerra civile; qual-cosa di altrettanto grave accadde in India; in Iran; inPalestina. E in Cina dove, tra l’altro, i giapponesi,prima di essere sconfitti avevano fatto saltare tutte ledighe lungo il Fiume Giallo, allagando oltre dodicimi-la chilometri quadrati di terreno agricoli (ci sarebberovoluti trenta anni prima che quelle terre tornasseroproduttive, trenta anni nel corso dei quali una prolun-gata carestia fece milioni di vittime). In Europa latrionfale avanzata dell’Armata rossa coincise con unmassiccio programma di pulizia etnica, che ancora oggicostituisce per molti versi un tabù storiografico.Accadde l’opposto di quello che era avvenuto dopo laPrima Guerra Mondiale: “Anziché cercare di spostare iconfini per adattarli alle persone che vivevano nellaregione” ha scritto Keith Lowe in “Continente selvag-gio” (Laterza), “i governi d’Europa decisero di spostarele persone per adattarle ai confini”: con conseguenzetragiche.

In particolare per la Germania. Milioni di tedeschipartirono (e persero la vita) per quegli “spostamenti”. ABerlino era saltato il sistema fognario, le acque eranoinquinate dai cadaveri in putrefazione ed il tasso di mor-talità infantile balzò ad otto volte di più di quello diprima della guerra. I prigionieri tedeschi venivano sot-toposti a “procedure avanzate di interrogatorio”, cioèforme di tortura che, secondo Sebestyen, la Gestapo“avrebbe trovato familiari”. Una commissione di inchie-sta istituita dagli americani a fine 1946 rilevò che moltidi quegli “interrogati” avevano “i testicoli permanente-mente danneggiati dai calci ricevuti dalle squadre inca-ricate delle indagini sui crimini di guerra”. I minorenni,come nella Napoli del 1944, provavano a rubare daicamion alleati, ma venivano colpiti dagli americani conbaionette ed i medici dovettero curare innumerevoli casidi bambini con le dita mozzate. Le ragazze tedeschesubirono veramente dai “liberatori” di Stalin una quan-tità di stupri davvero impressionante. Sebestyen calcolache nella primavera del 1946 nacquero circa duecento-mila “bambini russi”; un sesto di quelli venuti al mondoa Berlino fra gennaio ed aprile aveva un padre prove-niente dall’URSS (gli aborti furono oltre un milione).Come riparazione di guerra, i russi presero di tutto ecostrinsero gli operai tedeschi a smantellare i loroimpianti industriali per caricare i macchinari sui treni inpartenza per Mosca. Una volta, nei pressi di Lipsia, lapolizia politica sovietica circondò uno stadio di calcio,fece fermare la partita e gli uomini del pubblico furonoobbligati ad andare a smantellare una fabbrica.

In Cecoslovacchia, il democratico Edward Bennes,tornato dopo sette anni di esilio alla guida del governo,

Gli orrori della paceTerminata la seconda guerra mondiale abusi e sofferenze proseguirono a lungo: la resurrezione per nulla faciledi un continente ridotto in pezzi

Macerie d’Europa

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

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fu, secondo Sebestyen, “uno dei più entusiasti e spieta-ti sostenitori della pulizia etnica nella storia europea”.Mandò via senza preavviso due milioni e mezzo di tede-schi con l’esplicito consenso di Churchill e di Stalin. Icechi, documenta Sebestyen, “applicarono ai tedeschi lalegislazione antiebraica dei nazisti”. Molti di loro furo-no linciati o bruciati vivi. Un buon numero venne rin-chiuso in campo di concentramento. Furono molti iLager che vennero riaperti perospitare tedeschi (non necessaria-mente ex soldati) ed i nuovi reclu-si furono costretti a vivere nellestesse condizioni in cui si eranotrovati i loro predecessori: aZgoda, in Slesia, a Gliwice eLambinowice, in Polonia, moriro-no in cinquantamila. Mentre inPolonia, Ungheria e Slovacchiaripresero persino i pogrom controgli ebrei. L’intera popolazionetedesca di Brno ricevette l’ordinedi lasciare su due piedi la città e siincamminò in quella che sarebbestata ricordata come la “marciadella morte”. In Ungheria i solda-ti russi stuprarono qualcosa comeduecentomila ragazze ed il Paesevenne lasciato in un tale disordineche l’inflazione salì a quattordiciquadrilioni per cento (il 158.000per cento al giorno!). L’Ungheria cacciò via seicento-trentamila tedeschi, la Romania settecentomila, laSlovacchia sessantamila, la Jugoslavia centomila.Trattamenti analoghi furono riservati agli ucraini ed aicroati. Tutti ex collaborazionisti? Nel corso del dopo-guerra jugoslavo, scrisse Milovan Gilas, “non c’eramodo di svolgere indagini appropriate, la cosa più faci-le era fucilarli tutti”.

Gli Stati Uniti provarono a mettere ordine in que-sto finimondo, ponendo a capo dell’organizzazione peri Rifugiati (UNRRA) l’ex sindaco di New York, FiorelloLa Guardia. Figlio di un musicista italiano e di unadonna ebrea, parlava correttamente, oltre all’inglese edall’italiano, il tedesco, l’ungherese, il serbo-croato, loyiddish, il rumeno e si dimostrò all’altezza dell’impresa.Ma non potè fare più di tanto.

In Germania la denazificazione fu un’impresa assaiardua. Anche sotto il profilo simbolico, il generaleDwight Eisenhower aveva situato il suo quartiere gene-rale nell’edificio che fino a pochi giorni prima avevaospitato la ditta produttrice dello Zyklon B, il gas usatoper sterminare gli ebrei. Su cinque guardie del corpo

che erano state assegnate dall’amministrazione britanni-ca al capo del partito socialdemocratico, KurtSchumacher, quattro, si scoprì, provenivano dalle SS.Un ex SS era anche il nuovo capo della polizia nellaRenania-Palatinato, Wilhelm Hauser. Il Paese versavain condizioni talmente difficili che, nel giro di pochianni, l’83 per cento dei rimossi dai denazifica tori vennereintegrato. I tecnici più preziosi erano ex nazisti e

Stalin propose addirittura al lea-der dei comunisti della Germaniaorientale, Walter Ulbricht, dicreare un Partito nazionaldemo-cratico che li accogliesse in granquantità e li integrasse nel nuovoregime. Fece perfino cercare neiGulag sovietici un potenziale lea-der per questa nuova formazione,ma gli risposero che erano statitutti giustiziati. Al che Josif Stalinsi limitò a rispondere: “Peccato!”.Da quel momento in poi nellazona sovietica della Germania,come ha osservato Marc Mazowerin “Le ombre dell’Europa”(Garzanti), non ci fu “nessunaricerca sistematica dei criminalinazisti o di guerra, i quali ebberospesso vita più facile che nellezone di occupazione alleate”.

Sotto il profilo economico, laGermania andava a rotoli. La Gran Bretagna, pur ridot-ta in condizioni di miseria indicibili, si preoccupò diquel che accadeva nell’ex Paese nemico ed un editoreebreo di sinistra, Victor Gollancz, invocò uno sforzoumanitario per assistere il popolo tedesco. Il registaHumphrey Jennings girò un documentario, “Germany:a Defeated People” che si concludeva con questa affer-mazione: “Il nostro interesse per la Germania è pura-mente egoistico: non possiamo vivere accanto ad unvicino infestato di malattie”. Si unirono alla campagnadi sostegno alla Germania giornali come il “DailyMirror” ed il “Sunday Pictorial”. E fu così che un Paesesull’orlo della rovina decise di aiutare quello a cui eranoriconducibili i propri disastri.

Anche la Francia era a terra, per di più suggestiona-ta dal mito della bomba nucleare. Perfino nel mondodella prostituzione. La scrittrice Nancy Mitford, cheviveva a Parigi ai tempi del grande vertice postbellico,scrisse a una delle sorelle: “Mi dicono che i maquereaux(= i protettori) praticamente fermano i partecipanti allaConferenza di pace non appena escono dal Luxem -bourg, per offrire loro l’amour atomique”. Chiunque

Gli esodi

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faceva affari come poteva, compresi i giovanissimi: iuno dei più prestigiosi istituti scolastici parigini, il LicéeCondorcet, un gruppo di studenti capeggiato da un tre-dicenne si accaparrò grandi quantità di chewing gumper poi rivenderle, ottenendone profitti da capogiro. Illusso di pochi destava scandalo: Yves Montand, checantava al Club de Cinq, una sera, notato che un clien-te aveva ordinato un’aragosta, ne aveva mangiato menodella metà e poi aveva spento un sigaro su quel cherestava delle chele, scese dal palco e lo colpì platealmen-te con un pugno.

In Giappone, il generale plenipotenziario DouglasMacArthur era convinto della necessità che l’imperato-re Hirohito, all’epoca quarantaquattrenne, restasse sultrono e, a questo scopo, ottenne che fossero occultate leprove del suo coinvolgimento nello scatenamento delconflitto. Un suo consigliere, il generale Bonner Fellers,buon conoscitore della storia e della cultura nipponica,lo aveva convinto che l’impiccagione dell’imperatoresarebbe stata per i giapponesi “l’equivalente della croci-fissione di Cristo” e li avrebbe indotti a combattere e“morire tutti come formiche”. Harry Truman, che pureaveva in grande antipatia MacArthur, accettò, sia pure“con riluttanza”. Anche perché nel 1946, il Giapponeebbe immensi problemi di approvvigionamento, prosti-tuzione, malavita e nessuno voleva che si traducesseroin una ripresa della guerriglia conto gli occupanti. Cosìla “Norimberga giapponese” fu una farsa; tra i giudicinon sedeva nessun rappresentante dei Paesi occupati daisoldati del Sol Levante: un britannico rappresentava imalesi, un francese i vietnamiti ed i cambogiani, nessu-no la Corea.

In Unione Sovietica, alla guerra fece seguito “lapeggiore carestia” che il paese avesse conosciuto dalperiodo tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta:lo scarso raccolto del 1945 fu seguito in Ucraina da unaterribile ondata di maltempo, in Moldavia dalla siccitàed in Siberia da una serie di piogge fuori stagione che

distrussero le coltivazioni. Quello del 1946 fu in URSSuno dei peggiori raccolti mai registrati: la produzione digrano si attestò su un terzo dei livelli del 1940, e quel-la di patate su meno della metà. Quasi due milioni dipersone morirono in seguito alla carestia.

E gli Stati Uniti? Guidato da Harry Truman che ilsuo predecessore, Franklin Delano Roosevelt, teneva adistanza intimandogli di non disturbarlo “ a meno chenon sia estremamente urgente” e che Stalin disprezzavaconsiderandolo un “chiassoso bottegaio”, l’Americaseppe trarre profitto da questo caos mondiale ed affer-marsi in breve come prima potenza. Non aveva avuto laguerra in casa, complessivamente i caduti angloameri-cani erano stati meno numerosi di quelli persidall’URSS nel solo assedio di Leningrado, il prodottonazionale lordo tra il 1940 ed il 1945 era raddoppiato(passando da 102 a 214 miliardi di dollari) e la disoc-cupazione era scesa al minimo storico dell’1,2 percento. Truman seppe fare la sua parte. Ed è un segno diforza, scrive Sebestyen, che l’America debba il suo pri-mato anche ad un presidente, le cui caratteristicheerano di portare gli occhiali perfino quando faceva ilbagno in piscina, di essere “sboccato ma fedele allamoglie” ed i cui maggiori peccati fossero “un bourbona tarda sera e le partite a poker con amici quantomenoequivoci, per lo più confratelli massoni”. Truman sipronunciò con forza per i diritti civili. Fu solo, aggiun-giamo noi, larvatamente antisemita. Come, inopinata-mente, molti esponenti democratici. E stiamo parlandodel secondo dopoguerra, quando già si conoscevano, siapure a grandi linee, le terribili proporzioni della Shoah.Ma questo è un discorso che meriterebbe una trattazio-ne a sé.

Paolo Mieli“Corriere della Sera, martedì, 19 gennaio 2016”

per gentile concessione dell’autore

Bibliografia:– La resurrezione per nulla facile di un continente ridotto in

pezzi Corriere della Sera” di martedì 19 gennaio 2016– Nel libro “1946 La guerra in tempo di pace” (traduzione di

Daniele Didero ed Andrea Zucchetti, Rizzoli, pagine 494, E28), lo storico Victor Sebestyen ricostruisce su scala globale levicende immediatamente successive al termine della SecondaGuerra Mondiale. Lo stesso tema, ma con esclusivo riferi-mento all’Europa, è affrontato nel recente saggio di KeithLowe “Il continente selvaggio” (traduzione di MicheleSampaolo, Laterza 2013). Allarga la prospettiva fino ai primianni del XXI secolo il libro di Tony Judt (1948-2010)“Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi”(traduzione di Aldo Piccato, Mondadori, 2007). Una tratta-zione complessiva delle vicende vissute dal vecchio continen-te nel Novecento è contenuta nel lavoro di Marc Mazower“Le ombre dell’Europa” (traduzione di Sergio Minucci,Garzanti, 2000).

Una via di Varsavia

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Precedenti storici, lo Stato nazioneLa Shoah, cioè lo sterminio degli ebrei e gli episodi

terribili degli infoibamenti, che si sono verificati nelcorso e alla fine della seconda guerra mondiale nellaVenezia Giulia e nell’Istria non sono, come spesso sisente dire, fenomeni contrapposti e non assimilabili,sono piuttosto il risultato di un intreccio inestricabile diconseguenze, che rivelano una comune origine e chehanno travolto nel loro vortice moltitudini di personeinnocenti e ignare.

C’è un filo rosso che unisce molti dei fenomeni diintolleranza e di pulizia etnica del XX secolo nonché ledue sanguinosissime guerre mondiali. Questo filo rossoè la radicalizzazione del concetto di nazione e la legitti-mazione e quasi santificazione degli egoismi nazionali.Ma qui occorre fare un distinguo: dell’idea di nazioneci sono state due interpretazioni diverse, una di matricepiù illuminista, che non vede conflitto tra lo Stato-nazione e il riconoscimento di valori universali, e quin-di è inclusiva e tende ad identificarsi con la comunitàdei cittadini; l’altra di matrice più romantico-tedesca

(risalente all’opera “Lo Stato commerciale chiuso” delfilosofo Amedeo Fichte) che ipotizza comunità politi-che chiuse e distinte, potenzialmente ostili le une allealtre e quindi con l’implicita legittimazione della guer-ra “quel che è male per l’individuo diviene santo se è com-piuto dallo Stato”. La prima idea di nazione si coniugacon i regimi liberali democratici, con gli Stati costitu-zionali del novecento, con l’idea di Europa come casacomune, la seconda ipotizza maggiormente un governoautoritario in grado di imporre ai cittadini quell’indiriz-zo di governo che si ritenga necessario.

Quando ciò è iniziato a manifestarsi? Dopo il 1870a seguito della situazione prodottasi con la guerra fran-co-prussiana, la nascita dello Stato tedesco e l’umiliazio-ne della Francia, l’idea di Europa è abbandonata. Il con-cetto di nazione perde sempre più i suoi caratteri spiri-tuali volontaristici, che aveva avuto nel Romanticismo,ed accentua quelli naturali, positivisti, fondati sugli ele-menti della lingua, della geografia, del sangue e dellastirpe. Non riconoscendosi al di sopra della nazionenessuna autorità soprannazionale né principio etico

La congiura del silenziointorno alle “Foibe” e alla questione adriatica

La città di Trieste nel 1885

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

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universale, si afferma, su basi pseudo scientifiche e tra-sferito sul piano storico, il principio darwinista dellaselezione naturale, cioè del diritto del più forte a domi-nare o addirittura a eliminare gli altri popoli, compresele minoranze all’interno del proprio territorio, conside-rate non assimilabili. Venuta meno l’idea di uguaglian-za tra i popoli, si enfatizzano le differenze, che diventa-no differenze di valore e le stesse caratteristiche geogra-fiche si leggono come confini naturali, cioè barriereposte dalla natura per salvaguardare le diverse identità,e a sancire il diritto a prevalere della nazione egemone.

E l’individuo? Questi esiste unicamente in funzio-ne dello Stato. Nella dottrina del fascismo italiano ica-sticamente è scritto: “Tutto nello Stato, niente al difuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Ciò significavia libera alle persecuzioni, reclusioni di quelle personeconsiderate un pericolo per lo Stato totalitario edanche, come nella Germania nazista, l’eliminazione deideboli, dei malati considerati per la nazione un pesoinsopportabile, vite non degne di essere vissute. Non acaso il campo di Dachau, il più antico dei campi di con-centramento, è del 1933, istituito subito, appena dopol’ascesa al potere di Hitler. Questo è certo: nella storiagli eventi non nascono mai all’improvviso ma hannoquasi sempre una lunga gestazione e, se si vuole miglio-rare il futuro, è importante rileggere il passato per rin-tracciarvi quei segnali, anche minimi, che possono esse-re un campanello d’allarme. Questo significa utilizzarela lezione della storia e sentirci tutti responsabili.

* * *

La questione adriatica tra le due guerre mondialiFatta questa premessa io voglio approfondire in

particolare la tragica storia degli infoibamenti e la que-stione adriatica che agli italiani di quei territori è pesa-ta come un macigno.

Dopo il ritorno di Trieste all’Italia nell’ottobre1954, negli anni successivi fino agli anni 90 del secoloscorso, la parola d’ordine dei governi italiani è sembra-ta essere “dimenticare Trieste”.

Non una parola nei manuali scolastici sulla que-stione adriatica declassata a storia locale, disinteresse deimedia e degli storici ufficiali, così la storia di questamartoriata regione venne sospinta fuori dalla memoriae dalla tradizione dell’Italia, il ricordo dei cittadini giu-liani, vittime delle foibe e del forzato esodo, lasciatoesclusivamente ai partiti di destra. Quelli di sinistra ave-vano scelto la via della rimozione. L’istituzione del gior-no del ricordo, votata dal nostro Parlamento il 30marzo 2004, per riparare all’omissione durata cinquan-t’anni, ha riacceso i fari su questa tragedia italiana, favo-rendo una maggiore contestualizzazione storica e unalettura a tutto campo.

Finché è durata la Repubblica Veneta (Pace diCampoformio del 1797 ) tra le popolazioni, compresaquella italiana, che costituiva la quasi totalità degli abi-tanti della costa, c’era armonia. Lo stato di conflitto trale diverse comunità etniche, in particolare tra quella ita-liana e quella slava, risale al tempo dell’ImperoAsburgico, che se ne serviva, mettendo le nazionalità leune contro le altre, per reprimere le spinte centrifugheed indipendentistiche. Ricordiamo a questo propositoche, come antidoto, Mazzini, nella sua prospettivaeuropeistica, aveva auspicato un affratellamento tra idue popoli slavo e italiano e attribuito al popolo italia-no, il popolo Cristo, la missione di liberare tutte lenazionalità oppresse dall’Impero Asburgico. Le coseperò non andarono così e quegli eventi oscuri e sangui-nosi, che si sono verificati durante e alla fine dellaseconda guerra mondiale, sono sicuramente fruttoavvelenato dei nazionalismi. Dice Carlo Sgorlon:“Lungo le frontiere, nei luoghi dove le etnie sono mescola-te, vi è sempre un cane spaventoso che dorme. Esso vienesvegliato dalle guerre”.

Dopo la prima guerra mondiale si costituì lo Statojugoslavo, ma in Italia la delusione, per come eranoandate le condizioni poste a Versailles al tavolo dellapace, alimentò il mito della vittoria mutilata. All’Italiainfatti era stata negata, per l’opposizione degli StatiUniti l’annessione della città di Fiume, nonostante ilplebiscito a favore, in quanto tale annessione non erastata prevista dagli accordi del patto di Londra del1915. Di qui i consensi quasi di massa all’impresa fiu-mana di Gabriele D’annunzio, che occupò militarmen-te la città e che costituì un pericoloso precedente all’in-staurarsi in Italia di un regime fortemente nazionalista,quale sarà il fascismo. In quel caso però prevalse lo spi-rito legalitario del governo Nitti che fece sgombrare lacittà manu militari e successivamente si addivenne altrattato di Rapallo del 1920 che accordava all’Italia:Trieste, Gorizia e tutta l’Istria; alla Jugoslavia: laDalmazia salvo Zara. Fiume era dichiarata città libera.

Sotto il regime fascista Fiume diventa italiana nel1924 grazie ad un accordo tra l’Italia, dove è salito alpotere Mussolini, e la Jugoslavia.

Nelle dichiarazioni ufficiali questi trattati avrebbe-ro dovuto porre le premesse per una reciproca amiciziae collaborazione anche nell’interesse dello stesso portodi Trieste, avviato ad un inarrestabile declino.Purtroppo così non fu e il regime fascista spinse versouna politica di snazionalizzazione e persecuzione deglisloveni ribelli, una vera e propri “bonifica etnica” dellaregione. Italianizzazione di tutti i toponimi sloveni, ditutti i nomi e cognomi, uso esclusivo della lingua italia-na, i maestri messi in pensione o trasferiti, abolita anchein chiesa la lingua slovena, perseguitati i parroci che

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potevano costituire un riferi-mento identitario.

Il solco tra i due gruppinazionali si acuisce, l’odiodivampa e si stabilisce l’equiva-lenza tra Italia e fascismo, sipassa dalla richiesta di autono-mie entro i confini del regno aquella dell’indipendenza politi-ca o annessione alla Jugoslavia,e si dà vita anche ad organizza-zioni terroristiche, contrastatedal fascismo con leggi speciali econdanne durissime. In Italiacampi di internamento per slo-veni, a Forte Bravetta a Roma sieseguono condanne a morte disloveni.

La Seconda guerra mondiale egli infoibamenti

L’Italia mette in atto unaguerra parallela a quella diHitler: attacca la Grecia il 28ottobre senza nessun motivo esuccessivamente la Jugoslavia.

Nell’aprile 1941 colpo diStato antinazista a Bel grado (LaJugoslavia faceva parte del pattoTripartito) e patto di nonaggressione con la Russia. Immediata occupazione dellaJugoslavia da parte delle truppe italiane, tedesche eungheresi. Annessione all’Italia della provincia diLubiana e della Dalmazia con Sebenico, Spalato, eCattaro, dove gli italiani erano chiaramente in mino-ranza. Lo Stato jugoslavo si spacca: la Croazia fascista sidichiara indipendente sotto il duce Ante Pavelic, colla-bora con le forze dell’Asse e si sposta verso la Germanianazista, gli Ustascia compiono terribili stragi di ebrei eserbi, attuando forme di pulizia etnica. In Serbia siforma un governo fantoccio collaborazionista del gene-rale Uedic e un movimento partigiano antiasse (i cetni-ci), guidato dal generale monarchico anticomunistaMihajlo vic, orientato verso gli inglesi e gli americani.

Mussolini co stituita la Repub blica Sociale agli ordi-ni di Hitler, ce de alla sovranità della Germania ben ottoprovincie: Bol zano, Trento, Bellu no che assumono ladenominazione di Alpenvorland, mentre Trieste,Udine, Gorizia, Pola, Fiume formano le AdriatischesKustenland sotto un Gauleiter nazista Friedrich Reiner.

Successivamente Josip Broz Tito, segretario delpartito comunista, con l’aiuto di Mosca, si afferma allaguida del movimento di liberazione nazionale e riunisce

le forze antifasciste sparse.Dopo l’8 settembre1943 anchesoldati italiani delle divisioniTridentina e Ve nezia vanno acombattere per “l’onoredell’Italia” con i partigiani diTito, confluendo nella divisioneGaribaldi. La Jugoslavia divieneteatro di una delle più sangui-nose guerre civili d’Europa. Ipartigiani titini si scatenanocontro gli italiani tutti, conside-rati gli occupanti fascisti. Aquesto proposito non possiamonon ricordare, tra le altre vitti-me, il martirio di NormaCossetti, aliena dalla politica,studentessa di lettere a Padova,seviziata, torturata, violentata, egettata forse ancora viva in unafoiba nell’ottobre 1943. Ilpadre, ex podestà, che era anda-to a protestare, il giorno dopo èanche lui infoibato. Il prof.Concetto Marchesi le conferiràla laurea alla memoria. Le mili-zie fasciste, d’altra parte, duran-te l’occupazione avevano com-messo anche loro, come i tede-schi, crimini e rappresaglie di

massa contro le popolazioni dei villaggi (cfr. CostantinoDi Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e iprocessi negati 1941-1951, Editrice Ombre Corte,Verona, 2005).

Il 14 ottobre 1944, congiungendosi le truppe par-tigiane con quelle sovietiche presso Negotin, ha inizio laliberazione del territorio jugoslavo.

Il 30 aprile 1945 Tito occupa militarmente Triestee la tiene per 40 giorni.

La Jugoslavia ha mire espansionistiche sulla città esull’intero territorio. Violenze e uccisioni indiscrimina-te, una vera mattanza, si succedono nei confronti deicittadini italiani considerati oppositori del progettoannessionista jugoslavo: caccia all’uomo a fascisti, nonfascisti, carabinieri, militari, anche reduci dei Lagernazisti, civili, partigiani del CLN, migliaia di infoibaticioè precipitati, a volte ancora vivi, nelle fenditure car-siche (tredicimila secondo lo storico triestino GianniOliva ma potrebbero essere anche ventimila, comunquea detta di altri storici come Raoul Puppo è impossibilequantificare i morti perché molte foibe sono rimasteinesplorate). Ecco un’agghiacciante racconto dello scrit-tore Carlo Sgorlon:

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“Camion enigmatici si fermavano davanti ad unacasa, ad una porta, nel cuore della notte. Prelevavanoun italiano, con la scusa di accertamenti burocratici opolitici. Lo sventurato non tornava a casa mai più.Diventava un disperso, un fantasma di cui non eranonoti i modi della morte. Poi anch’essi cominciarono adessere risaputi. Solitamente i sequestrati venivano legatia due a due con filo di ferro. Poi uno veniva ucciso conun colpo alla nuca, come toccò ai polacchi di Katin, etrascinava l’altro, ancora vivo nella foiba carsica. Lefoibe in Istria sono più di mille, sono inghiottitoi divaria profondità… Spesso gli infoibati non morivanosubito, ma restavano vivi nel fondo a soffrire per gior-ni, con lo scheletro stritolato e le ossa che foravano lacarne. Ci sono testimoni che udivano i lamenti, cheuscivano da quelle buche di inferno” (Carlo Sgorlon, daIl Gazzettino, Venezia 8 agosto, 1996).

Luglio 1946 - La Conferenza di ParigiPer l’Italia pace Diktat, a De Gasperi non è dato di

patteggiare alcunché. L’URSS appoggia le richieste dellaJugoslavia sull’Istria, la Dalmazia, e anche su Trieste, ivincitori non vogliono tenere in alcun conto la volontàdella popolazione dalmato-giuliana. Gli unici a pagareper le conseguenze della guerra fascista saranno loro. Il10 febbraio 1947 si firma l’accordo: Istria e Dalmaziacedute alla Jugoslavia, il territorio di Trieste diviso indue zone A e B. Trieste con la zona A sottoposta aGoverno Alleato.

Comincia l’esodo degli italiani dai territori giulia-ni: 350mila persone in cerca di patria, pace e lavoro, main Italia dai comunisti nostrani riceveranno manifesta-zioni di ostilità, scambiati per fascisti. Dispersi in tuttoil mondo come gli ebrei aspettano an cora che la loroterribile vicenda sia conosciuta.

La rottura fra Tito e Stalin avvenuta nel 1948 rendesecondario alla leadership sovietica il problema dell’as-segnazione di Trieste all’Italia. La questione di Trieste èinvestita da una duplice guerra fredda, quella tra i dueblocchi Est e Ovest e quella fra Tito e Stalin. Avvici -namento degli Alleati a Tito e anche dell’Italia a Tito:silenzio di Stato sulle foibe in cambio della non estra-dizione di ufficiali e soldati accusati di crimini di guer-ra durante l’occupazione fascista 1941-43. Imbarazzodel partito comunista italiano, che é su posizioni inter-nazionaliste e fedele a Mosca, di fronte al nazionalismoesasperato dei comunisti slavi.

Continuano le manifestazioni e gli scontri di piaz-za a Trieste e nel resto dell’Italia per premere sull’opi-nione pubblica internazionale per una soluzione delproblema.

Il 5 ottobre 1954 - Memorandum di intesa fra gliAlleati, l’Italia e la Jugoslavia.

Trieste torna all’Italia insieme con la zona A, lazona B è inglobata nella Jugoslavia. Con la successivapace di Osimo del 1974 gli accordi del 1954 diventa-no definitivi con il passaggio a tutti gli effetti di sovra-nità.

Il 26 ottobre1954 a Trieste si rinnova l’ingressotrionfale dei bersaglieri italiani del 3 novembre 1919.

Da quella data comincia per un intreccio di ragio-ni e un intreccio di complicità il silenzio di Stato, laferita rimane aperta e bruciante nelle popolazioni diconfine e in quella della città di Trieste.

Dopo cinquant’anni, finalmente, in discorsi uffi-ciali, Ciampi prima e Napolitano poi, riportano l’atten-zione su questo buco nero della nostra storia. Nel 2005Ciampi dice: “È giunto il tempo dei ricordi ragionati,tanta efferatezza fu la conseguenza delle ideologie razzistee nazionaliste del XX secolo”. Nel 2007, in occasione delgiorno del ricordo, Napolitano, dopo aver definito unaforma di pulizia etnica le stragi titine, pronuncia quellafamosa frase: “Non dobbiamo tacere, assumendoci laresponsabilità di aver negato o teso ad ignorare la veritàper responsabilità ideologiche”.

Anna Maria Casavola

BibliografiaClaudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste: come si crea una

mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraversola guerra fredda fino al neoirredentismo, Udine, Kappa vu,1997.

Dall’Impero austro-ungarico alle foibe: conflitti nell’area alto-adriatica, contributi di Alessandra Algostino… [et al.],Torino, Bollati Boringhieri, 2009.

Alberto Buvoli (a cura di), Foibe e deportazioni: per ristabilire laverità storica: Venezia Giulia 1943-1945, introduzione diArturo Calabria, Silvano Bacicchi, Federico Vincenti, 2. Ed.S.l.!, a cura del Comitato regionale dell’ANPI del FriuliVenezia Giulia, 1998 (Tricesimo, Tipografia artigiana).

Foibe, il peso del passato: Venezia Giulia 1943-1945, a cura diGiampaolo Valdevit, Trieste, Istituto regionale per la storiadel movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,Venezia, Marsilio, 1997.

Gianni Oliva, Esuli: dalle foibe ai campi profughi. La tragediadegli Italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, Milano, OscarMondadori, 2012.

Gianni Oliva, Foibe: le stragi negate degli italiani della VeneziaGiulia e dell’Istria, 3a ed., Milano, Monda dori, 2002.

Gianni Oliva, Profughi: dalle foibe all’esodo. La tragedia degli ita-liani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Milano, Mondadori, 2006.

Pierluigi Pallante, La tragedia delle foibe, Roma, Editori Riuniti,2006.

Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Milano, B. Mon dadori,2003.

Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio,Milano, Rizzoli, 2005.

Giacomo Scotti, Dossier foibe, prefazione di Enzo Collotti,postfazione di Tommaso Di Francesco, San Cesario di Lecce,Manni, 2005.

Diego Zandel, I testimoni muti: le foibe, l’esodo, i pregiudizi,Milano, Mursia, 2011

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Il lungo cammino verso il riconoscimento dellavicenda IMI è segnato da una tappa importante, l’inau-gurazione della Mostra permanente Zwischen allenStühlen. Die Geschichte der ItalienischenMilitärinternierten 1943-1945 – Tra più fuochi. La storiadegli Internati Militari Italiani. 1943-1945 nella capita-le tedesca, il 28 novembre scorso. La Mostra ha sede nel-l’unico campo per lavoratori coatti del periodo nazistaancora conservato, ubicato nel quartiere berlinese diSchöneweide. Si tratta di un complesso architettonicounico nel suo genere, che opportunamente restaurato èdivenuto Luogo di Memoria, sede di una Biblioteca e diun Archivio di testimonianze coeve: ilDokumentationszentrum des NS-Zwangsarbeit, CentroStudi di respiro internazionale sul lavoro forzato altempo del nazismo. L’iniziativa fa capo alla FondazioneTopographie des Terrors. Si tratta della prima mostra per-manente in Germania dedicata agli Imi e al lavoro coat-to dei soldati italiani. La sua realizzazione rappresentaun tassello nella costruzione di una comune cultura dellamemoria (Erinnerungskultur) in nome degli ideali diriconciliazione, democrazia e solidarietà che costruisco-no il fondamento del processo di integrazione europea.

Un progetto la cui realizzazione deve molto all’at-tuale presidente della Repubblica Federale di GermaniaFrank-Walter Steinmeier, il quale nel corso del suomandato come Ministro degli Esteri lo ha fortementeappoggiato. Un iter ed un impegno snodatisi nell’arco

di otto anni, anche con il coinvolgimento e la collabo-razione di numerose Istituzioni di Storia e Memoria ita-liane, Imi e loro familiari che hanno messo a disposizio-ne documenti d’archivio, testimonianze e materialid’epoca. F. W. Steinmeier nel discorso inaugurale haaffermato: “Questo capitolo buio della storia comunepuò illuminare la nostra visione del presente. Vorbei,passato è il doloroso capitolo di storia italo-tedesca dicui è simbolo il Lager di Schöneweide. Questa non èsolo una constatazione storica. È un monito.”

In linea con la missione di rappresentanza affidata-mi dalla Presidenza Anei, gli ho portato i saluti delPresidente Arcella e di tutta l’Associazione, rivolgendo-mi a lui nella sua lingua gli ho donato il fazzoletto tri-colore Anei sottolineando l’impegno dell’Associazionenel comunicare questa pagina buia della storia europeaspecie alle nuove generazioni come Memoria(Erinnerung) e Monito (Mahnung). In sintesi il duplicesignificato del lavoro di Anei: promuovere la conoscen-za, affinché “Mai più vi siano reticolati nel mondo”.

La Mostra permanenteL’iniziativa della mostra permanente nasce all’inse-

gna del motto Erinnerung statt Entschädigung, memoriaanziché risarcimento. Gli antefatti: il vertice italo-tede-sco di Trieste nel novembre 2008 pose le basi per unarielaborazione condivisa del comune passato di guerra,anche attraverso l’istituzione, nel marzo 2009, della

L’ANEI a Berlino:inaugurazione della Mostra IMI

Un riconoscimento europeo alla «Resistenza senz’armi»

ATTUALITÀ

Frank-Walter Steinmeier, oggi Presidente della Repubblica Federale di Germania, riceve il saluto dell’Anei nella persona della nostra Antonella De Bernardis

WWW.dz-ns-zwangsarbeit.de - [email protected]

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Commissione di storici italo-tedesca, la quale il 19dicembre 2012 dopo un lavoro triennale, presentò aRoma il proprio Bericht/Rapporto. Merita attenzionealtresì il Forum internazionale Da una memoria divisa auna memoria condivisa. Italia e Germania nella secondaguerra mondiale, Roma, 2011, nato con analoghi obiet-tivi sotto il patrocinio del Ministero degli Esteri italia-no e per iniziativa congiunta di ANEI e ANRP

Nelle summenzionate ricerche la vicenda degli Imiassume un ruolo centrale, dopo un lungo oblio, tantoin Italia, quanto in Germania. Il progetto delMemoriale nasce dalle raccomandazioni della summen-zionata Commissione. Anche per questo la cerimoniainaugurale ha visto gli interventi del Ministro degliEsteri tedesco, dianzi citato, e dell’omologo italiano,Paolo Gentiloni, accanto a quelli del prof. AndreasNachama, direttore della Fondazione Topografia delTerrore e della dr. Christine Glauning, direttrice delCentro di documentazione sul lavoro coatto diSchöneweide. Non poteva mancare la voce di un prota-gonista: Michele Montagano, ex Imi con la sua testimo-nianza lucida e coinvolgente ha ben rappresentato glioltre 650.000 ex Imi, purtroppo assenti per ovvie ragio-ni anagrafiche e di salute.

Anche l’Ambasciatore d’Italia a Berlino, PietroBenassi ha partecipato all’evento; il pomeriggio prece-dente aveva aperto le porte della sua Residenza agli stu-diosi italiani e tedeschi, alle Associazioni e Fondazionidi Memoria e ai familiari di Imi là convenuti da molteregioni d’Italia, offrendo un rinfresco e dedicando paro-

le di stima e ammirazione nei confronti della vicendaImi.

Il professor Wolfgang Schieder, già presidente diparte tedesca della Commissione di studi italo-tedesca,docente di Storia moderna e contemporanea alleUniversità di Treviri e Colonia, insignito della LaureaHonoris causa dell’Università di Bologna, ha aggiuntovalore alla giornata inaugurale con la sua conferenza, digrande interesse, dal titolo In mezzo a tutti i fronti. GliInternati Militari Italiani sotto custodia tedesca dove haanalizzato le relazioni tedesco-italiane in seguito all’armi-stizio dell’8 settembre 1943 e lo sfruttamento degli Imicome lavoratori coatti fino alla caduta del Terzo Reich.Se in Italia nel dopoguerra il loro destino fu a lungo tra-scurato, in Germania fu del tutto ignorato. Mi è sembra-to opportuno parteciparvi per il valore scientifico dellaprolusione ed anche come testimonianza di presenzaAnei fra un pubblico costituito in prevalenza da tedeschi,non era infatti previsto il servizio di traduzione che avevaaccompagnato la prima parte dell’evento.

Il lavoro coatto, il Lager di Schöneweide, l’EuropaLo sfruttamento di centinaia di migliaia di soldati

italiani si rivelò strategico per l’economia bellica tedescache al momento dell’armistizio con l’Italia incontravaenormi difficoltà nel reperimento di manodopera. I sol-dati italiani furono impiegati nell’industria mineraria,nell’industria bellica, nel settore siderurgico, in agricol-tura, quest’ultimo era il comparto più ambito per lemigliori condizioni di vita e di alimentazione. Parecchichilometri da percorrere a piedi per raggiungere il luogodi attività, orari di lavoro fino a dodici ore al giorno, persei giorni alla settimana, riposi domenicali non semprerispettati, vitto scarso, baracche e condizioni igienicheinfami, tempo per il riposo e la cura personale insuffi-ciente, rendevano la mortalità assai elevata, e la vita sot-toposta a continue umiliazioni e vessazioni. La fame dicibo era almeno pari a quella di riconoscimento delladignità della persona.

Prof. Wolfgang Schieder, già Presidente Commissione di Studi italo-tedesca

Ricevimento all’Ambasciata d’Italia, il dott. Benassi

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Quello di Schöneweide è l’unico campo per lavora-tori forzati del periodo nazista ancora conservato,costruito in muratura e non in legno. È di vivo interes-se la Baracca 13 ove alloggiarono circa cinquecentointernati militari italiani. Della loro presenza testimo-niano numerose scritte sulle pareti dello scantinatorecanti nomi e date, le quali insieme alle parole dei lavo-ratori forzati esposte in mostra nella Baracca 4 suun’area espositiva di circa 250 mq. descrivono una quo-tidianità contrassegnata da ristrettezze e umiliazioni.

Un forte approccio biografico caratterizza l’esposi-zione. Il conflitto bellico non è solo di schieramentipolitici e correnti ideali, passa attraverso le singole bio-grafie, mette in discussione le identità dei singoli e deigruppi. Il valore della testimonianza, opportunamenteinquadrata storicamente, è di grande impatto per il visi-tatore.

La Mostra merita attenzione perché:È a Berlino, città simbolo che più di ogni altra in

Europa ha visto avvicendarsi democrazie e dittature nelsecolo scorso, un museo a cielo aperto, meta costante divisite di studio. Qui fu presa la decisione di disarmare edeportare i militari italiani dopo l’8 settembre 1943.

È allestita in un luogo autentico, recuperato e valo-rizzato dopo attenti lavori di restauro. Oltre alle

Baracche 4 e 13, si può passeggiare negli ampi spazi acielo aperto, e immaginare per esempio quando 70 annifa quei piazzali erano popolati di soldati italiani in atte-sa dell’appello mattutino prima di partire per un’este-nuante giornata di lavoro.

È costruita bene, con rigore scientifico.Perché se in Italia la memoria ufficiale ha tardato a

rendere omaggio agli Imi, in Germania la loro vicendaè pressoché sconosciuta all’opinione pubblica. Sevogliamo un’Europa unita e coesa è necessario promuo-vere la conoscenza della nostra Storia anche oltre i con-fini nazionali.

In un momento in cui le spinte nazionaliste cono-scono nuovo slancio, è necessario un investimento cul-turale e formativo per costruire una vera cittadinanzaeuropea. Ogni investimento rivolto ad una migliorecomprensione del passato è un investimento per il futu-ro europeo.

Non c’è alternativa al dialogo e alla riconciliazione;elaborare congiuntamente il passato per realizzare unacomune cultura della memoria.

La storia degli Imi. Progetti per il futuroLa direttrice del Centro, Christine Glauning, è una

figura importante con cui continuare a costruire unrapporto di collaborazione. Nei giorni successiviall’inaugurazione ho avuto la possibilità di partecipare

Gentiloni, Lo Fiego e De Bernardis

La direttrice del Centro Christine Glauning

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* Alla mostra Imi di Berlino il 28 novembre 2016 sono stati indicati dalla Presidenza come rappresentanti ufficiali dell’Anei, la consigliera dott. AntonellaDe Bernardis e il prof. Gianfranco Ceccanei dell’ass. Altriitalia di Berlino, entambi perfettamente conoscitori della lingua tedesca, con residenza inGermania e cultori della storia degli internati militari. Si è altresì recata in visita in quella data una larga rappresentaza di soci e cioè il consigliere nazio-nale Pino Lofiego di Abano Terme, con la moglie Maria Luisa Brunino, figlia di ex internato e la figlia Laura, i soci Roberto Benetti V. presidente eLoris Savegnago segretario di Vicenza, rappresentanti del Museo dell’Internamento di Padova, Orlando Materassi di Firenze, Mario Scorza di RossanoCalabro, tutti figli di ex internati e quindi particolarmente motivati. La nostra delegazione ha ricevuto una calorosa accoglienza all’ambasciata italianadi Berlino con gradito scambio di libri per iniziativa del nostro Pino Lo Fiego, del Comune e delle biblioteche di Abano Terme.

alla prima visita di docenti italiani effettuata in collabo-razione con l’Istituto di Storia della Resistenza diReggio Emilia, da anni impegnato nella organizzazionedi Viaggi della Memoria per studenti e nell’AltaFormazione dei docenti. Insieme abbiamo sperimenta-to percorsi didattici focalizzati su esplorazione del luogoe analisi delle fonti presentate nella Mostra, basati su unapproccio attivo, contestualizzazione storica, riflessionee impegno civile. L’intento è quello di fornire alle gio-vani generazioni percorsi didattici che focalizzino l’at-

tenzione su quei valori che costituiscono l’eredità posi-tiva che la stagione del secondo conflitto mondiale ci haconsegnato, con il proposito di creare un rapportodinamico fra passato e presente che cerchi di risponde-re agli interrogativi che tale memoria rivolge oggi allanostra società. Un ambito nel quale anche Anei potreb-be lavorare bene. Un tema che propongo di approfon-dire nel prossimo congresso nazionale.

Anche le narrazioni affidate alle mostre storichepossono rivestire un ruolo importante nei processi dicostruzione della memoria di un Paese, esperienze ditrasmissione del passato in grado di aprire spazi diriflessione non privi di implicazioni etiche e civili.

La Mostra permanente a Berlino rappresenta unevento di grande significato simbolico, segna l’ingressodella storia degli Imi nella memoria pubblica tedesca edeuropea.

Il loro sacrificio ha contribuito ad aprire la strada inItalia e in Europa ai valori della pace, della liberta edella democrazia. La nostra Associazione coglie l’occa-sione per ringraziarli, ancora una volta.

Antonella De Bernardis*

La delegazione vicentina e l’Ambasciatore

Gentiloni e il vice presidente di Vicenza Benetti

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Era il 28 marzo del 1908 edEnrico Toti, romano nato e cre-sciuto a San Giovanni, faceva ilferroviere fuochista da poco piùdi un anno. Aveva partecipato alconcorso ed era risultato primo.Così giovane e la vita gli si erarivoltata contro. Non era laprima volta, già tre anni primaaveva subito la perdita del fratel-lo Ernesto, una morte prematu-ra. E quella morte gli aveva peròimposto di lasciare il mare doveper otto anni, dal 1899 quandoera ancora un ragazzino, erastato imbarcato prima comemozzo sulla nave militare EttoreFiera mosca passando poi elettri-cista scelto e infine come torpe-diniere elettrico alla corazzataEmanuele Filiberto e all’incro-ciatore Coatit. Lo avevano perfi-no promosso torpediniere di prima classe, e nel 1904era stato impegnato negli scontri sul Mar Rosso controi pirati che infestavano il mare dell’Eritrea. Poi peròaveva dovuto cambiare vita per stare vicino alla famigliadopo il lutto del fratello. E ora quell’incidente micidia-le, proprio a lui che era figlio di ferroviere, il ferroviereNicola…

Era successo tutto in un lampo: lavorava alla lubri-ficazione di una locomotiva che si era fermata nella sta-zione di Colleferro per effettuare l’aggancio a un’altralocomotiva e per il rifornimento d’acqua. Le due pesan-ti locomotive si erano poi mosse di colpo e lui scivolan-do era restato incastrato con una gamba sotto unaruota. In ospedale gli avevano amputato l’arto all’altez-za del bacino. Un’amputazione micidiale.

Ma Toti aveva un carattere tosto, come mostra unopuscoletto uscito tre anni dopo nel 1911 in cui pienodi fervore in quel tempo già infervorato di sapori belli-ci, con il conflitto appena intrapreso in Libia, scrivevacon fierezza: “Ordinariamente chi nella vita si dedica alraggiungimento di un grande ideale ha dei periodi diabbandono, di sconforto, quasi di disperazione; il dub-bio crudele, atroce lo segue ovunque e in un momento

di rilasciatezza infinita sidomanda se val meglio abban-donare tutto e darsi per vinto.No!! Il mondo ha bisogno diuomini forti, che sappiano resi-stere…”.

Più avanti, come per infon-dersi ulteriore convincimento,aggiungeva: “Sappi perseverare,attendi con fiducia, la felicità ètua e gli uomini ti stimeranno”.

Appena guarito dall’ampu-tazione aveva ripreso gli studi dimeccanica.

Frutto di questi studi furo-no parecchie geniali piccoleinvenzioni i cui brevetti sonocustoditi al Museo Storico deiBersaglieri a Roma. Una bendadi sicurezza per cavalli, unospazzolino protettivo per bici-cletta.

Già, la bicicletta: con quella si era già messo inmostra mentre era marinaio a La Spezia vincendo lamedaglia d’argento in una gara. Un’altra medaglia laprese nuotando con una gamba sola in una gara diattraversamento del Tevere.

E senza una gamba cercava ora di restare un buonciclista e spesso si cimentava con gli amici in piccolecorse e gare, cercando di fare buona figura. Ma non glibastava.

È così che si mise in testa di fare in bicicletta il girodel mondo.

Partì, nel 1911, diretto prima a Parigi e proseguen-do poi per Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Norve -gia, Finlandia. Puntava alla Lapponia e alla Russia del-l’estremo nord. Era arrivato al Circolo Polare Artico.Poi ridiscendendo era passato per Pietroburgo eMosca…

“A prova del suo spirito coraggioso – ha scritto poisua sorella Emma, in un opuscolo intitolato col nomedel fratello – e della sua forza di volontà, egli partì dacasa, dall’Italia, senza un soldo, fidando nelle risorse delsuo ingegno e nella genialità delle sue iniziative. Piùaspra era la lotta più acuiva le forze per vincere; più il

Enrico Toti, l’eroe con la stampellaL’incidente era avvenuto a Colleferro, provincia di Roma, sui binari della stazione ferroviaria. Una locomoti-va si era improvvisamente mossa e aveva investito il ferroviere fuochista Enrico Toti che la stava lubrificando.Al giovane ferroviere ventiseienne Enrico Toti – era nato nell’anno della morte di Garibaldi, il 1882 – aveva-no dovuto amputare l’intera gamba sinistra.

CENTENARIO PRIMA GUERRA MONDIALE

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pericolo era grave, più lo seduceva. Egli intraprese così,durante il viaggio, diversi mestieri, dal venditore di car-toline col suo ritratto, a caricaturista, a pittore istanta-neo riuscendo non solo a provvedere alle sue spese diviaggio ma anche al suo mantenimento…”.

Esperto di elettricità, amante della meccanica, fer-roviere, falegname, torpediniere, disegnatore, caricatu-rista, viaggiatore, e naturalmente interventista nonchénazionalista. Uomo peraltro assai testardo come mostraquesto appunto di viaggio:

“Sono rimasto bloccato per il ghiaccio due giorni inuna casetta di campagna, e dopo quindici chilometri dicammino sono giunto a Steinstrass, cadendo lungo lavia più di venti volte. Ma sono cadute leggere e sullaneve non mi faccio male; mi rialzo evia di nuovo in cammino”.

In Austria si presentò bardato diuna fascia tricolore che portava a tra-colla. Viaggiò così pedalando allegra-mente per il paese, attraversando vil-laggi e cittadine dove lo guardavanopassare piuttosto stupiti, finché nonarrivò a Vienna. Lì la polizia lo fermòe gli impose di togliersi la fascia trico-lore che aveva indossato provocato-riamente.

Per l’arrabbiatura Toti mise fineallora al suo viaggio ciclistico e rien-trò in Italia. Era il 1912.

Le avventure ciclistiche di EnricoToti non erano però finite.

L’anno successivo, nel 1913, quando aveva 31 anni,eccolo partire in bici per l’Africa. Sbarcò ad Alessandriadi Egitto e puntò stavolta al sud. Attraversato l’Egitto sispinse allora fino al centro del Sudan dove giunse nonsenza difficoltà. Le autorità inglesi che avevano già illoro daffare con le ribellioni in corso dei dervisci non glipotevano assicurare una scorta per rendere sicuro il suoviaggio. Era un impegno troppo gravoso, così lo con-vinsero a tornarsene indietro. Toti si fermò per un po’ alCairo dove si esibiva al Teatro Margherita, come ciclistasu una gamba sola…

Rientrato a Roma Enrico Toti non se ne stette conle mani in mano. Aprì un laboratorio per lavorare illegno, una falegnameria nella quale convogliò manmano parecchi ragazzi che strappava alla strada e allapiccola delinquenza.

Poi ecco il 1914, l’anno d’attesa prima dell’entratain guerra anche dell’Italia e quindi per Enrico Toti del-l’occasione a portata di mano, quella di andare al fron-te. Sembrava una follia per uno conciato com’era lui,eppure lui non desisteva.

Un giorno uscì di casa e al rientro aveva con sé una

divisa militare nuova di zecca che zitto zitto si era fattaconfezionare da un sarto. Pronto a partire diceva:

“Mi raccomanderò tanto finché dovranno far com-battere anche me; mi sento tanta forza e tanta energiache mi parrebbe una viltà rimanere inoperoso mentrelassù posso essere utile anch’io”.

Allo scoppio del conflitto presentò tre domande diarruolamento che furono respinte. Toti non era peròtipo da arrendersi. Inforcò allora la sua bici, salutòparenti e amici e via di nuovo verso il nord. Superò laToscana, superò gli Appennini, entrò nella pianurapadana, eccolo in pochi giorni arrivare in Friuli. Iniziòallora una lunga trattativa con le autorità militari cheincontrava qua e là. Alla fine la spuntò: venne preso

come civile, per fare il portaordini.Lui ne approfittò per andare oltre alservizio che gli si richiedeva; nonappena poteva si infilava nelle trincee.Raccoglieva fucili abbandonati,munizioni, giberne.

Il 4 agosto del 1915 scriveva:“Vado da una trincea all’altra

sospirando un posticino in primalinea, alle prese col fuoco nemico”.

Una sera, però, una pattuglia dicarabinieri lo fermò a Monfalcone. IlComando militare colse la palla albalzo e lo rispedì a casa, a Roma.

Enrico Toti era stato obbligato atornare alla vita civile. Niente pedala-te stavolta. Era salito su un treno a

Mestre. In stazione a un viaggiatore aveva detto: “Vadoal fronte”. Non era vero.

A una ragazza invece, mostrando la stampella:“Non mi ha mai tolto il coraggio; ma mi farebbe orro-re ora se mi impedisse di combattere…”.

Che inverno per Enrico Toti. Passò il tempo adinviare suppliche al ministero. Suppliche inutili.

Nel gennaio del 1916 quella che aveva inviato alDuca d’Aosta gli aprì finalmente un varco. Aveva scrit-to di sé, del suo coraggio, del suo “fegato”, aveva rac-contato di aver fatto 20 mila chilometri in biciclettaaffrontando tormente, ghiacci, lupi, iene, sciacalli…

Ed eccolo richiamato di nuovo al Comando Tappadi Cervignano del Friuli, sempre come volontario civi-le. Destinato alla brigata “Acqui” Enrico Toti sognavaaltro. Così riuscì a farsi trasferire presso i bersagliericiclisti del III Battaglione.

Per quattro mesi ce la mise tutta facendosi apprez-zare da tutti i soldati e dagli ufficiali. Andava a control-lare i fili telefonici, riportava armi trovate ai limiti deicampi di battaglia, si dette da fare a Sagrato e sulla col-lina di Casalnuovo.

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n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017 NOI DEI LAGER 29

Alla fine, in aprile, furono proprio gli stessi bersa-glieri a proclamarlo uno di loro e il comandante, ilmaggiore Rizzini, gli consegnò l’elmetto piumato dabersagliere e le stellette. Toti ce l’aveva fatta. Non figu-rava ufficialmente nell’esercito ma c’era di fatto.

Intanto la guerra era arrivata a un dunque: stava periniziare in quell’agosto del 1916 la sesta battagliadell’Isonzo, quella che si sarebbe conclusa con la presadi Gorizia.

Gorizia, la nuova passione di Toti, era martellatadalle artiglierie italiane poste sul monte Sei Busi.Preparavano con quel martellamento l’avanzata dei sol-dati italiani su quota 85, quota Pelata e quota 121.

Al momento però era vita di trincea e in trinceaToti si annoiava. Scriveva:

“La vita di trincea è terribilmente fastidiosa, siamocostretti a starcene intanati per non essere visti dagliaeroplani nemici; il caldo è insopportabile, non ci sipuò lavare, ma tutto si sopporta in letizia e tutto sidimentica quando al comando “Savoia” si può attacca-re il nemico e strappargli un pezzo di terra…”. E anco-ra: “Il maggiore Lavino mi ha permesso di lasciarmiuscire dalla trincea coi bersaglieri la prima volta cheandranno all’assalto. Tutti verranno con me e sarà pre-stissimo”.

Il sei agosto venne il suo giorno ed Enrico Toti silanciò col suo reparto all’attacco di quota 85, a est diMonfalcone.

Il giorno prima aveva scritto in una cartolina:“Dalle terre redenti. Cullandomi nella salda convinzio-ne di essere presto a Trieste a farvi sventolare il tricolo-re mando i più fervidi saluti a lei, alla Famiglia ed aiconsoci dell’Audace Club”.

Insomma, Enrico Toti era davvero pronto a tutto.«In pieno giorno superammo lo sbarramento nemi-

co allo scoperto – ha raccontato il bersagliere UldericoPifferi –. Alle quindici circa del 6 agosto 1916 arrivam-mo a quota 85, appena fuori Monfalcone,prima del Lisert, in località Sablici. Vennesubito l’ordine d’avanzare ed Enrico era tra iprimi. Aveva percorso 50 metri quando unaprima pallottola lo raggiunse. M’avvicinaimentre eravamo entrambi allo scoperto. Nonne volle sapere di ripararsi. Continuava a get-tare bombe, e per far questo si doveva alzareda terra. Fu così che si prese una seconda pal-lottola al petto. Pensai che fosse morto. Mifeci sotto tirandolo per una gamba ma questiscalciò. Improvvisamente si risollevò sulbusto e afferrata la gruccia la scagliò verso ilnemico. Una pallottola, questa volta l’ultima,lo colpì in fronte». Morendo Toti avrebbe gri-dato «Nun moro io». Questo raccontò Pifferi.

Al resto pensò la copertina della Domenica delCorriere. Mostrava Toti che era andato all’assalto tenen-do il moschetto con un braccio e con la gruccia impu-gnata dall’altro. Un colpo prima, poi un secondo maToti era andato avanti. Si riferiva che poi, per lanciarmeglio le bombe a mano, aveva gettato il moschetto.Finite le bombe, non avendo nient’altro da scagliareaveva allora afferrato la stampella e l’aveva lanciata versola vicina trincea nemica. Un terzo colpo l’aveva centra-to in testa. Prima però di essere freddato Toti aveva fattoin tempo a baciare il piumetto del suo elmetto da ber-sagliere.

Poco dopo quota 85 fu comunque conquistata dalIII Battaglione Ciclisti.

Nella notte le auto-ambulanze portarono i feritinegli ospedali. Erano quasi tutti bersaglieri. “Chi èmorto? Lo zoppo è morto? Ha lanciato la gruccia con-tro gli austriaci…”.

Per dargli la Medaglia d’Oro al valor militare il redovette ricorrere a un motu proprio, il 20 agosto del1916, a sole due settimane dalla morte del bersagliereciclista ad honorem. Toti infatti non era mai statoimmatricolato come militare a causa della sua inabilità.

La sua salma fu tumulata a Monfalcone. Poi nel1922 in piena ondata fascista, il 24 maggio nel setti-mo anniversario dell’entrata dell’Italia in guerra, furo-no organizzati solenni funerali a Roma. Durante lacerimonia si verificarono scontri a mano armata neipressi di Porta San Lorenzo e alcuni colpi raggiunseroperfino il feretro diretto al Verano. Comunisti e anar-chici da un lato, Guardia Regia e fascisti dall’altro.Seguì uno sciopero generale. Nel primo bilancioapparso il giorno dopo sui quotidiani si parlò di unmorto e di decine di feriti. “La Stampa” titolava:«Trista sanguinosa mischia a Roma attorno alla salmadi Enrico Toti».

Paolo Brogi

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30 NOI DEI LAGER n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017

La Commis sione Difesa del Sena to, presieduta dalSen. Latorre (PD), il 2 novembre 2016 ha ap provato amaggioranza un testo, redatto dal Comi tato ristretto,istituito per cercare di superare le divergenze emerse trale varie forze politiche, che stravolge la Proposta di Leg -ge “Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali èstata irrogata la pena capitale du rante la prima guerramondiale”, ap provata all’unanimità dalla Camera deiDeputati il 21 maggio 1915 (pochi giorni prima delCentenario dell’entrata in guerra dell’Italia), che preve-deva la riabilitazione sia dei fucilati in seguito a senten-za di condanna a morte emessa da un TribunaleMilitare, sia dei soldati vittime di esecuzioni sommariedi decimazioni.

Innanzitutto, sotto l’aspetto formale, il testo appro-vato dalla Commissione consta di un solo articolo, con5 Commi, mentre quello della Camera era di 4 artico-li. Però, le differenze più importanti riguardano il con-tenuto.

Il 1° Comma dispone: “la Repubblica riconosce ilsacrificio degli appartenenti alle Forze Armate che, nelcorso della Prima Guerra Mondiale, vennero fucilati senzache fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare pro-cesso, un’effettiva responsabilità penale”. Pertanto “pro-muove ogni iniziativa volta al recupero della memoria ditali caduti”. Pertanto, si parla di “recupero della memo-ria” dei Caduti e quindi non c’è più la “riabilitazione”dei condannati a morte con sentenza del TribunaleMilitare, prevista dall’art. 1 del testo approvato dallaCamera. La Commissione ha giustificato l’eliminazionedella riabilitazione innanzitutto perché questa presup-pone l’esistenza in vita dell’interessato, che ne deve farela richiesta. Per superare questo problema, la Propostaapprovata della Camera prevede che sia il ProcuratoreGenerale Militare presso la Corte Militare d’Appello arichiedere la riabilitazione al competente TribunaleMilitare di Sorveglianza. Inoltre, secondo laCommissione del Senato, la riabilitazione “potrebbe farsorgere delle aspettative di natura economica in capo allefamiglie dei caduti… dando luogo a contenziosi”.

L’unico aspetto positivo del 1° Comma è che i“fucilati” sono considerati “caduti”, al pari degli altri sol-dati morti durante la Guerra e che “la Repubblica…promuove ogni iniziativa volta al recupero della memoriadi tali caduti”.

Il 2° Comma dispone che “il Ministero della Difesaprovvede a riportare i nomi dei caduti… in un appositoelenco pubblico, contenente le circostanze della morte” e

non nello “Albo d’oro dei caduti”, come previsto nell’art.2, 1° Comma del testo approvato dalla Camera.

È invece positiva la previsione del passo seguentedel 2° Comma, in cui il Ministero della Difesa “promuo-ve ogni più ampia iniziativa di ricerca storica volta allaricostruzione delle drammatiche vicende del primo conflit-to mondiale, con particolare riferimento alle vicende deimilitari condannati alla pena capitale”.

La norma più sorprendente è però quella del 4°Comma, nel quale si prevede che “nel Complesso delVittoriano, in Roma, sia affissa la seguente iscrizione:«Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nelricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italiaonora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza legaranzie di un giusto processo. A chi pagò con la vita ilcruento rigore della giustizia militare del tempo,(l’Italia)offre il proprio commosso perdono»”.

Non è però chiaro se il “perdono” viene concesso achiunque “pagò con la vita” il reato commesso. Se cioè siapplica solo ai soldati fucilati in seguito a sentenza dicondanna a morte emessa dai Tribunali Militari o anchealle vittime delle esecuzioni sommarie, che non sono, arigore, un provvedimento di “giustizia militare”.

Non è neppure chiaro in cosa consista la “iscrizio-ne” posta nel Vittoriano; se sia una “targa in bronzo”(come previsto dall’art. 2, 2° Comma del testo approva-to dalla Camera) oppure una lapide marmorea. Inoltre,il testo dell’iscrizione è definito nel testo approvatodalla Commissione mentre, invece, doveva essere elabo-rato, in base al 3° Comma del testo approvato dallaCamera, attraverso un Concorso bandito dal MIUR tra“gli studenti delle Scuole secondarie di secondo grado”.

Infine, si parla nel 4° Comma di “giusto processo”,che è una cosa diversa dal “regolare processo” previsto nel1° Comma.

Però, la differenza più profonda, che peraltro susci-ta moltissime perplessità, è nell’ultimo capoverso del 4°Comma, secondo il quale “A chi pagò con la vita ilcruento rigore della giustizia militare del tempo, (l’Italia)offre il proprio commosso perdono”. Infatti, questa dispo-sizione stravolge profondamente il significato del 2°Comma dell’art. 2 della Proposta approvata dallaCamera, in cui invece si prevede “la volontà dellaRepubblica di chiedere il perdono dei militari caduti chehanno conseguito la riabilitazione”. Pertanto, “L’Italia”non chiede il “perdono dei caduti”, ma lo “offre” ad essi,come se i fucilati siano i carnefici e non le vittime! Èassurdo!

Soldati vittime delle esecuzioni sommarie,secondo il Senato, perdonati e non riabilitati

CENTENARIO PRIMA GUERRA MONDIALE

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n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017 NOI DEI LAGER 31

La Commissione Difesa del Senato ha giustificatol’offerta del perdono ritenendo che in questo modo sisuperano “le problematiche tecniche giuridiche, collegateall’utilizzo della riabilitazione individuale ed anche allarichiesta di perdono da parte della Repubblica”. Al riguar-do, il termine “Repubblica” è stato sostituito nell’artico-lato con “Italia” perché suscita perplessità la previsionedella “richiesta di perdono da parte della Repubblica ita-liana per sentenze comminate dal Regno d’Italia, in nomedel Re”.

Ci auguriamo, che il testo sia modificato dall’Auladel Senato, ripristinando il principio della riabilitazionedei soldati “morti per mano amica” perché è veramente

assurdo, oltre che incomprensibile, che lo Stato “offra ilperdono” alle vittime, invece di “chiederlo” ad esse peraverle condannate a morte “senza la garanzia di un giu-sto processo”.

Confidiamo inoltre che la Proposta di Legge siaapprovata definitivamente in occasione del Centenariodella Grande Guerra, in modo da restituire ai nostri sol-dati “morti per mano amica”, l’onore militare, cioè lostatus di “Caduti in guerra”, e la dignità di essere ricor-dati come “morti per la Patria” sia dalla propriaComunità (il Comune di nascita o di residenza) chedalla Società italiana.

Giorgio Giannini

Il ponte Matteotti a RomaA proposito di Giacomo Matteotti e

del ponte che porta il suo nome, ecco unastoria poco conosciuta.

Nell’estate del 1924, quello che aRoma si chiama oggi Ponte Matteotti eraallora un semplice ponte in costruzionetra il Lungotevere Arnaldo da Brescia e ilquartiere Flaminio. La costruzione erastata avviata da poco e il ponte sarebbestato finito nel ’29. Il regime lo avrebbepomposamente chiamato Ponte delleMilizie. Ma in quell’estate del 1924,quando si era consumato il delittoMatteotti messo a segno il 10 giugno – ilcadavere occultato fu ritrovato invece il16 agosto nel bosco della Quartarella a Riano, dove era stato nascosto dagli agenti della polizia politica diMussolini – il ponte fu ribattezzato prontamente Ponte Matteotti.

Era stata una grande scritta vergata a mano a ufficializzarlo, una scritta realizzata nottetempo sul murodel nuovo ponte in costruzione come risposta all’infame omicidio. Solo di recente sono venuto a sapere chea vergarla era stato un calzolaio ortopedico comunista, Nazzareno Ceccotti detto “Neno”.

Ceccotti era un giovane comunista sbarcato da poco a Roma con la moglie Marianna dall’Umbria.Veniva da Bettona, un paesino della provincia di Perugia, e a Roma aveva trovato casa dalle parti di PortaPortese. Aveva due figli piccoli, Vera e Michele, ma quando seppe che il deputato era stato sequestrato e cer-tamente messo a morte dai sicari fascisti non ebbe un minuto di incertezza. Prese un barattolo di vernice, ungrosso pennello, la bicicletta e raggiunse quel ponte in costruzione per scriverci sopra il nome del deputatosocialista. Perché proprio quel ponte? Perché era molto vicino al posto in cui era stato sequestrato e portatovia Giacomo Matteotti, il Lungotevere Arnaldo da Brescia. Erano stati due ragazzini a rivelarlo, riferendo dicinque uomini che avevano caricato Matteotti su un’auto risultata poi una Lancia K. Matteotti era stato rapi-to sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, il ponte era proprio lì nelle vicinanze, Ceccotti lo scelse per protesta-re contro quell’infamia. Fu notata quella scritta? Certamente non passò inosservata, era piuttosto vistosa. Neldopoguerra in ogni caso proprio quel ponte è stato ribattezzato Matteotti. Grazie forse al gesto di quel gio-vane calzolaio comunista.

Paolo Brogi

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L’approntamento della Linea Gustavfu una decisione di grande importanza strategica.

L’Organizzazione tedesca Todt avrebbe fornito laZwangsarbeiter (lavoratori forzati) rastrellati tra lapopolazione locale per l’edificazione di un enorme siste-ma difensivo, così fortificato, che richiese nove mesi equattro battaglie offensive prima che in esso si aprisseuna breccia.

Inizialmente i lavoratori si presentavano spontanea-mente ai tedeschi sapendo che l’alternativa sarebbe stataben peggiore: il Lager. Essi erano autorizzati a tornarealle loro case dopo il lavoro e riprendere le attività almattino successivo; poi, col passare del tempo, tale con-cessione fu abolita per l’urgenza di completare i lavoriin corso; solo ai parenti era permesso portare cibo aicongiunti.

Furono costruiti rifugi per il personale e per lemunizioni, caserme, trincee, camminamenti tra posta-zioni; demoliti edifici pubblici e privati che ostacolava-no l’osservazione e settori di tiro; stesi campi minatilungo la linea difensiva; allestiti posti di osservazione,nidi di mitragliatrici e ogni altro apparato immaginabi-le. Tutto ciò aveva assorbito un enorme sforzo economi-co e di manodopera.

La Gustav era formata complessivamente da cinquedistinte linee: Volturno, Barbara, Bernhardt, Gustav eHitler. Quest’ultimo tratto fu rinominato Senger-Riegel, perché, se abbattuto, l’importanza del Fuhrersarebbe stata negativamente influenzata.

Sbarco a SalernoLo sbarco degli Alleati iniziò alle 03.30 del 9 set-

tembre su un fronte di 42 km. nel Golfo di Salerno.Non fu agevole. Gli alleati incontrarono grande resi-stenza da parte delle divisioni tedesche che li attendeva-

no e che riuscirono ad aprire una falla pericolosa nelfronte di attacco avversario lungo il fiume Sele. Perundici giorni gli Alleati furono bloccati nelle loro posi-zioni. Grazie al prolungato pesante appoggio di fuocodell’artiglieria navale e bombardamenti aerei continui,essi evitarono il peggio.

Grande aiuto in tali circostanze fu la rivolta deinapoletani, uomini, donne e bambini (le 4 giornate diNapoli) dal 27 al 30 settembre. Le truppe tedeschefurono costrette a ritirarsi non prima di distruggere ilporto, serbatoi d’acqua, strade, ponti e razziare tutto ilpossibile.

Il 12 ottobre, la Vª Armata Americana raggiunse lalinea Volturno che superò dopo quattro giorni soste-nendo duri combattimenti. Il 2 novembre gli Alleatierano davanti alla Linea Barbara. Questo intervallo ditempo consentì al generale Kesselring di completare ilconsolidamento di quella che era la vera Linea difensi-va Gustav.

Lo schieramento alleato era ripartito in fronte occi-dentale, con la Vª Armata dal Mar Tirreno a Sant’Elia,est di Cassino, e fronte orientale con la VIIIª Armatabritannica fino al mare Adriatico.

Nel corso di tre combattimenti piccoli vantaggierano stati acquisiti in contrasto con il costo di perditeumane elevato. Il tempo meteorologico era rigido e pio-voso tanto da essere definito come “le peggiori condizio-ni avvertite a memoria d’uomo”. I veicoli blindati trova-vano difficoltà a muoversi in terreno collinare interseca-to da fiumi e torrenti in piena. Solo combattimenti acorta distanza consentivano di guadagnare posizioniche subito dopo erano riprese dal nemico.

Migliaia di volantini furono lanciati dagli aereidella Luftwaffe che riportavano l’immagine di unalumaca che si muoveva lentamente su per l’Italia; la

La linea GustavItalia, settembre ‘43 - maggio ‘44

Dopo la defenestrazione di Mussolini del 25 luglio 1943, i tedeschi cominciarono a temere uno sbarco delle forze alleatein Italia, infatti questo accadde in grande stile nel Golfo di Salerno il 9 settembre, l”Operazione Avalanche”. In previsio-ne di ciò il generale Albert Kesselring, comandante dell’Armata tedesca in Italia, ordinò la creazione di una linea difen-siva principale per arrestare o ritardare la progressiva avanzata delle forze alleate:la Linea Gustav. Essa doveva essere unsistema di linee difensive che percorreva trasversalmente la penisola italiana dal Tirreno al mare Adriatico avendo Cassinocome punto di forza. Per maggior sicurezza, ordinò la messa a punto di un’altra linea difensiva a nord di Roma che col-legasse Massa e Carrara a Pesaro, situate sugli opposti litorali italiani: la Linea Gotica. In questo territorio però le popo-lazioni soffrirono guai peggiori da parte dei “ liberatori”, le truppe marrochine del generale francese Alphonse Juin che daparte degli occupanti tedeschi. Gli stupri e le violenze di ogni genere commessi dai Goumiers furono migliaia e migliaia ea lungo dimenticate salvo che per il film di Vittorio De Sica “La ciociara”.

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

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didascalia indicava: “la strada è lunga”. I tedeschi cerca-rono di resistere il più possibile, per offrire al grossodelle truppe in ritirata il tempo sufficiente per raggiun-gere e schierarsi sulla seconda linea di difesa fortificataa nord di Firenze: la Linea Gotica. Piccole unità mobi-li tedesche, dopo un’azione offensiva, abbandonavanole loro posizioni per battere quelle occupate dall’avver-sario con dati di tiro precisi conoscendone quelli topo-grafici.

La situazione sul fronte era in fase di stallo. Per fareun esempio: Santa Maria Infante, una piccola cittàaccanto alla linea Gustav, fu sottoposta a diciassetteattacchi e contrattacchi. Rasa al suolo, oggi è come nel1944: un museo a cielo aperto per mostrare al mondole brutture della guerra.

Sbarco a AnzioLo sbarco di Anzio avvenne senza difficoltà il 22

gennaio 1944. Dopo aver conquistato la testa di ponte,il maggiore generale John Lucas, invece di spingere leunità disponibili in direzione del pre-Appennino, quasia 30 Km nell’entroterra, per tagliare la ritirata dei tede-schi, attese l’arrivo delle truppe rimanenti assegnate. Itedeschi, colti di sorpresa, ebbero tempo, causa man-canza azioni nemiche, a schierare una divisione corazza-ta. Il temporeggiare del generale Lucas fu causa diaumento di perdite umane e prolungamento della guer-ra di logoramento di alcuni mesi. Per il suo errore stra-tegico egli venne sostituito dal generale Lucian KingTruscott Jr.

Quarta battaglia di CassinoData l’immobilità del fronte, dopo la terza battaglia

di Cassino senza successo, il generale francese AlphonseJuin propose al generale Alexander l’intervento del CEF(Corp Expéditionnaire Français - Corpo di SpedizioneFrancese). La proposta fu accettata. Il contingente fran-cese, sbarcato a Napoli, era composto da quattro divi-sioni di circa 99.000 uomini tra francesi - marocchini -algerini - tunisini e senegalesi, dotate di 4.000 muli pertrasportare tutte le attrezzature necessarie. Il CEF era

caratterizzato dalla presenza di circa 12.000 Goumiers,marocchini e algerini specializzati nella guerra di mon-tagna; organizzati in piccoli gruppi (goum) sotto ilcomando di un ufficiale francese, erano in grado diandare dove era proibitivo per le truppe regolari: idoneiall’attacco silenzioso, di notte, eliminavano chiunquefosse nel loro percorso, mutilandone i corpi permostrarne i cimeli. Ebbero il compito di superare imonti Aurunci e proseguire in direzione Cassino perconsentire alle truppe alleate la rottura della lineaGustav.

Nel maggio 1944, dopo nove mesi di aspri combat-timenti, bombardamenti e la distruzione inutile diMontecassino, le forze alleate lanciarono la “4ª battagliadi Cassino” con il nome di Operazione Diadem.L’obiettivo era quello di rompere definitivamente laLinea Gustav e unirsi alle truppe alleate sbarcate adAnzio e, infine, raggiungere la capitale d’Italia. L’assaltofinale iniziò alle ore 23.00 dell’11 maggio 1944 con ilfuoco di preparazione di oltre 1.600 pezzi d’artiglieria,rovesciando tonnellate di proiettili sulle posizioni tede-sche, e il supporto di oltre 3.000 velivoli. In contempo-ranea, bombardamenti navali martellavano la costa daTerracina a Sperlonga lungo il Mar Tirreno.

Alle 23.45 il 2° Corpo Polacco su due divisioni e ilCorpo Italiano di Liberazione, lanciarono l’attacco aMontecassino. Ci furono pesanti perdite a causa dell’in-tervento del 1ª Divisione paracadutisti tedeschi.

Il XIII Corpo d’armata britannico, con grande dif-ficoltà, riuscì ad attraversare il fiume Rapido e continuòla progressione nella Valle del Liri con difficoltà.

Più a sud il CEF (Corp Expòditionnaire Français),sotto il comando del generale Alphonse Juin, era pron-to ad intervenire nella zona rocciosa di Monte Maio peraprire la strada per la città Esperia. Prima dell’attacco ilgenerale Juin offrì come premio ai suoi soldati, in casodi vittoria, 50 ore di libertà per agire liberamente: tuttosarebbe stato permesso; nessuna punizione per qualsi-voglia azione.

Le Divisioni americane, la 88ª e 85ª, lanciaronol’attacco sul lato occidentale. Il movimento risultò ral-

lentato e si registraronomolte perdite. La resistenzatedesca si rivelò tenace per-ché abbarbicata sulle alture.

La brecciaIntervento del Corpo diSpedizione Francese - CEF

La rottura della LineaGustav fu dovuta principal-mente alle truppe colonialifrancesi che si spinsero inMappa dal libro “Montecassino” di Matthew Parker

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direzione dei monti Aurunci. Il risultato fu inaspettato:effettuarono assalti violenti per la peculiarità dei maroc-chini, maestri nella lotta in zone impervie. Eliminaronofisicamente chiunque trovassero lungo il loro camminoper aprirsi la strada verso Castelforte, Ausonia, Esperia,dove erano schierati i servizi tedeschi.

Così fu aperta una breccia nella Linea Gustav tra ilMonte Feuci e Monte Maio. La conquista delle localitàcitate costrinse i tedeschi al ripiegamento verso nord. Labattaglia intorno a Castelforte, caposaldo tedesco, fuall’ultimo sangue. Nessuna possibilità di resistere unavolta caduto.

Il 15 maggio 1944 la Linea Gustav crollò per meri-to del Corp Expéditionnaire Français. Con tale vittoriai francesi vollero dimostrare la loro capacità operativa,recuperare il prestigio della Francia dopo la capitolazio-ne disonorevole del 1940, a causa della collaborazionedella Repubblica di Vichy con i tedeschi, e controbilan-ciare la freddezza dell’accoglienza degli americani e deibritannici, quando sbarcarono in Algeria nel 1942.

Il superamento della Linea Gustav costò agliAlleati notevoli perdite umane e materiali.Cercarono di avanzare oltre gli sbarramenti matrovarono difficoltà insormontabili. Subirono unaguerra di posizione logorante e sanguinosa. In trebattaglie persero più di 60.000 uomini. Non riu-scirono a guadagnare un metro; i loro grossi veico-li non potevano muoversi nel terreno roccioso.

L’intervento dei Goumiers aprì la strada versoRoma con i coltelli in combattimenti corpo acorpo, seminando poi tra le popolazioni “liberate”il terrore. Infatti, ciò che fecero alla popolazione fudi una gravità enorme: violentarono, torturaronodonne, vecchi e bambini. Chi opponeva resistenzaveniva sepolto vivo o impalato. I genitori furonocostretti a guardare lo stupro consumato sulle lorofiglie. Neanche i loro comandanti erano in gradodi fermare quelle bestie selvagge. Il generale Juinmacchiò la Francia di infamia per ciò che queibarbari seminarono lungo il loro cammino: deva-starono, rubarono, saccheggiarono, uccisero, vio-lentarono.

I Goumiers, montanari del Marocco, indossa-vano abiti tribali: un barracano (coperta) a righeche copriva i pantaloni stretti alla caviglia emaglione a collo alto; in testa portavano un tur-bante di lana, il Jellaba. Avevano i muli per tra-sportare il loro armamentario e ovini da macellareal bisogno e cuocere sulla brace. Com battevanodurante la notte; silenziosi si inerpicavano sulleroc ce e colpivano il nemico con coltelli e cortesciabole. Iniziarono l’attacco a Monte Faiti l’11maggio e il 14 avevano raggiunto Castelforte,

Coreno, Ausonia, Castelnuovo Parano. Inseguirono itedeschi, ormai in fuga, e il loro furore si sfogò aVallecorsa, Pico, Castro dei Volsci e in molte altre citta-dine, in una lunga scia di dolore. L’obiettivo finale eraPontecorvo e la strada Casilina per aggirare le posizionidei difensori di Monte Cassino. Quando vi giunsero, itedeschi si stavano ritirando.

Per l’ignominioso comportamento, definito con laparola “marochinate”, la responsabilità non deve esserea carico solo del generale Juin. De Gaulle era nella zonae sapeva quanto di brutto stava accadendo; il ministroitaliano Ivanoe Bonomi non intervenne con i coman-danti alleati. L’unico a spendere parole per fermare talibrutalità fu il Papa. Nessuno aveva interesse a fermarequelle bestie. Lo scopo era quello di superare l’impassedella Linea Gustav e ci riuscirono. Non importa come.De Gaulle adottò un provvedimento per frenare gliardori della soldataglia: dette ordine di far arrivare 150prostitute dal Marocco. Nonostante le concessioni aimilitari vincitori, 15 Goumiers furono giustiziati e 54

Foto concesse da “the Gustav Line - Garigliano Front Association.Essa mantiene viva la memoria degli avvenimenti di quel periodo bellico.

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condannati ai lavori forzati per la loro straordinaria vio-lenza malefica.

Tutte le città sopra nominate hanno ottenuto laMedaglia d’Oro. È una storia di cui nessuno vuole par-lare sia per la vergogna di quanto subito che per il timo-re di sminuire il significato della Liberazione da partedegli Alleati.

I francesi ricordano la battaglia di Cassino avendodato il nome Pont du Garigliano ad un ponte sullaSenna a Parigi. Un superstite italiano dice: “Le parole

non bastano per esprimere la rabbia e la vergogna diappartenere alla stessa razza umana di coloro che, comevincitori, agirono con la ferocia di bestie selvagge nel com-mettere atti immorali. Le molestie tedesche alla popolazio-ne locale possono essere considerate lievi rispetto a ciò cheufficiali francesi, al comando dei Goumiers, consentironodi fare”.

Pietro Giovanni Liuzzi, saggistacolonnello in pensione - Esercito Italiano

https://www.facebook.com/groups/410367442465503/

* L’autore, all’età di nove anni, è stato a Castelnuovo Parano con la sua famiglia, quando, nel mese di ottobre 1943, le SS tedesche rastrellarono gli abitanti delvillaggio da trasferire in un campo di internamento nella zona sud di Roma, e consentire libertà di movimento alle truppe lungo la Linea Gustav. Molti abi-tanti riuscirono a sfuggire, ma la maggior parte subì le marocchinate. Le azioni criminali dei Goumiers sono raccontate nel romanzo di Alberto Moravia e nelfilm di Vittorio De Sica “La Ciociara”.

MULHBERGAi primi di dicembre del 2016 un gruppo di iniziativa per il Lager di Muhlberg nella persona di Mrs. Silvia

Angelucci ha scritto alla Presidenza nazionale, chiedendo il nostro appoggio perché stavano per incorporare ilterreno dell’ex Lager di Muhlberg in un’area, immessa in una gara per l’estrazione di materiale ghiaioso.Abbiamo scritto una lettera in inglese alla società, ammonendo la stessa o chi per essa a non distruggere quel-la che era una memoria da tenere viva per le future generazioni. E in data 9 febbraio u.s. abbiamo appreso dallostesso gruppo che, grazie alle forti pressioni, si era giunti ad un compromesso: l’area con le relative tombe sareb-be stata preservata e sarebbero stati tracciati confini precisi per la ditta in questione. Muhlberg è per lo menoper ora preservata. Siamo stati veramente lieti di aver contribuito a salvare l’area che, fra l’altro, conteneva anchetombe di ex internati. Di questi tempi dove i nazionalismi e gli odi rispuntano in tutte le parti del mondo,abbiamo constatato straordinario interesse per il campo di Mulhberg. Gente di ogni paese hanno agito insie-me per salvare la memoria delle vittime di quei tempi crudeli… È stato molto significativo.

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Il tenente generale Vito Artale,un caduto alle Fosse Ardeatine

La vita del generale Vito Artale fu un nobile esempio di dedizione e di sacrificio nell’adempimento delproprio dovere, che considerò come una missione, alla luce di un ideale che trascendeva il valore della vitastessa. I suoi princìpi morali, il senso del dovere e dello Stato, l’amore di Patria, e gli intimi ed elevati prin-cìpi che caratterizzarono l’intera sua vita sono ben evidenziati in alcune brevi frasi vergate a mano la nottetra il 23 ed il 24 luglio 1943 sul suo testamento:

“Ho vissuto nutrendo una sola profonda passione, un solo ideale: quello della Patria ed un solo affetto,quello per i miei familiari. Dall’età di quattordici anni ad oggi, la mia vita ha avuto questo unico ideale chehio messo davanti a me sperando e desiderando di potere un giorno avere la fortuna di donare la mia vitaalla Patria, morire in piedi davanti al nemico del mio Paese e non in un letto fra il pianto e la dolorosa pietàdei parenti. Lo spero ancora.

Non ho mai sposato partiti politici – ma sono stato sempre per quelli che hanno operato per il bene delmio Paese.

Quanto posseggo non è frutto di sacrifici perché ho servito nella carriera d’ufficiale che mi ha dato sod-disfazioni grandi e che non mi è pesata per nulla – ma è però frutto di una onestà spinta al massimo. Mnelmio servizio, qualche volta molto delicato, ho sempre difeso l’economia dell’Amministrazione Militare, maipensando al minimo tornaconto né materiale né morale…

Non abbiate un gran dolore pel mio distacco. Ritengo che al mondo non ci sia maggiore intima soddi-sfazione di non temere la morte. Spero di fare questo passaggio in pieni sensi – anzi in piedi – con uno scopo,che non potrebbe essere se non per il prossimo, per la mia Patria.

Viva l’Italia e viva quello che ad Essa hanno saputo dare o sapranno dare.Notte 23 e 24 luglio 1943/XXXI

Vito Artale”.

Al tenente generale Vito Artale è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare allamemoria con al seguente motivazione:

“Dirigente delle Vetrerie d’ottica del Regio Esercito che con appassionata intelligenteabnegazione aveva portato ad alto grado di perfezione produttiva, svolse subito dopo l’occupazione di Roma,in collaborazione con i suoi fidi, intensa attività allo scopo di mettere in salvo e sottrarre alla furia distruttri-ce e spogliatrice nazifascista, documenti e materiali di cospicuo valore militare condusse al suo arresto. Dopotre mesi e mezzo di carcere serenamente sopportato, il 24 marzo 1944 fu trucidato alle Fosse Ardeatine.Esempio luminoso di attaccamento al dovere, di senso di responsabilità e di fortezza d’animo spinta fino alsacrificio della vita coscientemente immolata nell’esaltazione fervida dell’ideale supremo della Patria”.

Dalla rivista “l’Elmo” dell’associazione Naizonale Ufficiali tecnici dell’esercito italiano n. 1 e 2/2016

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Il 18 settembre 1944 si consumò a Romaun sacrificio umano.

Il linciaggio di Donato Carretta, diret-tore del carcere di Regina Coeli fino alluglio 1944, sgomenta ancora per la dina-mica inesorabile, la ferocia belluina, ladrammaturgia arcaica, in contrasto con illuogo dove scoccò la scintilla della folliacollettiva: il Palazzo di Giustizia, in teoria iltempio della legalità giudiziaria e delloStato di diritto. Quel giorno doveva aprirsiil processo a Pietro Caruso, che era statoquestore di Roma durante l’occupazionenazista, nonché zelante collaboratore diKappler nell’eccidio delle Fosse Ardeatine,al quale aveva generosamente contribuito,fornendo cinquanta nomi di detenuti adisposizione delle autorità italiane.

L’inizio dell’udienza era fissato per le nove, ma sindalle prime ore del mattino il pubblico aveva preso adassieparsi e poi ad accalcarsi, sempre più numeroso nelcrescendo di febbrile attesa che era montata nelle setti-mane precedenti. Una troupe cinematografica, sotto ladirezione di Luchino Visconti, era incaricata di ripren-dere il processo per conto della Psychological WarfareBranch. La folla si ingrossava sempre di più, premevaper entrare e assistere, come a uno spettacolo. Infinedebordando, divenne incontenibile, travolse ogni osta-colo e, proveniente da vari ingressi, irruppe nell’aula.

In quell’atmosfera eccitata Donato Carretta, cheera stato convocato come testimone d’accusa, fu all’im-provviso da qualcuno (chi, di preciso?) additato allamassa informe e scalmanata come aguzzino (per un tra-gico fraintendimento? Uno scambio di persona?). L’in -vettiva sguaiata si trasformò presto in aggressione, asuon di pugni e percosse (chi sferrò il primo colpo?),poi in caccia, inseguimento affannoso e accanito per imeandri del Palazzo di Giustizia. Sfuggito e riacciuffatopiù volte, Carretta fu trascinato all’esterno e steso sullerotaie del tram. Poiché il conducente della circolare chesopravveniva si rifiutò di schiacciarlo, fu scaraventatonel Tevere da Ponte Umberto, raggiunto in barca, mas-sacrato a colpi di remo e annegato sotto gli occhi diinerti tutori dell’ordine e di una folla di spettatori, quali

increduli e costernati e quali invasati o stolidamentecuriosi. Il cadavere, ripescato dalle acque del fiume, inun’orrida parodia di corteo funebre fu strascicato pervia fino al carcere di Regina Coeli, dove fu appeso perle caviglie a una finestra del piano terreno, a destra delportone.

La passività o inettitudine delle forze dell’ordine,tanto italiane quanto angloamericane, si sarebbe rifles-sa nell’inefficienza delle indagini. Alla raccapricciantegiustizia sommaria somministrata a Donato Carretta(per quali crimini?) avrebbe fatto da contrappunto lagiustizia mancata per il suo linciaggio. Pochi gli impu-tati, dopo investigazioni approssimative e assai lacuno-se in una Roma torbida, inattendibili o reticenti i testi-moni, iniquo il processo, condizionato dalla mutatatemperie politica, che nel 1947 avrebbe giudicato col-pevoli e condannato a pene miti solo tre persone, duebalordi e una vecchia madre, tormentata da moventeaffettivo.

Su l’“Avanti” del 19 settembre 1944, all’indomanidel linciaggio, Pietro Nenni, deplorando l’accaduto,aveva descritto Donato Carretta come “un funzionarioche aveva al suo attivo l’adesione data alla Resistenzacontro i nazi-fascisti durante i nove mesi dell’occupa-zione di Roma”.

Livia Serra di San Leo

Il linciaggio di Donato CarrettaSu Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli, si riversò il furore popolare durante il proces-so al questore fascista Pietro Caruso, nel quale egli era stato chiamato come testimone. Il povero Carrettapagò per colpe non sue: un’anticipazione di quella stagione di odi e vendette che doveva accompagnarela fine della guerra civile in Italia e travolgere anche persone innocenti.

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

Il corpo ripescato nel Tevere

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Ve vojo riccontà ‘na gran storiacciade quelle che nun trovi nei libbri de’ liceoperché nessuno vole mettece la facciaa spiegà quanto ‘no sbajo e l’odio ponno giungeall’apogeo.

A Roma è ‘na giornata de settembre,c’è l’aria frizzantina, er sole è color ambra.La guera, la seconna, ancora angoscia li ggiorni deiromani,so’ iti li tedeschi e mò ce so’ l’americani.

‘N’omo, un Direttore,se guarda nello specchio n’antra vorta,bacia fija e moje su la soja de la portae scenne in strada co’ ‘n certo friccicore,bello e signorile, cor capello impomatato,gajardo ed acchittato ner suo abito gessato.

Oggi c’è tenzione e tant’attesatra la gente ancor sfreggiata e vilipesa,radunatase de prescia ar Palazzaccioper assiste trepidante a quer processo de matinache riguarda un recente, traggico fattacciosu la stragge, sull’eccidio a le cave d’ardeatina.

Alla sbarra, là sur banco, è l’imputato.Cereo, immobile e accusatod’esse stato gran reggista e primo attorede’ la conta e de la lista de chi annava fucilato,cor nemico sottoscritta da ‘st’ignobbile questore.

Testimone de’ st’infamia da cui tutto poi se mosse,de Reggina Coeli era dunque er Direttoreche artefice de rischio ma d’astuzia fin autorepiù d’uno, se non molti da la morte li sottrasse.

Ma giungenno in tribunale, tra du’ stuoli scatenati,quarche d’uno lo scambiò per er torbido aguzzino.Fu ‘na donna popolana, sì, me pare de’ Frascatiche segnò l’insospettato ed indegno suo destino,che gridò co’ i diti nerboruti a lui puntati“accoppamo ‘sto majale, ‘sto corotto ed assassino!”.

E giù botte, carci e pugni e ‘na serie de mazzate,chi spigneva, chi sputava,chi ‘na sedia je tirava su la testa già ferita.

Ormai preso dar terore e da incedere sgomentol’omo cerca de scappà dar furore e dar tormento,schiva, scampa, inciampa claudicantee pensanno de salvasse da veloce e certa mortese ripara sciorto e lesto dentro l’aula de la Corte.

Inseguito decontinuo da ‘na follainferocita,scenne a quattro ligradoni de la terreascalinata.S’aritrova nerpiazzale già detrattoda ‘na manosalvatricee disteso sui binari da follìa vendicatrice.

Se riarza,pesto e lacero, co’ le vesti sbrindellate,rincorso e ancor braccato da frotte assatanate.Fuggenno da crescente fiumana tracotante,se dirigge speranzoso ar vicino e reggio ponte,ma,riacciuffato, mazzolato e ben corcatogiù ner fiume a catapulta viene rovesciato.

L’acqua fresca lo risveja da l’acchiappo forcajolo,l’onda fiacca culla dorce ‘sto cristiano moribbondo,anelante solamente er disìo der tempo estremo.Ma da sponda opposta, ecco ariva furibondo,richiamato da la ciurma, un solerte barcaioloche già accosta a stramazzar er proprio remoaffonnànno la capoccia de ‘sto poro corpo errantemassacrannoje la faccia de vermijo sanguinantea turbar rapidamente de colore rubbicondole acque placide e quiete dell’ignaro fiume biondodove stracche e dilagnatevagan ormai strazziate e ripudiatele membra di chi andò per far giustizziae se trovò bandito da odio proditorio e tal nequizzia.

Contro er molo cozza ‘sto cadavere ambulantee né pietà né compassionegniuno volle daje in dono confortantesolo, armeno in quest’urtima occasione.Issate come ‘n sacco le spoje esanimi e l’animo spirato,come ‘n capretto pe’ li piedi venne sur serciatotrascinatoe,giunto ar luogo dove tutto era iniziato e tutto s’eraaccesoa ‘n’inferiata carceraria a testa a tera venne appeso,così ch’er popolo sazziato e de ferocia ostaggiocompì l’opera sua con tal indescrivibile, barbarolinciaggio.

Marco Riscaldati

ROSSO TEVERE (in memoria di Donato Carretta)

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Fare ritorno a MonteSole dopo settanta annidall’orrenda strage che siconsumò dal 29 settem-bre al 5 ottobre 1944 nel-l’area di Marzabotto peropera dei nazifascisti eche portò all’uccisione disettecentosettanta civili,ci spinge a riconsiderarequei fatti in un’otticamaggiormente purificatada alcuni “peccati dimemoria”. Alle primaluci dell’alba del 29 set-tembre la 16a divisioneSS guidata dal generaleLoos e dal maggioreReder ed alcuni repartidella Wehrmacht (il FlakRegiment e l’Ost Ba -taillon), accerchiarono lazona di Marzabotto conl’intento di colpire amorte la brigata partigia-na “Stella Rossa”, stermi-nando civili, case e be -stiame. La chiesa e ilcimitero di Casaglia,l’oratorio di Cerpiano, laBotte di Pioppe, Caprara, Colulla e diverse localitàfurono i luoghi in cui gli abitanti videro improvvisa-mente la morte entrare nelle loro esistenze. I contadini,gli operai, famiglie intere si scontrarono con la catego-ria dell’ “inimmaginabile” e vennero privati della lorodignità di persone. La sorte dei sacerdoti diocesani ereligiosi è conosciuta: don Ubaldo Marchiotti, donFerdinando Casagrande e don Giovanni Forma sini,don Elia Comini e Padre Martino Cappelli pagaronocon il sangue la loro fedeltà a Vangelo di vita.

Guida indiscussa della brigata partigiana “StellaRossa” fu Mario Musolesi, che nacque a Monzuno nel1914 e morì il 29 settembre 1944 nello scontro pressoCadotto. Militare italiano in Libia, dopo l’8 settembre

1943 ritornò nel suopaese d’origine e lì insie-me ad alcuni amici ini-ziò la lotta al nazifasci-smo. Nel novembre1943 presso la canonicadi Vado nacque la briga-ta partigiana “StellaRossa”. In quell’occasio-ne erano presentiLeonildo Tarozzi – rap-presentante del CLN diBologna – Mario Mu -solesi, Olindo Sammar -chi, Giorgio fanti, il par-roco don Eolo Cattanidi Vado ed UmbertoCrisalidi. La “StellaRossa” operò più chealtro nell’acrocoro diMonte Sole; fu compo-sta soprattutto da giova-ni che abitavano aMarzabotto, Monzuno eGrizzana e provenientidalle famiglie di contadi-ni ed operai della zona.La brigata ebbe scontriarmati con i nazifascisti,attuò sabotaggi notturni

alle linee di comunicazione operando continui assaltialle caserme della Guardia nazionale della RepubblicaSociale nel biennio 1943-1944.

L’eccidio di Monte Sole si colloca all’interno dellaguerra di sterminio pianificata dalla Germania nazistasia sul fronte occidentale sia su quello orientale. Si gene-ra all’interno del “normale” svolgimento del conflitto la“guerra ai civili” o “guerra terroristica”. Fu seguita lastrategia militare denominata “prosciugare il mare”, stu-diata in Germania ed applicata negli anni Trenta inestremo Oriente: “come il pesce non può fare a menodell’acqua, così il partigiano non riesce a vivere senzal’apporto della popolazione civile”. L’intento dichiaratoera di eliminare le condizioni ambientali che rendevano

A settant’anni da Monte Sole: i fatti e le distorsionidella giustizia e della memoria

Si ha la sensazione di risentire la voce del Sinai:“levati i calzari perché il terreno che tu calpesti è santo…”

Luciano Gherardi, Monte Sole 1978

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

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possibile l’esistenza stessa dei partigiani, denominati“ribelli” e “banditi” dalle autorità tedesche, e quindifuorilegge, non soldati che militano nelle proprie trup-pe con decoro ed onore. Secondo le indicazioni deimanuali di comportamento diffusi all’interno dellaWehrmacht e la direttiva di combattimento contro lebande dell’Est Merkblatt 69/1, applicata anche sulfronte occidentale, si doveva essere spietati con i parti-giani ed i fiancheggiatori: “Ogni comandante di repar-to è responsabile del fatto che banditi e civili catturatinel corso di operazioni di combattimento (anchedonne) vengano fucilati o, meglio, impiccati” (n. 84);“Chiunque sostenga le bande, offrendo rifugio o ali-menti, tenendo segreto il luogo dove si nascondano o inqualsiasi altro modo, merita la morte” (n. 85).

Quando si riflette sulla strage di Monte Sole, ilpensiero riguardo alla colpevolezza si dirige verso laguerra di sterminio pianificata dal terzo Reich durantela seconda guerra mondiale. Nell’introduzione al volu-me di Luciano Gherardi “La querce di Monte Sole”,Dossetti riconosce nella Germania nazionalsocialista ilmaggior imputato: “Invece degli angeli, nella comunitàdi Monte Sole, entrò la morte: criminosa. Il crimine, damettere sul conto di chi? Si risponde da tutti: sul contodel Terzo Reich”. (1)

Occorre ricordare che fattiva fu la collaborazionedelle autorità fasciste nell’attuazione dell’eccidio. Comeavvenne a Sant’Anna di Stazzema (Versilia) il 12 agosto1944, dove i pochi sopravvissuti all’eccidio (cinquecen-tosessanta vittime civili) narrarono di aver sentitouomini – in divisa militare tedesca e coperti in volto daelmetti – parlare il dialetto della Versilia, così aMarzabotto i fascisti, i cui capi erano Armando Quadrie Lorenzo Mingardi, collaborarono nel condurre i tede-schi nella loro opera omicida. Le autorità tedesche uti-lizzarono le camicie nere di Marzabotto come informa-tori/delatori, guide per sentieri poco conosciuti ed ese-cutori di uccisioni. In alcuni casi non la mimetica gri-gioverde delle SS e della Wehrmacht, ma il dialetto emi-liano rivelò in modo inconfondibile la nazionalità deicarnefici. Grazie all’ “amnistia Togliatti”, molti fascisti,colpevoli di tremendi misfatti e di aver tradito la patria,non pagarono il loro conto con la giustizia.

La sorte di Walter RederNel settembre 1945 i britannici catturarono il mag-

giore Reder e lo internarono nel campo di prigionia diWolfberg (Austria). Su richiesta del governo italiano,Reder fu estradato in Italia dove venne processato, investe di unico imputato, nel 1951 presso il Tribunalemilitare di Bologna per l’eccidio di Marzabotto e per glialtri accadimenti avvenuti tra il 12 agosto ed il 1°novembre 1944 in Toscana ed Emilia. È del 1° novem-

bre 1945 un documento dell’Headquarters Fifth ArmyG2, che riporta informazioni su diciassette componen-ti della XVI divisione Reichfuhrer-SS implicati nell’ec-cidio San Martino e La Quercia, toponimi indicantiMarzabotto. Nell’elenco spicca la personalità del mag-giore Reder:“SS Major Raeder (sic) 16 SS Recon bn. Approx 25- 30years old. Decorated with Knight’s Cross. Hair: darkblond. Eyes: blue. Build: slender. Complexion: Tanned.Marks: Lower part of left arm amputated. Raeder gaveorders that, in the event of partisan resistance all housesinhabited by armed civilians should set on fire, and allcivilians, regardlesse as to sex and age, an all cattleshould be killed. (2)”.(traduzione non ufficiale: SS Maggiore Raeder 16 SSRecon bn. Età: approssimativamente 25-30 anni. De -corato con la Croce di cavaliere. Capelli: biondo scuro.Occhi: blu. Corporatura: snella. Carnagione: abbronza-to. Segni particolari: la parte inferiore del braccio sini-stro è amputata. Raeder ha dato ordini che in caso diresistenza partigiana si doveva dare fuoco a tutte le caseabitate da civili armati e che tutti i civili, senza tenerconto né del sesso né dell’età e tutto il bestiame doveva-no essere uccisi).

Il 2 luglio 1948 fu emesso il mandato di cattura:“perché, quale combattente del battaglione 16° SS nel-l’occasione di un’azione contro la brigata partigiana“Stella Rossa” dette ordine ai suoi dipendenti di uccide-re, senza discriminazione, le popolazioni civili e diincendiare case e fienili, determinando così nei giorni28, 29, 30 settembre 1944, nella zona del comune diMarzabotto ed in quelle viciniori, l’uccisione di oltremille persone – quasi tutti vecchi, donne e bambini –nonché l’incendio di molti casolari e fienili”.

La strategia con cui l’ex maggiore delle SS rivendi-cò la sua innocenza si avvalse di due strumenti: ilmemoriale dei Reder intitolato “la guerra partigiana” ele argomentazioni dei due difensori, gli avvocatiMagnarini e Schirò, che esposero le loro arringherispettivamente il 29 ed il 30 ottobre 1951. Per giusti-ficare davanti ai giudici il proprio operato, Reder recitòuna serie di motivi: essere un soldato regolare che hasempre lottato con onore secondo le leggi internaziona-li di guerra obbedendo agli ordini ricevuti; essere statoun buon padre di famiglia che non avrebbe potutocommettere azioni degne di un delinquente; la naturatraditrice della guerriglia partigiana, composta essen-zialmente da banditi e da fuorilegge. Il giudizio diReder sull’accaduto è risaputo: l’accerchiamento del-l’area di Monte Sole è stata un’azione militare dettatadalla necessità della situazione e non una repressionepunitiva contro i civili. Era inevitabile, osservò fredda-mente il maggiore tedesco, che la popolazione civile

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fosse coinvolta nell’annienta-mento della “Stella Rossa”: “nes-suno può dare la dimostrazioneche queste operazioni militaricontro i partigiani, relative aduna necessità militare, siano stateuna spedizione punitiva contro lapopolazione” (3).

Il 31 ottobre 12951 fu lettodal generale Petroni, il presidentedel collegio, il verdetto che giudi-cò Reder responsabile del reatocontinuato di violenza con omi-cidio contro privati italianipunendolo con l’ergastolo dascontare presso il carcere militaredi Gaeta. La sentenza volle vede-re nell’imputato “la figura deldeterminatore cioè di colui checon la sua condotta fa sorgere inaltri il proposito criminoso”:“è l’uomo che… abbandonò lasua patria… per entrare a far parte delle SS e divenirespietato strumento di una delle più spietate dittaturedel tempo moderno. Reder è l’uomo che toccando ilfondo della bassezza morale… ha in Cerpiano abusatoe consentito ai suoi uomini ed ufficiali di abusare didonne… Reder quindi, è l’uomo che è stato capace didelinquere non solo contro la vita, ma anche contro ilpatrimonio, contro l’onore, contro la libertà sessualedegli altri individui. Reder è l’uomo che durante tuttoil dibattimento ha rivissuto, senza un fremito, senza un

palpito di umanità, le vicendesanguinose che a lui risalgono”.

Reder fu considerato nonsemplicemente un “criminale diguerra” ma “un criminale inoccasione della guerra”, alluden-do al fatto che le sue azioni nonfurono operazioni militari ma“egli nella guerra trovò le condi-zioni più idonee per l’esplosionedi quegli istinti criminali propridella sua indole” (4).

L’attività giudiziaria compiu-ta nel 1951 contro Walter Rederevidenziò tuttavia un “vulnus” dicarattere giuridico. Fu una sortadi grande semplificazione delgiudizio dettata da particolaricircostanze storico-sociali cheportarono ad enfatizzare il ruolodei comandanti “mediani” indi-viduati come figure simbolo del

male (Reder per Monte Sole, Kappler per le FosseArdeatine) concentrando su di essi l’attenzione dell’opi-nione pubblica e la dirompente esigenza di giustizia,escludendo di fatto gli “opposti” dell’esercito tedesco: igenerali come Simon e Kesserling, assolti dai tribunalialleati operanti in Italia intorno agli anni Cinquanta, edi soldati semplici. Questa dinamica, chiaramentedescritta da Marco De Paolis al processo militare diprimo grado di La Spezia, alleggerì indirettamente laresponsabilità fattiva di tutti quei soldati subalterni che,

Al termine del secondo conflitto mondiale, l’individuazione degli autori dei gravi crimini commessidurante l’occupazione tedesca in Italia contro le popolazioni civili rimase circoscritta a pochi casi eclatanti:gli Alleati abbandonarono il progetto di punti i massimi responsabili delle forze armate tedesche in Italia, egli italiani, a parte poche condanne (Kappler per le Fosse Ardeatine, Reder per Marzabotto e altri eccidi), benpresto posero fine a quella stagione processuale.

Una nuova se ne aprì invece dopo la scoperta, nel 1994, di quello che una felice intuizione giornalisticadefinì “l’armadio della vergogna”: in realtà una stanza di Palazzo Cesi, a Roma, sede della procura generalemilitare, in cui erano conservati centinaia di fascicoli giudiziari sui crimini di guerra commessi sulla popola-zione italiana tra il 1943 ed il 1945, illegalmente archiviati dal procuratore generale militare nel 1960.

Ragion di Stato, protezione dei criminali di guerra italiani, culture militari poco sensibili al tema delladifesa dei civili in guerra, e attente a proteggere in ogni caso l’immunità dei combattenti in divisa: questaalcune delle cause di una giustizia limitata, tardiva e quindi negata.

Da Marco de Paolis e Paolo Pezzino, La difficile giustizia - i processi per crimini di guerra tedeschi in Italia1943-2013, edizioni Viella, 2016.Consulta anche http:/www.straginazifasciste.it

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obbedendo meccanicamente ad ordini disumani, porta-rono a termine i piani criminosi dei superiori:“Questi processi in specie quelli a Kappler e a Reder,hanno costituito una sorta di archetipo italiano inmateria, assolvendo, di fatto, ad una bizzarra funzionegiudiziaria, attraverso la quale in un certo senso essiandavano a soddisfare simbolicamente tutte l’enormerichiesta popolare di giustizia sui crimini di guerra nazi-fascisti in Italia”. (5).

I diversi processi che si sono svolti presso iTribunali militari di La Spezia per Monte Sole (2002-2008) e di Veronaper Cervarolo( 2 0 0 8 - 2 0 1 0 )hanno sanato inparte questa ano-malia.

Due letterefurono scritte daReder alla cittadi-nanza diMarzabotto perottenere una scar-cerazione anticipa-ta. La prima è del30 aprile 1967quando gli venneconfermata la con-danna in appello.Nella lettera rivol-ta a Giovanni Bottonelli, sindaco della “città martire”,l’ergastolano Reder chiese il perdono “per il sanguesparso e per i danni recati alla popolazione” dicendo disentire “rimorsi sempre più pungenti”, ma il perdononon gli venne accordato. La votazione in merito allascarcerazione di Reder indetta dal primo cittadino ebbeluogo il 16 luglio 1967 a Marzabotto. I risultati: 282contrari a concedere il perdono, 4 voti a favore, unascheda nulla ed una bianca. A distanza di circa vent’an-ni dalla prima votazione, si svolse a Marzabotto unaseconda consultazione i cui esiti ricalcarono all’incirca iprecedenti: 169 contrari e 6 favorevoli. La seconda let-tera risale al 1984 ed è indirizzata di nuovo ai cittadinidi Marzabotto. La terza è rivolta alla Chiesa di Bologna:17 aprile 1981. L’ex maggiore si rivolse all’arcivescovo,il cardinale Poma, per chiedere non solo il perdono allaChiesa di Bologna – non ci è dato di sapere con qualegrado di disinteressata sincerità e di autentico spirito diriconciliazione – ma anche la possibilità di salire pressola chiesa di Casaglia per pregare sul luogo che vide i suoisottoposti protagonisti di atroci misfatti. Tra le righe sipossono scorgere allusioni, probabilmente interessate,alle “differenze giudiziarie” riscontrate dallo stesso

Reder tra la sua vicenda e quella di altri graduati tede-schi, a cui venne concessa dagli alleati una giustizia“comprensiva”:“Esprimo il mio più profondo rammarico e rincresci-mento per l’offesa recata alla Chiesa di Bologna me -diante la profanazione dell’edificio sacro di Casaglia el’uccisione del sacerdote Ubaldo Marchiori e dei suoifedeli operate dai miei soldati. Chiedo che mi sia con-cessa la comprensione che è stata usata verso gli altriresponsabili come me e più di me, e che non sia con-dannato ad espiare anche le colpe non mie… Chiedo di

poter salire aCasaglia di MonteSole per inginoc-chiarmi davantiall’altare dove lamia truppa hasacrificato un sacer-dote in mezzo aisuoi fedeli: in quelluogo desidero pre-gare ed offrire inriparazione i lunghianni della miadetenzione, perriconciliarmi con imorti e con i vivi,con gli uomini econ Dio”. (6).

Detenuto nelcarcere di Gaeta, Reder tenne un’intensa corrisponden-za epistolare, costituita da lettere e cartoline, con amici,conoscenti e sostenitori della causa nazista che scrisseroin modo prevalente dall’Austria e dalla Germania.Quali i temi principali della corrispondenza?Confidenze amicali, saluti cordiali dalle vacanze, scam-bio di notizie riguardo alla salute, alla vita carceraria, alsostegno alla causa degli ex combattenti. Argo mentisempre conditi da quel formalismo tipico del mondotedesco che, prendendo le dovute distanze e dandosempre del “lei”, mantiene un assoluto rispetto nei con-fronti dell’interlocutore.

Significativi gli accenni al vincolo – peraltro anco-ra vivo negli anni Ottanta – tra camerati e gerarchinazisti condannati in Italia:“Caro camerata Reder! Tante grazie per la tua bella let-tera del 23 settembre e per la foto. Le tue lettere vengo-no lette ad alta voce in ogni riunione o seduta dellasocietà per azioni. Ti auguro ogni bene e ti scriverò pre-sto. Con cameratesca amicizia”. (Centro do cumenta -zione Marzabotto, 17 ottobre 1977).“Caro signor Reder, le invio con la presente il “breverapporto Kappler” di cui le avevo parlato! spero che non

Monte Sole

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lo abbia già ricevuto da altri?! La rivista numero 40 del30 settembre con l’interessante rapporto “Her bertKappler può rimanere” ce l’ha già? In caso contrario leinvio gli estratti… E la prossima settimana le devoinviare il pacchetto del mese di ottobre. Spero che stiameglio ed abbia superato la sua malattia. Molti carisaluti e tanti, tanti auguri dalla sua… (Cen tro docu-mentazione Marzabotto, 2 ottobre 1977)”.

Come si sviluppò il caso Reder dopo il 1951? Nelgennaio 1952 fu presentata dagli avvocati difensoriricorso contro la sentenza. Nel marzo 1954 il Tribunalesupremo militare, riesaminate le carte, decretò l’annul-lamento della condanna per la degradazione e l’assolu-zione con formula dubitativa per i fatti relativi aSant’Anna di Stazzema. Da parte del governo austriaco,tra il 1952 ed il 1955 ci furono diverse pressioni pressole istituzioni italiane per ridurre la pena dell’ergastolo,ma risultarono sostanzialmente vane. Nel marzo 1955Reder presentò richiesta di poter usufruire dell’indultoma la domanda fu rigettata dal Tribunale militare diBologna (23 giugno 1955). Nel 1976 e nel 1978 l’exmaggiore domandò alle autorità giudiziarie di goderedella libertà condizionale, ma anche in queste due cir-costanze ebbe risposta negativa. Nel luglio del 1980 riu-scì ad avere la libertà condizionale, cosa che gli permisedi usufruire di un anno di libertà vigilata e cinque direclusione presso il carcere di Gaeta: da quel momentofu considerato “internato”.

Negli anni Ottanta il Tribunale militare di Baririconobbe nell’imputato un “sincero ravvedimento ed

un profondo sentimento di raccapriccio per gli eccidi edi commossa pietà per le vittime”, ribaltando di fatto lasentenza emessa nel 1951 a Bologna. Reder figurava oracon un valido combattente e la sua criminalità era daconsiderarsi contingente e dipendente dall’ “humusdella guerra”. le sue responsabilità, in quanto “determi-natore” ed “ispiratore” dei misfatti compiuti a MonteSole, erano così svanite: da carnefice, Reder divenne vit-tima della giustizia:“Anche se i crimini commessi rimangono incancellabilie non possono e non devono essere dimenticati…emerge chiaramente ed inconfutabilmente… che ilmaggiore Walter Reder, durante tutto il tempo di ese-cuzione della pena, ha tenuto costantemente un com-portamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedi-mento. Le prove emerse ed acquisite sono tutte positi-ve, chiare, precise e per nulla equivoche o incomplete”.(7)

Il 23 gennaio 1985 il governo italiano decretò perl’imputato la libertà ed il rimpatrio in Austria doveReder dichiarò: “Non devo giustificarmi di niente da -vanti agli altri”. Reder ritrattò di fatto le scuse addebi-tando la responsabilità del “perdono” unicamenteall’avvocato difensore, che avrebbe utilizzato le scusecome “espediente” per farlo uscire dal carcere.

Alberto Mandreolidalla rivista “Il Margine”

Mensile dell’Associazione Culturale Oscar A. Romeroanno 34 (2014) n. 6 - Pagina 20 - 26

1 G. Dossetti, Introduzione in L. Gherardi, Le querce di N^ Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 1994.2 Headquarters Fifth Army G2 section interrogation center, report n. 846, 1° novembre 1945 (Centro di documentazione per le stragi nazifasciste di

Marzabotto, coll. EB7F5.3 P. Pezzino, L. Baldissara, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna, 2009, pp. 451-452. Guido Nozzoli è autore di diversi con-

tributi sulla “vicenda Reder”: Il tragico itinerario di Reder in Emila, 1995/2, pp. 47-49 e La tragica marcia delle SS di Reder in “Resistenza oggi”,1982, pp. 21-24.

4 Sentenza del Tribunale militare di Bologna, in Pezzino, Baldissara, il massacro, pp. 471-472.5 G. Maccioni, Lo stato di eccezione. Processo per Monte Sole sessantadue anni dopo, Cineteca di Bologna, Bologna 2009.6 D Zanini, Marzabotto e dintorni, Ponte Nuovo, Bologna, 1994.7 Sentenza del Tribunale militare di Bari, 23 (dal Centro di documentazione Marzabotto).

RICORDIAMOLI

Biasimi Edo - Rimini Fornale Lino - Vicenza

Dal Biano Natalino - Vicenza Gervasoni Mario - Torino

De Marchi Angelo - Vazzola Salvador Amedeo - Vazzola

Fazzari Giorgio - Roma Vicentini Valentino - Volano

In particolare vogliamo ricordare Natalino Dal Bianco e Lino Fornale, colonne dell’ANEI vicentina e nonsolo, che hanno tanto contribuito alla memoria degli IMI

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Lo sterminio dei Rom da parte dei nazistiè il culmine di una storia secolare di

discriminazioni e di persecuzioni contro diloro, dato che erano accusati di avere una pre-disposizione naturale per il furto, il rapimen-to dei bambini e la magia nera (la chiroman-zia, praticata dalle donne).

Le Chiese Cristiane, da quella Cattolica aquelle Riformate, hanno alimentato una seriedi pregiudizi verso di loro, creati dalla credu-lità popolare, come l’accusa di aver forgiato ichiodi con cui è stato crocifisso Gesù e di dif-fondere le epidemie (soprattutto la peste).

Inoltre, le teorie eugenetiche, per il“miglioramento della razza”, diffusesi nellaseconda metà dell’Ot tocento nel NordAmerica ed in Europa, hanno indotto molti Stati adadottare nuovi provvedimenti discriminatori nei loroconfronti.

Così, nel 1899, a Monaco di Baviera è istituito,presso la Direzione della Polizia, uno specifico Servizioper il controllo degli zingari. Nello stesso anno, AlfredDilmann, un funzionario statale, istituisce il Servizio diinformazione sugli zingari, per effettuare specifichericerche su di loro, i cui risultati sono pubblicati nel1905 in un rapporto riguardante circa 3.350 Rom(Zigeunerbuch).

Nel 1926, il Servizio di informazione sugli zingaridiventa Ufficio Centrale per la lotta alla piaga zingaraed estende la sua competenza a tutta la Germania. Leinformazioni raccolte sui Rom servirono poi ai nazistiper conoscere la loro presenza nelle varie città e le atti-vità da loro svolte.

All’inizio degli anni trenta, iniziano degli studipseudoscientifici sui Rom e trovano una certa diffusio-ne quelli dello psicologo-psichiatra Robert Ritter, chenel 1932 inizia a studiare le cosiddette “stirpi vaganti”,di cui fanno parte i Rom.

I nazisti perseguitano subito i Rom,perché ritengono che, pur essendo di origine india-

na, e quindi ariana, appartengono ad un “ramo degene-rato” della etnia indoeuropea. Inoltre, li consideranomolto pericolosi socialmente, per il loro genetico “com-portamento deviante” e per il loro “istinto al nomadi-

smo” (Wandertrieb), per cui ritengono impossibile illoro recupero sociale. Pertanto la loro presenza nelReich non può essere tollerata perché rappresentano unfattore di “contaminazione razziale”, che inquina la“purezza” della razza ariana tedesca.

Nella primavera 1933, pochissime settimane dopola nomina di Hitler a Cancelliere (30 gennaio), ilGoverno nazista istituisce il “Campo di lavoro” diDachau (un sobborgo di Monaco), dove vengono inter-nati, “per essere rieducati”, gli individui considerati“asociali”: gli zingari, i vagabondi, i mendicanti, glialcolizzati, gli omosessuali.

Nel 1935, in base alle Leggi a tutela del sangue edell’onore tedesco (cosiddette Leggi di Norimberga,perché emanate a Norimberga), sono progressivamenteinclusi nelle misure discriminatorie, oltre agli ebrei,anche i Rom.

Il 6.6.1936 il Governo nazista emana una Circolarecon la quale i Rom vengono chiaramente definiti“popolo zingaro eterogeneo alla popolazione tedesca”.

Il 16.7.1936 è emanata la Legge n. 17 che vieta aglizingari ed ai renitenti al lavoro di entrare in Baviera.

Sempre nel 1936, in occasione dei giochi olimpicidi Berlino, la Polizia deporta tutti i Rom e Sinti dellaCapitale nel vicino villaggio di Marzahn.

Nel novembre 1936, Robert Ritter è nominatoDirettore della Sezione L3 Igiene razziale e politicademografica del Centro di ricerche sull’ereditarietà delMinistero della Sanità del Reich, con sede a Berlino.

Il genocidio dimenticato dei RomCirca 500.000 Rom sono stati trucidati dai nazisti. Il loro è un “genocidio dimenticato”, rimosso dallamemoria collettiva per i secolari pregiudizi che la società europea ha avuto verso di loro.

70° SECONDA GUERRA MONDIALE

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Riceve un finanziamento di 15.000 marchi dallaSocietà tedesca per la Ricerca per continuare le suericerche sulla “biologia degli ibridi” (zingari ed ebrei) edin particolare per accertare il “fondamento razziale”della devianza sociale e criminale degli zingari e quindidella loro pericolosità.

In particolare, Ritter adotta una serie di misure perdistinguere gli zingari “puri” da quelli “impuri” e“meticci”, basandosi sul loro albero genealogico, sullaloro conoscenza della lingua Rom e sulla loro conserva-zione degli usi tradizionali. Classifica così 5 categorie dizingaro: lo zingaro “puro”, classificato con la lettera Z(iniziale della parola Zigeuner=zingaro); lo zingaro “disangue misto” classificato con la lettera ZM(Zigeunermischling), che a sua volta è suddiviso in trecategorie: lo zingaro di sangue misto al 50% (classifica-to con la lettera ZM); quello con meno del 50% di san-gue gitano e quindi con prevalenza di sangue tedesco(classificato con la lettera ZM-); quello con più del50% di sangue gitano (classificato con la lettera ZM+);il “non Zingaro”, classificato con la lettera NZ (NichtZigeuner).

Il 23.2.1937 Himmler, Comandante delle SS e dal1936 Capo dell’Ufficio di Polizia Criminale del Reich,ordina l’arresto preventivo dei delinquenti abituali,degli asociali e degli immorali (omosessuali). Il 9 marzosono arrestate oltre 2.000 persone, fra i quali moltiRom, che sono internati nei Lager di Sachsenhausen,Sachsenburg, Lichtenberg e Dachau.

Il 14.12.1937 il Ministero dell’Interno del Reichemana il Decreto per la Prevenzione della criminalità, lacui Circolare di applicazione, emanata il 4 aprile 1938dall’Ufficio di Polizia Criminale del Reich, stabilisceche gli zingari, i mendicanti, gli alcolizzati, gli omoses-suali e le prostitute, affinché non arrechino alcun dannoalla Società, possono essere internati nei Lager senzaprocesso ed a tempo indeterminato.

Nel 1938 Tobias Portschy pubblica il libro razzistaDie Zigeunerfrage (La questione zingara), che rappre-senta il fondamento ideologico dello sterminio nazistadei Rom.

Il 16.5.1938 Himmler inserisce nell’Ufficio diPolizia Criminale del Reich l’Ufficio centrale del Reichper la lotta alla piaga zingara, che ha già schedato oltre30.000 Zingari, e lo trasferisce da Monaco a Berlino,affidando quindi la competenza sui Rom alla PoliziaCriminale.

Il 18.12.1938, Himmler emana il Decreto suglizingari, finalizzato alla “lotta della piaga degli zingari”.Ai Rom stranieri è vietato l’ingresso nel Reich, mentrea quelli che si trovano in Germania, e che sono dichia-rati Zingari puri sulla base delle perizie razziali, si impo-ne la scelta tra la sterilizzazione e l’internamento neiLager, dato che essi appartengono ad una razza conside-rata “nociva al nuovo ordine tedesco”. In questo modo,la “questione zingara” non è più un “problema di ordi-ne pubblico”, per la prevenzione della criminalità, madiventa una “questione di razza”, come per gli ebrei. IlRegolamento per l’attuazione del Decreto, emanato ilprimo marzo 1939, specifica che lo “scopo delle misureadottate dallo Stato vuole essere la separazione definiti-va della stirpe gitana dalla stirpe germanica”.

Nel 1939 Ritter, dopo aver esaminato moltemigliaia di Rom scrive sulla rivista medica Fortschitteder Erbathologie, che non ci sono più zingari “puri”,dato che si sono mischiati con gli elementi peggiori deipopoli dei numerosi Paesi in cui hanno soggiornato,dopo la loro partenza dall’India nel X secolo. Inoltreribadisce, con l’aiuto della sua assistente Eva Justin, laloro pericolosità, dato che sono tarati da un gene moltopericoloso: l’istinto al nomadismo. Pertanto, per evitarel’ulteriore proliferazione di questa “minoranza degene-rata, asociale e criminale”, propone la sterilizzazioneobbligatoria di tutti i Rom, uomini e donne. Ritieneinfatti che impedendo la riproduzione dei Rom (cheperaltro hanno un alto tasso di natalità), si arriverà “inmodo naturale” alla loro scomparsa, risolvendo così ilproblema della loro presenza che contamina la “purezzarazziale” del popolo tedesco.

Dopo l’invasione della Polonia, che segna l’iniziodella seconda guerra mondiale (1 settembre 1939), sidecide, come per gli ebrei, la deportazione dei Rom nelterritorio polacco occupato militarmente, chiamatoGovernatorato Generale.

Il 7.10.1939 Himmler diventa Commissario delReich per il rafforzamento della nazione tedesca edassume la competenza per la deportazione nelGovernatorato Generale dei gruppi etnici considerati“razzialmente inferiori” (polacchi, ebrei e zingari).

Il 17.10.1939, in preparazione della deportazione,l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (nuovadenominazione dell’Ufficio di Polizia Criminale delReich), diretto dal Generale delle SS HeinrichHeydrich, emana il Decreto di stabilizzazione n. 149 in

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base al quale i Rom non possono lasciare il luogo in cuisi trovano e tra il 25 ed il 27 ottobre si procede al lorocensimento.

Il 27.4.1940 è emanato dall’Ufficio Centrale per laSicurezza del Reich il Decreto VB n. 95/40 che dispo-ne la deportazione dei Rom nel GovernatoratoGenerale. Il primo contingente, di circa 2.800 Rom (undecimo di quelli che si trovano nel Reich), è deportatoil 16 maggio 1940.

Il 2.7.1941, dopo l’aggressione all’Unione Sovie -tica, Heydrich emana l’Ordine di liquidazione nel qualesi dispone “l’uccisione ditutti gli indesiderabili dalpunto di vista razziale epolitico, in quanto pericolo-si per la sicurezza”, che sonoraggruppati in quattro cate-gorie: funzionari comunisti(i “commissari politici” deireparti militari); asiatici in -feriori; ebrei; Rom.

Il 7.8.1941, con un’Or -dinanza è accolta la classifi-cazione di Ritter, distin-guendo tra zingari di razza pura (Z), zingari al 50%(ZM), zingari per più o meno del 50% di sangue gita-no (ZM+, ZM-) e non zingari (NZ).

Il 28.3.1942 è emanato il Decreto RSHA V251/42 che estende ai Rom la normativa sul lavoro invigore per gli ebrei. Il successivo Decreto RSHA V AZ2551/42 del 28.8.1942 esclude i Rom dall’Esercito,nonostante alcuni abbiano ottenuto decorazioni alvalore militare.

Il 13.10.1942 è emanato il Decreto RSHA V AZ2260/42 secondo il quale i Sinti puri e i Lalleri (gruppiparticolari di Rom) devono essere inviati nel Distrettodi Odenburg, dove possono vivere secondo i loro usi ecostumi. Però il progetto, ideato da Himmler, di con-servare gli zingari “puri” per farne un “museo vivente”fallisce perché il 16.12.1942 è emanato il DecretoAuschwitz in base al quale tutti i Rom devono essereinternati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

La soluzione finale della “questione zingara”I Rom deportati a Birkenau ricevono il tatuaggio

sul braccio con la lettera Z (iniziale di Zigeuner) ed amolti è apposto sulla casacca il triangolo nero (contras-segno di comportamento asociale e criminale). Nel set-tore BIIe di Birkenau è creata un’apposita Sezione,denominata Zigeunerlager (Campo degli zingari), com-posta da 32 baracche. Quì i Rom vivono in condizioniparticolari, diverse da quelle degli altri internati. Infatti

le famiglie rimangono unite; dopo la rasatura iniziale, icapelli non vengono più tagliati; le donne partorisconoed i loro figli sono registrati (il primo bambino nascel’11 marzo 1943; complessivamente nascono nel Lager379 bambini); non subiscono le periodiche selezioniper le camere a gas; non sono obbligati al lavoro.Comunque, le condizioni di vita sono molto pesanti.Le baracche sono sovraffollate ed in alcune vivonoanche più di mille persone. La mortalità è elevata per lericorrenti epidemie di tifo e di dissenteria, dovute alleprecarie condizioni igieniche.

A Birkenau vengonocompiuti esperimenti pseu-doscientifici dal dott.Mengele (medico delle SS,tristemente noto comel’angelo della morte), cheha allestito un laboratorioper gli esperimenti, utiliz-zando anche i bambiniRom per i suoi studi suigemelli, sul nanismo e sulnoma (un tumore dellapelle, causato dalla denu-

trizione e particolarmente diffuso tra i bambini Rom).Si ritiene che i Rom internati a Birkenau siano stati

circa 23.0000, anche se quelli registrati nel Lager sono20.982 (10.094 uomini e 10.888 donne e bambini finoa 14 anni).

Nell’estate 1944, molti Rom e Sinti abili al lavorosono trasferiti in altri Lager. La notte tra il primo e ildue agosto 1944, le circa 4.500 persone rimaste nelZigeunerlager, sono tutte eliminate nelle camere a gas.Si salvano solo 24 gemelli, utilizzati da Mengele comecavie per i suoi esperimenti, e pochi di essi sono ancoravivi alla liberazione del Lager da parte dei soldati russi,il 27 gennaio 1945.

Si ritiene che siano stati eliminati dai nazisti circa500.000 Rom, la maggior parte dei quali sono stati tru-cidati in massa dagli Einsatzgruppen (Reparti Speciali)operanti nei territori orientali (russi), al seguito delleArmate tedesche. Lo sterminio del popolo Rom non èstato messo in evidenza nel Processo di Norimberga,per cui, lentamente, è stato dimenticato.

Finalmente, nell’aprile 1980, il Governo tedesco hariconosciuto sia l’esistenza del genocidio degli zingariche la sua attuazione per motivi razziali. Così, è statopossibile il risarcimento alle vittime e la restituzione deibeni loro confiscati dal regime nazista. Però, il genoci-dio dei Rom e Sinti rimane sia nell’opinione pubblicache nella ricerca storica, un “genocidio dimenticato”.

Giorgio Giannini

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Venticinque anni sono passati dall’inizio dell’in-chiesta giudiziaria di Mani Pulite che fece crollare ilmuro della cosiddetta “tangentopoli”. Una corruzioneenorme, sistematica, radicata a tutti i livelli, che ha fattoesplodere il nostro debito pubblico ed intossicato lapolitica, l’economia, la pubblica amministrazione. Il 17febbraio 1992, il primo arresto, quello di Mario Chiesa,presidente del grande ospizio milanese “Il Pio AlbergoTrivulzio”. L’ingegnere Chiesa è colto in fragrante, haappena intascato una tangente di sette milioni di lire(tremila cinquecento euro) portati nel suo ufficio da unpiccolo imprenditore di Monza, Luca Magni che lo hadenunciato all’allora semisconosciuto P.M. Antonio DiPietro..

Dopo l’arresto gli inquirenti scoprirono inoltre,grazie alla testimonianza della sua ex-moglie Laura Sala,diversi conti bancari in Svizzera, con diversi miliardi dilire intestati alla sua segretaria. L’ex-moglie da tempoaveva intentato una lunga causa per protestare control’esiguità degli alimenti che Chiesa pretendeva di versa-re a lei e al figlio quattordicenne. Dopo cinque settima-ne di carcere, il 23 marzo 1992, Chiesa decise di parla-re. L’interrogatorio durò più di una settimana e il 2aprile 1992 gli vennero concessi gli arresti domiciliariLo stesso Bettino Craxi, in qualità di leader del PSI,

Tradizionalmente si data l’inizio della riformaprotestante con l’affissione, il 31 ottobre 1517, sulportone della Cattedrale di Wittenberg da parte diMartin Lutero, monaco agostiniano, delle 95 tesi teo-logiche contro la vendita delle indulgenze, pratica

molto diffusa nel -la Chiesa cattolicadel tempo. Ma lecause della prote-sta di Lutero sono molteplici e spesso intrec-ciate tra loro e non riguardano solo la dottri-na delle indulgenze e porteranno ad una insa-nabile frattura nel mondo cristiano. Il princi-pio base del luteranesimo è la teoria della giu-stificazione per fede, che discende dalla radi-

calizzazione dell’idea del peccato originale, se l’uomo è irrimediabilmente corrotto, le opere non servono alla sal-vezza, infatti se un albero è malato, i frutti non posso essere buoni, la fede è dono di Dio ma non tutti sono glieletti (teoria della predestinazione).

definì Mario Chiesa un mariuolo isolato, una scheggiaimpazzita di un Partito Socialista che a suo dire - dove-va essere integro.

Quell’arresto mette in modo una valanga, in menodi tre anni i magistrati raccolgono montagne di proveche portano a milleduecentotrentatre condanne defini-tive per corruzione, concussione, finanziamento illecitodei partiti, fondi neri aziendali. I processi di ManiPulite determinano il crollo dei partiti tradizionali(Democrazia Cristiana, Partito Socialista) e continuanoancora oggi a dividere l’Italia in due partiti trasversalitra sostenitori e detrattori ovvero giustizialisti e garanti-sti. Ma un fatto è innegabile, in nessun altro periodo sisono accumulate tante rivelazioni sui segreti del potere,anzi vere e proprie confessioni.

CALENDARIO

VENTICINQUE ANNI FA“MANI PULITE”

LA RIFORMA PROTESTANTE

Il pool di giudici di Milano

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La signora RosaMaria La Bianca ci hainviato il libro memorialedel padre da lei curato:Michele la Bianca, Laforza della speranza, Storiadi un italiano dal Lager diGorlitz all’impegno civile -editrice Rotas, Barletta,2015, accompagnato dauna sua lettera che merite-rebbe di essere pubblicataintegralmente, perchè

esprime bene tutta l’ammirazione di una figlia verso unpadre che è stato non solo un resistente e un antifasci-sta, ma anche un maestro di vita, un educatore, che hasaputo trasfondere, nella sua professione di docente enella vita civile, l’esperienza indelebile del Lager maanche il suo coraggio di farcela, di non darsi per vintomai

Michele ha conosciuto da piccolo la durezza dellavita, orfano della mamma e poi orfano di guerra, - ilpadre bersagliere muore nella prima guerra mondiale-cresce a Foggia nell’ospizio Maria Cristina di Savoia, inun ambiente privo di calore umano, senza un sorriso,una carezza, un bacio. Conseguita una licenza di scuoladi avviamento si arruola nella guardia di Finanza. Lavita militare gli offre la possibilità di continuare per suoconto e con grandi sacrifici gli studi e, conseguito ildiploma magistrale, non rinuncia alla prospettiva dipoter frequentare l’università di lettere a Messina, anchea costo di lasciare la ferma in Finanza. Corona il sognodi laurearsi il 20 giugno 1940, purtroppo l’anno dopogli arriva la cartolina precetto. Nell’ottobre 41 è dinuovo sotto le armi, nel memoriale dice: “Dovetti lascia-re con grande dolore mia moglie e mia figlia e andareincontro a ciò che il destino mi appressava “ ma intanto lasua formazione è avvenuta all’insegna di uno spirito dilibertà comunicatogli dai libri che ha letto e dai grandimaestri che ha incontrato nelle aule universitarie.Dall’educazione fascista da tempo ha preso le distanze,travolto dalla guerra e dal destino, non sarà disarmato,quando, in mano ai tedeschi, è messo di fronte alla scel-ta non ha esitazioni

La figlia dice espressamente. “Il suo NO senza riser-va gli causò anni di dolore… ma La sua coscienza di uomolibero si ribellò di accettare tali apparenti proposte allet-tanti, convinto com’era che prima o poi il fascismo ed ilnazismo sarebbero miseramente finiti grazie alle forze diresistenza dei popoli ed anche grazie a quel “NO” proferi-

to da lui e da tanti altri militari che preferirono vivere laloro odissea con in cuore sempre l’amore per la patria e perla libertà.” Nel memoriale di prigionia di Michele LaBianca ci sono scene terribili cui lui ha assistito e che lafiglia riporta sinteticamente nella lettera: ”L’ebreo pic-chiato a sangue davanti agli occhi del figlio impotente eagli altri prigionieri, le donne ebree scheletrite e cadenti,sputate e vilipese da una folla sghignazzante di tedeschi edi tedesche, i prigionieri tubercolotici italiani e stranierilasciati morire di fame e di inedia. Egli stesso, smagrito esofferente davanti agli alti forni ed alle presse, i coniugitedeschi tirati giù per la giacca con il viso ed il corpo nellacunetta di acqua sporca, salvati da lui e da altri prigionie-ri italiani dalle bombe lanciate da un aereo russo, il torso-lo di una mela gettato dagli aguzzini tedeschi nei rifiuti diferro e carpito e divorato da due ebrei macilenti ed affama-ti, e poi il viaggio nel treno convoglio dell’orrore, che por-tava migliaia di uomini inermi ed indifesi nell’abisso del-l’ignoto tra sofferenze indicibili, e la fame di pane e soprat-tutto la fame di libertà, calpestata e chiusa dal filo spina-to … “

Tornato in Italia riesce a riprendere una vita nor-male quella vita amata, desiderata, agognata, difesa adenti stretti nel Lager, la vita di una una persona liberache si spende per la famiglia, la scuola - dove diventapreside -, l’impegno civile. Il libro di memorie risale agliultimi anni - muore il 24gennaio 1993 – non fa atempo a curarne la pubblicazione. È un libro fitto,denso di ricordi e di riflessioni morali di gran peso, dipagine tratte dalla grande storia e dalle sue vicende per-sonali, e tutto teso a dimostrare ciò che veramente sta acuore all’autore: la forza o, meglio, il coraggio dellasperanza.

Anna Maria Casavola

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All’alba saremo liberiracconta la drammaticastoria di deportazione vis-suta dal nonno paternodell’autrice, Antonio Mu -scaritolo, arrestato duranteil servizio militare dopo l’8settembre 1943 dai nazistie costretto ai lavori forzaticome prigioniero di guer-ra, poi rinominato comegli altri militari italianiI.M.I (Internato Militare

Italiano) nel KZ Dora-Mittelbau, campo di lavoro e di

LIBRI SEGNALATIRECENSIONI a cura di Maria Trionfi

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sterminio situato nella regione tedesca della Turingia. Ilcampo fu, e rimane tuttora, un Lager poco conosciutoe per molto tempo mantenuto segreto, ma di grandeimportanza: all’interno delle gallerie sotterranee dellacollina Kohnstein presso cui si trova, infatti, avveniva lacostruzione delle bombe V1 e V2. Antonio, comemigliaia di civili e militari di varie nazionalità vi fucostretto a lavorare in condizioni di vita disastrose perdue anni (fino alla liberazione del campo da parte degliamericani nell’aprile del 1945) e la sua storia è caratte-rizzata da un altalenarsi di situazioni di dolore e di peri-colosità così come di eventi fortuiti. Fu uno dei pochideportati che riuscirono a sopravvivere e a tornare sanie salvi a casa e che ha potuto raccontare la propria sto-ria, resa ancora più drammatica dalla particolare tragi-cità del campo in cui fu costretto.

Dopo sessant’anni di silenzio e di dolore soffocatoAntonio ha trovato il coraggio e la forza di raccontare lasua esperienza, che la nipote ha deciso di riportare,dopo averla ricostruita con approfondite ricerche didocumenti negli archivi storici, fotografie ed altre testi-monianze dirette per mantenerne la memoria e trasmet-terla alle generazioni future attraverso il libro All’albasaremo liberi, pubblicato in edizione aggiornata anovembre 2015Il libro è disponibile in versione carta-cea ed e-book su Amazon: goo.gl/mk5uay

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«Il generale nero», a cura di Mauro ValeriIl volume nasce da un’attenta indagine archivistica cheha portato alla ricostruzione della figura di DomenicoMondelli, il «generale nero», bersagliere, aviatore e ardi-to la cui vicenda personale è stata ripercorsa dall’autoregrazie alla collaborazione dell’Archivio storico comuna-le di Parma e del Servizio biblioteche del Comune. La storia straordinaria di Domenico Mondelli è stata

ricostruita attraverso l’esa-me di documenti originalied anche grazie a duenipoti che hanno recupe-rato diverse notizie su dilui.Domenico Mondelli eranato in Abissinia, ma cre-sciuto in Italia dove erastato portato da un milita-re parmigiano, il colonnel-lo Attilio Mondelli, che loaveva adottato. È stato, alivello mondiale, il primo aviatore militare di colore.Un primato che l’Italia non ha mai rivendicato, forseper non dover anche ricordare che, proprio questo gio-vane ufficiale, dopo aver combattuto in Libia e nellaGrande Guerra, era stato discriminato dal fascismo chenon poteva accettare l’idea che un militare italiano dicolore potesse comandare militari italiani. Il «generale nero» ebbe, però, l’adire di opporsi allemisure discriminatorie del regime. Al suo attivo ebbedue medaglie d’argento e due medaglie di bronzo otte-nute combattendo come aviatore, bersagliere e coman-dante di reparti d’assalto, arrivando al grado di tenentecolonnello. Solo dopo la fine della Seconda GuerraMondiale riuscì ad arrivare al grado di generale diCorpo d’Armata.Il volume, edizioni Odradek, è a cura di Mauro Valerisociologo e psicoterapeuta, che ha diretto l’Osservatorionazionale sulla xenofobia dal 1992 al 1996, e dal 2005è responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzi-smo nel calcio. Ha insegnato per diversi anni sociologiadelle relazioni etniche all’Università «La Sapienza» diRoma. Sul tema degli italiani neri e meticci ha pubbli-cato una decina di volumi.

Antonino Sandro Zarcone

I memoriali del Presidente Raffaele Arcella

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La Federazione provinciale di Padova dal mese dinovembre 2016 a marzo 2017 ha organizzato presso laSala polivalente del Museo le seguenti attività culturali:presentazione di tre libri sull’internamento e tre confe-renze.

Il 12 novembreEnrico Vanzini Interna -to Militare Italianosopravvissuto ai lagernazisti, ha raccontato lasua storia attraverso lapresentazione del suolibro “L’ultimo Sonder -kommando italiano dellager di Dachau”. Adiciotto anni è chiamatoalle armi e inviato adAtene, dove per la primavolta vede all’opera inazisti: equipaggiati,precisi, efficienti, maanche rabbiosi e vendicativi. Quando l’8 settembre1943 l’Italia rompe l’alleanza con la Germania, sonoproprio quei temibili soldati a caricarlo su un trenomerci insieme ai suoi commilitoni. I vagoni sono stipa-ti, poco o nulla da mangiare e da bere. il “viaggio” duratre settimane. Dopo i lavori forzati a Ingolstadt e unacondanna a morte scampata a Buchenwald, nell’ottobredel ‘44, Enrico arriva a Dachau. Nel Lager la morte èuna costante quotidiana. L’hanno destinato alSonderkommando, un’unità di deportati destinata a rac-cogliere i cadaveri nelle camere a gas per poi portarli neiforni crematori. Questa è stata la vita del soldato EnricoVanzini fino alla liberazione del lager, da parte delletruppe americane il 29 aprile 1945.

Il 20 novembre la dott.Valentina Folloni ha pre-sentato il libro dal titolo“Più forte della prigionia.La vera storia di un I.M.I.castiglionese”. Dopo unlungo lavoro di ricerca sca-turito dai racconti delnonno, l’autrice ha scrittoun volume interessante checon semplicità, attraversola ricostruzione delle vicis-situdini del nonno, ricordale tristi vicende di centinaia di migliaia di militari italia-

ni che, dopo l’8 settembre 1943, sono stati deportati inGermania.

Il 3 dicembre, Valeria Nicolis ha presentato il libro:“Pane secco e Avemarie. Due militari italiani nei lagernazisti”. In queste pagine sono raccolte le vicende simi-li e diverse di due futuri amici accomunati dall’espe-rienza della prigionia, Enrico Bertolini e LuigiMontresor. Il Bertolini (1923-1982), nonno maternodell’autrice, aveva da poco compiuto vent’anni quandofu catturato dai tedeschivicino Atene, dopo l’ar-mistizio dell’8 settembre1943. La sua storia d’in-ternato militare italiano,ricostruita dai pochiricordi condivisi nonsenza reticenza con ifamiliari, per quantoframmentaria e incom-pleta, tratteggia alcuniaspetti del sistema con-centrazionario nazista. Ilcarteggio di LuigiMontresor (1916-1987),catturato a Verona, per-mette di immergersi in modo più approfondito nellasua vicenda d’internato militare, grazie alle lettere scam-biate con il padre Pompeo. In seguito conobbe il com-paesano Enrico Bertolini con il quale, sulla base dellacomune esperienza, nacque una profonda amicizia.

Il 28 gennaio 2017 Enzo Zatta ha presentato:“Storie di prigionia nella Seconda Guerra Mondiale”.Durante la serata in una sala gremita ha raccontato trestorie significative di prigionia in Germania quella diDelfina BORGATO, padovana, deportata politica aMauthausen, del Soldato Ferruccio BORTOLAMI,internato a Torgau e di Fritz WANDEL, cittadino tede-sco deportato a Dachau.

Il 16 febbraio, il gen. CA (aus.) Enrico Pino, hatenuto un’interessante conferenza sul tema: “Dalla guer-ra convenzionale del XX° secolo a quella asimmetrica delXXI secolo: nuovi attori e nuove modalità”. Il Relatore haspiegato che per guerra simmetrica s’intende un conflit-to “tradizionale” tra Stati sovrani o coalizioni per la riso-luzione di una controversia internazionale e che siaffrontano, in maniera manifesta, per neutralizzare ilpotenziale bellico e quindi prevalere sul nemico. Oggi,però, i Conflitti quasi sempre non sono più condotti da

Attività della Federazione di PadovaCRONACHE

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eserciti che si fronteggiano. Infatti, in varie regioni delMondo gli Eserciti “tradizionali” devono contrastaregruppi armati non statali che partecipano ai conflitti inatto perseguendo obiettivi diversi. Spesso in questeguerre non c’è una prima linea ben definita che separai contendenti né zone completamente controllate. Neiconflitti asimmetrici le parti che si affrontano hannoconcezioni tattiche e d’impiego differenti, sono diversa-mente armate ed equipaggiate e con un potenziale mili-tare generalmente non paragonabile. Questa situazionefa si che la parte militarmente più debole, quella cheesprime gruppi armati che non fanno riferimento a unoStato effettivamente costituito e riconosciuto, per“bilanciare” lo svantaggio, soprattutto tecnologico,adotti forme di guerra e di violenza atipiche, come adesempio la guerriglia o il terrorismo che viene utilizzatoin prevalenza contro obiettivi civili, per conseguirel’obiettivo strategico di creare: nell’area operativa insta-bilità e sul territorio dello Stato che ha inviato nellaregione il proprio esercito, insicurezza, enucleando cel-lule per compiere atti terroristici.

Il 24 marzo il dott. Giovanni Punzo figlio di exIMI ha tenuto una Conferenza su una vicenda poconota della seconda Guerra Mondiale “l’OperazioneBernhard” che era il nome di un piano segreto tedescosviluppato per mettere in crisi l’economia britannicaattraverso l’immissione massiccia di sterline false.Prende il nome dal capitano delle SS Bernhard Krueger,che ne era il responsabile ed ebbe luogo presso le barac-che 18 e 19 del lager di Sachsenhausen, grazie al lavorodi 137 deportati di tredici differenti nazionalità.

27 gennaio 2017 -“Giorno della Memoria”

A Padova, di fronte al Tempio Nazionaledell’Internato Ignoto, si è svolta la cerimonia organizza-ta dal Comune di Padova in collaborazione con ilComando Forze di Difesa Interregionale Norddell’Esercito e della Federazione provinciale dell’ANEI,presenti le autorità cittadine e fra queste: ilSottosegretario di Stato all’Ambiente, Barbara DEGA-NI, il Commissario Prefettizio del Comune di Padova,Prefetto Michele PENTA, il Prefetto Patrizia IMPRE-SA, Il Vicepresidente della Provincia di Padova FabioBUI, il Vice Comandante del Comando Forze di DifesaInterregionale Nord dell’Esercito, gen. D. Carmelo DECICCO e il Questore dott. Gianfranco BERNABEI.Presenti anche numerosissimi studenti accompagnatidai loro insegnanti. Nella piazza si notavano i gonfalo-ni dei Comuni della Provincia di Padova e di Padova,Abano Terme, Montegrotto Terme, Sant’Urbano, VillaEstense, Ponte San Nicolo, Galzignano Terme e quellodell’Università di Padova decorato di M.O.V.M., non

mancavano medaglieri elabari delle Associazionicombattentistiche e d’Arma,preceduti da quellod e l l ’ A . N . E . I . . D o p ol’Alzabandiera, don AlbertoCELEGHIN, Rettore delTempio, ha sottolineato l’im-portanza del Giorno dellaMemoria con un momentodi preghiera e una breve

riflessione, mentre le allocuzioni ufficiali sono statetenute dal Commissario Prefettizio del Comune diPadova, Prefetto Michele PENTA e dal il ViceComandante del Comando Forze di DifesaInterregionale Nord dell’Esercito gen. D. Carmelo DECICCO. Il Prefetto Michele Penta ha sottolineato,facendo delle citazioni testuali, che lo scopo dei Lager èstato l’annientamento dell’uomo, che prima di moriredoveva essere degradato in modo che si potesse dire,quando sarebbe morto, che non era un uomo.. IlGiorno della Memoria, quindi, ci ricorda che ciò che èstato può tornare ad essere e vuole spingerci a lottarecontro l’oblio e l’indifferenza come un nostro dovere ediritto, perché il passato diventi insegnamento di vita,specie per le nuove generazioni e fondamento del vive-re civile Il generale D. Carmelo De Cicco dopo averanche lui sottolineato che la tragedia della Shoah è stataun unicum nella Storia, ha aggiunto che dopo il settem-bre del 1943 la sorte degli Ebrei, almeno per quantoriguarda la deportazione, fu condivisa anche da tantiitaliani, questa volta non discriminati su basi razziali oreligiose, ma colpevoli sol-tanto di non riconoscersi nelregime al potere e, pertanto,pericolosi avversari da isolaree da abbattere. Tra questi vifurono anche moltissimimilitari di ogni grado che,sorpresi dagli eventi, privi diordini in quel clima di disso-luzione dello Stato, non vol-lero venire meno al giura-mento prestato. Fu un’eroica dimostrazione di coerenzaai propri principi, di sofferta resistenza alla barbarie diuna folle ideologia. un dramma che gli interessati visse-ro nel proprio intimo e non ne parlarono al ritorno,convinti di aver fatto solo il proprio dovere. Ma noioggi che sappiamo dobbiamo rendere loro il dovutomerito e sentirci debitori verso quanti sopportaronocon dignità il calvario dell’internamento, rifiutandocompromessi e mantenendosi fedeli ai propri ideali edalle proprie convinzioni

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Incontro con gli studentiIl Comune di Padova insieme all’Ufficio Scolastico

provinciale hanno poi organizzato un incontro con glistudenti degli Istituti Superiori (circa 350) che sonoaffluiti al Liceo “Don Bosco” dove nella sala polivalen-te, sono stati invitati a parlare il Vice Presidente delGiardino dei Giusti nel Mondo prof. Giuliano PISANI,il Presidente della Comunità Ebraica di Padova – ing.Davide ROMANIN JACUR e il Presidente A.N.E.I. –Federazione provinciale di Padova, gen. MaurizioLenzi. Questi ha ripreso il discorso sugli internati mili-tari cui aveva accennato nella mattinata il gen. CarmeloDe Cicco e ha dato ai giovani ascoltatori altri importa-ti dati. In particolare ha detto: a questi uomini fu attri-buito arbitrariamente lo status di “Internati militari” enon quello di “prigionieri di guerra”, pertanto furono

privati della tutela internazionale garantita dallaConvenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento deiprigionieri di guerra e furono ridotti in uno stato dicompleta soggezione e sottoposti a misure vessatorie eintimidatorie.Gli I.M.I. per il loro comportamento, apieno titolo, possono quindi essere considerati unesempio di Resistenza nazionale al nazi-fascismo. Il lorosacrificio, riconosciuto tardivamente nel nostro Paese,oggi è stato compreso anche dai tedeschi che a Berlino,il 28 novembre 2016, hanno inaugurato presso ilCentro di documentazione sul lavoro forzato aSchoeneweide una mostra permanente con una sezionededicata proprio agli I.M.I., mostra al cui allestimentoha collaborato anche il Museo dell’Internamento diPadova, unico nel suo genere in Italia. Il Presidente haquindi concluso invitando insegnanti e allievi a coglie-re l’occasione di visitare l’importante museo, che insie-me al Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto e alGiardino dei Giusti nel Mondo, costituisce all’internodella città di Padova una vera e propria cittadella dellaMemoria.. Foto

Sessanta Medaglie d’OnoreNel pomeriggio, presso il Centro San Gaetano, il

Prefetto di Padova, insieme ai Sindaci della Provincia haconsegnato 60 “Medaglie d’Onore”, concesse dalPresidente della Repubblica, ai familiari e a ex Internatinei Lager, che rifiutando di collaborare con i tedeschi e

con la Repubblica Sociale Italiana, attuarono la primaResistenza, ancorché non armata, al nazifascismo

2 febbraio 2017 – Cerimonia dell’Alzabandierapresso la Caserma “O. SALOMONE”, sede del

Comando Forze Operative di Difesa InterregionaleNord si è tenuta la tradizionale cerimoniadell’Alzabandiera, che si svolge mensilmente alla pre-senza anche delle autorità cittadine.. La Cerimonia èstata istituita circa quindici anni fa con lo scopo di con-solidare il legame fra i rappresentanti delle Istituzionicittadine con un momento di riflessione di fronte allabandiera italiana, simbolo dell’unità e della concordianazionale. A termine della cerimonia, durante la qualetutti hanno cantato l’Inno Nazionale, il gen. D.Carmelo DE CICCO, rivolgendosi, in particolare, aigiovani, ha parlato dell’eroismo che non contraddistin-gue solo le gesta dei militari, ma è un atto che vienecompiuto da quanti, in ogni ambito lavorativo, si sacri-ficano con spirito di abnegazione per gli altri, come adesempio i soccorritori nel recente terremoto e perl’emergenza neve. In particolare il gen. DE CICCO hacitato la preziosa e insostituibile attività svolta dai Vigilidel Fuoco e per fornire un esempio concreto di cosavoglia dire il termine “eroismo” nel quotidiano è statoricordato il comportamento degli internati MilitariItaliani (I.M.I)

I Quarantaquattro di UnterlussIn particolare è stato citato l’episodio di UNTER-

LUSS, che vide protagonisti gli ufficiali italiani rinchiu-si nell’Oflag 83 di Wietzendorf, che, per una forma diresistenza, si rifiutarono di lavorare obbligatoriamenteper loro. Dopo una settimana di fiera resistenza, il 24febbraio 1945, la Gestapo scelse casualmente ventunointernati fra chi rifiutava il lavoro obbligatorio, minac-ciando la loro fucilazione. Quarantaquattro ufficiali ita-liani si offrirono al posto dei colleghi scelti. I tedeschiimpressionati dal gesto eroico degli ufficiali italiani,desistettero dal propositodi fucilarli, ma deciserotrasferirli nel campo di rie-ducazione di Unterlüss,una sorta di campo di ster-minio, dove furono sotto-posti, fino alla liberazioneavvenuta il 9 aprile 1945,a lavori forzati, angherie,percosse, torture e ad unregime alimentare dafame. Di questi quaranta-quattro ufficiali ne mori-rono sei: tre per percosse e

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tre di stenti. Per quell’episodio dopo la Guerra furonoconcesse sei Medaglie d’Argento individuali al ValoreMilitare alla Memoria e tutti ricevettero un encomiosolenne. Recentemente è stato presentato a Monte -citorio un libro di Andrea Parodi intitolato appunto “Gli eroi di Unterluss.” editrice Mursia

Il 20 aprile 2017La Federazione di Padova d’intesa con l’ammini-

strazione comunale, in occasione del 73° anniversariodel bombardamento americano su Terranegra del 20

aprile 1944, ha organizzato la cerimonia per ricordare le180 vittime civili. Era presente alla cerimonia ilCommissario Straordinario del Comune di Padovadott. Paolo De Biagi. L’A.N.E.I. di Padova ogni annoorganizza questo importante evento, di fronte al cippoche ricorda le vittime del bombardamento, perché ha lapropria sede nel quartiere di “Terranegra. Il dott DeBiagi, dopo aver ringraziato l’A.N.E.I. per aver organiz-zato la cerimonia, ha visitato il Museo Nazionaledell’Internamento e si è complimentato e per la gestio-ne del Museo e per l’attività svolta dall’associazioneANEI.

ABANO TERNEQuesta sezione, attivissima

sul territorio, ha organizzato,promotore il segretario PinoLofiego, numerose iniziative insinergia con altre associazioni eistituzioni. Tra queste iniziati-ve, tutte di grande successo dipubblico, abbiamo scelto:

La Mostra su San Massi -mi liano Maria Kolbe:“martiredella carità e patrono dei nostri difficili tempi”.che èstata inaugurata nella Chiesa di San Pietro Apostolo diMontegrotto Terme, domenica 29 gennaio 2017.L’iniziativa “è partita da Pino, in collaborazione conCarla Trincanato, la presidente regionale della Miliziadell’Immacolata, fondata proprio da Padre Kolbe. Il

progetto ha potuto concretizzarsi grazie al parroco donRoberto Bocciato L’opera è nata nel 2010 da un’idea delfotografo prof. Gabriele Toso. L’esposizione è compostada 16 pannelli che ripercorrono la vita e l’operato diSan Massimiliano Maria Kolbe e comprendono anchele testimonianze di religiosi, laici ed artisti che hannocolto il suo amore e il suo eroismo cristiano. La Mostraricorda a tutti noi il grandedovere di non dimenticareil male che è stato e diimpegnarci per non ripeteregli stessi orribili delitti.

Il 4 febbraio 2017 nellabibiblioteca civica incontrocon la scrittrice armenaAntonia Arslan per la pre-sentazione del suo romanzo“Lettera a una ragazza inTurchia”.

Il 15 febbraio 2017 -incontro presso l’istituto Alberti di Abano Terme con lascrittrice Deborah Muscaritolo, autrice del libro “Al -l’alba saremo liberi” che è stato presentato anche allamostra di Berlino e di cui noi pubblichiamo in questogiornale la recensione.

Nella foto oltre il nostro Lofiego, la scrittrice e la preside dell’istituto Albertiprof.ssa Cosimo e prof.ssa Frizzarini

Gen. Lenzi, dott. De Biagi e Panizzolo

Museo Nazionale dell’InternamentoViale dell’Internato Ignoto, 2435128 Padova Telefono: 049 8033041 - 049 688337 Fax: 049 8033041 - Cell. 349 7336486 www.museodellinternamento.it [email protected]: Giuseppe Panizzolo

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AVEGNO (Genova)4 marzo 2017. Presso la sala del Circolo Guido

Calogero Aldo Capitini, la FIAP (Federazione Italianadelle Associazioni Partigiane) di Genova, nella personadel suo presidente Mario Artali, e con il patrociniodell’ANEI, il nostro amico e collaboratore RiccardoPagliettini e la preziosa e attenta “postina” di “deporta-timaipiù”, Primarosa Pia, hanno organizzato ad Avegnoun evento: “In morte di un generale. La storia del gene-

rale Alberto Trionfi e la tragedia degli InternatiMilitari”. Dopo il saluto del sindaco di Avegno, FrancoCanevello, e di Luigi Fasce presidente del Circolo,hanno parlato la professoressa Maria Grazia Milani,Primarosa Pia e, ovviamente la nostra Maria Trionfi. Èstato un incontro molto commovente ed interessante. IlSindaco ha poi offerto un piccolo rinfresco a tutti i pre-senti. Foto

BOLOGNAL’ANEI, grazie al nostro referente, è stata presente

ai seguenti interventi pubblici:18 ottobre 2016: presso la Sala comunale Sassi a

Castel San Pietro Terme, conferenza del prof. Ales -sandro Ferioli La Grande guerra sullo schermo: film edocumentari sul “conflitto epocale” dalle origini a oggi,nell’ambito della Festa internazionale della Storia - XIIIed., alla presenza dell’Assessora Francesca Farolfi.

27 gennaio 2017: per la celebrazione del Giornodella Memoria presso il Teatro Cassero di Castel SanPietro Terme, alla presenza del Sindaco Prof. FaustoTinti, dell’Assessore alla cultura Prof. Fabrizio Dondi,di autorità e scuole del territorio, nell’ambito dell’even-to “Primo, Ex 174517” dedicato a Primo Levi, il prof.Alessandro Ferioli ha tenuto la lezione Primo Levi, testi-mone del suo e del nostro tempo, mentre la Prof.ssaImmacolata Iuppariello ha tenuto la lezione Primo Levie Jean Améry: due intellettuali ad Auschwitz. Infine glistudenti dell’Istituto “Scappi” hanno interpretato testidi Levi.

10 febbraio 2017: per la celebrazione del Giornodel Ricordo, presso il Teatro Cassero di Castel SanPietro Terme, alla presenza dell’Assessore alla culturaFabrizio Dondi, di autorità e scuole del territorio,Ferioli ha tenuto la lezione Le vicende del confine orien-tale, le foibe e l’esodo dei Giuliano-Dalmati. Infine glistudenti dell’Istituto “Scappi” hanno interpretato testimemorialistici e fonti storiche.

CONEGLIANO VENETOConegliano Veneto - 27 gennaio 20017 - La nostra

amica Giulia Perini Bareato ci ha inviato la cronaca delGiorno della Memoria al suo Comune. I ragazzi dellescuole Ipsia – Pittoni, per ricordare gli internati, hannofatto una simulazione dei reticolati che a suo tempofurono abbattuti dai russi. ( foto ) Il professor PierVittorio Pucci nella sala della biblioteca comunale diCodegnè ha, nel corso di una conferenza, anticipato irisultati della ricerca, che ha in atto, sui concittadinicaduti nei Lager nazisti. Anche la Giulia ha preso laparola per ricordare il fratello, il marito ed il cognato,tutti e tre internati e ha letto il testo famoso sul loro“NO”. In quella occasione il sindaco Floriano Zambon,le ha annunciato che per il 25 aprile, a spese del

Comune sarà inaugurata una targa ricordo con leseguenti parole: “La verità è garanzia di libertà. Aperenne ricordo di tutti i coneglianesi deportati neiLager nazisti”. Naturalmente la lapide corona un desi-derio della nostra amica che ne è stata la promotrice.

* * *25 aprile 2017 – La targa è stata inaugurata con

una sentita cerimonia: non è mancato il messaggio diringraziamento del nostro presidente Raffaele Arcella.La nostra amica Giulia soddisfatta ha annunciato subi-to un altro suo progetto, la creazione di un piccolo

Corrispondenza con le Sezioni e con i SociNOTIZIE

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museo locale per esporre tutti i reperti e le memorie cheha raccolto in questi anni sugli internati del territorio.

NAPOLINapoli.- 2 dicembre 2016 - Il nostro Presidente

Nazionale Raffaele Arcella è stato festeggiato al Palazzodi Giustizia di Napoli per il settantesimo anniversariodella sua iscrizione all’Albo degli Avvocati. Dal figlioavvocato Roberto abbiamo ricevuto questa lettera che cifa piacere condividere.

Oggi, 2 Dicembre 2016, è per me una data impor-tante. Lo stesso giorno di 70 anni fa, il mio Papà,l’avv. Raffaele Arcella, classe 1920, si iscrivevaall’Albo degli Avvocati nel quale è tuttora iscritto.Ed è per me un vanto far sapere che a 97 anni usaquotidianamente il computer e la posta elettronica,smentendo i molti colleghi che, sol perché laureatisiuna ventina d’anni or sono, si dicono appartenentiad una generazione che non è fatta per l’informaticae detestano per partito preso il PCT.Lui ha invero una tempra diversa, avendo sopporta-to una prigionia durata due lunghi anni nei Lagernazisti e molte altre dure prove che gli si sono frappo-ste nella vita, e non potevano essere una tastiera ed unmonitor a creargli problemi.Non ho fatto ricerche particolari nei vari Albid’Italia, ma credo si tratti di un record: e credo costi-tuisca al pari un record l’assordante silenzio serbatosulla ricorrenza, che so esser ben nota, dal Consigliodell’Ordine degli Avvocati che da 70 anni lo annove-ra tra gli iscritti.Nel silenzio, gli auguri di tutti gli altri risuonerannopiù forti. ( in neretto o in grigio per far risaltare)

Napoli – 27 gennaio 3017, Giorno della Memoria– Festeggiatissimo è stato invece il nostro Presidente inPrefettura, in occasione della cerimonia per la consegnadelle Medaglie d’Onore, come si può notare dalle fotoche pubblichiamo.

PISAPisa. La signora Elda Tacchi, figlia di un ex interna-

to, desidererebbe notizie del campo di concentramentodove è stato ristretto il padre, Cassio, si tratta del campoVI/A denominato Hemer nella regione della Westfalia.(indirizzo: Elda Tacchi, via 24 maggio 6/b 56123 Pisa).

Ci ha inviato un frammento da lei elaborato deiricordi del padre che volentieri pubblichiamo. Cassioera un valente suonatore di violino e come per moltiinternati l’abilità in qualche strumento musicale è statala salvezza. Lavorava in una miniera di carbone. Neidue anni di prigionia, i deportati non ebbero pratica-mente nessun contatto con il resto del mondo.

Paganini - “In una baracca poco più grande delle altrec’era l’infermeria, dove in modo empirico venivano curateferite, lussazioni, intossicazioni da grisou e poco altro. Ilmedico era un internato russo appassionato di musica. Tichiamava Paganini perché sapeva che suonavi il violino.Un giorno, non si sa come, si procurò lo strumento e ti con-vocò per fartelo suonare. Le tue mani erano screpolate, reseinsensibili dal freddo e dal piccone, sul tuo zigomo era spa-rita ogni traccia del callo del violinista, quanti anni chenon vedevi più un violino, raccogliesti la tua forza d’ani-mo per fare il tuo meglio. Dopo aver verificato le corde,iniziasti qualche accordo per prendere confidenza con lostrumento. Forse si contentavano di poco, come tu raccon-tavi, ma le facce si distesero e tutti furono felici di ascolta-re un po’ di musica. Il medico russo era al settimo cielo enon mancò, se gli era possibile, farti passare un giorno odue in infermeria. Voleva dire sopravvivere”.

Il sindaco Zambon, la Perini e le amiche Ines Visentini ed Elena Sinopoli

Raffaele Arcella e il sindaco De Magistris

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56 NOI DEI LAGER n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017

RIMINILa cerimonia si è svolta presso il Parco Caduti nei

Lager 1943/1945, vicino Fiabilandia di Rimini, dove sitrova il monumento dedicato alle Vittime dei Lagernazisti e di tutte le prigionie. Presenti le autorità, le rap-presentanze delle associazioni Combattentistiche ed'Arma e con la partecipazione di studenti e insegnantidelle scuole di Rimini e naturalmente il Presidente dellasez. provinciale ANEI. Umberto Tamburini, classe1921, insieme con il Vicesindaco di Rimini Gloria Lisie il Sindaco del comune di Artegna (UD) Aldo Daici.Questi ha ricordato che, nella sua cittadina nel lontano1943, si fermarono i treni, che portavano in Germaniai militari italiani, che, dopo l'8 settembre, avevano rifiu-

tato di aderire alla Repubblica di Salò e di collaborarecon i nazisti. Ad Artegna le donne del paese si avvicina-rono ai treni dei militari, sfidando i tedeschi, per rifor-nirli di acqua, mele e uva e anche ritirare dei bigliettini,che poi avrebbero spedito alle famiglie. Questo aiutodato dalle donne del comune di Artegna risultò spessodeterminante per la sopravvivenza dei militari, perchépoi il treno riprendeva la corsa verso la Germania senzafermarsi per una decina di giorni. Sopra questi trenic'era anche il riminese Umberto Tamburini. A lui ed alVicesindaco Lisi, il Sindaco di Artegna ha consegnato ilvideo intitolato "La dignità offesa, da Rimini al Lager,ultima fermata Artegna" che comprende una lungaintervista fatta a Tamburini, l'anno scorso, intervistache ha dato origine ad uno spettacolo teatrale tenutosipresso il Teatro Lavaroni di Artegna il 12 marzo 2016.

* * *31 gennaio 2017 - Il Presidente Tamburini ha par-

tecipato ad un seminario di 120 studenti della Scuola

Media organizzato dal comune di Cattolica di Riminipresso la Sala del Consiglio Comunale, nell'ambito delprogetto relativo alle attività della Memoria, con il sin-daco Mariano Gennari, l'assessore alla Cultura ValeriaAntonioli, il presidente dell'A.N.P.I. di Cattolica prof.Maurizio Castelvetro, Bruna Morganti, figlia di Guido,"un Giusto fra le Nazioni". Umberto Tamburini ha pre-sentato, attraverso il suo libro "La dignità offesa", latestimonianza dei suoi due lunghi anni di internamen-to in Germania fra il 1943 e 1945 ( Foto )

ROMA12 ottobre 2016. Abbiamo ricevuto la visita del

professore Gianfranco Ceccanei dell’Associazione “AltraItalia” di Berlino che ha guidato un gruppo anziani delCircolo “Carlo Levi” nonché dell’Università di Charlot -tenburg. Nell’incontro abbiamo risposto alle loro inte-ressate domande sulla storia degli Internati Militari ita-liani e sulla funzione che l’ANEI ha svolto di trasmis-sione della memoria. Ha tradotto in simultanea lanostra amica Dorothee Wolff. Abbiamo ricevuto dauno dei componenti del gruppo, Michael Jacker-Cuppers una lettera di ringraziamento nella quale tral’altro si dice: «Per noi questi incontri “politici” e dellamemoria sono sempre molto importanti per capiremeglio la realtà dell’Italia progressista e per contribuireallo scopo che la nostra comune e terribile storia delfascismo e del nazismo non si ripeta più».

* * *16, 23 novembre - 4,14 dicembre 2016. L’ANEI in

collaborazione con l’ANRP, la FNISM (FederazioneNazionale Insegnanti Scuola Media) ed il Museo Storicodella Liberazione di Via Tasso, ha organizzato un corsodi formazione per docenti delle scuole di primo e secon-

do grado sulla Seconda Guerra Mondiale e la vicendadell’internamento dei militari italiani. Il corso ha otte-nuto molto successo tra i docenti. Tra i relatori segnalia-mo il contributo del nostro carissimo Alessandro Feriolie la presenza dello storico professor Emilio Gentile chevogliamo ringraziare pubblicamente.

* * *Il prof. Mario Carini dell’Orazio ci ha inviato,

come lo scorso anno, una pubblicazione del suo liceo, ilQuaderno n. 7 elaborato dagli allievi nell’anno scolasti-

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n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017 NOI DEI LAGER 57

co 2016/2017 in cui abbiamo trovato da pag 29 apag.93 pubblicato il diario della prigionia in Germaniadi Ugo D’Ormea. Il manoscritto è stato consegnato alprof. dal figlio Aldo Naturalmente le note e la conte-stualizzazione storica sono a cura del prof. Carini, che sista rivelando a noi come un profondissimo conoscitoredella vicenda dell’Internamento, evidentemente coltiva-ta per passione a latere delle sue discipline di insegna-mento. Grazie professore!

TORINO21 ottobre 2016 - presso la Sede del C.A.I. Sezione

di Torino al Monte dei Cappuccini, si è svolta la ceri-monia di premiazione per “Fedeltà al Sodalizio” di Sociaventi 50-60-70 anni di tesseramento. In quell’occasio-ne il Presidente dell’A.N.E.I. Sezione di Torino, Pensie -ro Acutis, 91 anni, ha ricevuto la medaglia per il settan-tennio di appartenenza al Club Alpino.

La sezione ANEI di Torino è fiera di tale riconosci-mento al suo Presidente e ritiene doveroso darne diffu-sione.

* * *13 novembre 2016 - Pensiero Acutis insieme con

altri 174 partigiani e deportati ha ricevuto dalla sinda-

ca Appendino la Medaglia della Liberazione e in quel-l’occasione gli è stata fatta una intervista sul giornale Lastampa.

* * *27 gennaio2017 – PALAZZO San CELSO – Sala

conferenze – corso Valdocco – a cura dell’Anei, ore17,30, incontro su “L’internamento degli ufficiali ita-liani: in ricordo del generale Balbo Bertone di Sambuy“ Attraverso la ricostruzione del sacrificio del generaleBertone barbaramente ucciso nel Lager di Flossemburge dell’eccidio di altri cinque generali a Selkow il 28gennaio 1945 siè voluto affrontare un aspetto poconoto dell’internamento dei militari italiani nei campitedeschi.

A questo proposito Silvia Rivetti Barbò ci ha invia-to una locandina dell’Unione Nazionale Ufficiali inCongedo d’Italia nella quale con la quale ci comunicache le è stato conferito il 4 novembre 2016 a Milano undiploma che la elegge Paladino delle Memorie 2016 peril libro dedicato al nonno generale di brigata GuglielmoBarbò di Casalmorano.

VICENZAI ragazzi della scuola media Dante Alighieri di

Caldogno hanno vissuto una “Giornata della Memoria”davvero speciale. Al Teatro Gioia, nell’incontro organiz-zato dalla federazione vicentina dell’AssociazioneNazionale Ex Internati, la sezione di Caldogno eCostabissara dell’Associazione Nazionale del Fante el’Assessorato alla Cultura e all’Istruzione del Comune,gli studenti di III D, coordinati dalle professoresse LuciaTodescato (Lettere) ed Elena Bellotto (sostegno), hannopresentato ai compagni e alle tante persone, che hannogremito la sala, una ricerca di approfondimento su unaspetto in genere meno raccontato della Shoah, quellodell’Olocausto dei disabili. Ne è nato un piccolo volu-me segnalato come il migliore tra quelli presentati datutte le scuole del Veneto nell’ambito del concorsonazionale proposto dal Ministero dell’Istruzione “I gio-vani ricordano la Shoah”.

Ad arricchire quest’esperienza formativa, la presen-za al Teatro Gioia anche di Ivo Piaserico, ex internatooggi novantacinquenne, e di Virgilio Comberlato eLoris Savegnago, figli del calidonense AlessandroComberlato e del camisanese Giovanni Savegnago,entrambi internati in Germania tra il 1943 e il 1945.Davvero vivide e toccanti le loro testimonianze di storieoggi ricordate anche fuori d’Italia, attraverso la mostrapermanente “Tra più fuochi, la storia degli internatimilitari in Germania tra 1943 e 1945”, allestita, a par-tire dallo scorso novembre a Berlino presso il centro didocumentazione sul lavoro forzato dell’ex lager diSchoeneweide.

Ai lettori di “Noi dei Lager” un grazie per la fedeltà al giornale e l’invito a non dimenticareil 5 per mille all’Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager nazisti.

Codice fiscale: 80225230582

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Nato a Thiene nel 1916, nel 1938 èammesso al Corso Allievi Ufficiali diComplemento che frequenta a Spoleto, supe-rato il quale venne assegnato al 3° Reggimento“Granatieri di Sardegna” a Viterbo.

Nel 1939 il Reggimento viene trasferitonell’appena occupata Albania, in una casermanei dintorni di Tirana; da qui, nell’agosto del1940, il reparto viene trasferito a Delvino, inattesa sferrare l’attacco italiano alla Grecia.

È in questo periodo che Fornale riceve il suo “bat-tesimo di fuoco”, rimanendo ferito ad una gamba,

Nella Grecia occupata, e precisamente ad Atene,dopo mesi di relativa tranquillità, Lino Fornale vive ildramma dell’8 settembre 1943, quando gli alleati tede-schi, divenuti improvvisamente nemici, presero prigio-nieri i molti soldati italiani, così che il 10 settembre ’43salirà con i suoi compagni sul treno che speravano liportasse a Trieste, ma che purtroppo prese invece ladirezione della Germania nazista.

Qui cominciò il calvario della prigionia di quelliche, per non considerarli prigionieri di guerra (protettidalla Croce Rossa), vennero definiti ‘Internati MilitariItaliani’ (IMI); un calvario che nel giro di 2 anni portòFornale in ben 6 lager diversi, da quello di Wietzendorf,dove la prigionia cominciò e finì 2 anni dopo, a quellorelativamente più umano di Meppen, ai confini conl’Olanda, fino a quello terribile di Sandbostel, dove spe-rimentò il peggio del peggio.

All’inizio della prigionia, si cercò di convincere iprigionieri ad arruolarsi nell’esercito della RepubblicaSociale di Salò, in cambio della libertà e del ritorno inpatria. Quasi nessuno accettò. Racconta il Fornale che“Un giorno arrivò un gerarca fascista che ci chiese di farciavanti per aderire alla Repubblica sociale. Non solo nessu-no si mosse, ma al cenno di un maresciallo noi granatieriintonammo l’inno del reggimento. Il nostro fu un secco noalla nuova dittatura. Purtroppo, il rifiuto ci costò altrigiorni drammatici e una lunga prigionia, fino al campo diSandbostel” - Fu solo successivamente, quando la terri-bile fame, usata come arma di persuasione, e le preoc-cupazioni per le sorti della propria famiglia, divenneroinsopportabili che alcuni accettarono di arruolarsi e

lasciarono il lager. Lino Fornale dimostraprofonda comprensione umana per loro,perché convinto che la scelta sia stata deter-minata da pressioni cui umanamente è diffi-cile resistere, soprattutto per chi sta provan-do da mesi l’esperienza della fame e le con-dizioni di vita in un lager.

“Non posso dimenticare la fame - raccon-ta ancora con voce lucida - era la fame a

distruggerci. Mangiavamo circa un terzo delle calorienecessarie per sostenere un normale fisico umano. Quantafame abbiamo patito dopo quel viaggio che ci portò dallaGrecia al nord della Germania, su carri bestiame stipati ingruppi di 45 per carro”.

Nei lager Fornale strinse amicizie che durarono poitutta una vita, tra cui quella con Giuseppe Lazzati, inseguito Rettore dell’Università Cattolica di Milano edoggi in fase di canonizzazione, con GiovanninoGuareschi, lo scrittore che nell’inferno di Sandbostelcompose ‘La favola di Natale’ e persino con l’attoreGianrico Tedeschi. I liberatori inglesi sfondarono con iloro carri armati il cancello del campo di concentra-mento il 16 aprile 1945; ma è solo nel settembre diquell’anno che, non senza ulteriori pericoli e peripezie,Lino Fornale dopo sette anni in grigio-verde tornò aThiene.

Al ritorno l’altra tragica notizia. “Seppi che i parti-giani avevano ucciso mio fratello, al Pian di Cansiglio.Non ci restituirono nemmeno le ossa del povero Manlio”.

Per i suoi meriti gli furono conferite tre Croci diguerra ed il distintivo d’onore per ferita in combatti-mento. Dopo la guerra arrivò la politica. È stato undemocristiano fiero della sua appartenenza allo scudocrociato. “Erano altri tempi, c’erano più risorse ma anchepiù correttezza e onestà”.

Fu impegnato dal 1948 al 1951, co me membrodella Deputazio ne che amministrava la Pro vincia e suc-cessivamente, dal 1957 al 1962, in qualità di Con -sigliere ed Assessore nel Co mune di Thiene.

Nel 1958, venne eletto depu tato; tale carica rico-prirà inin terrottamente fino al 1972.

“Tre legislature ai tempi di Rumor, dei padri costi-tuenti, delle campagne elettorali fatte ancora di comizi

Ricordo di Lino Fornale, storia di un IMI,ma anche di un cittadino impegnato nelle Istituzioni

Avrebbe compiuto 100 anni il 15 ottobre 2016. Non ce l’ha fatta a raggiungere questo traguardo. Si èspento, nella sua abitazione, stretto dall’affetto dei suoi cari. La sua vita fatta di tre legislature ai tempidi Rumor, dei padri costituenti, delle campagne elettorali accese e piene di passione. Quelle dove la gentesta ai piedi del palco e ti applaude, credendo in ciò che dici.

STORIE DI IMI

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Bortolo Lot: un “sommerso”nel KZ “Laura” di Buchenwald

nelle piazze popolate di Topolino e Cinquecento, e di gen-ziane al bar”.

Come deputato rivestì im portanti incarichi pressole Commissioni di Agricoltura, Sanità e Difesa, e si fecepro motore e presentatore di alcu ne proposte di Legge.

In particolare promosse e fece approvare la leggedel 26/7/1967, n. 534 con la quale la zona di MonteCengio era dichiarata sacra per la patria insieme a quel-la dell’Ortigara. Tale iniziativa a dimostrazione della suavicinanza all’Associazione Nazionale Granatieri diSardegna, di cui fu per anni Presidente di Sezione e delCentro Regionale Veneto, ed ai suoi compagni del 3°Granatieri con i quali spesso soleva incontrarsi e recarsinei luoghi di guerra. Per questo suo impegno ed attac-camento l’ANGS che, per ben tredici anni, lo ha volu-to quale Presidente Onorario.

Nel decennio 1950 -1960 fu tra i promotori del-l’ini ziativa di creare uno sbocco a Nord per la Provinciadi Vi cenza, sostenendo la necessità di realizzare l’auto-strada Val-d’Astico.

Presidente dell’Ospedale Boldrini di Thiene dal1955 al 1974, si adoperò per il poten ziamento dellastruttura, la sciando in eredità un comples so modernoed efficiente, do po quello di Vicenza.

Dal 1980 al 1985 è stato infi ne Presidente delComprenso rio Thiene-Arsiero, composto da 24Comuni. Nel 1985 gli viene assegnato il PremioFontana isti tuito dall’Amministrazione Co munale di

Thiene con la seguente motivazione: “All’OnorevoleLino Fornale, sensibile ed attento interprete dei probleminazionali e locali. Protagonista per oltre un trentenniodella vita amministrativa e politica della comunità thiene-se, ha saputo cogliere esigenze ed aspirazioni con intelligen-za, entusiasmo e profonda umanità, dando testimonianzadi impegno e coerenza al servizio degli ideali di democra-zia e libertà. È stato protagonista dei tragici eventi dellaseconda Guerra Mondiale, sul fronte Greco-Albanese con ilgrado di Ufficiale, nel 3°Reggimento Granatieri e all’attri-buzione per meriti di guerra di tre croci e dal distintivod’onore per le ferite riportate in combattimento, la depor-tazione e l’internamento dopo l’8 settembre del ‘43 in variLager della Polonia e della Germania. Presidentedell’Ospedale Boldrini di Thiene dal ‘55 al ‘74, è statopresidente dal ‘80 del comprensorio Thiene-Arsiero forma-to da 24 comuni. Premio assegnato per la partecipazione el’impegno alla vita della Città di Thiene, onorando com-piti e ruoli di grande levatura.”

Il 20 giugno 2016, pochi giorni dopo che i suoiGranatieri avevano celebrato il centenario della batta-glia del Monte Cengio e che col Comune di Cogolloavevano voluto ricordare con una targa il suo grandeamore per il Corpo ed il suo impegno per la valorizza-zione della zona sacra, lasciava la vita terrena a pochigiorni dal compimento dei cento anni, per raggiungerei suoi compagni d’arme.

A cura dell’ANGS e dell’ANEI vicentina

Lo scorso 2 giugno, nel corsodelle cerimonie per il 70° anniversa-rio della proclamazione dellaRepubblica, il prefetto di Treviso,dott.ssa Laura Lega, ha consegnato aifamigliari di Bortolo Lot la medagliacommemorativa.

Bortolo Lot è uno dei 40.000militari italiani internati che nonebbero la fortuna di ritornare. Un“sommerso” – secondo Primo Levi.

Per lungo tempo fu consideratouno dei tanti dispersi, ma solo inquesti ultimi mesi, grazie ad unlungo e paziente lavoro di ricercanegli archivi dell’InternationalTracing Service di Bad Arolsen e della Wehrmachtaffiora la drammatica realtà del suo internamento e

della sua morte. Bortolo Lot era natonel gennaio del 1873 ad Orsago, pic-colo comune agricolo della parteestrema della Marca Trevigiana, aridosso del confine con il Friuli. Fuchiamato alle armi nel 1931, richia-mato nel 1935 per la guerrad’Abissinia e nuovamente richiamatonel 1942, all’indomani dell’attaccodell’Asse alla Jugoslavia. Assegnato al7° reggimento fanteria fu mandato aOgulin (Croazia). L’otto settembre,come molti suoi commilitoni, tentòla fuga verso l’Italia, ma quattro gior-ni dopo, giunto a Pola, fu catturatodai tedeschi e deportato in Germania

nello Stammlager III B di Fürstenberg-Oder con ilnumero 307407.

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In questo stesso lager furono internati altri trevigia-ni: Daniele Cescon di Santa Lucia di Piave (morto perTBC pochi mesi dopo la cattura), Angelo Tonello diCodognè, lo stesso paese di Bortolo Lot, (morto nellager in circostanze non note nell’agosto del ’44), PietroCelotti di San Vendemiano. Quest’ultimo, che ebbe lafortuna di sopravvivere, così descriveva la fame che sipativa a Fürstenberg: «Alla mattina ci davano del tè, main realtà era acqua calda. La pausa per il pasto era solo diun quarto d’ora. A mezzogiorno ci davano una brodaglia,alla sera un pezzo di pane di circa 30 centimetri da divi-dere in cinque persone».

Da Fürstenberg Bortolo Lot fu trasferito inTuringia nello stammlager IX C di Bad Sulza e assegna-to al campo di “Laura”, nome in codice della centralesotterranea in cui erano testati i motori dei missili A4 eV2. Secondo quanto si legge nel sito ufficiale “kz-gedenkstaette-laura” in questo campo furono effettuatifino alla fine del 1944 ben 4372 test.

Per questa enorme importanza strategica il KZ“Laura” era stato posto, già dal 21 settembre 1943,sotto il diretto controllo del Campo di Concen -tramento di Buchenwald.

In un primo tempo i prigionierifurono sistemati in una vecchia capan-na nella cava di ardesia. In seguitofurono alloggiati in case rurali, trasfor-mate in campo di concentramento. Iprigionieri provenivano da più di diecipaesi, principalmente dall’UnioneSovietica, Polonia, Francia, Italia,Belgio e Paesi Bassi. Le condizioni dilavoro erano così disumane che il tassodi mortalità era superiore al 20 %. Ilsito ufficiale del lager quantifica infat-ti in 550 i decessi, su un totale di 2600prigionieri.

Bortolo Lot è uno di questi “som-mersi”. Il suo nome compare al rigo2660 del registro dei decessi del KZ di

Buchenwald, ove si certifica che la morte avvenne alleore 14.00 del 30 novembre 1943 per “bronhopneumo-nie”. Si notano però in quel registro e nell’altra docu-mentazione rilasciata dall’Archivio di Bad Arolsen nonpoche anomalie che suscitano forti dubbi sulla veridici-tà della causa della morte:1) i decessi della Auszug aus Totenbüchem risultano regi-

strati in date non rispecchianti la regolare successio-ne cronologica (la morte di Lot avvenuta il 30novembre è registrata dopo un decesso del giornosuccessivo e prima di un decesso avvenuto in giorniprecedenti);

2) la presenza di giorni con un numero eccessivamentealtro di decessi (7 morti il 5 dicembre 1943, 3 mortiil 6 dicembre, non meno di 6 morti il 6 dicembre)3) la “misteriosa” sigla OKW – SS che compare alla

data 1.11.1943 nella Personalkarte di Bortolo Lot.

Alla richiesta di chiarimenti sul significato dellasigla OKZ – SS e sulle vere circostanze della mortel’Ufficio per le informazioni ai parenti dei caduti dellaWehrmacht rispondeva: «Consegnato alle SSl’1.11.1943. Informazioni più dettagliate sui retroscena, omeglio circostanze e dettagli su quest’ultima comunicazio-ne (consegna alle SS) non sono possibili da parte nostra. Aquesto proposito chiedo la sua comprensione. […] Firmato:Müller». Più esplicita, invece, la risposta del KZ-Gedenkstatte-Laura che, a proposito della diagnosi di“bronhopneumonie”, non esita a scrivere testualmente:«tipica ma nella maggior parte dei casi falsificante indica-zione […] Firmato: M. Döbert».

È quindi molto probabile che Bortolo Lot sia statopreso in consegna e ucciso dalle SS a seguito di un suoatto di ribellione.

Pier Vittorio Pucci

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n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017 NOI DEI LAGER 61

Al ritorno dal Treno della Memoria organizzatodalla Regione Toscana1, diverse persone mi hanno chie-sto le emozioni provate nel visitare i campi di sterminiodi Auschwitz e Birkenau rispetto alle esperienze fatte inquesti anni nei luoghi di prigionia di mio padre.

Sicuramente ogni volta che ho raccontato la visitadei Lager dove Elio*, mio padre, fu prigioniero, avendovisto i luoghi del lavoro coatto, sono riuscito a farlo,raccontando e trasmettendo emozioni e commozioni diun figlio nel trovarsi in posti che furono di sofferenza,fame, freddo, violenza e annientamento della dignitàumana.

Della visita dei campi di sterminio di Birkenau edAuschwitz posso raccontare quel che ho visto, ma rima-ne impossibile trasmettere le emozioni e le commozio-ni che provi quando sei lì, in quei luoghi dove milionidi individui hanno trovato la morte con la sola colpa diessere dei diversi rispetto ad una razza, ad un’idea poli-

tica, ad una religione, alle scelte sessuali.Uomini, donne, bambini, neonati, la cui colpa era

di essere ebrei, comunisti, socialisti, antinazisti maanche antifascisti, omosessuali, zingari, apolidi, disabili.

Vedere ed apprendere storie anche diverse di perso-ne la cui ultima conclusione era comune.

La morte poteva arrivare subito oppure dopo mesidi lavoro, fame, freddo, violenze, sofferenze inenarrabi-li uguali e diverse da quelle conosciute nella visita deilager dove furono internati i militari italiani.

Per i più piccoli selezionati, ebrei, zingari, polacchi,russi, ma anche italiani, la morte arrivava, come per gliadulti, dopo essere stati vittime di inumani e raccapric-cianti esperimenti sulla persona, oppure uccisi quasiall’istante dopo averli strappati dalla stretta protettricedella mano poi implorante e impotente. Oppure unattimo dopo essere stato tolto dal seno allattante dellamadre.

L’ANEI e i giovaniDalla sezione di Firenze riceviamo:

Il treno della Memoria finanziato dalla Regione Toscana ed organizzato dal Museo della Deportazione e della Resistenzadi Prato è una iniziativa formativa rivolta agli studenti della Toscana che si svolge ogni due anni per salvaguardare lamemoria dei terribili accadimenti della seconda guerra mondiale in particolare su cosa furono i campi di concentramen-to e di sterminio di Auschwitz e Birkenau. L’edizione 2017 si è svolta dal 23 al 27 gennaio con la presenza di oltre cin-quecento studenti della scuola media superiore, dei loro insegnanti, di una sessantina di universitari, amministratori dellaRegione Toscana e di alcuni Enti Locali, rappresentanti delle associazioni ANEI, ANPI, ANED, gay e lesbiche, comuni-tà ebraiche, rom, giornalisti, operatori tv, organizzatori, personale di servizio. In tutto più di settecento persone, partitiin treno dalla stazione Santa Maria Novella di Firenze ed arrivati ad Oswiecim (Auschwitz) in Polonia dopo un lentoviaggio durato più di venti ore. Ha partecipato per l’ANEI il vicepresidente Orlando Materassi.

1 E. Materassi, Diari di guerra e di prigionia, Regione Toscana, Firenze, anno 2014 pag. 89.

L’ANGOLO DELLE LETTERE

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62 NOI DEI LAGER n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017

Altri, prima di morire dovevano lavorare duramen-te. Diverse loro fotografie sono esposte in una sala delmuseo di Auschwitz: gli esperimenti sulle donne perrenderle sterili nella elaborazione di un metodo di ster-minio biologico; uomini, donne e bambini che veniva-no usati come cavie nell’ambito di esperimenti di nuovifarmaci e preparati: sostanze tossiche venivano messe acontatto con l’epidermide dei detenuti, venivano effet-tuati innesti di pelle…; centinaia e centinaia di vittimemorirono durante gli esperimenti, chi sopravvisse ripor-tò gravi danni di salute e mutilazioni permanenti.

Uomini e donne “diversi”, famiglie “diverse”, bam-bini “diversi” il cui viaggio fu comune: ammassati neicarri bestiame finché il lento treno non arriva all’inter-no del campo di sterminio, e diverso sarà il loro desti-no perché se i vagoni arrivano fino al termine delle rota-ie, di lì a poco la morte è certa; se il treno si ferma ametà della ferrovia all’interno del lager una volta scesic’è la diversità della decisione di una persona che tiindica di andare a sinistra per essere accompagnato alle“docce”, mentre se il dito è rivolto verso la destra vai inuna baracca che sarà la tua “abitazione” comune a tantiesseri diversi ed uguali a te.

In spazi per quaranta persone, sono ammassati inpiù di duecento.

Sarà il luogo dove ti viene dato da mangiare quasiniente, dove dormi in pagliericci pieni di pidocchi ecimici, accanto ad un altro, sotto o sopra la struttura ese sei sotto rischi di accorgerti sui tuoi indumenti chechi sta sopra ha dei problemi di dissenteria; ma il rego-lamento prevede che le latrine siano accessibili solo duevolte al giorno, indipendentemente dai propri bisogni edalla volontà di chi è preposto alla sorveglianza, all’au-torizzazione ad entrare ed alla pulizia.

Questi ultimi sono persone come te, che hannofatto il viaggio con te, che come te sono stati allontana-ti dai propri affetti, che patiscono la fame come te, mache hanno il “privilegio” di lavorare in un posto al chiu-so, al “caldo” degli escrementi che devono togliere consecchi scendendo dove sono depositati. Un “lavoro”ambìto rispetto ad altri, e, pur di mantenerlo, diventianche tu “cattivo” come vogliono tu sia i tuoi, i vostriaguzzini.

Eppure sai che un giorno anche tu sarai destinato afare la “doccia”.

Le “docce” non erano altro che le camere a gas dovegli internati venivano avviati, per essere uccisi, inmaniera meticolosamente organizzata da menti per lequali mi rimane difficile trovare un aggettivo di disu-mana perfezione.

Ai poveretti veniva fatto credere di doversi avviare afare veramente la doccia con le raccomandazioni, seerano da poco arrivati, di scrivere sulla propria valigia,

all’interno della quale avevano messo le loro cose comeera stato detto di portare con sé al momento della cat-tura, il proprio nome, cognome e indirizzo per avere lacertezza di poterla ritrovare.

Da lì il trasferimento nello spogliatoio con unaulteriore raccomandazione di ben ricordarsi dovehanno depositato i propri abiti da indossare di nuovodopo la doccia.

Poi il passaggio dallo spogliatoio alla camera a gasin attesa che arrivasse “l’acqua”.

La chiusura delle porte, i minuti d’attesa, ma inve-ce dell’acqua arrivava il gas, iniziavano le urla, lo sgo-mento, la lenta agonia, la ricerca di un qualsiasi modoper poter uscire, anche iniziare a graffiare le pareti pertrovare un varco d’aria.

Sono impressionanti le pareti graffiate dalle unghienella ricerca spasmodica di trovare qualcosa per sfuggi-re alla morte. La morte arrivava dopo una mezz’ora diatroce agonia e non sempre era sufficiente per far arri-vare l’ultimo sospiro.

Allora ci pensavano i criminali tedeschi ad uccide-re lo “scampato” con un colpo di pistola. Proprio cosìcapitò ad un neonato, come raccontò un sopravvissutoil cui compito assegnato era quello di trasportare i cada-veri dalla camera a gas al forno crematorio.

Gli addetti al trasporto dei cadaveri, anch’essi inter-nati e consapevoli che un giorno quella sarebbe stataanche la loro sorte non solo perché persone da elimina-re ma soprattutto perché non potessero raccontare, lotrovarono tra le braccia della mamma morta, cercaronodi salvarlo eludendo la sorveglianza dei kapò e degliaguzzini, ma trascorse solo poco tempo prima di essereindividuato ed ucciso con un colpo di pistola.

E come in una catena di montaggio i cadaveri veni-vano trasferiti nei forni crematori da cui usciva cenereda usare per concimare i campi.

A Birkenau, in alcuni momenti i forni crematorinon erano sufficienti per la cremazione di tutti i corpi,allora venivano accatastati in un grande spazio all’aper-to e bruciati in un rogo a cielo aperto.

Son morto ch’ero bambinoson morto con altri centopassato per un caminoe adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c’era la neveil fumo saliva lento

nel freddo giorno d’invernoe adesso sono nel vento.

Quante volte abbiamo ascoltato questa canzonedalla voce dei Nomadi o di Francesco Guccini, l’abbia-mo anche cantata non avendo tutta la consapevolezza diquelle parole, ma ad essere lì nel freddo sopra la neve,vedere le camere a gas, i forni crematori, i camini, sen-

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n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017 NOI DEI LAGER 63

tire i racconti della guida… ti vengono alla mente tantedomande da fare, tanti perché, ti chiedi se Dio esistedavvero, cerchi di darti, di avere una risposta a tantaviolenza ma nessuno riesce a dartela, e nell’impotenza enella rassegnazione chiudi gli occhi e li riapri pienilacrime. Ho visto ragazze, ragazzi e adulti piangere, ilsolo rumore nel grande silenzio del rispetto dei milionidi persone sterminate, annientate ma mi verrebbe dadire “lavorate” come oggetti da cui ricavarne profitto.

Delle vittime, non veniva “buttato via” niente.Nel momento dell’arrivo venivano confiscati i

vestiti e qualsiasi altro oggetto personale: stoviglie, spaz-zole per capelli, scarpe, occhiali, bacinelle, protesi, levalige con tutto ciò che vi era dentro.

A tutti venivano rasati i capelli che poi venivanolavorati per la produzione di stoffe. Tonnellate di capel-li dati all’industria tedesca. C’è un blocco fra i tanti visi-tati dove ci sono parte di oggetti e di tanti capelli recu-perati dopo la liberazione, e lì di nuovo capisci l’orrorecausato da menti di persone disumane come lo erano leSS dettate dall’odio verso coloro che per loro erano

Dalla sezione di Firenze recentemente riattivata e checonta oltre 30 soci riceviamo la presente relazioni sulla mol-teplice attività che ha già svolto e ha intenzione di svolgere:“È ora possibile fare un primo bilancio dell'attività dellasezione.

La constatazione che, a tanti anni di distanza dagli even-ti che hanno visto protagonisti i padri e i nonni, molti anco-ra non conoscono la loro storia, ha spinto i soci fiorentini astilare un programma che intende soprattutto promuovere laricerca di memorie e diari inediti, di testimonianze cartaceee materiali da mettere a disposizione in Mostre e Musei.

Inoltre questo impegno si è tradotto in varie attività:instaurazione di una rete di rapporti con le istituzioni localie con le associazioni affini; presentazione di libri di diari ememorie; raccolta di materiali presso familiari di IMI; inter-venti nelle scuole del territorio; azione di stimolo verso gliEnti locali per porre targhe in ricordo degli IMI nei loro ter-ritori e per instaurare rapporti internazionali, soprattuttocon la Germania, presentazione di progetti di ricerca e divul-gazione di diari, memorie, testimonianze, cimeli.

Preme in particolare ricordare:• 28-30 ottobre 2016: Germania (Brema Schwanewede

Sandbostel) partecipazione insieme all'amministra-zione comunale di Pontassieve a incontro per proget-to e patto di amicizia sul tema IMI ( legato all'inter-namento di Elio Materassi di Sieci)

• 9 novembre 2016: Roma, Camera dei Deputatiincontro con parlamentari firmatari della proposta dilegge “Istituzione della giornata dell'Internato milita-re italiano”

• 25-30 novembre: Berlino partecipazione all’inaugura-zione della la mostra permanente "Tra più fuochi. Lastoria degli Internati Militari Italiani 1943-1945"

• 16 gennaio 2017: Pistoia, partecipazione alla presen-tazione del numero monografico dedicato agli IMI diQF, Quaderni di Fare Storia, periodico dell'Istitutostorico della resistenza di Pistoia

• 23-27 gennaio: partecipazione al Treno dellaMemoria” 2017 organizzato dalla Regione Toscana (v.Articolo in questo stesso numero)

• patrocinio al documentario di Sergio CanfaillaRitorno da Lilì Marlen. Il racconto di deportazione diUgo Brilli in Germania, Dopo settanta anni torna invisita nel campo di lavoro dove fu internato, aBerlino, nel quartiere di Shöneweide. Il documenta-rio è stato presentato il 19 aprile nel corso di unincontro con gli studenti dell'Istituto alberghiero“Buontalenti” di Firenze, organizzato dal Quartiere 4( Il documentario è visibile on line:

• http://video.repubblica.it/edizione/firenze/ugo-brilli-io-deportato-nel-1943-a-berlino-nel-lager-degli-italia-ni/273426/273961)

• 27 aprile 2017 presentazione del documentario diGiacomo De Bastiani In mano ai barbari.Memoriediu guerra e di prigionia, sulle vicende di BasilioPompei di Sieci, ex IMI e invalido di guerra (sociodelle sezioni ANEI e ANMIG di Firenze). Basilio,presente alla proiezione, festeggerà 100 anni di vita ilprossimo 20 settembre a Pontassieve”.

Marco Grassi

semplicemente “dei diversi”. Ma all’interno di ogni visi-ta di un blocco c’è una storia, tante storie ed ogni voltache esci ti poni sempre la stessa domanda: perché?

Ogni blocco è una testimonianza di orrore, soffe-renze, violenze, morte, poi esci e vedi le barriere di filospinato, allora elettrificato, che per molti fu la “libera-zione”: correre verso la barriera di filo spinato con lasperanza che la guardia ti spari e se non lo fa lei ti buttisul filo e “finalmente” trovi la pace eterna.

Lì mi ritornarono alla mente le parole scritte damio padre nel diario:

“Se la morte deve venire, che faccia presto, senza farcisoffrire molto, abbiamo già sofferto abbastanza.”2

Quando esci dal campo non hai parole, ti senti sgo-mento, impotente, vuoto dentro di te, ed ancora tichiedi: ma Dio esiste?

E proprio in quel momento capisci cos’è la libertà,la pace, la solidarietà, i diritti, capisci i valori di unasocietà solidale che molto spesso smarriamo nel nostrovivere quotidiano.

Orlando Materassi

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64 NOI DEI LAGER n. 1-2 Gennaio - Giugno 2017

… Se noi non sapremo farci portatori di unideale umano e moderno nell’Europa d’oggi, smar-rita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo per-duti e con noi è perduta l’Europa. Esiste, in questonostro vecchio continente, un vuoto ideale spaven-toso. Quella bomba atomica, di cui tanto paventia-mo, vive purtroppo in ognuno di noi. Non dellabomba atomica dob-biamo soprattutto avertimore, ma delle forzemalvagie le quali nescatenarono l’uso. Aquesto scatenamentonoi dobbiamo oppor-ci; e la sola via d’azio-ne che si apre dinnan-zi è la predicazionedella buona novella.

Quale sia questabuona novella sappia-mo: è l’idea di libertàcontro l’intolleranza,della cooperazione contro la forza bruta. L’Europache l’Italia auspica, per la cui attuazione essa develottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, èun’Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gliuomini possano liberamente far valere i loro contra-stanti ideali e nella quale le maggioranze rispettinole minoranze e ne promuovano esse medesime i fini,sino all’estremo limite in cui essi sono compatibilicon la persistenza dell’intera comunità. Alla creazio-ne di questa Europa, l’Italia deve essere pronta a faresacrificio di una parte della sua sovranità.

Il nemico numero uno della civiltà, della pro-sperità, della vita medesima dei popoli, è il mitodella sovranità assoluta degli Stati. Questo mitofunesto è il vero generatore delle guerre; desso armagli stati per la conquista dello spazio vitale; dessopronuncia la scomunica contro gli emigranti deipaesi poveri; desso crea le barriere doganali e, impo-verendo i popoli, li spinge ad immaginare che, ritor-nando all’economia predatoria dei selvaggi, essi pos-sono conquistare ricchezze e potenza. In un’Europain cui in ogni dove si osservano rabbiosi ritorni apestiferi miti nazionalistici urge compiere un’operadi unificazione.

Opera, dico, e non predicazione. Non bastapredicare gli Stati Uniti di Europa ed indire con-gressi di parlamentari. Quel che importa è che i par-lamentari di questi minuscoli Stati, i quali compon-gono la divisa Europa rinuncino ad una parte dellaloro sovranità a pro di un parlamento nel qualesiano rappresentati, in una camera elettiva, diret -

tamente i popolieuropei nella lorounità, senza distin-zione fra Stato eStato ed in propor-zione al numerodegli abitanti, enella camera degliStati siano rappre-sentanti, a parità dinumero, i singoliStati.

Questo è l’uni-co ideale per cuivalga la pena di

lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indi-pendenza dei popoli, la quale non consiste nellearmi, nelle barriere doganali, nella limitazione deisistemi ferroviari, fluviali, portuali, elettrici e similial territorio nazionale, bensì nella scuola, nelle arti,nei costumi, nelle istituzioni culturali, in tutto ciòche dà vita allo spirito e fa sì che ogni popolo sap-pia contribuire qualcosa alla vita spirituale deglialtri popoli. Ma alla conquista di una ricca verità divite nazionali, liberamente operanti nel quadrodella unificata vita europea, noi non arriveremo maise qualcuno dei popoli europei non se ne faccia ban-ditore.

Auguro che questo sia l’italiano. Difendendo inostri ideali a viso aperto, rientrando, col propositodi difenderli a viso aperto, nella consociazione deipopoli liberi, e prendendo con quell’intendimentoparte a dibattiti fra i potenti della terra, noi avremoassolto il nostro dovere. Se, ciononostante, l’Europavorrà rinselvatichire, noi non potremo essere rim-proverati dalle generazioni venture degli Italiani dinon avere adempiuto sino all’ultimo al dovere disalvare quel che di divino e di umano esiste ancoranella travagliata società presente.

Luigi EinaudiDiscorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 29 luglio 1947