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89 BOLLETTINO STORICO VERCELLESE ANNO XLVI BOLLETTINO STORICO VERCELLESE 89 SOCIETÀ STORICA VERCELLESE 2017 2017 CONTENUTI DEL FASCICOLO PRECEDENTE (n. 88) Giorgio Dell’Oro, Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma. La bi- blioteca Gromo-Berzetti (secc. XVI-XVIII). Matteo T acca, Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna: due casi dell’Alto Vercellese. Michela Ferrara, Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate”. Gilles André, Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues, employé des postes françaises a Verceil de 1804 a 1814. Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione, L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano. Recenti aggiornamenti sul fronte documentario. Anna Maria Rosso, Storia di una collezione. Il museo Camillo Leone dal 1907 alla direzione di Vittorio Viale. ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI Antonio Corona - Giorgio Tibaldeschi, Il convento agostiniano di S. Maria della Consolazione in San Germano Vercellese, Vercelli 2017, p. 111, ill. Mario Ogliaro, Famiglie nobili, notabili, personaggi illustri e benefattori della città di Crescentino, Vercelli 2016, p. 685 + [7], tavv, ill., col. Rosaldo Ordano. L’uomo, l’organizzatore di cultura, lo storico, a cura di R. Comba, Vercelli 2016, p. 276, ill. Il Vercellese e la Grande Guerra, a cura di G. Ferraris, Vercelli 2015, p. 590, ill. Vercelli fra Tre e Quattrocento, a cura di A. Barbero, Vercelli 2014, p. 867, ill. Flavio Qu aranta, Clero e mutuo soccorso in età giolittiana, Vercelli 2013, p. 190, ill. Luigi Avonto, I Templari in Piemonte. Ricerche e studi per una storia dell’Ordine del Tempio in Italia, Vercelli 2013 3 , p. 193, ill. Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma. Fonti documentarie e letterarie, a cura di R. Bartalini e A. Zombardo, con un saggio di Cinzia Lacchia sulla mostra al Museo Borgogna del 1950, Vercelli 2012, p. 379, ill. Giorgio Tibaldeschi, Giuseppe Maria Olgiati (1751-1807). L’autobiografia di un aristocratico vercellese, Vercelli 2011, p. 606, ill. Riccardo Rao, Il villaggio scomparso di Gazzo e il suo territorio. Contributo allo studio degli insediamenti abbandonati, Vercelli 2011, p. 366, ill. Vercelli nel secolo XIV, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, p. 693, ill.

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ANNO XLVI

BOLLETTINO STORICOVERCELLESE

89SOCIETÀ STORICA VERCELLESE

2017

2017CONTENUTI DEL FASCICOLO PRECEDENTE (n. 88)

Giorgio Dell’Oro, Libri e biblioteche tra Biella, Vercelli, Torino e Roma. La bi-blioteca Gromo-Berzetti (secc. XVI-XVIII).

Matteo Tacca, Pratiche del possesso e accertamento dei confini in età moderna: due casi dell’Alto Vercellese.

Michela Ferrara, Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate”.

Gilles André, Félix Gallet (1773 - ca 1845), auteur de l’Arbre généalogique des langues, employé des postes françaises a Verceil de 1804 a 1814.

Fabrizio Boggio - Mario C. Raviglione, L’organo storico Bruna 1785 - Aletti 1880 di Miagliano. Recenti aggiornamenti sul fronte documentario.

Anna Maria Rosso, Storia di una collezione. Il museo Camillo Leone dal 1907 alla direzione di Vittorio Viale.

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

Antonio Corona - Giorgio Tibaldeschi, Il convento agostiniano di S. Maria della Consolazione in San Germano Vercellese, Vercelli 2017, p. 111, ill.

Mario Ogliaro, Famiglie nobili, notabili, personaggi illustri e benefattori della città di Crescentino, Vercelli 2016, p. 685 + [7], tavv, ill., col.

Rosaldo Ordano. L’uomo, l’organizzatore di cultura, lo storico, a cura di R. Comba, Vercelli 2016, p. 276, ill.

Il Vercellese e la Grande Guerra, a cura di G. Ferraris, Vercelli 2015, p. 590, ill.

Vercelli fra Tre e Quattrocento, a cura di A. Barbero, Vercelli 2014, p. 867, ill.

Flavio Quaranta, Clero e mutuo soccorso in età giolittiana, Vercelli 2013, p. 190, ill.

Luigi Avonto, I Templari in Piemonte. Ricerche e studi per una storia dell’Ordine del Tempio in Italia, Vercelli 20133, p. 193, ill.

Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma. Fonti documentarie e letterarie, a cura di R. Bartalini e A. Zombardo, con un saggio di Cinzia Lacchia sulla mostra al Museo Borgogna del 1950, Vercelli 2012, p. 379, ill.

Giorgio Tibaldeschi, Giuseppe Maria Olgiati (1751-1807). L’autobiografia di un aristocratico vercellese, Vercelli 2011, p. 606, ill.

Riccardo Rao, Il villaggio scomparso di Gazzo e il suo territorio. Contributo allo studio degli insediamenti abbandonati, Vercelli 2011, p. 366, ill.

Vercelli nel secolo XIV, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, p. 693, ill.

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SOCIETÀ STORICA VERCELLESEvia Fratelli Garrone 20, 13100 Vercelli

CF 800134400210161 254269www.retor.it

[email protected] e Academia.edu: Società Storica Vercellese

CONSIGLIO DIRETTIVO:Presidente onorario: † Rosaldo OrdanoConsiglieri onorari: Luigi Avonto, Mario Bona, Maurizio Cassetti, Anna Cerutti, Antonio Corona, Patrizia Marcone, Maria Pia Saviolo MagrassiPresidente: Giovanni FerrarisVice presidente: Mario OgliaroSegretario: Felice MandrinoTesoriere: Giovanni ReinaConsiglieri: Giovanni Angeli, Luca Brusotto, Barbara Cavana, Francesco Ferraris, Timoty Leonardi, Giorgio Tibaldeschi, Franco Tron

REVISORI DEI CONTI:Laura Balocco, Maria Teresa Ferraris

PROBIVIRI:† Giacomo Fioramonti, Maria Rosa Ranghino, Piero Sanna

SEGRETERIA E TESORERIA:coadiutore: Alberto Colombo

BIBLIOTECA E SITO WEB:Barbara Cavana

ADDETTI STAMPA:Luca Brusotto, Timoty Leonardi

WEB MASTER:Marco Cerruti

COMITATO SCIENTIFICOAlessandro Barbero, Maria Antonietta Casagrande, Rinaldo Comba, Heinrich Dormeier, Blythe Alice Raviola, Claudio Rosso, Aldo A. Settia, Edoardo Tortarolo, Edoardo Villata

REDAZIONE:Direttore responsabile: Giorgio TibaldeschiVice direttore: Giorgio GiordanoRedattori: Doriano Beltrame, Anna Cerutti, Fulvio Conti, Silvia Faccin, Gabriella Gallarati, Piera Mazzone, Alessia Meglio, Sara Minelli, Laura Minghetti

La quota annuale di € 35.00 comprende i due fascicoli del “Bollettino Storico Vercellese” (inviati a domi-cilio) e altre pubblicazioni edite nel corso dell’anno (inviate a richiesta). Per fascicoli sciolti, intere annate della rivista e volumi monografici rivolgersi alla Società Storica Vercellese.I versamenti possono essere effettuati presso la sede, in occasione di manifestazioni sociali, oppure tramite:Conto corrente bancario intestato a “Società Storica Vercellese”, presso Biverbanca, Agenzia 1, Vercelli, IBAN IT 86 C 06090 10009 000050072067.

Bollettino Storico Vercellese

La rivista è dedicata allo studio del Vercellese storico e degli eventi correlati. Pubblica saggi e studi originali, recensioni e segnalazioni, notizie sull’attività sociale.La collaborazione è aperta agli studiosi del settore.Il Comitato Scientifico e la Redazione decidono collegialmente la pubblicazione degli scritti ricevuti.Le proposte di pubblicazione, recensioni e segnalazioni vanno inviate a: [email protected]

Norme redazionali

I testi, con le note a piè di pagina, devono pervenire su supporto informatico (formato Word, corpo 12, interlinea singola, senza rientri di pagina), nella versione definitiva e in un’unica soluzione. Le immagini, ad alta risoluzione, dovranno recare l’eventuale permesso di ripro-duzione.I testi devono essere accompagnati da un riassunto in lingua italiana e inglese (max 600 battute) a cura dei singoli autori, e contenere la mail, i dati dell’autore e l’indicazione eventuale dell’Ente di appartenenza.

Citazioni bibliografiche nelle note: cognome di autore/i in carattere maiuscoletto, anno di stampa, numero di pagina/e cui si riferisce la citazione (es. Rossellini 2014, pp. 47-52).La bibliografia va collocata in chiusura del testo, in ordine alfabetico per cognome di autore/i.Monografie: nome di autore/i in carattere tondo, cognome di autore/i in carattere maiusco-letto, titolo in carattere corsivo, luogo e anno di stampa (Mario Rossellini, Le citazioni bibliografiche, Mortara 1965).Periodici: nome di autore/i in carattere tondo, cognome di autore/i in carattere maiuscoletto, titolo in carattere corsivo, titolo della rivista tra virgolette, numero del fascicolo, anno di stampa tra parentesi tonde, numero complessivo delle pagine (Mario Rossellini, Come scrivere una bibliografia, in “Rassegna di filologia romanza”, 2 (1960), pp. 83-98).Miscellanee e opere collettive: nome di autore/i in carattere tondo, cognome di autore/i in carattere maiuscoletto, titolo in carattere corsivo, titolo del volume tra virgolette seguito da eventuali altri riferimenti, eventuale curatela in carattere tondo, luogo e anno di stampa, numero complessivo delle pagine (Mario Rossellini, Saggi di bibliografia, in “La parola scritta come strumento di comunicazione”, Atti del X convegno di linguistica, a cura di M. Bianchi, Milano 1952, pp. 100-125).Gli articoli da pubblicare sul “Bollettino Storico Vercellese” devono essere inediti, non pub-blicati o da pubblicare in altre sedi e avere le necessarie caratteristiche di scientificità.Per gli autori sono previste n. 10 copie cartacee dell’estratto e un file in formato pdf.

Il “Bollettino Storico Vercellese” è stampato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli.

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ANNO XLVI

BOLLETTINO STORICOVERCELLESE

89SOCIETÀ STORICA VERCELLESE

2017

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BOLLETTINO STORICO VERCELLESEISSN 0391-4550

Autorizzazione del Tribunale di Vercelli, n. 152 del 20 settembre 1972.

Gli autori sono i soli responsabili dei contenuti e delle opinioni espresse nei rispettivi saggi.

Proprietà riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, del contenuto senza autorizzazione.

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SOMMARIO

Mario Ogliaro La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo: indagini e prospettive di ricerca .........................................................................pag. 5

Doriano Beltrame Vercelli è in mane de Francesi. L’impresa militare del novembre 1553 ...............................................................pag. 41

Andrea Musazzo La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari scrivente e scrittore ...........................................................pag. 81

Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli e la fase estrema di Bernardino Lanino ..............................................................pag. 111

Roberto Badini La “Magnifica comunità di Monformoso”. Aspetti storici, civili e religiosi in età moderna ..................................................pag. 131

Sabrina Balzaretti La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna .............................................pag. 155

RECENSIONI E SEGNALAZIONI ..................................................................pag. 205

VITA DELLA SOCIETÀ STORICA

Cesare Faccio e Giulio Cesare Faccio. La storia Vercellese di padre in figlio .................................................................pag. 225

Vercelli, Museo del Duomo: Presentato il Bollettino Storico Vercellese n. 88 e il programma dell’assemblea annuale a Casalino ..........................................pag. 227

Dono di libri di Amedeo Corio ...........................................................................pag. 230

Casalino: assemblea della Società Storica Vercellese ..........................................................................pag. 231

Assemblea 2017 (Casalino, 4 giugno 2017) Relazione sull’attività 2016-2017 ......................................................................pag. 235

“I paesaggi fluviali della Sesia” presentato a Villanova Monferrato .......................................................................................pag. 238

Un misterioso masso inciso in margine alla presentazione del volume "Tridinum - Le Origini. I notiziari dal 1972 al 1980" ......................pag. 239

Presentato il volume “I Templari: grandezza e caduta della Militia Christi” ..............................................................................pag. 242

“I paesaggi fluviali della Sesia” presentato a Pezzana ..........................................................................................pag. 245

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Mario Ogliaro

LA PIEVE VERCELLESE DI SANTA MARIA DEL PALAZZO:INDAGINI E PROSPETTIVE DI RICERCA

1 - Il “Palatium” romano

Ai margini della città di Crescentino, nell’ampia pianura delimitata dalla confluenza della Dora Baltea nel Po, sorge il santuario della Madonna del Palazzo, noto anche per lo spostamento del campanile avvenuto durante la fase costruttiva dell’edificio ad opera di un capomastro analfabeta di nome Crescentino Serra1. La chiesa, di fattura tardo-barocca, è stata interamente ricostruita tra il 1750 e il 17762 con l’incorporazione del preesistente sacello edificato nel 15773 sui resti della pieve caduta in rovina qualche decennio prima. Il toponimo di Palazzo < Palatium4 è indi-cato non solo nei catasti secenteschi5, ma si trova anche in documenti d’archivio più antichi, come in un atto del 12636 e poi nell’index viarum, ovvero una relazione sulle strade, iniziata nel 1388 per ordine della credenza7. Il suddetto Palazzo, che doveva trovarsi nelle immediate adiacenze della chiesa, dove sono stati rinvenuti numerosi

Sigle:

ARMO = Acta Reginae Montis Oropae, I, Bugellae 1945; II, Bugellae 1948.ASC = Archivio Storico Crescentino.AST = Archivio di Stato di Torino.BSBS = Bollettino Storico Bibliografico SubalpinoBSV = Bollettino Storico Vercellese. Catasti I = Registro ò sia Catastro della molt’ill.ma Communità di Crescentino, 1672.Catasti II = Catasti della Comunità di Crescentino, 1715.MHP = Historiae Patriae Monumenta, Chartarum, t. I, Torino 1836SPABA = Società Piemontese Archeologia e Belle Arti, Torino.

1 ASC, Ordinati, Relazione del 2 settembre 1776, m. 39, ff. 81r-83v. 2 Bosso - Ogliaro, 1998, pp. 53-65.3 La ricostruzione del sacello contenente il simulacro ligneo della B.V. avvenne a cura e spese di Antonia Sosso, detta la Bolongara (Archivio Ospedale di Santo Spirito, Crescentino, m. I, c. 1, atto del 27 agosto 1577, rogato Levis).4 L’etimo deriva probabilmente dalla voce preindoeuropea di *pala, nel senso di “rotondità” (Körting 1907, n. 6792, p. 711 e Meyer Lübke 1911, n. 6159, p. 454).5 ASC, Catasti I, f. 89r. - 90v. 6 Cancian 1975, doc. 19, p. 110 e doc. 22, atto del 1273, p. 129; in quest’ultimo documento si menziona anche la fonte del santuario, tuttora esistente, situata in fondo al vialetto della Via Crucis.7 ASC, Strade diverse (1388-1797), m. I, Relazione sulla rete viaria di Crescentino, iniziata nel 1388: § 19: Item incipiendo ad Molliam […] eundo usque ad campum ecclesie Pallacii; ASC, Catasti I, f. 9v: in Pallazzo, campo con viti, coerenti a nona e a sera la via comune.

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Mario Ogliaro

reperti archeologici di epoca romana8, rappresentava una domus regia, ovvero una particolare costruzione destinata ad alloggiare esclusivamente gli imperatori e le loro corti di passaggio sulla strada romana Pavia-Torino, come prescriveva il codice te-odosiano9. Tale strada, che passava a sinistra del Po e che dalla zona di Palazzo si dirigeva verso il transito fluviale, è stata oggetto di vari studi e ricerche10 che ne hanno illustrato il percorso secondo gli itinerari antichi, in particolare l’Antoniniano (sec. III)11 e il Burdigalense (sec. IV)12. Siffatte strutture palaziali, che hanno lasciato molte tracce nella toponomastica subalpina13, dovevano essere attrezzate per acco-gliere degnamente gli imperatori in visita alle province e solo più tardi fu permesso ai giudici di alloggiarvi quando non vi fosse posto in altro luogo. Ciò spiega come tali residenze periferiche, con il passare del tempo, avessero mutato la loro funzio-ne originaria anche a beneficio di funzionari imperiali, così come avvenne per le dimore esterne dei sovrani merovingi, dette appunto Palazzi14, le quali in principio “dovevano servire esclusivamente al sovrano o a coloro che egli designava” e solo successivamente fu ampliata la facoltà di alloggiamento15.

Nel IV secolo, il significato di Palazzo, quale dimora sulle vie di lunga percorren-za, si era dilatato ulteriormente, passando ad indicare non solo un’abitazione regale, ma qualunque edificio di grandi dimensioni o comunque più imponente e più ampio di una abitazione di carattere signorile. Sul suo utilizzo originario da parte degli imperatori, va ricordato che fin dalla fine del III secolo era sorta la necessità di presi-

8 De Levis 1781, pp. 58; Del Corno 1878, pp. 113-120; Borgondo 1951, pp. 21-24, che segnala i rinvenimenti del 1922 e 1929, nel campo antistante al Santuario sulla strada Galli, di sepolture di cremati, vasi cinerari, lucerne, utensili e monete, di cui una di Adriano. 9 Codex Theodosianus 1736-1745, lib. 1, pp. 50-51 e 53: Ne quis in palatiis man[eat].10 Bussi 1941, pp. 39-50; Corradi 1968, pp. 35-42; Spegis 1988, pp.53-104; Vercella Baglione 1993, pp. 5-42; Ogliaro 1996, pp. 43-78; Maccabruni 1999, pp. 95-104; Spegis 2008, pp. 5-51.11 Calzolari 1996, pp. 370-520. 12 Cuntz 1990, pp. 100-101. Tale itinerario è descritto anche nel “Vasi di Vicarello” (Herrmann 2007, pp. 121-142, sulla cui datazione v. Heurgon 1952, pp. 39-50).13 Ricordiamo Palazzolo Vercellese, il Palazzo di Ivrea e Palazzo, frazione di Poirino (TO); il Palazzo in frazione Montegioco (AL); Pallanza (NO); Pellesieux, frazione di Pré-St.-Didier (AO) e forse la curtem Palatiolum nel pavese (Schiaparelli 1924, doc. LXXXIII, p. 244). Anche nel milanese Olivieri 1961, p. 400, segnala alcuni toponimi derivanti da Palazzo: Palamo, frazione di Mandello Lario (CO), Palazzo (Borgo) (BG), Palazzo, frazione di Bedrego (BG). Tracce toponomastiche di Palais sono segnalate anche in Francia (Walkenaër 1839, p. 276: Palais nel sito romano di Alba Helviorum, attuale Alba-la-Romaine nel dipartimento d’Ardêche, descritta da Lauxerois 1977, p. 20). 14 Barbier 1990, pp. 250-251 e Dierkens - Périn 2000, pp. 267-304.15 Il testo regolamentare carolingio, però, non esprime in maniera così netta questo monopolio sull’utilizzo dei palazzi. Infatti il capitolare “De Villis”, c. 27, ricorda “Et quando missi vel legatio ad palatium veniunt vel redeunt, nullo modo in curtes dominicas mansionaticas prendant, nisi specialiter jussio nostra aut reginae fuerit” (Guérard 1853, t. IV, p. 39).

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La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

diare i confini minacciati, portando i sovrani non solo ad allontanarsi sempre più da Roma, ma a modificare anche l’esercizio della loro politica. Ai Palatia, espressioni del potere centrale che richiamavano alla memoria la casa di Romolo sul monte Palatino16, erano legati significati ideologici di potestà e, pertanto, si distinguevano dalle altre stazioni di conforto situate lungo i tragitti, poiché venivano considerati strumenti dell’autorità imperiale. Sulla base di questo principio possiamo ritene-re che la loro architettura, collegandosi alla tradizione classica ed ispirandosi alle dimore suntuose del tardo impero, sia stata tributaria del linguaggio artistico della politica fondata su un vero e proprio progetto d’immagine: un progetto funzionale al prestigio imperiale e capace di utilizzare le potenzialità espressive e utilitaristiche dell’edilizia del tempo, in funzione allo status dei personaggi che dovevano essere ospitati. Le fonti letterarie e archeologiche sono piuttosto generiche riguardo i pa-lazzi viari e pertanto non ci consentono di proporre un modello di riferimento né tantomeno una pianta tipo17. Tuttavia, da ciò che abbiamo potuto osservare in un am-bito più generale, possiamo affermare con sicurezza la presenza di elementi comuni all’interno dell’edificio palaziale, quali i locali destinati alla refezione, le camere da letto, i servizi igienici, i bagni, i magazzini, le stalle e molto spesso anche appositi sacelli dedicati a varie divinità. Il Palazzo, dunque, per l’equilibrata distribuzione degli alloggiamenti, per la varietà degli elementi interni, per le opere di difesa ester-ne e per il suo carattere aulico, interpretava al meglio le funzioni cui era destinato. Una testimonianza del ritrovamento di reperti antichi nella zona ci è inoltre fornita da Onorato Derossi, il quale afferma che “negli anni 1753-1754, in cui si costrusse il presbiterio e il coro della chiesa [attuale], si scopersero ben ampie fondamenta in forma di rotonda”18, ritenute dall’archeologo Vittorio Del Corno quelle “del Palazzo romano da cui prese il nome la contrada”19. Proprio in fregio alla rotonda, intorno al 1950, durante alcuni lavori di sistemazione esterna, si è intravisto un robusto muro di epoca romana su cui attualmente appoggia la parete del preesistente sacello che, come si è detto, fu ricostruito dalla Bolongara nel 1577 e raffigurato poi come chiesa campestre nelle incisioni del Theatrum Sabaudiae20. Collocato in una superficie in-tervallata dall’ampio alveo fluviale, il nostro Palazzo, come viene segnalato per altri casi analoghi, fu indubbiamente dotato di adeguate guarnigioni di difesa e circondato da vari insediamenti, ampliatisi nell’ambito della riorganizzazione militare e ammi-

16 Sull’evoluzione di tale termine nella tarda antichità, Viarre 1961, pp. 240-248. 17 Duval 1965, pp. 207-254. 18 Derossi 1786, pp. 157-158.19 Del Corno 1882, p. 38.20 Theatrum 1682, p. 135, corrispondente alla tav. 58 del t. II della ristampa anastatica, Torino 1984.

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Mario Ogliaro

nistrativa, operata dalla romanizzazione lungo la sponda sinistra del Po, le cui forme sociali ed economiche rimangono in gran parte sconosciute. In ogni caso, è assai pro-babile che già verso la fine del IV secolo siffatta realtà istituzionale, interposta fra le mansioni di Rigomagus, ritenuta nei pressi di Trino21, e Quadrata, localizzata presso le cascine Quarino Bianco e Quarino Rosso di Verolengo22, fosse iniziato il proces-so di trasformazione con l’accettazione di legati o magistrati di passaggio23. Le sue accresciute destinazioni d’uso possono essere ragionevolmente poste in relazione all’aumento dei transiti di truppe verso il confine settentrionale, nonché all’arrivo di forze militari sarmate, designate col nome di Gentiles24. Esse, sotto il comando di un Praefectus, furono collocate a presidio della vicina mansione di Quadrata, secondo quanto si afferma nella Notitia dignitatum25 risalente al 41026, confermata anche da un rescritto coevo indirizzato a Stilicone27, mentre altri insediamenti erano dissemi-nati nella zona, lungo l’asse viario Palazzo-Quadrata, messi in luce dai vari sondaggi archeologici compiuti da Vittorio del Corno28 e poi dai reperti affiorati casualmente, come le tracce di robuste fondamenta di abitazioni romane, scoperte recentemente in occasione della posa dei tubi del metanodotto, ad una distanza di circa centro metri dal santuario, in fondo al vialetto attualmente destinato come Via Crucis. Quindi, l’insediamento non si limitava solo al Palazzo, ma si estendeva tutt’intorno con fab-bricati adibiti al ricovero di eventuali milizie in appositi quartieri.

Oltre agli scopi militari che dovevano essere prevalenti29, l’utilizzo dei Sarmati

21 Borla 1980, pp. 1-28, sulla cui identificazione si vedano i rilievi critici di Robino 1999, pp. 241-248 e Gambari 1989, pp. 7-13. Il toponimo di Rigomagus è presente anche nelle Alpi Marittime, citato per la prima volta nella Notitia Galliarum, redatta verso la fine del IV secolo e pubblicata per la prima volta da Adrien de Valois a Parigi 1675 (Harries 1978, pp. 26-43).22 Druetti 1926, pp. 309-356 e il più recente lavoro di Rigaldo Viretti - Spegis - Villata, 1996, in particolare pp. 101-106.23 Sull’utilizzo dei palazzi dal IV secolo in poi si rimanda all’interessante studio di Brühl 1971, pp. 157-165.24 Sui Sarmati (descritti da Plinio, Naturalis Historia, lib. IV, §25) v. Di Marco 2012, p. 263.25 Böcking 1839-1853, p. 1135, con moltissimi errori sulla localizzazione dei toponimi. Tale Notitia attesta la presenza in Italia di quindici colonie di Sarmati (di cui sette in Piemonte, tre sulla destra del Po e quattro sulla sinistra). Sarmati era il nome attribuito dai romani ad una popolazione stanziata in un territorio dell’Europa Centro-Orientale, identificato fra l’Ucraina e la Russia meridionale, interposto fra la Scytia e la Parthia, la cui regione fu descritta per la prima volta da Potoki 1796, pp. 14-15. Sull’origine e l’autenticità della Notitia v. Purpura 1995, pp. 347-357. 26 Milani 2009, p. 290.27 Codex Theodosianus 1736-1745, p. CLVII, a.400.28 Del Corno 1882, p. 31.29 Cracco Ruggini 1963, p. 28. Secondo la puntuale ricerca di Possenti 2012, pp. 143-144, queste colonie di Sarmati “debbono intendersi come delle unità di soldati-contadini di condizione semilibera, dipendenti da un prefetto, che in cambio della terra dovevano svolgere, in caso di necessità, il servizio militare”.

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comprendeva anche la coltivazione della terra, stando a quanto riferisce l’Anonymus Valesianus30. Le assegnazioni di fondi rustici da coltivare, infatti, rientravano fra le realizzazioni agrarie del mondo romano ed erano finalizzate alla ripresa delle attività rurali in molte zone come la nostra, assai fertile e ricca di risorse idriche, così come avvenne in altre parti dell’Italia Settentrionale31 e in Francia32. Una dislocazione stra-tegica, dunque, posta a ridosso di tale arteria stradale di grande comunicazione, il cui ruolo rivestiva una notevole importanza, soprattutto quando si fecero più intense le scorrerie barbariche, le quali furono sentite dai contemporanei come un evento epocale. Le popolazioni sparse nel territorio, per quanto diverse nella loro estrazione tribale, erano formalmente unite da un vincolo rappresentato dal diritto romano. Si trattava, in sostanza, di un’assidua opera di fusione e rifusione amministrativa che da una parte soddisfaceva interessi economici e dall’altra rivestiva una funzione di con-tenimento e di difesa. Il trasferimento dei Sarmati nell’area subalpina avvenne dopo la guerra che essi intrapresero contro le antiche popolazioni locali, le quali riuscirono ad espellerne una buona parte che fu poi accolta da Costantino e collocata in varie parti dell’impero.

Anche nell’area del Palazzo, dove una torre dell’antico edificio romano era ancora ben visibile nel secolo XIV33, dovette verificarsi un fenomeno analogo a quello che abbiamo riscontrato nel processo insediativo riguardante la mansione di Quadrata. La forza di penetrazione del cristianesimo nella zona incise sicuramente sulle oramai fatiscenti strutture cultuali pagane, così come viene segnalato nell’area subalpina e transalpina34. In generale, la riutilizzazione dei luoghi di culto idolatrico da parte dei cristiani, che inizialmente avvenne col tacito assenso delle autorità imperiali35, era una prassi abbastanza diffusa ed aveva anche lo scopo di recidere gli eventua-li tentativi di ritorno al passato delle popolazioni stanziali, ancora legate alle loro

30 De Valois 1636, p. 658. Sull’argomento, anche Bruzza 1874, p. 179.31 Dal Pozzo - Ghiglione - Massa - Ombrello 1972, pp. 135-140 e Scarzello 1933, pp. 1-11. Tracce della presenza di Sarmati si riscontrano nei toponimi di Sarmato (Piacenza), Sarmede (Treviso) Salmour (Cuneo). Per un’inquadratura generale riguardante queste tribù, si veda Talbot Rice 1968, p. 103. Lo storico Hillemacher 1919, p. 216, ritiene che il numero dei Sarmati stanziati nell’impero sia stato di circa 300 mila.32 Renaux 1911, p. 37. Altri esiti toponomastici si trovano pure nei luoghi di Sermiers (Marna), Sermaize (Maine-et-Loire), Sermaizes (Loiret).33 ASC, Strade diverse (1388-1797), m. I, Relazione sulle strade, § 64: Item incipiendo ad ortum Uberti Galli et Antoni Pinoli, pro medio turris Pallacii, usque ad pontem que est super rugiam molinariam de Pallatio est via una [...].34 Nestori 1999, pp. 695-709. Non di rado, attorno ai nuovi edifici di culto cristiano, si rinvennero statue di dei, come nel caso di Vienne (Royet 2002, p. 84). 35 Eusebio di Cesarea 1856-1866, coll. 3,54.

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antiche divinità36, particolarmente congegnali ai ritmi dei lavori agricoli e pastora-li37. Quantunque tale processo di riconversione abbia avuto il suo sviluppo in modo sempre più progressivo, in molti casi esso andò incontro ad un atteggiamento ostile da parte dei cristiani, i quali ritenevano che questi luoghi fossero potenzialmente contaminati da divinità malefiche38. Ovviamente, fattori economici e sociali svolsero un compito importante nel determinare il declino dei vecchi simulacri posti sulle vie di lunga percorrenza e tale fenomeno non poteva che aumentare, grazie anche alla profonda trasformazione della coscienza religiosa, delineatasi quando la religione cristiana fu dichiarata licita dal noto rescritto di Costantino e Licinio del 313, ema-nato dopo la battaglia di ponte Milvio del 28 ottobre 312, sulla scorta del modello promulgato due anni prima da Galerio, primo imperatore a porre fine alle violenze con un provvedimento accolto con grande soddisfazione dagli scrittori cristiani con-temporanei39. Si concludeva così questo periodo travagliato, in cui i veterum instituta avevano perso di consistenza, anche se non appariva ancora chiaro quale potesse essere il nuovo principio coesivo capace di sostenere la gigantesca organizzazione statale con l’assunzione del Cristianesimo tra le forze vive della società. Certamente, Costantino si era reso conto che la nuova fede, finora respinta o tenuta in sott’ordine, poteva costituire il rimedio a portata di mano e poteva rappresentare l’erede della ro-manità, pur muovendosi in molti casi in un ordine di principi opposti alla tradizione classica, tanto che nel testo del 313 i due imperatori mantennero una posizione so-stanzialmente neutrale nei confronti dei seguaci di Cristo allo scopo di raggiungere la pace religiosa. La sua legislazione e l’interesse dimostrato per le questioni sacre furono elementi decisivi nel processo riguardante lo sviluppo del Cristianesimo, il quale, recinto dalla gloriosa aureola del martirio, in pochi anni passò da religio-ne perseguitata o appena tollerata a religione prevalente dell’impero romano, anche perché Costantino e i suoi successori, ad eccezione del breve periodo di riforma di Giuliano l’Apostata imbevuto di filosofia neoplatonica, appoggiarono la nuova fede con la stessa risolutezza con cui prima l’avevano combattuta. Siffatta apertura aveva spinto le folle a rinunciare ai vecchi dei, ma ai neo-convertiti occorrevano nuovi templi che ora potevano sorgere alla luce del sole e sotto la protezione dello stato, senza tema di vandalismi o distruzioni sacrileghe. Le nuove costruzioni richiesero

36 Hieronymus 1865, p. 291.37 Audin 1984, pp. 63-108.38 Bourassé 1867, p. 91, in cui sottolinea come molti vescovi si rifiutassero “de consacrer au culte du vrai Dieu des murs qui avaient si longtemps abrité les sacrifices et les superstitions de l’idolâtrie”.39 Eusebio di Cesarea 1979, p. 466. Lattanzio, nella sua aspra condanna degli imperatori romani nemici del cristianesimo, afferma che con questo editto “le prigioni furono aperte e i cristiani liberati” (Lattanzio 1844-1855, pp. 189-276).

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l’opera di architetti e la stessa liturgia subì l’influsso delle esigenze dei fedeli, i quali avevano una scarsa conoscenza delle verità della fede e, di fronte ai loro residui di incertezze, i vescovi reagirono con scritti apologetici, tanto che la Buona Novella pe-netrò ovunque, coinvolgendo non solo gli umili, ma anche gli intellettuali, i filosofi e gli alti gradi militari. Le fonti sulla politica di Costantino, a tale riguardo, si rifanno generalmente ad Eusebio, vescovo di Cesarea, e agli scrittori ecclesiastici che lo hanno preceduto, i quali appaiono piuttosto tendenziosi e in molti punti sospetti, anche per quanto concerneva fatti di primaria importanza. Perciò, riesce difficile di vedere sino a qual punto gli atti di Costantino, ritenuti rivoluzionari dalla storio-grafia, possano essere stati ispirati da sinceri convincimenti che nel suo animo si formavano, o dalla considerazione di un semplice tornaconto politico40. Comunque sia, nonostante le controversie dottrinali e i dissensi interni, la nuova religione trovò la forza per resistere, prima all’ostilità della società romana e alle persecuzioni degli imperatori, poi per attaccare con rinnovato vigore il paganesimo morente, soprattutto nelle campagne41, grazie anche alle numerose leggi emanate contro i raduni e i culti antichi42. In seguito a tali disposizioni, si riformulò l’organizzazione ecclesiastica e, per quanto riguarda le campagne, si andò formando una rete di chiese rurali con un servizio religioso sostanzialmente completo, svolto da presbiteri, come appare negli atti del concilio di Riez del 43943. Secondo la concezione della prassi cristiana del tempo, il vescovo urbano era il superiore assoluto delle nuove chiese disseminate nel territorio diocesano. Egli ne amministrava i beni, nominava e sostituiva i presbiteri e li doveva visitare periodicamente per impartire loro le necessarie istruzioni.

2 - La lettera di Sant’Eusebio e le ipotesi di monsignor Giuseppe Ferraris

Aprendosi nuove prospettive d’espansione, prediche, catechesi, sacramenti e mez-zi disciplinari della chiesa ebbero un’azione vivificatrice nei territori rurali e diven-nero strumenti di missione sociale. Infatti, alcuni centri cristianizzati della neonata diocesi di Vercelli furono oggetto della paterna benedizione che sant’Eusebio intorno al 356 inviò dall’esilio di Scitopoli in Israele, l’odierna Beit She’an vicina alle valli del Giordano, in quel periodo sede del vescovo ariano Patrofilo. La lettera fu redatta in modo furtivo e in un momento in cui probabilmente era diminuita la sorveglianza, nel quale, come afferma Dattrino, “i suoi nemici sembrano lontani, e di questo il pri-

40 Piganiol 1950, pp. 82-96. 41 Gaudemet 1990, p. 449-468. 42 Rémondon 1970, pp. 193-196. Il divieto fu formulato da Costanzo nel 346, con la minaccia di morte e di sequestro dei beni. Contemporaneamente fu ordinata la chiusura di tutti i templi (Codex Theodosianus 1736-1745, XVI, 10, 2: Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania).43 Hildeshemeier - Bodard, 1984, p. 26 e 367.

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mo a meravigliarsi è lo stesso prigioniero che ne approfitta per dettare qualche riga ai suoi amici di Vercelli”44. Essa, che riveste una grandissima importanza storica, è stata pubblicata con tre indirizzi diversi. La prima edizione, che fu curata da Bonino Mombrizio nel 1478 circa45, reca il seguente indirizzo: “Dilectissimis fratribus et sa-tis desideratissimis presbyteris, sed et sanctis in fide consistentibus plebibus vercel-lensibus, Novariensibus, Hipporegiensibus, nec non etiam Derthonensibus, Eusebius episcopus in Domino aeternam salutem”46. La stessa forma si trova nella prima edi-zione degli Annali Ecclesiastici del Baronio47, nonché nella vita di Sant’Eusebio, scritta nel 1602 dal vescovo di Vercelli Stefano Ferrero48. Tuttavia, nella successiva riedizione dell’opera biografica sul protovescovo del 1609, tra “Hipporegiensibus” e “nec non etiam Derthonensibus” il Ferrero incluse “Augustanis, Industriensibus et Agaminis ad Palatium”49, affermando di aver trovato tale lezione in un antico manoscritto dell’archivio episcopale di Vercelli. Pur non sapendo dove si trovassero i luoghi di Industria e di Palazzo, egli volle riparare la grave omissione, ritenendo veritiera l’indicazione dei suddetti luoghi. Il terzo indirizzo è identico al secondo, però, dopo Testonensibus per Derthonensibus50, seguono altre sei località51.

Prima di trarre delle conclusioni sul piano storico, occorre procedere ad un’analisi sui tre indirizzi della lettera per individuare quale sia la forma più corretta. Considerato che la terza versione “per le sue amplificazioni, per il carattere più piccolo della scrit-tura e per la quasi illeggibilità di vari nomi aggiunti, forse con un inchiostro più tenue, va senz’altra ritenuta sospetta o falsa per la parte surrettizia”52, interpolazione operata, come ha dimostrato Fedele Savio, da G. F. Meyranesio53, noto per le sue numerose fal-sificazioni54, il punto di partenza riguarda la lezione più difficile, cioè quella pubblicata

44 Dattrino 1979, p. 64, di cui ringrazio la dottoressa Laura Giovagnoli di Roma per l’invio dell’estratto. Sulla traduzione italiana della lettera, si veda Eusebio di Vercelli 1995, pp. 24-43.45 Mombrizio [1478ca], cc. 258-259 e la sua riedizione critica, Mombrizio 1910, t. I, pp. 459-461 e 662. 46 Bulhart 1957, pp. 104-109.47 Baronio 1594, a. 356, p. 690.48 Ferrero 1602, p. 30.49 Ferrero 1609, p. 56, dove afferma: Cur autem addatur Agaminis ad Palatium non facile est mihi quidem rationem explicare. Tale lezione fu ripresa da Besson 1759, p. 245 e da Malacarne 1787, p. 127; si v. pure Gazzera 1849, p. 54 e Cognasso 1992, p. 37, che confonde il vescovo Ferrero con monsignor Bonomi (1572-1579).50 Il primo ad introdurre la lezione Testonensibus in luogo di Derthonensibus fu Della Chiesa, nella sua Descrizione ms, cap. 24, p. 37.51 Durandi 1766, pp. 36-37, che si riferisce a un testo manoscritto conservato nella cattedrale di Embrun.52 Ferraris 1987, p. 65.53 Savio 1902-1903, pp. 94-96. Falsificazione già smascherata da Promis 1869, p. 17, n. 5. 54 Fra le varie falsificazioni, Rossi 1868, p. 45.

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nel 1609, nella seconda edizione del vescovo Ferrero. Ora, poiché in tale epoca le due località di Industria e di Palazzo non erano più note, la loro presenza nell’indirizzo deve ritenersi genuina55 e la loro espulsione operata da trascrittori in codici o documen-ti più antichi. Siffatto compromesso, tra fedeltà storica ed esigenze di chiarezza, era una prassi affatto inusuale in sede redazionale tra i copisti di mestiere, i quali tendeva-no a rendere comprensibile un testo sopprimendo quei termini sconosciuti o divenuti oscuri. Proprio per tale ragione, monsignor Giuseppe Ferraris (1907-1999), prefetto dell’Archivio Capitolare e compianto studioso dell’assetto plebano antico vercellese56, ritiene “che non si possa minimamente dubitare della recisa affermazione del Ferrero sia per la sua onestà di storico, sia perché nel caso dovette rimangiarsi l’altro indirizzo più corto, che incautamente aveva accolto dal Mombrizio, prestandogli fede cieca”57. I motivi che spingono ad accettare questa forma - afferma Monaci Castagno - sono in fondo quelli già enunciati dal Ferrero: egli la riteneva affidabile in quanto lectio diffi-cilior; infatti la menzione di Industria e degli Agaminis ad Palatium sarebbe stata sop-pressa in un secondo tempo in quanto località scomparse o altrimenti sconosciute”58. Tale lettera, che viene ritenuta di grande interesse59 e connotata di “profondi caratteri di autenticità”60, potrebbe aprire un capitolo importante per la storia del nostro Palazzo. Lo scritto, la cui validità viene riconosciuta pressoché da tutti gli storici, rientrava nel nuovo spirito impresso da Sant’Eusebio di Vercelli riguardante la cura e la comunione spirituale che gradualmente andava attuandosi anche in altri centri della vasta diocesi, costituitasi intorno al 34561. L’ipotesi del Ferraris è che un gruppo di questi Agamini oltre al pago di Ghemme cui diedero il nome62, siano stati dislocati anche nel territorio ad Palatium, ovvero in una località a difesa del guado della Dora Baltea nel Po, in cui il suolo era produttivo, ma necessitava di disboscamento e di opere di bonifica. La mag-

55 Industria, insediamento romano a destra del Po, nel centro abitato di Monteu da Po, sarebbe stato fondato presso il villaggio di Bodingomago probabilmente dopo il 125 a.C. Esso era sede di municipio e di un santuario dedicato a Iside, ampliato in età claudia e adrianea (Settia 1975, pp. 272-273; Zanda 1995, pp. 5-22; Giorcelli Bersani - Roda 1999, pp. 118-125; Panero 2000, pp. 110-115). 56 Tibaldeschi 2000, p. 29 e poi 2013, pp. 22-24. 57 Ferraris 1987, p. 77, n. 63. 58 Monaci Castagno 1997, p. 71.59 Gazzera 1849, p. 82.60 De Feis 1893, p. 222, n. 1.61 Crovella 1961, p. 37.62 Olivieri 1965 p. 173, che lo fa derivare da un personale romano. Sulla romanizzazione del pago ghemmese, Ferretti 2000, pp. 339-350; l’autore, a differenza di coloro che sostengono senza alcuna prova l’origine celtica del suddetto pago, precisa che “Nessuna menzione [degli Agamini] è fatta dagli autori antichi che hanno accennato ai popoli della Transpadana dai tempi delle guerre annibaliche fino al loro ingresso nel mondo mercantile, sociale e politico romano”; Andenna 1977, pp. 487-516 e Andenna 1998, pp. 9-34; Spagnolo Garzoli 2007, p. 333.

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gior parte degli storici accoglie senza riserve l’inserimento di un gruppo evangelizzato in un sito prossimo ad Industria, ma ignorando l’esistenza dell’antico luogo crescen-tinese denominato Palazzo ricordato solo localmente, lo identificano per similitudine fonetica, con il castello scomparso situato a Gamenario nel chierese, fra Santena e Riviera63, sede di una celebre battaglia consumatasi il 22 aprile 134564. Trattasi di un accostamento improponibile, senza contare che tale località non possiede alcuna tra-dizione religiosa antica. Del tutto infondate poi, le notizie che compaiono sulle guide turistiche in cui si sostiene che la zona inferiore del Rio Santena fosse abitata da un po-polo indigeno, il quale avrebbe costruito un fortilizio sulle sponde del torrente Banna già in epoca paleocristiana. L’ipotesi degli Agamini collocati presso il nostro Palazzo, sostenuta con grande determinazione e con solidi argomenti dal Ferraris65, non appare del tutto irreale, poiché assai frequenti sono stati i trasferimenti di gruppi etnici operati dai romani nelle terre del vasto impero. Inoltre, la politica di inserire elementi indigeni in maniera profonda nello stato, non si limitava ai popoli conquistati, ma si estendeva anche a coloro che per vari motivi erano fuggiti dalla loro patria. Qui poi, abbiamo un valore aggiuntivo, si trattava di cristiani che avevano avuto sicuramente precedenti contatti con il loro vescovo e, pertanto, all’epoca della lettera la comunità del Palazzo era probabilmente non solo in formazione, ma come le altre plebs in indirizzo aveva inviato al suo pastore, attraverso il diacono Siro e l’esorcista Vittorino, un contributo economico per il suo sostentamento. Anche Ercole Crovella, a proposito del sito de-gli Agamini, sottolinea che “l’opinione comune lo identifica con un vicus o villaggio situato presso l’attuale città di Crescentino, dove sorge il santuario della Madonna del Palazzo”66, convincimento condiviso da Mario Capellino, che ricorda la tradizione eu-sebiana del suddetto luogo67.

Su tale problema non mancano coloro che, come la Cracco Ruggini, non menzio-nano neppure gli studi del Ferraris e identificano i destinatari della lettera eusebiana con gli Agamini di Ghemme, senza ulteriori considerazioni68. Ci rendiamo conto che

63 Della Chiesa 1655, pp. 184-185: Era altre volte questo castello chiamato Agamino, et è (secondo noi) quello stesso di cui fa mentione S. Eusebio vescovo di Vercelli. Opinione seguita da Durandi 1766, p. 30 e dello stesso 1774, p. 310, dove, anziché Gamenario scrive Camerano, ponendo gli Agamini del Palazzo fra Industria e Testona. È sicuramente da questi autori che trae la notizia Casalis 1840, p. 214 e Semeria 1840, p. 15, dove, interpretando male il Della Chiesa, pone il presunto castello di Gamenario nel Vercellese. Anche Rossi 1857, p. 526, nota 3 e Adriani 1877, pp. XVIII-XIX, nota 1, seguono l’opinione dei precedenti autori.64 Settia 2006, pp. 161-206. 65 In particolare Ferraris 1984, pp. 385-386, n. 136-137 e dello stesso in ARMO, II, p. XXI.66 Crovella 1968, p. 207.67 Capellino 1971, p. 63.68 Cracco Ruggini 1998, p. 856.

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le deduzioni dello studioso delle pievi vercellesi, pur essendo suggestive, mancano a tale riguardo di una prova definitiva. Tuttavia, riteniamo che esse meritino perlome-no considerazione, dal momento che nel pago ghemmese non vi è alcuna traccia di un Palatium ed inoltre, il sito è assai distante da Industria. Pertanto, pur rimanendo residui di incertezza, non crediamo sussistano serie difficoltà nell’identificare - in via ipotetica - il nostro Palazzo con lo scritto di Sant’Eusebio. In ogni caso, la pre-senza di una popolazione stanziale nella zona in età tardo antica, acquista rilievo anche in relazione non solo nei numerosi rinvenimenti archeologici, quali tracce di robuste fondamenta, embrici, sepolture, vasi cinerari, lumicini e monete, ma anche nella continuità insediativa rappresentata da in un fortilizio altomedioevale situato a sinistra del santuario stesso, meglio conosciuto come castellazzo69 per costruzione decaduta70, le cui fondamenta sono state scoperte e descritte in una carta topografica della seconda metà del secolo XVIII71. Anche lungo l’asse stradale romano, poco oltre la pieve, citato come via que vadit ad cornum Durie72, sono stati rinvenuti resti di insediamenti romani, soprattutto nei pressi della cascina Ravanara denominata per estensione Palazzo73, dove è stata localizzata una tomba d’inumato, fatta con embrici antichi, fra i quali uno con il bollo M[arci] Maeli T[iti] Attiaci74, nonché strutture murarie in ciottoli e basi per colonne o pilastri, oltre a frammenti di anfore localizzate nell’ampio spettro della confluenza disegnato dalle acque, non lontano dal villaggio di Landoglio, dialettalmente Landoi da Indulium < Inductilis, nel senso di canale derivato75, i cui arretramenti degli originari nuclei abitativi furono dovuti ai fenomeni alluvionali che amputarono buona parte del territorio stesso, lasciandone una porzione sulla sponda destra della Dora Baltea76. Nella frazione Galli, inoltre, a poche centinaia di metri dalla zona di Palazzo, nel 1999 è stata individuata una necropoli romana di età imperiale, costituita da 54 sepolture “tutte ad incinerazione indiretta, databili fra il secondo e il quarto secolo d.C.”77.

69 Già presente con questa denominazione nel secolo XIV: ASC, Relazione sulla rete viaria, §25: versus castellacium […] a strata castellacii; ASC, Catasti I, f. 83v e 84r.70 Settia 1980, p. 50 e Settia 1996, pp. 111-112.71 Tale carta, di cui conserviamo fotocopia di alcuni tratti, non è più reperibile nell’Archivio Storico di Crescentino. L’area su cui insisteva il castellazzo è stata riprodotta da Sommo 1992, p. 130.72 ASC, Relazione sulla rete viaria, §60.73 ASC, Catasti II, f. 43.74 Bruzza 1874, p. CVIII.75 Serra 1927, p. 244.76 Frola 1918, cap. 153.77 La Rocca 2000, pp. 223-228.

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3 - La pieve e l’evangelizzazione del territorio

Lasciando da parte i leggendari racconti di un simulacro ligneo della B.V. portato da Sant’Eusebio stesso al nostro Palazzo e di una donna di elevato lignaggio di nome Placilla colà relegata verso la fine del IV secolo dall’imperatore Teodosio a cau-sa della sua fede cristiana78, possiamo fondatamente ritenere ammissibili le tesi del Ferraris, in quanto non solo convergenti nelle argomentazioni e nella formulazione degli indizi, ma anche ragionevoli nell’analisi puntuale del quadro plebano di riferi-mento, nei confronti del quale egli ci ha lasciato contributi originali che rimangono ancora oggi fondamentali. Nell’affrontare lo studio sistematico della nostra pieve, dunque, dobbiamo necessariamente tener conto dell’apporto della documentazione archeologica, la cui presenza, come giustamente ha osservato Aldo Settia in un am-bito più generale, di per sé non è sufficiente a stabilire l’antichità della pieve stessa79. Tuttavia, considerando l’insieme dei rinvenimenti archeologici di epoca romana in tutta l’area palaziale, che si estende fin sulle sponde della Dora Baltea, nonché la presenza di fitti nuclei abitativi, dobbiamo dedurre che il processo di popolamento della zona si legò non solo all’asse viario, ma anche alle vicine Quadrata e Industria. Ciò spiega come Palazzo sia stato il toponimo identificatore della vasta riorganizza-zione militare e amministrativa del presidio strategico. Alle suddette considerazioni, aggiungendo la presenza delle fondamenta a forma di rotonda, scoperte nel 1753, dovremmo concludere che in tale pagus romano, con il graduale disfacimento dei simboli pagani e dei delubri sacri, dovette, con ogni probabilità, realizzarsi un fonte battesimale sotto il titolo di Santa Maria in epoca tardo antica o altomedioevale, ai margini di una strada su cui ferveva ancora un intenso traffico e in un periodo in cui si accentuò la diffusione di edifici religiosi80. È noto, poi, che il quadro storico in cui germogliò e si sviluppò il cristianesimo nel nostro territorio, presenta il nucleo primordiale gravitante attorno alla chiesa di Santa Maria Maggiore di Vercelli, ma-trice delle pievi più antiche, fra le quali riteniamo sia ascrivibile quella di Palazzo, nel cui sito, data la presenza dei fitti boschi di Lucedio che si raccordavano con la selva di Fullicia81 verso il Canavese, non possiamo escludere nella loro dimensione

78 Questi racconti raccolti da Restaldi 1846, p. 2 e poi ampliati da Bossi 1857, p. 6, risultano però appartenere a memorie ottocentesche prive di qualsiasi fondamento storico. Placilla, inoltre, ha molte analogie con Priscilla della Novalesa, che per sfuggire ad una persecuzione di Nerone si sarebbe ritirata “in quell’estremità della Valle di Susa [...] dove fondò una chiesa o un oratorio in honore del Salvatore” (Alessio 1982, p. 6). Su tali leggende, v. Bosso - Ogliaro 1998, pp. 61-62.79 Settia 1998, p. 99.80 Settia 1982, p. 445.81 MHP, col. 328. Questa foresta fu donata il 28 ottobre 1019 dal conte Ottone Guglielmo di Borgogna, nipote di Berengario II, all’abbazia di Fruttuaria (Poupardin 1907, p. 420-427) Sulla genuinità di tale donazione sono stati avanzati dubbi da Settia 1971, p. 519.

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sacrale culti misterici e riti arcani, com’è stato ampiamente accertato per Industria. Ricordiamo ancora che sul rapporto riguardante la pieve e il percorso stradale, come si presenta il nostro caso, è stata anche suggerita la sussistenza di un legame secon-do il quale l’istituzione ecclesiastica sarebbe stata edificata con l’onere di tenere in efficienza il percorso viario82. Una tesi respinta dai più recenti studi sull’argomento e che, in ogni caso, non riteniamo applicabile alla nostra chiesa. Corre l’obbligo, poi, di sottolineare il dibattito sull’evoluzione del termine plebs, il quale non mancò di stimolare molte ricerche e di evidenziarne l’utilizzo improprio per designare la cura d’anime nelle campagne dell’Italia Settentrionale in età tardo antica, in quanto l’espressione non risulta attestata con questo significato materiale e nella sua per-sonalità giuridica nelle fonti del tempo83. A tale proposito Giancarlo Andenna ha precisato che il termine plebs, tra il V e VI secolo indicava solo “la comunità cri-stiana rurale e non l’edificio ecclesiastico cui sorgeva il battistero, complesso archi-tettonico specificato con il termine ecclesia baptismalis, e neppure il territorio della chiesa battesimale”84. Solo nell’VIII secolo in Toscana tale nome comparve ancora in modo incerto con il significato di struttura ecclesiastica. A conferma di ciò, Paul Aebischer, in un dotto e approfondito saggio ha chiarito come il termine plebs, dal Concilio di Elvira, tenutosi intorno al 306, a tutti quelli successivi, abbia sempre avuto valore di collectio fidelium, ovvero di assemblea di fedeli sottoposta ad un vescovo85. Solo nel Concilio Romano dell’826, esso sembra assumere il significato di territorio costituente una unità ecclesiastica e poi di giurisdizione ecclesiastica avente una chiesa battesimale, così come indicato nel Capitolare redatto nell’876, promulgato durante il regno di Carlo il Calvo86, periodo in cui i sovrani carolingi introdussero il pagamento obbligatorio della decima agraria che i fedeli dovevano versare come normale tributo alla propria chiesa battesimale per il servizio di culto e per l’assistenza spirituale87.

L’analisi sopra esposta, circa l’edificazione della pieve sotto il titolo di Santa Maria sulla strada romana in epoca antica ma non precisabile, si fonda anche sulla

82 Si tratta della tesi del ricercatore danese Johan Plesner riportata da Archetti 2001, p. 41.83 Archetti 2000, pp. 7-9.84 Andenna 2007, p. 372.85 Aebischer 1964, pp. 146-149. Lo stesso termine di plebs, nel senso di assemblea di fedeli, è utilizzato ampiamente da San Cipriano, vescovo di Cartagine nelle sue lettere ai confratelli (Cypriani 1726, epist. 68, p. 118 e in particolare nell’edizione critica di Diercks 1996, epistola 39, pp. 186-192).86 A questo riguardo, Gregorio di Tours, nel suo Liber vitae patrum, ricorda la fondazione di alcune chiese che talvolta sono designate sotto il nome di plebanae ecclesiae, aventi il privilegio del fonte battesimale (Bourassé 1852, p. 483). La prima menzione di una pieve nel vercellese è quella del 969 di Sant’Agata, oggi Santhià (Arnoldi-Faccio 1912, doc. XIV, p. 13 e Aimone 2014, pp. 159-203).87 Violante 1989, pp. 429-438.

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convinzione che il vescovado vercellese ad un certo momento abbia avvertito la ne-cessità di plasmare il primitivo nucleo cristiano di questo luogo attorno ad una chie-sa: operazione che riteniamo sia avvenuta molto, ma molto prima che i Longobardi individuassero a poca distanza il sito per una fondazione cenobitica benedettina, di cui parleremo più avanti. Se ciò risulterà ammissibile da ulteriori studi e approfon-dimenti, dovremmo necessariamente considerare la funzione esercitata dalla fons baptismalis88, su di una comunità rurale, il cui processo trasformativo può essere interpretato anche come un’opera di acculturazione in senso antropologico che portò all’affermazione di un credo prevalente nel contesto del crogiolo etnico del territorio di irradiazione della pieve stessa, la cui forza innovatrice cambiò gli usi tradizionali locali e, nello stesso tempo, le forme del patrimonio culturale esistente, mutuandone il significato. Nella sua fase aurorale, dunque, con ogni probabilità giunsero in essa, di volta in volta, preti e diaconi del presbiterio episcopale per il servizio religioso ai battezzati, ai quali spettavano particolari compiti e prerogative89. Successivamente, per una regolare e continua assistenza religiosa, s’impose al clero la residenza sul posto90. I preti che reggevano le chiese rurali estesero le loro attribuzioni, prima reli-giose, poi anche amministrative, distaccandosi dalla chiesa madre di Vercelli, sul cui esempio sorsero nuove comunità religiose, ciascuna con una propria circoscrizione territoriale, un proprio clero stabile e un proprio patrimonio. Siffatta evoluzione con-dusse ad una vera e propria autonomia, rappresentata dai simboli cristiani per eccel-lenza: l’altare, il battistero e il patrimonio per il sostentamento del clero e per le opere di carità91. Inizialmente però, è assai difficile tracciare una sintesi precisa sul rappor-to fra la forza dell’evangelizzazione esercitata dalla pieve nella plaga a ridosso del Po e la resistenza dei residui di paganesimo. D’altra parte, la configurazione dell’epi-scopio vercellese comportava necessariamente un notevole accentramento ammini-strativo e, i vescovi stessi, sembrano permanere nella prospettiva stabilita dai canoni del concilio di Sardica tenutosi tra il 342 e 343, secondo i quali Episcopus est in omni et sola civitate92. Nonostante si ponga un serio problema sui limiti della giurisdizione del territorio rurale dipendente dalla pieve, essa tese sicuramente a consolidarsi in

88 Buhler 1986, p.17. Del Pozzo 2010, p. 280. Originariamente la somministrazione del battesimo, chiamato sacramento dell’illuminazione interiore, era una prerogativa esclusiva del vescovo (Ermoni 1904, p. 30 che si rifà a quanto affermato da Sant’Ignazio d’Antiochia, Epistola Ad Smyrnaeus, in P.L., III, 8,2 e a San Paolo (I Cor 4,1) che chiamò i vescovi Dispensatores Mynisterium. Solo più tardi il vescovo delegò i pievani per il battesimo (Enlart 1994, p. 412).89 Caron 1948, p. 12.90 Poggiaspalla 1968, p. 55.91 Schiaffini 1922, pp. 65-83 e Nanni 1953, pp. 475-544.92 Zeiller 1967, pp. 228-258.

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uno spazio che possiamo definire d’identità comunitaria, così come in genere avven-ne per altre pievi93, soprattutto quella di Industria, la quale, ancora attiva a metà del XIV secolo94, fu poco dopo abbandonata95. Il processo riguardante l’estensione della sua area d’influenza e di controllo delle chiese minori e cappelle succursali, va messo in relazione alla crescita demografica e alla vicina fondazione monastica longobarda di San Michele di Lucedio poi dedicato a San Genuario, avvenuta intorno al 70796 e con essa la conseguente formazione di numerosi insediamenti curtensi. Si tratta ov-viamente di un’ipotesi poiché le carenze documentarie appaiono ancora più evidenti all’epoca dell’invasione longobarda avvenuta con modalità di occupazione militare. Aggregati da gruppi di diversa origine, i Longobardi si insediarono secondo logiche di spartizione del territorio, lasciando qualche traccia toponomastica nella zona97. Se alcuni scrittori del tempo, atterriti dal rovesciamento dell’ordine antico, si ab-bandonarono ad amplificazioni retoriche98, la recente storiografia ci offre un quadro più realistico, ma non meno tragico sul collasso di tutte quelle forze economiche e sociali che già precedentemente erano entrate in crisi99. Infatti, era venuta a mancare non solo l’organizzazione commerciale, non solo era diminuito il consumo per effet-to della miseria e dello spopolamento, ma veniva abbandonata pure quella politica di spese pubbliche, di canalizzazione, di regimentazione delle acque, di manutenzione delle strade, ovvero di quelle opere di bonifica che avevano assicurato la prosperità delle nostre campagne. Conseguentemente, quando i primi benedettini misero mano nelle campagne intono a San Michele di Lucedio, trovarono terre incolte, paludi e ampi spazi boschivi. I costumi e le usanze dei servi rustici utilizzati nelle corti ab-baziali provenivano da antiche pratiche che godevano del conforto di una secolare consuetudine tramandatasi oralmente100. In ogni caso, nonostante la presenza della pieve e successivamente dell’abbazia benedettina, la penetrazione del cristianesimo

93 Le Bras 1976, p. 28.94 Cognasso 1929, p. 232.95 Panero - Pinto 2012, p. 290.96 Troya 1853, n. 377, pp. 80-87; MHP, col. 13 e Kehr 1914, pp. 28-30. Dopo le riserve sollevate dal Chroust e dal Gabotto, si espressero positivamente sia Schneider 1925, pp. 1-12 che Brühl 1973, p. 39. Sul documento, Ogliaro [2006], pp. 53-63.97 ASC, Catasti I, f. 37v: Al Monte ò sia Garda; ASC, Catasti II, f. 5r; un’altra cascina Garda si trova nei pressi della frazione San Silvestro, poco oltre i casolari di Caravini, dove in un campo adiacente nel 1880 si rinvennero oggetti di origine romana (Ferrero 1891, pp. 123-200). Aggiungiamo in prato Bardore, toponimo del tutto simile al pratum de Bardo e Montbardon in Valle d’Aosta (Daviso 1951, p. 252). Sul toponimo Bardore si veda Settia 1972, pp. 183-193.98 Ambrosius 1977, XXXIX, 3 e Namantianus 1967, lib. I, p. 35.99 Ward Perkins 2010, p. 10.100 Fumagalli 1976, pp. 3-8.

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avvenne sicuramente tra molte difficoltà. Si è trattato di un processo assai lento, che dobbiamo immaginare non lineare di fronte alle diffuse sopravvivenze pagane, ostili al cambiamento. Le resistenze dei rustici alla conversione, più che dettate da un forte sentimento nei confronti della fede antica, derivava dall’attaccamento secolare alla cultura rurale, dove religione e lavoro dei campi erano strettamente collegati da un rapporto simbiotico difficile da scalfire.

Durante il periodo carolingio non abbiamo alcun documento riguardante la no-stra zona, se non il diploma del 19 febbraio 840, con il quale, Lotario, dona alla chiesa di Novara l’abbazia di San Genuario101. Si tratta di un’epoca che possiamo definire oscura e nella quale troviamo molte testimonianze sulle incursioni compiute dagli Ungari e dai Saraceni descritte talvolta in modo enfatico in diverse fonti agio-grafiche, che vanno dagli Annali di Frodoardo102, alle Cronache di Liutprando103, vescovo di Cremona, senza contare la Cronaca di Novalesa, che descrive un epi-sodio ai tempi del vescovo Ingone di Vercelli (961-978)104. La tenue reliquia topo-nomastica di Stralongra105, che abbiamo rilevato a Fontanetto Po sul tratto stradale antico106, potrebbe essere riconducibile a Strata Ungrorum e, se così fosse, avremmo un prezioso indizio, che collegato alla via Ungaresca della zona di Borgo d’Ale107, testimonierebbe il passaggio degli Ungari anche nella nostra zona, le cui conseguen-ze riguardarono non solo i borghi e i villaggi, ma soprattutto gli edifici religiosi. Nell’assetto plebano della diocesi di Vercelli, dopo il suddetto tormentato periodo, troviamo la plebs Palatii nell’elenco del codice Vaticano 4322, f. 108r108, trascritto probabilmente a metà del secolo X, quando a causa dell’incremento demografico, dovettero staccarsi dalla nostra pieve e rendersi autonome alcune chiese succursali, quali Santa Maria di Saluggia e San Germano di Palazzolo, elencate singolarmente con quella di Palazzo nel diploma di papa Urbano III del 1 giugno 1186 a favore del-la chiesa vercellese109. La sua attività religiosa, comunque, continuò anche quando nel 1242 fu fondato il borgofranco di Crescentino su di una porzione di terra sottratta

101 Schiaparelli 1900, pp. 8-10.La concessione appare dubbia e comunque di scarsa efficacia, poiché, come si legge nel placito di Pavia del 901, San Genuario era sì ancora rivendicata dal vescovo di Novara Garibaldo, ma venne confermata al vescovo di Vercelli Sebastiano da Berengario I, l’8 luglio 900 (Ogliaro [2006], p. 62).102 Frodoardo 1839, coll. 369-400.103 Cutolo 1945, p. 47.104 Sull’argomento si vedano le precisazioni di Ordano 1992, 35-42.105 Archivio Storico, Fontanetto Po, Libro dei Consegnamenti (sec. XV), II, f. 252r.-262r.106 Ogliaro 1996, p. 71.107 Settia 2000, p. 20.108 Ferraris 1938, pp. 92-93.109 Faccio - Ranno 1939, doc. CCXXXI, p. 85.

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forzosamente all’abbazia di San Genuario110. Certamente, la forza accentratrice del nuovo insediamento, anche se all’inizio il suo popolamento fu lento e discontinuo, contribuì in maniera significativa a modificare il quadro cultuale di tutta l’area di irradiazione della pieve, anche perché in tale borgo fu inserita pressoché dalla fonda-zione una chiesa parrocchiale dedicata per gemmazione alla B.V. Assunta111, dando inizio al declassamento della pieve stessa112. Ancora del tutto indipendente nell’elen-co dei benefici ecclesiastici del 1299113, essa continuò ad essere amministrata da un Rettore, ma oramai dobbiamo ritenerla priva di quel vigore che l’aveva caratterizzata nel passato. Siffatto indebolimento, camminò di pari passo con la trasformazione che si andava operando nel territorio, soprattutto quando, nel 1310 l’imperatore Enrico VII concesse il borgo di Crescentino a Riccardo Tizzoni, atto che cinque anni dopo fu sottoposto all’approvazione da 28 credenzieri e 52 capifamiglia del luogo e che si può configurare come un primo patto statutario, mediante il quale il comune cercò di mantenere, almeno formalmente, la possibilità del ius statuendi, ad eccezione dell’e-laborazione di disposizioni aventi carattere penale114.

Agli inizi dell’istituto signorile, inoltre, rileviamo non solo la tendenza al conso-lidarsi dell’assetto sociale del borgo, ma anche un primo tentativo di difesa locale e la necessità di un ordinamento giuridico appropriato. Sintomi in questa direzione sono già riscontrabili nel 1318, allorché i crescentinesi, avvertendo il pericolo di vedersi infirmati i diritti a suo tempo stabiliti, vollero riproporli in modo solenne, unitamente alla facoltà di nominare il podestà, nonché a mantenere l’amministrazio-ne della giustizia nel borgo e non altrove115. Parallelamente, fu ampliata la viabilità minore mediante la realizzazione di nuove strade campestri, di cui una di cui una partiva proprio dalla pieve di Palazzo e si dirigeva verso i cascinali di Campagna, mentre altre raggiungevano il litorale del Po, dove, esisteva un porto attrezzato sotto la rocca di Verrua, di cui si ha notizia della sua attività già nel secolo XIV116. Grazie alla possibilità di un transito agevole verso la collina, nel castro plano del castello di Verrua, cioè nel borgo recintato sottostante117, il vescovo di Vercelli Aimone, con

110 Ogliaro 1976, p. 55.111 Cancian 1975, doc. 30, p. 140, atto del 12 maggio 1297.112 Ferraris 1982, p. 150.113 ARMO, I, col 63 e 477.114 AST, Sezione Prima, Provincia di Vercelli (Crescentino), m. 8 n. 8 e 15; copia coeva in ASC, Giurisdizione Tizzoni, m. 7, c. 26.115 ASC, Acquisti e vendite 1318-1499, m. 1, f. 11.116 AST, Sezioni Riunite, Conti della castellania di Verrua (1379-1388), m. 1.117 Sommario 1748, pp. 13-14 (anni 1349-1350): sedimen unum iacens in castro plano Verruce […] via qua itur domum hospitalis.

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atto del 25 marzo 1301 fondava un ospedale e nominava Giacomo di Biella, rettore della pieve di Santa Maria del Palazzo, in rectorem et ministrum dicti hospitalis, hec ipsum hospitale ex certis iustis et racionabilibus causis univit et coniucxit cum omnibus suis iuribus et pertinenciis cum ecclesia dicte plebis118. Nel 1330 era sorta una controversia e il presbitero Giovanni di Biandrate, plebanum et ministrum plebis ecclesie S. Marie de Palazo, rivendicava i suoi diritti contro un certo Boninum de Pado de Verrucha, il quale affermava di essere il vero rettore di tale ospedale119. Si trattava, crediamo, di una di quelle istituzioni che si incontravano spesso lungo le vie120 e del tutto simile a quella situata sulla stessa direttrice collinare denominata Infirmeria Paudi (sic), istituita nelle vicinanze della chiesa plebana di San Lorenzo di Cornale presso Camino121. Però, l’ospizio di Verrua, essendo amministrato dal pievano di Palazzo, assumeva una duplice fisionomia, sia come istituzione religio-sa in cui si metteva in pratica la carità cristiana, sia nell’ambito statuale per le sue funzioni assistenziali in un luogo soggetto al vescovado vercellese e fortificato dagli stessi vescovi nel 1319122.

In conclusione, un ulteriore fattore di restringimento delle funzioni religiose della pieve si verificò a partire dalla metà del secolo XV, allorché il borgo di Crescentino, stando agli Statuti, si dotò di una prima cinta fortificativa costituita di un palanca-tum123, ovvero di una palizzata lignea di tipo campale, successivamente irrobustita da strutture murarie124, determinando l’isolamento della chiesa stessa dalla popola-zione locale, isolamento che perdurò fino alla sua totale rovina, quando, secondo la tradizione, si verificò il tentativo di profanazione della statua della Madonna, poi miracolosamente ritrovata da una ragazza sordomuta nei pressi dell’adiacente fonta-na125. L’episodio si ritiene avvenuto durante l’assedio di Verrua, posto nel 1552 dal maresciallo francese Charles Cossé de Brissac, il quale si accampò con le sue truppe presso la pieve di Palazzo, già danneggiata dalle milizie di passaggio nel decennio precedente126. Al Brissac subentrarono gli spagnoli al comando di Gonzalo Ghiron, che rimasero fino al 1556, sottoponendo le famiglie locali a contribuzioni forzose

118 Borello - Tallone 1928, II, doc. CCXXIII, p. 47.119 Arnoldi 1934, doc. XLIX, p. 308.120 Moretti 1998, p. 33.121 Loddo 1929, doc. 29, p. 40.122 Ogliaro 1999, p. 11.123 Andreano Roccati 1996, n XX-XXI, pp. 26-27.124 AST, Sezione Iª, Provincia di Vercelli (Crescentino), m. 13, n. 21.125 Del Corno 1876, p. 9.126 Verso la fine di gennaio 1544 Crescentino fu assediata e occupata dal colonnello Ludovico Birago e da Monsignor di Tes, con cinquemila fanti, fra italiani e francesi (Du Bellay 1821, p. 485).

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e qualsiasi genere di approvvigionamento senza alcuna discretione127. L’unico ele-mento che ci rimane dell’antica pieve è la statua lignea della Madonna, sicuramente anteriore al 1577. Essa è sempre stata oggetto di grande devozione, come testimo-niano le centinaia e centinaia di tavolette ex-voto appese nell’interno del santuario, le quali costituiscono non solo il legame tra la vita quotidiana e l’esperienza di fede, ma rappresentano anche un documento importante della vita sociale e religiosa del territorio.

127 ASC, Acquisti e vendite 1501-1565, m. 2, f. 78.

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La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Barbier 1990Josane Barbier, Le système palatial français: genèse et fonctionnement dans le Nord-Ouest du regnum, in “Bibliothèque de l’École de Chartes”, 148 (1990), pp. 245-299.

Baronio 1594Cesare Baronio, Annales Ecclesiastici, t. III, Roma 1594.

Besson 1759Joseph-Antoine Besson, Mémoires pour l’histoire ecclésiastique des diocèses de Genève, Tarentaise, Aoste et Maurienne et du décanat de Savoye, Nancy (in realtà Annecy), 1759.

Böcking 1839-1853Eduard Böcking, Notitia dignitatum et ad administrationum omnium tam civilium quam militarium in partibus Orientis et Occidentis, Bonnae, t. II. 1839-1853.

Borello - Tallone 1928Luigi Cesare Borello - Armando Tallone, Le carte dell’Archivio Comunale di Biella, vol. II, Vo-ghera 1928.

Borgondo 1951Guido Borgondo, Vicende e glorie di Crescentino, Crescentino 1951.

Borla 1980Silvino Borla, La Mansio Rigomagus, Trino 1980.

Bossi 1857Giacomo Bossi, Cenno storico sul santuario della Madonna del Palazzo, Torino 1857.

Bosso - Ogliaro 1998Piero Bosso - Mario Ogliaro, Crescentino nella storia e nell’arte, Quart 1998.

Bourassé 1852Jean-Jacques Bourassé, Dictionnaire d’archéologie sacrée, t. II, in “Nouvelle Encyclopédie Théolo-gique”, a cura di JP. Migne, Paris 1852.

Bourassé 1867Jean-Jacques Bourassé, Archéologie chrétienne, ou précis de l’histoire des monuments religieux du Moyen-Âge, t. XII, Paris 1867.

Brühl 1971Carl Richard Brühl, “Palatium” e “Civitas” in Italia dall’epoca tardo antica fino all’epoca degli Sve-vi, in “Problemi della civiltà comunale”, atti del congresso storico internazionale per l’VIII centenario della prima Lega Lombarda, Milano 1971, pp. 157-165.

Brühl 1973Codice diplomatico Longobardo, a cura di C. R. Brühl, vol. III, Roma 1973.

Bruzza 1874Luigi Bruzza, Iscrizioni antiche vercellesi, Roma 1874.

Buhler 1986Frédéric Buhler, Archéologie et baptême, Mulhouse 1986.

Bulhart 1957Eusebii Vercellensis Episcopi, in “Corpus Christianorum / Series Latina”, vol. IX, a cura di V. Bulhart, Turnholti 1957.

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30

Mario Ogliaro

Bussi 1941Virginio Bussi, Carbantia e Ad Medias degli itinerari romani, in BSBS 1941, pp. 39-50.

Calzolari 1996Mauro Calzolari, Introduzione allo studio della rete stradale dell’Italia romana. L’Itinerarium Anto-nini, in “Accademia Nazionale dei Lincei”, classe scienze morali (1996), vol. 7, 4, pp. 370-520.

Cancian 1975L’abbazia di S. Genuario di Lucedio e le sue pergamene, a cura di P. Cancian, Torino 1975.

Capellino 1971Mario Capellino, storia di S. Eusebio di Vercelli e spiritualità del suo cenobio nella chiesa del IV secolo, Roma 1971.

Caron 1948Pier Giovanni Caron, I poteri giuridici dei laicati nella Chiesa primitiva, Milano 1948.

Casalis 1840Goffredo Casalis, Dizionario geografico-storico [...], vol. VII, Torino 1840.

Cypriani 1726Cypriani, Epistularum, Parisiis, edit. Baluzii 1726.

Codex Theodosianus 1736-1745Codex Theodosianus [...], a cura di A. Marulli, Lipsiae 1736-1745.

Cognasso 1929Francesco Cognasso, Commentando Benvenuto di San Giorgio. III. Pievi e chiese del Monferrato alla metà del Trecento, in BSBS XXXI (1929), pp. 211-235.

Cognasso 1992Francesco Cognasso, Storia di Novara, con un saggio introduttivo di G. Andenna, Novara 1992.

Corradi 1968Giuseppe Corradi, Le strade romane dell’Italia Occidentale, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 1968.

Cracco Ruggini 1963Lellia Cracco Ruggini, Uomini senza terra e terra senza uomini nell’Italia antica, in “Quaderni di Sociologia Rurale”, III, (1963), pp. 20-41.

Cracco Ruggini 1998Lellia Cracco Ruggini, La fisionomia sociale del clero e il consolidarsi delle istituzioni ecclesiastiche nel Norditalia (IV-V secolo), in “Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda Antichità e Medioe-vo” (3-9 aprile 1997), Spoleto 1998, pp. 877-901.

Crovella 1961Ercole Crovella, S. Eusebio di Vercelli. Saggio di biografia critica, Vercelli 1961.

Crovella 1968Ercole Crovella, La chiesa eusebiana dalle origini alla fine del secolo VIII, in “Quaderni dell’istituto di Belle Arti di Vercelli”, 10, Vercelli 1968.

Cuntz 1990Itinerarium Burdigalense, a cura di O. Cuntz, in “Itineraria Romana”, I, Stuttgart 1990.

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31

La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Cutolo 1945Liutprando da Cremona, tutte le opere (891-969), a cura di A. Cutolo, Milano 1945.

Dal Pozzo - Ghiglione - Massa - Ombrello 1972Adriana Dal Pozzo - Bruna Ghiglione - Giuseppina Massa - Augusta Ombrello, Le colonie militari di Sarmati nel Piemonte Occidentale, in “Bollettino della Società per gli studi Storici, Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo”, 67 (1972), pp. 135-140.

Dattrino 1979Lorenzo Dattrino, La lettera di Eusebio al clero e al popolo della sua diocesi, in “Lateranum”, rivista di teologia, 45 (1979), pp. 60-82.

Daviso 1951Maria Clotilde Daviso, I Longobardi in Val d’Aosta, in “Atti del 1° congresso internazionale di studi longobardi”, Spoleto 1951.

De Feis 1893Leopoldo De Feis, Storia di Liberio papa e dello scisma dei semiariani, in “Studi e documenti di storia e diritto”, XIV (1893).

De Levis 1781Eugenio De Levis, Raccolta di diverse antiche iscrizioni e medaglie epitalamiche, ritrovate negli Stati di S.S.R.M. il Re di Sardegna, Torino 1781.

De Valois 1636Hadriani De Valois, Notitia Galliarum, (…), Parisiis 1636

Del Corno 1876Vittorio Del Corno, Crescentino Serra, memorie storiche biografiche con alcune notizie intorno al Santuario della Madonna del Palazzo, presso Crescentino, Torino 1876.

Del Corno 1878Vittorio Del Corno, Oggetti antichi trovati nei territori di Monteu da Po, S. Martino Canavese, di Alessandria e di Crescentino, in SPABA (1878), pp. 113-120.

Del Corno 1882Vittorio Del Corno, Le stazioni di Quadrata e di Ceste lungo la strada romana da Pavia a Torino, in SPABA, vol. III, 1882, p. 31.

Del Pozzo 2010Massimo Del Pozzo, Luoghi della celebrazione, “Sub specie iusti”, Roma 2010.

Della Chiesa 1655Francesco Agostino Della Chiesa, Corona Reale di Savoia, t. I, Cuneo 1655.

Della Chiesa, sec. XVIIIFrancesco Agostino Della Chiesa, Descrizione Generale del Piemonte, ms. Biblioteca Reale, Torino, (ms. b. 151), parte IV.

Derossi 1786Onorato Derossi, Notizie degli Stati del Re di Sardegna, t. III, Torino 1786.

Di Marco 2012Rocco Di Marco, L’esercito romano tardoantico. Persistenze e cesure dai Severi a Teodosio I, Limena 2012.

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32

Mario Ogliaro

Diercks 1996Sancti Cypriani episcopi, Epistularium, edizione critica a cura di G. F. Diercks, Turnholti 1996.

Dierkens - Périn 2000.Alain Dierkens - Patrick Périn, Les sedes regiae mérovingiennes entre Seine et Rhin, a cura di G. Ripoll e J. M. Gurt, “Sedes Regiae (a.400-800)”, Barcelone 2000.

Druetti 1926Vincenzo Druetti, Il sito della Mansio Quadrata sulla strada romana Torino-Pavia, in SPABA, a. X, fasc. III, Torino 1926, pp. 309-356.

Du Bellay, 1821Martin Du Bellay, Mémoires [...] in “Collection complète des mémoires relatifs à l’histoire de France depuis le Règne de Philippe-Auguste, jusqu’ au commencement du dix-septième siècle”, Paris 1821, t. XIX.

Durandi 1766Jacopo Durandi, Dell’antica condizione del vercellese e dell’antico borgo di Santià, Torino 1766.

Durandi 1774Jacopo Durandi, Il Piemonte cispadano antico, Torino 1774.

Duval 1965Noël Duval, La représentation des palais dans l’art du Bas-Empire et du haut Moyen-Âge d’après le Psautier d’Utrecht, in “Cahiers Archéologiques” (1965), pp. 204-254.

Enlart 1994Camille Enlart, Baptistères et fonts baptismaux, in “Le mois littéraire et pittoresque”, Paris 1994, p. 412.

Ermoni 1904Vincent Ermoni, Le baptême dans l’église primitive, Paris 1904.

Eusebio di Cesarea, 1979Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, a cura di M. Ceva, LVIII, 17, 1-5, Milano 1979.

Eusebio di Cesarea 1856-1866Eusebio di Cesarea, Vita Costantini, in P.G. XX.

Eusebio di Vercelli 1995Eusebio di Vercelli, La fede della nostra chiesa, Comunità di Bose Magnano 1995.

Faccio - Ranno, 1939Giulio Cesare Faccio - Maria Ranno, I Biscioni, t. I, vol. II, Torino 1939.

Ferraris 1938Giuseppe Ferraris, La romanità e i primordi del cristianesimo nel biellese, in “Il Biellese e le sue massime glorie”, Biella 1938.

Ferraris 1982Giuseppe Ferraris, Borghi e Borghi Franchi quali elementi perturbatori delle pievi, in “Vercelli nel secolo XIII”, Atti del primo congresso della Società Storica Vercellese, Vercelli 1982, pp. 139-202.

Ferraris 1984Giuseppe Ferraris, La pieve di S. Maria di Biandrate, Vercelli 1984.

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La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Ferraris 1987Giuseppe Ferraris, La pieve di Industria, in “Da Quadrata alla Restaurazione. Indagini sul territorio”, Torino 1987, pp. 59-83.

Ferrero 1602Stephanus Ferrerio, Sancti Eusebii Vercellensis Episcopi et Martyris eiusque in episcopatu successo-rum vita et res gestae, Romae, 1602.

Ferrero 1609Stephanus Ferrerio, Sancti Eusebii Vercellensis Episcopi et Martyris eiusque in episcopatu successo-rum vita et res gestae, Vercelli, 1609.

Ferrero 1891Ermanno Ferrero, Iscrizioni antiche vercellesi in aggiunta alla raccolta del P. Luigi Bruzza, in “Me-morie della Reale Accademia delle scienze di Torino”, serie 2ª, t. 41 (1891), pp. 123-200.

Ferretti 2000Franco Ferretti, La romanizzazione del pago Agamino, in “Milano fra l’età repubblicana e l’età augu-stea”, a cura di R. La Guardia, Milano 2000, pp. 339-350.

Frodoardo 1839Frodoardi, Annales Rhemenses, in MGH Scriptorum, éd. G.-H. Pertz, Hanovre 1839, t. III, coll. 369-400.

Frola 1918Giuseppe Frola, Corpus Statutorum Canavisii, Torino 1918.

Fumagalli 1976Vito Fumagalli, Terra e società nell’Italia Padana, Torino 1976.

Gambari 1989Filippo Maria Gambari, Note per l’avvio di una ricerca sulla preistoria e la protostoria nel territorio trinese, in “Studi Trinesi”, VIII (1989).

Gaudemet 1990Jean Gaudemet, La condamnation des pratiques païennes de Constantin à Justinien, in “Cristianesimo nella storia”, 11, (1990), pp. 449-468.

Gazzera 1849Costanzo Gazzera, Delle iscrizioni cristiane antiche del Piemonte, Torino 1849.

Giorcelli Bersani - Roda 1999Silvia Giorcelli Bersani - Sergio Roda, Iuxta fines Alpium. Uomini e déi nel Piemonte romano, Torino 1999.

Guérard 1853Benjamin Guérard, Explication du capitulaire De Villis, in “Bibliothèque de l’École de Chartes”, 3ª serie,t. IV, Paris 1853.

Harries 1978Jill Harries, Church and State in the Notitia Galliarum, in “The Journal of Roman Studies”,vol. 68, Cambridge 1978, pp. 26-43.

Hermann, 2007Pierre Hermann, Itinéraire des voies romaines de l’Antiquité au Moyen-Âge, Paris 2007.

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34

Mario Ogliaro

Heurgon 1952Jacques Heurgon, La date des gobelets de Vicarello, in “Revue des Études Anciennes”, LIV (1952), pp. 39-50.

Hieronymus 1865Hieronymus, Epistulae 107, 1, in “Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum”, Wien 1865.

Hildhesemeier - Bodard 1984François Hildhesemeier - Pierre Bodard, Histoire des diocèses de France, Paris 1984.

Hillemacher 1919Jacques Hillemacher, Les Germains devant l’histoire, in “Revue Anthropologique”, XXIX (1919), p. 216.

Kehr 1914Paul Fridolin Kehr, Italia Pontificia, vol. VI, Berlino 1914.

Körting 1907Gustav Körting, Lateinisch-Romanisches Wörterbuch, Paderborn 1907.

La Rocca 2000La Rocca L., Crescentino, fraz. Li Galli (sic), loc. Madonna del Palazzo. Necropoli romana, in “Qua-derni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte”, Torino, 17 (2000), pp. 223-228.

Lattanzio 1844-1855Lattanzio, De mortibus persecutorum, in Jacques-Paul Migne, P.L., VII, 189-276.

Lauxerois 1977Roger Lauxerois, Alba la Romaine première capitale du Vivarais, in “Archéologie”, Dijon, (1977), p. 20.

Le Bras 1976Gabriel Le Bras, L’église et le village, Paris 1976.

Loddo 1929Francesco Loddo, Le carte del monastero di Rocca delle Donne, Torino 1929.

Maccabruni 1999Claudia Maccabruni, Laumellum centro di strada nel territorio Lomellino, in “De via francigena”, VII, 2 (1999), pp. 95-104.

Malacarne 1787Vincenzo Malacarne, De’ Liguri Statiellati [...], Torino 1787.

Meyer Lübke 1911Wilhelm Meyer Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1911.

Milani 2009.Celestina Milani, Varia linguistica, Milano 2009.

Mombrizio [1478ca]Bonino Mombrizio, [Sanctuarium], Milano [1478ca]. t. I.

Mombrizio 1910Bonino Mombrizio, Sanctuarium seu Vitae Sanctorum, a cura di H. Quentin e A. Brunet, t. I, Parigi 1910.

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35

La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Monaci Castagno 1997Adele Monaci Castagno, La prima evangelizzazione a Vercelli, in “Eusebio di Vercelli e il suo tem-po”, a cura di E. Dal Covolo, R. Uglione e G. M. Vian, Roma 1997, pp. 63-76.

Moretti 1998Italo Moretti, Ospedali lungo la via Francigena in Toscana, in “Le vie del Medioevo”, Torino 1998, p. 33.

Namantianus 1967.Namantianus, De reditu suo, a cura di E. Castorina, Firenze 1967.

Nanni 1953Luigi Nanni, L’evoluzione storica della parrocchia, in “La Scuola Cattolica”, 81 (1953), pp. 475-544.

Nestori 1999Aldo Nestori, Riflessioni sul luogo di culto cristiano precostantiniano, in “Rivista di Archeologia Cristiana”, 75, n. 1-2, (1999).

Ogliaro 1976Mario Ogliaro, Le origini di Crescentino, Vercelli 1976.

Ogliaro 1996Mario Ogliaro, Tracce sull’antica viabilità tra Crescentino e Palazzolo Vercellese, in BSV 25 (1996), n. 46, pp. 43-76.

Ogliaro 1999Mario Ogliaro, La fortezza di Verrua e i suoi grandi assedi nella storia del Piemonte, Quart 1999.

Ogliaro [2006]Mario Ogliaro, L’atto di fondazione dell’abbazia di San Genuario di Lucedio. Indagini storiche e critica testuale, in “Atti dei convegni storici sull’abbazia di San Genuario, 13-11-2004 e 21-11-2006”, Crescentino s.d. [2006], pp. 53-63.

Olivieri 1961Dante Olivieri, Dizionario di Toponomastica Lombarda, Milano 1961.

Olivieri 1965Dante Olivieri, Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia 1965.

Ordano 1992Rosaldo Ordano, Gli enigmi di una presenza saracena, in Rosaldo Ordano, Briciole di Storia, Ver-celli 1992, pp. 35-42.

Panero 2000Elisa Panero, La città romana in Piemonte, Cavallermaggiore 2000.

Panero - Pinto 2012Assetti territoriali e villaggi abbandonati (secoli XII-XIV), a cura di F. Panero - G. Pinto, Cherasco 2012.

Piganiol 1950André Piganiol, L’état actuel de la question constantinienne, in “Historia” I (1950), pp. 82-96.

Plinio Plinio, Naturalis Historia, lib. IV, § 25.

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Mario Ogliaro

Poggiaspalla 1968Firmino Poggiaspalla, La vita comune del clero, dalle origini alla riforma gregoriana, Roma 1968.

Possenti 2012Elisa Possenti, Movimenti migratori in età tardoantica: riscontri archeologici negli insediamenti ru-rali della Venetia?, in “Giornate sulla tarda antichità”, a cura di C. Ebanista e M. Rotili, Cimitile 2012, pp. 143-162.

Potoki 1796Jan Potoki, Fragments historiques et géographiques sur la Scytie, la Sarmatie et les slaves, t. I, Brunsvic 1796.

Poupardin 1907René Poupardin, Le royaume de Bourgogne, 888-1038, étude sur les origines du royaume d’Arles, Paris 1907.

Promis 1869Carlo Promis, Storia dell’antica Torino, Torino 1869.

Purpura 1995Gianfranco Purpura, Sulle origini della Notitia Dignitatum in “Atti del X Convegno Internazionale Accademia Costantiniana di Perugia dell’8 ottobre 1991”, Perugia 1995, pp. 347-357.

Rémondon 1970Roger Rémondon, La crise de l’Empire romain de Marc Aurèle à Anastase, in “Nouvelle Clio”, II, Paris 1970, pp. 193-196.

Renaux 1911Camille Renaux, Le Comté Humbertien de Savoie-Belley, in “Le Bugey. Société scientifique, histori-que et litteraire”, Belley 1911, p. 37.

Restaldi 1846Secondo Restaldi, Inaugurazione di un busto in marmo a Giuseppe Crescentino Serra, Casale 1846.

Rigaldo Viretti - Spegis - Villata 1996Giovanni Rigaldo Viretti - Fabrizio Spegis - Gianfranca Villata, Mansio Quadrata, insediamento romano in Verolengo, Verolengo 19962.

Robino 1999Mirella Robino, Osservazioni sulla cosiddetta mansio di Rigomagus a le Verne, in “Campagna e pae-saggio nell’Italia Antica”, Roma 1999, pp. 241-248.

Rossi 1857Girolamo Rossi, Il rito ambrosiano nelle chiese suffraganee della Liguria, in “Atti della Società Ligure di Storia patria”, vol. XIX, Genova 1857, pp. 523-546.

Rossi 1868Giovanni Battista De Rossi, Un’impostura epigrafica svelata. Falsità delle insigni iscrizioni cristiane di Alba che si diceva trascritte dal Berardenco nel 1450, in “Bullettino di Archeologia Cristiana”, VI (1868), p. 45-47.

Royet 2002.Robert Royet, Un palais rural et son système domanial: Saint- Romain-de-Jalionas. Le Vernai (Isère), in “Le catalogue de l’exposition du Musée dauphinois de Grenoble”, Gollion 2002, p. 84.

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La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Savio 1902-1903Fedele Savio, Le origini della diocesi di Tortona, in “Atti della Reale Accademia delle Scienze di To-rino”, 38 (1902-1903), pp. 94-96.

Scarzello 1933Oreste Scarzello, La colonia dei Sarmati nel territorio della provincia di Cuneo, in SPABA, 15 (1933), pp. 286-294.

Schiaffini 1922Alfredo Schiaffini, Per la storia di “Parochia” e “Plebs”, in “Archivio Storico Italiano”, LXXX (1922), pp. 65-83.

Schiaparelli 1900Luigi Schiaparelli, Il rotolo dell’Archivio Capitolare di Novara, in “Archivio Storico Lombardo”, serie 3, vol. XIII, 1900, pp. 8-10.

Schiaparelli 1924I diplomi di Ugo e Lotario, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1924.

Schneider 1925Fedor Schneider, Uber eine langobardische Königsurkunde Aripert II. Diplom fur Bischof Emilian von Vercelli, in “Neues Archiv”, 46 (1925), pp. 1-12.

Semeria 1840Giovanni Battista Semeria, Storia della chiesa metropolitana di Torino, Torino 1840.

Serra 1927Giandomenico Serra, Contributo toponomastico alle vie romane e romee nel Canavese, Cluj 1927.

Settia 1971Aldo A. Settia, Precisazioni su qualche toponimo del Casalese e del Chivassese, in BSBS, LXIX (1971), pp. 505-539.

Settia 1972Aldo A. Settia, Lombardore e Bardella: uno stanziamento longobardo fra Chieri e Asti?, in BSBS 70 (1972), pp. 183-193.

Settia 1975Aldo A. Settia, Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, in “Archeologia Medievale”, II (1975), pp. 237-328.

Settia 1980Aldo A. Settia, La toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in “Medioevo rurale, sulle tracce della civiltà contadina”, Bologna 1980.

Settia 1982Aldo A. Settia, Pievi e cappelle nella dinamica del popolamento rurale, in “Cristianizzazione ed or-ganizzazione ecclesiastica delle campagne nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze”, Spoleto 1982.

Settia 1996Aldo A. Settia, Tracce di Medioevo, toponomastica, archeologia e antichi insediamenti nell’Italia del nord, Torino 1996.

Settia 1998Aldo A. Settia, L’Alto Medioevo, in “Storia della chiesa di Ivrea. Dalle origini al XV secolo”, a cura di G. Cracco, Roma 1998, pp. 75-117.

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Mario Ogliaro

Settia 2000Aldo A. Settia, Chiese e castelli in un’area di confine: il territorio di Borgo d’Ale, in “Un borgo nuovo tra Vercelli e Ivrea”, Santhià 2000, pp. 13-28.

Settia 2006Aldo A. Settia, “Grans cops se donnent les vassaulx”. La battaglia di Gamenario (22 aprile 1345), in “Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale (1259-1382)”, a cura di R. Comba, Milano 2006, pp. 161-206.

Sommario 1748Sommario nella causa [...] dell’abate Gabriel Ignazio Bogino di San Genuario, Torino 1748.

Sommo 1992Luoghi fortificati fra Dora Baltea e Po, a cura di G. Sommo, vol. II, Vercelli 1992.

Spagnolo Garzoli 2007Giuseppina Spagnolo Garzoli, Ghemme vicus degli Agamini. Aggregazione spontanea o agglome-rato pianificato? In “Forme e tempi dell’urbanizzazione nella Cisalpina (II secolo a.C. - I sec. d.C.)”, a cura di L. Brecciaroli Taborelli, Firenze 2007, pp. 333-334.

Spegis 1988Fabrizio Spegis, Precisazioni in merito al passaggio della strada romana Torino-Pavia nei territori di Verolengo e Chivasso, in BSV 17 (1988), n. 31, pp. 53-104.

Spegis 2008Fabrizio Spegis, Antiche strade, arte sacra e nuovi ponti, Verolengo 2008.

Talbot Rice 1968Tamara Talbot Rice, Le tribù scito-sarmatiche dell’Europa sudorientale in “Storia Universale Feltri-nelli”, vol. VIII, Milano 1968.

Theatrum 1682Theatrum Sabaudiae, Joan Blaeu, Amstelodami 1682, pars altera.

Tibaldeschi 2000Giorgio Tibaldeschi, Monsignor Giuseppe Ferraris, sacerdote e archivista, in “Corriere ’Eusebiano”, 29 maggio 2000.

Tibaldeschi 2013Giorgio Tibaldeschi, Ma che storia è questa? Curiosità storiche vercellesi rigorosamente vere, Ver-celli 2013.

Troya 1853Carlo Troya, Codice diplomatico longobardo dal DLXVIII al DCCLXXIV con note storiche e disser-tazioni, vol. III, Napoli 1853.

Vercella Baglione 1993Federica Vercella Baglione, Alcune considerazioni sul percorso vercellese della strada Pavia-Tori-no in età romana e medioevale, in BSV 22 (1993), n. 40, pp. 5-42.

Viarre 1961Simone Viarre, Palatium “Palais”, in “Revista Philologica”, 35 (1961), pp. 240-248.

Violante 1989Cinzio Violante, Che cos’erano le pievi? Primo tentativo di studio comparato in “Critica Storica”, 26 (1989), pp. 429-438.

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La pieve vercellese di Santa Maria del Palazzo

Walkenaër 1839Charles Athanase Walkenaër, Géographie ancienne historique et comparée des Gaules cisalpine et transalpine, t. I, Paris 1839.

Ward Perkins 2010Bryan Ward Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Bari 2010.

Zanda 1995Emanuela Zanda, Lo Stato delle ricerche, in “Studi su Industria”, “Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte”, Torino 1995, pp. 5-22.

Zeiller 1967Jacques Zeiller, Le Concile de Sardique, in “Les origines chrétiennes dans les provinces danubiennes de l’empire romaine”, Paris 1918 (ristampa anastatica, Roma 1967).

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Mario Ogliaro

RiassuntoNell’ambito dei numerosi studi sulla rete plebana della diocesi di Vercelli, il com-pianto Monsignor Giuseppe Ferraris si è occupato a più riprese anche della pieve di Santa Maria del Palazzo (Crescentino), con interventi sparsi in vari suoi testi. Il pre-sente saggio, ampliando l’area di ricerca, intende offrire un nuovo contributo su tale pieve posta sulla strada romana Pavia-Torino, aggiornando le ipotesi del Ferraris, sulla scorta di nuovi studi sull’argomento e sui recenti affioramenti archeologici del-la zona.

AbstractIn the context of numerous studies on the plebeian network of the diocese of Vercelli, the late Monsignor Giuseppe Ferraris has repeatedly taken interest to the church of Santa Maria del Palazzo (Crescentino), with interventions spread throughout his various texts. The present essay, extending the research area, aims to offer a new contribution to this church sited on the Roman road Pavia-Torino, updating Ferraris hypotheses, with new studies on the subject and recent archeological findings on the area.

[email protected]

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Doriano Beltrame

VERCELLI È IN MANE DE FRANCESI.L’IMPRESA MILITARE DEL NOVEMBRE 1553

Premessa

Nella notte dal 16 al 17 agosto 1553, a Vercelli, sede provvisoria del governo sabaudo, moriva di morte repentina il duca Carlo II già molto provato per la salute; a quel tempo il conflitto franco-asburgico ferveva nei territori del Piemonte orientale, ancora dei Savoia, ma controllati dalle truppe imperiali mossesi dal Ducato/Stato di Milano, dopo che le terre oltramontane e quelle piemontesi occidentali sabaude erano state praticamente annesse dalla Francia, per la quale rappresentavano una preziosa testa di ponte nella penisola.

Il nuovo duca di Savoia, il figlio Emanuele Filiberto, da poco nominato da Car-lo V d’Asburgo comandante supremo dell’esercito imperiale nelle Fiandre, fedele al suo altissimo impegno, affidava la luogotenenza generale del ducato sabaudo al conte René de Challant1 e compiti di comunicazione a Louis de Châtillon signore di Châtellard2, quindi trattava la strategia della difensiva assoluta delle poche città e ristretti territori rimasti con il commissario ducale e cesareo capitano Tommaso Valperga, sotto la responsabilità e la supervisione delle fortificazioni dell’ingegnere militare Giovanni Maria Olgiati, al servizio degli Asburgo insediati in Lombardia, che era stato mandato nelle terre dipendenti per evitare l’erosione francese dei mar-gini occidentali milanesi secondo il principio della difesa esterna (il ‘trasferimento’ della guerra fuori dalle terre lombarde)3.

Sigle:

ASCV = Archivio Storico Civico di Vercelli.ASM = Archivio di Stato di Milano.AST = Archivio di Stato di Torino.BAV = Biblioteca Agnesiana di Vercelli.BRT = Biblioteca Reale di Torino.C = Comuni.CS = Cancellerie dello Stato.FC = Feudi Camerali.LP = Lettere di particolari.PCF = Patenti Controllo Finanze.PD = Protocolli ducali.SRC = Storie della R. Casa.

1 Su René de Challant, Uginet 1980a, p. 368 per la vicenda di Vercelli.2 Su Louis de Châtillon, Uginet 1980b, p. 387 per la vicenda di Vercelli.3 La messa in opera a Vercelli del disegno strategico di fortificazione in Beltrame 2004, pp. 69-97;

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Doriano Beltrame

In virtù della necessità di azione nello stesso ambito di due padroni sovrani, le competenze militari della piazza vercellese erano rigidamente ripartite: a un coman-dante imperiale la cittadella (governatore della cittadella), a un comandante sabaudo il castello (castellano), circostanza non rara soprattutto in Piemonte e nel Monfer-rato, poco sinergica, non sempre favorevole alla conservazione della piazza per i legami personali, le reti e i circuiti clientelari privilegiati, senza contare per l’am-ministrazione cittadina l’apporto del rappresentante civico (governatore della città).

Nella convulsa condizione piemontese del momento - post tregua di un mese con sgombero imperiale di varie terre delle Valli di Lanzo come contropartita e ripresa delle ostilità con riconquista di Valfenera - Vercelli subiva nella notte dal 17 al 18 novembre 1553 un clamoroso colpo di mano, che permetteva ai soldati dell’armata francese del governatore e luogotenente generale del Piemonte maresciallo Charles de Cossé, conte di Brissac, di penetrare e saccheggiare la città con la sorpresa e l’a-iuto di fiancheggiatori interni.

I carteggi milanesi e sabaudi di cancelleria, impregnati dell’atmosfera di quel tempo, rendono profondamente l’eco dello scenario dell’impresa: l’intendimento, l’avvicinamento e l’introduzione in città, significativi non solo dell’astuzia francese ma anche della sorpresa, dell’infedeltà e del pressapochismo imperiale-sabaudo nel controllo del territorio e nella difesa del luogo; corrispondenze giovevoli alla com-pletezza della ricostruzione storica4.

Avvisaglie di un’azione nemica nell’alto confine tra Piemonte e Milanese erano inizialmente gli allarmanti episodi (con agguati e sequestri, tra cui quello enigmatico del signore di Châtellard) capitati nella

“coreria che ha fatto francesi la qual fu vener et comenzorno bater la strada tra Landiona et Carpignano, et presono un certo Mons.r de Chiatelard, savoino

Beltrame 2006, pp. 75-85.4 Per l’impresa francese del novembre 1553, le fonti: BAV, Giovanni Battista Modena, Dell’antichità e nobiltà della città di Vercelli e dei fatti occorsi in essa e sua provincia, ms, 542, redazione terminata con l’anno 1600, c. 430, (altre quattro copie in ASCV, ms, A 24, redazione più breve terminata con l’anno 1600, cc. 515-517; A 35, altra fino al 1600, cc. 388-390; A 23, redazione più diffusa terminata con l’anno 1629, c. 126r; A 36, altra fino al 1629, c. 192r-v; in tutte le copie l’impresa è registrata ad annum 1551); ASCV, Aurelio Corbellini, Dell’Istorie, et Antichità della Città di Vercelli, ms, A 14, redazione completa terminata con l’anno 1630, ad annum 1553 cc. 257-258 (altre tre copie in ACV, ms, 17, cc. 426-428; A 40, cc. 251v-252r; A 47 lacunosa, mancante l’anno 1553); la bibliografia principale: Contile 1564, cc. 204v-205v; Bugati 1571, p. 987; Pingone 1577, p. 81; Uberti 1586, p. 208; Cambiano di Ruffia 1602, col. 1113; De Boyvin du Villars 1607, pp. 270-280; Della Chiesa 1608, p. 153; Cambiano di Ruffia 1611, p. 192; Miolo 1629, p. 200; Ranza 1769, pp. 14-17; Ricotti 1861, p. 286; Adriani 1867, pp. 61-80, Promis 1865, p. 623; Promis 1870b, n. XIV, pp. 545-550; Claretta 1884, pp. 29-39; Segre 1898, pp. 10-13; Bori 1916, pp. 28-36; Segre 1928, pp. 92-94; Ferraris 1960 pp. 17-25, 39-45 note 30-55, 57 nota 90; Malaguzzi 2005, pp. 103-117 e recentemente una narrazione sommaria con imprecisioni in Rabà 2016, pp. 165-168.

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Vercelli è in mane de Francesi

che pur quella matina si era partito da Meserano et gionto a Romagnano se ne andava a Vercelli et havea tre cavalli seco, presono doi mercanti poveri di questa terra uno de quali si salvò nel bosco, lì lassò però una cavalla et la borsa, l’altro l’hano condutto di là da Dora, ne presono altri molti, et erono tanti che parte se ne sono fugiti, quelli di Romagnano subito che hebero aviso detero fora con arme, con pensiero che le altre terre più vicine dovessero esser fora et haver fatto quanto comporta il debito del comandamento fattoli per V. Ill. S. però si trovò che non era fora alchuno. Si ricercho molto ben le nostre confine ma non si trovò alchuno che di già erano tornati a reto et passati tra la Ferrera et la Catania sopra le confine di Ghemo”5,

seguiti dai movimenti di “cavali francesi da Rovasenda”6 e “sopra la fine di Greggio di là et apresso la Sesia, et a S.to Marco presso detta terra di Greggio in copia de cavalli et fantaria con le croce bianche”7, che facevano presagire una penetrazione francese in direzione di Fontaneto d’Agogna e Galliate nel Novarese.

L’esercito imperiale in quel periodo era lontano, acquartierato a Valfenera (a mez-za via tra Asti e Torino) per il rafforzamento e munizionamento della località strap-pata al nemico, strategica per il controllo del basso Piemonte.

All’ordinaria vigilanza si combinavano compiti speciali principalmente con-nessi alla ricerca di guastatori in fuga dal campo imperiale e relativi anche alla sicurezza del castello di Fontaneto d’Agogna (presunto obiettivo nemico) i cui feudatari, i Visconti, nonostante i comandi, indugiavano a migliorarne la custo-dia per il costo della guardia, a tal punto da assecondare una scaramuccia insor-ta con alcuni sbirri in transito, che conducevano un guastatore borgomanerese fuggito:

“Mandato il barizello di questa città [Novara] a prendere il sopra detto, et ha-vendolo preso, il conducea qua, et passando per la Terra di Fontaneto, ritro-vando uno che portava il pugnale contra le cride di V. Ecc.ia lo preseno, et havendolo per condur in preggione vene uno del Castello, et li tolsero detto

5 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del capitano Gio. Andrea di Ferrero al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Romagnano Sesia, 12 novembre 1553, originale. Informativa sul sequestro del signore di Châtellard errata o ignara di un suo pronto riscatto in quanto, pochi giorni dopo, è a Vercelli, ucciso in uno scontro con i francesi.6 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del capitano Gio. Andrea di Ferrero al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Romagnano Sesia, 14 novembre 1553, originale.7 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del podestà di Biandrate Gian Francesco Alzalendra al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Biandrate, 14 novembre 1553, originale.

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Doriano Beltrame

preggione et con questo gl’erano molti altri de detto Castello et della Terra cri-dando amaza amaza, et li tolsero medemamente quello preggione che condu-cevano da Borgomainero, et non contenti di questo hanno feriti tutti li sbiri di mala mainera et gli n’é uno che morirà per quello dicano li medici. Il barizello non se ne sa nova, si crede che sia morto”8.

Del fermento e soprattutto dell’azione esercitata nell’alto confine, i Francesi ne approfittavano per operare con “intelligentia” nella bassa pianura occidentale.

L’avvicinamento e l’introduzione in città.

Le informazioni giunte dalla Saletta, terra vicino a Costanzana, recapitate al cam-po di Valfenera, che la notte dal 16 al 17 novembre “furron visti da duomillia fanti passar’ alla volta di Vercelli”9, erano ormai tardive.

Infatti, nella notte successiva, dal 17 al 18 novembre, verso l’alba, dopo una fa-ticosa marcia di avvicinamento, sotto la pioggia, un centinaio di armati francesi del capitano guascone Raimond de Salveson governatore di Verrua e dei capi militari, fuorusciti milanesi, fratelli Carlo10 e Girolamo Birago, riuscivano a penetrare nella città dal “portello, gionto al castello”11 (precisamente “entre el portel y San Fran-cisco, donde ay dos murallas”12 - della falsabraca -) accesso posto in area vicinale al castello e verso la cittadella, da cui poter aggredire rapidamente le due zone di

8 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 12 novembre 1553, originale. La faccenda di Fontaneto d’Agogna continuava nei mesi seguenti con ripercussioni anche nell’anno successivo.9 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore di Alessandria Gonzalo Rodriguez de Salamanca al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Alessandria, 18 novembre 1553, originale. 10 Su Carlo Birago, Zapperi 1968a, p. 575 per la vicenda di Vercelli.11 AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; edita parzialmente in Ferraris 1960, pp. 39 nota 31, 40 note 32-33, 41-42 nota 39.12 AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [relacion], anonima, inviata dal maestro di campo Morales, [post 16 gennaio 1554], originale, edita integralmente in Bori 1916, pp. 30-34, probabilmente la relazione della commissione d’inchiesta imperiale trasmessa per conoscenza alla parte sabauda (con allegato: [discorso come francesi introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], [post 16 gennaio 1554], originale, edito integralmente in Bori 1916, pp. 34-35, probabilmente relazione completiva di quella della commissione d’inchiesta imperiale trasmessa per conoscenza alla parte sabauda). Per le modalità dell’avvicinamento e dell’introduzione vedere anche BRT, Manoscritti di storia patria III, Carteggio e Memorie 1553-1568, vol 2 MS, n. 22, 1553. Novembre Discorso come successe la presa di Vercelli, anonimo [Battista dell’Isola], copia, Dall’archivio Camerale, edita integralmente in Promis 1870b, n. XIV, pp. 545-550, probabilmente la relazione della commissione d’inchiesta sabauda. In Appendice le relazioni trascritte.

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Vercelli è in mane de Francesi

comando; ciononostante gli imperiali, seppure isolati, riuscivano a resistere nella torre e bastione della poco discosta porta del Servo e ancor più nella lontana porta di Strada dove avevano tutto il tempo di asserragliarsi e difendersi.

Il castello capitolava rapidamente trattandosi principalmente del centro di rap-presentanza del potere ducale, Camera e Corte, difeso da pochi soldati sabaudi col caporale, agli ordini del castellano commissario Tommaso Valperga, capitano poco avvezzo alle armi (solo sei-sette13 - non più di nove uomini di guardia14) ma la cit-tadella era in grado di resistere: i capi militari - il governatore maestro di campo Sebastián San Miguel da molti giorni ammalato (supplito nel comando dal capitano Pagano appena riuscito a entrare e avutone delega) e il consigliere ducale colonnel-lo Battista dell’Isola15 con l’ausilio dell’uomo d’armi, esperto in materia militare, Giuseppe Caresana16 - potevano organizzare la difesa dopo essere riusciti a ritirarsi affannosamente nella fortezza al pari del presidente generale provinciale Cassiano Dal Pozzo17.

Il grosso del contingente nemico - soldati francesi, tedeschi, svizzeri e italiani (forse 1.000 fanti e 300 cavalleggeri sprovvisti di artiglieria dovendo avanzare ve-locemente per non essere intercettati) - entrava in città la mattina del 18 novembre capeggiato dal Brissac, dal gentiluomo camerale del Re e governatore di Chivasso e Verolengo capitano Ludovico Birago18 e dal signore di Vassé e Presidente del Par-lamento di Torino Renato Birago19 e per l’alto numero si concentrava nella “piazza” (l’attuale piazza Cavour) e da lì poteva scorrazzare per la città, taglieggiando i citta-dini e spogliando le case, principalmente quelle “de Judios”20. Oltraggiate anche le strutture religiose ad eccezione del complesso domenicano di S. Paolo risparmiato e adoperato per il riparo dagli abusi; caso a cui dava eco il generale inquisitore della città fra Cipriano Uberti, decantandolo come atto miracoloso:

13 Vedere AST, Sezione Corte, LP, B, mazzo 99, fascicolo 1552-1553, lettera del governatore della città di Vercelli senatore Alberto Bobba al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; edita integralmente in Ferraris 1960, pp. 43-44 nota 47.14 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 27 novembre 1553, originale; edita parzialmente in Ferraris 1960, pp. 22, 40 nota 32, 45 nota 49, 57 nota 90.15 Su Battista dell’Isola, Stumpo 1990, p. 77 per la vicenda di Vercelli.16 Su Giuseppe Caresana, De Gregory 1820, pp. 106-107; Promis 1871, pp. 465-466; Dillon Bussi 1977, p. 77 per la vicenda di Vercelli; Viglino Davico 2008, pp. 83-84.17 Su Cassiano Dal Pozzo, Stumpo 1986, p. 207 per la vicenda di Vercelli.18 Su Ludovico Birago, Zapperi 1968b, p. 599 per la vicenda di Vercelli.19 Su Renato Birago, François 1968 senza menzione della vicenda di Vercelli.20 AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [relacion], anonima, inviata dal maestro di campo Morales, [post 16 gennaio 1554], originale; Bori 1916, p. 33.

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Doriano Beltrame

“Donde pensi tu che le tue pulcelle, e figlie da marito rimanessero intatte, quali in grandissimo numero erano in S. Paolo raccolte, Convento tanto vicino alla piazza, ove era la zuffa de i soldati, la Chiesa aperta, le case vicine al Convento piene de soldati; E mentre gli altri Conventi sono da’ soldati visitati, in questo non v’entra pure un soldato; anzi niuno ardisce accostarsi alle porte, ne del convento, ne della Chiesa”21.

In verità mossa accorta moderatrice del Brissac e fors’anche atto militaresco di buon volere per non esasperare gli animi, visto che la cittadella non era conquistata e i vercellesi potevano reagire all’arrivo dell’esercito imperiale; considerazione che avvalorerebbe l’asserzione espressa sui francesi ”che non fecer gran male per la Cit-tà, ma che pure ne fecero”22.

Quattro cannoni venivano prelevati dal Vescovado, ma “d’artigliaria nova”, prati-camente inservibili in quanto senza “balle ne monitione”23, per cui alla fine i francesi finivano per battere la cittadella solamente con un “canone, et un quarto”24.

A Milano intanto, dove era giunta la notizia di Vercelli occupata, il Consiglio Segreto riunito d’urgenza con il Castellano e il Contador general dell’esercito deci-deva di mandare immediatamente il Capitano di Giustizia nei castelli di Fontaneto d’Agogna e Galliate e ovunque necessitasse un presidio per l’approvvigionamento25

21 Uberti 1586, p. 208.22 Ranza 1769, pp. 14-17, di commento alle affermazioni di Modena e Corbellini.23 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 18 novembre 1553, originale; vedere inoltre per la situazione di Vercelli: CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 19 novembre 1553, originale.24 Affermazione del capitano Gio. Paolo Cicogna (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del capitano Gio. Paolo Cicogna al fratello collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, [Cittadella di Vercelli, 19 novembre1553], originale); differisce parzialmente il parere del conte Gerolamo Crotti, protagonista non militare: “con uno quarto di canono, et uno mezzo canono” (CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Vinzaglio, 19 novembre 1553, originale (con allegata: lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al conte Gerolamo Crotti, Asti, 25 novembre 1553, minuta).25 “Inteso questo subbito conferta la cosa tra noi del Consiglio et con il S.or castellano et S.or Contador, si è risciolto che il S.or Cap.o di Iustitia con li soi cavalli et tutto quello altro aggiutto che potrà haver da soi adherenti et amici, questa sera se ne vadi alla volta di Novara et intendi le provisioni che sono nel castello di Fontaneto et quello di Gayate et bisognandogli meglior presidio gli lo metti dando quello favor alle cose di là che la potrà et dreto gli segua con diligentia il capit.o Nicolò Secco con una compagnia de fanti trecento a quali si è provisto pur’ del danaro in quello meglior modo che si è possuto poi che il caso è di quella importanza che è, et di tutto si è datto subbito avviso al detto Ciconia acciò che tra tanto tenghi quelle cose a meglior recapito che può et avvisi s’altro intenderà” (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 18 novembre 1553, originale).

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Vercelli è in mane de Francesi

(ritenuti idonei i siti di Bolgaro - Borgovercelli - sebbene fosse smantellato il castello e Confienza26); inoltre era deliberato l’invio del capitano Nicolò Secco, eminente letterato e uomo d’armi di una certa fama27, con trecento fanti per le prime necessità d’intervento28 (da qui la leggenda di un suo audace atto: la raccolta della milizia, l’avanzata verso Vercelli facendosi precedere dalla notizia dell’arrivo di un grosso contingente imperiale e la fuga dei francesi terrorizzati)29.

Venivano mandati a Novara anche i capitani milanesi: Alessandro Maggi, Battista Zuverta, Francesco Sesto per concertare la condotta dell’intervento con il collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna30; il castello di Vinzaglio dei feudatari Crotti diventava invece punto nodale dei movimenti imperiali.

Nella cittadella di Vercelli resistente, dopo le richieste di soccorso del comando31 e di Carlo Manfredi di Luserna rocambolescamente uscito dalla città e recatosi a No-vara32, giungevano a più riprese i rifornimenti di picconi, badili, zappe, vettovaglie, inoltre alcune centinaia di soldati fatti affluire attraverso “la ponticella de la Cittadel-la”33: degli armati, 103 fanti giunti da Trino raccolti dal Pagano dopo inetto compor-

26 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del Capitano di Giustizia al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 19 novembre 1553, originale; CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al Capitano di Giustizia, Asti, 22 novembre 1553, minuta.27 Per Nicolò Secco sono ancora utilissimi, benché datati, i contributi di Adriani 1867, pp. 65-71, Benedetti 1923, pp. 203-229; Capuani 1925, Foffa 1937; una biografia piuttosto dettagliata è stata recentemente proposta da Cigala 2007.28 Vedere ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 18 novembre 1553, originale.29 Per il leggendario atto di “Nicolaus Siccus, Justitiae Praefectus” vedere Epistola M. Antonii Majoragii ad Jo. Moronum Cardinalem In qua narrat quomodo Nicolaus Siccus, Justitiae Praefectus Amissas Vercellas recuperavit, Mediolano, IX. Cal. Decemb. (23 novembre 1553) MDLIII (citata in Argelati 1745, col. 842, n. XXXIX; edita integralmente in Ranza 1769, appendice I-VII; Malaguzzi 2005, pp. 111-113; parzialmente in Adriani 1867, pp. 66-67.30 Vedere ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 18 novembre 1553, originale. Su Gio. Pietro Cicogna, Baiocchi 1981 senza menzione della vicenda di Vercelli.31 Vedere ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore della cittadella di Vercelli / maestro di campo Sebastián San Miguel, dell’uomo d’arme Giuseppe Caresana e del colonnello Battista dell’Isola al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, [Cittadella di Vercelli, 18 novembre 1553], copia. 32 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale. Su Carlo Manfredi di Luserna, Merlotti 2006, p. 656 per la vicenda di Vercelli.33 AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [discorso come francesi

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Doriano Beltrame

tamento dell’alfiere casalese34, 40 e poi 50 e a seguire altri ancora da Vinzaglio, per la maggior parte condotti dal capitano Gio. Paolo Cicogna, fratello del Governatore di Novara, e guidati dal caporale Giacomo Antonio Tettoni detto il Granozzo35 e anche al seguito del detto capitano Pagano; entravano inoltre il castellano di Novara Aloís Suarez de Figueroa per coadiuvare il comando “sendo il m.ro di campo San Miguel indisposto”36, il capitano Nicolò Secco e il conte Manfredo Tornielli, movimenti, tut-ti questi, che illustrano la paradossale situazione in atto: i Francesi in azione all’in-terno alla conquista della cittadella, per impossessarsi stabilmente della città, gli Imperiali all’esterno in affluenza nella fortezza di nascosto senza essere intercettati nei dintorni, nonostante “uno stendardo de cavalli de nemici, girava la muraglia de fori, batendo le strade, di continuo”37.

Nella generale confusione, i vercellesi senza coordinamento, ed esterrefatti, si trovavano nell’impossibilità di organizzare la difesa; il governatore Bobba e il pre-sidente Dal Pozzo, prima di riparare in cittadella, tentavano “ogni opera, aciò li de la città prendesseno le arme, ne mai vi fu persona la qual facesse alchuna dimostra-cione, salvo m.r Augostino de Valdengo, qual trovai con una picha solo, el qual fu sforsato retirarsi in casa sua”38.

Per le vie cittadine combattimenti erano ingaggiati dalle fazioni armate quando

introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], [post 16 gennaio 1554], originale; Bori 1916, p. 30.34 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale.35 Il nome del caporale Tettoni compare a riguardo della “piazza” lasciata vacante nel castello di Novara per la morte del titolare e assegnatagli per interessamento del Governatore di Novara: “sapendo il notabile servitio, che fece a detta M.tà Giacomo Antonio Tettono detto il Granozzo in far’ la guida al tempo, che vostro fratello andò al soccorso di la Cittadella di Vercelli, oltre che gli tornò poi un’altra volta con zappe, et badili, et è persona, di la quale si ne potemo servire in altri bisogni” (ASM, CS, busta 177, fascicolo 1554 Febbraio (1-15), ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Milano, 8 febbraio 1554, c. 153r, minuta; per l’acquisizione della piazza: ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Casale, 18 gennaio 1554, minuta); anche Rabà 2016, p. 408 a riguardo delle piazze nei castelli.36 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 19 novembre 1553, originale.37 AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [discorso come francesi introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], [post 16 gennaio 1554], originale; Bori 1916, p. 34.38 AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale.

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venivano a contatto, con alterne fortune. Il prode colonnello Isola con sette soldati muniti di picche, durante una sortita per raccapezzarsi della situazione, si imbatteva in sessanta archibugieri nemici, contrastandoli impetuosamente prima di ritirarsi. Moriva Luchino di Bagnolo; periva l’inviso Châtellard lacerato da diciassette ferite nonostante la resa39.

Particolarmente ardimentoso l’operato del Caresana che pur

“non essendo in quel tempo da sua Ma.tà catolica stipendiato mosso solo dal’af-fettione che ci portava sprezzato ogni pericolo tanto dela persona quanto dela casa & facoltà sue, & di suo fratello fu il primo ch’intrasse per soccorso armato nela citadela di questa Città in qual hora si combatteva tutta via per le contrade, Et in essa cittadella il detto capp.n Giuseppe aiutato da alcuni spagnuoli dela compagnia del molto mag.co S.r San Michaele m.ro di campo di detta sua Ma.tà catolica condusse quattro trombe & dodicj pignate di fuogo artificiale & due rubbi de polvere d’archibuso, le quali monitioni esso capp.n Giuseppe si trova-va in quel tempo haver’ in casa sua Dapoi per esser’ esso pratico in questa cità per il suo meso il sudetto m.ro di campo mandò due volte spiar’ ala piazza quel-lo che facevano Inimicj, Et per opera di detto capp.n esso m.ro di campo hebbe commodità de due messi di quali l’uno andò con lettere sue a Casale, & l’altro a Novara per dimandar’ soccorso quale soccorso da Novara gionse qui a tempo nel qual giorno circa ale vintidue hore essendo andato il detto m.ro di campo ala porta di Cervo conoscendo ch’era il servigio de S. M.tà catolica et nostro il difenderla ne dette carico al detto capp.n Giuseppe con XV. soldati dela com-pagnia di esso m.ro di campo Il qual carico accettò voluntieri & ivi stette sino ala sira Poi mutando consiglio giudicando esso m.ro di campo che l’opera di detto cap.n Giuseppe era di maggior’ servigio nela cittadela lo richiamò dove ritornato poi che fu notte esso capp.n d’ordine d’esso m.ro di campo si callò con una corda nel fosso con alcuni guastadori per fabricarvi una casa matta di fas-sine, & terra la qual casa matta perfece inanti che fusse giorno Venuto il giorno poi francesi comminciorono a battere Et essendo ferito a morte un artigliero di nostri il detto capp.n per non pretermettere alcuna sorte di servitio in tanto bisogno servì anche di artigliero adoprando una pezza d’artigliaria qual’ era a una difesa di modo che tutti li sudetti servicij furono di grandissimo giovamen-

39 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, pp. 17, 39 nota 31. Esplicito sul signore di Châtellard, poco amato dai sudditi ducali, il giudizio di Provana: “molto mal contenti et sodisfatti, et mezo sdegnatti doppo la venuta di mons.or di Chiattellar, che in gloria sia, del qualle nol posso dir senza gran cordoglio, mi maraviglio come havesse datto tanta mal contentezza universalmente a tutti, da doi o tre in poi, et non procurasse di tener saldi li animi delli servitori vecchi, et non disperarli” (AST, Sezione Corte, LP, P, mazzo 64, lettera di Andrea Provana di Leinì al duca di Savoia Emanuele Filiberro, Milano, 31 dicembre 1553), anche Segre 1898, pp.10-11.

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to ala conservatione di detta cittadella, & conseguentemente di questa città”40.

Fatti che mettevano il Caresana in luce presso il duca Emanuele Filiberto, disser-randone la professione delle armi, offuscata da un crudele atto criminale di parenta-do: occasione di riscatto e di fulgida carriera41.

Il capitano Pagano solertemente cercava di rafforzare la cittadella:

“misi tre cestoni alla porta la quale fuo serrata di terra piena, et dissegnaj in altro locho, dove era bisogno, et così cominciaj a lavorare, con tutti, li mej soldati, in compagnia de li spagnoli del S.r ma.ro del Campo: quali animosa-mente feceno, bono riparo, et di bonissimo core, unitamente cominciarono, a travagliare con sappe, et badili, et con quello che trovarono, et da poj per mezza hora feci rinfrescare, li soldati, et per uno quarto di hora, chi haveva fame, e sette, magnava, poi feci una allegria doppia sparando quella pocha artegliaria, che li era, et senza dimora di tempo saltaj fora con cerca cinquanta soldati, con bravarija dove, attacamo la scaramuccia, con francesi, et donaj il focho, ad una infinità de stantie, aciò non potesseno li nemici, goldere, et tenerli, alla largha, che certo parse, el, socorso de doj milia fanti, alli travagli che li donassimo, di modo che loro si aretirorono alla piazza, cominciando, a serare le strade ma-estre, et noj aretiramosi dentro la Cittadella con tanta allegrezza del mondo, e tornamo, al nostro lavore, attendendo, a lavorare”42.

Al rinforzo provvedeva anche il capitano milanese Giacomo Antonio della Cro-ce43.

40 AST, Sezioni Riunite, Camera dei Conti, Piemonte, PCF, Articolo 689, Controllo di Finanze, mazzo 10, 1561 Gennaro. Registro di lettere patenti di particolari, Minuta di lettere di concession d’arme nuove per il capp.n Giuseppe Caresana etc., Vercelli, 15 aprile 1561, cc.118r-119r; edite integralmente in De Gregory 1824, pp. 544-550; parzialmente in Adriani 1867, pp. 79-80; Dillon Bussi 1977, p. 77.41 Giuseppe Caresana, fratello di Ludovica, matura le prime esperienze di arte militare nei ranghi dell’esercito sabaudo nel periodo di dipendenza milanese delle terre di Piemonte, tenuto in grande stima da Emanuele Filiberto per la sua professione delle armi: si distingue nelle vicende di Vercelli (1553), Ivrea (1554), Crevacuore (1556), è comandante di Mondovì nel 1559, governatore di Savigliano nel 1561, governatore di Torino nel 1566 e governatore di Mondovì nel 1573; battezza il figlio Carlo Emanuele come il principe di Piemonte e futuro duca Carlo Emanuele I, figlio di Emanuele Filiberto; è autore di un Discorso intorno al forte di Villafranca […] al Duca Emanuele Filiberto capitano generale dell’esercito di S. M. e di alcuni fantomatici manoscritti Sull’Arte della guerra (De Gregory 1820, pp. 106-107; Promis 1871, pp. 465-466; Dillon Bussi 1977, pp. 77-80; Viglino Davico 2008, pp. 83-84). Fra i titoli: Conte Palatino, Cavaliere Aurato, Ciambellano del duca Carlo Emanuele I, Cavaliere del Toson d’Oro (Teodoro Arborio Mella, Genealogie, famiglia Caresana già de Mascolini, fotocopia in ASV).42 AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [discorso come francesi introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], [post 16 gennaio 1554], originale; Bori 1916, pp. 34-35.43 “Capitan Jacobo Antonjo de la † gentil honbre mjlanes” (AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III,

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Vercelli è in mane de Francesi

La ritirata.

Non riuscendo a espugnare la cittadella e nel pericolo di arrivo dei primi soc-corsi, capeggiati da Francesco d’Este usciti da Asti e in movimento presso Casale44 e dell’esercito imperiale in “camino vicino a, Moncalvo”45, i soldati di Francia si ritiravano dalla città con un bottino considerevole (ori, argenti, gioielli, tappezzerie di Casa Savoia e tutto quanto di più pregevole e asportabile).

René de Challant e familiari, Giovan Francesco Costa conte di Arignano e Polon-ghera, madama di Frossasco, il tesoriere Locarni e il maestro camerale / controllore Giovanni Beaumont detto Carrà venivano portati via dai francesi per garantirsi il ritiro e poi liberati, una volta svincolati dalla pressione nemica tranne l’ostaggio eccellente Challant e il possibile traditore Carrà46; il maggiordomo ducale capitano Cristoforo Duc47 era trattenuto e poi rilasciato a seguito di riscatto, mentre il gover-natore della città senatore Alberto Bobba48 preso, riusciva a sottrarsi e nascondersi; durante il drammatico saccheggio, il canonico Giovanni Antonio Costa impediva che i francesi si impossessassero della S. Sindone49.

Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [relacion], anonima, inviata dal maestro di campo Morales, [post 16 gennaio 1554], originale; Bori 1916, p. 32).44 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale.45 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Asti, 22 novembre 1553, minuta.46 Vedere AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale. Controverso il sequestro del collaterale Cacherano d’Osasco ricordato solo da Duc (AST, Sezione Corte, LP, D, mazzo 25, fascicolo 1553. in 1554. Lettere scritte al Duca dal Mastro di Camera Ducale Cristoforo Duc, n. 12, lettera del maggiordomo ducale capitano Cristoforo Duc al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; edita parzialmente in Ferraris 1960, pp. 20, 39 nota 30, 40 nota 33, 41 nota 39).47 Su Cristoforo Duc, Signorelli 1992, p. 725 per la vicenda di Vercelli.48 Nella lettera del colonnello Isola del 27 novembre 1553 è menzionato “Emilio Boba”, che Ferraris 1960, p. 42 nota 47, erroneamente suppone trattarsi del governatore della città Alberto Bobba immaginando il doppio nome Emilio Alberto; in realtà trattasi di “Emilio fig.lo dil Collateral Bobba”: il figlio del collaterale Marcantonio Bobba (AST, Sezione Corte, LP, V, mazzo 6, fascicolo 1544, 1548 in 1565 Lettere varie del Conte Valperga di Masino […], Lettera del luogotenente generale surrogante del Ducato di Savoia Gio. Amedeo Valperga al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 settembre 1556, originale).49 Sul salvamento della Sindone a Vercelli sempre fondamentale Ferraris 1960, pp. 17-25, 39-45 note 31, 34-48, 50-55.

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Doriano Beltrame

Le conseguenze.

Il saccheggio pieno, ma anche incontrollato, induceva con prontezza il Duca, tre giorni dopo l’impresa, il 21 novembre, a emanare un editto per intimare la consegna di “oro argento tapeti lingeria et altre robbe di qual si vogli sorte sia de S. Al.a Corte-giani o di particulari di Vercelli o vero forastieri” ritirato “in case private o Conventj et Chiese” compresa la segnalazione di francesi riparati nelle abitazioni, nonchè di persone di altra nazione “servente a quella fattione”50, riferimento diretto al partito filo-francese. Il 24 novembre, un secondo bando era emesso dal Duca, con cui tra l’altro diffidava i vercellesi dall’ospitare forestieri51. Le ordinanze erano richiamate un mese dopo, il 29 dicembre52, segno della situazione ancora confusa.

Contemporaneamente era tentato il riscatto dei beni più preziosi del tesoro sabau-do, finiti in mano francese:

“si, è, concluso, de mandar, uno trombetta, hoggi da mons.r de Brisach, et scriverli, che per esser il triangolo, lo licorno, et la veste del’ordine, con loro collari, cose antiquissime, del Ill.ma Casa de Savoya, sia contento, de ritornarli per un honesto precio, et massime, che non sono cose, di gran valor staremo ad aspettar, quello responderà”53

senza però risultato.Dopo l’iniziale stupore per l’incredibile azione francese, seguivano i rallegra-

menti “per la recuperatione di Vercelli”, non senza un’irriguardosa ‘chiosa’ del Go-vernatore di Pavia, di compiacimento “che francesi habbino così poco honore de la sua impresa”54, quasi a sminuirne l’accaduto.

Il Capitano di Giustizia non attendeva migliore fortuna per far notare il suo zelan-te contributo al salvamento55.

50 AST, Sezione Corte, PD, Serie Rossa, mazzo 185, bando del duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 21 novembre 1553, c. 310r-v, minuta; edito integralmente in Bori 1916, pp. 35-36.51 Vedere AST, Sezione Corte, PD, Serie Rossa, mazzo 185, [Bando contra quelli che non vogliono notificare li francesi che suono rimastj in Vercelli Et contra quelli che non vorrano consignare le litere che se scriveno o riceveno] del duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 24 novembre 1553, f. 311r, minuta; edito integralmente in Bori 1916, p. 36.52 AST, Sezione Corte, PD, Serie Rossa, mazzo 185, bando del duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 29 dicembre 1553, f. 322r, originale emendato.53 AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 27 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 57 nota 90.54 Affermazione del governatore di Pavia (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore di Pavia Gioan Tommaso Gallerati al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Pavia, 21 novembre 1553, originale).55 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del Capitano di Giustizia al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 24 novembre 1553, originale.

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Vercelli è in mane de Francesi

A rimanenza, risaltavano le spese per le operazioni di soccorso; l’esborso di un centinaio di scudi da parte del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pie-tro Cicogna:

“Io ho speso qualchi centenara de scuti in espedire Cap.ni per far’ più gente fusse possibile per questo effetto de Vercelli et ancora, in mandar’ avisi per la posta si a V. Ecc.a como a Milano, et non ho voluto aspettar’, visto il danno pos-sea seguire, me fussero mandati d’altra parte, parendo a V. Ecc.a de ordinar’ me siano pagati et reimborsati, como credo lo farà, occorendo altri bisogni potria valermene, et spenderli in servitio di Sua M.tà. Li soldati che introrno con mio fratello nella Cittadella, non hano havuto cosa alcuna, per tal effetto, ni manco sono soldati de ordenanza, anzi sono amici de casa, parendo a V. Ecc.a d’haver in consideratione questa tal loro bona opera, et rischio, il qual Dio sa quanto ha giovato per conservatione di quella cittadella”56,

ma maggiormente le corresponsioni del feudatario di Vinzaglio il conte Gerolamo Crotti, giureconsulto, di più di trecento scudi:

“Io tengo certo che a V.ra Ecc.a sia notissimo, in quale maniera me sia diportato nella ricuperatione fatta per V.ra Ecc.a nella citade di Vercelli et come io fui delli primi in soccorerla, prima de fanti cinquanta et poi de altri cinquanta, et tutte le genti, quali intrarono nella cittadella, si il sabbato di notte, come la domini-ca, li fecci introdure io da miei homeni, et mie spie, et come mandai vituaglia di pane et zappe et badilli, nella detta cittadella, et sempre me li ritrovai in persona, et come feci subito quatrocento homeni, con li quali mi sforzai fare, quanto convenea allo serviggio di Soa M.tà et de V.ra Ecc.a, et tutte le genti, quali andorono a quella impresa, mentre giongea l’essercito di V.ra Ecc.a massime quelle dil S.r Capit.no di Giustiza, quali passavano ducento boche, computando li cavalli, et la sera a cena, et la matina allo disinare allogiarono a mie sole spese nello castello di Vinzaglio, si come Sua Sig.ria ne fa ampla fede, et tutte le poste mandate secondo l’occorenza suono state pagate da me, et le mie gienti, tutte suono state pagate da me, oltre il vivere, per il che me ritrovo haver’ speso in questo serviggio più de trecento schuti”57,

56 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 21 novembre 1553, originale (con allegata: lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Asti, 25 novembre 1553, minuta). 57 ASM, CS, busta 172, fascicolo 1553 Dicembre, lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 26 novembre 1553, c. 53, originale (con allegata: lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al conte Gerolamo Crotti, Baldichieri, 3 dicembre 1553, c. 54, minuta). Vedere inoltre di Crotti: ASM, CS, busta 174,

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Doriano Beltrame

con rifiuto di ripartizione delle spese della condomina castellana Ludovica Caresana Mascolini, sorella dell’uomo d’arme Giuseppe Caresana58, vedova di Galeazzo Crot-ti e madre-tutrice del pupillo Alfonso Crotti, per inimicizia59 (vicenda del crudele

fascicolo 1553. Non datate, lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, [Vinzaglio, 19 novembre 1553], originale; ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al conte Gerolamo Crotti, Asti, 25 novembre 1553, minuta (allegata a: lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Vinzaglio, 19 novembre 1553, originale).58 Nella genealogia della famiglia Caresana già de Mascolini, dal familiare di casa Savoia e appaltatore dei dazi di Vercelli Francesco Caresana discendono i figli: Ludovica, Isabella, Giovanni Domenico e Giuseppe. Ludovica sposa in prime nozze il conte Galeazzo Crotti, in seconde nozze Gerolamo de Rossi e in terze Gerolamo della Porta (Teodoro Arborio Mella, Genealogie, famiglia Caresana già de Mascolini; Rossi di Masserano; Porta [della], fotocopie in ASV); vedere anche in ASM, FC, busta 492, fascicolo 3, 1541 9. Agosto. Instromento di Dote della S.ra Ludovica Masculini Caresana moglie del Co: Galeazzo Crotto Avo del Donante, con l’assicuramento d’essa Dote sopra tutti li suoi beni, per scudi 1250.59 La coabitazione di Gerolamo e Ludovica nel castello di Vinzaglio si contraddistingueva per il disaccordo e per le iniziative separate, specialmente attinenti la custodia armata, come si desume da missive della Cancelleria milanese: in una, di fine anno 1551, di Gonzaga: “Havendo nuoi visto quanto ni ha supplicato il Dottore m.r Hieronimo Crotto, et parimente quello che per opposito ha supplicato mad.a Lodeviga Mescollina come tutrice del menor’ suo figliuolo, et al tutto fatta la debita considerazione; se siamo rissoluti che durante li presenti sospetti se habbi da dare la carriga della custodia del castello de Vinzaglio al detto m.r Hieronimo. Però voi come meglio informato della qualità, et importanza de quel luogo stabilirete che numero de soldati vi haverà da tenire per detta guardia, facendo che alla spesa d’essi contribuisca la detta mad.a Lodeviga come tutrice d’esso menor’ per la rata sua portione” (ASM, CS, busta 139, fascicolo 1551 Dicembre (16-31), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Casale, 26 dicembre 1551, c. 412, minuta); in un’altra, poco più tarda, del marzo 1552, sempre di Gonzaga: “Li agenti de Alphonso Crotto pupillo condomino di Vinzalio, ni hano sporto la qui inclusa supplicatione, per quale si duoleno della gravezza se gli da per la guardia di quello Castello, quale dicono esser intolerabile alle sue poche facultà, oltra che la qualità del luogo non lo ricerchi” (CS, cartella 146, fascicolo 1552 Marzo (16-31), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna, Casale, 19 marzo 1552, c. 113, originale). Lo stesso argomento delle guardie anche in una lettera di Cicogna: “Alli mesi passati V:ra Ecc:a ordinò che si dovesse mettere otto homini nel castello de Vinzaglio e così hano perseverato fin al presente, con la pagha d’un castellano, li quali portan una spesa eccessiva a quelli minori patroni di esso castello e m.r Hyeronimo Crotto gli usa termini non troppo boni e havendo hauto ricorso le altre parte da me con domandarmi rimedio non ho voluto farli altra provisione che prima non avisasse a V:ra Ecc:a Dirò ben che la spesa delli otto fanti et castellano è carico incomportabile nè il loco merita tal’ cura e che se potria tuor’ dali medemi patroni et homini una sicurtà de guardarlo da robaria si come si è fatto a tutti gli altri circonvicini de questo paese” (CS, busta 150, fascicolo 1552 Luglio-Agosto, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 5 luglio 1552, cc. 171 r-v, 177r-v, originale). La risposta di Gonzaga sembrava liquidare la questione: “Quanto a la guardia che si fa nel castello de Vinzalio siamo del parer vostro che debba bastare pigliar una buona segurtà dali patroni” (CS, busta 150, fascicolo 1552 Luglio-Agosto, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Benevagienna, 1° luglio 1552, c. 173r, minuta). Ma ostilità francesi sopraggiunte determinavano il cambiamento del parere: “Ho havuto una di V. S. data alli 15. del presente sopra il particular’ del Castello di Vinzalio, et per risposta dico non haver’

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atto criminale di parentado compiuto dal Caresana).Il Crotti, dopo le richieste e l’invio delle distinte, percepiva il pagamento con

mandato emesso a gennaio 155460; il Governatore di Novara rassicurato sul saldo delle spese riceveva per sè e per la città di Novara l’encomio per la salvaguardia novarese e per il soccorso alla cittadella vercellese61.

Le spese aggiunte sia per il movimento delle truppe di Francesco d’Este passate per Casale e giunte a Vercelli, sia per lo spostamento dell’esercito imperiale arrivato fino a Moncalvo e poi ripiegato a Baldichieri (fra Asti e Valfenera) dopo la notizia del ritiro francese, rischiavano invece di rendere insufficiente la somma di trentamila scudi, già stabilita per le forze in armi e che il tesoriere milanese Cristoforo Fornari cercava faticosamente di raggruzzolare62.

ordine alcuno da Sua Ecc.a sopra detto Castello. Di più mi par’ che V. S. debbia considerar’ come so bene che la non mancherà, che se Sua Ex.a alli 9. gli dete la comissione ad supplicatione delli heredi del S.r Conte, di quali scrive, che da quello giorno in qua le cose sono sorte in altro esser’ di quello che alora erano messe essendosi perso Verua et se da qui a drieto si è guardato bene per haver’ hora Francesi più vicini, è conveniente guardarlo hora meglio” (CS, busta 150, fascicolo 1552 Luglio-Agosto, lettera del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Milano, 22 luglio 1552, c. 344r, minuta). Del giureconsulto Gerolamo anche un suggerimento a Gonzaga di pronunciare delle preci pubbliche in occasione della morte del duca di Savoia Carlo II, che evidenziano i suoi rapporti cordiali con le autorità di governo: “Havendo inteso sua Ecc. ciò che gli scrive il S.r Hieronimo Crotto circa il far dela oratione nelli funerali, o essequie, per la morte del S.r Duca di Savoya, ha detto, che standosi nella strettezza del danaro, che si fa, gli pare, che di necessità bisogni lassar di far la spesa, che in questo intraria, poi che non ce n’anche da supplire ad altre, che sono di maggior necessità” (CS, busta 166, fascicolo 1553 Agosto (16-31), lettera del segretario cesareo Gerolamo Rozono al grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna, dal Campo cesareo a Castellar, 21 agosto 1553, originale).60 Vedere ASM, CS, busta 177, fascicolo 1554 Gennaio (26-31), mandato di pagamento del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al conte Gerolamo Crotti, [Milano], 26 gennaio 1554, c. 62r-v, minuta.61 Encomio semplice scritto: per Cicogna, ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Asti, 22 novembre 1553, minuta; per i Deputati di Novara, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga ai Deputati di Novara, Asti, 25 novembre 1553, minuta. Riferite inoltre agli elogi: CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 21 novembre 1553, originale (con allegata: lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, Asti, 25 novembre 1553, minuta); CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 27 novembre 1553, originale; CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 30 novembre 1553, originale; ASM, C, busta 61, fascicolo 1550/1565 circa, lettera della città di Novara al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Novara, 1 novembre [dicembre] 1553, copia.62 Vedere ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del tesoriere Cristoforo Fornari al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 18 novembre 1553, originale;

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In ambito sabaudo, per l’incertezza della situazione, era persino reclamata al Duca da parte del governatore Bobba la somma pregressa di trecento scudi: “Io resto creditore di più di 300. scuti come già fu datto il conto alla felice memoria di Sua Ex.a et di novo l’ho remesso in mani del S.r Collonello Insula. Vivo di credito. Vorei poterlo mantener a, servitio di V. Alt.a et honor mio ”63.

A sua volta, il feudatario Crotti, scaltramente, approfittava dell’occasione per far intendere a Gonzaga le ultime implicazioni del disaccordo di casata, provoca-to dall’omicidio di due suoi fratelli: il crimine compiuto a Vercelli dal Caresana, che, a suo dire, rimaneva nel ruolo militare, a libro paga dell’esercito e nonostante la “taglia” attivo nella cittadella vercellese (con funzioni addirittura di aiutante del governatore64), impegolata Ludovica Caresana Mascolini, mandante dell’omicidio secondo l’appellante Crotti:

“quella scelerata che fecce assassinare li miei fratelli […] V.ra Ecc.a ha da sa-pere che quello Giosepho, quale con tanto tradimento assassinò li miei fratelli per molto tempo è stato tenuto dallo S.r capit.o Sancto Michele nella cittadella di Vercelli et hora ultimamente gli era anchora, como ho verificato allo S.r Ca-pitanno di Giustizza. Il che molto aspro mi pare, che uno bandito per una tanta sceleragine, havendo taglia adosso, sia tenuto in quella cittade, dove ha com-messo il delitto, dalli officiali di Sua M.tà atteso che ha commesso li homicidij essendo luij allo stipendio di Sua M.tà contra a doi gentilhomini anzi doi agnelli con il baso di Giuda, ne io credo esser’ si poco servitore di Sua M.tà ne di V.ra Ecc.a che se mi debba fare per il capit.o S.to Michele uno si evidente carico nello honore et nella vita contra la espressa mente di V.ra Ecc.a“65.

CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del tesoriere Cristoforo Fornari al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 21 novembre 1553, originale.63 AST, Sezione Corte, LP, B, mazzo 99, fascicolo 1552-1553, lettera del governatore della città di Vercelli senatore Alberto Bobba al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 44 nota 47.64 Il Caresana, a riguardo della professione delle armi, è ricordato “non […] in quel tempo da sua Ma.tà catolica stipendiato” (AST, Sezioni Riunite, Camera dei Conti, Piemonte, PCF, Articolo 689, Controllo di Finanze, mazzo 10, 1561 Gennaro. Registro di lettere patenti di particolari, Minuta di lettere di concession d’arme nuove per il capp.n Giuseppe Caresana etc., Vercelli, 15 aprile 1561, c.118r; De Gregory 1824, p. 545; Adriani 1867, p. 79; Dillon Bussi 1977, p. 77) a causa della triste vicenda del duplice omicidio, tuttavia attivo “in nome del S.or m.ro di Campo San Michel” (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore della cittadella di Vercelli / maestro di campo Sebastián San Miguel, dell’uomo d’arme Giuseppe Caresana e del colonnello Battista dell’Isola al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, [Cittadella di Vercelli, 18 novembre 1553], copia).65 ASM, CS, busta 172, fascicolo 1553 Dicembre, lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 26 novembre 1553, c. 53, originale. Episodio della famiglia Crotti quasi ignoto, riferito solo nella scheda di Dillon Bussi 1977, p. 77. Non giovevoli

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Vercelli è in mane de Francesi

Il fatto grave era accaduto nel 1551, commesso dal Caresana allorché

“ritrovandosi in Vercelli a raggionamento con Hercole et Simeone fratelli di Crotti venero insieme secondo l’accidente del discorso alhor fatto a, parolle corucciose et dalle parole a, fatti per il che essi fratelli de Crotti rimassero feriti onde poi morsero”66,

con conseguente condanna al bando e confisca dei beni; proscrizione precludente di fatto la sua presenza a Vercelli. Con tutto ciò, Gonzaga, da accorto governante, liqui-dava lestamente l’impiccio: “Male potemo creder che il Caresana67 vostro aversario

le ricerche su beni e retaggi dell’antica casata (in particolare le indagini di Cerrati 1910; Gardinali 1976; Andenna 1982; Dessilani 2001; Pasquino 2005), in quanto basate sulla documentazione in ASM, FS, dove, per dirimere le controversie, sono conservati solo gli istrumenti necessari per determinare gli assi ereditari senza l’enumerazione successiva di tutti i rampolli delle linee genealogiche. Pertanto, della triste vicenda cinquecentesca dei Crotti è possibile attualmente solo individuarne i contorni. Dopo che i beni familiari erano ritornati indivisi (alla morte di Gerolamo [I] e Simone) nell’eredità del loro fratello Antonio Crotti, i diritti finivano, negli anni Trenta del Cinquecento, alla sua morte, in eredità ai figli: Alessandro, Lancillotto [II] e Galeazzo [II]. Alla morte di Alessandro nei primi anni Quaranta del Cinquecento (esclusa la figlia Ippolita, per sentenza del Senato del 1546, nonostante l’eredità universale testamentaria), la quota ereditaria entrava nei possedimenti di Lancillotto [II] e Galeazzo [II]. La morte sopraggiunta di Lancillotto [II] indirizzava la propria quota di beni al figlio Gerolamo [II] giureconsulto (altri due figli erano gli assassinati Ercole e Simone mai menzionati negli atti in quanto non primigeni). Pertanto, nel 1547, con apposita permuta e transazione, zio e nipote (Gerolamo [II] e Galeazzo [II]) stipulavano l’accordo per la sistemazione delle proprietà. Dopodiché, la morte di Galeazzo [II], lasciava discendente erede, per la sua parte, il figlio Alfonso pupillo, con tutrice la madre Ludovica Caresana Mascolini. In tale situazione, di presenza di minori, l’amministrazione dei beni diventava prerogativa, provvisoria, di Gerolamo [II], tanto da ottenere, nel 1555, dal re Filippo II di Spagna, il titolo comitale dei feudi (per le vicende patrimoniali Pasquino 2005, pp. 94-107, con alcune inesattezze negli assi ereditari; per gli istrumenti ASM, FC, busta 488 e per istrumenti e riferimenti agli atti, in ordinanze della Magistratura del 1641, busta 492, fascicolo 3). Che Gerolamo [II] fosse in quel periodo l’esclusivo gerente del diritto di proprietà è verificabile anche dalle lettere patenti dei governatori generali reggenti di Milano: “Iudicando noi atto a questo et molto maggiore cosa il Conte Hieronimo Crotto si per conto de suoi feudi quanto per altri rispetti havendolo sempre conosciuto affettionatissimo al servitio di Sua M.tà, Per tenor’ delle presenti per l’autorità quale tenemo, lo deputamo a questa impresa di andar’ a riveder’ l’esser’ et qualità di […] loci suoi de Robbio, Vinzalio et altri che lui ha […] con quale possa metter’ ordine alle guardie che si fano per li homini di essi loci per conservatione sua” (ASM, CS, busta 190, fascicolo 1554 Dicembre 16-31, ordini dei governatori generali reggenti del Ducato di Milano il presidente del Senato Pietro Paolo Arrigoni e il grancancelliere Francesco Taverna, rispettivamente a Gerolamo Crotti e al colonnello Vistarino, Milano, 20 dicembre 1554, minuta). 66 Vicenda del duplice omicidio commesso da Giuseppe Caresana ricordata nelle lettere patenti di grazia, in AST, Sezione Corte, PD, Serie Rossa, mazzo 233, 1569. in 1575. Registro di Concessioni del Duca Emanuel Filiberto a favore di Vassalli, e Particolari cioè di Nobiltà; d’Armi; di Legitimationi; d’Impieghi; di Donazioni; di Pensioni; di Confermazione di Privilegj; e d’altre Grazie, [23. Marzo = Patenti di grazia accordata a Giuseppe Caresana Consigliere, Ciambellano, Colonello, e Governatore della Città, e Cittadella di Torino per li due omicidij da esso commessi nel 1551. nella Città di Vercelli], Torino, 23 marzo 1571, cc. VIIIr, 165r-166v; vicenda e lettere patenti citate in Dillon Bussi 1977, pp. 77, 79.67 Il preciso riferimento di Gonzaga al personaggio Caresana, sta a significare che il Governatore

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si trovi nella Cittadella predetta però n’havemo scritto al M.ro di Campo San Michele et datogli quelli ordini che conviene”68.

La vicenda Crotti - Caresana Mascolini non era però la sola a compromettere San Miguel, in quanto dalla parte imperiale, escluse gravissime reità nello ”strano acci-dente di Vercelli”, una commissione d’inchiesta, diretta dal senatore Juan (Junio) Va-rahona con l’ausilio del contador principal dell’esercito Francisco de Ivarra69 inda-gava proprio sul governatore della cittadella per negligenza nella custodia-vigilanza della città; da qui la supplica di San Miguel a Gonzaga per evitare sanzioni70, alla fine mantenuto nel ruolo di Maestro di Campo / Governatore della cittadella di Vercelli71.

Ugualmente dalla parte sabauda, l’indagine era conclusa senza riconoscimenti di colpe pesantissime, con il colonnello Isola conduttore dell’inchiesta che suggeriva clemenza per il castellano Valperga: “qual in effetto non se trova colpevolo, salvo de viltà de animo, et pocha esperientia di guerra, ma non se li trova malitia, et sempre dove non, è, malitia hano usato li principi de misericordia”72. In veste di intercessori

generale era al corrente della vicenda.68 ASM, CS, busta 172, fascicolo 1553 Dicembre, c. 54, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al conte Gerolamo Crotti, Baldichieri, 3 dicembre 1553, minuta (allegata a: lettera del conte Gerolamo Crotti al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 26 novembre 1553, c. 53, originale); “quegli ordini che conviene”, menzionati da Gonzaga, sono irreperibili.69 Per la commissione d’inchiesta, ASM, CS, busta 175, fascicolo 1554 Gennaio (1-15), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al contador general dell’esercito Francisco de Ivarra, Casale, 9 gennaio 1554, c. 182r, minuta; CS, busta 175, fascicolo 1554 Gennaio (1-15), lettera del contador general dell’esercito Francisco de Ivarra al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, Milano, 11 gennaio 1554, c. 219, originale; ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, Casale, 16 gennaio 1554, minuta; CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, Casale, 16 gennaio 1554, minuta (con allegata: supplica del governatore della cittadella di Vercelli / maestro di campo Sebastián San Miguel al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, [post 16 gennaio 1554], copia); CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al contador general dell’esercito Francisco de Ivarra, Casale, 16 gennaio 1554, minuta.70 Per la supplica ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), supplica del governatore della cittadella di Vercelli / maestro di campo Sebastián San Miguel al governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga, [post 16 gennaio 1554], copia (allegata a: ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, Casale, 16 gennaio 1554, minuta). 71 Alla fine del 1554 San Miguel è ancora nel ruolo di Maestro di Campo: “In questa hora che sono le vinti due ho receuto una litera del maestro di campo San Michaele” (ASM, CS, busta 190, fascicolo 1554 Dicembre 16-31, lettera del collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna ai governatori generali reggenti del Ducato di Milano il presidente del Senato Pietro Paolo Arrigoni e il grancancelliere Francesco Taverna Novara, 23 dicembre 1554, originale).72 AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 3 dicembre 1553, originale; anche Ferraris 1960, p. 40 nota 32. Errata

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Vercelli è in mane de Francesi

gli esponenti della potentissima e fedelissima famiglia Valperga di Masino: Giorgio Valperga andato personalmente dal Duca “per la cosa del suo figliolo”73 e il conte Gio. Amedeo Valperga, prossimo alla surroga dello Challant nella luogotenenza ge-nerale del Ducato, che supplicava con accorata “longa lettera”74.

La responsabilità separata e l’azione sempre e comunque in sinergia palesavano tuttavia nel grave momento vercellese una sofferta osservanza da parte degli impe-riali, ben espressa dall’ordine investigativo di Gonzaga al Varahona:

“non ni pare convenire commettervi la inquisitione sopra altro, che quello, che concerne il particolare del Mastro de Campo San’ Michele per non mostrare che non confidiamo di la fede, et sufficienza del Senato Ducale, che già ha fatto questa inquisitione et che vogliamo sopraintendere in quello Stato a le attioni loro”75;

cooperazione alla fine prevaricata con l’immissione di guardie imperiali (spagnoli) anche nel castello76.

Nella ricerca delle responsabilità, entrava forse involontariamente l’Epistola, pubblicata a stampa, a Milano, tre giorni dopo il ritiro francese, il 23 novembre (IX calende dicembre), da parte della cerchia di amici del Secco, di esaltazione magni-ficante il suo ruolo nel soccorso, attribuendogli addirittura il recupero della città, e che ignominiosamente considerava Vercelli espugnata “per quorundam popularium proditionem”77 per cui violentemente ribattevano, un paio di settimane dopo, il 7

l’affermazione di Bugati 1571, p. 987: ”laonde al Castellano poi fu tagliata la testa”, in quanto dopo l’indagine seguitava il servizio del Valperga. L’inchiesta sabauda probabilmente doveva già essersi conclusa nel dicembre 1553 o all’inizio di gennaio 1554, stando all’affermazione di Gonzaga, del 16 gennaio 1554: “Senato Ducale, che già ha fatto questa inquisitione” (ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, Casale, 16 gennaio 1554, minuta).73 “El S.or Giorgio, de Valperga […] vene da V, Al.a” (AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 3 dicembre 1553, originale).74 AST, Sezione Corte, LP, V, mazzo 7, fascicolo 1544, 1548 in 1565, lettera del conte Gio. Amedeo Valperga di Masino al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Masino, 1 dicembre 1553, originale.75 ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, Casale, 16 gennaio 1554, minuta.76 Affermazione del colonnello Isola: “in Castello vi sonno spagnoli” (AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 27 novembre 1553, originale).77 Epistola M. Antonii Majoragii ad Jo. Moronum Cardinalem In qua narrat quomodo Nicolaus Siccus, Justitiae Praefectus Amissas Vercellas recuperavit, Mediolano, IX. Cal. Decemb. (23 novembre 1553) MDLIII (citata in Argelati 1745, col. 842, n. XXXIX; edita integralmente in Ranza 1769, appendice I-VII; Malaguzzi 2005, pp. 111-113; parzialmente in Adriani 1867, pp. 66-67).

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dicembre, quattro carte intitolate Apologetica oratiuncula, anonime, probabilmente pubblicate a Vercelli, indirizzate ai “Clarissimi Iudices” per controbattere le falsità relative ai vercellesi78.

L’operazione di soccorso risaltava non solo per l’azione delle truppe imperiali ma anche per la capacità della nobiltà di frontiera avvezza alle armi, con la propria rete di legami fiduciari, di mobilitare rapidamente uomini, mezzi e denaro avendo, come contropartita, convenienti privilegi e ugualmente per il ruolo condiviso di comunità del confine chiamate a sostenere l’onere militare imperiale.

Con il ritorno all’ordine, iniziava la ricerca non solo dei traditori compromessi direttamente con i francesi, ma anche di quelli soltanto sospettati; dalla disamina di “diverse persone per intender qualli sono colpevoli”, si giungeva a considerare la presa di Vercelli compiuta per tradimento di un certo Merlo79 - cittadino già servitore del conte Silvio Tizzone - contattato dal cugino Pietro Antonio militante a Verrua con gli aggressori, ambedue di Pontestura: il prezzo convenuto con il Brissac diecimila scudi ciascuno. Non raro il ricorso da parte dei comandanti alla soldatesca locale arruolata nelle proprie compagnie per procurarsi informazioni e appoggi, mobilitan-do i parentadi. Il traditore Merlo, involontariamente ferito grave durante i trambusti “da uno delli soi fransosanti”80 o fors’anche dal cugino81, catturato e trasportato in stato incosciente in prigione dove decedeva, dopo la morte era esposto alla pubblica riprensione per i fedifraghi secondo le fiere orribili usanze del tempo:

“Il corpo de quel traditor del Merlo, fu apicato per un piede, et poi scuartato, et li quarti messi, attacatti, per le strade, et il medesmo si farà de tuti li altri quali troveremo colpevoli”82.

Procedendo “con li tormenti, per saperne la verità” si delineava tuttavia forte il

78 Apologetica oratiuncula (edita integralmente in Malaguzzi 2005, pp. 114-117).79 “Cheto da Pontestura” è il nome del Merlo secondo Rabà 2016, p. 165, probabilmente fraintendendo l’affermazione di Adriani 1867, p. 61: “per segrete intelligenze avutevi con alcuni traditori di dentro, e massime con certo Merlo suo cugino, di cheto il Pontestura [Pietro Antonio] vi entrò ed agevolò la scalata”.80 Notizia del colonnello Isola (AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 27 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 45 nota 49).81 Notizia di De Boyvin du Villars 1629, p. 274. Commento delle versioni discordanti in Ferraris 1960, p. 23. 82 AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 27 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 45 nota 49.

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convincimento “che quella di Vercelli è, statta pratica di Alexandro Cereto83 che sa-pesi quanto suspetto se sij havuto ch’el havesse dissegno sopra el dicto Castello”84.

A quel punto gli imperiali allarmati dalla “novità di Vercelli” e avvisati “da buo-nissimo luoco che detti nemici tengono etiandio intelligenza in un altro castelo del Stato d’importanza”85 si affrettavano ad allertare, per scongiurare altri inciampi, i governatori e i castellani dello Stato di Milano, che garantivano, tutti, la vigilanza86.

Siccome i Francesi si erano ritirati da Vercelli conducendo ostaggio il conte René de Challant si decideva “che si advertisse ad alchuni castelli che esso Mons.r tiene nella Valle d’Auosta, che non se dessero in poter de nemici”87. Infatti il sequestro ri-sultava un duro colpo per gli Imperiali-Sabaudi, essendo lo Challant il feudatario più importante e potente della Valle d’Aosta, essenziale per la neutralità della regione.

Il buon esito della ritirata dei Francesi verso le terre torinesi, quasi raggiunti, addirittura avvisati “per un Trombetta Don Ferrante esser vicino” e non attaccati, permettendo di “passar la Dora al rastello, lasciato addietro molta robba et bagaglie, nè ciò havrebbero abbandonato giamai, se Cesare [Maggi] non gli havesse messi in sospetto”88, corrispondeva probabilmente all’esigenza politica di salvaguardare lo Challant.

Così in quelle terre valdostane d’influenza sabauda veniva mandato in missione il Duc a contattare la moglie dello Challant, donna Mencia di Portogallo, per otte-nere il rafforzamento delle guarnigioni con soldati ducali e sincerarsi della capacità difensiva in caso d’intromissione francese a cui seguivano i tentativi di Andrea Pro-vana signore di Leinì89 e dell’Isola, mentre l’abate Du Tilly era inviato in altre terre dell’aostano90.

83 Il capitano Alessandro da Cerreto (AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 3 dicembre 1553, originale). Notizie del capitano in Scarabelli 1847, p. 433; Rabà 2016, p. 489 nota 77; presumibilmente il capitano “Alessandro Ceretano” citato in Ranza 1769, p. 16. 84 Comunicazione di Gonzaga inclusa nell’avvertimento di altra probabile impresa francese (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al governatore di Pavia Gioan Tommaso Gallerati, Asti, 22 novembre 1553, minuta).85 La comunicazione estesa a tutti i governatori e “Alli Castellani del Stato de Milano” (ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al governatore di Pavia Gioan Tommaso Gallerati, Asti, 22 novembre 1553, minuta).86 Vari dispacci in ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, corrispondenza con i governatori di Novara, Arona, Alessandria, Pavia, Lodi e i castellani.87 ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, lettera del grancancelliere del Ducato di Milano Francesco Taverna al segretario cesareo Gerolamo Rozono, Milano, 24 novembre 1553, originale. 88 Contile 1564, c. 205v.89 Su Andrea Provana signore di Leinì, Merlotti 2005, p. 320 per la missione nella Valle d’Aosta.90 Disamina delle missioni valdostane in Claretta 1884, pp. 47-61.

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L’eco della vicenda vercellese finiva presto nelle cronache del tempo e già nei giorni “post captas Vercellas”, alcuni versi poetici dello scozzese George Buchanan nel carme dedicato al Brissac magnificavano l’impresa: “Vercella pectus una sol-licitat meum / Vercella sola macerat / Vercella victa Galliis dum vincitur / Felicior victricibus”91.

Al di là delle vicissitudini e ripercussioni dell’azione francese, emergeva mili-tarmente la forza della cittadella che, nonostante le pesanti critiche sull’inattacca-bilità92, appariva sempre più la macchina per la difesa della città o contro la città, di predominio nelle esigenze della guerra.

91 Buchanan 1641, Miscellaneorum Liber, p. 420; versi editi in Adriani 1867, p. 74. Del celebre latinista, poeta e storico scozzese, da ricordare l’attività che ricopriva di precettore di Timoleonte, giovane figlio dello straordinario uomo d’arme ma anche egregio fautore delle lettere e dei letterati Brissac. 92 Sulla fragilità della cittadella giudizi poco differenti sia dell’Isola: “ne mancho francesi sariano intrati in la città, et il castello bastava meglio a tenersi che la citadella, per esser molto più forte” (AST, Sezione Corte, LP, I, mazzo 8, fascicolo 1552-1555, lettera del colonnello Battista dell’Isola al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 40 nota 32), sia del Duc: “la Citadella […] certo se saria persa se avevano doj canoni / per che sapete che le forteze nostre le metemo volonter infermi, stropiatj, e famegle, vegi, etc.” (LP, D, mazzo 25, fascicolo 1553. in 1554. Lettere scritte al Duca dal Mastro di Camera Ducale Cristoforo Duc, n. 12, lettera del maggiordomo ducale capitano Cristoforo Duc al duca di Savoia Emanuele Filiberto, Vercelli, 20 novembre 1553, originale; Ferraris 1960, p. 39 nota 30).

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APPENDICE

Relazione 1[ante gennaio 1554]

BRT, Manoscritti di Storia Patria III, Carteggio e Memorie 1553-1568, vol. 2 MS, n. 22, 1553. Novembre Discorso come successe la presa di Vercelli, anonimo [Battista dell’Isola], copia, Dall’archivio Camerale, edito integralmente in Promis 1870b, n. XIV, pp. 545-550, probabilmente la relazione della commissione d’inchiesta sabau-da; trascrizione rispondente alla copia manoscritta.

Mons.r di Salvason governator di Verua ha un soldato nominato Petro Antonio dal Pondestura pratico di questo paese et a lui molto caro un giorno passeggiando sopra la piattaforma di Verua li disse: Pondestura saria posibile che facessimo qualche cosa di buono in servitio dil Re. Pensatovi sopra un poco rispose a me daria l’animo di far qualche cosa di buono in Vercelli per ch’io sono statto in quella Città et ne sono pra-tico et li he persona al proposito che non mancherà di servir et così di concerto man-dorno a domandar un suo Cuggino pur del Pondestura detto il Merlo qual molti anni sono ch’è statto in Vercelli con diversi gentilhomini et alhora et di presente stava et sta col Sig.r Silvio Ticciono et così tra loro discorsero et concertorono quanto si po-teva far tolsero in compagnia un Agostino da Casale qual adopravano a mandar inan-zi et indietro et condur et introdur persone a riconoscere dentro et fuori di la Cità cioè il loco deputato quanto la Citadella et l’artigliaria hera nel Episcopato della qual hebbeno la misura delle balle volendo valersi d’essa nella espugnatione si dilla Cita-della quanto dil Castello il qual tenevano li havesse da far più resistentia che la Cit-tadella durò tal pratica circha otto mesi ne di essa erano consapevoli altri che detto Petro Antonio il Merlo et Agostino da Casale forno molte volte per madarla in ese-cutione et più volte s’astennero dubitando non reussisse vana et essere scoperti et fra l’altre quando forno dettenuti Fabritio et Pompeo fratelli de Cagnoli dubitando non fossero alchuni delli consapevoli certificati ch’erano li dettenuti perseverorno un’al-tra volta che li Cavalli liggieri del Sig.r Aloysio dalla Mara tolsero certi huomini d’arme pregioni alli quali il suo tenente o sia alphieri li disse nulla vi gioveranno le vostre Barche et consultando et temendo Petro Antonio li fece animo dicendoli non habiate pagura che loro sappiano cosa alchuna che se lo sapessero non lo direbbero ma ne ordiriano adesso qualche tratato doppio et li confermò nella speranza hera l’ordine de intrar di dietro dal Bastione di porta di Servo dove esse l’acqua per il Canale nelle due muraglie perché ivi niuna sentinella li discopre et la prima muraglia he bassa alla qual ogni scala basta a montare et di poi la muraglia he torta et andando dietro a l’altra qual he verso la Città ponno intrar molto a dentro senza esser visti et il loco he capace di molte persone et ivi intrati haver tre scale lunge quanto he alta la

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muraglia della qual havevano la misura et montar tre homini alla volta propinqui alla garitta di San Francisco perché ivi potevano apogiar le scale senza esser visti et es-sendovi il terrapieno saltar a basso senza lesione ma perché quando la testa comin-tiava a soperchiar la muraglia alhora erano scoperti dentro havevano persone quali al segnio s’havevano da trovar ivi et amazar la sentinella il che facilmente potevano far per esser imboschati in locco vicino di dove il tutto potevano vedere fra questo in un medemo tempo li altri introdutti andar al usciolo qual mette sopra il pincetto dove he la pontesella et quello con tenaglie et lime et altri ingegni romper li cancheri et vere de l’usciolo et ivi entrati abasar la pontesella et introdur tutto il resto della gente qual stava coperta sotto l’argine dil fosso dove he la casiera delli Cavalli alli quali pari-mente havevano da sucorere parte delli imboscati dentro al segnio datto et amazar la sentinella et con legni aiutar aterar l’usciolo sopradetto et porta della pontesella il che comodamente potevano far per esser in una casetta ruinata dove persona non li habita situata nel meggio del portello et detta garita di San Francischo intrati che fosseno dentro Petro Antonio con cento homini doveva andar alla volta della Citta-della et tagliar la strada a tal che li Spagnoli retirandosi non havessero posuti recupe-rarsi in essa et serandoli fuori estimavano che dentro non vi fosse gente per poterli far resistentia e così a chi si hera datto la cura andar nel Episcopato et ivi con inge-gneri canonieri et maestri quali havevano menati seco che li havevano promesso de incavalchar quella artigliaria et con polvere et balle che havevano portate seco far presto l’impresa della Citadella qual come ho detto estimavano facile et essa con ogni diligentia fortificare insieme con il resto della Cità. Questo era l’ordine qual messero ad efetto in questa maniera per il giobbia passato che fu alli 16. dil presente ma non si sa che ritardati diferiro al venere seguente nella sera et così a San Sebastia-no loco per mezzo di Chivasso parte et parte in Verua s’imbarchoro le fanterie in vintidue Barche et venero a seconda per il Po sino a Brusaschino et per meggio di esso disbarchorno Mons.or di Brisach con bon numero di Cavalli si d’homini d’armi Cavalli leggieri et fanti et altre persone signalate al dì statuito si trovò in Chivasso con ordine di marchiar con tutta diligentia la matina seguente alla volta di Vercelli per favorir et facilitar l’impresa il che fece con ogni diligentia et vi gionse il sabato alle vintidue hore fra questo meggio le fanterie disbarcate marchiarno con diligentia et venero ala volta de Asigliano et dellì alla Rantiva et ivi arrivati lasciorno la strada maestra et venero alle Collonne dove sono le fornace fatte per la fortificatione della Città qual he sopra la ripa dil fiume per che da lì si conducevano al loco designato molto coperti hor con quanta diligentia usarno o forse per il mal camino ho per la piogia o per mal ordine per che due o tre volte persero la filera tardarno più di quello s’havevano presuposto per il che forno d’animo di ritornarseni temendo che il giorno non li sopragiongesse et diferir una altra volta et per non dar sospetto nel ritorno andar a dar un’arma a Cressentino et finger che per quello havessero fatto questa

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mossa ma Petro Antonio confortandoli che sarebbono a tempo et protestando fece tanto che li condusse et così gionti a Santo Sebastiano dietro dalla rippa della roggia detta di sopra si condusero al destinato loco con scale corte che le longhe non le adoperaro havevano alchuni giorni inanti introduti per diverse vie et in diversi habiti cioè chi da Vilano con caponi chi con un’altra cosa diece huomini cinque dal Ponde-stura quali haveva mandati Petro Antonio tre il Capitano Alesandro da Ceretto fra quali vi hera un Bernardino Guazza non so se sia di Robbio o di Rozascho Agostino da Casale introdusse lo Sargente di Mons.r di Salvason con un fasso di paglia in col-lo et un altro con un mazzo di rappe detto Sargente vi hera statto altre volte a spiar le sopradette cose alli quali il Merlo haveva datto recapito non so in qual loco ma quel-la notte li messe in quella Casa dirupata con arme et esso et Agostino in compagnia stavano coperti aspettando il segnio gionsero assai più tardi di quello si pensavano pur si acostorno al loco a ognuno di loro designato era Mons.r di Salvason cappo de l’impresa quelli a chi ha ordinato di intrar fra le due muraglie acostorno le scale et introrno tutti armati di arme bianche con rotelle et alabarde potevano esser da 45. in 50. non si servorno de le scale longhe ma costegiando al muro si apropinquorno al uscieto et ivi amazorno la sentinella et parte di loro montorno per essa per esser bas-sa parte atesero con li ingegni sopradetti a romper l’uscietto et così sforzorno la guardia et secondo mi ha detto pensa che si smarisse vedendosi tanti huomini arma-ti sopragionti al improvista mi ha anchor detto che un huomo solo era suficiente a vietar che non intrassero et che solo sentirno una voce che disse quien va a glià hor entrati abasorno la pontesella et introdusero li altri che stavano apiatati sotto la rippa dil fosso li imboscati nella Casa vedendo sopragionger il giorno nè anchor havendo hauto il segnio già si partivano per non esser scoperti ma dipoi sentendo il rumore corsero alo suono di esso et il Merlo con uno gabano atorno et una alebarda in mano et Agostino da Casale erano avanti li altri quali si scontraro parimente in li primi ch’erano Mons.r di Salvason et Petro Antonio li quali non conoscendoli Mons.r di Salvason amazò Agostino et Petro Antonio diede una cortelata sopra il cappo al Mer-lo qual cascando cridava al vostro povero Merlo per il che non lo finiro hor questi duoi autori della sceleragine forno li primi a pagarla per mano de li suoi et così s’in-viorno chi per una strada chi per un’altra ma il più d’essi alla Piazza et alle case delli giudei havendo esso Petro Antonio domandato a Mons.r di Brisacho la confisca-tion delli giudei qual volse anticipare fu esso Pietro ferito un poco de piccha in una coscia li cento huomini che con esso dovevano andar a tagliar la via della Citadella non vi andorno ho per esser lui ferito ho per esser la cosa più tardi di quello pensa-vano ho perché molti atesero a bottinar ho per le garre et inimititie che sono tra li cappi per li quali manchorno di exeguir molte cose che havevano concertato et fra l’altre che una buona banda de gente a Cavallo andassero a romper le barche sopra il Po sino a Valenza et Sartirana per ritardar il succorso ch’havria mandato il Sig.r Don

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Ferante hautone lo aviso et d’altre monitioni che dovevano portar per il che stetero parte ala Piazza parte a buschar fino ala gionta di Mons.r di Brissaccho non osandosi acostar nè alla Citadella nè alla porta di Servo nè alli suoi confini per che Spagnuoli guardavano tutti quei contorni difendendoli con archibusate et ferendoni molti di loro.

Relazione 2[post 16 gennaio 1554]

AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per parte dei Francesi, [relacion], anonima, inviata dal maestro di campo Morales, originale (con allegato: [discorso come francesi introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], originale), edita integralmente in Bori 1916, pp. 30-34, probabilmente la relazione della commissine d’inchiesta imperiale trasmessa per conoscenza alla parte sabauda; trascrizione rispondente all’originale.

+

En diez y ocho de novienbre de 1553 los françeses qujsieron entrar en Verçel por una parte que es entre el portel y San Francisco donde ay dos murallas fueron armadas dos escalas las quales por la guardia del dicho portel les fueron derriba-das y estando en esto toco la canpana de la tierra alarma que los françeses no tocaron de present a tombor nj tronpeta / A una ventana del castillo se descubrjo un honbre con una banda blanca esto dize mosiur de Luçerna que lo vido que el m.e de canpo San Mjguel no qujere dar credito a los soldados que hazian guardia en el portel el qual esta de baxo y muy sujetto al castillo93 en este punto salto mucha jente a la guardia del portel gridando Françia y libertad y asi en el castil-lo se vieron luego muchas cruzes blancas y los que hazian guardia al portel fueron muertos y desbaratados / Y acudiendo allj el alferez del m.e de canpo hallo que los françeses tenian el castillo y eran señores del portel y asi volvien-dose y conbatiendo en algunas partes que pudo fue herido y no dexo fuera y dentro de la çiudadela de travajar y hazer lo que dovia y en algunas partes se grjdava por los enemigos libertad este la que es el apelljdo de una casada d’esta çiudad de qujen se tiene sospecha fuese en el tratado / El m.e de canpo San Mi-guel avia pasados quarenta dias que estava enfermo y estos ultimos con la fiebre hordinarja que hasta pasadas siete horas de noche no se lo avia qujtado del todo

93 Notazione a margine sinistro: “El castillo no tiro arcabuz ni piedre ninguna”.

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fue levantado y puesto por quatro ombre sobre un caballo y tomo una gineta y una çelada en la cabeça y salio de su casa a la qual aun los françeses no avian llegado y con muy pocos soldados y quatro ho anco criados suyos corrio hasta una yglesia que se dize San Juljan donde es la plaça de los Tizones y çerca de la dicha yglesia hallo un numero de françeses a los quales con los que el con sigo llevava a remetio gridando España España, y fuele dado con una alabarda en los pecho y por los que con el y van fueron muertos dos hotres de los enemigos y asì conbatiendo con estos le fue dado un arcabuzazo al caballo y con una pica le sacaron la çelada de la cabeça y creçiendo jente de los françeses y no de la suya le fue fuerça rretirarse y mando luego viendo el poco rremedio que avia de echar los enemigos de la çiudad como fue ynformado que el castillo estava por ellos que se rretirasen a la çiudadela y asì luego con la jente que con el se pudo juntar fue a una guardia que se dize la garita de Santiago que ya tenjan hocupada los françeses y los hizo matar y echar fuera y luego hizo yr a puerta d’estrada que tanbien estava perdida y hizo ganalla de los suyos y les mando que hasta que no pudiesen mas la defendiesen y se vinjesen a la çiudadela porque sienpre que qujsiesen se podian retirar por la muralla / Hecho esto el m.e de canpo San Mi-guel con la jente que se hallava paso por delante de la çiudadela y dio horden que se quemasen algunas casas que estavan muy junto a ella que eran de Goin Perjuy-zio y asì se hizo luego y paso adelante en algunas calles con alguna jente en tanto que a quello se hazia y se metio en la çiudadela provision de pan y harjna y otra cosas de comer / luego fue a puerta de Servj la qual mando que en todas maneras del mundo se guardase y se defendiese nj mas nj menos como la çiud-adela que asì convenia y porque se podia guardar donde metio qujnze soldados con un caporal y estuvo allì hasta tanto que en la dicha puerta pudieron meter pan y vjno como por los soldados fue metido y asì hordeno a los dichos soldados que se rreparasen dentro muy bien y que a dos casas que estavan junto a la dicha puerta porque podian de ellas reçibir mucho daño si los enemigos se ponjan dentro que les pusiesen dentro todo lo que y va para quemallas y que vinjendo los enemigos para entrarse en ellas les diesen luego fuego y asì se hizo que el quema restas casas fue gran parte para que la puerta se tubiese juntamente con la çiudadela como se tuvo y pratico sienpre de noche y de dia de que los françeses no se contentavan Dexado asì esto hordenado dicho m.e de canpo se torno a la çiudadela y entro dentro y hizo quatro partes de la jente de su conpañja y la rre-partio en quatro lugares de la çiudadela dexando los soldados de ella por sobre saljente y hasi les hablo a todos y dixo / que ya no se tenja rremedio para rrecu-perar por sus solas manos la çiudad pero que lo avia para que por hotias fuese rrecuperada si se querja hazer lo que como buenos vasallos devian al servjçio de Su Mag.t en guardar y defendir la çiudadela lo qual a todos convenja pues la

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çiudad se avia perdido y que para esto no se avia de pensar en hotra cosa si no en morjr defendiendola y que dicho m.e de canpo les prometia que enfermo como estava se pornj adelante de ellos a la parte por donde les enemigos se la qujsiesen ganar hora fuese por baterja ho por asalto y que a esto no querja faltar pues no avia de quedar vivo perdiendose a quel lugar y que asì se lo esortava a ellos como a buenos vasallos de Su Mag.t que lo haziesen Fuele rrespondido por los solda-dos a una voz que todos querjan morjr sobre guardar y defender el dicho lugar y que no querjan quedar vivos perdiendolo y otras palabras de buenos soldados / Dicho m.e de canpo se lo agradeçio mucho y les rreplico que para guardar al di-cho lugar que y va mas que conbatir que era neçesarjo rreparallo en muchas partes como ellos vian y asì en la mesma hora se desino una trjnchera grande con el pareçir del Capitan Jacobo Antonjo de la † gentil honbre mjlanes el qual hal-landose en Verçel se rretiro en la çiudadela que no fue poca ayuda para el m.e de canpo por lo mucho que travajo el dicho Jacobo Antonjo asì en esto como en ynviar avisos fuera / En la mesma hora fue desinada la trjnchera y fue tal que por qualqujera parte que se batiera se podia defendir la baterja / Los soldados con algunos gastadores que se tomaron de la çiudad y con las açadas y palas que se pudieron hallar se dio prençipio a la trjnchjera estando el dicho Jacobo Antonjo sienpre soliçitandola y asì tanbien hotras partes que se convenja se començo a rreparar en lo que se podia / en este medio de la çiudad por la parte de la çiudad-ela y puerta de Servj no se dexo de tomar la vitualla que se pudo y palas y açad-as y tomaron sedos maestros que ayudaron bien para lo que tocava a l’artillerja por la neçesidad grande que avia de ystrumentos para hazer la trjnchera mando el m.e de canpo que por la puerta del socorro saliesen algunos soldados y de las casas mas vezinas traxesen todas las palas y açadas que se pudiesen y aun om-bres para que ayudasen a los soldados y asi se metio algun numero de todo y se fue rreparando lo mejor que se pudo / Hecho esto porque la çiudadela no tenja nengun traves para ser defendida de baxo de la mesma puerta con tablas y lo mejor que se pudo se hizieron dos y de baxo de donde estava la muralla cayda que derivo una plataforma e nel mismo foso se hizo un buen traves a modo de casamata / dado rrecando a todo esto a los françeses les pareçia poca rreputaçion estando dentro de la çiudad que se les defendiese una puerta travajavan lo posi-ble por ganalla pero no pudieron entorno a la çiudadela y de las torres rreco-noçeron muy a su plazer la çiudadela y el propio brusaque y se rresolvieron que con un canon y un quarto la echarjan por tierra y la ganarjan y asì en la mesma hora dieron horden a l’artillerja que es del duque Yll.mo de Savoya venida la no-che los soldados en sus quarteles se rrepararon bien y los françeses por de fuera hazian lo mesmo en la trjnchera se travajava quanto se podia / A tantas horas de noche llego el capitan Pagan por la puerta del socorro con hasta çirca de çien

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soldados sobre los quales hecha la consideraçion que se devja se metio al dicho capitan con una parte dellos en la çiudadela y la hotra con el sargento Gujnea la ynvie a la puerta de Servj para que con estos soldados y con los españoles que allj estavan el dicho sargento tuviese cargo de guardar la dicha puerta como lo hizo y muy honrradament / al dicho capitan Pagan le fue mostrada en la mesma hora la çiudadela y se le dio un quartel de una plataforma que çierto travajo con sus soldados toda la noche muj bien / luego vino Juan Pablo Çigoña hermano del governador de Novara y dixo al m.e de canpo que traya algunos soldados y que se venja a meter con ellos en la çiudadela y asì los fue a traer y estuvo y travaio con la persona muj bien toda la noche / El dia sigujente los françeses con un canon y con un quarto començaron a batir por parte que aunque tavieran mas artillerja no hizieran mucho mal luego fue neçesarjo dexar la trjnchera primera y hazer hotra para que si hizieran gran baterja la defendiese y asi se hizo una para defendir la baterja este dia se paso en dar la baterja que fue muj poca y en ynviar un trompeta mujde priesa a la çiudadela el qual no fue hoydo pero volvio espan-tado / tuvieron hechas mantas los françeses para picar la muralla pero no se atrevieron a ponellas / venjda la noche començaron a mover la artillerja en forma de querella poner en hotra parte por travajar a los soldados de la çiudadela pero asì porque devieron de entendir el socorro que venja como por el poco remedio de tomar la çiudadela dieron horden a su partida y llevaronse toda la casa del conde de Chalante porque se fuese en la val de Agusta llevaronse todas las joyas y rropa del duque Yll.mo de Savoya y otra mucha rropa que saquearon prençip-almente dos casas de Judios /

En esta çiudad avia mjll y duzientos onbres para pelear y mas pero pongo los en seys çientos estos seis çientos tienen armas tan buenas como los soldados pero nenguno pareçio nj fue a la casa del conde de Chalante nj a la del m.e de canpo nj en todo el sabado que por españoles se tuvjeron algunas calles nenguno pareçio nj fue a dar nengun aviso si no fue un Agustin Ayaca que fue a buscar un suhito muy pequeño al qual padre el m.e de canpo dixo que hablase a los de la tierra y les acordase que eran vasallos del duque Yll.mo pero aprovecho poco /

Verso:Ex.mo señor la carta que aqui va la emviava con un hombre que mandava el m.e de

Campo Morales; pero como va el secretario del Conde de Chalan por las postas, me a parecido darsela a el con esta relacion.

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Doriano Beltrame

Relazione 3[post 16 gennaio 1554]

AST, Sezione Corte, SRC, Categoria III, Storie Particolari, mazzo I d’addizione, fascicolo 1553. 18 Novembre. Relazioni (due) dell’occupazione di Vercelli per par-te dei Francesi, [discorso come francesi introrono in Vercelli alle 18 de Novembre 1553], anonimo [capitano Pagano], originale (allegato a: [relacion], anonima, in-viata dal maestro di campo Morales, originale), edito integralmente in Bori 1916, pp. 34-35, probabilmente relazione completiva di quella della commissine d’inchie-sta imperiale trasmessa per conoscenza alla parte sabauda; trascrizione rispondente all’originale.

+MDLIIJ: alli XVIIJ: di novembre, et cerca ale XIIIJ. hore introrono, li francesi, in

Vercelli, et alle XVJ. hore, fuo data nova in Trino, ove mi trovava al presidio, et da lì subito espedito, con diligenza dala E.a del S.r Don Ferrando, et io subito senza perder tempo, con cento, e, tre soldati, marchiaj alla volta di Vercelli, fora di strada, per boschine, et presso a doi miglia di Vercelli mi imboscaj. Et così im-boscato, mandaij, uno soldato vestito da villano, a, recognoscere, quello facevano li, nemici, quale ritornò rispondendo, che li Francesi stavano tutti in battaglia alla piazza, e la città pacifica, senza strepito, et uno stendardo de cavalli de nemici, girava la muraglia de fori, batendo le strade, di continuo, Et io stava con deside-rio aspettando che si facesse notte, e cerca ad una hora di notte, con bonissimo animo, e, resolutione, mi seraj insieme, con li mei soldati, et me ne intraj ne la fossa de la Cittadella, ove subito el S.r ma.ro del Campo San Michel comparse alla muraglia a cavallo, e subito fece aprire la ponticella de la Cittadella, e tra-scito dentro, el detto S.r ma.ro de Campo San Michel ritrovandosi mal disposto, per la infirmità, mi disse, Pagano mio, per servitio di Sua M.tà vi facio patrono di questo locho, fatti voj quello vi pare, io li risposi, S.r mio, non mancharò maj in servitio di Sua Maestà e servire a V. S. et che mi comanda che la obedirò, con questi mei soldati, senza dimora di tempo: Signore non potendo venire V. S. mi daretti il vostro alphiere, aciò ricognosca questa Cittadella, et facia lavorare, ove bisogna, El detto S.r ma.ro del Campo smontò da cavallo et fecesi portare a brazze da doj de soj soldati, et venni luj con mi dove subito per la prima, misi tre cestoni alla porta la quale fuo serrata di terra piena, et dissegnaj in altro locho, dove era bisogno, et così cominciaj a lavorare, con tutti, li mej soldati, in com-pagnia de li spagnoli del S.r ma.ro del Campo: quali animosamente feceno, bono riparo, et di bonissimo core, unitamente cominciarono, a travagliare con sappe, et badili, et con quello che trovarono, et da poj per mezza hora feci rinfrescare, li soldati, et per uno quarto di hora, chi haveva fame, e sette, magnava, poi feci

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Vercelli è in mane de Francesi

una allegria doppia sparando quella pocha artegliaria, che li era, et senza dimora di tempo saltaj fora con cerca cinquanta soldati, con bravarija dove, attacamo la scaramuccia, con francesi, et donaj il focho, ad una infinità de stantie, aciò non potesseno li nemici, goldere, et tenerli, alla largha, che certo parse, el, socorso de doj milia fanti, alli travagli che li donassimo, di modo che loro si aretirorono alla piazza, cominciando, a serare le strade maestre, et noj aretiramosi dentro la Cittadella con tanta allegrezza del mondo, e tornamo, al nostro lavore, attenden-do, a lavorare, e per quella notte non fecemo altro, et alli XVIJ. hore, veni uno trombetta per voler parlare, al S.r ma.ro del Campo, e per bona risposta li fuoreno sparate almeno cinquanta archabusciate, dove se ne ritornò fallito e credo che per la strada perse la trombetta, et alle XVIIJ: hore cominciorono li nemici la battaria, dove, tirorono, cerca XXVIIJ tiri di canoni, et già dove loro facevano la battarija, la notte inanti, havivamo fatto, lo riparo, in tanto che non facevano niente, Puoj alla callata del sole, mutorono la artegliarija: et feceno finta di fare nova battarija per farni travaiare, et già loro facevano consulto di furgirsi, et alla sera cerca alle tre hore di notte, si dette un’arma gagliarda, e noj senza strepito nisuno facevamo pocha stimma di loro, attendendo a lavorare, et a guardarsi, et da poj una mezza hora ritornorono di novo, a dare, arma, non tanto gagliarda et noj altri, attendemo a lavorare, et alli X. hore di notte, tornarono a dar arma, ma non forono se non quatro archabuscieri, et già loro, bacagiaveno le robbe, che havevano robate, et di bon denari, per fugirsene, Io dico al S.r ma.ro del Campo già li nemici, se fuggono, e lui mi dice, potrebe esser qualche finta, et alle XIJ. hore monsig.r di Byrsacho, pigliò monsig.r di Chielante, con tutta la sua famiglia, e uscì fora in bataglia et andò via Dio volse che la nostra cavalleria non arrivasse a tempo, che tutti erano tagliati a pezzi, et si faceva un colpo il più bello che maj si fosse fatto al mondo, or sia ringratiato Idio che havimo recuperato Vercelli per servitio di Sua M.tà et dil Ill.mo et Eccell.mo S.r Ducca di Savoya patrone et signor di detta Città.

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Doriano Beltrame

Bibliografia

Adriani 1867Giovambattista Adriani, Le guerre e la dominazione dei Francesi in Piemonte dall’anno 1536 al 1559. Memorie storiche, Torino 1867.

Andenna 1982Giancarlo Andenna, Andar per Castelli. Da Novara tutto intorno, Torino 1982.

Argelati 1745Filippo Argelati, Philippi Argelati Bononiensis Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium, seu Acta, et Elogia virorum omnigena eruditione illustrium, qui in metropoli insubriae, oppidisque circumjacenti-bus orti sunt, tomus secondus, Mediolani, MDCCXLV.

Beltrame 2004Doriano Beltrame, Per la storia della fortificazione di Vercelli del primo Cinquecento. L’attività di Giovanni Maria Olgiati (1544-1557 ca.), in “Bollettino Storico Vercellese”, 33 (2004), n. 62, pp. 69-98.

Beltrame 2006Doriano Beltrame, Agli albori della fortificazione “alla moderna” di Vercelli. Specifici ulteriori do-cumenti sulla fabbrica dei primi bastioni (1536-1537), in “Bollettino Storico Vercellese”, 35 (2006), n. 66, pp. 75-85.

Benedetti 1923Maria Benedetti, Un segretario di Cristoforo Madruzzo (Nicolò Secco), in “Archivio Veneto-Triden-tino”, 3 (1923), pp. 203-229.

Bori 1916Mario Bori, La “sorpresa” di Vercelli del 18 novembre 1553, in “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, 20 (1916), pp. 28-36.

Baiocchi 1981Angelo Baiocchi, Cicogna, Giovan Pietro, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 25, Roma, 1981, pp. 398-400.

Buchanan 1641George Buchanan, Geor: Buchanani Scoti, Poemata quae extant. Editio postrema, Amstelodami, 1641.

Bugati 1571Gaspare Bugati, Historia universale di M. Gasparo Bugati Milanese: Nella quale con ogni candidezza di verità si racconta brevemente, & con bell’ordine tutto quel ch’è successo dal principio del mondo fino all’anno MDLXIX, Vinetia, MDLXXI.

Cambiano di Ruffia 1611Giulio Cambiano di Ruffia, Memorabili (edito in Promis 1870a).

Cambiano di Ruffia 1602Giuseppe Cambiano di Ruffia, Historico discorso al Serenissimo Filippo Emanuele di Savoia Pren-cipe di Piemonte (edito in Saluzzo 1840).

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Vercelli è in mane de Francesi

Capuani 1925Antonio Capuani, Niccolò Secco, poeta, commediografo, uomo d’armi e di toga del secolo XVI, in “Bollettino della Civica Biblioteca di Bergamo”, XIX, 2 (1925), pp. 45-72.

Cerrati 1910Michele Cerrati, Vinzaglio, Vercelli 1910.

Cigala 2007Giovanni Cigala, Niccolò Secco d’Aragona. Un genio inquieto del Rinascimento, Brescia 2007.

Claretta 1884Gaudenzio Claretta, La successione di Emanuele Filiberto al trono sabaudo e la prima ristorazione della Casa di Savoia, Torino 1884.

Contile 1564Luca Contile, La historia de fatti di Cesare Maggi da Napoli, dove si contengono tutte le guerre suc-cesse nel suo tempo in Lombardia & in altre parti d’Italia & fuor d’Italia, Pavia, MDLXIIII.

De Boyvin du Villars 1607Francois De Boyvin du Villars, Mémoires, Paris, MDCVII.

De Gregory 1820Gaspare De Gregory, Istoria della Vercellese letteratura ed arti, parte seconda, Torino, 1820.

De Gregory 1824Gaspare De Gregory, Istoria della Vercellese letteratura ed arti, parte quarta, Torino 1824.

Della Chiesa 1608Ludovico Della Chiesa, Dell’istoria di Piemonte del Sig.r Ludovico della Chiesa Libri tre Esatta-mente ristampata secondo l’ultima edizione del 1608, Torino 1608 (ristampa anastatica, Bologna 1971).

Dessilani 2001Franco Dessilani, I comuni novaresi. Schede storiche, Novara 2001.

Dillon Bussi 1977Angela Dillon Bussi, Caresana, Giuseppe, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 20, Roma, 1977, pp. 77-80.

Ferraris 1960Giuseppe Ferraris, La Sindone salvata a Vercelli, in “Atti del I Convegno regionale del Centro Inter-nazionale di Sindonologia”, Torino 1960 (ristampa anastatica, Vercelli 2010).

Foffa 1937Oreste Foffa, Nicolò Secco d’Aragona, [Brescia] 1937.

François 1968Michel François, Birago, Renato, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 10, Roma, 1968, pp. 613-618.

Gardinali 1976Ermanno Gardinali, Robbio. Un borgo rurale dalla preistoria al secolo XIX, Robbio 1976.

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Doriano Beltrame

Malaguzzi 2005Francesco Malaguzzi, Vercelli 1553: due versioni di un celebre fatto d’armi, in “Bollettino Storico Vercellese”, 34 (2005), n. 64, pp. 103-117.

Merlotti 2005Andrea Merlotti, Leinì, Andrea Provana signore di, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 64, Roma 2005, pp. 319-324.

Merlotti 2006Andrea Merlotti, Luserna Manfredi, Carlo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 66, Roma 2006, pp. 655-659.

Miolo 1629Gianbernardo Miolo, Cronaca di Gianbernardo Miolo di Lombriasco Notaio, (edita in Promis 1862).

Pasquino 2005Riccardo Pasquino, Il castello di Vinzaglio. Da struttura fortificata a dipendenza agricola in “Bollet-tino Storico per la Provincia di Novara”, 96 (2005), pp. 49-140.

Pingone 1577Emanuele Filiberto Pingone, Augustae Taurinorum, Taurini, MDLXXVII.

Promis 1862Cronaca di Gianbernardo Miolo di Lombriasco Notaio, [1629], per G. Vernazza, a cura di Domenico Promis, in “Miscellanea di Storia Italiana”, tomo I, Torino, MDCCCLXII, pp. 145-247.

Promis 1865Memorie di un terrazzano di Rivoli dal 1535 al 1586, a cura di Domenico Promis, in “Miscellanea di Storia Italiana”, tomo VI, Torino, MDCCCLXV, pp. 559-674.

Promis 1870aMemorabili di Giulio Cambiano di Ruffia, a cura di Vincenzo Promis, in “Miscellanea di Storia Italia-na”, tomo IX, Torino, MDCCCLXX, pp. 185-317.

Promis 1870bCento lettere concernenti la storia del Piemonte dal MDXLIV al MDXCII, a cura di Vincenzo Promis, in “Miscellanea di Storia Italiana”, tomo IX, Torino, MDCCCLXX, pp. 513-769.

Promis 1871Carlo Promis, Gl’ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dall’anno MCCC all’anno MDCL, in “Miscellanea di Storia Italiana”, tomo XII, Torino, MDCCCLXXI, pp. 411-646 (ristampa anastatica, Bologna, 1963).

Rabà 2016Michele Maria Rabà, Petere e poteri “Stati”, “privati” e comunità nel conflitto per l’egemonia in Italia settentrionale (1536-1558), Milano 2016.

Ranza 1769Giovanni Antonio Ranza, Poesie, e Memorie di donne letterate, che fiorirono negli Stati di S. S. R. M. il Re di Sardegna, Vercelli, MDCCLXIX.

Ricotti 1861Ercole Ricotti, Storia della Monarchia piemontese, volume primo, Firenze 1861.

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Vercelli è in mane de Francesi

Saluzzo 1840Historico discorso di Giuseppe Cambiano de’ Signori di Ruffia, [1602], a cura di Cesare Saluzzo, in “Monumenta Historiae Patriae”, tomo III, Scriptorum, tomo I, Augustae Taurinorum, MDCCCXL, coll. 931-1498.

Scarabelli 1847Luciano Scarabelli, Paralipomeni di storia piemontese dall’anno 1285 al 1617, in “Archivio Storico Italiano”, tomo XIII, Firenze 1847, pp. 335-441.

Segre 1898Arturo Segre, L’opera politico-militare di Andrea Provana di Leynì nello Stato sabaudo dal 1553 al 1559, Roma 1898.

Segre 1928Arturo Segre, Emanuele Filiberto (1528-1559), vol. I, Torino 1928.

Signorelli 1992Bruno Signorelli, Duc, Cristoforo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 41, Roma, 1992, pp. 724-726.

Stumpo 1986Enrico Stumpo, Dal Pozzo, Cassiano senior, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 32, Roma, 1996, pp. 206-209.

Stumpo 1990Enrico Stumpo, Dell’Isola, Giovanni Battista, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 38, Roma, 1990, pp. 76-78.

Uberti 1586Cipriano Uberti, Libro terzo della Croce, Milano, MDLXXXVI.

Uginet 1980aFrançois-Charles Uginet, Challant, René de, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 24, Roma, 1980, pp. 365-369.

Uginet 1980bFrançois-Charles Uginet, Chatillon, Luis de, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 24, Roma, 1980, pp. 386-387.

Viglino Davico 2008Micaela Viglino Davico, Architetti e ingegneri miilitari in Piemonte tra ‘500 e ‘700, Torino 2008.

Zapperi 1968aRoberto Zapperi, Birago, Carlo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 10, Roma, 1968, pp. 575-579.

Zapperi 1968bRoberto Zapperi, Birago, Ludovico, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 10, Roma, 1968, pp. 597-603.

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Doriano Beltrame

RiassuntoIl tentato colpo di mano francese su Vercelli, del novembre 1553, è il capolavoro del capitano guascone Raimond de Salveson, governatore di Verrua. Sfortunatamente per gli attaccanti, la guarnigione imperiale riusciva a difendersi nella cittadella e il corpo di spedizione del maresciallo Charles de Cossé, conte di Brissac non poteva effettuare un valido bombardamento per la scarsità di artiglieria. La città era taglieg-giata prima dell’arrivo dei rinforzi. Il racconto restituisce tutta la complessità delle operazioni di soccorso, mettendo in evidenza l’importanza delle risorse impiegate.

AbstractThe attempted french attack of Vercelli, of November 1553, is the masterpiece of captain guascone Raimond of Salveson, governor of Verrua. Unfortunately for the invaders, the imperial garrison suceeded in defending themselves in the citadel and the unit in change for the mission of marshal Charles de Cossé, count of Brissac couldn’t carry out a valid bombardment because of the lack of artillery. The city had been subjected to rewards before the arrival of the supports. The narration gives very well the idea of the difficulty of the rescue operations, putting in evidence the importance of the sources they used.

[email protected]

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Vercelli è in mane de Francesi

Fig. 1 - ASM, CS, busta 171, fascicolo 1553 Novembre, Lettera del governatore della cittadella di Ver-celli / maestro di campo Sebastián San Miguel, dell’uomo d’arme Giuseppe Caresana e del colonnello Battista dell’Isola al collaterale generale / governatore di Novara Gio. Pietro Cicogna, copia, [Cittadella di Vercelli, 18 novembre 1553]. Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. ASM, Autorizzazione a pubblicare in data 20.06.2017 - protocollo 3806/28.13.11/13; nulla-o-sta all’accoglimento in data 12.06.2017 - protocollo 3556/28.13.11/13.

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Doriano Beltrame

Fig. 2 - ASM, CS, busta 176, fascicolo 1554 Gennaio (16-25), Supplica del governatore della cittadella di Vercelli / maestro di campo Sebastián San Miguel al governatore generale del Ducato di Milano Fer-rante Gonzaga, copia, [post 16 gennaio 1554] (allegata a: Ordine del governatore generale del Ducato di Milano Ferrante Gonzaga al senatore Junio Varahona, minuta, Casale, 16 gennaio 1554). Su conces-sione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. ASM, Autorizzazione a pubblicare in data 20.06.2017 - protocollo 3806/28.13.11/13; nulla-osta all’accoglimento in data 12.06.2017 - pro-tocollo 3556/28.13.11/13.

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Vercelli è in mane de Francesi

Fig. 3 - Anonimo [Giovanni Maria Olgiati], [Vercelli], Disegno della pianta delle fortificazioni, s.d. [1553 ca.] (AST, Sezione Corte, Biblioteca Antica, Manoscritti, Architettura militare, vol 1, f. 1). Sono visibili i siti militari maggiormente investiti dai Francesi nell’impresa del novembre 1553 (il castello con il portello de Sesia e la vicina Falsa braga, la Cittadella, la porta de servi, la porta de stra de s. german’, il Vescovado). Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. AST, Autorizzazione a pubblicare in data 09.06.2017 - protocollo 2095/28.28.00-54.

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Andrea Musazzo

LA CULTURA A VERCELLI NEL SECONDO CINQUECENTO:BERNARDINO PELLIPARI SCRIVENTE E SCRITTORE

Vercelli, tra Cinque e Seicento, non fu una città particolarmente vivace dal punto di vista culturale: si è osservato che «non ospitò alcuna società letteraria, né, per lungo tempo, elaborò una produzione letteraria autonoma, anche se gli stampatori vercellesi e trinesi furono professionisti assai stimati e lavorarono a ritmo pieno, espandendo la loro arte anche fuori dal Vercellese»1. Alla luce di alcuni documenti, per lo più inediti, intendo soffermarmi proprio su un tipografo vercellese, Bernardino Pellipari, ma prima di procedere sembra opportuno qualche cenno sul panorama let-terario cittadino del secondo Cinquecento.

Pur esistendo un gruppo di cultori della letteratura, mancava in città un’accademia vera e propria. A tal proposito, occorre ricordare che Gaspare De Gregory, giurista e autore dell’Istoria della vercellese letteratura ed arti, composta tra il 1819 e il 1824 in tre volumi, riteneva che a Vercelli fosse già attiva nel XVI secolo l’Accademia degli Insipidi. Lo studioso, citando l’orazione De laudibus Divi Francisci di Baldassarre Salmazza di Frassineto, così scriveva: «Con questa orazione da noi posseduta si com-prende il florido stato degli studi in Vercelli, animati dall’accademia degl’Insipidi, che doveva essere diretta dal Salmatia professore di umane lettere»2. Una verifica da me

In questo contributo rielaboro un capitolo della mia tesi di dottorato (Musazzo 2016, pp. 87-106). De-sidero ringraziare la prof.ssa Francesca Geymonat, che ha letto il mio scritto, annotando con pazienza e generosità molti suggerimenti; esprimo inoltre la mia gratitudine al prof. Claudio Rosso e al dott. Giorgio Tibaldeschi, per i preziosi momenti di confronto. Per la consueta solerzia che ha agevolato le mie ricerche, ringrazio infine Patrizia Carpo dell’Archivio storico del Comune di Vercelli e il personale dell’Archivio di Stato di Vercelli.

Sigle

ASCV = Archivio storico del Comune di Vercelli.ASV = Archivio di Stato di Vercelli.EDIT16 = Censimento nazionale delle edizioni italiane del XVI secolo (sito internet: edit16.iccu.sbn.it, ultimo accesso 26 settembre 2017).GDLI = Grande dizionario della lingua italiana, XXI voll., Torino, UTET, 1961-2002.REP = Repertorio etimologico piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2015.

1 Baldissone 2011, p. 387. Per una breve rassegna dei principali poeti vercellesi nel Cinquecento, per esempio quelli raccolti da Ranza nei Vercellarum poetarum carmina: Baldissone 2011, p. 389. Esistono diversi libri in cui sono censiti scrittori vercellesi o che operarono a Vercelli nel periodo esaminato: si vedano almeno Rossotti 1667; gli indici di De Gregory 1820, Vallauri 1841, vol. I e Dionisotti 1862.2 De Gregory 1820, p. 149n. L’opera citata è Salmazza 1577. EDIT16 riporta il titolo del libro,

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Andrea Musazzo

condotta sulla copia conservata presso la Biblioteca Agnesiana di Vercelli non con-sente tuttavia di confermare l’affermazione di De Gregory, poiché mancano alcune pagine della dedica. Compaiono, è vero, riferimenti a una «vetus Academia nostra» e a una «celeberrima Academia», ma il cenno ai «claros et nobiles adolescentes (sic) condiscipulos meos» e agli studi di eloquenza lascia intendere che si trattasse di una scuola privata piuttosto che di un’accademia3. È dunque più prudente ritenere che l’Ac-cademia degli Insipidi fiorisse solo in seguito, intorno alla metà del secolo successivo4.

Dalla consultazione dell’opera citata è comunque possibile ricavare un indizio sui contatti tra i letterati vercellesi: una nota di possesso vergata in calce al frontespi-zio dell’Oratio di Salmazza recita infatti «Francisci Mariae Vialardi dono authoris». Di Francesco Maria Vialardi, nato intorno al 1540 nella sua «patria di Vercelli» e lì rimasto almeno fino al 1560, sappiamo, tra l’altro, che postillò una copia della Gerusalemme conquistata, che fu in contatto con la Camerata de’ Bardi, dove co-nobbe Vincenzo Galilei, e che scrisse un’opera giocata sulla satira della taccagneria, Della famosissima compagnia della Lesina, la quale conobbe diverse edizioni per tutto il Seicento5. In linea con le idee di Salviati, che avevano portato a escludere Tasso dagli spogli del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), Vialardi manifestò nelle postille alla Conquistata il suo disprezzo per lo scrittore, considerato autore di una poesia «mendica tutta», «poeta da gnocchi rispetto all’Ariosto», e per la sua opera, che «non è poema, anzi, se è lecito fingere una parola nuova, è versume»6.

Per citare un’altra testimonianza sulle relazioni tra i letterati vercellesi, si pen-si alla traduzione dal latino del trattato sulla peste del fisico vercellese Francesco Alessandri, opera preceduta da quattro sonetti in lode dell’autore, scritti da altret-tanti poeti vercellesi, Girolamo Crotto, giureconsulto, Ottavio Lancea (o Lanza), fisico, già dedicatario della citata Oratio di Salmazza, Pietro Avogadro di Quinto e Giovanni Stefano Alessandri. Questi, se non si distinsero per particolare bravura, nei loro componimenti di gusto petrarchesco seppero far uso di un italiano scevro di tratti locali. Lo stesso fece l’autore del trattato, che fin dalla dedicatoria indirizzata a Tommaso Valperga di Masino fece sfoggio di una lingua non priva di intenti artistici:

senza indicare le biblioteche in cui è custodito. Alla copia posseduta dalla Biblioteca Agnesiana di Vercelli si risale tramite Gorini 1958, p. 91.3 Salmazza 1577, prime pagine non numerate.4 Mauri 1988, p. 824; Inglese - Asor Rosa 1991, vol. II, p. 1007.5 Vialardi di Sandigliano 2005, pp. 304-307.6 Vialardi di Sandigliano 2005, p. 302. Le postille, che meriterebbero senz’altro un ulteriore esame, furono trascritte da Angelo Solerti e studiate alla sua morte da Bonfigli 1930, pp. 144-180. Sull’esclusione di Tasso dalle due prime edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca, si veda almeno Marazzini 2013, pp. 100-104.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

Con due lucerne, una di mezzo giorno, di qua, et di là aggirandomi, al fine ho ritrovato V. S. Illustriss. della antichissima casa Valperga; il cui splendor tralasciando, tra l’altre perfettioni, non occorre gir tant’alto, non a volo alzarsi, non con mal purgato inchiostro scrivere, le sue doti, al mondo più che palesi; niuno vedendosi a lui dinanzi, et in compagnia molto pochi: perciocché si scorge in quella, l’honor della Corte del Serenissimo Duca Carlo Emanuele, il qual’in quest’età avanzando ogn’altro Prencipe, tanto più eccelle, e penetra, più che niun’altro, alla cognizione d’ogni cosa: et con la seconda lucerna di Cleante, con ogni pregio, ogni trionfo, l’adorno; ancor che si conosca, che in questa patria, ci sono huomini da star al paro di qual si voglia forestieri […]7.

Si noti almeno la scelta del verbo gir, fortemente letterario e, quanto al contenuto, il riferimento alle lucerne di Aristofane e di Cleante, divenute proverbiali, a detta di Erasmo, «per la loro straordinaria assiduità nello studio. Infatti colui che esamina le questioni una ad una, con grande impegno e attenzione meticolosa, si dice che lavori di notte, alla luce della lucerna di Aristofane o di Cleante»8. Alessandri fu anche po-eta, e lasciò distici elegiaci nell’Opera della Croce di Cipriano Uberti; si ha inoltre notizia di un epigramma scritto in giovane età dall’Alessandri per un altro fisico, Branda Porro, suo maestro a Pavia9. Dunque, come spesso accadeva, fino almeno all’inizio del Novecento, l’uomo di scienza era perfettamente in grado di scrivere pagine di piacevole lettura, ornate di figure retoriche e caratterizzate da un lessico selezionato. A tal proposito, si sarà notata, tra i nomi dei poeti sopra menzionati, la presenza di un altro fisico, Ottavio Lancea, che già in passato aveva composto un sonetto dedicatorio per Lorenzo Davidico10.

Pietro Avogadro di Quinto compare, sempre come autore di un sonetto, anche in un altro trattato sulla peste uscito dai torchi del Molino, tipografo vercellese, nel 157711; risulta tuttavia difficile individuare l’autore, poiché nello stesso periodo sono attestati almeno due Pietro Avogadro di Quinto. De Gregory attribuisce i sonetti di cui si è fatta menzione a un Pietro, padre di Francesco Maria, e dalle Genealogie di Teodoro Arborio Mella sappiamo che il padre di Francesco Maria era il notaio Pietro, figlio di Francesco Avogadro12. Come emerge da un atto di transazione datato 1565,

7 Alessandri 1586, c. 1 non numerata.8 Trascrivo le parole di Erasmo da Lelli 2013, p. 667.9 Uberti 1588; la notizia dell’epigramma è in De Gregory 1820, p. 56.10 Davidico 1568, p. 7. Sul Lancea si veda anche De Gregory 1820, pp. 148-149.11 Boido Trotti 1577.12 De Gregory 1820, p. 74; T. Arborio Mella, Genealogie, famiglia Avogadro di Quinto, fotocopia in ASV.

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Andrea Musazzo

Pietro di Francesco stette «al studio tanto a Pavia come al Mondovì»13, e allo stesso anno risale l’ingresso nel Collegio dei notai: il Liber matriculae della corporazione registra anche la data di morte, il primo novembre 158714. Nel medesimo periodo visse un Pietro Avogadro di Quinto, figlio di altro Pietro, ma seguendo De Gregory dovremmo escludere che quest’ultimo Avogadro fosse l’autore dei sonetti proemiali di cui si è detto. Nella famiglia non mancò, in ogni caso, l’interesse per la letteratura: il figlio Paolo, cavaliere di Malta, fu autore di un’opera in ottava rima, il Vago e vero tempio d’amore, scritta in lode di alcune donne vercellesi e stampata nel 159715. Se si riuscisse a provare che il Pietro Avogadro autore di sonetti è da identificare con il notaio vercellese registrato nel Liber matriculae (e di cui si conservano atti rogati tra il 1558 e il 1578), sarebbe interessante confrontare la lingua impiegata nei versi con quella che emerge dalle scritture notarili.

Per ora è possibile effettuare un’operazione simile sugli scritti di un intellettua-le, più noto rispetto ai poeti fin qui menzionati, che grazie alla sua attività diede un contributo alla cultura vercellese. Mi riferisco a Bernardino Pellipari, membro di una famiglia di tipografi locali e autore dell’Italia consolata, commedia scritta in occasione della visita della coppia ducale a Vercelli nel novembre del 1560 e data alle stampe nel 156216. Le carte d’archivio offrono, in questo caso, materiale assai interessante: anzitutto si conservano scritture vergate dalla mano di Pellipari, ed è quindi possibile un confronto con l’italiano letterario impiegato nella commedia. Possediamo inoltre, come vedremo, preziose informazioni su alcune opere presenti in casa del tipografo al momento della sua morte.

Il testamento di Bernardino Pellipari, datato 10 aprile 1587 e conservato presso l’Archivio storico del Comune di Vercelli, contiene il rinvio a documenti scritti di pugno del testatore stesso17:

13 ASV, Prefettura di Vercelli, Giudiziario, Fondo antico, mazzo 47, fascicolo non numerato, c. 4r.14 ASCV, Liber matriculae, c. 42 (edizione su CD-Rom a cura di Olivieri 2000; consultabile anche in rete all’indirizzo: scrineum.unipv.it/LM/home.html, ultimo accesso 26 settembre 2017).15 Bersano Begey - Dondi 1966, vol. III, p. 336; De Gregory 1820, p. 75. Vallauri attribuisce invece il Vago e vero tempio d’amore a Pietro Avogadro di Quinto (Vallauri 1841, vol. I, p. 249). Ritengo credibile la testimonianza di De Gregory, che si basa sulle notizie riportate dallo storico Carlo Amedeo Bellini, il quale possedeva l’opera, come quest’ultimo afferma in C. A. Bellini, Serie degli uomini e delle donne illustri della città di Vercelli col Compendio delle vite de’ medesimi, Parte terza, cc. 42-43, manoscritto in ASCV. 16 Pellipari 1562. La lettera dedicatoria è trascritta in Gorini 1955, pp. 13-14. Le pubblicazioni apparse nel 1562 «nelle stampe di Sua Altezza» vanno attribuite alla tipografia del padre di Bernardino, Giovanni Maria: Bersano Begey - Dondi 1966, vol. III, p. 327. 17 In questa e nelle successive trascrizioni adotto i seguenti criteri: sciolgo le abbreviazioni tra parentesi tonde, segnalo le mie integrazioni tra parentesi quadre, rendo con dî la preposizione articolata, introduco gli accenti, adeguo secondo l’uso moderno la punteggiatura, gli apostrofi e l’impiego di maiuscole e minuscole.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

Più ha lassato et per ragio(n) di legato lassa alla nobile madonna Angela Broglia, sua moglie amantissima, le sue dotte & gionta et oltra detta dotta et tutte le sue veste et gioje festive & quotidiane, sì di lino come seda, et anelle & tutti li mobili & lingiaria, dî quali in una lista p(er) esso testatore fatta li sette di febraro de l’ anno p(rese)nte, per detto testatore sottoscritta & a me nott(ai)o rimessa; e più scudi cinquanta dî beni d’esso test(ato)re & scudi vinti uno et mezzo decritti in una polliza per esso testatore fatta li sette di febraro de l’ anno p(rese)nte, a me nottayo consignata & datta, dî quali vole che detta sua moglie ni possa disponer a suo piacere et che li possa pigliar d’auct(orit)à p(ro)pria, senza licenza dil suo herede né giudice ordinario, et oltra detti legati vole che habbia li allimenti, cioè il viver et vestir per uno anno, o sia per l’anno dila conditione a costo dil herede suo universale. Più ha instituito & nominato et instituisse et nomina suo herede particolare il nobile m(esse)r Fran(ces)co Pelipari, suo fr(at)ello, in scudi sessanta sey al detto testatore dovuti per instr(ument)o rogato al nobile m(esse)r Gioanni Blazate nottayo et neli intagly di lettere et utensily da stamparia qual detto testatore ha18.

Oltre alla lista e alla polizza citati nel testamento, si sarà notato, nell’ultima riga del passo trascritto, il riferimento agli utensili da stamperia di proprietà di Bernardino che sarebbero andati ad arricchire la tipografia del fratello Giovanni Francesco, il quale nel 1584 aveva acquistato la bottega vercellese di Bernardino, trasferitosi a Torino19. Del materiale rimane traccia nell’inventario di cui ci occuperemo: in questo documento, redatto il 13 aprile 1587, quindi due giorni dopo la morte del Pellipari, sono elencati nel dettaglio i beni mobili presenti nella casa situata nella parrocchia di San Lorenzo.

Occorre precisare subito che la lista “per esso testatore fatta” si apre in realtà con una dichiarazione di Angela Broglia, moglie di Bernardino Pellipari. La grafia pare però identica a quella della formula di sottoscrizione vergata da Bernardino, il quale scrisse forse a nome della moglie, di cui manca invece la firma. Quanto ai beni elencati, la grafia è meno curata e l’uso sistematico di ch- davanti alle vocali a e o, assente in altre parole scritte sicuramente dal Pellipari (come, cosa, casa), ci porta a escludere che l’elenco sia stato scritto dal tipografo. Per le considerazioni sulla lingua da lui impiegata in questo documento, dunque, ci baseremo solo sull’introdu-zione all’inventario e sulla dichiarazione finale, accompagnata dalla firma.

18 ASCV, notaio Pietro Avogadro di Benna, filza 106, documento del 10 aprile 1587, cc. 221v-222v, edito in Gorini 1955, pp. 17-19 (trascrivo dall’originale).19 ASCV, notaio Giovani de Notariis, filza 4, documento del 4 agosto 1584, edito in Stroppa 1911, pp. 364-365 e in Gorini 1955, pp. 16-17.

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Andrea Musazzo

ASCV, not. Pietro Avogadro di Benna, filza 81, c. 422r (7 febbraio 1587). Riproduzione autorizzata dal Comune di Vercelli.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

ASCV, not. Pietro Avogadro di Benna, filza 81, c. 410r (7 febbraio 1587). Riproduzione autorizzata dal Comune di Vercelli.

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Andrea Musazzo

In nome di Dio20

li 7 feb(raro) 1587Inventario di tutte le robbe qual io Angela Pellipparia, e Broglia, ho portato in casa di mio marito fuori di mia dotte, et p(ropri)a21.Pezze 5 di tella di 14 et una de 18 et una meza pezza di tella di 20, parra 3 di lanzoli di lino mezano et una meza pezza di mantiletti di rista nova e mantil 3 di braze 4 l’uno et mantil 3 di braze 5 l’uno et chamise 6 nove di lino et schosalli 6 di lino novi lavorati et gorgere 6 novi di lino et 3 serviette di lino et 3 di rista e chobie 3 di mantileti di rista et 3 di lino et para 3 de fodrete di lino lavorati et uno mezzo rubbo di stagno et una chamisa nova di lino lavorata di seda in charnadina22 et uno zipone novo di tella di Chrema et onzi tre di chorai et chosinetti 4 di pena di ocha et 4 mantiletti novi di Lione.Io Bernardino ho visto le soprascritte robbe, qual affermo esser tutte di Angiela mia moglie, fuori della sua dotte.Io Bernardino Pellippari23.

La polizza, scritta nello stesso giorno, uscì senz’altro dalla penna del Pellipari: in questo caso la formula “di propria mano” non lascia ombra di dubbio.

In nome di Dio, et alli 7 di febraro 1587Sia notto et manifesto ad ogni persona sì come io Bernardino Pellippari confesso di essere vero et real debitore a Angela mia moglie di scuti undeci da g(rossi) 9, prestati in due volte oltre la sua dotte et fuori di dotte, de’ quai danari prometto di darli a ogni sua richiesta, con firmarli di mia propria mano ogni altra cosa che havrà portato in mia casa, qual si conosca a esser veramente dil suo, fuori come sopra di sua dotte, che voglio così, et per tutto dove sarà la sottoscrittione di mia propria mano voglio che il tutto se li facia bono sino a un pontal di stringa, com’è di ragione. In fede dil vero ho fatto la p(rese)nte scritta et sottoscritta di mia propria mano l’anno et giorno sud(dett)i.Io Bernardino Pellippari di propria mano1587. Et più li devo (scudi) 3 g(rossi) 4 a me prestati li 15 m[ar]zo.Et più li devo (scudo) 1 g(rossi) 5.Et più li devo scudi 5 (grossi) 4 (lire) 624.

20 Sul margine sinistro del foglio.21 In genere gli inventari sono introdotti da “et primo”, cui seguono i vari “item” o “et” a ogni voce elencata, ma nel documento in esame la lettera in apice pare una a, dunque sembra più convincente la forma messa a testo.22 ‘Color rosso vivo’: Rossebastiano 1988, p. 416, s. v. incarnadino. Interessante la grafia non univerbata, che ho deciso di mantenere nella trascrizione. Per il lessico legato ad aspetti della vita quotidiana, non commentato in questa sede, si rinvia a Musazzo 2012 e Musazzo 2014.23 ASCV, notaio Pietro Avogadro di Benna, filza 81, c. 422r.24 ASCV, notaio Pietro Avogadro di Benna, filza 81, c. 410r.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

Nei documenti sopra trascritti saltano all’occhio gli ipercorrettismi (robbe, dotte, notto), non molti e del resto pressoché inevitabili in scritture di questo genere, mentre gli scempiamenti (meza, mantileti, fodrete) compaiono, insieme con il lessico dialet-tale (chamise, schosalli, chobie, charnadina, zipone, chorai), per lo più nell’elenco, che, come si è visto, probabilmente non fu scritto dal Pellipari. Si rilevano, inoltre, quali elementi comuni nelle scritture settentrionali dell’epoca, la preposizione dil, il pronome obliquo dativale li, usato per il femminile, anche in enclisi, il relativo quai.

Da notare, nella polizza, due espressioni contigue e in certo senso tra loro contra-stanti. Con la prima, facia bono, dove al congiuntivo con scempiamento si accom-pagna la forma non dittongata, lo scrivente rivela una certa competenza nell’attin-gere dal lessico specialistico richiesto dalla tipologia del documento25. Subito dopo compare però il sintagma sino a un pontal di stringa26, che appartiene al parlato. L’espressione è tra l’altro attestata in un glossario latino-italiano stampato nel 1597 a Milano («Acicula: il pontal della stringa»)27, ma per il significato figurato di “oggetto di poco valore”, che assume nel documento trascritto, occorre rivolgersi al GDLI28. Per restare in area settentrionale, si veda la Gerusalemme Liberata tradotta in mila-

25 La definizione di far buono è nel Vocabolario della Crusca 1612, s. v. buono, con il significato di ‘mettere in credito’. La sopravvivenza di tale accezione è testimoniata da Rezasco 1881, s. v. buono, dove compare con rinvio a bonificare.26 La grafia della parola stringa, così come compare nel documento, lascia aperte altre ipotesi: il trattino della t è assente, e la lettera è più bassa rispetto alle altre presenti nel manoscritto, pertanto a una prima lettura le possibili trascrizioni sembrerebbero siringa (ma mancherebbe in tal caso il punto sopra la prima i) o suinga. Quest’ultima forma non è in uso, a quanto ne sappia, nel dialetto moderno, e il ricorso ai dizionari piemontesi si rivela infruttuoso. Come spesso accade quando i repertori lessicali piemontesi non contengono parole attestate in scritti vercellesi, è utile la consultazione del dizionario milanese più noto: in Cherubini 1841 vol. III, s. v. si legge: «Suìga. v(oce) cont(adina) del Basso Mil(anese). Forse quel Bastone auncinato col quale i custodi delle acque d’irrigazione aprono e serrano i caterattini di esse». Seppur leggermente diversa, in quanto priva della nasale, potrebbe trattarsi della stessa parola che si legge nella polizza. La cautela impiegata nella definizione, resa esplicita dal “forse” iniziale, lascia intendere che nell’Ottocento il termine fosse in disuso. Dunque dovremmo supporre che i dizionari piemontesi non ne facessero menzione per questo motivo, oppure perché il vocabolo “del basso milanese” circolava in passato fino ai confini orientali del Piemonte, restando però sconosciuto ai compilatori dei vocabolari piemontesi. Si noti inoltre che il padre di Bernardino, Giovanni Maria, era originario di Palestro (Gorini 1955, p. 12): anche qui la coltivazione del riso era stata introdotta da circa un secolo e la suinga, nella Lomellina come a Vercelli, doveva essere uno strumento abbastanza comune. Tuttavia, in assenza di attestazioni di siringa e suinga in combinazione con pontal, continuo a ritenere più probabile la lettura pontal de stringa, espressione in uso nel milanese almeno fino al Settecento.27 Bongrani - Morgana 1992, p. 152.28 GDLI, s. v. puntale1: «Con uso enfatico e iperbolico: cosa da nulla, di scarsissimo valore (per lo più in costruzioni negative)». Seguono esempi cinque e seicenteschi in cui compaiono le espressioni “puntal di stringa” e “puntal d’aghetto”: per la prima sono citati Benedetto Varchi (Firenze, 1503-1565), Alessandro Sozzini (Siena, 1518-1608) e Giambattista Lalli (Norcia, 1572-1637); per la seconda, gli esempi sono tratti da opere di Leonardo Salviati (Firenze, 1540-1589) e di Lorenzo Lippi (Firenze, 1606-1665).

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nese da Balestrieri. I versi di Tasso «Dicea: “L’intera libertà ti dono”, / e de le spoglie mie spoglia non volse»29, nella traduzione con intento d’arte diventano: «El me diss: “Voeutt andà? Te see patronna, / no vuj del tò gnanch on pontal de stringa”»30.

Non è comunque così rara la presenza di esempi di parlar figurato ed espressioni idiomatiche in documenti che richiederebbero uno stile, se non elevato, almeno neu-tro. Si veda, per esempio, questo passo tratto da una supplica che la città di Vercelli, impoverita dalle guerre, rivolgeva al duca chiedendogli di liberarla per dieci anni dalle tasse (corsivo mio):

Supplica(n)dola sia servita, in essecutione della buona volo(n)tà mostratali & inte(n)tione datta, liberarla da ogni carigo almeno fino c’habbia potuto rimettere le campagne, & pigliare fiato […]31.

In questo caso si tratta addirittura di una supplica rivolta al duca, e data alle stampe, dunque non deve stupire l’uso che Pellipari fece della locuzione attinta dal parlato in un documento che certamente non sarebbe stato divulgato.

Ci si potrebbe chiedere se l’impiego di parole ed espressioni anche lombarde, naturale data la posizione geografica della città, fosse almeno in parte influenzato dai rapporti commerciali con il confinante Stato di Milano e dalla presenza stabile in città di lavoratori forestieri provenienti da quella che oggi chiamiamo Lombardia32. Presso l’Archivio storico del Comune di Vercelli si conserva un fascicoletto di quat-tro carte intitolato 1561, ult(im)o di mag(gi)o. Consegna fatta p(er) li forastiery per vigor de l(ette)re di Soa Alt(ezz)a per la exemptione. Inantj al s(igno)r Hier(onim)o Ugacio ducal reffer(endari)o33. Esso fornisce dati assai utili per conoscere i flussi migratori in entrata negli anni 1561-156234, integrando le informazioni che si ricava-no sulla popolazione vercellese nel 1561 grazie al Libro delle boche umane redatto nello stesso anno per censire gli abitanti in cinque delle dodici vicinie della città (Santo Stefano del Monastero, Sant’Agnese, San Giuliano, San Graziano e Santa

29 Gerusalemme Liberata, XIX, 95, vv. 3-4 (Caretti 1979, p. 448).30 Balestrieri 1816, p. 456.31 Trasonto de’ memoriali 1621, p. 1. 32 Anche la famiglia Pellipari, del resto, era originaria di Palestro. Bernardino e il fratello Giovanni Francesco erano però qualificati come “cittadini di Vercelli” negli atti notarili (già il padre Giovanni Maria era detto civis Vercellarum in un documento del 1560: Tibaldeschi 2014, p. 93n) e furono sepolti nella chiesa vercellese di San Paolo (Gorini 1955, pp. 12, 16-17).33 ASCV, Armadio 51, corda 77.34 La data sulla copertina indica l’inizio delle registrazioni, l’ultima data annotata nel fascicolo è il 20 giugno 1562.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

Maria Maggiore): i vercellesi censiti nel Libro erano 179735, la Consegna dei fore-stieri computa 238 bocche36. Lo studio dei dati si rivela tuttavia problematico, poiché il Libro non contiene, come si è visto, i risultati del censimento globale, limitandosi a cinque parrocchie. Inoltre, tra i forestieri annotati nel fascicolo, solo una parte risie-deva in città. Astenendoci da calcoli percentuali che risulterebbero inevitabilmente approssimativi, è però possibile analizzare gli elementi offerti dalla Consegna dei forestieri. Nella seguente tabella si riassumono i risultati delle ricerche effettuate sul fascicolo:

Provenienza Città Distretto Totale

Brescia 25 38 63

Lodi 21 41 62

Cremona 15 18 33

Mantova 0 27 27

Milano 2 0 2

Palestro 13 0 13

Non specificato 23 15 38

Totale 9937 139 238

Per quanto riguarda la provenienza, che interessa maggiormente, i dati non la-sciano dubbi: prescindendo dai forestieri di cui non si conosce la terra d’origine, gli immigrati abitanti in città nel biennio 1561-1562 provenivano da terre lombarde. Se si confronta il numero di forestieri residenti a Vercelli con il numero di abitanti, presumibilmente almeno il doppio di quei 1797 censiti nel Libro delle boche umane, è evidente che la percentuale è esigua. Se però ai forestieri registrati nella Consegna del 1561 si aggiungono gli abitanti il cui nome, nel Libro delle boche umane, è accompagnato dall’indicazione della provenienza, i numeri cambiano, e sembrano

35 Piemontino 2011, pp. 36-37.36 Il calcolo risulta problematico, pertanto è opportuno tener conto di un prevedibile margine di errore: non è chiaro, per esempio, se il numero di bocche segnalato accanto al nome del capofamiglia comprenda anche quest’ultimo (si è proceduto alla somma includendolo nel numero di bocche indicato, ritenendo che il dato rappresenti il totale dei componenti di una famiglia).37 Il luogo di residenza non è indicato per tutti i forestieri: in assenza di precisazioni, si presume che l’abitazione si trovasse in città.

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suggerire che chi si stabiliva in città proveniva da territori lombardi piuttosto che dal resto del Piemonte.

Ulteriori informazioni che meriterebbero un approfondimento si ricavano, sem-pre dal citato Libro, riguardo alle scuole domestiche attive in città: sappiamo per esempio che un Girolamo Avogadro di Valdengo, registrato come «maestro di scola» nel fascicolo dedicato agli abitanti della parrocchia di Santa Maria Maggiore, teneva a dozzina sedici «scollari» di un’età compresa tra gli otto e i sedici anni. Una scuola dai caratteri più istituzionali doveva essere quella tenuta da Giovanni de Viglongo, «rector scolarum»: nel documento, tra l’altro, i nomi dei dodici allievi «degentes in contubernio» sono in latino, diversamente dal criterio adottato nel resto del Libro. Si ha infine notizia di tale Monica, moglie di Francesco Clemente e «maestra di scola», la quale educava sei fanciulle «donzenanti» di età compresa tra i dieci e i dodici anni38. Anche il fratello di Bernardino, Giovanni Francesco, insegnava «a scriver et l’abaco»: i Pellipari contribuirono dunque alla diffusione della cultura nella Vercelli del secondo Cinquecento, non solo attraverso i libri che uscivano dai loro torchi e dalle loro librarie39.

Di Bernardino Pellipari, come si è visto, non si conservano solo le scritture verga-te di suo pugno, poche invero, ma sufficienti per dare un’idea della sua competenza linguistica in veste di scrivente: per nostra fortuna è possibile integrare i dati di cui si è discusso attraverso il confronto con l’italiano letterario che uscì dalla penna del Pellipari autore dell’Italia consolata.

Quanto al genere, la designazione di Comedia data nel sottotitolo non sembra del tutto soddisfacente. Risulta senz’altro problematico individuare i modelli di Pellipari, ma forse l’opera si ispira a quelle “rappresentazioni allegoriche” che nel secondo Quattrocento fiorirono nelle principali corti italiane40. L’intento celebrativo che si ritrova nell’Italia consolata si fondeva con la tematica mitologica anche in questi drammi: così gli dei dell’Olimpo compaiono, per esempio, nel Paradiso di Bernardo Bellincioni, poeta fiorentino alla corte di Ludovico il Moro41. Temi di attualità po-litica trovarono spazio anche in un’altra rappresentazione allegorica, eseguita sem-pre a Milano nel 1449, attraverso la quale si celebrò un’alleanza con la Repubblica di Venezia42. Senza uscire dai confini della città, si può ricordare che nello stesso

38 ASCV, Armadio 74, Consegna delle bocche per imposta del sale 1561, Parrochia di S. Maria Maggiore, cc. 5v; 21v; 52v. 39 Leonardi 2011, p. 14n.40 Sulle rappresentazioni allegoriche Sanesi 1911, vol. I, pp. 149-158; vi è chi ha parlato di “commedia politica”: Bergadani 1934.41 Sanesi 1911, vol. I, p. 152. Qualche notizia sul Bellincioni in Morgana 2012, pp. 37-38.42 Sanesi 1911, vol. I, p. 151.

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Frontespizio dell’Italia consolata di Bernardino Pellipari (Vercelli, Giovanni Maria Pellipari, 1562).

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1562, e ancora nella tipografia di Giovanni Maria Pellipari, fu stampato il Libro de Cavalleria entitulado El Cavallero Resplendor, opera in spagnolo del gentiluomo Tolomeo Molignano: la storia del «Cavallero Resplendor», figlio di Giove e Diana, occupa la prima parte del libro ed è un’esaltazione allegorica di Emanuele Filiberto. L’autore narra i viaggi del duca alla ricerca della più bella e più saggia principessa del mondo, mescolando le vicende storiche a eventi fantastici e a riferimenti mitologici, fino a giungere, come prevedibile, all’incontro con Margherita di Francia. Questa prima parte termina con una visione in cui sono celebrate le imprese e la magnanimità del duca. Nella seconda parte del libro, dedicata a Francisco Ferdinando d’Avalos di Aquino, governatore dello Stato di Milano, si parla della corte e degli stati dei Savoia, mentre la terza e ultima parte contiene una relazione minuziosa del viaggio dei duchi da Nizza a Cuneo, e di qui a Vercelli, dove si tennero pubblici festeggia-menti in loro onore. Faccio ritiene che per scrivere quest’ultima parte del volume il Molignano si servì di una «relazione opera di penna vercellese», da identificarsi con quella di Bernardino Pellipari43.

La vicende politiche trovano spazio anche nella commedia vercellese, in cui l’Italia, «che gran tempo fu regina / del mondo, & hor è fatta humile ancella /d’ogni insolente barbaro crudele / sol per cagion de’ sonnacchiosi figli, / molto si lagna, si lamenta e piagne / della sua dolce persa libertade»44. Nel primo dei quattro atti, due personaggi elogiano il bel paese, che compare poco dopo, personificato nei panni di «una molto soperba, e altiera Dea»45, e lamenta la triste sorte delle madri che, come lei, «per la gran discordia de’ figliuoli / neglette sono, povere, e mendiche»46. Al termine del suo breve soliloquio auspica, con «senso quasi profetico» (per dirla con Ordano, che dedicò qualche riga alla commedia nella sua Storia di Vercelli)47, di vedere un giorno scacciati gli stranieri, affinché si possa avere «un ben unito ovile, e un sol pastore»48.

Il secondo atto si apre con le parole di ringraziamento che Giove riceve da Venezia, sempre preservata dagli «oltraggi orendi, e bruti / del barbarico stuol em-pio, & iniquo»49; la città rivolge poi un pensiero alla madre Italia, angosciata per le divisioni tra i suoi figli. Giove promette il suo intervento, ma subito dopo lo si trova

43 Faccio 1928 citato da Bersano Begey-Dondi 1966, vol. III, p. 360. Sull’opera anche Avonto 1973.44 Pellipari 1562, pp. 3r-3v.45 Pellipari 1562, p. 6v.46 Pellipari 1562, p. 5r.47 Ordano 1982, p. 230.48 Pellipari 1562., p. 6r.49 Pellipari 1562, p. 7v.

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impegnato a consolare Siena, tormentata dalle recenti guerre e giunta in Piemonte per cercare la madre, insieme alle sorelle Genova e Napoli.

Il terzo atto è quasi interamente dedicato a un dialogo tra Mercurio, Caronte e un Prigionere, il quale narra di essere stato a lungo soldato in Piemonte, dove le angherie perpetrate ai danni di chi lo ospitava o dei prigionieri di guerra gli hanno fruttato un ricco bottino. Il pubblico doveva avere bene in mente l’atteggiamento dei soldati spagnoli, che fino a pochi anni prima erano ospitati nelle case civili, dunque il dialogo sembra introdurre l’atto successivo, a renderne più efficace il lieto fine50.

Nel quarto e ultimo atto ricompare Siena, che annuncia di aver trovato la madre Italia in un castello piemontese e che di lì sta giungendo, accompagnata da Piemonte, Venezia, Genova, Napoli e Vercelli. Nel presentare i figli a Giove, l’Italia dice di Vercelli: «Questa è Vercelli, che già fu l’albergo / e ’l nido universal d’ogni buontade, di virtù tempio, e fonte d’ogni bene. / Hor tutti i suoi honor conversi sono / in pianto amaro, e in dolorosi affanni»51. La città, come la madre e le sorelle, piange dinanzi a Giove la sua dolorosa condizione: divenuta «albergo di sì fatta gente strana» ha infine perso il suo amato sovrano, il «catolico buon Carlo», morto proprio a Vercelli nel 155352. Anche la risposta di Giove riconduce alle vicende recenti, in particolare nel cenno ai «traditori» che hanno consegnato la città «nelle man di gente tramon-tana»53. Negli anni precedenti il ritorno di Emanuele Filiberto, Vercelli, pur essendo rimasta in mano ai Savoia durante le guerre d’Italia, era posta sotto protettorato spa-gnolo e nel novembre 1553 fu vittima di un attacco francese: il riferimento ai «tra-ditori» allude evidentemente ad Antonio da Pontestura e al cugino “Merlo”, corrotti dai francesi che miravano a infiltrarsi nella piazzaforte. I francesi si ritirarono quasi subito, ma ebbero il tempo di saccheggiare la città (in quest’ occasione, tra l’altro, il canonico Costa riuscì a mettere in salvo la Sindone, custodita allora a Vercelli)54.

La consolazione per l’Italia e i suoi figli giunge con l’ingresso in scena del Duca, accompagnato dalla Pace: Vercelli perde i sensi per la «soverchia allegrezza» e, una volta risollevatasi, rende omaggio insieme alle altre città a Emanuele Filiberto, al quale Giove raccomanda di essere sempre «protettor servente» delle città lì ra-dunate55. La commedia si conclude infine con l’elogio del duca e della consorte

50 Sulla “benevola occupazione spagnola”, Ordano 1982, p. 221.51 Pellipari 1562, p. 20r.52 Pellipari 1562, p. 26r.53 Pellipari 1562, p. 26r.54 Ordano 1982, pp. 220-221; Cerino Badone 2011, pp. 317-321. Sull’attacco francese si veda anche lo studio di Doriano Beltrame pubblicato in questo stesso fascicolo e intitolato Vercelli è in mane de Francesi. L’impresa militare del novembre 1553.55 Pellipari 1562, p. 33r.

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Margherita, invitati a entrare nella città per dare inizio ai festeggiamenti.Sul valore dell’opera pare inevitabile sottoscrivere il giudizio di Vittorio Cian,

che evidenziò la «singolare assenza di gusto letterario» e «l’inettitudine e la goffag-gine letteraria del suo autore»56. Quanto alla lingua, si osserva senz’altro l’aspirazio-ne a una scrittura che fosse il più possibile “italiana”, ma accanto alle forme toscane compaiono tratti linguistici che denunciano la provenienza dell’autore.

Le incertezze del Pellipari nell’uso dell’italiano, come prevedibile, riguardano in primo luogo il vocalismo: nella lettera dedicatoria rivolta alla duchessa Margherita si legge duono, con dittongamento esteso impropriamente, che compare poi nelle forme puoco, buontade, puone. Oscillazioni nell’uso del dittongamento toscano si notano sempre nella dedica, dove compaiono, sulla stessa riga, le forme novo e fuo-co, e poi nella commedia con le coppie core/cuore, nova/nuova. Si tratta tuttavia di forme che avevano diritto di cittadinanza nella lingua letteraria. Tra gli ipercorretti-smi si segnalano inoltre nobbile, apprir, riccordati. L’anafonesi è presente in lingua, ma non in ponto né in giongier. Senz’altro settentrionali sono le forme di futuro semplice che rivelano l’uso del nesso -ar- in luogo del toscano -er- nella desinenza: entrarai, accetarai, temprarò, portarò. Ancora interpretabili come settentrionalismi sono i possessivi suoi e suo, usati in luogo di “loro”; da notare, infine, l’ampio ricor-so alla forma pronominale diretta gli, d’ampia diffusione poligenetica57.

Confrontando le pagine dell’Italia consolata con i manoscritti di cui si è discusso, si nota tuttavia che nella commedia scritta venticinque anni prima il Pellipari seppe rimanere lontano da alcuni dei settentrionalismi usati nelle carte d’archivio. Se in-fatti il relativo quai (p. 6r), letterario, oltre che dialettale, è impiegato diffusamente, nella commedia la preposizione dil compare una sola volta (p. 8r), contro le molte occorrenze di del; il pronome li dativale è assente, a fronte di darle (p. 8r), dandole (p. 10v) per il femminile, gli (p. 5r) per il maschile. La lingua che emerge dai do-cumenti del 1587, dunque, rivela una maggiore aderenza alla realtà fonetica e alle abitudini scrittorie del tipografo, che, nel suo esercizio di scrivente più che di scrit-tore, si sentì libero di usare forme comuni nelle scritture settentrionali dell’epoca58. L’impegno letterario rappresentava per un autore non toscano un continuo sforzo di allontanamento da forme municipali o tipiche delle scritture di livello più basso, quali le carte private destinate alle filze di un notaio, come nel nostro caso, o le lettere inviate a famigliari e amici. A questa seconda tipologia appartengono alcuni esempi sui quali si è soffermato di recente Enrico Testa: Ariosto e Castiglione nei loro car-

56 Cian 1928, pp. 395-397 (citato da Bersano Begey - Dondi 1966, vol. III p. 382).57 Rohlfs 1968, vol. II, § 462. 58 Sulla distinzione tra scrivente e scrittore Testa 2014, p. 162, con rinvii bibliografici.

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teggi impiegarono forme simili a quelle descritte sopra, cercando di evitarle, proprio come il nostro autore minore, nelle opere date alle stampe; persino il Bembo «pare, quando l’interlocutore-destinatario lo richiede o lo consente e quando prevalgono intenti pratici e necessità e urgenza predominano su altre ragioni, ricorrere a una lingua fatta in primo luogo per capirsi»59.

Tornando al Pellipari, si può affermare che la sua competenza nell’uso dell’i-taliano, confrontata con quella, a volte sommaria, che emerge per esempio dalle carte notarili coeve, denota una buona educazione linguistica. Per ciò che riguarda l’apprendimento della lingua, bisogna supporre che i tipografi vercellesi, dovendo probabilmente svolgere in prima persona il delicato compito di revisione editoriale, avessero una certa dimestichezza con l’italiano cui aspiravano le opere che passava-no per le loro mani, prima nella bottega di Giovanni Maria, il padre, poi nelle loro stamperie. Dalla tipografia di Bernardino uscirono forse dei Donati, come si evince-rebbe dal documento del 4 agosto 1584 di cui si è già fatta menzione: tra gli altri beni che Bernardino vendette al fratello compariva infatti la mader del Donato60. Come si è visto, la vendita non riguardò comunque tutti gli oggetti presenti nella stamperia, dato che nel testamento di Bernardino si faceva riferimento agli intagly di lettere et utensily da stamparia che il testatore ancora aveva alla data di sottoscrizione.

Esiste inoltre un interessante documento che consente, come già si è accennato, di verificare la reale consistenza dell’eredità del testatore: alla morte di Bernardino fu redatto un inventario di tutti i beni presenti nella sua abitazione. Qui di seguito si trascrivono le parti che interessano in questa sede, tralasciando molti oggetti passati in rassegna dal commissario che eseguì la ricognizione, comuni del resto a molte case dell’epoca. I pochi che si è deciso di riportare nella trascrizione mostrano che il materiale tipografico e i libri non furono inventariati a parte, come talvolta ac-cade, ma vennero descritti seguendone la disposizione all’interno dell’abitazione: ecco dunque, accanto ai letti, il torchio e il compositoio; una consistente fornitura di carta è custodita nella stessa stanza in cui si trova il grosso del corredo, descritto in un lungo elenco che occupa due fogli del documento; sotto il titolo “corde diverse”,

59 Testa 2014, p. 178; per gli esempi di scrittura epistolare da cui emerge una lingua d’uso, si veda in particolare il capitolo III, Nel retroscena dei letterati, pp. 161-183.60 Gorini 1955, p. 16. Per il significato del settentrionalismo mader, GDLI, s. v. madre («matrice di caratteri tipografici, stampo»); Cherubini 1841, vol. III, s. v. mader («quell’ordigno entro a cui si formi o getti checchessia, come a cagion d’esempio Madre da gettar caratteri e simili»); REP, s. v. méder («stampo, modello»). Forse, piuttosto che a stampi da cui furono creati i caratteri usati per la grammatica, la parola si riferisce alla composizione del Donato al senno con il Cato volgarizato, stampato nel 1587 a Ivrea da Giovanni Francesco Pellipari e Giacomo Ardizono (comunicazione personale di Giorgio Tibaldeschi, verificata sul catalogo EDIT16: Donato al senno con il Cato volgarizato. Di nuovo ristampato, & con somma diligenza revisto, & corretto, in Ivrea, per il Pellip. & l’Ardizono, 1587).

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che si riferisce per lo più a corde da violino, da liuto e da cetra, trova spazio anche la maggior parte dei libri; infine, l’ultima carta dell’inventario è dedicata all’elenco delle copie di atti, processuali e notarili, conservati in casa del tipografo.

I diversi tipi di carta presenti nell’abitazione sembrano confermare la notizia se-condo la quale Bernardino Pellipari fu rivenditore di carta, attività che forse perdurò anche dopo la vendita della tipografia al fratello61. Tra i beni del defunto sono inven-tariati anche due liuti, carta da intavolatura, libri da canto e le corde da strumento ad arco cui si è accennato. Sembrerebbe dunque che l’attività commerciale del Pellipari andasse anche oltre a quella nota, rivolgendosi ai suonatori che, come emerge dalla Consegna delle bocche per imposta del sale del 1561, abitavano nelle vicinie di Santa Maria Maggiore e di Sant’Agnese62.

Descriptione delli beni mobili dell’heredità dil fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari63.1587, alli 13 aprile, in Vercelli, in casa del fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari, nella vicinanza di S(an)to Lorenzo, avanti me comiss(ari)o sono comparsi il sig(no)r Horatio Magliono et m(esse)r Fran(ces)co Pellipari, p(rese)ntando la comissione et instando l’osservanza et in essequtione64 di detta mia comissione ho proceduto alla descriptione come siegue. […] Nella camera di suopra la caminata, una lettèra di noce quasi nova, una carriola di albera frusta, un tavollotto di noce […] <doi> un torculo65 da libri, <un grando e l’altro picolo>, un pezzo d’asso di noce da componere littere, doi tapedi da tavola frusti, un letto <et un cussino> di penne di gallina […]. In un’altra camera di suopra la suop(rascritta) <nove> xi quinterni di palpero grandone66, un libro vechio di caravina67 et un pezzo d’un altro qual pesa livre <quindeci> 17, un quinterno e mezzo di carta regale fina, <righe> risme <cinq(ue) e mezzo> sei carta da processo parte di Caselli et parte di Biella68, una risma di palpero

61 Leonardi 2011, p. 16.62 Piemontino 2011, pp. 48-49.63 ASV, Prefettura di Vercelli, Giudiziario, Fondo antico, mazzo 216, fasc. 6931, cc.1r-4v. Criteri di trascrizione in aggiunta a quelli già dichiarati: inserisco tra parentesi uncinate le parole cassate nel manoscritto e sottolineo quelle in interlinea, segnalo con tre punti tra parentesi quadre le parti che ho deciso di non trascrivere, impiego la crux in corrispondenza dell’unica abbreviazione di difficile lettura.64 Nel ms. essequutione.65 ‘Torchio da stamperia’: REP, s. v. torcol.66 I termini che descrivono le qualità di carta si ritrovano, per esempio, nel Dato del Datio 1696, p. 26: palpero grande da scrivere, palpero da stamegna, palpero da strazza.67 ‘Carta caprina’. La forma qui attestata è forse dovuta a una scorretta italianizzazione di cravina: REP, s. v. cavrin.68 Le cartiere di Caselle Torinese e di Biella sono ricordate in Leonardi 2006, p. 39, con relativa bibliografia.

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da strazza69 bianca et un’altra di turchina, figure n(umer)o 28 in carta regali stampate in arame, un lautto con sua cassia mediocre, un altro lauto <mediocre> picolo <un gremetto nuovo> senza cassa, cartone in fogli rubbi undeci et livre dodeci vinti, un libro chiamato Ditionario, quinterni <vintiquattro> quarantatré e mezzo di palpero rigato da intavoladura70, quinterni trenta di carta stampata da stamegna71, <mezza risma di carta da processo>, quinterni 16 di carta fena di † da scrivere, quinterni otto carta rigata da canto, quinterni diecinove di amistadi72, <rubbi quattro et livre vinti una cartone in fogli> fogli trentaotto di palpero azurro da dissegno, nu(mer)o dieci musselli73, filo da littere, otto amistadi grande diverse in carta, quinterni cinque di carta tenta, n(umer)o nove brevi di porporina messi a oro, un privilleggio in bergamena misso a oro concesso da S(ua) A(ltezza) Ser(enissi)ma al fu m(esse)r Hieronimo Pellipari, fogli sette di bergamena fina picoli rigati, n(umer)o 4 pezzi di bergamena picoli <un rubbo et otto livre di catone grosso> e dieci grandi da scrivere, <risme> risma una di articoli74, <due libre di bergamena> una tavoletta in bergamena mineata con oro di diverse sorti di lettere dil fu m(esse)r Hier(onim)o Pellipari, spechy tre, duoi grandi et un picolo, un pezzo di raso color d’oro per una parte di un busto, un pezzo di ormesino75 verde circa una quarta et altretanto bianco, quinterni quattordeci di libri diversi da risme, un libro ligato alla romana detto Formullario di instr(umenti) del Mussi, un quinterno de carte stampate da fig(ure)76, brazze tredeci di lavor alla rete largo tre dita, brazze <nove> 17 di lavor fatto a osso

69 Sant’Albino 1859, s. v. carta (- d’ strassa): «Carta straccia o di straccio, anche cartaccia. Qualità di carta cattiva e senza colla, fatta di cenci i più ordinarj, che non è acconcia a scrivervi, ma sì a fare viluppi».70 GDLI s.v.: «Sistema di notazione di musica polifonica, destinata a un unico strumento, che indica all’esecutore la posizione che le dita devono avere sui tasti o sulle corde dello strumento, senza specificare la nota vera e propria che deve essere suonata (e fu adottato per strumenti a tastiera, come l’organo o il cembalo, per il flauto, e specialmente per strumenti a corde, come il liuto, a cominciare dal secolo XVI)».71 Il REP, s. v. stamigna, registra il significato di ‘buratto, colatoio’. Adatto al contesto è invece il significato dato dal primo vocabolario milanese, il Varon milanes 1606: «Stamegna Impanata, cosa fatta con carta, ò tela, e posta alle fenestre per difendersi dal freddo, e dal Sole». Il Varon milanes, opera dell’ossolano Giovanni Capis, fu rivista da Ignazio Albani per la seconda edizione (prima edizione non rintracciata) e ristampata a Milano insieme con il Prissian da Milan de la parnonzia milanesa, trattatello di Gian Ambrogio Biffi. Sulle due opere si veda almeno Morgana 2012, pp. 56-59. L’edizione del Varon milanes è in Isella 2005, pp. 219-310.72 ‘Immagini sacre’. Si tratta di una scorretta italianizzazione, dovuta a falsa etimologia: REP, s. v. mistà (<MAJESTATEM).73 Si tratta forse di ‘museruole o cesti, specie di gabbie che si mettono al muso dei buoi durante il lavoro per impedire loro di mangiare’: REP, s. v. musel. Resta difficile spiegarne la menzione in questa parte di inventario, sempre che non si tratti di cesti per contenere la carta o i caratteri. 74 Il significato del termine in tale contesto non è chiaro, né torna utile il ricorso ai repertori piemontesi. 75 ‘Ermisino, tessuto di seta, tipo taffetà’: Rossebastiano 1988, pp. 424-425.76 Un quinterno […] fig(ure): aggiunto sul margine inferiore con segno di richiamo.

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largo due dita in circa, due camise di lino con le maniche lavorate di seta, cioè una di negro et l’altra rossa […]. Corde diverse: gavette77 tre da basso grosse, una gavetta per cantino78 da basso, gavette trentadue da batter bombaso, una mazza di corde da violino, due mazze cantini da lautto, tredeci donzene diverse di gavette di corde da lautto, gavette sessanta otto da cittra, <una tovaglia> un coperto di piumazzo et un copertone turchiesco lavorato di seta diversa, un par di calzoni […] n(umer)o quattrocento stelle d’oro paiolo79, un [sic] beretta di veluto negro frusta, <quattro> cinque orology da polvere80, dodeci fogli d’oro paiolo, due donzene e mezza di savonette, un mazzo di rete da brustia81, due cassiette picoline di albera, gorghere tre da donna, due para di calzoni frusti et due casache grograno82 negro […], un breviario da prette frusto, sette vedri da stamegna, un libro chiamato Buovo d’Antona di guerra, otto donzene <nove otto di carte da> et tre carte da putto ligate, una gramatica di Dispauterlo, <quattro> cinque libri di vitta (christ)iana, <una figura di Fiorenza stampata marcida> sei <libri> libri di gramatica dil Guarino, quattro mani da canto, n(umer)o uno decretto vechio duccale, doi libri da canto del <d’> Arcadelt cioè il canto et il basso et il med(esim)o delle messe del Morales, un libro di intavolatura di cittra, cinq(ue) scartapazzi83 da scrivere piccoli, <una scopetta nova quattro> cinque lanzette da barbero et doi rasori novi. […] un carimale84 di legno, <di rasori grandi> n(umer)o trecento quaranta pezzi tra grandi e picoli di stampe di legno, un Donato, <quattro> nove abachini, sei livre di margaritini85 grossi inclusi i palperi, una cassia venetiana depinta frusta, una cassia di albera frusta depinta, due altre cassie di albera frusta, un cassione di albera frusto, <un’altra cassia di albera frusta> un quartarone frusto, livre vinti otto di carne sallata di manzo, trenta due canne da <penne> caramalo, una cariola di noce frusta, <scove dieci> due bicoche86. Un processo agittato avanti il sig(no)r Pod(est)à della p(rese)nte città tra ’l fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari da una parte et il

77 ‘Piccole matasse di fune sottile’: GDLI, s. v. gavetta.78 ‘La corda più sottile e dal suono più acuto negli strumenti cordofoni ad arco e a pizzico’: GDLI, s.v. cantino.79 ‘Oro di pagliola’: GDLI, s. v. pagliola: «frammento di piccole dimensioni».80 ‘Clessidre’.81 ‘Brusca, striglia’: REP, s. v. brus-cia.82 ‘Grogrè, tessuto a costa di catena, dall’ordito di seta e trama di cotone’: Rossebastiano 1988, p. 415.83 Probabile variante per ‘scartafazzi’.84 ‘Calamaio’, con metatesi: REP, s. v. caramal.85 Forse ‘attrezzi per ammorbidire i cuoi’: GDLI s.v. margherita.86 ‘Arcolai’: Varon milanes 1606, s. v. bicocha.

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no(bi)le m(esse)r Nicolao Stratta dall’altra, il primo atto de’ quali si lege sotto li undeci di agosto 1580, et l’ultimo sotto li vinti quattro di ottobre dell’1583, un processo antico agittato tra ’l fu m(esse)r Gio(vanni) Maria Pellipari contra Hor(atio) di Bonardi nelle udienze duccali, comintiato li sedeci di feb(ra)ro dell’anno 1548 et finito per sen(ten)za datta sotto li vinti di decembre dell’anno 1580, con copia di testimony essaminati in detta causa. Più un processo agittato avanti il molto mag(nifi)co et r(everen)do sig(no)r Vicario e(pisco)pale tra ’l fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari et mad(onn)a Isabella Frichignona, comenzato li diecinove di ottobre dell’anno 1580 et finito <per sen(ten)za datta li diecinove di giugno 1581> li quattro di decembre dell’anno 1582, sotto(scrit)ti de Quinto. Un processo agittato avanti l’eccell(entissi)mo Senato duccale tra ’l fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari et il Fisco duccale, il p(rim)o de’ quali atti si legge sotto li vintiuno di novembre 1578 et l’ultimo li cinque di decembre dil medemo anno. Più un instro(mento) di aquisto fatto per detto fu m(esse)r Ber(nardi)no Pellipari da Nicola, Anna et Antonia, padre, madre et fig(li)a di Donna di una pezza di terra piantalata situata nelle fin di Vercelli dove si dice Dazaro, rog(at)o al fu no(bi)le m(esse)r Eusebio Lonate il penultimo di agosto dell’anno 1569. Più un instro(mento) di investitura fatta di detta pezza in favore di detti venditori avanti detta vendita ricevuto per il m(esse)r Gio(vanni) Fran(ces)co Caravino nod(ar)o di Candelo sotto li vinti doi di decembre dell’anno 1568, ambi scritti in palpero. Più un instro(mento) di investitura dell’istessa pezza fatta in favore dil detto m(esse)r Ber(nardi)no, ricevuto per il fu m(esse)r Gaspar Badaloco li 22 di marzo dell’anno 1581, scritto in bergamena.

I libri che compaiono qua e là nell’inventario non sono molti, ma consentono di integrare con qualche considerazione ciò che sappiamo sulla circolazione dei libri a Vercelli nel Cinquecento87. Compare anzitutto un Ditionario: il titolo generico certo non aiuta a individuare l’opera, ma, essendo menzionate delle carte da putto ligate, oltre a un Donato e nove abachini, saremmo addirittura tentati di identificare il libro con il Dictionario del Verini, operetta lessicografica contenente una parte dedicata all’insegnamento del leggere e dello scrivere88. Al di là delle suggestioni, è lecito supporre che il Ditionario appartenuto al Pellipari fosse uno dei tanti repertori con-tenenti parole latine e volgari. Tra i titoli registrati nel catalogo elettronico EDIT16, per gli anni che precedono la data dell’inventario si segnalano: Il Dittionario di

87 Si pensi, per esempio, all’inventario dei libri consegnati dal libraio vercellese Pietro Carello al figlio Giulio Cesare tramite un Instrumento di emancipazione datato 22 ottobre 1594 (ASCV, notaio Pietro Avogadro di Benna, notulario 2). Il documento è edito in Tibaldeschi 2014, pp. 107-125. Sulle biblioteche private ed ecclesiastiche nel periodo di cui ci occupiamo Tibaldeschi 1990.88 Verini 1532. Sull’opera Marazzini 2009, pp. 68-72.

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Ambrogio Calepino dalla lingua latina nella volgare brevemente ridotto di Lucilio Minerbi (Venezia, 1552, 1553, 1554); il Dittionario volgare, et latino di Filippo Venuti (prima edizione 1561; l’opera, assai fortunata, ebbe successive ristampe: la più recente censita dal Sistema Bibliotecario Nazionale risale al 1614); il Dittionario volgare et latino di Orazio Toscanella (Venezia, 1568); l’Ortografia delle voci della lingua nostra o vero Dittionario volgare et latino di Francesco Sansovino (Venezia, 1568)89.

I doi libri da canto del Arcadelt saranno da identificare con i fascicoli destinati al canto e al basso (dove per “canto” si intende la “voce superiore”), tratti da uno dei vari libri di madrigali di Jaques Arcadelt90. Il libro di madrigali si presentava infatti come «una muta di libretti elegantemente rilegati, su cui la persona seguiva la pro-pria parte»91. Nella casa si trovavano anche due libretti per le medesime voci tratti da una delle messe di Cristobal de Morales92. Risulta invece difficile, naturalmente, individuare l’altro libro musicale menzionato con il titolo generico di quattro mani da canto.

Il libro ligato alla romana detto Formullario di instrumenti del Mussi e il decretto vechio duccale lasciano pensare che al Pellipari libraio si rivolgessero i notai e i giu-risti cittadini, i quali insieme agli altri formulari (come la Summa rolandina), si ser-vivano del Formularium instrumentorum, composto dal piacentino Pietro Domenico Mussi negli ultimi decenni del XV secolo e stampato per la prima volta nel 153093. Negli atti relativi alla controversia sorta tra Francesco Pellipari e la cognata Angela Broglia dopo la morte di Bernardino si fa riferimento ad alcuni «decretti civili et criminali quali esso m(esse)r Bernardino ha confessato averli avuti da detto m(esse)r Fran(ces)co et altri libri de legge come Bartoli et altri libri»94. Che la libraria del Pellipari avesse tra gli acquirenti dei giuristi, oltre ai musici, è dunque cosa certa. Resta ora da aggiungere qualche considerazione sui restanti libri, probabilmente ri-volti ai giovani scolari e ai loro maestri.

Si è già visto che il fratello di Bernardino Pellipari teneva una scuola domestica in cui insegnava «a scriver et l’abaco», secondo una prassi educativa diffusa all’epo-

89 Minerbi 1552; Venuti 1561; Toscanella 1568; Sansovino 1568. Su quest’ultima opera Marazzini 2009, pp. 113-117. 90 Il catalogo EDIT16 registra sotto il nome di Jaques Archadelt cinquantotto titoli, tra i quali spesso compare il Primo libro di madrigali a quattro voci. 91 Invito alla musica. Il Madrigale nel Cinquecento, espansione online di Panebianco - Gineprini - Seminara 2011, p. 2.92 Il catalogo EDIT16 riporta undici titoli di messe del Morales.93 Sinisi 2002, p. 182. Sull’educazione linguistica dei notai vercellesi nel XVI secolo Musazzo 2015.94 ASV, notaio Ludovico Avogadro di Quaregna, dicembre 1588, c. 3r non numerata.

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ca. Risalgono proprio al 1587, anno in cui fu redatto l’inventario trascritto, le note professioni di fede di maestri veneziani studiate da Grendler: in una di queste un maestro dichiarò di insegnare a «lezer e scrivere e abbaco e far conti»95. Dalla te-stimonianza in nostro possesso, la situazione vercellese pare dunque simile a quella delle “scuole volgari” veneziane (e a quella documentata per Milano, dove il citato Verini insegnava abaco e scrittura), piuttosto che al sistema attivo almeno fino all’i-nizio del secolo a Firenze, dove la ripartizione dei percorsi scolastici era più netta96. Le otto donzene et tre carte da putto ligate, insieme con il Donato e i nove abachini rappresentavano, come noto, i primi sussidi didattici: le «carte da putti» o «tavole da fanciulli» servivano per imparare l’alfabeto ed erano probabilmente costruite ad imitazione della tabula o charta incollata dal maestro su una tavola di legno e appesa alla parete della scuola al posto dell’ancora inesistente lavagna; la preparazione e la vendita di questi strumenti didattici, come conferma la grande quantità posseduta dal Pellipari (99 esemplari), «costituiva forse l’attività principale delle botteghe dei “cartolai”»97. Una volta appresa la lettura, attraverso le «carte da putti» e strumenti quali il Salterio, la Santacroce, il Babuino, gli scolari potevano passare al Donato, che in una prima fase era usato come libro di lettura senza che ne fosse richiesta la comprensione, e solo in un secondo momento era spiegato dal maestro per impartire i rudimenti della grammatica latina98.

Le due grammatiche menzionate nell’inventario sembrano ricondurre a un per-corso di studi più avanzato rispetto a quello fin qui descritto. La grammatica di Jean Despautère (c. 1460 - 1520) non dovette avere una diffusione paragonabile a quella di Guarino Veronese, come si evince indirettamente dall’inventario stesso, che re-gistra sei copie della seconda contro una sola della prima. Una conferma di ciò si ricava mediante un rapido sguardo al catalogo EDIT16, che segnala solo tre titoli collegati al primo autore, mentre le Regulae grammaticales del Guarino ebbero mol-te ristampe per tutto il XVI secolo. In quest’ultima opera, tra l’altro, trovava spazio anche il volgare, negli esercizi e nelle spiegazioni lessicali, nonostante il disinteresse di Guarino per le scritture in volgare: dal punto di vista di chi, come il grammatico, appoggiava le tesi di Biondo Flavio, «l’abito a vedere la lingua parlata attraverso il filtro strutturante della scrittura discriminava il volgare, la cui variabilità non ridotta impediva di cogliere in esso una chiara e fissa struttura di elementi pertinenti»99.

95 Grendler 1982, p. 88.96 Grendler 1982, p. 89.97 Lucchi 1978, p. 599.98 Lucchi 1978, pp. 600-601.99 Tavoni 1984, p. 96. Resta fondamentale, sull’argomento, tutto il capitolo III, Guarino e l’ambiente ferrarese, pp. 73-104.

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Nell’inventario compaiono ancora, oltre a un breviario da prette frusto, sul qua-le evidentemente non si può aggiungere molto, un libro chiamato Buovo d’Antona di guerra e cinque libri di vitta christiana. Facendo ricorso, ancora una volta, alle ricerche condotte da Grendler, sappiamo che nelle “scuole volgari” si insegnavano la letteratura religiosa e quella secolare: libri di Vita cristiana citati tra i beni del Pellipari potevano dunque affiancarsi ad altre letture edificanti, come il Fiore di vir-tù, il primo libro introdotto nelle scuole del Rinascimento, o il Leggendario dei santi, la versione in volgare della Legenda aurea100. Non è da escludere che i libri di Vita cristiana fossero rivolti alle scuole di dottrina cristiana, dove, oltre al catechismo, si insegnava gratuitamente a leggere, scrivere e far di conto101. In ogni caso, sia i libri di Vita cristiana sia il citato Buovo d’Antona erano letture destinate anche ai “semi-colti” adulti (si pensi al sarto dei Promessi sposi, al quale è attribuita la lettura di testi devozionali e romanzi cavallereschi); come emerge dalla dichiarazione di un maestro veneziano, erano proprio i genitori a spingere i ragazzi a portare a scuola i «libri de batagia», e tra questi il Buovo d’Antona di Andrea da Barberino102. Nella libraria del Pellipari non mancavano dunque opere adatte a soddisfare i gusti dei “senza lettere” e le esigenze degli scolari, ma vi si trovavano pure libri destinati a una clientela più colta, fatta di giuristi e di musici.

In conclusione, gettando uno sguardo d’insieme sulle opere pubblicate da Bernardino Pellipari, si può affermare che il suo contributo alla diffusione della cul-tura derivò in primo luogo dall’attività di “cartolaio” e libraio. Degli undici titoli legati alla sua tipografia, infatti, nessuno è un’opera letteraria, e solo cinque furono stampati a Vercelli: le Indulgenze concesse alla cattedrale di Sant’Eusebio (1580), i Capitoli dei dazi (forse del 1582), una Oratio nuptialis di Giovanni Battista Mola (1581), la ristampa dei libri terzo e quarto degli Ordini nuovi (1583)103. Prescindendo da giudizi di valore sulla sua commedia, bisogna comunque ritenere che il Pellipari godesse di una certa reputazione, se gli fu affidata la celebrazione dell’ingresso trionfale di Emanuele Filiberto in città, e proprio l’importante occasione cui si lega l’Italia consolata consente di capire quale fosse il massimo sforzo di italianizzazione che poteva realizzarsi nelle opere degli scrittori vercellesi intorno al 1560.

100 Grendler 1982, pp. 90-93.101 Buono 2008, pp. 432-433.102 Grendler 1982, pp. 97-99.103 EDIT16 e Bersano Begey - Dondi 1966, vol. III, pp. 327-328.

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Bibliografia

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Balestrieri 1816Domenico Balestrieri, La Gerusalemme liberata in dialetto milanese, in Opere, vol. III, Milano 1816.

Bergadani 1934Roberto Bergadani, Una commedia politica del sec. XVI, in “Giornale storico della letteratura italia-na”, CIV (1934), pp. 64-80.

Bersano Begey - Dondi 1966Le cinquecentine piemontesi, a cura di M. Bersano Begey - G. Dondi, Torino 1961-1966.

Boido Trotti 1577Fabrizio Boido Trotti, Del modo di cognoscersi, preservarsi, et curarsi, della febbre pestilente, Ver-celli, appresso Gulielmo Molino, 1577.

Bonfigli 1930Luigi Bonfigli, Francesco Maria Vialardi e le sue note alla Conquistata, in “Bergomum”, 24 (1930), pp. 144-180.

Bongrani - Morgana 1992Paolo Bongrani - Silvia Morgana, La Lombardia, in “L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali”, a cura di F. Bruni, Torino 1992, pp. 84-142.

Buono 2008Benedict Buono, I rudimenti per imparare l’italiano nel Cinquecento: il Salterio, il Babuino, e l’Inter-rogatorio della Dottrina Cristiana, in “Verba”, 35 (2008), pp. 425-437.

Caretti 1979Torquato Tasso, Gerusalmme Liberata, a cura di L. Caretti, Milano 1979.

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Dato del Datio 1696 Dato del Datio della mercantia della città di Milano, Milano, per Marc’Antonio Pandolfo Malatesta Stampator Regio Camerale, 1696.

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Davidico 1568Lorenzo Davidico, Medicina dell’anima, in Vercelli, per Giovan Francesco Pelliparis, 1568.

De Gregory 1820Gaspare De Gregory, Istoria della vercellese letteratura ed arti, Torino 1819-1824.

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Lucchi 1978Piero Lucchi, La Santacroce, il Salterio e il Babuino. Libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, in “Quaderni storici”, 38 (1978), pp. 593-630.

Marazzini 2009Claudio Marazzini, L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, Bologna, il Mulino, 2009.

Marazzini 2013Claudio Marazzini, Da Dante alle lingue del Web. Otto secoli di dibattiti sull’italiano, Roma 2013.

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La cultura a Vercelli nel secondo Cinquecento: Bernardino Pellipari

Mauri 1988Paolo Mauri, Il Piemonte, in “Storia e geografia. II. L’Età moderna”, in “Letteratura italiana”, a cura di G. Inglese - A. Asor Rosa, Torino 1988, pp. 823-874.

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Musazzo 2012Andrea Musazzo, L’italiano a Vercelli nel 1561. I notai e la ricezione degli Ordini nuovi di Emanuele Filiberto, tesi di laurea magistrale, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, rela-tore prof. Claudio Marazzini, a. a. 2011/2012 (discussa il 20 settembre 2012).

Musazzo 2014Andrea Musazzo, L’italiano a Vercelli nel 1561. I notai e la ricezione degli Ordini nuovi di Emanuele Filiberto in “Centro Gianni Oberto, Premio 2013”, Torino, Consiglio regionale del Piemonte, 2014, pp. 69-124 (compendio della tesi di laurea magistrale).

Musazzo 2015Andrea Musazzo, Scribere condecenter vulgare. L’italiano negli atti e nell’educazione linguistica dei notai vercellesi nel XVI secolo, in “La pratica e la grammatica. Problemi, modelli e percorsi di forma-zione linguistica tra Duecento e Cinquecento” (Special Issue of the “Cahiers de recherches médiévales et humanistes-Journal of Medieval and Humanistic Studies”, 2/28), a cura di F. Pierno - G. Polimeni, Parigi 2015, pp. 153-182.

Musazzo 2016Andrea Musazzo, Per una storia linguistica di Vercelli dalle Origini al primo Seicento, tesi di dotto-rato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, tutor prof. Claudio Marazzini, a. a. 2014-2015 (discussa il 9 settembre 2016).

Olivieri 2000Liber matriculae. Il libro della matricola dei notai di Vercelli (secc. XIV-XVIII), a cura di A. Olivieri, Vercelli 2000, in CD-Rom.

Ordano 1982Rosaldo Ordano, Storia di Vercelli, Vercelli 1982.

Panebianco - Gineprini - Seminara 2011Beatrice Panebianco - Mario Gineprini - Simona Seminara, LetterAutori. Edizione verde, vol. I., Bologna 2011.

Pellipari 1562Bernardino Pellipari, Italia Consolata. Comedia, Del Nobile M. Bernardino di Pellippari; Composta nella venuta dei Sereniss. Prencipi Duca e Duchessa di Savoia nella Mag. Cità di Vercelli. Dedicata Alla Serenissima Madama Margherita Di Francia, Duchessa di Savoia, et di Berrì. Con privilegio, Vercelli, nelle stampe di Sua Altezza, 1562.

Piemontino 2011Daniela Piemontino, La popolazione durante l’antico regime, in “Storia di Vercelli in età moderna e contemporanea”, a cura di E. Tortarolo, vol. I, Torino 2011, pp. 35-59.

Rezasco 1881Giulio Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881.

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Rohlfs 1968Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino 1966-1969 (prima ed. Berna 1949-1954).

Rossebastiano 1988Alda Rossebastiano, Il corredo nuziale nel Canavese nel Seicento. Contributo alla storia della lingua e della cultura, Alessandria 1988.

Rossotti 1667Andrea Rossotti, Syllabus scriptorum Pedemontii seu De scriptoribus pedemontanis, Monteregali, Typis Francisci Mariae Gislandi, 1667.

Salmazza 1577Baldassarre Salmazza, Oratio Balthasaris Salmatiae Fraxinetensis. De laudibus Divi Francisci habita Vercellis […], Vercellis, Apud Gulielmum Molinum, 1577.

Sanesi 1911Ireneo Sanesi, La commedia, in “Storia dei generi letterari italiani”, Milano 1911.

Sansovino 1568Francesco Sansovino, Ortografia delle voci della lingua nostra o vero Dittionario volgare et latino nel quale s’impara a scriuer correttamente ogni parola cosi in prosa come in uerso, per fuggir le rime false & gli altri errori che si possono commettere fauellando & scriuendo, in Venetia, appresso F. Sansouino, 1568.

Sant’Albino 1859Vittorio di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Torino 1859 (ristampa anastatica dell’originale con introduzione di G. Gasca Queirazza, Savigliano 1993).

Sinisi 2002Lorenzo Sinisi, Alle origini del notariato latino: la Summa rolandina come modello di formulario no-tarile, in “Rolandino e l’Ars notaria da Bologna all’Europa”, Atti del convegno internazionale di studi storici sulla figura e l’opera di Rolandino, Bologna, 9-10 ottobre 2000, a cura di G. Tamba, Milano 2002, pp. 163-264.

Stroppa 1911Paolo Germano Stroppa, Per la storia dei Tipografi Vercellesi, in “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 3 (1911), n. 2, pp. 363-366.

Tavoni 1984Mirko Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984.

Testa 2014Enrico Testa, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Torino 2014.

Tibaldeschi 1990Giorgio Tibaldeschi, Un inquisitore in biblioteca: Cipriano Uberti e l’inchiesta libraria del 1599-1600 a Vercelli, in “Bollettino Storico Vercellese”, 19 (1990), n. 34, pp. 43-103.

Tibaldeschi 2014Giorgio Tibaldeschi, Il tipografo, il libraio, l’inquisitore. Documenti per la storia tipografica vercel-lese del sec. XVI, in “Bollettino Storico Vercellese”, 43 (2014), n. 82, pp. 81-128.

Toscanella 1568Orazio Toscanella, Dittionario volgare et latino, con le sue autorità della lingua, tolte da buoni au-

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tori toscani, doue è tornato bene: & con le dittioni latine corrispondenti a dittione per dittione volgare, subito poste doppo […], in Venetia, per Comin da Trino da Monferrato, 1568.

Trasonto de’ memoriali 1621Trasonto de’ memoriali sporti a S. A. Sereniss. dalla Città di Vercelli, in Vercelli, per Gaspar Marta, 1621.

Uberti 1588Cipriano Uberti, Opera della Croce distinta in V libri, in Roma, per Francesco Zanetti, 1588.

Vallauri 1841Tommaso Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino 1841.

Varon milanes 1606Varon milanes de la lengua de Milan e Prissian de Milan de la parnonzia milanesa. Stampà de nouv, in Milano, per Gio. Iacomo Como libraro, 1606.

Venuti 1561Filippo Venuti, Dittionario volgare, et latino, nel quale si contiene, come i vocaboli italiani si possano dire, et esprimere latinamente. Per M. Filippo Venuti da Cortona, nuovamente raccolto, et mandato in luce, in Venetia, per Gio. Andrea Valuassori detto Guadagnino, 1561.

Verini 1532Giovambattista Verini, Dictionario opera di Giovambattista Verini fiorentino […], Milano, per maestro Gotardo Pontano, 1532 (ristampa anastatica a cura di G. Presa, Milano 1966).

Vialardi di Sandigliano 2005Tomaso Vialardi di Sandigliano, Un cortigiano e letterato piemontese del Cinquecento: Francesco Maria Vialardi, in “Studi Piemontesi”, 34 (2005), pp. 299-312.

Vocabolario della Crusca 1612Vocabolario degli Accademici della Crusca, in Venezia, appresso Giovanni Alberti, 1612.

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Andrea Musazzo

RiassuntoPrendendo le mosse dal contesto culturale in cui visse e operò il tipografo vercellese Bernardino Pellipari, nell’articolo si esaminano alcuni documenti che consentono di confrontare la lingua da lui impiegata nella commedia Italia consolata con quella che emerge da scritture private più recenti rispetto all’opera letteraria. Una parte del contributo è dedicata all’inventario dei beni mobili redatto alla morte del Pellipari, documento assai interessante in cui sono menzionati libri e altri oggetti legati all’at-tività tipografica.

AbstractThis article starts from the cultural context where Bernardino Pellipari, a typo-grapher and writer from Vercelli, lived and worked. It examines some documents that allow to compare the literary language used in the comedy Italia consolata with the one emerging from more recent private writings. Part of this essay is devoted to the inventory of the movable property compiled after Pellipari’s death: this document is particulary interesting because of the books and the objects mentioned in it and related to his typographical activity.

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

LA CAPPELLA TAEGGIA IN S. FRANCESCO DI VERCELLI E LA FASE ESTREMA DI BERNARDINO LANINO

Il reperimento da parte di Giorgio Tibaldeschi del documento trascritto in Appendice ci costringe a tornare a riflettere brevemente sulla fase finale dell’opera di Bernardino Lanino. Il documento infatti ci informa che nel 1578 il pittore con i suoi figli, cioè Gerolamo e Pietro Francesco, promette di decorare interamente ad affresco, e di fornire anche la pala d’altare, per una cappella nella chiesa di San Francesco a Vercelli entro il termine della Pasqua dell’anno 1580, il tutto conforme al disegno che i pittori avevano già presentato al nobile Giovanni Ambrogio Taeggia1 committente dell’opera, al prezzo convenuto di centoquaranta scudi. Da quel che si comprende la citazione giudiziaria datata 25 giugno 1582 viene di fatto annullata il giorno seguente e si può pensare a questo punto che a quella data l’esecuzione dei dipinti fosse probabilmente terminata.

Le poche informazioni si intrecciano però con notizie già conosciute e ci permet-tono di avanzare parecchie considerazioni. Da una fonte secentesca importante come le Iscrittioni, elogi, epitaffij di Carlo Amedeo Bellini del 1658 sappiamo infatti che nella chiesa di San Francesco vi era una cappella dedicata alla Conversione di San Paolo, nella quale era conservata la seguente iscrizione “D.O.M. / Jo. Ambrosius Taeggia Mediolano oriundus ex clara et perveteri familia huius sacelli et elegantis iconis auctor humanae legis memor sarcophagum hunc sibi posterisque suis vivens posuit septimo idus novembris 1584”2.

* Gli autori ringraziano Anna Maria Bava, Patrizia Carpo, Davide Cermignani, Giovanni Ferraris, Cin-zia Lacchia, Alessia Meglio, Elena Rame, il personale dell’Archivio di Stato di Vercelli. La prima parte del saggio è di S. Riccardi, la seconda di G. Tibaldeschi.

SigleABCV = Archivio e Biblioteca Capitolare di Vercelli.ASB = Archivio di Stato di Biella.AFPP = Archivio della Fondazione Piacenza a Pollone.AP = Archivio Parrocchiale.ASCV = Archivio Storico Civico di Vercelli.AST = Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite.ASV = Archivio di Stato di Vercelli.

1 Bartolomeo Taegio dedica una delle sue risposte pubblicate nel 1554 proprio a Bernardino Lanino (Taegio 1554, cc. 125v-127). Ne consegue che i rapporti tra il pittore e la famiglia Taegio originaria di Milano erano già stati instaurati da molto tempo.2 ASB, Raccolta Torrione, mazzo 5, fasc. 2: C. A. Bellini, Iscrizioni, Elogi, Epitafi ed altre memorie

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

A questo punto si può con certezza riconoscere come pala d’altare della cappella la tavola conservata alla Galleria Sabauda di Torino con la Conversione di San Paolo, attribuita giustamente ai figli di Bernardino Lanino, la cui datazione deve dunque limitarsi allo stretto giro d’anni 1580-1582 circa3. Come già da tempo osservato i modelli seguiti in questa pala d’altare dai figli di Bernardino sono oramai piena-mente in linea con le tendenze manieristiche centro-italiane con rimandi chiari alle Stanze Vaticane di Raffaello e a modelli michelangioleschi, conosciuti senza dubbio attraverso il facile veicolo delle stampe.

Poiché nel documento si parla anche di dipingere la cappella, si deve pensare dunque che gli stessi figli abbiano eseguito anche gli affreschi e a questo punto non si può non pensare a quelli staccati proprio da una cappella in San Francesco con Sibille, l’Annunciazione della Vergine, e angeli musicanti, ora conservati al Museo Borgogna di Vercelli, i quali recavano una data 1581, ora purtroppo non più leggi-bile4.

Tuttavia va evitata una lettura frettolosa e superficiale della intricata questione; infatti alle pareti di una cappella dedicata a san Paolo, ci aspetteremmo le raffigu-razioni di scene della vita del santo o qualcosa di affine e perciò mal si adattano le Sibille e soprattutto una Annunciazione, con angeli musicanti dipinti sulla volta della cappella stessa. Se noi rileggiamo con attenzione ancora la nostra fonte secentesca ci accorgiamo che la cappella della Conversione di San Paolo era collocata in una navata laterale “dall’altro lato di quella di S. Antonio” di giuspatronato dei Tizzoni, la quale era preceduta a sua volta da quella di San Bernardino della famiglia Volpe dove già si poteva ammirare sull’altare la pala di Bernardino Lanino datata 15635.

sì antiche che moderne cavate dagli atri, chiese, sepolcri ed altri luoghi pubblici della città di Vercelli, 1658, f. 16.3 Sulla pala ora conservata alla Galleria Sabauda di Torino si veda Gabrielli 1971, pp. 139-140, fig. 248; Galante Garrone 1982, pp. 166-167 e fig. a p. 169; Pagella - Piovano 1986, p. 214. Il dipinto dovrebbe essere quello ricordato da Luigi Lanzi nel suo viaggio in Piemonte nel 1793 (Lanzi 1984, p. 38), come opera di Gaudenzio Ferrari. Sappiamo che esistevano alcuni quadretti con storie del santo che in origine costituivano la predella, e che alla fine del Settecento erano nella “camera del padre priore Paciotti”. Al momento non sembra siano riconoscibili.4 La data 1581 si leggeva su un fregio grazie ad una vecchia fotografia Masoero conservata al Museo Borgogna. Tale data è accettata da Romano 1964, p. 83, e poi da Astrua 1985, pp. 131 e 140, mentre Galante Garrone 1982, p. 166 preferisce una lettura 1587. Su questo ciclo di affreschi e sulle altre opere degli anni Ottanta dei figli di Lanino si vedano anche le considerazioni che ho avanzato in Riccardi 2010, pp. 40-41. Sul ciclo in specifico sono interessanti le proposte riguardo alle disposizioni originali dei frammenti pervenuti dopo lo stacco di inizio Novecento al Museo Borgogna, di Catalano 2013 e Catalano 2015. 5 Sulla pala Volpe e sulla collocazione nella chiesa di San Francesco, da ultimo Riccardi 2010, pp. 33-34.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

Esisteva inoltre sempre su una delle navate laterali “vicino alla portina per cui si esce in strada”, una cappella dedicata all’Assunta, di patronato della famiglia Zuccari, la quale già al tempo in cui Bellini scriveva si era estinta6.

Mi pare che, pur con un margine lieve di dubbio, tale cappella possa coincidere con quella oggi dedicata alla Madonna di Pompei, cioè la prima della navata sinistra dell’attuale edificio, cosa che giustificherebbe la descrizione datane a metà Seicento. D’altra parte sappiamo con certezza oramai che gli affreschi staccati e conservati al Museo Borgogna provengono proprio dalla cappella oggi dedicata alla Madonna di Pompei, e che a questo punto in antico era dedicata all’Assunta. Risultano perciò tali affreschi iconograficamente assolutamente coerenti con la dedicazione antica della cappella. L’attribuzione anche in questo caso ai figli di Lanino di questi affreschi staccati, ci permette dunque di sostenere che intorno agli anni 1578-1582 la bottega di Bernardino Lanino era ben presente nella chiesa di San Francesco a Vercelli e impegnata a decorare ben due cappelle, e magari proprio il procrastinare dell’opera per Giovanni Ambrogio Taeggia era forse dovuto tra le altre cose, alla decorazione della cappella dell’Assunta.

Come ho già suggerito in altra sede l’attività di Bernardino Lanino negli ultimi anni deve essersi limitata verosimilmente ad una sovrintendenza dei lavori e a fornire principalmente i disegni preparatori, o quelli di presentazione per i nuovi progetti. Proprio per il ciclo in questione esistono infatti due bellissimi e certamente autografi disegni di Bernardino conservati alla Biblioteca Ambrosiana, che verranno tradotti in pittura da una mano indubbiamente meno abile e raffinata7. D’altra parte già nel testamento redatto il 3 febbraio 1576 il pittore vercellese si dichiarava “sano per Dio gratia di mente senso et intelletto benché alquanto infermo di corpo per la gotta osia podagra come appare per aspetto et parlare”, per cui riesce difficile pensare che negli anni successivi sia stato proprio lui ad affrescare le cappelle delle chiese, o eseguire da solo intere pale d’altare8. Tutt’al più lo possiamo immaginare impegnato a dipin-gere opere su tavola nel caldo e confortevole studio o bottega che oramai possedeva in città. Una specie di conferma ce la offre ancora una volta un’opera come la bel-lissima Annunciazione del Museo Borgogna, già di proprietà Olgiati, che costituisce

6 ASB, Raccolta Torrione, mazzo 5, fasc. 2: C.A. Bellini, Iscrizioni, Elogi, Epitafi ed altre memorie sì antiche che moderne cavate dagli atri, chiese, sepolcri ed altri luoghi pubblici della città di Vercelli, 1658, f. 18.7 Sui due disegni della Biblioteca Ambrosiana (cod. F 263 inf. n. 46 e cod. F 274 inf. n. 1), si vedano Coleman 1984a, pp. 179, 184 note 9, plates 21, 22; Coleman 1984b, schede 30 e 31, pp. 76-79; Romano 1985, pp. 21, 26 nota 29; Pagella - Piovano 1986, pp. 210-213. Sulla attività degli ultimi anni di Lanino si veda anche Riccardi 2010.8 Sul testamento del pittore e le considerazioni sullo stesso: Riccardi 2010, p. 37.

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

indubbiamente il suo capolavoro estremo ed una eccezione nell’ambito dei suoi la-vori degli ultimi anni.

Non sappiamo ancora con precisione la data di morte del pittore vercellese, che sembrerebbe ancora in vita il 25 giugno 1582, tuttavia altri documenti recentemente venuti alla luce ci permettono di avanzare qualche osservazione in più su ciò. Infatti il 19 settembre 1582 il figlio Gerolamo presenzia ad un atto come testimone, ma in quel caso il padre dovrebbe essere ancora vivo9, mentre il 20 aprile 1583 l’altro figlio Pietro Francesco riceve un pagamento per opere svolte a Pallanza e in questa occasione viene definito “filius quondam domini Bernardini”10. La morte dunque di Bernardino si colloca, pur con un lieve margine di dubbio tra le due date sopra ricordate.

Alla ricostruzione fin qui avanzata manca a questo punto ancora un tassello e cioè la pala dell’altare della cappella dell’Assunta che con ogni probabilità doveva essere stata dipinta dalla bottega laniniana in quegli stessi anni. Tale pala d’altare non può ad avviso di chi scrive coincidere con la tavola ora nella Pinacoteca dell’Arci-vescovado vercellese, per la quale è stata di recente avanzata una proposta di prove-nienza dalla chiesa di San Francesco a Novara11. Infatti essa reca la firma del pittore Bernardino Lanino e la data 1578, e se si dovesse accettare la provenienza vercellese, si dovrebbe ipotizzare che essa fosse stata dipinta prima degli affreschi della cappel-la di pertinenza, ed evidentemente posizionata già a quella data sull’altare. L’ipotesi di per sé non è impossibile, ma certo tutta la vicenda nel suo insieme apparirebbe un poco inusuale.

Si aggiunga che la descrizione data da Giuseppe Bossi in una lettera a Florio, commissario del Governo presso i tribunali nel Dipartimento dell’Agogna del 2 pra-tile anno 9 (22 maggio 1801), del dipinto a Novara: “un quadro di Bernardino Lanino con nome e data [...]. Il quadro rappresenta la Vergine Assunta cogli Apostoli, e il Padre Eterno, e varj angeli”12, sembra effettivamente avere molti punti in con-tatto con l’opera oggi a Vercelli, dunque l’ipotesi della provenienza dalla cappella dell’Assunta in San Francesco a Vercelli per i motivi esposti appare al momento da escludere. Vale dunque la pena verificare se esiste la possibilità di riconoscere

9 Riccardi 2010, p. 40 anche per le considerazioni sul documento del 19 aprile 1582.10 Martinella 2015, p. 28 nota 32.11 Galante Garrone 1985; Manchinu 2003, p. 133. Albertario 2005, p. 78 e fig. 6; lo stesso Albertario 2007, pp. 166 e 169-170, ha proposto di identificare questo dipinto con quello di medesimo soggetto, firmato e datato da Lanino già nella chiesa di San Francesco a Novara.12 Cassanelli 1999, p. 322; Nenci 1999, pp. 410-411. Che in San Francesco a Novara vi fosse una Assunzione è ricordato anche da Cotta 1994, p. 114, il quale peraltro sottolinea che il volto della Vergine era stato “rifatto dalla temerarietà d’un ignorante, che lavando così bella opera l’avea cancellato”.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

Gerolamo e Pier Francesco Lanino, Caduta di San Paolo, Torino, Galleria Sabauda, n. inv. 245 (foto Musei Reali, autorizzazione prot. n. 2531 del 15.06.2017).

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

una Assunzione della Vergine che abbia qualche possibilità di provenire dalla citata cappella, e nella lunga sequela di Assunzioni laniniane mi pare che si possa alla fine limitare tale possibilità a due dipinti: quello conservato al Museo Borgogna, opera piuttosto modesta e certamente da riferire interamente ai figli, oppure la bella pala oggi conservata nella parrocchiale di Rosazza, che in passato ha anche goduto da parte della critica, di un riconoscimento di piena autografia13.

A questo punto viene il sospetto che l’Assunta che cerchiamo possa essere pro-prio quella acquistata nel 1884 dal Senatore Federico Rosazza Pistolet, di cui nulla sappiamo prima di tale data. Proprio il fatto che talvolta sia stata inserita nel catalogo del padre ci induce a pensare che ci troviamo di fronte ad un dipinto probabilmente eseguito già dai figli ma sotto l’alta sorveglianza del padre, cosa che in primis non permette uno scadimento della qualità, e nel contempo una datazione al 1581 cir-ca. In attesa di una conferma o di una smentita della nostra ipotesi, possiamo solo constatare che poco dopo la bottega laniniana mostra sensibili cedimenti, ad esem-pio nella Crocifissione con la Vergine e la Maddalena nella Chiesa del Carmine di Confienza, la cui iscrizione ai piedi della raffigurazione ricordava una data 1583 e come committenti alcuni membri della famiglia de Faletis14. Cronologicamente a quest’affresco segue la pala per la cappella della confraternita del Santissimo Nome di Gesù della chiesa di Santo Stefano a Biella, riconosciuta nella Circoncisione del 1584, ora conservata nella casa parrocchiale di Occhieppo Inferiore, opera appunto dei figli Gerolamo e Pietro Francesco15. Negli anni seguenti i figli di Bernardino dipingeranno poi la pala per la cappella del castello di Parrella datata 1586, con la Madonna col Bambino, santa Apollonia e san Michele Arcangelo che presenta il donatore, ora nelle collezioni Unicredit16, e la pala con Cristo e gli apostoli Giacomo

13 La pala di Rosazza venne acquistata dal sen. Federico Rosazza Pistolet nel 1884 per 745 lire ed era attribuita a Gerolamo Lanino (AFPP, Fondo Federico, carte personali, mazzo 5, f. 12, Quadri acquistati dal 1853 in poi; Valz Blin 1999, p. 25). Considerata di Gerolamo Lanino da Pertusi - Ratti 1892, p. 292, fu poi ricordata sempre con la stessa attribuzione da Roccavilla1905, p. 46; spetta a Romano 1964, p. 84, la rivalutazione dell’opera. Lo studioso pensa che da questa derivi l’Assunzione della Galleria Sabauda (n. cat. 55) e la propone come opera autografa di Bernardino. Si veda ancora in questo senso Quazza 1986, p. 263. La tavola della Galleria Sabauda è firmata da Gerolamo e Pietro Francesco Lanino e proviene dalla parrocchiale di Morano Po (Gabrielli 1971, p. 153-154). Pagella - Piovano 1986, p. 213, sottolineano come dalla pala di Rosazza derivino in qualche modo le opere di identico soggetto della Sabauda e del Museo Borgogna per la quale si veda in breve Viale 1969, p. 58 e tav. 84.14 Orsenigo 1909, p. 316 riporta la seguente iscrizione “Baptista Ferr ... Antonius Pasagius, Matteo et Maddalena De Faletis iussus qua Bartolomei Faletitto opus fieri fecerunt anno 1583, die 9 augusti”; Astrua 1985, p. 131.15 Lebole 1984, pp. 268-269; Lebole 1990, p. 494; Pivotto 2003, pp. 123-124.16 Schede Vesme 1982, vol. IV, p. 1417; Dragone 2002, pp. 184-185; Riccardi 2010, p. 41.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

e Filippo per la cappella dei santi Giacomo e Filippo in San Paolo a Vercelli, che va identificata con quella ordinata dal decurione Eusebio Masino nel suo testamento del 12 agosto 158617. Qualche mese dopo esattamente il 24 ottobre 1586 verrà poi stipu-lato il contratto tra Pietro Francesco Lanino e Gerolamo Confalonieri di Candia per dipingere una cappella e una pala per la chiesa di San Michele a Candia Lomellina; come sappiamo l’opera sarà poi eseguita secondo le rigide indicazioni del contratto ma gli affreschi firmati dal solo Gerolamo e datati 158918.

LA FAMIGLIA TAEGGIA A VERCELLI

La famiglia Taeggia19 (alias Taeggi, Taegio, olim Tetavegia20), probabilmente un ramo della stessa di antica nobiltà milanese21, risulta documentata a Vercelli per un tempo discretamente lungo, più di un secolo all’incirca tra metà 500 e metà 600, dopo di che se ne perdono le tracce.

Tra gli storici locali, l’unico che ne abbia fatto cenno è il Bellini che ha fortunata-mente tramandato alcune notizie, intorno alla metà del 600, scrivendo22:

“Nella capella della Conversione di S. Paolo dall’altro lato di quella di S. An-tonio vi è un sepolcro assai bello con la seguente iscrizione D. O. M. / Jo. Ambrogius Taeggia Mediolano oriundus ex clara et perveteri familia huius sa-celli et elegantis iconis auctor humanae legis memor sarcophagum hunc sibi posterisque suis vivens posuit septimo idus novembris 1584. Questo signor Giovanni Ambrogio fu nobile di questa città e de’ signori di Viancino; ebbe due figliuoli, un signor Camillo che fu dei conti della Motta detta de’ Conti, consigliere di questa città, e l’altro signor Giovanni Pietro canonico della cat-tedrale di S. Eusebio. Dal signor Camillo è derivato il signor Carl’Ambrogio cavaliere de’ santi Maurizio e Lazaro, capitano di cavalli per l’Altezza di Savo-

17 Pagella - Piovano 1986, p. 213; Manchinu 2003, pp. 143 e 145.18 Su tutta la vicenda, si veda in sintesi Nebbia 1961; Pagella - Piovano 1986, pp. 213-216; Castelli 1995; Castelli 2001.19 Queste note sono costruite sui dati dal Patriziato Subalpino di Antonio Manno, vol. 30, p. 3 (edizione su CD Rom, edito nel 2000 a cura dell’Associazione “Vivant”) e sulle inedite Genealogie di Teodoro Arborio Mella (copia microfilmata in ASV), integrate con documenti di prima mano.20 Coda - Caratti 1989, pp. 56 e 76 n. 99: Tetavegia o sij Taeggia, così l’anonimo araldista del sec. XVII. Sullo stemma di questa famiglia si veda anche Consegnamenti d’arme 2000, pp. 216, 473, 633.21 Picinelli 1670, ricorda Ambrogio (p. 24), Bartolomeo (p. 71), Francesco (p. 224). Ruffilli 2004, con bibliografia precedente. Qualche altra notizia in Beck 2011.22 C. A. Bellini, Serie degli uomini e delle donne illustri della città di Vercelli, parte terza (Iscrizioni, elogi, epitafi, ed altre memorie), Manoscritto della Biblioteca Civica di Vercelli, segnato A-31, p. 93.

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

ia e poco fa capitano tenente della compagnia colonnella del Reggimento della Maestà del Re di Ungheria, governato dal signor marchese Tassoni al servizio del signor Duca di Milano”.

Non sono ancora ben chiariti i rapporti famigliari che legano i Taeggia di Vercelli con i ben più noti Taegio, di Milano, sebbene l’Argelati (1685-1755) li metta in re-lazione attraverso la lapide sepolcrale di Giovanni Ambrogio, da lui però conosciuta attraverso la copia trasmessagli da Giovanni Sitoni di Scozia (1674-1762) che l’a-vrebbe vista ancora al suo posto23.

Da un Giovanni Pietro Tavegio, orefice abitante a Milano e già defunto nel 1549, e da Angela Varese24, intorno al 1525 nasce Giovanni Ambrogio. Questi abita in Vercelli fin dalla metà del sec. XVI ed è ben inserito nella vita cittadina, quando nel 1549 sposa Bianca figlia dell’orefice milanese Giovanni Giacomo de Luponibus da Milano (a sua volta cittadino et dorerio di Vercelli) e di Maddalena25. Il dotale, rogato il 10 settembre 1549 alla presenza di Giovanni Battista del fu Giacomo Antonio de Malavoltis de Mediolano dorerio, si riferisce ancora all’origine milanese di Giovanni Ambrogio, specificandolo come de Mediolano, in parochia sancti Seterij [sic], do-rerius et habitator Vercellarum, maggiore di 22 e minore di 25 anni; a garanzia della dote, oltre a denaro e gioielli donati alla sposa, il Taeggia impegna un terreno sito ad strattam bosiarum26. Lo stesso giorno, in aggiunta alle clausole previste in prece-denza, lo sposo si impegna a versare ai suoceri la somma di 80 scudi d’oro d’Italia, entro cinque anni, per riscattare il terreno in precedenza costituito in fondo dotale a favore di Bianca27. Quali siano stati i rapporti tra le due famiglie non si sa, ma non dovevano essere molto cordiali se il 7 giugno 1572, mentre Giovanni Ambrogio stava sulla porta di casa, i fratelli Luponi (Giovanni Battista, Pietro Francesco e Marco Antonio), “doreri et suoij vicini quali stano da rimpetto di sua casa”, senza alcuna ragione gli danno del “traditor, ladro, giotto, assassino da strada”, parole che non si direbbero al maggior viacho di tutto il mondo, provocandone il ricorso al prefetto28.

23 Argelati 1745, vol. II, col. 1472.24 Questo matrimonio risulta dalle prove di nobiltà presentate nel 1646 da Carlo Ambrogio, per l’ammissione all’Ordine Mauriziano.25 Le citate Genealogie di Arborio Mella gli assegnano come prima moglie Anna Caterina Luponi, ma probabilmente si tratta di una confusione con il nome della seconda moglie, Caterina Bazzani.26 ASCV, not. B. Bulgaro, 1070/908 (olim notulario 16), c. 69; l’annotazione relativa alla parrocchia milanese di S. Satiro, è scritta in margine.27 ASCV, not. B. Bulgaro, 1070/908 (olim notulario 16), c. 71r; in margine: Nota. Fuit facta remissio de anno 1553 die decimo mensis octobris.28 ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, m. 64, fasc. n. 842.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

Dopo una fugace attestazione il 6 agosto 156029, il nostro Taeggia ricompare il 9 aprile 1567, quando prende in affitto da Antonio Maria fu Battista Centori, per cinque anni, certi beni nel territorio di Vercelli in località Schivanoia, impegnandosi ad imprestare al Centori la somma necessaria (1150 scudi d’oro) per riacquistare gli stessi beni venduti a Nicolò Aiazza30. Successivamente acquista altri beni nel territorio di Vercelli, alla Rantiva (21 luglio 1573) e a Vezzolano (15 ottobre 1582)31. Evidentemente Giovanni Ambrogio doveva disporre di notevoli facoltà, derivate an-che dalla carica di accensatore del dazio di Vercelli32, se poteva, in previsione della morte, permettersi “un sepolcro assai bello” decorato da un artista ancora di fama, sebbene al tramonto, mentre in vita acquistava una notevole quantità di immobili e porzioni di beni feudali in Motta dei Conti e forse anche a Viancino33. Il 4 gennaio 1588, infatti, il conte Alfonso del fu Annibale Langosco, maggiordomo dell’infanta Caterina di Savoia34, vende in libero e franco allodio a Giovanni Ambrogio un lungo elenco di terreni, edifici, case, cascine, affitti e ragioni che possiede in Motta dei Conti, riservandosi solo la casa con la peschiera e il giardino che possiede nel ca-stello di Motta, l’osteria, il porto sulla Sesia e il mulino sul fiume, per 5000 ducatoni d’argento di Milano, riservandosi il diritto di riacquisto entro dodici anni; nel giro di poco più di due anni dopo, il Langosco vende anche tutto quanto si era prima riserva-to, dichiarando che con il ricavato avrebbe provveduto a restaurare i beni e il castello di San Damiano (presso Carisio)35. Essendo il mulino, con le ragioni annesse (1/6

29 ASCV, not. B. Bulgaro, 1054/892 (olim filza 3), c. 201, dove quale testimone ad un mandato appare d. Jo. Ambroxio fq. d.ni Jo. Petri Tavegie de Mediolano dorerio.30 ASCV, not. B. Bulgaro, 1054/892 (olim filza 3), cc. 1-6, dove la qualifica di dorerius è aggiunta in sopralinea e l’atto si conclude con l’autografo Jo Gio. Ambroxio Taegia afirmo quanto di sopra.31 Questi due acquisti sono semplicemente citati in un elenco di carte d’archivio del Taeggia (ASV, not. G. P. Confienza, vol. 57, in particolare c. 335v). All’epoca della morte Giovanni Ambrogio possedeva, oltre alla casa di abitazione in Vercelli in parrocchia di S. Giuliano, tre cascine alla Rantiva, una casa in Caresana, parte del castello di Motta dei Conti con i beni annessi (ASV, not. G. P. Confienza, vol. 56, c. 78r, 26 gennaio 1593).32 Il 4 novembre 1582, essendo già accensatore del dazio di Vercelli, rivendicava da Cristoforo Genevra già suo agente, da Giovanni Antonio Ronco e Battista Mora già cavalcatori del dazio, in particolare quanto aveva loro anticipato per liberarli dall’accusa di omicidio (ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, m. 328). Prima dell’estate del 1587, Giovanni Ambrogio aveva anche preso in affitto i beni del can. Giovanni Domenico Binelli, cercando poi in modo pretestuoso di non pagarlo (ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, m. 225, fasc. 7102). A Giovanni Ambrogio Taeggia, quale “guardia” della zecca di Vercelli, è concesso un aumento di stipendio il 6 marzo 1588 (AST-Riunite, Patenti Piemonte, reg. 50, cc. 298b-299a).33 Non pare fondato il titolo di conte di Motta e di signore di Viancino, riferiti dall’Arborio Mella. Guasco di Bisio 1911, non ne fa parola.34 Su Annibale e Alfonso Langosco si veda Manno, Patriziato Subalpino, vol. 15, p. 155.35 ASV, Buronzo di Asigliano, m. 127; l’inventario del fondo, però, elenca questo documento e il successivo nel mazzo 124, dicendoli provenienti dal 127, dove si trovano effettivamente. Sulla cascina

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della pesca dei pesci e dell’oro, 1/6 dei diritti di porto), di natura feudale e quindi di diretto dominio del duca, l’investitura di questa parte dei beni era poi passata a Camillo figlio del fu Giovanni Ambrogio mediante patenti di Carlo Emanuele I del 3 ottobre 1617; a distanza di un quarantennio, Carlo Ambrogio figlio di Camillo, ricor-reva al Collegio dei Dottori di Vercelli chiedendo di autenticare le patenti rilasciate al padre, probabilmente al fine di ottenerne altre analoghe a suo favore36.

Giovanni Ambrogio risulta aver fatto testamento il 23 ottobre 1592, ricevuto dal notaio Giovanni Paolo Confienza (ma per sfortuna questo atto è perduto37), morendo a metà del novembre successivo. Le spese per il funerale, oltre ai diversi legati, la cera e gli onorari per le messe di suffragio, comprendevano anche 72 fiorini spesi per far eseguire dal pittore Martino Cesis (alias Casa) gli stemmi che solitamente si apponevano al cataletto38. All’ufficiatura della cappella con altare in S. Francesco, aveva già provveduto con un apposito lascito testamentario di 108 fiorini l’anno a favore dei Francescani, regolarmente versato dalla vedova, la quale provvedeva una franza d’oro e seta per farne un palio del valore di 38 fiorini (1 dicembre 1593), ai restauri del tetto della cappella (18 maggio 1596), un palio d’asse per l’altare in s.to Francesco da oltre 20 fiorini e più per farlo dipingere 18 fiorini (8 luglio 1598), la fattura d’un palio brocato donato per l’altare a s.to Francesco arme et zara da 44 fiorini (9 giugno 1599), far recoprir la capella in s.to Francesco impiegando 6 fiorini (ottobre-novembre 1599)39.

Dal suo matrimonio con Bianca Luponi, probabilmente morta in giovane età, sembra non abbia avuto discendenza. Dal secondo matrimonio con Caterina figlia di Camillo Bazzani40, nascono Angela Camilla, Livia, Camillo e Giovanni Pietro.

fortificata di San Damiano, si veda Lusso 2016, in particolare p. 162.36 ASV, Buronzo di Asigliano, m. 127; il “Manifesto” del Collegio dei Dottori reca la data 24 settembre 1654.37 Non si trova, infatti, tra gli atti superstiti del notaio Confienza, oggi suddivisi tra ASCV (una filza degli anni 1571-1617 e un fascicolo di atti 1549-1620, rispettivamente segnati 1235/1073 e 1236/1074) e ASV, voll. 56-58 (con diversi vuoti).38 ASV, not. G. P. Confienza, vol. 57 (23 agosto 1601), in particolare c. 286v. La committenza degli stemmi al pittore è ignota a Schede Vesme, vol. I, pp. 278-279.39 Tutte queste spese sono elencate nel resoconto degli otto anni e mezzo in cui la vedova Caterina Bazzano aveva amministrato la casa a nome dei figli (ASV, not. G. P. Confienza, vol. 57 (23 agosto 1601), passim). Non mi è chiaro il significato della parola “zara”, la cui lettura è certamente corretta; il privilegio di potersi servire di uno stemma (le arme) fino ad allora utilizzato, era stato riconosciuto al Taeggia il 12 agosto 1580 (AST, Camera dei Conti, Piemonte, art. 234 (Criminali e straordinari), reg. 26/1, partita n. 122).40 Una transazione per il feudo di Viancino, seguita nel 1590 tra Antonio Bagnasacco e Caterina ed Anna, figlie di Camillo Bazani, è citata da Manno, Patriziato Subalpino, vol. A-B, p. 209 (il documento è in AST, Patenti Piemonte, reg. 21, c. 144v, 1 giugno 1590). Rimasta vedova del Taeggia, Caterina sposa

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Angela Camilla risulta defunta quasi contemporaneamente al padre nel novembre 1592, seguita nel settembre 1593 dalla sorella Livia “seconda figlia”41. Giovanni Pietro percorre la carriera ecclesiastica: ottenute le bolle di nomina a canonico co-adiutore, con diritto di successione, in data 28 luglio 1615, si reca a Torino nell’ot-tobre seguente per essere promosso al suddiaconato e al diaconato. Nel frattempo, il fratello Camillo sbriga tutte le formalità necessarie perché a Giovanni Pietro sia conferita la coadiutoria del canonico torinese Michele Bellezia, nominando procu-ratore sostituto il can. Gerolamo Loreo perché si presenti al Capitolo a prenderne il formale possesso, insieme con il membro canonicale di Balzola, impegnandosi all’osservanza degli Statuti capitolari e alla “settimana probatoria”. Approvata que-sta, il 13 novembre 1615, Giovanni Pietro assume la dignità di canonico coadiutore nel Capitolo di S. Eusebio42. In seguito alla morte del Bellezia, seguita in Torino il 28 settembre 1616, il Taeggia diventa canonico effettivo e il 18 novembre giura di os-servare gli statuti capitolari43. Da questa data il Taeggia è sempre presente alle sedute del Capitolo, per l’ultima volta il 12 aprile 1630 mentre la peste colpisce la città da alcune settimane; assente alla seduta del 19 aprile, forse perché già ammalato, muore di peste il 30 aprile insieme ai confratelli canonici Guglielmo Vercellino e Giovanni Giacomo Canova44.

Dalla documentazione sembra che Camillo Taeggia goda del favore dei duchi Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo I, ottenendo la grazia dell’imposta straordina-ria chiamata “quarta dei censi” (1619 e 1628) e anche uno stipendio mensile, quale “capitano trattenuto”, l’8 dicembre 163245. Invitato a Torino per ottenere l’investitura di alcuni beni feudali situati nel territorio di Motta dei Conti e di Viancino, dichiara che per la mala quallità de tempi et continui mossi d’inimici et anco per l’indispo-

Giovanni Francesco Moniardo, costituendosi in dote, tra l’altro, i beni di Viancino che l’ora defunta sorella Anna aveva venduti a Giovanni Ambrogio e che quest’ultimo aveva legati per testamento alla moglie (ASV, not. G. P. Confienza, vol. 57, c. 336, 24 settembre 1601).41 Le spese per i funerali di Angela Camilla (novembre 1592) e poi di Livia (fiorini 27.8 spesi il 28 settembre 1593) si trovano nel rendiconto dato dalla loro madre Caterina (ASV, not. G. P. Confienza, vol. 57 (23 agosto 1601), in particolare c. 286v).42 Tutta la documentazione è in ABCV, Atti Capitolari, vol. 44 (1614-1616), cc. 200r-209v (dal 14 ottobre al 13 novembre 1615). I diversi elenchi dei canonici di S. Eusebio dell’ABCV, che talora chiamano “Traggia” il Taeggia, riferiscono date imprecise sul suo conto.43 ABCV, Atti Capitolari, vol. 45 (1616-1618), c. 52r (18 novembre 1616).44 Vercellino Bellini, segretario della Curia vescovile e del Capitolo, tiene i verbali delle sedute capitolari fino al 12 aprile 1630, riprendendo solo il successivo 8 novembre, quando scrive: Interim fuit pestilentia in civitate per quam obierunt tres canonici Vercellinus, Canova et Taeggia (ABCV, Atti Capitolari, vol. 48 (1622-1631), carta senza numero).45 Risultano dagli “Indici” di AST, Patenti Piemonte: anno 1619, c. 48; 1628, c. 57; 1632-1633, c. 58.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

sitione dell’orine come per la fede del s.r medico che gl’inpedisse il cavalcare alla longa et per essere anco stato rovinato et abruciati gli soi beni per tre anni conti-nui dall’inimico et esportategli tutti gli suoi redditi et bestiami et non gli venghi al presente concesso tempo per potervi andare in persona per le cause sopra espresse et desiderando pure d’obedire alli ordini de SAR sopra ciò fatti, nomina suo procu-ratore Giovanni Giacomo Leggeri, dottore residente in Torino e avvocato della città di Vercelli, per prendere l’investitura dei detti beni feudali e prestare giuramento, chiedendo anche alla Camera l’autorizzazione ad alienare i beni di Viancino46.

Unico maschio in grado di continuare la discendenza della famiglia, sposa nel febbraio 1619 Matilde del fu Alessandro Caresana (olim de Mascolinis), ricevendo una dote di 3000 scudi da 9 fiorini, ma solo il 9 febbraio 162247. In seconde noz-ze, probabilmente nel 162848, Camillo sposa Marta Violante figlia del fu Ludovico Zoello (+1623), primo presidente della Camera dei Conti49.

Alla sua morte, poco prima del 23 giugno 1651, la successione al posto che occu-pava nel Consiglio cittadino aveva spinto la Credenza generale a decidere che non si poteva proporre alcuno essendovi agnati maschi del Taeggia e che comunque questi non avrebbe potuto disporre del posto senza l’intervento degli altri fratelli50.

Dal primo matrimonio di Camillo, finora resta documentata la sola nascita del figlio Carlo Ambrogio, avvenuta il 10 dicembre 161951, mentre non risulta discen-denza dal secondo. Tuttavia da altre fonti risultano nati almeno altri tre figli maschi: Francesco Ludovico (forse primogenito), Giovanni Pietro e Pietro Maria, di cui gli ultimi due probabilmente rientrati nel Milanese. Infatti, il 21 aprile 1673 Francesco

46 ASV, Insinuazione di Vercelli, libro 65, tomo 1 (vol. 129), c. 423, 4 settembre 1637.47 ASV, Insinuazione di Vercelli, libro 34, tomo 1 (vol. 67), c. 241; nell’atto, rogato nella casa del Taeggia in parrocchia di S. Michele, sono trascritti i capitoli matrimoniali del 1 febbraio 1619; Matilde dichiara di avere il consenso al suo matrimonio da parte dei fratelli Luigi, can. Giovanni Pietro e cap. Pirro, i quali si impegnano a cedere al Taeggia metà delle ragioni che hanno sull’eredità della loro madre Artemisia, per assicurare la dote della sorella.48 AST, Patenti Piemonte, reg. 49, c. 4, 24 febbraio 1628, donazione fatta da SA a Marta Violante, figlia del fu presidente Ludovico Zoello, della somma di 53 ducatoni, in considerazione del suo matrimonio con Camillo Taeggia, cittadino di Vercelli, cugino del fu senatore Negri, e ciò in considerazione della grata servitù resa dal padre. Il senatore Giovanni Andrea Negri, con testamento del 3 maggio e codicillo del 14 maggio 1627, aveva lasciato eredi per due terzi Camillo Taeggia suo nipote ex sorore, e l’Ospedale di Vercelli per un terzo (ASV, Ospedale S. Andrea, m. 1770). 49 Manno, Patriziato Subalpino, vol. 31, p. 14.50 ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, m. 318, 23 giugno 1651; il problema della successione ai posti in consiglio, in questo caso discusso da Carlo Amedeo Bellini, meriterebbe ulteriori approfondimenti.51 AP S. Eusebio, Battesimi 1614-1634, p. 128; padrini il conte Marco Antonio Serravalle e Francesca Aiazza.

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Ludovico, anche a nome del fratello Pietro Maria (come da procura rilasciata il 10 febbraio 1668, rogata dal notaio C. A. Ceruti di Milano), vende la nona parte del feu-do, giurisdizione e onoranze di Motta dei Conti, avuta in eredità dal padre Camillo, a Giuliano del fu Ascanio Cipelli, per la somma di 300 ducatoni52.

Carlo Ambrogio, “capitano degli archibugieri, conestabile della Castiglia, ca-meriere della duchessa Margherita di Borbone Savoia”53, sposa Claudia figlia di Giovanni Francesco Montanaro di Viancino. Cavaliere mauriziano54, risulta già de-funto nel 166955.

52 ASV, Insinuazione di Vercelli, libro 95, tomo 1 (vol. 189), c. 37, 21 aprile 1673. L’altro fratello Giovanni Pietro è ricordato come defunto pochi anni prima del 1689, quando Francesco Ludovico utilizza del denaro che quello aveva guadagnato per “impieghi havuti” nello Stato di Milano da cui li aveva poi ereditati (ASV, Insinuazione di Vercelli, libro 111, tomo 2 (vol. 220), c. 527, 4 marzo 1689).53 Così le Genealogie di Arborio Mella, che chiamano Giovanna Claudia ,a moglie, senza altri riferimenti.54 Claretta, 1868-1869, vol. 3, p. 272: Carlo Taeggia di Vercelli creato cavaliere mauriziano il 12 maggio 1647, ammesso per prove.55 ASV, Insinuazione di Vercelli, libro 91, tomo 1 (vol. 181), c. 171, 11 maggio 1669; dal contesto sembra di capire che Carlo Ambrogio, con la moglie e due servi, erano stati mantenuti negli ultimi 4-5 anni dal rispettivo cognato e fratello can. arcidiacono Alberto.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

Appendice

(ASV, Prefettura, Giudiziario, Fondo antico, m. 328)

25 giugno 1582

Per comandamento dil molto magnifico signor podestà et giudice della città et

distretto di Vercelli, et all’instantiadil nobile meser Giovanni Ambrosio Tavegia cittadino et habitator di Vercelli, proponente dell’anno 1578 prossimo passato meser

Bernardino Lanino con soi figlioli hano promesso de far una anchona per metter ad

uno altare in una capella della chiesa di santo Francesco et dipingerla insieme con

detta capella et far tutti li lavori secondo il dissegno dato et promessero darli fornita

alla Pascha dell’anno 1580 prossimo passato et esso meser Giovanni Ambrosio

promesse de darli scudi cento quaranta nelli termini contenuti in una polliza firmata

di mano propria de mano essi padre e figlioli de Lanino. Et quantonque gl’habbi

pagato la maggior parte de detti dinari et più volte instati a fornirla detti anchona et

capella, non si sono maj curati, anci esso meser Giovanni Ambrosio ha accomprato

più volte della calcina et ultimamente una baroza a precio de fiorini vinti quattro acio

la messero in opera et lano lasciata andar a male et non se curano di fornir detta

opera, in danno et pregiudicio d’esso proponente et delli Rev.di relligiosi de santo

Francesco quali non podeno officiar ne cellebrar le messe al detto altare manchanti

l’ellemosina promessa, onde ricorrendo dal predetto magnifico signor podestà et

protestando de tutti li danni, spese et interesse patiti, che patisse et patira per detta

causa, massime delle robbe che li sono andate a male chedendo che detta parte et

sopra ciò gli sij provisto l’officio. Pertanto admessa la sudetta protesta in quanto

sij di raggione, si comette al primo sergente ducale o nontio giurato che sopra ciò

sarà richiesto, che comandi alli detti padre et figliolo de Lanino pictori, alla pena

de cinquanta scudi applicandi al fisco, che fra uno mese prossimo avenire debbano

haver fornito compitate detti anchona et capella et portarla a luoro, conforme alla

loro promessa, in quanto contravenendo stimeno d’incorrer detta pena et sentendosi

de ciò alcuno gravato. R.s L.i Stroppiana. [Sul retro] 1582 li vintisei di giugno, il

s.r Podestà ha revocato il retroscritto comandamento et redutto in forza de simplice

cittatione concedendo testimoniali. Dionisijs. Copia. Copia. Per meser Bernardino

Lanino.

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

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Gabrielli 1971Noemi Gabrielli, Galleria Sabauda. Maestri italiani, Torino 1971.

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Guasco di Bisio 1911Francesco Guasco di Bisio, Dizionario feudale degli antichi Stati Sardi e della Lombardia, Pinerolo 1911.

Lanzi 1984Luigi Lanzi, Viaggio del 1793 pel Genovesato e il Piemontese, a cura di G. C. Sciolla, Treviso 1984.

Lebole 1984Delmo Lebole, Storia della Chiesa Biellese. La Pieve di Biella, vol. I, Biella 1984.

Lebole 1990Delmo Lebole, Storia della Chiesa Biellese. La Pieve di Biella, vol. VI, Biella 1990.

Lusso 2016Enrico Lusso, Le cascine in età medievale e moderna. Uno sguardo sulla piana vercellese sud-orienta-le, in “I paesaggi fluviali della Sesia. territori, insediamenti, rappresentazioni”, a cura di R. Rao, Sesto Fiorentino 2016, pp. 153-175.

Manchinu 2003Paola Manchinu, Vicende, temi e figure delle botteghe gaudenziane a Vercelli: le chiese degli ordini mendicanti e la committenza locale, in “Arti figurative a Biella e a Vercelli. Il Cinquecento”, a cura di V. Natale, Biella 2003, pp. 133-147.

Martinella 2015Stefano Martinella, Fermo Stella, Giovanni Maria De Rumo e “tre anchone vecchie”. Appunti sulla prima decorazione della Madonna di Campagna, in “Verbanus”, XXXVI (2015), pp. 11-30.

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Simone Riccardi - Giorgio Tibaldeschi

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Quazza 1986Ada Quazza, Repertorio delle opere di Bernardino Lanino, in “Bernardino Lanino e il Cinquecento a Vercelli”, a cura di G. Romano, Torino 1986, pp. 239-283.

Riccardi 2010Simone Riccardi, Pittura a Vercelli e nel vercellese nell’età di Carlo Borromeo, in “Divo Carolo. Carlo Borromeo pellegrino e santo tra Ticino e Sesia”, catalogo della mostra di Vercelli, a cura di C. Lacchia e F. Gonzales, Novara 2010, pp. 32-50.

Roccavilla 1905Alessandro Roccavilla, L’Arte nel Biellese, Biella 1905.

Romano 1964Giovanni Romano, La tradizione gaudenziana nella seconda metà del Cinquecento, in “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, n.s. XVIII (1964), pp. 76-94.

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Ruffilli 2004Marco Ruffilli, “Io fermo il volo ove mia stella vole”. Un profilo degli interessi artistici di Bartolo-meo Taegio, in “Bollettino Storico Vercellese”, 33 (2004), n. 62, pp. 45-68.

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Taegio 1554Bartolomeo Taegio, Le risposte di M. Bartolomeo Taegio giureconsulto del collegio di Milano, Novara, F. e G. Sesalli, 1554.

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Viale 1969Vittorio Viale, I dipinti. Catalogo. Civico Museo Francesco Borgogna, Vercelli 1969.

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La cappella Taeggia in S. Francesco di Vercelli

RiassuntoIl reperimento di un nuovo documento ci permette di conoscere che nel 1578 Bernardino Lanino e i suoi figli si impegnano a dipingere la cappella di San Paolo in San Francesco a Vercelli di patronato della famiglia Taeggia. La pala collocata sull’altare era certamente la tavola con la Caduta di San Paolo ora alla Galleria Sabauda, mentre gli affreschi con Sibille e angeli musicanti e una Annunciazione, datati forse 1581, e ora, dopo lo stacco, conservati al Museo Borgogna, provengono da un’altra cappella della stessa chiesa vercellese, anticamente intitolata all’Assunta.

AbstractThe finding of a new document sheds light on the fact that in 1578 Bernardino Lanino and his sons undertook the decoration of the chapel of St. Paul in the church of St. Francis in Vercelli, which was under the patronage of the Taeggia family. The chapel’s altarpiece was certainly the painting depicting The Fall of Saint Paul currently kept at the Galleria Sabauda. On the other hand, the detached frescoes depicting Sibyls, Music-making angels and an Annunciation, which possibly date back to 1581 and are now kept at the Museo Borgogna, come from another chapel that was once dedicated to the Assumption and located inside the same church.

[email protected]@gmail.com

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Roberto Badini

LA “MAGNIFICA COMUNITÀ DI MONFORMOSO”.ASPETTI STORICI, CIVILI E RELIGIOSI IN ETÀ MODERNA

Premessa

L’analisi storica recente ha permesso d’incentrare l’attenzione degli studiosi e dei ricercatori anche su elementi del passato pressoché scomparsi dall’ambiente storico, geografico e locale. Un caso particolarmente interessante tocca da vicino l’attuale paese di Villarboit, che racchiude nel suo territorio odierno la zona che, un tempo, era legata allo scomparso borgo di Monformoso. A tutt’oggi non esistono particolari studi scientifici su questa zona, ad eccezioni di pochi esemplari che si concentrano, sfortunatamente, su aspetti estremamente specifici della zona.

Il saggio di Giovanni Sommo (1984) e quello di Ornella Ferreri e Giovanni Sommo (1985), nonostante siano sostanzialmente datati e si concentrino, in particolar modo, su aspetti archeologici, sono le basi su cui è possibile iniziare a tracciare una cronistoria coerente e metodologicamente corretta sull’abitato. Più recentemente è stato pubblicato lo studio di Cristina Ambrosini e Gabriella Pantò (2006). Quest’ultimo, se ha permesso di analizzare in maniera specifica alcuni aspetti fondanti dell’abitato, quali la chiesa di Sant’Andrea Apostolo, rimane, comunque, racchiuso in un ambito archeologico.

È assente, pertanto, un’analisi che permetta di procedere ad una storia completa dell’abitato di Monformoso. Il presente testo vuole cercare, partendo da svariati testi su cui è stata citata la località di Monformoso, nonché da vari archivi, di ricostruire il più possibile fedelmente una cronistoria nell’età moderna dell’abitato, nonché un excursus sugli edifici religiosi e sull’attività amministrativa della “Magnifica Comunità”.

Quadro storico di Monformoso

Il nome “Monformoso” viene citato, con una certa precisione, in due testi piuttosto datati ma sostanzialmente chiari sulle vicende toponomastiche della zona. Il Bruzza1, nella sua opera, fa derivare il toponimo da “Mons”, ovvero dalla postura e dal prospetto dell’area, riportando, altresì, esempi similari quali “Mons - grandis”,

1 Bruzza 1874, p. 87.

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Roberto Badini

“Mons - regis” e “Mon - taruco”. Similmente parrebbe ipotizzare anche l’Olivieri2, il quale collega il toponimo “Mons” a “l’altura di Villarboit, mentre “formosus” sarebbe da ritenersi derivato da un nome personale. Il Settia3 ritiene di collegare il toponimo “Mons” alle località desertiche derivate dall’età romana.

La formazione storica dell’abitato di Monformoso andrebbe fatta risalire ai primi insediamenti abitativi della zona legati ai possedimenti dei conti di Biandrate. Questa ipotesi, come esposta dal Deambrogio4, porrebbe, pertanto la formazione del borgo nel corso del XII secolo5. A conferma dei possedimenti dei Biandrate a Monformoso, il Guasco di Bisio6 sostiene che un ramo della famiglia avesse assunto il predicato “di Monformoso”. Il termine dei possessi dei Biandrate a Monformoso è da collocarsi nel 1170, data pressoché assodata dalle fonti, in cui, come riferito dallo stesso Guasco di Bisio, Uberto7 e Guglielmo8 di Biandrate vendettero la località, insieme ad altre, a Palatino9 e Bongiovanni10 Avogadro11. Già il 25 marzo 1265, come è correttamente citato dall’Avonto12, avvenne una divisione dei beni della famiglia Avogadro tra Giovanni13 e Filippo14 Avogadro, figli di Rufino15. Anche l’Avogadro di Vigliano16 sostiene la tesi della proprietà degli Avogadro sul territorio di Monformoso. Al primogenito dei figli di Rufino, Giovanni, sarebbero spettati i territori di Villarboit, Busonengo e Monformoso. Il Sommo17 cita la presenza d’ulteriori famiglie investite di diritti nell’ambito territoriale di Monformoso, oltre agli Avogadro. Nell’atto di dedizione del territorio di Monformoso ai Savoia del

2 Olivieri 1965, p. 222.3 Settia 1970, p. 95, n. 658.4 Deambrogio 1970, p. 33.5 Per un riferimento cronologico sulla famiglia Biandrate, si veda Raggi 1933.6 Guasco di Bisio 1916, p. 52.7 Uberto di Biandrate concluse una pace con Asti e Chieri nel 1172 e partecipò all’assedio di Alessandria nel 1174 a fianco dell’Imperatore. Nel 1197 fu presente alla composizione della controversia tra Bonifacio I del Monferrato ed il Comune d’Asti. Per una biografia completa Raggi 1916-1917.8 Guglielmo di Biandrate è nominato nel rinnovo dell’accordo tra la sua famiglia ed il Comune di Biandrate del 1167 (Gabotto 1903).9 Palatino Avogadro fu Console del Comune di Vercelli nel 1192 (Tettoni 1845).10 Bongiovanni Avogadro fu Console del Comune di Vercelli nel 1181, nel 1184 e nel 1190 (Tettoni 1845).11 Per una storia della famiglia, Avogadro di Vigliano 1928.12 Avonto 1980, p. 369.13 Giovanni Avogadro di Collobiano acquisì il castello di Cossato nel 1270.14 Filippo Avogadro di Collobiano completò l’acquisto del castello di Cossato nel 1271.15 Rufino Avogadro di Collobiano fu Podestà di Vercelli nel 1243.16 Avogadro di Vigliano 1961, p. 36.17 Sommo 1984, p. 53.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

19 febbraio 1373 risulta, infatti, la presenza dei Delle Donne di Buronzo come “Consignori di Buronzo e Monformoso”. Lo stesso autore18 sostiene che anche i Faciotto, facenti parte del consorzio dei gentiluomini di Arborio, fossero presenti con delle proprietà a Monformoso, come è trascritto nel testo seguente, rinvenuto dal Sommo: “[…] 1578, 24 maggio, vendita de’ beni di Monformoso e San Marco fatta dal Sig. Cristoforo Faciotto a favore del Signor Conte e Gran Cancelliere Gio. Tomaso Langosco Stropiana19 per il prezzo di scuti ottocentonovantaquattro d’oro di Genova e fiorini tre […]”. Ed afferma, altresì, che a Monformoso erano presenti anche i Comerro, facenti sempre parte del consortile d’Arborio. Questi ultimi cedettero i loro diritti su Monformoso al Langosco nel 157820.

Da tutto ciò deriva, pertanto, un quadro piuttosto variegato di diritti signorili sulla zona di Monformoso, in particolar modo nel XIV secolo. La citata sottomissione ai Savoia, effettuata nel 1373, fu confermata nel 1561, almeno per quanto riguarda i Delle Donne, come risulta dai documenti conservati nell’Archivio di Stato di Vercelli21:

“[…] 12 giugno 1561, giuramento di fedeltà promesso per il Sig. Antonio fu Signore Bonifacio Delle Donne di Buronzo per il feudo di Monformoso all’ill.mo Duca di Savoia Emanuele Filiberto22 in persona di (noi) Pugliano, dellegato a ciò a nome e come procuratore Suo […] stando qui pure inserto l’instrumento 19 febbraio 1373 per cui i Consignori detti di Buronzo si sono donati o sia posti sotto la protezione della Casa di Savoia per sottrarsi al tirannico dominio di Galeazzo Visconti23, Duca di Milano […]”.

La dedizione ai Savoia sarebbe, pertanto, successiva alle celebri scorrerie di Facino Cane (1360-1412)24 il quale, secondo lo storiografo Bernardino Corio25, citato dall’Ordano26, avrebbe saccheggiato anche l’abitato di Monformoso.

Anche quello dei Rovasenda fu un ulteriore nucleo familiare che acquisì proprietà

18 Sommo 1984, p. 53.19 Per una biografia completa sul Langosco Tallone 1900, per i rapporti con Emanuele Filiberto Merlin 1994.20 Sommo 1984, p. 53.21 Archivio di Stato di Vercelli, Archivio Buronzo di Asigliano, scatola 142.22 Per una biografia sul Savoia Merlin 1995 e Moriondo 2007.23 Per alcuni cenni biografici Pizzagalli 2001.24 Bonifacio Cane (Casale Monferrato 1360 - Pavia 16 maggio 1412), detto Facino. Per una biografia Del Bo - Settia 2014.25 Per una biografia Meschini 2001. 26 Ordano 1985, p. 96.

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su Monformoso, ma in un’epoca più tarda, nel 1544, come è sostenuto dal Guasco di Bisio27 o nel 1545, come sostenuto dal Sommo28, anno in cui la famiglia ottenne i diritti da Carlo III di Savoia29. Secondo l’Adami30 il feudo fu concesso nel 1540 ad Antonio di Rovasenda per quattordici ducati d’oro da parte di Carlo III, al fine di ottenere denaro per motivi bellici e nel 1544 lo stesso duca vendette lo stesso territorio ad Antonio di Rovasenda con diritto di trasmissione ai successori. Nell’atto di infeudazione di Emanuele Filiberto a Giovanni Tomaso Langosco del “[…] castrum, villam, territorium et districtum Montisformosi […]” risulta che il duca riscattò il feudo da Anna, vedova di Antonio di Rovasenda.

Per quanto riguarda, invece, l’esistenza di una vera e propria famiglia dal toponimo “di Monformoso”, l’Avogadro di Vigliano sostiene l’esistenza di una famiglia omonima presente a Vercelli in una data anteriore al 1373. Sempre secondo l’autore questa famiglia sarebbe estinta nel XVI secolo. Anche l’Ardizio31 nella sua opera, pare sostenere la tesi dell’esistenza di una famiglia nobiliare dal predicato “di Monformoso” in quanto, rifacendosi ad un estimo del 1348, afferma che il titolare dell’oratorio di San Marco era figlio del nobile Giovanni di Monformoso; più oltre, specificando meglio, sottolinea che lo stesso Giovanni riappare citato nel 1373 nell’atto di sottomissione della comunità a favore del Conte Amedeo VI di Savoia32.

Per quanto riguarda la collocazione amministrativa, il Dionisotti sostiene l’appartenenza del territorio di Monformoso al Capitanato di Santhià33.

Sulla presenza di un borgo vero e proprio nella zona di Monformoso, al di fuori degli abitati di Villarboit e di San Marco, Viglino Davico34 propende per l’esistenza d’un agglomerato abitativo piuttosto rilevante, confermato dalla disposizione delle poche case rimanenti attualmente e sottolinea ciò analizzando l’incremento avuto dalla popolazione tra il 1379 ed il 1432, incremento secondo solo a quello di Candelo. Il Sommo35, però, precisa che l’incremento evolutivo andrebbe valutato tenendo anche conto dell’abitato di San Marco, dipendente da Monformoso. Secondo Rao36, in realtà, l’abitato di Monformoso avrebbe già subito un abbandono nel corso di

27 Guasco di Bisio 1916, p. 52.28 Sommo 1984, p. 53.29 Per una biografia Marini 1972.30 Adami 2012, p. 149.31 Ardizio 2004, pp. 7 e 28 nota 2.32 Per una biografia Origone 1991.33 Dionisotti 1864, p. 256.34 Viglino Davico 1979, p. 54.35 Sommo 1984, p. 54.36 Rao 2011, p. 210.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

circa un trentennio dal 1376 al 1401. Il saccheggio da parte di Facino Cane di varie parti del Vercellese, come già accennato in precedenza, avrebbe colpito anche la zona di Monformoso. I proprietari della zona, in seguito avrebbero richiesto una diminuzione del carico fiscale, motivando l’abbandono dell’abitato di gran parte della popolazione37.

La borgata di San Marco, come sostenuto dal Sommo38, avrebbe sempre seguito le sorti di Monformoso, da cui sarebbe sempre dipeso territorialmente. Anche nell’Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit è custodito un documento che conferma l’appartenenza della frazione al territorio di Monformoso. Il testamento di Giuseppe Massa, redatto il 6 gennaio 1656, cita una proprietà sita in “[…] Cascine di San Marco fini di Monformoso […]”39.

Dell’incremento demografico e della grandezza del borgo presente a Monformoso parla anche una testimonianza nell’archivio parrocchiale. Don Giovanni Ravizza40, nello scrivere il suo Liber Chronicus sulla parrocchia di Villarboit, sostiene che al suo tempo (tra il 1914 ed il 1948) erano presenti in Monformoso le indicazioni di due vie: Via San Bernardo e Via San Sebastiano41.

Lo sviluppo abitativo di Monformoso sarebbe stato pressoché terminato già nel corso del XVI secolo inoltrato, in quanto risulta che nel corso del secolo seguente la zona fosse pressoché abbandonata. Ciò è testimoniato in un ulteriore documento conservato nell’Archivio Parrocchiale di Villarboit, risalente alla metà del XVII secolo, in cui è scritto:

“[…] salva ogni altra raggione che potesse aspettare alla detta Parrocchiale e che convien andare mendicando, essendo il detto luogo di Monformoso derelitto et abbandonato che per molto tempo non si vedevano altro che machie, bosci et diserti, le case per terra, et la Chiesa Parochiale di S. Andrea coperta da frondi di bosci […]42”.

37 Rao 2011, p. 229.38 Sommo 1984, p. 53.39 Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit, faldone Incartamenti vari, foglio senza numerazione ma con data in calce.40 Don Giovanni Ravizza (Lignana 2 febbraio 1880 - Villarboit 26 agosto 1948). Prevosto di Villarboit dal 1914, lasciò un testo rilegato intitolato Liber Chronicus che ripercorre la sua attività parrocchiale. Nelle prime pagine è inserita una storia del borgo, comprendente anche delle notizie relative a Monformoso.41 Don Giovanni Ravizza, Liber Chronicus in Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit.42 Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit, faldone Incartamenti vari, foglio senza numerazione e senza datazione, ma con calligrafia tipica del XVIII secolo.

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Roberto Badini

L’abbandono definitivo dell’abitato di Monformoso, come viene confermato dai documenti rinvenuti e dalle svariate fonti consultate43 è sicuramente da attribuirsi ad un caso di progressivo spopolamento, derivato da molteplici fattori. Le cause relative al decadimento di Monformoso vanno ricercate, quasi sicuramente, nello sviluppo che ebbero i vicini centri dipendenti di Villarboit e di San Marco. Questo sviluppo, nonché lo spostamento del baricentro amministrativo nella zona di Villarboit, è da collegarsi al mutamento dei sistemi di coltivazione ed alla diffusione su larga scala della coltura del riso. Se, infatti, i terreni intorno alla borgata di Monformoso risultavano adatti alla pastorizia ed a poche coltivazioni a basso sfruttamento del terreno, lo sviluppo di una coltivazione intensiva come quella risicola implicava indubbiamente altre conformazioni fisiche. L’arrivo, infatti, della coltivazione risicola nel Vercellese, da collocarsi nel XVII secolo come “produzione tipica” corrisponde al periodo di decadimento pressoché definitivo dell’abitato di Monformoso.

È altamente ipotizzabile, pertanto, che gli abitanti del borgo abbiano preferito trasferirsi in località maggiormente collegate alla nuova attività, come si presentavano gli abitati di Villarboit e di San Marco. Adami pare confermare questa teoria, sostenendo che la bonifica dei terreni avrebbe portato ad un graduale abbandono di Monformoso, privilegiando il centro vicino di Villarboit44. Anche Rao sostiene che l’abbandono definitivo di Monformoso si possa collocare in questo periodo, preferendo, però, imputarlo a cause differenti legate alla depressione demografica del 1630, a cui sarebbero seguiti altri fattori come le guerre e la fiscalità45.

Nell’Archivio di Stato di Torino46 si trova un documento titolato “Relazione dell’uso di convocarsi la Città di Vercelli, e di amministrare gli affari pubblici. Progetti per ripopolare la detta Città, e ristabilire il commercio, con regio biglietto per la grazia della diminuzione degli imposti. Parere anche per ripopolare il luogo di Monformoso”47. La documentazione citata risale agli anni 1665-1674 e conferma, pertanto, lo spopolamento subito dal borgo antecedentemente a queste date.

Il castello di Monformoso

L’esistenza di un castello nella zona di Monformoso è, pressoché, assodata da tutte le fonti. Una prima conferma viene già dal nominativo dell’area denominata

43 Sommo 1984, p. 47.44 Adami 2012, p. 151.45 Rao 2011, p. 63.46 Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, Ufficio generale delle Finanze, Prima Archiviazione, Pro-vincia di Vercelli, mazzo 1, n. 1. 47 Ringrazio Giorgio Tibaldeschi per avermi segnalato il documento.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

“Castellone”, sita su una piccola altura al fianco della strada provinciale numero 57. Nell’Archivio Parrocchiale di Villarboit, è presente l’attestazione dell’esistenza di un castello nel borgo, trovandosi scritto in un documento risalente al XVIII secolo: “[…] campo et zerbido di sopra sotto il Castello di Monformoso, e dietro la casa, che è in prospettiva del molino […]48. Don Ravizza49 sostiene che tra il 1844 ed il 1846 quando la Venerabile Serva di Dio Marchesa Juliette Colbert Falletti di Barolo50 decise la costruzione della cascina porticata Bergamina, a Nord della canonica di Villarboit, furono utilizzate le pietre della regione Castellone di Monformoso. Anche Rao51 conferma l’esistenza del castello, attestato dalle fonti solo a partire dal XVI secolo, ma sicuramente risalente ad un periodo anteriore.

Ulteriore testimonianza dell’esistenza di un castello ancora nel XVII secolo è posta in un documento dell’Archivio di Stato di Vercelli52: “[…] 27 aprile 1636, Monformoso, sulla pubblica strada ossia piazza del castello; relazione di visita ad un cadavere che vi si trova da tre giorni […]”. Ancora alla fine del secolo il castello era esistente, sebbene in condizioni precarie, come dimostra un atto del 1699 nell’Archivio Storico Civico di Vercelli53: “[…] castello di Monformoso, parte dirocato nella magior quantità e parte ancor coperto a coppi […] castello dishabitato vedendosi molti cespuglij […]”.

La Pieve di Sant’Andrea Apostolo

Per quanto riguarda la struttura ecclesiastica di Monformoso, Ambrosini e Pantò54 specificano che l’esistenza di un edificio di culto nel luogo andrebbe collocato nella seconda metà del XII secolo, al fine di supplire alle esigenze della popolazione che andava raccogliendosi intorno al castello di Monformoso. Anche per una descrizione architettonica della chiesa è necessario rifarsi ai risultati dello scavo archeologico. Le autrici sostengono, infatti, che: “[…] La chiesa, ad aula rettangolare (lungh. m 12), [era] conclusa ad oriente da abside semicircolare […]”55. In un periodo successivo, collocato dalle autrici tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI

48 Sommo 1984, p. 47.49 Don Giovanni Ravizza, Liber Chronicus.50 Per una biografia Tago 1997.51 Rao 2013, p. 111.52 Archivio di Stato di Vercelli, Prefettura, Giudiziario, Fondo Antico, mazzo n. 312. Ringrazio Giorgio Tibaldeschi per la segnalazione. 53 Archivio Storico Civico di Vercelli, not. Giovanni Bartolomeo Faciotti, Scritture private, n. 1140 del nuovo ordinamento. Ringrazio Giorgio Tibaldeschi per la segnalazione.54 Ambrosini - Pantò 2006, p. 297.55 Ambrosini - Pantò 2006, p. 298.

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Roberto Badini

secolo, la Parrocchiale avrebbe subito interventi di rinnovamento architettonico56; in particolare:

“[…] L’aula, portata ad una lunghezza complessiva di m. 13,20 con accesso principale da N, fu dotata di una terminazione rettilinea a oriente e di un ampio spazio presbiterale, mentre ad occidente un emiciclo era probabilmente destinato ad accogliere il battistero; al centro dell’aula fu realizzata un’ampia e profonda camera funeraria […]”.

Per quanto riguarda il titolo della parrocchia, Don Ravizza, sostiene57, che essa avrebbe goduto del titolo di Pievania. Ciò è altamente ipotizzabile, stante l’antichità della zona. Lo sviluppo delle pievi è da collocarsi nel periodo altomedioevale e solo in seguito si ebbe una diffusione più capillare delle Parrocchie e delle Prepositure58.

Dall’Orsenigo59 è possibile rintracciare l’autonomia della parrocchia di Sant’Andrea Apostolo sita in Monformoso già in alcuni atti sinodali del 1438, del 1449 (“[…] Ecclesia S. Andreae de Monteformoso […]”) e del 1474. Sempre dall’Orsenigo si può leggere che la parrocchia di Monformoso dipendeva intorno al X secolo dalla pieve di Balocco. Nella visita pastorale compiuta dal vescovo di Vercelli, Marco Antonio Vizia60, nella giurisdizione ecclesiastica di Monformoso, il 23 aprile 1597, si legge una brevissima descrizione dello stato strutturale della pieve di Sant’Andrea Apostolo, già piuttosto fatiscente: “[…] habet unum altare cum predella modum indecenti […] non bene tecta in quo intro pluit […]61”. Da ciò, quindi, si comprendono le già precarie condizioni dell’edificio che, oltre ad essere dotato di un solo altare con una predella “indecente”, aveva, altresì, seri problemi relativi al tetto da quale pioveva all’interno. Non risulta la presenza di un campanile, in quanto nel verbale della visita è solamente scritto: “[…] habet campana […]62”. La presenza di un campanile è data per certa da Ambrosini e Pantò63, le quali sostengono che l’esile torre campanaria si trovasse nell’angolo Sud-Est della chiesa, poggiata su un pilastro. Nella visita pastorale del vescovo Giacomo Goria64 nel territorio di

56 Ambrosini - Pantò 2006, p. 298.57 Don Giovanni Ravizza, Liber Chronicus.58 Per una descrizione storica del fenomeno delle pievi Salvanari 2009.59 Orsenigo 1909, p. 180.60 Monsignor Marco Antonio Vizia fu Vescovo di Vercelli dal 1590 al 1599. La pressoché unica biografia esistente è quella di Cusano 1676.61 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Marco Antonio Vizia.62 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Marco Antonio Vizia.63 Ambrosini - Pantò 2006, p. 298.64 Giacomo Goria (Villafranca d’Asti 28 ottobre 1571- Vercelli 3 gennaio 1648). Fu Vescovo di Vercelli

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

Monformoso il 18 marzo 1619, si ha la conferma della visita pastorale precedente; in particolar modo è scritto: “[…] La Parochiale di S. Andrea porta vasta et guasta […] Altare no è conforme alli ordini […]65”. Ciò dimostra, nuovamente, un particolare stato di decadimento della Pieve. Ma è con la visita del vescovo Michele Angelo Broglia di Casalborgone66, effettuata il 5 giugno 1666, che si arriverà alla decisione di una futura soppressione della Pieve. Dal verbale della visita si può leggere:

“[…] quia ecclesia parrochialis longe inter nemora vetustate collapsa, diruta et omnibus destituita, locus vero omnino derelictus et fere adsunt 20 habitatores; ita ut sacramenta recipiant a paroco Villarboiti. Ideo videtur unienda […]”67.

Nei decreti finali relativi alla visita pastorale viene data la seguente disposizione:

“[…] Questa Chiesa per ogni modo si dovrebbe sopprimere ed unire a quella di Vallarboit, atteso il suo mal stato, tuttavia la nuova speranza che desta ancora ai Parrocchiani di poterla forsi di mettere in stato ci fa sospendere la dissoluzione sino per qualche tempo e intanto si assegnano i suoi redditi de beni e questi al Rev. Cur.to di Vallarboit a cui ne confermiamo la regenza per la somministrazione dei Sacram. e funzione […]”.

Circa trent’anni dopo, la speranza del vescovo Broglia non fu esaudita, in quanto nella visita pastorale di Gian Giuseppe Maria Orsini68 compiuta nel territorio di Villarboit il 23 luglio 1694 è segnato: “[…] Visitavi oratorium sub tit.o S. Andreae loci Monformosi […]”69. Ciò dimostra la trasformazione della Pieve in semplice oratorio e la sua dipendenza dalla Prepositura di San Pietro Apostolo in Villarboit, ma allo stesso tempo il fatto che l’edificio fosse ancora esistente. Ancora ai primi del XVIII secolo era sicuramente in piedi l’edificio religioso, anche se in condizioni pressoché fatiscenti. Nell’inventario sui beni della Prepositura, stilato da Don Pietro Agostino Boggio70, Prevosto di Villarboit dal 1702 al 1716, custodito nell’Archivio Parrocchiale di Villarboit71, è presente nella prima pagina un brevissimo cenno

dal 1611 al 1648. Per una biografia Brunetto - Gilardi 1998.65 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Giacomo Goria.66 Michele Angelo Broglia di Casalborgone (Chieri 1614 circa - Vercelli maggio 1679). Fu Vescovo di Vercelli dal 1663 al 1679. Per una biografia piuttosto agiografica Angius 1842.67 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Michelangelo Broglia.68 Gian Giuseppe Maria Orsini dell’Ordine dei Canonici Regolari del Santissimo Salvatore Lateranense (Rivolta d’Adda 30 novembre 1639 - Vercelli agosto 1694). Fu vescovo di Vercelli dal 1692 al 1694.69 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Gian Giuseppe Maria Orsini.70 Don Pietro Agostino Boggio (morto a Villarboit nell’ottobre 1716). Fu prevosto di Villarboit dal 1702 al 1716.71 Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit, Inventario di Don Pietro

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Roberto Badini

all’esistenza dell’edificio parrocchiale di Monformoso: “[…] La Chiesa Parochiale sotto il titolo di S. Andrea Apo. alla campagna per longo tempo in un bosco aperto […]”. Questa testimonianza rappresenta l’ultima notizia certa della presenza di un edificio religioso nell’abitato di Monformoso.

Nell’opera dell’Orsenigo viene citato il nome del Prevosto di Villarboit, Don Francesco Andrea Follis72 il quale, ancora nel 1749, si firmava distintamente anche come titolare di Monformoso: “[…] R. Franciscus Andreas Follis Praepositus S. Petri Villarboit et S. Andreae Montis formosi […]73”. I registri della Parrocchia di San Pietro Apostolo in Villarboit sino all’anno 1805 riportano ancora la dicitura “Monformoso e Villarboit”; secondo Don Ravizza, Monformoso sarebbe stata la matrice della Parrocchia di Villarboit e, pertanto, anteposta nel nominativo. Questa testimonianza è rafforzata ulteriormente da Don Ravizza che sostiene che al suo tempo ancora non si era spenta la voce secondo cui, nei tempi antichi, gli abitanti delle zone di Villarboit e di San Marco portassero i bambini a Monformoso per essere battezzati74.

Sulla collocazione topografica dell’edificio è possibile rintracciare una descrizione nel testo di Ambrosini e Pantò75, le quali, in base alle indagini archeologiche condotte durante gli scavi per il traffico ferroviario, sostengono che l’edificio della chiesa si trovasse sulla collina a Nord dell’attuale cascina Monformoso.

L’Oratorio della Beata Vergine Maria Assunta

Dalla citata visita pastorale del vescovo Vizia, del 23 aprile 1597, è stata rintracciata l’esistenza di un secondo edificio ecclesiastico a Monformoso, una cappella dedicata alla Vergine Maria, sita nel castello del luogo: “[…] visitata postea capella castri sub titulo Beatae Mariae […]”76. La descrizione è scarna, si legge la presenza di un solo altare, nonché l’angustia del luogo, tale da non poter ospitare i parrocchiani della zona: “[…] in qua unum extat altare […] Ita quod populo difficile capere potest […]77”. Una conferma dell’esistenza di questa cappella si legge anche nella visita del vescovo Giacomo Goria del 18 marzo 1619: “[…] Vi è una Chiesa di

Agostino Boggio, inserito in una cartella senza riferimenti di pagina.72 Don Francesco Andrea Follis (nato a Moncrivello - Villarboit 5 febbraio 1753). Fu prevosto di Villarboit dall’8 agosto 1734 alla morte.73 Orsenigo 1909, p. 181, nota 1.74 Don Giovanni Ravizza, Liber Chronicus.75 Ambrosini - Pantò 2006, p. 297.76 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Marco Antonio Vizia.77 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Marco Antonio Vizia.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

S. Maria nel Castello nel loco di Monformoso […]78”. Infine, tra i decreti relativi alla visita del Vescovo Broglia di Casalborgone del 1666 è stabilito che siano provveduti alcuni arredi all’oratorio, al fine di poter supplire alla mancanza dei Sacri Uffici nella zona, stante il decadimento della Pieve di Sant’Andrea Apostolo:

“[…] Intanto affinchè si possino celebrare qualche volta in questo luogo nella Cappella della B.V. Assunta nel Castello si provveda d’una croce d’ottone e si faccia indorare la patena del calice […]”79.

Ancora nel 1699 l’oratorio doveva essere presente, come risulta dal già citato documento dell’Archivio Storico Civico di Vercelli: “[…] dentro e fuori et al di sotto di detto castello si vede una picciol capella campestre all’antica construtta […]”80.

Il cimitero di Monformoso

L’esistenza di una struttura cimiteriale nell’area di Monformoso è altamente ipotizzabile, stante la presenza di una Pieve. Già nella visita pastorale del Vescovo Vizia è presente un cenno della locazione cimiteriale, probabilmente in uno spazio aperto circostante la chiesa, come era uso al tempo: “[…] Cimiterium apertum […]81”.

Ambrosini e Pantò82 confermano questa collocazione, sostenendo che il cimitero fosse attiguo alla Pieve di Sant’Andrea Apostolo, ma specificando, altresì, la presenza di alcune sepolture sottostanti al pavimento della chiesa stessa, con l’esclusione del solo presbiterio, da riferirsi sicuramente a sepolture di carattere privilegiato. Per quanto riguarda, invece, il cimitero esterno, le indagini archeologiche fanno concludere che dalla fine del XV secolo si ebbe il periodo di maggiore utilizzo dell’area cimiteriale. L’area adiacente all’absidiola situata nella zona occidentale della Pieve, sarebbe stata destinata alla inumazione di bambini e di adolescenti83.

Don Giovanni Ravizza testimonia di aver sentito da alcuni paesani che avevano lavorato durante la costruzione del Canale Cavour, che erano state rinvenute alcune sepolture in quel tratto di zona, segno che ivi era presente un cimitero84.

78 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Giacomo Goria.79 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Michelangelo Broglia.80 Archivio Storico Civico di Vercelli, not. Giovanni Bartolomeo Faciotti, Scritture private, n. 1140 del nuovo ordinamento.81 Archivio Storico Diocesano di Vercelli, Visite Pastorali del Vescovo Marco Antonio Vizia.82 Ambrosini - Pantò 2006, p. 298.83 Ambrosini - Pantò 2006, p. 298.84 Don Giovanni Ravizza, Liber Chronicus.

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Roberto Badini

La struttura amministrativa della “Magnifica Comunità di Monformoso”

Nell’Archivio Comunale di Villarboit, nel faldone contrassegnato dal numero 17, è possibile reperire alcune informazioni sostanzialmente rilevanti sull’attività amministrativa e sulla struttura giuridica della Comunità di Monformoso nel corso della seconda metà del XVIII secolo. Non è dato sapere quando e come si sia sviluppata una Comunità nella zona di Monformoso, in quanto i pochi atti rimasti all’interno del Comune di Villarboit risalgono esclusivamente al XVIII secolo.

Il catasto dell’istituto comunale di Monformoso, risalente al 1747, definisce il Comune come “Magnifica Comunità di Monformoso”85. L’ambito territoriale di questa Comunità andrebbe legato ai territori di Monformoso, Villarboit e San Marco. Piuttosto incerta è l’ipotesi di comprendere in questa amministrazione anche la borgata di Busonengo, attualmente frazione del Comune di Villarboit, oppure far risalire l’unione al tempo della Restaurazione ottocentesca con la formazione del Comune di Villarboit.

La struttura amministrativa della Comunità si basava sul Regio Editto di Carlo Emanuele III86 risalente al 29 aprile 1733. L’editto ridusse il numero degli amministratori, passando a quattro ed un sindaco. Si esponevano, inoltre, i requisiti per poter assumere le cariche, ovvero solo per le persone residenti nel luogo, di almeno venticinque anni di età, non congiunte tra loro in primo e secondo grado di consanguineità né in primo d’affinità e senza cause pendenti o rapporti economici con la contabilità del Comune.

Inoltre, venivano specificate le regole per il rinnovamento del Consiglio Comunale. Il sindaco veniva scelto tra i consiglieri ogni sei mesi e la scelta doveva cadere sul consigliere più anziano, inteso come servizio amministrativo. Ad ogni tornata di rinnovo del Consiglio Comunale era necessario provvedere alla nomina di un nuovo consigliere per sostituire quello nominato sindaco. Inoltre, dopo aver concluso il mandato di sindaco, il consigliere doveva attendere almeno cinque anni prima di poter rientrare nel Consiglio Comunale. Infine veniva introdotto uno stipendio per la carica amministrativa di sindaco87.

Le verbalizzazioni dell’organo consiliare erano dette “Ordinati” ed erano redatti da un “Notajo”, ipoteticamente similare all’odierno ruolo del Segretario Comunale. La figura del notaio, infatti, designava anche colui che, sapendo leggere e scrivere, fungeva da garanzia per i contratti e per gli atti giuridici in generale. Nell’ordinato

85 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Cadastro della Magnifica Comunità di Monformoso, faldone n. 17.86 Per una biografia Castronovo 1977.87 Per una storia dell’ordinamento comunale nel XVIII secolo Petracchi 1962.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

del 20 dicembre 177188 il notaio Giuseppe Antonio Vinea è definito anche “Podestà di Monformoso”.

La figura del podestà rappresentava nel corso del XVIII secolo un magistrato incaricato di amministrare la giustizia e di mantenere l’ordine pubblico. Solitamente il Podestà non era originario del luogo, come conferma l’ordinato del 6 luglio 177289, in cui viene specificata anche l’origine cittadina del notaio-podestà: “[…] cittadino di Vercelli, Podestà de presenti cassinali e sue dipendenze […]”. Nell’ordinato del 18 maggio 177390 è, altresì, segnalata la figura del Giudice, che ricopriva un ruolo separato dal notaio della Comunità:

“[…] nelle cassine di S. Marco membro p.ale di Monformoso avanti di me Regio Notajo e Segretaro di questa Com.tà, stante l’assenza del Sig. Giudice di questo luogo, e nella casa di Pietro Giorgio Stasia91 per difetto di casa comune […]”.

In tutti gli ordinati analizzati nel corso del XVIII secolo, le “Cassine di San Marco”, corrispondenti attualmente alla frazione omonima, sono dette “membro principale di Monformoso”, ciò che dimostra come la Comunità fosse un aggregato di piccoli borghi, di cui San Marco rappresentava l’elemento più popoloso.

È risaputo, inoltre, che la Comunità di Monformoso provvedeva al mantenimento ed allo stipendio del cappellano dell’oratorio di San Marco. Questa cappella pertanto rappresentava l’edificio ecclesiastico di patronato della Comunità. Ciò è dimostrato già dall’ordinato del 20 dicembre 1771, in cui veniva trattata la possibilità di vendere o “assegnare” una porzione baraggifera da ridursi facilmente in coltura per formare la dote al cappellano: “[…] assignare una compettente quantità di d.ta Baraggia per formare una [illeggibile] dote al Cappellano che deve collaborare nell’oratorio delle Cassine di S. Marco in sito che possa facilmente ridursi in coltura […]92. Ancora nell’ordinato dell’8 ottobre 177293 è confermata la necessità di provvedere ad un mantenimento adeguato per il cappellano, legato al fatto che quest’ultimo spesso rimaneva sprovvisto di una congrua dote, con gravi conseguenze per gli abitanti:

a88 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.89 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.90 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.91 Pietro Giorgio Stasia fu sindaco di Monformoso dal 25 agosto 1767 al 30 novembre 1768, dal 6 luglio 1772 al 2 settembre 1773, dal 6 luglio 1778 all’8 febbraio 1779, dal 6 novembre 1782 e ancora fino al 24 aprile 1794. 92 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.93 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.

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“[…] così formare una dote competente per d.o Cappellano in scarico del registro e dei locali e che per mancanza di d.ta congrua dote parecchie volte rimane sprovvista la Comunità del Cappellano (cosa invero di grave pregiudicio alle anime degli abitanti in questo luogo di Monformoso e suoi cascinali) […]”.

Gli avvisi per la convocazione del Consiglio Comunale erano effettuati verbalmente dal sindaco della Comunità, come risulta dall’ordinato del 6 luglio 177294: “[…] il solito aviso verbale dato dal infras.to sig. Sindaco […]”. Solamente a partire dalla fine del XVIII secolo è stata rinvenuta traccia di una nuova figura comunale, il serviente, corrispondente all’incirca all’attuale messo comunale, come risulta dall’ordinato del 18 maggio 179195, in cui vi è l’incarico di recare avviso verbale ai consiglieri:

“[…] L’anno del Signore millesettecentonovantuno ed alli dieciotto del mese di maggio nelle Cassine di S. Marco membro principale di Monformoso e nella casa d’abitazione di Gioan Azeglio96 per difetto di casa comune, giudicialmente avanti il Sig. Notajo Pietro Gioanni Stupenengo di Castelletto Podestà di Villarboit, Monformoso e dipendenze legittimamente deputato ed approvato. Convocato e congregato d’ordine dell’infranominato Sindaco l’ordinario Conseglio di questa Comunità, nel quale sono intervenuti il med.mo Sindaco Gioanni Azeglio fu Giò Batta e il Consigliere Giacomo Giò Delzoppo97 fu Matteo98 e Giò Abondio99 fu Carlo Antonio Massa100 tutti tre nativi e ressidenti nel presente luogo di Monformoso componenti l’intiero ordinario Consiglio di d.a Comunità e rappresentanti tutto il pubblico precedente il solito suono della campana ed i verbali avvisi reccati dal Serv. Pietro Crova a ciascuno di detti congregati come quivi rifferisce […]”.

94 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.95 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.96 Giovanni Azeglio (nato a Monformoso). Fu sindaco di Monformoso nel 1791, indi dal 27 febbraio al 21 maggio 1799 e dal 2 dicembre 1799 al 6 marzo 1800.97 Giacomo Giovanni Delzoppo (nato a Monformoso). Fu sindaco di Monformoso dal 15 ottobre 1781 al 6 novembre 1782.98 Matteo Delzoppo fu sindaco di Monformoso dal 5 gennaio 1751 al 27 marzo 1752, dall’11 marzo 1754 al 4 luglio 1757, dal 13 marzo 1759 al 2 dicembre 1760, dal 10 luglio al 14 novembre 1763, dal 30 novembre 1768 al 10 settembre 1769, dal 2 settembre 1773 al 30 maggio 1776 e dal 10 ottobre 1776 al 19 novembre 1777.99 Giovanni Abondo Massa (nato a Monformoso). Fu sindaco di Monformoso dal 2 dicembre 1760 al 10 luglio 1763, dal 5 maggio 1766 al 25 agosto 1767, dall’8 aprile 1771 al 6 luglio 1772, dall’8 febbraio 1779 al 21 maggio 1781, dal 22 dicembre 1798 al 27 febbraio 1799 e dal 6 marzo all’11 aprile 1800.100 Carlo Antonio Massa fu sindaco di Monformoso dal 13 luglio 1742 al 26 gennaio 1748.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

Dallo stesso ordinato risulta anche l’uso del suono della campana per avvisare la riunione dell’assemblea consiliare. La campana citata è, quasi sicuramente, da collegarsi a quella posta sul campanile dell’oratorio di San Marco, in quanto alla fine del XVIII secolo non era più utilizzata la chiesa della Pievania di Sant’Andrea Apostolo, mentre è da escludere l’utilizzo della torre campanaria di Villarboit. Inoltre, come già esposto in precedenza, l’oratorio di San Marco era di patronato della Comunità. Probabilmente questa campana è la medesima rimasta sul campanile dell’Oratorio di San Marco sino al 25 aprile 1921, quando fu sostituita.

Per la nomina dei consiglieri, coloro che erano già in carica esercitavano una scelta tra i vari abitanti del luogo, come risulta dall’Ordinato del 6 luglio 1772:

“[…] avendo preso in considerazione gli abitanti in questo luogo […]” e, una volta rintracciata una persona meritevole e degna della nomina, effettua-vano un preciso giuramento: “[…] giuramento mediante che hanno prestato, toccate [illeggibile] le scritture l’uno doppo l’altro a mani Nostre, p.va moniti della forza ed importanza d’un tal atto, hanno dichiarato e dichiarano come segue: Noi sovra nominati Pietro Giorgio Stasia e Matteo Delzoppo dichia-riamo rispettivamente e giuriamo gualmente p.via di divenire alla nomina del sud. Giò Pasquale fu Simone in consigliere di questa Communità per compiere il consiglio della medesma previo avendo preso in considerazione gli abitan-ti in questo luogo abbiamo giudicato e concordemente giudichiamo essere il sovra nominato Gioanni Pasquale in Consigliere essere persona ben attenta ed accurata, paciffica e timorata della Divina ed umana Giustizia di buona costumanza ed onoratezza, probità e rettitudine, incappace a dare cattivi con-siglij e segreto nelle cose che li vengono fidate, non congiunto per quanto sia a nostra cognizione e notizia con alcuno dei sogetti che compongono il pre-sente consiglio in primo, né in secondo grado di consanguineità, né in primo d’affinità, meno avente lite, ne attiva, ne passiva, né contabilità alcuna con la

Communità, ne con alcuno del consiglio […]101”.

Il Consigliere nominato effettuava anch’egli un giuramento specifico:

“[…] Io Agostino Delzoppo102 giuro e prometto di esercitare l’ufficio a cui son stato nominato di Consigliere della Com.tà di Monformoso con tutta la lealtà, probità e rettitudine, fedeltà e segretezza in tutto ciò, che sarà di servizio Regio e de pubblico di Monformoso [illeggibile] il loro utile e vantaggio a prefferenza di ogni altro privato di evitare e sedare le dissenzioni che potessero insorgere ne Consiglij, di dare in oggi li miei sentimenti con tutta sincerità e

101 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17. 102 Agostino Delzoppo fu sindaco di Monformoso dal 19 novembre 1777 al 6 luglio 1778.

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lealtà, di preferire il Regio e pubblico interesse a qualunque altro privato, di essere puntuale ad intervenire nei Consiglij di Com.tà ogni volta e quando ne sarò richiesto e non rivelare maj ad alcuno ciò e quanto verrà in essi agitato, proposto, stabilito ordinato e detterminato ed insomma adempiere ed osservare puntualmente li ordini Regj e pubblici a quest’effetto sin qui emanati ed emanandi […]”.

Negli ordinati presi in considerazione risulta che non esisteva una casa comunale. Infatti nell’ordinato del 15 luglio 1772103 è scritto: “[…] nella casa dell’infras.to Sindaco per difetto di casa comune […]”. Ancora alla fine del XVIII secolo non era presente una casa comunale, come risulta dall’Ordinato dell’11 maggio 1792104:

“[…] L’anno del Signore millesettecento novanta due ed alli undeci del mese di maggio nelle Cassine di S. Marco, membro principale del luogo di Monformoso e nella camera esistente al piano di terra della casa abitata dall’infrasegnato Sindaco Delzoppo per diffetto di casa comune […]”.

Solamente nell’Ordinato del 30 luglio 1801105 non è più citata alcuna sede per le riunioni.

Nell’Ordinato nel 4 novembre 1772106 è presente, altresì, una preziosa informazione legata agli abitanti del territorio:

“[…] non esservi persona nel luogo e territorio di Monformoso che possono essere a loro cognizione che siano abili al lavoro e non soliti ad impiegarsi e che frequentino le osterie o giuochi ne mendicanti invalidi […]”.

Una situazione demografica viene, inoltre, specificata anche nell’Ordinato del 18 maggio 1773107:

“[…] dichiarano ritrovarsi molte famiglie co’ loro capi di casa, quali quan-tunque possedano qualche fondo, sono tuttavia nella condizione di scarsa granaglia per il loro mantenimento ed incapaci a fare presentemente veruna scorta di granaglie al contemporaneo sborso del loro valore: più trovasi altre famiglie quali sono affatto sprovviste di ogni sorta di beni di fortuna, di gra-naglie e denaro e che quan tunque col loro giornaliero travaglio procurino di

103 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.104 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17. 105 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.106 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.107 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Ordinati, faldone n. 17.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

procacciarsi il vitto, tuttavia si per l’estrema carenza de’ viveri che per la loro numerosa famiglie, sono in miserie tale arrivati che giungono a patir della fame […]” e il tentativo della Comunità di provvedervi: “[…] Per ultimo si è in questo Conseglio fatto chiamare ed è quivi comparso Bernardino Bertolazzo esatto-re, a quale si è intimato di tenere in [illeggibile] appresso di lui esistente per convertirlo nella causa sopra [illeggibile] e secondo le ordinazioni che verran-no dall’Ufficio di d.a Regia Intend.a prefissate, a cui mandano rassegnarsi il presente per le sue determinazioni, qual esattore ha risposto che quantunque non abbia potuto intieram.e esiggere dalli particolari li dritti dovuti a questa Com.tà come dal [illeggibile] esistente debbasi fra breve pagare L. […] per le riparazioni fatte al torrente Rovasenda tuttavia in nulla cosa in contrario di sborsare quella somma, che farà [illeggibile] alla Comunità per il fine anzi-detto […]”.

L’attività amministrativa della Comunità di Monformoso si conclude con gli ordinati del 1801108. Essa, con tutta probabilità, rientrerà in alcune soppressioni di comuni e in nuove riorganizzazioni amministrative dell’età napoleonica, tanto che a partire dal 1814 l’attività comunale sarà ripresa dal neo comune di Villarboit109.

108 Per una nota storica sull’ordinamento amministrativo francese in Piemonte Pavone 1964.109 Si fa presente che nell’Archivio Storico di Villarboit mancano gli ordinati dall’anno 1802 all’anno 1813.

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Appendice 1

La causa tra la famiglia Falletti di Barolo e la Comunità di Monformoso

Nel corso del XVIII secolo si svolse una causa legale tra la famiglia Falletti di Barolo, infeudata della zona e la Comunità di Monformoso su alcune questioni di proprietà baraggifera110. All’interno dell’Archivio Comunale di Villarboit è presente il faldone relativo alla lite. Di grande interesse è, però, una pagina relativa alla cronistoria del feudo, esposta dall’avvocato di parte Falletti di Barolo nell’arringa difensiva:

1561, 25 maggio infeudazione a favore del Conte Langosco del castello e territorio di Monformoso cole seguente prerogative: “[illeggibile], vineis, ne-moribus, silvis [illeggibile] tinantibus publicis, pascuis, [illeggibile] baraggis [illeggibile] padagiis et focagiis”.

Il 25 maggio 1561 il Duca Emanuele Filiberto investe del feudo il Conte Giovanni Tomaso Langosco di Stroppiana con le prerogative classiche d’infeudazione

1583, 15 marzo investiture a favore del Conte Langosco di detto feudo di Monformoso colle seguenti prerogative: “vigne, boschi, silva, [illeggibile] via publiche, paschi, pastura, baragie, pedaggi, taggi e fogaggi.

Il 15 marzo 1583, in seguito alla morte del Conte Giovanni Tomaso Langosco di Stroppiana (18 maggio 1575) viene investito del feudo di Monformoso il figlio di questi, Carlo Emanuele111, alle medesime condizioni del padre, dal duca Carlo Emanuele I112.

1601 24 8bre [illeggibile] a favore della figlia del Conte Langosco di d.to feudo, colle seguenti prerogative: “vigna, boschi, selve [illeggibile] strada pubbliche, pascui, barazze, vitigalie, pedaggi e fogaggi”.

Il 24 ottobre 1601 viene investita del feudo la sorella del conte Carlo Emanuele, che morirà celibe nel 1625, Maria Margherita Langosco di Stroppiana, sposa del Conte Bernardino Parpaglia della Bastia113, con i medesimi diritti e prerogative.

110 Archivio Storico del Comune di Villarboit, Lite della Comunità di Monformoso contro la Famiglia Falletti di Barolo, faldone n. 17.111 Carlo Emanuele Langosco di Stroppiana, morto nel 1625 senza discendenti.112 Per una biografia Bergadani 1926.113 Bernardino Parpaglia, conte della Bastia. Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e, dal 1618,

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

1719 2 9bre consegnamento del Sig. Conte Provana di Langosco114 in cui consegna [illeggibile] il feudo di Monformoso e la regione e proprietà feudale sovra giornate 1800 circa consistenti in barazze, boschi, pascoli e gerbidi contanziosi colli particolari delle cassine di S. Marco, per quale pende lite avanti il Reale Senato.

Il 2 novembre 1719 il feudo è consegnato al conte Giacinto Antonio Ottavio Provana, Signore di Druent, discendente del Conte Bernardino Parpaglia della Bastia.

1733. 18 agosto acquisto del Sig. Marche Falletti di Barolo115 del feudo di Monformoso e cassine di S. Marco con tutte le pertinente e diritti a detto feudo spettanti purchè siano già compresi nella costituzione lib. 6 tit. 3 cap. 1, 5, 9 per quali riunire a titolo di assegnazione, riscatto od in qualunque altro modo da chi sia che ne avesse spogliato il feudo.

Il 18 agosto 1733 il feudo è acquistato dal Marchese Gerolamo Falletti di Barolo.

1749 4 8bre investitura concessa a favore del Sig. Marchese C.lo Falletti di Barolo del feudo di Monformoso e cassine di S. Marco e de beni, diritti e ra-gioni a detto feudo appartenenti.

Il 4 ottobre 1749 è investito Carlo Giuseppe Gerolamo Falletti di Barolo116, con tutti i diritti appartenenti al feudo.

Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. Per alcuni cenni biografici Raviola 2007.114 Per un accenno biografico Galli 1986.115 Per un accenno biografico Abrate 2004.116 Per una biografia Prando 1978.

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Roberto Badini

Appendice 2

Le proprietà ecclesiastiche in Monformoso nel 1742

Di rilievo è un documento conservato, nuovamente, nel faldone numero 17 dell’Archivio del Comune di Villarboit, senza alcun titolo, datato semplicemente “1742”, da cui risultano le seguenti informazioni sulle Parrocchiali di Monformoso e di Villarboit e sulle proprietà di esse nella zona.

Monformoso e Villarboito Diocesi di Vercelli.La Parochiale di Monformoso resta aggregata alla Parochia di Villarboito e d.a di Monformoso sotto il titolo di Sant’Andrea posseduta dal Sig. Prevosto D. Andrea Follis, possiede in Monformoso beni allodiali cioè una pezza di bosco di g.te 27.18:4 e di reddito annuo L. 15 e s. 2.Beni immuni giornate 56:32:11:3 di reddito annuo L. 15 s. 300.Fatta una comune.Per decime che s’esige da particolari abitanti in Monformoso e Cassine di S. Marco in rag.e emine una formento cadun para buovi e emine una di segala o maliga cadun manoale per la recita del Passio e benedizione de temporali s. 50.Casuali, cioè battesimo, puerperij, matrimonj e funerali s. 50.VillarboitoLa Parochiale di Villarboito sotto il titolo di S. Pietro posseduta dal Sig. Prevosto D. Andrea Follis possiede in beni immuni giornate 80 circa non esservi cadastro in qual luogo di reddito annuo fatta una commune s. 600.Per decima che esige da particolari, la decima del passio d’emine una formento cadun para buoni o sia massaro e emine una segala o meliga cadun manoale s. 600.Per li casuali, cioe battesimi, matrimonj, puerperij, funerali, Nouene s. 40.In d.a Parochia non vi è mai stato alcun Vice Curato, non sendosi pure come dalle notizie altri beneficiati.Il Seminario di Vercelli possiede giornate 50 e beni immuni affidati da Matteo Dellara e paga di fitto s. 275.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

Bibliografia

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Del Bo - Settia 2014Beatrice Del Bo - Aldo A. Settia, Facino Cane, predone, condottiero e politico, Milano 2014.

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Roberto Badini

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Ferreri - Sommo 1985Ornella Ferreri - Giovanni Sommo, Monformoso, le evidenze di superficie dalle ricognizioni preliminari, in “Archeologia, uomo, territorio”, IV (1985), pp. 89-108.

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Galli 1986Paolo Galli, Palazzo Barolo, Torino 1986.

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Merlin 1994Pierpaolo Merlin, Il Piemonte sabaudo, Stato e territorio in età moderna, in “Storia d’Italia”, vol. VIII, Torino, 1994.

Merlin 1995Pierpaolo Merlin, Emanuele Filiberto, un principe tra il Piemonte e l’Europa, Torino 1995.

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Olivieri 1965Dante Olivieri, Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia 1965.

Ordano 1985Rosaldo Ordano, Castelli e torri del vercellese, San Giovanni in Persiceto 1985.

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Orsenigo 1909Riccardo Orsenigo, Vercelli Sacra, Como 1909.

Pavone 1964Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica: da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), in “L’organizzazione dello Stato. Collana di studi e testi per il centenario dell’Unità”, Milano 1964.

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La “Magnifica comunità di Monformoso”.

Pizzagalli 2001Daniela Pizzagalli, Bernabò Visconti, Milano 2001.

Prando 1978Edoardo Prando, La famiglia Barolo, Modena 1978.

Raggi 1916-1917Antonio Raggi, I conti di Biandrate, in “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, VIII (1916), pp. 385-405; IX (1917), pp. 474-488.

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Rao 2013Riccardo Rao, Due percorsi indipendenti: i siti fortificati su riporti artificiali e le “mote” nel Piemonte Orientale. Problemi lessicografici e rappresentazioni mentali fra XIII e XV secolo, in “Archeologia Medievale”, XL (2013), pp. 111-118.

Raviola 2007Blythe Alice Raviola, Reti di credito e composizione sociale della Compagnia di San Paolo. Un’analisi attraverso i lasciti conservati presso l’archivio storico della Compagnia, in “Per una storia della Compagnia di San Paolo (1563-1853)”, a cura di W. E. Crivellin e B. Signorelli, Torino 2007, vol. I, pp. 69-122.

Salvanari 2009Renata Salvanari, Pievi del Nord Italia: cristianesimo, istituzioni, territorio, Verona 2009.

Settia 1970Aldo A. Settia, Strade romane e antiche pievi fra Tanaro e Po, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, LXVII (1970), pp. 5-108.

Sommo 1984Giovanni Sommo, Il “Castrum” e “villa” di Monformoso: un’evidenza di superficie e un caso di abbandono nell’Alto Vercellese, in “Bollettino Storico Vercellese”, 13 (1984), nn. 22-23, pp. 47-70.

Tago 1997Ave Tago, Giulia Colbert marchesa di Barolo, Piacenza 1997.

Tallone 1900Armando Tallone, Un Vercellese illustre del secolo XVI. Gian Tomaso Langosco di Stroppiana Gran Cancelliere di Emanuele Filiberto, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, V (1900), pp. 151-211.

Tettoni 1845Leone Tettoni, Notizie genealogico-storiche intorno alla nobile, antica ed illustre famiglia Avogadro, Lodi 1845.

Viglino Davico 1979Micaela Viglino Davico, I ricetti del Piemonte, Torino 1979.

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Roberto Badini

Riassunto La presente trattazione intende riassumere in un quadro sintetico il contesto storico dello scomparso borgo di Monformoso e delle sue strutture religiose, sulla base delle varie fonti storiografiche già pubblicate e di portare alla luce l’attività amministrativa dell’ente comunale chiamato “Magnifica Comunità di Monformoso” nel corso del XVIII secolo nei pochi atti ancora disponibili all’interno dell’Archivio Comunale di Villarboit, nell’Archivio Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo Apostoli in Villarboit e nelle visite pastorali dell’Archivio Storico Diocesano di Vercelli.

AbstractPresent treatment mean to summarize in a brief picture historical context of the disappeared village of Monformoso and of his religious structures, on the basis of various historiografical sources already published and to unearth administrative activity of municipal body called “The Magnificent Community of Monformoso” during the XVIII siecle in few acts yet avaiable in Municipal Archive of Villarboit, in Parish Archive of Saints Peter and Paul the Apostles and in pastoral visits in Diocesan Historical Archive of Vercelli.

[email protected]

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Sabrina BALZARETTI

LA NOBILTÀ DI SPADA NEL VERCELLESE IN ETÀ MODERNA

I feudi tra Quattro e Cinquecento1

Studi recenti hanno messo in evidenza come già nel Quattrocento convivessero diverse tipologie di infeudazioni, dai piccoli signori feudali indipendenti ai signori territoriali riuniti in consortili, come gli Avogadro, i Buronzo e gli Arborio, a realtà ancora in fase di definizione dal punto di vista giuridico che ebbero concessioni dall’imperatore (ad esempio Crescentino e Desana), oppure ai feudi pontifici2. Si tratta di una distinzione terminologica utilizzata in questo saggio per rispettare la stratificazione dei concetti: in parte tali definizioni appartengono infatti a una terminologia adatta a definire situazioni correnti nel basso medioevo, mentre i modernisti si occupano di feudi pontifici e di feudi imperiali3. Non possiamo ad esempio parlare di feudi imperiali tout court per i Tizzoni; pur venendo loro riconosciuto il possesso di Crescentino dall’imperatore Enrico VII, con importanti esenzioni fiscali che consentivano di sfuggire alla tassazione urbana nel XIV secolo, tuttavia tale riconoscimento non rendeva Crescentino un feudo imperiale.

Vale la pena di seguire la trama di queste vicende e tracciare alcune linee di ricerca come premessa necessaria per giungere alle soglie dell’età moderna. Mancano studi settoriali sulla situazione dei feudi in età basso-medievale, ma crediamo sia anche un genere di lavoro che non possa essere realizzato sistematicamente a causa della complessità della sovrapposizione delle giurisdizioni. Solo la documentazione seriale prodotta per il periodo dell’età moderna ci restituisce in parte e per alcuni periodi la visione complessiva dei feudi nel Vercellese.

Possiamo considerare come punto d’inizio per il nostro studio il periodo del tardo Trecento, quando i signori locali attuarono le dedizioni ai Savoia. Tra il 1370 e il

Sigle:ASB = Archivio di Stato di Biella.ASCV = Archivio Storico Civico di Vercelli.AST = Archivio di Stato di Torino, Camerale.ASV = Archivio di Stato di Vercelli.

1 Il presente contributo è la rielaborazione e l’ampliamento di una parte della nostra tesi di dottorato in Scienze Storiche: Balzaretti 2012.2 Barbero 2005, pp. 31-45 e pp. 32 sgg.; Mola di Nomaglio 2006; Barbero 2010; Rao 2010. 3 Sui feudi pontifici: Tigrino 2015; segnaliamo inoltre Feudi pontifici in età moderna. Ipotesi e confronti attorno al caso piemontese, Atti del convegno 2 ottobre 2015, Vercelli, a cura di V. Tigrino, in corso di stampa; Cozzo 2016. Sui feudi imperiali: Cremonini - Musso 2010.

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Sabrina Balzaretti

1417 si susseguirono queste dedizioni, soprattutto quelle dei rami della famiglia Avogadro, con i loro possedimenti situati nella parte nord-occidentale del Vercellese, da Olcenengo e Oldenico al Biellese4; altri fecero dedizione ai Savoia, come i signori di Buronzo e gli Avogadro, raccolti in consortili, entità giuridiche già molto attive nel medioevo, i cui possessi si estendevano nella parte settentrionale di Vercelli. I signori di Buronzo derivavano il loro cognome dalla località di cui erano feudatari. Si tratta di un lungo periodo di feudalità, non antichissimo, in quanto i Buronzo si sostituirono ai Confalonieri, signori di Balocco, nel primo quarto del secolo XIV5. Ciò che avvenne fu un progressivo passaggio sotto la protezione dei Savoia da parte di tutti i signori e le comunità dell’attuale Vercellese. Col 1417 non vi erano più signorie al di qua della Sesia che si potessero considerare allodiali ed è legittimo dunque chiamarli a questo punto “feudi”.

Anche i signori locali, signori di piccoli feudi e località, furono costretti a prestare ossequio e omaggio ai Savoia nel momento in cui volevano sopravvivere e usufruire di una difesa dalla dominazione viscontea. Così avvenne agli Arborio, che, al pari di altre famiglie locali come i Rovasenda, derivavano il nome dalla località di cui erano feudatari: la famiglia Arborio, come le due citate in precedenza, era riunita in consortile, di cui vi sono tracce fino all’epoca moderna6. La particolarità dei consortili trova riscontro anche nell’archeologia: Aldo Settia ha individuato nella presenza dei castelli consortili una specificità del Vercellese, non presente in altre zone del Piemonte7. Questo vale anche per i diversi rami della famiglia Avogadro, ciascuno dei quali era un consortile, per un totale di circa 7 rami, a loro volta raccolti in un unico grande consortile8.

Le famiglie Avogadro, Arborio e Tizzoni erano di origine cittadina e a un certo

4 Barbero 2005. Tratteremo in questo studio le vicende di alcune famiglie nobili vercellesi, in particolare gli Avogadro e gli Arborio. Il 17 ottobre 1404, nella casa comunale di Santhià avvenne la dedizione degli Avogadro ai Savoia, la cui trascrizione è contenuta in Angelino Giorzet 2014, p. 40.5 Sarasso 1994, pp. 5-6. La famiglia dei Confalonieri è documentata dal 1124, e il suo declino avvenne intorno ai primi anni del secolo XIV, quando il castello di Balocco fu investito anche ai Buronzo, che così divennero consignori di Balocco insieme ai Confalonieri. Sul castello di Balocco: Avonto 1980. Sulle fortificazioni nel Vercellese: Destefanis 2010; Ardizio 2014; Ardizio 2015; Ardizio 2016.6 Sugli Arborio in età basso-medievale: Ferretti 1989; Ferretti 1995; Ferrari 1999. Vi sono tracce del consortile degli Arborio in epoca moderna in ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 31, f. 7, 1623-1742, all’interno del quale si trova una cartella indicata come «Arborio di Gattinara m. 31, fasc. 10/3», Aggregazione del conte Alessandro Antonio Mella alla famiglia Arborio concessa dal marchese Mercurino Alfonso II Arborio di Gattinara e confermata dal Consiglio di Famiglia degli Arborio, 2-10 gennaio 1654.7 La questione dei castelli consortili non è stata oggetto di particolari studi da parte dei medievisti. Troviamo accenni sull’argomento in Settia 2001; Pantò 2016.8 Pochissimi sono gli studi sui consortili medievali. Tra questi ricordiamo: Tabacco 1977 e Provero 2010.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

punto si espansero nel contado, ritagliandosi territori che iniziarono a gestire direttamente9.

La famiglia Tizzoni, forte antagonista dei guelfi Avogadro, identificata con la fazione dei ghibellini, appoggiata dai Visconti, iniziò a ritagliarsi nel Vercellese due territori, Desana e Crescentino. Non possiamo ignorare in questo frangente la nuova realtà comunale che a partire dal secolo XIII iniziò a creare il proprio spazio a danno dei signori locali: si tratta del comune di Vercelli, accanto a realtà minori del Vercellese come Crescentino e Gattinara (due borghi nuovi sotto il controllo del Comune di Vercelli, non autonomi) e Santhià.

Il potente comune di Vercelli già dal secolo XIII aveva il suo contado10. Le questioni legate alla definizione di questo territorio, che potrebbe essere chiamato «distretto», ma che va considerato con le dovute cautele, sono state oggetto di recenti studi da parte di Alessandro Barbero, il quale ha individuato le trasformazioni del distretto nel periodo visconteo e in quello successivo nel complicato dipanarsi delle vicende fiscali da una parte e belliche dall’altra11.

A partire dalla metà del Duecento si ampliò la realtà comunale con il suo contado/distretto che si pose in alternativa alle signorie rurali e territoriali.

Dal punto di vista delle circoscrizioni amministrative, possiamo ipotizzare la nascita del Capitanato (o Castellania) di Santhià negli anni Settanta del Trecento, quando questa parte del Vercellese venne sottratta dai Savoia al controllo della città, ancora viscontea12.

Ampie entità amministrative si affermarono già nel Trecento contemporaneamente al tormentato formarsi della contea e poi ducato di Savoia, che in ordine cronologico si situa dopo il Capitanato e dopo il Marchesato di Monferrato. In tale ottica è possibile notare una certa continuità territoriale dalla pace di Lodi (1454) in avanti.

La mancanza di studi mirati sul territorio vercellese, sia per il Quattro sia per il primo Cinquecento, ci costringe a supporre alcuni cambiamenti e alcune soluzioni di continuità presenti da questo periodo alla metà del Cinquecento, epoca da cui inizia la nostra analisi13. Mettiamo in rilievo perciò alcuni problemi che avranno la funzione

9 Due sono le opinioni sull’origine della famiglia Avogadro: una è quella di Panero 2010, il quale ritiene che gli Avogadro non avessero una modesta origine, ma che fossero veri e propri conti, legati a una stirpe comitale; una seconda ipotesi è quella di Barbero 2005, che considera gli Avogadro una modesta stirpe di origine cittadina.10 Sull’importanza del fenomeno del contado nella storia italiana in generale vedi Pini 1981.11 Barbero 2010; sul distretto vedi inoltre Cengarle 2010.12 Il capitanato di Santhià fu creato nel 1373: i luoghi del suo distretto furono accorpati e affidati dai Savoia a un capitano (Casalis 1849, p. 877).13 Un significativo studio sulla realtà piemontese è Barbero 1989.

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Sabrina Balzaretti

di guida della nostra trattazione o, in altri termini, ci domandiamo se la feudalità cinquecentesca mantenga le stesse caratteristiche della feudalità quattrocentesca.

In mancanza di studi di raccordo per questi secoli, ipotizziamo che una delle strade percorribili sia lo studio delle singole comunità, con l’analisi del rapporto tra signore e comunità, tra statuti e singole comunità. Sul lungo periodo possiamo sostanzialmente sostenere che alcuni elementi di fondo della feudalità continuassero a sopravvivere, soprattutto in mancanza di un coordinamento da parte di uno Stato centralizzato. Pierpaolo Merlin sostiene che nel primo Cinquecento, in assenza di un potere stabile forte e in un periodo di continue guerre, il potere ducale fosse sopraffatto da quello dei feudatari, che approfittarono della debolezza del duca per ampliare la propria sfera d’influenza14. Dal 1427, cioè dalla dominazione sabauda, alla pace di Cateau-Cambrésis (1559), quasi un secolo e mezzo di governo fu costellato da continue guerre che minarono la stabilità dello Stato.

Sullo sfondo di tali vicende, possiamo abbozzare un piccolo profilo dei feudi in provincia, che è solo una delle possibili tracce da seguire per definire un certo tipo di nobiltà, quella feudale, dal medioevo all’età moderna. La città di Vercelli era al centro di una rete di territori suddivisi in feudi, governati da signori vercellesi già nel Cinquecento. Questi signori erano appartenenti a una piccola nobiltà rurale e cittadina che nulla aveva a che vedere con grandi e colte famiglie di feudatari quali erano nel Vercellese gli Avogadro e, a più alti livelli, i vicini Ferrero Fieschi di Masserano.

Ritornando al quesito se vi fosse o meno una differenza tra la nobiltà basso-medievale e quella moderna, almeno fino al primo Cinquecento, possiamo tentare di rispondere introducendo un concetto fondamentale utilizzato dalla storiografia piemontese degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso: quello di rifeudalizzazione. La tesi sostenuta da Bulferetti e da altri presenta una situazione nuova in cui il sovrano Emanuele Filiberto, con la sua radicale opera di riorganizzazione dello Stato, concedette titoli nobiliari e di fatto creò una nobiltà nuova, identificata nella storiografia come nobiltà «di servizio»15. Un importante aspetto di questo fenomeno fu la creazione da parte del duca di un sistema gerarchico di titoli nobiliari, da barone a marchese, un sistema degli onori in cui i nobili territoriali di origine feudale furono gradualmente inseriti, accanto a un processo di riconoscimento di nuovi nobili. I vercellesi Aiazza costituiscono un esempio di ingresso nella nobiltà dal ceto borghese. Nel secolo XV essi erano appaltatori dei dazi cittadini e finanziatori del duca, che li promosse al rango di nobili. Un’importante

14 Merlin 1995, p. 91.15 Sul concetto di rifeudalizzazione: Bulferetti - Luraghi 1966; Stumpo 1979; Quazza 1992. Sulla creazione di una nobiltà «di servizio»: Merlin 1995, pp. 112 sgg.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

conseguenza di questa politica ducale fu il dissolvimento degli antichi legami tra famiglie appartenenti alla stessa fazione, quella dei guelfi e quella dei ghibellini, a vantaggio di un nuovo sistema degli onori basato sulla capacità personale, cosa che creò nuovi legami reciproci tra le famiglie titolate16. Accettiamo sostanzialmente questo concetto di rifeudalizzazione, nonostante sia poco considerato dalla recente storiografia sulla nobiltà, in quanto ciò che avvenne in Piemonte in generale fu la creazione di nuovi nobili, la valorizzazione secondo i criteri del sovrano di vecchi nobili o di esponenti di piccoli aristocratici rurali o di piccoli patrizi cittadini, che grazie alla nascente burocrazia, alla diplomazia o all’esercito, si posero in primo piano e guadagnarono una nobiltà che da lì in avanti acquisì importanza e valore nel corso dei secoli. Tutto questo avvenne accanto ad altri nobili feudali che sopravvissero nei secoli, come gli Avogadro.

Una variabile rispetto al quadro presentato finora è costituita per il Vercellese dal feudo di Mercurino Arborio di Gattinara. Nato da una famiglia della piccola nobiltà locale, il Gattinara riuscì, grazie alla sua straordinaria carriera svoltasi ai livelli più alti allora immaginabili, a farsi infeudare la sua terra d’origine. Si trattava dei luoghi da Oldenico a Gattinara, lungo la sponda destra della Sesia, costellati di borghi franchi, come Gattinara, o di signori locali, come gli Arborio. Dal 1513 divennero feudi di Mercurino17. Questo è un esempio di nobiltà di servizio, di un personaggio appartenente a un’aristocrazia di campagna forse nemmeno riconosciuta a livello cittadino, che fece una straordinaria carriera.

Abbiamo prima menzionato la pace di Cateau-Cambrésis come limite cronologico, tuttavia definire un punto di partenza è sempre molto rischioso: così il 1559 non è un punto di partenza né una data periodizzante, ma una tappa, seppur importante, nella formazione della nobiltà, legata in età moderna al riconoscimento statale del duca. In realtà il concetto di rifeudalizzazione va applicato a tutto il periodo moderno, dal Cinquecento al Seicento: in questo lasso di tempo possiamo riconoscere un trend comune a vari sovrani europei, che pur nelle loro variabili specifiche tendevano a valorizzare una nobiltà nuova, di servizio, creata e sostenuta sulla base dei servizi prestati al sovrano18.

L’era di Emanuele Filiberto (1553-1580) fu caratterizzata dalla formazione di uno Stato più centralizzato, mentre il suo successore Carlo Emanuele I (che regnò

16 Merlin 1995, p. 91: con l’editto del 29 dicembre 1559 Emanuele Filiberto proibì che si parlasse da quel momento in poi di «guelfi» e «ghibellini». Sulla questione «guelfi» e «ghibellini» vedi i dibattiti in: Tabacco 1994; Milani 2005; Vallerani 2010; Menant 2011. Sulle vicende relative ai secoli XIV e XV: Barbero 2008.17 Balzaretti 2011. Greggio era inizialmente esclusa dai possedimenti di Mercurino.18 Cardoza 1999; Labatut 1999; Dewald 2001.

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dal 1580 al 1630) raffinò le tendenze assolutistiche del predecessore, ampliando contemporaneamente i confini del suo Stato. Conquistò il marchesato di Saluzzo nel 1588, ma lo scotto da pagare per questa espansione fu una notevole crescita dell’indebitamento che ricadde sui suoi sudditi.

La nobiltà feudale nel contesto politico del Cinquecento

All’inizio del Cinquecento non si può certo parlare di Vercellese per definire il territorio che oggi porta tale nome e che ha una delimitazione giuridica precisa, quella della provincia di Vercelli. Questo tipo di definizione può essere accettata in una sorta di Stato otto-novecentesco, dove certi criteri di coerenza e uniformità si affermarono a discapito di criteri di delimitazione territoriale validi invece per i secoli precedenti19. Nei primi secoli dell’età moderna, nel territorio oggi definito «Vercellese», convivevano realtà territoriali dotate di differenti giurisdizioni. Accanto a sopravvivenze amministrative medievali di origine comunale (il «distretto») e a nuove circoscrizioni impostesi nell’età moderna (la «provincia»), esistevano realtà più antiche, i feudi, ancora da indagare nel loro complesso per il territorio da noi considerato, non completamente separabili dal concetto di «distretto»; in molti casi feudi e distretto erano realtà sovrapponibili.

Il distretto con competenze fiscali era posto sotto la giurisdizione diretta del comune di Vercelli. In questo senso ogni città aveva il suo distretto, che con il tempo andò modificandosi. L’ampliamento del contado non era altro che l’espressione della volontà del comune di estendere il proprio controllo e di ritagliarsi un territorio.

Nel Vercellese esistevano signori locali, piccoli signori di territori molto circoscritti, a volte limitati a un solo borgo, che erano vassalli dei signori di signorie territoriali più importanti (conti e marchesi); di questi signori locali la storiografia sul medioevo si è occupata negli ultimi vent’anni con una produzione storiografica corposa, proponendo questioni innovative e cruciali per l’analisi dei territori e per lo studio della feudalità20.

L’età viscontea e il secolo XV sono i due anelli di passaggio meno studiati; tuttavia, in un’ottica diacronica, essi ci permettono di proporre una sorta di continuità tra i secoli XIV e XV. Sarebbe opportuno studiare questo tema con uniformità di metodi e di problemi tra medievisti e modernisti. In questa sede non possiamo far altro cha avanzare alcune ipotesi che ci permettano di interpretare la distribuzione dei feudi nel Cinquecento alla luce della storia precedente. Ci supporta per il

19 Torre 2011, pp. 319 sgg. tratta del fatto che non possiamo oggi ragionare con i criteri dello Stato otto-novecentesco quando ci riferiamo a realtà storiche precedenti.20 Bordone - Castelnuovo - Varanini 2004.

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territorio in questione la fortuna di una grande storiografia medievale, accompagnata da un’intensa stagione di studi sia a livello locale sia a livello universitario. Tutto ciò permette di avanzare alcune ipotesi di ricostruzione sulla situazione dei feudi vercellesi di metà Cinquecento, punto di inizio della presente ricerca.

A livello storiografico il tema della nobiltà e del territorio è stato affrontato da studiosi che si sono concentrati in particolare sull’analisi della feudalità21. È un tema che in parte coincide con quello della nobiltà. Molti nobili avevano possedimenti feudali e altri allodiali; non per questo non potevano definirsi più o meno nobili.

Gli importanti studi di Woolf e Bulferetti sono volti ad affrontare la questione della feudalità in merito alla nobiltà da un punto di vista che possiamo definire torinocentrico: ciò significa che hanno proseguito una certa impostazione che dava per scontata la presenza dello Stato sabaudo come stato unificato a partire dalla pace di Cateau-Cambrésis, affrontando la questione della nobiltà principalmente dal punto di vista del centro, Torino. È un tipo di storiografia incentrata principalmente sulla politica quale fattore cruciale nella creazione dello Stato.

Studiare il Piemonte sabaudo significa, e lo hanno dichiarato molti studiosi, anche europei, ripercorrere la nascita di un piccolo Stato regionale, sorto per fortuna o per virtù sulle rovine di diversi Stati regionali che pure esistevano in Piemonte e che avevano goduto di una certa fortuna22; la loro esistenza era la testimonianza di un tipo di feudalità che la storiografia filosabauda ottocentesca ha voluto apertamente dimenticare o mettere da parte23. Si tratta dei marchesi di Saluzzo, dei marchesi di Monferrato, della presenza di feudi imperiali e di feudi pontifici, presenti nell’area del Piemonte meridionale24.

Non è un caso che lavori di studiosi ottocenteschi - che pure continuano a essere di riferimento per gli storici odierni - tralasciassero la presenza di queste altre entità territoriali, relegate a studi di carattere locale25. Antonio Manno e Francesco Guasco non citano affatto i feudi imperiali né i feudi pontifici, dimostrando di rientrare in una visione politica sabaudocentrica.

Come detto, la storiografia torinocentrica ancora negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo XX ha tralasciato di affrontare queste tematiche e si è dedicata, sulla scia di Settecento riformatore di Franco Venturi, allo studio dell’Illuminismo per risalire a ritroso nei secoli precedenti più dimenticati e affrontarne le vicende economiche

21 Bulferetti 1953; Woolf 1963; Ago 1992; Ago 1994; Musi 2007; Musi - Noto 2011.22 Merlin - Rosso - Symcox - Ricuperati 1994.23 Torre 2011, pp. 294 sgg. ha dedicato un capitolo a questo argomento.24 Sul Monferrato gonzaghesco, un “piccolo Stato”: Raviola 2003; Raviola 2007. 25 Si tratta delle opere di: Manno 1895-1906; Guasco di Bisio 1911; Torre 2011, pp. 294 sgg.

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e giuridiche. Anche la storia della feudalità ha seguito questa scia e Bulferetti e Woolf si sono occupati nei loro fondamentali studi di questi aspetti economici. La logica dell’assolutismo e del riformismo ha prevalso ancora negli anni Ottanta e Novanta in questo filone, accanto ad altri che si sono occupati di questioni inerenti alle ricerche di Cantimori su eretici e su argomenti di storia intellettuale26. Oltre alla città di Torino, gli studi che si sono dedicati al territorio sono recenti, ma non hanno trattato il Vercellese27.

Solo negli ultimi anni alcuni studiosi hanno preso in considerazione questa terra: pur mantenendo ferma l’importanza sabauda e la prospettiva istituzionale, aggiornate analisi hanno messo in luce la peculiarità di un territorio di frontiera e di transito28. A partire dagli anni Settanta-Ottanta un innovativo filone di ricerca da parte di storici torinesi ha contestato la precedente visione torinocentrica che dava una centralità indiscutibile alla dimensione statuale sabauda29. Questi storici, partendo da una interpretazione «dal basso» delle vicende, dalle piccole e piccolissime comunità, si sono accorti delle dinamiche molto più complesse che caratterizzavano questi luoghi, mettendo al centro della loro trattazione un microcosmo attraverso cui venivano filtrate le interazioni legate a faide, logiche fiscali e politiche dei signori locali e territoriali. Benché non abbiano focalizzato la loro attenzione sulle vicende politiche tout court, essi, percorrendo una nuova strada, più aperta alla dimensione europea e alle suggestioni dell’antropologia, della storia del territorio, dell’archeologia, dell’etnografia e della geografia, hanno messo in luce l’importanza di quelle altre realtà che i primi storici non avevano considerato nei loro lavori. In questo senso sono importanti studi recenti de L’Europa delle corti sui feudi imperiali, pontifici e su tutta quella tipologia di feudi, la cui comprensione è indispensabile per dare completezza e dinamicità a un territorio30.

Entrambe le prospettive sono importanti nel presente studio, sia la dimensione politica, che definisce i confini istituzionali delle varie aree tenendo presenti la storia événémentielle, sia quella seconda prospettiva molto attenta a dinamiche locali che aiutano a restituire vivacità e complessità al territorio vercellese.

Questa premessa metodologica e storiografica ci è parsa indispensabile per

26 Ci riferiamo in particolare a Guerci 1986; Carpanetto - Ricuperati 1986; Ricuperati 1986; Ricuperati 2001; Ricuperati 2002; Ricuperati 2006.27 Bianchi - Merlotti 2002. Per il Monferrato: Raviola 2003; Raviola 2007.28 Torre 2007; Torre 2011; Tortarolo 2011. L’impostazione di Tortarolo 2011 è però molto diversa, complementare alla microstoria di Torre.29 I principali studi relativi a questa visione sono quelli di Levi 1985 e Allegra 1987, che si sono occupati di indagare le stratificazioni sociali interne a una città, in una prospettiva microstorica.30 Mozzarelli - Venturi 1991; Raviola 2014.

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avanzare alcune ipotesi sulla nostra questione. A metà Cinquecento troviamo una realtà territoriale alquanto frammentata nel territorio che oggi definiamo «Vercellese». Trattiamo per sommi capi la questione dei feudi, giustificando il loro nesso con la nobiltà in questo modo: la nobiltà nel territorio studiato non poteva esimersi dal possesso di feudi. Essa si caratterizzava e giustificava grazie alle cariche cittadine, ma non solo; l’esercizio di cariche cittadine era una delle condizioni per accedere al ceto patrizio, accanto al possesso della casa in città e all’appartenenza a una discendenza di alcuni secoli.

Affrontiamo la questione dei feudi e quella della nobiltà di spada, cioè quella categoria di persone nobili che derivarono la loro nobiltà dal possesso di uno o più feudi.

A metà Cinquecento troviamo una situazione feudale piuttosto articolata. Dando un primo sguardo al territorio in questione, è evidente la presenza di un feudo pontificio, il principato di Masserano e il marchesato di Crevacuore, un’entità nata a metà Cinquecento e dipendente direttamente dal papa31. Era questa un’enclave tra la Valsesia a nord sotto il diretto controllo lombardo e lo Stato sabaudo a sud; troviamo inoltre, nel territorio che definiamo «Vercellese», un’altra enclave, costituita dai territori sotto il diretto controllo dei Marchesi del Monferrato, una grande isola amministrativa che dal 1536 al 1659, anno in cui venne stipulata la pace dei Pirenei, fu sotto il governo dei Gonzaga. Questa zona comprendeva gli attuali territori dei comuni di Bianzé, Livorno, Fontanetto Po, Palazzolo, Trino, Tricerro, in cui sono localizzate la maggior parte delle grange vercellesi32. Il fiume Sesia a est e il Po a sud delimitavano il confine del territorio sabaudo, individuando il Vercellese come terra di confine, così come fu definito per diversi secoli, fino al 1713, anno in cui venne annesso il Novarese con la pace di Utrecht. All’interno del territorio sabaudo, che così possiamo definire «di confine», dal punto di vista amministrativo si individuavano due entità fiscali o amministrative: il distretto di Vercelli e il capitanato o castellania di Santhià. Quest’ultima comprendeva i territori delimitati a ovest dalla Dora, cioè Moncrivello, Borgo d’Ale, Santhià, San Germano, Capriasco, Tronzano, Cigliano, che erano, dal punto di vista feudale, territorio sabaudo. I feudi in cui il capitanato era diviso vennero infeudati direttamente dal duca sabaudo. Il territorio relativo ai feudi dunque risultava formato da una grande valle che dalla sponda destra della Sesia scende a sud del marchesato di Masserano, a ovest verso Biella quasi fino a lambire le acque della Dora Baltea, e a sud individua il Basso Vercellese e la piccola zona che quasi non ha continuità territoriale, costituita da Crescentino. Dal Cinque al Seicento questo territorio vide al suo interno una caratterizzazione che

31 Barale 1966; Capuano 2008. Appendice iconografica, carta n. 1.32 Balboni 2007; Destefanis 2007; Cappelletti 2008.

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vale la pena distinguere e che individua alcune grandi famiglie feudali33. Un grande territorio a nord-ovest era appartenente agli Avogadro, che acquistarono importanza nel basso-medioevo anche in Credenza a Vercelli ed estesero la loro influenza tra Vercelli e Biella34. I feudi in loro possesso erano compresi tra i torrenti Elvo, Cervo e Rovasenda ed erano dislocati su queste direttive, che dalle prime località a nord di Vercelli proseguivano in direzione nord-ovest verso Biella, quasi fino alle porte della città. Una tale distribuzione territoriale è stata individuata da Alessandro Barbero, che ne ha trattato in un saggio corredato da un’utile carta tematica35. Si tratta di antichi possedimenti affidati nel secolo XII dai vescovi di Vercelli agli Avogadro, corruzione di advocati, titolo assegnato agli avvocati della Chiesa, che essi trasmisero ereditariamente ai discendenti. Numerose furono le ramificazioni della famiglia nel basso medioevo, difficili da ricostruire per mancanza di studi esaustivi. A metà Cinquecento gli Avogadro erano divisi in undici rami, che nel corso del Seicento e del Settecento si mantennero stabili. Il numero dei rami attestati per il basso medioevo corrisponde verosimilmente a quello cinquecentesco36.

Se adottiamo una lente di ingrandimento su questo territorio ci appare chiaro che la presenza di undici rami era la manifestazione di una famiglia molto grande e radicata. Questo fu il risultato di strategie politiche vincenti e di fortunate vicende studiate da Barbero tra le complicate vicissitudini tre e quattrocentesche. Vale la pena ricordare velocemente le trecentesche guerre tra guelfi e ghibellini a Vercelli, per rendersi conto che con l’ascesa della famiglia Tizzoni, capo della fazione ghibellina a Vercelli, e poi con l’arrivo dei Visconti che li appoggiarono, gli Avogadro, che erano possessori di un territorio molto più esteso che si diramava fino al basso Vercellese, furono costretti ad arretrare e a ritirarsi nei loro feudi a nord della città, quelli compresi tra Elvo, Cervo e Rovasenda, e sottomettersi al duca di Savoia per difendere i territori rimasti nelle loro mani ed evitare di perderli definitivamente, come era loro toccato per il basso Vercellese. Fino alla fine del Quattrocento gli Avogadro erano possessori anche di porzioni di territorio a ridosso della sponda destra della Sesia, comprendente i territori di Lenta, Arborio, Greggio, Villarboit, Albano, Formigliana37. La situazione era alquanto composita e, in assenza di studi approfonditi e completi, proponiamo una trattazione che possa spiegare a grandi linee la sorte di tali zone lungo questo quarto di secolo. Gattinara divenne borgo

33 Appendice iconografica, carte n. 1, 2, 3.34 La Credenza era il consiglio cittadino.35 Barbero 2010, p. 509.36 Barbero 2010.37 Ferrari 1999, pp. 29-30.

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franco nel secolo XIII, mentre più a nord, Serravalle e Bornate erano proprietà di una università e di nobili locali38. Poco più a sud sono attestati gli Avogadro di Villarboit, gli Avogadro di Formigliana e altri nobili, tra cui gli Arborio, famiglia già presente nel basso medioevo la quale si denominava «di Greggio», «di Arborio», «di Albano», etc. Alcune località erano interamente sotto il dominio della Chiesa come Lenta, dove un importante monastero benedettino femminile possedeva la pressoché totale entità del territorio circostante al borgo39. I Rovasenda derivavano il loro nome dalla località omonima e si qualificavano come nobili feudali; lì vicino i Buronzo, antica stirpe medievale, erano feudatari di due località, Buronzo e Balocco, circondati dai Rovasenda e dai potenti Avogadro. I Buronzo erano una famiglia di origine feudale, la cui antichità è attestata dalla presenza di diritti e da un antico castello consortile40. Altre due località erano territorio di signori vercellesi: Desana e Crescentino, che sono quanto a metà Cinquecento rimase in mano alla potente famiglia ghibellina dei Tizzoni, sostenuta dai Visconti, e poi, dopo l’annessione sabauda di Vercelli nel 1427, sottomessa ai nuovi signori, i Savoia. I Tizzoni possedevano anche il limitrofo borgo di Rive41.

Rimane un’ultima area, il basso Vercellese, che subì sorti difficili da identificare in modo lineare. Un tempo appartenente in parte agli Avogadro, perso poi in epoca viscontea, nel Quattrocento il basso Vercellese fu teatro di battaglia tra i Visconti e i Savoia, fino al 1427, quando la situazione si stabilizzò.

Limitrofa al Vercellese e in un certo senso gravitante su di essa era la famiglia Bulgaro, proprietaria di grandi territori nel medioevo a est della Sesia e avente il suo fulcro in Borgo Vercelli, poi ridottasi fino all’estinzione nei primi decenni del Settecento42.

Una questione particolare riguarda i feudi della sponda destra della Sesia, da Gattinara a Oldenico, cioè quasi alle porte di Vercelli, infeudati a Mercurino. Si tratta di un unicum in questo territorio nel Cinquecento di creazione ex novo di un feudo molto importante (accanto al feudo di Stroppiana per i Langosco) che riuscì a sopravvivere fino a Ottocento inoltrato.

38 Ferretti 1984. A Bornate e Serravalle vi erano i nobili locali Bellini, poi dal Cinquecento le località furono infeudate alla famiglia Serravalle. Sulla nobiltà della famiglia Bellini: Mola di Nomaglio 2006, pp. 41-42; Ferrara 2017.39 Cassetti 1986, pp. 311-335.40 I Buronzo furono prima consignori poi subentrarono ai Confalonieri di Balocco, da cui ereditarono antichi diritti tra cui l’accompagnare il vescovo nel suo solenne ingresso, caso particolare ancora vigente nel Settecento inoltrato (D’Alessandro - Givone 1990; Sarasso 1994).41 Viviani 2002.42 Perosa 1889.

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A uno sguardo d’insieme tra i secoli XVI e XVIII notiamo la sostanziale forza costituita dai feudatari a nord di Vercelli - riuniti nella forma giuridica del consortile aristocratico - nel mantenere i propri possedimenti fino alla fine dell’antico regime: la forza degli Avogadro, dei Buronzo, degli Arborio, testimonia che questi territori non furono frammentati né durante il Seicento né in occasione della grande avocazione del 1722. In quella zona solo i Rovasenda persero i loro possedimenti nel 1618. Le avocazioni riguardarono piuttosto il basso Vercellese: i feudi vennero frammentati e assegnati nel Seicento a nobili non vercellesi entrati al servizio dei duchi sabaudi.

L’affermazione dei Savoia e le sottomissioni dei signori feudali: il consortile aristocratico degli Avogadro

Gli Avogadro erano tra le più illustri e importanti famiglie feudali del Vercellese, tra le poche che riuscirono a mantenere e a consolidare il proprio potere nel lungo periodo, tra il medioevo e l’Ottocento43. La famiglia Avogadro mise in atto una serie di provvedimenti a livello giuridico finalizzati al mantenimento e al consolidamento del proprio potere. Fin dal basso medioevo essa fu una delle tante famiglie che nella zona si costituirono in consortile aristocratico, una formula molto diffusa non solo nel territorio considerato, ma in tutta l’Italia settentrionale. L’obiettivo del consortile era evitare che le famiglie disperdessero il loro patrimonio frammentandosi in un numero eccessivo di rami. La formula del consortile si diffuse nel Vercellese fin dal basso medioevo e pare che proprio questa formula giuridica abbia dato come esito alcune famiglie consortili, cosa testimoniata anche a livello materiale da una serie di castelli consortili. Così la famiglia Buronzo ebbe il suo consortile e il suo castello consortile, così come la famiglia Arborio.

La famiglia Avogadro fu la più estesa ed erede della tradizione di signori locali che avevano nel basso medioevo l’ambizione di elevarsi a signori territoriali. Essa fu l’unica nel Vercellese a costituirsi in un consortile con una formula giuridica abbastanza consolidata e particolare che le permise di sopravvivere agli scossoni dei secoli e conservare indenni i propri feudi fino alla rivoluzione francese.

Il consortile degli Avogadro era costituito dai diversi rami della famiglia, da 11 a 7 per il periodo che va dal XVI al XVIII secolo; ciascun ramo a sua volta aveva un proprio consortile. Il meccanismo funzionava così: ogni ramo (per esempio, il ramo degli Avogadro di Quinto) eleggeva un rappresentante che diventava membro del consortile più grande tra i vari rami. Questo consortile di secondo livello, per così dire, fu formalizzato nel 1548, in piena dominazione francese, prima della pace di Cateau-Cambrésis, cioè prima del consolidamento dello Stato sabaudo, in un

43 L’aggettivo «feudale» viene utilizzato in questo contesto solo in riferimento all’età moderna.

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patto che sanciva e confermava statuti e patti stipulati in precedenza fra i vari rami della famiglia, con lo scopo precipuo di impedire la frammentazione dei feudi44. Lo scopo dichiarato nella copia cinquecentesca della presenza di questo consortile può essere interpretato come lo spirito di una famiglia di ambire a ingrandirsi e a oltrepassare i propri confini, dopo le battute d’arresto del periodo visconteo e le pesanti perdite subite, al fine di consolidarsi e poter interloquire efficacemente non come un signore locale, ma come un signore territoriale con i Savoia, con cui essi entrarono in rapporto di vassallaggio. Nella seconda metà del Quattrocento una situazione tremenda di guerre e di vessazioni si erano protratte dal periodo visconteo e gli Avogadro non avevano avuto la forza sufficiente di opporsi da soli a signori che si stavano affermando, quali i Savoia e i Visconti: di fronte a questa situazione e all’indebolimento di altri signori territoriali che fino a quel momento avevano fatto da controparte nei confronti di tutti costoro, gli Avogadro decisero di fare atto di sottomissione ai Savoia, individuando, dal punto di vista politico, in questa famiglia di origine savoiarda, la fazione guelfa che poteva difendere al tempo stesso gli interessi della Chiesa e i propri personali, e nel confronto della quale sentiva una maggiore affinità. Il secondo Cinquecento rappresentò per gli Avogadro ancora un periodo di instabilità politica, ma il loro consortile fu stabile e duraturo, tanto che nessun rappresentante di alcun ramo della famiglia ebbe bisogno di fare ulteriori atti di dedizione al duca sabaudo, prestando il proprio servizio e ottenendo in cambio favori e premi. Non possiamo individuare tra gli Avogadro alcun esponente della nascente nobiltà di servizio sotto Emanuele Filiberto. Forti della loro autorità, gli Avogadro esercitavano nel loro territorio un vero potere feudale da tutti i punti di vista (giuridico, giudiziario, fiscale), in una misura paragonabile con gli Arborio. Era questa la forza politica di un territorio che dal punto di vista strettamente economico non offriva molte risorse, essendo situato lungo il corso di torrenti (che permisero la costruzione di mulini) costituito e caratterizzato da terreno baraggivo, inadatto alle coltivazioni e prevalentemente destinato alla pastorizia e alla silvicoltura45.

44 I patti di famiglia si trovano in ASB, Raccolta Torrione, m. 3, foglio 2, Patti di famiglia degli Avogadro e relative conferme dei duchi di Savoia con disposizioni per il governo del consortile, 1548; ASB, Archivio Avogadro di Valdengo, serie I, busta 4, foglio 5, Manifesto camerale della camera di S.A. Carlo Emanuele nel quale si spiega di avere letto gli originali dei capitoli e privileggi concessi dai duchi antecessori di detta S.A.R., ai signori di casa Avogadro, 1548; busta 22, foglio 29, Diverse procure spedite dai fratelli Avogadro di Valdengo riguardante la divisione delle giurisdizioni in seguito al permesso accordato loro dal duca di Savoia, 25 aprile 1548; busta 65, foglio 7, Elezione fatta con ratifica di essa di Filippo Avogadro di Cerrione, Gio. Tomaso di Valdengo, Diomede di Quinto e Gio. Andrea di Collobiano a procuratori di tutto il consortile, 6 giugno 1548. ASB, Archivio Avogadro di Valdengo, serie II, busta 24, foglio 10, Convenzione della famiglia Avogadro per la non alienazione dei feudi, 25 aprile 1548.45 Sui diritti di transito: Torre 2007 e Torre 2011, pp. 139 sgg. Sull’area baraggiva in questione: Adami 2012.

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Il potere degli Avogadro era nel Cinquecento di natura essenzialmente politica e strategica, basato su castelli, fortificazioni e ancora inteso in termini di alleanze militari. Sul lungo periodo la strategia degli Avogadro, forse ancorata saldamente a questo tipo di politica e legata a una visione tradizionale della nobiltà di spada e feudale, non si adattò o non ebbe l’esigenza di modificarsi divenendo «di servizio» o «di toga», mettendo le proprie capacità al servizio del duca, come divenne frequente tra la nuova nobiltà subalpina. L’incapacità o il rifiuto di adattarsi alla nuova impostazione del duca Emanuele Filiberto fu causa per gli Avogadro di isolamento rispetto alle scelte della nascente corte, nuovo centro decisionale e politico. Nessun Avogadro fece parte del ceto dirigenziale torinese né nel secolo XVI né nel secolo successivo. Solo nei secoli XVIII e XIX ci fu modo per alcuni Avogadro di intraprendere carriere politiche in contesti completamente diversi.

La situazione feudale cambiò nel secondo Seicento, quando, cessata l’emergenza bellica, dopo la fine della dominazione spagnola (1659), i castelli smisero la loro funzione militare e si trasformarono in cascine, il cui valore divenne prevalentemente economico e agricolo46.

Analizziamo ora nel dettaglio il consortile della famiglia Avogadro. Non abbiamo dati precisi sul periodo in cui nacque il consortile, ma nella documentazione del 1548 si fa riferimento a «statuti, convenzioni e consuetudini», cioè a consuetudini che già ne attestavano antecedentemente la presenza. Il 1548 è dunque l’anno in cui la famiglia Avogadro rinnovò la convenzione del proprio consortile di fronte al duca sabaudo Carlo II. Questo documento ci fornisce importanti informazioni sui rami della famiglia che aderirono al patto47.

Le riunioni di consortile, secondo queste convenzioni, si mantennero pressoché inalterate dal XVI al XVIII secolo. Si svolgevano ogni 18 anni (ma a volte anche ogni 12) nella chiesa di S. Marco di Vercelli48. Queste riunioni erano costituite dai rappresentanti di ciascun ramo della famiglia Avogadro; ogni ramo si riuniva in un consortile proprio ed eleggeva i rappresentanti da inviare, anche per procura, alla riunione generale di consortile. Dalla documentazione da noi esaminata abbiamo ritrovato alcune di queste riunioni generali49. Questa corposa documentazione ci

46 Sulle cascine come entità economiche: Bracco 2002; Torre 2011, pp. 108-112.47 Erano gli Avogadro di Valdengo; di Quaregna e Ceretto; di Collobiano e Loceno (Lozzolo); di Villarboit; di Casanova; di Massazza; di Quinto; di Cerrione, Villarboit e Casanova.48 In alternativa gli Avogadro si potevano riunire a Santhià, come da statuti del 1548.49 Non abbiamo reperito nessun documento che attesti la «congrega generale» per il XVI secolo (riunioni presunte: 1548, 1566, 1584, 1602, 1620), mentre per i secoli XVII e XVIII abbiamo ritrovato le seguenti: 1633 (risulta che vi fu una sospensione delle riunioni di consortile nel periodo spagnolo 1638-59: ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 1, casella 1, n. 57), 1660, 1672, (non trovate quelle presunte del 1690, 1708, 1726, 1744), 1765, 1783. Molta di questa documentazione si è conservata per

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permette di seguire diverse argomentazioni relative ai consortili: una riguarda la riduzione dei rami della famiglia Avogadro, una seconda connessa con la prima si riferisce alla vicenda della successione dei feudi, la terza concerne la questione del baldacchino50.

I primi due punti sono intrecciati in quanto ci permettono di osservare la trasmissione dei feudi nel corso di alcuni secoli. Non dobbiamo dimenticare che la questione dei feudi era strettamente legata all’esistenza stessa di questo tipo di nobiltà, che si caratterizzò come feudale innanzi tutto e come tale si mantenne nel corso dei secoli XVII e XVIII, anche se con caratteristiche diverse. Nel secolo XVII infatti sempre più la nobiltà era considerata un privilegio concesso dal sovrano nei confronti dei singoli feudatari, tanto che ciascun nobile doveva obbligatoriamente richiedere la conferma dei propri privilegi al duca51. Era questo lo scopo dei consegnamenti del 1613, 1650 e 1672. Inoltre ogni 10 anni occorreva denunciare i beni al duca e allo stesso modo i beni feudali dovevano essere consegnati al duca dietro pagamento di una tassa («laudemio») ogni volta che il possesso di tali beni passava dal padre al figlio primogenito.

Tra la fine del secolo XIV e l’inizio del XV secolo, Barbero ci prospetta un quadro che si discosta in parte dalla situazione cinquecentesca: assente nei secoli XIV e XV il ramo di Villarboit (che compare nel 1548), tra i secoli XIV e XV risultano assenti anche i rami di Asigliano ed Eusebio, Benna, Nebbione, Cossato, Formigliana, Carisio, Verrua Savoia e S. Giorgio Monferrato52. Nel 1783 il ramo di Lozzolo compare unito a quello di Cerrione.

Per quanto riguarda le informazioni posteriori al 1548, non abbiamo notizie relative ai rami di Asigliano ed Eusebio, e di Benna, forse estinti. Per quanto riguarda gli altri rami che non compaiono più nelle riunioni di consortile sei e settecentesche (Avogadro di Lozzolo, Avogadro di Massazza, Avogadro di Nebbione e Avogadro di Villarboit), possiamo confermare che essi confluirono in altri rami Avogadro.

Il ramo di Lezzolo (o Lozzolo) rimase indipendente per tutto il secolo XVII, fino

via del fatto che contiene tra i vari punti indicazioni sulla questione del baldacchino, che fu dibattuta ancora fino al primo ventennio dell’Ottocento. Il primo studio relativo alla questione dei consortili aristocratici degli Avogadro è la tesi di laurea di Filosso 1998-1999.50 Il baldacchino era un telo di tessuti preziosi riccamente decorato, sorretto da quattro aste, sotto il quale veniva portato in processione il Santissimo, sorretto dal Vescovo, nella solenne processione del Corpus Domini oppure in occasione dell’ingresso di vescovi o di principi. Portare le aste del baldacchino era un privilegio riservato alle famiglie nobili più rappresentative e importanti della città, che avevano il privilegio di portare il baldacchino durante la processione del Corpus Domini, durante l’ingresso dei vescovi, dei sovrani e dei principi forestieri, sia ecclesiastici sia secolari.51 Bulferetti 1953, pp. 3-8.52 Barbero 2005.

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a quando nella riunione di consortile del 1783 viene indicato insieme a quello degli Avogadro di Cerrione.

Il ramo di Massazza rimase indipendente fino al 1611, quando divenne parte degli Avogadro di Collobiano, anche se la riunione di consortile lo dice ancora indipendente nel 1672 e 1783.

Risulta che un ramo dei signori di Carisio s’intitolava ai signori di Nebbione53. In seguito Bartolomeo Avogadro vendette a Giuseppe Caresana il feudo il 22 novembre 1568 relativo al signorato54.

Il ramo di Villarboit passò proprio pochi anni prima del 1548, nel 1544, dagli Avogadro ai Rovasenda, che lo vendette a Gian Tommaso Langosco55. Risulta comunque ancora attestato nel 1548.

Due sono dunque i casi, quello del feudo di Nebbione e quello del feudo di Villarboit, che, nonostante il divieto di vendere i feudi presente nelle costituzioni del 1548, furono ceduti al di fuori del consortile Avogadro. Nessun altro feudo tuttavia fu alienato dalla famiglia, anzi molti vennero assorbiti nelle mani di un solo ramo, che naturalmente divenne più forte, come quello degli Avogadro di Collobiano, Formigliana, Massazza, Villanova e Mottalciata, o il ramo di Vigliano, Valdengo e Montecavallo. Tra questi, il più importante fu però il ramo di Collobiano.

Sorte di alcuni feudi degli Avogadro tra Quattro e Cinquecento

L’esame del consortile aristocratico degli Avogadro ci induce ad aprire la questione della reale efficacia che il consortile Avogadro ebbe nei secoli e dunque a studiare il possesso dei feudi. Nato per evitare l’alienazione dei feudi, il consortile Avogadro si consolidò trovando la sua forma scritta nel 1548, appena due anni dopo la vendita di uno dei suoi feudi, Lozzolo. Si trattava dell’ennesimo caso di alienazione di feudi, nonostante la consuetudine del consortile ne vietasse la vendita. Ancora dopo la forma scritta dei Capitoli cinquecenteschi, diversi altri feudi furono venduti in seguito a varie vicende in cui la voce e la forza del sovrano diventavano più influenti.

Occorre premettere innanzi tutto che tra il 1404, data che consideriamo periodizzante per i nostri studi essendo quella della dedizione di tutta la casata Avogadro al duca Amedeo VIII di Savoia, e il 1548, diversi feudi degli Avogadro vennero persi56. A titolo di esempio riferiamo che gli Avogadro persero S. Giorgio

53 Nebbione si trova vicino a Carisio, in prossimità di Santhià.54 Guasco di Bisio 1911, vol. III, pp. 80-81, Nebione.55 Guasco di Bisio 1911, vol. IV, p. 745, Villarboit.56 Non ci addentriamo nelle vicende che portarono a una simile situazione e che esulano dal nostro studio; ci limitiamo a elencare i feudi che nel 1404 erano nelle mani degli Avogadro; 1404: Cerrione, Benna, Valdengo, Quaregna, Cossato, Massazza, Carisio, Formigliana, Casanova Elvo, Lozzolo,

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Monferrato nel 1247, parte di Carisio nel 1402, Cossato nel 1471 e Verrua nel 1500 per quel che riguarda il periodo antecedente all’età moderna.

Una prima importante perdita avvenne con la cessione del castello di Lozzolo, che già nel 1463 era stato in parte venduto; solo nel 1530 l’altro erede, Troilo I Avogadro, cominciò un’opera di acquisizione delle piccole porzioni che erano in mano ai parenti fino ad avere circa la metà del feudo, mentre l’altra metà rimaneva in mano ai discendenti dello zio, il conte Gabriele. Nel 1546 il conte Troilo, non avendo avuto eredi, vendette tutta la sua parte di feudo (che corrispondeva alla metà dell’intero feudo di Lozzolo) a Filiberto Ferrero-Fieschi di Masserano. La data della perdita è significativa in quanto è di soli due anni precedente la messa per iscritto dei Capitoli del 1548, che sancivano l’inalienabilità dei feudi degli Avogadro. Forse i Capitoli vennero redatti in forma scritta proprio in seguito a questa clamorosa vendita per evitare successive dispersioni dei beni del consortile Avogadro. Non erano più i tempi in cui il diritto consuetudinario bastava; a quel punto occorreva un testo scritto. Nel frattempo Emanuele Filiberto iniziò la sua opera di ammodernamento e di costruzione di uno Stato centralizzato, che ebbe come obiettivi principali l’elezione di nuovi nobili da porre al suo servizio e al contempo colpire i forti poteri locali, nobiliari ed ecclesiastici. La vicenda degli Avogadro ci mostra che il consortile fu utilizzato come strumento ufficiale della famiglia per dialogare con il duca e per difendere il possesso dei propri feudi con i Capitoli del 1548. La famiglia Avogadro dichiarava inalienabili i propri feudi. Ciò tuttavia non fu sufficiente per garantirne il possesso; nel corso del Seicento e Settecento i duchi sabaudi, a ogni occasione di passaggio di eredità, richiedevano il laudemio e mettevano in discussione il possesso, che doveva essere dichiarato e dimostrato dalla famiglia. Altre volte erano gli stessi esponenti dei diversi rami della famiglia Avogadro a voler alienare i loro beni, quasi sempre riuscendo nel loro intento, appoggiati dai duchi sabaudi, che lavoravano per minare il potere dei grandi feudatari vercellesi, così come quello di altri grandi feudatari piemontesi. Dall’altra parte i duchi appoggiavano le “aggregazioni” di membri esterni al consortile, cui si opponevano fermamente alcuni membri delle nobili famiglie nelle congreghe generali di consortile.

Sul fronte complementare, erodendo i territori e infeudando altri territori a partire dal Cinquecento, i duchi crearono una nuova nobiltà, che con vari mezzi s’insinuò nei patriziati locali, nelle burocrazie statali, negli eserciti ducali.

Tuttavia, nonostante le varie vicende cinque e secentesche, il consortile

Collobiano, Quinto Vercellese, Verrua Savoia, S. Giorgio Monferrato; Avogadro di Quaregna e Ceretto; Avogadro di Valdengo, Vigliano e Montecavallo; Avogadro di Casanova; Avogadro di Quinto; Avogadro Ben[n]a Arborio; Avogadro di Cerrione; Sforza Avogadro di Zubiena.

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Avogadro, se non riuscì sempre nei suoi intenti di difendere con il diritto il possesso e l’inalienabilità dei propri feudi, nel complesso conservò grandi patrimoni fondiari. Il consortile si sfaldò a fine Settecento e i vari rami della famiglia Avogadro non solo conservarono i propri domini, ma in certi casi li aumentarono57.

Il consortile Avogadro nel Seicento

Le riunioni di consortile avvenivano ogni 18 anni, ma la cadenza non sempre fu regolare. Le riunioni secentesche delle quali sono rimaste tracce documentarie sono le più ampie e complete: sono quelle del 1633, 1660 e 1672, mentre sappiamo con certezza che per vent’anni (dal 1638 al 1659) il governo spagnolo non permise alla famiglia Avogadro la consueta riunione di consortile.

I meccanismi di convocazione seguivano le consuetudini: i delegati avvisavano mediante lettera missiva il giorno della convocazione ai vari membri dei consortili di ogni ramo della famiglia Avogadro. Due erano gli eletti per questo compito: nel 1633 furono il referendario Paolo Avogadro di Valdengo58 e il conte Giovanni Andrea Avogadro di Quinto59, che inviarono la missiva di convocazione il 14 giugno, due giorni prima del giorno della riunione generale di consortile “general credenza”.

La riunione avvenne nella sacrestia della chiesa di S. Marco di Vercelli il 16 giugno 1633, così come in tutte le altre riunioni generali di consortile.

Ogni ramo o “castellata” della famiglia Avogadro inviava i propri rappresentanti al consortile generale, anche mediante procura. Diverse infatti furono le procure trovate. Ogni “castellata” teneva la propria riunione di consortile: ne abbiamo testimonianza per i rami Avogadro di Casanova, Avogadro di Vigliano, Avogadro di Quinto.

La riunione generale di consortile aveva come primo punto l’elezione dei delegati rappresentanti il consortile per occuparsi dei feudi e delle cause inerenti60.

57 Cardoza 1999: è il caso della famiglia Avogadro di Casanova e Avogadro di Collobiano.58 Paolo Avogadro di Valdengo fu referendario di Vercelli (9 maggio 1617). Durante l’invasione degli spagnoli, pur scacciato, continuò a servire nel suo ufficio, cosicché Madama Reale gli fissò uno stipendio di 200 ducatoni. Con Regio Assenso (25 febbraio 1643) vendette parte dei feudi all’avvocato Ambrogio Bonino. Fu investito il 9 ottobre 1649. Sposò Ottavia Avogadro di Piverone (Manno 1895-1906, vol. I, p. 122).59 ASV, Teodoro Arborio Mella, Genealogie, famiglia Avogadro di Quinto (consultato in fotocopia presso Archivio di Stato di Vercelli): il primo Avogadro di Quinto che ottenne il titolo di conte fu questo Giovanni Andrea, che acquistò parte del feudo di Quinto con titolo comitale dal conte Gaspare Gottofredo di Buronzo con atto del 6 agosto 1622 e testò il 16 aprile 1654. Sposò Aurelia Dianira Avogadro di Valdengo di Giovanni Tommaso (dote 19 agosto 1606) e in seconde nozze Veronica Ristis di Lodovico (dote 18 luglio 1662).60 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Particola sopra il nono Cappo circa l’agregazione fatta al sig. Raspa, 16 giugno 1633: “cause, differenze, liti et quistioni, di pottere veder, conoscere, decider, terminare, fare et esseguire quel tanto sarà necessario et che porta l’honore, servitio, reputatione,

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Nel 1633 vennero eletti come rappresentanti i fratelli Antonio e Troilo Avogadro di Collobiano, abitanti a Vercelli, il cavaliere Don Francesco Avogadro di Cerrione e il dottore Pietro Antonio Avogadro di Valdengo, abitanti fuori Vercelli, mentre nel 1660, non appena cessata l’occupazione spagnola, furono eletti “monsù” Zubiena (e in sua assenza il signor Carlo Gaspare dei signori di Cerrione), il referendario Paolo Avogadro di Valdengo, il conte Carlo Avogadro di Casanova e il conte Maurizio Flaminio Avogadro di Collobiano. Ancora a fine Settecento venne mantenuta l’usanza di eleggere tali rappresentanti degli affari di famiglia.

Nel Seicento furono dibattute principalmente le questioni relative ai passaggi dei feudi. Mediante lo strumento del suo consortile generale, la famiglia Avogadro tentò più volte nel corso del secolo di ovviare e di opporsi alle vendite di feudi a esponenti esterni alla famiglia, ma con scarso successo.

Già si lamentava nel 1633 la necessità di far osservare maggiormente i privilegi dettati dalla Capitolazione del 1548, segno di un’incrinatura del valore del Capitolato di fronte alle ingerenze sovrane61.

Subito si entrava nel dettaglio, nel punto successivo della riunione, il settimo, relativo alla vendita del feudo di Mongrando, cui si accennava dando indicazioni per recuperarne il possesso nelle mani della famiglia Avogadro62. Il feudo, localizzato nelle vicinanze di Biella, entrò in possesso della famiglia nel 1551 e circa 80 anni più tardi passò nelle mani di Giovanni Paolo Loyra63 (prefetto di Pinerolo e poi di Mondovì, e senatore) che ne fu investito nel 1629; Mongrando fu eretto in comitato per

conservatione, augumento et diffesa delle persone, honori, feudi, beni et dignità di detta casa, sì in generale che in particolare conforme alle capitolationi et transationi confirmate dal fu serenissimo signor Duca di Savoia Carlo Emanuel padre di S.A.R. hora vivente”.61 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Particola sopra il nono Cappo circa l’agregazione fatta al sig. Raspa, 16 giugno 1633: “et sopra la sesta proposta che si doverà per l’avenire per parte di detta casa maggiormente osservar più di quello siasi fatto per il passato li privilleggi circa le liti tra consorti et consorti intorno alli feudi et per l’allienationi dell’istessi feudi fatte alli estranei non servatis servandis, et sopra detta proposta fatta come sopra li debiti discorsi hanno provisto et provedano che occorrendo qualche contesa tra le castellate che li signori elletti generali facciano osservare la Capitolatione in tutto e per tutto, come quella dispone, dandoli ogni auttorità opportuna”.62 Guasco di Bisio 1911, pp. 1050-51, Mongrando: il feudo di Mongrando, alle soglie dell’età moderna fu venduto dal duca Emanuele Filiberto, a termine di riscatto, a Gerardo e Stefano Scaglia, il 20 giugno 1533, col titolo di signorato; questi lo vendettero a Francesco Dal Pozzo il 12 ottobre 1550, il quale lo cedette, in cambio di Ponderano, a Ugone, Giacomo e altri Avogadro l’8 gennaio 1551, mantenendo sempre il titolo di signore. Il feudo rimase nelle mani della famiglia Avogadro per circa 80 anni, quando, nel 1629, il feudo fu devoluto e infeudato a Paolo Loyra il 29 luglio 1629 e fu eretto in comitato.63 Manno 1895-1906, vol. 16, p. 313, Giovanni Paolo Loyra si laureò a Torino il 25 gennaio 1605, fu prefetto di Pinerolo, senatore (29 settembre 1612; 6 febbraio 1615), prefetto di Mondovì (1632). Fu investito nel 1613 di parte del feudo rustico di Giaveno (devoluto nel 1721) e acquistò parte di Altessano. Fu infeudato per dono di Mongrando (29 luglio 1629) col comitato (poi contestato). Fu cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro. Sposò in prime nozze Giovanna Avogadro di Cerrione.

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la prima volta in quell’occasione. Il feudo probabilmente faceva parte di quei territori appartenenti al distretto di Biella, smembrati, come anche altri piemontesi, tra il 1619 e il 1620, o come in questa circostanza, pochi anni dopo. Il Loyra apparteneva a quel tipo di nobiltà di servizio che venne promossa dal duca Carlo Emanuele I.

Nel 1660, al punto 9, veniva trattata la questione della perdita del feudo di Villa e della metà del feudo e castello di Lozzolo con la proposta di riacquistarli64.

Anche in questo caso, come nel precedente, il castello e feudo di Lozzolo e il feudo di Villa del Bosco furono venduti dalla famiglia Avogadro e, nonostante i propositi da parte del consortile di riacquisirli, come nel caso di Mongrando, essi non ritornarono più nelle mani degli Avogadro.

Nella riunione generale di consortile del 1672 si dibatté la questione del recupero dei feudi di Collobiano e Formigliana65.

Il ramo degli Avogadro di Collobiano e della Motta possedeva non solo i feudi di Collobiano e Formigliana (dal 1170), Massazza e Villanova, e Lessolo (dal 1302), ma acquisì altri due feudi all’inizio del Seicento, Caresanablot (1621) e Mottalciata (1624).

La riunione generale di consortile del 1672 avveniva a pochi anni dal testamento di Virginio Avogadro di Collobiano del 25 aprile 1665, che nominò suoi eredi universali i signori di Quaregna e Pietro Francesco Avogadro di Valdengo66. Alla morte di Virginio Avogadro di Collobiano (1667), la causa processuale si disputò davanti al Senato di Torino tra il conte Flaminio Avogadro di Collobiano67 da una parte e i vassalli Carlo Amedeo Avogadro di Quaregna e Ceretto68 e Ottavio Amedeo

64 Guasco di Bisio 1911, p. 925-6: Lozzolo, detto nei documenti “Lessolo”: il feudo fu venduto dai di Sonomonte (o Salomone) a Simone Avogadro di Collobiano il 5 dicembre 1302 col signorato e da costoro Troilo vendette a Filiberto Ferrero-Fieschi il 20 gennaio 1546, col signorato. Per ragioni dotali di Margherita il feudo passò al figlio Francesco di Rho il 4 luglio 1563 col signorato. I Fieschi si estinsero in Ottaviano Luigi che istituì erede il nipote ex sorore Luigi Tornielli-Rho, da Novara, l’11 febbraio 1634 col signorato. Sulla politica di Simone Avogadro e Lozzolo vedi il recente studio di Negro 2015.65 Guasco di Bisio 1911, p. 614: Collobiano con Formigliana. Il feudo appartenne agli Avogadro dall’11 marzo 1170 quando lo ottennero Bongiovanni e Palatino Avogadro. In seguito il feudo passò a Francesco Eusebio conte della Motta, che l’ottenne in comitato il 3 giugno 1765.66 Si tratta di Pietro Francesco Avogadro di Valdengo, figlio del referendario Paolo Avogadro di Valdengo; Pietro Francesco morì celibe nel 1667. Suo fratello Ottavio Amedeo, di cui non si conosce la data di morte, aveva sposato in prime nozze Adelaide Canalis di Cumiana e in seconde nozze Francesca Milanese (Manno 1895-1906, vol. II, p. 122).67 Maurizio Flaminio Avogadro di Collobiano, cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, governatore di Chieri, testò il 5 dicembre 1689 (Manno 1895-1906, vol. II, p. 120).68 ASV, Teodoro Arborio Mella, Genealogie, famiglia Avogadro di Ceretto e Quaregna: Carlo Amedeo Avogadro di Quaregna e Ceretto, figlio di Pietro Riccardo di Lodovico e di Anna Sibilla Gallardi di Nicola da Orta; testò il 9 settembre 1697 e sposò Giulia Metilde de Dionisii di Caresana di Giovanni Bernardino (in atto 6 maggio 1680). Fu terzogenito ma discendente diretto che ereditò i beni.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Avogadro di Valdengo69 dall’altra, quest’ultimo in quanto fratello di Pietro Francesco Avogadro, morto nel 1667, e quindi come suo successore.

Il conte Flaminio Avogadro di Collobiano, in quanto discendente diretto della linea di Collobiano, pretendeva l’eredità dei feudi. La sentenza del Senato (28 novembre 1671) decise che il feudo dovesse essere diviso in quattro parti: un quarto al conte Flaminio Avogadro di Collobiano “per raggione di successione feudale”, due quarti a Ottavio Amedeo Avogadro (di Valdengo), di cui uno per sé e l’altro in quanto erede del fratello Pietro Francesco, morto nel 1667; un ultimo quarto del feudo toccò a Carlo Amedeo Avogadro di Quaregna e Ceretto70.

La sentenza del Senato di Torino includeva una clausola: “di restituir tutto ciò, che venesse dal Senato nostro giudicato alli altri dell’Agnatione Auogadra compresi nella sudetta Conuenzion71, à quali riserviamo raggione come li puotrà competter di giustitia, compensate le spese”; in buona sostanza lasciava aperta la possibilità agli altri consorti Avogadro di ricorrere in appello, in virtù dei Capitoli del 1548, che non erano stati presi in considerazione nella sentenza del 1671.

In seguito a questi fatti, nella “congrega generale” del 1672, si domandava all’intero consortile Avogadro se avesse o meno intenzione di appellarsi e pretendere l’eredità dei feudi in virtù dei Capitoli del 1548. Il consortile decise di rivendicare questi feudi.

Nel secolo successivo, il feudo di Collobiano risultava ancora diviso secondo la sentenza torinese del 1671, ma con alcune variazioni. Il quarto di feudo che toccò alla linea dei della Motta si ingrandì: il discendente di Flaminio Avogadro, conte Eusebio Avogadro della Motta, fu infeudato il 3 giugno 1765 di un quarto del feudo di Collobiano e Formigliana e ne fu investito il 13 settembre col comitato per maschi (e femmine), risultando così possessore di un mezzo dell’intero feudo72. Dei due quarti di feudo, che nel 1671 toccarono alla linea Avogadro di Valdengo, nel Settecento erano ancora nelle mani della medesima famiglia un quarto più un sedicesimo di feudo, mentre un ultimo sedicesimo del feudo fu ridotto73.

69 Ottavio Amedeo Avogadro di Valdengo era il fratello di Pietro Francesco Avogadro di Valdengo (morto nel 1667), citato nel testamento di Virginio Avogadro di Valdengo (Manno 1895-1906, vol. II, p. 122).70 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, mazzo 1, casella 1, n. 62, vi sono diverse copie di un volantino a stampa intitolato “Sentenza. Carlo Emanuele, Per gratia di Dio Duca di Savoia”, Vercelli, Nicola Giacinto Marta, 1672. Il documento non è segnalato nel repertorio di Gorini 1958.71 Si tratta della più volte citata convenzione del 1548.72 Manno 1895-1906, vol. II, p. 121. Questa informazione ci permette di datare a un anno posteriore al 1765 la tavola dei vassalli: AST, Ufficio Generale delle Finanze, Prima Archiviazione, Finanze, Intendenze e loro Segreterie, Prima Archiviazione, Provincia di Vercelli, m. 1, Una tavola settecentesca con uno “stato dei vassalli” della provincia di Vercelli, s.d.73 AST, Ufficio Generale delle Finanze, Prima Archiviazione, Finanze, Intendenze e loro Segreterie,

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La nobiltà feudale nel Seicento. Il caso delle aggregazioni ai consortili aristocratici

Il tema delle aggregazioni nobiliari è poco studiato, ma riveste estremo interesse al fine di identificare i processi di ricambio nell’aristocrazia e soprattutto i meccanismi d’ingresso di homines novi nei suoi ranghi. La resistenza della nobiltà di antiche origini rispetto ai processi di penetrazione della nobiltà nuova è un argomento analizzato marginalmente dalla storiografia italiana, mentre rientra tra gli interessi centrali della storiografia europea e americana che si pone il problema della trasmissione dei beni dei ceti dirigenti per via agnatizia o cognatizia74. Le aggregazioni costituiscono un tipo particolare di innesto di una nuova famiglia nell’ambito di una famiglia di antiche origini. L’aggregazione nobiliare era una forma giuridicamente riconosciuta dal sovrano e dava diritto a usare il cognome e l’arma e a godere dei diritti e delle prerogative della famiglia, degli stessi onori e gradi riconosciuti dal sovrano75. Ci troviamo di fronte a un istituto giuridico diffuso nel Seicento, quando nel Vercellese e in generale nell’Italia padana avvennero le ben note chiusure oligarchiche a livello cittadino e a livello statale in Piemonte le principali nobilitazioni da parte del sovrano. Il duca proprio in questo secolo impose, attraverso meccanismi quali le consegne di armi gentilizie e le patenti di nobilitazione, nuovi titoli di nobiltà e nobiltà personali, imponendo il proprio sistema di nobilitazione come concessione sovrana, cui tutti dovettero adeguarsi volenti o nolenti.

Per aggregazione s’intendeva la decisione di accettare, nell’ambito del consortile di una famiglia nobile, un personaggio che non aveva con esso legami di sangue e assimilarlo cedendogli tutte le prerogative di cui godevano i membri del consortile. Non sempre tutti questi diritti venivano riconosciuti in toto e non vi era sempre una medesima circostanza in cui avvenivano tali aggregazioni. Quattro sono i casi che abbiamo individuato per il Vercellese e ciascuno di essi racconta una situazione diversa. Due aggregazioni riguardano la famiglia Avogadro (Giovanni Andrea Raspa e il conte di Piverone), una riguarda i Corbetta Bellini e una gli Arborio Mella, aggregazioni tutte secentesche, come vedremo qui di seguito.

Provincia di Vercelli, m. 1, Una tavola settecentesca con uno “stato dei vassalli” della provincia di Vercelli. 74 Bennini 2007; Visconti 2008.75 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Particola sopra il nono Cappo circa l’agregazione fatta al sig. Raspa, 16 giugno 1633.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

La “castellata di Quinto”, esempio di una famiglia del ramo Avogadro

Il primo Seicento rappresentò un momento importante di trasformazioni dei feudi di alcuni rami della casa Avogadro. In particolare con il 1613 e il 1620 fu trasformato in parte il territorio, furono smembrati i distretti e venduti o dati in compenso ai colonnelli e generali del duca. Così anche in casa Avogadro ci furono trasformazioni nei possedimenti feudali. Fu questo un momento in cui furono concessi anche titoli feudali, quali quelli di conte, a diversi che prestarono il servizio per il duca. Vediamo il caso specifico degli Avogadro di Quinto in questo frangente, che può illustrare la nostra tesi.

La linea della famiglia Avogadro di Quinto è attestata fin dal Quattrocento, quando tra le famiglie che fecero dedizione ai Savoia, c’erano anche loro. Ogni volta che un sovrano sabaudo saliva al trono, gli Avogadro, come anche altri nobili, avevano il dovere di ripresentare i consegnamenti e i giuramenti di fedeltà.

Un momento di rottura fu il 1619-1620, quando, in seguito alla prima guerra del Monferrato (1612-1617), il duca Carlo Emanuele I attuò tutta una serie di provvedimenti a tal fine: smembrò distretti, li parcellizzò e li infeudò dietro pagamento di un compenso; donò diversi feudi come compenso per i servigi militari prestatigli dai suoi fedeli servitori. Avocò feudi e li rivendette o li donò ai suoi servitori.

Il feudo di Quinto, da secoli appartenente al consortile della famiglia Avogadro, fu avocato e infeudato il 9 giugno 1622, col comitato, a Gaspare Gottofredo di Buronzo, della quinta linea della famiglia, per i suoi servizi militari76. Poco dopo, il 6 agosto dello stesso anno, il Gottofredo vendette un terzo del feudo a Giovanni Andrea Avogadro di Quinto per il prezzo di 350 scudi, da 9 fiorini per scudo, permettendogli di fregiarsi del titolo di conte77.

Quindi il 18 luglio 1624 fu effettuata la prima “ricognizione” da parte del duca per confermare l’alienazione. Il successore di Giovanni Andrea Avogadro di Quinto, il conte Carlo Francesco, acquistò dal medesimo conte Gaspare Gottofredo di Buronzo la seconda parte del feudo il 23 luglio 1660 per 151 ducatoni d’argento, e la terza parte del feudo il 16 agosto dello stesso anno per altri 151 ducatoni d’argento.

In seguito a tale acquisto il duca Carlo Emanuele I investì di Quinto e Bellione78 il conte Carlo Francesco Avogadro l’11 maggio 1626. In questa occasione, il conte di Quinto dichiarava che il consortile degli Avogadro di Quinto aveva già ottenuto

76 Manno 1895-1906, vol. II, p. 454.77 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, mazzo 1, casella 1, n. 60 bis, Intromento di recognitione fatta dall’Illustrissimo signor Carlo Francesco del fu Illustrissimo signor Conte Giovanni Andrea Avogadro conte di Quinto verso S.A.R. l’anno 1665.78 Tibaldeschi 2014, p. 338, n. 113: individua la località “Albelioni” nel sito della cascina Baglione di Caresanablot. È verosimilmente la località “Bellione” indicata nel testo.

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precedenti investiture da Carlo Emanuele di Savoia il 13 agosto 1581, a un anno dalla sua salita al trono ducale. All’epoca probabilmente i signori di Quinto si suddividevano la giurisdizione del feudo di Quinto79. Il possesso del feudo di Quinto era dunque indiviso nel 1581 tra i consignori di Quinto.

Due casi di “aggregazione” secentesca: Giovanni Andrea Raspa e il conte di Piverone

Il primo caso di aggregazione è quella di Giovanni Andrea Raspa al consortile degli Avogadro di Quinto. Questo consortile era soggetto ai pacta et conventiones del consortile generale dei diversi rami della famiglia Avogadro del 1548.

Nel 1633 la famiglia Avogadro di Quinto era suddivisa in diversi rami; il principale si trovava in quel momento privo di un erede maschio che ereditasse i beni aviti. Giovanni Andrea Raspa, nipote dell’ultimo Avogadro di Quinto, fu aggregato per intervento del sovrano a motivo della sua buona nascita e dei meriti di guerra acquisiti da suo nonno in occasione del suo servizio come milite del duca Carlo Emanuele I80. Un intervento ducale sanciva questa aggregazione, dietro istanza della famiglia.

I Raspa risultavano già imparentati con gli Avogadro di Quinto ed erano un’antica famiglia del patriziato vercellese suddivisa in più rami. Un ramo si era stabilito a Vercelli nel tardo medioevo e iniziò ad avere un ruolo di primo piano a livello cittadino. Si erano uniti con gli Arona, per cui la famiglia fu detta Raspa-Arona; i Raspa ricoprirono nel Cinquecento il prestigioso incarico di priori del cittadino Collegio dei Dottori, detenendone il monopolio per quasi un secolo, oltre che vari incarichi in diverse istituzioni urbane, come il Monte di Pietà.

Venendo a mancare il diretto discendente degli Avogadro di Quinto, Giovanni

79 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, mazzo 1, casella 1, n. 60 bis, Intromento di recognitione fatta dall’Illustrissimo signor Carlo Francesco del fu Illustrissimo signor Conte Giovanni Andrea Avogadro conte di Quinto verso S.A.R. l’anno 1665: “nell’investitura dalla fu di felice recordo Altezza Serenissima di Carlo Emanuel Avolo di S. A. R. nostro signore per molti signori che erano in quel tempo tutti consorti d’esso luogo di Quinto ottenuta sotto li 13 agosto 1581”.80 Uno dei rami collaterali aveva come ultimo esponente Giovanni Andrea Avogadro, milite nella compagnia del conte Giovanni Aurelio Arborio di Gattinara, maggiordomo della principessa Maria di Savoia. Giovanni Aurelio Arborio di Gattinara fu nel Seicento un famoso condottiero al servizio del duca sabaudo, che condusse numerose battaglie per il duca e fu da questi promosso con l’acquisto e il dono di diversi feudi, cosa che gli valse anche l’accrescimento del patrimonio di famiglia. Giovanni Andrea Avogadro di Quinto, esponente di un ramo collaterale della famiglia, si era dedicato alla carriera delle armi al servizio del Gattinara; sposò Giulia Corbetta, figlia di Cesare Corbetta, patrizio vercellese di origini milanesi. Da questo matrimonio nacquero tre figlie femmine: Caterina, Girolama ed Eleonora. Caterina sposò Teseo Raspa, figlio di Orazio, ed ebbe un figlio, Giovanni Andrea Raspa (ASV, Teodoro Arborio Mella, Genealogie, Avogadro di Quinto).

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Andrea Raspa fu aggregato al consortile degli Avogadro di Quinto, come da atto del 25 maggio 1633, firmato da Vittorio Amedeo I. Non avendo avuto figli maschi, Giovanni Andrea chiese l’aggregazione del nipote Giovanni Andrea Raspa al consortile degli Avogadro di Quinto81. Fu aggregato dunque uno degli esponenti dei rami della famiglia.

Il motivo dell’aggregazione era stato dichiarato direttamente dal sovrano, il quale, in una lettera, rivolgendosi ai consorti della casa Avogadro affermava che aveva deciso di concedere questa aggregazione per i meriti acquisti dal nonno di Giovanni Andrea Raspa in occasione del suo servizio come milite al servizio del duca82.

I patti della famiglia Avogadro del 1548 avevano tra i loro scopi anche quello di evitare aggregazioni, viste come extrema ratio per mantenere unito il patrimonio di famiglia. Era questa una situazione riconducibile alla casistica prevista dai patti. Appena avvenuta l’aggregazione - che comunque non fu facile poiché un Diomede Avogadro vi si opponeva - Giovanni Andrea Raspa Avogadro subito pretese una parte della casa nel castello consortile di Quinto, tanto per far valere i suoi diritti e le sue prerogative83. La questione fu risolta solo con notevole difficoltà: nella generale riunione del consortile Avogadro del 1672, 12 anni dopo l’aggregazione, tra i punti all’ordine del giorno, si metteva in dubbio se ammettere o meno nella congregazione l’intervento di Giovanni Andrea Raspa. Il consortile deliberava di ammetterlo a patto che egli non pretendesse di succedere nei feudi di famiglia84.

Ancora una volta notiamo un intervento ducale in uno statuto giuridico

81 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Particola sopra il nono Cappo circa l’agregazione fatta al sig. Raspa, 16 giugno 1633.82 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Particola sopra il nono Cappo circa l’agregazione fatta al sig. Raspa, 16 giugno 1633: “Il duca di Savoia, molto mag.ci nostri carissimi, ricordevoli della buona serietà che si rese longamente con cariga di logotenente d’una compagnia di cavalieri illustrissimi fu Giovanni Andrea Avogadro dei signori di Quinto si moviamo a dirsi che essendo egli morto senza figlioli maschi, ci sarebbe caso che li figlioli di Catterina Raspa sua figliola si potessero render capaci del feudo di esso luogo di Quinto […] che non potendo riuscire senza l’agregatione alla famiglia nostra di Giovanni Andrea Raspa figliolo d’essa Catterina, n’aggiongiamo che si farete cosa gratta d’agregarlo alla casatta nostra acciò possi partecipare dell’istessi honori e preminenze che da noi e da nostri antecessori ne sono statti contessi e perché gionto a questo nostro desiderio vi concorono le qualità in esso Raspa di bona nascita per la propria fameglia sua tanto più si persuadiamo che lo farette volontieri così assicurandovi preghiamo Nostro Signore che vi conservi, Torino li 25 di maggio 1633 V. Amedeo, Barozzio”.83 ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 21, Supplica del sig. conte Gio. Andrea Raspa per una casa nel castello di Quinto, s.d.84 ASV, Archivio Avogadro di Casanova, serie I, m. 62 : “Sopra il decimo et ultimo la presente congregatione ha provisto et provede che ove il signor Raspa dichiari di non pretender mai in qualsivoglia tempo di succeder ne’ feudi della fameglia ad esclusione e pregiudicio de’ signori agnati d’essa s’admetti come aggregato ad intervenire nella presente congregatione altrimente ha depellito et depellisse la sua instanza”.

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apparentemente privato, come era il consortile, che rientra in un meccanismo in cui il sovrano concedeva le proprie nobilitazioni e concessioni dall’alto. Gli interventi del duca Carlo Emanuele II (1638-1675) si moltiplicarono in questa sfera finendo per muovere gli equilibri interni della nobiltà.

Un secondo esempio di aggregazione è costituito dal procedimento che vide al centro il conte di Piverone, nel 167285. È conservata la documentazione relativa alla convocazione della Credenza generale della casa Avogadro del 1672, esattamente 12 anni dopo quella del 166086. Il 15 gennaio 1672, nella sacrestia del monastero di S. Marco a Vercelli, parteciparono i seguenti rami della famiglia Avogadro: di Cerrione; di Valdengo, Vigliano e Montecavallo; di Quinto; di Lozzolo; di Quaregna e Ceretto. Altri predicati non compaiono, ma erano presenti anche gli Avogadro di Collobiano, gli Avogadro di Zubiena e gli Avogadro di Massazza. In questo documento si dice che la convenzione iniziale mediante la quale il consortile Avogadro era riconosciuto dai Savoia risaliva al 154887. Per essere valida la convocazione doveva essere composta da almeno due parti dell’intero consortile dei nobili Avogadro della città e della provincia: una prima considerazione ci induce a credere che parte dei nobili Avogadro vivesse in città, parte vivesse nei rispettivi castelli in campagna (credo a questo punto i rami principali, dal momento che essi ereditavano oltre il titolo e le armi anche la residenza, quindi il castello). Nel 1672 si fece rappresentare per procura Giovanni Gerolamo Francesco Avogadro barone di Piverone per intervenire nella congregazione.

È opportuno ricordare i termini della questione. Il conte di Piverone apparteneva a un ramo collaterale degli Avogadro di Valdengo. Sorse anche in questo caso, come per il caso di Giovanni Andrea Raspa, l’opposizione di alcuni membri del consortile Avogadro, i quali sostenevano che il conte di Piverone non avesse diritto a intervenire

85 Il ramo di Piverone (Manno 1895-1906, vol. II, p. 125) è un ramo collaterale degli Avogadro di Valdengo. Divenne un ramo importante grazie a Giovanni Girolamo Francesco che ebbe una brillante carriera al servizio del duca sabaudo. Fu controllore della Camera dei conti il 23 novembre 1598, mastro uditore camerale nel 1603, consigliere di Stato e ambasciatore del Vallese. Fu infeudato di Cavaglià nel 1615 con erezione in comitato; quindi fu infeudato di Piverone nel 1615 col baronato per 4000 scudi d’oro. Fu infeudato di Palazzo nel 1619 col comitato. Suo nipote, omonimo, probabilmente era il barone di Piverone di cui si tratta nel nostro documento.86 ASV, Archivio Avogadro di Casanova, serie I, m. 62.87 ASV, Archivio Avogadro di Casanova, serie I, m. 62. Avogadro di Vigliano 1928, p. 15 ci dà ulteriori informazioni sul consortile degli Avogadro: “nel 1548 il duca Carlo II approvò un «patto di famiglia» che stringeva tutti gli Avogadro e che si sostituiva agli statuti precedenti; tale patto fu poi riapprovato da Emanuele Filiberto il 19 febbraio 1566, da Carlo Emanuele I il 3 aprile 1582 e da Cristina di Francia il 12 dicembre 1644. Certo è che i duchi di Savoia trattarono sempre con gli Avogadro nel loro complesso, tenendo conto delle posizioni “ufficiali” della famiglia quali venivano stabilite dalle riunioni del consortile”.

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in quanto semplicemente “aggregato” e non appartenente a pieno titolo alla famiglia Avogadro per via agnatizia. Si tratta dell’affermazione del primato del sangue, e quindi agnatizio, su quello cognatizio88. Infine il consortile decise, come per il caso Raspa, di non ammettere il suo intervento. In particolare, possiamo notare che alla partecipazione per procura del barone di Piverone si opposero Pietro Antonio e Giovanni Battista Avogadro di Quaregna e Ceretto89.

Il barone di Piverone era stato aggregato al consortile dei signori del castello di Valdengo, ma non poteva partecipare al consortile generale degli Avogadro, essendo egli appunto «aggregato». Il procuratore del Piverone, Ottavio Amedeo di Valdengo, ribatté con l’affermazione che il barone di Piverone aveva diritto a intervenire nella riunione generale del consortile in quanto in passato era sempre intervenuto, sebbene per procura, ma il consortile rimase fermo nel rifiuto.

Altri casi di aggregazione

Il terzo caso di aggregazione nobiliare che abbiamo ritrovato nella nostra documentazione riguarda le famiglie Corbetta e Bellini. Si tratta di un’aggregazione i cui confini ci sfuggono quasi completamente. I suoi protagonisti, tuttavia, sono piuttosto noti nelle vicende della nobiltà civile vercellese. Le informazioni relative alla famiglia ci sono fornite da Carlo Amedeo Bellini, giurista e animatore della politica della città. Il Bellini fu probabilmente un homo novus che riuscì a ottenere il riconoscimento della propria nobiltà dal patriziato cittadino grazie alle sue doti di giurista. I Bellini erano originari di Bornate, località a nord di Serravalle, ai margini settentrionali della provincia vercellese. Impostosi nella vita politica di Vercelli, Carlo Amedeo diede in moglie sua figlia Margherita, a fine Seicento, a Lodovico Corbetta, discendente di una famiglia nobilitatasi a inizio Seicento, che contava nella sua parentela un consigliere di Stato. Si direbbe dunque una «nobiltà di toga». L’origine sociale di Carlo Amedeo Bellini spiegherebbe quindi anche la sua posizione assunta nella lotta del secondo Seicento in Credenza a Vercelli dalla parte dei popolani contro i nobili, appoggiati da Carlo Agostino Mella nella questione

88 Dewald 2001: il primato del sangue è una delle caratteristiche della nobiltà.89 ASV, Archivio Avogadro di Casanova, serie I, m. 62, In nome del Signore Nostro Gesù Cristo correndo l’Anno doppo sua nascita mille sei cento settanta due la decima Indizione, et alli quindeci del mese di Genaro in Vercelli, 15 gennaio 1672: “non hanno acconsentito né acconsentono al richiesto intervento per par del signor barone di Piverone non essendo egli veramente della fameglia et agnatione Avogadra, ma semplicemente aggregato dalli signori del castello di Valdengo a quello consortile, onde, non potendo con tal sua particolar agregatione indursi alla partecipatione delle prerogative della fameglia universale per non concorrer in tanto pregiudicio del publico, anzi per servitio d’esso chiedono reijcersi detto preteso intervento, che altrimente protestano di nullità d’ogni atto, et testimoniali”. La questione delle aggregazioni si trova in Rosso 1992, p. 309.

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delicatissima del riparto delle tasse in cui prevalsero i nobili90. Da quel momento la famiglia assunse il doppio cognome Corbetta-Bellini, che portò fino a tutto il Settecento91.

L’ultimo caso considerato in questa sede riguarda la famiglia Arborio Mella o meglio Mella Arborio, così come dicevano i contemporanei.

Gli Arborio, che possiamo annoverare tra la nobiltà di spada, traevano il proprio cognome dalla omonima località, un borgo situato a nord di Vercelli in direzione di Gattinara. Erano una famiglia di nobili rurali dei luoghi di Arborio, Ghislarengo, Lenta, Greggio e Cassinale, dove furono infeudati nel 140792.

Molti esponenti della famiglia Arborio nel secolo XVI si denominavano semplicemente con la provenienza («de Gregio», «de Arboro») e svolgevano attività legate alle professioni, come l’avvocatura o il notariato, che la condizione nobiliare approvava93. Un esempio è rappresentato dal notaio «Antonio de Gregio» che si definiva appartenente ai nobili Arborio di Greggio. Come tale, egli, che era stato nominato notaio l’8 dicembre 1559 da Emanuele Filiberto, con una piazza a Vercelli nella vicinia di S. Giuliano, svolgeva la propria attività a Greggio e utilizzava come sede una casa del castello del luogo. La sua attività riguardava principalmente gli affari della famiglia Arborio94.

90 Rosso 2011, pp. 280 sgg.91 La famiglia Corbetta, di origini milanesi, era una famiglia di mercanti. Era originariamente detta Begogno. Giovanni Pietro Begogno sposò in seconde nozze Caterina Corbetta, erede di Melchiorre da Cassano (dote 3 marzo 1547): ebbe due figli, primogenito dei quali era Cesare, detto Corbetta, che ereditò i beni col fratello Giovanni Antonio, dal prozio Ambrogio Corbetta coll’obbligo di assumerne casato ed arma e ciò “col sentimento di tutti coloro della casata Corbetta di Milano”. Cesare Corbetta sposò Eleonora De Grandi di Confienza di Bartolomeo, vedova di Giovanni Pietro Ugleria fu Giovanni Stefano di Palestro nel 1570. Essi ebbero cinque figli: il primogenito Giovanni Francesco sposò Cecilia Zanetta di Sebastiano, consigliere di Stato del re, governatore di Fontainebleau, e il loro figlio primogenito Cesare Antonio sposò Diana Zoella del presidente Lodovico (1635). Il loro primogenito Giuseppe Lodovico Maria, abitante a Morzano (Roppolo) sposò M. Margherita Bellini di Carlo Amedeo, il giurista che entrò nel decurionato vercellese dopo aver presentato diverse prove di nobiltà, parteggiò per i popolani nella Credenza contro il Mella, che difese i nobili nella questione del riparto delle tasse, e divenne priore del Collegio dei Dottori (Manno 1895-1906, vol. 8, pp. 256-258; ASV, Teodoro Arborio Mella, Genealogie, Begogno).92 Ferrari 1999, p. 26. ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. XX B, Copia della remissione nelle mani del comissario ducale del feudo d’Arboro fatta dalli nobili signori d’Arboro, 1 marzo 1404; m. XVI C, Rinnovamento della dedizione dei nobili di Arboro al duca di Savoia Amedeo dopo essere stati per esso liberati da assedio, 20 maggio 1407; m. XX B, Diversi atti d’investitura del castello d’Arboro a favore dei signori Biamini. Il più recente è del 14 gennaio 1668 e il più antico del 20 maggio 1407; m. XVI C, Procura de gentiluomini d’Arboro per prestare omaggio di fedeltà a madama Violante di Savoia, 1473. Arborio era abbinato ad Albano.93 Donati 1988, pp. 93 e sgg. Cardoza 1999, pp. 6-16.94 Ferrari 1999, p. 28.

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I nobili di Arborio erano possessori di terreni sia a titolo feudale sia a titolo allodiale. Nel momento in cui fu riconosciuta l’infeudazione di Mercurino Arborio di Gattinara nel 1513, si instaurò una sorta di gerarchia rispetto ai consignori del consortile di Arborio e questi iniziarono a essere nobili subordinati rispetto a Mercurino. Si creò un legame impari, in cui Mercurino divenne il patrono e prestatore di denaro verso i consignori di Arborio e questi gli riconoscevano lo status di feudatario dei luoghi95. Una tale situazione compare chiaramente in un consegnamento del 1564, in cui la terminologia di «nobili rurali» ha proprio l’accezione di nobiltà in subordine.

Il mantenimento della condizione di nobili del luogo era vincolato al possesso di una casa nel castello, benché il castello di Greggio fosse diroccato a metà Cinquecento, una situazione simile a quella dei consignori di Buronzo. Diversi nobili del luogo avevano originariamente un possesso indifferenziato nel castello, tipico delle consignorie. Nel Cinquecento queste proprietà erano quasi inesistenti. Nel consegnamento si dice che il castello era diroccato e l’unico edificio in buono stato era la cascina Dorera, che continuava a rappresentare una fonte di reddito. Si trattava di chiari segni di una consignoria ancora attiva ma evidentemente in via di sfaldamento.

I consignori di Greggio erano nel 1562, oltre agli Arborio, i Rossi, i Berzetti di Buronzo, i Ferrero e gli Arborio di Greggio96. I Rossi, abitanti in Vercelli, si definivano imparentati con gli Arborio97.

Iniziano dal 1569 le investiture dei territori ai signori di Arborio da parte di Emanuele Filiberto98. Altri documenti attestano a fine Cinquecento la presenza dei nobili di Arborio e dei nobili Arborio di Gattinara in posizione sovraordinata99.

Nel Seicento, le famiglie del consortile Arborio erano: Comerro, Biamino, Greggio, Tetis e Avogadro Balzola100. L’atto dichiarava inoltre che veniva sottoscritto

95 Ferrari 1999, pp. 29-31.96 Ferrari 1999, pp. 31-32; p. 34: il nobile Francesco de Greggio nell’atto di fare testamento si trovava nella camera da letto di casa sua sita nel castello di Greggio.97 ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. XXII, Testamento del nobile sig. Stefano Avogadro di Balzola de consignori del castello d’Arboro, 25 novembre 1525. La presenza nel Cinquecento di altri consignori è testimoniata dalla documentazione: nel 1525 faceva parte del consortile degli Arborio uno Stefano Avogadro di Balzola.98 ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. XX B, Investitura di Recetto ai signori della casa Arborio, 13 maggio 1569.99 ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. XVI C, Atti diversi dei nobili di Arboro e del Marchese di Gattinara per essere esenti dalle tasse e dalle cavalcate, 1593-1595; ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. V, Liti fra i gentiluomini e la comunità d’Arboro per l’estimo- Sentenza in favore della comunità, 27 gennaio 1599. Sulla famiglia Arborio vedi in particolare gli studi genealogici di Caligaris 2015; Scribante 2015.100 Un utile confronto con i vassalli della casa Arborio è in ASV, Archivio Arborio Mella, m. 24, f. 24,

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per parte di due interventi successivi: uno costituito da un documento presentato dal marchese Mercurino Alfonso Arborio di Gattinara, e il secondo - motivo principale dell’atto - era il desiderio di compiacere alla volontà di Alessandro Arborio Squarra, nonno materno del presente Alessandro Antonio, padre di Francesca Lucrezia, e per compiacere anche alla volontà dell’avvocato Carlo Agostino Mella, in quanto entrambi benemeriti per diversi benefici dimostrati nei confronti della famiglia Arborio.

Infine fu il marchese Arborio di Gattinara ad aggregare Alessandro Mella agli Arborio101.

La famiglia Mella era biellese di origini borghesi102. Il Manno ci riferisce di un Giovanni Domenico, mercante, trasferitosi a Vercelli nel Seicento, il cui figlio Giovanni Antonio consegnò l’arma nel 1624 e morì nel 1627103.

Carlo Agostino, figlio di Giovanni Antonio, divenne un personaggio di spicco del patriziato vercellese. La sua carriera fu straordinaria: si laureò in legge a Pavia e fu considerato un celebre avvocato104. Il 4 febbraio 1640 sposò Lucrezia Francesca, figlia di Alessandro Arborio Squarra, vedova di Giuseppe Alciati; grazie a questo matrimonio egli venne aggregato al consortile degli Arborio105. Lucrezia Arborio

Supplica dei vassalli della famiglia Arborio affinché si riparino i danni procurati dalle guerre al feudo della Rocchetta, 11 luglio 1660; ASV, Archivio Arborio Mella, m. 24, f. 33, Consegnamento di beni della Comunità di Arborio, 27 settembre 1665.101 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 31, f. 7, 1623-1742, all’interno del quale si trova una cartella indicata con “Arborio di Gattinara m. 31 fasc. 10/3”, Aggregazione del conte Alessandro Antonio Mella alla famiglia Arborio concessa dal marchese Mercurino Alfonso II Arborio di Gattinara e confermata dal Consiglio di Famiglia degli Arborio, 2-10 gennaio 1654: “Per la presente, io sottoscritto marchese di Gattinara agrego alla famiglia Arborea il signore Alessandro Antonio, figlio del signor avvocato Carlo Agostino Mella e della signora Francesca Lucrezia del signor Alessandro de’ medesimi gentiluomini della famiglia Arborea, e tutti gli altri figliuoli maschj che nasceranno da detta signora Francesca Arborea Lucrezia a fine ed effetto di potere loro discendenti in infinito godere di tutti gli onori, privileggj prerogative, buone usanze, onoranze, feudi patronati, esenzioni, immunità, convenzioni, titoli, cognome ed armi e ad ogni qual si voglia ragione spettante e che li possa in avvenire spettare agli altri gentiluomini di detta famiglia Arborea per investitura, privileggj contratti, consuetudini, statuti ed in ogni altro modo pensato ed impensato in tutto e per tutto, come se fossero non solo della cognazione come sono anche dell’agnazione Arborea, communicandoli però tutte le mie e di detta famiglia ragioni di qualsivoglia sorte in modo che in l’avvenire e per sempre possino godere delle prerogative della famiglia sudetta, e questa aggregazione ho fatto e faccio di mia spontanea volontà, e perché così mi è piaciuto e piace, pregando li altri gentiluomini del castello e famiglia Arborea a concorrere in questa mia volontà per corroborazione della quale ho fatto scrivere la presente scrittura di mia propria mano e dal segretaro mio sottoscritto”.102 Mongilardi 1947, pp. 17-19.103 ASCV, Archivio Arborio Biamino, m. XXVII A, Missione in possesso del sig. Gio. Antonio Mella di alcune casette e giardini nella contrada del Camagnetto presso sant’Agnese, 24 giugno 1606.104 Manno 1895-1906, vol. 16, p. 111.105 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 13, f. 4, Lucrezia, vedova di Giorgio Squarra di Arborio,

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Squarra, ultima del suo ramo, era figlia di Alessandro, notaio collegiato, e di Margherita Caresana. Alessandro presentò le armi gentilizie insieme col fratello nel 1614. Testò il 4 maggio 1630. Quasi sicuramente per evitare l’estinzione del ramo, venne aggregato il Mella, e da quel momento egli assunse il doppio cognome Mella Arborio, i cui discendenti vennero detti Arborio Mella.

Carlo Agostino era un avvocato dotato di notevoli capacità, tanto che, dopo il matrimonio, avvenuto nel 1640, iniziò la sua carriera al di fuori di Vercelli, al servizio del duca sabaudo. L’ascesa allo stato nobile comportò, nel suo caso, l’infeudazione di alcuni beni immobili. Si trattava di beni situati nel territorio di Ronsecco e Sali106. In particolare il Mella si fece infeudare circa 300 giornate di terreni nel territorio di Ronsecco107. L’investitura in piena regola avvenne nei seguenti termini: il vescovo di Vercelli Michelangelo Broglia investiva l’avvocato e auditore Carlo Agostino Mella di Vercelli, al posto del padre gesuita Carlo Antonio Benso, dei beni di Ronsecco. Il Mella, dopo aver depositato il laudemio, domandò di essere investito in perpetuo per sé e per i propri figli maschi legittimi con un feudo108. Si trattava dell’investitura da parte della mensa vescovile di una cascina di 300 giornate, comprensiva dei fabbricati.

tramite i suoi procuratori Gerolamo Alciati suo fratello e Bonifacio Bondoni di Vercelli, vende a Mercurino Carlo Arborio di Gattinara i beni e diritti a lei spettanti nel territorio di Arborio per la somma di scudi 650 d’oro, s. d. [1556].106 ASV, Archivio Arborio Mella, m. 24, f. 31, Supplica di Carlo Agostino Mella Arborio per i beni di Ronsecco, 25 dicembre 1664; f. 53, Estimo del Sig. Dottor Carlo Agostino Mella per li beni siti nelle fini di Sali regist. in Città, 1656: “Beni posseduti dal signor dottor Carlo Agostino Mella situati sopra le fini di Sale registrati in Città. 1°. In Sale un sedime, con casa nobile, case per doi massari di travate due, travate undeci di stalla, travate quattro da terra, corte serrata il tutto di muraglia et coperto a coppi et piantaletto annesso, coherentia a mattina il sudetto signor Mella, a mezzogiorno la strada, a sera la strada commune, a mezza notte la sudetta strada mediante la fontana detta la Volpona del sudetto signor Mella, di giornate due, tavole novanta due, piedi tre, oncie otto […]. 2° Al […] canepale, coherentia a mattina et sera il sudetto signor Mella, a mezzo giorno il signor conte et fratelli delle Lanze mediante la strada dove va alla pradaria di detto signor Mella, a mezza notte la fontana della Volpona, di tavole settanta seij, piedi dieci ponti seij […]”.107 ASV, Archivio Arborio Mella, m. 25, f. 8, Investitura dei beni siti in Ronsecco del Reverendo Monsignor Michel Angelo Boglia, Vescovo di Vercelli, a favore del Conte Carlolessandro Mella Arborio, 6 ottobre 1664.108 ASV, Archivio Arborio Mella, m. 25, f. 8, Investitura dei beni siti in Ronsecco del Reverendo Monsignor Michel Angelo Boglia, Vescovo di Vercelli, a favore del Conte Carlolessandro Mella Arborio, 6 ottobre 1664: “nobile, avito, honorifico, paterno antico, e semovente della fede episcopale di Vercelli, tutti li beni, case, edificij, e ragioni d’aque altre volte tenuti, e posseduti nelle fini di Ronsecco da detti Padre Benso e signor conte Roasenda, cioè giornate in circa trecentoventi, spettanti parte alla casa nobile, insieme con la rustica e sedime in detta villa apresso il Castilnovo, e parte al massaritio aquistato dal fu signor Giovanni Menico asino, e parte alla cassina detta il Bacone situata in dette fini di Ronseco, et il tutto con sue ragioni d’aque, fossi, pascoli, accessi, ingressi e regressi, sì et come più commodamente saranno consignati e dissignati, quali beni detto signor constituto consegna”. Vedi inoltre ASV, Archivio Arborio Mella, f. 31, Supplica di Carlo Agostino Mella Arborio per i beni di Ronsecco, 25 dicembre 1664.

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Probabilmente questi beni, insieme ad altri, permettevano al Mella di avere quella rendita che consentiva di mantenere uno stile di vita nobiliare basato sulla rendita fondiaria. Egli da quel momento divenne vassallo del vescovo. La fortuna di Carlo Agostino fu dunque dovuta a una concomitanza di fattori che dimostra la complessità del carattere patrizio del ceto dirigente vercellese nel Seicento e l’importanza dei suoi legami con il ceto dei dottori collegiati. Prima di tutto cruciale fu il matrimonio nel 1640 con l’ultima discendente del ramo Arborio Squarra, figlia a sua volta di un notaio collegiato di Vercelli, appartenente cioè a quel «corpo» di uomini di legge che a Vercelli e nelle città piemontesi e padane detenevano il governo cittadino. Lucrezia Arborio Squarra era figlia per parte di madre di una Caresana, un’altra nobile famiglia vercellese. Celebrato il matrimonio, il giovane Mella, inserito ma non ancora aggregato al consortile nobiliare degli Arborio, entrò tre anni dopo in Credenza a Vercelli e da lì a pochi anni iniziò la sua brillante carriera che lo portò fuori città fino alle dipendenze del duca sabaudo. Questa carriera ebbe ricadute a Vercelli e Carlo Agostino acquisì ancora più potere, l’infeudazione di terreni e altre cariche pubbliche cittadine; fu un potere che trasmise al figlio Alessandro. Questi portava il nome del nonno materno a segnare la linea di continuità con l’origine nobile materna piuttosto che con quella borghese paterna dei Mella. Di Carlo Agostino gli storici vercellesi ricordano anche la sua produzione letteraria: scrisse opere di carattere giuridico: De usucapione (Papiae, 1635) e De usucapionibus et praescriptionibus109, oltre che alcuni versi latini contenuti nell’opuscolo del figlio Alessandro, La Chiesa di Vercelli110. In quanto figlio di una nobile, Lucrezia Arborio Squarra, Alessandro venne aggregato alla famiglia Arborio il 10 gennaio 1654, come risulta da un documento segnalato dal Casalis e ritrovato nell’archivio Arborio di Gattinara. Si tratta di una copia del documento originale da cui si desume che il consiglio di famiglia degli Arborio aveva approvato questa aggregazione. Non si tratta in questo caso di consortile, ma di «consiglio di famiglia»111. L’atto venne stipulato nella «prevostina» del castello di Arborio il 10 gennaio 1654112. Tutti i «gentiluomini del castello», cioè le famiglie componenti il consortile degli Arborio, «aventi interessi nel castello d’Arboro» aggregarono alla loro famiglia Alessandro

109 Torino 1639. Manno 1895-1906, vol. 16, p. 111.110 Vercelli 1658. De Gregory 1819-1824, parte III, p. 147; Dionisotti 1861, p. 60.111 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 31, f. 7, 1623-1742, all’interno del quale si trova una cartella indicata con “Arborio di Gattinara m. 31, fasc. 10/3”, Aggregazione del conte Alessandro Antonio Mella alla famiglia Arborio concessa dal marchese Mercurino Alfonso II Arborio di Gattinara e confermata dal Consiglio di Famiglia degli Arborio, 2-10 gennaio 1654. Il consiglio di famiglia era una riunione dei principali membri della famiglia nobile, durante la quale si prendevano importanti decisioni. Non sempre questo tipo di riunione lasciava una traccia scritta.112 La «prevostina» conteneva la cascina annessa alla residenza.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Antonio, figlio di Carlo Agostino Mella, avvocato e cittadino di Vercelli, e della signora Lucrezia Francesca del signor Alessandro Arborio, con tutti i diritti spettanti alla famiglia stessa113. I gentiluomini della famiglia Arborio presenti erano: Gabriele Emilio Biamino Arborio, cavaliere don Fabrizio di Giuseppe, Giovanni Francesco del fu Bernardo Comerro, Giovanni Battista del fu Nicola Biamino Arborio, Vittorio di Giovanni Battista, Vermondo Comerro del fu Amedeo Paolo Antonio fu Giuseppe Tetis, Francesco Antonio del fu Lodovico Arborio Greggio, Giuseppe Avogadro Balzola del fu Nicola, Carlo suo figlio114.

Il documento che attesta l’aggregazione del Mella è conservato in copia e ci illustra come ancora nel Seicento il sistema del consortile fosse un sistema giuridico utilizzato e accettato dalla legislazione per aggregare persone esterne alla propria famiglia, una via di compartecipazione e conservazione del titolo, del cognome e delle armi per via cognatizia e non solo agnatizia. La seconda considerazione che possiamo fare è la seguente: il documento fu probabilmente trascritto da un discendente della famiglia Arborio Mella, o meglio Mella Arborio, per dimostrare la propria discendenza e la propria legittimità d’appartenere alla casata degli Arborio. Abbiamo ritrovato alcune lettere di Giuseppe Arborio di Gattinara che, circa un secolo dopo l’aggregazione, nella sua corrispondenza al padre, lamentava l’illegittimità d’appartenenza alla casa Arborio dell’Arborio Mella. Prima la madre di Mercurino Francesco nel 1775 ricordava al figlio Mercurino un atto presente nel suo archivio di famiglia che attestava l’aggregazione del Mella alla famiglia Arborio, un atto che lei non riusciva a trovare al momento ma di cui ricordava l’esistenza115. La seconda lettera è del figlio di Mercurino Francesco Arborio di Gattinara, Giuseppe, che nel 1783, lamentava al padre il fatto che il conte Mella avesse assunto il cognome della propria casa, cioè Arborio, a detta sua illegittimamente, perché ciò comportava il fatto di usare le loro stesse «armi», cioè il blasone. Un’ultima lettera riferisce la stessa situazione116.

113 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 31, f. 7, 1623-1742, all’interno del quale si trova una cartella indicata con “Arborio di Gattinara m. 31, fasc. 10/3”, Aggregazione fatta della famiglia Arborea al Signore Alessandro Antonio Mella Arborio, 2-10 gennaio 1654.114 In fondo al documento sono indicate le firme delle stesse persone presenti: Giuseppe Biamino Arboreo, D. Fabrizio Arboreo Biamino, Gioanni Francesco Comerro Arboreo, Giovanni Battista Biamino-Arboreo, Vittorio Biamino Arboreo, Vermondo-Arboreo-Comerro, Paolo Antonio Tetis firmatari. Il documento riferisce che erano presenti anche alcuni Avogadro e il signore Arborio di Greggio, che non apposero la firma perché illetterati.115 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 99, f. 5, Mercurino Francesco I Arborio di Gattinara - Corrispondenza, 1764-1775, lettera del 25 febbraio 1775 della marchesa Salomone di Serravalle al figlio Mercurino Francesco Arborio di Gattinara.116 ASV, Archivio Arborio di Gattinara, m. 109, Giovanni Giuseppe Arborio di Gattinara - Corrispondenza, 1760 - 1839, lettera del 13 agosto 1763 di Mercurino Francesco Arborio di Gattinara

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A distanza di un secolo dall’aggregazione, la questione suscitava ancora perplessità e forse rancori da parte di un esponente della casa Arborio di Gattinara ed era ancora soggetta a verifica da parte del re sabaudo.

La nobiltà feudale nel Settecento: il consortile Avogadro e la nobiltà di spada

La nobiltà di spada settecentesca era costituita dalle famiglie di origine basso-medievale. Erano gli Avogadro, i Buronzo, i Tizzoni, le cui vicende furono molto diverse nei secoli. Queste famiglie tendevano a trasformarsi in nobiltà al servizio del duca sabaudo, altre famiglie ebbero sorti differenti: i Tizzoni iniziarono un lento declino nel Seicento che li portò a rimanere sostanzialmente senza feudi nel Settecento. La famiglia Avogadro conservò intatto il proprio patrimonio grazie a quella formula giuridica particolare che era il consortile aristocratico. Nel secolo XVIII il consortile Avogadro continuava giuridicamente a sopravvivere: gli accordi stipulati nel 1548 ancora erano il fondamento del consortile che continuava a riunirsi periodicamente ogni 18 anni. Di fatto molte erano le trasformazioni avvenute nell’ambito della nobiltà nello Stato sabaudo tanto che molti esponenti della nobiltà di servizio avevano raggiunto ruoli di primo piano, spesso più importanti dell’antica nobiltà di spada. Gli Avogadro non ebbero ruoli di prim’ordine né nella gestione della corte del sovrano sabaudo né tra i ruoli di governo più importanti dello Stato sabaudo né tanto meno nei ranghi dei quadri dirigenziali, affidati per lo più ai personaggi di estrazione borghese, nobilitatisi nel corso del Seicento, e continuarono nella politica di difesa del loro territorio e dei loro feudi.

La carta n. 4 mostra una sostanziale compattezza dei feudi della famiglia Avogadro localizzati a nord di Vercelli anche nel corso di un secolo - il XVIII - attraversato da una forte spinta alla creazione di nuove nobiltà da parte del sovrano117. La nobiltà degli Avogadro rappresentava in un certo senso la sopravvivenza di una nobiltà locale autoctona, eredità di una storia cittadina medievale.

Il consortile Avogadro è il nucleo centrale di una famiglia che fino al Settecento aveva sviluppato e mantenuto una politica di difesa del proprio territorio, di controllo delle principali istituzioni della politica cittadina - Vercelli e Biella - pur non entrando nei ranghi statali, e tuttavia riuscendo a non farsi sottrarre alcun territorio né nei difficili passaggi patrimoniali tra padre e figlio né nei casi di avocazione dei feudi del Seicento e del Settecento.

Nel Settecento il consortile Avogadro formalmente svolgeva le stesse funzioni esercitate nei secoli precedenti, ma aveva perso la sostanziale funzione di difesa dei

al figlio Giuseppe, conte di Viverone.117 Appendice iconografica, carte n. 4 e 5.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

propri feudi. Nelle settecentesche riunioni di consortile comparivano come principali non più i feudi, ma le questioni del baldacchino, cioè la funzione cerimoniale che costituiva la forma di rappresentazione simbolica principale del ruolo sociale della nobiltà in città.

Le riunioni di consortile reperite per il Settecento sono sostanzialmente due: la prima tenutasi nel 1765, la seconda nel 1783118. Si tratta di documentazione conservata grazie al fatto che in essa si trattava della questione del baldacchino. Non abbiamo notizia delle presunte riunioni del 1708, 1726 e 1744, convocate secondo gli statuti del 1548 ogni 18 anni, mentre è conosciuta la documentazione della riunione di famiglia di qualche ramo degli Avogadro119.

Il secolo XVIII costituì dal punto di vista amministrativo il punto più alto delle riforme accentratrici sabaude. Le riforme di Vittorio Amedeo II riguardarono, tra gli altri interventi, anche l’indiscusso dominio della nobiltà nelle città tramite la Credenza e il Collegio dei Dottori. Con la “Riforma dei Pubblici” del 1733 venne riformata completamente la gestione dei consigli comunali con l’inevitabile conseguenza della parziale perdita di potere dei consigli. Con l’eliminazione del Collegio dei Dottori nel 1723, Vittorio Amedeo II eliminava sostanzialmente un importante ruolo di potere della nobiltà cittadina, che a Vercelli coincideva con il potere giudiziario. Infatti il priore del Collegio dei Dottori era a un tempo il rappresentante del potere ducale in città (prefetto) e il detentore delle cause di secondo livello, a differenza di quanto accadeva in altre realtà piemontesi. Con le riforme amedeane anche la giustizia veniva uniformata e a un tempo veniva tolto un importante potere locale ai nobili (e ai nobili Avogadro in particolare, priori del Collegio dei Dottori): anche a livello sociale la nobiltà era attaccata in profondità.

Gli Avogadro erano tra coloro che detenevano il primato della carica più alta a livello cittadino, quella del priore del Collegio dei Dottori. Con la scomparsa di questo organo, parte del loro potere decadde. Non così i loro feudi, che nel tempo videro perdere il loro potere giuridico e aumentare la rendita agricola. In una società non industrializzata le entità produttive principali erano agricole. Nobili e clero detenevano la maggior parte di queste unità produttive. La famiglia Avogadro si mantenne prospera, nonostante la profonda trasformazione delle realtà amministrative

118 Una copia della riunione generale del 1765 è conservata in: ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 1, Testimoniali di congrega generale dell’Illustrissima e nobilissima famiglia Avogadro della città e diocesi di Vercelli, 15 maggio 1765. Due copie della riunione del 1783 sono conservate in: ASB, Archivio Avogadro di Valdengo, m. 5, f. 34, Testimoniali di congrega generale della famiglia Avogadro, 2 agosto 1783; ASV, Archivio Avogadro di Quinto, m. 1, Testimoniali di congrega generale dell’illustrissima famiglia Avogadro della presente città di Vercelli, e sua diocesi, 2 agosto 1783.119 Un esempio è dato da: ASB, Archivio Avogadro di Valdengo, m. 8, f. 74, Testimoniali di riunione dei confeudatari del consortile di Vigliano, Valdengo e Monte Cavallo, 20 agosto 1790.

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locali. Non entrò nei quadri dell’amministrazione sabauda, come fecero altri nobili vercellesi che divennero governatori e intendenti; continuò nella gestione locale del potere in cui rientrava amministrare la Credenza e altre importanti istituzioni, come l’Ospedale Maggiore (molto ricco di beni immobili), l’Ospizio dei poveri, il Collegio delle Orfane e il Monte di Pietà.

In conclusione, i consortili testimoniano nel Vercellese una specificità della gerarchia sociale che ha caratteri di peculiarità: vitalità di forme giuridiche di difesa, estraneità da parte degli Avogadro al potere statale, capacità di negoziare con le istituzioni centrali. La storia torinocentrica, secondo la prospettiva della provincia, si arricchisce di inediti dettagli che contribuiscono a cogliere le varie caratteristiche della nobiltà e dei suoi incessanti tentativi di mantenere il potere adattandosi al mutare delle circostanze.

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Appendice iconografica

Le seguenti carte sono il frutto della nostra elaborazione personale e sono state effettuate con il prezioso contributo della professoressa Raffaella Afferni, che ringrazio sentitamente.

Le carte, dal punto di vista storico, sono state realizzate sulla base di documenti d’archivio: ASCV, Consegnamenti delle boche della città e terre - Consegnamento de’ grani 1578, armadio 74, mazzo f; Libri di consegna bocche e analoghi 1618-1675, armadio 74, mazzo f; i dati riportati in Rosso 2011. Un utile confronto è risultato con Tallone 1901, Guasco di Bisio 1911 e Manno 1895-1906.

Dal punto di vista della realizzazione grafica, le carte tematiche sono state costruite utilizzando ArcGis 9.3 di ESRI, un software GIS (Geographic Information System - Sistema Informativo Geografico) che permette di realizzare carte georeferenziando i dati.

A partire dai dati sui possedimenti delle diverse famiglie nel Vercellese, sono state create delle carte tematiche a mosaico e con l’utilizzo delle sfumature di grigio sono state distinte le diverse famiglie/marchesati, etc.

Le basi utilizzate per la rappresentazione cartografica sono quelle comunali (in formato shp - shapefile) fornite dall’ISTAT (www.istat.it), con delimitazione 2008.

Non è stato possibile indicare nella realizzazione grafica tutte le località presenti nei documenti; si tratta di località molto piccole e di cascinali. Si rimanda perciò alla consultazione delle fonti per avere informazioni specifiche.

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Legenda1 PRINCIPATO DI MASSERANO E MARCHESATO DI CREVACUORE2 BURONZO3 ROVASENDA4 CAPITANATO DI SANTHIÀ5 RIVIERA SUPERIORE6 RIVIERA INFERIORE7 VERCELLI8 CRESCENTINO9 MARCHESATO DI MONFERRATO

Gattinara

Vercelli

Santhià

TrinoCrescentino

1

47

25

5

5

5

5

8

8

3

6

6

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Carta n. 1 - Distretto di Vercelli (1564-1578)

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Gattinara

Vercelli

Santhià

TrinoCrescentino

5

4

3

2

1

Carta n. 2 - Distretto di Vercelli (1638)

Legenda1 PRINCIPATO DI MASSERANO E MARCHESATO DI CREVACUORE2 BURONZO3 ROVASENDA4 CAPITANATO DI SANTHIÀ5 RIVIERA SUPERIORE6 RIVIERA INFERIORE7 VERCELLI8 CRESCENTINO9 MARCHESATO DI MONFERRATO10 TIZZONI

68

6

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5

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Sabrina Balzaretti

Legenda1 PRINCIPATO DI MASSERANO E MARCHESATO DI CREVACUORE2 BURONZO3 AVOGADRO4 CAPITANATO DI SANTHIÀ5 ARBORIO6 FEUDI AVOCATI7 VERCELLI8 CRESCENTINO9 MARCHESATO DI MONFERRATO10 TIZZONI

Gattinara

Vercelli

Santhià

TrinoCrescentino

Carta n. 3 - Feudi (1618)

1

8

7

66

910

6

66

6

5

4

2

3

3

3

3

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Gattinara

Vercelli

Crescentino

Carta n. 4 - Feudi (1720 - 1722)

Legenda1 ROVASENDA2 BURONZO3 AVOGADRO4 FEUDI VENDUTI 1730-17665 ARBORIO6 FEUDI AVOCATI 17207 VERCELLI8 CRESCENTINO9 FEUDI VENDUTI DOPO IL 1766

2

3

3

3

3

4

44

51

66 6

6

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8 9

9 9

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Sabrina Balzaretti

Legenda1 ROVASENDA2 BURONZO3 AVOGADRO4 VALPERGA5 ARBORIO6 TIZZONI–– CONFINI PROVINCIA DI VERCELLI

Carta n. 5 - Provincia di Vercelli (post 1720)

1

2

3

3

44

5

6

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Bibliografi a

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Ardizio 2014Gabriele Ardizio, Complessi fortifi cati e territorio: soluzioni costruttive e problemi insediativi, sezione (pp. 660-686) nell’ambito del contributo, redatto con Eleonora Destefanis, Architettura fortifi cata nel territorio vercellese nel XV secolo: per una rifl essione archeologica, in “Vercelli fra Tre e Quattrocento. Atti del Sesto Congresso Storico Vercellese”, Vercelli, 22-23-24 novembre 2013, a cura di A. Barbero, Vercelli 2014, pp. 659-726

Ardizio 2015Gabriele Ardizio, Le origini dell’incastellamento nel Vercellese storico: fonti scritte ed evidenze archeologiche, in “Prima dei castelli medievali: materiali e luoghi nell’arco alpino occidentale”, Atti della tavola rotonda (Rovereto, 29 ottobre 2013), a cura di B. Maurina, C. A. Postinger, Rovereto 2015, pp. 101-129.

Ardizio 2016Gabriele Ardizio, Strutture fortifi cate nel territorio vercellese in età romanica: linee per una ricerca archeologica alla luce del caso studio del castello di Buronzo (Vercelli), in “Romanico piemontese, Europa romanica. Architetture, circolazione di uomini e idee, paesaggi”, Atti del convegno (Vercelli, 12 ottobre 2014), a cura di S. Lomartire, Livorno 2016, pp. 80-88.

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Sabrina Balzaretti

Balzaretti 2012Sabrina Balzaretti, Contributo allo studio della nobiltà vercellese dalla pace di Cateau-Cambrésis all’Unità d’Italia. Nobili, patrizi e cittadini in un territorio di periferia all’epoca della costituzione e affermazione degli Stati nazionali, tesi di dottorato di ricerca in Scienze Storiche, XXV ciclo, coordinatore prof. A. Torre, tutor prof. Edoardo Tortarolo, Università degli Studi del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro», a .a. 2009-2012.

Barale 1966Vittorino Barale, Il principato di Masserano e il marchesato di Crevacuore. Con una nota introduttiva di P. Torrione sulla protostoria del biellese orientale, Biella 1966.

Barbero 1989Alessandro Barbero, Savoiardi e Piemontesi nel ducato sabaudo all’inizio del Cinquecento: un problema storiografico risolto?, in “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, 87 (1989), pp. 591-637.

Barbero 2005Alessandro Barbero, Da signoria rurale a feudo: i possedimenti degli Avogadro fra il distretto del comune di Vercelli, la signoria viscontea e lo stato sabaudo, in “Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme di esercizio”. Atti del convegno (Milano, 11-12 aprile 2003), a cura di F. Cengarle, G. Chittolini e G. M. Varanini, Firenze 2005, pp. 31-45.

Barbero 2008Alessandro Barbero, Storia del Piemonte. Dalla preistoria alla globalizzazione, Torino 2008.

Barbero 2010Alessandro Barbero, Signorie e comunità rurali nel Vercellese fra crisi del districtus cittadino e nascita dello stato principesco, in “Vercelli nel secolo XIV. Atti del Quinto Congresso Storico Vercellese (Vercelli, 28-29-30 novembre 2008)”, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 411-510.

Bennini 2007Martine Bennini, Mémoire, implanation et stratégies familiales: les Leclerc de Lesseville (XVIe - XVIIIe siècles), in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 54-3 (2007), pp. 7-39.

Bianchi - Merlotti 2002Paola Bianchi - Andrea Merlotti, Cuneo in età moderna. Città e Stato nel Piemonte d’antico regime, Milano 2002.

Bracco 2002Giuseppe Bracco, Uomini, campi e risaie nell’agricoltura del Vercellese fra età moderna e contemporanea, Vercelli 2002.

Bordone - Castelnuovo - Varanini 2004Renato Bordone - Guido Castelnuovo - Gian Maria Varanini, L’aristocrazia dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari 2004.

Bulferetti 1953Luigi Bulferetti, La feudalità e il patriziato nel Piemonte di Carlo Emanuele II (1663-1675), Cagliari 1953.

Bulferetti - Luraghi 1966Luigi Bulferetti - Raimondo Luraghi, Agricoltura industria e commercio in Piemonte dal 1790 al 1814, Torino 1966.

Caligaris 2015Fulvio Caligaris, Genealogia della famiglia Arborio Gattinara - dopo Mercurino, in “Mercurino

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

Cardinale e Gran Cancelliere di Carlo V e la Famiglia Arborio Gattinara - 550° anniversario della nascita 1465-2015”, Atti del Convegno di Studi Storici, Gattinara 3-4 ottobre 2015, Gattinara 2016, pp. 15-53.

Cappelletti 2008Silvia Cappelletti, Il patrimonio dell’abbazia di Lucedio nel Medioevo XII-XIII secolo, Genova 2008.

Capuano 2008Laura Capuano, Per il re o per il duca, Biella 2008.

Cardoza 1999Anthony L. Cardoza, Patrizi in un mondo plebeo. La nobiltà piemontese nell’Italia liberale, Roma 1999 (ed. orig. Aristocrats in bourgeois Italy. The Piedmontese Nobility, 1861-1930, Cambridge 1997).

Carpanetto - Ricuperati 1986Dino Carpanetto - Giuseppe Ricuperati, L’Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, Lumi, Roma-Bari 1986.

Casalis 1849Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, vol. XVIII/1, Torino 1849.

Cassetti 1986Maurizio Cassetti, Le origini del monastero di S. Pietro di Lenta e i suoi primi sviluppi, in “Arte e storia di Lenta. Atti del convegno di studi (aprile 1981)”, Vercelli 1986, pp. 311-335 (il saggio è stato riproposto in M. Cassetti, Storia del monastero benedettino di San Pietro di Lenta, s.l. 2017, pp. 1-23).

Cengarle 2010Federica Cengarle, Il distretto fiscale di Vercelli sotto Gian Galeazzo Visconti (1378-1402): una proposta di cartografia informatica, in “Vercelli nel secolo XIV. Atti del Quinto Congresso Storico Vercellese (Vercelli, 28-29-30 novembre 2008)”, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 377-410.

Cozzo 2016Paolo Cozzo, La questione dei feudi ecclesiastici del Piemonte nell’Istoria delle Relazioni fra Roma e Torino di Ottavio Moreno (1832), in “Studi Piemontesi”, 45 (2016), fasc. 2, pp. 451-460.

Cremonini - Musso 2010I feudi imperiali in Italia tra XV e XVIII secolo. Atti del Convegno di studi (Albenga-Finale Ligure-Loano, 27-29 maggio 2004), a cura di C. Cremonini e R. Musso, Bordighera-Albenga 2010.

D’Alessandro - Givone 1990Palmina D’Alessandro, Enzo Givone, I signori di Buronzo dalle origini alla dedizione del 1373 ad Amedeo VI di Savoia, in “Il castello di Buronzo e il suo consortile nobiliare”, Vercelli 1990.

De Gregory 1819-1824Gaspare De Gregory, Istoria della Vercellese letteratura ed arti, Torino 1819-1824.

Destefanis 2007Eleonora Destefanis, Gli edifici dell’abbazia di Lucedio nella documentazione scritta e cartografica secoli XII-XX, Genova 2007.

Destefanis 2010Eleonora Destefanis, Strutture fortificate del secolo XIV nel territorio vercellese: tracce per un’indagine, in “Vercelli nel secolo XIV. Atti del Quinto Congresso Storico Vercellese, Vercelli, 28-29-30 novembre 2008”, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 587-640.

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200

Sabrina Balzaretti

Dewald 2001Jonathan Dewald, La nobiltà europea in età moderna, Torino 2001 (ed. orig. The European Nobility 1400-1800, Cambridge 1996).

Dionisotti 1861Carlo Dionisotti, Notizie biografiche dei Vercellesi illustri, Biella 1861.

Donati 1988Claudio Donati, L’idea di nobiltà in Italia (sec. XIV-XVIII), Roma-Bari 1988.

Ferrara 2017Michela Ferrara, Questione di nobiltà: i Bellini “nobili di Vintebbio e Bornate”, in “Bollettino Storico Vercellese”, 46 (2017), n. 88, pp. 79-104.

Ferrari 1999Miriam Clelia Ferrari, Greggio. Mille anni e mille ancora, Vercelli 1999.

Ferretti 1984Franco Ferretti, Un borgo franco vercellese di nuova fondazione: Gattinara, in “Vercelli nel secolo XIII. Atti del primo congresso storico vercellese (Vercelli, 2-3 ottobre 1982)”, Vercelli 1984, pp. 393-449.

Ferretti 1989Franco Ferretti, Le famiglie del consorzio signorile di Arborio nei secoli XIV-XV, in “Bollettino Storico Vercellese”, 18 (1989), n. 33, pp. 5-42.

Ferretti 1995Franco Ferretti, I Signori di Arborio del ramo “de castro Arborii”, in “Bollettino Storico Vercellese”, 24 (1995), n. 45, pp. 69-88.

Filosso 1998-1999Daniela Filosso, Gli Avogadro di Quinto nel contesto feudale e cittadino (secoli XVII e XVIII), tesi di laurea, Università del Piemonte Orientale, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1998-1999, relatore prof. Edoardo Tortarolo.

Gorini 1958Ernesto Gorini, Edizioni vercellesi del Seicento con un’appendice a “La Stampa a Vercelli nel secolo XVI”. Saggio storico-bibliografico, Parma 1958.

Guasco di Bisio 1911Francesco Guasco di Bisio, Dizionario feudale degli antichi Stati sardi e della Lombardia (dall’epoca carolingica ai nostri tempi) (774-1909), Pinerolo 1911.

Guerci 1986Luciano Guerci, Permanenze e mutamenti nell’Europa del Settecento, Torino 1986.

Labatut 1999Jean Pierre Labatut, Le nobiltà europee dal XV al XVIII secolo, Bologna 1999.

Levi 1985Giovanni Levi, Centro e periferia di uno stato assoluto. Tre saggi su Piemonte e Liguria in età moderna, Torino 1985.

Manno 1895-1906Antonio Manno, Il Patriziato subalpino. Notizie di fatto, storiche, genealogiche, feudali ed araldiche desunte da documenti, 2 voll., Firenze 1895-1906 (i volumi successivi al secondo si conservano

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

dattiloscritti presso l’Archivio di Stato di Torino, la Biblioteca Nazionale di Torino e la Biblioteca Reale di Torino).

Menant 2011François Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), traduzione e cura di E. Igor Mineo, Roma 2011.

Merlin 1995Pierpaolo Merlin, Emanuele Filiberto. Un principe tra il Piemonte e l’Europa, Torino 1995.

Merlin - Rosso - Symcox - Ricuperati 1994Pierpaolo Merlin - Claudio Rosso - Geoffrey Symcox - Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in “Storia d’Italia”, a cura di G. Galasso, vol. VIII, Torino 1994.

Milani 2005Giuliano Milani, I comuni italiani: secoli XII-XIV, Roma 2005.

Mola di Nomaglio 2006Gustavo Mola di Nomaglio, Feudi e nobiltà negli Stati dei Savoia: materiali, spunti, spigolature bibliografiche per una storia: con la cronologia feudale delle valli di Lanzo, Lanzo Torinese 2006.

Mongilardi 1947Beppe Mongilardi, Antiche famiglie biellesi. I Mella, in “Rivista Biellese”, aprile-marzo 1947, pp. 17-19.

Mozzarelli - Venturi 1991L’Europa delle corti alla fine dell’antico regime, a cura di C. Mozzarelli e G. Venturi, Roma 1991.

Musi 2007Aurelio Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna 2007.

Musi - Noto 2011Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell’Italia meridionale, a cura di A. Musi e M. A. Noto, Palermo 2011.

Negro 2015Flavia Negro, Un documento sulla signoria di Simone Avogadro di Collobiano fra le pergamene medievali della Biblioteca Agnesiana di Vercelli, in “Bollettino Storico Vercellese”, 44 (2015), n. 84, pp. 5-58.

Panero 2010Francesco Panero, Vescovi e comunità rurali nella diocesi di Vercelli durante la prima metà del Trecento, in “Vercelli nel secolo XIV. Atti del Quinto Congresso Storico Vercellese (Vercelli, 28-29-30 novembre 2008)”, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 511-526.

Pantò 2016Gabiella Pantò, Quinto Vercellese. Castello degli Avogadro di Quinto. Indagini archelogiche, in “Quaderni della Soprintendenza archeologica del Piemonte”, 31 (2016), pp. 326-329.

Perosa 1889Marco Perosa, Bulgaro (Borgovercelli) e il suo circondario. Monografia con illustrazioni, Vercelli 1889.

Pini 1981Antonio Ivan Pini, Dal Comune città-stato al Comune ente amministrativo, in “Storia d’Italia”, a cura di G. Galasso, vol. IV, Torino 1981, pp. 451-587.

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Sabrina Balzaretti

Provero 2010Luigi Provero, Pluralità di poteri e strutture consortili nelle campagne del Piemonte meridionale (XII-XIII secolo), in “Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age”, n. 122/1 (2010), pp. 55-62.

Quazza 1992Guido Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Cavallermaggiore 19922 (prima ed. Modena 1957).

Rao 2010Riccardo Rao, Comune e signoria a Vercelli, in “Vercelli nel secolo XIV, Atti del Quinto Congresso Storico Vercellese (Vercelli, 28-29-30 novembre 2008)”, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 21-62.

Raviola 2003Blythe Alice Raviola, Il Monferrato gonzaghesco. Istituzioni ed élites di un micro-stato (1536-1708), Firenze 2003.

Raviola 2007Cartografia del Monferrato. Geografia, spazi interni e confini in un piccolo Stato italiano tra Medioevo ed Ottocento, a cura di B. A. Raviola, Milano 2007.

Raviola 2014Corti e diplomazia nell’Europa del Seicento: Correggio e Ottavio Bolognesi (1580-1646), a cura di B. A. Raviola, Mantova 2014.

Ricuperati 1986Giuseppe Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989.

Ricuperati 2001Giuseppe Ricuperati, Lo Stato sabaudo nel Settecento: dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’antico regime, Torino, 2001.

Ricuperati 2002Storia di Torino. Dalla città razionale alla crisi dello Stato d’Antico Regime (1730-1798), a cura di G. Ricuperati, vol. V, Torino 2002.

Ricuperati 2006Giuseppe Ricuperati, Frontiere e limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, Torino 2006.

Rosso 1992Claudio Rosso, Una burocrazia di Antico Regime: i segretari di stato dei duchi di Savoia, I (1559-1637), Torino 1992.

Rosso 2011Claudio Rosso, Vercelli “spagnola” 1637-1659, in “Storia di Vercelli in età moderna e contemporanea”, a cura di E. Tortarolo, vol. II, Torino 2011, p. 268-269.

Sarasso 1994Michela Sarasso, I signori Confalonieri di Balocco (1179-1500), in “Bollettino Storico Vercellese”, 23 (1994), n. 43, pp. 5-39.

Scribante 2015Federico Scribante, Genealogia della famiglia Arborio Gattinara - prima di Mercurino, in “Mercurino Cardinale e Gran Cancelliere di Carlo V e la Famiglia Arborio Gattinara - 550° anniversario della

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La nobiltà di spada nel Vercellese in età moderna

nascita 1465-2015”, Atti del Convegno di Studi Storici, Gattinara 3-4 ottobre 2015, Gattinara 2016, pp. 7-13.

Settia 2001Aldo A. Settia, L’illusione della sicurezza. Fortificazioni di rifugio nell’Italia medievale “ricetti”, “bastite”, “cortine”, Vercelli-Cuneo 2001.

Stumpo 1979Enrico Stumpo, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979.

Tabacco 1977Giovanni Tabacco, Le rapport de parenté comme instrument de nomination consortiale: quelque exemples piémontais, in “Famille et parenté dans l’Occident médiéval. Actes du colloque de Paris (6-8 juin 1974)”, Rome 1977, pp. 153-158.

Tabacco 1994Giovanni Tabacco, Ghibellinismo e lotte di partito nella vita comunale italiana, in “Federico II e le città italiane”, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 335-343.

Tallone 1901Armando Tallone, Il Distretto di Vercelli od il Vercellese nel 1564 secondo i Capitoli XXII e XXIII delle Costituzioni dell’Ospedale di S. Andrea, Vercelli 1901.

Tibaldeschi 2014Giorgio Tibaldeschi, “I Libri Inquisitionum” e i “Libri Condempnacionum” del Comune di Vercelli, in “Vercelli fra Tre e Quattrocento. Atti del Sesto Congresso Storico Vercellese”, Vercelli, 22-23-24 novembre 2013, a cura di A. Barbero, Vercelli 2014, pp. 319-368.

Tigrino 2015Vittorio Tigrino, Feudi pontifici e Stato sabaudo nel Settecento: la guerra di scritture sui «feudi dell’Asteggiana», in “Casa Savoia e Curia romana dal Cinquecento al Risorgimento”, a cura di J.F. Chauvard, A. Merlotti, M. A. Visceglia, Roma 2015, pp. 357-384.

Torre 2007Per vie di terra. Movimenti di uomini e di cose nelle società di antico regime, a cura di A. Torre, Milano 2007.

Torre 2011Angelo Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma 2011.

Tortarolo 2011Storia di Vercelli in età moderna e contemporanea, a cura di E. Tortarolo, Torino 2011, vol. I.

Vallerani 2010Tecniche di potere nel tardo medioevo. Regimi comunali e signorie in Italia, a cura di M. Vallerani, Roma 2010.

Visconti 2008Katia Visconti, Il commercio dell’onore. Un’indagine prosopografica della feudalità nel Milanese di età moderna, Milano 2008.

Viviani 2002Ambrogio Viviani, Storia di Rive (400 a. C. - 1945 d. C.), Vercelli 2002.

Woolf 1963Stuart J. Woolf, Studi sulla nobiltà piemontese nell’epoca dell’assolutismo, Torino 1963.

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204

Sabrina Balzaretti

RiassuntoLo studio indaga la strategia seguita dalle famiglie nobili nell’area del Piemonte Orientale, concentrandosi sulla zona del Vercellese lungo il periodo dell’età moderna (XV-XVIII secolo). Esso sostiene che un aspetto cruciale della loro strategia fu il consortile, che rese possibile la conservazione dei possedimenti feudali all’interno del più ampio sistema familiare stabilito dal consortile fino alla fine del secolo XVIII. La tempestiva istituzione dei consortili incoraggiò i membri senza figli ad aggregare persone estranee al nucleo familiare, cosicché la rete delle famiglie imparentate si sarebbe rinforzata e il loro potere feudale non sarebbe stato in pericolo. In particolare, il saggio prende in considerazione i casi degli Avogadro di Quinto e degli Arborio Mella per i quali le fonti forniscono una chiara prova dell’esistenza e del funzionamento, giuridico e simbolico, del consortile.

AbstractThis paper investigates the strategy pursued by noble families in the area of Eastern Piedmont around Vercelli in the early modern period (15th-18th centuries). It argues that a crucial aspect of their strategy was the noble consortium, which made possible the preservation of feudal possessions within the boundaries of the wider family system sanctioned as a consortium until the end of the 18th century. The timely establishment of consortia encouraged childless parents to aggregate members from outside so that the network of kindred families would be strengthened and their feudal power would not be put in jeopardy. This paper examines in particular the cases of the Avogadro di Quinto and Arborio Mella for which archival sources give ample evidence of the existence and functioning, juridical as well as symbolic, of consortia.

[email protected]

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RECENSIONI E SEGNALAZIONI

Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza Archeo-logia del Piemonte, Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, 31, Torino 2016, pp. 373, ill. ISSN 0349-0160.

Il numero 31 dei Quaderni della Soprin-tendenza Archeologica del Piemonte presenta, come di consueto, una ricca silloge di dati ine-renti l’ambito archeologico piemontese, e in tale contesto spiccano alcuni contributi che riguar-dano l’area del Vercellese storico. Essi verranno pertanto presentati in una succinta panoramica, seguendo l’ordine cronologico.

In riferimento al periodo preistorico si pos-sono in primo luogo segnalare i risultati derivanti da articolati progetti di ricognizione e prospezio-ne geoarcheologica in ambito biellese. Fra 2013 e 2015 un’estesa fascia montana nell’alta Val Sessera, compresa nei territori comunali di Bio-glio, Veglio, Mosso Santa Maria, Campiglia Cer-vo, Valle Mosso, Quittengo, Valle San Nicolao e Camandona (pp. 214-217), è stata oggetto di una survey finalizzata all’individuazione di tracce di frequentazione preistorica, sulla scorta di modelli di ricerca già sperimentati con successo nell’arco alpino orientale.

Mediante ricognizioni non sistematiche, che hanno comportato anche l’esecuzione di sondaggi localizzati, si sono potute individuare tracce signi-ficative di presenza antropica nel vallone fra le alpi Isolà di Sopra e Isolà di Sotto, esemplificate da re-perti riconducibili ad industrie litiche, per le quali - tuttavia - non è del tutto agevole proporre cro-

nologie più precise al di là della collocazione nel generico orizzonte preistorico. Le indagini, che hanno suggerito la sussistenza in antico di percor-si in cresta, hanno inoltre condotto all’individua-zione, presso la località Monte Camparient, di una struttura semicircolare in pietra, le cui funzioni, in mancanza al momento di dati materiali significati-vi in merito, sono oggetto di riflessione. Il progetto ha aperto interessanti prospettive di ricerca che, in continuità con l’indagine avviata sul campo, com-porteranno attività di sperimentazione condotte su materie prime locali, al fine di ricavare dati utili per un confronto con l’evidenza archeologica.

Simili modalità di indagine, basate sulla pro-spezione geoarcheologica, hanno riguardato an-che la fascia baraggiva compresa fra Massazza, Candelo e Verrone (pp. 219-222), oggi in larga misura interessata dalla presenza di zone delimi-tate soggette a vincolo militare. In tali contesti si è svolta nel 2015 una survey, che ha affiancato alle ricognizioni sul terreno la fotointerpretazio-ne di immagini acquisite da fonti satellitari e me-diante l’impiego di droni a controllo remoto: il contributo in esame, dopo un interessante status quaestionis sulle evidenze riconducibili al Pale-olitico in ambito piemontese, inquadra i risultati ottenuti in un orizzonte riferibile al Paleolitico Medio. Significative le attestazioni di industria

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Recensioni e segnalazioni

litica, che spesso prevedono l’impiego di quar-zo di vena raccolto sotto forma di ciottoli. Anche questi dati contribuiscono ad evidenziare la rile-vanza - certamente maggiore rispetto a quanto si riteneva in passato - delle frequentazioni nell’am-bito cronologico suddetto.

Sempre rimanendo nell’ambito dell’attuale Biellese, si possono quindi segnalare le conside-razioni circa la datazione dendrocronologica di un cospicuo gruppo di campioni lignei (80 unità) provenienti dai pali in quercia del sito palafittico-lo di Viverone (pp. 226-229), risalente alla media età del Bronzo, con frequentazioni sporadiche nel Neolitico e nel Bronzo finale. L’indagine ha con-sentito di individuare una sequenza di interventi costruttivi, globalmente inquadrabili nell’ambito del XV secolo a. C., e - in riferimento al Bronzo Medio - ha aperto stimolanti interrogativi, susci-tati dalla presenza di un significativo gruppo di manufatti bronzei databili ad un momento ante-cedente, forse da ricondurre ad una deposizione, con valenze rituali o legata all’ambito funerario.

I risultati dell’indagine aggiungono un ulte-riore tassello alla conoscenza ed allo studio del sito, di recente interessato anche da attività qua-lificate di valorizzazione e divulgazione rivolte al grande pubblico, concretizzatesi nel 2015 nell’al-lestimento di un’installazione sul lungolago di Viverone, connessa ai percorsi culturali ed escur-sionistici della Via Francigena e del Cammino di San Carlo (pp. 225-226).

Spostandosi quindi in ambito valsesiano, due puntuali contributi sono dedicati alle indagini in corso sul Monte Fenera, con particolare rife-rimento al deposito paleontologico della grotta della Morgana (frammenti ossei di diverse specie animali, fra le quali l’ursus spelaeus) e della grot-ta della Ciota Ciara (rispettivamente pp. 320-323 e 323-326). In questo sito il prosieguo degli scavi ha confermato la significativa presenza dell’ho-mo neanderthalensis, evidenziandone le capaci-tà di adattamento alle peculiarità ambientali, ed ha messo in luce una sepoltura ad inumazione di età tardoantica, riferibile ad un individuo di sesso femminile deceduto in giovane età (circa

15 anni), deposto in cassa laterizia con originaria copertura in materiale deperibile.

Per quanto invece riguarda l’ambito crono-logico di Età Romana, sul territorio considerato spiccano, per la quantità di dati disponibili, gli in-terventi effettuati fra Cavaglià e Santhià nell’am-bito della realizzazione del metanodotto SNAM (pp. 329-333). Le attività di tutela e assistenza archeologica hanno posto in risalto numerose evidenze, ancor più significative poiché riferite ad un contesto “per il quale erano fino a oggi noti esclusivamente dati generici di ritrovamenti”, perlopiù riferibili a segnalazioni ottocentesche.

Il panorama che va emergendo da tale disa-mina vede la presenza, in Età Romana, di un po-polamento diffuso, connesso al tracciato Vercel-lae-Eporedia, ben esemplificato dai rinvenimenti effettuati a Santhià in località Pragilardo, consi-stenti in una necropoli e in un impianto insediativo rustico. La necropoli, comprendente una ventina di sepolture ad incinerazione in fossa terragna, è dislocata in prossimità di un tracciato stradale con fondo inghiaiato, recante tracce di passaggio di carri. La maggior parte delle tombe è collocata in un settore definito da una recinzione e caratteriz-zata da lacerti di acciottolato, e vede un’organizza-zione delle sepolture particolarmente significativa in funzione della ricostruzione della struttura del gruppo umano di riferimento e della proposta di una cronologia relativa. Degno di nota è il conte-sto della tomba principale (t. 1), collocabile in età augustea, che ha restituito, oltre ad una ricca dota-zione di corredo, alcuni resti bronzei riconducibili al ferculum, cioè la lettiga sulla quale veniva posto il feretro durante la cremazione.

A poco più di 200 metri dalla necropoli, nell’ambito del medesimo intervento, si sono quindi posti in luce i resti di un insediamento rustico, il cui sviluppo si può collocare fra l’età augustea e il II secolo d. C. Le tracce di appre-stamenti produttivi e strutture di riparo verosi-milmente destinate ad animali o prodotti agricoli evocano la presenza di un complesso interessato, verso la metà del I secolo d. C., da risistemazioni (realizzazione di drenaggio) e nuove edificazioni,

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Recensioni e segnalazioni

attuate anche mediante l’impiego di elementi di spoglio. Le caratteristiche costruttive ed i mate-riali utilizzati lasciano trasparire una certa qua-lità costruttiva, e concorrono nel delineare tali evidenze come riferibili alla pars rustica di una villa più ampia ed articolata.

Sempre riferite ad operazioni di assisten-za archeologica sono anche le considerazioni proposte nel contributo relativo alle ricognizio-ni svolte in area biellese fra Cervo ed Elvo, nel quadro della posa di un impianto di irrigazione a pioggia riguardante i territori comunali di Cerrio-ne, Borriana, Sandigliano, Cossato e Mottalciata (pp. 217-219). In questo caso l’indagine non ha restituito evidenze particolarmente significative dal punto di vista archeologico, e proprio questo “silenzio” ha creato i presupposti per una artico-lata riflessione sulle forme del popolamento in Età Romana nell’area. A fronte di una disamina delle informazioni archeologiche pregresse, e di valutazioni che si soffermano anche sul quadro toponomastico della zona (particolarmente in ri-ferimento ai toponimi Benna e Bessa), si formula l’ipotesi che la fascia compresa fra i due torrenti possa configurarsi in antico come ager compa-scuus fra Vercellae ed Eporedia, assegnato a co-loni dopo la battaglia dei Campi Raudii.

Tra Tarda Antichità e Medioevo si collocano le evidenze messe in luce dagli scavi condotti a Biella in piazza Duomo (pp. 211-213): l’interven-to arricchisce il quadro delle conoscenze relative a questo settore del tessuto urbano, già oggetto, anche in un passato recente, di indagini stratigra-fiche. Nel settore settentrionale della piazza si è rinvenuta la facciata della pieve di Santo Stefano, demolita nel 1872: le strutture murarie - in ciot-toli fluviali annegati in abbondante malta - sono conservate a livello di fondazione, ma risultano chiaramente leggibili nei loro lineamenti plani-metrici. Una cospicua serie di sepolture in cassa laterizia, pesantemente manomesse dagli inter-venti ottocenteschi di sistemazione della piazza, è emersa nell’area antistante la facciata, e si può prevalentemente riferire ai secoli XIV-XVI, an-che se è individuabile un ristretto nucleo di tom-

be riconducibile all’Alto Medioevo. In appendice al contributo si propone una disamina dei reperti monetali rinvenuti nell’ambito del cimitero, ed in tale sede spicca la presenza di un nucleo di esem-plari bizantini, relativamente ai quali si propon-gono alcune considerazioni inerenti ad aspetti rituali connessi alla loro collocazione in contesto funerario.

Una lunga e complessa sequenza di interven-ti costruttivi è restituita anche dal sito vercellese di Quinto (pp. 326-329), dove le indagini strati-grafiche condotte nel castello hanno portato alla luce - nella porzione sud- est del cortile interno - i resti riconducibili ad una prima fase fortifi-catoria, inquadrabile nel XI-XII secolo e rappre-sentata da poderose strutture murarie impostate su basoli stradali di Età Romana. Un successivo intervento costruttivo amplia la superficie del fortilizio, occupando spazi precedentemente non edificati, e ad una terza fase - tra XII e XIII seco-lo - va infine riferita la realizzazione di un com-plesso costituito da una nuova cortina muraria in laterizi (modulo 30/32 x 11 x 6/8 cm) alla quale si addossano alcuni ambienti e il dongione a base quadrata sul lato nord.

È in questo momento che si può vero-similmente collocare anche l’edificazione della cappella castellana di San Pietro, che vede l’im-piego, oltre che di laterizi di recupero, ancora di basoli romani, e risulta impostata su un rialzo artificiale. Il piccolo edificio sacro è quindi inte-ressato nel XV secolo da una radicale risistema-zione, contestuale alla realizzazione di gran parte del pregevole ciclo pittorico che ne caratterizza tuttora l’interno. A partire da questo momento si colloca anche la fitta serie di sepolture in sempli-ce fossa terragna, o in cassa laterizia, dislocate all’interno dell’aula liturgica, prevalentemente riferibili ad individui in età infantile.

Può forse essere suggestivamente ricondotta ad un impianto fortificatorio anche la poderosa struttura muraria in ciottoli ed elementi litici sbozzati, legati con argilla, messa in luce a Cava-glià, presso la località Torrine (pp. 223-225). Le caratteristiche costruttive del manufatto ricorda-

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no le cosiddette “chiuse longobarde” di Viverone, vasto sistema di muraglioni a secco dislocato a sud del lago, e variamente interpretato dalla sto-riografia sin dal XIX secolo. Una datazione ad epoca altomedievale è suggerita dal rinvenimento di frammenti di pietra ollare inclusi nella struttu-ra. In questa prospettiva si evidenzia come i dati emersi possano contribuire a ravvivare il dibattito sul tema delle chiuse, che “nel corso degli ultimi anni sembra essere assopito”, in riferimento al quale si propone un succinto status quaestionis.

È invece attinente ad un contesto ecclesiasti-co il contributo - collocato fra i saggi nella prima parte del volume - riferito al corpus di vetri (39 frammenti) rinvenuti nel pozzetto sacrarium della chiesa parrocchiale di San Barnaba di Villata (Ver-celli), durante la campagna di scavo condotta nel 1984 (pp. 111-124). Destinato all’effusione del-le acque utilizzate per il battesimo o degli oli in occasione del rinnovamento in tempo pasquale, il sacrarium è documentato sin dal Medioevo e fino al XVII-XVII secolo, e frequentemente custodisce reperti ceramici o vitrei, a seguito della deposizio-ne di vasellame d’uso liturgico dismesso.

Simili depositi, più ampiamente attestati ol-tralpe o in altri contesti italiani, sono effettiva-mente rari in Piemonte, dato che rende estrema-mente interessante questo ritrovamento vercel-lese. Una ulteriore particolarità è rappresentata

dal fatto che, nel contesto considerato, i reperti presenti sono unicamente vitrei (quasi totalmente inquadrabili fra XV e XVI secolo), e tra di essi è rilevante la percentuale di frammenti riferibili a lampade da illuminazione di tipo imbutiforme. Proprio la presenza di questa categoria di manu-fatti offre lo spunto per una documentata disami-na delle tipologie rappresentate, sostenuta anche da considerazioni operate sulla base di confronti a livello iconografico.

Ad un orizzonte di piena Età Moderna si può infine ricondurre l’indagine di due fornaci da mattoni rinvenute a Santhià, presso la casci-na Madonna (pp. 334-338), articolate su pianta rettangolare e aventi la camera seminterrata nel banco d’argilla, dato tipologico che trova conso-nanza anche in ambito sovralocale, ad esempio con fornaci rinvenute a Chieri, riferibili al XV-X-VI secolo. La pezzatura dei laterizi prodotti dai due impianti è analoga (mattoni di modulo 29/30 x 11,5 x 5,5/6,5). L’indagine stratigrafica è stata completata da analisi archeometriche effettuate mediante le tecniche dell’archeomagnetismo e della termoluminescenza, che hanno confermato - in assenza di altri elementi datanti - una collo-cazione cronologica nel XVI secolo, peraltro pie-namente coerente con quanto ipotizzato su base tipologica.

Gabriele Ardizio

Il Crocifisso ottoniano di Vercelli. Indagini tecnologiche, diagnostica, restauri, a cura di S. Lomartire (con saggi di A. Peroni, A. Cerutti, D. Collura, K. Doneux, G. Rolando Perino, C. Sirello e A. Gallo, C. Oliva, A. M. Colombo, S. Riccardi, A. Pacini, M. Aceto, A Agostino e G. Fenoglio, C. Rinaudo e A. Croce, S. Sampò e G. Buffa, F. Berruto, T. Leonardi), Gallo Edizioni, Vercelli 2016, pp. 200, ill. ISBN 9788897314257.

Questo ricco volume collettaneo è dedicato

al monumentale Crocifisso di Vercelli, capolavo-

ro dell’oreficeria ottoniana, realizzato tra il 998

e il 1026, durante l’episcopato di Leone, dopo

l’incendio della cattedrale eusebiana per opera di

Arduino (997) e nell’ambito della ricostruzione

dell’edificio promossa da Leone, donatore negli

stessi anni di codici miniati molto preziosi alla

Biblioteca Capitolare di Sant’Eusebio. Il volume

prende l’avvio dall’ottobre del 1983, quando du-

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rante un tentativo di furto non andato a segno, il Crocifisso venne danneggiato in modo gravissi-mo. I quindici saggi che lo contengono narrano “la rinascita del Crocifisso” - come specifica Sa-verio Lomartire nella sua Introduzione - , cioè la storia del recupero di questo manufatto: ven-gono così ripercorse le operazioni preliminari al restauro (il rilievo grafico, ad opera di G. Rolan-do Perino, pp. 73-87; lo studio documentario dei restauri antichi, primo fra tutti quello del 1933: A. Cerutti, pp. 47-55), e quindi il restauro vero e proprio delle lamine in metallo (D. Collura, pp. 57-66), dei materiali di riempimento, dal legno al cocciopesto (K. Doneux, pp. 67-71), fino ai cir-ca 200 frammenti di tessuti archeologici ritrovati all’interno (C. Oliva, pp. 91-112), alcuni dei quali riconosciuti come originariamente facenti parte di una tovaglia d’altare di manifattura tedesca del XIII-XIV secolo (A. Colombo, pp. 113-117), pro-babilmente inseriti in occasione di un antico inter-vento di rimaneggiamento, per arrivare infine allo studio della pittura a monocromo con i simboli della Passione sul retro della croce (S. Riccardi, pp. 119-121), attribuita a bottega di Giovenone e ricondotta al 1564 (anch’essa restaurata da Kristi-ne Doneux). A questo primo gruppo di contributi ne segue un secondo che riguarda gli interventi di diagnostica più recenti: gli studi di A. Pacini sul-la tecnica di esecuzione del Crocifisso (pp. 123-130), le misurazioni con tecnica Raman, FORS e XRF dei metalli e dei vetri, che hanno conferma-to un’origine recente per le pietre preziose della corona (M. Aceto, A. Agostino, G. Fenoglio, pp. 131-140); le analisi del taglio delle gemme (C. Rinaudo, A. Croce, pp. 141-143) e delle essen-ze legnose della croce di supporto (S. Sampò, G. Buffa, pp. 145-149). Un terzo gruppo di saggi tes-se invece la storia di quella che è stata una delle più importanti operazioni di tutela del patrimonio artistico piemontese negli ultimi trent’anni. Apre questo tema l’intervento di A. Peroni (pp. 29-41), che pubblica il suo prezioso carteggio dal 1983 al 1987 con Monsignor Giuseppe Ferraris - allora canonico a archivista del Duomo e tra i primi ad intervenire sul luogo dello scempio - e ripercorre

le prime fasi del recupero: il trasporto nel labo-ratorio della Soprintendenza di Torino, le diffi-coltà dovute a finanziamenti assai discontinui, e finalmente il restauro sotto la direzione di Paola Astrua, conclusosi infine nel 1995. Specifici in-terventi sono poi dedicati alla nuova sistemazione del Crocifisso in Duomo nel 2001 - fissato ad una griglia metallica e sospeso nell’area presbiteriale (F. Berruto, pp. 151-152) - , all’ultimo interven-to di manutenzione e pulitura dell’opera, resosi necessario a seguito dei restauri della cattedrale conclusi nel 2012 (C. Sirello, A. Gallo, p. 89), e alla musealizzazione dei materiali di riempimento presso il Museo del Tesoro del Duomo di Vercelli (T. Leonardi, pp. 153-157).

Una parte degli interventi pubblicati in que-sto volume riporta le comunicazioni presentate in occasione della Giornata di Studi sul Crocifisso di Vercelli organizzata dalla Fondazione Museo del Tesoro del Duomo e Archivio Capitolare il 22 novembre 2008, in ricordo del venticinquesimo anniversario del tentativo di furto e dello scem-pio di quest’opera. Negli anni subito successivi il progetto MEMIP_09 (Medieval enamels, me-talworks and ivories in Piedmont: art-historical and scientific methods for evaluation) , finan-ziato dalla Regione Piemonte e a cui afferisco-no, tra gli altri, tanto l’Università del Piemonte Orientale che il Museo del Tesoro del Duomo di Vercelli, ha consentito i nuovi approfondimenti diagnostici, anche con il coinvolgimento del Ce-nISCo/ Centro Interdisciplinare per lo Studio e la Conservazione dei beni culturali, e la pubbli-cazione del volume che qui si presenta. Restano due osservazioni generali: in appendice alla rac-colta di saggi si trova un bellissimo Atlante Foto-grafico, con scatti di Saverio Lomartire stesso e di Davide Casazza, che racconta il Crocifisso nei minimi dettagli, offrendoci macrofotografie di tanti particolari - dagli occhi in smalto cloisonné, alle sopracciglia in niello, fino alle diverse lami-ne sbalzate che rivestono la croce - che aiutano a comprendere le tecniche orafe impiegate in que-sto capolavoro (un po’ come si era già visto nel volume, sempre a cura di S. Lomartire, “Tabula

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ornata lapidibus diversorum colorum”. La le-gatura preziosa del codice C nel Museo del Te-soro del Duomo di Vercelli, anch’esso uscito nel 2016). L’unico appunto che si può fare a questo lavoro è l’assenza di saggi storico-artistici, anche se non mancano note sui problemi di stile, crono-logia e luogo di esecuzione del Crocifisso, nella premessa di Giovanni Romano, nell’Introduzio-ne di Saverio Lomartire e nel saggio di apertura

di Adriano Peroni. Mi sembra però che lo stesso curatore auspichi la pubblicazione, un domani, di un secondo volume consacrato al Crocifisso e dedicato a questi temi. E siamo senz’altro d’ac-cordo con lui nel ritenere che un’analisi scienti-fica del manufatto, con focus sui materiali e sulle tecniche di esecuzione, costituisca il necessario preambolo per ogni approfondimento critico.

Simonetta Castronovo

Patrick Mullins O. Carm, The life of St. Albert of Jerusalem. A documentary bio-graphy, part I, Textus et Studia Historica Carmelitana, vol. 42, Edizioni Carmelitane, Roma 2016, pp. 604, ISBN 978-88-7288-162-0.Patrick Mullins O. Carm, The life of St. Albert of Jerusalem. A documentary bio-graphy, part II, Textus et Studia Historica Carmelitana, vol. 43, Edizioni Carmelita-ne, Roma 2017, pp. 603, ISBN 978-88-7288-163-7.

I due volumi dedicati dall’autore alla bio-grafia di Sant’Alberto da Vercelli completano la precedente pubblicazione della stessa collana (Textus et studia historica carmelitana, 34) ine-rente la regola carmelitana, raggiungendo così una completa delineazione della vita e dell’ope-rato del vescovo vercellese nei diversi momenti del suo operato.

L’autore delinea nei due volumi successivi una completa biografia di Alberto e con una ana-lisi attenta e precisa individua le principali tappe della carriera ecclesiastica del presule, partendo dalla sua presunta origine parmense attraverso la carica di priore della fondazione mortariense e la successiva elezione a vescovo di Bobbio, per giungere sino al soglio episcopale vercelle-se. Lo studio dell’ampia e varia documentazione permette all’autore di indagare i diversi momenti dell’attività del presule che si distinse per la sua azione ecclesiastica, mirata al consolidamento della giurisdizione sul territorio vercellese, visti i continui e frequenti contatti con Federico I e con il figlio Enrico VI.

Al momento dell’elezione al soglio pontifi-cio di Innocenzo III, Alberto seppe recuperare

un contatto diretto con il papato, attraverso gli importanti ruoli rivestiti dal vescovo come legato papale nelle più importanti vertenze che scuo-tevano la Chiesa ambrosiana nei primi anni del XIII secolo.

Il secondo volume è invece dedicato all’ana-lisi della politica episcopale del presule nel pe-riodo intercorrente tra gli anni 1198-1205, anni caratterizzati dalla lotta sostenuta dall’episcopato vercellese contro le nascenti forze comunali, rap-presentate dalla città di Vercelli e Casale.

L’autore, infine, si sofferma sull’ultimo pe-riodo della vita di Alberto concernente l’elezione a patriarca di Gerusalemme e al ruolo svolto in Terra Santa in qualità di legato papale.

Mentre per la prima parte dedicata al periodo dell’episcopato vercellese Mullins si è dedicato ad un’analisi completa e documentata, per l’epo-ca del patriarcato lo studio si dimostra affrettato e poco approfondito dedicando poco spazio ad un momento cosi importante per il futuro della Cristianità. Forse l’autore, appoggiandosi ad un precedente studio di Vincenzo Mosca, Alberto patriarca di Gerusalemme: tempo, vita, ope-ra (Textus et studia historica Carmelitana, 20),

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Roma 1996, ha preferito concentrarsi nell’ultima parte della ricerca sulla delineazione della regola carmelitana dedicando uno spazio esiguo all’ul-

timo periodo della proficua attività pastorale del presule.

Laura Minghetti

Romanico Piemontese - Europa Romanica. Architetture, circolazione di uomini e idee, paesaggi, a cura di S. Lomartire, Follonica, Centro studi città e territorio, Li-vorno, Debatte, 2016, p. 204, ill., ISBN 978-88-6297-225-3.

Il volume, curato da Saverio Lomartire pro-pone sedici contributi che nell’insieme delineano un quadro generale interessante e complesso.

Il territorio maggiormente indagato risulta es-sere quello piemontese, come segnalato dal titolo, ma i riferimenti alla Toscana e alla Sicilia sono tutto sommato utili alla ricognizione delle dina-miche insediative e delle tecniche architettoniche. A livello europeo un solo caso è stato affrontato, riferito alla Spagna e in qualche modo strettamen-te legato a delle vicende riscontrabili nello stesso periodo in Italia e in particolare in Piemonte.

La tematica della circolazione Italia-Europa è ben rappresentata dalle riflessioni sugli ordini monastici, come quello vallombrosano, di cui Ci-liberti tratta nel suo paper, nel quale non emerge particolarmente l’aspetto del cantiere architetto-nico, mentre si evidenziano in maniera dettaglia-ta i rapporti a livello territoriale in linea con il ti-tolo del volume. È un tema ben rappresentato an-che dal saggio di Susini sulla bassa Valdiserchio, in cui più aspetti sono tenuti in considerazione: quello architettonico, quello documentario, quel-lo legato alle maestranze e al paesaggio.

Ad affrontare il tema dell’aspetto liturgico, emerge il saggio di Gili Borghet su San Benigno di Fruttuaria e quello di Bergamaschi in cui, par-tendo da una base bibliografica superata, princi-palmente si tratta di liturgia all’interno dell’anti-ca cattedrale di Santa Maria di Novara.

Le riflessioni su scala territoriale riguardano invece contesti più ampi, travalicando i confini nazionali e in qualche modo portando due studi sovrapponibili e confrontabili, uno, affrontato da Remolina, sul ripopolamento del tessuto urbano

in Castiglia-Leon, l’altro sui “borghi nuovi” pie-montesi, redatto da Lusso, Rao, Longhi, Beltramo Bongiovanni, Tosini. È interessante il confronto tra i due scritti che trattano di un fenomeno simile e diffuso non solo in Italia (terre nuove, borghi nuovi, villenove) ma anche in Europa.

Riferiti ad altre regioni italiane sono gli studi di Alta Donna, La Rosa, Manganaro sulla Valde-mone e di Susini su Poggibonsi. Mentre dal pri-mo emerge un evidente legame tra modelli sici-liani e piemontesi, il secondo propone una lettura architettonica dell’edificio che affronta lo studio dal punto di vista tecnologico-strutturale, scon-finando verso la fine in un’ipotesi astronomica.

Di particolare interesse sono poi gli studi impostati a livello territoriale: dalle strutture ro-maniche fortificate nell’Alto Vercellese di Ardi-zio, alle architetture religiose dell’XI secolo nel cuneese di Caldano, fino alle sculture romaniche del novarese di Muzzin.

Stessa impostazione su vasta scala è applicata da Ceccanti, con un riferimento continuo all’in-fluenza dell’architettura pistoiese sul neogotico ottocentesco. A questo periodo fa riferimento anche il saggio su Santa Fede a Cavagnolo Po di Devoti e Naretto, che impostano una rilettura del bene tramite fonti relativamente recenti.

Tutti questi argomenti finora elencati sem-brano in qualche modo contrapporsi ai saggi fi-nali (Verdiani, Mancuso, Pasquali e Scaglione), relativi all’applicazione di tecnologie speditive per il rilievo e l’analisi di beni culturali quali il Battistero romanico di Biella e gli elementi ro-manici langaroli.

Parrebbero infatti studi in qualche modo

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fini a se stessi, atti alla mera restituzione grafica o virtuale del bene, in cui risultano più interes-santi le potenzialità della metodologia applicate ai beni culturali che i progetti svolti in sé. Allo stesso modo l’utilizzo di un GIS, se considerato non come fine ma come strumento per elaborare dei dati e conseguentemente trarne delle conclu-sioni, potrebbe essere un elemento di valore. È però particolarmente interessante proprio la loro presenza all’interno di un volume di tal genere: suggeriscono infatti la necessaria multidiscipli-narietà in vista di uno studio completo.

In particolare, la loro applicazione per degli studi riferiti ad un periodo storico povero, se non talvolta privo, di fonti documentarie risulta effica-ce per colmare queste lacune. In tal senso il primo saggio di Beltramo presentato nel volume è un esempio significativo: l’analisi del monastero di

Staffarda in cui differenti competenze hanno col-laborato per il raggiungimento di un fine comune. Storici, storici dell’arte e dell’architettura, esperti in materiali lapidei e rilevatori hanno apportato diversi strumenti quali l’analisi documentaria, la metodologia stratigrafica dell’archeologia ad un’architettura e il GIS in sono un’ ottica multi-disciplinare.

Come sottolinea il curatore nell’introduzio-ne, la scelta degli interventi tramite call for paper determina un insieme di punti di vista non sem-pre inerenti alla tematica centrale del convegno e quindi suggerita dal titolo del volume, ma permet-te di confrontare metodologie d’indagine e stru-menti diversificati che potrebbero essere davvero interessanti se considerati in una stretta collabo-razione.

Martina Ramella Gal

Maurizio Cassetti, Storia del Monastero benedettino di San Pietro in Lenta, Boca (NO), 2017, p. XVII-143 [2], ill.

“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”. I versi di Pascoli ben si adattano a questa nuova, si fa per dire, pubblicazione cui hanno collaborato il Comune di Lenta e la bene-merita Associazione Culturale di Gattinara. Si tratta infatti della terza riproposizione di alcuni saggi dello stesso autore, tutti risalenti agli anni 80 del secolo scorso, che non mancheranno di creare qualche confusione bibliografica (e non solo) al futuro ricercatore, che si vedrà costret-to ad un improbo confronto tra testi apparente-mente diversi.

Il volume, infatti, raccoglie i tre diversi sag-gi nello stesso ordine e con gli stessi titoli in cui furono pubblicati in origine, salvo la suddivisio-ne in capitoli autonomi del primo, e sia pure con l’aggiunta di alcuni nuovi capitoli.

Per l’antico pascoliano, il solo che possa interessare allo storico di oggi, va detto che il primo saggio dal titolo Le origini del monastero di S. Pietro di Lenta e i suoi primi sviluppi, è lo

stesso già pubblicato una volta in “Arte e storia di Lenta”. Atti del Convegno di Studi (aprile 1981), a cura di M. Cassetti, Vercelli 1986, pp. 311-335, una seconda in M. Cassetti, Pagine sparse, Torino 2011, pp. 227-249 e una terza in questa Storia, pp. 1-23. Lo stesso dicasi per il secondo, Le chiese di S. Pietro e di S. Maria di Ghislaren-go soggette al monastero di S. Pietro di Lenta, già pubblicato nel “Bollettino di Studi” dell’As-sociazione Culturale Gattinara, n. 9 (1982) pp. 21-25, una seconda volta nelle già dette Pagine sparse, pp. 143-151 e infine in questa Storia, pp. 87-95. Ancora, il terzo, Beni nel Biellese del mo-nastero di S. Pietro di Lenta, già comparso una prima volta nel “Bollettino Storico Vercellese”, 15 (1986), n. 26, pp. 13-35, una seconda nelle Pa-gine sparse, pp. 207-225, si trova una terza volta in questa Storia, pp. 97-117, tale e quale salvo un’insignificante scorciatura del titolo.

Per il nuovo, che interessa lo storico di do-mani, sono invece da segnalare i capitoli che

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comprendono le Vicende dal 1221 al 1404 (pp. 25-38), le Vicende dal 1404 al 1573 (pp. 39-71), I beni in Ghislarengo (pp. 73-85), costruiti sulle stesse fonti dei precedenti (sostanzialmente il Brogliazzo del Ferla e l’anonima Descriptione delle scritture) ma con l’aggiunta e la rielabora-zione dei documenti già presentati nel catalogo della mostra del 1981 (Il monastero delle Bene-dettine di S. Pietro di Lenta, Mostra documen-taria. Catalogo).

La lunga gestazione della Storia ora pubbli-cata, se ha riveduto la precedente trascrizione di un’epigrafe (p. 23, nota 84), non ha però rimedia-to a qualche svista (p. 25, Givacio e Givoto, da leggere Guiacio e Guioto) e soprattutto ha trascu-rato il necessario aggiornamento bibliografico. Non si capisce, ad esempio, perché il fondamen-tale lavoro di mons. Giuseppe Ferraris, Le chiese “stazionali” delle Rogazioni minori a Vercelli dal sec. X al sec. XIV, sia ancora citato secondo il non facilmente reperibile estratto del “Bolletti-no Storico Vercellese” (tra l’altro stampato in un

ristretto numero di copie) e non secondo la più recente e aggiornata edizione del 1995. Anche il più volte richiamato terremoto del 1117, quale spartiacque storico e architettonico, avrebbe me-ritato un minimo di aggiornamento critico. Da se-gnalare, in proposito il Convegno Internazionale di Studi “Terremoto in Val Padana: 1117 la terra sconquassa e sprofonda”, che si tiene a Mantova (20-22 settembre 2017) e che fornirà elementi più certi.

A questi, forse inevitabili, difetti fa da con-trappunto la “Cronologia” (pp. XIII-XVII) e l’elenco delle “Badesse” (p. XVII), che rivede quanto pubblicato nella mostra del 1981 (Cata-logo, pp. 43-49 e 51), e il completamento con un utile indice dei nomi.

Da rilevare, a onore di questa Storia, il ric-chissimo apparato di illustrazioni a colori (curato da G. B. Delsignore) che danno un’affascinante idea dell’importanza e della ricchezza del mona-stero di Lenta e delle sue pertinenze.

Giorgio Tibaldeschi

Pier Angelo Perotti, Da Vercelli a Marcabò: Dante, INF. XXVIII, 75, in “Rivista di Studi Italiani”, aprile 2017, anno XXXV, n. 1, pp. 26-40, ISSN 1916-5412.

Il contributo di Perotti si focalizza sull’a-nalisi del frammento dantesco tratto da In-ferno XXVIII, 75, analizzando la poco docu-mentata figura di Pier da Medicina e ponendo l’attenzione sulle due città citate come estre-mi della Pianura Padana: Vercelli e Marcabò. Avvalendosi della bibliografia precedente, si deli-neano alcune notizie che inducono a identificare Pier da Medicina come un membro della famiglia dei “cattani” di Medicina, tra Bologna e la Bassa Romagna, o una figura molto vicina ad essa, e, più puntualmente, come egli sia stato in qualche modo connesso a Dante. In due occasioni in particolare il poeta lascia intendere la loro conoscenza: al v. 71 dice di averlo visto in terra latina e al v. 72 usa la parola “somiglianza”, il che presume almeno un primo incontro al di fuori dell’Inferno, quando en-

trambi erano in vita.La seconda e più ampia parte del contributo è

dedicata alle motivazioni che possono aver spin-to Dante a citare Vercelli e Marcabò quali confini della Pianura Padana. Riguardo a Marcabò, è noto che tra il 1258 e il 1260 era un fortilizio veneziano, raso al suolo nel 1309 dai guelfi romagnoli con l’appoggio di papa Clemente V.

Non si conosce con certezza la data di stesu-ra del canto in esame. Secondo Perotti, se fosse antecedente alla distruzione della fortezza, Dante lo inserirebbe nel componimento quale baluardo orientale di controllo e protezione della Pianura. Diversamente, nonostante non vi fosse più una struttura difensiva, da un lato Marcabò era anco-ra il toponimo dell’area e dall’altro poteva essere stato inserito appositamente dal poeta o perché

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ignaro della sua distruzione o per sottolineare in maniera arguta il brutale gesto guelfo.

L’identificazione, invece, di Vercelli quale baluardo occidentale, argomento in passato già affrontato tra gli altri anche da Giulio Cesare Fac-cio e Rosaldo Ordano, si giustificherebbe in prima battuta con il ruolo della città in epoca medioevale. Al di là della sua posizione geografica, Vercelli è stata dal 1228 sede della prima Università del Pie-monte, sino ai primi anni del Quattrocento. Inol-tre, è noto che nel dicembre del 1310 Arrigo VII è in Vercelli per riconciliare ufficialmente, seppur per breve tempo, le famiglie dei guelfi Avogadro e dei ghibellini Tizzoni, che tenevano divisa la città. In questo contesto Dante potrebbe essere giunto a Vercelli grazie alla vicinanza con Moroello Mala-spina, il quale potrebbe forse averlo introdotto al

futuro imperatore.Vercelli sarebbe così la testimone di un incon-

tro chiave per il poeta e, allo stesso tempo, un luogo esempio delle lotte guelfe e ghibelline. Altra moti-vazione portata da Perotti è la presenza nell’opera dantesca di fra Dolcino, eresiarca novarese contro cui si schierarono il vescovo di Novara e quello Vercellese, sino alla condanna a morte proclamata a Vercelli. Perotti esprime come per Dante non vi sia sostanziale differenza tra i territori di Novara e Vercelli, ma utilizzi indifferentemente entrambe per motivazioni sia di vicinanza geografica sia per ragioni metriche e di composizione del testo.

L’articolo è interamente consultabile e scari-cabile gratuitamente dal sito internet della Rivista: www.rivistadistudiitaliani.it.

Silvia Faccin

Borghi nuovi, castelli e chiese nel Piemonte medievale. Studi in onore di Angelo Marzi, a cura di Simone Caldano e Aldo A. Settia, Torino 2017, pp. 492, ISBN 978-88-9931-239-8.

Prima pubblicazione dell’Associazione Pie-monte Medievale. Paesaggi, Arte, Storia, è una raccolta di saggi in onore di Angelo Marzi, ar-chitetto, medievalista, punto di riferimento sem-pre attuale per gli studi di settore. L’intento degli autori è quello di offrire un omaggio a colui che è spunto, spinta e confronto per le ricerche, stu-dioso al di fuori della mera nozionistica e lettore attento di architetture, insediamenti, sviluppi ur-banistici e paesaggi del territorio subalpino.

Tutti coloro che hanno partecipato al volu-me in onore di Marzi hanno ripagato un debito intellettuale, creando un volume ricco di interes-santi studi il cui fil rouge è l’influenza esercitata dall’architetto a livello accademico, professiona-le e sociale. La completezza dei saggi, la volontà di intersecare fonti documentarie, analisi artisti-che e architettoniche e visioni storiche di insie-me, rispecchiano il valore delle ricerche degli autori, connotate da una metodologia di lettura del passato scientifica ma al contempo leggibile e

godibile dal grande pubblico.La miscellanea di studi si divide in quattro

sezioni, precedute dal profilo accademico e pro-fessionale tracciato da Loris Dadam e Simone Caldano e dalla lunga bibliografia di Marzi, cu-rata da Caldano, Eleonora Casarotti e Alessandro D’Alfonso. Segue la prima sezione dedicata a Insediamenti tra fonti scritte ed evidenze mate-riali nella quale sono compresi i saggi di Diego Peirano, Città, fortezze e iniziative territoriali nel confronto bizantino-turco in Asia Minore (XI-XII secolo), di Aldo A. Settia che esamina La scoper-ta di una chiesa inesistente: Santa Maria della Bastita, sita sulla collina torinese nota oggi come Monte dei Cappuccini. Ignorata a lungo dalle fonti documentarie, la chiesa è riscoperta e mes-sa in luce con prudenza a seguito della campagna di restauri del monastero iniziata nel 1983. Set-tia ne ripercorre la storia, formulando ipotesi sul motivo della sua assenza nei documenti e rico-struendone le vicende, con particolare attenzione

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al ruolo dei frati cappuccini nella riqualificazione del sito.

Andrea Longhi tratta le Strutture e dinamiche di un borgo monastico: Caramagna utile testi-monianza nell’ambito del dibattito sui borghi di fondazione subalpini, per il quale sono di fonda-mentale riferimento alcuni lavori di Marzi. Segue Alessandro D’Alfonso con una indagine degli Insediamenti abbandonati in Valsesia: Naula e Pietre Gemelle che raggruppa e aggiorna le in-formazioni sui due insediamenti valsesiani origi-natisi tra XII e XIII secolo, per creare un punto di partenza verso nuove aperture e analisi.

Fabrizio Spegis contribuisce agli studi in ono-re di Marzi con una Nota storica sull’urbanistica di Chivasso in età medievale e Claudio Anselmo tratta di Brandizzo borgo nuovo medievale? Un’i-potesi, riprendendo in mano uno studio del 1999 sulle origini di Brandizzo dall’età tardoantica al basso medioevo aggiornandolo grazie anche al contributo fornito da Marzi nelle sue pubblica-zioni, tra le quali Borghi nuovi e ricetti nel tardo medioevo. Modelli piemontesi, fondazioni liguri e toscane (Torino 2012).

Gian Battista Garbarino con un pregevole saggio contraddistinto dallo spoglio dei docu-menti dedicato a Bubbio, località sita nella valle Bormida di Millesimo: Ad ordinandum villam Bublii. Un progetto di riordino insediativo nella Langa astigiana dell’anno 1300.

A chiudere la sezione Grado G. Merlo con Lo spazio dell’eremo nell’esperienza dei primi Fra-ti Minori, breve ma interessante considerazione sull’eremitismo francescano.

La seconda sezione è dedicata all’Archeo-logia ed è inaugurata dal saggio di Andrea Del Duca, Testimonianze preistoriche e romane dai luoghi fortificati del Cusio: il colle di Buccione, la fascia di lungolago di località Lido, Carcegna in regione Campello, Cireggio di Omegna, Goz-zano, località Motto a Gravellona Toce, presso l’altura del Mesma e nella sottostante valle di Lortallo, Pettenasco, Pogno, Quarna Sopra, l’iso-la di S. Giulio, S. Maurizio d’Opaglio. Segue il corposo lavoro di Paola Greppi e Fernando Del-

mastro che si occupano di gettare Nuova luce sul Santuario della Consolata a Torino: dalle inda-gini archeologiche alla ricostruzione dell’evolu-zione architettonica del monumento.

Gabriella Pantò propone Mensiocronologia e metrologia degli edifici religiosi di Vercelli fra XII e XIII secolo, esaminando alcuni edifici alla luce dell’analisi dei materiali costruttivi ai fini della datazione. Oggetto del saggio sono sei edi-fici vercellesi datati tra il XII e il XIII secolo, di datazione consolidata e utili alla creazione di un modello piemontese. Gli edifici esaminati sono il campanile della Cattedrale di S. Eusebio, le strut-ture ritrovate solo in fondazione della chiesa di S. Bartolomeo, la chiesa di S. Bernardo, il Palazzo Arcivescovile, il campanile della chiesa di S. Vit-tore e l’abbazia di S. Andrea.

Francesca Garanzini esamina i Nuovi dati ar-cheologici da Borgomanero: indagini nel centro storico proponendo una sintesi degli scavi effet-tuati in città tra l’autunno del 2011 e l’estate del 2012. Il saggio è arricchito dall’appendice curata da Paola Comba, Indizi di moda: tracce di tessu-ti e accessori d’abbigliamento da una sepoltura tardomedievale.

L’intervento di Carlo Manni, chiude la se-zione archeologica, illustrando le attività della G.A.S.M.A. Il ruolo di un’associazione stori-co-archeologica nel contesto culturale locale.

A aprire la terza sezione, dedicata alla Storia dell’architettura e delle arti figurative, lo studio di Valentina Gili Borghet Habet fornicem anti-quis imaginibus depictum. Qualche osservazio-ne sugli affreschi della chiesa di Santo Stefano di Sessano a Chiaverano, unica testimonianza romanica di un abitato non più esistente, riletta dall’autrice attraverso le fonti e l’esame dei la-certi decorativi ancora esistenti. A seguire, la di-samina a tutto tondo di Simone Caldano, co-cu-ratore del volume, che ha per tema Chiese ammi-nistrate da laici. San Lorenzo e Santa Maria de bozolo di Gozzano nei secoli XII-XIII.

Silvia Beltramo si occupa de L’architettura delle certose in Piemonte tra XII e XIV secolo: le chiese delle correrie di Casotto e di Chiusa Pesio

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e Andrea Bertani e Giorgio Ingaramo delle Nuove acquisizioni sulle fortificazioni cusiane: la torre e la casaforte di Lortallo. Simone Riccardi regala al lettore Appunti e considerazioni sulla scultu-ra lignea della Madonna col Bambino di Borgo d’Ale, statua dalla vita travagliata efficacemente ricostruita dall’autore.

Dorino Tuniz guida il lettore alla scoperta dell’oratorio de L’Abate Antonio ad Arola, con il ciclo di affreschi dedicati alla storia del santo. A chiudere la sezione, i saggi di Lorenzo Parodi e Giuseppe Zorgno, Due dimore storiche di Trino ritrovate. Brevi notizie sulle case dei Tizzoni, dei Biandrà e dei Giolito, e di Ivana Teruggi, Spigo-lature barocche. Stuccatori luganesi, Gaspare

Aprile e Francesco Maria Richino a Fontaneto d’Agogna.

A conclusione della bella raccolta di studi, il contributo di Piero De Gennaro che con Noctis sub silentio / tempore brumali (con una ipotesi sulla chiesa di San Filiberto), e in appendice il testo della Visio Philiberti con testo e traduzio-ne a fronte, arricchisce il volume di una sezione letteraria.

Borghi nuovi, castelli e chiese nel Piemon-te medievale è un omaggio corale a Marzi e alle sue metodologie di indagine e analisi, ma è anche un prezioso regalo di 26 studiosi alla storiografia piemontese.

Sara Minelli

Edoardo Villata, Tra Vercelli e Milano (via Mantova): un passaggio al Sodoma, in “Arte Cristiana”, CV, n. 900, Maggio-Giugno 2017, pp. 187-194, ISSN 0004-3400, Euro 20.

Non sono ancora emerse chiaramente quali siano le radici piemontesi e in particolare ver-cellesi del Sodoma, messo dal padre a bottega di Martino Spanzotti il 28 novembre 1490, per un periodo di sette anni. Non ci sono d’aiuto infatti né l’assenza di opere certe del suo maestro sul territorio né in fondo i non molti riflessi della sua lunga presenza in città e nel contado, anche se alcuni cicli come gli affreschi della cappella degli Apostoli della parrocchiale di Quinto Vercellese hanno goduto di una fuorviante attribuzione pro-prio al Sodoma stesso.

Riemerge dunque in modo inaspettato una tavola di collezione privata raffigurante la Sacra famiglia, un angelo, San Giovanni Battista e un altro santo non riconoscibile, che l’autore del saggio propone di riconoscer come la più antica opera del Sodoma.

I dati stilistici effettivamente sembrano coin-cidere con quelli che ci aspetteremmo espressi dalla pittura del miglior allievo di Martino Span-zotti. Basti osservare il volto dell’angelo e del San Giovanni in secondo piano, la gamma cro-

matica e i panneggi della veste della Madonna, per rendersi conto che non dobbiamo essere mol-to distanti dalla parete affrescata in San Bernardi-no ad Ivrea, eppure proprio il volto della Vergine mostra un dato culturale leonardesco inequivoca-bile, che fa scivolare l’opera stessa cronologica-mente in avanti di qualche tempo.

Il pittore mostra dunque di essere già a co-noscenza delle novità leonardesche, non diretta-mente dalle opere del genio toscano, bensì attra-verso la più facile e piana lezione di Boltraffio. Non conosciamo al momento attestazioni di opere di questo pittore a Vercelli, perciò si deve ipotizzare che il dipinto di collezione privata ap-partenga già alla primissima fase milanese del Sodoma, probabilmente poco prima del 1498, dato che in qualche modo sembra confermato dalla estraneità dal suo bagaglio culturale del Ce-nacolo vinciano.

Dalla serrata analisi dell’autore emergono ancora due dati culturali molto significativi: il gruppo centrale della Madonna col Bambino pare in debito con qualche opera, non esattamente pre-

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cisabile, di Mantegna, forse conosciuta attraver-so un brevissimo soggiorno a Mantova, a meno di non ipotizzare in questo caso una mediazione spanzottiana, mentre il secondo dato è l’assenza della conoscenza diretta di Bramantino.

In verità il pittore milanese non è del tutto assente, appare infatti certamente meditato pro-prio attraverso la lezione spanzottiana. Non è in-fatti pensabile che a metà degli anni novanta del Cinquecento il Suardi fosse del tutto ignorato da un pittore intelligente e brillante come Martino Spanzotti, e ne consegue che fosse in qualche modo conosciuto, non in modo troppo approfon-dito, dagli allievi di questi.

Ora da tutto ciò che emerge dunque, non si possono che avanzare due considerazioni: do-vremmo in effetti trovarci di fronte alla più antica opera del Sodoma, e si veda come il San Giu-seppe tornerà simile in un altra sacra famiglia di collezione privata (già però del periodo senese del 1503 circa), tuttavia rimane ancora una volta frustrata la nostra speranza di aver individuato un incunabolo vercellese del pittore.

Tutto sembra infatti indicare una datazione intorno al 1497-1498 e una collocazione già tut-ta milanese della tavola. Resta da chiedersi se a

questo punto veramente sia stato rispettato il con-tratto di apprendistato che prevedeva la presenza del giovane Antonio Bazzi per sette anni nella bottega del maestro, oppure se il suo trasferimen-to a Milano e in Lombardia sia avvenuto prima della conclusione di tale periodo.

Sarebbe molto utile poter riconoscere con certezza qualche opera di Spanzotti del periodo vercellese, che per inciso dura dal 1481 al 1498, seppur con alcune interruzioni, e in questo senso la proposta di collegare la Madonna col Bambino dell’Accademia Albertina di Torino ad una possi-bile provenienza vercellese, è rafforzata dal fatto che apparteneva nell’Ottocento alla collezione Mossi di Morano.

Allo stesso modo il Compianto ancora oggi di collezione privata vercellese ha molte proba-bilità che provenga ab origine da qualche chiesa della città eusebiana. Su queste basi un poco in-certe dunque si dovrà valutare bene l’impatto del pittore sulla realtà cittadina e provare a sciogliere il nodo dei suoi allievi e collaboratori nella se-conda parte degli anni novanta del secolo, tra i quali vi era anche il giovanissimo e al momento inafferrabile Sodoma.

Simone Riccardi

Non solo Botto. Intertestualità artistica nell’area sabauda tra Cinque e Seicento: nuo-ve ricerche e acquisizioni per la storia della scultura, dell’ebanisteria, dell’organaria e della produzione musicale, a cura di P. Cavallo, Società Storica Pinerolese - Istituto per i Beni Musicali in Piemonte, LAR editore, Perosa Argentina 2017, 178 pp., ISBN 978-88-98-34558-8, 10 Euro.

Il volume raccoglie sei studi frutto di un’in-

tuizione metodologica tanto semplice quanto im-

portante di Paolo Cavallo, vicepresidente della

Società Storica Pinerolese e musicologo di vaglia,

e di Alberto Marchesin, storico dell’arte con in-

teressi legati al territorio piemontese: ragiona-

re sul Barocco sabaudo in chiave di intersezioni

tra discipline diverse e cercando di far dialogare

tra di loro le arti figurative e la musica offrendo

loro uno sfondo storico ben definito e incentrando

l’attenzione su un aspetto specifico, ovvero l’arte

organaria - e non solo - della famiglia Botto tra il

Cinque- e il Seicento.

Il primo saggio (Blythe Alice Raviola, L’arti-

colazione geo-politica del Piemonte sabaudo tra

Cinque e Seicento: il caso di Pinerolo) rappre-

senta un capitolo esemplare di contestualizzazio-

ne storica legata al territorio.

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Ad esso fanno seguito due articoli dedicati alla scultura seicentesca, quello di Guido Genti-le, Aspetti della scultura lignea in Piemonte nella prima metà del Seicento. Arredi e immagini per il culto e la devozione e quello di Aurora Lauren-ti, Gli intagliatori e le commissioni di corte: di-segni e modelli decorativi per i palazzi ducali (1619-1663), che si fanno apprezzare sia per la ricchezza di notizie sia per la preziosità dell’ap-parato iconografico, non sminuito assolutamente da una stampa in bianco e nero di alta qualità. Le acquisizioni dei due studiosi rappresentano sicu-ramente un punto di riferimento molto significa-tivo sul tema dell’intaglio e della scultura dell’e-poca e, soprattutto, aprono nuove vie d’indagine alle committenze.

Gli ultimi tre contributi sono stati dedica-ti all’attività della famiglia Botto nella costru-zione di organi: Stefano Baldi ha studiato  La musica nel Collegio dei Cantori e degli Innocenti della Cattedrale di Torino tra il 1575 e il primo Seicento e gli inizi dei Botto come organari, men-

tre Silvio Sorrentino ha ampliato la prospettiva con un lavoro su L’arte organaria in area piemon-tese durante l’epoca della Controriforma  (1563-1634): materiali di studio e spunti di ricerca, il cui titolo non rende giustizia alla ricchezza del materiale raccolto. Infine Alberto Marchesin nel suo  Un’attività peculiare della famiglia Botto: le casse d’organo ha affrontato con attenzione in problema dell’attività dei Botto come costruttori di queste parti essenziali del prezioso strumento.

Il volume offre una grande quantità di spunti per approfondire la ricerca, ma chiama a gran voce qualcuno che a questa “intertestualità” - o interdisciplinarietà - possa aggiungere anche la voce della letteratura e della storia religiosa, che sicuramente, anche solo attraverso i testi dei canti liturgici e delle loro revisioni avrebbero anche la loro da dire. Ma sarà per un’altra volta: per ora godiamoci questo eccellente volume curato molto bene, impaginato straordinariamente e molto ben stampato.

Andrea Balbo

Magda Tassinari, Oro e argento alla Madonna di Savona. Doni preziosi da Roma e Parigi, Milano 2016, brossura, pp. 72, ill., ISBN 978-88-9947-313-6.

Parte della collana Esposizioni immaginarie di Scalpendi Editori, il bel volumetto conclude il ciclo di iniziative organizzate per celebrare il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco. Ente promotore della pubbli-cazione è l’A.S.P. Opere Sociali di N. S. di Mi-sericordia di Savona, con il patrocinio della Città di Savona, con la collaborazione della diocesi di Savona - Noli, dell’Ente Ecclesiastico “Santuario di N. S. di Misericordia di Savona” e con il con-tributo della Fondazione De Mari.

Per questa pubblicazione l’autrice, Magda Tassinari, ha sapientemente riunito una piccola selezione di opere legate al Santuario di Nostra Signora di Misericordia di Savona: la corona d’oro della Madonna della Misericordia, il calice di Vincenzo Belli donato da Pio VII, il calice di

Jean-Charles Cahier donato dal cardinal Antonio Dugnani, il calice donato da Ludovico Borbone conte di Villafranca e il calice donato da Giovan Battista Spinola cardinal di S. Cesareo.

Il volume, dopo le necessarie presentazioni istituzionali, è introdotto da Teresa Leonor M. Vale dell’Istituto di Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere dell’Università di Lisbona. La studiosa mette immediatamente in luce le figure di due ar-gentieri citati da Tassinari: il romano Bartolomeo Boroni (1703-1787) per la realizzazione della corona e il torinese, ma romano per attività ar-tistica, Vincenzo Belli (1710-1787). Il primo fu attivo anche nella cappella di S. Giovanni Batti-sta nella chiesa di S. Rocco di Lisbona, il secon-do fu parte del ristretto gruppo di argentieri che servirono la corona portoghese. Entrambi furono

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coinvolti nelle committenze di re Giovanni V di Portogallo.

Proprio l’attenzione, da parte di Magda Tas-sinari, agli artisti e ai personaggi coinvolti nella committenza e nella realizzazione delle opere è uno dei valori aggiunti del volumetto. L’autrice infatti non solo ricostruisce le vicende degli og-getti attraverso una lettura artistica puntuale, ma esamina brevemente anche le biografie di colo-ro che hanno assunto ruoli di primo piano nelle “vite” degli stessi. Questa attenzione dona al let-tore più di alcune schede di catalogo, tracciando un identikit completo delle opere attraverso una revisione critica delle fonti, dei documenti e delle evidenze materiali.

Il saggio più corposo e rappresentativo di questa metodologia di approccio è quello dedica-to alla corona d’oro della Madonna della Miseri-

cordia, protagonista delle celebrazioni, nel 2015, del centenario dell’incoronazione da parte di papa Pio VII. La storia dell’opera è stata a lungo nebulosa sia per quanto riguarda la datazione sia per la paternità della realizzazione. L’incertezza, può forse far sorridere, è scaturita dallo sposta-mento di una delle gemme durante un intervento di restauro che ha occultato l’iscrizione riportan-te la data e la responsabilità della donazione, ora attribuibile con certezza al 1770 e al Capitolo Va-ticano. A partire dall’iscrizione l’autrice ha quin-di ricostruito, grazie ad un termine temporale certo, la storia della corona, fugando ogni dubbio attraverso una rilettura dei documenti e delle cro-nache settecentesche e raccontando, quasi come in un romanzo, le vicende e i personaggi ruotanti intorno alla preziosa corona.

Sara Minelli

Percorsi di libertà fra tardo Medioevo ed Età contemporanea, a cura di Pierpaolo Merlin e Francesco Panero, Cherasco, Centro internazionale di studi sugli insedia-menti medievali - Dipartimento di lingue e letterature straniere e culture moderne Università di Torino, 2017, pp. 310, ill. ISBN 978-88-9406-986-0.

Nel parlare di libertà, spesso si trascura l’e-voluzione storica del concetto. In questo libro - che raccoglie gli Atti del Convegno Percorsi di li-bertà fra tardo Medioevo ed Età contemporanea, svoltosi a Torino il 15 e 16 marzo 2016 - sono messe in evidenza diverse forme in cui la libertà si è manifestata nel corso dei secoli, sopravviven-do nel tempo solo a patto di continui cambiamen-ti di senso.

La metodologia di ricerca ha interessato sva-riati ambiti - dalla storia alla letteratura, dalla pedagogia all’antropologia - al fine di favorire un confronto multidisciplinare. Il primo dei tre gruppi di relazioni in cui è articolato il volume si intitola Forme di servitù e aspirazioni alla libertà fra basso Medioevo e Antico regime.

Prendendo le mosse dal tardo Medioevo, come evidenziano i contributi di Francesco Pa-

nero e Alberto Sciascia, di fronte a un insieme di libertà economiche e privilegi (richiesti a signori, comunità urbane, principi e sovrani) si pone il problema della libertà giuridica alla quale aspira-no taillables, mainmortables e remences, com’è documentato in alcune regioni dell’Europa occidentale fino alla prima Età moderna o, addi-rittura, fino alla Rivoluzione francese. La taglia era un tributo bassomedievale pagato ai signori che offrivano protezione ai residenti nel territorio soggetto alla propria giurisdizione. Sull’origine del termine “manomorta” Marc Bloch ritene-va che questo diritto “così chiamato perché la ‘mano’ del servo, vale a dire il suo potere sui suoi beni, deve, in certi casi e su tutto o parte del suo patrimonio, ‘morire’ irrevocabilmente con lui, senza che al servo sia lecito trasmetterne l’e-redità ai propri parenti”. La remenca era invece

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un riscatto che i contadini della Catalogna erano tenuti a corrispondere al signore territoriale a cui avevano scelto di sottomettersi in cambio di con-cessioni terriere a tempo indeterminato.

Tra il XV e il XVI secolo la libertà è ancora declinata in senso feudale e di ceto, ma acquista importanza nella riflessione etico-filosofica sulla condizione dell’uomo nel mondo, che si esprime anche in forme teatrali come nella Moralité de Fortune et Povreté di cui scrive (in francese) Gio-vanni Matteo Roccati.

Mentre assumono un rilievo speciale i tenta-tivi di limitare le autonomie comunitarie da parte del potere centrale, si assiste alla strenua difesa di libertates che in realtà sono dei privilegi par-ticolari piuttosto che delle libertà generalizzate. È la situazione descritta da Pierpaolo Merlin per il ducato di Savoia del primo Cinquecento. In un mondo che cambia grazie all’espandersi degli orizzonti geografici e delle relazioni commercia-li, la libertà si concretizza a certi livelli sociali nella presenza di spazi per la mobilità femminile, come argomenta Rita Mazzei nel suo intervento. In tali spazi agiscono anche alcune figure di don-ne libere dell’alta aristocrazia: è il caso conside-rato da Alice Blythe Raviola.

Prettamente aristocratica è la concezione di libertà che si evidenzia nel conflitto politico rico-struito da Fredéric Ieva, consumatosi all’interno della dinastia sabauda durante la reggenza di Ma-dama Cristina.

Il secondo gruppo di relazioni ha per titolo Percorsi di libertà fra Settecento e Ottocento. Con l’Illuminismo si compie senza dubbio una svolta, perché a questo punto è il dibattito filo-sofico e storiografico a condizionare fortemente l’idea di libertà, che si lega all’affermazione di valori “positivi” come ad esempio la libertà di opinione e di stampa, a cui è dedicato il contri-buto di Patrizia Delpiano. I discorsi degli illu-ministi, per quanto variegate fossero le loro po-sizioni sul piano pubblico, avrebbero poi trovato una sintesi nell’articolo 11 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789: “La libre communication des pensées et des

opinions est un des droits les plus précieux de l’homme: tout citoyen peut donc parler, écrire, imprimer librement, sauf à répondre de l’abus de cette liberté dans les cas déterminés par la loi”.

La Rivoluzione francese porta a compimen-to la sintesi tra aspirazioni libertarie maturate in Europa nel corso dei secoli precedenti e l’ela-borazione teorica degli intellettuali. L’esperien-za rivoluzionaria lascia in eredità i nuovi con-cetti, astratti e assoluti, dei “diritti dell’uomo”, dell’impostazione pedagogica dell’homo faber, della libertà di pensiero e di insegnamento, defi-nendo l’idea di un’identità culturale e di una co-scienza sociale che trovano ulteriori sviluppi nel corso dell’Ottocento e dell’Età contemporanea.

Alcuni di questi passaggi fondamentali sono colti nell’intervento di Silvano Calvetto. Questo nuovo clima influenza sia modesti letterati di provincia, come ci ricorda Paolo Gerbaldo, sia grandi scrittori come Alessandro Manzoni, come mostra con dovizia di particolari Luca Badini Confalonieri.

Il terzo gruppo di relazioni si intitola Libertà di pensiero, coscienza sociale, educazione, cul-tura. Nel diciannovesimo secolo anche l’artista diventa un testimone di libertà, come dimostra Anna Ciotta studiando le caricature di Honoré Daumier e Casimiro Teja. L’idea di libertà con-tinua a esercitare un grande fascino sull’imma-ginario popolare contemporaneo, come sottoli-neano gli interventi di Laura Bonato e Lia Zola. Entrambe ricostruiscono feste e rituali collettivi che richiamano un passato lontano, quasi miti-co, a riprova di quanto la libertà sia ancora un concetto altamente evocativo e di valore assoluto.

Conclude Elena Madrussan che - prendendo spunto dalle Conferenze di Basilea di Friedrich Nietzsche - ricorda la forte responsabilità morale dell’educatore nella realizzazione della libertà. Un libro pieno di spunti singolari, che percorre strade e sentieri che indicano come ancora oggi la libertà sia un valore lontano dall’essere piena-mente realizzato.

Arnaldo Bobba

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Irene Gaddo - Edoardo Tortarolo, Secolarizzazione e modernità. Un quadro stori-co, Carocci editore, Roma, 2017, pp. 219, ill. ISBN 978-88-430-8082-3.

Il fine di questo libro è quello di fare una riflessione storica sia sulla presenza di principi confessionali nella vita pubblica e nell’esperien-za quotidiana dell’Europa moderna sia sull’ef-ficacia dei movimenti che hanno modificato gli equilibri per ridurre la sfera di influenza delle istituzioni religiose e allargare al tempo stesso gli spazi del potere politico “laico”.

Due gli autori: Edoardo Tortarolo, che inse-gna Storia moderna all’Università del Piemonte Orientale e che firma l’introduzione e i capitoli 2 e 4; Irene Gaddo, dottore di ricerca presso la stessa Università, che è l’autrice dei capitoli 1, 3 e 5. Alla base delle moderne teorie sulla seco-larizzazione c’è l’influenza di Emile Durkheim e Max Weber, la produzione scientifica dei quali rappresentò un importante punto di riferimento. Nelle elaborazioni sociologiche successive con-fluirono infatti il processo di differenziazione di Durkheim e il concetto weberiano di disincanto del mondo. Sintetizzando, si può dire che Dur-kheim configurò le condizioni della società mo-derna come il risultato di una progressiva diversi-ficazione delle attività e delle regole di condotta sociale che rese minoritarie le norme religiose. Mentre Weber, agli inizi del Novecento, elaborò un modello sociologico in cui le trasformazioni del rapporto tra religione e società davano vita a una nuova concezione del mondo. L’idea dello sviluppo socio-culturale dell’Occidente come su-peramento della visione “magica” della realtà fu definita dal sociologo tedesco come “disincanto” o “demagificazione del mondo”.

In mezzo alla varietà di interpretazioni socio-logiche, si affermarono nuovi indirizzi di ricerca storica. Lo studio dei testamenti (meno lasciti per servizi funebri o messe di suffragio) o delle va-riazioni del mercato librario (flessione della ven-dita di opere di argomento religioso) permisero ad esempio di considerare la secolarizzazione in modo più specifico, cogliendone cioè le manife-

stazioni nella vita quotidiana delle persone. Nel Settecento il cambiamento di idee sulla religione si trasformò nella visione di una società diversa, secolarizzata, nella quale le funzioni delle istitu-zioni pubbliche erano percepite per la loro rile-vanza positiva o negativa e non come strumento di salvezza o di dannazione eterna. Il movimento illuministico reclamò la secolarizzazione della società, chiedendo l’autonomia delle istituzioni sociali dal controllo delle religioni rivelate.

Il grado di intreccio tra istituzioni politiche ed ecclesiastiche variava nei diversi paesi europei. Come è stato ricordato da Linda Colley, l’identità britannica rimase per tutto il Settecento e la parte iniziale dell’Ottocento fortemente impregnata di protestantesimo. La Chiesa riformata olandese aveva il monopolio delle manifestazioni pubbli-che in campo religioso, era finanziata da fondi statali e appoggiata dai poteri civili. Nell’Europa centrale, dopo la pace di Vestfalia del 1648, si venne rafforzando il principio teorico del cuius regio eius religio che mirava all’omogeneità con-fessionale degli Stati territoriali. Nelle monarchie francese, spagnola e portoghese e negli Stati ita-liani la compenetrazione tra le istituzioni civili ed ecclesiastiche era molto profonda, così come l’influenza della Chiesa cattolica.

Nel quadro del processo di secolarizzazione non si possono trascurare le trasformazioni che, dalla seconda metà del Settecento, interessarono il personale religioso nel contesto europeo. Qua-le fu l’effettiva entità della popolazione ecclesia-stica dagli anni Sessanta del Settecento fino al crollo dell’Impero napoleonico? L’incidenza di ecclesiastici sul totale delle popolazioni naziona-li sembrava aver raggiunto dimensioni abnormi, in particolare nei paesi dell’Europa cattolica. Nei decenni prima della Rivoluzione il clero francese impressionava non solo per la sua consistenza nu-merica ma anche per l’influenza politica e finan-ziaria; in paesi come Spagna, Portogallo e Italia

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Recensioni e segnalazioni

si segnalava un’eccessiva presenza di chierici, preti e monache che ne affollavano le principali città; i domini austriaci avevano una concentra-zione monastica talmente alta da far guadagnare al Regno asburgico l’appellativo di Klosterreich.

Come acquisito - in modo non facile né scontato - dalla ricerca storiografica, dall’epoca di accelerazione delle riforme illuministiche gli equilibri tra il potere civile e quello religioso at-traversarono profondi rivolgimenti, con un’avan-zata dello Stato e una perdita d’influenza della Chiesa. Nel corso della Rivoluzione francese l’accavallarsi degli avvenimenti e le decisioni oscillanti e ambigue del potere civile costituiro-no un esperimento di “decristianizzazione” attiva senza precedenti. La Costituzione del 1791 di-chiarò che il matrimonio è un semplice contratto civile che si può rompere. Con la legge del 20 settembre 1792 i registri per le nascite, i matri-moni e le morti passarono dal clero alle autorità civili. Altri provvedimenti ebbero un contenuto simbolico deflagrante, come la sostituzione del calendario gregoriano con quello rivoluzionario e il divieto di suonare le campane.

Il tentativo di ricucire la frattura tra la cul-tura politica rivoluzionaria e il cattolicesimo fu fatto con il Concordato del 1801-1802. Si mise fine allo scisma tra la Chiesa costituzionale e la

Chiesa refrattaria e fu garantita ai fedeli la possi-bilità di professare senza pericoli. Il tentativo di decristianizzare la Francia era fallito e Napoleo-ne ne prese atto.

Di fronte agli indirizzi di politica ecclesiasti-ca che i governi attuarono in vari paesi europei si ebbero diverse reazioni. Nella Prussia di Federico II, un animato dibattito pubblico esplose in segui-to a una delle innovazioni più rilevanti introdotte nell’ambito della politica religiosa inaugurata dal sovrano: la revisione del libro di preghiere can-tate (Gesanbuch) durante le funzioni sacre, mo-mento centrale della liturgia luterana. Nell’im-pero asburgico la politica religiosa di Giuseppe II, nota con il nome di “giuseppinismo”, suscitò accese reazioni che culminarono con il viaggio del papa Pio VI a Vienna. Tra il marzo del 1793 e il gennaio del 1794 la Vandea fu teatro di violen-ti scontri tra bande locali (braccio armato della conservazione religiosa) ed eserciti rivoluzionari. A questi avvenimenti si collegano i meno cono-sciuti moti insurrezionali italiani: da “Viva Ma-ria” nel Genovese e in Toscana fino al sanfedismo meridionale di fine secolo. Un libro, dunque, che rivela i contenuti essenziali di un periodo stori-co breve ma complesso, con l’intenzione di fare chiarezza e documentare.

Arnaldo Bobba

Massimo Borro, Partigianato tronzanese. I partigiani di Tronzano Vercellese durante la Seconda Guerra Mondiale, Tronzano Vercellese 2016, pp. 110.

Nel volume l’autore trascrive le schede ana-grafiche della banca dati del Partigianato pie-montese dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea.

La banca dati è interamente consultabile sul sito dell’Istituto e raccoglie 108.421 nominativi di protagonisti della lotta di Liberazione in Pie-monte. Le schede anagrafiche, prodotte nell’am-bito di una ricerca condotta dagli Istituti storici della Resistenza del Piemonte, sono state com-pilate grazie all’esame dei fascicoli conservati

presso l’archivio dell’Ufficio per il Riconosci-mento Qualifiche e per le Ricompense ai Parti-giani.

Borro trascrive le schede fedelmente, senza nulla aggiungere, pubblicando l’insieme dei cit-tadini nati a Tronzano o ivi residenti e coinvolti nella lotta per la Liberazione.

In coda al testo, l’autore inserisce la lettera di Andrea Mensa, falegname, catturato a Fiano Torinese alla fine del 1944 e fucilato nel febbraio del ’45 a Caselle Torinese. La lettera era già stata

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Recensioni e segnalazioni

pubblicata nel 1952 in una silloge di corrispon-denze dei condannati a morte, citata dall’autore. A detta di quest’ultimo il “Partigianato tronzane-se” è un capitolo, un preludio, di un più ampio studio sulla storia tronzanese dall’armistizio al

referendum del 1946. Al lettore dunque non re-sta che aspettare l’uscita del prossimo volume, tenendo a portata di mano l’elenco dei partigiani tronzanesi.

Sara Minelli

“Ennion. Master of Roman glass”, catalogo della mostra, a cura di C. S. Lightfoot, New York, 2014.Dal territorio vercellese provengono due coppe con manici in vetro blu, ora conservate presso il Museo di Antichità di Torino - Musei Reali, con la firma di Ennione. Una, integra, è stata trovata nel 1873 in una tomba nei pressi della cappella di S. Giorgio di Caresana (non Caresanablot, come si legge nella scheda n. 22, p. 105); essa è quasi identica a una coppa in vetro verde proveniente da Pollentia (Pollen-zo), ora al Museo Civico di Palazzo Traversa a Bra (CN). L’altra, priva di un’ansa, è stata trovata nel 1981 nella necropoli di S. Bartolomeo di Vercelli (scheda n. 20, pp. 102-103).

Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati, serie IX, volume IV (II), A (2014). Da segnalare:G. Ardizio, Le origini dell’incastellamento nel vercellese storico: fonti scritte ed evidenze archeolo-giche, pp. 101-129. F. Pistan, Linee difensive tardo antiche/altomedievali in aree collinari piemontesi: spunti di indagine, pp. 131-166.Entrambi i saggi sono liberamente scaricabili dal sito internet dell’Accademia.

“Brixia. Roma e le genti del Po. Un incontro di culture III-I secolo a.C.”, catalogo della mostra, Firenze - Milano, 2015, pp. 363. Da segnalare:G. Spagnolo Garzoli, La Cisalpina occidentale, pp. 52-53; Vercelli nel II-I secolo a.C., p. 183; Stele bilingue da Vercelli, pp. 207-208; Le aurifodinae della Bessa, pp. 294-295; Lucerne dagli abitati della Bessa, pp. 296-297.S. Marchiaro, La tomba di Vinzaglio, p. 278.A. Deodato, Ceramiche indigene e importazioni dagli abitati stagionali de La Bessa, pp. 295-296; Utensili per le lavorazioni artigianali, p. 297.

Paolo Cavallo, Un allievo di padre Martini nel Piemonte del Settecento: il domenicano Benedetto Astesani di Bosco Marengo, la sua musica ed i suoi due organi, in “Organi liguri. Periodico annuale di informazione organaria e organistica”, X-XI (2013/2014) [ma 2017], pp. 35-58. Da segnalare i ver-cellesi, compositori o suonatori, Carlo Monza, Pietro Paolo Valle, Giuseppe Maria Vaccario, Giovanni Domenico Perotti, Giovanni Agostino Perotti (p. 35), attivi nella cattedrale di S. Eusebio (pp. 37-38 e note relative).

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Vita della Società Storica

VITA DELLA SOCIETÀ STORICA

10 maggio 2017CESARE FACCIO E GIULIO CESARE FACCIO.

LA STORIA VERCELLESE DI PADRE IN FIGLIO

Continua l’impegno dell’associazione di Volontariato culturale “VercelliViva” nel ricor-dare l’importanza storica di illustri vercellesi. Mercoledì 10 maggio 2017, il dott. Giorgio Ti-baldeschi, direttore del Bollettino Storico Vercellese, ha tratteggiato le vicende storiche legate alla figura di Cesare Faccio e di suo figlio Giulio Cesare Faccio. La conferenza si è aperta con i saluti da parte del presidente di “VercelliViva”, l’avvocato Antonino Ruffino, ricordando il costante lavoro svolto dall’associazione nella salvaguardia del patrimonio culturale locale mediante una serie di iniziative e pubblicazioni.

Passata la parola a Giorgio Tibaldeschi, la prima parte del suo intervento è stata focalizza-ta a ridimensionare l’agiografia cresciuta nel tempo intorno a Cesare Faccio, in cui effusioni romantiche si intrecciavano alla retorica risorgimentale, che soltanto una paziente ricerca storica può emendare. Sono riprese le fila della sua biografia, di cui emerge una carriera militare tutt’altro che limpida. Viceversa è ricordata la fondazione, insieme a Luigi Guala, al quale forse si deve il merito maggiore, e all’avv. Amedeo Bellardi, del giornale locale, La Sesia, tutt’ora stampato. Copioso giornalista, di Cesare Faccio, è pure emersa una parentesi letteraria non troppo ristretta, visto lo spazio occupato da tale velleità poetica nella sua bi-bliografia. Di certo, come ha ricordato Giorgio Tibaldeschi, l’aspetto più importante della produzione di Cesare Faccio è legato al suo impegno come storico, le cui pubblicazioni continuano a mantenere validità, sebbene ipotesi quali la “Corte Regia”, che hanno condizio-nato pesantemente la successiva storiografia, non trovino più riscontri, confutate dalle recenti ricerche archeologiche. Tra i meriti storici è pure ricordata la nascita nel 1909 dell'Archivio

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Vita della Società Storica

della Società Vercellese di Storia e d’Arte, di cui Cesare Faccio è stato promotore, insieme al can. Romualdo Pastè, al fotografo Pietro Masoero, all’avv. Paolo Germano Stroppa e al prof. Carlo Verzone. Tuttavia nel restituire gli entusiasmi cittadini per l’iniziativa che tanto avrà importanza per la storiografia locale, Giorgio Tibaldeschi ha necessariamente menzionato le diffidenze e le stroncature piovute dal mondo accademico torinese.

Più lineare e quieta la biografia di Giulio Cesare Faccio. Compiuti studi regolari tra Ca-tania, Pisa e Torino, gran parte della sua vita professionale è dedicata all’insegnamento sco-lastico all’Istituto Cavour, divenendone preside nel 1934 fino al pensionamento nel 1941. Nel frattempo dal 1909 “eredita” dal padre la direzione della Biblioteca Civica e quindi dell’Archivio, dal quale grazie al suo rigore storico licenzierà importanti contributi: dal la-voro sulle tipografie vercellesi del 1910 alla pubblicazione dei documenti dell’Archivio, in stretto contatto con la Società Storica Subalpina presieduta da Ferdinando Gabotto, fino alla monumentale impresa dei Biscioni: lavoro lungo e complesso, la pubblicazione dei circa 1300 documenti contenuti al loro interno sarà portata a termine soltanto nel 2000 con l’uscita dell’ultimo volume. Infine non poteva non essere citata la Vecchia Vercelli, fortunata inizia-tiva editoriale ben nota ai vercellesi, costituita inizialmente da singoli libri tascabili, editi dal 1931 al 1951, poi confluiti in veri e propri volumi, arricchiti dai contributi di Giuseppe Chicco e Francesco Vola. Giorgio Tibaldeschi ha pure sottolineato la prudenza con cui ci si deve approcciare a tale letteratura, cosa che spesso non avviene.

Il suo intervento si è concluso con una nota d’ironia, ricordando il carattere ilare di Giulio Cesare Faccio. A omaggio della sua importanza, la Società Storica Vercellese, nata nel 1972, volle pubblicare in apertura della prima uscita un suo saggio, allora inedito, sull’assedio di Vercelli del 1704.

Dario Salvadeo

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Vita della Società Storica

23 maggio 2017

VERCELLI, MUSEO DEL DUOMO:PRESENTATO IL BOLLETTINO STORICO VERCELLESE n. 88

E IL PROGRAMMA DELL’ASSEMBLEA ANNUALE A CASALINO

Martedì 23 maggio, presso il Museo del Tesoro del Duomo di Vercelli, è stato presentato il nuovo Bollettino Storico Vercellese, giunto al numero 88. Giovanni Ferraris, Presidente del-la Società Storica Vercellese, ha ringraziato per l’ospitalità il Museo e si è detto soddisfatto per questo nuovo numero del Bollettino, annunciando tra fine novembre e inizio dicembre, il VII Congresso Storico Vercellese.

Giorgio Tibaldeschi, direttore del Bollettino, ne ha fatto la presentazione arricchendola con immagini per ognuno dei sei contributi: “Per fortuna non manca il materiale costituito da saggi redatti con criteri scientifici, ma di lettura accattivante”.

Ogni saggio è completato da un breve riassunto, redatto sia in italiano che in inglese. Questo numero ospita anche un saggio in francese di Gilles André dedicato a Felix Gallet, autore del curioso Albero Genealogico delle Lingue, che fu impiegato delle Poste Francesi a Vercelli dal 1804 al 1814. Delle trecento pagine del volume trenta sono state dedicate alle recensioni e una ventina riservate alla vita della Società Storica.

Dopo la presentazione del Bollettino il prof. Claudio Rosso, specialista di Storia politi-

Il pubblico presente

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Vita della Società Storica

ca, istituzionale e culturale della pri-ma età moderna e professore di Storia moderna presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avo-gadro”, ha “aggiornato” il numeroso pubblico sull’avanzamento degli studi storici su Vercelli e il Vercellese, ri-prendendo il discorso avviato nel feb-braio 2015 con la conferenza: Un can-tiere aperto per gli storici: Vercelli nel Cinque-Seicento, nel quale aveva fatto il punto sulle fonti attualmente dispo-nibili, bibliografiche ed archivistiche e proposto nuovi itinerari di studio.

Rosso ha svelato i numerosi: “La-vori in corso”, portati avanti da gio-vani studiosi intelligenti e volenterosi, soffermandosi proprio sui tre saggi di storia moderna che aprono il Bolletti-no, che si conferma come: “Strumen-to prezioso per gli storici di mestiere, linfa dalla quale traggono preziose informazioni”. Dell’Oro, Tacca e Ferrara si occupano di Vercelli e del Vercellese nei secoli tra fine Medioevo e il Settecento attraverso un percorso di studio che parte da lontano e si avvicina progressiva-mente. Dalla ricostruzione della Biblioteca Gromo-Berzetti di Dell’Oro, emerge il rapporto tra Vercelli e Biella, portato all’attenzione degli studiosi attraverso le vicende delle famiglie viste negli agganci più ampi rispetto all’ambito strettamente locale. Tacca e Ferrara, entrambi dottorandi di ricerca, approfondiscono gli studi della tesi magistrale e della tesi di dottorato, il primo soffermandosi sul concetto complesso di confine, esemplificato attraverso i rapporti e le liti tra Romagnano e Gattinara, Ferrara invece propone un saggio sui reiterati e frustrati tentativi della famiglia Bellini, di entrare a pieno titolo nelle élites cittadine, confermando la presenza di un’oligarchia vercellese che conservava le proprie regole, anche se da oltre centocinquant’anni la città era sottomessa allo stato sabaudo.

Rosso ha poi introdotto i temi che saranno trattati nel VII Congresso Storico Vercellese, che sarà incentrato sugli anni compresi tra il 1427 e il 1553, dall’annessione sabauda di Ver-celli alla morte di Carlo II di Savoia, avvenuta nella stessa città. La direzione scientifica del Congresso sarà affidata a Giovanni Ferraris, Giorgio Tibaldeschi, Claudio Rosso, Alessandro Barbero e Rinaldo Comba: tra i relatori figureranno storici ben conosciuti ed apprezzati ac-canto a giovani, promettenti studiosi.

Giovanni Ferraris ha concluso la presentazione ringraziando la Fondazione Cassa di Ri-sparmio di Vercelli che finanzierà il Congresso, dando appuntamento all’Assemblea annuale, che quest’anno si terrà domenica 4 giugno a Casalino, terra di confine importante: al tempo della provincia di Vercelli pre-unitaria, apparteneva al mandamento di Borgo Vercelli, che comprendeva comuni che oggi sono in Provincia di Vercelli e altri in provincia di Novara, come la stessa Casalino. Al termine dei lavori dell’Assemblea Francesca Bergamaschi gui-

Il presidente Giovanni Ferraris illustra la sua relazio-ne ai soci presenti

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Vita della Società Storica

derà la visita alla chiesa di S. Pietro (Sec. XI con affreschi del sec. XV), alla parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo (con affreschi del secolo XV) e al castello dei Leonardi. Dopo il pranzo presso il ristorante “La Gera” di Confienza, ci sarà un visita guidata da Simone Riccardi alla chiesa di S. Maria del Carmine (detta “Chiesuola”).

Piera Mazzone

Il prof. Claudio Rosso presenta la sua relazione storica

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Vita della Società Storica

DONO DI LIBRI DI AMEDEO CORIO

Con piacere segnaliamo che dopo la morte di Amedeo Corio (1924-2013), la nipote Emanuela Corio ha proposto alla Società Storica Vercellese la donazione di una parte della ricca biblioteca dello zio, relativamente alla parte storica e artistica della stessa.

La proposta è stata subito accettata, senza ulteriori formalità, e dal mese di maggio 2017 la biblioteca della Società Storica ha acquisito un cospicuo fondo di libri e opuscoli che si aggiungono alle precedenti donazioni (G. C. Faccio, G. Rosso, M. Ferrari, R. Ordano).

Attualmente il fondo, approssimativamente calcolato in circa 250 pezzi di diversa dimensione, si trova nella fase preliminare della semplice elencazione, in attesa delle più laboriose procedure di ingresso e di messa a disposizione degli studiosi.

Il fondo è costituito da opere edite dalla stessa Società Storica, da copie di volumi già posseduti dalla sua biblioteca sociale, ma anche di testi non comuni, esauriti o introvabili da tempo, oltre che di opuscoli non facilmente reperibili altrove. Da segnalare, per la sua singolarità, il caso del secondo volume di “Civiltà del Piemonte: studi in onore di Renzo Gandolfo nel suo settantacinquesimo compleanno”, a cura di G. P. Clivio e di Riccardo Massano, pubblicato in due volumi a Torino nel 1975, di cui la biblioteca della Società Storica possedeva finora solo il primo.

Alla signora Emanuela Corio, dunque, il grazie della Società Storica che assicura un degno ricordo del suo socio e consigliere onorario Amedeo.

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Vita della Società Storica

4 giugno 2017CASALINO: ASSEMBLEA

DELLA SOCIETA’ STORICA VERCELLESE

Domenica 4 giugno, a Casalino, in una sala messa a disposizione dal Comune, si è svolta l’Assemblea ordinaria della Società Storica Vercellese.

Il sindaco Sergio Ferraris ha accolto i soci con un messaggio molto cordiale, ricambiato dal presidente Giovanni Ferraris con un dono di libri, e nell’occasione ha sottolineato che il sito on line del Comune contiene anche una parte storica dal titolo significativo: “Impor-tante per non dimenticare le proprie radici”. Nella chiesa di S. Pietro, infatti, fu stipulato il 24 maggio 1194 il trattato di pace fra novaresi e vercellesi, noto come “Pace di Casalino”, oggetto dell’esauriente relazione del prof. Giancarlo Andenna, già Ordinario di Storia Me-dievale presso l’Università Cattolica di Milano e Accademico dei Lincei. Con questa pace, i due comuni di Novara e di Vercelli mettevano fine alla propria rivalità, spartendosi il governo del territorio di Biandrate (a danno dei conti del luogo) e fissando al fiume Sesia la linea di confine.

Da ricordare, nella storia del paese, la figura di Marcello Prestinari, medaglia d’oro al Valor Militare durante la I Guerra Mondiale, e quella dello schermidore Luigi Cantone, vin-citore di una medaglia d’oro e una d’argento ai giochi olimpici di Londra del 1948.

I lavori assembleari sono iniziati dopo un minuto di silenzio in memoria dell’ing. Giaco-mo Fioramonti, probo viro della Società Storica dal 2000, e proseguiti con l’approvazione dei

Il tavolo dei lavori assembleari. Da sinistra: Giovanni Reina (tesoriere), Giovanni Ferraris (presidente), Felice Mandrino (segretario).

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Vita della Società Storica

nuovi soci da parte dell’Assemblea e la nomina a Consigliere Onorario della prof. Patrizia Marcone Praglia.

Il presidente Ferraris ha ricordato le tre riunioni del Consiglio Direttivo, durante le quali è stata deliberata l’organizzazione del VII Congresso Storico Vercellese, nei giorni 30 novem-bre, 1 e 2 dicembre 2017. Il Congresso verterà sugli anni tra il 1427 e il 1553: dall’annessione sabauda di Vercelli alla morte di Carlo II di Savoia, avvenuta nella stessa città. La direzione scientifica del Congresso è stata affidata ad Alessandro Barbero, Rinaldo Comba, Giovanni Ferraris, Claudio Rosso, e Giorgio Tibaldeschi; tra i relatori figureranno storici ben conosciu-ti ed apprezzati accanto a giovani e promettenti studiosi. Nella sua relazione, il presidente ha ringraziato la Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli (costante e generoso sponsor), il Centro Servizi per il Volontariato, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università “Ame-deo Avogadro”, i musei cittadini, i soci che ricoprono cariche statutarie, il consigliere onora-rio Anna Cerutti (che ha completato il catalogo della biblioteca sociale), Alberto Colombo e Marco Cerruti (addetti all’informatica e al sito della Società Storica), i membri del Comitato Scientifico e della Redazione del “Bollettino Storico Vercellese”, i collaboratori che si occu-pano delle recensioni.

Tra le attività dell’ultimo anno, ha sottolineato il presidente, la pubblicazione dei fascicoli 86, 87 e 88 del “Bollettino Storico Vercellese”, la presentazione del volume in ricordo del presidente onorario Rosaldo Ordano (scomparso il 10 maggio 2015), la presentazione del vo-lume in onore del prof. Comba (“Medioevo vissuto. Studi per Rinaldo Comba fra Piemonte e

Lombardia”, cura-to dagli allievi a lui più vicini durante gli anni ambrosia-ni), la partecipa-zione alla presen-tazione del volume sul Romanico Pie-montese, curato dal prof. Saverio Lo-martire, la presen-tazione del volume del vice presiden-te Mario Ogliaro (Famiglie nobili, notabili, personag-gi illustri e bene-fattori della città di Crescentino), la compartecipazione all’organizzazio-ne del convegno su Paolo Verzone, la compartecipa-zione alla stampa

Il presidente offre un omaggio di libri al sindaco di Casalino, Sergio Ferraris.

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Vita della Società Storica

degli Atti del convegno “Paesaggi fluviali della Sesia. Storia, archeo-logia”, curato dal prof. Riccardo Rao (Univer-sità di Bergamo), la pubblicazione del volu-me di Antonio Corona e Giorgio Tibaldeschi (“Il convento agostiniano di S. Maria della Consola-zione in San Germano Vercellese”).

Il bilancio consun-tivo 2016 e il bilan-cio preventivo 2017, presentati dal revisore dei conti Maria Teresa Ferraris, in assenza del tesoriere Giovanni Rei-na, sono stati approvati all’unanimità.

Il presidente Ferra-ris quindi ha chiuso i la-vori assembleari ricor-dando che il prossimo anno sarà rinnovato il

Consiglio Direttivo, augurandosi la presenza di nuovi candidati che abbiano a cuore il futuro del sodalizio e che assicurino l’indispensabile ricambio generazionale.

Francesca Bergamaschi, membro del Consiglio Direttivo della Società Storica Novarese, ha poi guidato le visite che hanno concluso la mattinata: la chiesa di S. Pietro, dell’XI secolo con affreschi quattrocenteschi, la parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo con gli affreschi della “Parete dei Santi” (fatti conoscere nel 1996 da Agostino Temporelli), frutto di ben quattro diverse campagne decorative. Sono stati illustrati gli affreschi trecenteschi, attribuiti alla bot-tega dei De Bosis, la teoria dei Santi e quel che resta di una grandiosa Crocifissione, che pare anticipare quella di Gaudenzio Ferrari. Le visite si sono concluse al castello dei Leonardi, oggi proprietà privata che consente l’accesso al parco con lo stagno e un isolotto, alla vasca dei pesci, alle scuderie e al lavatoio.

Dopo il pranzo sociale presso il ristorante La gèra di Confienza (con menu tipicamente piemontese), nel primo pomeriggio lo storico dell’arte Simone Riccardi ha guidato la visita alla chiesa di S. Maria del Carmine (detta la “Chiesuola”), all’esterno neogotica, mentre all’interno conserva due importanti testimonianze pittoriche antiche: un affresco della prima metà del Quattrocento, che rientra nell’ambito della bottega novarese di Giovanni De Cam-po, la cui presenza in diocesi di Vercelli non è ancora stata studiata in modo approfondito; nella seconda abside una Crocifissione con la Madonna e la Maddalena, completata da una

Il presidente con la relatrice Francesca Bergamaschi.

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Vita della Società Storica

La Società Storica Vercellese in visita alla chiesa romanica di S. Pietro di Casalino.

iscrizione in cui si legge la data 1583 e la committenza dei De Faletis; su questo affresco, già definito di scuola laniniana nei primi anni del 900, Riccardi ha concluso la sua dettagliata analisi riconoscendolo come “certamente di buona qualità”, ma senza che nulla ci permetta di ritenerlo autografo di Bernardino Lanino.

Ancora una volta, le assemblee della Società Storica si rivelano non solo come occasioni importanti d’incontro tra i soci, ma anche un modo per approfondire la conoscenza del terri-torio del Vercellese storico.

Piera Mazzone

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Vita della Società Storica

ASSEMBLEA 2017 (CASALINO, 4 GIUGNO 2017)RELAZIONE SULL’ATTIVITÀ 2016-2017

Durante il periodo 10 aprile 2016 - 4 giugno 2017, il Consiglio Direttivo (CD) della So-cietà Storica Vercellese (SSV) si è riunito tre volte (13-10-2016, 21-02-2017, 18-04-2017); inoltre, vi sono stati scambi di opinioni per via telematica.

Oltre alla normale amministrazione, il CD ha deliberato quanto segue.1. La celebrazione del VII Congresso della Società Storica Vercellese a fine anno 2017.2. L’organizzazione di un convegno su Paolo Verzone in collaborazione con Piemonte Me-

dioevale e stampa dei relativi atti.Come risulta dal bilancio consuntivo, per quanto riguarda le finanze abbiamo potuto con-

tare sulle sottoscrizioni dei nostri fedeli soci, sul tradizionale e fondamentale sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli (CRVc), su oblazioni varie a fronte dell’invio di nostre pubblicazioni e su contributi per specifiche pubblicazioni sotto citate. La SSV ha usu-fruito di servizi del Centro Servizi per il Volontariato di Vercelli per quanto riguarda stampa di locandine, fotocopie e supporto alla segreteria. Il Dipartimento di Studi Umanistici dell’U-niversità “A. Avogadro” e i Musei Leone e Tesoro del Duomo hanno concesso gratuitamente loro locali in occasione di varie manifestazioni della Società. A tutti va la nostra riconoscenza.

Una mia riconoscenza particolare va ai soci che ricoprono cariche statutarie (Consiglio direttivo, revisori dei conti, probiviri, segretario, tesoriere e direttore del Bollettino) per la loro fattiva collaborazione; purtroppo il 7 maggio scorso è venuto a mancare l’ing. Giaco-mo Fioramonti socio della Società da lunga data e suo proboviro dall’anno 2000: a Lui il nostro riconoscente pensiero. Come preannunciato nella precedente Assemblea, il consi-gliere onorario Anna Cerutti Garlanda ha espertamente portato a termine l’aggiornamento del catalogo della biblioteca: glie ne sono particolarmente grato. Veramente meritoria è poi l’opera volontaria prestata dai collaboratori Alberto Colombo e Marco Cerruti che, pur non ricoprendo incarichi statutari, contribuiscono alla gestione della segreteria e del sito web, rispettivamente. Infine, ma solo in ordine di elencazione, sono riconoscente ai componenti del Comitato scientifico e ai componenti del Comitato di redazione per la loro insostitui-bile funzione; qui dovrei aggiungere altri collaboratori, che mi esento dall’elencare, per il lavoro di recensione che va ad arricchire il nostro Bollettino. Tra le attività dei componenti del Comitato di redazione mi permetto di sottolineare il lavoro extra di Silvia Faccin, Sara Minelli e Piera Mazzone che, nell’ordine, curano la distribuzione del Bollettino e l’inseri-mento in rete delle pubblicazioni della Società su Academia.edu - le prime due -, i rapporti con la stampa e la rubrica “Vita della Società” sul BSV, per la terza.

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Vita della Società Storica

ATTIVITÀ EDITORIALE

Durante il periodo in esame sono state stampate le seguenti pubblicazioni.1. I fascicoli 86, 87 e 88 del Bollettino Storico Vercellese. 2. Volume in memoria di Rosaldo Ordano.3. Compartecipazione alla stampa del volume Medioevo vissuto. Studi per Rinaldo Comba

fra Piemonte e Lombardia.4. Volume Famiglie nobili, notabili, personaggi illustri e benefattori della città di Crescenti-

no di Mario Ogliaro (con il contributo finanziario del dottor Paolo Tournon e del Comune di Crescentino).

5. Compartecipazione alla stampa del volume I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia a cura di Riccardo Rao.

6. Quaderno Il Convento Agostiniano di S. Maria della Consolazione in San Germano Ver-cellese, autori Antonio Corona e Giorgio Tibaldeschi (con il contributo finanziario di Antonio Corona).

MANIFESTAZIONI CULTURALI

1. 14 maggio 2016 - Presentazione presso il Museo Leone del volume in memoria di Rosal-do Ordano con interventi del curatore del volume, Rinaldo Comba, e di numerosi autori.

2. 10 giugno 2016 - Presso la Cripta di S. Andrea, presentazione del Bollettino n. 86 con conferenza di Germana Gandino. A seguire presentazione del volume Medioevo vissuto. Studi per Rinaldo Comba fra Piemonte e Lombardia coordinata da Alessandro Barbero; relatore Jean-Marie Martin.

3. 21 settembre 2016 - Con il patrocinio della SSV, presso il Museo Leone l’autore Alessan-dro Barbero ha presentato il suo volume Costantino il Vincitore.

4. 18 novembre 2016 - Collaborazione alla presentazione del volume Romanico Piemontese - Europa romanico, curato da Saverio Lomartire, presso la Sala delle Colonne dell’UPO.

5. 5 novembre 2016 - Presso il Teatro Angelini di Crescentino, è stato presentato il volume Famiglie nobili, notabili, personaggi illustri e benefattori della città di Crescentino di Mario Ogliaro; oratore Gustavo Mola di Nomaglio.

6. 25 novembre 2016 - Presso l’Aula Magna del Seminario, convegno su “Paolo Verzone (Vercelli 1902 - Torino 1986)” promosso dall’associazione Piemonte Medioevale guidata dal socio Simone Caldano.

7. 25 novembre 2016 - Presso il Museo del Duomo, presentazione del Bollettino n. 87 in concomitanza con quella di un volume di Saverio Lomartire sulle coperte dell’Evangeli-stario (codice “C”) della Biblioteca Capitolare di Vercelli; relatore Fabrizio Crivello.

8. Il 7 febbraio 2017 - Presso la Cripta di S. Andrea, presentazione del volume I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia a cura di Riccardo Rao; oratore Dario Can-zian.

9. 29 marzo 2017- Ripresentazione del volume suddetto presso il salone SOMS di Stroppia-na con intervento del curatore.

10. 7 aprile 2017 - Presso l’Auditorium del Corpus Domini di San Germano Vercellese, pre-sentazione del Quaderno della SSV Il Convento Agostiniano di S. Maria della Conso-lazione in San Germano Vercellese di Antonio Corona e Giorgio Tibaldeschi; relatore

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Vita della Società Storica

Gianni Mentigazzi ed interventi degli autori.11. 26 aprile 2017 - Presso il Museo Leone, presentazione del volume di Giorgio Dell’Oro

(edizioni Gallo) Carta e potere. La carta lombarda e l’Europa dagli Asburgo ai Savoia. Acqua, stracci, carta, colla e penne (secoli XVI-XIX); relatori Dino Carpanetto e Daniela Piemontino.

ATTIVITÀ FUTURA

1. 25 giugno 2017 - Presentazione a Villanova M.to del volume I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia a cura di Riccardo Rao.

2. 25-26-27 ottobre 2017 - Collaborazione al convegno internazionale “Ordinare il mondo” organizzato dal Museo del Duomo.

3. 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2017 - VII Congresso Storico della SSV “Vercelli tra Quat-tro e Cinquecento”.

4. Presentazione del volume I Templari a cura di Giancarlo Andenna, Cosimo Damiano Fonseca e Elisabetta Filippini.

5. Due fascicoli del Bollettino e conferenze in occasione della loro presentazione.6. Atti del convegno su Verzone.

Giovanni FerrarisPresidente

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Vita della Società Storica

25 giugno 2017“I PAESAGGI FLUVIALI DELLA SESIA” PRESENTATO

A VILLANOVA MONFERRATO

Presso l’Auditorium San Michele di Villanova Monferrato, nel pomeriggio di domenica 25 giugno 2017 è stato presentato ad un numeroso ed attento pubblico, non solo locale, il volume “I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia. Territori, insediamenti, rappresentazioni” che il nostro illustre collaboratore prof. Riccardo Rao ha curato per la collana “Storie di Paesaggi Medievali” pubblicata da All’Insegna del Giglio di Firenze. Dopo Vercelli (7 febbraio 2017) e Stroppiana (29 marzo 2017), questa è la terza presentazione del volume, che ha fatto seguito ad analogo convegno organizzato dalla nostra Società il 13-14 aprile 2014.

Per interessamento del socio geom. Giovanni Mombello, la presentazione è stata organiz-zata da “Villaviva Società culturale” presieduta dal prof. Giovanni Parissone.

Nell’Auditorium, messo a disposizione dal Comune di Villanova M.to, dopo le parole in-troduttive dei presidenti di Villaviva e della Società Storica Vercellese, il curatore del volume Riccardo Rao, docente di Storia Medievale all’Università di Bergamo, ha dapprima illustrato i contenuti del volume per passare poi all’argomento più atteso dal pubblico: il villaggio scomparso di Gazzo che si trovava nell’omonima foresta ricoprente nel Medioevo gran parte del territorio di Villanova M.to e di Motta dei Conti. Le relative ricerche erano state oggetto di un volume della Biblioteca della Società Storica Vercellese, pubblicato nel 2011, autore lo stesso Rao ed intitolato “Il villaggio scomparso di Gazzo e il suo territorio. Contributo allo studio degli insediamenti abbandonati”. Ovviamente non sono mancati i riferimenti al recente ritrovamento dei resti del ponte romano che univa Motta dei Conti e la sua frazione Mantie, situata in sponda sinistra della Sesia.

L’interesse del pubblico era palpabile - si parlava del suo territorio facendo vibrare le cor-de di antiche memorie trasmesse attraverso le generazioni - come chiaramente è poi risultato anche dall’acquisto di numerose copie del volume e dal reclutamento di alcuni nuovi soci. La discussione si è informalmente protratta con l’interessante apporto di esperti conoscitori della toponomastica locale, sempre foriera di più o meno labili indizi che potrebbero soccor-rere nell’individuazione di tracce materiali dello scomparso Gazzo, ancora del tutto assenti.

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Vita della Società Storica

26 agosto 2017UN MISTERIOSO MASSO INCISO IN MARGINE

ALLA PRESENTAZIONE DEL VOLUMETridinum - Le Origini. I notiziari dal 1972 al 1980

Sabato 26 agosto 2017, a Trino presso la Biblioteca Civica “Favorino Brunod”, l’Associa-zione per l’Archeologia la Storia e le Belle Arti Tridinum ha presentato il volume in oggetto - a cura di Lorenzo Parodi e Giuseppe Zorgno - e ha ricordato due figure simbolo dell’Asso-ciazione: Silvino Borla e Domenico Molzino. A rappresentare la Società Storica Vercellese, di cui Borla e Molzino furono attivissimi soci, erano presenti, oltre a vari altri soci, il presi-dente Giovanni Ferraris e il direttore del Bollettino Giorgio Tibaldeschi.

Al tavolo dei relatori, insieme al presidente, Pier Luca Monge, e al socio di Tridinum, Pier Francesco Irico, sedevano Ferraris e il nostro socio Fabio Pistan. Dopo un’introduzione di Monge e una breve rievocazione personale di Molzino pronunciata da Ferraris, Pistan - nel ricordo di Borla e Molzino - ha brillantemente percorso l’evoluzione delle norme e dei metodi di ricerca dell’archeologia dai tempi in era lecito il “fai da te” alla situazione attuale. Un “fai da te” che ha permesso a Borla e Molzino - comunque sempre in contatto con la Sovrintendenza ai beni archeologici - di portare alla luce testimonianze preziosissime della Trino romana (ora conservate presso il locale museo curata da Tridinum).

Il presidente Monge ha quindi ufficialmente presentato il volume Le Origini, sottoline-ando come, a parte i ricordi di Borla - tra cui uno di Tibaldeschi - e di Molzino, la pubblica-zione contenga essenzialmente la ristampa dei brevi, ma densi di preziose notizie, Notiziari che i due commemorati compilarono dal 1972 al 1980, prima che Tridinum passasse alla pubblicazione di più corposi volumi: quello presentato nella giornata rappresenta l’ultimo della serie. Come ricordato nel volume, la ristampa dei Notiziari è stata possibile grazie ad un colpo di fortuna che, anni orsono, Ferraris ebbe rovistando tra le bancarelle di un mercatino e si trovò tra le mani quasi tutti i Notiziari in questione (forse gli unici esemplari sopravvissuti …).

In chiusura sono state proiettate le testimonianze del laborioso recupero di un enorme masso dal greto del Po, in territorio di Palazzolo Vercellese, effettuato nel 2015. Il masso reca una breve iscrizione in attesa di interpretazione ed era stato segnalato da Molzino; il suo recupero volle anche essere un tangibile ricordo dell’appassionato trinese che era da poco scomparso. Ne seguì una breve discussione, proseguita in privato con l’intervento del geolo-go trinese Carlo Giraudi. Questi ha riferito che poco più a monte del luogo in cui è stato recu-perato il masso iscritto se ne trovano altri di maggiori dimensioni, che secondo le sue ricerche dovrebbero provenire da un affioramento - attualmente smantellato - situato poco lungi, in sponda sinistra del Po. A questo punto Tibaldeschi si chiede se il tutto non sia ricollegabile con un passo del diploma dell’imperatore Ottone III del 7 maggio 999 dove si conferma all’abbazia di S. Michele di Lucedio “cortem Quadradulam cum districtu herimannorum et teloneo et aquam Padi a portu Clevasi cum utrisque ripis usque clerum ubi vetus Duria intrat in Padum, et a clero usque Mundine et Marminca”. In copie di questo diploma, invece di “Clerum” si legge “Derum”, che ricorda molto il “Dèiro” di Oropa e altri nomi simili (facil-mente reperibili nell’Indice toponomastico della Regione Piemonte del 2010*) ad indicare un masso erratico, un affioramento roccioso, un masso isolato, qualcosa che si presenta come

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Vita della Società Storica

un punto di riferimento geografico. Che il masso inciso fosse (parte) del “Derum” ottoniano? Future ricerche potrebbero dare una risposta.

*www.regione.piemonte.it/territorio/dwd/documentazione/atlante/vol_03.pdf

Breve riassunto degli eventi che hanno condotto al ritrovamento e recupero della “preia” del Po

Il 23 agosto 2013 il signor Santino Vizia segnalò a Domenico Molzino, allora Presidente della Tridinum, che nel greto del fiume Po, nel tratto tra Palazzolo e Trino, aveva notato un masso con delle insolite incisioni sulla sua superficie.

Recatosi sul luogo, Molzino valutò assai interessante la segnalazione e ritenne opportuno avvertire la Soprintendenza affinchè si organizzasse un sopralluogo, non appena il livello delle acque permettesse di visionare il masso.

Il 17 settembre 2013 Molzino contattò la Soprintendenza, nella persona della Dott.ssa Egle Micheletto, fornendo fotografie del masso e collocazione geografica dello stesso, richie-dendo che, successivamente al recupero, venisse collocato nel Museo Civico “Gian Andrea Irico” di Trino.

La Dott.ssa Egle Micheletto, rispondendo in data 11 novembre 2013, ringraziò l’Asso-

Si ringrazia l’Associazione Tridinum per il recupero del reperto e la sua custodia presso il Museo Civico “Gian Andrea Irico” di Trino.

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Vita della Società Storica

ciazione Tridinum e comunicò la necessità di procedere urgentemente al recupero congiunta-mente con il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri.

Il 16 novembre 2013 la Tridinum rispose manifestando la propria disponibilità e chieden-do che il recupero fosse attribuito a Molzino e Vizia.

Il 25 agosto 2013 l’Associazione avvisò che il masso stava affiorando grazie ad pro-lungato periodo di siccità che rendeva possibile il recupero: durante l’ispezione le acque si innalzarono improvvisamente rendendo l’intervento impossibile.

Il 10 aprile 2014 la Dott.ssa Elisa Panero, Soprintendente per i Beni Archeologici del Piemonte, dispose una nuova operazione con il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Ca-rabinieri, ma nuovamente non fu possibile effettuare l’estrazione ma solo stabilirne l’esatta collocazione GPS: 45°10’29.1”N 8°12’50.0”E.

Il 17 luglio 2015 Elena Molzino (il Domenico era deceduto da poco) e Santino Vizia, constatato il momento opportuno per il recupero del masso visto l’estremo abbassamento del livello del fiume, provvederono (come da accordi intercorsi con la Soprintendenza) al recupero del masso. Recupero avvenuto senza alcun danno al materiale che è stato collocato, in custodia, nelle sale del Museo Civico ”Gian Andrea Irico” di Trino.

Intervennero all’operazione di recupero: Adriano Ferrarotti, Ivano Fossarello, Emiliano Guarnieri, Pier Franco Irico, Giuseppe La Loggia, Elena Molzino, Massimo Olivetti, Pier Luigi Rossi, Santino Vizia ed il Gruppo ex Alpini di Trino.

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Vita della Società Storica

16 settembre 2017PRESENTATO IL VOLUME “I TEMPLARI: GRANDEZZA E

CADUTA DELLA MILITIA CHRISTI”

Una vasta platea ha gremito sabato 16 settembre il salone Sant’Eusebio del Seminario in occasione della presentazione dell’importante volume: “I Templari: grandezza e caduta della Militia Christi”.

Il libro, edito da Vita e Pensiero e curato da Giancarlo Andenna, Cosimo Damiano Fonse-ca ed Elisabetta Filippini, contiene numerosi e prestigiosi contributi che cercano di fare chia-rezza, al di là del mito, sull’ordine dei Cavalieri Templari, i Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis.

La presentazione, promossa dalla Società Storica Vercellese e moderata dal suo presiden-te Giovanni Ferraris, ha avuto come relatori Giancarlo Andenna, professore emerito dell’U-niversità Cattolica di Milano e Cosimo Damiano Fonseca, professore emerito dell’Università di Bari, entrambi membri dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Nel corso dei due interventi è stato tracciato un profilo dettagliato dell’ordine cavalleresco, sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro e nei confronti del quale più volte la leggenda ed il mito hanno preso il sopravvento sulla realtà storica.

Nati in seguito alla “prima Crociata” (1096-1099) con il compito di difendere i luoghi e i

Il pubblico presente nella sala del Seminario.

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Vita della Società Storica

pellegrini della Terra Santa dalle incursioni islamiche, i cavalieri del Tempio ottennero l’appro-vazione papale nel 1129 durante il Concilio di Troyes. La loro regola, tracciata da san Bernardo di Chiaravalle, prevedeva dure punizioni per i trasgressori e l’impossibilità di lasciare l’Ordine. Da monaci-cavalieri votati ad una dura vita di povertà, grazie alle esenzioni papali del versa-mento dei tributi e grazie alle rendite derivanti dalle “mansiones” (le case templari sparse per l’Europa), i Templari divennero in progresso di tempo una vera e propria potenza in seno alla Cristianità.

La definitiva perdita della Terra Santa da parte crociata portò al venire meno della fun-zione originale dell’Ordine che nel frattempo gestiva un’ampia rete bancaria, in grado di prestare denaro ai maggiori sovrani dell’epoca. Fu proprio Filippo IV il Bello, re di Francia, fortemente indebitato, che formulò le accuse di eresia, sodomia e idolatria allo scopo di appropriarsi dei beni dei cavalieri. Dopo lunghi e drammatici processi si arrivò allo sciogli-mento dell’Ordine nel 1312 da parte di Papa Clemente V e, successivamente, alla nascita della leggenda.

Nella sua elaborata e puntuale prolusione il prof. Fonseca, specialista nel campo della me-dievistica e storia della Chiesa, ha analizzato il corpus normativo dell’ordine dei cavalieri del Tempio, in relazione anche ad alcune recenti scoperte. Infatti lo studio del manoscritto 44 A 14, custodito alla Biblioteca Corsiniana di Roma ed appartenente all’Accademia dei Lincei, ha permesso di studiare in maniera più approfondita i rapporti con la legislazione del tempo.

Il prof. Andenna invece, con la verve che lo contraddistingue, ha posto l’accento sui tanti falsi miti che nel corso della storia, ed in particolare a partire dal Settecento, hanno fatto dei

Il prof. Andenna illustra la sua relazione (fotografia di Mario Coda).

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Vita della Società Storica

Templari una leggenda da tutti conosciuta. Sono stati indicati come Templari i personaggi storici più disparati, come ad esempio Dante o Leonardo. Ma la fortuna del mito ha avuto una nuova fioritura con i film, tipo Indiana Jones, che hanno definitivamente consacrato la leggenda presso il grande pubblico, ha ricordato Andenna, il quale ha aggiunto: Occorre in ogni caso separare il narrazione fantastica dalla realtà storica e fattuale. Questo volume vuole dare un apporto in tale senso, con contributi di alto valore scientifico che abbracciano tutti gli aspetti dalla fondazione allo scioglimento dell’Ordine ma anche offrendo spunti ori-ginali come il rapporto con il potere politico ed il contesto Mediterraneo del tempo.

In totale sono venti i saggi che compongono la pubblicazione di specialisti italiani, fran-cesi e tedeschi. I contributi sono di: Cristina Andenna, Giancarlo Andenna, Michel Balard, Elena Bellomo, Luca Becchetti, Franco Cardini, Nicolangelo D’Acunto, Cosimo Damiano Fonseca, Tommaso Di Carpegna Falconieri, Cristina Dondi, Kaspar Elm, Elisabetta Filippini, Barbara Frale, Giuseppe Ligato, Umberto Longo, Luigi Russo, Renata Salvarani, Miriam Rita Tessera, Kristjan Toomaspoeg.

François Dellarole

Al tavolo dei relatori. Da sinistra: Timoty Leonardi, Giancarlo Andenna, Giovanni Ferraris, Cosimo Damiano Fonseca (fotografia di Mario Coda).

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Vita della Società Storica

Da sinistra: Giovanni Ferraris, il sindaco Stefano Bondesan, la consigliera Michela Deambrosis, Riccardo Rao.

20 ottobre 2017“I PAESAGGI FLUVIALI DELLA SESIA”

PRESENTATO A PEZZANA

Non vi è dubbio che il volume in questione - curato da Riccardo Rao, docente di storia medioevale all’Università di Bergamo e pubblicato in seguito ad analogo convegno organizzato dalla nostra Società il 13-14 aprile 2014 - affascini la fantasia del pubblico, in particolare del Basso vercellese, con la sua rievocazione di un fiume Sesia ormai scomparso con le sue foreste, i castelli, le greggi in transumanza, i porti fluviali, il ponte romano di Mantie …

Anche la quarta presentazione - a Pezzana, dopo quelle di Vercelli, Stroppiana e Villanova Monferrato - ha coinvolto l’attenzione del pubblico, non numeroso, invero, ma convintamente interessato, che ha accolto l’invito del sindaco di Pezzana, Stefano Bondesan, a recarsi presso la sala consiliare del suo comune alle ore 17 di venerdì ottobre. Con molto impegno l’incontro era stato organizzato da Sabrina Balzaretti, preziosa socia e collaboratrice della SSV. Dopo il benvenuto del sindaco e una breve introduzione del presidente Giovanni Ferraris, il nostro illustre socio Riccardo Rao ha preso la parola.

Pure questa volta per l’oratore è stato facile non ripetere quanto già detto in presentazioni precedenti. Infatti, di fronte all’attento pubblico, ha ricordato vari eventi dedotti dall’esame del locale archivio comunale, che aveva visitato già in occasione della stesura del suo

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Vita della Società Storica

volume “Il villaggio scomparso di Gazzo e il suo territorio. Contributo allo studio degli insediamenti abbandonati”, pubblicato nella Biblioteca della Società Storica Vercellese nel 2011. Ovviamente non sono mancati i riferimenti al ponte romano che univa Motta dei Conti e la sua frazione Mantie, situata in sponda sinistra della Sesia; riferimenti basati su puntuali dati riportati dal contributo di Elisa Panero nel volume che si stava illustrando e più che mai opportuni in relazione a certe azzardate affermazioni comparse in settimana sulla stampa locale.

Dopo l’applaudito intervento di Rao, ha preso la parola Ferraris per esporre brevemente le ragioni per cui nel suo contributo al volume “I paesaggi fluviali della Sesia” ha sostenuto improponibile, su base geomorfologica, l’ipotesi che l’ampio sconfinamento della diocesi di Vercelli in sponda sinistra della Sesia sia dovuto ad un antico corso del fiume, all’incirca coincidente con l’attuale dell’Agogna. Ferraris propone invece che la diocesi abbia esteso la sua giurisdizione su quel territorio in quanto questo era, da antico, zona di influenza della città, influenza favorita dalle vie di comunicazione (tra le quali il citato ponte di Mantie) e dal fatto che i Libui (Libici), fondatori di Vercelli, abitassero anche un’ampia fascia di territorio in sponda sinistra della Sesia.

Commenti e domande da parte del pubblico hanno movimentato l’ultima parte dell’incontro, a dimostrazione del reale coinvolgimento dei presenti.

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Finito di stamparenel mese di ottobre 2017

presso Gallo Arti grafiche - Vercelli