biologia L’evoluzione dell’occhio -...

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60 Le Scienze 517 settembre 2011 www.lescienze.it Le Scienze 61 Dan Saelinger/Campione cortesia Eye-Bank For Sight Restoration, New York (www.eyedonation.org) L’ occhio umano è un organo di raffinata complessità. Si comporta come una mac- china fotografica che raccoglie e concentra la luce per convertirla in un segnale elettri- co, che il cervello traduce poi in immagini. Ma, al contrario della pellicola fotografica, il nostro occhio è dotato di una retina, una struttura estremamente specializzata, che percepisce la luce ed ela- bora i segnali usando decine di tipi differenti di neuroni. L’occhio è così complicato che le sue origini sono da sempre uno dei cavalli di battaglia di creazionisti e sostenitori del «dise- gno intelligente», che lo propongono come l’esempio per eccellen- za di quella che chiamano complessità irriducibile: un sistema non può funzionare in assenza di alcuno dei suoi componenti, e quin- di non può essersi evoluto da una forma più primitiva. In effetti, lo stesso Darwin riconobbe in L’origine delle specie che la forma- zione dell’occhio per opera della selezione naturale poteva appari- re assurda. Eppure era fermamente convinto che fosse andata così, benché all’epoca mancassero le prove di forme intermedie. Acquisirne la prova diretta ha continuato a presentare un pro- blema. Chi studia l’evoluzione dello scheletro può documentarne facilmente la metamorfosi nei reperti fossili, ma le strutture co- stituite da tessuti molli fossilizzano raramente. E quando accade i fossili non conservano sufficienti dettagli per stabilire come si so- no evolute le strutture. Tuttavia di recente sono stati raggiunti importanti risultati sul- le origini dell’occhio, risultati ottenuti studiando il modo in cui si forma durante lo sviluppo embrionale e paragonando la struttura oculare e i geni di diverse specie per ricostruire quando sono emer- si i tratti decisivi. I risultati indicano che il nostro tipo di occhio – il tipo comune fra i vertebrati – ha acquisito la sua forma in meno di 100 milioni di anni, evolvendosi da un semplice sensore luminoso dei ritmi circadiani e stagionali risalente a circa 600 milioni di an- ni fa in un organo otticamente e neurologicamente raffinato data- bile a 500 milioni di anni fa. A un secolo e mezzo di distanza dalla pubblicazione della rivo- luzionaria teoria di Darwin, queste scoperte sono la pietra tombale del concetto di complessità irriducibile, e sostengono con eleganza l’idea del grande naturalista inglese. Inoltre spiegano perché l’oc- chio, lungi dall’essere un congegno meccanico perfetto, presen- ta alcuni grossi difetti: quei difetti sono le cicatrici dell’evoluzione. A differenza di quanto pensa qualcuno, la selezione naturale non produce perfezione. Piuttosto, si destreggia con il materiale a di- sposizione, con conseguenze talvolta bizzarre. BIOLOGIA L’evoluzione dell’occhio La ricostruzione del processo evolutivo da cui è emerso l’occhio umano vanifica la tesi del «disegno intelligente» di Trevor D. Lamb Trevor D. Lamb è ricercatore del Dipartimento di neuroscienze alla John Curtin School of Medical Research e presso l’ARC Center of Excellence in Vision Research dell’Università Nazionale di Canberra in Australia. I suoi studi riguardano coni e bastoncelli della retina dei vertebrati.

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60 Le Scienze 517 settembre 2011 www.lescienze.it Le Scienze 61

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g)L’ occhio umano è un organo di raffinata complessità. Si comporta come una mac-china fotografica che raccoglie e concentra la luce per convertirla in un segnale elettri-co, che il cervello traduce poi in immagini. Ma, al contrario della pellicola fotografica, il nostro occhio è dotato di una retina, una

struttura estremamente specializzata, che percepisce la luce ed ela-bora i segnali usando decine di tipi differenti di neuroni.

L’occhio è così complicato che le sue origini sono da sempre uno dei cavalli di battaglia di creazionisti e sostenitori del «dise-gno intelligente», che lo propongono come l’esempio per eccellen-za di quella che chiamano complessità irriducibile: un sistema non può funzionare in assenza di alcuno dei suoi componenti, e quin-di non può essersi evoluto da una forma più primitiva. In effetti, lo stesso Darwin riconobbe in L’origine delle specie che la forma-zione dell’occhio per opera della selezione naturale poteva appari-re assurda. Eppure era fermamente convinto che fosse andata così, benché all’epoca mancassero le prove di forme intermedie.

Acquisirne la prova diretta ha continuato a presentare un pro-blema. Chi studia l’evoluzione dello scheletro può documentarne facilmente la metamorfosi nei reperti fossili, ma le strutture co-

stituite da tessuti molli fossilizzano raramente. E quando accade i fossili non conservano sufficienti dettagli per stabilire come si so-no evolute le strutture.

Tuttavia di recente sono stati raggiunti importanti risultati sul-le origini dell’occhio, risultati ottenuti studiando il modo in cui si forma durante lo sviluppo embrionale e paragonando la struttura oculare e i geni di diverse specie per ricostruire quando sono emer-si i tratti decisivi. I risultati indicano che il nostro tipo di occhio – il tipo comune fra i vertebrati – ha acquisito la sua forma in meno di 100 milioni di anni, evolvendosi da un semplice sensore luminoso dei ritmi circadiani e stagionali risalente a circa 600 milioni di an-ni fa in un organo otticamente e neurologicamente raffinato data-bile a 500 milioni di anni fa.

A un secolo e mezzo di distanza dalla pubblicazione della rivo-luzionaria teoria di Darwin, queste scoperte sono la pietra tombale del concetto di complessità irriducibile, e sostengono con eleganza l’idea del grande naturalista inglese. Inoltre spiegano perché l’oc-chio, lungi dall’essere un congegno meccanico perfetto, presen-ta alcuni grossi difetti: quei difetti sono le cicatrici dell’evoluzione. A differenza di quanto pensa qualcuno, la selezione naturale non produce perfezione. Piuttosto, si destreggia con il materiale a di-sposizione, con conseguenze talvolta bizzarre.

biologia

L’evoluzione dell’occhio

La ricostruzione del processo evolutivo da cui è emerso l’occhio umano vanifica la tesi del «disegno intelligente»

di Trevor D. Lamb

Trevor D. Lamb è ricercatore del Dipartimento di neuroscienze alla John Curtin School of Medical Research e presso l’ARC Center of Excellence in Vision Research dell’Università Nazionale di Canberra in Australia. I suoi studi riguardano coni e bastoncelli della retina dei vertebrati.

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Per capire come ha avuto origine l’occhio bisogna risalire a tem-pi remoti. Noi esseri umani apparteniamo a una linea ininterrotta di antenati che va indietro di 4 miliardi di anni, agli albori della vita sulla Terra. Circa un miliardo di anni fa, semplici animali pluricellu-lari si separarono in due gruppi. Il primo aveva un piano corporeo a simmetria radiale – una parte superiore e una inferiore, ma non una anteriore e una posteriore – e il secondo, che ha dato origine al-la maggior parte degli organismi che consideriamo animali, aveva una simmetria bilaterale, con i lati destro e sinistro speculari e una testa in cima. Circa 600 milioni di anni fa gli organismi bilaterali si sono separati a loro volta in due gruppi importanti: uno ha dato origine alla stragrande maggioranza delle creature senza spina dor-sale, gli invertebrati, e l’altro i cui discendenti includono la nostra linea di vertebrati. Poco dopo la separazione delle due linee, proli-ferò una incredibile diversità di piani corporei, la cosiddetta esplo-sione del Cambriano, che lasciò, il suo segno nella documentazione fossile tra 540 e 490 milioni di anni fa. Questa esplosione evolutiva gettò le basi per l’emergere del nostro occhio complesso.

Composto o a fotocamera?La documentazione fossile dimostra che durante l’esplosione del

Cambriano emersero due stili fondamentalmente diversi di occhi. Il primo fu probabilmente l’occhio composto che osserviamo og-gi in tutti gli insetti, i ragni e i crostacei adulti, parte di un gruppo di invertebrati collettivamente noti come artropodi. In questo tipo di occhio, file di unità identiche di rappresentazione delle immagi-ni, ciascuna delle quali costituisce una lente o un riflettore, trasmet-te la luce a un gruppo di elementi sensibili alla luce, i fotorecettori. Gli occhi composti sono molto efficaci per i piccoli animali perché offrono una visione ad ampio raggio e una moderata risoluzione spaziale in un piccolo volume. Sono insuperabili per la percezione dei movimenti rapidi. Durante il Cambriano questa capacità visi-va avrebbe avvantaggiato i trilobiti e altri antichi artropodi un van-taggio sugli animali incapaci di vedere.

Gli occhi composti però non sono pratici per grandi animali, perché la dimensione dell’occhio necessaria per la visione ad alta risoluzione sarebbe troppo grande. Aumentando le dimensioni cor-poree sono quindi aumentate anche le pressioni selettive a favore dell’evoluzione di un altro tipo di occhio: quello a fotocamera. In questo secondo tipo di occhio i fotorecettori condividono un’unica lente che concentra la luce, e sono disposti come una lamina (la re-tina) che delimita la superficie interna della parete dell’occhio. Ca-lamari e polpi hanno un occhio a fotocamera che assomiglia super-ficialmente al nostro, ma i loro fotorecettori sono dello stesso tipo che si trova nell’occhio degli insetti. I vertebrati hanno un tipo di-verso di fotorecettore, che nei vertebrati gnatostomi – di cui faccia-mo parte anche noi – si presenta in due varietà: i coni per la visione diurna e i bastoncelli per quella notturna. Alcuni anni fa, insieme a Edward N. Pugh Jr. e Shaun P. Collin, svolgemmo un progetto co-mune per capire come si fossero evoluti questi diversi tipi di fotore-cettore. Ciò che scoprimmo andò oltre i nostri obiettivi, offrendoci un convincente scenario sull’origine dell’occhio dei vertebrati.

Come altri biologi prima di noi, notammo che molti tratti speci-fici dell’occhio dei vertebrati sono identici in tutti i rappresentanti viventi di un ramo importante dell’albero dei vertebrati, il ramo de-gli gnatostomi [l’etimologia greca del termine indica la presenza di una bocca dotata di mascella, N.d.r.]. Ciò suggerisce che i vertebrati gnatostomi abbiano ereditato i tratti da un antenato comune e che il nostro occhio si sia evoluto già circa 420 milioni di anni fa, quan-do i primi gnatostomi (probabilmente simili agli attuali pesci car-tilaginei, come gli squali) dominavano i mari. Ne deducemmo che il nostro occhio a fotocamera e i suoi fotorecettori dovessero ave-re radici ancora più antiche, e dunque rivolgemmo l’attenzione a vertebrati gnatostomi ancora più primitivi, con cui abbiamo un an-tenato comune a circa 500 milioni di anni fa.

Volevamo esaminare in dettaglio l’anatomia di uno di questi animali, e quindi decidemmo di concentrarci su uno dei pochi ani-mali moderni del genere: la lampreda, un pesce anguilliforme con una bocca a imbuto costruita per succhiare, e non per mordere. Anche questo pesce ha un occhio a macchina fotografica, comple-to di lente, iride e muscoli oculari. La retina della lampreda ha per-sino una struttura a tre strati, come la nostra, e i suoi fotorecettori sono molto simili ai nostri coni, anche se evidentemente non ave-va ancora evoluto i più sensibili coni. Inoltre, i geni che controlla-no molti aspetti della percezione della luce, della sua elaborazio-ne neurale e dello sviluppo dell’occhio sono gli stessi che dirigono questi processi nei vertebrati gnatostomi.

Antiche radiciQueste sorprendenti somiglianze con l’occhio dei vertebrati gna-

tostomi sono troppe per essere emerse indipendentemente. Un oc-chio essenzialmente identico al nostro doveva essere presente in un antenato comune dei vertebrati con e senza mascella 500 milioni di anni fa. A questo punto era inevitabile chiedersi se si poteva far risalire l’origine dell’occhio e dei suoi fotorecettori ancora più in-dietro nel tempo. Purtroppo non esistono rappresentanti viventi di linee che si sono separate dalla nostra linea nei 50 milioni di an-ni precedenti, il lasso di tempo che avrebbe costituito il passo suc-cessivo più logico delle nostre ricerche. Ma trovammo alcuni indizi nell’occhio di un animale enigmatico, la missina.

Come le lamprede, di cui sono parenti stretti, le missine sono pe-sci anguilliformi, senza mascelle. Vivono generalmente sui fondali oceanici, dove si nutrono di crostacei e carcasse di altre creature marine. In caso di minaccia, essudano una bava molto viscosa, da cui il nome comune di «anguille bavose». Benché le missine siano vertebrati, i loro occhi sono molto diversi da quelli tipici di questi ultimi. L’occhio della missina è privo di cornea, di iride, della lente e di tutti i muscoli che solitamente lo controllano. Inoltre, la sua reti-na è composta solo da due strati di cellule, invece che da tre, e cia-scun occhio è sepolto sotto un frammento di pelle traslucida. Osser-vazioni del comportamento delle missine suggeriscono che siano quasi cieche, e che localizzano le carogne usando l’olfatto.

La missina ha un antenato comune con la lampreda, un ante-nato presumibilmente dotato di un occhio a fotocamera, come la

Jen

Chris

tians

enlampreda. L’occhio della missina deve perciò essere una degene-razione di quella forma più progredita, ed è significativo che esi-sta ancora in quella primitiva. Per esempio, sappiamo dal caracide cieco che l’occhio può andare incontro a una massiccia degenera-zione ed essere completamente perso in appena 10.000 anni. Ep-pure l’occhio della missina, in tutta la sua struttura, persiste da centinaia di milioni di anni. Ciò suggerisce che, sebbene la missi-na non possa usarlo per vedere, l’organo è comunque importan-te per la sua sopravvivenza. La scoperta ha poi altre implicazioni. La missina potrebbe essere infatti finita in questo stato rudimen-

tale a causa di un difetto dello sviluppo, per cui la sua struttura at-tuale potrebbe essere rappresentativa dell’architettura di uno sta-dio evolutivo primitivo. Il funzionamento dell’occhio della missina potrebbe quindi fare luce sulle modalità di funzionamento del pro-to-occhio, prima che si evolvesse in un organo visivo.

Indizi sul ruolo dell’occhio della missina si ricavano analizzan-done la retina. Nella retina a tre strati classica dei vertebrati, le cel-lule dello strato intermedio – le cellule bipolari – elaborano l’in-formazione in arrivo dai fotorecettori e comunicano i risultati ai neuroni che inviano i segnali verso il cervello che li interpreterà. In-

Gli occhi dei vertebrati sono così complessi che i creazionisti li portano a esempio dell’inesistenza della selezione naturale.I tessuti molli fossilizzano di rado.

Tuttavia, confrontando le strutture degli occhi e lo sviluppo embrionale dell’occhio in diverse specie di vertebrati, gli scienziati hanno raccolto informazioni decisive

sull’origine di quest’organo.Le scoperte indicano che il nostro occhio a fotocamera ha radici sorprendentemente antiche, e che prima di acquisire gli elementi

necessari per operare come organo visivo funzionava come un rivelatore della luce per modulare i ritmi circadiani dei nostri più antichi antenati.

I n b r e v e

s c o p e r t e

Milioni di anni fa600 500 400 0

Bilateria

Artropodi

Annelidi, molluschi

Emicordati,echinodermi

Cefalocordati

Tunicati

Missiniformi

Petromizontiformi

Ultimi pesci agnati fossili

Gnatostomi

Vertebrati

Vescicolaottica

Nervoottico

Retina

Pelletraslucida

Cellulegangliali Foto-

recettori

Lente

Cellulegangliali

Cornea

Iride

Lentein via disviluppo

Cellule retinalimature

Cellule retinaliprogenitrici

Fotorecettori

Cellulebipolari

5 settimaneOcchio di larva di lampreda

occhio ancestrale: le prove disponibili suggeriscono che un proto-occhio non visivo con una retina a due strati si sia evoluto in un antenato dei vertebrati tra i 550 e i 500 milioni di anni fa ●4 e che questo precursore dell’occhio a fotocamera servisse a rivelare la luce che regolava l’orologio interno.

Retina a due strati

4 settimane

Retina a tre strati

Echi dell’evoluzioneLa struttura e lo sviluppo embrionale dell’occhio della missina e della lampreda – vertebrati primitivi anguilliformi – indicano come si è evoluto il nostro occhio a fotocamera e come funzionava negli stadi primitivi. La missina ha un occhio degenerato, che non vede ma che serve probabilmente per rivelare la luce allo scopo di modulare i ritmi circadiani ●1 . Nelle prime fasi dello sviluppo, l’occhio della lampreda assomiglia molto all’occhio, strutturalmente semplice, della missina, prima di subire la metamorfosi in un complesso occhio a macchina fotografica ●2 . Anche l’occhio umano durante lo sviluppo ricorda l’occhio della missina, poiché attraversa uno stadio in cui la retina ha so-lo due strati, prima che emerga un terzo strato di cellule ●3 . Aspetti dello sviluppo embrionale di un individuo riflet-tono, come sappiamo, eventi accaduti durante l’evoluzione della sua linea.

Occhio di missina adulta●1

Occhio di lampreda adulta

●2

Occhio umano adulto●3

●4

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vece la retina a due strati della missina è priva delle cellule bipola-ri intermedie: qui i fotorecettori si collegano direttamente ai neuro-ni di proiezione. In questo senso, i circuiti della retina della missina assomigliano alla ghiandola pineale, o epifisi, una piccola struttu-ra cerebrale specializzata nella secrezione di ormoni. La ghiando-la pineale modula i ritmi circadiani, e nei vertebrati non mammiferi contiene cellule fotorecettrici che si collegano direttamente ai neu-roni di proiezione, senza cellule intermedie. Nei mammiferi queste cellule hanno perso la capacità di percepire la luce.

Basandoci anche su questa analogia con la ghiandola pinea-le, nel 2007 ho proposto, insieme ai miei collaboratori, l’ipotesi che l’occhio della missina non sia implicato nella visione, ma ge-neri invece i segnali in ingresso alla parte del suo cervello che re-gola ritmi circadiani essenziali, e anche attività stagionali come l’alimentazione e l’accoppiamento. È quindi possibile che l’occhio ancestrale dei protovertebrati vissuti tra i 550 e i 500 milioni di anni fa fungesse inizialmente da organo non visivo e che solo in seguito abbia evoluto la capacità di elaborazione neurale e ottica, oltre alle componenti motorie necessarie per la visione spaziale.

Gli studi sullo sviluppo embrionale dell’occhio dei vertebrati confermerebbero la teoria. Quando una lampreda è allo stadio larvale, vive nel letto di un ruscello e, come la missina, è cieca. In que-sta fase della vita il suo occhio assomiglia a quel-lo della missina, perché ha una struttura semplice ed è collocato sotto uno strato di pelle. Quando la larva va incontro a metamorfosi, il suo occhio ru-dimentale cresce e sviluppa una retina a tre stra-ti; inoltre, si formano una lente, una cornea e i muscoli di sostegno. A quel punto, l’organo sale in superficie co-me occhio a fotocamera. Molti aspetti dello sviluppo individua-le rispecchiano eventi accaduti durante l’evoluzione degli antena-ti. Pertanto, con la dovuta cautela possiamo ricorrere allo sviluppo dell’occhio della lampreda per aggiornare la nostra ricostruzione dell’evoluzione dell’occhio.

Anche l’occhio dei mammiferi mostra segni eloquenti della sua origine evolutiva durante lo sviluppo embrionale. Benjamin E. Ree-se e collaboratori dell’Università della California a Santa Barbara hanno scoperto che i circuiti della retina dei mammiferi esordiscono in modo simile a quelli della missina, poiché i fotorecettori si colle-gano direttamente ai neuroni di proiezione. Poi, dopo diverse setti-mane, le cellule bipolari maturano e si inseriscono tra i fotorecettori e i neuroni di proiezione. Questa sequenza è esattamente lo schema di sviluppo previsto se la retina dei vertebrati si fosse evoluta da un organo circadiano a due strati grazie all’aggiunta della capacità di elaborazione e di elementi per rappresentare le immagini. Sembra perciò assolutamente plausibile che questo stadio semplice e pri-mitivo dello sviluppo sia il retaggio di una fase dell’evoluzione che precedette l’invenzione dei circuiti della cellula bipolare nella retina e l’invenzione della lente, della cornea e dei muscoli accessori.

L’arrivo dei recettoriMentre studiavamo lo sviluppo dei tre strati della retina, ci sia-

mo posti un’altra domanda sull’evoluzione dell’occhio. Nel regno animale, i fotorecettori appartengono a due classi distinte: rabdo-merica e ciliata. Fino a poco tempo fa, molti erano convinti che gli invertebrati usassero la classe rabdomerica e i vertebrati la ciliata. Ma in realtà la situazione è più complicata. Nella stragrande mag-gioranza degli organismi, i fotorecettori ciliati sono responsabili della percezione della luce per scopi non visivi, come la regolazione

dei ritmi circadiani. Viceversa, i recettori rabdomerici percepiscono la luce con l’espressa finalità di consentire la visione. Sia gli occhi composti degli insetti sia gli occhi a fotocamera di molluschi come il polpo, evolutisi indipendentemente da quelli dei vertebrati, im-piegano fotorecettori rabdomerici. Tuttavia, l’occhio dei vertebrati usa i fotorecettori ciliati per percepire la luce al fine di vedere.

Nel 2003, Detlev Arendt, dello European Molecular Biology Laboratory a Heidelberg, ha riferito prove convincenti che il nostro occhio conserva i discendenti dei fotorecettori rabdomerici, modifi-catisi poi notevolmente per formare i neuroni di proiezione, che in-viano l’informazione dalla retina al cervello. Ciò implica che la no-stra retina contiene i discendenti dei recettori di entrambe le classi: la classe ciliata, in origine fotorecettori, e la classe rabdomerica, che si è trasformata in neuroni di proiezione. Riutilizzare una struttura esistente per un nuovo scopo è proprio il modo di operare dell’evo-luzione, quindi la scoperta che i fotorecettori ciliati e quelli rabdo-merici hanno un ruolo differente nel nostro occhio rispetto a quello degli invertebrati arricchisce le prove che sia stato costruito attra-verso processi naturali. Tuttavia ci siamo chiesti quale tipo di pres-

sione ambientale possa avere spinto queste cellule ad assumere i nuovi ruoli.

Per capire perché i fotorecettori ciliati hanno trionfato come sensori luminosi della retina dei vertebrati, mentre la classe rabdomerica si è evoluta nei neuroni di proiezione, ho analizzato le proprie-tà dei loro pigmenti sensibili alla luce, le rodopsi-ne, che prendono il nome dalla opsina, una protei-na in esse contenuta. Nel 2004, Yoshinori Shichida dell’Università di Kyoto ha dimostrato che, in fa-

se precoci dell’evoluzione dei pigmenti visivi nei vertebrati, è avve-nuto un cambiamento che ha reso più stabile, e dunque più attiva, la forma del pigmento attivata dalla luce. Ho ipotizzato che que-sto cambiamento abbia bloccato anche la riconversione della ro-dopsina attivata nella forma inattiva, che nel caso delle rodopsine rabdomeriche richiede l’assorbimento di un secondo fotone di luce; pertanto, era necessaria una via biochimica che annullasse la pre-disposizione della molecola a segnalare di nuovo la luce. Una volta che questi due elementi fossero stati presenti, i fotorecettori ciliati avrebbero avuto un vantaggio speciale rispetto ai fotorecettori rab-domerici in ambienti come gli abissi oscuri oceanici.

Di conseguenza, alcuni cordati primitivi (antenati dei vertebrati) potrebbero essere riusciti a colonizzare nicchie ecologiche inacces-sibili ad animali che si affidavano ai fotorecettori rabdomerici, e non perché la forma più evoluta di opsina offrisse una visione mi-gliore (le altre componenti dell’occhio a fotocamera dovevano an-cora evolversi), ma perché conferiva un modo più efficace di per-cepire la luce che permette agli orologi circadiani e stagionali di tenere il ritmo. Per questi cordati che vivevano in universi più te-nebrosi, i fotorecettori rabdomerici, meno sensibili, in aggiunta a quelli ciliati sarebbero stati praticamente inutili, e dunque liberi di assumere un nuovo ruolo come neuroni che trasmettono i segnali al cervello. A quel punto non avrebbero più avuto bisogno dell’op-sina, che la selezione naturale avrebbe eliminato da quelle cellule.

È nato un occhioDisponendo di una teoria sulla possibile origine della retina dei

vertebrati, volevamo capire come l’occhio si è evoluto circa 500 mi-lioni di anni fa da organo sensibile alla luce, ma non visivo, in or-gano capace di formare immagini. Abbiamo nuovamente trovato indicazioni nello sviluppo embrionale. Nelle fasi precoci dello svi- Do

n Fo

ley

luppo, la struttura neurale che dà origine all’occhio emette due pro-tuberanze su ambo i lati, formando due sacche, o vescicole. Ciascu-na vescicola si ripiega poi su se stessa e genera una retina a forma di C, che riveste la parete interna dell’occhio. L’evoluzione probabil-mente ha proceduto in modo molto simile. Ipotizziamo che un pro-to-occhio di questo tipo – con una retina a forma di C, a due strati, composta da fotorecettori ciliati sulla parte esterna e da neuroni di proiezione derivati da fotorecettori rabdomerici all’interno – si sia evoluto in un antenato dei vertebrati tra 550 e 500 milioni di an-ni fa, fungendo da orologio interno e forse aiutandolo a rivelare le ombre e a orientare adeguatamente il suo organismo.

Nello stadio successivo dello sviluppo embrionale, durante il ri-piegamento all’interno della retina su se stessa, si forma la lente, che ha origine come ispessimento della superficie esterna, o ecto-derma, dell’embrione, che si rigonfia entro lo spazio vuoto ricurvo a forma di C creato dalla retina. Alla fine, questa protrusione si separa dal resto dell’ectoderma e diventa un elemento libero di muoversi. Sembra verosimile che una sequenza di cambiamenti simile sia av-venuta durante l’evoluzione. Non sappiamo di preciso quando av-venne questa modificazione. Tuttavia, negli anni novanta Dan-Eric Nillson, dell’Università di Lund, ha dimostrato che le componen-ti ottiche dell’occhio potrebbero essersi evolute entro un milione di anni. In questo caso, l’occhio capace di formare immagini potrebbe essere emerso dal proto-occhio non visivo in un istante geologico.

Con la comparsa della lente per catturare la luce e mettere a fuo-co le immagini, la capacità dell’occhio di raccogliere l’informazio-ne è aumentata notevolmente. Questo avrebbe creato pressioni se-lettive favorevoli all’origine di una maggiore capacità elaborativa della retina, superiore a quella consentita dal semplice collegamen-to tra i fotorecettori e i neuroni di proiezione. L’evoluzione ha esau-dito questa necessità modificando il processo di maturazione della cellula, e perciò, durante lo sviluppo, alcune cellule sono diventate cellule bipolari della retina, che si inseriscono tra lo strato dei foto-recettori e lo strato dei neuroni di proiezione, invece di formare fo-torecettori ciliati. Per questa ragione le cellule bipolari della retina sono molto simili ai coni e ai bastoncelli, pur essendo privi della ro-dopsina, e ricevono l’input non già dalla luce bensì da sostanze chi-miche (neurotrasmettitori) rilasciate dai fotorecettori.

Benché gli occhi a fotocamera consentano un ampio campo vi-sivo, in realtà il cervello acquisisce solo una frazione dell’informa-

zione disponibile in un determinato istante, a causa del numero li-mitato di fibre nervose che collegano l’occhio al nostro cervello. Gli occhi a fotocamera primitivi dovettero affrontare una limitazio-ne ancora più grave, perché presumibilmente avevano un nume-ro persino inferiore di fibre nervose. Deve perciò essersi verificata una notevole pressione selettiva a favore dell’evoluzione di musco-li per il movimento oculare. Questi muscoli devono essere stati pre-senti già 500 milioni di anni fa, perché la loro organizzazione nella lampreda, la cui linea evolutiva risale a quell’epoca, è praticamente identica a quella dei vertebrati gnatostomi, esseri umani inclusi.

A dispetto degli innumerevoli caratteri ben costruiti e congegna-ti dell’occhio dei vertebrati, diversi tratti sono però decisamente ap-prossimativi. Per esempio la retina è disposta al contrario, e dunque la luce deve attraversarne l’intero spessore – attraverso le fibre ner-vose e i corpi cellulari che diffondono la luce e degradano la qua-lità dell’immagine – prima di raggiungere i fotorecettori. Inoltre i vasi sanguigni delimitano la superficie interna della retina, gettan-do ombre indesiderate sullo strato dei fotorecettori. La retina ha poi una macchia cieca, dove le fibre nervose che attraversano la sua superficie si aggregano prima di attraversarla ed emergere poste-riormente come nervo ottico. E l’elenco potrebbe proseguire.

Questi difetti non sono caratteristiche inevitabili dell’occhio a fotocamera, perché i polpi e i calamari hanno evoluto indipen-dentemente occhi dello stesso tipo che non hanno questi difet-ti. In real tà, un ingegnere che costruisse un occhio con i difetti del nostro rischierebbe il licenziamento. Considerare l’occhio dei vertebrati in un contesto evolutivo rivela che queste carenze appa-rentemente assurde sono la conseguenza di un’antica sequenza di passaggi, ciascuno dei quali ha regalato un vantaggio ai nostri an-tenati vertebrati prima ancora che riuscissero a vedere. Il «disegno» del nostro occhio non è intelligente, ma acquista la sua perfetta ra-gione d’essere alla luce dell’evoluzione. n

l e p r ov e

Cicatrici dell’evoluzioneL’occhio dei vertebrati, che non è affatto il frut-to di un «disegno» intelligente, contiene nume-rosi difetti che confermano la sua origine evo-lutiva. Tra i suoi difetti, che degradano la qualità dell’immagine, ci sono una retina invertita che co-stringe la luce a passare attraverso i corpi cellulari e le fibre nervose prima di colpire i fotorecettori ●1 ; vasi sanguigni che si distendono nella superficie in-terna della retina ●2 ; fibre nervose che si raggrup-pano per attraversare una singola apertura nella re-tina e formare il nervo ottico, creando una macchia cieca ●3 .

Fotorecettori

Nervo ottico

Vaso sanguigno

Retina●1

●2 ●3

Evolution of the Vertebrate Eye: Opsins, Photoreceptors, Retina and Eye-Cup. Lamb T. D. e altri, in «Nature Neuroscience», Vol. 8, pp. 960-975, dicembre 2007.

The Evolution of Eyes. Numero speciale di «Evolution: Education and Outreach», Vol. 1, n. 4, ottobre 2008.

The Evolution of Phototransduction and Eyes, numero monografico delle «Philosophical Transactions of the Royal Society, Series B», Vol. 364, 12 ottobre 2009.

p e r a p p r o f o n d I r e

L’occhio ancestrale

avrebbe avuto la funzione di

regolare i ritmi circadiani