BN28_IL PRINCIPE DELLA NOTTE

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BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X Periodico quindicinale n. 28 del 26/11/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/3/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Romania, XV secolo 5

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Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Prince of Twilight

MIRA Books © 2006 Margaret Benson

Traduzione di Gigliola Foglia

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

Prima edizione Bluenocturne novembre 2010

Questo volume è stato impresso nell'ottobre 2010

da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)

BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X

Periodico quindicinale n. 28 del 26/11/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/3/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale

Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione

Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti

contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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Prologo

Romania, XV secolo «Dobbiamo seppellirla, figliolo.» Vlad si trovava nella piccola cappella di pietra accanto alla sua adorata novella sposa. La pelle di Elisabeta era fredda come il catafalco di roccia su cui giaceva. Indossava l'abito di nozze verde chiaro che i domestici le avevano trovato il giorno in cui erano stati scambiati i loro frettolosi voti nuziali. La gonna creava un drappeggio su entrambi i lati, avvolgendo di bellezza la lastra di pietra. I suoi capelli, pallidi come argento filato e infinitamente lunghi, si allar-gavano attorno alla testa, formando una nuvola. «Figliolo...» Stavolta le parole dell'anziano prete furono accompagnate dal gesto della mano, che gli afferrò la spal-la. Vlad si girò di scatto. «No! Non dev'essere messa nella terra. Non ancora. Non lo permetterò.» Un po' di paura si unì alla pietà negli occhi del vecchio. «So che è difficile... lo so. Ma merita di essere condotta al suo riposo.» «Ho detto no.» Il tono era stanco, il cuore morto. Poi lui si concentrò di nuovo su di lei, sulla sua sposa.

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Il loro tempo insieme era stato troppo breve. Una notte e poi parte di una seconda, prima che lui venisse chiamato in battaglia. Non era giusto. Il sacerdote indugiava ancora. «Esci, prima che io estragga la mia lama e ti mandi fuori in pezzi.» Le parole furono appena più di un rauco sussur-ro, tuttavia abbastanza colme di minaccia da strappare al chierico un ansito spezzato. «Manderò dentro vostro padre. Forse lui potrà...» Vlad si voltò a scoccare un'occhiata ammonitrice da so-pra la spalla. Breve, ma potente a sufficienza da ridurre alle lacrime la maggior parte dei mortali. «Sto andando, mio sovrano.» Il prete fece un lieve in-chino e indietreggiò uscendo dalla porta della cappella. Vlad sospirò di sollievo quando i battenti tornarono a chiudersi, lasciandolo solo col suo dolore. Si chinò sul corpo di Elisabeta, appoggiò la testa sul suo petto, e lasciò che le lacrime inzuppassero il vestito. «Per-ché, amor mio? Perché hai fatto questo? Il nostro amore non valeva un solo giorno di lutto? Ti avevo detto che sarei tornato. Perché non hai saputo credere in me?» Un lieve cigolio, accompagnato dalla rigida brezza not-turna e dal sommesso schiarirsi di una gola già anziana, gli disse che la tregua era finita. Vlad si costrinse a raddrizzarsi, e a voltarsi fronteggian-do suo padre... In verità, quell'uomo era diventato per lui un padre quanto nessuno era stato dopo Utnapishtim. Il vecchio re era pallido e malfermo. Aveva perduto una nuora che già era stato prossimo ad amare... e aveva credu-to di aver perso anche il figlio. Attraversò la piccola sala, l'andatura malferma e lenta, poi cinse le spalle di Vlad con le braccia fragili e lo abbrac-

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ciò forte quanto le sue energie permettevano. «Vivo» bor-bottò. «Per gli dei, figlio mio, sei vivo, dopotutto.» Vlad chiuse gli occhi mentre ricambiava l'abbraccio. «Vivo, padre, ma non troppo lieto di esserlo, in questo momento.» Mentre lo diceva, guardò la sua sposa. Così fece anche l'anziano, lasciando la presa su di lui per spostarsi più vicino al catafalco. «Non so dirti quanto mi affligga vederti in un tale dolore, tantomeno assistere alla perdita di una giovane donna così eccelsa come Elisa-beta.» «Lo so.» «La tua amica, la straniera... ti ha raccontato cos'è acca-duto?» Vlad annuì. «Rhiannon è... una vecchia amica. E cara. Ha detto di essere arrivata qui per farmi visita appena dopo che fui chiamato a difendere i nostri confini.» «Così fece. Le offrimmo alloggio. Una pignola, e non credo avesse un'alta opinione della tua sposa. Voi due era-vate...?» «Vicini quanto due persone possono essere» gli disse Vlad. «Ma non avevamo diritti l'uno sull'altro. Non sareb-be stata gelosa.» «Chiamava la principessa... Orbene, qual era la parola che usava...? Ah, sì: piagnucolona» mormorò il re. «In fac-cia a lei, nientemeno.» Vlad annuì, non dubitandone. «Quando giunse notizia che eri stato ucciso sul campo di battaglia, la povera Elisabeta si ritirò nella camera della torre e sprangò la porta. Mandai subito degli uomini a cer-care di abbatterla, finché...» «Lo so, padre. So che hai fatto tutto ciò che era in tuo potere.»

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Il re chinò la testa, forse per celare il fiotto di lacrime ne-gli azzurri occhi nebulosi. «Dimmi che cosa posso fare per alleviare il tuo dolore.» Vlad ci pensò, ci pensò intensamente. Rhiannon non era una donna comune, ma un'antica sacerdotessa di Iside e figlia di un faraone. Era esperta nelle arti occulte, e gli a-veva assicurato che avrebbe ritrovato Elisabeta... lei l'aveva previsto... entro un lasso di cinquecento anni, se fosse riu-scito a vivere così a lungo. Ciò che lei non aveva promesso era che Beta sarebbe stata la stessa donna che lui aveva amato e perduto, o che l'avrebbe ricordato e amato di nuo-vo. «C'è qualcosa che posso fare per te» mormorò il vecchio re. «Riesco a vederlo nei tuoi occhi. Nominala, figlio mio, e sarà fatta, qualunque sia.» Vlad incontrò gli occhi del padre e provò amore. Vero amore, benché non fosse il suo vero genitore. «Non posso lasciare che la seppelliscano. Non ancora. Ho bisogno che tu invii i nostri migliori cavalieri sulle cavalcature più veloci. Mandali fuori nella campagna a radunare i più esperti stre-goni, indovini, maghi e streghe del territorio. Non m'im-porta quanto ci vorrà. Devo averli qui prima che la mia a-mata venga posta nella fredda terra.» Il re lo guardò negli occhi, preoccupato. «Figlio mio, de-vi sapere che neppure il mago più esperto sarà in grado di riportarla indietro. Sepolta o no, lei abita tra i morti ormai.» Lui annuì una volta, chiuse gli occhi a quello sguardo indagatore, amorevole. «Questo lo so, padre. Ho solo biso-gno di assicurarmi che lei sia in pace.» «Ma il prete...» «Le sue preghiere non sono abbastanza. Voglio essere sicuro. Ti prego, padre, hai detto che avresti fatto qualsiasi

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cosa per alleviare la mia pena. Questo l'allevierà, se mai qualcosa può farlo.» «Allora sarà fatto.» «E, padre... finché non arriveranno, tieni chiunque lon-tano da qui. E anche allora, lasciali entrare solo di notte.» Il vecchio era abituato alla natura notturna del principe. Annuì con la testa, e Vlad seppe che la promessa sarebbe stata mantenuta. Il re se ne andò, e lui estrasse la spada macchiata di san-gue, poi si pose tra il catafalco e la porta della cappella. Quando si levò il sole, sbarrò la porta, staccò un arazzo dalla parete e vi si avvolse. Quando il sole tornò a tramon-tare, Vlad fu costretto a stendere la tela sopra il corpo di Elisabeta per non assistere al cambiamento che la morte compiva sul giovane corpo. E prima che la terza notte fos-se iniziata, l'odore di decomposizione gravava pesante nel-l'aria. Ma infine, a mezzanotte della terza notte, i battenti del-la cappella tornarono ad aprirsi ed entrarono svariati uomi-ni. Non c'erano donne tra loro. Fecero il loro ingresso in una folata di vento, la maggior parte vestiti in abiti da viag-gio di lana di un bianco opaco, anche se uno indossava una stoffa più raffinata in ricche tonalità marrone rossiccio, i bordi ricamati con un motivo di tralci verdi che si intrec-ciavano. Tutti poggiarono un ginocchio a terra, inchinandosi pro-fondamente davanti a lui. Quello in marrone disse: «Mio principe, siamo venuti più in fretta che potevamo. I nostri cuori sono gonfi di do-lore per la perdita della principessa». «Sì» rispose Vlad. «Alzatevi. Mi serve il vostro aiuto.» Gli uomini si guardarono l'un l'altro con nervosismo.

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Erano cinque. In massima parte gente del luogo, anche se uno sembrava venire dall'Est, e un altro sembrava moresco dall'aspetto. «Siamo onorati se possiamo essere di aiuto» rispose quello che sembrava il portavoce. «Ma non so che cosa possiamo fare. Contro la morte, perfino noi siamo impo-tenti.» Vlad annuì e pensò a Gilgamesh, il leggendario re di Sumeria. La sua disperata ricerca della chiave della vita era sfociata nella creazione di un'intera razza... i non-morti. Vampiri. Come Vlad, e Rhiannon, e molti altri. Ma non a-veva mai avuto come risultato il ritorno dalla morte del ca-ro amico Enkidu. Forse, pensò Vlad, la propria ricerca era altrettanto folle. Ma doveva tentare. «Non vi chiedo di sconfiggere la morte. Solo di assicura-re che, quando la ritroverò, io la riconosca... e che lei rico-nosca me. E ricordi. E mi ami ancora.» Maghi e stregoni si accigliarono, cercando la compren-sione ciascuno sul viso degli altri. «Un potente veggente mi ha assicurato che la principes-sa tornerà da me in un'altra vita. Ma sarà nel lontano futu-ro.» «Mio signore, voi sareste anziano e lei soltanto un'in-fante.» «Questo non è affar tuo, stregone. Voglio solo assicu-rarmi che quando lei tornerà... e raggiungerà un'età idone-a... ricordi tutto ciò che è stato prima; che sia la donna che era in questa vita. Potete o non potete esaudire questa ri-chiesta?» Un uomo cominciò a bisbigliare a un altro, e Vlad colse le parole innaturale e immorale, ma l'uomo in marrone al-

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zò una mano per zittirli. Poi si accostò pian piano al prin-cipe, guardingo, e alla fine annuì. «Possiamo e lo faremo, mio signore. Andate, prendete cibo e riposo. Lei sarà al si-curo sotto le nostre cure, ve lo prometto.» Lui sbirciò la sagoma sotto l'arazzo. Non più la sua Eli-sabeta, ma un guscio che un tempo aveva contenuto la sua essenza. Guardò di nuovo gli uomini. «Non abbiate paura di tentare. È molto ciò che vi chiedo. Vi do la mia parola, non impartirò punizioni se doveste fallire, a patto che facciate il meglio che potete. Sulla memoria di lei, ve lo giuro.» Gli uomini si inchinarono profondamente, e lui scorse sollievo sui loro volti. In verità, non era noto per la miseri-cordia o la comprensione. Li lasciò al loro lavoro. Ma non riposò, e non si nutrì. Non poteva... non finché non avesse saputo. Erano trascorse quattro ore quando un paggio lo rag-giunse per ricondurlo alla cappella, e quando lui vi si preci-pitò vide che la porta era aperta e il prete ne stava uscendo, agitando un incensiere davanti a sé. Dietro, venivano uo-mini che portavano il cadavere su una lettiga, sommerso di fiori. E poi passarono maghi e stregoni, che guardarono Vlad negli occhi per rassicurarlo: avevano avuto successo. L'uomo in marrone si avvicinò, mentre gli altri proseguiro-no lentamente dietro il corteo funebre. L'accolito del sacerdote suonò una campanella, e il chie-rico dalla voce burbera intonò forte le sue preghiere, cosic-ché altri del castello e del villaggio si aggregarono al pas-saggio, molti portando candele o lampade. Nessuno al vil-laggio aveva dormito, in attesa delle esequie della princi-pessa, e così la processione si ingrandì e si allungò, un ser-

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pente che si contorceva punteggiato di luci. «Mio principe» disse l'uomo in marrone. «L'abbiamo fatto. Prendete questo.» Gli porse un rotolo, avvolto strettamente e trattenuto da un anello di rubino... l'anello che lui aveva dato a Elisabe-ta. Era stato al suo dito. Vederlo fece sì che il dolore lo tra-figgesse nel profondo, e Vlad inalò un brusco respiro. «Non capisco» disse. «Le avete tolto l'anello nuziale. Perché?» «Abbiamo celebrato un rituale potente, ordinando a una parte della sua essenza di rimanere legata alla terra. L'anel-lo è la chiave che la imprigiona e un giorno la libererà. Quando una futura incarnazione di Elisabeta tornerà da voi, tutto ciò che vi occorrerà fare è metterle al dito que-st'anello ed eseguire il rito contenuto in questo rotolo, e lei sarà ripristinata nella stessa Elisabeta che era prima. Ricor-derà ogni cosa. E vi amerà di nuovo.» «Siete sicuri?» domandò Vlad, timoroso di chiedere, di sperare. «Sulla mia vita, mio principe, vi giuro che è vero. C'è soltanto una clausola. E non ha potuto essere evitata, poi-ché rischiamo le nostre stesse anime immischiandoci nelle materie della vita e della morte e dell'aldilà. Agli dei de-v'essere concessa l'ultima parola.» «Gli dei. Sono loro che hanno ritenuto bene portarmela via in questo modo. All'inferno gli dei.» «Mio principe?» Lo stregone si guardò attorno come se temesse che la blasfemia potesse esser stata origliata dalle divinità stesse. «Dimmi di questa clausola, allora. Ma sii conciso. Devo assistere al funerale di mia moglie.» Arditamente l'uomo gli afferrò il braccio e prese a cam-

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minare accanto a lui, finché raggiunsero la processione, pur mantenendo una certa distanza. «Se il rito non sarà stato eseguito entro il momento in cui la Rossa Stella del Desti-no eclisserà Venere, la magia non funzionerà.» «E che cosa accadrà a Elisabeta?» «La sua anima sarà lasciata in libertà. Tutte le parti della sua anima, sia quella che noi abbiamo tenuto legata alla terra, sia le altre che possono rinascere nel regno fisico. Tutte saranno libere.» «E per libera intendete... morta» bisbigliò Vlad. Afferrò l'uomo per il davanti dei suoi paludamenti marroni e lo sol-levò da terra. «Non avete fatto niente!» «La morte non è che un'illusione, mio signore! La vita è senza fine. E avrete tempo... molto tempo, per ritrovarla, lo giuro.» Vlad socchiuse gli occhi sullo stregone, tentato di estrar-re la spada e infilarla tra le costole dell'uomo. Invece lo riappoggiò a terra. «Quanto tempo? Quando, con esattez-za, questa vostra stella rossa eclisserà la prossima volta Venere?» «Solo tra poco più di cinquecentoventi anni, mio signo-re, per quanto precisamente riesco a calcolare.» Vlad inghiottì la pena e lo strazio. Rhiannon aveva pre-detto che lui avrebbe ritrovato la sua Elisabeta entro circa cinquecento anni. E la sua preoccupazione principale era stata chiedersi come accidenti potesse riuscire a sopravvi-vere così a lungo senza di lei; come avrebbe fatto a soppor-tare il dolore. Ora tuttavia aveva una preoccupazione in più. Quando l'avesse trovata, sarebbe stato in tempo per attivare l'in-cantesimo, eseguire il rito, e ricostituire la sua memoria e la sua anima?

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Per gli dei, doveva esserlo. Lui era deciso. Non doveva fallire. Non l'avrebbe fatto. Lui non era un vampiro qualunque. Lui era Dracula.

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Oggi «Melina Roscova» disse la snella donna bionda, tendendo la mano. «Lei dev'essere Maxine Stuart.» «Sarebbe Maxine Malone; comunque no, non sono lei.» Stormy strinse la mano alla donna. Era fredda, e la sua pre-sa molto forte. «Stormy Jones» si presentò. «Max e Lou so-no impegnati in un altro caso, e non pensavamo occorres-simo tutti e tre per condurre il colloquio preliminare.» «Capisco.» Melina ritirò la mano e se la infilò in tasca per prendere un biglietto da visita. «Deduco che questo non dev'essere aggiornato.» Stormy prese il biglietto, lo esaminò. Il logo SIS si so-vrapponeva alle parole: Servizi Investigazioni Soprannatura-li. In lettere più piccole c'erano i loro nomi: Maxine Stuart, Lou Malone, Tempest Jones e sotto, in caratteri artistici: Esperti - Professionali - Discreti, e un numero verde. Resti-tuì il biglietto. «Già, è piuttosto vecchio. Maxie e Lou si so-no ammanettati ormai sedici anni fa. Ovviamente non ab-biamo fatto fare dei nuovi biglietti finché non abbiamo u-sato tutti quelli vecchi. Bisogna essere pratici, sa.» «Naturale.»

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«Dunque, qual è il mistero? E perché ha voluto che ci incontrassimo qui?» Mentre parlava, si spostarono dall'entrata ai corridoi a volta del Museo Nazionale Canadese. I loro passi echeg-giavano mentre camminavano. Melina pagò in contanti i biglietti d'ingresso, e fece strada all'interno dell'edificio. «Nessun mistero. Voglio che lei tratti per me un caso delicato. La discrezione...» Si batté contro la nocca il vec-chio biglietto da visita. «... è d'obbligo.» «Su questo può fidarsi di noi. Non saremmo ancora in attività dopotutto questo tempo, se non sapessimo tenere la bocca chiusa.» Guardò un arazzo consunto esposto den-tro una teca di vetro. I colori ormai sbiaditi tendevano al grigio, e sembrava che un colpo di vento avrebbe potuto ridurlo a un mucchietto di fili. «Allora perché questo po-sto?» «Questo è dove è» rispose Melina, scrutando vari pezzi in argento annerito in un'altra vetrina. Ciotole, urne, pen-denti. «Dove è cosa?» «Ciò che lei deve vedere. Ma non starà qui a lungo. Fa parte di una mostra itinerante. Manufatti scoperti durante un recente scavo archeologico nella regione settentrionale della Turchia.» Stormy la fissò, aspettando che dicesse dell'altro, ma Melina piombò nel silenzio e proseguì oltre lungo la sala, tra disegni a tratteggio e piantine di siti di scavo, incorni-ciati come opere d'arte. Poi si girò per entrare, da due bat-tenti aperti, in una sala più grande. C'erano oggetti che ri-coprivano le pareti, tutti quanti al sicuro dietro pannelli di vetro. Gingilli in ottone, lame d'acciaio con impugnature d'osso e d'avorio scolpite in modo elaborato.

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Stormy diede un'occhiata, poi si massaggiò le braccia, di colpo gelata fino alle ossa. «Penso che dovrebbero ac-cendere il riscaldamento, qua dentro. Si gela» borbottò. Poi, per distrarsi dall'ondata di disagio, sfilò un pieghevole dalla pila in un vicino espositore e lo lesse. Secondo il testo, gli oggetti rinvenuti non si accordava-no alla cultura dell'area in cui si trovavano, e si riteneva che molti fossero spoglie di guerra, portate a casa dai sol-dati che ne avevano fatto bottino in terre lontane e su ne-mici sconfitti. Si credeva che il sito di ritrovamento fosse stato una sorta di monastero... un luogo dove gli uomini andavano a studiare la magia e l'occulto. «Eccolo» annunciò Melina. Stormy spostò lo sguardo dal volantino alla donna, che era ferma, a pochi metri di distanza, davanti a un piccolo cubo di vetro collocato sopra un piedestallo. Dentro il cu-bo, deposto su una base trasparente, c'era un anello. Era grosso, la larga vera incisa in modo più elaborato dei più pacchiani anelli che lei avesse mai visto. Anche la scintil-lante pietra rossa era enorme, soltanto che lei era sicurissi-ma che quella gemma fosse vera. «È un rubino» disse Melina, confermando il sospetto i-nespresso. «È inestimabile. Non è incredibile?» Stormy non rispose. Non riusciva a distogliere gli occhi da quell'oggetto. Per un momento fu come se lo stesse vedendo attraverso un lungo tunnel buio. Tutto attorno a lei si fece nero, la sua visuale inchiodata, gli occhi incapaci di vedere altro. E poi udì una voce. «Inelul else al meu!» La voce... veniva dalla sua stessa gola. Le sue labbra si muovevano, ma non le stava muovendo lei. Aveva la sen-sazione di essere diventata una marionetta, o un pupazzo

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durante l'esibizione di un ventriloquo. Il suo corpo si stava muovendo da solo, le mani si protendevano verso la teca di vetro, le palme premute ai due lati, e la sollevavano dal basamento. Una mano si chiuse forte sul suo braccio e la scosse. «Signora Jones, che diavolo sta facendo?» Stormy batté rapidamente le palpebre mentre il suo cor-po tornava di scatto sotto controllo. Vide Melina che le stringeva il braccio guardandosi in giro per la stanza come se si aspettasse che vi facesse irruzione la versione canade-se di una squadra di teste di cuoio. Si schiarì la gola. «Ho fatto scattare qualche allarme?» «Non penso. Ci sono dei sensori che si attivano solo se viene rimosso l'anello.» Accigliandosi mentre la testa le si schiariva, Stormy la fissò. «Come fa a saperlo?» «Sapere è il mio lavoro. Si sente bene?» Annuendo, Stormy evitò gli occhi della donna. «Sì. Be-nissimo. Io... ho solo avuto un attimo di confusione, tutto qui.» Non era tutto, invece. E lei non stava bene. Per niente. Non aveva avuto un episodio come quello in sedici anni, ma conosceva le sensazioni che l'avevano inondata. Le conosceva bene. Non avrebbe mai dimenticato. Mai. In sedici anni non si era mai sentita in quel modo, non dal-l'ultima volta in cui era stata con lui. Con Dracula. L'unico e solo. E benché la sua memoria sui dettagli di quel perio-do fosse un buco nero, i suoi ricordi sul... sull'essere pos-seduta rimanevano. E ricordi di Dracula o meno, lei aveva udito la sua voce giusto un momento prima, che bisbiglia-va vicino a lei. Senza l'anello e il rotolo, temo non ci sia speranza.

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Che cosa voleva dire? Lui era lì? Vicino? E perché, quan-do lei ricordava così poco del loro tempo insieme, quella frase era venuta galleggiando alla sua memoria, proprio in quel momento? No. Non sarebbe tornato da lei sapendo ciò che faceva alla sua mente e al suo corpo. L'aveva lasciata andare pur di risparmiarle di dover passare ancora attraverso quella fol-lia. O così le piaceva credere. Si era svegliata nel jet privato di Rhiannon, sulla via del ritorno a casa. E, come a tutte le vittime di Vlad prima di lei, la sua memoria del proprio tempo con lui era stata can-cellata. Ma non i suoi sentimenti per lui. Inspiegabile o meno, aveva provato un profondo senso di perdita, e si era sentita morire dentro un po' di più ogni singolo giorno che era trascorso da allora. Lui non era lì. Non l'avrebbe gettata di nuovo in quella situazione. A meno che... Guardò di nuovo l'anello. Dio, poteva essere quello l'a-nello di cui lui aveva parlato? E che cosa aveva inteso dire con quell'ermetica frase? Era l'inferno non ricordare. Puro inferno. Avrebbe dovuto odiarlo per aver giocato con la sua mente. Più e più volte si era sforzata e aveva lottato per far rie-mergere il tempo trascorso con lui, dopo che l'aveva rapita nel cuore della notte, così tanti anni prima. Aveva provato perfino l'ipnosi, ma non aveva funzionato. Niente aveva funzionato. Lui l'aveva derubata di ricordi che lei intuiva potessero essere tra i migliori della propria vita. Dannazio-ne a lui, per quello. «Signora Jones? Stormy?» Voltandosi lentamente, incontrò gli occhi castani di Me-

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lina, di gran lunga troppo curiosi. «L'anello è la ragione per cui desidera assoldarci?» «Sì. Qual è il suo collegamento con esso?» «Non so che cosa intenda. Non ho nessun collegamen-to.» «Di certo ha avuto una forte reazione.» Lei scosse la testa. «Ebbi una ferita alla testa molto tem-po fa. Dei blackout occasionali sono un effetto collaterale.» «Anche parlare lingue straniere?» «Sono farfugliamenti. Non significano nulla. Guardi, la condizione della mia testa non è proprio l'argomento, a-desso. Ha intenzione di dirmi che cosa comporta questo lavoro, o no?» Melina la guardò, imbronciò le labbra e abbassò la voce. «Voglio che lei lo rubi» bisbigliò. Stormy non era sicura di cos'avesse detto quando aveva fatto la sua rapida uscita dal museo. Pensava di aver sugge-rito a Melina Roscova di andare a fare qualcosa di anatomi-camente impossibile, e poi se n'era andata. Non si era fer-mata finché non era arrivata davanti al Royal Arms Hotel, dove aveva consegnato a un usciere le chiavi della macchi-na e una banconota da dieci. «Stia attento con lei» gli disse. «È speciale.» Lui promise di esserlo, e Storm rimase a osservarlo men-tre guidava nel parcheggio coperto al di là della strada la lucida Nissan nera, con la targa personalizzata che diceva: Bella-Donna. Appena fu fuori vista, lei udì stridore di gomme e trasalì. «Un graffio, amico. Riportami Belladonna con un solo graffio...» «Madame?» Si voltò e vide un usciere con una domanda negli occhi.

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«Desidera entrare?» «Dica a quel deficiente, quando torna, che se mi ha graf-fiato la macchina gli faccio il culo. Ed è mademoiselle. Non tutte le donne sopra i trenta sono sposate, sa.» «Ma certo, mademoiselle.» L'uomo aprì la porta, il viso che non tradiva traccia di emozione. Sarebbe stato assai più soddisfacente se fosse stato sulla difensiva, ostile o si fosse profuso in scuse. Ma... niente. Storm andò difilato in camera e cominciò a prepararsi un bagno, con l'intenzione di telefonare a Max e aggiornarla dalla vasca. Era turbata. Era scossa. Era maledettamente spaventata da ciò che la vista di quell'anello le aveva fatto. Aveva parlato in romeno. E sapeva con esattezza ciò che aveva detto, anche se non parlava una parola di quella lingua e mai l'aveva fatto. L'anello appartiene a me. Elisabeta. Doveva esser stata la sua voce. Sedici anni prima, aveva cominciato a soffrire di quei sintomi. Aveva vuoti di coscienza, parlava in una lingua straniera, diventava violenta, aggrediva perfino i suoi mi-gliori amici e, di solito, senza ricordare nulla. Era come se fosse posseduta da un'anima altrui, come se il suo corpo fosse una marionetta con uno sconosciuto che tirava i fili. Max diceva che i suoi occhi cambiavano colore, virava-no dal loro normale azzurro a un cupo e imperscrutabile ebano, durante gli episodi. Tramite l'ipnosi, aveva appreso il nome dell'intrusa. Eli-sabeta. E sapeva, visceralmente, che la donna aveva un qualche legame con Vlad. Un legame intimo. Vlad si era trovato attaccato, dunque aveva preso Storm in ostaggio per facilitarsi la fuga. Perfino allora lei era stata attratta da lui. Il suo corpo muscoloso, possente. I lunghi

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capelli neri come l'ala di un corvo. I suoi occhi... l'intensità in essi quando la guardava. Ricordava di averlo baciato come se non ci fosse un domani. O forse non era mai suc-cesso; magari era una fantasia. Una deliziosa fantasia eroti-ca che l'aveva lasciata con un dolore profondo nell'inguine e nell'anima. Ricordava di aver sperato che lui potesse aiu-tarla a risolvere il mistero di chi fosse Elisabeta e perché co-stei la stesse tormentando. Cercando di prendere il soprav-vento. E forse lui l'aveva fatto. Ma, benché al suo ritorno Max le avesse raccontato che era stata prigioniera di Vlad per più di una settimana, Stormy non ricordava niente. Sapeva soltanto che dal suo ritorno non aveva provato quasi alcun segno della presenza di quell'anima intrusa. E aveva stabilito che era stata la vicinanza di Vlad a risveglia-re l'altra. Come avrebbe risvegliato qualsiasi donna. Lei era ancora lì, però. Stormy non ne aveva mai dubita-to. Aveva sperato di sbagliarsi, ma mai realmente dubitato. Elisabeta, chiunque fosse, era ancora appostata dentro di lei, in attesa... di qualcosa. Smise di camminare avanti e indietro e si resse la testa tra le mani fissando nello specchio che era montato su uno dei comò stile antico della lussuosa camera d'albergo. «Che sia dannata all'inferno, speravo che te ne fossi anda-ta» mormorò. «Cominciavo a concedermi di credere che non saresti mai tornata. Mai sbucata fuori in sedici anni. E adesso sei di nuovo qui? Perché? Mi sbarazzerò mai di te, Elisabeta?» Un colpetto alla porta la fece trasalire e voltare la testa. Imprecò sottovoce. Aveva cose su cui lavorare, e c'era un bel bagno caldo... e magari qualche bottiglietta mignon del minibar... nel suo immediato futuro.

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«La prego, signora Jones» chiamò Melina Roscova dal corridoio. «Mi dia soltanto dieci minuti per spiegare. Dieci minuti. È tutto quel che mi serve.» Stormy sospirò, alzò gli occhi al cielo e andò seccata in bagno a chiudere i rubinetti. Tolse il tappo con un sospiro di rammarico, poi andò a spalancare la porta. Non attese che Melina entrasse, si voltò e si avvicinò al tavolino all'estremità opposta della stanza, tirò fuori una sedia e vi accennò con la testa. «Noi siamo investigatori» disse alla sgradita ospite, il tono secco mentre si chinava verso il minibar e ne estraeva una lattina di ginger e una bottiglietta di Black Velvet. Fece saltare i tappi di entrambe e versò il contenuto in un bic-chiere alto che stava accanto a un secchiello per il ghiac-cio, vuoto. «Non ladri da assoldare. Noi non infrangiamo la legge, signora Roscova. Per nessun prezzo.» «Mi chiami Melina.» Si sedette. «E tutto ciò che desidero faccia è ascoltare. Quell'anello... ha dei poteri.» «Poteri.» Stormy parlò in modo piatto, asciutto, senza traccia d'inflessione. Poi prese una gran sorsata del suo mi-scuglio. «Sì. Poteri che potrebbero, nelle mani sbagliate, stravol-gere l'ordine soprannaturale... forse in modo irrevocabile.» «L'ordine soprannaturale?» «Sì. Guardi, è molto semplice. Solo... solo mi lasci fare un tentativo, mi prometta che resterà in confidenza, e poi, se ancora rifiuta, non la importunerò più.» Stormy ingoiò metà della bibita e si sedette. «E la mia parola che resterà in confidenza sarà sufficiente per lei?» «Sì.» «Perché?» Melina batté le palpebre, e a Stormy sembrò che deci-

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desse di rispondere in modo sincero e diretto. «Perché la mia organizzazione vi ha osservato per anni. Sappiamo che non infrangete mai la vostra parola. E sappiamo che avete mantenuto segreti molto più grandi dei nostri.» Un'altra gran sorsata. Il bicchiere si stava svuotando, e lei avrebbe avuto bisogno di un rifornimento. Sette dollari canadesi la bottiglietta, per il Black Velvet. E li valeva tutti, in quel momento. «La vostra... organizzazione?» «La Sorellanza di Athena esiste da secoli» spiegò Melina. Parlava lentamente, guardinga, e pareva dedicare una lunga riflessione a ogni frase prima di pronunciarla. «Siamo un gruppo di donne votate a osservare e preservare l'ordine soprannaturale.» Si inumidì le labbra. «In effetti, è l'ordine naturale, ma il nostro obiettivo è la parte di esso che la maggior parte della gente chiama soprannaturale. Le cose devono essere come è destinato che siano. Gli umani ten-dono a voler interferire. Noi no, a meno che sia per impedi-re quella interferenza.» Stormy alzò le sopracciglia. «Umani, eh?» Scrutò la donna. «Lo dice come se ci fossero in giro anche dei non umani.» «Sappiamo entrambe che ci sono.» Tutt'e due rimasero in silenzio, fissandosi a vicenda mentre Stormy cercava di valutare Melina. Poteva davvero sapere dell'esistenza dei non-morti? Alla fine si schiarì la gola. «Questo mi suona terribilmen-te familiare. E non in senso positivo. Ha mai sentito parlare di una piccola agenzia governativa conosciuta come DPI?» «Noi non siamo affatto come la Divisione delle Investi-gazioni Paranormali. Questo glielo giuro. E siamo una fon-dazione privata, non un'agenzia governativa.» Si leccò le labbra. «Noi proteggiamo il mondo soprannaturale. Non

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cerchiamo di distruggerlo o di fare esperimenti come faceva la DPI. Siamo guardiane dell'ignoto.» «E perché volete l'anello?» «Unicamente per impedire che cada nelle mani sbagliate e venga usato per il male.» «E io dovrei accettare la vostra parola in merito? E poi, basandomi su niente più di questo, introdurmi in un mu-seo e rubare un gioiello inestimabile?» «Sì.» Melina chinò il capo. «Sono spiacente di non po-terle dire di più, ma più persone conoscono i poteri di que-st'anello e più pericoloso esso diventa.» Stormy sospirò. «Mi dispiace. Guardi, proprio non posso farlo. E anche se fossi disposta, Max e Lou non lo accette-rebbero mai.» «D'accordo. Immagino... che dovremo solo trovare un altro modo.» «Fate pure. Buonasera dunque. E... buona fortuna, sup-pongo.» «Buonanotte.» La donna si alzò e uscì dalla camera. Stormy la seguì solo per il tratto sufficiente a chiudere a chiave la porta. Poi riaprì l'acqua del bagno e si riempì il bicchiere. Vlad rilesse il pezzo sull'Easton Press quattro volte pri-ma di riuscire a credere che non era solo un prodotto della propria immaginazione. Era un articolo breve, una colonna di due pollici inserita per riempire uno spazio, su una nuo-va mostra di manufatti rinvenuti in Turchia e al momento esposti in un museo in Canada. Il più eccezionale dei ma-nufatti è un grosso anello con un rubino incastonato tra stalloni rampanti sbalzati su entrambi i lati della perfetta pietra da 20 carati.

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Quella era la riga che aveva catturato la sua attenzione. Quella che continuava a leggere e rileggere, fino alle lacri-me. «Non può essere...» mormorò. Ma poteva. Poteva senz'altro. Non c'era ragione di du-bitare che quello potesse essere l'anello che lui aveva infila-to al dito della sua sposa secoli prima. E tuttavia non vole-va crederci. Credere conduceva a sperare, e la speranza conduceva al dolore e alla perdita. Lui non era sicuro di po-ter più sopportare nessuno di quei sentimenti. Non pensava di esser riuscito molto bene a evitarli, per tutti quegli anni, comunque. Aveva tentato, ma dannazio-ne, non riusciva a lasciarla andare. Non ne aveva la forza. Lei aveva su di lui una presa tanto potente quanto qualsiasi influsso lui avesse mai lanciato su un mortale. I vampiri non sognavano; il loro sonno era simile alla morte. Ma Dracula sognava. Di lei. Tempest... o Elisabeta o... Accidenti, le due erano così intrecciate e confuse nella sua mente, che non sapeva come distinguere i propri sentimen-ti per l'una da quelli per l'altra. Non sapeva come distin-guere loro due. Aveva acquistato una penisoletta sulla costa del Maine, e usato i propri poteri per mimetizzare il luogo. Un passan-te avrebbe visto solo bruma e nebbia e foresta. Non una torreggiante magione edificata secondo un progetto speci-fico. Era a venti miglia da Easton, dove Tempest, che insi-steva nel farsi chiamare Stormy, viveva coi suoi amici Ma-xine e Lou, in una bella residenza. Aveva seguito le sue tracce per tutti quegli anni. L'aveva osservata, tenendosi sempre a una certa distanza. Senza mai avvicinarsi troppo. Senza mai toccarla o lasciare che la

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propria presenza venisse avvertita. Ma lui sapeva. Sapeva tutto ciò che lei faceva. Sapeva dei vampiri che condividevano la casa con i mor-tali e li aiutavano nelle loro indagini: Morgan de Silva e Dante, che era stato trasformato da Sarafina, che era stata trasformata da Bartrone. La vampira Morgan era la sorella gemella della mortale Maxine, e benché le due non fossero cresciute assieme adesso erano molto unite. Sapeva della famiglia di Tempest: i suoi genitori, ora in pensione, vivevano in un residence in Florida. Lei faceva loro visita due volte l'anno, qualsiasi cosa succedesse. Sapeva delle sue relazioni maschili... anche se lo uccide-va. A volte lei vedeva degli uomini. Aveva degli appunta-menti. E ogni volta ciò colmava Vlad di una furia che tro-vava quasi impossibile da contenere. Era pericoloso in quei momenti. E quando la rabbia an-dava oltre la sopportazione, si costringeva a sparire per un po'. Era l'unico modo per impedirsi di assassinare ogni ba-stardo che le metteva le mani addosso, e magari lei con loro. Non era mai nato niente da nessuna delle sue relazioni. Lui non l'aveva mai sentita innamorarsi, provare il genere di cose che gli piaceva pensare avesse provato con lui. Sapeva tutto di lei. Tutto ciò che faceva, tutto ciò che amava. E sapeva che il suo tempo era breve. Il termine si avvicinava rapidamente, quello che quei maghi avevano inserito nei loro incantesimi. Quella data l'aveva spinto alla disperazione a mano a mano che si faceva più prossima. La cosiddetta Stella Rossa del Destino avrebbe eclissato Vene-re entro appena cinque giorni. E quando l'avesse fatto, Eli-sabeta sarebbe passata dall'altra parte, insieme a Tempest. E lui le avrebbe perse entrambe.

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Dio, non poteva sopportare il pensiero! Tuttavia, in ogni maniera concreta, le aveva già perse. A meno che... Tempest al momento non si trovava a casa. Lei e i suoi soci erano partiti per via di uno dei loro casi, e dal momen-to che lui non percepiva alcun pericolo per loro era rimasto indietro. E adesso era contento di averlo fatto. Stava in piedi, rimuginando, davanti alle finestre ad arco del suo salotto. Il caminetto alle sue spalle era freddo e buio. Non ne aveva bisogno, non gli serviva calore, non cercava conforto, perché non c'era niente in realtà che po-tesse procurarglielo. Fuori infuriava una tempesta, con l'o-ceano che danzava al suo tocco autoritario, rabbrividendo ai furiosi aliti del vento rabbioso. Scoccavano lampi, e il vento ululava. Lui amava le notti come quella. Vlad guardò un'altra volta il giornale, notando la sede dell'esposizione. Il Museo Nazionale Canadese a Edmun-ston. A meno di duecento miglia. Poteva essere là in quattro ore d'auto. Meno, se guidava veloce. Ma lui era Dracula, e aveva metodi assai più efficienti per viaggiare. Si infilò il soprabito. Era lungo e di pelle e, in sintonia col suo umore, nero. Posò la mano sulla manopola centrale della finestra, la girò e spinse i battenti verso l'esterno. Poi roteò, sempre più veloce. Turbinò come un ciclone, mentre focalizzava la mente e mutava la forma del proprio corpo. Quando veleggiò nella notte, dentro la tempesta, fu nel-la forma di un gigantesco corvo nero. Avrebbe scoperto abbastanza presto se l'anello esposto in Canada fosse il suo anello. L'anello di Elisabeta.

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Stormy non sapeva che diavolo fare. Ma di una cosa era sicura: avrebbe dovuto mettere le mani su quell'anello... perché se era quell'anello non poteva rischiare che nessun altro lo possedesse. Incluse Melina e la sua preziosa orga-nizzazione. Non sapeva niente di quella Sorellanza di Athena, e non aveva neppure preso in considerazione di fidarsi di loro. Quell'anello aveva un qualche genere di potere su di lei. Quell'anello aveva portato alla superficie Elisabeta, le aveva permesso di riprendere il sopravvento. E quell'anello, ne era più certa che mai, doveva essere quello a cui lui aveva fatto riferimento nel minuscolo brandello di ricordo che le era affiorato alla mente. Se lui avesse saputo che l'anello era lì, sarebbe venuto a prenderlo. Niente l'avrebbe fermato, se quello fosse stato il suo obiettivo. E solo Dio sapeva che cosa ne avrebbe fatto una volta che l'avesse avuto. L'avrebbe usato forse per ri-portare la sua preziosa Elisabeta in urlante, scalciante vita dentro di lei? Stormy non poteva tornare in quella situazio-ne. Non di nuovo. Aveva bisogno di sbarazzarsi dell'intru-sa, una volta per tutte. Doveva distruggere l'anello. Magari quello avrebbe fun-zionato. Se il dannato anello non esisteva, allora neanche il suo potere poteva esistere, qualunque fosse quel potere. Dunque quella era la risposta. Lei doveva distruggerlo, fon-derlo e tritare in polvere la gemma. Ma prima le occorreva un piano. Decise di non chiamare Max e Lou per quella faccenda. Non ancora, non subito. Primo, perché era impegnati con un altro caso, che li aveva portati fuori dallo Stato; e, secondo, perché Max era di gran lunga troppo protettiva nei suoi confronti. E quello non era un suo problema. Stormy aveva bisogno di affrontarlo da

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sola, senza sentire la necessità di giustificare o spiegare oppure difendere le proprie decisioni alla sua migliore ami-ca. Così si riempì per la terza volta il bicchiere, e restò in ammollo nella vasca, e pensò e ripensò a come potesse fare per rubare l'anello dal museo, non per Melina, ma per sé, e come potesse farlo senza venire colta sul fatto. Si addormentò nella vasca, il bicchiere vuoto sul pavi-mento lì accanto, la mente che turbinava di scene del vec-chio classico film Operazione Ladro e cercava di ignorare le altre immagini che la tormentavano. Immagini di Vlad. E poi, nei suoi sogni... lui venne. Un ricordo. Vlad l'aveva mandata a letto nella minuscola cabina della barca a vela che aveva usato per fuggire dopo averla rapita. Le aveva detto che avrebbero presto raggiunto la sua residenza sulle Isole della Barriera. Dovevano essere arrivati a quell'ora, pensò lei sve-gliandosi, e si chiese se si trovasse già in casa sua, visto che non sentiva il dolce rollio e beccheggio del mare sotto di sé. Ma era buio come la pece in quella camera da let-to... troppo buio per capire dove si trovasse. Rotolò su un fianco, cominciò a tastare in cerca di una lampada o qualcosa del genere, ma la sua mano colpì un muro solido. Fece scorrere il palmo e aggrottò la fronte. Una fodera di tessuto. Qualcosa di liscio come raso. Battendo le ciglia perplessa, mosse la mano in varie di-rezioni, soltanto per trovare un'altra liscia parete rivestita di raso proprio dietro la propria testa. Mentre l'ansia le attanagliava il petto, rotolò in fretta sull'altro lato, slanciando in fuori entrambe le mani, solo

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per urtare contro un altro muro. Era racchiusa stretta su tre lati, e un terrificante sospetto stava prendendo piede nella sua mente. Il respiro ora accelerato, il cuore martel-lante, premette i palmi verso l'alto. Si mossero solo di po-chi pollici prima di colpire un soffitto foderato di raso. Sono in una bara!, urlò dentro di sé. Sono intrappolata in una minuscola cassa e... Dio solo sa cos'altro! Soffoche-rò! Il panico serpeggiò attraverso il suo corpo come un pi-tone all'attacco, e Storm serrò le mani a pugno e picchiò sul soffitto, piegò le gambe quanto lo spazio le consentiva e tirò calci al fondo e ai lati. Urlò a pieni polmoni. «La-sciami uscire. Apri subito questa maledetta cassa e fammi uscire, maledizione!» Con sua sorpresa, si accorse che il soffitto si sollevava a ogni colpo: anche se poteva trovarsi in una cassa, non era chiusa dentro. Il coperchio cedette quando lo spinse. Alla fine era di nuovo alla luce, e ciò che vide fu l'esse-re che stava lì in piedi, a guardarla. Sembrava provato, stanco. I primi tre bottoni della camicia bianca erano slac-ciati, e i capelli erano sciolti e lunghi. Poi, ecco che si protendeva verso di lei. Lei gli schiaffeggiò le mani per allontanarle e, afferran-dosi ai lati della cassa, si tirò in posizione seduta, lanciò le gambe oltre il bordo, mancando di poco lui, e balzò sul pavimento. Ebbe un brivido in tutto il corpo, poi si cinse di scatto con le braccia, incassò il mento nel petto e chiuse gli occhi. Lui le toccò le spalle. Il suo corpo reagì con calore e bra-ma, ma lei lottò per ignorare quelle cose. «Mi dispiace, Tempest. Avevo ogni intenzione di tirarti

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fuori di qui prima che ti svegliassi, ma io...» Lei lo colpì con un pugno. Forte. Dritto al plesso solare. Le fruttò una gran soddisfazione udire il suo gemito, e quando lo vide barcollare all'indietro di qualche passo fu ancora meglio. «Bastardo.» «Tempest, se mi lasciassi spiegare...» «Come osi? Come osi ficcare me in una fottuta cassa come questa? E perché, per l'amor di Dio? Che diavolo pensavi?» Strinse ancora la mano a pugno e avanzò con-tro di lui, con tutta l'intenzione di colpirlo di nuovo, sta-volta in mezzo agli occhi. Lui la teneva per gli avambracci prima che potesse sfer-rare il colpo, così lei gli diede un calcio negli stinchi. Lui guaì ma non mollò la presa. «Sai, questo è ciò che mi piace di più di voi fottuti vam-piri. Sentite il dolore molto più degli umani.» «Basta!» Lui lo gridò, usando il pieno potere della propria voce... lei suppose fosse il pieno potere, forse no, forse lui ne ave-va molto di più. In un modo o nell'altro, il suono fu pro-fondo e possente come se la sua testa fosse dentro una gi-gantesca campana. Le risuonò nelle orecchie, le spaccò il cervello in due e l'assordò temporaneamente. Si premette le mani alla testa e chiuse gli occhi finché i riverberi smisero di rimbalzarle nel cervello. Poi pian piano abbassò le mani, aprì gli occhi, alzò la testa. Lui era anco-ra in piedi lì davanti a lei, la fissava con intensità, la colle-ra che scintillava negli occhi nero giaietto. «Ti ho detto che mi dispiace. Questo era l'unico siste-ma.» Lei socchiuse gli occhi su di lui, sul punto di rovesciargli addosso un'altra sfilza di insulti, accuse e con ogni pro-

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babilità parolacce, poi colse uno scorcio dello spazio die-tro di lui, e ammutolì. Pareti di pietra salivano verso imponenti soffitti a volta, dove brillavano lampadari di cristallo. I portalumi alle pa-reti sembrava potessero reggere vere torce. Le finestre era-no enormi, con le sommità ad arco, e gli spessi pannelli di vetro erano così antichi che la notte al di là di essi appari-va alterata. Sagome ricoperte da teli erano l'unico mobilio del luogo. E un largo scalone ricurvo saliva in alto, fino a uscire dalla vista. «Questa è... casa tua?» Lei deglutì a fatica accorgendosi della polvere e delle ragnatele; poi, voltandosi lentamente, trasalì un po' notando le due bare posate fianco a fianco, entrambe aperte. «Sembra che nessuno l'abbia usata da un po'.» «È passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno ha vissuto qui, sì.» Battendo le palpebre, lei andò alla finestra più vicina, oltrepassando un camino che occupava la maggior parte di una parete. Pulendo via la polvere dal vetro con la ma-no, guardò fuori. L'impressione fu di pura altezza e di sterile roccia fra-stagliata. La luna pendeva bassa nel cielo, quasi piena e d'un bianco latteo. Riversava la propria luce su rupi, ruvidi af-fioramenti di roccia e macigni che sporgevano verso l'alto da molto, molto in basso. I pochi patetici alberi che si ag-grappavano per sopravvivere ai ripidi fianchi delle rupi avevano un aspetto morto. Al di là, poté scorgere erbose colline e vallate. Attorno alla casa era completamente buio. Sembrava deserto.

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Stormy inghiottì l'amaro che sentiva in gola... e ci riuscì a malapena. Era disidratata, assetata, affamata e anche un tantino spaventata. Il posto in cui si trovava non asso-migliava a nessuna isola al largo del North Carolina. «Dove diavolo ci troviamo, Vlad?»

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Demon’s AngelPer settimane Aeron ha sentito accanto a sé un’invisibile

presenza femminile. È Olivia, un angelo assassinoincaricata di ucciderlo. Eppure, nonostante tutto, scatena

nel feroce guerriero una passione sfrenata...

Il principe della notte Più antico della leggenda, l'immortale Vlad Dracul

vaga da secoli sulla terra cercando la reincarnazionedi sua moglie Elisabeta. Ora è convinto di averla trovata

nella giovane Stormy, ed è deciso a farla suaper l’eternità. Lei però non ha intenzione di cedere...

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