BIBLIOTECA DELLA FONDAZIONE ITALIANA DEL NOTARIATO

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QUESTIONI ED ARGOMENTI TRA EVOLUZIONE NORMATIVA ED ORIENTAMENTI DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALIA CURA DI ANTONIO ARENIELLO

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Note introduttive

Antonio ArenielloPresidente Fondazione Italiana del Notariato

Il volume raccoglie nella prima parte i contributi della dottoressa Daniela Boggiali e del compianto Antonio Ruotolo, entrambi componenti del prestigioso Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato.L’attenzione degli studiosi si incentra su tematiche di rilevante interesse scientifico ed operativo, soffermandosi in primo luogo sugli esiti delle recenti riforme legislative che hanno profondamente modificato la struttura delle società a responsabilità limitata: potremmo dire che dall’originario “tipo” di Srl sono sorti per “gemmazione” diversi modelli riconducibili o comunque ascrivibili all’originario schema codicistico, talvolta ingenerando dubbi e alimentando discorsi spinosi tra gli operatori del diritto.Appare pertanto di notevole interesse l’approfondita riflessione che ricostruisce in maniera organica ed unitaria la pluralità di discipline speciali all’interno del tipo società a responsabilità limitata.Del pari foriero di spunti interessanti si palesa lo studio che si occupa della responsabilità notarile nel controllo sulla iscrivibilità delle delibere di società a responsabilità limitata alla luce della più recente giurisprudenza: in particolare risulta di notevole interesse l’esame dell’evoluzione degli orientamenti interpretativi speculare alla maggiore o minore rilevanza attribuita ai vizi delle delibere assunte dalla società.Chiude la rassegna societaria un prezioso contributo su un altro tema di particolare complessità, vale a dire la società tra professionisti, riguardata negli aspetti di più articolata applicazione operativa, quali i sistemi di voto, la presenza dei soci investitori, la nomina degli organismi gestionali, non senza un riferimento a specifiche realtà professionali interessate dall’argomento.Desidero concludere queste note sulla prima parte con un pensiero affettuoso ed un ricordo personale di Antonio Ruotolo, la cui conoscenza risale a tantissimi anni fa e con il quale ho sempre mantenuto un filo diretto umano e scientifico, apprezzandone l’acume e la disponibilità.

La seconda parte del volume, curata da Mauro Leo, Annarita Lomonaco, Cristina Lomonaco e Serena Metallo, “colonne” del nostro Ufficio Studi, affronta in primo luogo la modifica normativa intervenuta nella disciplina degli

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assegni, riflettendo su temi controversi e di immediato interesse operativo quali la localizzazione del pagamento e del protesto.Si sofferma poi sulla competenza territoriale dei pubblici ufficiali e su altre questioni particolarmente attuali quali le procedure nelle stanze di compensazione ed i sistemi di pagamento, il tutto in un quadro normativo indispensabile per collocare in maniera lucida le tematiche trattate.Altrettanto prezioso per l’interprete giuridico è il corposo contributo ad opera di Annarita Lomonaco, Cristina Lomonaco e Serena Metallo in tema di parcheggi pertinenziali.Il tema è di enorme interesse notarile e non mi dilungo se non per rivolgere un sentito invito a leggere e meditare questo studio.Davvero numerosissimi gli spunti di riflessione dalla complessa evoluzione normativa agli interventi dottrinali e giurisprudenziali, con un ricco corredo di indicazioni ed esemplificazioni nell’ambito della disciplina fiscale e tributaria.Degne di menzione inoltre le fattispecie pratiche individuate a sostegno delle argomentazioni giuridiche e tecniche.

La terza parte del volume in esame è dedicata alle “rassegne” su varie tematiche, tutte di notevole interesse per i notai e più in generale per gli operatori del diritto.Gli autori sono i già menzionati componenti dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, da Daniela Boggiali, che approfondisce il tema del regolamento successorio europeo fornendo una rassegna di sentenze della Corte di giustizia europea unitamente alla disamina di tre interessanti casi giudiziari, a Mauro Leo che evidenzia da par suo il delicatissimo tema legato al trasferimento di immobili di edilizia residenziale pubblica convenzionata a prezzo vincolato e non a corrispettivo liberamente contrattato sul mercato.Concludono il volume l’analisi di Annarita Lomonaco su un tema interessante e forse un pò trascurato quale è quello dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari: precisa è l’analisi casistica fondata sulla più recente evoluzione giurisprudenziale.Ancora, Cristina Lomonaco e Serena Metallo si occupano rispettivamente di fare il punto sulla prelazione artistica ed agraria nell’analisi approfondita portata avanti dalla giurisprudenza.Trattasi di argomenti sempre attuali, e particolarmente cari a chi scrive che se ne è occupato a suo tempo coordinato dal Maestro Carmine Donisi, al quale va il sempre affettuoso ricordo.

Note introduttive

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Indice

Parte I – Dalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata

DANIELA BOGGIALI – ANTONIO RUOTOLODalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata 7

ANTONIO RUOTOLOLa responsabilità notarile nel controllo sull’iscrivibilità delle delibere di Srl 85

DANIELA BOGGIALILe società tra professionisti: profili applicativi e orientamenti della prassi 115

Parte II – Legislazione speciale: studi ed approfondimenti

MAURO LEOBrevi riflessioni sulle recenti modifiche alla legge Assegni . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

ANNARITA LOMONACO – CRISTINA LOMONACO SERENA METALLOParcheggi pertinenziali alla luce della giurisprudenza. Profili civilistici e fiscali 171

Parte III – Le rassegne

DANIELA BOGGIALILa giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia di regolamentosuccessorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227

MAURO LEONovità legislative in materia di edilizia residenziale pubblica convenzionata(art. 25-undecies, legge 17 dicembre 2018, n.136) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

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ANNARITA LOMONACOL’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo terminenell’analisi della giurisprudenza più recente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287

CRISTINA LOMONACOL’esercizio della prelazione artistica nell’analisi della giurisprudenza . . . . . . . . 307

SERENA METALLOLa prelazione agraria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Indice

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Parte I

Dalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata

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Dalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata*

Daniela Boggiali – Antonio RuotoloUfficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il presente lavoro descrive gli esiti delle recenti riforme legislative che hanno profondamente modificato la struttura delle società a responsabilità limitata, in particolare con riferimento alle nuove norme in materia di capitale minimo e alle deroghe al diritto societario del codice civile, originariamente previste per le sole start-up innovative, ma successivamente estese alle Srl PMI.

This article describes how recent legislative reforms deeply changed the structure of limited liability companies, especially with reference to the new set of rules regarding the minimum amount of capital and the exceptions to the ordinary rules of civil code formerly stated for start-up companies and then extended to limited liability companies operating as small and medium-sized enterprises.

* Il lavoro, progettato insieme da Daniela Boggiali e Antonio Ruotolo, a seguito della prematura scomparsa di quest’ultimo è stato portato a termine da Daniela Boggiali.

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Sommario: 1. L’evoluzione normativa in materia di società a responsabilità limitata. – 1.1. Il d.l. n. 1 del 2012 e la “prima” Srl semplificata. – 1.2. La legge di conversione del d.l. n. 1 del 2012 e la “seconda” Srl semplificata. – 1.3. Il d.l. n. 83 del 2012 e la Srl a “capitale ridotto”. – 1.4. Il d.l. n. 179 del 2012 e le start-up innovative. – 1.5. Il d.l. n. 76 del 2013: la “terza” Srl semplificata e l’abrogazione delle Srl a capitale ridotto. – 1.6. La conversione del d.l. n. 76 del 2013 e le Srl “ordinarie” con capitale inferiore a 10.000 euro. – 1.7. La conversione del d.l. n. 3 del 2015 e le Srl start-up innovative costituite per atto sottoscritto con modalità digitale. – 1.8. Il d.l. n. 50 del 2017 e il d.lgs. n. 129 del 2017: le Srl PMI. – 2. Le Srl “ordinarie” con capitale inferiore a diecimila euro. – 2.1. La disciplina del capitale e dei conferimenti. – 2.2. La formazione della riserva legale. – 2.3. Natura giuridica delle Srl con capitale inferiore a 10.000 euro. – 2.4. L’aumento di capitale. – 2.5. La riduzione volontaria del capitale. – 2.6. La riduzione del capitale per perdite. – 3. Le Srl semplificate. – 3.1. Il modello standard e la sua inderogabilità. – 3.2. La disciplina delle Srls. – 3.3. La natura giuridica delle Srls. – 3.4. Intestazione fiduciaria e diritti reali minori su quote di Srls. – 3.5. Le Srl semplificate costituite con modello non adeguato. – 4. Le Srl start-up innovative. – 4.1. Nozione e requisiti. – 4.2. L’atto costitutivo e le successive modifiche della start-up Srl. – 4.3. Adempimenti richiesti per ottenere la qualifica di start-up. – 4.4. Le deroghe al diritto societario. – 4.5. La riduzione degli oneri per l’avvio. – 4.6. Ulteriori agevolazioni. – 4.7. Cessazione della qualifica di start-up innovativa. – 4.8. Le start-up innovative nel settore del turismo (art. 11-bis decreto legge 31 maggio 2014, n. 83). – 4.9. Gli incubatori certificati. – 5. Le Srl PMI. – 5.1. Nozione di PMI e ambito di applicazione della disciplina. – 5.2. Lo statuto delle PMI. – 5.3. Il trasferimento delle quote delle Srl PMI attraverso i portali per la raccolta di capitali. – 6. Considerazioni conclusive

1. L’evoluzione normativa in materia di società a responsabilità limitata

La frammentazione della disciplina della società a responsabilità limitata, che con la riforma del diritto societario aveva ricevuto una connotazione di autonomia rispetto alle società per azioni, è avvenuta attraverso la graduale introduzione, da un lato, di modelli di società a responsabilità limitata il cui capitale potesse esser inferiore al minimo di 10.000 euro stabilito dal n. 4) del comma 2 dell’art. 2463, c.c. e, dall’altro lato, di deroghe alla disciplina civilistica della società a responsabilità limitata, originariamente previste per le sole Srl aventi i requisiti di start-up innovativa, poi estese a tutte le Srl PMI.Ancorché tali provvedimenti si siano succeduti in un arco temporale limitato, si è creata una stratificazione di norme che, in alcuni casi, non è stata accompagnata da interventi di coordinamento delle disposizioni normative interessate dalla riforma della disciplina della costituzione e del capitale delle Srl1.

1 Ampia la bibliografia sul punto. Negli studi del Consiglio Nazionale del Notariato, D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, in Studi e materiali, 2014, 133 ss.; M. MALTONI – A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, in Studi e materiali, 2018, 325 ss.; G. FERRI JR., Prime osservazioni in tema di società a responsabilità

Dalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata

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1.1. Il d.l. n. 1 del 2012 e la “prima” Srl semplificata

La prima tappa del processo normativo di riforma delle Srl è rappresentata dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo

limitata semplificata e di società a responsabilità limitata a capitale ridotto, in Studi e materiali, 2013, 807 ss. e in Riv. dir. comm., 2013, 135 ss.. Nelle Segnalazioni Novità normative del Consiglio Nazionale del Notariato, F.G. NARDONE – D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata a capitale ridotto (art. 44 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83), in CNN Notizie 10 agosto 2012; F.G. NARDONE – D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Regolamento della società a responsabilità limitata semplificata, in CNN Notizie, 27 agosto 2012; F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a Responsabilità Limitata Semplificata. Questioni applicative, in CNN Notizie del 5 novembre 2012; G. LAURINI, Srls e modello standard tipizzato. La circolare del Ministero dello Sviluppo Economico ed il parere del Ministero della Giustizia, in CNN Notizie del 9 gennaio 2013; A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Società a responsabilità limitata semplificata, inderogabilità del modello standard e novità introdotte dal decreto del fare, in CNN Notizie del 18 settembre 2013. Nel volume della Fondazione Italiana del Notariato Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2014, 1, che raccoglie gli atti dei Convegni di Firenze, 18 ottobre 2013, e Mestre, 23 gennaio 2014: U. TOMBARI, Le nuove Srl, 12 ss.; G. ZANARONE, La Srl nei nuovi provvedimenti legislativi, 14 ss.; D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, 24 ss.; C.A. BUSI, La nuova Srl semplificata, 58 ss.; M. CIAN, Le società di capitali (a r.l.) quasi a-capitalizzate: spunti per una ricostruzione sistematica e della disciplina, 95 ss.; G.A.M. TRIMARCHI, Srl “One euro capital” (Oec) e Srl semplificate, 105 ss.; M. SILVA, Questioni e soluzioni applicative in tema di Srl semplificata, 125 ss.; N. ABRIANI, La disciplina del capitale sociale nelle nuove Srl, 137 ss.; F. MAGLIULO, Le operazioni straordinarie nelle nuove fattispecie codicistiche di Srl, 137 ss.; P. TALICE, Sottocapitalizzazione e finanziamento nelle Srl, 183 ss. In dottrina, G. FERRI, La società a responsabilità limitata semplificata e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto. Prime osservazioni, in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, 1727 ss.; G. PRESTI, Le società a responsabilità limitata dopo la riforma: alcune evidenze empiriche, in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, cit., 1821 ss.; P. REVIGLIONO, La società semplificata a responsabilità limitata: un “buco nero” nel sistema delle società di capitali, in Nuovo dir. soc., 2012, 4, 7 ss.; ID., La società a responsabilità limitata semplificata, in M. BIONE – R. GUIDOTTI – E. PEDERZINI, La nuova società a responsabilità limitata, Tratt. Galgano, Padova, 2012, 637 ss.; R. GUIDOTTI – E. PEDERZINI, La società a responsabilità limitata a capitale ridotto, in M. BIONE – R. GUIDOTTI – E. PEDERZINI, La nuova società a responsabilità limitata, cit., 659 ss.; V. SALAFIA, La società a responsabilità limitata semplificata e il tribunale delle imprese, in Società, 2012, 152 ss.; A. BAUDINO, La nuova società a responsabilità limitata semplificata. Prime riflessioni e spunti operativi, in Nuovo dir. soc., 2012, 12, 21 ss.; I. LUCATI, Una Srl semplificata per giovani imprenditori, in Obbl. e contr., 2012, 469 ss.; A. BUSANI, Srl “a capitale ridotto”: nasce un nuovo tipo di società a responsabilità limitata, in Corr. trib., 2012, 2239; F. ATTANASIO, Srl semplificata: verso il superamento della nozione di capitale sociale?, in Società, 2012, 895 ss.; M. SPIOTTA, Srl unilaterale “semplificata” o a “capitale ridotto”: problemi e prospettive, in Nuovo dir. soc., 2012, 18, 54 ss.; A. BUSANI – C.A. BUSI, La Srl semplificata (Srls) e a capitale ridotto (Srlcr), in Società, 2012, 1305; F. MAGLIULO, Trasformazione, fusione e scissione delle nuove Srl,

Daniela Boggiali – Antonio Ruotolo

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sviluppo delle infrastrutture e la competitività, il cui articolo 3 ha introdotto l’art. 2463-bis c.c.2

Nella versione originaria del decreto, anteriore alla legge di conversione, la società semplificata a responsabilità limitata poteva essere costituita da persone fisiche che non avessero compiuto i 35 anni di età mediante scrittura privata la quale doveva indicare, fra l’altro, il capitale minimo di un euro, da conferirsi in denaro, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Si prevedeva che laddove il socio perdesse il requisito anagrafico egli venisse escluso di diritto salvo che l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori non deliberasse la trasformazione della società; allo stesso modo la perdita, da parte di tutti i soci, del requisito anagrafico era causa di scioglimento della società.La completa attuazione della previsione normativa era comunque collegata ad un decreto ministeriale che avrebbe dovuto essere emanato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, contenente lo statuto standard tipizzato della società e l’individuazione dei criteri di accertamento

in Riv. not., 2012, 1419 ss.; A. MONTANARI, Le società “sub-prime” e il capitale (sociale, nominale, minimo ...), in Riv. dir. priv., 2012, 553 ss.; M. CIAN, Srl, Srl semplificata, Srl a capitale ridotto. Una nuova geometria del sistema o un sistema disarticolato?, in Riv. soc., 2012, 1101 ss.; A. POSTIGLIONE, I limiti alla modificabilità dell’atto costitutivo ‘’standard’’ della Srl semplificata, in Corr. trib., 2013, 1136 ss.; G. PAPPALARDO, Le società a responsabilità limitata con capitale ridotto, in Vita not., 2013, 461; M. RESCIGNO, La società a responsabilità limitata a capitale ridotto e semplificata, in Nuove leggi civ., 2013, 65 ss.; L. DE ANGELIS, La Srl semplificata ed a capitale ridotto, in Soc. e contr., 2013, 3, 6 ss.; A. NICCOLI, Srl semplificata: integrabile il modello standard, in Gazz. not., 2013, 217 ss.; M. MALTONI, La società a responsabilità limitata semplificata e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto: sintesi delle questioni applicative, in L’immobile e l’impresa, Milano, 2013, 99 ss.; A. BARTOLACELLI, “Novissime” modifiche alla disciplina della Srls.: saggio minimo di diritto transitorio, in Nuovo dir. soc., 2013, 16, 7 ss.; F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, in Soc. e contr., 2013, 2013, 9, 8 ss.; C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, in Soc. e contr., 2013, 2013, 9, 25 ss.; G.B. PORTALE, Il diritto societario tra diritto comparato e diritto straniero, in Riv. soc., 2013, 325 ss.; A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, in Società, 2013, 1069; G. MARASÀ, Considerazioni sulle nuove Srl: Srl semplificate, Srl ordinarie e start-up innovative prima e dopo la l. n. 99 del 2013 di conversione del d.l. n. 76 del 2013, in Società, 2013, 1086 ss. Sul tema si segnala, altresì, ASSONIME, La società a responsabilità limitata con capitale ridotto, Circolare n. 29 del 30 ottobre 2012.2 Sono ben note le ragioni addotte a giustificazione dell’intervento normativo, collegate alla necessità di consentire all’Italia di risalire dal 77° posto in cui si collocava all’interno dell’annuale rapporto della Banca Mondiale “Doing Business”. Sul punto, F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 9 ss.

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delle qualità soggettive dei soci. Per quanto non espressamente previsto nell’art. 2463-bis c.c., la norma rinviava, nei limiti della compatibilità, alla disciplina delle Srl.

1.2. La legge di conversione del d.l. n. 1 del 2012 e la “seconda” Srl semplificata

In sede di conversione del d.l. n. 1 del 2012, ad opera della l. 24 marzo 2012, n. 27, la disciplina della società a responsabilità limitata semplificata venne pressoché integralmente riscritta, con la previsione della necessità della forma pubblica per l’atto costitutivo, da redigersi in conformità al modello standard tipizzato con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, da emanarsi entro sessanta giorni dalla legge di conversione.In questa “seconda versione” della Srls permane il presupposto indefettibile che i soci non abbiano compiuto i 35 anni di età alla data della costituzione; il requisito di età rileva anche ai fini della cessione delle quote, essendo prevista espressamente la nullità del trasferimento della partecipazione a soggetti che ne siano privi. Gli amministratori devono essere scelti fra i soci.L’ammontare del capitale sociale deve essere pari almeno ad 1 euro e inferiore all’importo di 10.000 euro previsto per la Srl, e deve esser sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all’organo amministrativo.Vengono, inoltre, previste la non debenza degli onorari notarili ed altre agevolazioni («l’atto costitutivo e l’iscrizione nel Registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili»)3.

3 Come è stato in precedenza precisato (F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a Responsabilità Limitata Semplificata. Questioni applicative, cit.), «La gratuità della prestazione notarile va riferita alla redazione dell’atto costitutivo in conformità al modello tipizzato approvato con il decreto n. 138 del 2012. Dunque, nessun onorario è dovuto al notaio, né per il ricevimento dell’atto, né per il rilascio delle copie necessarie per gli adempimenti. Nonostante la legge taccia riguardo alle copie (l’esenzione dagli onorari notarili appare riferibile alla sola redazione dell’atto e alla sua iscrizione nel registro, con la conseguenza che anche per la copia utilizzata a tal fine non è dovuto onorario, così come non è dovuta l’imposta di bollo), sembra potersi ritenere, in linea con la finalità del provvedimento, che nell’ambito della prestazione notarile “gratuita” sia ricompreso anche il rilascio di una copia per la società, ma non il rilascio di copie ulteriori eventualmente richieste dai contraenti. Quanto alle esenzioni dai diritti di bollo e di segreteria, sulla base del dato normativo, esse riguardano:

Daniela Boggiali – Antonio Ruotolo

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Inoltre, si prevede che «il Consiglio nazionale del notariato vigila sulla corretta e tempestiva applicazione delle disposizioni del presente articolo da parte dei singoli notai e pubblica ogni anno i relativi dati sul proprio sito istituzionale».Anche in questa veste la completa attuazione della previsione normativa era rinviata alla definizione del modello standard da parte del decreto ministeriale.

1.3. Il d.l. n. 83 del 2012 e la Srl a “capitale ridotto”

La successiva tappa dell’evoluzione normativa in materia di Srl è avvenuta sempre nell’ambito delle Srl che derogano al requisito del capitale minino di 10.000 euro, con l’obiettivo di estendere tale possibilità anche ad altri soggetti, affiancando, alla disciplina della Srls., un’altra: l’art. 44 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”, introduce nel nostro ordinamento la Società a responsabilità limitata a capitale ridotto.Solo che, anziché intervenire sulla disciplina della società a responsabilità

– l’imposta di bollo sull’atto costitutivo. La norma parla di diritti ma è da intendersi come riferita all’imposta di bollo. Trattandosi di atto costitutivo di società senza (per divieto di legge) conferimento di immobile cui, ai sensi del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642, si applica il bollo forfetario che comprende l’originale, i suoi allegati non soggetti a bollo fin dall’origine, copia per la registrazione e per il Registro delle imprese e domanda per l’iscrizione nel Registro delle imprese (art. 1 comma 1-bis della tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972). È da intendersi che l’esenzione di cui al comma 3 dell’art. 3 si estenda anche alla copia per la registrazione. – l’imposta di bollo sulla copia per l’iscrizione nel Registro delle imprese (invero coperta già dalla previsione di cui sopra); – i diritti per il Registro imprese. Non v’è invece alcuna esenzione per l’imposta di registro (di euro 168), né per la tassa camerale per l’iscrizione al Registro delle Imprese, il cui importo varia a seconda del Registro delle imprese (l’importo di euro 200 è maggiorato presso alcune Camere di commercio) del cui versamento è solitamente incaricato il notaio. È sorto, infine, il dubbio se sia dovuta anche la tassa archivio ex art. 39 della legge 22 novembre 1954, n. 1158, il quale prevede che «le parti a mezzo del notaio, devono corrispondere all’Archivio notarile del distretto una tassa nella misura del 10 per cento dell’onorario stabilito per l’originale di ogni atto fra vivi soggetto a registrazione e di ogni atto di ultima volontà». Va ricordato come l’art. 9, comma 1, dello stesso d.l. n. 1 del 2012 disponga che «Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico», venendo così formalmente meno il parametro di riferimento per il calcolo della tassa d’archivio, rappresentato dal d.m. 27 novembre 2001». Il dubbio è stato definitivamente chiarito con il d.m. 27 novembre 2012, n. 265, che all’art. 7 prevede che «ove la legge ha stabilito che gli onorari sono ridotti, nella stessa proporzione sono ridotti le tasse e i contributi di cui al presente titolo (tra cui la tassa archivio, n.d.r.); ove la legge stabilisce che gli onorari notarili non sono dovuti, le tasse e i contributi di cui al presente titolo non sono dovuti».

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limitata semplificata, il legislatore preferì operare al di fuori del codice civile, prevedendo uno strumento alternativo a quello contemplato dall’art. 2463-bis c.c., che pure è evocato, sin dall’incipit della nuova norma.Che si trattasse di una disciplina diversa emergeva dalla previsione per cui restava “Fermo quanto previsto dall’articolo 2463-bis”.Disciplina diversa e con destinatari diversi, almeno sino alla conversione del decreto: la società a responsabilità limitata semplificata era riservata a soggetti persone fisiche che non avessero compiuto i 35 anni di età alla data della sua costituzione; laddove la società a responsabilità limitata a capitale ridotto era invece riservata, nel testo originario, a persone fisiche che avessero compiuto i trentacinque anni di età alla data della costituzione, sebbene tale requisito anagrafico non fosse ribadito in alcun modo per le vicende circolatorie.In sede di conversione, con la legge 7 agosto 2012, n. 134, venne poi introdotta la previsione per cui «al fine di favorire l’accesso al credito dei giovani imprenditori, il Ministro dell’economia e delle finanze promuove un accordo con l’Associazione bancaria italiana per fornire credito a condizioni agevolate ai giovani di età inferiore a trentacinque anni, che intraprendono attività imprenditoriale attraverso la costituzione di una società a responsabilità limitata a capitale ridotto» (art. 44, comma 4-bis). Disposizione che, secondo l’interpretazione data dal Ministero dello sviluppo economico del 30 agosto 20124 (ed in tal senso era anche la posizione del Consiglio Nazionale)5, consentiva di ritenere possibile il ricorso alla società a capitale ridotto anche per le persone fisiche infratrentacinquenni.Quanto all’atto costitutivo, l’art. 44 prevedeva il ricorso all’atto pubblico, senza tuttavia riferirsi a un modello standard tipizzato, che invece connota la società

4 Ministero dello sviluppo economico. Dipartimento per l’impresa e l’internazionalizzazione. Prot. n. 0182223 del 30 agosto 2012: Società a responsabilità limitata a capitale ridotto (art. 44 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012) Integrazione del proprio parere del 31 luglio 2012 prot. 170741.5 F.G. NARDONE – D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata a capitale ridotto (art. 44 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83), cit.; G. FERRI JR., Prime osservazioni in tema di società a responsabilità limitata semplificata e di società a responsabilità limitata a capitale ridotto, cit., 807 ss.; A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Costituzione di società a capitale ridotto con partecipazione di soci under 35, Quesito di impresa n. 332-2013/I, in CNN Notizie del 6 maggio 2013. In tal senso anche la Commissione società del Consiglio Notarile di Milano, con la Massima n. 129 del 5 marzo 2013, relativa ai Requisiti soggettivi e partecipazioni in Srl a capitale ridotto, ove si afferma che «I soci fondatori di una Srl a capitale ridotto devono necessariamente essere persone fisiche, aventi un’età sia superiore che inferiore ai 35 anni», nonché la Circolare Assonime n. 29 del 30 ottobre 2012. Isolata, in senso contrario, la posizione di G. PAPPALARDO, Le società a responsabilità limitata con capitale ridotto, cit., 478 ss.

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a responsabilità limitata semplificata, pur richiamando di quest’ultima alcuni elementi contenutistici, e cioè gli elementi di cui al secondo comma dell’articolo 2463-bis.In sostanza, della società a responsabilità limitata semplificata, la società a responsabilità limitata a capitale ridotto mutuava, come elemento qualificante, la regola per cui il capitale deve essere pari almeno ad 1 euro e inferiore all’importo di 10.000 euro previsto all’articolo 2463 come capitale minimo per una Srl “ordinaria”; nonché quella per cui il conferimento deve farsi necessariamente in denaro ed essere versato all’organo amministrativo (e non alla banca come per la Srl “ordinaria”). Ma, a differenza della società a responsabilità limitata semplificata, gli amministratori non devono essere necessariamente soci, e possono essere scelti quindi tra soggetti estranei alla società.Non era invece previsto alcun richiamo alla disciplina dei commi 3 e 4 dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2012, e quindi doveva escludersi che per le società a responsabilità limitata a capitale ridotto «l’atto costitutivo e l’iscrizione nel Registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili». Né era previsto che il Consiglio Nazionale del Notariato avesse uno specifico compito di vigilanza sulla corretta e tempestiva applicazione della nuova disciplina.

1.4. Il d.l. n. 179 del 2012 e le start-up innovative

Con un ulteriore intervento normativo, il legislatore ha poi previsto un nuovo modello di società a responsabilità limitata attraverso l’introduzione della disciplina delle start-up innovative, ad opera degli artt. 25-31 d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221 e successivamente modificata con il d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 99 e con il d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2015, n. 33.L’impresa start-up innovativa è una società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, che possiede i requisiti previsti dall’art. 25, comma 2, d.l. n. 179 del 2012, che quando è costituita in forma di società a responsabilità limitata si connota per una serie di deroghe alle norme codicistiche in materia di perdite del capitale, emissione di categorie di quote, offerta al pubblico delle stesse, operazioni sulle proprie partecipazioni ed emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis del codice civile.

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1.5. Il d.l. n. 76 del 2013: la “terza” Srl semplificata e l’abrogazione delle Srl a capitale ridotto

Dopo neanche un anno dai precedenti provvedimenti normativi, il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 recante “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (Iva) e altre misure finanziarie urgenti” intervenne ulteriormente, con i commi 13-15 dell’art. 9, sulla materia, riscrivendo la disciplina delle società a responsabilità limitata semplificata, estendendo la Srls. anche alle persone fisiche che abbiano compiuto i 35 anni di età e contemporaneamente espungendo le Srl a capitale ridotto.Viene, infatti, estesa la possibilità di costituire Srl semplificate a tutte le persone fisiche, under e over 35; conseguentemente vengono eliminati sia il requisito del non aver compiuto 35 anni per la costituzione della società, sia il divieto di cedere le quote a soggetti over 35.Viene espunta dal comma 2, n. 6) dell’art. 2463-bis la precisazione secondo cui gli amministratori della società debbono esser soci.Vengono “abrogate” le Srl a capitale ridotto e quelle già costituite ed iscritte nel Registro delle imprese vengono “riqualificate” come Srl semplificate.Non viene modificato, né abrogato, il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2012 che, al momento della sua introduzione, sanciva l’esenzione da diritti di bollo, segreteria e onorari notarili per la costituzione di Srl semplificate da parte delle persone fisiche che non avessero compiuto 35 anni d’età alla data della costituzione.Infine, il comma 15 modifica il comma 4-bis dell’art. 44 del d.l. n. 83 del 2012, che originariamente conteneva la disciplina della Srl a capitale ridotto, ricalibrando la norma sulle Srl semplificate (oggi del seguente tenore: «Al fine di favorire l’accesso dei giovani imprenditori al credito, il Ministro dell’economia e delle finanze promuove, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, un accordo con l’Associazione bancaria italiana per fornire credito a condizioni agevolate ai giovani di età inferiore a trentacinque anni, che intraprendono attività imprenditoriale attraverso la costituzione di una società a responsabilità limitata semplificata»).

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1.6. La conversione del d.l. n. 76 del 2013 e le Srl “ordinarie” con capitale inferiore a 10.000 euro

In sede di conversione del d.l. n. 76 del 2013 ad opera della l. 9 agosto 2013, n. 99, la disciplina fu ulteriormente riscritta.Viene innanzitutto introdotto un nuovo comma, dopo il comma 2, dell’art. 2463-bis c.c., ove si precisa che «Le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili» (aggiungendo la lettera b-bis) al comma 13 dell’art. 9 del decreto legge).A fronte della espunzione dal nostro ordinamento delle Srl a capitale ridotto, viene prevista la possibilità per tutte le società a responsabilità limitata di determinare l’ammontare del capitale in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro, con conferimenti esclusivamente in denaro (mediante aggiunta del comma 4 all’art. 2463, c.c.).In tale ipotesi sorge per la società l’obbligo di accantonare una somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio pari almeno ad un quinto degli stessi, obbligo che permane sino a che riserva e capitale non abbiano raggiunto l’ammontare di 10.000 euro. La riserva può esser utilizzata solo per imputazione a capitale e per copertura di eventuali perdite con obbligo di sua reintegrazione laddove essa sia diminuita (art. 2463, comma 5, c.c.).Infine, nella prospettiva della semplificazione degli adempimenti a carico delle società, la legge di conversione modifica la disciplina dell’art. 2464 c.c., prevedendosi che il versamento del 25% avvenga direttamente all’organo amministrativo nominato nell’atto costitutivo in luogo della banca con indicazione in atto dei mezzi di pagamento6.

1.7. La conversione del d.l. n. 3 del 2015 e le Srl start-up innovative costituite per atto sottoscritto con modalità digitale

Dopo un periodo di “sosta” nel processo di riforma della società a responsabilità limitata, il legislatore intervenne nuovamente sulla disciplina della start-up

6 Per tale profilo, che non verrà approfondito in questa sede, si rinvia ad N. ATLANTE, Prime questioni operative in tema di nuove norme sui conferimenti in danaro in sede di costituzione di Srl ordinarie, Segnalazione Novità normativa, in CNN Notizie del 4 settembre 2013. In dottrina, sul punto, F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit. 13 ss..; C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 25 ss.

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innovativa: in sede di conversione del decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3 recante: «Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti», avvenuta con legge 24 marzo 2015, n. 33, nell’art. 4, contenente la disciplina delle Piccole e medie imprese innovative, viene introdotto il comma 10-bis, il quale prevede che «Al solo fine di favorire l’avvio di attività imprenditoriale e con l’obiettivo di garantire una più uniforme applicazione delle disposizioni in materia di start-up innovative e di incubatori certificati, l’atto costitutivo e le successive modificazioni di start-up innovative sono redatti per atto pubblico ovvero per atto sottoscritto con le modalità previste dall’articolo 24 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. L’atto costitutivo e le successive modificazioni sono redatti secondo un modello uniforme adottato con decreto del Ministro dello sviluppo economico e sono trasmessi al competente ufficio del Registro delle imprese di cui all’articolo 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni».La norma è stata integrata dall’’art. 1, comma 65, l. 11 dicembre 2016, n. 232, che ha aggiunto il riferimento all’atto sottoscritto con le modalità previste anche dall’art. 25 del codice dell’amministrazione digitale (firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato).

1.8. Il d.l. n. 50 del 2017 e il d.lgs. n. 129 del 2017: le Srl PMI

Infine, con due interventi normativi succedutisi nell’arco di quattro mesi – il decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 convertito con legge 21 giugno 2017, n. 96 e il d.lgs. 3 agosto 2017, n. 129 – il legislatore ha sostanzialmente riscritto la disciplina delle società a responsabilità limitata, concedendo alle stesse una serie di opportunità in precedenza riservate al modello azionario che riguardano tanto il piano organizzativo che quello del finanziamento dell’impresa e della circolazione della partecipazione.Ciò è avvenuto, in particolare, – da un lato, estendendo alle PMI in forma di Srl le deroghe al diritto societario previste originariamente per le start-up innovative; e, – dall’altro lato, prevedendo un sistema di circolazione delle quote delle piccole e medie imprese e delle imprese sociali costituite in forma di Srl attraverso i portali per la raccolta di capitali, mediante il recepimento della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 maggio 2014, n. 2014/65/UE, relativa ai mercati degli strumenti finanziari.Ne risulta, come si vedrà, un quadro normativo in cui la società a responsabilità

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limitata, che è il modello più diffuso nel nostro ordinamento, può assumere, per scelta statutaria, connotazioni notevolmente simili a quelle della società per azioni.Peraltro, la necessità del ricorso a modifiche statutarie, che potenzialmente possono interessare la stragrande maggioranza delle Srl esistenti, implica l’indispensabile intervento notarile7.In conclusione, all’esito di questa rassegna degli interventi con cui il legislatore ha riscritto, in maniera non sempre coerente e coordinata, la disciplina delle società a responsabilità limitata, emerge una pluralità di “statuti” del modello di Srl, riconducibili alle seguenti figure: Srl “ordinaria” con capitale pari o superiore a 10.000 euro; Srl “ordinaria” con capitale inferiore a 10.000 euro, Srl semplificata, Srl start-up innovativa e, infine, Srl PMI.

2. Le Srl “ordinarie” con capitale inferiore a diecimila euro

2.1. La disciplina del capitale e dei conferimenti

La disciplina delle Srl con capitale inferiore a 10.000 euro è rinvenibile nei commi 4 e 5 dell’art. 2463 c.c., introdotti in sede di conversione del d.l. n. 76 del 2013 ad opera della legge 9 agosto 2013, n. 99, che stabiliscono quanto segue:– «l’ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro. In tal caso i conferimenti devono farsi in denaro e devono essere versati per intero alle persone cui è affidata l’amministrazione» (comma 4);– «La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430, deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro. La riserva così formata può essere utilizzata solo per imputazione a capitale e per copertura di eventuali perdite. Essa deve essere reintegrata a norma del presente comma se viene diminuita per qualsiasi ragione» (comma 5).Mentre nelle Srl con capitale pari o superiore a 10.000 euro, alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato almeno il 25% dei conferimenti in denaro e l’intero ammontare di quelli in natura, quando l’ammontare del capitale viene, invece, determinato in misura inferiore a 10.000 euro, ma pari almeno a

7 Sul tema, C.A. BUSI, Le modifiche statutarie per la gestione del crowdfunding nelle Srl pmi, in Società, contr., bilancio e revisione, 2018, 2, 6 ss.

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1 euro, i conferimenti possono farsi esclusivamente in denaro e devono essere interamente versati all’atto della sottoscrizione.Ciò significa che in una Srl con 10.000 euro di capitale, da coprire interamente con conferimenti in denaro, i soci sono complessivamente tenuti a versare almeno 2.500 euro all’atto della sottoscrizione.Viceversa, in una Srl con 9.999 euro di capitale, i conferimenti possono farsi soltanto in denaro e i soci sono complessivamente tenuti a versare tutti i 9.999 euro all’atto della sottoscrizione.Pertanto, l’importo di capitale convenzionalmente determinato dalle parti in misura inferiore a 10.000 euro deve essere integralmente coperto da versamenti in denaro.Non sembrerebbe, tuttavia, da escludere che, anche quando il capitale sia inferiore a 10.000 euro, i soci possano attribuire alla società beni in natura, ma in tal caso si tratta di qualificare tali apporti che non potrebbero comunque essere imputati a capitale e che, quindi, dovrebbero essere iscritti in apposita riserva.Va però segnalato che, pur non dubitandosi della legittimità di apporti fuori capitale, è discusso tanto il loro regime giuridico, quanto la possibilità che questi siano rappresentati anche da beni diversi dal denaro8.La possibilità di apporti in natura fuori capitale presenta, infatti, diversi profili problematici9, quali, ad esempio, il possibile aggiramento della disciplina della valutazione e stima dei conferimenti10, profili che, tuttavia, non possono essere approfonditi in tale sede, considerato che sollevano problematiche che coinvolgono tutte le società di capitali11.

8 Esamina il problema, ma solo sotto il profilo di apporti consistenti in crediti verso dei soci terzi, G. TANTINI, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano, 1990, 50 ss. Sulla natura della riserva così formata, U. TOMBARI, “Apporti spontanei” e “prestiti” dei soci nelle società di capitali, in ABBADESSA – PORTALE (a cura di), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 1, Torino, 2007, 551 ss.9 Rileva, ad esempio, F. TASSINARI, Il finanziamento della società mediante mezzi diversi dal conferimento, in C. CACCAVALE – F. MAGLIULO – M. MALTONI – F. TASSINARI, La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2004, 123, nt. 4 come il tema sia poco indagato dalla dottrina (che si è prevalentemente occupata degli apporti in denaro).10 G.A.M. TRIMARCHI, L’aumento del capitale sociale, Milano, 2007, 76.11 La giurisprudenza ha sancito la nullità degli accordi tra soci e società, volti ad eseguire un conferimento in natura mascherato con lo scopo di evitare l’applicazione delle garanzie previste dal legislatore per l’imputazione a capitale dei beni diversi dal denaro (App. Milano, 15 dicembre 2000). In particolare, la violazione delle predette norme determinerebbe tanto la nullità del negozio di scambio, quanto quella dell’aumento di capitale ad esso collegato (G.B. PORTALE, I conferimenti in natura “atipici” nelle SpA, Torino, 2004, 9; V. MANZO, L’aumento di capitale

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Nulla esclude, poi, che i soci possano decidere il versamento di un sovrapprezzo in denaro, il cui importo complessivo possa anche superare, se sommato al capitale sociale, la soglia di 10.000 euro12.Non esiste, infatti, per tali Srl, l’obbligo di capitalizzare la società fino all’importo di 10.000 euro. Il comma 5 dell’art. 2463 c.c., in deroga all’art. 2430 c.c., impone di accantonare un quinto, e non un ventesimo, degli utili, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di 10.000 euro e non, invece, fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale. Tuttavia, al raggiungimento della soglia prevista per la riserva legale, non sussiste l’obbligo per la società di imputare a capitale quanto è stato accantonato, né è previsto un termine di scadenza entro il quale la società sia tenuta a raggiungere, tra capitale e riserva, l’ammontare di 10.000 euro.Ciò significa che la società, pur avendo a disposizione consistenti mezzi patrimoniali, non ha l’obbligo di imputarli a capitale, e che la stessa può continuare ad esistere senza limiti temporali con un capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro.Una volta versato il sovrapprezzo, però, questo andrà a costituire la riserva da sovrapprezzo di cui all’art. 2431 c.c.Tale norma stabilisce che «Le somme percepite dalla società per l’emissione di azioni ad un prezzo superiore al loro valore nominale, ivi comprese quelle derivate dalla conversione di obbligazioni, non possono essere distribuite fino a che la riserva legale non abbia raggiunto il limite stabilito dall’articolo 2430».Per le Srl con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro, ai fini della distribuzione della riserva da sovrapprezzo, il riferimento al “limite stabilito dall’articolo 2430” deve ritenersi integrato da quanto sancito nel comma 5 dell’art. 2463 c.c. e, pertanto, per tali società la riserva da sovrapprezzo potrà essere distribuita quando la somma tra l’ammontare della riserva legale e quello del capitale sociale sarà pari a 10.000 euro13.

mediante compensazione tra il debito da conferimento ed il credito vantato dal socio nella Srl, in Notariato, 2013, 470). In merito alla questione degli apporti in natura, rimane altresì da approfondire se sia o meno obbligatorio presentare la relazione giurata dell’esperto di cui all’art. 2465 c.c., se non al momento dell’apporto, quantomeno nel momento in cui si dovesse procedere ad un aumento gratuito di capitale utilizzando il bene trasferito alla società a titolo di apporto e non, invece, di conferimento.12 F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 19, ammette tanto apporti d’opera o di servizi, quanto il sovrapprezzo.13 Così, D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 144.

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2.2. La formazione della riserva legale

Nelle Srl con capitale pari o superiore a 10.000 euro, la disciplina della riserva legale è quella prevista dall’art. 2430 c.c. in tema di SpA per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2478-bis c.c.Pertanto, in base al combinato disposto delle predette norme, la Srl con capitale pari o superiore a 10.000 euro deve accantonare a riserva legale almeno la ventesima parte degli utili netti annuali, fino a che la riserva non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale.Viceversa, per le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, il comma 5 dell’art. 2463 c.c. dispone testualmente che «La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430, deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro».Quindi, a titolo esemplificativo, una Srl con capitale di 10.000 euro deve accantonare il 5% degli utili netti annuali fino al raggiungimento dell’importo di 2.000 euro.Viceversa, una Srl con capitale di 1 euro deve accantonare il 20% degli utili netti annuali fino al raggiungimento dell’importo di 9.999 euro. È evidente come, in tale ipotesi, la riserva imposta dalla legge superi notevolmente il parametro del quinto del capitale previsto in via generale dall’art. 2430 c.c.Ancora, sempre a titolo esemplificativo, una Srl con capitale di 9.000 euro è tenuta ad accantonare il 20% degli utili netti annuali fino al raggiungimento dell’importo di 1.000 euro. Poiché in questo caso l’importo della riserva è ancora inferiore al parametro del quinto del capitale sociale previsto in via generale dall’art. 2430 c.c. (cioè 1.800 euro), la società dovrà continuare ad accantonare gli utili per consentire la formazione di una riserva pari al quinto del capitale. Tuttavia, in seguito al superamento della soglia dei 10.000 euro, l’accantonamento verrà eseguito applicando il criterio ordinario del ventesimo degli utili di cui all’art. 2430 c.c. e non, invece, quello integrativo del quinto di cui all’art. 2463, comma 5, c.c., applicabile solo al disotto della soglia dei 10.000 euro14.Quanto al regime di tale riserva, l’art. 2430 c.c., applicabile alle Srl con capitale

14 In tal senso anche F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 20 e A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1082.

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pari o superiore a 10.000 euro, stabilisce che essa debba essere reintegrata se viene diminuita per qualsiasi ragione.Si ritiene che la funzione della riserva legale sia quella di assicurare stabilità al capitale sociale evitando che questo possa essere colpito direttamente dal verificarsi di eventuali perdite. Essa, pertanto, è soggetta ad un regime di indisponibilità espressamente derogabile in funzione della copertura delle perdite che, secondo parte della dottrina e della e giurisprudenza, costituisce l’unica modalità di suo utilizzo15.Differentemente, per le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, l’art. 2463, comma 5, c.c. dispone espressamente che la riserva così formata possa essere utilizzata non solo per la copertura delle perdite, ma anche per l’imputazione a capitale, fermo restando l’obbligo di reintegrarla laddove essa venga diminuita per qualsiasi ragione.Rispetto, quindi, alla disciplina contenuta nell’art. 2430 c.c. è espressamente prevista la possibilità di utilizzare la riserva legale per eseguire un aumento gratuito di capitale: si tratterà poi di valutare se tale previsione costituisca un’eccezione alla utilizzabilità della riserva indisponibile limitatamente alla copertura delle perdite o, piuttosto, una conferma dell’opinione che ritiene in via generale ammissibile l’imputazione della riserva legale a capitale.La norma sembra comunque trovare la sua giustificazione nell’esigenza di favorire la capitalizzazione della società, in considerazione del fatto che si tratta di società con capitale inferiore alla soglia di 10.000 euro.Tanto l’art. 2430, quanto l’art. 2463, comma 5, c.c., prevedono, poi, un analogo obbligo di reintegrazione della riserva legale. La riserva deve essere reintegrata qualora essa risulti diminuita perché è stata utilizzata per coprire delle perdite o – eventualmente – per un aumento gratuito di capitale.

15 In giurisprudenza, v. Trib. Vicenza 10 giugno 1986, in Soc., 1987, 171; Trib. Cassino 1 febbraio 1991, in Riv. dir. civ., 1992, 339; Trib. Bologna 3 dicembre 1995, in Soc., 1996, 688. In dottrina, V. ALLEGRI, Patrimonio sociale e poteri dell’assemblea nella società per azioni, in Riv. soc., 1968, 64; G. FRÈ, Società per azioni, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1982, 804; G. TANTINI, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Padova, 1973, 259; F. DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1992, 613 ss; E. COLOMBO, Il bilancio di esercizio, in Tratt. Colombo, Portale, 7, Torino, 1994, 513 ss. In senso favorevole alla imputazione a capitale della riserva legale, C. COSTA, L’imputabilità a capitale della riserva legale, in AA.VV., Riserve e fondi nel bilancio di esercizio, Milano, 1986, 125; S. FORTUNATO, Capitale e bilanci nelle SpA, in Riv. soc., 1991, 151 ss.; C.A. BUSI, Divieto di imputazione a capitale della riserva legale e omologazione parziale, in Notariato, 1996, 255 ss.; G. BIANCHI, Le operazioni sul capitale sociale: dopo la riforma del diritto societario, Padova, 2007, 191 ss.; B. QUATRARO, Commento agli artt. 2421-2435-bis c.c., in LO CASCIO (a cura di), La riforma del diritto societario, Milano, 2003, 175 ss.

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Non sembra, altresì, che le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro siano soggette ad un doppio regime di riserva legale, quello di cui all’art. 2463, comma 5 c.c. e quello di cui all’art. 2430 c.c.In altri termini, una volta raggiunta la soglia della riserva legale di cui all’art. 2430, accantonata secondo i criteri integrativi di cui all’art. 2463, comma 5, c.c., la società non sembrerebbe tenuta a provvedere ad un secondo integrale accantonamento realizzato esclusivamente secondo i criteri di cui all’art. 2430 c.c.L’art. 2463, comma 5, c.c. detta, infatti, una disciplina integrativa di quella contenuta nell’art. 2430 c.c., rispetto alla quale introduce le seguenti varianti: un importo più elevato degli utili da accantonare, un diverso criterio di calcolo della soglia legale della riserva, l’espressa possibilità di utilizzare la riserva per gli aumenti di capitale.Queste varianti non sembrano però tali da far ritenere l’esistenza dell’obbligo, per le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, di accantonare due distinte riserve legali.L’art. 2463, comma 5, c.c. richiama espressamente, infatti, l’art. 2430 c.c., mettendo in risalto, quindi, la circostanza per cui la riserva in oggetto abbia la stessa natura di quella legale, dalla quale si differenzia per le modalità e l’entità dell’accantonamento.Laddove si accolga tale impostazione, sembra doversi ritenere che la Srl con capitale inferiore a 10.000 euro non abbia l’obbligo di accantonare due riserve legali, né che essa – una volta raggiunto un importo che, sommato al capitale, sia pari a 10.000 euro e sempre che esso abbia raggiunto il quinto dell’importo del capitale stabilito nell’atto costitutivo – abbia l’obbligo di continuare ad accantonare gli utili ricorrendo, però, al diverso criterio di cui all’art. 2430 c.c.16

Si deve, infine, segnalare che il legislatore non ha imposto né un termine di scadenza entro il quale la società con capitale inferiore a 10.000 euro sia obbligata a raggiungere la soglia della riserva legale di cui all’art. 2463, comma 5, c.c., né l’obbligo di imputare a capitale quanto accantonato in base alla predetta norma17.

16 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 146.17 Rileva l’insussistenza di un obbligo di imputare quanto accantonato a capitale A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1083.

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2.3. Natura giuridica delle Srl con capitale inferiore a 10.000 euro

La circostanza per cui il legislatore non impone, per le società con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro, una volta effettuati gli accantonamenti ai sensi del comma 5 dell’art. 2463, c.c., l’obbligo di adottare un capitale almeno pari a 10.000 euro comporta che il nuovo minimo legale del capitale delle Srl è di 1 euro18.Lo stesso tenore del comma 4 dell’art. 2463 c.c., ove precisa che l’ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro, sembra confermare che l’importo di un euro diviene requisito minimo della società, non solo per la sua fase genetica ma anche per quelle successive.Vero è che tali Srl devono accantonare una riserva tale che, sommata al capitale, raggiunga l’ammontare di 10.000 euro. Tuttavia, una volta raggiunto tale importo, la società non ha l’obbligo di imputare tale riserva a capitale e, quindi, essa può continuare ad esistere senza limiti di tempo con un capitale inferiore all’importo di 10.000 euro previsto dall’art. 2463, comma 2, n. 4), c.c.L’importo di 10.000 euro non rappresenta più, quindi, il minimo legale del capitale sociale, bensì una soglia rilevante ai fini della disciplina applicabile in tema di conferimenti e riserva legale: ma, ad eccezione di tali disposizioni, le Srl con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro risultano interamente soggette alle norme del capo VII del libro V del codice.Esse non sono, dunque, un nuovo tipo sociale, né gli aumenti o le riduzioni di capitale che determinano il superamento, verso l’alto o verso il basso, della soglia dei 10.000 euro hanno la natura di trasformazione.A ciò si aggiunga che, come rilevato in dottrina, il legislatore non impone più (come avveniva in passato, con l’espressione “a capitale ridotto”) alcuna evidenza nella denominazione sociale della circostanza che la società abbia un capitale inferiore ai 10.000 euro19.

18 La fissazione, in via generalizzata, di un capitale così esiguo per la costituzione della società rievoca il dibattito sul ruolo del capitale sociale, recentemente riaperto da G.B. PORTALE, Società a responsabilità limitata senza capitale e imprenditore individuale con capitale “destinato” (Capitale sociale quo vadis?), in Riv. soc., 2010, I, 1237 ss.19 A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1084, il quale aggiunge che «in altri termini, sembra sia qui riproponibile – seppur mutando gli opportuni riferimenti – la stessa considerazione per la quale la Srl con un capitale sociale pari o superiore a 120mila euro – oppure dotata di determinate altre caratteristiche dimensionali – non pare essere un “sottotipo” o, meglio un “sovratipo” rispetto alla Srl che non abbia l’obbligo di dotarsi dell’organo di controllo».

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Alle predette società, pertanto, si applicano le disposizioni comuni in tema di denominazione, circolazione delle partecipazioni sociali, organi della società, recesso ed esclusione, modifiche statutarie20.Occorre, tuttavia, considerare che, nonostante il legislatore abbia modificato la soglia minima del capitale sociale in sede di costituzione della società e introdotto un nuovo regime di conferimenti, tali novità non sono state coordinate con le disposizioni in tema di aumento e riduzione del capitale.Ciò determina il sorgere di dubbi interpretativi in considerazione del fatto che, in particolare, le norme sui conferimenti in sede di aumento sembrano riferirsi all’ipotesi del capitale almeno pari a 10.000 euro, così come quelle sulla riduzione del capitale continuano a contemplare, quale soglia minima, il predetto importo di 10.000 euro, richiedendosi sul punto un ulteriore e specifico approfondimento.

2.4. L’aumento di capitale

La disciplina dei conferimenti in sede di aumento di capitale nelle Srl è contenuta nell’art. 2481-bis, comma 4, c.c., il quale dispone quanto segue: «Salvo quanto previsto dal secondo periodo del quarto comma e dal sesto comma dell’art. 2464, i sottoscrittori dell’aumento di capitale devono, all’atto della sottoscrizione, versare alla società almeno il venticinque per cento della parte di capitale sottoscritta e, se previsto, l’intero soprapprezzo. Per i conferimenti di beni in natura o di crediti si applica quanto disposto dal quinto comma dell’art. 2464».Tale disposizione ammette dunque espressamente la possibilità di conferire, in sede di aumento di capitale a pagamento, denaro o beni in natura.Occorre, tuttavia, valutare se, anche in caso di aumento deliberato in una Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, sia possibile versare almeno il venticinque per cento dei conferimenti in denaro, e se sia altresì possibile eseguire conferimenti in natura.Appare, infatti, necessario coordinare la disciplina dell’aumento di capitale contenuta nell’art. 2481-bis, comma 4, c.c., con il disposto del comma 4 dell’art. 2463 c.c., il quale impone che, quando il capitale è inferiore a 10.000 euro, i conferimenti possano farsi esclusivamente in denaro e debbano essere interamente versati al momento della sottoscrizione.In sostanza, si deve verificare se le regole dell’integrale versamento del

20 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 147.

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conferimento in denaro e dell’esclusività del versamento in denaro valgano soltanto in sede di costituzione, o anche in sede di aumento di capitale.Innanzitutto, appare opportuno tenere presente che la disciplina dei conferimenti eseguiti in esecuzione di un aumento di capitale è sostanzialmente modellata su quella dettata per i conferimenti eseguiti al momento della costituzione della società e, pertanto, non vi sarebbe alcun motivo per discostarsi da quest’ultima in caso di aumento21.Per le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, la ratio dell’esclusività del versamento in denaro può essere rinvenuta nella maggiore idoneità di tale bene, rispetto quelli in natura, a garantire l’effettiva capitalizzazione della società, in coerenza anche con una riduzione dei costi per la capitalizzazione della società22.Inoltre, dall’art. 2463, comma 4, c.c., emerge che tanto la regola sul capitale minimo quanto quella sui conferimenti stabiliscono requisiti richiesti non solo per la costituzione della società intesa come momento genetico, ma necessari anche per le fasi successive. Ciò vale, in particolare per i conferimenti, almeno sino a quando non risultino applicabili regole diverse in ragione del superamento dell’importo previsto dal comma 2, n. 4), dell’art. 2463 c.c.Sembrerebbe allora preferibile ritenere che tanto la regola dell’esclusività del conferimento in denaro, quanto quella dell’integrale versamento dello stesso, debbano essere rispettate anche in sede di aumento di capitale nei casi in cui,

21 Tale caratteristica consente, ad esempio, di estendere la regola dell’assegnazione di quote non proporzionale al conferimento, prevista solo per la costituzione del capitale, anche all’ipotesi di aumento di capitale; in tal senso, F. MAGLIULO, L’assegnazione di partecipazioni sociali in misura non proporzionale al conferimento, in Notariato, 2003, 638, spec. 647; SODI, L’assegnazione delle partecipazioni non proporzionale ai conferimenti nelle società di capitali, in Studi e materiali, 2008, 584 ss.22 Per un riferimento al ruolo del conferimento in denaro nelle società di capitali, v. E. GINEVRA, Sottoscrizione e aumento di capitale nella SpA, Milano, 2001, 139 ss. Il denaro, infatti, in quanto bene fungibile, consente alla società lo svolgimento di qualsiasi attività di natura economica e non presenta, inoltre, il rischio di un suo venir meno in un momento successivo per effetto di circostanze sopravvenute, le quali potrebbero, invece, caratterizzare i conferimenti in natura, quali ad esempio l’evizione di un bene o l’inadempimento del credito che siano stati conferiti in società. Il fatto, poi, che a differenza delle Srl con capitale pari o superiore a 10.000 euro non sia prevista la facoltà, per l’atto costitutivo, di consentire i conferimenti in natura, sembrerebbe significare che la norma sia diretta a tutelare interessi non tanto endosocietari, quanto piuttosto di terzi (creditori), per i quali, in presenza di un capitale inferiore a 10.000 euro, non sarebbe sufficiente la garanzia della perizia prevista dall’art. 2465 c.c. E nella stessa prospettiva si spiegherebbe allora la regola dell’integrale versamento dei conferimenti in denaro, che tutelerebbe analoghe esigenze: in considerazione di un ammontare ridotto del capitale sociale, il legislatore avrebbe ritenuto opportuno garantire la totale copertura dello stesso, prevedendo l’integrale versamento dei conferimenti dovuti dai soci.

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per effetto dell’aumento, il capitale della società non superi l’importo di 10.000 euro.Pertanto, in questa prima e più rigorosa impostazione, in caso di aumento deliberato da una società con capitale inferiore a 10.000 euro, se per effetto dell’aumento l’importo del capitale rimane al di sotto dei 10.000 euro, i conferimenti dovrebbero farsi esclusivamente in denaro e dovrebbero essere interamente versati23.In tale prospettiva pare allora possibile adottare, già in sede di atto costitutivo di una Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, una clausola che ammetta i conferimenti in natura per l’ipotesi in cui, a seguito di un aumento, il capitale della società dovesse risultare pari o superiore a 10.000 euro.Diversamente, altri rinvengono la giustificazione della previsione esclusivamente nella mera ottica di semplificazione del procedimento di costituzione, evitandosi in tal modo il ricorso alla altrimenti necessaria perizia24.E in tale prospettiva, si circoscrive l’obbligo di integrale versamento dei conferimenti in denaro e il divieto di conferimenti diversi dal denaro alla fase costitutiva. Mentre tale obbligo e tale divieto non si applicherebbero ai conferimenti da eseguire in sede di aumento di capitale, nemmeno nelle ipotesi in cui il capitale non venga aumentato a un importo pari o superiore a euro 10.000. Di conseguenza, le operazioni di aumento di capitale sarebbero interamente disciplinate dalle norme dettate per la Srl “ordinaria”25.V’è però da osservare che questa seconda interpretazione si basa su una ratio tutta incentrata sulla presenza di agevolazioni in sede di costituzione della società che, se può tuttora valere per le Srl semplificate, appare invece più difficilmente

23 Nello stesso senso la Massima n. 21 della Commissione Studi in materia societaria del Comitato Notarile Regionale della Campania; A.L. SANTINI, Sub art. 2463. Della società a responsabilità limitata, in Comm. Scialoja – Branca, Bologna, 2014, 187.24 Secondo C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 31, è «realistico ritenere che il legislatore abbia semplicemente voluto snellire la fase della costituzione della società, evitando il procedimento di stima che impone il conferimento in natura, procedimento normalmente lungo e complicato». Per A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1075, ma con riferimento alle società semplificate, «il legislatore ha inteso con ciò snellire la fase della costituzione della società, evitando il procedimento di stima che si impone per il conferimento in natura, che è un iter normalmente non semplice e non breve». 25 Così, ma con riferimento alla disciplina delle Srl semplificate e di quelle a capitale ridotto in vigore anteriormente alle modifiche introdotte dal d.l. n. 76 del 2013, la Massima n. 130 del 5 marzo 2013 del Consiglio Notarile di Milano Ambito di applicazione dell’obbligo di integrale versamento dei conferimenti in denaro e del divieto di conferimenti diversi dal denaro, nella Srl semplificata e nella Srl a capitale ridotto (art. 2463-bis c.c. e art. 44 d.l. n. 83 del 2012).

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sostenibile per le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, considerato che il comma 4 dell’art. 2463 c.c., configura una disciplina di società a regime e non più solo di start-up.Inoltre, a ben vedere, è difficile rinvenire nella disciplina delle società in questione una vera e propria semplificazione in tema di conferimenti: tale non è l’integrale versamento (che sembra spiegarsi solo in ragione dell’esiguità del capitale); tale non è più (se mai lo sia stata) la previsione secondo cui il versamento deve esser effettuato nelle mani degli amministratori, dato che essa è ormai norma generale applicabile, con la modifica dell’art. 2464, c.c., a tutte le Srl.Differentemente, che si acceda alla prima quanto alla seconda delle tesi sopra esposte, se, per effetto dell’aumento, l’importo del capitale risulta pari o superiore a 10.000 euro, i conferimenti potranno essere eseguiti anche in natura, laddove ciò sia previsto nell’atto costitutivo. Analogamente, in caso di conferimento in denaro che porti il capitale ad una soglia pari o superiore a 10.000 euro, sarà sufficiente versare il 25% dello stesso.In questo caso, infatti, poiché la società ha raggiunto o superato la soglia di 10.000 euro di capitale, essa non risulta più soggetta alle cautele imposte dall’art. 2463, comma 4, c.c. (oltre che alle regole di accantonamento della riserva di cui al comma 5 dello stesso articolo)26.

2.5. La riduzione volontaria del capitale

L’art. 2482, comma 1, c.c., stabilisce che «la riduzione del capitale sociale può avere luogo, nei limiti previsti dal n. 4) dell’art. 2463, mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione di essi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti».L’applicabilità di tale disposizione rispetto alle Srl che presentino le caratteristiche di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 2463 c.c. appare estremamente problematica data l’evidente mancanza di un coordinamento dell’intera disciplina concernente la riduzione del capitale sociale con il mutato regime del capitale (minimo) della società a responsabilità limitata.L’art. 2482, comma 1, c.c., infatti, se applicato nel suo tenore letterale, esclude che le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro possano ridurre volontariamente il loro capitale, in quanto esso è sempre, per definizione, inferiore al limite

26 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 151.

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previsto dal n. 4) del comma 2 dell’art. 2463 c.c., ossia è sempre inferiore a 10.000 euro.Tuttavia, appare possibile formulare una diversa interpretazione, laddove si tenga presente che il riferimento all’importo di cui al “n. 4) dell’art. 2463 c.c.” consiste in un riferimento all’importo minimo legale sancito per le Srl tradizionali, ossia quelle disciplinate dal legislatore prima delle modifiche introdotte dalla legge di conversione del d.l. n. 76 del 2013, per le quali il minimo legale era pari a 10.000 euro.Differentemente, in seguito alle modifiche introdotte con la legge di conversione del d.l. n. 76 del 2013, per le società con capitale inferiore a 10.000 euro, l’art. 2463, comma 4, c.c. stabilisce espressamente che l’importo minimo legale del capitale è di 1 euro.Si può, dunque, ipotizzare che, poiché l’art. 2482 c.c. consente la riduzione volontaria del capitale fino ad una soglia almeno pari a quella del minimo legale, e poiché il minimo legale delle Srl è di 1 euro, la disciplina di cui all’art. 2482-bis c.c. sarebbe applicabile nella misura in cui la riduzione abbia luogo non più entro il limite dei 10.000 euro previsto dal n. 4) dell’art. 2463 c.c. – che costituiva il vecchio minimo legale per le società con capitale pari o superiore a tale limite – bensì entro il diverso limite di 1 euro previsto dall’art. 2463 comma 4 c.c.Tale conclusione sembra essere coerente con il nuovo sistema del capitale delle Srl delineato dal legislatore, in cui le società con capitale inferiore a 10.000 euro si differenziano soltanto per essere soggette a due regole peculiari in tema di composizione del capitale sociale e formazione della riserva legale.Con riferimento a quest’ultima il legislatore non impone né un termine di scadenza entro il quale la società sia tenuta a raggiungere, tra capitale e riserva, l’ammontare di diecimila euro, né l’obbligo di imputare a capitale l’ammontare della riserva legale una volta che questa abbia raggiunto la soglia prevista dalla legge.Ciò significa che la società, pur avendo a disposizione consistenti mezzi patrimoniali, non ha l’obbligo di imputarli a capitale, e che la stessa può continuare ad esistere senza limiti temporali con un capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro.In sostanza:– tanto l’assenza di un termine di scadenza per il raggiungimento della soglia prevista per la riserva legale,– quanto l’assenza di un obbligo di capitalizzazione della società all’importo di 10.000 euro al momento in cui la predetta soglia sia stata raggiunta,

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– così come la mancata previsione di una causa di scioglimento derivante dal mancato raggiungimento della soglia di 10.000 euro di capitale,sembrano costituire dei dati normativi dai quali appare possibile desumere che la nuova disciplina in tema di capitale minimo delle Srl, contenuta nei commi 4 e 5 dell’art. 2463 c.c., non si esaurisca con la fase costitutiva della società, ma possa riguardare anche vicende successive.Pur dando conto dell’incertezza che deriva dal menzionato difetto di coordinamento e, quindi, dalla possibilità di diverse letture, laddove si accogliesse tale interpretazione, non sembrerebbe possibile negare ad una Srl la facoltà di fissare liberamente il proprio capitale in un importo compreso tra 1 e 9.999,99 euro non solo in sede di costituzione, ma anche successivamente alla costituzione, ricorrendo alla riduzione volontaria del capitale, purché essa avvenga nel rispetto delle cautele imposte dall’art. 2482 c.c. e, in particolare, nel rispetto del comma 2 della predetta norma, il quale stabilisce che «la decisione dei soci di ridurre il capitale sociale può essere eseguita soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel Registro delle imprese della decisione medesima, purché entro questo termine nessun creditore anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione»27.

2.6. La riduzione del capitale per perdite

L’art. 2482-bis, comma 1, c.c. stabilisce che «quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea dei soci per gli opportuni provvedimenti».Il successivo comma 4 dispone che «se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, deve esser convocata l’assemblea per l’approvazione del bilancio e per la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate».Il contenuto di tali disposizioni non sembra porsi in contrasto con la disciplina delle società con capitale inferiore a 10.000 euro: laddove infatti, l’ammontare del capitale convenzionalmente determinato dalle parti dovesse diminuire di oltre un terzo in conseguenza di perdite, i soci sarebbero tenuti a ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate28.

27 Così, D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 153; in senso contrario, A. MAMBRIANI, Sub art. 2463, co. 4-5, in CAGNASSO – MAMBRIANI (a cura di), Codice della società a responsabilità limitata, Roma, 2015, 117.28 Se, quindi, una Srl con capitale pari a 9.000 euro subisce perdite superiori a 3.000, in base

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L’art. 2482-ter c.c. contiene, invece, la disciplina della riduzione del capitale al disotto del minimo legale, prevedendo quanto segue: «se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dal n. 4) dell’art. 2463, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo. È fatta salva la possibilità di deliberare la trasformazione della società».Anche qui l’evidente mancanza di coordinamento della norma con il mutato regime del capitale (minimo) della società a responsabilità limitata rende arduo il compito per l’interprete.La disposizione in esame, infatti, nella sua formulazione letterale, non sarebbe mai applicabile alle società con capitale inferiore a 10.000 euro, poiché per definizione, esse hanno sempre il capitale inferiore all’importo stabilito dal n. 4) dell’art. 2463 c.c.Si può, tuttavia, anche qui ipotizzare che il riferimento all’importo di cui al «n. 4) dell’art. 2463 c.c.» consista in un riferimento all’importo minimo legale sancito per le Srl tradizionali, ossia quelle disciplinate dal legislatore prima delle modifiche introdotte dalla legge di conversione del d.l. 76/2013, per le quali il minimo legale era pari a 10.000 euro.Si può, dunque, supporre che, poiché l’art. 2482-ter c.c. contiene la disciplina della riduzione del capitale al disotto del minimo legale, e poiché il minimo legale delle Srl è oggi di 1 euro, la disciplina di cui all’art. 2482-ter c.c. si applichi quando, per perdite superiori al terzo del capitale, questo risulti inferiore ad un euro.Tale conclusione, oltre a trovare una conferma nel dato letterale dell’art. 2482-ter c.c., la cui rubrica è appunto intitolata “Riduzione del capitale al disotto del limite legale”, sembrerebbe altresì coerente con la disciplina prevista per il tipo di società in esame29.

all’art. 2446 c.c. deve essere convocata l’assemblea per la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate nel corso dell’esercizio precedente.29 Per la applicabilità della disciplina della riduzione per perdite, C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 32 s., il quale rinviene un argomento decisivo in tal senso nella «espressa deroga a detta disciplina prevista per le sole società innovative (art. 47 del relativo Decreto) che nel caso di assemblea convocata ex art. 2482-bis c.c. possono allungare a due anni il periodo di “grazia” prima di intervenire a ridurre il capitale e nel caso di assemblea riunita ex 2482-ter c.c. possono in alternativa all’immediata riduzione del capitale ed al contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra inferiore al minimo legale, rinviare tale decisione alla chiusura dell’esercizio successivo, precisandosi inoltre che sino alla chiusura di tale esercizio non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del

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Il legislatore, infatti, nell’abbassare la soglia del capitale al disotto dei 10.000 euro, ha fissato come minimo legale l’importo irrisorio di 1 euro. Tuttavia, l’aver fissato tale importo sta a significare che la società, pur potendo venire ad esistenza ed operare con un patrimonio sostanzialmente nullo, non può operare laddove tale patrimonio abbia un valore negativo, il che potrebbe avvenire quando la società sia titolare esclusivamente di debiti. In sostanza, prevedere che il capitale minimo sia pari a 1 euro equivale ad impedire che la società possa costituirsi o continuare ad operare in presenza di un patrimonio negativo.Pertanto, ipotizzando che una Srl con capitale di 9.000 euro subisca perdite pari a 3.500 euro (ossia superiori al terzo del capitale), si applica la disciplina di cui all’art. 2482-bis c.c. e, quindi, se nel corso dell’esercizio successivo a quello in cui le perdite sono state rilevate, esse non risultano diminuite a meno di un terzo, deve essere convocata l’assemblea per la riduzione del capitale in proporzione delle perdite accertate.Laddove, invece, la società subisca delle perdite pari a 9.000 euro, trova applicazione l’art. 2482-ter c.c. e, pertanto, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore a 1 euro.Laddove, quindi, il dato letterale dell’art. 2482-ter c.c. prevede l’obbligo di ricostituire il capitale al minimo di cui al n. 4) del comma 2 dell’art. 2463 c.c., tale disposizione dovrebbe intendersi riferita al nuovo minimo legale di 1 euro di cui al comma 4 del medesimo art. 2463 c.c.30

Appare, altresì, opportuno segnalare che, nel caso di Srl con capitale pari a 1 euro, qualunque perdita pari o superiore a 34 centesimi di euro imporrebbe la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore a 1 euro. L’applicazione al caso di specie dell’art. 2482-ter c.c.

capitale». Nello stesso senso, A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1081.30 Così, anche C. GARILLI, Sub art. 2463, in ABRIANI (a cura di), Codice delle società, Torino, 2016, 1797. In senso contrario, MAMBRIANI, Sub art. 2463, co. 4-5, cit., 117; M. RESCIGNO, La società a responsabilità limitata a capitale ridotto e semplificata, in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, cit., 79; M. CIAN, Srl, Srl semplificata, Srl a capitale ridotto. Una nuova geometria del sistema o un sistema disarticolato?, cit., 1121; G. MARASÀ, Considerazioni sulle nuove Srl: Srl semplificate, Srl ordinarie e start-up innovative prima e dopo la l. n. 99 del 2013 di conversione del d.l. n. 76 del 2013, cit., 1090; E. MACRÌ, La Srl semplificata e la Srl con capitale inferiore al minimo legale: le recenti novità normative, in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, cit. 1818; G. RESCIO, Le Srl con capitale ridotto (semplificate e non semplificate), in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, cit., 1887.

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serve, di fatto, ad impedire che la società possa continuare ad operare con un patrimonio di segno negativo31.Occorre, infine, segnalare che la giurisprudenza di merito ha affermato che la possibilità, per i soci di una Srl che abbia subito perdite tali da portare il capitale al di sotto di 10.000 euro, di «continuare l’attività sotto l’ombrello, e nel rispetto delle norme aggiuntive, dei commi 4 e 5 dell’art. 2463» è subordinata all’adozione di una positiva deliberazione in tal senso32.

3. Le Srl semplificate

3.1. Il modello standard e la sua inderogabilità

La disciplina della Srl semplificata è contenuta nell’art. 2463-bis c.c., il quale stabilisce che quando i soci sono tutti persone fisiche, essi possono costituire Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, ma superiore a 1, con contratto o atto unilaterale redatto per atto pubblico in conformità ad un modello standard tipizzato con decreto del Ministro della giustizia.Gli elementi che caratterizzano la Srl semplificata di cui all’art. 2463-bis c.c. sono l’accesso riservato alle sole persone fisiche, il procedimento agevolato di costituzione secondo un modello standard tipizzato ed inderogabile e la necessità che nella denominazione sia appunto indicato l’aggettivo “semplificata”.Non costituiscono, invece, più elementi caratterizzanti ed esclusivi della Srl semplificata né l’importo del capitale sociale (inferiore a 10.000 euro, ma almeno pari a 1 euro), né il regime dei conferimenti, i quali sono oggi previsti anche per le Srl diverse da quelle semplificate per effetto delle modifiche apportate agli artt. 2463 e 2464 c.c.In presenza dei presupposti richiesti dall’art. 2463-bis c.c. (soci persone fisiche,

31 In considerazione dell’irrisorietà della perdita rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 2482-ter c.c., è opportuno che la società sia adeguatamente patrimonializzata, al fine di evitare che qualunque operazione che implichi un impegno di spesa da parte della stessa possa determinare l’obbligo di adottare i provvedimenti di cui all’art. 2482-ter c.c., imponendo così alla società di convocare costantemente l’assemblea per deliberare la riduzione ed il contemporaneo aumento del capitale ad almeno 1 euro o, in alternativa, la trasformazione o lo scioglimento della società. Sottolinea la discutibilità della scelta legislativa M. CIAN, Srl, Srl semplificata, Srl a capitale ridotto. Una nuova geometria del sistema o un sistema disarticolato?, cit., 1123; S. ROMANO, Sub art. 2463, in NAZZICONE (a cura di), Codice delle società, Milano, 2018, 1169.32 Trib. Udine, decr. 26 settembre 2017, in CNN Notizie del 4 aprile 2018, con nota di A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Riduzione del capitale per perdite e disciplina delle Srl a 1 euro.

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capitale inferiore a 10.000 euro, atto costitutivo redatto mediante l’utilizzo di un modello standard tipizzato con regolamento ministeriale e denominazione comprendente l’aggettivo “semplificata”), il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2012 prevede che «l’atto costitutivo e l’iscrizione nel Registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili».Una delle questioni più dibattute ha riguardato la possibilità di integrare o meno lo statuto standard tipizzato33, il cui contenuto, definito nella tabella allegata al d.m. n. 138 del 2012, è stato oggetto di critiche da parte della dottrina a causa delle lacune che lo caratterizzano.Sul punto sono state assunte posizioni diverse sinteticamente riassumibili nel senso della:– assoluta rigidità dell’atto costitutivo dato che la legge – norma primaria – prevede che lo stesso sia redatto “in conformità al modello standard tipizzato” mentre il riferimento alla diversa volontà delle parti è contenuto in una disposizione regolamentare34. La norma, secondo tale impostazione, non poteva che essere intesa nel senso che le disposizioni che integrano la disciplina degli aspetti organizzativi della società in aggiunta a quelle contenute nello statuto

33 Questione che si è posta periodicamente con il susseguirsi degli interventi normativi che hanno riguardato la disciplina delle società a responsabilità limitata semplificate, sino a delinearsi, con l’entrata in vigore del d.m. n. 138 del 2012, tre diverse possibili ricostruzioni, che, come si è in precedenza accennato, oscillavano tra l’inderogabilità assoluta, la possibilità di integrare l’atto costitutivo relativamente a elementi marginali e la piena integrabilità e modificabilità del modello nel presupposto del riconoscimento della prestazione professionale del notaio. V. § 1 e nt. 5 e ss.34 F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata semplificata. Questioni applicative, Segnalazione Novità Normative, in CNN Notizie del 5 novembre 2012; Commissione Società del Triveneto, Orientamento R.A.1., modificato 9/13 (Modello standard tipizzato dell’atto costitutivo-statuto della Srl semplificata e sua inderogabilità sostanziale), secondo cui «Le clausole negoziali del modello standard tipizzato dell’atto costitutivo-statuto della Srls sono inderogabili, mentre le formule dell’atto pubblico con esso proposte hanno valore meramente indicativo. Tali formule appaiono infatti inserite nel modello standardizzato al solo scopo di semplificarne la lettura, tant’è che risultano incomplete (ad esempio manca l’intestazione “Repubblica Italiana” e l’espressa menzione del distretto notarile di iscrizione del notaio rogante), oltre che riferite ad un’unica ipotesi tipo (quella dell’atto pubblico in cui intervengono soggetti non rappresentati, che conoscono la lingua italiana, che sanno leggere e scrivere, che non richiedono l’assistenza di testimoni, ecc.). Nel caso concreto il notaio rogante potrà dunque utilizzare le formule dell’atto pubblico che riterrà più opportune, anche discostandosi da quelle contenute nel modello tipizzato, il tutto, ovviamente, nel pieno rispetto della disciplina legale sulla forma degli atti pubblici contenuta nella legge notarile e nelle altre norme speciali. Il medesimo notaio rogante e/o le parti non potranno, invece, apportare alcuna modifica alle clausole negoziali tipizzate del negozio costitutivo della Srl semplificata, a meno che non sia necessario adeguarle a disposizioni di legge sopravvenute non ancora recepite dal modello ministeriale».

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standard, sono le norme codicistiche che regolano le fattispecie generali. Il modello standard non dà, infatti, scelte opzionali se non in ipotesi espressamente previste (es. nella scelta tra amministratore unico e c.d.a.). Per tutto ciò che non è disciplinabile nell’atto costitutivo quindi, stante la rigidità del modello standard, trova applicazione – in quanto compatibile – la corrispondente disciplina codicistica della Srl;– integrabilità dell’atto costitutivo relativamente ad aspetti marginali derivanti da lacune nel modello35; – integrabilità e modificabilità (piena) del modello ministeriale36.La questione va esaminata alla luce sia della espressa previsione della inderogabilità introdotta dal d.l. n. 76 del 2013 che del delinearsi, attraverso la stratificazione delle norme, di una disciplina complessiva delle nuove Srl che inizia ad avere una propria organicità.Il modello standard tipizzato, infatti, si limita ad indicare: 1) il cognome, il nome, la data, il luogo di nascita, il domicilio, la cittadinanza di ciascun socio; 2) la denominazione sociale contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata semplificata e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 3) l’ammontare del capitale sociale, pari almeno ad 1 euro e inferiore all’importo di 10.000 euro previsto all’articolo 2463, secondo comma, numero 4), sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all’organo amministrativo; 4) i requisiti previsti dai numeri 3), 6), 7) e 8) del secondo comma dell’articolo 2463; 5) luogo e data di sottoscrizione; 6) gli amministratori. Mancano, ad esempio, tanto la previsione della durata della società, quanto la regolamentazione della decorrenza dell’esercizio sociale.Ora, l’introduzione da parte del d.l. n. 76 del 2013 della previsione di cui al comma 3 dell’art. 2463-bis, c.c., secondo cui le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili, sembra escludere che l’atto costitutivo della Srl semplificata possa avere un contenuto diverso da quello stabilito dall’art. 2463-bis, comma 2, al quale deve conformarsi il modello standard di cui al regolamento ministeriale.

35 In tal senso la Massima n. 127 del 5 marzo 2013 del Consiglio Notarile di Milano che si riferisce ad esempio all’indicazione dell’indirizzo della sede sociale, ai sensi dell’art. 111-ter disp. att. c.c., o all’indicazione della data di scadenza degli esercizi sociali.36 Così si esprime la nota del Ministero di giustizia e del Ministero dello sviluppo economico n. 43644 del 10 dicembre 2012, secondo cui è possibile «investire il professionista del compito di modulare il negozio secondo le esigenze proprie dell’attività di impresa che si intende svolgere in forma collettiva con quel modello societario semplificato». Affermazione, questa, che pareva alludere ad un incarico professionale che fuoriuscisse dalla gratuità della prestazione notarile.

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Si potrebbe, invero, ipotizzare una diversa interpretazione, in base alla quale la previsione dell’inderogabilità riguarderebbe le sole clausole del modello tipizzato, la cui formulazione non potrebbe essere modificata, ma non il modello di atto costitutivo in sé, come se fosse invece possibile l’inserimento di pattuizioni ulteriori, aventi ad oggetto la regolamentazione di aspetti non disciplinati nelle clausole standard.Ma tale considerazione, fondata solo sul dato testuale, sembra prestare il fianco a critiche sul piano sistematico.Il dato da cui muovere è sempre rappresentato dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 2463-bis, c.c.; e dalla previsione dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012, per il quale «l’atto costitutivo e l’iscrizione nel Registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili».Non sembra potersi mettere in dubbio che questa seconda disposizione, concedendo delle agevolazioni sul piano tributario ed amministrativo e, al contempo, prevedendo la gratuità della prestazione professionale del notaio, debba esser interpretata in senso restrittivo, in quanto norma eccezionale, non estensibile a fattispecie diverse rispetto a quella alla quale essa espressamente si riferisce.Va ricordato come le agevolazioni riguardino solo ed esclusivamente le società i cui soci siano persone fisiche: sebbene la normativa sia nata per favorire l’accesso all’attività imprenditoriale dei giovani che non avessero compiuto il trentacinquesimo anno di età oggi, con l’eliminazione del requisito anagrafico, essa vede come possibili destinatari altre fasce socialmente deboli37.Sia l’esenzione da diritto di bollo e di segreteria, sia la gratuità dell’intervento del notaio corrispondono alla finalità di abbattere i costi di avvio delle nuove imprese semplificate; e, con riferimento alla seconda, la scelta presupponeva necessariamente di ridurre quanto più possibile la prestazione professionale del notaio al solo controllo di legalità, appunto attraverso il ricorso ad un modulo38.Appare evidente come l’inderogabilità del contenuto dello statuto tipizzato e la norma agevolativa vadano di pari passo: la prima, riducendo per quanto possibile gli oneri di costituzione della società, giustifica la seconda.Un’interpretazione che limitasse l’inderogabilità alle sole clausole adottate

37 A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1069.38 Lo evidenzia F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 23. Nello stesso senso anche P. REVIGLIONO, La società a responsabilità limitata semplificata, cit. 658.

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dal decreto ministeriale e, al contempo, consentisse la piena esplicazione dell’autonomia statutaria attraverso l’adozione di clausole integrative del modello, produrrebbe l’effetto di estendere inevitabilmente la portata del regime agevolato ben al di là del suo ambito di applicazione definito dalle richiamate disposizioni.Ecco allora che, nell’opposta prospettiva, la previsione dell’inderogabilità rappresenta uno di quei limiti imposti dalla legge che impediscono alle parti di determinare liberamente il contenuto del contratto ai sensi dell’art. 1322 c.c. In sostanza l’atto costitutivo non può avere un contenuto diverso da quello stabilito dal legislatore e che è riprodotto nel regolamento ministeriale, né le parti possono inserirvi clausole integrative39.V’è da chiedersi, allora, cosa accada laddove l’atto costitutivo di una società denominata a responsabilità limitata semplificata contenga delle clausole ulteriori o difformi dal contenuto del modello standard tipizzato.La questione, ovviamente, non riguarda l’integrazione necessaria per il rispetto delle norme della legge notarile sulla forma degli atti, e quelle indicazioni e menzioni che sono richieste dagli artt. 47 e ss. della legge n. 89 del 1913 essendo questo un dato ormai pacifico40; bensì, più propriamente, quelle clausole che integrano le regole organizzative della società, all’interno delle quali parte degli

39 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 162.40 Sul punto, F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata semplificata. Questioni applicative, Segnalazione Novità Normative, in CNN Notizie del 5 novembre 2012; Commissione Società del Triveneto, Orientamento R.A.1., modificato 9/13 (Modello standard tipizzato dell’atto costitutivo-statuto della Srl semplificata e sua inderogabilità sostanziale), secondo cui «Le clausole negoziali del modello standard tipizzato dell’atto costitutivo-statuto della Srls sono inderogabili, mentre le formule dell’atto pubblico con esso proposte hanno valore meramente indicativo. Tali formule appaiono infatti inserite nel modello standardizzato al solo scopo di semplificarne la lettura, tant’è che risultano incomplete (ad esempio manca l’intestazione “Repubblica Italiana” e l’espressa menzione del distretto notarile di iscrizione del notaio rogante), oltre che riferite ad un’unica ipotesi tipo (quella dell’atto pubblico in cui intervengono soggetti non rappresentati, che conoscono la lingua italiana, che sanno leggere e scrivere, che non richiedono l’assistenza di testimoni, ecc.). Nel caso concreto il notaio rogante potrà dunque utilizzare le formule dell’atto pubblico che riterrà più opportune, anche discostandosi da quelle contenute nel modello tipizzato, il tutto, ovviamente, nel pieno rispetto della disciplina legale sulla forma degli atti pubblici contenuta nella legge notarile e nelle altre norme speciali». Massima n. 127 del 5 marzo 2013 del Consiglio Notarile di Milano, secondo cui «L’atto notarile col quale viene costituita una Srl semplificata ai sensi dell’art. 2463-bis c.c. può contenere, oltre a quanto espressamente previsto nel modello standard tipizzato, adottato con d.m. Giustizia n. 138 del 2012: (a) le dichiarazioni, le menzioni e le attestazioni di carattere formale, con particolare riguardo a quelle richieste dalla legge notarile in ordine all’intervento delle parti, alla loro capacità e ad altri aspetti della formazione dell’atto pubblico».

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interpreti aveva pure individuato talune pattuizioni compatibili con l’assetto normativo anteriore al d.l. n. 76 del 201341.Ora, al di là dell’adozione dell’una o dell’altra tra interpretazioni sopra prospettate, resta il fatto che, sul piano sistematico, la presenza di clausole aggiuntive o, persino, derogatorie, implica una difformità rispetto al modello e, quantomeno, una riqualificazione della fattispecie: l’accesso alle agevolazioni previste dal comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2012 (e segnatamente quelle tributarie ed amministrative) presuppone, infatti, due requisiti – la partecipazione di sole persone fisiche e l’adozione di uno statuto standard – il secondo dei quali mancherebbe ove l’atto costitutivo contenesse pattuizioni diverse o ulteriori.In tal caso, quindi, a prescindere dalla questione della validità delle singole clausole, la società a responsabilità limitata con capitale inferiore ai 10.000 euro non avrebbe i requisiti per poter esser qualificata anche come “semplificata”, con inevitabili conseguenze in ordine all’indebito accesso alle agevolazioni previste dal d.l. n. 1 del 2012.V’è un ulteriore elemento da tenere poi in dovuto conto: il legislatore, sia

41 Sul punto, Massima n. 127 del 5 marzo 2013 del Consiglio Notarile di Milano, secondo cui «L’atto notarile col quale viene costituita una Srl semplificata ai sensi dell’art. 2463-bis c.c. può contenere, oltre a quanto espressamente previsto nel modello standard tipizzato, adottato con d.m. Giustizia n. 138 del 2012: … (b) le dichiarazioni che le parti rivolgono al notaio al fine della redazione della domanda di iscrizione della società nel registro delle imprese, quali ad esempio l’indicazione dell’indirizzo della sede sociale, ai sensi dell’art. 111-ter disp. att. c.c., o l’indicazione della data di scadenza degli esercizi sociali; (c) le clausole meramente riproduttive di norme di legge, quand’anche redatte in documento separato, eventualmente contenente anche gli elementi non contingenti e transitori dell’atto costitutivo. La presenza di clausole convenzionali aggiuntive – ove compatibili con la disciplina generale della Srl e con la disciplina della Srl a capitale ridotto – non incide sulla legittimità dell’atto costitutivo né sulla validità delle clausole stesse. Non si ritiene in ogni caso che si collochino al di fuori del perimetro del modello della Srl semplificata, tenuto conto del disposto dell’art. 1, comma 2, d.m. Giustizia n. 138 del 2012, le eventuali clausole concernenti la durata della società, la scelta del modello di amministrazione (collegiale, unipersonale, pluripersonale congiunta o disgiunta) e la previsione della possibilità di decisioni non assembleari». Tale ultima affermazione si giustifica, si legge in motivazione, in quanto «le parti esercitino un’opzione o adottino una disciplina già presente nel regime legale delle Srl “ordinarie”». Sulla stessa linea, A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1073 ss., che ritiene inammissibili integrazioni destinate a disciplinare stabilmente la vita della società ma non quelle che regolamentino temporaneamente l’attività sociale. In senso contrario, Commissione Società del Triveneto, Orientamento R.A.1., modificato 9/13 (Modello standard tipizzato dell’atto costitutivo-statuto della Srl semplificata e sua inderogabilità sostanziale), secondo cui «Il medesimo notaio rogante e/o le parti non potranno, invece, apportare alcuna modifica alle clausole negoziali tipizzate del negozio costitutivo della Srl semplificata, a meno che non sia necessario adeguarle a disposizioni di legge sopravvenute non ancora recepite dal modello

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pur dopo gli ultimi interventi che hanno complessivamente ridisegnato la disciplina delle nuove Srl, continua a richiedere l’indicazione dell’aggettivo “semplificata” nella denominazione delle società che vengono costituite con il ricorso al modello standard.Considerato che tale aggettivo non serve a mettere in evidenza il profilo della sottocapitalizzazione della società (attualmente infatti esistono altre Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, che non devono aggiungere nulla alla indicazione del tipo), la permanenza nella denominazione del termine semplificata può oggi avere un senso proprio per indicare una società che nasce tra sole persone fisiche con un procedimento appunto semplificato e con regole organizzative predeterminate dal legislatore e la cui segnalazione è necessaria sin tanto che le regole organizzative non siano mutate.In altre parole, «la normativa che impone alle Srls di segnalare tale propria veste sia nella denominazione sociale sia negli atti e nella corrispondenza della società, oltre che nello spazio elettronico dedicato della società (art. 2463-bis comma 3 c.c.), essendo venuta meno ogni disciplina speciale della società dopo la sua iscrizione nel Registro delle imprese, acquisisce la più limitata finalità di richiamare l’attenzione dei terzi – alla stregua di una ulteriore semplificazione, questa volta a beneficio dei fruitori della pubblicità commerciale – sul fatto che, per tali società, l’atto costitutivo non può essere difforme dalle regole poste dall’art. 2463-bis co. 2 c.c. e dal modello standard approvato con decreto ministeriale»42.Con Nota del 18 agosto 2014, prot. 14621543, il Ministero dello sviluppo economico è intervenuto sulla questione della possibilità di inserire nell’atto costitutivo della società a responsabilità limitata semplificata pattuizioni ulteriori, in aggiunta a quelle previste dal modello standard contenuto nel d.m. Giustizia n. 138 del 2012.Sul punto il Ministero ha sottolineato come le modifiche introdotte dal d.l. n. 76 del 2013 e dalla relativa legge di conversione, ed in particolare il comma 2-bis dell’art. 2463-bis, c.c. – secondo cui «Le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili» – sono chiaramente finalizzate non tanto ad escludere la derogabilità delle clausole presenti nel “modello standard”

ministeriale»; F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata semplificata. Questioni applicative, Segnalazione Novità Normative, in CNN Notizie del 5 novembre 2012.42 F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 21.43 In CNN Notizie del 9 settembre 2014, con nota di D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata semplificata: nota del ministero dello sviluppo economico sulla inderogabilità del modello standard.

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stesso (aspetto che già prima della citata modifica appariva pacifico), quanto, soprattutto, ad escludere la possibilità di inserire, nell’atto costitutivo stesso, clausole convenzionali aggiuntive.Ciò ha portato, quindi, il Ministero ad escludere che, ad esempio, la società a responsabilità limitata semplificata possa far ricorso al modello di amministrazione pluripersonale congiuntiva (non collegiale) o disgiuntiva, considerato che lo statuto standard prevede quali uniche opzioni quella dell’amministratore unico e quella dell’amministrazione pluripersonale collegiale (c.d.a.).Sul piano delle conseguenze dell’inserimento di dette pattuizioni, il Ministero pare propendere per la non iscrivibilità dell’atto costitutivo, laddove invece la Camera di commercio richiedente il parere aveva sottolineato la rilevanza della questione sul piano erariale, sicché la Srls il cui statuto contenesse clausole aggiuntive non avrebbe potuto far ricorso alle agevolazioni previste44.

3.2. La disciplina delle Srls

Ad eccezione dei benefici in tema di spese per la costituzione della società, dell’impossibilità di inserire in tale sede pattuizioni integrative del modello standard, della partecipazione limitata alle persone fisiche e dell’obbligo di indicare nella denominazione l’espressione “società a responsabilità limitata semplificata”, le Srl semplificate sono per il resto integralmente regolate dalla norme in materia di Srl “ordinarie” nei limiti della compatibilità (art. 2463-bis, comma 5: «si applicano alla società a responsabilità limitata semplificata tutte le altre disposizioni in tema di società a responsabilità limitata “ordinaria” in quanto compatibili»).Tuttavia, per effetto delle novità introdotte dall’art. 9, d.l. 28 giugno 2013, n. 76, e dalla legge di conversione 9 agosto 2013, n. 99, che non solo ha previsto la possibilità di costituire Srl ordinarie con capitale inferiore a 10.000 euro, ma ha anche soppresso la previsione che imponeva nelle Srl semplificate di nominare gli amministratori tra i soci, possono sorgere dubbi interpretativi relativamente alla disciplina sulla formazione della riserva legale e in merito alla possibilità di nominare amministratori soggetti estranei alla compagine sociale.Relativamente all’ammontare del capitale sociale, l’art. 2463-bis c.c. riproduce le prescrizioni del comma 4 dell’art. 2463 c.c., prevedendo entrambe le norme che il capitale possa essere determinato in misura inferiore a euro 10.000, ma

44 Soluzione, quest’ultima, che in virtù delle considerazioni sopra riportate parrebbe preferibile.

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pari almeno a 1 euro, e che i conferimenti debbano farsi in denaro ed essere versati per intero all’organo amministrativo.È, tuttavia, dubbio se alle Srl semplificate si applichi anche la regola speciale sulla formazione della riserva legale sancita dal comma 5 dell’art. 2463 c.c. per le Srl ordinarie con capitale inferiore a 10.000 euro, il quale dispone che «La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430, deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro».In assenza di disposizioni specifiche sul punto, allo stato attuale sembrano ipotizzabili due contrapposte interpretazioni.Da un lato, si può ritenere che, poiché ai sensi del comma 5 dell’art. 2463-bis c.c. alla semplificata si applicano le disposizioni della Srl ordinaria in quanto compatibili, trattandosi di società con capitale inferiore a 10.000 euro, essa sarebbe soggetta anche al comma 5 dell’art. 2463 c.c., che in deroga all’art. 2430 c.c. impone di accantonare un quinto, e non un ventesimo, degli utili, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro e non, invece, fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale.Dall’altro lato, si potrebbe in contrario ipotizzare che, poiché l’art. 2463-bis c.c. contiene una disciplina specifica del capitale sociale, la quale si limita a prevedere l’importo minimo e massimo e l’obbligo di conferire esclusivamente denaro, l’accantonamento della riserva legale debba avvenire secondo i criteri di cui all’art. 2430 c.c., in quanto nell’art. 2463-bis è riprodotto soltanto il contenuto del comma 4 dell’art. 2463 c.c. (e cioè la previsione sull’importo minimo e massimo e sui conferimenti in denaro), ma non anche il contenuto del successivo comma 5 (e cioè i criteri per la formazione del capitale sociale)45.In tale prospettiva, allora, si potrebbe riconoscere all’aggettivo “semplificata” l’ulteriore funzione di evidenziare il fatto che la società non deve sottostare alle regole di formazione della riserva legale previste dal comma 5 dell’art. 2463, c.c.

45 Di questo avviso è C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 29, il quale rileva che «il legislatore ove ha voluto un’identica applicazione operativa sia per la srl con capitale inferiore a 10.000 euro che per la Srls si è espresso in tal senso. Si pensi all’obbligo di versare il capitale in denaro per intero nelle mani dell’organo amministrativo. Inoltre, l’intento “agevolativo” in favore della Srls non sembra per nulla involontario in un legislatore che ha previsto addirittura la gratuità della prestazione notarile nel caso di costituzione per la sola Srls. Sembra, pertanto, che il mancato obbligo di riservizzazione possa rappresentare una ulteriore agevolazione destinata alla sola Srls».

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Aderendo, però, a quest’ultima interpretazione, si applicherebbe una disposizione relativa alle società con capitale superiore a 10.000 euro, laddove, invece, sembrerebbe più coerente applicare la regola dettata per le società con capitale inferiore a tale importo, quali d’altronde sono le stesse Srls.Poiché, infatti, alle Srl semplificate si applicano le norme sulle Srl in quanto compatibili, trattandosi di società con capitale inferiore a 10.000 euro, non sembrano sussistere elementi di incompatibilità con l’applicazione della regola contenuta nel comma 5 dell’art. 2463 c.c., che impone criteri di accantonamento della riserva legale basati su di un capitale sociale inferiore a 10.000 euro, posto che la norma ha la funzione di favorire la successiva patrimonializzazione della società46.La questione relativa ai criteri da adottare nella formazione della riserva legale assume rilievo, soprattutto con riguardo alla responsabilità degli amministratori, in quanto l’art. 2627 c.c. punisce con l’arresto fino ad un anno gli amministratori che ripartiscano utili destinati per legge a riserva o che ripartiscono riserve che non possono per legge essere distribuite.Un ulteriore dubbio concernente la disciplina applicabile alle Srl semplificate riguarda la possibilità di nominare amministratori dei soggetti diversi dai soci.L’art. 2475 c.c., norma generale sull’amministrazione delle Srl, dispone che l’amministrazione della società debba essere affidata a uno o più soci, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo.L’art. 2463-bis, comma 2, n. 6) c.c., che disciplina la costituzione della Srl semplificata, nella sua formulazione originaria imponeva l’obbligo di scegliere gli amministratori nominati nell’atto costitutivo tra i soci.Sennonché il legislatore, con la lett. b) del comma 13 dell’art. 9 d.l. n. 76 del 2013, ha provveduto a sopprimere la previsione dell’art. 2463-bis, comma 2, n. 6) c.c. relativa all’obbligo di scegliere tra i soci gli amministratori nominati nell’atto costitutivo.Sin dall’inizio ci si è posti la questione su come interpretare tale abrogazione.Si potrebbe in primo luogo ipotizzare che tale abrogazione abbia lo scopo di eliminare una disposizione superflua, considerato che l’atto costitutivo delle Srl

46 Per la compatibilità della disposizione sulla formazione accelerata della riserva legale del comma 5 dell’art. 2463, c.c., con la disciplina della Srls, G. MARASÀ, Considerazioni sulle nuove Srl: Srl semplificate, Srl ordinarie e start-up innovative prima e dopo la l. n. 99 del 2013 di conversione del d.l. n. 76 del 2013, cit., 1092, il quale evidenzia che l’esigenza di patrimonializzazione delle società che fruiscono del privilegio della irresponsabilità dei soci ma che nascono sottocapitalizzate è comune tanto alle Srl che ricorrono al disposto dell’art. 2463, comma 4, quanto alle Srls. Nello stesso senso, F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 20.

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semplificate ha un contenuto standard che non può essere in tale sede integrato dall’autonomia statutaria e, pertanto, non potendo inserire una clausola che – ai sensi dell’art. 2475 c.c. – consentisse la nomina di amministratori estranei, anche a prescindere dall’esplicito divieto contenuto nella precedente formulazione dell’art. 2463-bis, comma 2, n. 6) c.c., in ogni caso i soci non avrebbero potuto nominare amministratori estranei.Pertanto, in base a tale prima interpretazione, l’abrogazione dell’obbligo di scegliere gli amministratori tra i soci, contenuto nella precedente formulazione dell’art. 2463-bis, comma 2, n. 6) c.c., avrebbe lo scopo di eliminare una disposizione superflua. Conseguentemente, nelle Srl semplificate non sarebbe mai possibile nominare amministratori estranei in sede di atto costitutivo, perché l’inderogabilità del modello standard impedisce di adottare una clausola che consenta la nomina di un estraneo ai sensi dell’art. 2475 c.c. Viceversa, tale clausola potrebbe essere inserita in un momento successivo alla costituzione della società e varrebbe, pertanto, per le ulteriori nomine dell’organo amministrativo.Appare, altresì, possibile una seconda interpretazione, in quanto l’art. 2475 c.c. stabilisce che l’amministrazione della società debba essere affidata ai soci «salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo».Il riferimento che fa salva la diversa disposizione dell’atto costitutivo, può essere interpretato non solo nel senso che è consentita l’adozione di una clausola derogatoria, valevole per ogni nomina dell’organo amministrativo, ma anche che la nomina dei primi amministratori possa riguardare gli estranei, poiché avviene in sede di atto costitutivo, e poiché in tale sede è possibile derogare all’obbligo di scegliere gli amministratori tra i soci.In sostanza, potendo l’atto costitutivo disporre diversamente da quanto prescritto dall’art. 2475 c.c., in tale contesto i soci sarebbero legittimati a nominare amministratori estranei alla compagine sociale, senza che in tale sede occorra adottare un’apposita clausola che consenta tale nomina, clausola che invece si renderebbe necessaria per le nomine successive.In quest’ottica, la previsione dell’obbligo di scegliere gli amministratori tra i soci, contenuto nella precedente formulazione dell’art. 2463-bis, comma 2, n. 6) c.c., avrebbe avuto lo scopo di impedire la nomina di estranei che invece, in assenza di un’apposita previsione in tal senso, sarebbe stata consentita.Conseguentemente, l’abrogazione del predetto obbligo avrebbe lo scopo di consentire la nomina di amministratori estranei in sede di atto costitutivo.Pertanto, in base a questa seconda interpretazione, è possibile nominare amministratori estranei in sede di atto costitutivo, mentre per le successive nomine sarebbe necessaria l’adozione di un’apposita clausola statutaria ai sensi dell’art. 2475 c.c.

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Appare, infine, possibile una terza interpretazione.Occorre, infatti, considerare che ai sensi del comma 5 dell’art. 2463-bis c.c., la disciplina delle Srl si applica alle Srl semplificate in quanto “compatibile”.Nel caso di specie, la compatibilità dell’art. 2475 c.c. con le norme delle Srl semplificate potrebbe ritenersi esclusa proprio per effetto della soppressione del divieto di nominare amministratori estranei, realizzata dalla lett. b) del comma 13 dell’art. 9 d.l. n. 76 del 2013, la quale dimostrerebbe la volontà del legislatore che nelle Srl semplificate possano ricoprire la carica di organo amministrativo anche soggetti diversi dai soci.Poiché, però, il meccanismo di cui al comma 1 dell’art. 2475 c.c. impone un’apposita clausola statutaria per la nomina di amministratori estranei, mentre il modello standard in sede di atto costitutivo non può essere integrato con ulteriori clausole statutarie, l’applicazione del comma 1 dell’art. 2475 c.c. risulterebbe incompatibile con la disciplina delle Srl semplificate, per le quali sarebbe venuto meno il divieto in questione.Pertanto, in base a questa terza interpretazione, il comma 1 dell’art. 2475 c.c. non si applicherebbe alle Srl semplificate in quanto incompatibile con la loro disciplina ai sensi dell’art. 2463-bis comma 5 c.c. e, quindi, sarebbe sempre possibile nominare amministratori estranei, a prescindere dall’adozione di un’apposita clausola statutaria in tal senso47.

47 Nello stesso senso si pronuncia la nota n. 118972.U del Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli Affari della Giustizia – di data 11 settembre 2013, integrata da successiva comunicazione in data 13 settembre 2013, nella quale, riguardo alla concreta applicazione del modello standard di atto costituivo tipizzato attualmente con d.m. 23 giugno 2012, n. 138, si rileva come «esso non appare più completamente armonico con il disposto della norma primaria (costituita dall’art. 2463-bis c.c., da leggersi in relazione con l’art. 2463 c.c.), ma del quale tuttavia viene stabilita la inderogabilità, proprio dalla legge di riforma». Nella nota si ritiene pertanto da intendersi soppressa dal modello standard tipizzato della clausola sub 4, «in quanto il requisito anagrafico è stato abolito dal menzionato decreto legge 28 giugno 2013, n. 76» e della clausola sub 5, che conseguentemente viene modificata non essendo più richiesto dalla legge che l’amministrazione della società sia affidata a uno dei soci. Perviene alle medesime conclusioni sulla portata della norma A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1077, il quale tuttavia ritiene necessario che l’atto costitutivo sia integrato con una apposita previsione in tale senso. In senso conforme, G. MAMBRIANI, Sub art. 2463-bis, in CAGNASSO – MAMBRIANI (a cura di), Codice della società a responsabilità limitata, cit., 143.

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3.3. La natura giuridica delle Srls

Per ciò che concerne le altre regole applicabili alle Srl semplificate, dall’analisi del contenuto dell’art. 2463-bis c.c. emerge che tutte le deroghe alla disciplina delle Srl riguardino esclusivamente il momento costitutivo della società e che, pertanto, esse, pur conservando la denominazione di società semplificate, sono interamente soggette alle regole delle Srl ordinarie, rispetto alle quali, quindi, le Srl semplificate non sembrano costituire un tipo a sé stante.La possibilità di adottare un capitale inferiore a 10.000 euro, ma almeno pari a 1 euro, non costituisce più, infatti, un elemento che caratterizza in senso esclusivo le Srl semplificate, in quanto, per effetto del nuovo comma 4 dell’art. 2463 c.c., introdotto con il d.l. n. 76 del 2013, tale facoltà è attualmente concessa a chiunque intenda costituire una Srl.Quanto all’inserimento dell’espressione “semplificata” nella denominazione sociale, sembrerebbe trattarsi di un elemento volto ad indicare non tanto l’appartenenza ad un tipo sociale diverso da quello delle Srl, quanto a dare evidenza all’assoggettamento al regime agevolato riguardante la costituzione della società e alla circostanza che, come detto, l’atto costitutivo non può essere difforme dalle regole poste dall’art. 2463-bis co. 2 c.c. e dal modello standard approvato con decreto ministeriale48.L’espressione “semplificata” sembra svolgere, infatti, una funzione analoga a quella, ad esempio, ricoperta dall’inserimento nella denominazione sociale dei termini “società in liquidazione” richiesto dal comma 2 dell’art. 2487-bis c.c.49

L’aggiunta prevista dall’art. 2487-bis c.c. altro non è se non una mera indicazione esterna, che pertanto non fa parte della denominazione stessa, volta a segnalare all’esterno l’assoggettamento della società a regole peculiari integrative della disciplina legale relativa al tipo sociale indicato nella denominazione50.In tutti questi casi, l’aggiunta nella denominazione di espressioni ulteriori rispetto a quelle che caratterizzano il tipo sociale sembra, quindi, avere lo scopo non tanto di indicare l’appartenenza ad un differente tipo sociale, quanto

48 Se poi si dovesse ritenere che la società semplificata non debba sottostare alle regole di formazione della riserva legale previste dal comma 5 dell’art. 2463, c.c., l’aggettivo semplificata svolgerebbe l’ulteriore funzione di rendere immediatamente evidente ai terzi tale circostanza.49 L’esempio è anche in G. FERRI JR., Prime osservazioni in tema di società a responsabilità limitata semplificata e di società a responsabilità limitata a capitale ridotto, cit., 811, ripreso da C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 34.50 C. CACCAVALE – F. MAGLIULO – F. TASSINARI, Scioglimento e liquidazione, clausole compromissorie e di conciliazione, normativa transitoria, in C. CACCAVALE – F. MAGLIULO – M. MALTONI – F. TASSINARI, La riforma della società a responsabilità limitata, cit., 518.

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piuttosto quello di segnalare l’applicabilità di regole integrative del modello legale.In considerazione del fatto che le regole speciali delle Srl semplificate sembrano riguardare la sola fase costitutiva della società, si potrebbe ipotizzare che, successivamente alla costituzione della stessa, i soci possano integrare il contenuto dell’atto costitutivo, nella forma richiesta dall’art. 2480 c.c., che richiede la verbalizzazione notarile ai sensi dell’art. 2436 c.c., adottando clausole organizzative in deroga alla disciplina legale statutaria, entro i limiti che sono consentiti all’autonomia privata e senza che, ovviamente, si applichi il comma 3 dell’art. 3 del decreto legge n. 1 del 2102, norma eccezionale che si riferisce appunto alla sola fase costitutiva.È evidente, comunque, che laddove si ritenga che l’aggettivo “semplificata” nella denominazione sociale abbia anche il significato di dare contezza ai terzi che le regole organizzative di quella società corrispondono a quelle contenute nel modello ministeriale, l’integrazione dell’atto costitutivo con nuove clausole impone l’espunzione di tale aggettivo.In virtù delle considerazioni finora svolte, l’adozione di clausole integrative del modello standard, che in forza dell’espressa previsione dell’inderogabilità dello stesso potrebbe avvenire solo in una fase successiva alla costituzione della società, sembrerebbe avere la natura di modifica statutaria e non, invece, di trasformazione.L’attuale dato normativo sembra, quindi, suggerire come abbia senso parlare di società semplificata soltanto con riferimento al momento della costituzione e sino a che si mantenga un atto costitutivo conforme alle regole poste dall’art. 2463-bis co. 2 c.c. e al modello standard approvato con decreto ministeriale51: successivamente a tale momento, soprattutto laddove lo statuto sia integrato a seguito di modifiche, la Srl dovrà esser riguardata alla luce della previsione dell’art. 2463, comma 4, ovvero, in caso di aumento di capitale ad almeno 10.000 euro, quale Srl “ordinaria”.Laddove si accogliesse tale interpretazione, ne conseguirebbe, inoltre, che, una volta costituita la società da sole persone fisiche, i soci potrebbero successivamente alienare le partecipazioni a soggetti diversi, in quanto le agevolazioni previste dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012 riguardano esclusivamente la fase costitutiva, ed è solo in tale momento che deve sussistere il requisito soggettivo dell’essere persona fisica al fine di poter usufruire dei

51 F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 21.

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relativi benefici di spesa52. Ed il legislatore non impone più in alcun modo la permanenza del requisito soggettivo (l’esser persone fisiche) in capo ai soci, neppure per un periodo di tempo limitato.Tuttavia, poiché la cessione a soggetti diversi dalle persone fisiche presuppone che la società venga riqualificata come Srl ordinaria”, sembra rendersi necessaria – in analogia con quel che avviene per l’adozione di clausole integrative o derogatorie al modello standard successivamente alla costituzione – la preventiva eliminazione dell’aggettivo “semplificata” dalla denominazione.Con nota del 15 febbraio 2016, prot. 3936553, il Ministero dello sviluppo economico - Direzione generale per il mercato, la concorrenza, il consumatore, la vigilanza e la normativa tecnica divisione VI – Registro delle imprese, professioni ausiliarie del commercio e artigiane e riconoscimento titoli professionali, esamina la questione della possibilità di trasferire le partecipazioni sociali di una società a responsabilità limitata semplificata a soggetto diverso da persona fisica, pervenendo a soluzione affermativa, «in quanto il divieto contenuto nel comma 1 dell’art. 2463-bis, riguarda la sola fase di costituzione della società».Tale affermazione è totalmente in linea con la posizione assunta negli studi del Consiglio Nazionale del Notariato, ove si affermava che quella delle Srls è, in sostanza, una disciplina destinata ad operare momento della costituzione della società e che laddove successivamente a tale momento lo statuto sia integrato a seguito di modifiche, ovvero vi sia l’ingresso di soggetti diversi dalle persone fisiche, la società andrà riguardata come Srl ordinaria. Poiché, inoltre,

52 In tal senso anche F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 21. Diversamente, nel periodo in cui ancora non esistevano le Srl con capitale inferiore a 10.000 euro, i benefici riservati alle le Srls, la cui costituzione era consentita alle sole persone fisiche che non avessero compiuto il trentacinquesimo anno d’età, consistevano non soltanto nell’esenzione dalla maggior parte delle spese di costituzione, ma anche nella possibilità di avere un capitale inferiore a 10.000 euro. In quel caso, la successiva cessione delle partecipazioni a soggetti privi dei requisiti richiesti per la costituzione di tali società (che era espressamente vietata dalla legge), avrebbe consentito di accedere al beneficio del capitale inferiore a 10.000 euro a soggetti privi della legittimazione ad accedervi. Sulla possibilità di trasferire a soggetti non persone fisiche la partecipazione di una Srlcr – istituto abrogato dal d.l. n. 76 del 2013, ma che analogamente alle Srl semplificate poteva essere costituito solo da persone fisiche – si era espressa in modo nettamente negativo la massima n. 129 del 5 marzo 2013 della Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano, Requisiti soggettivi e partecipazioni in Srl a capitale ridotto (art. 44 d.l. n. 83 del 2012). Ad oggi, poiché una Srl con capitale inferiore a 10.000 euro può, invece, essere costituita da chiunque, la cessione di quote di Srl semplificate (già costituite) a soggetti diversi dalle persone fisiche non sembra aggirare alcun divieto di legge.53 In CNN Notizie del 17 febbraio 2016, con nota di A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Cessione di quote di Srls a soggetti diversi da persone fisiche. Modifiche e deposito dello statuto aggiornato.

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le agevolazioni previste dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012 riguardano esclusivamente la fase costitutiva, è solo in tale momento che deve sussistere il requisito soggettivo dell’essere persona fisica al fine di poter usufruire dei relativi benefici di spesa54.A tal proposito, la nota ministeriale sottolinea come, sul piano delle certezze che il modello semplificato dà al mercato in termini di aderenza formale e sostanziale allo standard approvato col d.m. n. 138 del 2012, poiché l’inserimento nella denominazione sociale del termine “semplificata” o l’acronimo “Srls”, indica la volontà legislativa di evidenziare un caveat nei terzi, l’ingresso di soggetti differenti dalle persone fisiche fa perdere alla società le caratteristiche di Srl semplificata per assumere quelle della Srl “ordinaria” c.d. a capitale esiguo (ove il capitale sociale resti invariato o comunque inferiore ai 10000 euro), il che dovrebbe anche implicare la modifica della denominazione per estrarne il lessema «semplificata» non più rispondente a realtà e foriero di erronea informazione al mercato.In conclusione, l’aggettivo “semplificata”, a seguito dell’evoluzione della normativa, appaia oggi un elemento volto a indicare non tanto l’appartenenza ad un tipo sociale diverso da quello delle Srl, quanto a dare evidenza del fatto che si tratta di una società che nasce tra sole persone fisiche, dell’assoggettamento al regime agevolato riguardante la costituzione della società e della circostanza che l’atto costitutivo non può essere difforme dalle regole poste dall’art. 2463-bis co. 2 c.c. e dal modello standard approvato con decreto ministeriale. Sicché tanto l’ingresso nella compagine sociale di soggetti che non siano persone fisiche, quanto l’integrazione dell’atto costitutivo con nuove clausole impone l’espunzione di tale aggettivo.

3.4. Intestazione fiduciaria e diritti reali minori su quote di Srls

Atteso che la normativa in materia stabilisce che possano essere soci di Srl semplificate solo persone fisiche, è discusso se sia ipotizzabile la partecipazione di una società fiduciaria in sede di atto costitutivo, magari esplicitando che quest’ultima agisce per conto di una persona fisica.Sebbene sia estremamente controverso se, per effetto dell’intestazione fiduciaria di un bene, il fiduciario acquisti la sola legittimazione all’esercizio del diritto55, la cui titolarità rimane in capo al fiduciante ovvero la piena titolarità

54 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove Srl, cit., 133 ss.55 In tal senso Cass., 27 marzo 1997, n. 2756, in Corr. giur., 1997, 1080; App. Milano, 3 luglio

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del diritto trasferito56, sembra prevalere quest’ultimo orientamento che appare maggiormente conforme al sistema della titolarità delle partecipazioni sociali.In tale sistema è socio – ed è, quindi, legittimato ad esercitare i diritti sociali – colui che risulta iscritto nel libro soci o intestatario delle azioni in base ad una serie continua di girate, in caso di SpA, o iscritto nel Registro delle imprese, in caso di Srl, a prescindere dall’eventuale sussistenza di sottostanti rapporti fiduciari con terze persone57.Ora, il ricorso all’intestazione fiduciaria di partecipazioni è in genere finalizzato anche ad impedire che i terzi vengano a conoscenza del soggetto nel cui interesse vengono gestite le partecipazioni sociali.Questi ultimi restano tutelati dal fatto che, poiché il fiduciario è l’intestatario dei rapporti giuridici da esso gestiti in forza del pactum fiduciae, lo stesso risponderà all’esterno secondo le normali regole della responsabilità, ferma restando l’eventuale rivalsa nei confronti del fiduciante secondo le pattuizioni che regolano i rapporti interni.Tale configurazione del rapporto fiduciario è chiaramente incompatibile nella

1992, in Soc., 1992, 1539; Trib. Como, 23 febbraio 1994, in Soc., 1994, 678. Diversamente, per Cass., 5 febbraio 2000 n. 1289 «né la dottrina né la giurisprudenza hanno mai assunto ad elemento decisivo, per la ravvisabilità del pactum fiduciae, la natura reale della posizione giuridica soggettiva da ritrasferire. Al contrario, è stato sempre correttamente ritenuta irrilevante la natura giuridica di tale posizione soggettiva assumendo rilievo decisivo solo l’obbligo del fiduciario di ritrasferire il bene od il diritto acquistato al fiduciante o ad una terza persona». Secondo tale pronuncia, l’intestazione fiduciaria determina il trasferimento in capo al fiduciario della titolarità del diritto oggetto di fiducia e che, avendo il pactum fiduciae natura meramente obbligatoria, l’obbligo di restituzione del bene produca solamente effetti interni tra le parti.56 Cass., 6 maggio 2005 n. 9402 rileva quanto segue: «in particolare l’intestazione fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) integra gli estremi dell’interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista (a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata) la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo – in virtù di un rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria – tenuto ad osservare un certo comportamento convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario»; nello stesso senso Cass., 27 novembre 1999, n. 13261; Cass., 29 maggio 1993, n. 6024; Cass., 18 ottobre 1991, n. 11025 e Cass., 18 ottobre 1988, n. 5663; Cass., 9 maggio 2011, n. 10163, in Giust. civ. Mass., 2011, 5, 721; Cass., 10 maggio 2010, n. 11314 in Giust. civ. Mass., 2010, 5, 713; Cass., 8 maggio 2009, n. 10590.57 Laddove, infatti, l’ordinamento ha voluto dare rilievo all’esistenza di rapporti sottostanti, essi sono stati espressamente contemplati, come ad esempio nell’art. 2504-ter, comma 2, c.c., o negli artt. 2357, sull’acquisto di azioni proprie, 2358, in materia di operazioni sulle proprie azioni, e 2359 c.c., relativo al controllo societario, laddove si prevede espressamente l’applicabilità della disciplina contenuta in tali norme anche in caso di partecipazioni possedute per il tramite di interposta persona e società fiduciarie.

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fase costitutiva della società a responsabilità limitata semplificata, alla quale è ammessa la partecipazione solo di persone fisiche; viceversa, nella fase successiva dovrebbero valere le considerazioni in precedenza espresse sul trasferimento della partecipazione a soggetti non persone fisiche.La circostanza per cui in sede di atto costitutivo i soci debbano esser tutti persone fisiche non esclude, infine, la possibilità di costituire già in tale fase diritti reali minori in favore di soggetti non persone fisiche: ciò in quanto l’usufruttuario o il creditore pignoratizio non rivestono la qualità di soci58.

3.5. Le Srl semplificate costituite con modello non adeguato

Le Srl semplificate costituite in data anteriore al 28 giugno 2013 (data di entrata in vigore del d.l. n. 76 del 2013) ai sensi dell’art. 2436-bis c.c., introdotto dall’art. 3 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito nella l. 24 marzo 2012, n. 27, contengono sia l’espressa previsione del divieto di trasferimento delle quote a persone che abbiano compiuto i 35 anni alla data della cessione e della nullità dell’eventuale atto, sia l’obbligo di scegliere gli amministratori tra i soci della società.Con riferimento all’eliminazione del requisito anagrafico per la costituzione delle Srl semplificate, il comma 13 dell’art. 9 d.l. n. 76 del 2013 ha abrogato il divieto di trasferimento delle quote di Srl semplificata in favore di persone che abbiano compiuto i trentacinque anni d’età alla data della cessione.Per effetto dell’abrogazione tale trasferimento dovrebbe ritenersi consentito nonostante quanto riportato negli statuti.Le relative clausole – in quanto riproduttive di un divieto legale oggi abrogato – non sembrano oggi potersi ritenere ancora efficaci, laddove si consideri che, nelle Srl semplificate, il legislatore esclude la facoltà per i privati di adottare pattuizioni derogatorie alla disciplina legale prevista per tale modello societario (art. 2463-bis comma 3, c.c.).Ciò esclude che lo statuto possa avere un contenuto diverso da quello stabilito dal legislatore e implica, altresì, che – essendo i soci tenuti ad adottare un modello di atto costitutivo riproduttivo della disciplina stabilita dal legislatore – se il legislatore modifica tale disciplina, le clausole statutarie difformi, valide

58 Si pone invece il problema A. BUSANI, La nuova società a responsabilità semplificata e la nuova Srl con capitale inferiore a 10mila euro, cit., 1074, il quale esclude che anche successivamente alla costituzione della Srls le partecipazioni possano appartenere a soggetti non persone fisiche.

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e vincolanti per il passato, dovrebbero perdere efficacia per il futuro59. In altre parole, appare difficile sostenere la sopravvivenza del divieto di cessione a soggetti non aventi i requisiti d’età (vigenti all’epoca della costituzione), quale clausola ascrivibile alla categoria delle disposizioni convenzionali volontarie, in grado di resistere alla normativa sopravvenuta.Si tratta di una conclusione analoga a quella a suo tempo adottata in tema di abrogazione successiva dei vincoli di inalienabilità posti dall’art. 35 l. n. 865 del 1971 e riprodotti nelle clausole delle convenzioni fino a quel momento stipulate, che sancivano la nullità delle alienazioni compiute in violazione dei divieti. Si è ipotizzato, infatti, che per effetto dell’abrogazione di tali divieti, le clausole delle convenzioni che li riproducessero dovessero intendersi prive di effetto60.Occorre, inoltre, tenere presente che mentre per i divieti di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica la legge non imponeva l’obbligo di inserire espressamente gli stessi nelle convenzioni e che, pertanto, l’adozione di tali clausole era volontaria, nel caso delle Srl semplificate la presenza del divieto di cessione era obbligatoria, in quanto allora imposta dal modello standard.Si era, inoltre, pervenuti a conclusioni simili in merito alla questione dell’introduzione della disciplina del sindaco unico nelle Srl per effetto dell’art. 14, commi 13 e 14, della legge 12 novembre 2011, n. 183 e, successivamente, dell’art. 35 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 convertito in legge 4 aprile 2012, n. 3561.E va anche considerato che la sopravvenuta inefficacia di clausole statutarie incompatibili con la normativa succedutasi nel tempo è fenomeno che si è verificato anche quando è entrata in vigore della riforma del diritto societario.

59 L’inderogabilità, espressamente introdotta dal d.l. n. 76 del 2013, era già stata sostenuta anche anteriormente da F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Società a responsabilità limitata semplificata. Questioni applicative, in CNN Notizie del 5 novembre 2012.60 In tal senso G. CASU, Finanziaria 1996 e divieti di alienabilità abrogati per l’edilizia residenziale pubblica convenzionata, in Studi e materiali, Milano, 1998, 261.61 In quel caso si era posto il problema della possibilità di ricorrere al “sindaco unico” per le società già esistenti, il cui atto costitutivo disciplinasse espressamente la composizione numerica dell’organo di controllo e non si limitasse ad un rinvio generico alla legge o all’art. 2477 c.c. E si era affermato che, comunque, nessun intervento sull’atto costitutivo fosse necessario anche in presenza di detta clausola, «sulla base del rilievo per cui dette clausole avevano la loro ragion d’essere semplicemente perché riproduttive del disposto dell’art. 2477, c.c., nel testo anteriore alla sua modifica, e potendosi ritenere le stesse come espressione della scelta opzionale consentita dal legislatore»: F.G. NARDONE – A. RUOTOLO, Il sindaco “unico” nella Srl e nella SpA, in Studi e materiali, 2012, 124.

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L’art. 223-bis disp. att. c.c., il quale concedeva un termine per adeguare gli statuti delle società di capitali a tale riforma, prevedeva che in ogni caso, scaduto il predetto termine, in mancanza di tale adeguamento le disposizioni in contrasto con le nuove norme “inderogabili” avrebbero in ogni caso perso efficacia.Considerato che nelle Srl semplificate la volontà delle parti non può derogare al contenuto legale dell’atto costitutivo, la sopravvivenza di clausole in contrasto con le norme sopravvenute implicherebbe la presenza di statuizioni volontarie incompatibili con la nuova disciplina, le quali sembrano, dunque, destinate a perdere efficacia.Sempre in considerazione dell’inderogabilità del contenuto dell’atto costitutivo delle Srl semplificate, i soci non potrebbero conservare la pattuizione corrispondente al divieto abrogato, a meno che gli stessi non decidano di adottare un simile divieto ricorrendo, però, attraverso apposita modificazione, al modello della Srl ordinaria, che consente l’adozione di limiti alla circolazione delle partecipazioni.Ne consegue che, in assenza di particolari disposizioni transitorie, sia possibile ipotizzare che le clausole statutarie contenenti il divieto di cessione di quote a persone che abbiano compiuto il trentacinquesimo anno d’età siano divenute inefficaci.Bisogna, tuttavia, tenere presente che, pur dovendosi ritenere prive di efficacia le clausole riproduttive del divieto di cessione, la loro presenza negli atti costitutivi potrebbe generare incertezze sulla loro valenza, soprattutto ai fini di un possibile contenzioso tra i soci.A tale proposito, anche in caso di controversia tra le parti sulla sopravvivenza del divieto, la cessione eventualmente eseguita in favore di persona di età superiore a trentacinque anni non potrebbe essere dichiarata nulla, in quanto è stata abrogata la norma che sanciva la nullità, né tale nullità potrebbe avere la sua fonte nella volontà delle parti riprodotta in una clausola statutaria.Non va, peraltro, esclusa l’opportunità che, al fine di garantire la certezza dei rapporti giuridici e di prevenire il sorgere di azioni contenziose, le parti richiedano un formale adeguamento degli atti costitutivi già redatti, eliminando le clausole riproduttive del divieto abrogato.Analoghe considerazioni dovrebbero valere per ciò che concerne i requisiti di nomina degli amministratori, ove si acceda alla terza delle ricostruzioni sopra prospettate, secondo cui l’eliminazione dell’obbligo di nominare gli amministratori tra i soci renderebbe sempre possibile la designazione di terzi estranei, a prescindere dall’adozione di apposita clausola in tal senso.

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4. Le Srl start-up innovative

4.1. Nozione e requisiti

L’impresa start-up innovativa è una società di capitali (comprese le società a capitale ridotto e le società a responsabilità limitata semplificata), costituita anche in forma cooperativa, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, che possiede i seguenti requisiti:a) …62; b) è costituita e svolge attività d’impresa da non più di sessanta mesi; c) è residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o in uno degli Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo, purché abbia una sede produttiva o una filiale in Italia;d) a partire dal secondo anno di attività della start-up innovativa, il totale del valore della produzione annua, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro; e) non distribuisce, e non ha distribuito, utili; f) ha, quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;g) non è stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda; h) possiede almeno uno dei seguenti ulteriori requisiti:1) le spese in ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione della start-up innovativa. Dal computo per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l’acquisto e la locazione di beni immobili. Ai fini di questo provvedimento, in aggiunta a quanto previsto dai princìpi contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del business plan, le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati, i costi

62 Originariamente era richiesto che i soci persone fisiche detenessero al momento della costituzione e per i successivi ventiquattro mesi, la maggioranza delle quote o azioni rappresentative del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria. La disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 9, comma 16, lett. a), d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 99.

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lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo, inclusi soci ed amministratori, le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso. Le spese risultano dall’ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa. In assenza di bilancio nel primo anno di vita, la loro effettuazione è assunta tramite dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante della start-up innovativa;2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270;3) sia titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività di impresa.La disciplina delle start-up innovative si connota per una serie di agevolazioni fiscali e di deroghe sia alle norme civilistiche che regolano il funzionamento dell’ente, sia alla disciplina dei rapporti di lavoro posti in essere dalle stesse63.

63 In generale, sulle start-up: P. SPADA – M. MALTONI, L’impresa start-up innovativa costituita in società a responsabilità limitata, in Riv. not., 2013, 579 ss.; E. FREGONARA, La start-up innovativa, Milano, 2013; O. CAGNASSO, Note in tema di start-up innovative, riduzione del capitale e stato di crisi (dalla “nuova” alla “nuovissima” Srl), in Il nuovo diritto elle società, 2014, 5, 9 ss.; M. COSSU, Le start-up innovative in forma di società a responsabilità limitata. Profili privatistici, in Società, banche, crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, cit., 1715 ss.; P. BENAZZO, La Srl start-up innovativa, in Nuove leggi civ., 2014, 101 ss; M. CIAN, Le start-up innovative a responsabilità limitata: partecipazioni, altri rapporti partecipativi e nuovi confini del tipo, in Nuove leggi civ., 2014, 1178 ss.; M. COSSU, Nuovi modelli di Srl nella legislazione italiana recente, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, 448 ss.; S. GUIZZARDI, L’impresa start-up innovativa costituita in forma di Srl, in Giur. comm., 2016, 549 ss.; P. BENAZZO, Start-up e PMI innovative, in Dig. civ., Torino, 2017, 467 ss.

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4.2. L’atto costitutivo e le successive modifiche della start-up Srl

Ai sensi dell’art. 4, comma 10-bis, d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, «Al solo fine di favorire l’avvio di attività imprenditoriale e con l’obiettivo di garantire una più uniforme applicazione delle disposizioni in materia di start-up innovative e di incubatori certificati, l’atto costitutivo e le successive modificazioni di start-up innovative sono redatti per atto pubblico ovvero per atto sottoscritto con le modalità previste dagli articoli 24 e 25 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. L’atto costitutivo e le successive modificazioni sono redatti secondo un modello uniforme adottato con decreto del Ministro dello sviluppo economico e sono trasmessi al competente ufficio del Registro delle imprese di cui all’articolo 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni»64.Il modello uniforme per la costituzione di start-up in forma di Srl è stato adottato con il decreto del Ministro dello sviluppo economico 17 febbraio 2016, mentre il modello per le modifiche è stato adottato con il decreto del Ministro dello sviluppo economico 28 ottobre 2016.Una circolare del Ministero dello sviluppo economico 1° luglio 2016 n. 3691/C (avente ad oggetto: Decreto ministeriale 17 febbraio 2016 e decreto direttoriale 1 luglio 2016. Modalità di costituzione delle società a responsabilità limitata start-up innovative a norma del comma 10 bis dell’articolo 4 del d.l. n. 3 del 2015, convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33) precisa che «il procedimento introdotto dal comma 10-bis è percorribile facoltativamente e in via alternativa rispetto a quello ordinariamente previsto dal codice civile» e che il decreto ministeriale «in adesione alla delega normativa, ha, ovviamente, regolato esclusivamente il modello standard alternativo, rimanendo disciplinato dal codice civile, dalla legge 89 del 1913 (di seguito legge notarile) e dalle altre norme di sistema, l’ordinaria costituzione tramite atto pubblico».

4.3. Adempimenti richiesti per ottenere la qualifica di start-up

La condizione essenziale per l’accesso ai benefici riservate alle start-up innovative consiste nell’iscrizione in una sezione speciale del Registro delle imprese, nella quale dovranno essere altresì iscritti gli incubatori certificati.

64 Esprime forti critiche a tale scelta del legislatore C. IBBA, Forma e pubblicità nella costituzione delle start-up innovative, in Start-up e PMI innovative: scelte statutarie e finanziamento. Atti del Convegno di Studi tenutosi a Cagliari, 15 giugno 2018, Napoli, 2019, 9.

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Il requisito per ottenere l’iscrizione nella sezione speciale riservata alle start-up consiste nella presentazione di un’apposita domanda con la quale l’impresa richiedente attesta, mediante apposita autocertificazione prodotta dal legale rappresentante e depositata presso l’ufficio del Registro delle imprese, la sussistenza dei requisiti per l’identificazione come start-up innovativa (art. 25, comma 9, d.l. n. 179 del 2012).La domanda di iscrizione deve contenere le seguenti informazioni: a) data e luogo di costituzione, nome e indirizzo del notaio; b) sede principale ed eventuali sedi periferiche; c) oggetto sociale; d) breve descrizione dell’attività svolta, comprese l’attività e le spese in ricerca e sviluppo; e) elenco dei soci, con trasparenza rispetto a fiduciarie, holding ove non iscritte nel Registro delle imprese di cui all’articolo 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni, con autocertificazione di veridicità; f) elenco delle società partecipate; g) indicazione dei titoli di studio e delle esperienze professionali dei soci e del personale che lavora nella start-up innovativa, esclusi eventuali dati sensibili; h) indicazione dell’esistenza di relazioni professionali, di collaborazione o commerciali con incubatori certificati, investitori istituzionali e professionali, università e centri di ricerca; i) ultimo bilancio depositato, nello standard XBRL; l) elenco dei diritti di privativa su proprietà industriale e intellettuale. La legge non impone, invece, l’adozione di particolari clausole statutarie necessarie per conseguire la qualifica di start-up.Tuttavia, per le imprese che intendono ottenere la qualifica di start-up, potrebbe essere opportuno, ancorché non necessario, un rinvio alla normativa di riferimento contenuta nel d.l. n. 179 del 201265.Potrebbe, altresì, risultare opportuno inserire la previsione che la società ha, «quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico» (art. 25, comma 2, lett. f) d.l. n. 179 del 2012).

4.4. Le deroghe al diritto societario

La disciplina delle start-up innovative si connota per una serie di deroghe alle norme codicistiche.

65 Per un esame delle caratteristiche dei requisiti di “innovatività”, v. A. COCCO, Oggetto sociale e requisiti di innovatività nelle start-up innovative, in Start-up e PMI innovative: scelte statutarie e finanziamento. Atti del Convegno di Studi tenutosi a Cagliari, 15 giugno 2018, cit. 82 ss.

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Merita segnalare come, con riguardo all’insieme di norme derogatorie alla disciplina di diritto comune, la dottrina ha distinto tra deroghe temporanee ed automatiche e deroghe opzionali ad effetti permanenti66. Le prime (contenute nei commi 1, 7 e 8 dell’art. 26 e nell’art. 31 d.l. n. 179 del 2012) sono destinate ad essere efficaci solo per il periodo nel quale la società mantiene la qualità di start-up innovativa, ed operano – eccettuata quella di cui al comma 7 dell’art. 26 – senza necessità di alcuna previsione esplicita nello statuto.Le seconde (contenute nei restanti commi dell’art. 26), hanno effetti permanenti: si tratta di deroghe opzionali, di cui una società potrebbe anche decidere di non avvalersi, che richiedono una espressa scelta statutaria. A ben vedere, anche per tali deroghe si potrebbe discorrere di temporaneità, riferibile tuttavia non agli effetti, bensì alla circostanza che la società se ne può avvalere, mediante espressa scelta statutaria, solo per il periodo in cui è qualificabile come start-up innovativa; ma una volta venuta meno la qualità di start-up innovativa, non per questo gli effetti delle deroghe introdotte potrebbero venir meno. Così, ad esempio, create diverse categorie di quote nel periodo in cui la società è qualificata come start-up innovativa, venuta meno tale qualifica, il capitale può continuare ad esser suddiviso in diverse categorie, non destinate a cessare con la cessazione della qualità di start-up innovativa67.Ciò posto, la prima deroga, destinata a operare indipendentemente dall’adozione di apposita clausola statutaria, concerne l’applicazione della disciplina delle perdite del capitale sociale.Nel caso di perdite, è infatti posticipato al secondo esercizio successivo il termine previsto dagli artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 4, entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo. Nel caso di perdite che riducano il capitale al di sotto del minimo legale, ai sensi degli artt. 2447 e 2482-ter c.c., l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al

66 A. PAOLINI, Della Srl – start-up innovativa (ovvero della Srl transtipica), in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2014, 1, 199 ss.67 A. PAOLINI, Della Srl – start-up innovativa (ovvero della Srl transtipica), cit., la quale propone la categoria delle “deroghe transitorie con effetti permanenti”; una volta venuta meno la qualifica di start-up, «è pur vero che non si potranno più emettere strumenti finanziari, o creare categorie di quote, ma naturalmente (e la stessa previsione normativa dispone espressamente in tal senso) per le quote e gli strumenti partecipativi già emessi le relative clausole dell’atto costitutivo, anche in deroga alla disciplina generale della Srl, manterranno la loro efficacia. Ne consegue che la società che ha emesso questi titoli resterà per sempre una Srl, in un certo modo, “snaturata”: una sorta di Srl, si diceva, transtipica».

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contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo. Fino alla chiusura di tale esercizio non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, comma 1, n. 4), e 2545-duodecies del codice civile. Se entro l’esercizio successivo il capitale non risulta reintegrato al di sopra del minimo legale, l’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve deliberare ai sensi degli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile. (art. 26, comma 1, che non trova applicazione alle Srl PMI).Appartiene, invece, alla categoria delle deroghe che richiedono l’adozione di apposita clausola statutaria, quella contemplata nel comma 2 dell’art. 26, secondo cui l’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di società a responsabilità limitata può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo, del codice civile68 (art. 26, comma 2, applicabile peraltro non soltanto alle start-up, ma anche alle Srl che siano qualificabili come PMI, per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 57, comma 1, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 giugno 2017, n. 9669).Inoltre, l’atto costitutivo della start-up innovativa in forma di Srl, anche in deroga dall’articolo 2479, comma 5, del codice civile, può creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative (art. 26, comma 3, che trova applicazione anche alle PMI). In deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma 1, del codice civile, le

68 S. CORSO, Società innovative aperte al mercato: quale disciplina per le Srl?, in Start-up e PMI innovative: scelte statutarie e finanziamento. Atti del Convegno di Studi tenutosi a Cagliari, 15 giugno 2018, cit., 50, osserva come la creazione di categorie di quote, sebbene non necessaria, sia funzionale nell’ottica nel ricorso, per tali società, al crowdfunding.69 È piuttosto remota l’ipotesi che una Srl start-up innovativa non abbia le caratteristiche della PMI, e che quindi la disciplina derogatoria del codice civile di cui ha potuto sin qui fruire non sia più ad essa applicabile. Ciò non fosse altro perché tra i requisiti per accedere alla disciplina della start-up innovativa, l’art. 25, comma 2, lett. d) del d.l. n. 179 del 2012 prevede che «a partire dal secondo anno di attività della start-up innovativa, il totale del valore della produzione annua, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro», ben al di sotto della soglia indicata nella definizione di PMI. Per la nozione di PMI, v. infra, par. 5.1.

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quote di partecipazione in start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali di cui al successivo 30 del decreto, nei limiti previsti dalle leggi speciali (art. 26, comma 5; anche tale disposizione risulta applicabile non soltanto alle start-up, ma anche alle Srl che siano qualificabili come PMI, per effetto delle modifiche introdotte dal citato art. 57, comma 1, d.l. n. 50 del 2017). Nelle start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata, il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’articolo 2474 del codice civile non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali (art. 26, comma 6, norma estesa anche alle Srl che siano qualificabili come PMI, per effetto delle modifiche introdotte dal citato art. 57, comma 1, d.l. n. 50 del 2017). L’atto costitutivo delle start-up innovative e degli incubatori certificati può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis del codice civile (art. 26, comma 7, anch’esso applicabile alle PMI). Alle start-up innovative di cui all’articolo 25 comma 2, non si applica la disciplina prevista per le società di comodo di cui all’art. 30, legge 23 dicembre 1994, n. 724 e art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies del d.l. 13 agosto 2011, n. 138) (art. 26, comma 4).

4.5. La riduzione degli oneri per l’avvio

La start-up innovativa e l’incubatore certificato dal momento della loro iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese sono esonerati dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria dovuti per gli adempimenti relativi alle iscrizioni nel Registro delle imprese, nonché dal pagamento del diritto annuale dovuto in favore delle camere di commercio. L’esenzione è dipendente dal mantenimento dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisizione della qualifica di start-up innovativa e di incubatore certificato e dura comunque non oltre il quinto anno di iscrizione. L’atto costitutivo della start-up innovativa, costituita ai sensi dell’articolo 4, comma 10-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge

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24 marzo 2015, n. 33, nonché di quella costituita con atto pubblico, in caso di contestuale iscrizione nella citata sezione speciale di cui all’articolo 25, comma 8, è esente dal pagamento delle imposte di bollo e dei diritti di segreteria. (Art. 26, comma 8).

4.6. Ulteriori agevolazioni

Ulteriori agevolazioni in favore delle start-up innovative attengono alla imposizione diretta, con una serie di esenzioni dalla formazione del reddito imponibile (art. 27), ai rapporti di lavoro subordinato (art. 28) e ad un regime di incentivazione all’investimento nelle start-up innovative, peraltro non immediatamente operativo (art. 29). Al fine di consentire la raccolta di capitali di rischio a sostegno delle start-up innovative, vengono introdotti nuovi articoli nel testo unico delle disposizioni in materia finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (art. 30), in particolare, con la creazione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative, piattaforme online che abbiano come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio da parte delle start-up innovative, comprese le start-up a vocazione sociale e la previsione di una disciplina per la gestione di detti portali (art. 50-quinquies TUF), nonché con una disciplina delle offerte attraverso portali per la raccolta di capitali (art. 100-ter TUF), che riguardano la sottoscrizione di strumenti finanziari emessi dalle piccole e medie imprese, dalle imprese sociali e dagli organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società di capitali che investono prevalentemente in piccole e medie imprese.La normativa si completa con alcune disposizioni sulla Composizione e gestione della crisi nell’impresa start-up innovativa, sulle conseguenze della decadenza dei requisiti previsti dall’art. 25 e sulle attività di controllo. La start-up innovativa non è soggetta a procedure concorsuali diverse da quelle previste dal capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3, e cioè dalla composizione della crisi da sovraindebitamento, con sottrazione, pertanto, al fallimento (art. 31, comma 1).

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4.7. Cessazione della qualifica di start-up innovativa

Fatto salvo il diverso termine previsto dal comma 3 dell’articolo 25 se applicabile, qualora la start-up innovativa perda uno dei requisiti previsti dall’articolo 25, comma 2, prima della scadenza dei cinque anni dalla data di costituzione, secondo quanto risultante dal periodico aggiornamento della sezione del Registro delle imprese di cui all’articolo 25, comma 8, e in ogni caso al raggiungimento di tale termine, cessa l’applicazione della disciplina ad essa relativa, comprese le disposizioni in tema di lavoro subordinato, ferma restando l’efficacia dei contratti a tempo determinato stipulati dalla start-up innovativa sino alla scadenza del relativo termine. Per la start-up innovativa costituita in forma di società a responsabilità limitata, le clausole eventualmente inserite nell’atto costitutivo ai sensi dei commi 2, 3 e 7 dell’articolo 26, mantengono efficacia limitatamente alle quote di partecipazione già sottoscritte e agli strumenti finanziari partecipativi già emessi (art. 31, comma 4)70. Nell’ambito delle norme sulla vigilanza, il Ministero dello sviluppo economico può avvalersi del Nucleo speciale spesa pubblica e repressione frodi comunitarie della Guardia di finanza (art. 31, comma 5).

70 Il comma 5 dell’art. 38, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 recante Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, in vigore dal 19 maggio 2020, ha prorogato di dodici mesi la permanenza nella sezione speciale del Registro delle imprese delle start-up innovative disponendo quanto segue: «Il termine di permanenza nella sezione speciale del registro delle imprese delle start-up innovative di cui all’articolo 25 del citato decreto-legge n. 179 del 2012, è prorogato di 12 mesi. Eventuali termini previsti a pena di decadenza dall’accesso a incentivi pubblici e per la revoca dei medesimi sono prorogati di 12 mesi. Ai fini del presente comma, la proroga della permanenza nella sezione speciale del Registro delle imprese non rileva ai fini della fruizione delle agevolazioni fiscali e contributive previste dalla legislazione vigente» (sul punto, D. BOGGIALI, Emergenza COVID-19 – D.l. “Rilancio”. Profili di diritto societario (D.l. 19 maggio 2020, n. 34), in CNN Notizie del 21 maggio 2020). La successiva circolare del Ministero dello sviluppo economico del 19 giugno 2020, n. 3724/C, prot. 147301 (in CNN Notizie del 21 giugno 2020, con nota di D. BOGGIALI, Emergenza COVID-19 – Chiarimenti del MISE sulla proroga della qualifica di start-up innovativa (Circolare 3724/C del 19 giugno 2020), ha precisato che la proroga a settantadue mesi della peculiare disciplina delle start-up innovative (in particolare, di quella riguardante le deroghe al diritto societario, le disposizioni in materia di rapporto di lavoro subordinato in start-up innovative, nonché la composizione e gestione della crisi nell’impresa start-up innovativa) opera soltanto per quelle che risultano già iscritte nella relativa sezione speciale alla data del 19 maggio 2020.

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4.8. Le start-up innovative nel settore del turismo (art. 11-bis decreto legge 31 maggio 2014, n. 83)

In sede di conversione, con legge 29 luglio 2014, n. 106 del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, recante Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo (c.d. Art bonus), è stato introdotto l’art. 11-bis, che disciplina le “Start-up turismo”.Tale norma, che trova applicazione a decorrere dal 1° gennaio 2015 (comma 5), prevede che «si considerano start-up innovative anche le società che abbiano come oggetto sociale la promozione dell’offerta turistica nazionale attraverso l’uso di tecnologie e lo sviluppo di software originali, in particolare, agendo attraverso la predisposizione di servizi rivolti alle imprese turistiche. Tali servizi devono riguardare la formazione del titolare e del personale dipendente, la costituzione e l’associazione di imprese turistiche e culturali, strutture museali, agenzie di viaggio al dettaglio, uffici turistici di informazione e accoglienza per il turista e tour operator di autotrasporto, in modo tale da aumentare qualitativamente e quantitativamente le occasioni di permanenza nel territorio; l’offerta di servizi centralizzati di prenotazione in qualsiasi forma, compresi sistemi telematici e banche di dati in convenzione con agenzie di viaggio o tour operator, la raccolta, l’organizzazione, la razionalizzazione nonché l’elaborazione statistica dei dati relativi al movimento turistico; l’elaborazione e lo sviluppo di applicazioni web che consentano di mettere in relazione aspetti turistici culturali e di intrattenimento nel territorio nonché lo svolgimento di attività conoscitive, promozionali e di commercializzazione dell’offerta turistica nazionale, in forma di servizi di incoming ovvero di accoglienza di turisti nel territorio di intervento, studiando e attivando anche nuovi canali di distribuzione» (comma 1).In sostanza, tale previsione viene ad affiancarsi a quella contenuta nella lett. f) del comma 2 dell’art. 25 del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 che qualifica come start-up innovative la società di capitali o la cooperativa che abbia quale «oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico».L’impresa start-up innovativa che operi nel settore del turismo con l’oggetto sociale sopradescritto può inoltre essere costituita anche nella forma della società a responsabilità limitata semplificata ai sensi dell’art. 2463-bis c.c. (art. 11-bis, comma 2).Dunque, anche quello della Srl semplificata è uno schema cui è possibile far ricorso per l’impresa start-up innovativa, ma è necessario comunque tener

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presente che vi sono talune limitazioni che si ricollegano alla particolare disciplina della Srls.In particolare, la previsione che appare incompatibile con il modello standard è quella relativa alla creazione di categorie di quote ed alla attribuzione di particolari diritti (art. 26, commi 2, e 3, d.l. n. 179 del 2012), nonché l’emissione di strumenti finanziari partecipativi (art. 26, comma 7). Si tratta, infatti, di previsioni la cui attuazione richiederebbe la formulazione di apposite clausole integrative del modello standard che, tuttavia, è per legge inderogabile.Peraltro, rispetto alle facilitazioni riconosciute dalla disciplina delle società a responsabilità limitata semplificata (art. 3, comma 3, decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1: «l’atto costitutivo e l’iscrizione nel Registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili»), ove si tratti di Srls start-up innovativa nel settore del turismo e i soci non abbiano compiuto il quarantesimo anno di età all’atto della costituzione della società è prevista, quale ulteriore agevolazione, l’esenzione «da imposta di registro, diritti erariali e tasse di concessione governativa» (comma 3).

4.9. Gli incubatori certificati

Accanto alle start-up innovative, il d.l. n. 179 del 2012 ha previsto la possibilità di costituire incubatori certificati, i quali possono avere la forma di società di capitali e cooperative, al fine di offrire servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di start-up innovative (art. 25, comma 5).Gli incubatori certificati devono possedere i seguenti requisiti: a) dispone di strutture, anche immobiliari, adeguate ad accogliere start-up innovative, quali spazi riservati per poter installare attrezzature di prova, test, verifica o ricerca; b) dispone di attrezzature adeguate all’attività delle start-up innovative, quali sistemi di accesso in banda ultralarga alla rete internet, sale riunioni, macchinari per test, prove o prototipi; c) è amministrato o diretto da persone di riconosciuta competenza in materia di impresa e innovazione e ha a disposizione una struttura tecnica e di consulenza manageriale permanente; d) ha regolari rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che svolgono attività e progetti collegati a start-up innovative; e) ha adeguata e comprovata esperienza nell’attività di sostegno a start-up innovative, la cui sussistenza è valutata ai sensi del comma 7. Come per le start-up, il possesso dei requisiti è autocertificato mediante dichiarazione sottoscritta dal rappresentante legale, al momento dell’iscrizione

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alla sezione speciale del Registro delle imprese, sulla base di indicatori e relativi valori minimi che, a decorrere dal 21 gennaio 2017 sono stabiliti nel decreto del Ministero dello sviluppo economico 22 dicembre 2016.In particolare, ai sensi dell’art. 2 del d.m., i soggetti che intendano iscriversi come incubatori presentano alla Camera di commercio competente per territorio del luogo in cui ha sede l’incubatore una dichiarazione attestante il possesso dei requisiti mediante l’utilizzo di un apposito modulo di domanda in formato elettronico, sottoscritto dal rappresentante legale della società, ai sensi dell’art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2000, n. 445. Il modulo di domanda in formato elettronico, comprendente la Griglia di compilazione correlata, è pubblicato sul sito web del Ministero dello sviluppo economico nella sezione «Start-up innovative».Gli artt. 3 e 4 del d.m. 22 dicembre 2016 disciplinano, inoltre, l’attività di monitoraggio (le Camere di commercio forniscono, in formato elettronico e con aggiornamento settimanale, dati tratti dalla sezione speciale del Registro delle imprese inerenti alla natura giuridica, alla localizzazione, alle classi dimensionali in termini di capitale sottoscritto, valore della produzione annua e numero di addetti degli incubatori certificati. Tali informazioni vengono rese pubbliche e disponibili, nelle versioni correnti e precedenti, sul sito web http://startup.registroimprese.it/. Il Ministero dello sviluppo economico esamina, con cadenza annuale, i dati di cui al comma 1 al fine di valutare l’adeguatezza dei valori minimi di cui all’allegato rispetto alle condizioni del contesto di riferimento. In presenza di variazioni significative rilevate dal Ministero, i valori minimi di cui all’allegato sono modificati con apposito provvedimento del Ministro) e i controlli da parte delle autorità competenti (facendo a tal fine obbligo all’incubatore di conservare gli atti e i documenti attestanti la veridicità delle informazioni fornite nella compilazione del modello informatico per un periodo di cinque anni a decorrere dalla data dell’iscrizione nella citata sezione speciale del Registro delle imprese).Il comma 2 dell’art. 4 precisa, infine, che fermo restando quanto previsto dall’art. 76 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ai sensi dell’art. 75 del medesimo decreto, qualora dal controllo emerga l’insussistenza dei requisiti dichiarati la società è soggetta alla cancellazione dalla sezione speciale, decadendo dai relativi benefici fiscali o di qualsiasi altra natura a essa attribuiti in applicazione della disciplina prevista dal decreto.

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5. Le Srl PMI

5.1 Nozione di PMI e ambito di applicazione della disciplina

L’art. 57, comma 1, d.l. n. 50 del 2017 estende alle Srl PMI le deroghe al diritto societario di cui ai commi 2, 3, 5 e 6 dell’art. 26 del d.l. n. 179 del 2012, n. 179, previste per le start-up innovative, senza tuttavia fornire alcuna definizione di PMI.In una fase di prima applicazione di tale disciplina si era, conseguentemente, ipotizzata la necessità di ricorrere alla definizione di PMI quale desumibile dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 6 maggio 2003 relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese (Racc. 2003/361/CE)71.Ciò in quanto tale nozione è stata a sua volta recepita nella legislazione italiana dal Regolamento CONSOB di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la disciplina degli emittenti, secondo cui “piccole e medie imprese” sono, appunto, le società che in base al loro più recente bilancio annuale o consolidato soddisfano almeno due dei tre criteri seguenti: 1) numero medio di dipendenti nel corso dell’esercizio inferiore a 250; 2) totale dello stato patrimoniale non superiore a 43 milioni di euro; 3) fatturato annuo netto non superiore a 50 milioni di euro.Si tratta di un ambito soggettivo estremamente ampio, riferibile alla stragrande maggioranza delle Srl attualmente esistenti.Nel d.lgs. n. 129 del 2017, il legislatore si preoccupa di definire l’ambito di applicazione mediante una serie di modifiche al TUF (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) che, da un lato confermano l’utilizzabilità della nozione desumibile dalla Racc. 2003/361/CE, e, dall’altro lato, ampliano, con ulteriori criteri, il concetto di PMI.Le disposizioni del d.lgs. n. 129 del 2017 riguardano le Srl qualificabili come PMI, le cui caratteristiche sono individuate dall’art. 1, lett. dd), che sostituisce il comma 5-novies dell’art. 1 TUF con il seguente: «5-novies. Per “portale per la raccolta di capitali per le piccole e medie imprese e per le imprese sociali” si intende una piattaforma on line che abbia come finalità esclusiva la facilitazione

71 Si considera impresa ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica. In particolare sono considerate tali le entità che esercitano un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitino un’attività economica (art. 1). La categoria delle microimprese delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) – definita dall’art. 2 – è costituita da imprese che occupano

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della raccolta di capitale di rischio da parte delle piccole e medie imprese, come definite dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera (f), primo alinea, del regolamento (UE) 2017/1129, delle imprese sociali e degli organismi di investimento collettivo del risparmio o di altre società che investono prevalentemente in piccole e medie imprese».Per la nozione di piccola e media impresa, l’art. 2 paragrafo 1, lettera (f), primo alinea, del regolamento (UE) 2017/1129, detta due parametri alternativi: «i) società che in base al loro più recente bilancio annuale o consolidato soddisfino almeno due dei tre criteri seguenti: numero medio di dipendenti nel corso dell’esercizio inferiore a 250, totale dello stato patrimoniale non superiore a 43 000 000 EUR e fatturato netto annuale non superiore a 50 000 000 EUR; oppure ii) piccole e medie imprese quali definite all’articolo 4, paragrafo 1, punto 13, della direttiva 2014/65/UE».Il primo parametro è lo stesso già individuato dalla Racc. 2003/361/CE.Il secondo rinvia, invece, ai criteri fissati dalla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 15 maggio 2014, n. 2014/65/UE, della quale peraltro il decreto legislativo 129/2017 costituisce attuazione, e che al n. 13 dell’art. 4, definisce “piccola o media impresa” «un’impresa che ha una capitalizzazione di borsa media inferiore a 200.000.000 EUR sulla base delle quotazioni di fine anno dei tre precedenti anni civili».Sebbene tale ultima definizione risulti poco idonea a un inquadramento, in tale ambito, delle Srl attualmente esistenti, la nozione di PMI contenuta nel regolamento (UE) 2017/1129 utilizza dei parametri – gli stessi della Racc. 2003/361/CE – quali il numero dei dipendenti, la consistenza patrimoniale e il

meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. All’interno delle PMI, dunque, si distinguono la piccola impresa, cioè l’impresa che occupa meno di 50 persone e realizza un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di euro, e la microimpresa, cioè l’impresa che occupa meno di 10 persone e realizza un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro; la media impresa si individua in via residuale ed è quella che si colloca al di sopra delle soglie della micro e della piccola impresa ma entro i 250 occupati, i 50 milioni di fatturato annuo e i 43 milioni di totale di bilancio annuo. Per tale interpretazione, v. D. BOGGIALI – A. PAOLINI – A. RUOTOLO, Le novità in tema di PMI in forma di Srl nella Manovra-bis (art. 57, d.l. 24 aprile 2017, n. 50), Segnalazione novità normative, in CNN Notizie del 27 aprile 2017. Nello stesso senso l’Orientamento del Comitato triveneto dei Notai I.N.1 – (Definizione di Srl-PMI – 1° pubbl. 9/18), secondo cui «Per la definizione di Srl – PMI occorre far riferimento alla raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE, allegato 1, sia per quanto riguarda le caratteristiche oggettive sia per quanto riguarda i criteri di accertamento di tali caratteristiche».

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fatturato, che sono concretamente riferibili a qualunque tipologia sociale72.Dunque, in definitiva, agli effetti dell’applicabilità delle deroghe al diritto comune concesse nell’art. 26, commi 2, 3, 5 e 6 del d.l. n. 179 del 2012 è qualificabile come PMI la società a responsabilità limitata che in base al suo più recente bilancio annuale o consolidato soddisfi almeno due dei tre criteri seguenti: 1) numero medio di dipendenti nel corso dell’esercizio inferiore a 250; 2) totale dello stato patrimoniale non superiore a 43 milioni di euro; 3) fatturato annuo netto non superiore a 50 milioni di euro.Peraltro, tale qualificazione come PMI sembra poter interessare tanto una società già esistente, la quale potrà così adottare le relative modifiche, quanto una società di nuova costituzione che per definizione è priva di due dei tre parametri di riferimento (dipendenti e fatturato), per una collocazione al di fuori dell’ambito delle PMI.Occorre, altresì, considerare che i parametri richiamati per l’individuazione della categoria delle PMI hanno natura economica, il che potrebbe rendere difficile la valutazione in ordine alla sussistenza degli stessi da parte del notaio chiamato ai sensi dell’art. 2436, c.c., ad effettuare il controllo di iscrivibilità delle deliberazioni importanti le modifiche volte a recepire le deroghe al codice civile consentite alle PMI.Se, da un lato, la sussistenza di tali parametri non è ricavabile da alcuna iscrizione del Registro delle imprese, dall’altro lato appaiono decisive le informazioni contenute nel bilancio d’esercizio, nel quale il fatturato annuo è riportato alla lettera A1 del conto economico, il totale dell’attivo patrimoniale dopo i “Ratei e risconti” dello stato patrimoniale e, infine, il numero medio dei dipendenti al n. 15 della nota integrativa, salvo ricorrere a una dichiarazione del consulente del lavoro.Poiché detto accertamento è essenziale ai fini della sussistenza della qualifica di PMI, si è suggerita l’opportunità, sul piano operativo, di una dichiarazione di parte – eventualmente nella forma della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà – pur sempre accompagnata da un riscontro da parte del notaio della sussistenza di detti requisiti, rilevandosi come «Sul piano redazionale, l’affermazione del Presidente dell’assemblea con cui si dichiara la ricorrenza dei

72 Sulla difficoltà di individuare un collegamento tra lo scopo del d.lgs. n. 129 del 2017 che, reca l’attuazione della direttiva n. 2014/65/UE, e la modifica del regime di circolazione delle quote di partecipazione delle Srl PMI che attuata con le modifiche all’art. 100-ter TUF, si rinvia a M. MALTONI – A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, cit., 328.

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presupposti che consentono di qualificare la società come PMI dovrebbe, quindi, esser accompagnata dall’autonoma verifica da parte del notaio della ricorrenza dei suddetti requisiti mediante le risultanze del bilancio di esercizio»73.

5.2. Lo statuto delle PMI

La principale caratteristica delle Srl PMI consiste, come in precedenza rilevato, nell’estensione a quest’ultime di alcune delle deroghe al diritto societario originariamente sancite per le sole start-up innovative, sostituendo le parole “start-up innovative” e “start-up innovativa” con l’espressione “PMI”74.L’attuale disciplina contenuta nei commi 2 e 3 dell’art. 26 d.l. n. 179 del 2012 consente alle Srl PMI di creare categorie di quote («L’atto costitutivo della PMI costituita in forma di società a responsabilità limitata può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo, del codice civile»), anche prive del diritto di voto o con voto non proporzionale, oltre alla possibilità di prevedere diritti particolari con voto non proporzionale alla partecipazione o condizionato («L’atto costitutivo della società di cui al comma 2, anche in deroga all’articolo 2479, quinto comma, del codice civile, può creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative»).Per ciò che concerne le Srl ordinarie, la dottrina largamente maggioritaria ha sempre ritenuto che la disciplina del codice civile escludesse l’ammissibilità della creazione di “categorie di quote”, anche sulla scorta della relazione al d.lgs. n. 6/2003, e tenuto altresì conto del fatto che a tal fine la “categoria” non sembra possa esser legittimata dal tenore del comma 3 dell’art. 2468 c.c. – relativo ai particolari diritti – che, riferendosi ai “singoli soci” esprime

73 M. MALTONI – A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, cit., 330.74 Per alcune considerazioni sull’impatto sistematico di tali norme sulla disciplina del tipo Srl, M. MALTONI, La Srl start-up innovativa, in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, cit., 193 ss.; A. PAOLINI, Della Srl – start-up innovativa (ovvero della Srl transtipica), cit., 199 ss.; L. DE ANGELIS, La Srl cent’anni dopo, una società à la carte, in Soc., 2018, 684 ss.; R. DESANA, L’impresa fra tradizioni e innovazioni, Torino, 2018, 166 ss.; C.A. BUSI, Applicabili

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l’accentuazione in senso personalistico della partecipazione sociale e, quindi, la sua soggettivizzazione75.In particolare, la categorizzazione in quote unitarie del rapporto sociale si differenzia dall’attribuzione di “diritti particolari” a “singoli soci”, in quanto, mentre nel caso di categorie di quote, si diversificano le prerogative e/o gli oneri delle partecipazioni indipendentemente dall’identità del socio cui sono ascritte, nel caso dei diritti particolari, la diversificazione attiene, invece, al singolo socio specificamente individuato.Il comma 2 dell’art. 26 d.l. n. 179 del 2012 sovverte, dunque, la regola della inammissibilità di “categorie di quote”, inizialmente per le sole Srl start-up innovative, ma successivamente per tutte le PMI Srl e, quindi, per la stragrande maggioranza delle società a responsabilità limitata.Quanto al contenuto delle categorie di quote, queste possono attribuire “diritti diversi” riguardanti, ad esempio, gli utili, la postergazione nelle perdite, il diritto di sottoscrizione, l’ampliamento della facoltà di recesso, i diritti amministrativi diversi dal voto, la circolazione della partecipazione, purché sia rispettato il divieto del patto leonino e purché non siano eliminate cause inderogabili di recesso76.

nelle Srl molte norme delle SpA: le regole nei nuovi atti costitutivi, in Soc., contr., bil. e rev., 2018, 1, 6 ss.; N. ABRIANI, Struttura finanziaria, assetti proprietari e assetti organizzativi della società a responsabilità limitata PMI “Que reste-t-il della Srl”?, relazione al Convegno dell’Associazione “Orizzonti del Diritto Commerciale”, Roma, 23 – 24 febbraio 2018.75 M. MALTONI, La partecipazione sociale, in C. CACCAVALE – F. MAGLIULO – M. MALTONI – F. TASSINARI, La riforma della società a responsabilità limitata, cit., 173 ss.; F. GUERRERA, Le modificazioni dell’atto costitutivo – Profili generali, in IBBA – MARASÀ (diretto da), Trattato delle Srl, vol. IV, Padova, 2008.76 P. TALICE, Le quote di categoria di Srl-PMI come strumento idoneo a soddisfare interessi diversi dalla raccolta di capitali, in Soc., contr., bil. rev., 2018, 10, 11 ss.; C.A. BUSI, Le categorie di quote e i diritti amministrativi diversi dal diritto di voto, in Soc., contr., bil. rev., 2019, 12,20 ss. La Massima del Consiglio Notarile di Milano n. 173, Contenuto dei diritti diversi delle categorie di quote di Srl PMI (art. 26, commi 2 e 3, d.l. n. 179 del 2012) dispone quanto segue: «Nella determinazione del contenuto delle quote di categoria delle Srl PMI, ossia nella determinazione dei “diritti diversi” ad esse attribuiti, l’autonomia statutaria incontra sia i limiti generali desumibili dal sistema del diritto societario (quale ad esempio il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., che impedisce di configurare una categoria di quote del tutto prive del diritto agli utili o della partecipazione alle perdite) sia i limiti stabiliti dalla legge in materia di Srl (quale ad esempio il necessario diritto di recesso al verificarsi di una delle cause inderogabili previste dall’art. 2473 c.c.). I diritti diversi che connotano una categoria di quote possono avere ad oggetto la circolazione delle quote, tanto nel senso di attribuire solo a una categoria di quote il diritto previsto da una clausola limitativa della circolazione delle altre partecipazioni sociali (quale ad esempio il diritto di esercitare la prelazione in caso di alienazione di una di esse o il

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Meno “eversiva” – se non per il riferimento, anche qui, alla “categoria di quote” – appare invece la previsione di cui al comma 3, posto che la dottrina e la prassi notarile sono prevalentemente favorevoli alla derogabilità del principio di proporzionalità del diritto di voto di cui all’art. 2479, comma 5, c.c., che costituiva l’ostacolo principale alla ammissibilità di un diritto particolare di voto più (o meno) che proporzionale alla partecipazione77.Tanto il comma 2, quanto il comma 3 dell’art. 26, d.l. n. 179 del 2012, determinano un avvicinamento della disciplina delle Srl PMI a quella delle società per azioni.Da un lato, infatti, il comma 2 sembra evocare il disposto dell’art. 2348, comma 2, c.c., che prevede la creazione di «categorie di azioni fornite di diritti diversi … In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie».Dall’altro lato, il comma 3 sembra richiamare quanto disposto dal comma 2 dell’art. 2351 c.c., secondo cui «o statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente

diritto di esprimere il gradimento), quanto nel senso di assoggettare solo una categoria di quote agli obblighi, oneri o soggezioni derivanti da tali clausole (come può ad esempio accadere qualora lo statuto preveda solo per una categoria di quote l’obbligo di concedere la prelazione ai titolari di un’altra categoria di quote o ad altri soci singolarmente individuati o il divieto di alienazione in mancanza di gradimento o la soggezione al diritto di riscatto spettante a un’altra categoria di quote o ad altri soci singolarmente individuati)». In base alla Massima del Consiglio Notarile di Milano n. 175, Categorie di quote con diritto di opzione limitato o escluso nelle Srl PMI (art. 26, comma 2, d.l. n. 179 del 2012; artt. 2481-bis, 2481-ter, 2473 c.c.), «I “diritti diversi” che contraddistinguono le categorie di quote nelle Srl PMI possono consistere, anche o soltanto, nella limitazione o eliminazione di diritti del socio non insopprimibili per disposizione imperativa di legge o inderogabile inerenza al tipo. Una categoria di quote nelle Srl PMI può pertanto essere contraddistinta dalla limitazione o dall’assenza del diritto di sottoscrizione di aumenti di capitale a pagamento, salva l’osservanza dell’art. 2482-ter c.c. È insopprimibile il diritto di recesso del socio titolare di quote contraddistinte dalla limitazione o dall’assenza del diritto di sottoscrizione in caso di aumento di capitale a pagamento non offerto proporzionalmente a tale socio». Nello stesso senso l’Orientamento del Comitato triveneto dei Notai I.N.2. – (I diversi diritti attribuibili alle categorie di quote nelle Srl-PMI – 1° pubbl. 9/18), per il quale «In assenza di specifiche previsioni di legge si deve ritenere che i diritti diversi caratterizzanti le categorie di quote nelle Srl-PMI possano essere liberamente determinati nell’atto costitutivo, rispettando unicamente i limiti previsti dall’art. 2265 c.c., in analogia con quanto previsto dall’art. 2348 c.c. per le categorie di azioni».77 V., sul punto, la Massima della Commissione società del Consiglio Notarile di Milano, n. 138. Voto non proporzionale nelle Srl (art. 2479, comma 5, c.c.) del 13 maggio 2014; R. GUGLIELMO – M. SILVA, I diritti particolari del socio. Ambito oggettivo di applicazione e fattispecie, Studio n. 242-2011/I, in Studi e materiali, 2012, 91 ss.

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potestative», e del comma 3, per il quale «lo statuto può altresì prevedere che, in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato a una misura massima o disporne scaglionamenti» e, infine, del comma 4, laddove si prevede che «lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative».L’evidente affinità della disciplina azionaria con le deroghe al diritto societario previste per le Srl PMI ha sollevato il dubbio se operino per tale categoria di società anche i limiti dettati in materia azionaria, stante il richiamo testuale, contenuto nell’art. 26, d.l. n. 179 del 2012, ai «limiti imposti dalla legge»78.In particolare, la questione si pone per l’eventuale estensione del limite di cui al comma 2 dell’art. 2351, c.c., per il quale il valore delle azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti o con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative, non può complessivamente superare la metà del capitale sociale e la cui ratio viene rinvenuta tradizionalmente nell’esigenza di assicurare il governo della società, attraverso il voto nell’assemblea, solo a chi sia titolare di una frazione significativa del capitale sociale, evitando così un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di soci con azioni voto pieno che rappresentino una frazione non significativa del capitale sociale79.

78 M. MALTONI – A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, cit., 334.79 M. BIONE, Le azioni, in Tratt. Colombo – Portale, 2,*, Torino, 1994, 56. Sulla questione, O. CAGNASSO, Il socio di Srl privo del diritto di voto. Qualche riflessione in tema di proprietà e controllo nell’ambito delle società PMI, in Il nuovo dir. soc., 2018, 915 ss.; P. BENAZZO, Categorie di quote, diritto di voto e governance della “nuovissima” Srl: quale ruolo e quale spazio per la disciplina azionaria nella Srl – PMI aperta?, in Riv. soc., 2018, 1441. Ritiene applicabile alle Srl PMI il limite di cui all’art. 2351, comma 2, c.c., M. SPERANZIN, Piccole-medie imprese tra autonomia statutaria e ibridazione dei tipi (con particolare riferimento alle partecipazioni prive del diritto di voto), in Riv. soc., 2018, 345 ss., spec. 356. Escludono, invece, l’applicabilità del predetto limite S. GUIZZARDI, L’impresa start-up innovativa costituita in forma di Srl, in Giur. comm., 2016, I, 569; M. CIAN, Srl PMI, Srl, SpA: schemi argomentativi per una ricostruzione del sistema, in Riv. soc., 2018, 855; P. TALICE, Le quote di categoria di srl-pmi come strumento idoneo a soddisfare interessi diversi dalla raccolta di capitali, cit., 12; C.A. BUSI, Le categorie di quote e i diritti del socio con particolare riferimento al diritto di voto in assemblea, in Soc., contr., bil. rev., 2019, 1, 16. In tal senso risulta orientata la prassi notarile: così l’Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai I.N.3 – (Assenza di limiti quantitativi nella creazione di categorie di quote a voto limitato nelle Srl-PMI – 1° pubbl. 9/18), secondo cui «Nel dettare la norma che ammette le categorie di quote a voto limitato nelle Srl-PMI (art. 26, comma 3, del d.l. n. 179 del 2012) il legislatore ha sostanzialmente riprodotto per intero la analoga disposizione contenuta nell’art. 2351, comma 2, c.c. in materia di SpA, fatta

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Il problema vale, altresì, per l’ipotesi che, una volta scelta la via della categorizzazione delle quote, questa possa riguardare l’intero capitale e se, quindi, questo possa essere interamente rappresentato da categorie di quote.In dottrina v’è chi ha affermato come la categorizzazione delle quote, nelle Srl PMI, possa esser solo parziale80, il che potrebbe esser coerente proprio con l’applicazione per analogia del limite del comma 2 dell’art. 2351, c.c.E, tuttavia, non si vede perché, anche ove si acceda alla tesi restrittiva che ritiene applicabile il predetto limite, una volta che questo sia stato rispettato con riferimento alle quote prive di diritto di voto o con voto limitato, la restante parte del capitale non possa esser rappresentato da categorie di partecipazione con caratteristiche diverse da quelle del comma 2 dell’art. 26. In senso opposto si è rilevato come non sembra vi siano ostacoli per scelte dell’autonomia statutaria che scompongano in unità omogenee di partecipazione – poi suscettibili di essere “categorizzate” – solo una parte del rapporto sociale.Ciò, ad esempio, potrebbe esser effetto di un’operazione di aumento del capitale nominale a pagamento, che lascerebbe intatte le quote preesistenti ragguagliate alle persone (sempre “quote” in quanto misure – espresse in termini monetari, frazionari o percentuali – della partecipazione di ciascun socio all’intero rapporto)81.Il comma 6 dell’art. 26 d.l. n. 179 del 2012 esenta, nella sua attuale formulazione, le PMI costituite in forma di società a responsabilità limitata dal divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’art. 2474 c.c., a condizione che l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori

eccezione per il limite quantitativo del 50% previsto dall’ultimo periodo di detto comma. Tale mancata riproduzione porta a ritenere che le Srl-PMI possano creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto, o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta, ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative, in misura anche eccedente il 50% del totale delle partecipazioni».80 N. ABRIANI, Strumenti finanziari partecipativi e categorie di quote nelle Srl start-up innovative PMI, relazione al Convegno organizzato dal Consiglio Notarile di Milano e dalla Scuola di Notariato della Lombardia, Strumenti finanziari partecipativi e operazioni sul capitale: prassi societaria e orientamenti interpretativi, Milano, 10 novembre 2017; P. BENAZZO, Start-up e PMI innovative, cit., 479.81 M. MALTONI, La Srl start-up innovativa, in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2014, 1, 195, ss.; in senso contrario, A. GUACCERO, La start-up innovativa in forma di società a responsabilità limitata: raccolta del capitale di rischio ed equity crowdfunding, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, I, Milano, 263.

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o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali.Anche in tal caso si tratta di norma che nelle SpA trova il proprio corrispondente nell’art. 2358, comma 8, che esclude l’applicabilità della disciplina delle operazioni sulle proprie azioni quando queste siano effettuate per favorire l’acquisto di azioni da parte di dipendenti della società o di quelli di società controllanti o controllate.Poiché la facoltà di operare sulle proprie partecipazioni è consentita laddove ricorra lo scopo di incentivare l’acquisto da parte dei collaboratori dell’impresa, sembra doversi escludere la possibilità di avvalersi della disciplina dettata per le SpA tanto dall’art. 2357 c.c., che consente genericamente l’acquisto di partecipazioni proprie nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato, quanto dall’art. 2357-bis c.c., sui casi speciali di acquisto delle proprie partecipazioni.Peraltro, in un’ottica volta ad evitare fenomeni di annacquamento del capitale, congeniti in tali operazioni, in dottrina si è ritenuto applicabile il comma 6 dell’art. 2358 c.c., che limita l’importo complessivo delle quote proprie acquistate e delle somme o delle garanzie prestate agli utili distribuibili e alle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato e impone la costituzione di una riserva indisponibile di pari ammontare82.Non v’è, infine, alcuna disciplina in ordine all’eventuale presenza di assemblee speciali dei titolari di categorie di quote, secondo il modello delineato dall’art. 2376 c.c. per i possessori delle diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi.Sul punto si ritiene che se, da un lato, l’atto costitutivo possa espressamente disciplinare tale evenienza, prevedendo la necessità dell’approvazione dell’assemblea speciale delle decisioni lesive dei diritti dei possessori delle particolari categorie di quote83, dall’altro lato si tende ad escludere che, in

82 Così, M. MALTONI, La Srl start-up innovativa, cit., 197.83 Così l’Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai I.N.11 – (Assemblee speciali in presenza di quote di categoria – 1° pubbl. 9/18), secondo cui «Stante la mancanza di una disciplina legale espressa sul punto è opportuno che lo statuto di Srl-PMI disciplini il procedimento decisionale che consente di adottare le delibere che pregiudicano i diritti dei titolari di una determinata categoria di quote di partecipazione. Sotto questo profilo si reputa legittima la clausola statutaria che dispone che tali decisioni, per essere valide, debbano essere approvate, oltre che dall’assemblea generale dei soci, anche da una determinata maggioranza dei titolari delle quote della categoria pregiudicata, mediante adozione di una loro specifica deliberazione collegiale ai sensi dell’art. 2479-bis c.c., con riconoscimento del diritto di recesso per i soci dissenzienti pregiudicati da tali decisioni. Si reputa altresì legittima la clausola dello statuto che richiede il consenso unanime dei

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assenza di apposita clausola statutaria, possa applicarsi alle Srl la disciplina di cui all’art. 2376 c.c.84

Deve, infine, tenersi presente che l’emissione di particolari categorie di quote non esclude la possibilità di riconoscere, nell’ambito della stessa società, diritti particolari ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c.85

5.3. Il trasferimento delle quote delle Srl PMI attraverso i portali per la raccolta di capitali

In deroga al regime di circolazione delle partecipazioni previsto ordinariamente dall’art. 2470 c.c. (atto con sottoscrizioni autenticate da un notaio) e dall’art. 36 comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 (atto sottoscritto con firma digitale e iscritto nel Registro delle imprese attraverso l’intervento di

titolari delle quote di una determinata categoria per adottare decisioni che pregiudichino i loro diritti.84 A. CAPIZZI, Operazioni straordinarie e tutela degli investitori tra rimedi compensativi e rimedi ostativi, Torino, 2018, 105; O. CAGNASSO, Profili organizzativi e disciplina applicabile alle Srl e PMI, in Società a responsabilità limitata, piccola e media impresa, mercati finanziari: un mondo nuovo?, Milano, 2020, 71, secondo cui in tal caso le delibere pregiudizievoli dei diritti di categoria necessiterebbero del consenso di ciascun socio appartenente alla stessa. In senso contrario la Massima del Consiglio notarile di Milano n. 177, Assemblee speciali dei titolari di categorie di quote di Srl PMI (art. 26, comma 2, d.l. 179/2012; art. 2376 c.c.), che in assenza di apposita previsione statutaria ritiene applicabile l’art. 2376 c.c.85 Così, N. ABRIANI, Quote, categorie di quote e strumenti finanziari delle Srl PMI: possibilità di razionalizzazione del sistema?, in Società a responsabilità limitata, piccola e media impresa, mercati finanziari: un mondo nuovo?, cit., 92 e 96, ove si riporta il caso di Srl nella quale si attribuisce al socio “proprietario” il diritto particolare di nominare la maggioranza o la totalità degli amministratori indipendentemente dall’ammontare della partecipazione, mentre la parte rimanente del capitale risulta frazionata in quote ordinarie e seriali collocabili su portali on line. Nello stesso senso, C.A. BUSI, La nuova Srl PMI alla luce dei recenti orientamenti notarili, in Soc., contr., bil. rev., 7/8/2019, 10, il quale ritiene che lo stesso socio possa essere titolare di una quota ordinaria e, contemporaneamente, di una quota speciale; Massima del Consiglio Notarile di Milano n. 171, Nozione di categorie di quote di Srl PMI (art. 26, comma 2, d.l. n. 179 del 2012; art. 2468 c.c.) secondo cui «Le quote di categoria possono appartenere a uno o più soci e possono coesistere sia con la presenza di partecipazioni individuali sia con la presenza di altre categorie di quote. Il medesimo soggetto può essere contemporaneamente titolare di una partecipazione individuale e di una o più quote di una o più categorie. La presenza di categorie di quote non impedisce alla società di attribuire diritti particolari a uno o più soci, ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c., tanto nell’ipotesi in cui essi siano titolari di una partecipazione individuale quanto nell’ipotesi in cui essi siano titolari solamente di quote di categoria».

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intermediari autorizzati), le quote di partecipazione in piccole e medie imprese costituite in forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali, nei limiti previsti dal presente decreto (così l’art. 100-ter, comma 2, TUF).La norma si pone in relazione con la facoltà, prevista dall’art. 26, comma 5, d.l. n. 179 del 2012, che, in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma 1, c.c., le quote di partecipazione in PMI costituite in forma di Srl possano costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali di cui all’articolo 30 del d.l. n. 179 del 2012, nei limiti previsti dalle leggi speciali.Tale regime di dematerializzazione, già in passato previsto per le sole Srl start-up innovative e PMI innovative, era stato, peraltro, precedentemente esteso anche alle imprese sociali dal comma 8 dell’art. 18 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112, recante Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2 (recte: art. 1), comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 10686.Il comma 2-bis dell’art. 100-ter TUF estende, poi, a tutte le PMI Srl il regime di dematerializzazione ivi previsto prevedendo quanto segue: «2-bis. In alternativa a quanto stabilito dall’articolo 2470, secondo comma, del codice civile e dall’articolo 36, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, per la sottoscrizione e per la successiva alienazione di quote rappresentative del capitale di piccole e medie imprese e di imprese sociali costituite in forma di società a responsabilità limitata:a) la sottoscrizione può essere effettuata per il tramite di intermediari abilitati alla prestazione di uno o più dei servizi di investimento previsti dall’articolo 1, comma 5, lettere a), b), c), c-bis), ed e); gli intermediari abilitati effettuano la sottoscrizione delle quote in nome proprio e per conto dei sottoscrittori o degli acquirenti che abbiano aderito all’offerta tramite portale;b) entro i trenta giorni successivi alla chiusura dell’offerta, gli intermediari abilitati depositano al Registro delle imprese una certificazione attestante la loro titolarità di soci per conto di terzi, sopportandone il relativo costo; a tale fine, le condizioni di adesione pubblicate nel portale devono espressamente prevedere che l’adesione all’offerta, in caso di buon fine della stessa e qualora l’investitore

86 Su tale provvedimento, v. A. RUOTOLO – F. BOLOGNESI, La nuova disciplina dell’impresa sociale, in CNN Notizie del 24 luglio 2017.

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decida di avvalersi del regime alternativo di cui al presente comma, comporta il contestuale e obbligatorio conferimento di mandato agli intermediari incaricati affinché i medesimi:1) effettuino l’intestazione delle quote in nome proprio e per conto dei sottoscrittori, tenendo adeguata evidenza dell’identità degli stessi e delle quote possedute;2) rilascino, a richiesta del sottoscrittore o del successivo acquirente, una certificazione comprovante la titolarità delle quote; tale certificazione ha natura di puro titolo di legittimazione per l’esercizio dei diritti sociali, è nominativamente riferita al sottoscrittore, non è trasferibile, neppure in via temporanea né a qualsiasi titolo, a terzi e non costituisce valido strumento per il trasferimento della proprietà delle quote;3) consentano ai sottoscrittori che ne facciano richiesta di alienare le quote secondo quanto previsto alla lettera c) del presente comma;4) accordino ai sottoscrittori e ai successivi acquirenti la facoltà di richiedere, in ogni momento, l’intestazione diretta a se stessi delle quote di loro pertinenza;c) l’alienazione delle quote da parte di un sottoscrittore o del successivo acquirente avviene mediante semplice annotazione del trasferimento nei registri tenuti dall’intermediario; la scritturazione e il trasferimento non comportano costi o oneri né per l’acquirente né per l’alienante; la successiva certificazione effettuata dall’intermediario, ai fini dell’esercizio dei diritti sociali, sostituisce ed esaurisce le formalità di cui all’articolo 2470, secondo comma, del codice civile».Il successivo comma 2-ter dell’art. 100-ter TUF prevede, poi, che «2-ter. Il regime alternativo di trasferimento delle quote di cui al comma 2-bis deve essere chiaramente indicato nel portale, ove sono altresì predisposte apposite idonee modalità per consentire all’investitore di esercitare l’opzione ovvero indicare l’intenzione di applicare il regime ordinario di cui all’articolo 2470, secondo comma, del codice civile e all’articolo 36, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni».Infine, il comma 2-quater della medesima norma dispone che: «2-quater. L’esecuzione di sottoscrizioni, acquisti e alienazioni di strumenti finanziari emessi da piccole e medie imprese e da imprese sociali ovvero di quote rappresentative del capitale delle medesime, effettuati secondo le modalità previste alle lettere b) e c) del comma 2-bis del presente articolo, non necessita della stipulazione di un contratto scritto. Ogni corrispettivo, spesa o onere gravante sul sottoscrittore, acquirente o alienante deve essere indicato nel portale dell’offerta, con separata e chiara evidenziazione delle condizioni praticate da ciascuno degli intermediari

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coinvolti, nonché in apposita sezione del sito internet di ciascun intermediario. In difetto, nulla è dovuto agli intermediari»87.Occorre, innanzitutto, precisare che il collocamento di quote di Srl PMI tramite portali non presuppone necessariamente che oggetto di negoziazione siano particolari categorie di quote, potendosi, invece, ricorrere a tale forma di circolazione anche per le quote “ordinarie” della Srl PMI88.Il procedimento alternativo di sottoscrizione e trasferimento delle quote emesse PMI in forma di Srl coinvolge gli intermediari abilitati all’esercizio dell’attività di negoziazione per conto proprio, esecuzione ordini dei clienti e ricezione e trasmissione ordini e consente che siano gli intermediari stessi a procedere alla sottoscrizione e all’acquisto delle quote in nome proprio ma per conto dei sottoscrittori89, rinviando al termine della campagna di crowdfunding l’iscrizione nel Registro delle imprese90. Si introduce, quindi, un sistema di circolazione – in maniera del tutto dematerializzata – virtuale delle partecipazioni, che possono circolare ed essere oggetto di sottoscrizione e successivi trasferimenti sulla base di annotazioni presso i registri tenuti dall’intermediario, che rilascia, medio tempore, al socio, al sottoscrittore o all’acquirente un documento di legittimazione per l’esercizio dei diritti sociali. La certificazione comprovante la titolarità delle quote ha natura di puro titolo di legittimazione per l’esercizio dei diritti sociali, è nominativamente riferita al sottoscrittore, non è trasferibile, neppure in via temporanea né a qualsiasi titolo, a terzi e non costituisce valido strumento per il trasferimento della proprietà delle quote (art. 100-ter, comma 2-bis, lett. b), n. 2)).

87 Per una disamina generale di tale disciplina, v. N. CIOCCA, Il finanziamento delle PMI e la disciplina dell’equity-based crowdfunding, in Start-up e PMI innovative: scelte statutarie e finanziamento. Atti del Convegno di Studi tenutosi a Cagliari, 15 giugno 2018, cit., 125 ss.88 In tal senso, M. CIAN, L’intestazione intermediata delle quote di Srl PMI: rapporto societario e regime della circolazione, in Società a responsabilità limitata, piccola e media impresa, mercati finanziari: un mondo nuovo?, cit., 116.89 A tale riguardo, non sfugge alla dottrina la questione se le quote appartengano fiduciariamente all’intermediario e si confondano nel suo patrimonio, se invece costituiscano un patrimonio separato o se, ancora, appartengono ai soci e acquirenti: M. CIAN, Le società start-up innovative e PMI innovative, in Giur. comm., 2015, I, 982.90 Così S. GUIZZARDI, La Srl innovativa, in M. BIONE – R. GUIDOTTI – E. PEDERZINI, La nuova società a responsabilità limitata, appendice di aggiornamento, Milano, 2017, 83, la quale, in nt. 50, sottolinea come tali modalità di circolazione abbiano soprattutto la finalità di semplificare il momento del disinvestimento, prevedendo un metodo meno costoso e più immediato per l’alienazione di quote acquisite, che coinvolge l’intermediario nella fase di exit del socio investitore, accompagnando questo fino al momento del disinvestimento, e rendendo in tal modo più semplice anche il momento dell’uscita dalla società.

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In ogni caso, ai sottoscrittori e ai successivi acquirenti deve esser riconosciuta la facoltà di richiedere, in ogni momento, l’intestazione diretta a sé stessi delle quote di loro pertinenza.Pertanto, l’intermediario ha l’onere di regolare definitivamente l’ordine, indicando il sottoscrittore e/o l’acquirente finale nel Registro delle imprese una sola volta91.Il tutto, dunque, si fonda sul mandato per l’acquisto, la sottoscrizione e la successiva alienazione, conferito all’intermediario, che dovrà adoperarsi con la diligenza richiesta dalla legge e, in particolare, con applicabilità della disciplina codicistica di cui agli artt. 1703 e ss.92

Sino a che non si procede all’intestazione diretta al sottoscrittore o all’acquirente, le modalità di circolazione della partecipazione si connotano per una totale deroga al regime codicistico. Infatti, «l’alienazione delle quote da parte di un sottoscrittore o del successivo acquirente avviene mediante semplice annotazione del trasferimento nei registri tenuti dall’intermediario; la scritturazione e il trasferimento non comportano costi o oneri né per l’acquirente né per l’alienante; la successiva certificazione effettuata dall’intermediario, ai fini dell’esercizio dei diritti sociali, sostituisce ed esaurisce le formalità di cui all’articolo 2470, secondo comma, del codice civile» (art. 100-ter, comma 2-bis, lett. c)).A tale riguardo, la dottrina, già con riferimento alla disciplina introdotta per le start-up e PMI innovative si era interrogata sulla possibilità che l’annotazione della vicenda circolatoria nei registri dell’intermediario, sostituendo il deposito presso il Registro delle imprese, fosse idonea a generare l’effetto protettivo dell’acquirente di buona fede previsto dall’art. 2470, comma 3, c.c., pur essendo tale sistema documentale del tutto privo dei connotati di accessibilità da parte di terzi, che sono propri invece della pubblicità di impresa e che giustificano la produzione di tale effetto93.Più in generale, secondo la dottrina da ultimo citata, l’interrogativo di vertice che pone tale disciplina, se cioè le quote dematerializzate siano sostanzialmente

91 Ancora S. GUIZZARDI, La Srl innovativa, cit., 83.92 ASSONIME, Circolare n. 6 del 22 febbraio 2016 Le imprese innovative, in Riv. not., 2016, 171, spec. 2000, secondo cui, ad esempio, «sarà necessario che il mandante metta a disposizione la provvista necessaria per consentire all’intermediario l’esecuzione del mandato (e quindi sottoscriva ed acquisti le quote di Srl), come richiesto dall’art. 1719 c.c. Il rapporto di mandato degli intermediari per l’acquisto e sottoscrizione di quote di Srl nell’ambito del crowdfunding è quindi assimilabile a quello degli intermediari che prestano i servizi di investimento disciplinati dal Tuf».93 M. CIAN, Le società start-up innovative e PMI innovative, cit., 982.

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attratte al regime di circolazione protetta di cui agli artt. 83-quinquies e ss., TUF, si viene poi a riflettere sulla stessa configurazione tipologica della Srl e della PMI innovative prima e, si potrebbe oggi aggiungere, sulla PMI Srl in generale, stante il regime di legittimazione e circolazione completamente indipendente da quello codicistico.A tal proposito, altra parte della dottrina ha rilevato che «sebbene la novella sembri introdurre una ipotesi di ‘‘dematerializzazione’’ di quote di Srl, il sistema alternativo non può essere assimilato alla gestione accentrata di strumenti finanziari dematerializzati ai sensi degli artt. 83 e seg. TUF», e che, invece, «il sistema alternativo di rappresentazione delle quote appare (invero) assimilabile al sistema statunitense di gestione delle azioni depositate in custodia ed amministrazione presso intermediari», assimilabile a «una ipotesi di intestazione fiduciaria c.d. trasparente»94.Si è, tuttavia, in contrario obiettato che il riconoscimento, in capo all’investitore, della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, da cui ne consegue che l’incarico dell’intermediario sia di mera conservazione e gestione documentale, consente di escludere la possibilità di evocare gli schemi della fiducia e dell’intestazione fiduciaria95.V’è chi, peraltro, mostra perplessità rispetto a questo sistema di gestione del trasferimento delle partecipazioni sociali, definendolo «apparentemente dematerializzato», in quanto se, da un lato, dovrebbe comportare una riduzione degli adempimenti formali in materia di circolazione delle quote di talune tipologie di Srl, dall’altro lato il nuovo ruolo e, soprattutto, le responsabilità degli intermediari potrebbero rendere la semplificazione «più apparente che reale»96.In sostanza, il regime descritto può esser ricondotto a una sorta di intestazione che, anche a non volerla qualificare come fiduciaria, deve essere supportata da un mandato conferito dal sottoscrittore. Ciò si traduce, comunque, in una diversa modalità di accertamento della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali e, più in generale, della titolarità delle quote, non più fondata esclusivamente sulle risultanze del Registro delle imprese.La legittimazione all’esercizio dei diritti sociali da parte del singolo sottoscrittore-

94 Così, N. DE LUCA, Crowdfunding e quote ‘‘dematerializzate’’ di Srl? Prime considerazioni, in Nuove leggi civ. , 2016, 3.95 M. CIAN, L’intestazione intermediata delle quote di Srl PMI: rapporto societario e regime della circolazione, cit., 115.96 In tal senso, O. CAGNASSO, Imprese innovative e nuove fonti di finanziamento, in Giur. it., 2016, 2297.

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mandante avverrà, infatti, sulla base di una certificazione comprovante la titolarità delle quote, che ha natura di mero titolo di legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, nominativamente riferita e non trasferibile, né costituente titolo per il trasferimento delle quote.Ne deriva che «l’evidenza del Registro delle imprese rappresenta solo un indice di legittimazione indiretta all’esercizio dei diritti sociali, ex art. 2470, c.c., nel senso che il socio/titolare effettivo non risulta iscritto, ma la sua legittimazione dipende dalla concorrenza di due elementi:– l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’intermediario;– la consegna (esibizione) della certificazione rilasciata dall’intermediario.La carenza di uno dei due elementi non legittima all’esercizio dei diritti sociali il singolo socio97.Si ritiene, altresì, che non trovino applicazione a tale regime di “dematerializzazione” i principi contenuti nel TUF e nel Reg. Consob – Banca d’Italia del 22 febbraio 2008 recante la disciplina dei servizi di gestione accentrata, se non nella misura in cui questi disciplinino dei meccanismi di legittimazione replicabili rispetto al modello delle quote di Srl98. Infine, il ricorso al regime di dematerializzazione, che ha lo scopo di favorire la creazione di un mercato secondario delle partecipazioni sociali99, non può in ogni caso impedire alla società di conoscere il nome del socio titolare della partecipazione, soprattutto ai fini della riscossione dei conferimenti ancora dovuti, dell’esclusione prevista dall’art. 2473-bis c.c., o dell’attivazione delle procedure di prelazione o gradimento ex art. 2469, comma 2, c.c.Si è, peraltro, sottolineato come l’attuale disciplina non sembri predisporre meccanismi idonei a garantire la reperibilità di tali informazioni, se non a seguito della richiesta, da parte di un acquirente della quota, del rilascio del certificato per la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali100.Inoltre, tale certificazione si limita a garantire l’attuale titolarità della quota,

97 Così, espressamente, M. MALTONI – A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, cit., 342.98 M. CIAN, L’intestazione intermediata delle quote di Srl PMI: rapporto societario e regime della circolazione, cit., 118 s., esclude, ad esempio, l’ammissibilità di una comunicazione dell’emittente ai sensi dell’art. 83-sexies TUF in sostituzione della certificazione prescritta dall’art. 100-ter TUF. 99 N. DE LUCA – S.L. FURNARI – A. GENTILE, Equity crowdfunding, in Dig. civ., Aggiornamento, Torino, 2017, 168; E. FREGONARA, L’equity based crowdfunding: un nuovo modello di finanziamento per le start-up innovative, in Giur. it., 2016, 2297.100 M. CIAN, L’intestazione intermediata delle quote di Srl PMI: rapporto societario e regime della circolazione, cit., 120 ss.

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senza tuttavia consentire una ricostruzione degli eventuali passaggi nel frattempo intervenuti, interferendo, altresì, con il regime di responsabilità dell’alienante per i versamenti ancora dovuti, che ai sensi dell’art. 2742, comma 1, c.c., sussiste per il periodo di tre anni dall’iscrizione nel Registro delle imprese101.

6. Considerazioni conclusive

Come in precedenza rilevato, tanto la Srl semplificata, quanto la Srl con capitale inferiore a 10.000 euro appartengono al tipo sociale della Srl. Le medesime considerazioni valgono anche per le Srl start-up innovative e per le Srl PMI, sebbene dall’analisi della loro disciplina emerga come queste siano caratterizzate da norme che accomunano il loro statuto a quello delle società per azioni.In tutti i casi, i diversi connotati di ciascuna “figura” di società a responsabilità limitata, pur dando luogo all’applicazione di regole differenti, non attengono al modello organizzativo, che rimane pur sempre quello della società a responsabilità limitata, potendosi allora ritenere che non si tratterebbe di “sotto-tipi”, ma di “qualifiche soggettive” da cui deriva l’applicazione di regole diverse limitatamente a taluni ambiti della relativa disciplina102. Ne consegue, quindi, che l’adozione di un capitale pari o superiore a 10.000 euro, così come, per le Srl semplificate, l’adozione di clausole statutarie integrative del modello standard tipizzato, o, per le Srl start-up e PMI, l’adozione di clausole statutarie in deroga al diritto societario, non hanno la natura di trasformazione, bensì di modifica statutaria che non dà luogo a recesso e che dovrà integralmente rispettare le prescrizioni di cui all’art. 2480 c.c.103

101 N. DE LUCA, Crowdfunding e quote ‘‘dematerializzate’’ di Srl? Prime considerazioni, cit., 5.102 Così, U. NOTARI, Le Srl e PMI nel sistema dei modelli societari di diritto italiano, in Società a responsabilità limitata, piccola e media impresa, mercati finanziari: un mondo nuovo?, cit., 26; O. CAGNASSO, Profili organizzativi e disciplina applicabile alle Srl e PMI, in Società a responsabilità limitata, piccola e media impresa, mercati finanziari: un mondo nuovo?, cit., 63; G.A.M. TRIMARCHI, Sub art. 2463, in Comm. Gabrielli, Torino, 2015, 138 ss. M. CIAN, Srl PMI, Srl, SpA: schemi argomentativi per una ricostruzione del sistema, cit., 818 ss., sottolinea come l’eccentricità, rispetto alla Srl “ordinaria”, della Srl PMI che emette categorie di quote e le diffonde tramite portali, sebbene, notevole, non sia tale da collocare tale società al di fuori del modello organizzativo della Srl.103 G. MARASÀ, Considerazioni sulle nuove Srl: Srl semplificate, Srl ordinarie e start-up innovative prima e dopo la l. n. 99 del 2013 di conversione del d.l. n. 76 del 2013, 1093; M. CIAN, Srl, Srl semplificata, Srl a capitale ridotto. Una nuova geometria del sistema o un sistema disarticolato?, cit., 1108; M. MALTONI, La società a responsabilità limitata semplificata e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto: sintesi delle questioni applicative, cit.

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Al contrario, laddove tali società intendano adottare regole organizzative diverse da quelle stabilite per le Srl ordinarie, si applicheranno le regole sulla trasformazione da Srl in altro tipo di società di capitali o in società di persone.Per ciò che concerne, in particolare, la trasformazione in “nuove Srl”, è discusso se anche la società a responsabilità limitata semplificata possa costituire punto d’approdo dell’operazione.Sebbene non manchi chi sostenga la tesi favorevole, l’opinione prevalente è che, rappresentando quella della semplificata una disciplina della fase costitutiva della società, essa non sia replicabile rispetto ad un soggetto già esistente104.Per la società semplificata, infatti, la funzione limitata all’avvio di una “nuova impresa” pare facilmente desumibile da una serie di indici normativi, compresa la riduzione dei costi, che ben si spiega con riguardo a tale fase, sì che laddove la variante Srls funga da modello di approdo certamente l’operazione non godrà delle agevolazioni previste dal d.l. n. 1 del 2012 per la sola fase genetica.In sostanza, si dovrebbe dare il caso di una società già esistente (in ipotesi una Snc) che si trasformi in Srl con capitale inferiore ai 10.000 euro e che adotti “volontariamente” lo statuto standard: in tale ipotesi, appare più corretto qualificare la società risultante dalla trasformazione come Srl ordinaria con capitale inferiore ai 10.000 euro, le cui regole organizzative, per scelta dei soci, siano quelle previste dal d.m. n. 138 del 2012, ma che non potrà in ogni caso fruire delle agevolazioni di cui al d.l. n. 1 del 2012.Ben diverso è, invece, il discorso per la Srl con capitale inferiore ai 10.000 euro, nella quale la divergenza rispetto alla Srl ordinaria attiene esclusivamente all’ammontare del capitale ed al regime dei conferimenti e dei versamenti, nonché alla formazione della riserva legale, poiché per il resto vi è la medesima libertà di definire le regole organizzative negli spazi concessi dal legislatore105.Appare quindi possibile una trasformazione omogenea (progressiva, da società

102; FERRI JR., Prime osservazioni in tema di società a responsabilità limitata semplificata e di società a responsabilità limitata a capitale ridotto, cit., 818; F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 21; F. MAGLIULO, Capitale sociale e operazioni straordinarie nelle nuove Srl, in Soc., contr., bil. rev., 2014, 2, 11.104 F. TASSINARI, “Ne sexies in idem”: la ricerca del legislatore italiano di semplificare la costituzione delle Srl, cit., 21, per il quale la Srls rappresenta soltanto una regola speciale per l’atto di costituzione, che in tale specifico ambito esaurisce la propria portata. Al di fuori della fase costitutiva, l’ordinamento torna a conoscere, del tutto opportunamente, un solo set di norme applicabili a tutte le Srl.105 In tal senso già A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Trasformazione di Snc in Srl a capitale ridotto, Quesito di impresa n. 198-2012/I, in CNN Notizie del 10 aprile 2013.

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di persone, o regressiva, da SpA o Sapa) o eterogenea in società a responsabilità limitata il cui capitale sia fissato in un ammontare inferiore ai 10.000 euro106. Sempre in virtù di tali considerazioni sembra ammissibile che la società a responsabilità limitata con capitale inferiore ai 10.000 euro possa essere l’esito di operazioni di fusione e di scissione (trasformative o meno).In merito, invece, alla possibilità che la società a responsabilità limitata semplificata possa essere l’esito di operazioni di fusione e di scissione (trasformative o meno), appare preferibile una risposta negativa, in considerazione del fatto che, come più volte affermato, quella della semplificata rappresenta una disciplina della fase costitutiva della società difficilmente replicabile rispetto ad un soggetto preesistente.In considerazione della natura modificativa della fusione107 e della scissione108,

106 C.A. BUSI, La controriforma delle Srl e le operazioni straordinarie, cit., 37; G. MARASÀ, Considerazioni sulle nuove Srl: Srl semplificate, Srl ordinarie e start-up innovative prima e dopo la l. n. 99 del 2013 di conversione del d.l. n. 76 del 2013, 1093; G. FERRI JR., Prime osservazioni in tema di società a responsabilità limitata semplificata e di società a responsabilità limitata a capitale ridotto, cit., 815; M. MALTONI, La società a responsabilità limitata semplificata e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto: sintesi delle questioni applicative, cit. 103.107 G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, Torino, 1987, 980 ss.; D. CORAPI, Gli statuti delle società per azioni, Milano, 1971, 306; F. DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1996, 758; C. SANTAGATA, La fusione tra società, Napoli, 1964, 63; F. SALERNO CARDILLO, Fusione delle società: successione universale o modificazione statutaria?, in Vita not., 1987, 472; A. SERRA, La trasformazione e la fusione delle società, in Tratt. Rescigno, 17, Torino, 1985, 336; E. SIMONETTO, Della trasformazione e fusione delle società, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 2498-2510, Bologna-Roma, 1976, 208; G. TANTINI, Trasformazione e fusione delle società, in Tratt. Galgano, VIII, Padova, 1985, 282. Cfr. Cass., sez. un., ord. 8 febbraio 2006, n. 2637, in Riv. not., 2006, 1135 ss. con nota di F. SCALABRINI – G.A.M. TRIMARCHI, Le sezioni unite sulla natura giuridica della fusione: un punto d’arrivo nel dibattito tra teoria e pratica?; in Giust. civ., 2007, 2501 ss., con commento di F. D’ALESSANDRO, Fusioni di società, giudici e dottori; in Corr. giur., 2006, 795, con nota di F. MELONCELLI, Fusione di società e interruzione del processo civile; in Foro it., 2006, I, 1739, con commenti di RORDORF, di PAOLA e di DALFINO; in Società, 2006, 459, con nota di F. DIMUNDO, Effetti processuali della fusione: le Sezioni Unite pongono fine all’interruzione dei processi civili; in Giur. comm., 2007, II, 787, con nota di S. MILANESI, Fusione societaria e processo: l’intervento delle Sezioni Unite; in Dir. fall., 2007, II, 401, con nota di M.M. GAETA, La fusione per incorporazione non è vicenda interruttiva del processo; in Vita not., 2006, 1, 125 con nota di A. MACRÌ PELLIZZERI, Sulla natura della fusione per incorporazione e sugli effetti della stessa sui processi pendenti; in Riv. dir. proc., 2007, 177, con note di RICCI, Gli effetti della fusione di società sul processo pendente, e di C. CONSOLO, Bram Stoker e la non interruzione per fusione ed “estinzione” societaria (a proposito di gradazioni sull’immortalità). V. anche Trib. Roma, sez. III, 7 settembre 2009 n. 17901; Cass., 3 maggio 2010, n. 10653; Cass., sez. un., sent. 14 settembre 2010, n. 19509, la quale limita la riconduzione dell’istituto della fusione ad una vicenda evolutivo-modificativa

Daniela Boggiali – Antonio Ruotolo

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che non danno luogo a fenomeni estintivi o costitutivi, appare evidente come non possa ritenersi ricorrere la fattispecie costitutiva con riferimento alla newco e, di conseguenza, anche ammettendo che la newco conformi il proprio statuto al modello standard previsto dal d.m. n. 138 del 2012, non potranno spettare alla stessa le agevolazioni previste dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012.Dunque, se da un lato la fusione di due o più società in una Srls o una scissione in favore di Srls di nuova costituzione appaiono ammissibili, dall’altro lato dette operazioni apparirebbero pressoché prive di logica, perché non usufruirebbero di alcuna delle agevolazioni previste dall’art. 3, comma 3, d.l. n. 1 del 2012 e sconterebbero l’inderogabilità del modello standard. Sarebbe, allora, più corretto discorrere di fusione o scissione in favore di Srl di nuova costituzione con capitale inferiore ai 10.000 euro che adotti “volontariamente” lo statuto standard e nella quale, quindi, le regole organizzative, per scelta dei soci, siano quelle previste dal d.m. n. 138 del 2012.

solo a quelle successive all’entrata in vigore della riforma del diritto societario e cui aderisce Cass., 5 febbraio 2015, n. 2063; Trib. Milano, 20 gennaio 2015; Trib. Lecce, 12 luglio 2016.108 E. CUSA, Prime considerazioni sulla scissione di società, Milano, 1992, 31 ss.; F. DI SABATO, Le società, 1999, 440 s.; P. FERRO-LUZZI, La nozione di scissione, in Giur. comm., 1991, I, 1065 ss.; G. GALGANO, Diritto civile e commerciale, III, 2, Padova, 1999, 523 ss.; M. IRRERA, Scissione delle società, in Dig. civ., sez. comm., XIII, Torino, 1996, 269; P. LUCARELLI, La scissione di società, Torino, 1999; ID., Scissione e circolazione dell’azienda, in ABBADESSA – PORTALE (a cura di), Il nuovo diritto delle società (Liber amicorum Gian Franco Campobasso) – 4: Scioglimento – Trasformazione – Fusione – Scissione – Società cooperative, Torino, 2007, 441 ss.; M. MAUGERI, L’introduzione della scissione di società nell’ordinamento italiano, in Giur. comm., 1992, I, 775; A. SERRA – M.S. SPOLIDORO, Fusioni e scissioni di società, Torino, 1994, 204; S. SANTANGELO, La scissione nella riforma, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studi sulla riforma del diritto societario, Milano, 2004, 544 ss. In senso contrario, A. PICCIAU, Sub art. 2506, in BIANCHI (a cura di), Trasformazione – Fusione – Scissione, in MARCHETTI – BIANCHI – NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2006, 1025 ss., che riconduce la scissione ad un fenomeno successorio.

Dalla società a responsabilità limitata “alle” società a responsabilità limitata

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La responsabilità notarile nel controllo sull’iscrivibilità delle delibere di Srl

Antonio RuotoloUfficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il presente contributo esamina l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza in merito al controllo notarile sulla iscrizione nel Registro delle imprese delle delibere di società a responsabilità limitata. In particolare, viene esaminata la tipologia dei vizi che impediscono detta iscrizione.

This essay examines the guidelines expressed by the most recent jurisprudence regarding notarial control upon the registration in the business register of the resolutions of limited liability companies. Inter alia, the survey focuses on the typology of defects that prevent such registration.

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Sommario: 1. La presa di posizione della Cassazione sull’ambito del controllo notarile. – 2. L’evoluzione degli orientamenti interpretativi. – 3. La posizione della dottrina successiva alla sentenza del 2016. – 4. I riflessi applicativi sul piano procedimentale. Il rapporto tra presidente dell’assemblea e notaio. – 5. Gli aspetti contenutistici del controllo.

1. La presa di posizione della Cassazione sull’ambito del controllo notarile

La Suprema Corte, con la sentenza 19 luglio 2016, n. 147661, ha preso una netta posizione su alcuni punti sinora controversi circa il regime di invalidità delle delibere assembleari e la responsabilità cui incorre il notaio che ne richieda l’iscrizione.È noto come, in tale ambito, siano discussi:– tanto il fatto se il controllo cui il notaio è chiamato riguardi il solo contenuto della delibera o anche il procedimento di formazione della volontà collegiale; – quanto la natura del vizio impeditivo dell’iscrizione e cioè se si debba tener conto del regime di invalidità (in termini di nullità o annullabilità) o se ne debba prescindere, dovendosi piuttosto considerare rilevante la manifesta non conformità alle norme tipizzanti.Questioni, queste, che sono state storicamente particolarmente dibattute, ancor prima dell’attribuzione della funzione del controllo sull’iscrivibilità degli atti societari al notaio ad opera della legge 340 del 2000, stante anche la circostanza che, sin dal codice di commercio del 1882, il tipo di verifica richiesta ha sempre riguardato la «verifica dell’adempimento delle condizioni previste dalla legge». Storicamente, sia in dottrina che in giurisprudenza2 sono state, al riguardo, prospettate diverse tesi.Secondo una prima impostazione, il vizio inibente era solo quello comportante la nullità dell’atto da iscrivere3.

1 In Riv. not., 2016, 1177, con nota di M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione; in Giur. it., 2017, 1131 con nota di S. LUONI – M. CAVANNA, Delibere di Srl – le responsabilità del notaio che manda all’iscrizione una delibera invalida.2 Per una sintesi delle diverse posizioni, di S. LUONI – M. CAVANNA, Delibere di Srl – le responsabilità del notaio che manda all’iscrizione una delibera invalida, cit.; G.A.M. TRIMARCHI, Verbalizzazione assembleare, invalidità delle delibere e responsabilità del notaio, in Notariato, 2018, 46 ss.; nonché U. MORERA, L’omologazione degli statuti di società, Milano, 1988, 159. Sul punto, v. anche N. ATLANTE, Sub art. 2330, in Comm. d’Alessandro, II, 1, Padova, 2010, 57 ss.3 Per la tesi secondo cui in sede di omologa rilevava solo la nullità, in dottrina, T. ASCARELLI, Vizi delle deliberazioni assembleari e tutela dei terzi, in Banca borsa tit. cred., 1954, I, 133; G.

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Per altra tesi, invece, era rilevante qualsiasi difformità dell’atto rispetto alla legge, compresa quindi l’area dell’annullabilità, in quanto il relativo controllo sarebbe stato espressione di esigenze di tutela di un generico “interesse pubblico”4.Altri ritenevano rilevanti solo le violazioni delle norme che fissino elementi tipologici inderogabili della fattispecie5.Infine, vi era chi sottolineava come il compito del Tribunale in sede di omologazione sarebbe stato quello di valutare la conformità del contenuto dell’atto alla legge, prescindendo dalla natura dei vizi rilevabili e concentrando l’attenzione sulla verifica della struttura organizzativa programmata dai privati e sulla compatibilità di questa con il modello organizzativo prefigurato dal legislatore6.La questione si è quindi riproposta anche a seguito della legge 340 del 2000, che ha attribuito la funzione di controllo sull’iscrivibilità degli atti societari al notaio7, e della riforma del diritto societario.Tuttavia, se sul piano lessicale, come detto, poco è cambiato, ben diversi sono i presupposti soggettivi del controllo, stante l’unanime rilievo circa l’impossibilità

OPPO, Forma e pubblicità nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1966, I, 132; G. COTTINO, Sulla disciplina dell’invalidità del contratto di società di persone, in Riv. dir. civ., 1963, I, 273; V. SALAFIA, Aspetti generali dei procedimenti di omologazione, in Società, 1982, 116. In giurisprudenza, App. Milano, 29 aprile 1958, in Riv. not., 1958, III, 838; Trib. Milano, 16 novembre 1972, in Casi e materiali di dir. comm., Milano, 1978, 1208; Trib. Milano, 7 luglio 1980, in Giur. comm., 1981, I, 604; App. Milano, 9 maggio 1991, in Società, 1991, 1227.4 Nell’ambito della tesi che estendeva il controllo del giudice anche alle ipotesi di annullabilità, in dottrina, G. ROMANO PAVONI, Le deliberazioni delle assemblee delle società, Milano, 1951, 254; F. FERRARA Jr, Gli imprenditori e le società, Milano, 1951, 516, nt. 3; A. BORGIOLI, La nullità delle società per azioni, Milano, 1977, 228; G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, Torino, 1985, 607; C. BUONOCORE, Deliberazioni di modifica dell’atto costitutivo e poteri dell’autorità giudiziaria, in Studi economico giuridici, Padova, 1966, 493; G. BARALIS, Controllo omologatorio e vizi delle delibere di riduzione del capitale, in Società, 1996, 460. In giurisprudenza, App. Venezia, 30 dicembre 1954, in Foro it., 1955, I, 1379; Trib. Roma, 1 febbraio 1980, in Giust. civ., 1980, I, 1411; Trib. Torino, 5 febbraio 1977, in Giur. comm., 1977, II, 715; Trib. Genova, 6 marzo 1980, in Foro it., 1980, I, 2873; App. Genova, 23 maggio 1980, ibid.; Trib. Napoli, 28 febbraio 1996, in Dir. giur., 1997, 263.5 U. MORERA, L’omologazione degli statuti di società, cit., 188 ss.; G. ROMANO, Sub art. 2436, in L. NAZZICONE, Codice delle società, Milano, 2018, 126.6 C. ANGELICI, La costituzione della società, in Tratt. Rescigno, Torino, 1982, 16, 260 ss.; G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 126; G. LAURINI, Verbalizzazione e controllo notarile di legalità, in A. PACIELLO, Il controllo notarile sugli atti societari, Milano, 2001, 65; C. MARCHETTI, Sub art. 2436, in Commentario Gabrielli, Torino, 2015, 1156.7 Sul tema, ancora, N. ATLANTE, Sub art. 2330, cit., 60 ss.

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per il notaio di effettuare riscontri che travalichino la documentazione esibita in assemblea o allegata al verbale.Giova qui richiamare i due principali dati normativi di riferimento, e cioè:– l’art. 2436, c.c., relativo al Deposito, iscrizione e pubblicazione delle modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto, a tenore del quale il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica dello statuto, entro trenta giorni, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, ne richiede l’iscrizione nel Registro delle imprese contestualmente al deposito e allega le eventuali autorizzazioni richieste.L’ufficio del Registro delle imprese, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la delibera nel registro8.La norma codicistica, dunque, prevede due controlli: una verifica, da parte del notaio, dell’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per l’iscrizione nel Registro delle imprese; una verifica, da parte dell’ufficio del Registro delle imprese, riguardante la sola regolarità formale della documentazione.– l’art. 138-bis della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come introdotto dall’art. art. 32, comma 5, della legge 24 novembre 2000, n. 340, per il quale il notaio che chiede l’iscrizione nel Registro delle imprese delle deliberazioni di società di capitali, dallo stesso notaio verbalizzate, quando risultano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge, viola l’articolo 28, primo comma, numero 19, ed è punito con la sospensione di cui all’articolo 138, comma 2, e con la sanzione pecuniaria da 516 euro a 15.493 euro10.È un dato ormai acquisito quello per cui, nell’attività di verbalizzazione delle delibere societarie, il controllo notarile si colloca, a differenza di quel che

8 La norma prosegue, poi, con lo stabilire che «Se il notaio ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne dà comunicazione tempestivamente, e comunque non oltre il termine previsto dal primo comma del presente articolo, agli amministratori. Gli amministratori, nei trenta giorni successivi, possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti oppure ricorrere al tribunale per il provvedimento di cui ai successivi commi; in mancanza la deliberazione è definitivamente inefficace.Il Tribunale, verificato l’adempimento delle condizioni richieste dalla legge e sentito il pubblico ministero, ordina l’iscrizione nel registro delle imprese con decreto soggetto a reclamo.La deliberazione non produce effetti se non dopo l’iscrizione.Dopo ogni modifica dello statuto deve esserne depositato nel Registro delle imprese il testo integrale nella sua redazione aggiornata».9 «Il notaro non può ricevere o autenticare atti: 1) se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico; …».10 La norma prosegue, poi, prevendendo che con la stessa sanzione è punito il notaio che chiede l’iscrizione nel Registro delle imprese di un atto costitutivo di società di capitali, da lui ricevuto, quando risultino manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge.

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avviene nel ricevimento degli atti costitutivi, «a valle» della redazione del verbale stesso.E, dunque, mentre in sede di costituzione della società, stante il disposto dell’art. 28 della legge notarile che gli fa divieto di ricevere atti che siano espressamente proibiti dalla legge, il notaio deve opporre il proprio rifiuto ad ogni richiesta di costituzione di società rispetto alla quale egli ravvisi ipotesi di incompatibilità con disposizioni di legge imperative, viceversa, in sede di verbalizzazione11, egli deve comunque eseguire la relativa attività richiestagli e, solo successivamente alla chiusura dell’assemblea e del relativo verbale, svolgere il proprio scrutinio di legittimità, valutando se iscrivere o non iscrivere la delibera presso il Registro delle imprese12.Si sottolinea, infatti, come l’attività di verbalizzazione notarile soddisfi un duplice interesse, quello alla conoscibilità e tracciabilità delle decisioni assunte dalle assemblee societarie, e quello alla legittimità delle delibere, e

11 Sulla funzione di verbalizzazione, G.A. RESCIO, Verbale di assemblea di società di capitali per atto pubblico, in Impresa e tecniche di documentazione giuridica, vol. II, Documentazione e vita dell’impresa, Milano, 1990, 64 ss.; A. SERRA, L’assemblea: Procedimento, in Tratt. Colombo – Portale, 3 Assemblea, 1992; T. ASCARELLI, Sulle verbalizzazioni delle deliberazioni assembleari nelle società di capitali, in Riv. soc., 1956, 1212; A. GIULIANI, Le verbalizzazioni assembleari: funzioni e norme notarili, in Riv. not., 1949, 490 ss.; A. GIULIANI, Ancora sui verbali di assemblea delle società di capitali, in Riv. not., 1957, 388 ss.; F. FERRARA, Il verbale di assemblea di società per azioni, in Riv. soc., 1957, 5 e ss.; L. MISEROCCHI, La verbalizzazione nelle società per azioni, Padova, 1969; G. LAURINI, Il ruolo del notaio nella verbalizzazione delle delibere assembleari, in Comitato regionale notarile lombardo, La verbalizzazione delle delibere assembleari, Milano, 1982, 51 ss.; G. SERPI, Il ruolo del notaio nelle verbalizzazioni delle assemblee, in Giur. comm., 1982, I, 778 e ss.; A. PACIELLO, Il verbale di assemblea redatto da notaio, in Riv. not., 1983, 1274 ss.; S. TONDO, Verbalizzazioni notarili in materia di assemblee societarie, in Riv. not., 1987, 456 e ss.12 P. REVIGLIONO, Il controllo di iscrivibilità sugli atti societari: profili sostanziali e procedimentali, in Riv. soc., 2001, II, 1443 ss.; F. GUERRERA, Sub art. 2436, in G. NICCOLINI – A. STAGNO D’ALCONTRES, Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, 1098 ss.; G. LAURINI, Verbalizzazione e controllo notarile di legalità, cit., 51 ss.; M. NOTARI, Contenuto e di estensione del controllo di legalità degli atti societari da parte del notaio, in A. PACIELLO, Il controllo notarile sugli atti societari, cit., 31 ss.; ID., Sub art. 2436, in P. ABBADESSA – G.B. PORTALE, Le società per azioni, Milano, 2016, 2486; G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 125; S. TONDO, Nuovo regime del controllo per l’iscrizione di atti di società di capitali, in Studi e materiali, 2001, 629 ss.; O. CAGNASSO, Le modificazioni statutarie e il diritto di recesso, in Tratt. Cottino, IV, Padova, 2010, 948 s.; G. PRESTI – M. RESCIGNO, Corso di diritto commerciale, II, Bologna, 2011, 196; C. MARCHETTI, Sub art. 2436, cit., 1152; G. CASU, Ancora sul verbale di assemblea redatto da notaio, in Riv. not., 2008, 636 ss. Sul punto v. anche Co.Re.Di. Lazio, 29 aprile 2011; Co.Re.Di. Triveneto, 29 gennaio 2013; Co.Re.Di. Sicilia, 30 ottobre 2013.

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che entrambi gli interessi abbiano portata generale ma operino su piani diversi, con la conseguenza che il soddisfacimento del secondo non deve comportare il sacrificio del primo13.Non mancano, in dottrina, voci che affermano che il notaio debba rifiutarsi di redigere il verbale in ipotesi in cui, ad esempio, i profili di illegittimità emergano già dall’avviso di convocazione14, ovvero quando l’assemblea non è preceduta da convocazione e manchino i presupposti per l’assemblea totalitaria o, ancora, quando il notaio ritenga che la delibera sia illegittima15.Ma, a prescindere dall’adesione a questa seconda tesi che dà rilevanza ad ipotesi limite, comunque ricorrenti nella prassi con una certa frequenza, dato che in via generale il notaio non può opporre il proprio rifiuto alla richiesta di verbalizzazione, si tratta ora di verificare quale sia il perimetro del controllo che egli è chiamato a svolgere «a valle», quando è chiamato a decidere se iscrivere o meno la delibera.

13 C. MARCHETTI, Sub art. 2436, cit., 1154, per il quale affermare che la documentazione di delibere illegittime non serve a nulla significa ignorare l’importanza che può avere, per esempio, nell’ambito di un giudizio di responsabilità nei confronti degli amministratori o nel contesto della informativa al mercato delle società quotate, la documentazione di eventi e condotte pur non sfociati nella adozione di delibere efficaci. Secondo l’Autore, peraltro, sostituire il controllo sulle delibere già verbalizzate e con il filtro preventivo alla verbalizzazione significa impedire la via del possibile controllo giudiziale per il caso in cui gli amministratori non condividano il giudizio negativo formulato dal notaio.14 G.A. RESCIO, Problemi in tema di verbale assembleare per atto pubblico, in Giur. comm., 1990, II, 827 ss.15 Affermano che il notaio possa rifiutarsi di verbalizzare ove l’illegittimità della delibera risulti già dall’ordine del giorno, A. VISCUSI, Sub art. 2436, in N. ABRIANI – M. STELLA RICHTER JR., Codice commentato delle società, Torino, 2010, 1601 s.; C. MONTAGNANI, In attesa della riforma del diritto societario, in A. PACIELLO, Il controllo notarile sugli atti societari, cit., 145; G. MARASÀ, Sub art. 2436, in Comm. d’Alessandro, II, 2, Padova, 2011, 768. Per una critica a queste ricostruzioni, C. MARCHETTI, Sub art. 2436, cit., 2015, 1152 ss. In giurisprudenza, prima della legge n. 340 del 2000, v. Cass., 4 maggio 1998, n. 4441, in Riv. not., 1998, 717, secondo cui, in tema di responsabilità disciplinare del notaio, nel caso in cui egli (intervenuto all’assemblea straordinaria di una società nella quale vadano osservate le norme sulle società per azioni) abbia fatto constare nel verbale una deliberazione di contenuto nullo per impossibilità giuridica dell’oggetto, l’azione disciplinare non può essere promossa per il fatto della redazione del verbale in conformità della deliberazione presa; può essere bensì promossa se il notaio non ha rifiutato il suo ministero in presenza di un avviso di convocazione dell’assemblea dal quale risultava che essa avrebbe deliberato su oggetto giuridicamente impossibile, come poi è avvenuto. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto nulla per impossibilità dell’oggetto la deliberazione dell’assemblea straordinaria che attribuiva all’assemblea ordinaria il potere di modificare l’atto costitutivo quanto all’ubicazione della sede sociale.

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2. L’evoluzione degli orientamenti interpretativi

La Suprema Corte, in realtà, aveva già sfiorato, in passato, il tema della qualificazione del regime di invalidità delle delibere assembleari in rapporto (anche) con la funzione notarile, con la sentenza 2 aprile 2007, n. 822216, che aveva avuto riguardo ad una delibera di azzeramento e ricostituzione del capitale adottata dall’assemblea ordinaria (trattavasi di fattispecie ante riforma ma comunque successiva alla legge 340 del 2000) di Srl assunta con il consenso di tutti i soci ma senza che il relativo verbale risultasse da atto pubblico come richiesto dall’art. 2375, c.c.Per la Cassazione, la mancanza del verbale notarile non comportava inesistenza (categoria un tempo in voga specie nella giurisprudenza) che «ricorre nei casi nei quali lo scostamento della realtà dal modello legale risulta così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare» (qui, invero, un verbale, sia pur redatto dal segretario, soggetto incompetente, vi era).Né essa comportava nullità, perché il vizio non era riconducibile né all’illiceità dell’oggetto, né all’impossibilità della deliberazione, e cioè alle ipotesi di nullità previste dalla disciplina previgente.Il procedimento deliberativo doveva ritenersi, quindi, completato, esistendo un atto riferibile all’assemblea, il cui vizio sarebbe stato, dunque, configurabile esclusivamente quale vizio procedimentale.Quindi, la delibera poteva dirsi solo annullabile.Una pronuncia sicuramente criticabile sotto più profili.Anzitutto, la delibera era così sottratta al vaglio del controllo di legittimità da parte del soggetto qualificato per legge a farlo; era inoltre impossibile la decorrenza del termine di impugnativa, data la sua non iscrivibilità nel Registro delle imprese17.Non iscrivibilità che rendeva peraltro la delibera non suscettibile di produrre effetti nei confronti dei terzi, stante il disposto dell’art. 2436, comma 5, c.c. e verosimilmente anche nei confronti dei soci – ove pur si fosse ammessa

16 In Giur. comm., 2008, II, 1212, con nota di M. SPIOTTA, Osservazioni in tema di vizi della delibera assembleare di riduzione obbligatoria del capitale sociale per perdite; in Dir. prat. soc., 2007, 14-15, 46 con nota di D’ANDREA; in Foro it., 2007, I, 2737; in Società, 2008, 462, con nota di M. CUPIDO – L. SCIPIONI, Azzeramento del capitale sociale e sua ricostituzione: violazione dell’art. 2446 c.c.17 G.A.M. TRIMARCHI, Verbalizzazione assembleare, invalidità delle delibere e responsabilità del notaio, in Notariato, 2018, 49.

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la rilevanza interna delle delibere non iscritte – mancando quella parte del procedimento consistente appunto nel giudizio «omologatorio» del notaio che è a garanzia di tutti i soggetti coinvolti, e quindi anche dei soci18.Una conclusione, inoltre, che sarebbe stata insostenibile post riforma, essendosi aggiunta all’art. 2379, c.c., l’ipotesi di nullità per “mancanza di verbale”, che va oggi intesa come comprensiva anche della mancata sottoscrizione del verbale da parte del notaio ove sia richiesta la forma notarile19.Si trattava, in definitiva, di una pronuncia che sminuiva fortemente il ruolo del notaio nella verbalizzazione e soprattutto nel controllo di iscrivibilità delle delibere, tanto da ricondurre il vizio della mancanza del verbale notarile alla categoria dell’annullabilità.Nella più recente sentenza della Suprema Corte, di cui si è dato sommariamente conto all’inizio, invece, si afferma la responsabilità del notaio che richieda l’iscrizione di una delibera assembleare invalida – a prescindere dalla riconducibilità del vizio alla categoria della nullità o dell’annullabilità – laddove la non conformità a legge sia manifesta, inequivoca (quando, come recita l’art. 2436, c.c., risultino manifestamente insussistenti le condizioni richieste dalla legge).Prima di tale pronuncia, si segnalano, comunque, due importanti sentenze di merito.In linea di continuità con la sentenza della Cassazione del 2007, si colloca, infatti, quella Tribunale di Roma del 2015, secondo cui la funzione del notaio è «essenzialmente quella di certificare le attività avvenute in sua presenza (operazioni di voto, esito delle stesse, maggioranze, etc.) e non quella di verificare la legittimazione degli intervenuti nell’assemblea stessa (funzione, quest’ultima, spettante – ex art. 2371 c.c. – al Presidente dell’assemblea, al quale compete il potere-dovere di verificarne la regolarità della costituzione e di accertare l’identità e la legittimazione dei presenti) ...»20.

18 Sul tema, diffusamente, N. ATLANTE, Gli effetti dell’iscrizione nel Registro delle imprese di delibere modificative dello statuto di società di capitali: il nuovo art. 2436 comma 5 c.c., in Riv. not., 2006, 839 ss.19 Ancora G.A.M. TRIMARCHI, Verbalizzazione assembleare, invalidità delle delibere e responsabilità del notaio, cit., 49.20 Trib. Roma, 15 giugno 2015, in Riv. not., 2016, 731 e in Società, 2016, 419, secondo cui «la ratio dell’art. 2479-ter comma 3 c.c., va rintracciata nella esigenza di tutelare il diritto inderogabile di partecipazione di ciascun socio alle decisioni sociali. L’ambito della norma è idoneo a coprire sia i casi in cui i soci non abbiano ricevuto l’avviso di convocazione assembleare, sia quelli in cui l’abbiano ricevuto ma in difetto dei presupposti minimi di contenuto fissati dall’art. 2379, comma 3 c.c., ossia allorché l’avviso non risulti proveniente da un componente degli organi sociali o

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In un prospettiva completamente diversa si colloca, nello stesso anno, una sentenza del Tribunale di Milano21 che afferma come l’effettivo contenuto del c.d. «controllo sostanziale di legalità», riservato alla fase di omologa notarile (quale naturalmente limitato ad un esame di carattere rigorosamente documentale ed alieno da ogni sindacato di merito), deve svolgersi alla luce di più generali parametri di conformità dell’atto al modello legale di riferimento.La fattispecie aveva riguardo ad una delibera di aumento del capitale sociale di una SpA nella cui assemblea si costituivano i soci, senza che il presidente esibisse i titoli che attribuivano loro il diritto di intervenire in assemblea e quindi di votare, limitandosi a dichiarare sussistenti le condizioni per l’esercizio del diritto di voto; il notaio si rifiutava di iscrivere la delibera, essendo risultato che le azioni erano assoggettate a pegno e non essendo stato esibito un titolo che comprovasse il diritto del socio a votare.La società, a fronte del rifiuto di iscrizione da parte del notaio obiettava, in primo luogo, che v’era la competenza esclusiva del presidente dell’assemblea, ex art. 2371 c.c., a procedere alla verifica dei requisiti di regolare costituzione dell’assemblea e legittimazione al voto.Per il Tribunale meneghino, invece, l’attribuzione di potere al presidente non vale affatto di per sé ad escludere, ed anzi normalmente implica, funzioni di controllo del notaio sul concreto esercizio dei poteri attribuiti (salva evidentemente ogni più approfondita valutazione su oggetto e limiti di tali funzioni di controllo in relazione ai diversi ambiti di competenza in rilievo).In secondo luogo, secondo la società, il controllo notarile in sede di omologazione doveva esser limitato alla rilevazione di eventuali vizi di nullità ex artt. 2379 e 2479-ter, comma 3 c.c. della delibera impugnata.Per il Tribunale di Milano l’assunto non può, invece, essere condiviso a fronte,

dai soci, ove a ciò legittimati, non sia stato diramato preventivamente a tutti gli aventi diritto, o non sia idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data. Tuttavia, in virtù del richiamo all’art. 2379-bis c.c., la partecipazione totalitaria del capitale sociale sana il vizio di omessa convocazione. La funzione del notaio, intervenuto nell’assemblea straordinaria di una società, è essenzialmente quella di certificare le attività avvenute in sua presenza (operazioni di voto, esito stesse, maggioranze etc.) e non quella di verificare la legittimazione degli intervenuti nell’assemblea stessa (funzione, quest’ultima, spettante agli organi amministrativi quali il presidente del consiglio di amministrazione o l’amministratore)». Indicazioni in G.A.M. TRIMARCHI, Verbalizzazione assembleare, invalidità delle delibere e responsabilità del notaio, cit. 51 e in R. MATERI, Le violazioni di legge in ambito societario, in Notariato, 2018, 24 ss.21 Trib. Milano, 25 settembre 2015, in Società, 2016, 43, con nota di V. SALAFIA, Oggetto e limiti del controllo notarile sulle delibere straordinarie.

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innanzitutto, del dato letterale rappresentato dalla ampia formulazione dell’art. 2436 commi 1 e 3 c.c. (anche alla luce della significativa distanza tracciata rispetto al controllo, espressamente definito come “formale”, invece riservato all’ufficio del registro dal comma 2 della medesima disposizione); e, in secondo luogo, a fronte, più in generale, di stringenti ragioni di ordine sistematico in considerazione del pregnante potere di controllo riservato al notaio in fase di costituzione della società ex art. 2329 c.c., inequivocabilmente di carattere «sostanziale» (e ancora una volta chiaramente distinto dal successivo controllo, espressamente definito come «formale», riservato all’ufficio del registro ex art. 2330 c.c.).Per il Tribunale di Milano, i poteri previsti dall’art. 2436 c.c. non possono esser interpretati alla luce delle specifiche previsioni di cui agli artt. 28 e 138-bis della legge notarile che sono disposizioni volte a delimitare lo spazio (ristretto) di una eventuale responsabilità del notaio sotto lo specifico profilo disciplinare nel più ampio ambito di competenza allo stesso attribuito.Né il controllo notarile può esser circoscritto alle ipotesi (di nullità) previste dall’art. 2379, c.c., come invece sostiene la società ricorrente, che sembrerebbe invocare un parallelismo in tale senso con l’attività di ricevimento.Sotto tale profilo, il Tribunale di Milano ricorda come, sul piano sistematico, tale parallelismo sia impedito dalla circostanza che anche le delibere nulle risultano suscettibili di stabilizzazione in mancanza di iniziativa di parte, salva l’ipotesi limite di cui all’ultima parte del comma 122; e soprattutto per il rilievo che in taluni casi è proprio l’intervento del notaio, a prescindere dal vizio da cui è affetta la delibera, a comprimere il potere di impugnazione dei soggetti interessati (es. art. 2379-ter, c.c.23).

22 Mentre, infatti, nei casi di mancata convocazione dell’assemblea, di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell’oggetto la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla sua iscrizione o deposito nel Registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea, se la deliberazione non è soggetta né a iscrizione né a deposito; le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale, prevedendo attività illecite o impossibili, possono viceversa, essere impugnate senza limiti di tempo.23 Nei casi previsti dall’articolo 2379 l’impugnativa dell’aumento di capitale, della riduzione del capitale ai sensi dell’articolo 2445 o della emissione di obbligazioni non può essere proposta dopo che siano trascorsi centottanta giorni dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o, nel caso di mancata convocazione, novanta giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio nel corso del quale la deliberazione è stata anche parzialmente eseguita. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio l’invalidità della deliberazione di aumento del capitale non può essere pronunciata dopo che a norma dell’articolo 2444 sia stata iscritta nel Registro delle imprese l’attestazione che l’aumento è stato anche parzialmente eseguito; l’invalidità

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Dunque, conclude il Tribunale di Milano, da un lato non appare pertinente alla materia in oggetto il riferimento alla dicotomia nullità/annullabilità; dall’altro lato l’effettivo contenuto del cd. “controllo sostanziale di legalità” riservato alla fase di omologa notarile va ricostruito alla luce di più generali parametri di conformità dell’atto al modello legale di riferimento in considerazione della qualità ed estensione degli interessi coinvolti.Passando, ora, alla più recente pronuncia della Suprema Corte, questa riguardava una serie di addebiti mossi al notaio che aveva richiesto l’iscrizione di delibere attributive ad alcuni soltanto dei soci, escludendone altri, di particolari diritti ex art. 2468 c.c. – in specie, consistenti nella nomina del collegio sindacale – assunte nonostante l’avviso di convocazione non portasse all’ordine del giorno anche la modificazione delle modalità di nomina dell’organo di controllo e per di più a maggioranza e non all’unanimità come invece richiesto dal comma 4 dell’art. 2468, c.c.24, e che attribuivano, inoltre, il diritto di utilizzazione esclusiva di parte dell’immobile sociale, nonché l’utilizzo prioritario di alcuni beni sociali rispetto agli altri soci, delibere assunte sempre con decisione a maggioranza.Il notaio aveva eccepito come tutti i vizi in discorso, in quanto riconducibili alla mera annullabilità, fossero al di fuori del perimetro dell’art. 138-bis l. not.In sostanza,– tanto l’assunzione della delibera modificativa che introduce i particolari diritti, perché non viola una norma posta nell’interesse di terzi estranei alla compagine sociale ma, al più, le garanzie dei soci minoritari; – quanto la circostanza che l’oggetto della delibera non fosse incluso nell’ordine del giorno, avrebbero dato luogo ad annullabilità e non a nullità.La Suprema Corte, rilevando comunque la violazione di tutte le disposizioni richiamate (da quella sulla convocazione a quella sull’assunzione della delibera a maggioranza, laddove sarebbe stata necessaria l’unanimità), si sofferma sulla portata dell’art. 2436, c.c., e dell’art. 138-bis, l. not., chiarendo come il loro perimetro applicativo non si esaurisca nella sola nullità manifesta.

della deliberazione di riduzione del capitale ai sensi dell’articolo 2445 o della deliberazione di emissione delle obbligazioni non può essere pronunciata dopo che la deliberazione sia stata anche parzialmente eseguita. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci e ai terzi.24 Sul tema, nell’ambito degli studi del Consiglio Nazionale del Notariato, R. GUGLIELMO – M. SILVA, I diritti particolari del socio. Vicende della partecipazione tra regole legali ed autonomia statutaria, Studio n. 138-2011/I, in Studi e materiali, 2011, 1285 ss., spec. 1296 ss.

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Ai sensi dell’art. 2436 c.c., spetta al notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica dello statuto verificare che la deliberazione sia conforme alle condizioni stabilite dalla legge prima di chiederne l’iscrizione nel Registro delle imprese.Non rileva che l’uno e l’altro vizio – il vizio da cui è affetta la deliberazione assembleare assunta su di un argomento non incluso nell’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione; il vizio derivante dalla violazione del principio della necessità del consenso di tutti i soci nella introduzione ex novo di diritti particolari ai sensi dell’art. 2468 c.c., comma 3, in mancanza di diversa previsione dell’autonomina statutaria ai sensi del comma 4 dello stesso articolo – determinino l’annullabilità, e non la nullità, della deliberazione.Secondo la Suprema Corte, nel sistema dell’art. 2436, mutuato da quello dell’art. 32 della legge 24 novembre 2000, n. 340, il compito del notaio è quello di esercitare un controllo sostanziale di legalità, volto ad accertare, attraverso un’analisi di carattere rigorosamente documentale ed aliena da ogni sindacato di merito, la conformità della delibera assembleare rispetto alle caratteristiche tipologiche previste dalla disciplina di legge.Il controllo notarile sulle deliberazioni sociali è finalizzato ad assicurare, anzitutto e a monte, la certezza dei traffici, stante l’attitudine del contratto di società, e delle sue successive modificazioni, a produrre effetti nei confronti dei terzi. Invero, come è stato giustamente rilevato a commento della sentenza25, più che la certezza dei traffici, sarebbe forse meglio dire la loro correttezza, poiché la certezza è garantita, nel diritto delle società di capitali, da quelle norme di legge volte a stabilizzare gli effetti degli atti di natura organizzativa, anche se affetti di vizi sanzionati con la nullità.Si tratta di una verifica di conformità al modello legale di riferimento che prescinde dunque dalla tradizionale distinzione dei vizi negoziali, in termini di nullità o di annullabilità, da cui l’atto può essere affetto.Oltre ai profili contenutistici della delibera, rientra, quindi, nel perimetro di controllo preventivo che il notaio è chiamato ad esercitare anche la conformità alla legge del suo procedimento formativo, avendo il notaio, nella sua funzione di filtro preventivo, il dovere di rifiutarsi di iscrivere nel Registro delle imprese deliberazioni assunte in assenza delle condizioni procedurali di legge, ogniqualvolta il vizio emerga in modo palese dagli eventi assembleari che il

25 M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione, cit. 1177 ss.

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notaio ha verbalizzato, senza che sia a tal fine necessaria alcuna indagine extra-assembleare.Né, secondo la Cassazione, la distinzione tra vizi di nullità e vizi di annullabilità della delibera assume rilevanza ai fini della configurabilità della responsabilità disciplinare del notaio.Il perimetro dell’art. 138-bis non coincide, infatti, con quello dell’art. 28, divieto al quale correttamente sono riconducibili solo atti affetti da nullità assoluta e per di più manifesta.La diversa formulazione dell’art. 138-bis, che individua la responsabilità disciplinare del notaio quando questi chiede l’iscrizione della delibera risultando «manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge» include nell’ambito della norma tutti i casi in cui si proceda all’iscrizione di delibera assunta in palese carenza delle condizioni di legge.Norma dal contenuto diverso dall’art. 28 della legge notarile, rispetto al quale l’unico punto in comune è costituito dalla necessità che la violazione sia manifesta, sia espressa, il che vale ad escludere che ogni violazione dell’art. 2436 c.c. – ossia della norma che impone al notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica statutaria di richiederne l’iscrizione nel Registro delle imprese soltanto dopo averne «verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge» – si debba automaticamente e necessariamente risolvere in una condotta disciplinarmente rilevante ai sensi del citato art. 138-bis, l. not.Perché trovi applicazione tale disposizione è necessario che il contrasto della delibera con la legge risulti in termini inequivoci, per effetto di un consolidato orientamento, non potendo di certo addossarsi al notaio compiti ermeneutici, con le connesse responsabilità, in presenza di incertezze interpretative oggettive.In estrema sintesi, il senso della sentenza della Cassazione può esser così riassunto: – l’art. 2436, c.c., in realtà, descrive il controllo cui è chiamato il notaio successivamente alla verbalizzazione della delibera, controllo consistente nella «verifica delle condizioni richieste dalla legge» per l’iscrizione;– l’art. 138-bis, sanziona disciplinarmente «il notaio che chiede l’iscrizione nel Registro delle imprese delle deliberazioni di società di capitali, dallo stesso notaio verbalizzate, quando risultano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge …», aggiungendo che in tal caso si ha violazione dell’articolo 28, primo comma numero 1;– l’area di applicazione dell’art. 138-bis l. not., quando si sia provveduto comunque ad iscrivere una delibera invalida (nulla o annullabile) e, quindi,

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non si sia efficacemente espletato quel controllo che la legge pone a carico del notaio, è però circoscritta ai casi in cui le condizioni richieste dalla legge sono manifestamente inesistenti.

3. La posizione della dottrina successiva alla sentenza del 2016

Quello delineato dalla Cassazione del 2016 è, dunque, un controllo di legalità sostanziale26, una verifica di conformità al modello legale di riferimento che prescinde dalla tradizionale distinzione dei vizi negoziali, in termini di nullità o di annullabilità, da cui l’atto può essere affetto, rilevando anche la violazione di norme poste a tutela di interessi dei soli soci e non anche dei terzi e che riguarda altresì la conformità alla legge del procedimento formativo della delibera con i limiti sopra indicati.Una verifica che si inserisce in un sistema che assicura la stabilità degli atti societari viziati mediante la sostituzione di forme di tutela reale (molto spesso inefficienti, se non di impossibile attuazione pratica) con rimedi meramente risarcitori e nel quale il controllo preventivo costituisce un filtro essenziale, perché, se correttamente svolto, impedisce che l’atto lesivo di interessi meritevoli di tutela abbia esecuzione e crei affidamento nei terzi, precludendo a monte la conseguenza della stabilizzazione degli effetti degli atti organizzativi invalidi.Una verifica che riguarda, come detto, anche il procedimento formativo della delibera, ma che deve esser necessariamente circoscritta all’evento assembleare, non può cioè implicare anche indagini extra assembleari.Affermazioni, quelle contenute nella sentenza, che, per lo meno dal punto di vista dell’inquadramento sistematico del ruolo del notaio, appaiono pienamente condivisibili, in quanto riconoscono ancora una volta al controllore quella funzione preventiva, anti-processuale, da sempre ricondotta alla funzione notarile, ma rispetto alle quali, all’atto pratico, potrebbe risultare estremamente difficile circoscriverne l’ambito.Anche perché – e su tale profilo qualche spunto v’è anche nella sentenza del 2016 – il controllo notarile di iscrivibilità, se in linea di principio sostituisce

26 In dottrina, per la natura sostanziale del controllo di legalità esercitato dal notaio in sede di valutazione della iscrivibilità della delibera modificativa, F. GUERRERA, Sub art. 2436, cit., 1100; M. NOTARI, Sub art. 2436, cit., 2487; G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 126; B. PETRAZZINI, Le modificazioni dello statuto in generale, in Tratt. Rescigno, 16****, Torino, 2012, 269 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2012, 506.

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quello esercitato in passato, prima della legge n. 340 del 2000 – dal giudice in sede di omologazione, non potrà mai identificarsi totalmente con esso.Come si è detto, l’impossibilità, per il notaio, di svolgere quel tipo di attività latamente istruttoria che competeva (e tuttora compete in via residuale) al Tribunale in sede di omologazione ne circoscrive inevitabilmente l’ambito a ciò che avviene in assemblea, alla documentazione esibita dalle parti interessate, all’atto/verbale e ai suoi allegati, senza possibilità di richiedere ulteriori chiarimenti e documenti27.Il controllo notarile di iscrivibilità deve dunque necessariamente limitarsi a ciò che emerge dalla delibera assembleare di per sé stessa considerata, senza possibilità di ricorrere ad indagini extra documentali o meglio extra assembleari.I vizi procedurali che possono giustificare un esito negativo del controllo notarile, quindi, sono solo quei vizi che il notaio può accertare dalla analisi della documentazione richiesta dalla disciplina di legge28 per una data delibera o che comunque emergono dagli eventi assembleari che è chiamato a verbalizzare29.

27 Così S. LUONI – M. CAVANNA, Delibere di Srl – le responsabilità del notaio che manda all’iscrizione una delibera invalida, cit., 1131 ss., con richiami a P. REVIGLIONO, Il controllo di iscrivibilità sugli atti societari: profili sostanziali e procedimentali, cit., 1458 ss., per i quali il controllo notarile di iscrivibilità deve arrestarsi ogniqualvolta l’accertamento del presupposto stabilito dalla legge per l’adozione di un determinato tipo di deliberazione si traduca in un giudizio che implichi la rilevazione e la conseguente valutazione non già di parametri legali, ma di fatti gestionali, legati all’attuazione dell’oggetto sociale, inteso come attività imprenditoriale concretamente ed effettivamente esercitata dalla società in un dato momento storico. Nello stesso senso, G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 126; CHICCO, Sub art. 2436, in N. ABRIANI, Codice delle società, Torino, 2016, 1606.28 Si esclude, ad esempio, che il notaio verbalizzante, o il tribunale investito del ricorso ai sensi dell’art. 2436, comma 3, c.c., possano rifiutare l’iscrizione di una delibera modificativa rilevando la carenza di legittimazione del socio maggioritario, qualora tale carenza possa solo eventualmente derivare dall’inefficacia della sottoscrizione del detto socio, oggetto di contenzioso, ma non ancora definitivamente accertata. Sia il notaio che il tribunale sono fatti chiamati ad espletare esclusivamente un controllo della conformità delle delibere alla legge sulla base degli elementi già emersi e non possono invece risolvere controversie in sorte tra le parti, nel riconoscere o attribuire diritti soggettivi ed alcune di esse (Trib. Roma, 21 novembre 2012, in Banca, borsa tit. cred., 2014, II, 724. Indicazione in G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 126). Si tratta di ipotesi chiaramente diversa da quella all’attenzione della richiamata pronuncia del Tribunale di Milano del 2015, laddove il difetto di legittimazione al voto del socio risultava per tabulas dalla circostanza che le azioni erano assoggettate a pegno senza che, al contempo, fosse esibito un titolo che comprovasse il diritto del socio a votare.29 C. MARCHETTI, Sub art. 2436, cit., 1154 e ss.; F. DI SABATO, Il nuovo controllo sugli atti societari soggetti a iscrizione nel Registro delle imprese, in Banca borsa tit. cred., 2002, 109; M. NOTARI, Sub art. 2436, cit., 2487.

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Resta, comunque, arduo il compito di definire quali siano «condizioni previste dalla legge» in assenza delle quali è preclusa l’iscrivibilità della delibera.In particolare, se si ha riguardo ai commenti alla sentenza del 2016, e se il profilo della valorizzazione della funzione notarile nell’ambito del controllo sull’iscrivibilità delle delibere societarie ha sostanzialmente trovato d’accordo tutti i commentatori della pronuncia, notevoli critiche sono state tuttavia formulate sul piano della coerenza sistematica con riferimento all’area di applicazione dell’art. 138-bis della legge notarile se rapportato all’art. 28 della stessa legge.Ed è proprio il rischio di una dilatazione dell’area di responsabilità – specie disciplinare – del notaio che provveda all’iscrizione di una delibera in assenza delle «condizioni richieste dalla legge» quando il vizio da cui la stessa è affetta si risolva nell’annullabilità, che sembra aver spinto alcuni commentatori dell’ultima pronuncia della Suprema Corte a muovere critiche nei confronti di essa, tentandone di ridimensionarne la portata.Si afferma allora, nel solco di autorevole dottrina30, una diversa linea interpretativa, che distingue, nell’ambito delle norme inderogabili tipizzanti, a seconda delle esigenze di tutela perseguite e degli interessi ad esse afferenti, tra un interesse esclusivamente interno alla società, riferibile ai soci, ed un interesse esterno, riferibile ai terzi che con la società entrano in contatto.La non iscrivibilità riguarderebbe le sole delibere che si pongano in contrasto con norme poste a difesa di interessi (di terzi, di creditori, di principi posti a tutela di mercato) che travalicano quello interno, dei soci. Per quelle delibere che, invece, contrastino con norme poste a tutela di interessi riferibili esclusivamente ai soci, non si potrebbe parlare di non iscrivibilità, dato che gli unici soggetti legittimati ad impugnare sono i soci stessi, ed anzi, non essendo tali delibere idonee a pregiudicare interessi diffusi, le stesse, una volta iscritte, sarebbero vincolanti per i terzi e gli amministratori sarebbero comunque tenuti ad eseguirle.Ecco allora che l’area della «non iscrivibilità» verrebbe ad essere circoscritta in maniera ben più decisa di quanto affermato dalla stessa dottrina che ne limitava l’ambito alla nullità: non si tratterebbe di tutte le delibere affette da nullità, ma solo di quelle in cui la sanzione esprime esigenze di tutela di interessi esterni31.

30 P. REVIGLIONO, Il contenuto del controllo notarile di iscrivibilità sugli atti societari: prime considerazioni, in Riv. not., 2001, 311.31 S. LUONI – M. CAVANNA, Delibere di Srl – le responsabilità del notaio che manda all’iscrizione una delibera invalida, cit., 1131 ss. Si tratta di una ricostruzione non molto diversa, quanto agli esiti, da quella profilata da chi ritiene che la limitazione della verifica all’assenza di cause di nullità della deliberazione sia fondata sull’interpretazione restrittiva dell’art. 28 della

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Altra parte della dottrina, sottolineando come l’art. 2436 c.c. e l’art. 138-bis l. not. operino su piani diversi, giunge alla conclusione per cui vi sono delibere che – se iscritte – pur se patologiche, possono non comportare responsabilità ex art. 2436 c.c. ma risultare compatibili con l’applicazione dell’art. 138-bis, laddove la violazione della disciplina propria del modello di riferimento generi quella «manifesta insussistenza» delle condizioni stabilite dalla legge che sta alla base dell’applicazione dell’art. 138-bis.E si fa l’esempio di un’assemblea che deliberi pur in caso di mancata convocazione che abbia determinato l’assenza di un socio di minoranza32.Secondo tale ricostruzione, l’applicazione dell’art. 138-bis concernerebbe, quindi, la sola iscrizione di quelle delibere che risultano deficitarie in modo

legge notarile, che fa divieto al notaio di ricevere atti proibiti dalla legge, con esclusione delle ipotesi di annullabilità; nel prevedere il controllo preventivo di legittimità, il legislatore avrebbe inteso tutelare il pubblico interesse, mentre, per i vizi di annullabilità, attesa la natura negoziale delle delibere, ogni valutazione sarebbe rimessa all’iniziativa dei soggetti interessati e, dunque, dei soci (in tal senso, F. FIMMANÒ, Il simulacro dell’omologazione degli atti societari alle soglie del terzo millennio, in Riv. not., 1999, 317).32 G.A.M. TRIMARCHI, Verbalizzazione assembleare, invalidità delle delibere e responsabilità del notaio, cit. 55. Giova in proposito ricordare come, secondo la più recente giurisprudenza, l’art. 2379 c.c. – nel sanzionare la nullità delle deliberazioni assunte dall’assemblea in difetto di convocazione – tuteli l’interesse di ciascun socio ad intervenire e, dunque, a prendere parte al processo di formazione della volontà della società e, più in particolare, di influire su di esso: per tale ragione, la deliberazione è nulla anche quando la convocazione sia stata omessa con riferimento ad un socio titolare di una partecipazione che non avrebbe comunque potuto influire sull’esito della votazione. Non si pone, dunque, un problema di prova di resistenza perché ciò che conta, ai fini della pronunzia di nullità, non è l’esito finale e la possibilità del socio escluso di influire sul voto medesimo, ma la possibilità del socio escluso di influire sulla discussione assembleare. D’altra parte, a ragionare diversamente, nel caso di società in cui vi è un socio di maggioranza, non si vedrebbe neppure la ragione per la quale dovrebbero tenersi le assemblee (Trib. Roma, Giudice del Registro delle imprese, 17 ottobre 2016, in CNN Notizie del 25 novembre 2016, con nota A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Vizi di convocazione dell’assemblea di SpA). Si tratta, peraltro, di una conclusione che trova riscontro anche nella giurisprudenza riferita alla disciplina ante riforma, la quale, in assenza di una norma come quella contenuta nel comma 1 dell’attuale art. 2379, c.c., inquadrava nella categoria (di matrice appunto giurisprudenziale) dell’inesistenza le delibere affette dal vizio della mancata convocazione di uno o più soci (Cass., 11 giugno 2003, n. 9364, in Giur. it., 2004, 787, con nota di B. PETRAZZINI; Cass., 22 agosto 2001, n. 11186, in Foro it., 2002, I, 1483; Cass., 15 marzo 1986, n. 1768, in Società, 1986, 859; Cass., 28 novembre 1981, n. 6340; più recentemente l’orientamento è richiamato dal Cass., 26 settembre 2016, n. 18845: Fra le pronunce di merito, Tribunale Napoli, sez. VII, 17 dicembre 2008). Nell’attuale impianto normativo, una conferma della riconducibilità al vizio della mancata convocazione ai sensi dell’art. 2379, comma 1, c.c., dell’omessa convocazione del singolo socio sembra rinvenibile nella previsione del comma 3 della stessa norma, laddove la convocazione, ancorché irregolare, non si considera mancante se comunque è idonea a consentire a coloro che

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manifesto delle condizioni richieste dalla legge e che risultano affette da nullità secondo le vigenti disposizioni.In tale prospettiva, la dicotomia nullità/annullabilità non rileverebbe ai fini dell’applicazione dell’art. 2436 c.c., mentre conserverebbe il suo ruolo sistematico per l’applicazione dell’art. 138-bis, l. not., non applicabile quando la delibera sia “solamente” annullabile.Ricostruzioni, queste, che hanno il pregio di allineare, sotto il profilo della coerenza, la portata dell’art. 138-bis l. not. con quella dell’art. 28 l. not., sicché come quest’ultimo non sarebbe applicabile agli atti pubblici annullabili, così il primo non opererebbe in caso di iscrizione nel Registro delle imprese dei verbali societari recanti delibere parimenti meramente annullabili.E che, quindi, pur premessa l’importanza della sentenza del 2016 circa il riconoscimento del ruolo del notaio, si rivelano come fortemente critiche rispetto all’affermazione della Suprema Corte in ordine all’irrilevanza della natura – nullità/annullabilità – del vizio della delibera.In una diversa prospettiva si colloca chi, a commento della sentenza della Cassazione, rilevato come la pronuncia abbia finalmente valorizzato la funzione del notaio, riconduce correttamente la funzione del controllo preventivo non tanto alla certezza dei traffici, quanto la correttezza dei traffici giuridici33.Al fine garantire la certezza dei traffici, infatti, il legislatore ha predisposto una serie di altri presidi, volti a stabilizzare gli effetti degli atti di natura organizzativa, anche se affetti di vizi sanzionati con la nullità (artt. 2377, 2379, 2379-bis, 2379-ter, 2500-bis e 2504-quater, c.c. che disciplinano l’invalidità delle deliberazioni assembleari), sostituendo forme di tutela reale con rimedi meramente risarcitori.Viceversa, il controllo preventivo del notaio mira a garantire la correttezza degli atti societari: proprio perché la tutela è oggi fondamentalmente risarcitoria, il controllo preventivo costituisce un filtro capace di fermare l’atto lesivo di interessi meritevoli di tutela prima che l’atto viziato abbia esecuzione e crei affidamento nei terzi. Ecco perché, agli effetti del controllo preventivo, non solo non rileva in alcun modo la distinzione fra cause di nullità e cause di annullabilità della delibera sociale34, ma nemmeno ci si può fermare all’oggetto della stessa,

hanno diritto di intervenire di esserne preventivamente avvertiti. Quindi, anche il socio con partecipazione minoritaria (e astrattamente ininfluente ai fini della votazione) può agire per la nullità della delibera per omessa sua convocazione.33 M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione, cit. 1177 ss.34 In dottrina già C. TRINCHILLO, Verbale di assemblea e funzione notarile, in CNN, La riforma

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alla clausola statutaria che ne è il prodotto, dovendo considerare altresì, il rispetto delle regole nelle quali si sostanzia il procedimento assembleare35.In sostanza, la Cassazione scioglie il doppio nodo cui si faceva riferimento da principio nel senso che nel perimetro del controllo rientrano non soltanto i vizi relativi al contenuto della delibera, ma anche quelli concernenti il procedimento di formazione; inoltre, non rileva la natura dell’invalidità quanto, piuttosto, la manifesta non conformità al modello legale di riferimento.Per gli aspetti disciplinari, invece, l’iscrizione nel Registro delle imprese rileva solo laddove le condizioni richieste dalla legge sono manifestamente inesistenti.Soluzione, nella sostanza, in linea con quanto affermato da altra dottrina, secondo cui la verifica dell’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge definisce l’ambito del controllo, mentre l’inesistenza manifesta delle condizioni previste dalla legge riguarda l’applicazione della sanzione36. In altre parole, occorre mantenere ferma la distinzione37 tra il profilo delle sanzioni disciplinari, regolato dall’art. 138-bis, l. not., che riguarda l’area della manifesta inesistenza delle condizioni richieste dalla legge, e quello concernente il contenuto del controllo, regolato dall’art. 2436, comma 1, c.c.: quest’ultimo impone al notaio l’accertamento dell’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, con la conseguenza che costituisce un preciso potere-dovere del notaio di negare l’iscrizione ogniqualvolta manchino, anche non manifestamente, le condizioni richieste dalla legge38. E, nel caso all’esame della Suprema Corte appariva difficile negare come fossero manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge, sia con riguardo al non esser contemplato l’oggetto della delibera nell’ordine del giorno, sia relativamente ai quorum (maggioranza anziché unanimità).

del diritto societario, Studi e materiali, 2004, Suppl. 2, 135. Nello stesso senso Co.Re.Di. Emilia-Romagna, 9 aprile 2014. Diversamente, R. SANTAGATA, Il nuovo ruolo del notaio nel controllo sulle deliberazioni sociali, in Notariato, 2014, 358; Co.Re.Di. Sicilia 30 ottobre 2010, che afferma un parallelismo tra il controllo previsto ai fini dell’iscrizione e quello di cui all’art. 28 l. not., per cui il notaio non risponderebbe della violazione dell’art. 138 bis nel caso di iscrizione di una delibera meramente annullabile.35 M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione, cit. 1177 ss.36 N. ATLANTE, Clausole statutarie in materia assembleare, procedimento collegiale e ruolo del notaio, in Riv. not., 2001, 339 ss.; M. NOTARI, Sub art. 2436, cit., 2488; M. NOTARI, Contenuto e di estensione del controllo di legalità degli atti societari da parte del notaio, cit., 43.37 F. GUERRERA, Sub art. 2436, cit., 1102.38 Così M. NOTARI, Sub art. 2436, cit., 2488, in ripresa del suo precedente contributo Contenuto e di estensione del controllo di legalità degli atti societari da parte del notaio, cit., 43. Nello stesso senso, Le modificazioni dello statuto in generale, cit., 270.

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4. I riflessi applicativi sul piano procedimentale. Il rapporto tra presidente dell’assemblea e notaio

Se anche si conviene sui principi affermati dalla Cassazione, la concreta applicazione degli stessi può luogo a non poche difficoltà.Quando ci si sposta – ed è l’esempio che fa la stessa autorevole dottrina notarile da ultimo citata a commento della sentenza39 – sull’esito delle votazioni assembleari, rispetto alle quali è pure imposta la documentazione, ai sensi dell’art. 2375, mediante allegazione al verbale, sia dell’elenco dei partecipanti, con il capitale rappresentato da ognuno di essi, sia dell’elenco riportante il risultato delle votazioni «con l’identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti», non si può sempre affermare che il notaio possa per tabulas effettuare il controllo preventivo, perché spesso la verifica della legittimazione al voto implica l’analisi di documenti extra assembleari che, come detto, si pongono al di fuori del perimetro del “verificabile” da parte del notaio.Si dice, allora, che il controllo sulla legittimazione spetti al presidente.Spetta, ad esempio, al presidente, il controllo sulle deleghe al voto: ma se poi, nell’assemblea di una società composta di pochi soci venisse esibita al notaio la delega attribuita a soggetto che non potrebbe riceverla, per legge o per statuto, e il cui voto sarebbe determinante potrebbe ancora dirsi che l’ipotesi sfugga al controllo preventivo del notaio?La dottrina da ultimo citata conclude, quindi, con formula inevitabilmente vaga, che il vizio procedimentale impedisce l’iscrizione della delibera nel Registro delle imprese solo quando esso sia rilevabile con l’ordinaria diligenza dal verbale e dalla documentazione che deve essere a prodotta a suo corredo ai sensi di legge40.La sentenza della Cassazione, se correttamente intesa, sembra dunque potersi riflettere anche nel rapporto fra il notaio verbalizzante e il presidente dell’assemblea.Al presidente dell’assemblea è stato dedicato uno specifico studio del Consiglio Nazionale41, nel quale, fra le altre cose, si approfondisce il rapporto fra notaio e presidente a fronte di dichiarazioni false o dubbie rese da quest’ultimo in

39 M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione, cit., 1177 ss.40 M. MALTONI, Il controllo notarile sugli atti societari ex art. 2436 alla luce di una recente sentenza della Corte di Cassazione, cit., 1177 ss. 41 C.A. BUSI, Il presidente dell’assemblea, in CNN Notizie del 27 aprile 2011 e in Studi e materiali, 2011, 789 ss.

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assemblea, specie con riferimento al caso in cui il presidente dichiari approvata una deliberazione, quando in realtà la maggioranza sufficiente e proclamata non sussista.Lo studio, rifuggendo dall’orientamento che enfatizza il ruolo del presidente, conclude nel senso che il notaio dovrebbe rifiutarsi di verbalizzare la falsa dichiarazione presidenziale per affidarsi invece alle sue diverse percezioni.Egli non può e non deve verbalizzare, sulla base delle dichiarazioni del presidente, ricostruzioni di fatti in contrasto con la realtà quale viene dal notaio direttamente percepita, dallo stesso rilevabile ictu oculi (es., si dà atto che sono intervenuti 10 soci quando i soci sono 5 o 9, o che siano attribuite ad un soggetto generalità diverse da quelle ad esso notaio note).La funzione di prova, controllo e informazione sullo svolgimento della seduta assembleare, attribuibile al verbale, sembrerebbe obbligare il notaio ad una fedele e precisa documentazione dei lavori assembleari e non alla rappresentazione, eventualmente distorta, che di questi possa dare il presidente.Se così non fosse, non si comprenderebbe a quale fine obbedisca la scelta del legislatore di assegnare al notaio la verbalizzazione.Infatti, ove non si riconoscesse al notaio verbalizzante un autonomo potere-dovere di accertamento e attestazione del fatto, anche in contrasto con le dichiarazioni presidenziali, al cambiamento formale dell’autore del verbale di assemblea straordinaria non si affiancherebbe alcuna utilità effettiva, perché l’autore sostanziale, attraverso le sue dichiarazioni supposte vincolanti, rimarrebbe il presidente.«Diversamente ragionando e cioè considerando tutto il verbale dell’assemblea straordinaria come una mera ed acritica trascrizione, da parte del notaio, dei fatti così come gli vengono riferiti e dettati dal presidente, si perderebbe completamente il senso delle disposizioni di legge che richiede, per la sola assemblea straordinaria, l’intervento di un notaio quale redattore del verbale»42.Il notaio, dunque, non deve limitarsi a riprodurre quanto dichiarato dal presidente, ma deve proiettarsi verso la certificazione di quanto egli direttamente percepisce durante tutta la vicenda assembleare che è chiamato a documentare.Non sarebbe immaginabile, né in alcun modo giustificabile, che il notaio si schermasse dietro il presidente per solennizzare, col crisma della funzione e dell’atto pubblico e senza sostanzialmente avallarli con tutta la connessa responsabilità, fatti e accadimenti che egli può e deve invece percepire direttamente.

42 Così C.A. BUSI, Il presidente dell’assemblea, cit. 789 ss.

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È il caso dell’attestazione a verbale per dichiarazione del presidente della presenza fisica di un certo numero di soci, di membri dell’organo amministrativo o del collegio sindacale, laddove il semplice controllo sul numero dei presenti, spesso esiguo, o la personale conoscenza dei soggetti da parte del notaio, ne rivelerebbe l’inesattezza o la falsità. Vi sarebbe una linea di confine tra ciò che non può che accertarsi a mezzo delle dichiarazioni del presidente e ciò che invece non necessita di questo tramite, ma emerge direttamente dallo svolgimento dell’assemblea o, comunque, può essere portato alla luce da una corretta condotta professionale del notaio.E questa linea di confine è rappresentata da tutta la fase prodromica dell’assemblea che sfugge alla diretta percezione del notaio (l’extrassembleare, nella sentenza della Suprema Corte) e non può che essere documentata attraverso il racconto che, sotto la sua personale responsabilità, ne fa il presidente, dalle modalità e regolarità della convocazione, alla individuazione dei presenti e alla loro legittimazione a partecipare alla discussione e al voto (con i limiti sopra indicati).

5. Gli aspetti contenutistici del controllo

I. Recenti sviluppi sul contenuto del verbale

Sotto il profilo relativo all’individuazione dei presenti e loro legittimazione a partecipare, discussione e voto, assume rilievo una recente pronuncia della Suprema Corte, cui hanno fatto seguito alcune sentenze di merito, in cui si è presa una netta posizione in ordine alla indispensabilità dell’indicazione dei soci partecipanti e votanti. In particolare, la Cassazione, con sentenza 12 gennaio 2017, n. 60343, ha affermato che l’indicazione nel verbale assembleare dei soci partecipanti e votanti è necessaria al fine di ricostruire la genesi del processo deliberativo e di accertare la validità delle determinazioni assunte, con la conseguenza che ove manchi tale documentazione, consistente nel foglio delle presenze da allegare al verbale, la delibera può essere annullata.La Suprema Corte rileva come l’art. 2375, comma 1, c.c., nel testo modificato dalla riforma del diritto societario44, costituisce superamento del dibattito

43 In CNN Notizie del 13 gennaio 2017, con nota A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Verbale assembleare e identificazione dei soci.44 «Le deliberazioni dell’assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal presidente e

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dottrinale e giurisprudenziale vertente sul contenuto del verbale delle deliberazioni dell’assemblea della società per azioni.La norma vigente, che elimina le ambiguità della precedente versione, richiede dunque espressamente che l’identità dei partecipanti all’assemblea risulti dal verbale o da un allegato allo stesso.La previsione, unitamente a quella che esige l’indicazione, nel verbale, delle modalità e del risultato delle votazioni, oltre che l’indicazione, pure per allegato, dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti, è diretta ad assicurare la concreta e immediata conoscenza di quanto avvenuto in sede di assemblea da parte del socio assente e rappresenta lo strumento attraverso cui quest’ultimo è posto nelle condizioni di apprezzare se ricorrano i presupposti per impugnare la delibera assunta (perché, ad esempio, essa è stata approvata in mancanza della maggioranza richiesta o con il voto determinante di un socio in conflitto di interessi).Quanto alle conseguenze della violazione del disposto dell’art. 2375, c.c., l’art. 2377, comma 4, n. 3 c.c. stabilisce che la deliberazione non può essere annullata per l’incompletezza o inesattezza del verbale, salvo che tali mancanze impediscano l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della delibera. Avendo riguardo agli elementi che l’art. 2375 c.c. impone di documentare, le carenze della verbalizzazione prive di influenza, ai fini dell’annullabilità della delibera, sono solo quelle che non pregiudicano la verifica circa il contenuto, gli effetti e la validità di essa: così è, ad esempio, per l’indicazione delle modalità di voto, quando esse non siano imposte dalla legge o dallo statuto.L’indicazione dei partecipanti e dei votanti è di contro necessaria per ricostruire la genesi del processo deliberativo e accertare la validità delle determinazioni assunte, sicché la mancanza della relativa documentazione (anche in “allegato” al verbale) giustifica l’annullamento della delibera. In particolare, l’identificazione nominativa dei soci consente di verificare se i voti siano stati validamente espressi dai soggetti a ciò legittimati (in quanto soci, o in quanto delegati dai medesimi).Il socio ha pertanto un sicuro interesse all’impugnativa della delibera che risulti carente nella verbalizzazione concernente l’identificazione dei partecipanti

dal segretario dal notaio. Il verbale deve indicare la data dell’assemblea e, anche in allegato, l’identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno; deve altresì indicare le modalità e il risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato, l’identificazione dei soci favore astenuti o dissenzienti. Nel verbale devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni pertinenti all’ordine del giorno».

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all’assemblea e dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Tale interesse trova infatti fondamento nel fatto che la mancata identificazione può in sé determinare l’invalidità della delibera, diversamente da quanto poteva affermarsi nel regime anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003.Sotto tale profilo, inoltre, non è sufficiente che la documentazione inerente all’indicazione dei soci, redatta su foglio separato, sia conservata presso la società, a disposizione dei soci, perché l’art. 2375 c.c., nel richiedere un “allegato”, esige non solo la presenza del documento scritto che presenti un contenuto idoneo a integrare le dichiarazioni presenti nel verbale (con riferimento alle indicazioni circa i partecipanti, le rispettive quote di capitale rappresentate e i dati riferiti ai soci favorevoli, assenti o dissenzienti) ma, altresì, che tale documento faccia corpo col verbale, costituendone parte integrante: e ciò si verifica ove il foglio di presenze sia espressamente richiamato nel predetto verbale, o quantomeno materialmente unito, accluso, allo stesso.La diversa opinione è non solo contrastante col significato letterale del termine impiegato dal legislatore, ma risulta, altresì, non congruente col senso dell’intervento normativo, che nell’esigere la presenza del suddetto “allegato”, si pone in linea di discontinuità con quell’orientamento di giurisprudenza che ammetteva, secondo quanto si è sopra accennato, che l’elenco dei soci potesse non essere, per l’appunto, “allegato” al verbale, purché fosse formato dagli organi della società e conservato ai suoi atti.La pronuncia – concernente una controversia vertente su una delibera di approvazione del bilancio – interviene, dunque, sul profilo dell’analiticità del verbale di SpA, nella sostanza riconoscendo che l’indicazione – nel medesimo verbale o in un documento a questo allegato – dei partecipanti, delle quote di capitale rappresentate e dei dati relativi al voto (se favorevoli, assenti o dissenzienti) è un requisito richiesto a pena di annullabilità della delibera.È opportuno ricordare come tale questione sia stata affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento alla precedente formulazione della norma e variamente risolta.Una prima tesi – fatta propria anche dalla Suprema Corte45 – in linea con la ricostruzione favorevole alla sinteticità del verbale46, affermava che l’elenco

45 Cass. 30 ottobre 1970, n. 2263, in Riv. dir. comm., 1971, II, 398 ss.; ma v. anche Cass., 20 giugno 1997, n. 5542, in Mass. Giur. it., 1997; Trib. Trento, 6 luglio 1999, in Giur. comm., 2001, II, 84; App. Roma, 30 agosto 1996, in Giur. it., 1997, I, 2, 218; App. Roma, 18 aprile 1995, in Riv. not., 1995, 154146 In dottrina, per la il verbale sintetico: G. GIANNATTASIO, Il problema della sinteticità od analiticità del verbale assembleare in una complessa vicenda di impugnazione di

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dei soci non dovesse essere obbligatoriamente allegato al verbale e che le indicazioni relative ai partecipanti e a come avessero votato fossero meramente facoltative e del tutto irrilevanti ai fini della validità della delibera.Nell’ambito di tale ricostruzione, poi, in alcune pronunce si affermava che era comunque necessario che l’elenco facesse parte dei documenti che la società ha l’obbligo di conservare, al pari di quanto previsto per le deleghe dall’art. 2372, c.c., per consentire una valutazione a posteriori del corretto e regolare svolgimento dei lavori assembleari47.Soluzione, quest’ultima, che la Suprema Corte espressamente considera inidonea a soddisfare il precetto dell’art. 2375, c.c., vigente.All’opposto, un altro e più rigoroso orientamento richiedeva l’indicazione nel verbale dei nominativi dei soci intervenuti, delle rispettive partecipazioni e del voto assunto48.

deliberazione sociale, in Giust. civ., 1970, I, 1727; C. BUONOCORE, Questioni sul verbale assembleare analitico o sintetico (parere pro veritate), in Riv. not., 1980, 1165; A. GIULIANI, Le verbalizzazioni assembleari: funzioni e norme notarili, cit., 490; ID., Ancora sui verbali di assemblea delle società di capitali, cit., 388; A. DALMARTELLO, Le deliberazioni e il verbale dell’assemblea di società per azioni, in Riv. soc., 1966, 718; L. MISEROCCHI, Il problema della documentazione dell’adunanza e delle deliberazioni assembleari, in AA.VV., La verbalizzazione delle delibere assembleari, giornata di studio dell’8 maggio 1982, organizzata dal Comitato regionale notarile lombardo, Milano, 1982, 4 e ss.; LOVATO, Il verbale delle deliberazioni di società di capitale è atto senza «parti»?, in Riv. not., 1971, 1128 ss.; G. SERPI, Il ruolo del notaio nelle verbalizzazioni delle assemblee, cit., 778 ss.; G. LAURINI, Il ruolo del notaio nella verbalizzazione delle delibere assembleari, cit., 65 ss.; A. PACIELLO, Il verbale di assemblea redatto da notaio, in Riv. not., 1983, 1274; S. TONDO, Verbalizzazioni notarili in materia di assemblee societarie, cit., 471; F. FERRARA - F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, 488, nota 4; G. TANTINI, Si riapre la questione dei verbali di assemblea «analitici» o «sintetici»?, in Giur. comm., 1980, 689; P. BARILE, Sulla legittimità del verbale sintetico, in Riv. soc., 1981, 828 ss. Indicazioni in G. CASU, Funzione notarile di verbalizzazione. Il verbale di assemblea, in Il documento, in Tratt. Perlingieri, Napoli, 2003, 210 ss.47 Cass., 20 giugno 1997, n. 5542, cit.; App. Firenze, 12 settembre 1962, in Riv. not., 1962, 776 ss.; Trib. Vicenza, 23 marzo 1999, in Dir. fall., 1999, II, 566; Trib. Trento, 6 luglio 1999, in Giur. comm., 2001, II, 84 ss.; Trib. Padova, 25 febbraio 2005, in Giur. comm., 2007, II, 451, non nota di NIEDDU ARRICA; in dottrina, G. COTTINO, Diritto commerciale, I, t. 2, Padova, 1999, 357; A. SERRA, L’assemblea: procedimento, cit., 192 ss.48 Cass., 20 giugno 2000, n. 8370, in Società, 2000, 1191 e in Foro it., 2000, 3506, nota di SILVETTI; Cass., 17 gennaio 2001, n. 560, in Giur. it., 2001, 1179, nota di BREIDA; implicitamente, Cass., 24 luglio 2007, n. 16393, in Giur. comm., 2009, II, 46, con nota di NIEDDU ARRICA; Cass. 17 luglio 2007, n. 15950, in Riv. not., 2009, 641, secondo cui «L’elenco nominativo dei partecipanti ne rappresenta quindi un elemento essenziale, trattandosi del documento che contiene gli estremi necessari per l’individuazione di coloro che hanno preso parte ai lavori dell’assemblea e che, appunto per questo, costituisce “fonte primaria di prova della composizione dell’assemblea” ... e della formazione delle sue maggioranze ... Solo identificando nominativamente i singoli votanti è,

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Alle incertezze suscitate dalla previgente disciplina si contrappone la netta scelta del legislatore del 2003 che impone che dal verbale risultino la data dell’assemblea e, anche da un suo allegato, l’identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno, nonché le modalità e il risultato delle votazioni.Inoltre, il verbale deve consentire, anche per allegato49, l’identificazione dei soci

infatti, possibile rilevare se i voti, favorevoli o contrari, sono stati (o meno) validamente espressi ed è possibile individuare i soci legittimati ad impugnare la delibera adottata, perché assenti o dissenzienti”. Detta indicazione, che può essere contenuta anche in un verbale allegato al verbale assembleare, permette di verificare la validità delle deliberazioni assembleare, …»; App. Genova, 24 aprile 1986, in Società, 1986, 1353 ss.; Trib. Roma, 22 ottobre 1996, in Giur. comm., 1997, II, 589 ss.; Trib. Napoli, 6 dicembre 1996, in Società, 1996, 467 ss.; Trib. Roma, 12 novembre 1999, in Giur. it., 2000, 1242; Trib. Roma, 28 gennaio 1994, in Foro it., 1994, I, 878; Trib. Pistoia, 25 marzo 1994, in Società, 1994, 1078 ss.; Trib. Roma, 14 luglio 1993, in Gius., 1994, 123 ss.; Trib. Genova, 3 novembre 1987, in Società, 1988, 83 ss.; Trib. Udine, 17 maggio 1999, in Società, 1999, 1237; Trib. Napoli, 25 novembre 1998, in Società, 1999, 732; App. Milano, 11 agosto 2000, in Giur. it., 2001, 1906; e Trib. Roma, 27 aprile 1998, in Società, 1998, 1442. In dottrina per il verbale analitico V. ANDRIOLI, In tema di verbali notarili di assemblee delle società, in Foro it., 1947, I, 1042; A. GRAZIANI, Giurisprudenza onoraria in tema di società per azioni (Note critiche), in Foro it., 1948, IV, 65 ss.; ANNI, Il verbale della assemblea straordinaria delle società per azioni, in Dir. giur., 1966, 433; G. MINERVINI, Verbale «sintetico» delle assemblee di società?, in Foro pad., 1961, 1211; ID., Ancora sul verbale «sintetico» delle assemblee di società, in Foro pad., 1962, 562; ID., Questioni sul verbale assembleare analitico o sintetico (parere pro veritate), in Riv. not., 1980, 1175; F. FERRARA, Il verbale di assemblea di società per azioni, Milano, 1957, 1 ss.; G.A.M. TRIMARCHI, Invalidità delle deliberazioni d’assemblea delle società per azioni, Milano, 1958, 100 ss..; A. FIORENTINO, Gli organi delle società di capitali, Napoli, 1950, 71 ss.; G. SENA, Il voto nell’assemblea delle società per azioni, Milano, 1962, 427.49 Il principio affermato dalla Suprema Corte trova seguito nella sentenza del Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese del 21 giugno 2017 (in CNN Notizie del 23 giugno 2017, con nota A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Invalidità della delibera assembleare per violazione dell’art. 2375, c.c.) che afferma l’annullabilità della delibera dell’assemblea di una società di capitali se il verbale della seduta non indica i nomi dei soci presenti e le loro espressioni di voto. Fattispecie relativa alla delibera con cui l’assemblea di una Srl, accettate le dimissioni dell’amministratore unico, aveva nominato il nuovo rappresentante legale della società senza che il verbale indicasse i soci presenti, le quote rappresentate e i nomi di chi aveva votato a favore della delibera. Il tribunale osserva che, con la sentenza 603/2017, la Cassazione ha affermato che l’articolo 2375, nel far riferimento a un «allegato», non solo richiede un documento scritto, ma esige che tale atto sia parte integrante del verbale. Il che si verifica solo se «il foglio di presenze sia espressamente richiamato nel predetto verbale, o quantomeno materialmente» unito allo stesso. Nel caso in esame, il verbale si limitava a dare atto che il presidente, verificata la presenza «di un numero di soci non inferiore a quanto previsto dallo statuto sociale ai fini della validità dell’assemblea», dichiarava la seduta «validamente costituita e idonea a discutere e deliberare sugli argomenti posti all’ordine del giorno». Quanto al contenuto delle decisioni adottate dai soci, lo stesso verbale si limitava a registrare che l’assemblea, dopo breve dibattito, nominava il nuovo

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favorevoli, astenuti o dissenzienti50. Il compito di procedere alla «identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti» spetta, comunque, in forza degli artt. 2371 e 2479-bis, comma 4, c.c., al presidente dell’assemblea51.Sotto il profilo dianzi richiamato del perimetro del controllo sulla iscrivibilità della delibera, pare difficilmente potersi contestare che il mancato rispetto delle prescrizioni dell’art. 2375 costituisca ipotesi di insussistenza delle condizioni richieste dalla legge, non fosse altro perché non consente nessun tipo di riscontro in ordine all’effettiva assunzione della decisione e perché impedisce l’individuazione dei soggetti che saranno legittimati ad impugnare ex art. 2479-ter, comma 1, nonché ad esercitare l’eventuale diritto di recesso.E, soprattutto, l’indicazione nel verbale o nell’allegato dell’identità dei partecipanti e del capitale rappresentato da ciascuno, nonché delle modalità e del risultato delle votazioni con l’identificazione dei soci votanti a favore, degli astenuti e dei dissenzienti amplia il corredo documentale che ha a disposizione il notaio per verificare per tabulas l’eventuale ricorrenza di fatti e circostanze ostative all’iscrizione della delibera nel Registro delle imprese.

II. La modifica statutaria e il testo dello statuto aggiornato

È il caso di ricordare come il controllo di iscrivibilità della delibera recante la modifica statutaria concerna solo la clausola modificata e non anche clausole diverse52.

amministratore, a cui conferiva i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione. E dunque, «per come materialmente redatto», il verbale non consentiva di conoscere i nominativi dei soci presenti alla seduta né «il voto da ciascuno di essi espresso in merito al punto all’ordine del giorno». Il che, in conclusione, ha imposto l’annullamento della delibera impugnata. Nello stesso senso, Trib. Roma 20 marzo 2017, in CNN Notizie del 2 maggio 2018, con nota A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Verbale assembleare di cooperativa e identificazione dei soci ex art. 2375, c.c. In precedenza, Trib. Roma, 27 febbraio 2013, in CNN Notizie del 20 aprile 2016, con nota A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Annullabilità della delibera assembleare dal cui verbale non risulti come abbiano votato i singoli soci.50 Invero, per identificare i favorevoli, sarebbe sufficiente indicare i dissenzienti e gli astenuti: così M. MALTONI, Il verbale di assemblea, in Notariato, 2003, 599; F. LAURINI, Sub art. 2375, in Comm. Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2008, 239.51 C.A. BUSI, Il presidente dell’assemblea, Studio n. 70-2009/I, in Studi e materiali, 2011, 864 ss. e 869 ss. CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO, Massima n. 45 del 19 novembre 2004, Tempi e regole per la formazione del verbale di assemblea (art. 2375 c.c.). Fra i contributi più recenti, C. CACCAVALE, A margine della verbalizzazione notarile delle assemblee di società di capitali: in particolare sulla indicazione a verbale dei terzi estranei presenti alla riunione, in Riv. not., 2015, 747 ss.52 In tal senso, cfr. la Massima n. 2 del Comitato Notarile Regione Campania, secondo cui «nel

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Il testo integrale dello statuto, da depositare presso il Registro delle imprese dopo ogni modifica statutaria, nella sua versione aggiornata, cui fa riferimento il comma 6 dell’art. 2436 c.c., non costituisce infatti l’oggetto della delibera modificativa, essendo invece il risultato dell’integrazione “materiale” del testo dello statuto con le singole modifiche che vi sono state apportate; tale adempimento, di natura pubblicitaria, è posto a carico degli amministratori53.In via generale, infatti, occorre distinguere a seconda del tipo di intervento che si effettua sulle regole organizzative della società.Se la delibera consiste nella “approvazione del nuovo statuto” o “sostituzione integrale dello statuto” o simili, è l’intero statuto (sia nella parte di nuova introduzione che nella parte già esistente) ad essere oggetto della deliberazione stessa, con conseguente obbligo del notaio di esercitare il controllo di iscrivibilità ai sensi dell’art. 2436 c.c. sull’intero.Qualora invece la delibera dovesse avere ad oggetto le singole parti dello statuto, il suddetto controllo non potrebbe riguardare le parti non modificate.Prima della riforma introdotta con la l. n. 340 del 2000, in alcuni orientamenti della giurisprudenza onoraria si affermava che, per quanto concerne le tecniche redazionali, «in caso di modifiche statutarie parziali, invece di adottare la ricorrente espressione “l’assemblea approva il nuovo statuto che viene allegato”», fosse «preferibile indicare le single espressioni o i singoli articoli che vengono modificati, sia per evitare un inutile controllo di parti rimaste invariate, sia per scongiurare un’eventuale sospensione dell’omologa in relazione a parti che l’assemblea non ha inteso negoziare»54. Soluzione tutt’ora consigliabile in quanto il notaio, cui oggi spetta il controllo di iscrivibilità, dovrebbe estendere il proprio sindacato anche su clausole che sostanzialmente non sono modificate ed eventualmente rifiutare l’iscrizione della delibera.Inoltre, dato che il notaio ha l’obbligo del controllo di iscrivibilità, la diversa soluzione della approvazione integrale del nuovo statuto adottato – che nella forma è nuovo, ma nella sostanza presenta solo alcune modificazioni rispetto a quello precedente – lo esporrebbe al rischio di una responsabilità (disciplinare o professionale a seconda dei casi) per la (re)iscrizione di clausole (in realtà già esistenti) non conformi a legge.

verbale di assemblea di società di capitali contenente modifiche statutarie il notaio è obbligato al controllo di legalità delle sole modifiche statutarie verbalizzate (e non di tutto lo statuto); tale controllo avverrà in un momento successivo alla redazione del verbale e comunque prima dell’iscrizione della delibera nel Registro delle imprese».53 In questo senso, App. Bologna, 3 marzo 1996, in Società, 1996, 1173; App. Genova, 23 aprile 1987, in Società, 1987, 845. Contra, Trib. Napoli 17 dicembre 1997, in Società, 1998, 463). 54 Orientamenti Tribunale Milano, 1998.

La responsabilità notarile nel controllo sull’iscrivibilità delle delibere di Srl

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In tal senso appare opportuno richiamare alcuni orientamenti notarili successivi alla riforma che ridimensionano anche la questione della rilevanza della «allegazione dello statuto aggiornato».Si è così affermato che «anche dopo il 30 settembre 2004, possono essere legittimamente deliberate modifiche statutarie pur senza avere prima o contestualmente rimosso dallo statuto le clausole nulle, ivi incluse quelle che siano divenute tali per contrasto con norme imperative introdotte dalla Riforma. Il notaio può pertanto legittimamente allegare al verbale assembleare un testo di statuto aggiornato in conformità alla deliberazione assunta, ancorché contenente le preesistenti clausole in contrasto con la legge, ai fini del deposito al Registro delle imprese, non trovando applicazione l’art. 223-bis, comma 6, disp. att. c.c.»55. Nella motivazione della massima milanese si legge che «Qualora l’assemblea straordinaria intenda modificare lo statuto vigente, la mancata eliminazione dallo statuto di disposizioni che ormai non possono più essere applicate non influisce sulla legittimità della deliberazione e non impedisce al notaio verbalizzante di richiedere l’iscrizione della delibera nel competente Registro delle imprese. Dalla riconosciuta legittimità della delibera che introduce modificazioni in statuti per i quali non si è provveduto o non si provvede all’adeguamento discende che, ai sensi dell’art. 2436, ultimo comma, c.c. si può depositare lo statuto aggiornato anche se esso contiene disposizioni ormai affette da nullità sopravvenuta. Deve ritenersi lecita l’allegazione al verbale di assemblea del testo di tale statuto, finalizzata al deposito presso il Registro delle imprese, purché l’assemblea non abbia provveduto ad una riapprovazione dello statuto nella sua totalità».Analogamente, si è sostenuto che «Il notaio non può rifiutare l’iscrizione di una delibera di modifica dello statuto, ai sensi del terzo comma dell’art. 2436 c.c., con riferimento a clausole statutarie non oggetto della delibera e già contenute nel testo dello statuto precedentemente iscritto nel Registro delle imprese»56.Ne deriva, quindi, che appare certamente legittima l’allegazione della copia dello statuto aggiornato con le sole modifiche deliberate ancorché nel testo dello stesso permangano, in parti non modificate e non oggetto di delibera, clausole contrarie a norme di legge.

55 Massima n. 41 elaborata dalla Commissione Società del Consiglio notarile di Milano.56 Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie Orientamento B.A.3.

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III. L’iscrizione “parziale”

Connesso al tema dianzi trattato è poi quello della ammissibilità della iscrizione parziale, in caso di delibera contenente più modifiche statutarie.Sul punto la dottrina e la giurisprudenza si esprimono tendenzialmente in senso favorevole, ritenendo ammissibile che il notaio proceda all’iscrizione solo parziale nel Registro delle imprese nel caso in cui, in unico contesto, siano adottate più delibere, alcune soltanto delle quali illegittime57.Nell’ambito della tesi favorevole, si segnala la posizione di chi ritiene che l’iscrizione parziale sia ammissibile a patto che le modifiche dello statuto siano tra loro indipendenti58.

57 In tal senso M. NOTARI, Sub art. 2436, cit., 2487; G. LAURINI, Il ruolo del notaio nella verbalizzazione delle delibere assembleari, cit., 55. In giurisprudenza, App. Torino 1° dicembre 1995 in Giur. comm., 1996, II, 415, ma, in senso contrario, App. Trieste 29 luglio 1998, in Riv. not., 1999, 1018. 58 G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, cit., 507; A. VISCUSI, Sub art. 2436, cit., 1609; G. ROMANO, Sub art. 2436, cit., 127; CHICCO, Sub art. 2436, cit., 1606. Nell’ambito delle massime notarili, cfr. l’Orientamento B.A.1., Iscrizione parziale di delibere, del settembre 2004, del Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, secondo cui «È ammissibile che il notaio verbalizzante più modifiche dello statuto (deliberate in un’unica assemblea) proceda ad una iscrizione parziale avente ad oggetto le sole modifiche per le quali ritenga verificato l’adempimento delle condizioni previste dalla legge. In questo caso le delibere non iscritte non devono avere alcuna influenza o collegamento con quelle iscritte».

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Le società tra professionisti: profili applicativi e orientamenti della prassi

Daniela Boggiali Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il presente lavoro esamina le questioni emerse nella prassi applicativa della legge sulle società tra professionisti, che riguardano la presenza dei soci investitori, le clausole statutarie, la possibilità per Stp e associazioni professionali di partecipare ad altre Stp e associazioni professionali e, infine, il rapporto tra vecchia e nuova disciplina delle società tra avvocati.

The essay examines the issues arisen in the practical application of the law on companies for professional services, which concern the presence of investor members, the statutory clauses, the opportunity for such companies, firms or associations to be members of other companies for professional services and, eventually, how the ordinance on law firms has changed.

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Sommario: 1. La presenza dei soci investitori nelle Stp: il conflitto tra giurisprudenza, ordini professionali e Agcom. – 2. I sistemi di voto nella Stp. – 3. La nomina dell’organo amministrativo. – 4. Le scelte statutarie opzionali. – 5. Conflitti interpretativi in ordine alla partecipazione di Stp e associazioni professionali in altre associazioni tra professionisti. – 6. La società tra professionisti unipersonale. – 7. La Cassazione sulle società tra avvocati.

1. La presenza dei soci investitori nelle Stp: il conflitto tra giurisprudenza, ordini professionali e Agcom

Il legislatore limita la possibilità dei soci per finalità di investimento o per prestazioni tecniche di influire sulle scelte strategiche della società, prevedendo che il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti debba essere comunque tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci (art. 10, comma 4, lett. b), legge 12 novembre 2011, n. 183, a tenore della quale «in ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni e decisioni dei soci»).Per effetto di tale disposizione, – tanto nell’ipotesi in cui il diritto di voto sia attribuito per teste, come di regola avviene nelle società di persone e cooperative, – quanto nell’ipotesi in esso sia commisurato alla partecipazione al capitale sociale, come invece di regola avviene nelle società di capitali,è necessario che i professionisti abbiano a disposizione un numero di voti almeno pari ai due terzi di quelli complessivi.Sin dall’entrata in vigore di tale disciplina si è posta la questione se i professionisti possano essere meno dei due terzi dei soci e, nelle società di capitali, titolari di meno dei due terzi del capitale, purché, in tali ipotesi, vengano adottate delle pattuizioni tali da garantire agli stessi i due terzi dei voti1.Sul punto, una pronuncia di merito2 e un ordine professionale, il Consiglio

1 Come rilevato dagli Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai, «La legge n. 183 del 2011 prevede che la partecipazione al capitale sociale dei professionisti debba essere tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci, non anche che questi debbano detenere la maggioranza dei due terzi del capitale sociale prescindendo dai diritti di voto» (orientamento Q.A.10, Legittimità di clausole che prevedono maggioranze superiori ai due terzi nelle decisioni dei soci, settembre 2013).2 Tribunale di Treviso, II sezione civile, con ordinanza depositata il 20 settembre 2018, in CNN Notizie del 15 novembre 2018, con nota di A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Società tra professionisti e maggioranza dei 2/3 nelle deliberazioni e decisioni.

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nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, hanno adottato la tesi secondo cui la previsione dell’art. 10, comma 4, lett. b) l. n. 183 del 2011, dovesse esser intesa nel senso che essa prescrive il requisito della prevalenza dei soci professionisti sia nella partecipazione al capitale sociale che nel numero dei soci.Dunque, secondo tale orientamento, i soci professionisti devono sia possedere la maggioranza del capitale sociale che essere in numero tale da garantire la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni, a prescindere, quindi, dal metodo di voto (per quote o per teste).Conclusione questa, che solo apparentemente sembrerebbe fondarsi sul tenore letterale della norma, la quale, tuttavia, non è di così agevole interpretazione.Da un lato, infatti, la presenza della congiunzione “e” (numero dei soci professionisti “e” la partecipazione al capitale sociale dei professionisti) potrebbe far propendere per la riferibilità del requisito della prevalenza ad entrambi i parametri (almeno 2/3 dei soci; almeno 2/3 del capitale). Dall’altro lato, però, la norma (al di là dell’incipit – “in ogni caso” – enfatizzato nella pronuncia) si limita a prevedere che il numero dei soci e la partecipazione al capitale “deve essere tale” da determinare la maggioranza dei 2/3 nelle deliberazioni e decisioni dei soci: il che, invero, sembra avvalorare la tesi, sostenuta anche dagli Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai, secondo cui la legge n. 183 del 2011 prevede che «la partecipazione al capitale sociale dei professionisti debba essere tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci, non anche che questi debbano detenere la maggioranza dei due terzi del capitale sociale prescindendo dai diritti di voto»3.E in tal senso, si sono espressi anche due studi del Consiglio Nazionale del Notariato, per i quali, tanto nell’ipotesi in cui il diritto di voto sia attribuito per teste, come di regola avviene nelle società di persone e cooperative, quanto nell’ipotesi in esso sia commisurato alla partecipazione al capitale sociale, come invece di regola avviene nelle società di capitali, la norma si limita a richiedere che i professionisti abbiano a disposizione un numero di voti almeno pari ai due terzi di quelli complessivi4.Sotto tale profilo, peraltro, non appare rilevante – o almeno non lo può essere

3 Orientamento Q.A.10, Legittimità di clausole che prevedono maggioranze superiori ai due terzi nelle decisioni dei soci, settembre 2013.4 A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Società tra professionisti – Questioni applicative ad un anno dall’entrata in vigore, Studio n. 224-2014/I, in Studi e materiali, 2014, 383 ss.; F.G. NARDONE – A. RUOTOLO – M. SILVA, Prime note sulla società tra professionisti, Studio n. 41-2012/I, in Studi e materiali, 2012, 1133 ss.

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al fine di avvalorare la tesi fatta propria dal Tribunale di Treviso – il richiamo alla più recente disciplina speciale delle società tra avvocati, laddove il comma 2 dell’art. 4-bis l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), introdotto dal comma 141 dell’art. unico della legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza) richiede che i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, siano avvocati iscritti all’albo, ovvero avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni. La scelta del legislatore è stata, in questo caso, inequivoca, nel senso della necessità del rispetto della prevalenza in entrambi i parametri: i 2/3 vanno, infatti, rapportati tanto al capitale sociale quanto ai diritti di voto e non ci si limita a richiedere, come nella legge n. 183 del 2011, che il numero di professionisti e la loro partecipazione al capitale siano tali da determinare la maggioranza dei 2/3 nelle deliberazioni o decisioni dei soci.A tale ultima interpretazione aderisce l’Agcom5, la quale afferma che, al fine di consentire ai professionisti di cogliere appieno le opportunità offerte dalla normativa in materia di Stp e le relative spinte pro-concorrenziali, vada privilegiata l’interpretazione della norma, secondo la quale i due requisiti della maggioranza dei due terzi “per teste” e “per quote di capitale” di cui all’art. 10, comma 4, lett. b), della legge n. 183 del 2011 non debbano essere considerati cumulativi.La ratio sottesa alla richiesta di tali due requisiti, rappresentata dalla necessità di limitare la capacità decisionale dei soci non professionisti, così da evitare che questi ultimi possano influire sulle scelte strategiche della Stp e sullo svolgimento delle prestazioni professionali, può essere realizzata ricorrendo ai diversi strumenti previsti dal codice civile che consentono di limitare o espandere i diritti e i poteri attributi ai soci in relazione al tipo di società scelta e alla relativa governance.Posto che, infatti, le Stp non costituiscono una tipologia societaria autonoma, a seconda del modello societario prescelto, possono essere adottate clausole statutarie che garantiscano ai soci professionisti di esercitare il controllo della società, anche nella situazione in cui, nella compagine societaria, essi

5 Nelle Segnalazioni AS1589 – Distorsioni della concorrenza nel settore delle professioni regolamentate – modalità di applicazione dell’articolo 10 comma 4 lettera b) della legge n. 183 del 2011 (legge di stabilità 2012) e AS1589B – Distorsioni della concorrenza nel settore delle professioni regolamentate – articolo 10 comma 4 lettera b) della legge n. 183 del 2011 (legge di stabilità 2012) del 12 giugno 2019, entrambe pubblicate nel Bollettino n. 24 del 17 giugno 2019, in CNN Notizie del 21 giugno 2019, con nota di D. BOGGIALI, Società tra professionisti e maggioranza dei 2/3 nelle deliberazioni e decisioni.

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siano in numero inferiore ai due terzi e/o detengano quote di capitale sociale inferiore ai due terzi (ad esempio, nelle società personali, i patti sociali possono diversamente regolare i vari diritti dei soci, a condizione che venga rispettato il divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c.; nelle Srl è possibile conferire ai soci professionisti i diritti particolari di cui all’art. 2468, comma 3, c.c. o, nelle Srl PMI, creare diverse categorie di quote; nel caso delle SpA, si possono creare categorie di azioni, sia riconoscendo il voto plurimo ai professionisti, sia limitando il diritto di voto dei non professionisti ricorrendo ad una misura massima ovvero a scaglionamenti ai sensi dell’art. 2351, commi 2 e 3, c.c., o ancora ricorrendo ad azioni speciali prive di voto; infine, nelle cooperative i rapporti tra la società e i soci possono essere disciplinati dai regolamenti inerenti allo svolgimento dell’attività mutualistica ai sensi dell’art. 2521, comma 5, c.c.).L’Autorità ritiene, quindi, che l’interpretazione adottata da taluni Consigli e/o Federazioni di Ordini professionali, che impongono il cumulo dei due requisiti, possa, invece, determinare limitazioni della concorrenza, in quanto si traduce in un ingiustificato ostacolo alla possibilità per i professionisti di organizzarsi in forma di Stp.

2. I sistemi di voto nella Stp

La regola dei due terzi dei voti è sancita genericamente per tutte le deliberazioni e decisioni dei soci, senza specificare la tipologia di delibere e decisioni alle quali essa debba intendersi riferita. In assenza di indicazioni in tal senso, la regola dovrebbe riguardare tanto le delibere assembleari delle società di capitali e cooperative, quanto le modifiche dei patti sociali e le decisioni delle società di persone, considerato che la disposizione in esame sembra doversi intendere nel senso che il legislatore limita la possibilità – per i non professionisti – di influire sulle scelte strategiche della società, al fine di evitare che i soci investitori possano incidere sullo svolgimento delle prestazioni professionali.A tal fine, assumono rilievo tanto le decisioni relative all’assunzione delle regole organizzative e, quindi, le modifiche di statuti, atti costitutivi e patti sociali, quanto quelle relative ad operazioni che richiedano una delibera assembleare o una decisione sociale, come l’approvazione dei bilanci o la nomina degli organi sociali.In sostanza, viene riconosciuta ai professionisti la possibilità di esercitare un potere “dominante” quantomeno in merito a tutte le decisioni che possano direttamente o indirettamente influire sull’espletamento dell’attività professionale, quali i criteri di ripartizione degli incarichi, la scelta di

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collaboratori e ausiliari, la politica di determinazione dei compensi, le modalità di esecuzione della prestazione6.Tale necessità di assicurare statutariamente ai professionisti un ruolo preminente nella gestione sociale non esclude, però, che il voto del non professionista possa essere determinante per l’assunzione della decisione.Innanzitutto, è possibile che, in caso di disaccordo tra professionisti, la maggioranza venga comunque raggiunta con il consenso del non professionista.Sembra, altresì, possibile l’adozione statutaria di un quorum deliberativo superiore ai due terzi dei voti, rendendo così sempre rilevante anche il voto dei non professionisti7.Nelle società di persone, per le modifiche dell’atto costitutivo l’art. 2252 c.c. stabilisce la regola dell’unanimità dei consensi, qualora non sia diversamente disposto.In presenza di tale regola, relativamente alla modificabilità dell’atto costitutivo non assume rilievo il limite dei due terzi dei voti di cui all’art. 10, comma 4, lett. b), l. n. 183 del 2011, considerato che la regola dell’unanimità dei consensi non pone un problema di individuazione di maggioranze di voto.Nel caso, quindi, di società di persone composta da tre soci, di cui due professionisti e un investitore, se non viene disattivata la regola dell’unanimità dei consensi, ancorché i professionisti abbiano due terzi dei voti, per formare una decisione sarà necessario anche il consenso dell’investitore.Differentemente, laddove i patti sociali abbiano disattivato la regola dell’unanimità, prevedendo che le modifiche possano essere adottate a maggioranza, sarà necessario adottare una clausola che accordi ai soci professionisti almeno i due terzi dei voti nella decisione di modifica.Diverso è il discorso per le decisioni per le quali non è richiesta l’unanimità dei

6 A. STABILINI, I soci non professionisti, in Società, 2012, Speciale Società tra professionisti, 54.7 Nell’Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai Q.A.9, Legittimità di clausole che prevedono maggioranze superiori ai due terzi nelle decisioni dei soci, settembre 2013 si sostiene quanto segue: «si ritiene preferibile ritenere che il legislatore non abbia inteso riservare ai soli soci professionisti l’adozione delle decisioni dei soci, ma semplicemente abbia voluto garantire a quest’ultimi una maggioranza particolarmente qualificata al fine di impedire che la società sia controllata dai soci non professionisti, ai quali comunque non è stato sottratto il diritto di voto. A ciò consegue che in tutte le Stp, ferma restando la riserva legale della maggioranza dei 2/3 dei consensi esprimibili nelle decisioni dei soci ai professionisti, trovano applicazione integrale le altre regole sulla determinazione delle maggioranze decisionali proprie del modello societario prescelto, compresa quella eventuale che consente di prevedere nei patti sociali o nello statuto quorum decisionali superiori ai due terzi, rendendo in tal modo necessario il concorso dei soci non professionisti nell’adozione delle decisioni dei soci».

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consensi, quali quelle decisioni relative all’opposizione esercitata da un socio amministratore nei confronti dell’operazione che un altro voglia compiere, laddove la società abbia adottato il sistema di amministrazione disgiuntiva di cui all’art. 2257 c.c.In tal caso, il comma 3 dell’art. 2257 c.c. attribuisce la decisione sull’opposizione alla maggioranza dei soci, amministratori e non, calcolata secondo la parte attribuita a ciascuno di essi negli utili.Sul punto si è rilevato come tali operazioni, per il fatto che sia stata proposta opposizione da uno degli amministratori, siano potenzialmente dannose per la società e tali, quindi, da richiedere una manifestazione di volontà da parte di tutti i soci anche non amministratori8.Ciò rende, pertanto, opportuno adottare una clausola che riconosca, anche per tali decisioni, i due terzi dei voti in favore dei professionisti, a prescindere dalla misura della partecipazione agli utili.Nelle società per azioni, nel caso in cui i professionisti detengano un numero di azioni inferiori ai due terzi, sarà necessario limitare il diritto di voto dei non professionisti ad una misura massima o disporne scaglionamenti ai sensi dell’art. 2351, comma 3, c.c. Viceversa, nelle società a responsabilità limitata si dovrà ricorrere ai particolari diritti di cui all’art. 2468, comma 3, c.c.A titolo esemplificativo si può, quindi, ipotizzare il caso di una Stp in forma di società a responsabilità limitata in cui il professionista sottoscrive il dieci per cento del capitale sociale e il non professionista il restante novanta per cento. In tale ipotesi si deve riconoscere al professionista il diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c. di esercitare i due terzi dei voti in assemblea.

3. La nomina dell’organo amministrativo

Nella disciplina delle Stp non è rinvenibile un divieto di attribuire l’incarico di amministratore ai soci con finalità di investimento o per prestazioni tecniche.Si è, tuttavia, sottolineato in dottrina come il legislatore, nel formulare la norma che limita il voto di tali categorie di soci, abbia avuto verosimilmente a riferimento il modello capitalistico, sì che risulta poi difficile coordinare la disposizione con le regole delle società personali, specie laddove si consideri

8 M. GHIDINI, Società personali, Milano, 1972, 363; R. COSTI – G. DI CHIO, Società in generale. Società di persone. Associazione in partecipazione, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1980, 287; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. II. Diritto delle società, Torino, 2002, 98.

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che per queste società non è contemplato il procedimento assembleare, e tutto – con eccezione delle modifiche del contratto sociale ex art. 2252 e della nomina e revoca degli amministratori della Sas ex art. 2319, c.c. – si incentra sulla disciplina dell’amministrazione9.Tant’è che si è prospettata la questione se, nelle società di persone, l’intento perseguito dal legislatore attraverso la previsione dell’art. 10, comma 4, lett. b), l. n. 183 del 2011 – ossia quello di evitare eccessive ingerenze degli investitori sullo svolgimento dell’attività professionale – debba essere realizzato ricorrendo ad ulteriori pattuizioni, prevedendo in particolare l’attribuzione della carica di amministratori ai soli soci professionisti, in analogia a quanto stabilito dall’art. 5, l. n. 247 del 2012 per le società tra avvocati10.Tale intento sarebbe desumibile, oltre che dall’introduzione del limite dei due terzi, anche dalla ammissione dei non professionisti “soltanto con finalità di investimento” e non, quindi, con poteri gestionali11.Tuttavia, come si è in precedenza rilevato, l’intento del legislatore è quello di fare in modo che i professionisti esercitino un potere “dominante” in merito a tutte le decisioni che possano influire sull’espletamento dell’attività professionale12.Ciò non significa, però, che tale intento possa essere disatteso laddove si attribuisca l’incarico di amministratore a un non professionista.Tra i compiti dell’organo amministrativo esistono, infatti, delle attività tipiche che rimangono estranee allo svolgimento dell’attività professionale, quali la redazione dei documenti contabili, la tenuta dei libri sociali, la convocazione dell’assemblea, la gestione del personale della società.Proprio in considerazione dell’esigenza di consentire al professionista un corretto espletamento della propria attività, può risultare utile l’affidamento di tali compiti ai non professionisti, prevedendo, eventualmente, clausole statutarie aggiuntive volte a riservare l’adozione di scelte rilevanti per lo svolgimento della professione ai professionisti.Ne consegue, quindi, che in mancanza di un esplicito divieto in tal senso, l’amministrazione della società possa essere affidata a soggetti diversi dai soci professionisti13.

9 M. CIAN, Assetti proprietari nelle società tra professionisti, in Nuove leggi civ., 2013, 354.10 M. CIAN, Assetti proprietari nelle società tra professionisti, cit., 358.11 M. CIAN, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni (art. 10 l. n. 183 del 11), in Nuove leggi civ., 2012, 10.12 A. STABILINI, I soci non professionisti, cit., 54.13 Ritengono possibile affidare l’amministrazione della società a non professionisti A. STABILINI, I soci non professionisti, cit., 49; Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai Q.A.11, Composizione soggettiva dell’organo amministrativo di Stp, settembre 2013.

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4. Le scelte statutarie opzionali

A seconda del modello sociale prescelto, l’autonomia statutaria può utilizzare diversi strumenti al fine di garantire ulteriormente i professionisti nell’adozione delle scelte strategiche idonee ad incidere sullo svolgimento dell’attività professionale oggetto della società.Ad esempio, in caso di Snc si potrebbe adottare la regola dell’amministrazione a maggioranza di cui all’art. 2258, comma 2, c.c., riconoscendo ai soci professionisti i due terzi dei voti nelle decisioni relative al compimento di determinati atti, oppure si potrebbe addirittura escludere i non professionisti dall’incarico di amministratori.In caso di Sas, viceversa, la preoccupazione del legislatore di dare “maggior peso” al socio professionista nelle scelte decisionali potrebbe essere soddisfatta mediante l’attribuzione a questi della qualità di accomandatario.Anche nel caso in cui venga adottato un modello capitalistico si rischia di disattendere l’esigenza di limitare il “peso” del socio non professionista, rendendo insufficienti i limiti quantitativi imposti dal legislatore a garanzia delle scelte strategiche dei soci professionisti.Ad esempio, in una società di capitali con un’ampia compagine sociale, in cui i soci professionisti siano titolari ciascuno di piccole partecipazioni, nell’insieme pari ai 2/3 del capitale, il possesso da parte del socio investitore della restante quota di un terzo può essere determinante nelle decisioni della società, compresa la nomina dell’organo amministrativo.Al fine di escludere che gli investitori esercitino un controllo esclusivo sulla gestione della società, sarebbe possibile ricorrere a soluzioni sul piano statutario.Ad esempio, qualora venga scelto il modello della società a responsabilità limitata, si potrebbero attribuire ai soci professionisti particolari diritti amministrativi ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c., ovvero sarebbe possibile fissare particolari requisiti per la nomina ad amministratore (l’esser professionista).Nel caso, invece, di adozione del modello della società per azioni, il controllo dei professionisti sulla gestione della società potrebbe essere garantito attraverso il ricorso alle azioni speciali prive di voto nella nomina delle cariche sociali da attribuirsi ai soci capitalisti14.Ciononostante, si tratta di scelte statutarie opzionali, che non escludono l’ammissibilità di Stp in cui il socio investitore rivesta la carica di amministratore,

14 M. CIAN, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni (art. 10 l. n. 183 del 2011), cit., 11.

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con il rischio di possibili riflessi negativi sull’autonomia che invece dovrebbe connaturare l’operato del professionista.Nulla esclude, altresì, il riconoscimento nelle Srl di particolari diritti sulla distribuzione degli utili in favore dei soci investitori, a compensazione del ruolo dominante dei soci professionisti nella gestione della società.Le parti sono, infatti, libere di determinare una diversa distribuzione degli utili, non proporzionale alla partecipazione, con la più ampia autonomia e con l’unico limite del divieto di patto leonino15.Ciò che conta, nelle società tra professionisti, è che a questi ultimi venga garantita la possibilità di esercitare un potere “dominante” quantomeno in merito a tutte le decisioni che possano direttamente o indirettamente influire sull’espletamento dell’attività professionale, quali – come in precedenza rilevato – i criteri di ripartizione degli incarichi, la scelta di collaboratori e ausiliari, la politica di determinazione dei compensi, le modalità di esecuzione della prestazione16.Una delle ipotesi più ricorrenti di “particolare diritto in materia di utili” è proprio quella di rapportare gli stessi alla qualità e quantità delle prestazioni e degli incarichi professionali effettivamente svolti nell’ambito della società.In sostanza, il “particolare diritto” viene qui ricostruito sulla falsariga della disciplina delle azioni correlate, ai sensi dell’art. 2350, c.c., che per l’appunto si caratterizzano per esser fornite di diritti patrimoniali connessi ai risultati dell’attività sociale in un dato settore, con ciò intendendosi uno specifico ramo dell’impresa sociale o un comparto imprenditoriale: i diritti patrimoniali sono “correlati”, e dunque calcolati, non, come avviene normalmente, sul risultato della società intera, bensì su quello di un “settore” della società stessa.In tale ambito si ritiene che l’autonomia statutaria abbia ampio spazio, essendo arbitra di stabilire i criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili al settore, le modalità di rendicontazione, i diritti attribuibili alle azioni, nonché le eventuali condizioni e modalità di conversione in azioni di altra categoria (art. 2350, comma 2, c.c.). Con un unico vincolo imperativo, e cioè il divieto di pagare dividendi agli azionisti correlati se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio dell’intera società (art. 2350, comma 3, c.c.), per cui, anche

15 P. REVIGLIONO, Commento sub art. 2468 c.c., in G. COTTINO – G. BONFANTE – O. CAGNASSO – P. MONTALENTI (diretto da), Il nuovo diritto societario, Commentario, vol ***, Bologna 2004, 1810; A. SANTUS – G. DE MARCHI, Sui “particolari diritti” del socio nella nuova Srl, in Riv. not., 2004, 85; M. NOTARI, Diritti “particolari” dei soci e categorie “speciali” di partecipazioni, in An. giur. ec., 2003, 69 e 331; A. DACCÒ, I diritti particolari del socio nelle Srl, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G.F. Campobasso, III, Torino, 406.16 A. STABILINI, I soci non professionisti, cit., 54.

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laddove dalla contabilità del settore correlato dovesse emergere un utile, agli azionisti correlati non potrebbero comunque essere pagati dividendi qualora l’ammontare delle perdite della società, complessivamente considerata, fosse superiore all’utile dello specifico settore.E ciò in quanto, malgrado la struttura multidivisionale e la tenuta di una contabilità separata, la società che emette azioni correlate è comunque dotata di un unico patrimonio e di un unico capitale sociale: in caso perdita complessiva della società, infatti, se si procedesse al pagamento dei dividendi per lo specifico settore correlato, si violerebbe il divieto di distribuzione di utili fittizi di cui all’art. 2433, comma 2, c.c.In altre parole, affinché i titolari di azioni correlate al settore percepiscano utili per quel settore, è necessario si verifichi una situazione di “doppio utile”: la società intera deve aver prodotto utili (per non violare il dettato degli artt. 2433, comma 2, e 2350, comma 3, c.c.) e il settore di riferimento deve pure averne prodotti, possibilmente (per gli azionisti correlati) in misura maggiore del resto della società, onde premiare il loro specifico investimento.Non sembra che l’autonomia statutaria nel definirne i diritti patrimoniali spettanti incontri altri limiti, oltre quello, già richiamato, previsto dal comma 3 dell’art. 2350, c.c. (divieto di pagare dividendi se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società) e quello, più generale, del patto leonino ex art. 2265, c.c. Si tratta di una forma di privilegio patrimoniale, rispetto agli azionisti ordinari (ed altre eventuali categorie di azionisti), sugli utili prodotti dal settore correlato, privilegio che può esser dunque diversamente configurato.La configurazione dell’azione correlata può, invero, esser riadattata, in ambito di società a responsabilità limitata, come particolare diritto di “settore” dell’attività di impresa, con i medesimi limiti sopra ricordati quanto alla distribuibilità degli utili, attribuendo tale diritto particolare al socio professionista.Si potrebbe, altresì, procedere alla costituzione di una Stp nella forma di società a responsabilità limitata con la creazione, anche in vista del futuro ingresso di nuovi soci, di categorie di quote dotate di diritti amministrativi e patrimoniali diversificati, ove ricorrano i requisiti delle PMI.In passato, con riferimento alla disciplina delle start up innovative di cui agli artt. di cui 25 e ss. del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 che, per prima, aveva introdotto la possibilità per le società a responsabilità limitata della creazione di categorie di quote fornite di diritti diversi, si erano espresse perplessità circa l’applicabilità alle società tra professionisti: si era rilevato come, nonostante la mancanza di un esplicito divieto in tal senso, apparisse difficile ipotizzare che ne «lo sviluppo,

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la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico», che costituisce, ai sensi del comma 2, lett. f) dell’art. 25 l’oggetto sociale esclusivo o prevalente della start up innovativa, potesse esser ricondotto «l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci»17.Le modifiche introdotte con il decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 convertito con legge 21 giugno 2017, n. 96, che ha esteso alle PMI in forma di Srl le deroghe al diritto societario previste originariamente per le start-up innovative, comportano il superamento di detta conclusione, dato che l’accesso alle “categorie di quote” (oltre che alle altre deroghe espressamente contemplate) per le Srl non è più subordinato alla sussistenza dei requisiti “qualitativi” della start-up (difficilmente rinvenibili in una società tra professionisti o in una società tra avvocati), bensì a quelli “dimensionali” della PMI.In presenza di tali requisiti, quindi, anche una Stp può prevedere nell’atto costitutivo quelle deroghe al diritto societario previste per le PMI; compresa, pertanto, anche la creazione di categorie di quote, per talune delle quali sia escluso il diritto di voto.L’art. 26, comma 2, del d.l. n. 179 del 2012 prevede, infatti, che «L’atto costitutivo della PMI costituita in forma di società a responsabilità limitata può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo, del codice civile». E, al comma 3, si precisa che «L’atto costitutivo della società di cui al comma 2, anche in deroga all’articolo 2479, quinto comma, del codice civile, può creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative».Per l’effetto, dunque, le Srl PMI possono creare categorie di quote prive del diritto di voto o con voto non proporzionale o diritti particolari con voto non proporzionale alla partecipazione o condizionato.Utilizzando, infine, il modello della società cooperativa, sarebbe possibile attribuire ai soci con finalità di investimento la qualità di soci finanziatori possessori degli strumenti finanziari di cui all’art. 2526 c.c., per i quali vige il limite in forza del quale gli stessi non possono esprimere più di un terzo

17 F.G. NARDONE – A. RUOTOLO – M. SILVA, Prime note sulle società tra professionisti, cit., 1134 ss.; D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società tra professionisti – Questioni applicative ad un anno dall’entrata in vigore, cit., 383 ss.

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dei voti in assemblea né eleggere più di un terzo dei membri degli organi di amministrazione e di controllo.Rispetto alla scelta del modello cooperativo, si può rilevare come la struttura organizzativa della società cooperativa appaia particolarmente funzionale allo svolgimento collettivo di attività professionali, in quanto consente di differenziare le diverse posizioni dei soci in ragione della loro partecipazione agli scambi mutualistici18.Lo scopo mutualistico appare, infatti, estremamente compatibile con lo svolgimento di attività di natura professionale, in quanto esiste un rapporto di interferenza e sovrapposizione tra il rapporto mutualistico e l’organizzazione sociale, nel senso che la qualità e quantità degli scambi mutualistici incide sul normale rapporto tra socio e società19.Ad esempio, l’art. 2545-sexies c.c. stabilisce che i criteri statutari di ripartizione dei ristorni devono essere proporzionali alla qualità e quantità degli scambi mutualistici; l’art. 2538, comma 4, c.c. consente allo statuto di attribuire il diritto di voto in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico20; gli artt. 2542 e 2543 c.c. prevedono la facoltà per lo statuto di disciplinare l’elezione di uno o più amministratori e sindaci in base alla partecipazione agli scambi mutualistici21.Particolarmente rilevante appare la disciplina dei ristorni, che consente di remunerare le prestazioni dei soci in misura proporzionale alla qualità e quantità del lavoro prestato.

18 D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le cooperative tra professionisti, in Cooperative, consorzi e società consortili, Milano, 2018, 661 ss., spec. 670 ss.19 A. PIRAS, Rapporto mutualistico e poteri dei soci, in VELLA (a cura di), Gli statuti delle imprese cooperative dopo la riforma del diritto societario, Torino, 2004, 45 ss.; G. PETRELLI, I profili della mutualità nella riforma delle società cooperative, in Studi e materiali in tema di riforma delle società cooperative, Milano, 2005, 5.20 Si deve, peraltro, tenere presente che la facoltà di attribuire il voto plurimo risulta assoggettata a limiti volti a impedire il crearsi di posizioni dominanti che sarebbero in contrasto con il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 2516 c.c. (M. BALZANO, L’assemblea, in MARASÀ (a cura di), Le cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario, Padova, 2004, 572. G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, Milano, 2004, 138, esclude, ad esempio, la possibilità di cumulare i voti spettanti in qualità di socio cooperatore ex art. 2538 comma 4 con quelli spettanti in qualità di socio finanziatore).21 In particolare, l’art. 2542 c.c. sancisce la possibilità di derogare al principio della necessaria nomina assembleare degli amministratori, consentendo che gli amministratori siano «scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie dei soci, in proporzione dell’interesse che ciascuna categoria ha nell’attività sociale» e che allo Stato o ad altri enti pubblici sia attribuita la nomina di uno o più amministratori. Ai possessori di strumenti finanziari può, altresì, essere attribuito il diritto di eleggere fino ad un terzo degli amministratori.

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Altrettanto rilevante appare, inoltre, l’art. 2533 c.c., in base al quale l’eventuale inadempimento, da parte del socio cooperatore, delle obbligazioni nascenti dal rapporto mutualistico integra una causa di esclusione dello stesso dalla società.Si tratta di disposizioni che, derogando all’ordinaria disciplina del rapporto sociale delle società di capitali, attribuiscono rilevanza causale al rapporto mutualistico, rendendo il modello cooperativo particolarmente adeguato allo svolgimento dell’attività professionale.

5. Conflitti interpretativi in ordine alla partecipazione di Stp e associazioni professionali in altre associazioni tra professionisti

Il Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili22 esclude che le Stp e le associazioni professionali possano partecipare ad altre associazioni professionali, muovendo dalla premessa per cui una Stp non potrebbe partecipare ad altra Stp, in quanto ciò consentirebbe di eludere il divieto di partecipare a più di una società tra professionisti sancito nell’art. 10, comma 6, l. 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui «La partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti», e ribadito nell’art. 6, d.m. 8 febbraio 2013, n. 34, in base al quale «L’incompatibilità di cui all’articolo 10, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183, sulla partecipazione del socio a più società professionali si determina anche nel caso della società multidisciplinare e si applica per tutta la durata della iscrizione della società all’ordine di appartenenza»23.Un’interpretazione, quest’ultima, rispetto alla quale potrebbero formularsi alcune osservazioni critiche.In generale, non vi sono limiti espliciti alla possibilità per le Stp di divenire socie di altre società o di altri enti, a condizione che l’assunzione di partecipazioni in altre imprese non determini una sostanziale modifica dell’oggetto sociale.Si deve, infatti, tenere presente che la lett. a) del comma 4 dell’art. 10 l. n. 183 del 2011 impone alle Stp il requisito dell’esclusività dello svolgimento

22 Con il Pronto Ordini 169-2018 del 18 marzo 2019.23 Detta affermazione era già stata espressa dallo stesso il Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, nella circolare n. 33/IR del 31 luglio 2013, La nuova disciplina delle società tra professionisti: iscrizione nel registro delle imprese e nella sezione speciale dell’albo, incompatibilità e regime disciplinare, che aveva escluso la partecipazione ad una Stp da parte di altra Stp, «dal momento che potrebbe in tal modo originarsi un’indiretta elusione della regola per cui la partecipazione del socio è consentita solo ed esclusivamente in una Stp …».

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dell’attività professionale da parte dei soci, da cui consegue l’impossibilità per tali enti di svolgere attività diverse dall’esercizio delle professioni protette, quali ad esempio attività imprenditoriali o l’esercizio delle professioni non protette24.Non appare, però, possibile una valutazione astratta in merito alla sussistenza di una modifica sostanziale dell’oggetto sociale – nel caso di Stp che assuma partecipazioni in altri enti –, perché tale valutazione si fonda su parametri empirici, in quanto occorre verificare se l’assunzione di partecipazioni in altre società o enti determini in concreto la modifica dell’oggetto, anche in relazione all’entità della partecipazione acquistata ed all’intensità del nesso strumentale tra l’acquisto della partecipazione e la realizzazione dell’oggetto statutario25.Va rilevato, comunque, che nel caso della Stp, stante il requisito della esclusività, una modifica di fatto dell’oggetto sociale – da valutarsi secondo le circostanze concrete – potrebbe avere effetti più dirompenti (cancellazione dall’albo) rispetto a quelli che normalmente vengono ricondotti alla violazione, ad esempio, del disposto dell’art. 2361, c.c.Sotto tale profilo, non rileva neppure il comma 6 dell’art. 10, l. n. 183 del 2011 che si limita, infatti, a disporre che «la partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti».Laddove, infatti, la Stp dovesse divenire socia di altra Stp, il disposto dell’art. 10, comma 6, l. n. 183 del 2011 sarebbe rispettato qualora la Stp socia assumesse la qualità di socio per finalità d’investimento o, al più, per prestazioni tecniche.La norma vieta, pertanto, al singolo professionista di partecipare a più di una società tra professionisti, laddove invece una Stp sembra libera di acquisire partecipazioni in altre società o enti, compresa altra Stp, purché non rivesta ovviamente la qualità di socio professionista e ferma restando la necessità di valutare gli eventuali profili deontologici derivanti da possibili abusi, i quali dovranno essere verificati presso l’Ordine professionale competente.Un’interpretazione, quest’ultima, che tuttavia non appare condivisa da alcuni ordini professionali (tra cui, appunto, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili), il che risulta, sul piano concreto, decisivo, posto che sarà poi l’Ordine professionale interessato a valutare l’iscrivibilità e la permanenza della Stp nell’albo di propria competenza.

24 M. CIAN, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni (art. 10 l. n. 183 del 2011), cit., 11 rileva come l’eventuale inserimento delle predette attività nell’oggetto sociale violerebbe il principio dell’esclusività; secondo, poi, l’Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai Q.A.13, Ammissibilità di attività strumentali all’oggetto sociale delle Stp, settembre 2013, sarebbe fatto salvo lo svolgimento di attività meramente strumentali.25 Sul tema, ampiamente, A. PAOLINI, Le modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, Milano, 2014.

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Dal punto di vista operativo, si consiglia, pertanto, di verificare quale sia l’attuale orientamento sul tema da parte degli Ordini professionali coinvolti.Quanto all’analoga ipotesi della partecipazione di una Stp ad una associazione professionale, la questione va affrontata con riferimento al concreto atteggiarsi della “associazione tra professionisti” ed alla sua qualificazione, avuto riguardo anche all’attività che essa andrà a svolgere.Deve darsi conto del fatto di come non si sia mai pervenuti ad un inquadramento univoco di tale istituto giuridico, e la stessa giurisprudenza ha finora oscillato tra varie ricostruzioni, ricorrendo alla configurazione ora come società semplice, ora come contratto di divisione dei proventi, calcolati secondo il principio di cassa e delle spese senza che si venga a costituire un centro autonomo di imputazione di interessi, ovvero ancora come associazione non riconosciuta sui generis26.Rispetto tali ricostruzioni forte è l’impatto che, sul piano sistematico, sembra produrre tanto il venir meno del divieto delle società tra professionisti, quanto la disciplina di cui ai commi 3 e ss. dell’art. 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183 in tema di Stp, e che pare destinato a riflettersi anche sull’inquadramento delle associazioni tra professionisti.In particolare, con riguardo ai possibili tipi societari sotto i quali può esser svolta l’attività della Stp, merita ricordare la scelta di ricomprendervi anche la società semplice, che per definizione è modello utilizzabile per le attività economiche non riconducibili a quella “commerciale”: scelta, questa, che, da un lato, appare coerente con l’impossibilità di sussumere l’attività professionale nell’ambito dell’impresa, e segnatamente quella commerciale, ma che, dall’altro lato, si dimostra, per quel che qui interessa, particolarmente allineata a quelle ricostruzioni che tendevano se non a riqualificare almeno ad applicare le norme sulla società semplice in caso di lacune nel regolamento contrattuale agli antecedenti della Stp, e cioè allo studio professionale associato e, appunto, all’associazione tra professionisti.Infatti, tra le tre alternative fornite dalla giurisprudenza in ordine al dubbio inquadramento delle associazioni tra professionisti – contratto associativo atipico di carattere misto; ente collettivo con autonomia strutturale e funzionale; società semplice – quest’ultimo27 appare forse preferibile perché:– lo scopo di tali associazioni è pur sempre quello di conseguire un vantaggio economico, e dunque è uno scopo di lucro;

26 Per una sintesi, v. D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società tra professionisti – Questioni applicative ad un anno dall’entrata in vigore, cit., 409 ss.27 Cui aderisce, ad esempio, Cass., 23 maggio 1997, n. 4628, in Società, 1997, 1144.

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– la circostanza per cui l’attività di queste associazioni non è né commerciale, né agricola, induce a ritenere che le stesse siano qualificabili come società semplici;– con la legge 183 sono venute meno le remore che impedivano siffatta qualificazione pur affermata da una parte della giurisprudenza e della dottrina28.Rispetto a tale ultimo profilo, assume rilievo una pronuncia, relativa a vicende svoltesi anteriormente alla l. n. 183 del 2011, nella quale un’associazione professionale costituita in Germania, ma operante in Italia, è stata ritenuta legittima, in quanto regolata dal diritto tedesco, che da tempo ammette l’esercizio in comune delle professioni regolamentate nella forma della società di diritto civile (GbR), i cui soci si impegnano a svolgere insieme attività economica lucrativa non commerciale.Pertanto, posto che tale associazione è consentita dalle leggi dell’ordinamento di provenienza, nel quale manca un divieto di società tra professionisti, la Suprema Corte ne ha affermato la liceità ritenendola assimilabile alla società semplice di diritto italiano29.Ciò conferma come, in assenza di un divieto di società tra professionisti, l’esercizio in forma associata dell’attività professionale, in quanto attività economica di tipo non commerciale, sia riconducibile allo schema della società semplice.Tale evoluzione interpretativa appare, altresì, confermata da un ulteriore provvedimento nel quale la giurisprudenza di legittimità afferma la nullità dei contratti di prestazione professionale stipulati da un’associazione che di fatto operava come una società semplice, trattandosi di contratti stipulati anteriormente all’avvenuta abrogazione del divieto delle società tra professionisti30.Da tale affermazione si evince, quindi, implicitamente, che successivamente all’abrogazione del predetto divieto, le associazioni tra professionisti vadano

28 Sul punto A. TOFFOLETTO, Società tra professionisti, in Società, 2012, 33, secondo il quale, con l’abrogazione della l. n. 1815 del 1939 sarebbe venuto meno «il presupposto giuridico del patto associativo» e dunque, a partire dall’entrata in vigore della l. n. 183 del 2011, «tutte le associazioni professionali costituite in base alla legge del 1939 saranno da considerarsi a tutti gli effetti delle società semplici». Tali enti sarebbero, quindi, tenuti ad adeguarsi al modello della società semplice tra professionisti, modificando la propria ragione sociale da “studio associato” a “società semplice tra professionisti”. Nello stesso senso, G. VERNA, La disciplina sulle società professionali: novità, conferme, osservazioni critiche, in Giur. comm., 2014, 724.29 Cass., 16 aprile 2014, n. 8871, in Dir. giust., 2014, 258, con nota di G. PERROTTA, L’associazione tra professionisti tedesca opera in Italia sotto le norme delle società semplici.30 Cass., 29 febbraio 2016, n. 3926, in Riv. not., 2016, 719, con nota di G. MERCURI, Riflessioni sulla società tra professionisti.

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sostanzialmente riqualificate, sul piano della disciplina applicabile, in termini di società semplici.Un ulteriore spunto a sostegno del fatto che l’esercizio delle professioni regolamentate, pur non potendo implicare lo svolgimento di attività commerciali, integri, tuttavia, il compimento di un’attività economica inquadrabile nello schema della società semplice, appare, poi, rinvenibile nella recente disciplina contenuta nel d.lgs. 3 marzo 2017, n. 117, recante il codice del Terzo settore, che all’art. 4, comma 2 esclude espressamente dagli enti del Terzo settore – e cioè gli enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale – «le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche».Benché si tratti di una disposizione che pare alludere alle associazioni professionali di categoria, sembra evidente l’inquadramento delle professioni nell’ambito delle attività economiche che esulano dall’ambito delle attività volte a perseguire finalità non lucrative, che caratterizzano, invece, le associazioni non riconosciute regolate dagli artt. 36 e seguenti del codice civile.Siffatta ricostruzione, se da un lato sembra “aprire”, per quanto sopra detto, alla possibilità che all’associazione partecipino società tra professionisti (che, come detto, potrebbero partecipare ad altre Stp, purché non vi rivestano ovviamente la qualità di socio professionista), dall’altro non fa venir meno le perplessità legate alla circostanza che il concetto stesso di “associazione professionale” presuppone la partecipazione esclusiva di professionisti.E, a tale ultimo riguardo, non pare dirimente la circostanza che le Stp che intendono parteciparvi siano iscritte nei rispettivi albi professionali né il fatto che il loro oggetto esclusivo sia rappresentato dallo svolgimento dell’attività professionale, considerato che questa non è svolta dalla società, ma obbligatoriamente dai soci.Dunque, la questione resta aperta e, soprattutto, l’adesione all’una o l’altra soluzione deve anche tener conto, come già in precedenza ribadito, delle posizioni espresse sul tema dagli Ordini professionali di appartenenza dei soggetti coinvolti.Considerazioni analoghe possono, infine, valere per il caso in cui sia l’associazione professionale a voler partecipare ad altra Stp o associazione professionale.Se si aderisce alla tesi secondo cui le associazioni tra professionisti hanno la natura di società semplice, appare innegabile la loro soggettività giuridica e, quindi, la loro attitudine a costituire un autonomo centro di imputazione di tutti

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i rapporti disciplinati dall’ordinamento, ad eccezione di quelli che richiedono necessariamente l’esistenza di una persona fisica31.Occorre, peraltro, tenere presente che se, da un lato, la capacità giuridica di tali enti sembra riconducibile a quella di un normale soggetto giuridico diverso dalle persone fisiche, dall’altro lato appare comunque opportuno valutare la compatibilità di un atto che tali enti intendono compiere con il particolare oggetto da essi svolto.Pertanto, nulla impedisce, astrattamente, a un’associazione tra professionisti di acquistare partecipazioni in società di capitali, salvo poi valutare come concretamente ciò potrà riflettersi sull’attività e sullo scopo associativo, sia sul piano di una potenziale prevalenza dell’attività di investimento rispetto a quella professionale (che potrebbe implicare una possibile riqualificazione della stessa attività come commerciale), sia sul piano della specifica disciplina della professione interessata.Ad esempio, rispetto a una società commerciale si tratterà di valutare nel merito l’eventuale incompatibilità di un’attività che possa definirsi commerciale con l’oggetto e lo scopo (professionale e, quindi, come tale, non sussumibile nel concetto di impresa e soprattutto di impresa commerciale) dell’associazione. Sicché sembrerebbe consentita una partecipazione che sia strumentale rispetto all’attività dell’associazione (ad esempio, l’associazione professionale è titolare delle quote della società di mezzi strumentale all’attività dei professionisti associati).In secondo luogo, andrebbe poi comunque indagata, sul piano della disciplina del singolo ordine professionale, l’inesistenza di norme ostative a tale partecipazione32.Laddove, poi, la società di cui si intende acquistare una partecipazione sia a sua volta una società tra professionisti, si dovranno ulteriormente valutare le finalità e le concrete modalità della partecipazione dell’associazione professionale all’interno di una Stp.È evidente, infatti, che l’associazione professionale, in quanto ente autonomo e distinto rispetto agli associati, non potrà essa stessa partecipare alla Stp in qualità di socio professionista, né pare possibile che i propri associati possano svolgere l’attività professionale oggetto della società professionale partecipata.

31 D. BOGGIALI, Gli studi associati: i riflessi della loro natura nella “trasformazione” in società tra professionisti, in Società e contratti, bilancio e revisione, 2017, 10, 24 ss.32 A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Costituzione di Srl da parte di associazione tra professionisti, Quesito n. 219-2017/I, in CNN Notizie del 27 marzo 2019; A. RUOTOLO, Associazione fra professionisti socio di società di capitali, Quesito n. 11-2008/I, in CNN Notizie del 5 marzo 2008.

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Sul punto, l’art. 10, comma 4, l. 12 novembre 2011, n. 183, è, infatti chiaro nello stabilire che l’atto costitutivo della società tra professionisti debba prevedere «l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci».Ciò significa che l’associazione professionale potrebbe partecipare alla Stp esclusivamente in qualità di soggetto non professionista, probabilmente per finalità di investimento, e la stessa potrebbe anche detenere la maggioranza del capitale sociale, a condizione che il socio professionista disponga della maggioranza di due terzi nelle decisioni dei soci, eventualmente in forza di un diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c.Inoltre, i professionisti associati all’associazione socia della Stp non potrebbero svolgere l’attività professionale in nome e per conto della società, dovendo quest’ultima essere svolta in via esclusiva dai propri soci e, quindi, non dai professionisti partecipanti all’associazione socia.Maggiori perplessità suscita, infine, l’ipotesi della partecipazione di associazione professionale ad altra associazione professionale, mancando per tale figura giuridica una disciplina analoga a quella che, in tema di Stp, prevede la partecipazione di soggetti diversi dai professionisti, quali, appunto, i soci per finalità d’investimento e per prestazioni tecniche.E, soprattutto, si deve dare atto della posizione di taluni ordini professionali, quale appunto il Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, che nel il Pronto Ordini 169-2018 del 18 marzo 2019 conclude nel modo seguente: «in un’ottica prudenziale, si può concludere che – ferma restando la possibilità di costituire associazioni professionali monodisciplinari o multidisciplinari – sia la costituzione, sia la successiva partecipazione, rappresentano una prerogativa dei professionisti persone fisiche che risultino iscritti in albi o elenchi tenuti da ordini o Collegi, con l’ulteriore corollario che né un’associazione professionale né una Stp possono partecipare ad associazioni tra tali professionisti già costituite».

6. La società tra professionisti unipersonale

La tesi contraria alla ammissibilità della Stp unipersonale venne espressa già nel documento del CUP – Comitato Unitario Permanente degli Ordini e Collegi Professionali, Le società tra professionisti: esame della normativa e proposte di intervento, del gennaio 2012, in cui si affermava che «Il richiamo operato ai titoli V e VI del libro V del codice civile è ai modelli societari tipici dell’impresa, da adattare con tutto quanto previsto ai commi successivi per l’attività dei professionisti. In tale contesto, la lettera della norma fa ritenere impossibile

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la costituzione di società unipersonale dato che il riferimento all’attività professionale “da parte dei soci” sembra escludere differenti interpretazioni. Del resto, poi, neppure è nello spirito normativo introdurre un diverso modo di svolgimento della attività professionale se non quando questa vuole avvenire in forma collettiva».Nello stesso senso, più recentemente, si era espresso l’Istituto di ricerca dei Dottori Commercialisti (Irdcec) nella circolare del 12 luglio 2013, n. 32, secondo cui «a sostegno della tesi contraria alla costituzione di Stp con un unico socio sembrerebbe deporre la stessa legge n. 183 del 2011 quando dispone che l’attività professionale dedotta nell’oggetto sociale deve essere esercitata in via esclusiva da parte dei soci, ovvero quando impone che dalla denominazione sociale – o dalla ragione sociale – emerga con chiarezza l’indicazione che trattasi di società tra professionisti, vale a dire di società costituita per l’esercizio in forma associata della professione».Particolare è la posizione di chi, muovendo dal riferimento alla “società tra professionisti”, proprio per rendere ragione del nomen di cui la società deve fregiarsi, ritiene che il requisito della pluralità di soci professionisti debba esser rispettato, sebbene esclusivamente in sede di costituzione, potendo poi il loro numero ridursi all’unità, nel corso della vita della società33.La questione della ammissibilità del ricorso alla società tra professionisti con unico socio è viceversa affrontata e risolta positivamente dalla prevalente dottrina formatasi all’indomani della entrata in vigore dell’art. 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183 e del d.m. 8 febbraio 2013, n. 34.Si rileva, infatti, come apparentemente, la Stp unipersonale potrebbe sembrare un controsenso, in quanto la disciplina delle Stp nasce proprio con lo scopo di agevolare l’esercizio collettivo delle attività professionali. Viceversa, l’impiego dello strumento della società unipersonale avrebbe il solo scopo di limitare la responsabilità per le obbligazioni derivanti dallo svolgimento dell’attività economica al patrimonio della società.Ciò non esclude, però, che anche il singolo professionista possa avere interesse a costituire una società unipersonale, con lo scopo di usufruire della limitazione di responsabilità prevista per tale tipo di enti.Si deve, poi, dar conto del fatto che nella l. n. 183 del 2011 mancano disposizioni specifiche impongano il carattere pluripersonale della Stp, e che la stessa legge consente espressamente di utilizzare i modelli della SpA e della Srl, le quali possono essere costituite in forma individuale.

33 A. TOFFOLETTO, Società tra professionisti, cit., 37.

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Non sembrano, pertanto, sussistere divieti normativi alla costituzione di una Stp unipersonale, laddove il modello societario prescelto lo consenta34.Per la soluzione affermativa alla costituibilità di una società “tra” professionisti con unico socio (ovviamente abilitato) si esprime anche chi pure rileva come «la funzione del ricorso al modello societario, quando più soggetti si propongano di esercitare collettivamente la professione, è molto diversa da quella assolta dall’istituto societario al cospetto di attività che restano di interesse individuale, dove lo scopo primario sarebbe quello della limitazione del rischio e della responsabilità». Secondo tale Autore, «una impostazione restrittiva di questo tenore tuttavia non convincerebbe, e per ragioni sistematiche (le fondamenta dell’ordinamento societario sono generalmente state da sempre ritenute in sé compatibili con le attività intellettuali e solo vincoli esterni, propri dell’ordinamento professionale, hanno suggerito sino ad oggi atteggiamenti prudenziali o negativi) e per motivi più strettamente inerenti al quadro regolamentare introdotto con la novella, dove la liberalizzazione appare completa e dove i parametri di raccordo tra i modelli organizzativi e l’attività sono esplicitati e non sembra possano essere irrigiditi sulla base di postulati assiomatici non suffragati da alcun dato testuale». «D’altra parte, che il socio unico possa, attraverso l’esercizio della sua attività in forma societaria, limitare la propria responsabilità nei confronti della clientela (il rischio “d’impresa”, senz’altro, verrebbe circoscritto al conferimento) è tutto da vedere, non essendo affatto chiaro se il principio della responsabilità diretta e personale dell’esecutore dell’opera, ancora una volta affermato dalle due discipline di settore, si estenda o no all’istituto nel suo complesso»35.Allo stesso modo si esprime altro Autore36, secondo il quale «potrebbe sorgere il dubbio se sia possibile per un singolo professionista costituire una Stp unipersonale in forma di società per azioni o a responsabilità limitata. Il carattere non precettivo del nome, e la non significatività del plurale presente in alcuni enunciati – quelli del comma 4, lett. a) b) c); e del comma 7 –, inducono a ritenere senz’altro ammissibile la società tra professionisti anche originariamente unipersonale, beninteso, se in forma di SpA o di Srl, alla sola condizione che l’unico socio sia un professionista abilitato all’esercizio della professione».

34 G. MARASÀ, I confini delle società tra professionisti, Le Società, 2012, 398 ss., 401, il quale rileva come la progressiva estensione ai professionisti dello statuto dell’imprenditore renderebbe discriminatoria l’esclusione del professionista dalla possibilità di costituire società unipersonali.35 M. CIAN, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni (art. 10 l. n. 183 del 2011), cit., 9, soluzione poi ribadita dall’A.: Assetti proprietari nelle società tra professionisti, cit., 345 ss.36 C. IBBA, Le società tra professionisti: ancora una falsa partenza?, in Riv. not., 2012, 1 ss.

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L’A. precisa poi che ciò «non vale per le società che – com’è espressamente consentito dall’art. 10, comma 8 – abbiano ad oggetto l’esercizio di più attività professionali, nel qual caso sarà necessaria la presenza, nella compagine sociale, di almeno un professionista per ognuna delle professioni dedotte nell’oggetto sociale»37. In sostanza, il dato letterale rappresentato dal nomen società tra professionisti non sembra in alcun modo impedire – compatibilmente con il tipo adottato – il ricorso allo schema societario da parte del singolo professionista in forma di società unipersonale.Quanto, poi, al rischio di «stravolgere l’essenza stessa della responsabilità del professionista», deve rilevarsi come di per sé lo schema della società tra professionisti, ancorché costituita in forma pluripersonale, sia di per sé idoneo ad alterare il normale regime della responsabilità connessa alla prestazione d’opera professionale. Nonostante, infatti, sia ancora estremamente controversa la questione se il rischio professionale ricada sulla società, o piuttosto sul singolo professionista incaricato dell’esecuzione della prestazione professionale, sussistono diversi elementi che sembrano far propendere per la prima interpretazione e precisamente: la necessità dell’iscrizione presso l’albo o ordine della professione cui la società fa riferimento, l’obbligo per la società di osservare il regime disciplinare dell’ordine al quale risulti iscritta, la stipula di una polizza di assicurazione per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti nell’esercizio dell’attività professionale38.

7. La Cassazione sulle società tra avvocati

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza 19 luglio 2018, n. 1928239, affermano che l’unica disciplina applicabile all’esercizio in forma

37 Aderiscono a tale impostazione, favorevole alla Stp unipersonale, anche O. CAGNASSO, Soggetti ed oggetto della società tra professionisti, in Nuovo dir. soc., 3, 2012, 11; G. BERTOLOTTI, Esecuzione in forma societaria delle professioni intellettuali e impresa, Torino, 2012, 97 e ss; D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società tra professionisti – questioni applicative ad un anno dall’entrata in vigore, cit., 383 ss.; D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Le nuove società tra professionisti “speciali”, in Società e contratti, bilancio e revisione, 2018, 32 ss. In tal senso anche Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai Q.A.5, Stp unipersonale, settembre 2013.38 F.G. NARDONE – A. RUOTOLO – M. SILVA, Prime note sulla società tra professionisti, cit., 1133.39 In CNN Notizie del 20 luglio 2018, con nota di A. RUOTOLO – D. BOGGIALI, Per l’esercizio della professione forense ammesso solo il ricorso alle società tra avvocati.

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societaria della professione forense è quella prevista dalla legge professionale e, in particolare, dall’art. 4-bis, senza, quindi, che possa trovare applicazione la disciplina “generale” sulle società tra professionisti di cui alla legge n. 183 del 2011.All’indomani dell’emanazione della disciplina sulle società tra professionisti, è sorto il dubbio circa la possibilità, per gli avvocati, di ricorrere al modello societario delineato dalla l. n. 183 del 2011, che presenta un più ampio ventaglio di opzioni rispetto alla alla disciplina allora in vigore per gli avvocati e contenuta nel decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96.Il d.lgs. n. 96 del 2001 conteneva disposizioni palesemente più restrittive rispetto alla l. n. 183 del 2011, quali l’applicazione, di default, delle regole della società in nome collettivo e l’inammissibilità della presenza di soci non professionisti, laddove, invece, la Stp può essere costituita ricorrendo sia ai modelli personalistici, sia a quelli capitalistici, nonché alle cooperative, e, inoltre, è consentita la partecipazione di soci non professionisti con finalità d’investimento o per prestazioni tecniche.Sulla possibilità, per gli avvocati, di costituire Stp in deroga alla loro disciplina speciale, contenuta nel d.lgs. n. 96 del 2001, e ricorrendo al modello di Stp di cui alla l. n. 183 del 2011, sembra corretto ritenere che anche dopo l’art. 10 legge n. 183 del 2011 l’unico tipo possibile di società tra avvocati rimaneva quello di cui alla lex specialis contenuta nel d.lgs. n. 96 del 2001.Ciò in quanto il comma 9 dell’art. 10 l. n. 183 del 2011 fa «salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge».Tale disposizione è stata interpretata nel senso che rimangono in vigore i modelli societari regolati nelle precedenti leggi di settore, le quali si pongono come norme speciali rispetto alla disciplina generale sulle Stp contenuta nella l. n. 183 del 2011 e, pertanto, non possono ritenersi abrogate in virtù del principio lex posterior non derogat priori speciali.Conclusioni, queste, ribadite anche nella Relazione di accompagnamento al Decreto del Ministero della giustizia 8 febbraio 2013, n. 34, recante il Regolamento in materia di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico, ai sensi dell’articolo 10, comma 10, della legge 12 novembre 2011, n. 183, e successivamente anche dalla Cassazione a sezioni unite.Tesi, questa, recepita anche dai giudici di legittimità, secondo cui «Dal 1 gennaio 2018 l’esercizio in forma associata della professione forense è regolato dall’art. 4-bis della legge n. 247 del 2012 (inserito dall’art. 1, comma 141, legge

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n. 124 del 2017 e poi ulteriormente integrato dalla legge n. 205 del 2017), che – sostituendo la previgente disciplina contenuta negli artt. 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001 – consente la costituzione di società di persone, di capitali o cooperative i cui soci siano, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, avvocati iscritti all’albo, ovvero avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni, società il cui organo di gestione deve essere costituito solo da soci e, nella sua maggioranza, da soci avvocati».La vicenda dalla quale origina la pronuncia riguardava uno studio legale in forma di società in accomandita semplice, la cui compagine era costituita da un avvocato accomandatario e due soci accomandanti, dei quali uno avvocato e l’altro laureato in economia. Nel 2013 la società aveva vista respinta la domanda di iscrizione all’albo con delibera dell’Ordine degli Avvocati che era stata poi confermata con sentenza del Consiglio nazionale Forense del 2016, che aveva ritenuto inapplicabile la disciplina di cui all’art. 10, commi 3 e ss., della legge 12 novembre 2011, n. 183, sulle società tra professionisti, essendo l’esercizio della professione forense in forma societaria regolato esclusivamente dalle norme sulle società tra avvocati contenute nella legge professionale (d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96) che, all’epoca dei fatti, richiedeva che tutti soci fossero in possesso del titolo di avvocato.Peraltro, il ricorrente sosteneva che quella contenuta nella l. n. 183 del 2011 fosse l’unica disciplina applicabile, interpretando la clausola di salvaguardia di cui all’art. 10 comma 9 della legge 183 («Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge») nel senso che questa avrebbe avuto l’unico scopo di garantire la validità delle società già costituite.Tesi che le sezioni unite smentiscono categoricamente, in quanto in contrasto con il tenore testuale della norma (là dove parla di «modelli societari» e non semplicemente di società), e perché trascura che non vi sarebbe stato alcun bisogno di specificare la perdurante validità delle società già costituite sotto il vigore del d.lgs. n. 96 del 2001, non potendosi configurare nel nostro ordinamento casi di c.d. nullità successiva, ossia nullità conseguente a norme che, in deroga al principio generale secondo cui i requisiti di validità del negozio devono esistere nel momento in cui lo stesso viene posto in essere, stabiliscano – invece – che requisiti essenziali debbano esistere alla stregua della legge vigente e non solo nel momento genetico, ma anche in quello di produzione degli effetti.A fronte delle due possibili ipotesi ermeneutiche alternative tra loro, scaturenti dalla perdurante validità dei modelli societari di cui agli artt. e 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001, e cioè:

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a) che anche dopo l’art. 10 legge n. 183 del 2011 l’unico tipo di società tra avvocati sarebbe stato quello di cui alla lex specialis contenuta nel citato d.lgs. n. 96 del 2001 (in tal senso era orientata la prevalente dottrina);b) che, invece, oltre a tale tipo di società (note con l’acronimo di Sta) disciplinato dal cit. d.lgs. n. 96 del 2001, gli avvocati avrebbero potuto altresì costituire società tra professionisti (note con l’acronimo Stp) ai sensi dell’art. 10 legge n. 183 del 2011 e, quindi, società anche di capitali, multidisciplinari e con la presenza di professionisti iscritti in altri albi o di soci di capitale,per le sezioni unite, l’avverbio «esclusivamente», contenuto nell’art. 16 d.lgs. n. 96 del 2001, non consentiva per gli avvocati un concorso in via elettiva di entrambi i modelli societari che evitasse il conflitto tra le due norme (art. 16 d.lgs. n. 96 e art. 10 legge n. 183).Pertanto, in virtù del principio regolatore del conflitto di norme di pari rango secondo il quale lex posterior generalis non derogat priori speciali, doveva necessariamente darsi prevalenza alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 96 del 2001, con conseguente divieto di Stp tra avvocati regolate dall’art. 10 legge n. 183 del 2011.Rispetto a tale conclusione, peraltro, la sentenza dà conto delle novità introdotte dalla legge 124 del 2017, che inserendo l’art. 4-bis nella legge 247 del 2012 – contenente una compiuta e speciale disciplina delle società tra avvocati che consente la multidisciplinarietà e anche la partecipazione di soci non avvocati seppur in misura non superiore ad un terzo del capitale sociale – costituisce oggi la lex specialis posterior destinata comunque a prevalere tanto sulla (anteriore e) generale disposizione dell’art. 10 legge n. 183 del 2011, quanto sulla parimenti speciale, ma anteriore, disciplina di cui agli artt. 16 e ss. dello stesso d.lgs. n. 96 del 200140.Rispetto al principio affermato nella sentenza delle Sezioni Unite, si è ritenuto che la previsione dell’art. 4-bis l. 31 dicembre 2012, n. 247 si fosse andata ad aggiungere a quella contenuta nel decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96, sul quale la legge n. 124 del 2017 non interviene, limitandosi a consentire l’esercizio della professione forense a società di persone, di capitali e cooperative iscritte

40 Le conclusioni cui pervengono le sezioni unite appaiono in larga parte coincidenti con la posizione assunta dal Consiglio Nazionale del Notariato negli approfondimenti sulla materia: v. D. BOGGIALI – A. RUOTOLO, Società tra professionisti – questioni applicative ad un anno dall’entrata in vigore, cit., 383 ss.; F.G. NARDONE – A. RUOTOLO – M. SILVA, Prime note sulla società tra professionisti, cit., 1133 ss.; A. RUOTOLO, L’esercizio in forma societaria della professione forense (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), in CNN Notizie 11 agosto 2017.

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in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società. Per cui ne derivava che gli avvocati sarebbero stati destinatari nella sostanza di ben due diverse discipline “speciali”, entrambe sottratte all’ambito di applicazione delle disposizioni dell’art. 10, l. n. 183 del 201141.Soluzione, quest’ultima, che viene invece esclusa dalla citata sentenza, per la quale l’art. 4-bis nel d.lgs. n. 96 del 2001, introdotto dalla legge 124 del 2017, prevale in quanto lex specialis posterior sulla parimenti speciale, ma anteriore, disciplina di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 96/2001, che sarebbe stata, in definitiva, implicitamente abrogata.

41 A. RUOTOLO, L’esercizio in forma societaria della professione forense (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), cit.

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Parte II

Legislazione speciale: studi ed approfondimenti

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Brevi riflessioni sulle recenti modifiche alla legge Assegni

Mauro Leo Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il contributo analizza l’impatto delle modifiche agli articoli 31, 45 n. 3, 61, 86, 66 della legge Assegni, introdotte dal d.l. 13 maggio 2011, n. 70 – che ha disciplinato la presentazione al pagamento degli assegni in formato elettronico – e il ruolo svolto dalle Stanze di Compensazione. Si è messa in evidenza, inoltre, la scarsa incidenza della nuova disciplina sul principio della localizzazione del pagamento e del protesto, rispetto al ruolo tradizionalmente svolto dai pubblici ufficiali a ciò competenti.

The contribution analyzes the impact of the changes to articles 31, 45 n. 3, 61, 86, 66 of the Checks Law, introduced by d.l. 13 may 2011, n. 70 – which governed the presentation of electronic checks for payment – and the role played by the Clearing Offices. The low impact of the new regulation on the principle of localization of payment and protest was also highlighted, compared to the role traditionally played by public officials competent for this.

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Sommario: Premessa. – 1. Stanze di Compensazione. – 1.1 segue. Quadro normativo. – 1.2 Segue. I “sistemi di pagamento” ex art. 45 n. 3 legge Assegni – 1.3 Segue. La necessità delle stanze di compensazione per la dichiarazione equivalente al protesto. – 2. La competenza territoriale per il protesto. – 3. La competenza territoriale dei pubblici ufficiali abilitati alla levata del protesto nel sistema della legge Assegni. – Riflessioni conclusive.

Premessa

Si chiede se ed in che misura, l’introduzione della nuova disciplina sulla presentazione al pagamento degli assegni in formato elettronico – secondo le modifiche apportate dal d.l. 13 maggio 2011, n. 70 (convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106) alla legge Assegni (agli articoli 31, 45 n. 3, 61, 86, 66) - abbia modificato l’intero quadro normativo di riferimento che i soggetti competenti a constatare formalmente il mancato pagamento del titolo, devono osservare in sede di levata del protesto o di emissione della dichiarazione equivalente.Il dubbio si ricollega, innanzitutto, alla constatazione che la riforma del 2011 non ha disciplinato la dematerializzazione dei titoli di credito a livello sistematico, e cioè modificato il sistema di emissione e di circolazione dei titoli di credito1, ma è intervenuta solo nella fase finale della presentazione del titolo al pagamento e quindi ha innovato esclusivamente nell’ambito rapporti interbancari; nulla è cambiato infatti «nei rapporti con la clientela, la quale continuerà a presentare all’incasso il titolo in formato cartaceo, come fatto fino ad oggi»2.Da ciò consegue che l’interprete, a fronte dell’invarianza del sistema di emissione e di circolazione dei titoli di credito in parola, non può non chiedersi come possano conciliarsi – in particolare con il nuovo n. 3 dell’art. 45 legge Assegni – le altre norme non modificate di questa legge, da cui si evince il necessario collegamento ad un determinato luogo, sia della presentazione dell’assegno al pagamento che dell’elevazione del protesto che, in base all’art. 62 legge Assegni, si deve fare «nel luogo di pagamento».Se è così allora è lecito anche chiedersi se con riferimento al complesso normativo

1 Ciò sarebbe stato possibile nel caso in cui fosse stato (già) creato quel sistema normativo auspicato dall’ABI (cfr. Agenda digitale del settore bancario italiano del 2012, 8 ss.) che avrebbe favorito la digitalizzazione dell’interazione tra banca e clientela.2 S. PETROSEMOLO, Assegno elettronico: nuove regole per banche e intermediari, in www. dirittobancario.it, 3 che segnala come la soluzione scelta dal nostro ordinamento è diversa da quelle adottate in altri sistemi (soprattutto di common law) nei quali sono diffuse soluzioni di c.d. remote deposit capture, ove la firma digitale apposta sull’immagine dell’assegno appartiene direttamente al cliente, che presenta all’incasso una scansione dell’assegno ai fini del successivo inserimento, sempre in formato elettronico, nel circuito interbancario.

Brevi riflessioni sulle recenti modifiche alla legge Assegni

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costituito dalla legge Assegni, dalla legge n. 349 del 1973 e dalla legge n. 55 del 1977, la dichiarazione della Banca d’Italia ex art. 45 n. 3 legge Assegni – all’esito della procedura telematica immaginata dalla normativa secondaria3 – attestante che l’assegno presentato al pagamento presso lo stabilimento bancario indicato sul titolo non sia stato pagato, debba necessariamente provenire da una o più determinate diramazioni dell’Istituto di emissione radicate sul territorio, non avendo questa norma indicato alcuna articolazione della Banca d’Italia localizzata sul territorio deputata ad effettuare quella dichiarazione.

1. Stanze di compensazione

Un problema interpretativo sorge – a causa dell’infelice tecnica legislativa utilizzata – con riferimento alle stanze di compensazione, tuttora pienamente legittimate a ricevere la presentazione dei titoli al pagamento in base all’art. 34 legge Assegni (non abrogato dal d.l. n. 70 del 2011) secondo cui «la presentazione ad una stanza di compensazione equivale a presentazione per il pagamento».Si registra infatti un evidente difetto di coordinamento tra questa disposizione e l’art. 45 n. 3 legge Assegni il quale, dopo le modifiche apportatavi dal d.l. n. 70 del 2011 e dall’art. 17-ter, comma 1, d.l. 14 febbraio 2016, n. 18 (convertito, con modificazioni, dalla l. 8 aprile 2016, n. 49), non prevede più che il rifiuto del pagamento sia constatato (anche) «con dichiarazione di una stanza di compensazione». È ora testualmente previsto, infatti, che il rifiuto del pagamento di un assegno può essere constatato esclusivamente «con dichiarazione della Banca d’Italia richiesta da un banchiere che si avvale dei sistemi di pagamento da essa gestiti».In base a questa norma, quindi, non sono più le stanze di compensazione a rendere la dichiarazione equivalente al protesto, ma direttamente la Banca d’Italia che si avvale dei sistemi di pagamento da essa gestiti, sicché appare più che fondato il dubbio se dal quadro normativo sopra delineato, discenda o meno la cessazione della competenza delle stanze di compensazione a rendere quella dichiarazione.Tale incertezza interpretativa non è solo conseguenza diretta della nuova disciplina ma – a ben vedere – affonda le radici nella stessa difficoltà di inquadramento sistematico delle stanze di compensazione, delle quali la

3 Decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 3 ottobre 2014, n. 205 e Regolamento della Banca d’Italia del 22 marzo 2016.

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ricostruzione del quadro normativo di riferimento si presenta oltremodo gravoso. Una chiara individuazione della loro natura consentirebbe, ad esempio, di comprendere se le stanze di compensazione siano o meno ricomprese tra i “sistemi di pagamento” gestiti dalla Banca d’Italia di cui al nuovo art. 45, n. 3 legge Assegni, problematica acuita dalla difficoltà di individuare, in termini generali, una definizione unitaria di “sistemi di pagamento” come appresso meglio precisato.

1.1. Segue. Quadro normativo

Come detto la principale difficoltà nella ricostruzione della disciplina delle stanze di compensazione, risiede nella disorganicità della stessa. L’interprete si trova al cospetto di una disciplina «frammentaria, incompleta e non coordinata»4, nonostante le stanze di compensazione gestite ed organizzate dalla Banca d’Italia possano senz’altro essere accreditate dello svolgimento di un “servizio pubblico”.Tale caratterizzazione del ruolo svolto dalle stanze di compensazione può farsi coincidere con il R.d.l. 6 maggio 1926, n. 812.Prima di questo provvedimento le finalità istituzionali che la legge 7 aprile 1881, n. 133 affidava alle neo istituite stanze di compensazione “nelle principali città” (al cui interno sedevano un rappresentate del Tesoro dello Stato ed un rappresentante delle sedi e delle succursali delle banche di emissione, delle casse di risparmio, delle banche di sconto e popolari e dei principali banchieri), era quello di riscontrare i biglietti pagabili a vista e al portatore e delle compensazioni degli altri titoli di credito. Con l’unificazione del servizio sull’emissione dei biglietti di banca ad opera del R.d.l. 6 maggio 1926, n. 812, convertito in l. 25 giugno 1926, n. 1262, venne meno la funzione della “riscontrata” dei biglietti di banca affidata alle stanze e fu stabilito che l’esercizio delle stanze di compensazione dovesse essere affidato, dal 1° luglio 1926, esclusivamente alla

4 M. BONADUCE, Natura e finalità delle stanze di compensazione, in Bancaria, 1985, 7, 1128. Tra gli studiosi vi è incertezza anche sulle origini storiche delle stanze di compensazione. Come ricorda E. NTUK, voce Stanze di compensazione, in Nss. D.I., sez. comm., 2006, è diffusa l’opinione secondo cui i più probabili antecedenti storici delle stanze di compensazione sarebbero le le cosiddette fiere dei cambi (secoli XII-XIV), oppure la cosiddetta “riscontrata” che veniva effettuata dai banchi privati di Napoli (secolo XV), oppure ancora le “Stanze dei pubblici pagamenti di Livorno”. Vi è comunque unanimità nel ritenere che la prima e più importante stanza di compensazione d’Europa sarebbe stata la Clearing House di Londra sorta tra il 1771 ed il 1776.

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Banca d’Italia. L’intero R.d.l. n. 812 del 1926 è stato abrogato dal combinato disposto del comma 1 dell’art. 1 e dell’allegato 1 al d.P.R. 13 dicembre 2010, n. 2485 per cui oggi è difficile individuare la fonte normativa che attribuisca alla Banca d’Italia l’organizzazione e la gestione delle stanze di compensazione, compreso anche il potere di istituirne di nuove o di sopprimere quelle esistenti. È certo però che in origine tale potere spettava al Governo.Con il R.d.l. 19 maggio 1881, n. 220, recante “Provvedimenti per l’istituzione di stanze di compensazione”, in esecuzione di quanto previsto nella legge n. 133 del 1881, si stabilì che il ministero competente (che all’epoca era il Ministero per l’agricoltura, industria e commercio) di concerto con quello del Tesoro, promuovesse l’istituzione di stanze di compensazione nelle (“principali”) città di Roma, Napoli, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Genova, Palermo, Bologna. Messina, Catania, Bari e Cagliari. In seguito, il R.d.l. 8 giugno 1936, n. 1911 (“Riordinamento delle stanze di compensazione”) aveva previsto che con successivi decreti del Capo del Governo fossero emanate norme integrative e regolamentari per l’eventuale istituzione di nuove stanze di compensazione e per il funzionamento di quelle esistenti. Più di recente con il decreto del Ministero del tesoro del 6 giugno 1989 (non reperito), si sono costituite stanze di compensazione in ogni capoluogo di regione presso le corrispondenti filiali della banca d’Italia, provvedendosi «non solo alla costituzione di nuove stanze presso talune Filiali della Banca d’Italia, ma anche alla istituzione (presso le filiali prive di “stanze”) di Sezioni staccate, destinate a sostituire i c.d. servizi di compensazione, operanti nei rispettivi capoluoghi regionali esclusivamente per l’esercizio della «compensazione recapiti» allo scopo di attivare la previsione normativa dell’art. 45, n. 3 del R.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, concernente la dichiarazione della «stanza» sostitutiva del protesto6. Dopo questo decreto si perdono le tracce dei provvedimenti normativi (di rango secondario o regolamentare) che portano all’attuale assetto territoriale delle stanze di compensazione che, originariamente costituite presso le varie filiali della Banca d’Italia, a partire dal 12 ottobre 1998 si riducono a due sole stanze, a Roma e Milano7.

5 Già prima del 2010 non si dubitava dell’esistenza in capo alla Banca d’Italia di un potere ex lege di organizzazione del servizio delle stanze di compensazione, per tutti F. CIRILLO, Poteri normativi della banca d’Italia e regolamentazione degli assegni fuori piazza, in Banca borsa tit. cred., 1992, I, 343.6 F. CAPRIGLIONE, voce Stanze di compensazione, in Enc. giur. Treccani, 3.7 La data a partire dalla quale ciò sarebbe avvenuto è quella del 12 ottobre 1998, ma al di là di una tralatizia ripetizione della data non viene mai citato il provvedimento normativo o regolamentare che ciò ha previsto.

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1.2. segue. I “sistemi di pagamento” ex art. 45, n. 3 legge Assegni

L’altro aspetto che rende difficile comprendere se gli assegni possano ancora essere presentati per il pagamento presso le stanze di compensazione, attiene alla permanenza stessa di tali istituzioni nel sistema dopo il d.l. n. 18 del 2016. La stessa Banca d’Italia mantiene sul punto un atteggiamento ambiguo, così come emerge dai documenti sul “servizio” di dichiarazione sostitutiva di protesto (DSP), tutti successivi al d.l. n. 18 del 2016 che ha determinato l’attuale assetto dell’art. 45, n. 3 legge Assegni per un verso lasciando intendere che le stanze di compensazione non siano più funzionanti quali soggetti di riferimento nella procedura di emissione della DSP. Per altro verso affermando chiaramente che le Stanze di compensazione mantengono un ruolo niente affatto marginale nella DSP. Ad esempio, nel comunicato dell’agosto 2016, l’istituto di emissione scrive che «Il legislatore, inoltre, nel preservare il ruolo della Banca d’Italia in materia di rilascio delle dichiarazioni sostitutive del protesto, ne ha ampliato il perimetro, rimuovendo il precedente vincolo che attribuiva tale attività alle Stanze di compensazione limitatamente agli assegni scambiati presso di esse. Il processo preordinato al rilascio delle dichiarazioni sostitutive, attualmente basato sulla gestione delle materialità, è stato pertanto adeguato e sono state previste nuove modalità di colloquio telematico con i fruitori del servizio».Nella guida agli operativi del dicembre 20178, invece, la Stanze di compensazione tornano ad assumere un ruolo centrale nella procedura di DSP, laddove per gli assegni non dematerializzati la condizione per il rilascio della dichiarazione della Banca d’Italia ex art. 45 n. 3 legge Assegni, è che sia avvenuta «la presentazione dell’assegno ad una Stanza di compensazione della Banca d’Italia».Riguardo a quest’ultimo profilo, a ben vedere, non si comprende quale sia la fonte normativa primaria che consente alla Banca d’Italia di emettere la DSP con riferimento agli assegni non dematerializzati. L’art. 61 comma 3 legge Assegni, infatti, consente di effettuare (il protesto e) la constatazione equivalente in forma elettronica esclusivamente sull’assegno «presentato al pagamento in forma elettronica». Ed è evidente che se presso le Stanze di compensazione l’assegno può essere presentato solo in formato cartaceo, non essendo stato previsto che a queste possano essere presentati gli assegni in formato elettronico (come pure l’art. 31 comma 3 legge Assegni consentirebbe), resta oscura la ragione per la quale nella Guida agli operatori

8 Il servizio di rilascio delle dichiarazioni sostitutive del protesto – Guida per gli operatori – Dicembre 2017.

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del dicembre 2017, si prevede per gli assegni non dematerializzati l’emanazione della DSP da parte della Banca d’Italia9.Questa DSP non potrebbe evidentemente ascriversi a quella che ex art. 45 n. 3 sarebbe legittimata ad emettere la Banca d’Italia: così, infatti, sarebbe potuto avvenire (forse) prima del d.l. n. 18 del 2016, quando la formulazione del suddetto art. 45 n. 3 era nel senso che le stanze di compensazione operavano – a questi fini – quale articolazione dell’istituto di emissione («… con dichiarazione della Banca d’Italia, quale gestore delle stanze di compensazione …»)10. Ma quella DSP non potrebbe ricollegarsi neppure alla formulazione dell’art. 45 n. 3 prima della modifica apportatavi dal d.l. n. 70 del 2011 («con dichiarazione di una stanza di compensazione»), facendo in modo che la stessa constatazione equivalente continui a provenire dalle Stanze di compensazione e non dalla Banca d’Italia, ignorandosi però il dato normativo contrario.Connesso a tale aspetto vi è anche quello – cui si è già accennato – volto a comprendere se le stanze di compensazione possano ritenersi ricomprese tra i

9 Nella Guida del dicembre 2017 citata alla nota 8, sembra confondersi il mezzo con il luogo di pagamento. Le nuove disposizioni hanno introdotto esclusivamente una modalità di trasmissione del titolo (e indi della distinta con la richiesta di protesto o dichiarazione equivalente) che anziché pervenire in formato cartaceo alla banca trattaria e quindi al pubblico ufficiale levatore, perviene in formato elettronico. Il sistema di pagamento non è in questione né è stato minimamente riguardato dalla riforma. Tanto più questo è vero in quanto la citata norma dell’art. 45 non fa riferimento tout court alla «dichiarazione della Banca d’Italia sostitutiva di protesto» bensì alla «dichiarazione della Banca d’Italia richiesta da un banchiere che si avvale dei sistemi di pagamento da essa gestiti». E ciò risulta evidente se si pone mente all’evoluzione normativa della disposizione che nel previgente testo introdotto dal d.l. n. 70 del 2011 faceva riferimento alla «Banca d’Italia, quale gestore delle stanze di compensazione o delle attività di compensazione e di regolamento delle operazioni relative agli assegni», che risultava pienamente in linea con l’art. 34 legge assegni ove si prevedeva che «la presentazione ad una stanza di compensazione equivale a presentazione per il pagamento». Non può, dunque, anche nel vigente ordinamento farsi a meno per la presentazione tanto degli assegni cartacei quanto di quelli dematerializzati delle Stanze di compensazione (delle quali non può farsi a meno, pena la perdita di coerenza rispetto al dato normativo), perché solo la presentazione ad esse equivale a presentazione per il pagamento, rispettando il principio del luogo del pagamento.10 L’attuale formulazione dell’art. 45, n. 3 legge Assegni rende di difficile inquadramento anche l’art. 17 delle Norme per la partecipazione a BI-COMP – Guida per gli operatori (dicembre 2017), disponibile sul sito www.bancaditalia.it laddove è prevista la consegna dal trattario alla Stanza di compensazione degli assegni non pagati e che «con la presentazione dell’assegno a una Stanza di compensazione della Banca d’Italia, il negoziatore autorizza quest’ultima a rilasciare la dichiarazione sostitutiva del protesto su richiesta del trattario, in conformità a quanto previsto nel precedente comma». Ancora più oscura la precedente versione dello stesso art. 17 (novembre 2017) in cui era previsto che all’emanazione della DSP provvedesse il Capo della Stanza di compensazione nonostante la formulazione dell’art. 45 n. 3.

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“sistemi di pagamento” gestiti dalla Banca d’Italia, soprattutto perché manca nel sistema una definizione unitaria di “sistemi di pagamento”11. Questa ad esempio è assente nel T.U. bancario, pur rinvenendosene indicazioni disaggregate in altre fonti normative interne, dalle quali tuttavia non è possibile ricavare una nozione omogenea (cfr. art. 1 lett. r), d.lgs. n. 210 del 2001; art. 1 d.lgs. n. 11 del 2010)12.Resta incerto quindi – e il tema merita senz’altro ben altri approfondimenti – se i “sistemi di pagamento” nella materia del protesto degli assegni alternativo alle stanze di compensazione, gestiti dalla Banca d’Italia ex art. 45, n. 3 legge Assegni, siano quelli per i quali l’Istituto di emissione abbia potere normativo che, ove sussistente, sembrerebbe discendere dal nuovo art. 146 TUB. Tale disposizione attribuisce alla Banca d’Italia nell’ambito della “sorveglianza sui pagamenti”, un potere normativo generico e dai confini piuttosto frastagliati13.Se non altro perché i provvedimenti dell’Istituto di emissione si indirizzano (così l’art. 146 TUB) nei confronti dei soggetti che «emettono o gestiscono strumenti di pagamento, prestano servizi di pagamento, gestiscono sistemi di scambio, di compensazione e di regolamento o che gestiscono infrastrutture strumentali tecnologiche o di rete», mentre nella nuova procedura della dichiarazione sostitutiva del protesto, la piattaforma informatica verrebbe gestita direttamente dalla Banca d’Italia che assumerebbe allo stesso tempo il ruolo di ente normatore e regolatore del sistema. La prospettiva sarebbe completamente diversa, invece, nel caso in cui si ritenga che nella potestà normativa generale della Banca d’Italia non rientri il potere di

11 Nelle definizioni riportate da N. DE GIORGI, La funzione di sorveglianza sul sistema dei pagamenti in Italia, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, settembre 2014, 17 ss., reperibile su www.bancaditalia.it, ricorre l’elemento comune rappresentato dall’insieme degli strumenti, delle procedure e dei circuiti di collegamento volti a realizzare il passaggio della moneta – anche mediante compensazione – da un operatore all’altro. È evidente che una categoria così ampia potrebbe anche essere astrattamente idonea ad accogliere il sistema dei recapiti locale degli assegni delle stanze di compensazione.12 Sul punto si è già osservato (N. DE GIORGI, La funzione di sorveglianza, cit.) che «si trae l’impressione di una scelta legislativa deliberatamente tesa ad astenersi dal dettagliare compiutamente il perimetro del “sistema dei pagamenti” e i singoli pagamenti inclusi al suo interno, verosimilmente in ragione della complessità del fenomeno da regolare e dell’incidenza che sullo stesso hanno nel corso del tempo le innovazioni tecnologiche con riferimento sia alle infrastrutture che agli strumenti e alle tecniche di pagamento. Scelta che tuttavia, innestandosi su una norma attributiva di poteri amministrativi ad un’Autorità pubblica di vigilanza, finisce per rimettere in buona parte alla medesima Autorità, nell’esercizio della correlata potestà normativa, la responsabilità di tracciare i confini stessi del potere, individuando i soggetti e gli oggetti da includere nel perimetro del “sistema” e assoggettare quindi alla funzione pubblica».13 A cui si aggiungono poteri informativi, ispettivi, provvedimentali e sanzionatori attraverso l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie.

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disciplinare i sistemi di pagamento in parola. In questa caso la Banca d’Italia si limiterebbe ad esercitare la propria funzione di sorveglianza, ricorrendo alla produzione diretta di servizi, come in passato è avvenuto per la gestione delle stanze di compensazione e come ora potrebbe avvenire con la messa a punto dell’istituendo “portale di protesti14.Resta aperto il dubbio interpretativo, quindi, se i “sistemi di pagamento” gestiti dalla Banca d’Italia di cui all’art. 45, n. 3 legge Assegni, ancora attendano (dopo il d.l. n. 18 del 2016) di essere disciplinati e se ciò spetti allo stesso Istituto di emissione.

1.3 Segue. La necessità delle stanze di compensazione per la dichiarazione equivalente al protesto

Una serie di indici portano dunque a ritenere che dopo i d.l. n. 70 del 2011 e n. 18 del 2016, non sia avvenuta la soppressione delle stanze di compensazione quali soggetti deputati a ricevere la presentazione per il pagamento dell’assegno ex art. 34 legge Assegni nell’ambito della circolazione interbancaria degli assegni (tale aspetto è stato già evidenziato dalla lettura della Guida agli operativi relativa alla DSP del dicembre 2017). Non solo quella eliminazione non è stata espressamente sancita da un provvedimento della Banca d’Italia, ma anzi il loro ruolo è stato mantenuto dal legislatore del 2011 che novellando l’art. 31 legge Assegni (il cui testo – si noti – è rimasto indenne anche dopo il d.l. n. 18 del 2016 che ha modificato l’art. 45, n. 3 legge Assegni), ha affermato che la presentazione al pagamento dell’assegno anche in forma elettronica, può continuare ad avvenire presso le stanze di compensazione (ma anche su questo aspetto si è già evidenziata la contraddittorietà con la formulazione dell’art. 61 legge Assegni).D’altronde anche dopo la riforma del 2011 che per la prima volta aveva modificato l’art. 45, n. 3 (d.l. 13 maggio 2011, n. 70), sebbene la dichiarazione sostitutiva del protesto venisse già riferita alla Banca d’Italia, il ruolo delle

14 N. DE GIORGI, La funzione di sorveglianza, cit., 25, il quale osserva che nella produzione diretta di servizi possono farsi rientrare: la funzione di emissione della moneta legale (attualmente esercitata a livello di Eurosistema), la gestione delle Stanze di compensazione, l’offerta dei conti di gestione detenuti dagli intermediari presso la Banca d’Italia, la gestione dei sistemi di pagamento BICOMP e TARGET2-Banca d’Italia, l’emissione degli speciali titoli (vaglia cambiari) disciplinati dagli artt. 87 e seguenti del R.d. 21 dicembre1933, n. 1736 (c.d. “legge Assegni”).

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stanze di compensazione continuava ad essere centrale nella procedura di constatazione equivalente al protesto, conservando le stesse una propria organica sistematicità15.Anche se quelle stanze venivano rappresentate dall’art. 45, n. 3 legge Assegni nella versione post 2011, come una sorta di “articolazioni” della Banca d’Italia incaricata per legge di gestirle (R.d.l. 6 maggio 1926, n. 812, convertito in l. 25 giugno 1926, n. 1262), si trattava pur sempre di soggetti che se pur sprovvisti di personalità giuridica, rispondevano in proprio dell’attività di constatazione svolta e degli adempimenti richiesti dalla legge16.Se ne trae conferma non solo dall’orientamento giurisprudenziale che nella vigenza dell’originaria formulazione dell’art. 45 n. 3 (nella versione precedente al d.l. n. 70 del 2011), richiedeva necessariamente che le attestazioni della tempestiva presentazione dell’assegno e del mancato pagamento – per le quali si escludeva categoricamente che conoscessero equipollenti17 – provenissero esclusivamente dal capo della stanza di compensazione. Ma anche da quanto affermato dalla stessa Banca d’Italia che, descrivendo la procedura per le dichiarazioni sostitutive di protesto nella “Guida per gli operatori” del luglio 2013 (da ritenersi ormai superata alla luce del nuovo art. 45, n. 3 legge Assegni e dalla nuova Guida di agosto 2016), poneva in risalto il ruolo autonomo dei capi delle stanze di compensazione18, qualificati come “pubblici ufficiali”, tenuti anche agli obblighi di porre in essere gli adempimenti relativi alla trasmissione degli elenchi protesti alle Camere di Commercio e dei rapporti di accertamento all’autorità prefettizia ex art. 8-bis della legge n. 386 del 1990.

15 L’art. 45 n. 3 legge Assegni, dopo la modifica del d.l. n. 70 del 2011, prevedeva che il rifiuto del pagamento potesse essere constatato «con dichiarazione della Banca d’Italia, quale gestore delle stanze di compensazione o delle attività di compensazione e di regolamento delle operazioni relative agli assegni, attestante che l’assegno bancario, presentato in forma elettronica, non è stato pagato».16 Le stesse infatti non figurano più quali “propaggini” gestite dalla Banca d’Italia con specifico riferimento alle «attività di compensazione e di regolamento delle operazioni relative agli assegni», risultando quindi l’art. 45 legge Assegni “amputato” per questa parte.17 Cass., 15 aprile 1976, n. 1341, in Banca borsa tit. cred., 1976, II, 213, che ha escluso che potesse considerarsi equipollente al protesto l’apposizione di tre timbri della stanza di compensazione sul retro dell’assegno e l’annotazione informale contenuta in un foglietto allegato al titolo senza sottoscrizione.18 Prima della riforma del 2011, quel potere certificativo sorgeva direttamente in capo alle stanze che così lo hanno conservato anche dopo il d.l. 70 del 2011 e prima della modifica ad opera dell’art. 17-ter del d.l. 14 febbraio 2016, n. 18. La Banca d’Italia, infatti, quando rilasciava la dichiarazione equivalente al protesto, si limitava a registrare, documentandolo, l’esito dell’attività di constatazione del mancato pagamento dell’assegno posta in essere dal capo della stanza di compensazione, titolare del potere in parola.

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Fino a prima dell’emanazione del d.l. n. 18 del 2016, quindi, la disciplina della constatazione del mancato pagamento degli assegni era presidiata dai controlli di un pubblico ufficiale sul titolo e sulle dichiarazioni rese dal funzionario della banca trattaria che oggi, invece, verrebbero totalmente omessi ed affidati al personale alle dipendenze di imprenditori, e cioè degli istituti di credito che si avvarranno della nuova dichiarazione sostitutiva del protesto.A questo proposito non appare ancorato ad un dato normativo primario la qualificazione di “pubblici ufficiali” dei dipendenti della Banca d’Italia, incaricati di emettere le DSP che poi dovranno essere utilizzate ai fini del regresso. Non è chiaro infatti come tali soggetti verranno individuati né qual è lo statuto di responsabilità a cui dovranno attenersi nello svolgimento di questo specifico compito, come pure dei connessi adempimenti a cui sono chiamati (invio elenchi protesti alla Camera di Commercio, rapporto di accertamento al Prefetto).Se questo dovesse essere l’assetto della circolazione interbancaria degli assegni in conseguenza della soppressione delle stanze di compensazione, il sistema di pagamento di questi titoli risulterebbe del tutto inaffidabile, con le inevitabili conseguenze in punto di certezza sul corretto svolgimento della procedura di constatazione del mancato pagamento.Per quanto il sistema di pagamento degli assegni sia orientato verso una completa “spersonalizzazione”, venendo interamente gestito da un sistema informatico/telematico accentrato presso la stessa Banca d’Italia, non potrebbe mancare, anche nella nuova procedura, la fase di constatazione con valore di piena prova legale ex art. 2700 c.c., di determinati fatti che sono alla base della dichiarazione equivalente: vale a dire la circostanza che la presentazione del titolo al pagamento si avvenuta tempestivamente e l’esito delle richieste effettuate.Tali fatti, a ben vedere, sono esattamente gli stessi che costituivano il cuore della dichiarazione equivalente al protesto che rendeva il capo della stanza di compensazione secondo la formulazione originaria dell’art. 45, n. 3 legge Assegni, prima della modifica del 2011. Quella dichiarazione doveva essere datata e attestante che l’assegno bancario era stato ad essa trasmesso in tempo utile e non era stato pagato, e doveva essere sottoscritta dall’organo dirigente la stanza di compensazione in cui l’assegno era stato presentato e presso cui la banca trattaria era rappresentata. Proprio da tali elementi formali la giurisprudenza escludeva che potesse ritenersi equivalente a quella dichiarazione l’apposizione sull’assegno di timbri della stanza, recanti sigle e date diverse, oppure l’annotazione informale, contenuta in un foglietto allegato, che “mancano fondi” ad una determinata data.

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Si era in presenza, in altri termini, di un documento fidefaciente, frutto di un’attività di formale constatazione di determinati fatti che si svolgevano dinanzi ai capi delle stanze ed i cui effetti si ricollegavano alla specifica qualifica di pubblico ufficiale attribuita a quei soggetti.Quell’attività non veniva affatto svolta – né direttamente né indirettamente – dagli agli istituti di credito che alle stanze di compensazione si rivolgevano, né d’altra parte tale eventualità è stata mai presa in esame dal legislatore. Si pensi, ad esempio, alla legge n. 349 del 1973 che quando si trattò di affiancare i presentatori ai notai e agli ufficiali giudiziari nell’ambito della procedura di protesto, con il compito di presidiare la fase dell’interpello, attribuì a quei soggetti la qualifica di pubblici ufficiali, la cui dichiarazione sugli esiti dell’accesso presso l’istituto di credito, combinandosi con la documentazione del notaio al quale tale dichiarazione è riportata, sfocia nell’atto di protesto19.Non a caso la specifica qualifica di pubblico ufficiale attribuita dalla legge al presentatore (art. 2 comma 4 l. n. 349 del 1973) – che, come detto, è requisito indispensabile affinché la dichiarazione di questo soggetto possa combinarsi con la documentazione del notaio – porta ad escludere «che il compito d’elevare protesti possa demandarsi … a istituti bancari e per questi … ai loro impiegati»20.La Banca d’Italia, peraltro, pur essendo legittimata in base al nuovo art. 45, n. 3 legge Assegni ad emettere la dichiarazione equivalente al protesto, non risulta anche quale soggetto abilitato a ricevere la presentazione dell’assegno per il pagamento, anche in formato cartaceo, non avendo il legislatore adeguato il corrispondente art. 34 legge Assegni nel quale non figura l’Istituto di emissione, al quale non risulta attribuito alcuno potere constatativo in ordine al mancato pagamento dei titoli.Per converso, la circostanza che le stanze di compensazione non siano state coinvolte nel processo di telematizzazione del sistema di presentazione dei titoli, porta ad escludere che alle stesse possano essere presentati assegni in formato elettronico (e ciò nonostante il nuovo art. 31 legge Assegni disponga

19 L’atto di protesto redatto dal notaio con l’ausilio del presentatore è il risultato di una combinazione di una dichiarazione testimoniale resa da un pubblico ufficiale con un documento pubblico redatto da un altro pubblico ufficiale. In questo caso il documento pubblico avrebbe una forza probatoria ancora più marcata, costituendo (piena) prova non soltanto della dichiarazione ma anche del dichiarato, in questo senso S. TONDO, Sulla definizione giuridica del protesto, in Riv. not., 1967, 405 ss., il quale osserva che l’eventuale mendacio del presentatore si andrebbe a caratterizzare (impregiudicata l’eventuale responsabilità civile del notaio) penalmente quale falso in atto pubblico (art. 479 c.p.).20 C. VOCINO, A proposito del disegno di legge «Modificazioni alle norme sui protesti delle cambiali e degli assegni bancari», in Riv. not., 1966, 55.

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che l’assegno bancario può essere presentato al pagamento, anche nel caso previsto dall’art. 34, in forma sia cartacea che elettronica).Il mantenimento del ruolo tradizionale delle stanze di compensazione nella nuova procedura di constatazione equivalente al protesto, infine, sembrerebbe di potersi apprezzare in relazione alla fase transitoria della nuova disciplina che il legislatore non sembra aver compiutamente disciplinato. Non può escludersi infatti che alle stesse possano continuare ad essere presentati all’incasso in formato cartaceo, gli assegni per i quali non sia ancora a regime il sistema di dematerializzazione immaginato dal legislatore. In questo caso, finché l’immagine dell’assegno cartaceo generato dal sistema non corrisponderà agli standard tecnici prescritti, sarà necessario per gli istituti di credito negoziatori, rivolgersi alle stanze di compensazione territorialmente competenti, per ottenere la dichiarazione equivalente come avvenuto fino ad ora.

2. La competenza territoriale per il protesto

La “presentazione dell’assegno”21 al pagamento apre la questione del necessario collegamento ad un determinato luogo per l’elevazione del protesto o per la constatazione equivalente.Il vincolo territoriale dal quale emerge il collegamento tra la constatazione formale del mancato pagamento e il luogo in cui ciò debba avvenire formalmente, emerge principalmente dall’art. 62 legge Assegni, in base al quale il protesto si deve fare “nel luogo di pagamento”. Luogo del pagamento ai sensi dell’art. 2 legge Assegni è quello indicato sull’assegno e, più in generale, in mancanza di speciale indicazione, il luogo indicato accanto al nome del trattario ove vi è lo stabilimento di quest’ultimo. Non dimenticando, tra l’altro, che l’art. 81 della stessa legge individua quale luogo di pagamento dell’assegno l’intero territorio del Comune.Quali le ragioni a base della permanenza del limite territoriale alla levata del protesto nell’assetto della legge Assegni22 che le integrazioni apportatevi dal d.l. n. 70 del 2011 non sembrano aver alterato?

21 L’assegno bancario è un titolo di presentazione (pagabile a vista) nel senso che può essere fatto valere solo da chi si legittima con il possesso nelle forme stabilite dalla legge, così A. ASQUINI, Titoli di credito, Padova, 1966, 416.22 Anche la disciplina sul registro informatico dei protesti, àncora ad un determinato limite territoriale la competenza delle camere di Commercio a ricevere i protesti da pubblicare (cfr. art. 3, l. 12 febbraio 1955, n. 77) dai pubblici ufficiali territorialmente competenti. Come infatti stabilito dall’art. 4 del d.m. 9 agosto 2000, n. 316, recante il Regolamento sulle modalità di

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La prima è stata sopra evidenziata ed è legata alla scelta del legislatore di non aver voluto modificare il “ciclo del rapporto cartolare”23 che inizia con la creazione del titolo in forma cartacea, prosegue con l’emissione e la circolazione dello stesso e termina con l’estinzione del titolo mediante il pagamento.Ciò comporta che per il portatore dell’assegno non sono cambiate le norme da osservare per riscuoterne il relativo importo, sussistendo pur sempre a proprio carico l’onere di presentare al pagamento il titolo (anche a mezzo di banca negoziatrice) al domicilio del trattario indicato sull’assegno (cfr. art. 81 legge Assegni) presso il cui stabilimento esiste la convenzione di assegno.L’altra ragione – corollario della precedente – va individuata nel principio della “localizzazione dei rapporti bancari” sul quale è attualmente fondato il funzionamento del sistema bancario.Tale principio, in assenza di un “sistema bancario integrato”, si basa sull’articolazione territoriale dell’impresa bancaria, caratterizzata dallo stretto collegamento esistente tra un singolo rapporto negoziale ed un determinato sportello (o agenzia o filiale) che è dotato di propria autonomia; ciò al fine di rendere più funzionale sul piano amministrativo-contabile e conveniente sul piano economico, la costituzione e l’esecuzione dei rapporti negoziali variamente localizzati24.La localizzazione dei rapporti bancari presso la succursale ove il rapporto si è costituito, trae spunto da precisi indici normativi, in particolare dagli articoli 1834 comma 2 e 1843 comma 2 c.c. nei quali si fa riferimento alla «sede della banca dove è costituito il rapporto»; dall’art. 2 comma 3 legge Assegni, nel quale vi è il riferimento alla necessità di individuare lo stabilimento del trattario quale luogo di pagamento; dall’art. 3 legge Assegni in cui si precisa che l’assegno è tratto su un banchiere, ad evidenziare il fatto che il rapporto di provvista nell’assegno bancario quale strumento di pagamento (diversamente dalla cambiale) è rilevantissimo e deve essere ancorato ad un soggetto individuato ex art. 2.; dall’art. 18 comma 5 legge Assegni in base al quale la

attuazione del registro informatico dei protesti, «Le camere di commercio, ciascuna per la circoscrizione territoriale di competenza, attribuiscono, anche su richiesta dell’interessato, ai pubblici ufficiali abilitati un codice identificativo alfanumerico … composto, in sequenza, dalla sigla della provincia, da una lettera indicante la qualifica del pubblico ufficiale abilitato, tra quelle previste all’articolo 1, comma 1, lettera e) e da un numero d’ordine nell’àmbito della qualifica stessa».23 A. ASQUINI, Titoli di credito, cit., Padova, 1966 24 N. SALANITRO, Le banche e i contratti bancari, Torino, 1983, 109; G. FAUCEGLIA, I contratti bancari, in BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Torino, 2005, 227 che sul punto rinvia a dottrina.

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girata al trattario vale come quietanza ed estingue l’assegno, ma non quando sia effettuata su «uno stabilimento diverso da quello sul quale l’assegno bancario è stato tratto»; dall’art. 6 comma 3 legge Assegni in base al quale il divieto di emettere l’assegno sul traente non opera nell’ipotesi in cui «il titolo sia tratto fra diversi stabilimenti di uno stesso traente».Dall’applicazione di questo principio discenderà allora «che il cliente potrà operare, in relazione ad un determinato rapporto bancario, esclusivamente con lo sportello presso cui ha instaurato il rapporto stesso. Sicché gli sarà in principio preclusa ogni possibilità di riscuotere, versare e negoziare somme o titoli presso uno sportello della banca diverso da quello ove è radicato il conto o il deposito in relazione al quale intende operare»25.Tale contesto non è stato modificato, né poteva esserlo, dalla normativa secondaria che quando regola, agli articoli 12 e 13 del regolamento BDI, la trasmissione dei dati ai fini della levata del protesto ed il conseguente protesto, non incide sul criterio territoriale di collegamento dell’assegno al luogo di pagamento e del conseguente protesto. Anzi a ben vedere rafforza il principio quando prevede la sottoscrizione con firma digitale della richiesta del protesto da parte della trattaria – volendo in questo caso necessariamente fare riferimento allo stabilimento del trattario presso cui è acceso il rapporto di conto corrente – e, per converso, ribadisce il principio che il protesto sia unito all’immagine dell’assegno, ove è indicato il luogo di pagamento, creando la simbiosi con la competenza territoriale del pubblico ufficiale. Occorre ricordare che l’indicazione del luogo di pagamento nell’assegno sebbene non richiesta a pena di invalidità del titolo – stante la possibilità di giungere alla sua determinazione mediante l’utilizzazione degli ulteriori riferimenti previsti dagli artt. 2 commi 2 e 3 legge Assegni26 – assolve a svariate funzioni.Innanzitutto, a quella di individuare “il trattario designato a pagare” (art. 1 legge Assegni) al quale è rivolto l’ “ordine incondizionato di pagare” (art. 1, n. 2 legge Assegni) che si identifica con quel preciso stabilimento della banca sul quale l’assegno è tratto e presso il quale esiste ed opera il conto corrente di traenza. Su di esso ricadono gli obblighi e le responsabilità connesse al pagamento, per il solo fatto che ad esso compete (non solo in fatto ma anche giuridicamente) la gestione del conto, l’esistenza della provvista, la ricezione della quietanza dell’assegno (art. 18 legge Assegni)27.

25 Cass., 27 novembre 2001, n. 15024, in Foro it., 2002, I, 1446; U. MORERA, L’impresa bancaria, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2006, 393.26 È per questa ragione infatti che si ritiene debba parlarsi di “dato” e non di “requisito” del titolo.27 Cass., 22 gennaio 1976, n. 192, in Foro it., 1976, 615. Cass., 27 novembre 2001, n. 15024,

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In relazione a tale profilo esiste la necessità, pertanto, di individuare con esattezza il legittimato passivo dell’atto di protesto che – con riferimento al protesto di assegno bancario – l’art. 62 cit. individua nel trattario o nel terzo indicati per il pagamento, anche se l’atto di protesto viene levato per tutti i fini (regresso, pubblicità degli elenchi, comunicazioni alle competenti autorità) nei confronti del traente. L’indicazione nell’atto di protesto – ai sensi dell’art. 63, n. 4 legge Assegni – della “persona richiesta” e cioè colui al quale, presso il trattario, sia stato domandato il pagamento del titolo, mostra tutta la sua importanza con riferimento all’identificazione del funzionario della banca, in ordine a profili di responsabilità di quest’ultimo: la previsione della sottoscrizione digitale della distinta di trasmissione dei dati ai fini della levata del protesto, ex art. 12 del regolamento BDI, risponde proprio a tale funzione essenziale.Quando la banca trattaria dichiara di non pagare l’assegno, ciò può avvenire per mancanza dei fondi, per irregolarità formale del titolo ovvero per mancanza di convenzione tra la banca e il cliente. Particolarmente in quest’ultima ipotesi, quando cioè venga opposto al presentatore l’inesistenza del rapporto di provvista (es.: chiusura del conto corrente, recesso dell’istituto, non riconducibilità del nome ad una convenzione esistente), è di conforto il (maggiore) rigore formale dell’atto di protesto che individua – invariabilmente – la persona fisica alla quale riferire le dichiarazioni di mancato pagamento, non venendo comunque meno la necessità di individuare l’esatta titolarità e riferibilità delle dichiarazioni del legale rappresentante della banca trattaria28. L’assenza di un obbligo di verifica da parte del pubblico ufficiale sui dati forniti dalla banca, dovendo egli redigere l’atto di protesto o la constatazione equivalente sulla base delle informazioni fornite dall’istituto di credito sul quale il titolo è stato tratto29, crea un’anomalia nell’ipotesi in cui l’istituto bancario disconosca la dichiarazione di rifiuto di pagamento effettuata dal funzionario. Paradossalmente in tale ipotesi non potrebbe escludersi un’eventuale responsabilità del pubblico ufficiale qualora – nell’atto di protesto o nella constatazione equivalente – sia mancata l’identificazione del funzionario della banca cui il pubblico ufficiale riferisce la dichiarazione di rifiuto del pagamento30.

in Foro it., 2002, 1446 secondo cui «solo la sede o filiale o agenzia o dipendenza trattaria può assolvere gli obblighi e gli oneri giuridici relativi al pagamento» degli assegni; nello stesso senso Cass., 18 ottobre 1994, n. 8496 in Giust. civ. Mass., 1994, 1240.28 M. CURSIO, Protesto dell’assegno bancario, rubato o smarrito in bianco, in Banca borsa tit. cred., 1975, II, 498.29 Trib. Bari, 10 luglio 1980, in Vita not., 1982, 1345.30 Cass., 22 febbraio 1974, n. 525, in Banca borsa tit. cred., 1974, II, 439.

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A corollario di quanto affermato si osserva che la rilevanza dei dati forniti dalla trattaria è tale da incidere anche sulla legittimità del protesto stesso, dal momento che (come è stato osservato in un’ipotesi di protesto per mancanza dei fondi) «il protesto dell’assegno bancario, affinché possa essere ritenuto legittimo, presuppone non solo il rifiuto dell’istituto di credito di pagarlo, ma anche la legittimità di tale rifiuto, derivante dalla effettiva mancanza di fondi, ragione per cui anche l’assenza di detto presupposto comporta la illegittimità, non solo del rifiuto, ma pure del protesto, che senza l’illegittimo rifiuto non sarebbe stato elevato»31.Insidie non minori nasconde anche il profilo della irregolarità formale del titolo, la cui eventuale ricorrenza impone di valutare, non solo la responsabilità del funzionario della sede bancaria indicata sul titolo in cui quel controllo doveva essere effettuato, ma anche, più in generale, i profili di sicurezza adeguati che la nuova procedura dovrebbe assicurare con riguardo alla generazione dell’immagine dell’assegno cartaceo (cfr. art. 5, d.m. 3 ottobre 2014, n. 205 e art. 3 reg. Banca d’Italia del 22 marzo 2016). A tal fine occorre ricordare che la copia informatica dell’assegno cartaceo (prodotto secondo le regole tecniche previste dagli articoli 3 e 4 del d.p.c.m. 13 novembre 2014, recante le regole tecniche per la formazione e trasmissione dei documenti informatici ai sensi del CAD) deve avere forma e contenuto identici a quelli dell’assegno cartaceo. La perfetta corrispondenza del titolo informatico a quello analogico (assicurata dall’attestazione del negoziatore), porta ad interrogarsi sui profili di responsabilità dell’intermediario nella fase di lavorazione dell’assegno presentato all’incasso che, anche nel rinnovato contesto normativo, dovrà essere in tutto identico a quello cartaceo, sicché il margine di errore della banca negoziatrice nelle operazioni di verifica della firma, ed i conseguenti profili di responsabilità, dovrebbero rimanere sostanzialmente invariati.In una controversia in materia di assegni presentati all’incasso mediate la procedura di Check Truncation (che, per certi versi, possiamo considerare una sorta di dematerializzazione degli assegni bancari ante litteram), in cui si controverteva in merito ad una firma apocrifa apposta su un assegno bancario presentato all’incasso, il ricorrente sosteneva che la firma non sarebbe stata controllata in alcun modo dalla banca, dal momento che l’assegno era stato gestito mediante procedura telematica e senza possibilità per la banca negoziatrice di visionare in alcun modo il titolo.

31 Cass., 17 maggio 1969, n. 1687, in Giust. civ., 1969, I 2099.

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Al riguardo, l’ABF ha avuto modo di chiarire che «l’utilizzo di tale procedura, finalizzata ad obiettivi di economicità e di maggiore snellezza nella negoziazione dei titoli, non può incidere in alcun modo sugli obblighi di diligenza posti a carico dell’operatore bancario nello svolgimento di tale servizio. L’applicazione del suesposto principio ai fini del dimensionamento del rischio connesso alla procedura di check truncation conduce, quindi, ad escludere la responsabilità della banca nel caso in cui, quand’anche si fosse proceduto per le vie tradizionali e, dunque, attraverso la materiale rimessione dell’assegno, la sua irregolarità non sarebbe stata comunque agevolmente rilevabile e, correlativamente, ad affermare tale responsabilità nel caso opposto, quando cioè la materiale visione del titolo avrebbe consentito l’immediato riscontro del difetto. In tema di firma apocrifa del traente (caso statisticamente più ricorrente e coincidente con l’oggetto dell’odierna lite) la responsabilità della banca che, avvalendosi della check truncation, abbia deliberatamente rinunciato ad assolvere l’obbligo di verifica cartolare, va affermata, dunque, nel caso in cui la firma apposta sul titolo sia palesemente difforme da quella del soggetto autorizzato» (cfr. decisione n. 397 del 22 gennaio 2014).In conclusione sul punto sembra potersi evidenziare che dal complesso della normativa, primaria e secondaria, non esistano deroghe al principio del luogo di pagamento inteso come luogo di presentazione al pagamento e come luogo di levata del protesto.

3. La competenza territoriale dei pubblici ufficiali abilitati alla levata del protesto nel sistema della legge Assegni

In base a quanto fin qui evidenziato, il radicamento sul territorio della procedura di levata del protesto o della constatazione equivalente, risulta ancora elemento centrale nel vigente sistema della presentazione dell’assegno al pagamento.Ciò emerge da molteplici indici rivelatori di tipo normativo e giurisprudenziale.Vengono innanzitutto in considerazione, come già indicato, l’indicazione del luogo di pagamento sul titolo, quale espressione della localizzazione dei rapporti bancari presso la succursale ove il rapporto è sorto, e la dislocazione sul territorio delle stanze di compensazione – di cui si è segnalata la persistenza della disciplina (art. 34 legge Assegni) – quali organismi competenti a procedere alla constatazione equivalente al protesto.Non meno significativa, inoltre, è la determinazione della competenza territoriale dell’autorità prefettizia, chiamata ad applicare le sanzioni amministrative per

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l’emissione di assegni senza autorizzazione e senza provvista, come stabilito dall’art. 4 della legge 15 dicembre 1990, n. 386.Sotto questo profilo la giurisprudenza ha già chiarito32 (relativamente a fattispecie concernente assegni postali) che la previsione di questa norma, secondo cui «per l’applicazione delle sanzioni previste dagli articoli 1 e 2 e delle conseguenti sanzioni amministrative accessorie è competente il prefetto del luogo di pagamento dell’assegno», fissa un criterio di attribuzione della competenza che presenta «indubbi requisiti di certezza» rispetto a quelli che privilegiano il luogo di emissione o di negoziazione del titolo. Spingendosi gli stessi giudici a chiarire, sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale33, «che per luogo di pagamento deve intendersi non già quello in cui ha sede l’ufficio postale presso il quale il titolo è stato presentato e neppure quello in cui il titolare del conto ha il suo domicilio, bensì il luogo in cui ha sede l’ufficio postale presso il quale il conto è stato acceso, perché è questo l’ufficio che, attraverso la stanza di compensazione, dovrà procedere al pagamento»34. Aggiungendosi che il profilo al quale attribuire rilevanza è quello che attiene al criterio legale di determinazione della competenza prefettizia e non invece a quello legato «all’organizzazione degli uffici delle Poste italiane SpA, che non ha né può avere autonoma rilevanza ai fini dell’individuazione dell’autorità statale competente ad avviare il procedimento sanzionatorio»35.La territorialità della levata del protesto emerge anche dalla necessità che sia attuata la conoscenza erga omnes dell’insolvenza del traente in un determinato luogo: ciò corrisponde ad un interesse diverso da quello protetto con il criterio legale di determinazione della competenza prefettizia (individuazione dell’Autorità competente ad irrogare le sanzioni). Agli operatori economici e sociali di un determinato territorio, infatti, non può non essere garantita la “tutela dell’interesse all’informativa” sui soggetti “cattivi pagatori” che operano

32 Cass., 17 febbraio 2006, n. 16205 in Foro it., 2007, 1505.33 Cass. pen., 19 maggio 1999, n. 3713; Cass. pen., 18 novembre 1996, n. 6019; Cass. pen., 11 marzo 1994, n. 523.34 Nel caso deciso dal S.C. un assegno postale tratto su un conto corrente di Novara, era stato “lavorato” dal Cuas (Centro unificato automazione sede) delle Poste di Torino il quale aveva segnalato l’emissione del titolo senza provvista. Il prefetto di Torino quindi con ordinanza ingiungeva il pagamento della somma portata dal titolo e contro il provvedimento il traente eccepiva l’incompetenza territoriale del Prefetto del capoluogo piemontese, sostenendo – con argomentazioni poi condivise dalla Cassazione – che la stessa avrebbe dovuto invece radicarsi nel Prefetto di Novara perché in questa città era situato l’ufficio postale presso il quale era stato acceso il conto corrente sul quale il ricorrente aveva tratto l’assegno.35 Cass., 17 febbraio 2006, n. 16205 cit.

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nella stessa zona e che hanno emesso assegni bancari (normalmente tratti su stabilimenti di istituti di credito aventi sede nella stessa zona). Tutela che in tale ipotesi è assicurata dalla trasmissione degli elenchi dei protesti al presidente della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio (art. 3 della legge 12 febbraio 1955, n. 77)36.Quella territorialità, ancora, è stata di recente ribadita da una pronuncia del Tar Campania (sez. I, 13 gennaio 2016, n. 9) che chiamato a decidere sulla questione della ripartizione del servizio di levata dei protesti, ha stabilito che «tutto il sistema, disciplinante la materia, si presenti imperniato sulla condizione fondamentale, della competenza territoriale della levata dei protesti, ancorata alla titolarità di sede notarile nel Comune interessato».La delimitazione territoriale della procedura di formale constatazione del mancato pagamento del titolo, infine, emerge significativamente dalla disciplina sulla competenza territoriale dei pubblici ufficiali abilitati per legge ad effettuare la levata dei protesti.L’art. 60 legge Assegni (con formulazione identica all’art. 58 L.C.) stabilendo che competenti alla levata del protesto sono il notaio, l’ufficiale giudiziario – questi con “competenza primaria”37 – e il segretario comunale, non ha solo individuato una categoria di soggetti titolari di un potere certificativo38 sufficiente allo scopo, ma di questi pubblici ufficiali ha voluto richiamare quella parte del rispettivo apparato normativo istitutivo che, oltre a regolamentarne le funzioni e a delinearne il relativo statuto di responsabilità, lega ad un determinato ambito territoriale il limite all’esplicazione di quelle funzioni.

36 Non a caso quella tutela viene alterata, nell’ipotesi del tutto particolare, in cui la presentazione al pagamento dell’assegno avvenga ex art. 34 legge Assegni, presso una stanza di compensazione situata in una piazza diversa da quella in cui si trovi la sede della trattaria, ed il capo della stanza richieda comunque il protesto notarile. In questo caso il protesto andrebbe trasmesso dal notaio levatore presso la Camera di Commercio “competente per territorio”, ma in questa ipotesi il territorio di riferimento non è quello in cui ha sede la trattaria ma quello nel quale è autorizzato ad esplicare le proprie funzioni il pubblico ufficiale.37 La localizzazione territoriale è alla base anche della ripartizione dei protesti tra i vari pubblici ufficiali categoria dei pubblici ufficiali. L’articolo 10 della legge 12 giugno 1973, n. 349 e l’articolo 8 del d.P.R. 3 giugno 1975, n. 290, disciplinano il funzionamento del sistema di ripartizione dei protesti tra tutti i pubblici ufficiali abilitati, comprese le ipotesi in cui il meccanismo di distribuzione dei titoli potrebbe incepparsi. L’art. 10, nei primi due commi, individua le procedure di ripartizione “concordata” (nella quale i pubblici ufficiali con competenza primaria – notai, ufficiali giudiziari, aiutanti ufficiali giudiziari – possono cercare un’intesa con le banche) e “determinata” (stabilita dal Presidente della Corte d’Appello in mancanza di tale accordo). Nel terzo comma, invece, si occupa del riparto dei protesti all’interno della sola categoria dei notai.38 E cioè il potere di documentare – con atto facente fede fino a querela di falso – la constatazione di atti e fatti che si svolgono dinanzi al pubblico ufficiale.

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Ciò vale innanzitutto per il notaio per il quale la necessità che l’ufficio notarile venga esercitato all’interno di un determinato territorio di riferimento è stata ribadita dalla recente legge sulla concorrenza e sul mercato (legge 4 agosto 2017, n. 124), che ha modificato gli articoli 26 e 27 l. not., stabilendo che il notaio è autorizzato ad esercitare le proprie funzioni all’interno della Regione in cui si trova la propria sede.Le motivazioni che ancora oggi hanno portato il legislatore a limitare territorialmente le funzioni notarili, e a garantire il presidio dei notai nella zona assegnata39, sono da ricercare – fondamentalmente – nell’esigenza di assicurare il sollecito soddisfacimento delle richieste dell’utenza e nella necessità di favorire il collegamento tra i notai e gli organi preposti alla loro vigilanza, garantendo così il corretto esercizio professionale.In tale quadro normativo si colloca anche la procedura di levata del protesto e redazione del relativo atto40, da ascriversi senz’altro tra le “funzioni del notaio”. Di ciò non sembra possa dubitarsi, trattandosi di “attribuzioni” affidate al notaio dalla legge (art. 68 L.C. e 65 legge Assegni) che lo stesso svolge istituzionalmente ex art. 1 l. not. soggiacendo agli ordinari controlli periodici tra i quali quelli sull’apposito repertorio41.Quanto alla competenza territoriale degli altri pubblici ufficiali, per gli ufficiali giudiziali e aiutanti ufficiali giudiziari, questa è contenuta negli articoli 103 e 104 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 e successive modifiche, mentre per i segretari comunali il limite territoriale all’esplicazione delle funzioni viene chiarito dal Consiglio di Stato, che li legittima ad esercitare tale potere esclusivamente nel territorio di competenza dell’ufficio di cui sono titolari42.

39 Che dopo la modifica all’art. 4 l. not. con la legge n. 124 del 2017, vede una copertura ancora più fitta dei servizi notarili, essendo stato innalzato il numero dei notai mediante la modifica del rapporto notai/abitanti, da uno ogni 7000 ad uno ogni 5000. 40 È l’art. 2699 c.c. che nel dare la definizione di atto pubblico espressamente richiede la provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale competente (“nel luogo dove l’atto è formato”). Nei limiti di tale competenza le attestazioni in esso contenute hanno l’efficacia probatoria degli atti pubblici (art. 2700 c.c.) relativamente alle attività compiute dal pubblico ufficiale e ai fatti avvenuti alla sua presenza. E nella categoria degli atti pubblici «il processo verbale di protesto ha la funzione di documentare la constatazione, ad opera del pubblico ufficiale, del rifiuto del pagamento del titolo da parte del trattario, ai sensi dell’art. 45 del R.d. 21 dicembre 1993, n. 1736».41 Prima della legge n. 349 del 1973 i protesti erano – a fini repertoriali – accomunati a tutti gli altri notarili e quindi dell’atto di protesto il notaio faceva annotazione nel repertorio degli atti tra vivi. Successivamente il legislatore ha avvertito la necessità di differenziare i due repertori e quindi nell’art. 13 comma 1 l. n. 349 del 1973 ha stabilito che «l’annotazione dei protesti cambiari sarà fatta dai notai in un repertorio speciale … e non nel repertorio degli atti tra vivi».42 Cons. Stato, 9 ottobre 2013, n. 22, in linea con l’orientamento del Consiglio Nazionale del

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Non si sottraggono a tali considerazioni sulla competenza territoriale dei pubblici ufficiali, i capi delle stanze di compensazione, che così qualificati (si veda quanto detto più sopra) anche dalla stessa Banca d’Italia, soggiacciono alla stessa disciplina degli altri pubblici ufficiali. A tale conclusione del resto non osta la circostanza che lo stesso sia chiamato a rendere, di fronte al mancato pagamento del titolo, non un atto di protesto ma una dichiarazione “equivalente”, dal momento che il nucleo dell’attività di constatazione del fatto (mancato pagamento) è identica quella compiuta dagli altri pubblici ufficiali e che non sono diverse le attività e gli adempimenti successivi.Come conciliare dunque l’esigenza della localizzazione territoriale del protesto che deve essere levato nel luogo di pagamento, con l’assenza di un qualunque radicamento in un determinato luogo della Banca d’Italia a rendere la dichiarazione equivalente ex art. 45 n. 3 legge Assegni, idonea come il protesto a constatare il mancato pagamento?La risposta alla domanda è agevole ove si ritenga che permangano nel sistema le stanze di compensazione.Quando l’assegno bancario venga presentato per il pagamento a mezzo stanza di compensazione43 (sull’ovvio presupposto che il titolo sia stato negoziato presso una banca diversa da quella trattaria e che i due istituti di credito siano associati alla stanza), occorrerà porre riferimento alle norme regolanti il funzionamento di quest’ultima per individuare quali obblighi e quali responsabilità incombano alle banche che ad essa aderiscono. In questo caso il luogo di pagamento del titolo sarà la Stanza prescelta per lo scambio, anche ove questa si trovi su una piazza diversa da quella indicata sul documento per l’incasso del titolo44.Tale conclusione era coerente anche con la formulazione dell’art. 45 n. 3 legge Assegni nel testo originariamente introdotto dal d.l. n. 70 del 2011 (prima del d.l. n. 18 del 2016) nel quale si faceva riferimento alla «Banca d’Italia, quale

Notariato che esclude la sussistenza di una competenza generalizzata dei funzionari e dipendenti del Comune a recarsi fuori dalla residenza comunale per ricevere atti negoziali. In dottrina L. OLIVIERI, Il segretario comunale ufficiale rogante. L’attività contrattuale degli enti territoriali, Halley, 2005, 112, che applica ai segretari comunali, per analogia, l’art. 27 l. not. sulla competenza territoriale del notaio.43 Già la giurisprudenza meno recente aveva precisato che l’operazione di compensazione compiuta attraverso stanza comporta estinzione dell’assegno, senza che occorra che il trattario e venga in materiale possesso (App. Genova, 31 agosto 1950, in Foro it., 1951, I, 1251).44 Così G. LAURINI, I titoli di credito, con il coordinamento di F. Fimmanò, II ed., Milano, 2009, 512-513. Sul punto anche G. OLIVIERI, Compensazione e circolazione della moneta nei sistemi di pagamento, Milano, 2002, passim.

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gestore delle stanze di compensazione o delle attività di compensazione e di regolamento delle operazioni relative agli assegni». Tale norma era coerente, soprattutto, col principio della rilevanza del luogo di pagamento per la presentazione dell’assegno e quindi per la levata del protesto, perfettamente coordinata, tra l’altro, con l’art. 34 legge assegni ove ancora si prevede che «la presentazione ad una stanza di compensazione equivale a presentazione per il pagamento».A diverse valutazioni si deve pervenire qualora, come sembra, la dichiarazione della Banca d’Italia di cui al n. 3 dell’articolo 45 sia resa fuori della Stanza di compensazione.Invero fuori dal sistema di compensazione che consente alle banche di concordare modalità comuni di scambio dei titoli e di contabilizzazione dei pagamenti reciprocamente effettuati, torna ad acquistare rilievo il principio di localizzazione del pagamento presso lo stabilimento della banca sul quale l’assegno è tratto e, presso il quale, esiste ed opera il conto corrente di traenza che incardina anche la competenza del pubblico ufficiale abilitato alla levata del protesto.Né potrebbe sostenersi che le banche trattarie, il cui stabilimento è indicato sul titolo, possano “spostare” – unilateralmente – il luogo di pagamento dell’assegno da un luogo “fisico” ad uno “virtuale” gestito dalla Banca d’Italia. Se è vero che dalla necessità dell’indicazione del luogo di pagamento sul titolo (art. 1, n. 4 legge Assegni) non può affatto dedursi l’impossibilità che il pagamento dello stesso sia effettuato in luogo diverso45, è anche vero, però, che dalla stessa legge assegni emerge (cfr. art. 2) che il legislatore ha inteso soprattutto garantire non l’univocità quanto la certezza del luogo di pagamento.Non appaiono d’ausilio, come sopra evidenziato, neppure le disposizioni contenute nella normativa secondaria e precisamente nell’art. 4 del Decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 3 ottobre 2014 n. 205 e nell’art. 13 del regolamento della Banca d’Italia del 22 marzo 2016 che, lungi dal procedere ad una “rilocalizzazione” dei rapporti bancari, autorizzano il pubblico ufficiale o la Banca d’Italia solo ad effettuare rispettivamente il protesto o la constatazione equivalente, esclusivamente sulla base dell’immagine dell’assegno e delle

45 Diversa da quanto riferito nel testo è l’ipotesi che il pagamento del titolo possa essere eseguito da un terzo, diverso dal trattario, da quest’ultimo all’uopo incaricato. La banca trattaria può incaricare un soggetto terzo – senza che nulla risulti dal titolo – ad eseguire il pagamento dell’assegno, “deviando” a favore della mandataria le tipiche funzioni di controllo dell’esistenza dei fondi e di rispondenza della firma del traente allo specimen depositato (e quindi sostanzialmente rinunciando alla possibilità di eseguire direttamente tali controlli).

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informazioni ricevute in via telematica dalla banca trattaria, che a sua volta li ha ricevuti dalla banca negoziatrice46.Sulla scorta di quanto fin qui ritenuto, sembra allora che la risposta alla domanda inizialmente posta debba essere negativa.Nel senso che le modifiche apportate alla legge assegni dal d.l. n. 18 del 2016, non avendo alterato il quadro normativo di riferimento da osservare in sede di levata del protesto o di emissione della constatazione equivalente, lasciano fermi a carico di tutti i soggetti abilitati a constatare formalmente il mancato pagamento, gli stessi obblighi di esecuzione e di pubblicità del protesto (o della dichiarazione sostitutiva)47, nonché di quelli informativi nei confronti della pubblica autorità48.Né a diverse soluzioni può pervenirsi in via interpretativa, nessuna norma primaria (né tanto meno quelle secondarie, essendo peraltro neutre sul punto) ponendo infatti eccezioni al principio del luogo di pagamento. Neppure l’art. 34 legge Assegni che lo determina in funzione di una procedura residuale, coordinandola perfettamente nel contesto normativo della legge Assegni

46 L’art. 12 del regolamento della Banca d’Italia (Trasmissione dei dati ai fini della levata del protesto o della constatazione equivalente in via telematica) stabilisce che «In caso di mancato pagamento di un assegno presentato al pagamento in forma elettronica il trattario o l’emittente, per conto del negoziatore, trasmette in via telematica ai pubblici ufficiali abilitati la distinta con la quale richiede la levata del protesto o della constatazione equivalente, sottoscritta con firma digitale, unitamente all’immagine dell’assegno generata ai sensi dell’art. 3 del Regolamento, nonché le informazioni di cui all’Allegato tecnico». Quest’ultimo a capitolo 6.1 (Informazioni minime scambiate tra le parti) indica «la documentazione trasmessa ai fini del protesto/constatazione equivalente deve contenere almeno la data di presentazione della richiesta di protesto/constatazione equivalente, i dati dell’assegno [numero dell’assegno, conto corrente trassato, luogo e data di emissione, importo, trattario/emittente, piazza di pagamento], i dati identificativi del negoziatore, la causale di rifiuto di pagamento, i dati identificativi dei soggetti da protestare, nonché ogni altra informazione prevista dalla normativa vigente».47 La legge 12 febbraio 1955, n. 77 e successive modificazioni pone a carico dei pubblici ufficiali abilitati a levare protesti, e quindi anche dei Capi delle Stanze di Compensazione, l’obbligo di trasmettere mensilmente gli elenchi dei protesti ai Presidenti delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura per la successiva pubblicazione nel “Registro informatico dei protesti”, istituito dalla legge 15 novembre 1995, n. 480, di conversione del d.l. 18 settembre 1995, n. 381.48 Obblighi che si attivano al verificarsi di illeciti connessi all’emissione degli assegni insoluti. L’art. 8-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386, e successive modificazioni prevede infatti l’obbligo per i pubblici ufficiali di inviare ai Prefetti i rapporti di accertamento degli illeciti amministrativi consistenti nell’emissione di assegni senza autorizzazione o senza provvista. Inoltre, ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale, qualora l’emissione di assegni sia connessa a reati perseguibili d’ufficio i pubblici ufficiali dovranno inoltrare denuncia scritta alla competente Autorità giudiziaria.

Brevi riflessioni sulle recenti modifiche alla legge Assegni

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del 1933, in cui l’eventuale dichiarazione della Banca d’Italia ex art. 45 n. 3 legge Assegni (rectius: dei capi delle stanze di compensazione), nell’ottica del legislatore dell’epoca, era ipotesi del tutto eccezionale. Pertanto la modifica del 2016 deve essere ricondotta nell’alveo sopra descritto anche perché ogni diversa lettura finirebbe per creare un sistema nuovo e parallelo a quello cui sottostanno i pubblici ufficiali di cui all’articolo 65 legge Assegni. Invero non può non rilevarsi lo squilibrio che emergerebbe tra l’attività di levata del protesto svolta dal notaio e quella “equivalente” svolta dalla Banca d’Italia, che potrebbe operare senza alcun tipo di vincolo territoriale, in difetto di una benché minima riferibilità della dichiarazione equivalente ad un pubblico ufficiale specificatamente individuato (anche ai fini delle eventuali responsabilità civili) e – sembra – senza che all’esito della procedura telematica di constatazione equivalente, le singole operazioni vengano annotate in apposito repertorio dei protesti come invece previsto per i notai. Tale squilibrio appare particolarmente evidente ove si consideri che a fronte dei medesimi effetti discendenti dal protesto, e ricollegati dall’art. 45 n. 3 legge Assegni alla dichiarazione equivalente (e che già prima del 2011 potevano considerarsi – per certi versi – “eccezionali”), la Banca d’Italia andrebbe a dettare a se stessa norme per l’attuazione del precetto e quindi ad “autodisciplinare” con normativa tecnica di dettaglio aspetti che ancora necessitano di essere attuati.Alla luce di quest’ultima considerazione, la conseguenza che se ne deve trarre è che la “nuova” competenza della Banca d’Italia nel rendere la dichiarazione prevista dall’art. 45, n. 3 legge Assegni può essere letta solo alla luce del mantenimento della struttura territoriale delle stanze di compensazione (ancora previste nell’art. 34 legge Assegni) dove chi rende effettivamente la dichiarazione in parola continua ad essere il capo (o “responsabile”) della stanza quale pubblico ufficiale che opera nei limiti della sua competenza territoriale. Tale dichiarazione verrà poi esternalizzata dalla Banca d’Italia della quale le Stanze di Compensazione costituiscono un’articolazione49.

49 Nel caso in cui dovessero risultare insussistenti i “presidi” posti dal R.d. n. 1736 del 1933 e dalle altre norme di riferimento, a garanzia della formale constatazione del mancato pagamento degli assegni – su tutti, che l’attività sia posta in essere da un pubblico ufficiale territorialmente competente – è da chiedersi se la dichiarazione ex art. 45, n. 3 legge Assegni resa dalla Banca d’Italia, sia in grado di produrre gli stessi effetti (equivalenti) del protesto, consentendo così al portatore di esercitare il regresso.

Mauro Leo

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Riflessioni conclusive

Alla luce delle suesposte considerazioni sembra potersi ritenere che:a) la novella del 2016 (d.l. n. 18 del 2016) che ha modificato l’articolo 45, n. 3 legge Assegni, non sembra aver innovato rispetto al principio della localizzazione del pagamento e del protesto;b) va esclusa tale portata innovativa anche rispetto alla normativa secondaria. Questa infatti regola soltanto le modalità di comunicazione degli insoluti tra il trattario/emittente ed il soggetto territorialmente competente alla constatazione del mancato pagamento;c) ogni diversa interpretazione sarebbe in contrasto non solo con la legge Assegni ma anche e soprattutto con la normativa anticoncorrenziale che vieta – come sancito dalla giurisprudenza di legittimità – ad un ente pubblico non economico (a maggior ragione se titolare di un potere normativo regolamentare), di svolgere attività di impresa, come appunto quella consistente nell’offerta di beni e servizi sul mercato (nella specie quella di rilascio di dichiarazione di mancato pagamento) sulla base di regole diverse da quelle degli altri operatori e di maggior vantaggio50;d) la dichiarazione della Banca d’Italia di cui all’articolo 45, n. 3 legge Assegni deve pertanto essere resa dal Capo di un’articolazione sul territorio della Banca d’Italia appositamente preposto che assume il ruolo di pubblico ufficiale ovvero dal capo della stanza di compensazione;e) la dichiarazione ex art. 45, n. 3 legge Assegni resa al di fuori del detto schema non sembrerebbe essere idonea a produrre gli effetti equivalenti al protesto.

50 Sul punto Cass., sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30175, in Foro amm. CDS, 2012, 3, 545.

Brevi riflessioni sulle recenti modifiche alla legge Assegni

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Parcheggi pertinenziali alla luce della giurisprudenza. Profili civilistici e fiscali

Annarita Lomonaco – Cristina Lomonaco – Serena MetalloUfficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il presente lavoro delinea il quadro di riferimento dei parcheggi pertinenziali sia per quanto attiene ai profili civilistici che per quelli fiscali. La rassegna si divide in due parti. La parte I esamina l’istituto delle pertinenze come disciplinato dall’art. 817 del codice civile. Partendo dalla giurisprudenza si delineano gli aspetti e i requisiti che caratterizzano il predetto istituto. Particolare attenzione è posta sul concetto di pertinenza come ripreso dal legislatore nella disciplina dettata per i parcheggi Ponte e Tognoli. Il lavoro, nella parte II, si sofferma sulla disciplina fiscale delle pertinenze immobiliari, con riferimento sia all’imposta di registro che all’Iva, evidenziando talune peculiarità riguardanti la categoria dei parcheggi.

The study indicates the civil and fiscal reference framework for parking spaces. The study is divided into two parts: the first examines the institution of the appliances as governed by art. 817 of the Italian Civil Code, with particular regard to the disclosure of the Ponte and Tognoli car parks. In the second part, the study focuses on the tax discipline of the real estate appurtenances, with reference both to the registration tax and to VAT, highlighting the peculiarities of the parking category

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Parte I – Le pertinenze: inquadramento generale dell’istituto e sua rilevanza nella disciplina dei parcheggi Ponte e Tognoli

Sommario: 1. Le pertinenze nel sistema civilistico. – 1.1. segue Le differenze tra il concetto di pertinenza e gli altri istituti affini. – 2. I requisiti fondamentali che caratterizzano la pertinenza. – 3. La nascita del vincolo pertinenziale. – 3.1. segue. Ipotesi particolare: la costituzione di una pertinenza a favore di più persone. – 4. La cessazione del rapporto pertinenziale. – 5. Il concetto di pertinenza urbanistica nella giurisprudenza. – 6. Pertinenze e parcheggi. – 7. I parcheggi Ponte nella ricostruzione giurisprudenza prima della riforma del 2005. – 8. La legge di semplificazione del 2005. – 9. Il concetto di pertinenza applicato alla realtà dei parcheggi Ponte. Conclusioni. – 10. La disciplina dei parcheggi Tognoli. – 11. Il concetto di pertinenza applicato ai parcheggi Tognoli realizzati su area privata. – 12. I parcheggi Tognoli realizzati su area comunale.

Parte II – I parcheggi pertinenziali nelle imposte indirette

Sommario: 1. Le pertinenze nell’imposta di registro. – 1.1. Le pertinenze ed il prezzo valore – 2. I parcheggi pertinenziali nell’agevolazione per l’acquisto della ‘prima casa’. – 3. I parcheggi pertinenziali nell’Iva. – 3.1. Aliquota Iva applicabile alla cessione dei parcheggi “Tognoli”.

Parte I – Le pertinenze: inquadramento generale dell’istituto e sua rilevanza nella disciplina dei parcheggi Ponte e Tognoli(Cristina Lomonaco – Serena Metallo)

La presente indagine parte dall’inquadramento dell’istituto delle pertinenze come disciplinato dal codice civile nell’art. 817, e si sofferma sull’analisi della giurisprudenza che si è formata sul punto, al fine di evidenziarne gli elementi caratterizzanti. Il concetto di pertinenza, come disciplinato nel codice civile e come ricostruito dalla giurisprudenza, ritorna nella disciplina speciale dettata dal legislatore per i parcheggi. Il presente lavoro pertanto si sofferma in particolar sui parcheggi Ponte e Tognoli, e ciò per il notevole interesse che le problematiche inerenti alla loro individuazione attengono per l’attività del notaio.

1. Le pertinenze nel sistema civilistico

Al fine di definire cosa si intende per pertinenza occorre partire dall’art. 817 c.c. che così dispone: «sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa. La destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima».

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La predetta nozione è stata introdotta per la prima volta dal legislatore nel 1942, che ha abrogato la definizione di immobile per destinazione contenuta nel codice del 1865. La dottrina ha sottolineato come il vincolo pertinenziale – che consiste nella relazione di strumentalità e complementarietà funzionale che si viene a creare tra due cose – costituisce una particolare figura di aggregazione, più precisamente «un’aggregazione che comporta un rapporto di subordinazione di una o più cose (pertinenze) ad un’altra cosa (principale) che dà la denominazione e la funzione al tutto»1. In tale rapporto ciascuna cosa conserva la propria individualità ed autonomia, pur essendo unita all’altra dal trattamento giuridico. La giurisprudenza si è soffermata sulla nozione di pertinenza arrivando a sostenere che: «le pertinenze a norma dell’art. 817 c.c. sono le cose che pur essendo destinate in modo durevole al servizio o ad ornamento di altra cosa (principale) possono formare oggetto di separati atti e rapporti giuridici (art. 818). Il rapporto tra cosa principale e cosa accessoria (diversamente dall’incorporazione) è preso in considerazione dalla legge non come rapporto di connessione materiale o strutturale ma come rapporto economico e giuridico di strumentalità e complementarità funzionale, sicché non è necessario che il vincolo pertinenziale dia luogo ad un quid novi, cioè ad una nuova individualità (come avviene nell’incorporazione), né alla configurazione di una nuova utilità diversa dalla somma o anche dalla sintesi dell’utilità fornita da due beni singolarmente considerati, essendo destinata la pertinenza al servizio o ad ornamento della cosa principale per renderne possibile una migliore utilizzazione o godimento, o per aumentarne il decoro»2. Si è altresì specificato che: «al fine della configurabilità del vincolo pertinenziale (art. 817 c.c.) sotto il profilo della durevole destinazione di una cosa al servizio di un’altra, è necessario che l’utilità sia oggettivamente arrecata dalla cosa accessoria a quella principale e non al proprietario di questa, dovendo le pertinenze servire alla utilità della cosa e non anche a quella meramente personale del “dominus” della stessa»3. Ed è proprio il modo di atteggiarsi della pertinenza che costituisce ciò che la differenzia da altre figure similari.

1 R. ALBANO, voce Pertinenze, in Enc. giur.; R. DE MARTINO, Della proprietà, in Commentario Scialoja Branca, 1976.2 Cass. civ., 19 marzo 1990, n. 2278.3 Cass. civ., 22 dicembre 1984, n. 6671.

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1.1. Segue La differenza tra il concetto di pertinenza e gli altri istituti affini

Il concetto di pertinenza si distingue dal concetto di cosa composta. La cosa composta si compone di più elementi o parti scomponibili e separabili dall’intero che costituiscono nel loro insieme una cosa unitaria, la pertinenza invece conserva la propria individualità ed autonomia. In altri termini la cosa composta realizza un vincolo più pregnante rispetto a quello pertinenziale, in quanto costituisce parte di un tutto, priva di autonomia. Chiarisce tale concetto la giurisprudenza che intervenuta in materia di espropriazione per pubblica utilità ha ritenuto che: « il cortile interno al fabbricato, che sia privo di autonomia catastale e reddito dominicale, non costituisce pertinenza e, pertanto, non è suscettibile di valutazione autonoma ai fini della determinazione dell’indennità: esso, infatti, è connesso alla costruzione in virtù di un vincolo più pregnante di quello pertinenziale, costituendo la parte di un tutto e dando luogo a cosa composta con la costruzione che affaccia su di esso, senza di che non avrebbe luce ed aria, laddove la pertinenza, dotata di una propria autonomia, può essere destinata a servizio e ad ornamento della cosa principale, senza però costituirne parte integrante ed elemento indispensabile alla sua esistenza»4. La pertinenza si distingue anche dal concetto di universitas.Nel rapporto pertinenziale, come visto, una cosa è posta a servizio ed ornamento di un’altra, e ciò differenzia le pertinenze dall’universitas, nella quale, invece, tutte le cose si pongono sul medesimo piano, costituendo un tutto uno ed avendo denominazione e funzione unitaria.La pertinenza si distingue, inoltre, dalla cosa accessoria, in quanto solo nella pertinenza è ravvisabile il vincolo di destinazione a servizio ed ornamento tra le cose. La nozione di cosa accessoria è, infatti, molto più vasta in quanto la stessa «importa qualsiasi relazione di subordinazione di una cosa rispetto ad un’altra che può anche non rispondere ai requisiti legali di pertinenza»5. Indicazioni possono trarsi anche dalla giurisprudenza6 laddove si è ritenuto che: «la costituzione del rapporto pertinenziale presuppone che il proprietario della

4 Cass. civ., 26 ottobre 2011, n. 22331, in Giust. civ. Mass., 2011, 10, 1516, in Giust. civ. Mass., 1984, 12.5 R. ALBANO, voce Pertinenze, cit.6 Cass. civ., 30 ottobre 2018, n. 27636, in Giust. civ. Mass., 2018. O ancora secondo Cass. civ., 2 febbraio 2017, n. 2804, in Giust. civ. Mass., 2017, «Il rapporto tra cosa principale e pertinenza non attiene ad una connessione materiale o strutturale, come nell’incorporazione, ma si configura

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cosa principale abbia anche la piena disponibilità della pertinenza; in difetto, la destinazione di una cosa al servizio di un’altra può avere luogo solo in forza di un rapporto obbligatorio convenzionalmente stabilito tra il proprietario della cosa principale e quello della cosa accessoria».La Cassazione riguardo tale aspetto, nel definire i requisiti essenziali ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra res principale e accessoria, così afferma: «Nel rapporto pertinenziale il collegamento tra la res principale e quella accessoria è preso in considerazione dalla legge non già come connessione materiale, ma come relazione economico giuridica di strumentalità e complementarietà funzionale. Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale, in particolare, è necessaria la presenza sia del requisito soggettivo, consistente nella effettiva volontà del titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sui beni collegati, di destinare uno al servizio o all’ornamento dell’altro, sia di quello oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due cespiti, con la precisazione che il bene accessorio deve arrecare una utilità al bene principale e non (o almeno non solo), al proprietario dello stesso»7.Premesse queste indicazioni di ordine generale, appare necessario soffermarsi sugli elementi che caratterizzano l’istituto della pertinenza.

2. I requisiti fondamentali che caratterizzano la pertinenza

Come visto, per aversi il nesso pertinenziale occorre la presenza di due elementi fondamentali: elemento soggettivo – rappresentato dall’appartenenza del bene accessorio e del bene principale in proprietà al medesimo soggetto – e un requisito oggettivo – rappresentato dalla contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, nel senso che il bene accessorio deve arrecare una “utilità” al bene principale, e non al proprietario di esso –. In una risalente pronuncia, la Corte Suprema di Cassazione, argomentando dal silenzio dell’art. 817 c.c. sul punto e, soprattutto, dalla disciplina dell’art. 819 c.c. sulla sorte delle pertinenze in caso di alienazione della cosa principale, aveva dedotto la non necessità della coincidenza soggettiva, al momento della destinazione, fra proprietario (o titolare di altro diritto reale) della cosa principale e proprietario (o titolare di altro diritto reale) della cosa accessoria8.

come rapporto di strumentalità e complementarietà funzionale, sicché il vincolo pertinenziale può sussistere anche tra opere dotate di autonomia strutturale».7 Cass. civ., 8 febbraio 2016, n. 2372, in Guida dir., 2016, 14, 40.8 Cass., 7 gennaio 1970, n. 962, in Giust. civ., 1970, I, 1061.

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Ma si tratta di un orientamento contraddetto dalla giurisprudenza successiva.Infatti attualmente la giurisprudenza ritiene indispensabile che, ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio sia necessario il requisito soggettivo dell’appartenenza del bene accessorio e del bene principale in proprietà al medesimo soggetto, e il requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, nel senso che il bene accessorio deve arrecare una “utilità” al bene principale, e non al proprietario di esso9. In particolare, dunque, si è affermato che: «per l’insorgere del rapporto pertinenziale sono necessari due presupposti, e cioè un elemento oggettivo, costituito dal vincolo di strumentalità funzionale che lega la cosa accessoria alla cosa principale, e un elemento soggettivo dato dall’effettiva volontà dell’avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad ornamento dell’altra; quanto al vincolo funzionale, che lega tra loro cosa principale e pertinenza, esso deve realizzare effettivamente un migliore sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa principale di cui deve fornire un riscontro effettivo e attuale; di conseguenza il vincolo pertinenziale non può consistere in una semplice dichiarazione di volontà o derivare da un mero atto negoziale quale la descrizione di un bene contenuta in un contratto di compravendita, ma deve estrinsecarsi in un comportamento riconoscibile da terzi»10.

9 Cass., 6 settembre 2002 n. 12983, Mass. Giur. it., 2002; Arch. civ., 2003, 793; Gius., 2003, 2, 145; Notariato, 2003, 368. Sul punto cfr. Cass., 6 settembre 2002 n. 12983, secondo cui: «ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra bene principale e bene accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell’appartenenza del bene accessorio e del bene principale in proprietà al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare una “utilità” al bene principale, e non al proprietario di esso». O ancora Cass., 9 gennaio 1998 n. 136, in Riv. giur. ed., 1998, I, 574. O ancora la Cassazione (Cass. civ., 27 gennaio 1986, n. 518, in Giust. civ. Mass. 1986) ha ritenuto che: «per la configurabilità della pertinenza devono concorrere l’elemento oggettivo, consistente nel rapporto funzionale corrente tra la cosa principale e quelle accessorie, e l’elemento soggettivo della destinazione pertinenziale, consistente nella volontà effettiva del titolare della proprietà, o di altro diritto reale, sui beni collegati, di destinare durevolmente la cosa accessoria al servizio od all’ornamento di quella principale. Non è pertanto configurabile come pertinenza – rispetto ad un alloggio economico popolare (di cui non è suscettibile per ciò di condividere il regime giuridico) – l’autorimessa costruita e locata da un Iacp successivamente all’assegnazione dell’alloggio medesimo e con la stipula di un separato contratto, che la assuma come autonoma entità giuridica».10 Cons. Stato, sez. V, 17 novembre 2014, n. 5615, in Foro amm., 2014, che dispone che: «Per l’insorgere del rapporto pertinenziale sono necessari due presupposti, e cioè un elemento oggettivo, costituito dal vincolo di strumentalità funzionale che lega la cosa accessoria alla cosa principale, e un elemento soggettivo dato dall’effettiva volontà dell’avente diritto di destinare una cosa a servizio o ad ornamento dell’altra; quanto al vincolo funzionale, che lega tra loro

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Ancora: «la destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest’ultima. Per converso, la specifica esclusione del rapporto pertinenziale tra due porzioni immobiliari ad opera dell’originario proprietario di entrambe non consente di affermare la sussistenza del vincolo pertinenziale, pur ove possa apparire ragionevole l’utilità di quella accessoria rispetto alla principale»11. La giurisprudenza chiarisce tale aspetto ossia che per aversi pertinenza è necessario che tra le due cose autonome sussista quel vincolo strumentale, che fa sì che l’una per la sua normale natura e conformazione, possa essere adibita al servizio ed ornamento dell’altra12.Interessante a riguardo è ciò che la Cassazione13, che si è pronunciata sulla configurabilità della pertinenza per gli arredi degli immobili, ha detto, ossia che: «Ai fini della sussistenza di un vincolo pertinenziale è necessario il concorso di due presupposti, ossia l’idoneità del bene a svolgere funzione di servizio o

cosa principale e pertinenza, esso deve realizzare effettivamente un migliore sfruttamento o una maggiore utilizzazione della cosa principale di cui deve fornire un riscontro effettivo e attuale; di conseguenza il vincolo pertinenziale non può consistere in una semplice dichiarazione di volontà o derivare da un mero atto negoziale quale la descrizione di un bene contenuta in un contratto di compravendita, ma deve estrinsecarsi in un comportamento riconoscibile da terzi».11 Cass., 2 agosto 2011, n. 16914, in Giust. civ. Mass., 2011, 7-8, 1147. Nella fattispecie esaminata dalla sentenza, la Cassazione ha confermato sul punto la sentenza di merito che aveva espresso il convincimento che la cantina oggetto di causa fosse stata sempre in rapporto pertinenziale con il solo appartamento posto al piano terreno dell’edificio, non risultando alcuna volontà dei proprietari di modificare l’originario vincolo, estendendolo all’intero edificio.12 Cass., 19 marzo 1990 n. 2278, già citata nella nota 2 del presente lavoro. In senso conforme cfr. Cass., 18 gennaio 1985 n. 132; Cass., 3 dicembre 1999, n. 13487. 13 Cass. civ., 14 maggio 2019, n. 12731, in Dir. giust., 2019. O ancora si rinvia a Cass. civ., 16 maggio 2018, n. 11970, in Gius. civ. Mass., 2018, secondo cui: «Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra il bene principale e quello accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell’appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare un’utilità a quello principale, e non al proprietario di esso; l’accertamento in ordine alla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il rapporto pertinenziale fra due immobili e consistenti nella volontaria e permanente destinazione di uno di essi al servizio dell’altro comporta un giudizio di fatto che, come tale, è incensurabile in sede di legittimità se espresso con motivazione adeguata ed immune da vizi logici. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che talune serre agricole costituivano beni immobili posti a servizio di un fondo rustico, restando ad esso avvinte da vincolo pertinenziale ex art. 817 c.c., siccome stabilmente ancorate al suolo e, quindi, destinate ad alterare durevolmente il territorio al pari di una qualsiasi altra edificazione)».

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ornamento ad un altro bene e l’effettiva volontà dell’avente diritto di destinare in modo durevole il bene accessorio a servizio o ornamento del bene principale. Tale volontà di destinazione non necessita di forme particolari o solenni per essere manifestata, ma può essere tratta da qualsiasi elemento ritenuto idoneo a tal fine dal giudice di merito. Indispensabile è comunque il rapporto funzionale o strumentale che oggettivamente sussiste tra la cosa principale e la cosa accessoria. E per quanto riguarda le cosiddette pertinenze urbane, si deve escludere la natura di pertinenza delle suppellettili, degli arredi e degli immobili che riguardano esclusivamente la persona del titolare del diritto reale sulla cosa principale e non la cosa in sé considerata». Tale ricostruzione trova un riscontro anche nella dottrina secondo cui: «entrambi gli elementi sono indispensabili e rientrano paritariamente nella nozione di pertinenza, senza che possa parlarsi di prevalenza dell’uno sull’altro: nel senso che non basta l’elemento oggettivo o la destinazione funzionale, se manchi l’elemento volontario (altrimenti si ritornerebbe alla immobilizzazione o destinazione per volontà della legge in presenza del solo fattore funzionale), ma che parimenti non basta elemento soggettivo della volontarietà della destinazione se la cosa funzionalmente ed oggettivamente non rientri nella normale destinazione al servizio od ornamento di un’altra»14.Premesso ciò appare necessario esaminare la giurisprudenza al fine di verificare come i predetti elementi si caratterizzano.

3. La nascita del rapporto pertinenziale

Come detto per aversi la creazione del rapporto pertinenziale è necessario l’elemento soggettivo, ossia la destinazione, da parte di un soggetto legittimato, di una cosa al servizio o all’ornamento di un’altra. Si parla di atto di destinazione per sottolineare la presenza di un atto consapevole e volontario tendente a creare uno stato di fatto al quale la legge connette effetti giuridici preordinati. La legittimazione, in base al testo dell’art. 817 c.c., è propria del proprietario della cosa principale o di chi ne ha un diritto reale sulla medesima.La giurisprudenza si è soffermata in particolar modo sul concetto di destinazione come elemento necessario per caratterizzare la pertinenza. La relazione fra la cosa principale e la pertinenza è infatti conseguenza di una destinazione ad hoc da parte di un soggetto a ciò legittimato.

14 G. TAMBURRINO, Pertinenze (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 550.

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Ne consegue che essa non può che esser l’esito di una manifestazione di volontà univoca del proprietario dei beni15. E quindi trattandosi di atto di disposizione (per la giurisprudenza), esso non potrebbe esser validamente compiuto da chi non abbia tale qualità16. Occorre soffermarsi su tale aspetto alla luce di alcune pronunce della Cassazione sul punto. È stato sottolineato come: «Per potersi ravvisare il vincolo pertinenziale tra due beni, tra loro distinti ed autonomi, è necessario che il proprietario della cosa principale abbia la piena disponibilità anche della cosa accessoria e che la destinazione pertinenziale, specie quando essa derivi da un atto non negoziale, risulti nella sua attualità ed effettività e possa essere fatta risalire ad un comportamento oggettivamente valutabile che destini l’una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra, postulando peraltro il vincolo anche la esclusività della funzione accessoria dell’un bene rispetto all’altro. Pertanto, ove tale requisito manchi ed il bene accessorio sia adibito contemporaneamente a servizio di diversi beni appartenenti a soggetti differenti non si configura una pertinenza, ma un caso di proprietà comune del bene accessorio, ovvero un caso di servitù imposta su di esso»17. E ciò in quanto «posto che la destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest’ultima, anche con riguardo a cose prive del rapporto di accessorietà, e che l’avente diritto, può far venir meno tale rapporto mediante la manifestazione espressa di una volontà contraria, facendo considerare le due cose in modo distinto e separato, è compito del giudice accertare, nell’ambito dei trasferimenti negoziali, l’esistenza di tale volontà, attraverso l’esame di tutte le clausole contrattuali»18. È stato chiarito che : «La destinazione durevole di una cosa al servizio di un’

15 Cass., 9 aprile 1983, n. 2528.16 Cass., 12 dicembre 1977, n. 5386.17 Cass., 30 luglio 2004, n. 14559, in Riv. giur. ed., 2005, I, 63. 18 Cass., 13 giugno 2002, n. 8468, in Riv. not., 2003, 1182 nota di: G. MUSOLINO. O ancora si rinvia a Cass., 3 novembre 2000, n. 1435, in Giust. civ. Mass., 2000, 2245, secondo cui: «La destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest’ultima. Per converso la specifica esclusione del rapporto pertinenziale tra due porzioni immobiliari ad opera dell’originario proprietario di entrambe non consente d’affermare la sussistenza del vincolo pertinenziale pur ove possa apparire ragionevole l’utilità di quella accessoria rispetto alla principale».

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altra dà luogo ad un rapporto pertinenziale ai sensi dell’art. 817 c.c. solo se effettuata dal proprietario o dal titolare di un diritto reale di godimento su entrambe le cose, che intenda con un atto di disposizione della cosa (elemento soggettivo) collegarla ad un’altra in modo da farne un’entità strutturale; pertanto qualora le cose appartengano a due proprietari diversi, la destinazione dell’una a servizio dell’altra può avvenire solo in forza di un rapporto obbligatorio convenzionalmente stabilito tra il proprietario della cosa principale e quello della cosa accessoria, mentre, allorquando la destinazione di una cosa a servizio dell’altra, pur in presenza della proprietà dell’una e dell’altra in capo allo stesso soggetto, venga fatta da colui che abbia in locazione la cosa principale con la sola tolleranza o la mera conoscenza del proprietario locatore, il vincolo pertinenziale è escluso per difetto del suddetto elemento soggettivo»19.Ne consegue che: «La destinazione durevole di una cosa al servizio di un’altra dà luogo ad un rapporto pertinenziale ai sensi dell’art. 817 c.c. solo se effettuata dal proprietario o dal titolare di un diritto reale di godimento su entrambe le cose; qualora, al contrario, le cose appartengano a due proprietari diversi, la destinazione dell’una a servizio dell’altra può avvenire solo in forza di un rapporto obbligatorio convenzionalmente stabilito tra il proprietario della cose principale e quello della cosa accessoria»20. Chiarisce la ricorrenza di tale aspetto quella Cassazione21 che afferma che:

19 Cass., 29 settembre 2005, n. 19157, in Giust. civ. Mass., 2005, 7/8. Nella specie la Suprema Corte in applicazione dei principi soprariportati ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso il rapporto pertinenziale relativamente ad un’area nuda, non formalmente inclusa nel contratto di locazione e di proprietà dello stesso locatore, utilizzata quale parcheggio dal conduttore di un ristorante con la consapevolezza e la tolleranza da parte del locatore dello specifico uso che di questo bene veniva fatto dal conduttore. 20 Cass., 26 giugno 2000, n. 8659, in Giust. civ. Mass., 2000, 1402. Specifica questo concetto anche Cass., 12 aprile 1999, n. 3574, in Giur. it., 2000, 730 secondo cui: «Una volta che il proprietario della cosa principale ha destinato la cosa accessoria al servizio durevole della prima, con la conseguenza che gli atti aventi ad oggetto la cosa principale si estendono alla cosa accessoria, per considerare venuto meno il rapporto pertinenziale deve accertarsi l’intervento di un atto del proprietario di cessazione della destinazione». Ed infine da ultimo Cass. civ., 30 ottobre 2018, n.27636, in Giust. civ. Mass., 2018, che così dispone:«La costituzione del rapporto pertinenziale presuppone che il proprietario della cosa principale abbia anche la piena disponibilità della pertinenza; in difetto, la destinazione di una cosa al servizio di un’altra può avere luogo solo in forza di un rapporto obbligatorio convenzionalmente stabilito tra il proprietario della cosa principale e quello della cosa accessoria».21 Cass. civ., 24 marzo 2014, n. 6882, in Guida dir., 2014, 28, 66. La fattispecie concreta analizzata dalla sentenza appena citata attiene al proprietario di un alloggio realizzato da una cooperativa edilizia, che aveva agito nei confronti del proprietario di altro alloggio del medesimo stabile, perché fosse dichiarato inefficace l’atto con il quale la cooperativa aveva assegnato al secondo un

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«escluse le pertinenze pubbliche (destinate al servizio dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili) e quelle di natura privata, ma aventi una destinazione di tipo pubblicistico (e perciò soltanto vincolate al bene principale) ogni pertinenza richiede un atto negoziale di destinazione a un bene principale, atto che come può essere posto in essere dal proprietario o dal titolare di altro diritto reale sulla cosa principale, così può essere successivamente posto nel nullo assoggettando il bene principale e quello pertinenziale a rapporti giuridici separati. Non è configurabile, pertanto, una res che sia oggettivamente o naturalmente pertinenziale, poiché la maggiore o minore sua vocazione al servizio o all’ornamento di altro bene non ne implica l’assoggettamento ipso iure al relativo regime giuridico. In altri termini il nesso pertinenziale può essere costituito e può essere sciolto senza altro limite che quello derivante dalla volontà del titolare del bene principale, giacché l’atto di destinazione non imprime alla cosa secondaria una indelebile “qualitas iuris”. Deriva da quanto precede, pertanto che è un non senso giuridico – che contraddice frontalmente il disposto dell’art. 818 comma 2 c.c. – sostenere che la circolazione separata del bene secondario espressamente disposta dal titolare della cosa principale sia invalida in ragione della pregressa destinazione». Accanto all’elemento soggettivo deve esserci anche quello oggettivo. Infatti22: « Ai fini della sussistenza del vincolo pertinenziale tra il bene principale e quello accessorio è necessaria la presenza del requisito soggettivo dell’appartenenza di entrambi al medesimo soggetto, nonché del requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare un’utilità a quello principale, e non al proprietario di esso; l’accertamento in ordine alla sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il rapporto pertinenziale fra due immobili e consistenti nella volontaria e permanente destinazione di uno di essi al servizio dell’altro comporta un giudizio di fatto che, come tale, è incensurabile in sede

giardinetto sito innanzi al lato nord dell’alloggio di questo, assumendo – tra l’altro – che l’area costituita dal giardino sarebbe connotata rispetto al fabbricato comune da una pertinenzialità originaria divisata dalla cooperativa con il provvedimento di assegnazione in via esclusiva a uno dei soci. In applicazione dei principi esposti dalla Cassazione e riportati nel testo del presente elaborato la Suprema corte ha disatteso un tale assunto.22 Cass. civ., 16 maggio 2018, n. 11970, in Giust. civ. Mass., 2018. In particolare nella specie la Cassazione nella sentenza sopra citata nel testo del lavoro, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che talune serre agricole costituivano beni immobili posti a servizio di un fondo rustico, restando ad esso avvinte da vincolo pertinenziale ex art. 817 c.c., siccome stabilmente ancorate al suolo e, quindi, destinate ad alterare durevolmente il territorio al pari di una qualsiasi altra edificazione.

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di legittimità se espresso con motivazione adeguata ed immune da vizi logici».Si fa, infatti, riferimento al rapporto funzionale o strumentale che, oggettivamente, deve sussistere tra la cosa originaria e cosa accessoria, perché la prima possa avere per pertinenza la seconda. Tale indicazione deriva dalla lettera dell’art. 817 c.c. che indentifica la pertinenza nella cosa posta a servizio od ornamento di un’altra cosa. Laddove per servizio si vuole intendere che la cosa accessoria sia o possa essere adibita alla maggiore utilizzazione ed al migliore sfruttamento economico della cosa principale. Per ornamento invece si vuole significare che la cosa accessoria possa essere destinata al miglior uso della cosa principale dal punto di vista non strettamente economico. Tali concetti sono ripresi dalla giurisprudenza, che come già analizzato in precedenza, afferma che «il requisito oggettivo della contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, ai fini del quale il bene accessorio deve arrecare una “utilità” al bene principale, e non al proprietario di esso»23.

3.1. Segue. Ipotesi particolare: la costituzione di una pertinenza a favore di più persone

Analizzando gli elementi necessari per aversi pertinenza, ed in particolare dopo esserci soffermarti sull’elemento soggettivo che lega la cosa pertinenziale alla cosa principale, occorre interrogarsi sull’ ammissibilità della costituzione di una pertinenza a servizio di più persone.La giurisprudenza non è uniforme sul punto.Parte della giurisprudenza24 è nel senso di ritenere ammissibile la costituzione di una pertinenza in comunione al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza.Chiamata a pronunciarsi sulla natura pertinenziale di un cortile di un complesso immobiliare costituito da case e terreni oggetto di vari trasferimenti mortis causa

23 Cass., 6 settembre 2002, n. 12983.24 Cass., 29 agosto 1992, n. 8962. Sul punto si rinvia anche a Cass. n. 2150/1970, che aveva ammesso che un immobile (nella specie, un viale) potesse costituire pertinenza comune, pro indiviso, di più fondi, appartenenti a proprietari diversi, riconoscendo che detto immobile potesse assumere la medesima funzione pertinenziale anche a favore di altro fondo purché con il consenso di tutti i proprietari dei fondi principali e non per fatto unilaterale di taluno dei proprietari di questi, anche se l’altro fondo fosse di sua proprietà e venisse di fatto riunito ad altro fondo di cui il fondo comune costituiva pertinenza.

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e inter vivos, la Cassazione testualmente afferma che: «invero una pertinenza in comune (il cortile) può benissimo essere destinata al contemporaneo servizio di più cose principali (i singoli beni dell’originario complesso immobiliare) appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza». Secondo la Cassazione: «la costituzione di una pertinenza in comunione, al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza stessa, in quanto l’asservimento reciproco del bene accessorio comune consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare lo stesso in favore delle rispettive proprietà esclusive»25.O ancora è stato affermato26 di non potersi ritenere di ostacolo al riconoscimento della natura pertinenziale dell’area antistante un edificio, il fatto che tale area, dando accesso anche ad altri immobili di proprietà esclusiva, costituisse area pertinenziale di proprietà comune, affermando che ben può, invero, permanere la destinazione dell’area comune a servizio di proprietà esclusiva in forza dell’accordo, anche implicito, dei proprietari esclusivi dei beni principali. L’asservimento reciproco del bene comune (accessorio) consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare i beni accessori comuni a favore delle rispettive proprietà esclusive (beni principali).Altra parte della giurisprudenza ha ritenuto non possibile la costituzione di una pertinenza a favore di soggetti diversi. È stato infatti sostenuto27 che in relazione alla natura di pertinenza di un cortile rispetto ai tre edifici frontistanti appartenenti a soggetti diversi, ha ritenuto che non potendosi definire tale cortile una pertinenza “comune” rispetto a più beni di proprietà singola, difettando il requisito della esclusività della funzione accessoria proprio della pertinenza, il cortile medesimo dovesse considerarsi comune ai tre edifici su di esso prospicienti, ai sensi dell’art. 1117 c.c. Secondo la sentenza appena citata: «Per potersi ravvisare il vincolo pertinenziale tra due beni, tra loro distinti ed autonomi, è necessario che il proprietario della

25 Cass., 5 dicembre 2013, n. 27302, in Giust. civ. Mass., 2013, secondo cui «È ammissibile la costituzione di una pertinenza in comunione, al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza stessa, in quanto l’asservimento reciproco del bene accessorio comune consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare lo stesso in favore delle rispettive proprietà esclusive. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto valida la determinazione con cui i proprietari di singole unità immobiliari, facenti parte di un medesimo edificio, avevano destinato, sia pure solo “per facta concludentia”, l’area circostante a giardino pertinenziale delle rispettive proprietà individuali)».26 Cass., 8 novembre 2013, n. 14528, in Giust. civ. Mass., 2000, 2282.27 Cass., 30 liuglio 2004, n. 14559, in Riv. giur. ed., 2005, I, 63.

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cosa principale abbia la piena disponibilità anche della cosa accessoria e che la destinazione pertinenziale, specie quando essa derivi da un atto non negoziale, risulti nella sua attualità ed effettività e possa essere fatta risalire ad un comportamento oggettivamente valutabile che destini l’una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra, postulando peraltro il vincolo anche la esclusività della funzione accessoria dell’un bene rispetto all’altro. Pertanto, ove tale requisito manchi ed il bene accessorio sia adibito contemporaneamente a servizio di diversi beni appartenenti a soggetti differenti non si configura una pertinenza, ma un caso di proprietà comune del bene accessorio, ovvero un caso di servitù imposta su di esso»28.

4. La cessazione del rapporto pertinenziale

Il vincolo pertinenziale tra cosa accessoria e quella principale cessa quando oggettivamente viene meno la destinazione funzionale tra i due beni. La cessazione può inoltre avvenire o a seguito di fatti naturali (perimento bene) o per sopraggiunta inidoneità del bene accessorio a svolgere le sue funzioni strumentali rispetto a quello principale o per volontà del proprietario del bene principale che pone fine alla destinazione del bene accessorio a servizio o ornamento di quello principale. Tale circostanza ha indotto la Cassazione ha sostenere che: «La cessazione del vincolo pertinenziale non può avvenire per un atto di volontà del proprietario che abbia già trasferito la cosa principale, sicché l’alienazione a terzi della cosa accessoria (nella specie, vano corridoio) non è opponibile all’anteriore acquirente della cosa principale (nella specie, unità immobiliare servita dal corridoio»29.

28 Cfr. Cass., 7 novembre 1994, n. 9221; Cass., 7 maggio 1993, n. 5262.29 Cass., 5 agosto 2013, n. 18651, in Dir. giust. Online, 2013. Sul punto ved. anche Cass. civ., sez. trib., 12 ottobre 2016, n. 20506, in Riv. giur. ed., 2016, 6, I, 1137, secondo cui: «Ai sensi del d.lgs. n. 504 del 1992, art. 2, perché sia esclusa l’autonoma tassabilità di un bene pertinenziale di un fabbricato, è necessario che ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all’art. 817 c.c. e, quindi, che la qualità di pertinenza si basi su un criterio fattuale e, cioè, sulla destinazione effettiva e concreta della cosa a servizio o ornamento di un’altra. Pertanto, la pertinenza, qualora sia stata ceduta a terzi e destinata dal proprietario del bene principale ad assolvere una destinazione autonoma, cessa la propria natura e funzione, non sussistendo più alcun vincolo pertinenziale con la cosa principale ed è quindi assoggettata all’Ici». O ancora Cass. civ., 29 aprile 2003, n. 6656, in Nuovo dir., 2003, ha affermato che « in tema di pertinenze, la legittima costituzione del vincolo presuppone l’esistenza, oltre che di un unico proprietario, di un elemento oggettivo, consistente

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5. Il concetto di pertinenza urbanistica

Dopo aver analizzato i caratteri della pertinenza desumibili dal codice civile occorre soffermarsi anche sulla nozione di pertinenza urbanistica.A tal fine l’indagine deve essere compiuta partendo proprio dalla giurisprudenza che ha esaminato il predetto aspetto cercando di differenziare il concetto di pertinenza urbanistica da quello di pertinenza civilistica. Infatti: «La nozione generale di pertinenza sul piano urbanistico-edilizio assume caratteristiche peculiari e meno ampie rispetto a quella civilistica ricavabile dall’art. 817 c.c., essendo la stessa configurabile nel caso in cui sussista un oggettivo ed inscindibile nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, purché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico»30. La giurisprudenza sembra ancorare il concetto di pertinenza urbanistica alla realizzazione di opere di modesta entità.E ciò in quanto: «soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale è applicabile la qualifica di pertinenza urbanistica, non potendo tale qualifica essere estesa alle opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, siano autonome rispetto all’opera cosiddetta principale»31. In particolare la giurisprudenza del Consiglio di Stato più volte è ritornata sulla predetta differenza chiarendo che: «Il concetto di pertinenza urbanistica, che come è ben noto è diverso e più ristretto rispetto al corrispondente concetto civilistico, si identifica con un manufatto di modeste dimensioni, con funzioni soltanto accessorie dell’edificio principale, coessenziale quindi ad esso e privo

nella materiale destinazione del bene accessorio ad un rapporto funzionale con quello principale, e di un elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà, espressa o tacita, di destinazione della res al servizio o all’ornamento del bene principale da parte di chi abbia il potere di disporre di entrambi. Pertanto, proprio in quanto la destinazione in modo durevole di una cosa – pure immobile – a servizio od ornamento di un’altra non necessita di alcuna forma solenne, anche la volontà di esclusione o cessazione di un rapporto pertinenziale tra due cose può essere desunta da qualsiasi elemento a tal fine ritenuto idoneo, con accertamento di mero fatto, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato». Altresì secondo Cass. civ., 10 maggio 2000, n. 6009, in Giust. civ. Mass., 2000, 986: «Il proprietario del bene principale e di quello costituente pertinenza, nel trasferire a terzi la proprietà del primo bene, può sempre riservarsi quella dell’altro, determinando in tal modo la cessazione del vincolo pertinenziale ai sensi dell’art. 818 c.c. Il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito».30 Tar Campania, 09 dicembre 2019, n. 5769.31 Cons. Stato, 5 giugno 2019, n. 3807.

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di autonomo valore di mercato; nella specie la realizzazione di tettoie e pollai non necessita quindi di permesso»32. Ed ancora «La qualifica di pertinenza urbanistica può essere applicata solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, considerando dimensioni e funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale»33. Detto questo, quello che differenzia la pertinenza urbanistica da quella civilistica è il seguente aspetto: la pertinenza urbanistica sussiste in presenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale; ossia «un legame che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio esclusivamente ad un uso pertinenziale durevole»34. Infatti: « può configurarsi una pertinenza urbanistica solo nel caso in cui vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, che consenta solo la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, purché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico»35. Dunque: «La pertinenza urbanistica è ravvisabile in caso di opere il cui impatto volumetrico non incida in modo permanente sull’assetto edilizio. Per potersi

32 Cons. Stato, 3 giugno 2019, n. 3716, in Riv. giur. ed., 2019, 4, I, 1084. Negli stessi termini anche Cons. Stato, sez. VI – 30 aprile 2019, n. 2813, secondo cui: «La pertinenza in senso urbanistico è un fabbricato funzionale a un altro, privo di autonomo valore di mercato e tale da non incrementare il carico urbanistico, pertanto non necessita di essere assentita come nuova costruzione».33 Tar Campania, 06 dicembre 2019, n. 5733. Cfr. Tar Campania, 10 aprile 2019, n. 230. O ancora negli stessi sensi v. anche Cons. Stato, 11 novembre 2019, n. 7689, secondo cui: «La natura pertinenziale può essere riferita solo ad opere di modesta entità, accessorie rispetto a quella principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino come autonome rispetto all’opera principale».34 Tar Campania, 3 ottobre 2019, n. 4718. Negli stessi termini anche Tar Campania, 19 luglio 2019, n. 3984.35 Tar Lazio, 11 luglio 2019, n. 9223. O anche Tar Sicilia, 11 giugno 2019, n. 1553, secondo cui «In campo edilizio il concetto di pertinenza si riferisce ai soli i locali strettamente necessari alla collocazione di strutture tecniche, trattandosi di un concetto molto più limitato rispetto a quello civilistico ed allo stesso non sovrapponibile». O ancora Tar Lombardia, Brescia, 5 giugno 2019, n. 546: «La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad es. piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica».

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parlare, a fini urbanistici (e non meramente civilistici) di pertinenza, occorre trovarsi di fronte ad opere (collegate all’edificio principale in un rapporto di stretta e necessaria consequenzialità) il cui impatto volumetrico non incida in modo permanente sull’assetto edilizio»36.In conclusione sul punto in ambito edilizio, può essere considerata pertinenza l’opera di modesta entità, che risulta accessoria rispetto all’opera principale, non potendo invece qualificarsi come pertinenza l’opera completamente autonoma rispetto a quella principale, tale che ne risulti possibile un’utilizzazione economica diversa37. Dopo aver chiarito cosa si intende per pertinenza occorre soffermarsi, per le ricadute sull’attività notarile, sui parcheggi ponte e su quello Tognoli.

6. Pertinenze e parcheggi

Il concetto di pertinenza, come disciplinato nel codice civile, è stato ripreso nella disciplina speciale dettata dal legislatore per i parcheggi.Il nostro sistema conosce almeno due tipologie speciali di parcheggi che si atteggiano in maniera diversa sia sul profilo normativo, che su quello urbanistico, che infine, su quello negoziale.Al di là dei c.d. parcheggi liberi, che come qui si accenna sono delle vere e proprie pertinenze di stampo codicistico, i parcheggi c.d. ponte ed i parcheggi c.d. Tognoli, seppur accumunati da un generico concetto di pertinenza, in realtà, si caratterizzano per degli elementi qualificanti che ne fanno delle pertinenze sui generis.

36 Tar Valle d’Aosta, 4 giugno 2019, n. 28.37 Cons. Stato, 26 marzo 2019, n. 1995; cfr. Cons. Stato, 08 gennaio 2019, n. 180. O ancora Cons. Stato, 25 marzo 2019, n. 1943 in Foro amm., 2019, 3, 460, secondo cui: «La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica». Cons. Stato, sez. VI, 28 febbraio 2019, n. 1406; Tar Lazio, 27 febbraio 2019, n. 2594. O ancora Tar Veneto, 18 febbraio 2019, n. 217; Tar Campania, 10 gennaio 2019, n. 139.

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7. I parcheggi Ponte nella ricostruzione giurisprudenza prima della riforma del 2005

I parcheggi ponte sono stati introdotti nel nostro sistema dall’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, che ha aggiunto l’art. 41-sexies alla legge 17 agosto 1942, n. 1150.Al primo comma del citato art. 41-sexies si prevede che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione. Inizialmente, gli standards urbanistici erano stati dettati in misura inferiore ma tramite un richiamo nella legge 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli) sono stati ampliati ad un metro quadrato per ogni dieci metri.La Cassazione che si è occupata del problema di qualificare la natura di questi posti è partita dall’affermazione che la norma che prevede come obbligatori questi posti auto è norma prevista per la tutela di un pubblico interesse, rivolta sia al Comune, che non può rilasciare permesso di costruire se manca l’indicazione di spazi destinati al parcheggio, sia al costruttore, che deve rispettare il vincolo di destinazione a parcheggio del posto auto.Ci si è interrogati se tale norma avesse avuto l’obiettivo di imporre l’obbligo di realizzare tali posti auto nonché la loro destinazione d’uso ovvero avesse avuto di mira anche l’enunciazione di regole limitanti la loro negoziazione: ebbene la giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite, con tre pronunciamenti consecutivi e sostanzialmente identici, ne ha sostenuto anche questo secondo obiettivo.In particolare, è stato affermato che l’art. 41-sexies della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall’art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, configura norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono.Ciò comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che, qualora il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento in applicazione dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio medesimo, deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in cui sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta

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inderogabile destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto stesso integrato “ope legis” con il riconoscimento di un diritto reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino (salva restando la possibilità delle parti di ottenere, anche giudizialmente, un riequilibrio del sinallagma contrattuale, alterato dalla indicata integrazione dell’oggetto di una delle prestazioni)38.In reazione a tale costrutto giurisprudenziale si intese operare sul piano legislativo, introducendo all’art. 26, ultimo comma della l. n. 47 del 1985 sul condono edilizio, la seguente norma: «gli spazi di cui all’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765 costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 c.c.». La Cassazione, tuttavia, non modificò l’indirizzo interpretativo ed intervenne nuovamente a Sezioni Unite affermando che «L’art. 41-sexies, l. 17 agosto 1942 n. 1150, secondo il testo introdotto dall’art. 18, l. 6 agosto 1967, n. 765, nel prescrivere che nelle nuove costruzioni devono essere riservati appositi spazi

38 Cass., sez. un., 17 dicembre 1984, n. 6600, 6601, 6602. Più precisamente secondo la Cass. n. 6600/1984: «L’art. 41-sexies della l. urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall’art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, configura norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono. Ciò comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che, qualora il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento in applicazione dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio medesimo, deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in cui sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto stesso integrato “ope legis” con il riconoscimento di un diritto reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino (salva restando la possibilità delle parti di ottenere, anche giudizialmente, un riequilibrio del sinallagma contrattuale, alterato dalla indicata integrazione dell’oggetto di una delle prestazioni)». Ed ancora Cass., 05 agosto 1988, n. 4849, secondo cui: «L’art. 18 della legge urbanistica 6 agosto 1967, n. 765 (cosiddetta legge ponte), che ha introdotto l’art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, imponendo l’obbligo di riservare nelle nuove costruzioni appositi spazi per i parcheggi in misura proporzionale alla superficie abitata, configura una norma imperativa inderogabile, la cui osservanza costituisce condizione di legittimità della licenza di costruzione, con la conseguenza che a tale obbligo inderogabile non può supplire l’utilizzazione di una vicina area stradale pubblica, anche se non aperta alla circolazione, perché la possibilità di uso indiscriminato da parte dei cittadini fa venir meno l’anzidetta destinazione ed esclude l’asservimento dell’area ad un determinato edificio, frustrando gli scopi voluti dalla legge urbanistica».

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per parcheggi, pone un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa». Ed ancora: «L’art. 26 comma ultimo legge n. 47 del 1983 non modifica il regime vincolistico imposto dalla legge n. 765 del 1967 fra unità abitativa e spazi di parcheggio condominiale limitandosi a chiarire la portata di detta norma. Pertanto poiché i contratti di autonoma disposizione degli spazi di parcheggio, pur ammissibili, non possono ledere il diritto di uso a favore del titolare dell’unità, consegue la nullità e la sostituzione di diritto della clausola con cui il venditore dell’immobile si sia riservata la previa proprietà dell’area di parcheggio». Ed infine: «L’art. 41-sexies l. 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo introdotto dalla l. 6 agosto 1967, n. 765, il quale prescrive che nelle nuove costruzioni e nelle relative aree di pertinenza debbono essere riservati determinati spazi per parcheggi, pone un vincolo pubblicistico consistente nella destinazione di essi all’uso esclusivo delle persone che stabilmente occupano l’edificio o che abitualmente vi accedono. Tale vincolo non può subire deroga in negozi privati, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto della norma imperativa. L’art. 26 l. 28 febbraio 1985, n. 47, che attribuisce carattere pertinenziale a detti spazi, non ha portata innovativa, ma chiarisce soltanto che essi possono essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però rimanendo il vincolo pubblicistico»39.La Cassazione, quindi, ha ribadito l’enunciazione dell’esistenza di un diritto reale d’uso in favore di quei condomini che non hanno la proprietà del posto auto in questione. In buona sostanza, la Cassazione per far sì che il dettato normativo trovasse piena attuazione, in particolare per quei profili di ordine pubblico che informano tutta la disciplina, ha ribadito anche alla luce della novella che il posto auto dovesse essere indissolubilmente legato alla costruzione sua coeva, al di là della titolarità dei singoli beni e ciò a mezzo del riconoscimento in capo a quei condomini, non titolari del posto auto ma titolari di un bene principale nel fabbricato, del diritto reale d’uso sul posto stesso. E ciò in quanto «Il vincolo di destinazione posto dall’art. 18 l. 6 agosto 1967,

39 Cass., sez. un., 18 luglio 1989, n. 3363 poi ripresa monoliticamente da Cass., 6 maggio 2003, n. 6751, in Giust. civ., 2004, I, 441; Cass., 21 maggio 2003, n. 7963, in Giust.civ., 2004, I, 165, con nota di G. VIDIRI; Cass., 18 luglio 2003, n. 11261, in Arch. giur. circ. e sin., 2004, 162; Cass., 22 agosto 2003, n. 12342; Cass., 9 settembre 2003, n. 13143, in Riv. giur. ed., 2004, I, 1329; Cass., 23 marzo 2004, n. 5755, in Foro it., 2004, I, 2088; Cass., 6 maggio 2004, n. 10148; Cass., 30 ottobre 2007, n. 22889; Cass., 26 ottobre 2007, n. 22496.

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n. 765, e dall’art. 26 l. 28 febbraio 1985, n. 47, comporta l’obbligo non già di trasferire la proprietà dell’area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea in capo all’acquirente dell’appartamento un diritto reale d’uso sull’area e non già un diritto al trasferimento della proprietà»40.A fronte di questo orientamento giurisprudenziale occorre, seppur in sintesi, dar conto dell’opinione della dottrina e ciò al fine di delineare la situazione esistente sulla quale è intervenuto il legislatore con la novella del 2005.La dottrina ha fin da subito criticato l’impostazione giurisprudenziale, soprattutto verso la posizione assunta dalle Sezioni Unite nel 1984, sviluppando le seguenti critiche, che così si riassumono:a) si è contestata la trasformazione del vincolo di destinazione imposto dalla legge-ponte in un «pregnante vincolo di inalienabilità»41; b) si è affermato che non è possibile costruire una nullità virtuale per contrarietà ad una norma imperativa che non esiste42; c) si è sviluppata la seguente critica43 sul piano pubblicistico: le finalità della legge-ponte sarebbero gravemente violate se si affermasse un uso esclusivo dei parcheggi da parte degli utenti degli alloggi; occorrerebbe invece tener conto dei possibili fruitori del parcheggio per tutta la zona ove trovasi il posto auto; la legge-ponte si è preoccupata che fossero realizzati i posti macchina per decongestionare il traffico, con obbligo in tal senso imposto al costruttore, limitandosi ad imporre un vincolo di destinazione d’uso; per cui appare più congruente con la norma attribuire a questa il significato di norma che impone un parcheggio di zona, o di quartiere o di isolato, tanto è vero che la norma comporta una sorta di riequilibrio per le costruzioni anteriore al 1967, stabilendo sostanzialmente anche per queste un’utilizzazione dei posti auto confacente alle loro esigenze, ma a patto di ampliare il significato dei possibili destinatari degli spazi a parcheggio;d) si è escluso che i vincoli od oneri di destinazione, com’è quello delle aree a parcheggio, possano trasformarsi da limite delle facoltà del proprietario in diritti di natura reale dei suoi aventi causa; perché in tal caso si vengono a confondere due regimi diversi: quello della proprietà edilizia e dello statuto originario del

40 Cass., 14 luglio 2011, n. 15509 in Foro it., 2012, 2, I, 516.41 G. BUTA, La circolazione giuridica degli spazi a parcheggio, in Giust. civ., 1996, II, 284);42 G. MARICONDA, Nullità urbanistiche e disciplina generale del contratto nullo: la pretesa nullità relativa ai parcheggi, in Corr. giur., 1986, 858).43 M. PALLOTTINO, La disciplina degli spazi per parcheggio nell’ambito della normativa urbanistica, in M. IEVA (a cura di), Disciplina degli spazi per parcheggi, Milano, 1992, 53.

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bene-casa e quello dello statuto ulteriore dello stesso bene relativo appunto alle ulteriori facoltà di godimento e di disposizione44; e) sul piano concreto si è fatto presente che il proprietario di un’unità immobiliare della palazzina potrebbe non avere alcun interesse ad acquisire un posto auto, mentre lo si costringerebbe a farlo; mentre potrebbero avere analogo interesse gli abitanti delle palazzine contigue, interesse peraltro che non potrebbe essere soddisfatto se si accogliesse l’opinione della Cassazione45. La totale difformità interpretativa tra dottrina da un lato e giurisprudenza dall’altro, ha portato il legislatore ad un nuovo intervento sulle norme in esame nel 2005.

8. La legge di semplificazione del 2005

L’art. 12, nono comma della c.d. legge di semplificazione per il 2005 (l. 28 novembre 2005, n. 246) ha aggiunto un comma all’art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150 stabilendo quanto segue: «gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse». Con tale previsione normativa il legislatore ha voluto affermare chiaramente che i posti auto in questione non erano pertinenze obbligatorie di alcun bene principale e che non possono essere oggetto di diritti concorrenti con quello della proprietà, quale il diritto reale d’uso e che infine, stante il loro statuto sostanzialmente liberalizzato, possono essere ceduti liberamente.In realtà, la norma ha suscitato forti dubbi circa la sua portata applicativa novativa o interpretativa, con ovvi riflessi sulle situazioni pregresse l’entrata in vigore della novella.La giurisprudenza è intervenuta sul punto chiarendo da una parte come l’art. 12 comma 9 legge 28 novembre 2005 n. 246 non abbia natura interpretativa e dall’altra parte come lo stesso trovi applicazione soltanto per il futuro. Più precisamente: «In tema di trasferimento di proprietà immobiliari, l’art. 12, comma 9 della l. 28 novembre 2005, n. 246, che ha modificato l’art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150 ed in base al quale gli spazi destinati a parcheggio

44 M. PALLOTTINO, La disciplina degli spazi per parcheggio nell’ambito della normativa urbanistica, cit.45 A. LUMINOSO, Posti macchina e parcheggi tra disciplina pubblicistica e codice civile, in Contr. impr., 1990, 102.

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possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa, con la conseguenza che, nei casi in cui al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari, troverebbe applicazione la disciplina anteriore di cui al citato art. 41-sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150»46.A seguito dell’intervento legislativo che ha sottratto i parcheggi in questione da ogni vincolo legale, la Cassazione ha mantenuto sul punto un orientamento rigidamente informato alla tutela delle ragioni dei condomini, impedendo l’applicazione della novella liberalizzante alle vicende pregresse.Più precisamente la Cassazione ha da un lato, negato la natura interpretativa dell’art. 12, comma 9, della legge n. 246 del 2005 e, dall’altro, ha affermato che «la nuova disciplina è destinata ad operare solo per il futuro, e cioè per le costruzioni non ancora realizzate o per quelle realizzate, ma per le quali non siano iniziate le vendite delle singole unità immobiliari» dopo aver precisato che «costituisce, infatti, un principio pacifico che le leggi le quali modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata in vigore. D’altra parte, ove si volesse ritenere che la nuova normativa è destinata ad incidere sui diritti reali d’uso già sorti a favore degli acquirenti di unità immobiliari in base alla disciplina previgente, con conseguente esproprio generalizzato e senza indennizzo degli stessi, si porrebbero evidenti problemi di costituzionalità»47.

46 Cass., 22 aprile 2016, n. 8220.V. anche Cass., 24 gennaio 2013, n. 1753, in Urb. app., 2013, 4, 415, secondo cui «L’art. 12, comma 9 della l. 28 novembre 2005, n. 246, modificativo dell’art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha efficacia retroattiva e trova applicazione per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari». V. anche Cass., 10 marzo 2015, n. 4733, in Urb. app., 2015, 5, 535.47 Cass., 24 febbraio 2006, n. 4264 , in Riv. not., 2006, 1040, con nota di G. CASU, Parcheggi ponte o parcheggi obbligatori. Novità legislativa, «In tema di disciplina legale delle aree destinate a parcheggio, l’art. 12, comma 9, l. n. 246 del 2005, che ha modificato l’art. 41-sexies l. n. 1150 del 1942, in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, trova applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari; l’efficacia retroattiva della norma va infatti esclusa, in quanto, da un lato, non ha natura interpretativa, per mancanza del presupposto necessario a tal fine, costituito dalla incertezza applicativa della disciplina anteriore, e, dall’altro, perché le leggi che modificano il modo di acquisto dei diritti reali o il contenuto degli stessi non incidono sulle situazioni maturate prima della loro entrata in vigore».

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In una successiva pronuncia trova affermazione il seguente principio di diritto «La l. n. 246 del 2005, art. 12, comma 9, che ha modificato la l. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies, in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo né natura interpretativa; ne consegue che la disciplina anteriore di cui all’art. 41-sexies, che attribuisce al soggetto che abita stabilmente l’unità immobiliare sita nell’edificio un diritto reale d’uso sullo spazio destinato a parcheggio interno che non ecceda il limite minimo prescritto dalla legge, trova applicazione nei casi in cui, al momento della entrata in vigore della nuova disciplina, risultino già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari»48.O ancora è stato detto che «In materia di spazi destinati a parcheggio, la normativa di riferimento è quella del momento della costruzione degli stessi e non della vendita dell’immobile del quale sono pertinenze, vendita che potrebbe intervenire anche a distanza di decenni dalla costruzione»49.Da tale impostazione, pertanto, emerge che rimangono escluse dalle novità semplificatorie tutte quelle vicende immobiliari che si sono realizzate prima dell’entrata in vigore della norma, cioè prima del 16 dicembre 2005, sia perché edificate prima, sia perché già oggetto di atti di trasferimento, che avrebbero quindi visto già riconosciuto quel diritto reale d’uso in capo agli altri condomini.Fatta questa precisazione va anche detto come la nuova disposizione abbia ridimensionato la rilevanza pubblicistica dei parcheggi in parola.La normativa, infatti, non impone la cessione in proprietà delle aree destinate a parcheggio unitamente ai singoli appartamenti, purché il vincolo di destinazione venga rispettato con il riconoscere e garantire a coloro che occupano le singole unità immobiliari uno specifico diritto reale d’uso delle aree stesse50.

9. Il concetto di pertinenza applicato alla realtà dei parcheggi Ponte. Conclusioni

In conclusione il concetto codicistico di pertinenza applicato alla realtà normativa dei parcheggi ponte subisce come visto dei contemperamenti significativi ed in particolare: è fortemente attenuata la rilevanza dell’elemento

48 Cass., 5 giugno 2012, n. 9090, in Banca dati DeJure.49 Cass. civ., 30 giugno 2016, n.13445, in Riv. not., 2016, 5, II, 880 50 Da ultimo, Tar Sicilia, 11 aprile 2017, n. 1001, in Banca Dati Leggi d’Italia professionale, Massima redazionale, 2017.

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soggettivo della duplice titolarità della cosa principale e quella accessoria, unito alla rilevanza dell’elemento oggettivo, posto che il titolare del bene principale e del bene secondario, vede inevitabilmente frustrato il requisito dell’utilità/servizio dovendo subire un notevole ridimensionamento nelle potenzialità del suo diritto dominicale in ragione della contemporanea esistenza sullo stesso bene accessorio del diritto reale d’uso riconosciuto, per costante giurisprudenza, in capo ai condomini.

10. La disciplina dei parcheggi Tognoli

I parcheggi Tognoli trovano la loro disciplina nella l. 24 marzo 1989, n. 122 oggetto di una novella a mezzo dell’art. 10 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 che ha sostituito l’articolo 9, comma 5 della l. n. 122 del 1989.La nuova disposizione di cui al citato d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 introduce una distinzione nel regime circolatorio dei parcheggi Tognoli a seconda che si tratti di parcheggi realizzati su proprietà privata ovvero di parcheggi realizzati in diritto di superficie su area comunale. Per i parcheggi realizzati su proprietà privata ai sensi del comma 1 dell’art. 9 della legge Tognoli si prevede innanzitutto l’immodificabilità dell’esclusiva destinazione a parcheggio. Tale disposizione deve interpretarsi nel senso che non sarà possibile successivamente alla realizzazione del parcheggio porre in essere un procedimento edilizio diretto a conseguire il mutamento della destinazione d’uso del medesimo.In secondo luogo la nuova normativa prevede la salvezza di quanto previsto dall’articolo 41-sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150.Il richiamo all’articolo 41-sexies, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 deve intendersi riferito al secondo comma del medesimo, aggiunto dalla l. 28 novembre 2005, n. 246, secondo cui «Gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse».In realtà, guardando la norma nel suo complesso, la libera alienabilità di cui al citato comma 2 dell’art. 41-sexies è fortemente costretta dalle successive previsione del comma 5 dell’art. 9, dove è stabilito che sì i parcheggi in questione possono essere ceduti separatamente dell’unità immobiliare principale cui erano asserviti purché essi, contestualmente alla vendita, siano annessi ad altra

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proprietà con cui perpetuare tale rapporto pertinenziale, nonché la destinazione d’uso, peraltro nell’ambito dello stesso Comune.Il nuovo quinto comma dell’art. 9 della legge Tognoli prevede infatti che la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, «solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune».Dunque, in assenza della “contestuale destinazione”, l’alienazione separata del parcheggio rimane tuttora vietata a pena di nullità c.d. virtuale in base all’art. 1418 primo comma c.c.Sul punto recente giurisprudenza51 ha osservato che «l’art. 9 della l. n. 122 del 1989 ha introdotto una disciplina derogatoria delle norme urbanistiche comunali, al fine di incentivare la realizzazione di posti auto per le costruzioni preesistenti che ne sono sprovviste, dando la possibilità di realizzare tali ambienti nel sottosuolo dei fabbricati, nei locali siti al piano terreno o nel sottosuolo delle aree pertinenziali esterne al fabbricato, istituendo, al comma 5, un vincolo di pertinenzialità tra l’unità immobiliare e il parcheggio secondo il quale i parcheggi non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli».Legittimato ad effettuare siffatta destinazione è di regola l’acquirente, in quanto sia titolare di un diritto reale sull’unità immobiliare a pertinenza della quale il parcheggio deve essere destinato.

11. Il concetto di pertinenza applicato ai parcheggi Tognoli realizzati su area privata

Si è detto più sopra che per aversi il nesso pertinenziale occorre la presenza di due elementi fondamentali: elemento soggettivo – rappresentato dell’appartenenza del bene accessorio e del bene principale in proprietà al medesimo soggetto – e un requisito oggettivo – rappresentato dalla contiguità, anche solo di servizio, tra i due beni, nel senso che il bene accessorio deve arrecare una “utilità” al bene principale, e non al proprietario di esso –. Nei nuovi parcheggi Tognoli il concetto di pertinenza, qui sopra generalmente inteso, si è indubbiamente evoluto.

51 Corte Appello Firenze, 3 giugno 2019, n. 1344.

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Appare, infatti, essere stato modificato il rilievo dell’elemento soggettivo, nel senso di non poterlo limitare alla duplice titolarità della cosa principale e della cosa accessoria, quanto piuttosto di valutarlo anche alla stregua del concetto di utilità, che invece, afferiva solo all’elemento oggettivo. L’aver ampliato a livello spaziale i concetti di contiguità e servizio, ha concesso di fatto al proprietario di ampliare a sue nuove esigenze e quindi utilità, il rapporto pertinenziale, spostando sulla persona piuttosto che sulla cosa il concetto di utilità.Comunque la giurisprudenza52 ha osservato che «la realizzazione dei parcheggi non può in ogni caso “rompere il legame con la proprietà e dare corso ad attività meramente speculative pervenendo quindi ad affermare che “l’applicazione del regime previsto dalla legge Tognoli richiede che sia possibile l’immediata identificazione del vincolo permanente di asservimento”; principio “che risponde alla natura eccezionale del regime introdotto con tale legge, chiaramente derogatorio della disciplina ordinaria e non suscettibile di interpretazione estensiva». Meglio precisando quanto appena riportato, successivamente in riforma, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sostenuto che «ai sensi dell’art. 9 della l. n. 122 del 1989, dopo la realizzazione e fino alla concreta destinazione pertinenziale che deve legare ogni parcheggio ad una specifica abitazione viciniore, nessuna utilizzazione commerciale (neanche da parte del costruttore che, in ipotesi, voglia locarli al pubblico per qualunque lasso temporale) può ritenersi consentita; con il corollario che, in tali patologiche evenienze, andranno attivati legittimamente i poteri repressivi comunali, fino all’ordine di demolizione per violazione dell’unica destinazione consentita dalla legge»53. Questione di particolare interesse per la giurisprudenza sia amministrativa che penale è quella legata all’individuazione del momento del sorgere del vincolo pertinenziale nonché della definizione di criteri logistico/spaziali volti al contenimento di iniziative speculative. È stato affermato che «ai fini dell’applicazione dell’art. 9 della legge n. 122 del 1989, cd. legge Tognoli, in riferimento alla realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di area pertinenziale esterna al fabbricato in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici, è irrilevante che siffatta area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato e sia di proprietà

52 Tar Lazio, 19 gennaio 2015, n. 819.53 La sentenza ha deciso, negandola, circa l’ammissibilità di una vendita in blocco da parte del costruttore dopo l’edificazione dei posti auto con i vantaggi di cui alla l. Tognoli, così Cons. Stato, 27 settembre 2016, n. 3977.

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di soggetto diverso dal proprietario dell’immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire pertinenziali»54.In epoca poco precedente, sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato55 ha spiegato che dal dettato normativo è possibile comprendere come i parcheggi possano essere realizzati anche da terzi e che il vincolo di pertinenzialità possa anche non preesistere alla realizzazione del parcheggio ma sorgere successivamente in virtù di uno specifico atto di destinazione. In particolare ha affermato «La nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico». I giudici di Palazzo Spada hanno osservato criticamente la dizione della norma in questione, dicendo testualmente che la «formulazione non è certo delle più felici» e si sono posti prioritariamente il problema dell’individuazione dei soggetti cui è consentito realizzare i parcheggi interrati in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici.Secondo tali giudici, il comma 1 dell’art. 9 l. Tognoli, non circoscrive esclusivamente ai proprietari degli immobili interessati la legittimazione a realizzare i parcheggi agli stessi pertinenziali. Infatti, la disposizione innanzi citata, dopo aver statuito che: «... I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti» aggiunge che: «... Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato ...». Orbene, la forma impersonale utilizzata nella seconda proposizione richiamata comporta che i parcheggi collocati in aree esterne ai fabbricati, a differenza di quelli posti nel sottosuolo o al piano terreno degli stessi, non devono essere realizzati necessariamente dai proprietari dell’immobile, ma possono esserlo anche da terzi: evidentemente il legislatore, non potendo escludersi che le “aree pertinenziali esterne” potessero appartenere a soggetti diversi dai proprietari dell’immobile, ha ritenuto di non dover limitare solo a questi ultimi la legittimazione a chiedere il permesso per realizzarvi i parcheggi de quibus.

54 Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2012, n. 4091.55 Cons. Stato, sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1842.

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Inoltre, la locuzione «... Tali parcheggi» indica chiaramente che la seconda proposizione del comma 1 è riferita alla medesima ipotesi disciplinata dalla prima, ossia alla realizzazione di parcheggi «da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti»; di conseguenza, anche la possibilità di derogare ai predetti strumenti deve intendersi estesa agli interventi posti in essere da terzi, oltre che dai proprietari.Più delicata è la seconda questione interpretativa del comma 1 dell’art. 9, in ordine al significato da attribuire alla locuzione «aree pertinenziali esterne al fabbricato»: se cioè essa richiami una nozione di pertinenzialità “materiale”, come tale evocante un rapporto di accessorietà o asservimento tra area esterna e fabbricato necessariamente preesistente all’intervento realizzativo dei parcheggi interrati, ovvero faccia riferimento a una nozione “giuridica”, implicante semplicemente l’instaurazione di uno stabile legame tra parcheggio e unità immobiliare in forza del quale di essi non possa più disporsi separatamente, e quindi suscettibile anche di non preesistere all’intervento e di essere creato solo in un momento successivo alla realizzazione del parcheggio. Pur ribadendo che il dato normativo nella specie è tutt’altro che limpido, il Collegio ha ritenuto di dover propendere per la seconda lettura.Al riguardo, giova in primo luogo richiamare il noto insegnamento secondo cui la nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico56. Se ciò è vero, ne discende che non può ritenersi a priori inconfigurabile, nell’applicazione dell’art. 9 l. n. 122 del 1989, l’ipotesi in cui l’area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato cui i realizzandi parcheggi sono destinati ad accedere: ciò, del resto, è in linea con la conclusione sopra raggiunta nel senso che detta area esterna possa originariamente essere anche di proprietà di soggetto diverso dal proprietario dell’immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire “pertinenziali”. Ma, sempre secondo il Consiglio di Stato, v’è un ulteriore e decisivo argomento testuale a sostegno della conclusione qui raggiunta, che è ricavabile dalla

56 Ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2009, n. 5509; Id., 23 luglio 2009, n. 4636; Id., 7 luglio 2009, n. 3379.

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prima proposizione del comma 1 del più volte citato art. 9, laddove esso, con riferimento ai parcheggi che i proprietari possono realizzare nel sottosuolo o al pian terreno del fabbricato, li definisce come «parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari»: quasi che anche in questo caso il vincolo di pertinenzialità possa anche non preesistere alla realizzazione del parcheggio, ma sorgere successivamente in virtù di uno specifico atto di destinazione.Ed invero, come si evince dalla lettura complessiva della norma, la pertinenzialità che il legislatore ha inteso considerare in questo caso non è tanto quella materiale esistente tra l’edificio e l’area (sottostante, interna o esterna) destinata ad accogliere il parcheggio, ma quella giuridica esistente tra ciascun singolo posto auto da realizzare e una specifica unità immobiliare, nel senso di creare fra di essi un nesso di inscindibilità: ciò che è coerente con la ratio della legge Tognoli, che è quella di venire incontro al bisogno di parcheggi dei residenti nelle aree urbane evitando al tempo stesso operazioni speculative.Se questa è l’interpretazione del Consiglio di Stato, urge dare conto di un’interpretazione più restrittiva e rigorosa per la quale gli immobili cui asservire i parcheggi dovrebbero essere specificamente individuati sin dalla presentazione della Dia e non sarebbe conforme alla disciplina legale la realizzazione di parcheggi che presentino una relazione di pertinenza con una indistinta pluralità di soggetti che ricadano entro una certa area dai parcheggi realizzati ai sensi della legge Tognoli. La Cassazione penale, infatti, ha affermato che: «La realizzazione di parcheggi mediante semplice denuncia di inizio attività (art. 137, comma 3, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; art. 9, l. 24 marzo 1989, n. 122) può avvenire ad opera di terzi ed in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, purché questi ultimi siano individuati al momento di presentazione della Dia in modo tale da assicurare, da un lato, l’esistenza in concreto di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere, dall’altro, che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, soggetta all’ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia»57.In ogni caso la natura eccezionale della previsione normativa ha spinto la giurisprudenza ad elaborare un criterio logistico, osservando che «la possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall’art. 9, l. 24 marzo 1989, n. 122, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita;

57 Cass. pen., 5 dicembre 2011, n. 45068, in Riv. not., 2012, 675 ss.

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pertanto tale norma è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della concessione edilizia; in conclusione, la facoltà di costruire autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici è prevista dalla l. Tognoli solo relativamente alle aree urbane, al di fuori delle quali l’edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di cui all’art. 9, l. n. 122 del 1989, rimanendo invece sottoposta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie»58.

12. I Parcheggi Tognoli realizzati su area comunale

Per quanto riguarda il regime di circolazione dei parcheggi Tognoli realizzati su area comunale la nuova norma conferma il divieto di circolazione separata del parcheggio, a pena di nullità espressamente comminata dalla legge.Ma a siffatto regime vincolistico viene apportata una rilevante eccezione, in quanto a tale regola è consentito derogare in caso di «espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest’ultimo abbia autorizzato l’atto di cessione».La deroga al divieto di alienazione separata del parcheggio può essere operata, quindi, con due diversi strumenti.Innanzitutto il consenso del comune all’alienazione separata può essere espresso già in sede di stipulazione della concessione del diritto di superficie su area comunale per la realizzazione dei parcheggi in esame.In tal caso si tratta di uno strumento di natura preventiva (rispetto alla realizzazione del parcheggio) e programmatica, in quanto il consenso alla cessione separata non è espresso con riferimento ad una determinata cessione, bensì in relazione a qualsiasi cessione che dovesse intervenire dopo la costruzione del parcheggio e l’originaria costituzione del vincolo pertinenziale. Ma la norma consente anche, in alternativa, che il consenso del comune all’alienazione separata sia espresso mediante apposita autorizzazione all’atto di cessione.In tal caso si tratta di uno strumento di natura successiva rispetto alla realizzazione del parcheggio (ma pur sempre preventiva rispetto all’alienazione separata) e di regola specifico, in quanto il consenso alla cessione separata è

58 Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 2017, n. 3566.

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espresso normalmente con riferimento ad una determinata cessione che venga divisata dopo la costruzione del parcheggio e l’originaria costituzione del vincolo pertinenziale.La giurisprudenza ha puntato particolare attenzione sulla natura contrattuale di siffatte convenzioni, evidenziandone la natura sinallagmatica per la quale è da escludersi una modifica unilaterale da parte del Comune se non per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, salva la corresponsione di un indennizzo, ai sensi dell’art. 11, comma 4, della legge n. 241 del 199059.

Parte II – I parcheggi pertinenziali nelle imposte indirette(Annarita Lomonaco)

Alla categoria dei parcheggi pertinenziali deve essere prestata particolare attenzione anche sotto il profilo tributario, con specifico riguardo in questa sede all’imposizione indiretta, non solo per la sua frequente ricorrenza nella casistica contrattuale, ma anche perché rispetto a questa categoria la disciplina fiscale riservata alle pertinenze immobiliari nelle diverse imposte si atteggia talune volte in modo peculiare. La considerazione fondamentale da cui deve muovere l’analisi della suddetta disciplina è che non esiste una definizione di pertinenza nell’ambito del diritto tributario60, conseguentemente la stessa deve essere mutuata in termini generali (e salvo specifiche limitazioni emergenti sul piano fiscale) dal diritto civile, riconoscendosi rilevanza all’elemento oggettivo della destinazione funzionale della pertinenza al servizio o ornamento del bene principale e a quello soggettivo, rappresentato dalla volontà di creare un vincolo di strumentalità e complementarietà funzionale tra i due beni, ex art. 817 c.c., come meglio delineati nella Prima parte di questo lavoro.A ciò si aggiunga che anche il principio emergente dall’art. 818 c.c., conseguente al rapporto ricorrente tra i due beni, deve ritenersi rilevante agli effetti fiscali, fondando, pur quando non si rinvengano disposizioni fiscali specifiche, unitamente all’art. 817 c.c., l’estensione alla pertinenza del medesimo regime giuridico applicabile al bene principale.

59 Tar Lombardia, 17 marzo 2016, n. 517.60 Cfr. ex multis risoluzione 11 aprile 2008 n. 149/E.

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1. Le pertinenze nell’imposta di registro

Nell’ambito dell’imposta di registro, con riguardo alle pertinenze, sono accolti espressamente i principi civilistici più sopra ricordati.Infatti, l’articolo 23 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante l’approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, dispone al terzo comma che «le pertinenze sono in ogni caso soggette alla disciplina prevista per il bene al cui servizio od ornamento sono destinate».La norma deroga alla regola stabilita nel primo comma del medesimo articolo, secondo la quale se il negozio ha ad oggetto più beni o diritti soggetti ad aliquote diverse, si applica quella più elevata, salvo che per i beni o diritti siano pattuiti corrispettivi distinti.Pertanto, in caso di negozio avente ad oggetto più beni legati da un vincolo pertinenziale, anche se sono distinti i corrispettivi, alla pertinenza si applica l’aliquota relativa al bene principale61. Come già evidenziato, il legislatore tributario non si preoccupa in questa sede di fornire una nozione di pertinenza differente da quella civilistica, pertanto, per stabilire se sussista un vincolo pertinenziale, tra il bene principale e la pertinenza deve ricorrere un collegamento non materiale-strutturale, ma in senso economico-giuridico tale «da comportare una reciproca complementarietà funzionale … da far emergere una maggiore utilità e fruibilità oggettiva del bene principale derivante dall’esistenza del bene pertinenziale: utilità che potrà consistere in un maggior decoro connesso con l’ornamento dato al bene principale da quello pertinenziale»62.

61 Menziona in modo specifico l’applicazione della medesima aliquota l’art. 1 della tariffa, parte prima allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 cit. nella parte in cui dispone «Se il trasferimento ha per oggetto terreni agricoli e relative pertinenze a favore di soggetti diversi dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali, iscritti nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale: 15 per cento» (per le pertinenze della ‘prima casa’ vedi infra). Cfr. A. BUSANI, Imposta di registro, Milano, 2018, 791, il quale sottolinea come il principio di cui all’art. 23, comma 3 trovi applicazione anche qualora la pertinenza sia acquistata con atto separato.62 A. PISCHETOLA, commento sub art. 23 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in A. FEDELE – G. MARICONDA – V. MASTROIACOVO (a cura di), Codice delle leggi tributarie, Milano, 2014, 132; A. BUSANI, Imposta di registro, cit., 792. Cfr. altresì circolare 26 giugno 2008 n. 265/E secondo la quale «Il bene posto in rapporto pertinenziale, pur conservando la propria natura e individualità fisica, è assoggettato, in modo attuale e permanente, a servizio o ornamento di un’altra cosa per renderne possibile una migliore utilizzazione ovvero per aumentarne il decoro (in tal senso v. Cass., 11 novembre 1996, n. 9845). Diversamente dall’incorporazione, infatti, il rapporto tra cosa principale ed accessoria è preso in considerazione dalla legge “non come rapporto di connessione materiale e strutturale, ma come rapporto economico-giuridico di strumentalità

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Quanto al riscontro degli elementi costitutivi del vincolo pertinenziale, essenziali sotto il profilo tributario al fine di consentire l’applicazione della medesima disciplina del bene principale, spesso l’evidenziazione dell’elemento soggettivo nell’atto è posta quale condizione per il suo riconoscimento da parte dell’amministrazione finanziaria, mentre rispetto al requisito oggettivo, si ritiene che il collegamento funzionale del bene debba essere effettivo e durevole, suscettibile di accertamento da parte degli uffici63.Al riguardo, proprio rispetto ai parcheggi, si è posta la questione della “distanza fisica” fra la pertinenza e l’abitazione, ponendosi in dubbio l’effettività del rapporto pertinenziale laddove il parcheggio non sia ubicato “in prossimità” dell’edificio64.Anche la disposizione di cui all’art. 24 d.P.R. n. 131 del 1986 fa applicazione dei principi civilistici. Infatti, ai sensi del primo comma, si presume che le pertinenze (nonché le accessioni ed i frutti pendenti) siano trasferite all’acquirente dell’immobile. Sotto il profilo fiscale la disposizione assume una connotazione antielusiva65, ponendo una presunzione superabile solo se le pertinenze (e gli altri beni menzionati) siano escluse espressamente dalla

e complementarietà funzionale” (Cass., 11 novembre 1990, n. 2278). L’accertamento della sussistenza o meno di un vincolo pertinenziale comporta “un giudizio di fatto” (Cass., 2 marzo 2006, n. 4599) “costituito dalla destinazione concreta ed effettiva della pertinenza a servizio o ornamento della cosa principale” (Cass., 13 luglio 2007, n. 15739)».Vedi anche supra Parte I, paragrafo 3.63 Cfr. circ. n. 265/E cit.64 Cfr. circolari 1° marzo 2001 n. 19/E, 12 agosto 2005 n. 38/E, 29 maggio 2013 n. 18/E. Cfr. altresì Cass., 23 giugno 2017 n. 15668 (in materia di ICI), la quale, nel presupposto della necessità di un effettivo e durevole vincolo pertinenziale, desumibile da concreti segni esteriori dimostrativi della volontà del titolare, (consistenti nel fatto oggettivo che il bene sia effettivamente posto, da parte del proprietario del fabbricato principale, a servizio o ad ornamento del fabbricato medesimo e che non sia possibile una diversa destinazione senza radicale trasformazione, poiché, altrimenti, sarebbe agevole per il proprietario al mero fine di godere dell’esenzione creare una destinazione pertinenziale che possa facilmente cessare senza determinare una radicale trasformazione dell’immobile stesso), esclude il vincolo nel caso di acquisto di un box ubicato in un Comune diverso, in assenza del requisito della contiguità spaziale. Sul tema, in dottrina, tra gli altri A. BUSANI, Imposta di registro, cit., 795.65 Circ. 16 ottobre 1997 n. 267 ove si rileva che «le disposizioni contenute nell’art. 24 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, …, non hanno natura impositiva, ma assolvono una peculiare funzione consistente nell’eliminazione di effetti elusivi che potrebbero manifestarsi nei trasferimenti a titolo oneroso. In ipotesi, il contribuente, simulando la cessione del solo bene principale, potrebbe evitare la tassazione delle accessioni e delle pertinenze, che pure andranno ad aggiungersi al patrimonio del cessionario in forza degli istituti che disciplinano la proprietà immobiliare … Fa inoltre rilevare il suddetto Organo legale, che la tassazione delle accessioni dei frutti e delle pertinenze non deriva dalle previsioni dell’art. 24 del più volte

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vendita, ovvero si provi, con atto che abbia acquistato data certa mediante la registrazione, che appartengono ad un terzo o sono stati cedute all’acquirente da un terzo. E ciò per evitare che le parti omettano di menzionare la pertinenza nell’atto di trasferimento per sottrarre la stessa alla tassazione (anche ai fini della determinazione della base imponibile) secondo il regime del bene principale.In dottrina si è, però, evidenziato come tra le cause idonee a superare la presunzione manchi l’ipotesi in cui l’acquirente sia già proprietario del bene pertinenziale, per averlo acquistato in precedenza. Ipotesi in presenza della quale la presunzione dovrebbe considerarsi parimenti superata66. La cessione separata della pertinenza è considerata espressamente dal secondo comma dell’art. 24, il quale, sempre in funzione antielusiva, prevede che, quando entro tre anni le pertinenze vengono comunque a risultare di proprietà dell’acquirente dell’immobile al cui servizio erano destinate, si applica l’imposta con l’aliquota relativa al trasferimento dell’immobile, diminuita dell’ammontare dell’imposta eventualmente pagata per il trasferimento delle pertinenze stesse separatamente intervenuto fra le stesse parti.In altri termini, se la pertinenza è esclusa espressamente dal trasferimento del bene principale (e quindi non opera la presunzione di cui al primo comma dell’art. 24), ma poi, entro i tre anni successivi, viene acquistata separatamente dal medesimo acquirente, è dovuta l’eventuale maggiore imposta derivante dall’applicazione dell’aliquota relativa al bene principale67.

richiamato testo unico …, bensì è già insita nei principi generali che disciplinano l’imposta di registro».66 A. BUSANI, Imposta di registro, cit., 831 ss. Così come deve attribuirsi rilevanza anche alla prova che il bene pertinenziale è stato costruito successivamente al trasferimento del bene principale. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 9493/2010, la quale richiama anche Cass. 19954/05; 5026/91; 11958/93; 12010/93), la presunzione di trasferimento di (accessioni e) pertinenze all’acquirente di un immobile non opera quando dall’atto di vendita siano espressamente escluse le une o le altre, ovvero emergano concreti elementi per identificare nell’acquirente l’artefice (della costruzione o) della destinazione pertinenziale, con contestuale rinuncia dell’alienante.Anche l’Amministrazione finanziaria si è espressa, alla luce della costante giurisprudenza civile e tributaria che si è pronunciata più volte negli stessi termini, seppure con specifico riguardo nella fattispecie alle accessioni, nel senso di ritenere che «la presunzione di trasferimento delle accessioni e delle pertinenze di cui all’art. 24 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 può essere vinta unicamente con la costituzione a favore dell’acquirente del suolo, già costruttore del fabbricato, del diritto di superficie mediante atto avente la forma prescritta dalla legge e la data certa della registrazione» (ris. n. IV-8-080 del 21 luglio 1993. V. altresì ris. n. 72 del 23 marzo 2009). 67 Cfr. A. PISCHETOLA, Commento sub art. 23 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, cit., 136, il quale osserva come la norma non distingua se il trasferimento avvenga da parte dell’ex proprietario

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1.1. Le pertinenze ed il prezzo valore

Nell’ambito della disciplina dell’imposta di registro le pertinenze trovano espressa considerazione anche con riguardo alla possibilità di determinazione della base imponibile dei trasferimenti immobiliari con riferimento al valore catastale.L’art. 1, comma 497, della legge 23 dicembre 2005 n. 266 consente, infatti, che la base imponibile sia costituita dal valore catastale del bene trasferito (ed indipendentemente dal corrispettivo pattuito), in deroga all’art. 43 d.P.R. n. 131 del 1986, nelle cessioni a favore di persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, su richiesta avanzata dall’acquirente all’atto della cessione, circoscrivendo l’ambito oggettivo della disposizione alle cessioni di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze. In assenza di ulteriori indicazioni nella norma fiscale ed in applicazione dei, più volte, menzionati principi civilistici, non vi è dubbio che ai fini dell’individuazione delle pertinenze sia necessario riscontrare la compresenza dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo, secondo le regole generali, senza che possano valere limitazioni nel numero o nella tipologia dei beni pertinenziali.La tassazione della pertinenza secondo i medesimi criteri applicati al bene principale comporta, però, nel caso del cd. prezzo valore che la pertinenza sia un bene immobile fornito di una rendita catastale68. In applicazione dei suddetti principi e dell’omogeneità di tassazione tra il bene principale e quello pertinenziale la possibilità di richiedere il cd. prezzo valore sussiste a prescindere dall’acquisto contestuale o separato della pertinenza rispetto all’abitazione.

della bene principale o da un terzo (che nel frattempo ne abbia acquistato la proprietà) sembrando dare rilievo solo al rapporto di pertinenzialità in senso oggettivo.68 Soddisfa il requisito anche l’immobile fornito della sola rendita catastale ‘proposta’ nelle forme del d.m. n. 701 del 1994 (con procedura DOCFA), non ancora ‘validata’. In tal caso resta irrilevante l’osservanza delle regole formali stabilite dall’art. 12 comma 2-bis d.l. n. 70 del 1988, in quanto deve ritenersi sufficiente la mera richiesta di applicazione del ‘prezzo-valore’. Infatti, non solo il comma 497 art. 1 cit. è norma successiva rispetto a quella del d.l. n. 70 del 1988 cit, ma soprattutto è sintomatica di un sistema di regole più ampio, che supera il limite formale segnato dalla norma dell’art. 12 comma 2-bis d.l. 70 cit. La circostanza che nell’atto di cessione si faccia richiesta di applicazione del meccanismo del ‘prezzo-valore’ infatti deve intendersi essa stessa quale richiesta di attribuzione della rendita catastale (che diverrà) definitiva, In questi termini cfr. A. PISCHETOLA, Analisi ed interpretazione evolutiva della regola del prezzo valore: dalla forma alla sostanza, Studio n. 133-2015/T. Nello stesso senso Cass., 6 febbraio 2019, n. 3409. Contra Cass., 12 febbraio 2019 n. 4055.

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Anche l’Amministrazione finanziaria, nel presupposto della rilevanza della nozione civilistica di pertinenza, ha in più occasioni ammesso che il meccanismo del c.d. ‘prezzo-valore «trova applicazione anche relativamente ad una molteplicità di pertinenze, purché, ovviamente, sia individuabile in modo certo il rapporto di accessorietà del bene pertinenziale rispetto al bene principale, il quale, ai fini del godimento della disposizione in esame, deve necessariamente essere un ‘immobile ad uso abitativo’. Inoltre, affinché possa trovare applicazione la disposizione introdotta dalla legge finanziaria 2006 è necessario che gli immobili pertinenziali siano suscettibili di valutazione automatica e, quindi, che siano dotati di una propria rendita catastale»69, ribadendo sempre la necessità che alla destinazione pertinenziale sia data evidenza nell’atto di acquisto.Un aspetto problematico emerso dalla pratica contrattuale è quello relativo alla possibilità di fruire del meccanismo in esame da parte di entrambi gli acquirenti del bene pertinenziale nel caso in cui il bene principale acquistato, con atto precedente, sia di proprietà esclusiva di uno solo.In tale ipotesi dovrebbe giungersi ad una soluzione positiva considerando che «il vincolo pertinenziale è posto tra due beni in senso oggettivo per il tramite di determinati soggetti legittimati a costituire il vincolo stesso (e cioè il proprietario della cosa principale o chi ha un diritto reale sulla medesima), senza che all’accesso al beneficio di cui si tratta sia d’impedimento la circostanza della comproprietà del bene pertinenziale (a fronte della proprietà esclusiva del bene principale). Opinando in senso contrario, infatti, significherebbe ritenere che il vincolo stesso sia da considerare esistente nei confronti dell’un soggetto che lo ha costituito ed inesistente per l’altro, pur proprietario dello stesso bene pertinenziale. Il che appare contrario ad ogni criterio di logica minimale»70. Una conferma di tale conclusione trova supporto anche nella posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria71 con riguardo alla configurabilità di una pertinenza condivisa, destinata, cioè, a servizio di più unità immobiliari, ciascuna appartenente a un diverso proprietario.Al riguardo l’Agenzia delle entrate ha ammesso che un garage acquistato in

69 Ris. n. 149/E cit.; circ. 13 febbraio 2006 n. 6/E.70 Così A. PISCHETOLA, Analisi ed interpretazione evolutiva della regola del prezzo valore: dalla forma alla sostanza, Studio n. 133-2015/T, cit. Cfr. anche Parte I, paragrafo 3.1. 71 Circolare n. 3 del 2 marzo 2016, che si esprime in materia di imposte sui redditi, agli effetti dell’art. 10, comma 3-bis, del T.U.I.R., concernente la deduzione dal reddito complessivo di quello riveniente dall’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e quello delle relative pertinenze, ma affermando un principio comunque fondato sulla nozione civilistica di pertinenza, come tale suscettibile di estensione anche ad altri ambiti impositivi.

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comproprietà fra due soggetti possa essere destinato a pertinenza di entrambi gli appartamenti in proprietà esclusiva di ciascuno di essi, muovendo dall’esame degli elementi costitutivi del rapporto pertinenziale e alla luce dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale «è ammissibile la costituzione di una pertinenza in comunione, al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza stessa, in quanto l’asservimento reciproco del bene accessorio comune consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare lo stesso in favore delle rispettive proprietà esclusive»72.

2. I parcheggi pertinenziali nell’agevolazione per l’acquisto della ‘prima casa’

Il comma 3 della nota II-bis all’art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, prevede che le cd. agevolazioni ‘prima casa’, sussistendo le condizioni di cui alle lettere a), b) e c) del comma 173, spettino per l’acquisto,

72 Cass. n. 27302/ 2013.73 Il trattamento fiscale di favore per l’acquisto della cd. prima casa fu introdotto nel nostro sistema normativo dalla legge 22 aprile 1982, n. 168, e successivamente modificato più volte. L’attuale disciplina si applica ai trasferimenti a titolo oneroso aventi per oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A/1, A/8 e A/9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis. Le suddette condizioni riguardano:a) l’ubicazione dell’immobile nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività ovvero, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende. Nel caso in cui l’acquirente sia cittadino italiano emigrato all’estero l’immobile deve essere acquistato come prima casa sul territorio italiano. Il requisito della residenza nel Comune non è richiesto inoltre qualora l’acquirente faccia parte del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia (ex art. 66 l. 21 novembre 2000, n. 342). La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel Comune ove è ubicato l’immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto;b) la non possidenza di altre abitazioni nel Comune. Più precisamente, nell’atto di acquisto l’acquirente deve dichiarare di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare. Pertanto la comproprietà con altri soggetti, diversi dal coniuge, non è condizione ostativa alla spettanza delle cd. agevolazioni in esame;c) la non titolarità di diritti acquistati su altra casa di abitazione con le cd. agevolazioni ‘prima casa’. Più precisamente, nell’atto di acquisto l’acquirente deve dichiarare di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le cd. agevolazioni ‘prima casa’ che si sono succedute nel tempo.

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anche se con atto separato, delle pertinenze dell’immobile di cui alla lettera a). L’acquisto agevolato delle pertinenze può avvenire, quindi, anche con atto separato; in tal caso, però, è opportuno che dall’atto stesso risulti la destinazione dell’immobile a servizio dell’abitazione già acquistata dal contribuente. Se l’acquisto della pertinenza rientra nell’ambito di applicazione dell’imposta di registro, la stessa è dovuta nella misura del 2 per cento, le imposte ipotecaria e catastale sono dovute nella misura fissa di cinquanta euro ciascuna, con esenzione dall’imposta di bollo, dai tributi speciali catastali e dalle tasse ipotecarie (ex art. 10 comma 3 d.lgs. n. 23 del 2011).In ragione del rinvio alla Nota II-bis l’acquisto delle pertinenze è agevolato alle medesime condizioni anche in ambito Iva (con applicazione dell’aliquota ridotta del 4 per cento74) e nel caso di trasferimenti per successione e donazione (con applicazione delle imposte ipotecaria e catastale in misura fissa).Alla ricorrenza delle condizioni di cui alla Nota II-bis, compresa la specifica disciplina delle pertinenze di cui al comma 3, è collegata anche la possibilità di usufruire dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo termine con l’aliquota dello 0,25 per cento nel caso di finanziamenti erogati per l’acquisto, la costruzione e la ristrutturazione di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze (art. 18 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601)75.Inoltre, fino al 31 dicembre 2020, è prevista un’aliquota ridotta (1,5 per cento) dell’imposta di registro applicabile per i trasferimenti, nei confronti di banche e intermediari finanziari autorizzati all’esercizio del leasing finanziario, di

In presenza delle medesime condizioni di cui alla citata nota II-bis.è riconosciuta l’agevolazione ‘prima casa’ anche nell’ambito dell’Iva (con applicazione dell’aliquota ridotta del 4 per cento) per gli atti di cessione delle case di abitazione diverse da quelle in categoria catastale A/1, A/8 e A/9 (voce n. 21 della tabella A, parte II, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). In caso di cessioni soggette ad Iva le dichiarazioni di cui alle lettere a), b) e c), comunque riferite al momento in cui si realizza l’effetto traslativo, possono essere effettuate, oltre che nell’atto di acquisto, anche in sede di contratto preliminare.In sede di successione o donazione, per il trasferimento di diritti immobiliari sulle abitazioni sopra menzionate, sempre in presenza delle condizioni di cui alla Nota II-bis cit., il soggetto che ne abbia i requisiti può richiedere l’applicazione dell’imposta ipotecaria e catastale in misura fissa (art. 69 della l. 21 novembre 2000, n. 342).74 Vedi infra paragrafo successivo.75 Più precisamente, l’art. 18 comma 3 prevede l’applicazione dell’aliquota del 2 per cento per i soli finanziamenti erogati per l’acquisto, la costruzione e la ristrutturazione di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, per i quali non ricorrono le condizioni di cui alla Nota II-bis cit. (o per i quali la sussistenza non risulta da dichiarazione resa nell’atto di finanziamento o allegata allo stesso), applicandosi a tutti gli altri finanziamenti l’aliquota ordinaria dello 0,25 per cento. Sul tema più diffusamente G. PETTERUTI – A. PISCHETOLA, Nuova disciplina dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti, Studio CNN n. 19-2008/T.

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immobili acquisiti in locazione finanziaria da parte di utilizzatori per i quali ricorrono le condizioni di cui alla Nota II-bis (e Nota II-sexies). Si deve ritenere che l’aliquota ridotta di cui al quarto periodo dell’art. 1 cit. spetti, in ragione dell’equivalenza ad un acquisto diretto della ‘prima casa’ (che sembra giustificare la normativa), anche nell’ipotesi di trasferimento alla società di leasing della pertinenza dell’abitazione (nei limiti di cui al comma 3 della Nota II-bis), se entrambi gli immobili sono acquisiti in locazione finanziaria da parte di un utilizzatore per il quale ricorrono le condizioni ‘prima casa’. La conclusione dovrebbe valere anche nell’ipotesi in cui l’acquisto della pertinenza da parte della medesima società di leasing avvenga con atto separato; mentre se l’acquisto, ad esempio, del box avvenga da parte di una diversa società di leasing oppure sia effettuato direttamente dall’utilizzatore, non sembra possa essere costituito il vincolo pertinenziale, mancando la titolarità della proprietà o di un diritto reale sulla cosa principale (art. 817 c.c.)76.Con riguardo alla disciplina di cui al comma 3 della Nota II-bis, le dichiarazioni da effettuare nell’atto di acquisto separato della pertinenza devono essere rese con riferimento alla casa di abitazione cui la pertinenza medesima inerisce. Più precisamente, affinché l’acquisto (separato) della pertinenza possa essere agevolato, il bene principale deve essere un’abitazione già acquistata usufruendo delle cd. agevolazioni ‘prima casa’, rispetto alla quale (stando alla lettera della legge) deve essere confermata, al momento dell’acquisto successivo della pertinenza77, la sussistenza delle condizioni di cui alle lettere a), b) e c) della Nota II-bis cit. (si tratta infatti di condizioni evidentemente riferite alla casa di abitazione)78. Ciò comporta, ad esempio, che se dopo l’acquisto agevolato dell’abitazione, l’acquirente ne abbia acquistato un’altra nel medesimo Comune, non potrebbe usufruire successivamente dell’agevolazione per l’acquisto del garage destinato a pertinenza della ‘prima casa’, non potendo al momento di quest’ultimo atto rendere la dichiarazione di cui alla lettera b) (con riguardo alla ‘prima casa’).

76 Cfr. A. LOMONACO, Novità nella legge di stabilità 2016 per la tassazione del leasing finanziario abitativo, Studio CNN n. 4-2016/T.77 Cfr. L. BELLINI, Finanziaria 2006 – Agevolazioni “prima casa”, Studio n. 389-bis; ID., Le agevolazioni per l’acquisto della “prima casa”: il punto alla luce delle circolari ministeriali, in Il Fisco, 2006.78 Cfr. però Agenzia delle entrate, risposta ad interpello n. 362 del 30 agosto 2019, la quale – nel presupposto che sia dirimente il regime impositivo relativo all’acquisto dell’abitazione – ammette l’agevolazione per l’acquisto separato di un immobile da destinare a pertinenza di un’abitazione classificata in categoria catastale A/1 acquistata con le agevolazioni ‘prima casa’ in quanto alla data di stipula dell’atto (2010) la suddetta classificazione non era preclusiva.

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Tuttavia, se si acquista con atto separato la pertinenza di un’abitazione agevolata ai sensi del comma 4-bis della Nota II-bis79, prima che l’abitazione preposseduta sia alienata, le condizioni di cui alle lettere a), b) e c) devono essere verificate ai sensi ( e nei limiti) del comma 4-bis stesso e, dunque, potrebbero non sussistere al momento dell’atto di acquisto della pertinenza, sempre purché l’alienazione dell’abitazione agevolata preposseduta sia effettuata entro l’anno (dall’acquisto dell’abitazione)80. L’Amministrazione finanziaria esclude che possa essere agevolato l’acquisto separato di una pertinenza di un’abitazione acquisita senza le agevolazioni, facendo salva, però, la spettanza del beneficio qualora si tratti:– di una casa di abitazione ceduta da un’impresa costruttrice, prima del 22 maggio 1993, con aliquota Iva ridotta senza però l’applicazione delle cd. agevolazioni ‘prima casa’81,– di un’abitazione non agevolata in quanto acquistata prima dell’entrata in vigore della legge 22 aprile 1982, n. 168 (che ha introdotto l’agevolazione in questione)82, – di un immobile acquisito allo stato rustico, per il quale non si è fruito dell’agevolazione ‘prima casa’, se all’epoca dell’acquisto sussistevano, comunque, le condizioni soggettive e oggettive richieste ai fini della fruizione dell’agevolazione83.

79 Il comma 4-bis prevede che «l’aliquota del 2 per cento si applica anche agli atti di acquisto per i quali l’acquirente non soddisfa il requisito di cui alla lettera c) del comma 1 e per i quali i requisiti di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma si verificano senza tener conto dell’immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lettera c), a condizione che quest’ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell’atto. In mancanza di detta alienazione, all’atto di cui al periodo precedente si applica quanto previsto dal comma 4». 80 Così A. LOMONACO, Novità in tema di condizioni per gli acquisti della ‘prima casa di abitazione’ nella legge di stabilità 2016, Studio CNN n. 5-2016/T.81 Circolare 1° marzo 2001 n. 19/E.82 Cfr. circolare 7 giugno 2010 n. 31/E secondo la quale «sebbene, in via generale, la normativa di riferimento e la prassi correlata richiedano, ai fini del riconoscimento delle agevolazioni “prima casa” alle pertinenze, che queste ultime accedano ad un’abitazione acquisita fruendo dei medesimi benefici, occorre rilevare che un’interpretazione della disposizione recata dalla Nota II-bis), punto 3, posta in calce all’articolo 1 della Tariffa, parte prima, del TUR, strettamente aderente al tenore letterale risulterebbe contraria all’obiettivo che il legislatore ha inteso perseguire attraverso la previsione del regime di favore, che può essere individuato nella volontà di agevolare l’acquisto dell’abitazione non di lusso e delle sue pertinenze, in ossequio ai principi sanciti dall’articolo 47, comma II, della Costituzione secondo cui «la Repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione». Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che la normativa di favore prevista per la “prima casa” possa trovare applicazione anche in relazione all’acquisto del bene pertinenziale destinato a servizio di un’abitazione acquisita senza fruire dei suddetti benefici in quanto non ancora previsti dalla normativa vigente al momento del trasferimento».83 Circ. n. 31/E cit.

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Secondo una parte della dottrina sarebbe preferibile, però, giungere ad un’interpretazione più ampia dell’espressione «abitazione oggetto dell’acquisto agevolato», riferendola anche, ad esempio. a un’abitazione non acquistata con le agevolazioni per insussistenza dei relativi requisiti e condizioni all’epoca del relativo atto, purché i suddetti presupposti sussistano al momento dell’acquisto separato della pertinenza (sempre con riferimento all’abitazione)84.Il principio secondo il quale al trasferimento della pertinenza si applica il medesimo regime fiscale relativo al trasferimento del bene principale non dovrebbe comportare necessariamente che essi debbano essere soggetti al medesimo tributo, in quanto la Nota II-bis regolamenta allo stesso modo le agevolazioni ‘prima casa’, a prescindere dal tipo di imposta (imposta di registro, Iva, imposte ipotecaria e catastale per successioni e donazioni), e richiedendo il comma 3 che la pertinenza sia riferibile ad un’abitazione agevolata in presenza di condizioni comuni alla disciplina nei vari tributi.Quanto all’Iva ed all’imposta di registro, già la necessità di valutare autonomamente, rispetto alla cessione dell’abitazione e alla cessione della pertinenza, i presupposti dell’esenzione o dell’imponibilità Iva85, comporta la possibilità che le suddette cessioni possano essere soggette all’agevolazione ‘prima casa’ ma con l’applicazione di tributi diversi86. E non si vede perché ciò non possa verificarsi anche nell’ipotesi in cui una cessione sia posta in essere da un privato e l’altra da un soggetto passivo Iva. Quanto all’acquisto della pertinenza per successione o donazione, dalla prassi sembra emergere la tendenza a tenere distinta l’agevolazione prevista per gli atti a titolo gratuito da quella per gli atti a titolo oneroso per la diversità dei relativi presupposti87, cosicché «l’estensione alla pertinenza del medesimo regime fiscale applicato al bene principale comporterebbe la necessità di applicare la “medesima” agevolazione»88. Più di recente, però, l’Amministrazione

84 Cfr. A. BUSANI, Le agevolazioni per l’acquisto della prima casa, Milano, 2015, 638 il quale ritiene preferibile riferire la sussistenza dei requisiti e condizioni rispetto all’abitazione per l’acquisto agevolato della pertinenza solo al momento in cui si acquista quest’ultima, beneficiando così «chi oggi “merita” l’agevolazione» anche qualora l’abitazione non fosse stata acquistata in precedenza con le agevolazioni. 85 Sul punto vedi infra paragrafo successivo.86 Cfr. circolare 1° marzo 2007 n. 12/E.87 Cfr. circolare 7 maggio 2001 n. 44/E. Cfr. altresì la circolare 38/E cit. che ammette l’agevolazione ex art. 69 cit. per l’acquisto separato a titolo gratuito della pertinenza di un’abitazione acquistata in precedenza usufruendo, parimenti, delle agevolazioni ex art. 69.88 Cfr. S. CANNIZZARO, Prima casa- Acquisto box pertinenza di immobile acquistato senza agevolazioni, risposta a quesito n. 90-2008/T, in CNN Notizie del 17 luglio 2008; B. DENORA, Acquisto a titolo oneroso di garage da adibire a pertinenza di immobile caduto in successione.

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finanziaria89 sembra ammettere la possibilità di fruire dell’agevolazione di cui all’art. 69 l. n. 342 del 2000 cit. rispetto ad un immobile da destinare a pertinenza di un’abitazione “non caduta in successione” e acquistata in precedenza con le agevolazioni ‘prima casa’, senza richiedere (espressamente) che si tratti, parimenti, delle agevolazioni di cui all’art. 69 cit. Ritiene, inoltre, possibile chiedere l’agevolazione ‘prima casa’ ex art. 69 cit. «sulla sola pertinenza anche quando il nesso pertinenziale viene istituito con un’abitazione “prima casa”, non ricadente in successione e di proprietà (ovvero di usufrutto, uso o abitazione) di uno degli eredi/legatari, la cui titolarità è stata acquisita in un periodo in cui non esisteva la possibilità di richiedere l’agevolazione prima casa»90. Sono ricomprese tra le pertinenze, limitatamente ad una per ciascuna categoria, le unità immobiliari classificate o classificabili nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, che siano destinate a servizio della casa di abitazione oggetto dell’acquisto agevolato.Pertanto, i parcheggi trovano una specifica disciplina se destinati a pertinenza della prima casa di abitazione. Infatti, per quanto con riferimento alle pertinenze agevolabili sia discusso se l’elencazione di cui al comma 3 sia o meno esaustiva, potendo le cd. agevolazioni ‘prima casa’ competere anche per altre pertinenze diverse da appartenenti alle categorie catastali elencate91, l’espressa considerazione della categoria catastale

Applicabilità dell’agevolazione ‘prima casa’ e dell’opzione prezzo valore, risposta a quesito n. 247-2008/T, in CNN Notizie del 15 gennaio 2019.89 Cfr. le Istruzioni al modello di dichiarazione di successione telematica, fasc. 1.90 Istruzioni al modello di dichiarazione di successione telematica, cit.91 Ritengono non esaustiva l’elencazione, tra gli altri, L. BELLINI, Pertinenze e prima casa, Studio CNN n. 51/99/T; A. BUSANI, Le agevolazioni per l’acquisto della prima casa, cit., 634. In questo senso si è espressa anche la Cassazione (sent. 1° marzo 2013 n. 6259), ammettendo l’agevolazione per l’acquisto di un lastrico solare pertinenziale in quanto «il tenore letterale della norma consente di ritenere che l’ultimo inciso serva a ricomprendere tra le varie pertinenze, sulla base della nozione civilistica di pertinenze dell’immobile, di cui all’art. 817 c.c., ai fini fiscali, anche le unità immobiliari ivi specificate, senza alcuna esclusione della categoria generale. L’alinea indicato non ha, quindi, valore esaustivo delle pertinenze a cui può essere estesa l’agevolazione prima casa, ma solo valenza complementare alla categoria generale di pertinenza di rilievo civilistico, ricomprendente i beni destinati in modo durevole al servizio e ornamento di altro immobile, tra cui va ricompreso anche il lastrico solare di proprietà esclusiva dell’acquirente … Non è necessario, inoltre, al fine dell’agevolazione, che il bene sia censito unitamente all’immobile principale, non richiedendosi tale presupposto dalla normativa di riferimento, spettando le agevolazioni anche per l’acquisto delle pertinenze con atto separato». In senso contrario è, invece, l’Amministrazione finanziaria, secondo la quale il riferimento alle categorie catastali deve intendersi tassativo e preclusivo dell’agevolazione rispetto a pertinenze classificate in altre categorie (cfr. per tutte, circ. n. 18/E del 2013 cit.).

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riferibile ai parcheggi comporta senza dubbio non solo che gli acquisti degli stessi, se legati dal vincolo pertinenziale all’abitazione ‘prima casa’, rientrino fra quelli agevolabili, ma anche che per essi sia consentita l’agevolazione con una limitazione numerica, essendo agevolabile l’acquisto di un solo parcheggio pertinenziale.Pertanto, la prepossidenza di un parcheggio pertinenza della ‘prima casa’ già acquistato usufruendo delle agevolazioni, preclude che all’acquisto di un altro parcheggio, pertinenza della stessa abitazione, possano essere applicate le agevolazioni ‘prima casa’.Invece la prepossidenza di un parcheggio pertinenza della ‘prima casa’ ma acquistato senza usufruire delle agevolazioni, non dovrebbe essere considerata preclusiva delle agevolazioni per l’acquisto di un altro parcheggio pertinenziale, poiché le condizioni di cui alle lettere a), b) e c) cit. si riferiscono, come già detto, alla casa di abitazione92.La limitazione numerica potrebbe ragionevolmente essere superata laddove l’acquisto della seconda pertinenza appartenente alla medesima categoria catastale riguardi un immobile contiguo, destinato ad essere unito al precedente (già acquistato con l’agevolazione) dando luogo ad un’unica unità immobiliare accatastata in una delle categorie indicate nel comma 3 cit.93.Tuttavia, l’Agenzia delle entrate ha accolto un’interpretazione inaspettatamente restrittiva in una risposta ad interpello94 relativa all’acquisto di un ulteriore garage, contiguo e confinante con quello già di proprietà (e agevolato), per i

92 Invece A. BUSANI, Le agevolazioni per l’acquisto della prima casa, cit., 642, ritiene preferibile la tesi che porta a ritenere la prepossidenza (nel medesimo Comune) di altra pertinenza, anche non agevolata, della’ prima casa’, preclusiva per la concessione del beneficio rispetto all’acquisto successivo di una pertinenza appartenente alla stessa categoria catastale. Sul punto non è chiara la posizione dell’Amministrazione finanziaria. Cfr, circ. n. 19/E cit. Si veda altresì Agenzia delle entrate, risposta ad interpello n. 241 del 15 luglio 2019, secondo la quale il requisito ostativo di cui alle lettere b) e c) della Nota II-bis si riferisce alla titolarità di un altro immobile abitativo e non alla possidenza di altre unità immobiliari censite in categorie catastali diverse da quella abitativa, quale il garage, che – sebbene acquistato con le agevolazioni ‘prima casa’ – non costituisce motivo ostativo alla concessione del benefico per l’acquisto dell’abitazione. 93 E ciò anche in considerazione dell’ammissibilità dell’agevolazione in caso di acquisto contemporaneo di abitazioni contigue, destinate a costituire un’unica unità abitativa, ovvero di un immobile contiguo ad altra casa di abitazione già acquistata dallo stesso soggetto, fruendo o meno dei benefici ‘prima casa’, sempreché detto acquisto sia finalizzato a costituire con quest’ultima un’unica unità abitativa, la quale a seguito della fusione catastale risulti accatastata quale abitazione in una categoria diversa da A/1, A/8 e A/9. In queste ipotesi le dichiarazioni di cui alle lettere b) e c) vanno rese senza considerare l’abitazione contigua preposseduta, destinata alla fusione con la nuova (cfr. circ. nn. 18/E e 31/E citate).94 Risposta ad interpello n. 66 del 20 febbraio 2020.

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quali era stata realizzata la fusione catastale nella medesima categoria C/6.Secondo l’Agenzia, infatti, la locuzione «limitatamente ad una per ciascuna categoria» di cui al comma 3 cit., «evidenzia che il legislatore ha posto un vincolo di natura oggettiva alla fruizione del beneficio tributario in esame», e dovendo verificare la sussistenza di questo requisito al momento dell’acquisto, ritiene che lo stesso non sussista quando l’acquirente è già proprietario di un altro garage acquistato con le agevolazioni.Quanto alla nozione di pertinenza occorre sempre fare riferimento ai principi civilistici ed alla sussistenza della destinazione durevole al servizio o all’ornamento dell’abitazione (elemento oggettivo95) e della volontà del titolare del diritto reale sulla cosa principale (elemento soggettivo). Non è dunque necessario che i due immobili appartengano al medesimo fabbricato, essendo rilevante soltanto la destinazione dell’uno al servizio dell’altro96.Il trasferimento nel quinquennio di una pertinenza acquistata usufruendo dell’agevolazione ‘prima casa’ comporta la decadenza dalla stessa (parziale in caso di acquisto contestuale all’abitazione, non alienata, e per la parte di prezzo riferibile alla pertinenza97) salvo che si riacquisti entro l’anno un altro immobile da destinare a propria abitazione principale. Non è idoneo ad evitare la decadenza, quindi, il riacquisto di un’altra pertinenza. Inoltre, l’articolo 7

95 Cfr. ris. n. 265 del 2008 cit., relativa ad una fattispecie in cui il garage e la soffitta erano molto ampie, avendo estensione e valore catastale superiore a quello dell’abitazione. L’Agenzia collega il concetto di pertinenza alle dimensioni ed al valore catastale delle stesse affermando, con riferimento all’elemento oggettivo del rapporto pertinenziale, che deve essere dimostrabile dal contribuente, anche in base alla dimensione ed al valore catastale, che esiste un rapporto economico-giuridico di strumentalità e complementarietà funzionale.96 Cfr. L. BELLINI, Pertinenze e prima casa, cit., ove si legge, sulla scorta anche della giurisprudenza, che «il concetto di pertinenza va rapportato all’effettiva e concreta volontà … e può essere inteso in senso assai lato …; la circostanza che due immobili siano isolati e staccati è priva di rilievo al fine di escludere che uno di essi costituisca pertinenza dell’altra, non occorrendo per la sussistenza del rapporto pertinenziale che le due cose siano fisicamente connesse o adiacenti, decisiva essendo soltanto la destinazione dell’una al servizio dell’altra. Conseguentemente la pertinenza non deve necessariamente essere nello stesso edificio dell’abitazione, né nello stesso isolato, né nella stessa strada, né si può fare una questione di distanza fra l’abitazione e la pertinenza. Questo vale in modo evidente per le autorimesse e per i posti auto, la cui difficile reperibilità può far ritenere idoneo rapporto pertinenziale quello con un box situato anche a notevole distanza dall’abitazione». Cfr., invece, sulla necessaria prossimità dell’ubicazione della pertinenza circolari 1° marzo 2001 n. 19/E, 12 agosto 2005 n. 38/E, 29 maggio 2013 n. 18/E citate. Vedi anche supra Parte I, paragrafo 1. 1.97 Cfr. L. BELLINI, Decadenza dalle cd. agevolazioni “prima casa”, Studio CNN n. 30/2005/T; ris. 16 febbraio 2006 n. 31/E.

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della legge 23 dicembre 1998, n. 448 accorda il credito d’imposta qualora, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato fruendo dell’agevolazione ‘prima casa’, venga acquistata un’altra casa di abitazione beneficiando dello stesso regime di favore, e dunque l’acquisto di un’altra pertinenza, appartenente o meno alla medesima categoria catastale della precedente, non attribuisce la possibilità di fruire del credito d’imposta98.

3. I parcheggi pertinenziali nell’Iva

Nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto, a seguito della riforma della disciplina fiscale riservata alle cessioni di fabbricati, caratterizzata dal punto di vista oggettivo dalla distinzione fra fabbricati abitativi e fabbricati strumentali per natura99, si è posto il problema di stabilire il trattamento tributario da riservare alle cessioni di fabbricati aventi natura di pertinenza di immobili abitativi, poste in essere da soggetti passivi ai fini Iva. Più precisamente, il decreto legge 4 luglio 2006 n. 223 (successivamente modificato dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 e dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83) ha introdotto un principio generalizzato di esenzione dall’Iva di tutte le cessioni dei fabbricati e delle relative porzioni, modificando l’art. 10, comma 1, n. 8-bis)100 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riferibile alla cessioni dei fabbricati abitativi, ed aggiungendo nel corpo del medesimo articolo la successiva lettera

98 In questo senso cfr. circ. n. 18/E cit.99 Sul tema cfr. L. BELLINI – N. FORTE – A. LOMONACO, Note riepilogative sul tema delle cessioni di fabbricati effettuate da soggetti passivi Iva, Studio CNN n. 144-2007/T; N. FORTE – A. LOMONACO, Novità e questioni aperte in tema di cessioni di fabbricati in ambito Iva, Studio CNN n. 102-2012/T.100 Ai sensi del n. 8-bis) «le cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato diversi da quelli di cui al numero 8-ter), escluse quelle effettuate dalle imprese costruttrici degli stessi o dalle imprese che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere c), d) ed f), del testo unico dell’edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, entro cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento, ovvero quelle effettuate dalle stesse imprese anche successivamente nel caso in cui nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione, e le cessioni di fabbricati di civile abitazione destinati ad alloggi sociali, come definiti dal decreto del Ministro delle infrastrutture 22 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 146 del 24 giugno 2008, per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione». Nell’ipotesi in cui la cessione sia esente da Iva, la stessa è soggetta ad imposta di registro proporzionale, in deroga al principio di alternatività fra i due tributi (v. art. 40 d.P.R. n. 131 del 1986); nell’ipotesi in cui la stessa sia imponibile ai fini Iva, le imposte di registro, ipotecaria e catastale sono dovute nella misura fissa di 200 euro ciascuna.

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n. 8-ter)101 riguardante unicamente le «cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato strumentali che per loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni», al cui ambito andrebbero ricondotte le cessioni dei parcheggi (in quanto fabbricati “oggettivamente strumentali”). Al contempo, nell’ambito delle predette disposizioni, sono previste – per le tipologie di immobili sopraindicate – delle esclusioni (che operano anche in maniera diversa per le due fattispecie) in presenza delle quali si verifica l’imponibilità ai fini Iva.Con riguardo al problema interpretativo legato al regime fiscale applicabile alle pertinenze, la questione è stata affrontata dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 12 del 1° marzo 2007, la quale – premesso che sulla base dei principi civilistici alla pertinenza è applicabile il medesimo regime fiscale del bene principale – ha chiarito, in primo luogo come con riguardo alla cessione dei fabbricati, la costituzione del “vincolo pertinenziale” sia idonea semplicemente ad attribuire alla pertinenza la medesima natura “tipologica” del bene principale, cosicché «la sussistenza di tale nesso alla luce dei criteri previsti dal codice civile consente di estendere alla pertinenza l’applicazione della medesima disciplina dettata per la tipologia del fabbricato principale, sia nell’ipotesi in cui questo e la pertinenza siano oggetto del medesimo atto di cessione sia nell’ipotesi in cui i due beni siano ceduti con atti separati». Ad esempio il box auto pertinenza di un’abitazione assume la natura di “immobile abitativo”, pur se classificato, sotto il profilo catastale, nella categoria C/6. Si ritiene, inoltre, che la cessione di un box, che l’acquirente intende destinare a pertinenza della propria ‘prima casa’ (già acquistata), da parte di un’impresa che non ha costruito o ristrutturato il bene, sia esente da Iva ai sensi dell’art. 10 n. 8-bis) d.P.R. n. 633 del 1972, non potendo essere assoggettata a tale tributo per effetto dell’esercizio dell’opzione da parte dell’impresa cedente ai sensi dell’art. 10 n. 8-ter del medesimo d.P.R. E ciò in quanto per verificare se il cedente abbia il diritto di optare per l’imposizione Iva (diversamente disciplinato nel n. 8-bis

101 Ai sensi del n. 8-ter) «le cessioni di fabbricati o di porzioni di fabbricato strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni, escluse quelle effettuate dalle imprese costruttrici degli stessi o dalle imprese che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere c), d) ed f), del Testo Unico dell’edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, entro cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento, e quelle per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione». Per tali cessioni, sia imponibili che esenti ai fini Iva, l’imposta di registro è dovuta in misura fissa (200 euro), le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale (rispettivamente con aliquota pari al 3 e all’1 per cento).

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rispetto al n. 8-ter) ed in base a quali condizioni, si ritiene sia necessario prima stabilire se la cessione del fabbricato sia riconducibile all’ambito applicativo del n. 8-bis) o del n. 8-ter ) dell’art. 10 cit. (in altri termini, si può parlare di un diritto di opzione del cedente per l’imponibilità solo successivamente, una volta cioè che si sia stabilito quale disciplina sia applicabile agli effetti dell’Iva)102.L’esistenza del rapporto di pertinenzialità non è sufficiente per applicare al bene pertinenza l’identico trattamento del bene principale, poiché rispetto alla cessione della pertinenza devono essere verificati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all’art. 10 cit., che comportano il trattamento fiscale in concreto applicabile all’operazione103. Così, ad esempio, nel caso di cessione di un box destinato a pertinenza di un’abitazione (già acquistata in regime di imponibilità Iva) da parte dell’impresa non costruttrice o, comunque, da parte di un soggetto privato, non si applica l’Iva ma l’imposta di registro104.Una volta verificata, secondo il principio indicato, l’imponibilità della cessione del fabbricato pertinenziale, ai sensi dell’art. 10 n. 8-bis) (o n. 8-ter) cit., si pone il problema dell’individuazione dell’aliquota Iva applicabile alla stessa, dovendosi valutare se nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto sia desumibile un principio generale di applicazione, alla suddetta cessione della pertinenza, della medesima aliquota stabilita in relazione al bene principale (o meglio, astrattamente dovuta per la cessione del bene principale, anche se in concreto, per ipotesi, non applicata essendo stata quest’ultima cessione assoggettata ad imposta di registro105) . Ad esempio, nel caso di cessione di un’abitazione con i requisiti ‘prima casa’ e

102 In tal senso A. LOMONACO, Cessione di pertinenza da parte di impresa non costruttrice ed esercizio dell’opzione Iva, risposta a quesito n. 290-2013/T, in CNN Notizie del 6 giugno 2013. 103 Cfr. circ. 12/E cit. Si è ritenuto, quindi, insufficiente il criterio desumibile dall’art. 12 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo il quale le cessioni accessorie ad una cessione di beni effettuate dal cedente non sono soggette autonomamente all’imposta tra le parti dell’operazione principale (inoltre il secondo comma stabilisce che se la cessione principale è soggetta ad imposta, i corrispettivi della cessione accessoria concorrono a formarne la base imponibile), per cui sono attratte nel regime fiscale di quest’ultima. Cfr. invece G. FRANSONI, Le pertinenze dei fabbricati nelle imposte indirette, in Corr. trib., 2008, 21 ss., secondo il quale deve farsi riferimento a tale criterio per determinare il regime fiscale applicabile alle pertinenze, ciò comportando l’attrazione delle stesse nell’ambito del regime proprio del bene principale, senza che sia necessario verificare che sussistano con riferimento specifico alla pertinenza i presupposti richiesti dall’art. 10 cit.104 Sul punto si veda anche paragrafo precedente.105 In altri termini, il problema dell’individuazione dell’aliquota Iva della pertinenza e la conseguente affermazione della regola dell’attrazione valgono anche se il bene principale è tassato con l’imposta di registro.

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di due relative pertinenze appartenenti alla medesima categoria catastale (C/2, C/6 o C/7), si è posto il problema se applicare sulla seconda pertinenza (non agevolata) l’aliquota Iva del 10 per cento (prevista per i fabbricati abitativi non di lusso (ora, non classificati nelle categorie A/1, A/8 e A/9), non ‘prima casa’, dal n. 127-undecies della Tabella A, parte III, allegata al d.P.R. n. 633/1972) oppure quella ordinaria del 22 per cento.Al riguardo si è ritenuto106 come dal sistema si possa desumere l’esistenza di un principio di attrazione del bene pertinenziale alla natura del bene principale rilevante anche ai fini della determinazione dell’aliquota Iva, per cui l’affermazione dell’Amministrazione finanziaria secondo cui il vincolo pertinenziale rende «il bene servente una proiezione del bene principale» va intesa nel senso che, sia pure per effetto di una finzione giuridica, l’eventuale cessione di un box auto (o di un altro fabbricato pertinenziale) equivale alla cessione di un bene avente la medesima natura del fabbricato principale. Conseguentemente, fatta salva l’applicazione di disposizioni speciali che non consentono di estendere al bene pertinenza il medesimo trattamento fiscale previsto per il bene principale (v. infra), la cessione di un fabbricato pertinenziale soggetta ad Iva (pur se con atto separato) sconta la medesima aliquota applicabile (o che sarebbe applicabile) alla cessione del fabbricato principale. In questo senso si è espressa l’Agenzia delle entrate107, affermando, con riguardo

106 Cfr. Studio n. 102-2012/T cit.107 Agenzia delle entrate, ris. 20 giugno 2007 n. 139/E e ris. 5 ottobre 2010 n. 94/E. Inizialmente, tuttavia, non era chiara la posizione dell’Agenzia delle entrate. La circolare n. 19 del 1° marzo 2001 cit. aveva precisato che «l’aliquota Iva prevista per la cessione del bene principale è comunque applicabile alla pertinenza se i due immobili sono acquistati con il medesimo atto. Se invece i due beni vengono acquistati con atto separato, l’aliquota prevista per l’immobile abitativo si applica alla sola pertinenza posta al servizio della ‘prima casa’ …, mentre negli altri casi la costituzione del vincolo pertinenziale resta del tutto ininfluente per la determinazione dell’imposta». Una tale affermazione era intesa quale espressione di un orientamento restrittivo, nel senso che l’acquisto effettuato con atto separato della seconda pertinenza non consentiva di “attrarre” questa unità immobiliare alla medesima disciplina fiscale riservata al bene principale, per cui «nelle ipotesi in cui cantine, box, soffitte, ecc, acquistati con atto separato rispetto all’abitazione, siano pertinenze di abitazioni diverse dalla c.d. prima casa oppure costituiscano pertinenze della c.d. prima casa al cui servizio sono già posti altri beni immobili della medesima categoria catastale, sono soggette alla aliquota Iva loro propria. Questa è stabilita nella misura del 10% se l’immobile rappresenta una porzione di fabbricato a prevalente destinazione abitativa, ai sensi della legge n. 408 del 1949, ceduta direttamente dall’ impresa costruttrice (v. tab. A, parte III, n. 127-undecies, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero si tratta di parcheggi realizzati ai sensi della legge 24 marzo 1989, n.122 (legge Tognoli), e nella misura del 20% negli altri casi». Successivamente la circolare n. 12/E del 2007 cit. ha precisato le affermazioni della circ. n. 19/E «nel senso di ritenere che qualora la pertinenza agevolabile ai sensi del richiamato articolo 3,

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alla cessione di una ‘prima casa’ con due pertinenze della medesima categoria catastale, che la seconda pertinenza, non agevolata, «dovrà essere trattata, ai fini delle imposte indirette, come un fabbricato abitativo, diverso dalla prima casa»108. In pratica si afferma che la pertinenza “conserva” la natura di immobile abitativo e la circostanza consente l’applicazione dell’aliquota Iva del 10 per cento prevista dal n. 127-undecies cit.Il principio è stato più di recente accolto anche dalla Corte di cassazione110, la quale, proprio richiamando la prassi dell’Agenzia delle entrate di cui sopra, ritiene che la cessione di un box pertinenza di un’abitazione diversa dalla ‘prima casa’ acquisti per attrazione la natura di fabbricato abitativo, alla cui cessione si applica l’aliquota Iva del 10 per cento di cui al n. 127-undecies109.

comma 131, risulti esente da Iva la relativa cessione usufruirà dell’agevolazione ‘prima casa’ prevista ai fini dell’imposta di registro». Il chiarimento non è agevolmente comprensibile; tuttavia la precisazione della circ. 12/E del 2007 potrebbe essere letta quale tentativo di limitare la portata della precedente circ. 19/E, per evitare che quest’ultima potesse essere ritenuta in contrasto con il principio secondo il quale «la sussistenza del vincolo pertinenziale, rendendo il bene servente una proiezione del bene principale, consente di attribuire alla pertinenza la medesima natura del bene principale». L’indicazione così fornita dalla circ. n. 12/E potrebbe, pertanto, di fatto significare che se l’oggetto della cessione è costituito, ad esempio, da un box auto pertinenziale deve applicarsi il medesimo trattamento, anche ai fini dell’aliquota Iva, previsto per il fabbricato principale. Naturalmente tale conclusione, che potrebbe essere considerata significativa al fine di ribadire la sussistenza di un generale principio di attrazione, non può determinare l’applicazione di agevolazioni non spettanti in capo al soggetto acquirente. Conseguentemente rimane ferma l’applicazione della disposizione secondo cui le agevolazioni previste per l’acquisto della prima casa si applicano ad una sola pertinenza per ciascuna categoria catastale (C/2, C/6 e C/7). Su questi dubbi interpretativi vedi Studio n. 102-2012/T cit.108 L’Agenzia delle entrate ha anche precisato (circ. nn. 10/E del 2010 e 18/E cit.) che nell’ipotesi di un atto di compravendita, imponibile ad Iva, di un immobile ad uso abitativo e di più pertinenze, le imposte fisse di registro, ipotecaria e catastale trovano applicazione una sola volta.109 Non appare, tuttavia, chiaro perché la Cassazione richieda, ai fini dell’aliquota, che la cessione sia posta in essere dall’impresa costruttrice, secondo quanto prevede la seconda parte del n. 127-undecies cit., riguardante però la cessione di fabbricati o porzioni di fabbricati, diverse dalle case di abitazione di cui alla prima parte della disposizione, di cui all’art. 13 della l. n. 408 del 1949. In senso contrario invece Cass., 29 gennaio 2014 n. 1735, che aveva negato l’applicazione dell’aliquota del 10 per cento alla cessione di pertinenza di un’abitazione per la quale non ricorrono le condizioni ‘prima casa’.110 Ord. 17 gennaio 2019, n. 1129.

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3.1 Aliquota Iva applicabile alla cessione dei parcheggi “Tognoli”

Il principio dell’attrazione del fabbricato destinato a pertinenza alla natura del fabbricato bene principale anche ai fini dell’individuazione dell’aliquota Iva applicabile, potrebbe essere disatteso con riferimento alla particolare fattispecie rappresentata dalla cessione di posti macchina e box realizzati ai sensi dell’art. 9 della legge n. 122 del 1989 (c.d. legge Tognoli) cit.In primo luogo occorre chiarire che anche per le cessioni aventi ad oggetto tali immobili, se effettuate da soggetti passivi Iva, si deve ritenere che il regime ai fini di detto tributo debba essere individuato secondo i criteri di cui all’art. 10 nn. 8-bis) e 8-ter), in quanto agli effetti della suddetta disciplina restano irrilevanti sia la eventuale qualificazione degli stessi come opere di urbanizzazione sia la previsione di una specifica disciplina quanto all’aliquota applicabile111.Tenuto conto, allora, che ai sensi della legge Tognoli questi immobili hanno per loro natura una necessaria destinazione pertinenziale112, l’ascrivibilità della relativa cessione all’art. 10 n. 8-bis) o 8-ter) dipende dalla tipologia (abitativa o strumentale per natura) del fabbricato rispetto al quale sussiste il nesso pertinenziale, in quanto, come già più volte precisato, detto vincolo rende «il bene servente una proiezione del bene principale».La portata di tale principio (di attrazione) deve, tuttavia, ritenersi per tale fattispecie non estesa anche all’individuazione dell’aliquota applicabile, in quanto sotto questo profilo per tali beni, di regola pertinenze, è prevista una disciplina specifica.Più precisamente, si ritiene che nella fattispecie in esame debba essere applicata la disposizione fiscale speciale di cui all’art. 11, comma 2 della l. n. 122 del 1989. Tale disposizione, mai formalmente abrogata, quindi ancora oggi in vigore, prevede l’applicabilità dell’aliquota Iva del 2 per cento, successivamente elevata al 4 per cento, ai trasferimenti dei suddetti parcheggi di cui alla legge n. 122 del 1989113. Di diversa opinione, quanto alla specifica aliquota applicabile, l’Amministrazione

111 Cfr. Studio n. 102-2012/T cit.112 Cfr. Parte I, paragrafo 11. Tale natura deve ritenersi confermata anche dopo le modifiche introdotte in materia dall’art. 10 d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 (conv. in l. 4 aprile 2012, n. 35), che ha sostituito il comma 5 dell’art. 9 l. n. 122/1989, pur se con una possibilità di deroga alle condizioni di cui all’art. 9 comma 5 cit. 113 Così P. PURI, Trattamento Iva della cessione di box, Studio CNN n. 319-bis, 328-bis, 339-bis; ID., Acquisto box pertinenziale a prima casa: trattamento agevolato, Studio CNN n. 414-bis; ID., L’aliquota Iva applicabile all’assegnazione di box e posti auto, Studio CNN n. 90-2003/T.

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finanziaria che ha costantemente affermato l’applicazione dell’aliquota del 10 per cento prevista per le opere di urbanizzazione114.In ogni caso, comunque, essendo espressamente prevista una specifica aliquota in relazione ad immobili che di regola possono essere oggetto di cessione solo se hanno destinazione pertinenziale, questa aliquota non può che prevalere su quella riferibile al bene principale, in quanto, diversamente opinando, la norma speciale non potrebbe trovare mai applicazione115.L’applicazione dell’aliquota del 4 per cento (anziché del 10 come sostenuto invece dall’Amministrazione Finanziaria) alla cessione di un parcheggio Tognoli imponibile Iva può comportare, ad esempio, che la suddetta aliquota trovi applicazione anche qualora il bene sia destinato a pertinenza di fabbricato abitativo non ‘prima casa’ (la cui cessione sarebbe invece soggetta all’aliquota del 10 per cento), oppure qualora sia pertinenza di un fabbricato accatastato in A/1, A/8 o A/9 (la cui cessione sarebbe soggetta all’aliquota del 22 per cento)116.L’eccezionalità della cessione dei parcheggi Tognoli rispetto al principio di attrazione al regime del bene principale agli effetti dell’individuazione dell’aliquota Iva applicabile, essendo per essi prevista quella speciale del 4 per cento, è stato totalmente condivisa dalla Cassazione117, la quale – rilevato che le agevolazioni in tema di Iva, contemplate dalla l. n. 122, sono strettamente connesse al carattere di pertinenza dei parcheggi residenziali,

114 Secondo l’Amministrazione finanziaria nel caso di specie sarebbe applicabile in ogni caso l’aliquota Iva del 10 per cento in considerazione dell’assimilazione normativa (cfr. art. 11, comma 1, legge n. 122 citata) dei suddetti box alle opere di urbanizzazione. Tale soluzione è stata indicata dalla Circolare 1/E – IV – 8 – 840 del 2 marzo 2004 (v. anche circ. n. 19/E cit., ris. 94/E del 5 ottobre 2010). Il documento di prassi richiamato ha infatti osservato come la voce n. 127-quinquies della tabella A, parte III abbia previsto l’applicazione dell’aliquota ridotta del 10 per cento per le cessioni di opere di urbanizzazione primaria e secondaria definite attraverso il richiamo all’art. 4, della legge n. 847 del 1964, integrato dall’art. 44 della legge n. 865 del 1981. A tal proposito l’Agenzia delle entrate ha rilevato ancora come l’elencazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria contenuta nei predetti articoli debba essere considerata tassativa agli effetti dell’applicazione della predetta aliquota ridotta. Tuttavia, un’eccezione è rappresentata dagli impianti e dalle opere assimilabili a quelle elencate nella voce n. 127-quinquies da leggi speciali, tra i quali si comprendono anche i parcheggi disciplinati dalla c.d. legge Tognoli, che qualifica tali parcheggi quali opere di urbanizzazione. 115 In questi termini lo Studio n. 102-2012/T cit. 116 Inoltre, ad esempio, laddove sussistano i presupposti per l’applicazione delle agevolazioni ‘prima casa’, se si ritiene spettante l’aliquota del 4 per cento alla cessione del box Tognoli, la stessa può considerarsi del tutto sganciata dalla circostanza che sia destinato a pertinenza della ‘prima casa’, o dalla richiesta delle suddette agevolazioni, che potrebbe non riguardare anche il box in esame. Cfr. per maggiori esemplificazioni lo Studio n. 102-2012/T cit.117 Cass. ord., 11 gennaio 2018, n. 446.

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in quanto il legislatore statale ha inteso perseguire una finalità urbanistica di interesse generale volta a preservare un’area da destinare a parcheggio per ogni residenziale, secondo le specifiche norme introdotte dal relativo art. 9 – osserva che «con riferimento alla particolare fattispecie rappresentata dalla cessione di posti macchina e box realizzati ai sensi della l. n. 122 del 1989, art. 9, anche per le cessioni aventi ad oggetto tali immobili, se effettuate da soggetti passivi Iva, il regime ai fini di detto tributo deve essere individuato secondo i criteri di cui al d.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, nn. 8-bis e 8-ter. Come esposto, ai sensi della legge Tognoli, questi immobili debbono avere destinazione pertinenziale e, pertanto, l’ascrivibilità della relativa cessione dell’art. 10, nn. 8-bis o 8-ter, dipende dalla tipologia (abitativa o strumentale per natura) del fabbricato rispetto al quale sussiste il nesso pertinenziale, in quanto detto vincolo rende “il bene servente una protezione del bene principale”. La portata di tale principio (di attrazione) deve, tuttavia, ritenersi per tale fattispecie non estesa anche all’individuazione dell’aliquota applicabile, in quanto sotto questo profilo per tali beni, di regola pertinenze, è prevista una disciplina specifica. Più precisamente, nella fattispecie in esame deve essere applicata la disposizione fiscale speciale di cui alla l. n. 122 del 1989, art. 11, comma 2. Tale disposizione, ancora oggi in vigore, prevede l’applicabilità dell’aliquota Iva del 2% successivamente elevata al 4% ai trasferimenti dei parcheggi di cui alla l. n. 122 del 1989. Essendo, dunque, espressamente prevista una specifica aliquota in relazione ad immobili che di regola possono essere oggetto di cessione solo se hanno destinazione pertinenziale, questa aliquota non può che prevalere su quella riferibile al bene principale, in quanto, diversamente opinando, la norma speciale non potrebbe trovare mai applicazione».

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Parte III

Le rassegne

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La giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia di regolamento successorio

Daniela Boggiali Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Lo studio fornisce una rassegna delle sentenze della Corte di giustizia europea in materia di regolamento europeo sulle successioni. Vengono, poi, esaminati i casi giudiziari concernenti la successione di tre famosi musicisti francesi, nei quali è stata invocata l’applicazione di una legge straniera per escludere la tutela degli eredi legittimari prevista dalla legge francese.

The study provides an overview of the judgments of the Court of Justice of the European Union regarding the EU Succession Regulation (EU 650/2012). Then the essay examines the judicial cases concerning the succession of three famous French musicians, in which the application of a foreign law was invoked to exclude the protection of legitimate heirs established by French law.

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Sommario: 1. Le prime pronunce sul regolamento successorio. – 2. Legge regolatrice della successione e sorte dei diritti reali trasferiti mortis causa (Corte di giustizia, 12 ottobre 2017, n. 218). – 3. Quota del coniuge superstite tra regolamento europeo in materia successoria e regolamento sui regimi patrimoniali (Corte di giustizia, 1° marzo 2018 n. 558). – 4. La competenza al rilascio dei certificati successori nazionali nelle successioni con implicazioni internazionalistiche (Corte di giustizia, 21 giugno 2018, n. 20). – 5. I moduli della domanda per il rilascio del certificato successorio europeo (Corte di giustizia, 17 gennaio 2019, n. 102). – 6. La natura delle certificazioni attestanti lo status di erede (Corte di giustizia, 23 maggio 2019, n. 658). – 7. I casi Hallyday, Jarre e Colombier.

1. Le prime pronunce sul regolamento successorio

Il regolamento (UE) n. 650/ 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012 – relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo – rappresenta il tentativo, da parte del legislatore europeo, di adottare una disciplina uniforme delle regole di diritto internazionale privato in materia successoria, allo scopo di superare la frammentazione normativa esistente tra gli Stati membri, la quale costituiva un ostacolo per l’esercizio dei diritti nascenti da una successione con elementi di internazionalità, in contrasto con il principio della libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea1.A circa cinque anni di distanza dall’entrata in vigore del regolamento (17 agosto 2015) si possono registrare le prime pronunce della Corte di giustizia sul tema del riconoscimento degli effetti sui diritti reali di istituti successori previsti dalla legge regolatrice della successione ma non contemplati dalla legge del luogo in cui si trovano i beni, sulla possibilità di inserire nel certificato successorio i diritti spettanti al coniuge superstite in forza del regime patrimoniale esistente tra le parti, sulla competenza al rilascio dei certificati successori nazionali diversi dal certificato successorio europeo, sui moduli da utilizzare nella domanda di rilascio di certificato successorio europeo e, infine, sulla natura del rilascio di certificazioni che attestino lo status di erede, ma che siano prive di esecutività.Ancora mancano, invece, provvedimenti riguardanti il principale criterio di collegamento adottato dal regolamento per l’individuazione della legge regolatrice della successione, e cioè quello della residenza abituale del defunto al momento della morte.

1 P. FRANZINA, Ragioni, valore e collocazione sistematica della disciplina internazional privatistica europea delle successioni mortis causa, in FRANZINA – LEANDRO (a cura di), Il diritto internazionale privato europeo delle successioni mortis causa, Milano, 2013, 1 ss.

La giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia di regolamento successorio

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Su tale profilo si attendeva un riscontro, da parte dei giudici francesi, in merito alla nota vicenda della morte di Johnny Hallyday, artista francese deceduto in Francia, ma residente negli Stati Uniti al momento della morte, la cui eredità è oggetto di una controversia giudiziaria instaurata dai figli nati dai precedenti matrimoni e pretermessi per effetto di un testamento redatto secondo la legge californiana, che non contempla l’istituto della riserva in favore dei legittimari. Tuttavia, a seguito della rinuncia agli atti del giudizio da parte dei soggetti in lite, la questione non risulta, ad oggi, affrontata da alcun giudice di legittimità.Gli interventi della Corte di giustizia finora adottati forniscono, in ogni caso, degli spunti fondamentali per una riflessione, rilevante ai fini dell’attività notarile, relativa ai possibili conflitti tra legge regolatrice della successione e legge regolatrice dei diritti reali suscettibili di formare oggetto di trasferimento ereditario, nonché ai conflitti tra lex successionis e legge applicabile al regime patrimoniale della famiglia in caso di morte di un coniuge, e, infine, sulla competenza e le modalità del rilascio del certificato successorio europeo e nazionale.

2. Legge regolatrice della successione e sorte dei diritti reali trasferiti mortis causa (Corte di giustizia, 12 ottobre 2017, n. 218)

Il regolamento europeo sulle successioni si applica alle successioni a causa di morte (art. 1, par. 1), che comprendono «qualsiasi modalità di trasferimento di beni, diritti e obbligazioni a causa di morte, che si tratti di un trasferimento volontario per disposizione a causa di morte ovvero di un trasferimento per effetto di successione legittima» (art. 3, par. 1, lett. a).Non rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), «... k) la natura dei diritti reali; l) qualsiasi iscrizione in un registro di diritti su beni mobili o immobili, compresi i requisiti legali relativi a tale iscrizione, e gli effetti dell’iscrizione o della mancata iscrizione di tali diritti in un registro».Tuttavia, in caso di conflitto tra la legge regolatrice della successione e la legge regolatrice dei diritti reali trasferiti mortis causa, opera il correttivo dettato dall’art. 31, reg. UE 650/2012, significativamente intitolato «Adattamento dei diritti reali», il quale stabilisce che «Se una persona invoca un diritto reale che le spetta secondo la legge applicabile alla successione e la legge dello Stato membro in cui il diritto è invocato non conosce il diritto reale in questione, tale diritto è adattato, se necessario e nella misura del possibile, al diritto reale equivalente più vicino previsto dalla legge di tale Stato, tenendo conto degli

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obiettivi e degli interessi perseguiti dal diritto reale in questione nonché dei suoi effetti».La Corte di giustizia UE, con sentenza del 12 ottobre 2017, si pronuncia, per la prima volta sul regolamento UE 650/2012, affrontando il delicato tema del riconoscimento degli effetti reali di istituti successori contemplati nella legge scelta dal testatore per regolare la propria successione, ma non disciplinati dall’ordinamento dello Stato in cui il bene che ne è oggetto si trova2.La questione trae origine da una vicenda riguardante una cittadina polacca, coniugata con un cittadino tedesco e residente in Germania, la quale intendeva inserire nel proprio testamento, da riceversi da notaio polacco, un legato “per rivendicazione” – istituto previsto dal diritto polacco – in favore del proprio marito sulla propria quota di un bene di cui la coppia è proprietaria in Germania.La decisione di disporre un legato per rivendicazione disciplinato dal diritto polacco derivava dal fatto che nel caso di specie, la testatrice intendeva sottoporre la propria successione alla legge polacca: ai sensi dell’art. 22 del reg. n. 650/2012, «Una persona può scegliere come legge che regola la sua intera successione la legge dello Stato di cui ha la cittadinanza al momento della scelta o al momento della morte». Ai sensi dell’art. 23 la legge così designata regola l’intera successione e, in particolare, «il trasferimento agli eredi e, se del caso, ai legatari, dei beni, dei diritti e delle obbligazioni che fanno parte del patrimonio ereditario, comprese le condizioni e gli effetti dell’accettazione dell’eredità o del legato ovvero della rinuncia all’eredità o al legato».Detta scelta appare, quindi, coerente con la circostanza per cui il codice civile polacco contempla tanto l’istituto del legato per rivendicazione (art. 981), cui la testatrice intendeva far ricorso, che consiste nella previsione che una determinata persona acquisti l’oggetto del legato – che può consistere anche nella quota di proprietà su un bene immobile che costituisce un diritto patrimoniale trasferibile – al momento dell’apertura della successione; quanto il legato obbligatorio, in forza del quale l’erede ha l’obbligo di trasferire il diritto sul bene al legatario, il quale può altresì esigere dall’erede l’esecuzione del legato (art. 968). Mentre il primo può esser previsto solo nel testamento redatto in forma di atto notarile, il secondo può esser contemplato anche nel testamento olografo.Sennonché, nel diritto tedesco il legato è sempre e solo ad effetti obbligatori, in quanto fa nascere, al momento dell’apertura della successione, un mero credito che il beneficiario acquista nei confronti dell’erede al trasferimento della

2 Per un commento, v. D. BOGGIALI, Il riconoscimento degli effetti reali dei legati nel regolamento Successioni, in Riv. not., 2018, 1251 ss.; D. ACHILLE, Lex successionis e compatibilità con gli ordinamenti degli Stati membri nel reg. UE n. 650/2012, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 697 ss.

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proprietà o della titolarità del bene oggetto del legato, con la conseguenza che al legatario non spetta l’azione di rivendicazione, né appare possibile procedere direttamente alla trascrizione del legato nei registri immobiliari, ove questo abbia ad oggetto beni immobili3.L’acquisto del legato richiede, pertanto, l’accettazione da parte del beneficiario e un atto di trasferimento da parte dell’onerato.Il notaio polacco si rifiutava, dunque, di redigere il testamento asserendo l’illiceità dell’atto per la contrarietà del legato “per rivendicazione” alla normativa e alla giurisprudenza tedesche, applicabili al caso di specie in quanto il legato ha ad oggetto un immobile sito in Germania, il cui ordinamento verrebbe, quindi, in rilievo in forza sia dell’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) ed l), che escludono dal proprio ambito applicativo la natura dei diritti reali e le formalità pubblicitarie ad essi relative, sia dell’articolo 31, che impone l’adattamento dei diritti reali previsti dalla legge applicabile alla successione ma non contemplati dallo Stato membro in cui il bene si trova.In via generale, già dai considerando del reg. n. 650/2012 si evidenzia come se da un lato esso dovrebbe consentire la creazione o il trasferimento per successione di un diritto su un bene immobile o mobile secondo la legge applicabile alle successioni, dall’altro lato non dovrebbe tuttavia incidere sul numero limitato (“numerus clausus”) dei diritti reali conosciuti nel diritto nazionale di taluni Stati membri. Uno Stato membro non dovrebbe essere tenuto a riconoscere un diritto reale su un bene situato in tale Stato membro se il diritto reale in questione non è contemplato dal suo diritto patrimoniale (considerando 15).Analogamente, anche in tema di pubblicità relativa alle vicende successorie concernenti beni immobili si riconosce il primato della legge dello Stato in cui essi si trovano (considerando 18): I requisiti relativi all’iscrizione in un registro di un diritto su beni immobili o mobili dovrebbero essere esclusi dall’ambito

3 P. KINDLER, Le successioni a causa di morte nel diritto tedesco: profili generali e successione nei beni produttivi, in www.notai.bz.it. Ai sensi dell’art. 2174 del codice civile tedesco, un legato attribuisce al beneficiario il diritto di chiedere all’onerato il trasferimento del bene legato (§ 2174 Vermächtnisanspruch Durch das Vermächtnis wird für den Bedachten das Recht begründet, von dem Beschwerten die Leistung des vermachten Gegenstands zu fordern) e ai sensi dell’art. 2180 l’accettazione ha luogo mediante dichiarazione resa nei confronti dell’onerato (§ 2180 Annahme und Ausschlagung (1) Der Vermächtnisnehmer kann das Vermächtnis nicht mehr ausschlagen, wenn er es angenommen hat. (2) 1Die Annahme sowie die Ausschlagung des Vermächtnisses erfolgt durch Erklärung gegenüber dem Beschwerten. 2Die Erklärung kann erst nach dem Eintritt des Erbfalls abgegeben werden; sie ist unwirksam, wenn sie unter einer Bedingung oder einer Zeitbestimmung abgegeben wird. (3) Die für die Annahme und die Ausschlagung einer Erbschaft geltenden Vorschriften des § 1950, des § 1952 Abs. 1, 3 und des § 1953 Abs. 1, 2 finden entsprechende Anwendung).

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di applicazione del presente regolamento …; (considerando 19): Gli effetti dell’iscrizione di un diritto nel registro dovrebbero altresì essere esclusi dall’ambito di applicazione del presente regolamento ...).In sostanza, il diritto successorio non può comportare che, nello Stato membro in cui si trova il bene, venga introdotta una suddivisione o una modalità del diritto di proprietà che quello Stato non conosce. A mo’ di esempio, non è possibile introdurre un usufrutto in uno Stato che non conosce tale diritto.Contro il rifiuto del notaio polacco di ricevere un testamento contenente un legato per rivendicazione avente ad oggetto un immobile sito in Germania, l’interessata presentava ricorso, dapprima al notaio rogante e poi al Tribunale polacco, il quale decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre la questione alla Corte di giustizia.Quest’ultima, muovendo dalla premessa che il regolamento 650/2012 si applica alle successioni a causa di morte e che, per effetto dell’esplicita previsione contenuta nell’art. 3, paragrafo 1, lettera a), la lex successionis comprende «qualsiasi modalità di trasferimento di beni, diritti e obbligazioni a causa di morte, che si tratti di un trasferimento volontario per disposizione a causa di morte ovvero di un trasferimento per effetto di successione legittima», osserva come l’istituto del legato per rivendicazione attenga alle modalità del trasferimento di un bene per effetto della successione e, quindi, appartiene alla sfera della lex successionis, disciplinata, appunto, dal regolamento 650/2012, e non, invece, alla sfera della legge regolatrice di un diritto reale.In particolare, la Corte sottolinea come tanto il legato «per rivendicazione», previsto dal diritto polacco, quanto il legato «obbligatorio», previsto dal diritto tedesco, costituiscano modalità di trasferimento della proprietà di un bene senza che incidano, invece, sul contenuto del diritto trasferito, che, appunto, nel caso di specie è il diritto di proprietà, il quale è un diritto reale conosciuto in entrambi gli ordinamenti giuridici interessati. In altri termini, il trasferimento diretto di un diritto di proprietà mediante un legato «per rivendicazione» riguarda unicamente le modalità del trasferimento di tale diritto reale al momento del decesso del testatore, che, come più volte rilevato, rientra nell’ambito della legge applicabile alle successioni.Si tratta, quindi, di fattispecie diversa da quella contemplata all’articolo 1, paragrafo 2, lettere k) e l), del regolamento n. 650/2012, relative alla natura dei diritti reali e ai presupposti ed effetti dell’iscrizione nei registri immobiliari.Circostanza, questa, che esclude altresì che si debba dar luogo ad “adattamento” del diritto trasferito mortis causa ai sensi dell’art. 31 del Regolamento, il quale concerne unicamente il rispetto del contenuto dei diritti reali.Nel caso di specie, infatti, il diritto reale che il testatore desidera trasmettere

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mediante legato «per rivendicazione» è il diritto di proprietà sulla propria quota nell’immobile sito in Germania, il quale è pacificamente riconosciuto dal diritto tedesco.In conclusione, il legato «per rivendicazione», conosciuto dal diritto applicabile alla successione, trova applicazione anche qualora esso abbia ad oggetto il diritto di proprietà su un immobile situato in uno Stato membro, la cui legislazione non conosce l’istituto del legato ad effetti reali diretti alla data di apertura della successione.

3. Quota del coniuge superstite tra regolamento europeo in materia successoria e regolamento sui regimi patrimoniali (Corte di giustizia, 1° marzo 2018, n. 558)

La seconda pronuncia emanata dalla Corte di giustizia in materia di regolamento europeo sulle successioni affronta il tema dei rapporti tra la legge regolatrice della successione e la legge applicabile al regime patrimoniale della famiglia in caso di morte di un coniuge.In via generale, l’art. 1 reg. n. 650/2012, esclude dal proprio ambito di applicazione, alla lett. d), le questioni riguardanti i regimi patrimoniali tra coniugi e i regimi patrimoniali relativi a rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi hanno effetti comparabili al matrimonio.Per altro verso, il regolamento (UE) 2016/1103 del Consiglio, del 24 giugno 2016, che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi – e che entrerà in vigore il 29 gennaio 2019, esclude dal proprio ambito di applicazione la successione a causa di morte del coniuge. Ciò posto, la Corte di giustizia, sez. II, con sentenza 1° marzo 2018, nella causa C-558/16, Doris Magret Lisette Mahnkppf affronta la questione se nel certificato successorio possa esser riportata la quota spettante al coniuge superstite.Il caso all’esame dei giudici concerne una successione ab intestato di cittadino tedesco residente in Germania, che lascia a sé superstiti la moglie e un figlio, apertasi il 29 agosto 2015 e, quindi, soggetta all’applicazione dei criteri previsti dal reg. 650/2012, che nella fattispecie in oggetto porta all’applicazione del diritto tedesco.Quest’ultimo, in materia successoria, stabilisce che l’eredità si acquista

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direttamente in capo agli eredi, senza necessità di accettazione e fatta salva la facoltà di rinuncia; l’eventuale accettazione esclude la facoltà di rinunciare4.Quanto, poi, alle quote ereditarie, il diritto tedesco suddivide i successibili per gradi: sono eredi legittimi di primo grado i discendenti della persona della cui successione si tratta (BGB § 1924, par. 1) e i figli succedono in parti uguali (§ 1924, par. 4)5.Quanto al coniuge superstite, l’art. 1931 stabilisce quanto segue:– in caso di concorso con i chiamati di primo grado, al coniuge spetta un quarto dell’eredità;– in caso di concorso con i chiamati di secondo grado, al coniuge spetta la metà dell’eredità;– se non vi sono chiamati di primo né di secondo grado, l’intera eredità si devolve al coniuge;– se i coniugi erano soggetti al regime della Zugewinngemeinschaft, trova applicazione l’art. 1371 BGB e, quindi, la quota spettante al coniuge superstite è aumentata di un quarto;– se i coniugi erano in regime di separazione e il coniuge concorre con uno o due figli, l’eredità si devolve in parti uguali6.Nel caso di specie, poiché i coniugi erano in regime di Zugewinngemeinschaft, l’eredità si devolve per 1/2 (¼ più un ¼ ai sensi dell’art. 1371) al coniuge e per 1/2 al figlio.

4 Bürgerliches Gesetzbuch § 1942 Anfall und Ausschlagung der Erbschaft (1) Die Erbschaft geht auf den berufenen Erben unbeschadet des Rechts über, sie auszuschlagen (Anfall der Erbschaft). (2) Der Fiskus kann die ihm als gesetzlichem Erben angefallene Erbschaft nicht ausschlagen. § 1943 Annahme und Ausschlagung der Erbschaft. Der Erbe kann die Erbschaft nicht mehr ausschlagen, wenn er sie angenommen hat oder wenn die für die Ausschlagung vorgeschriebene Frist verstrichen ist; mit dem Ablauf der Frist gilt die Erbschaft als angenommen.5 Bürgerliches Gesetzbuch § 1924 Gesetzliche Erben erster Ordnung (1) Gesetzliche Erben der ersten Ordnung sind die Abkömmlinge des Erblassers. (2) Ein zur Zeit des Erbfalls lebender Abkömmling schließt die durch ihn mit dem Erblasser verwandten Abkömmlinge von der Erbfolge aus. (3) An die Stelle eines zur Zeit des Erbfalls nicht mehr lebenden Abkömmlings treten die durch ihn mit dem Erblasser verwandten Abkömmlinge (Erbfolge nach Stämmen). (4) Kinder erben zu gleichen Teilen.6 Bürgerliches Gesetzbuch § 1931 Gesetzliches Erbrecht des Ehegatten (1) Der überlebende Ehegatte des Erblassers ist neben Verwandten der ersten Ordnung zu einem Viertel, neben Verwandten der zweiten Ordnung oder neben Großeltern zur Hälfte der Erbschaft als gesetzlicher Erbe berufen. Treffen mit Großeltern Abkömmlinge von Großeltern zusammen, so erhält der Ehegatte auch von der anderen Hälfte den Anteil, der nach § 1926 den Abkömmlingen zufallen würde. (2) Sind weder Verwandte der ersten oder der zweiten Ordnung noch Großeltern vorhanden, so erhält der überlebende Ehegatte die ganze Erbschaft. (3) Die Vorschrift des § 1371 bleibt unberührt. (4) Bestand beim Erbfall Gütertrennung und sind als gesetzliche Erben

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Il coniuge superstite, erede insieme all’unico figlio del de cuius, aveva richiesto il rilascio del certificato successorio intendendo procedere alla trascrizione della successione di un immobile di provenienza ereditaria sito in Svezia e, in particolare, la vedova aveva richiesto che nel certificato fosse indicato che per successione legittima in applicazione del diritto tedesco, il coniuge superstite e il figlio erano rispettivamente eredi al 50% dei beni del de cuius.Il notaio richiesto del rilascio del certificato aveva quindi trasmesso la domanda al competente Tribunale circoscrizionale che l’aveva respinta, quest’ultimo rilevando come la quota attribuita al coniuge del de cuius si fondasse solo per un quarto su un regime successorio mentre per il restante altro quarto essa derivava dal regime patrimoniale tra i coniugi previsto dal § 1371, par. 1, BGB, non rientrante, in quanto tale, nell’ambito di applicazione del regolamento n. 650/2012.L’interessata ricorreva avverso tale decisione al Tribunale superiore del Land di Berlino, il quale, sospendeva il procedimento sottoponendo la questione alla Corte di giustizia. Quest’ultima rammenta, innanzitutto, che se, da un lato l’art. 1 reg. n. 650/2012, nel definirne l’ambito di applicazione, vi esclude, alla lett. d), le questioni riguardanti i regimi patrimoniali tra coniugi e i regimi patrimoniali relativi a rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi hanno effetti comparabili al matrimonio, dall’altro lato, l’art. 3, par. 1, alla lett. a), comprende nella nozione di «successione», «qualsiasi modalità di trasferimento di beni, diritti e obbligazioni a causa di morte, che si tratti di un trasferimento volontario per disposizione a causa di morte ovvero di un trasferimento per effetto di successione legittima».Venendo, dunque, alla natura della norma tedesca, secondo la Corte il § 1371, par. 1, BGB verte non già sulla ripartizione di beni patrimoniali tra i coniugi, bensì sulla questione dei diritti del coniuge superstite in relazione ai beni già inclusi nell’asse ereditario. In tale contesto, la disposizione risulta avere come scopo principale non la ripartizione dei beni del patrimonio allo scioglimento del regime patrimoniale, bensì la determinazione del quantum della quota di successione da attribuire al coniuge superstite rispetto agli altri eredi.Essa concerne, pertanto, principalmente la successione del coniuge deceduto e non il regime patrimoniale tra coniugi e, di conseguenza si ricollega alla materia successoria ai fini del regolamento n. 650/2012.

neben dem überlebenden Ehegatten ein oder zwei Kinder des Erblassers berufen, so erben der überlebende Ehegatte und jedes Kind zu gleichen Teilen; § 1924 Abs. 3 gilt auch in diesem Falle.

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Peraltro, tale interpretazione non viene smentita dall’ambito di applicazione del regolamento 2016/1103. Tale regolamento, infatti, pur essendo stato adottato, conformemente al suo considerando 18, al fine di disciplinare tutti gli aspetti di diritto civile dei regimi patrimoniali tra i coniugi che concernono sia la gestione quotidiana dei beni dei coniugi sia la liquidazione del regime patrimoniale tra gli stessi, in particolare in seguito a separazione personale o morte di un coniuge, esclude esplicitamente dal proprio ambito di applicazione, conformemente al suo articolo 1, paragrafo 2, lettera d), la «successione a causa di morte del coniuge».Infine, la riconduzione al diritto successorio della quota spettante al coniuge superstite in virtù dell’art. 1371, par. 1, BGB consente di includere le informazioni relative a detta quota nel certificato successorio europeo, con tutti gli effetti descritti all’articolo 69 del regolamento n. 650/2012, secondo cui il certificato successorio europeo produce effetti in tutti gli Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento e si presume che la persona indicata in esso come erede, legatario, esecutore testamentario o amministratore dell’eredità possieda la qualità e i diritti enunciati in tale certificato senza nessun’altra condizione e/o restrizione ulteriore rispetto a quelle menzionate nel certificato stesso7.Il conseguimento degli obiettivi del certificato successorio europeo sarebbe, invece, considerevolmente ostacolato nel caso in cui detto certificato non comprendesse l’informazione completa relativa ai diritti del coniuge superstite concernenti la massa ereditaria. Dunque, l’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 650/2012 deve essere interpretato nel senso che rientra nell’ambito di applicazione di tale regolamento una disposizione nazionale la quale preveda, in caso di decesso di uno dei coniugi, un conguaglio forfettario degli incrementi patrimoniali realizzati in costanza di matrimonio mediante maggiorazione della quota ereditaria del coniuge superstite.Analogo discorso dovrebbe valere con riferimento a taluni istituti di diritto francese, quali ad esempio la donation entre époux o donation au dernier des vivants o ancora donation au plus vivant des deux, con la quale un coniuge dona all’altro l’universalità dei beni dallo stesso posseduti al momento della propria morte in favore del coniuge superstite.Nel caso in cui, al momento della morte, vi siano eredi legittimari, ciascun coniuge può donare all’altro la piena proprietà della quota disponibile

7 Corte giust. UE, sentenza del 12 ottobre 2017, Kubicka, C 218/16, EU:C:2017:755, punto 60.

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“ordinaria” spettante ai terzi al momento della morte o, in alternativa, la piena proprietà su un quarto e l’usufrutto sui tre quarti di tutti i suoi beni esistenti al momento dell’apertura della successione o, infine, l’usufrutto degli stessi8.Si tratta, in ogni caso, di una donazione che ha lo scopo di tutelare i diritti successori del coniuge superstite, in quanto, consente, in via negoziale, di ampliare la quota ereditaria spettante a quest’ultimo.L’art. 757 del codice civile francese riconosce, infatti, al coniuge superstite, in caso di concorso con i discendenti della coppia, l’opzione tra l’usufrutto dell’universalità dei beni esistenti al momento della morte e la piena proprietà di un quarto degli stessi, mentre, in caso di concorso con i figli del solo de cuius, al coniuge superstite spetta unicamente la proprietà di un quarto dei beni ereditari9.Pertanto, la donazione tra sposi di cui all’art. 1094-1 del codice civile francese, riconoscendo al coniuge superstite la possibilità di accettare la donazione e di scegliere, al momento della morte del donante, tra tre opzioni in ordine al contenuto della stessa, consente di riservare al coniuge superstite una quota di eredità che si configura come «quota disponibile speciale in favore del coniuge» (quotité disponible spéciale entre époux).Peraltro, pur trattandosi di un contratto di donazione, la giurisprudenza riconosce a tale negozio la natura di disposizione testamentaria, equiparando tale donazione ai legati ai fini dell’azione di riduzione10, ai fini degli effetti dell’esercizio della facoltà di scelta, che retroagisce al momento dell’apertura della successione11, e ai fini dell’applicazione della disciplina transitoria applicabile anteriormente all’entrata in vigore della legge istitutiva di tali donazioni n. 72-3 del 3 gennaio 197212.

8 Code civil – Article 1094-1 Pour le cas où l’époux laisserait des enfants ou descendants, issus ou non du mariage, il pourra disposer en faveur de l’autre époux, soit de la propriété de ce dont il pourrait disposer en faveur d’un étranger, soit d’un quart de ses biens en propriété et des trois autres quarts en usufruit, soit encore de la totalité de ses biens en usufruit seulement. Sauf stipulation contraire du disposant, le conjoint survivant peut cantonner son émolument sur une partie des biens dont il a été disposé en sa faveur. Cette limitation ne peut être considérée comme une libéralité faite aux autres successibles.9 Code civil – Article 757 Si l’époux prédécédé laisse des enfants ou descendants, le conjoint survivant recueille, à son choix, l’usufruit de la totalité des biens existants ou la propriété du quart des biens lorsque tous les enfants sont issus des deux époux et la propriété du quart en présence d’un ou plusieurs enfants qui ne sont pas issus des deux époux.10 Civ. 1re, 10 févr. 1998, in Bull. civ. I, n° 52.11 Civ. 1re, 20 oct. 1992, in Bull. civ. I, n° 256.12 12 Civ. 1re, 8 nov. 1982, in Bull. civ. I, n° 322.

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Ne consegue che anche i beni donati in virtù di tale negozio giuridico dovrebbero essere inseriti nel certificato successorio, in quanto l’oggetto del contratto verte non già sulla ripartizione di beni patrimoniali tra i coniugi, bensì sulla questione dei diritti del coniuge superstite in relazione ai beni già inclusi nell’asse ereditario.Dovrebbe, invece, pervenirsi a una diversa conclusione con riferimento a taluni istituti disciplinati nell’ambito delle convenzioni matrimoniali, quali la clausola del préciput, la quale è la convenzione con cui si stabilisce che il coniuge superstite sia autorizzato a prelevare dai beni comuni, prima della divisione, una certa somma di denaro, o determinati beni in natura, o una certa quantità di beni individuati nel genere13, e la clausola con cui i coniugi derogano alle regole sulla divisione della comunione previste dalla legge, eventualmente attribuendo al coniuge superstite la totalità dei beni comuni o l’usufrutto sulla quota del defunto14.L’espressa qualificazione in termini di convenzione matrimoniale, fatta dallo stesso code civil, consente di escludere che le predette vicende possano avere la natura di attribuzione patrimoniale per causa di morte: l’acquisto, da parte del coniuge superstite, dei beni della comunione dovrebbe qualificarsi come acquisto derivante dal regime patrimoniale dei coniugi, tant’è che le regole di conflitto che individuano la legge applicabile nel caso di specie sono pur sempre quelle che disciplinano i rapporti patrimoniali dei coniugi.Trattandosi di convenzioni matrimoniali, il loro oggetto verte sulla ripartizione dei beni comuni allo scioglimento del regime patrimoniale e, quindi, sui diritti

13 Code civil – Article 1515 Il peut être convenu, dans le contrat de mariage, que le survivant des époux, ou l’un d’eux s’il survit, sera autorisé à prélever sur la communauté, avant tout partage, soit une certaine somme, soit certains biens en nature, soit une certaine quantité d’une espèce déterminée de biens.14 Code civil – Article 1520 Les époux peuvent déroger au partage égal établi par la loi; Code civil – Article 1524 L’attribution de la communauté entière ne peut être convenue que pour le cas de survie, soit au profit d’un époux désigné, soit au profit de celui qui survivra quel qu’il soit. L’époux qui retient ainsi la totalité de la communauté est obligé d’en acquitter toutes les dettes. Il peut aussi être convenu, pour le cas de survie, que l’un des époux aura, outre sa moitié, l’usufruit de la part du prédécédé. En ce cas, il contribuera aux dettes, quant à l’usufruit, suivant les règles de l’article 612. Les dispositions de l’article 1518 sont applicables à ces clauses quand la communauté se dissout du vivant des deux époux; Code civil – Article 1525 La stipulation de parts inégales et la clause d’attribution intégrale ne sont point réputées des donations, ni quant au fond, ni quant à la forme, mais simplement des conventions de mariage et entre associés. Sauf stipulation contraire, elles n’empêchent pas les héritiers du conjoint prédécédé de faire la reprise des apports et capitaux tombés dans la communauté du chef de leur auteur.

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del coniuge superstite in relazione ai beni non ancora inclusi nell’asse ereditario, con la conseguenza che probabilmente tali beni non dovrebbero essere inseriti nel certificato successorio.

4. La competenza al rilascio dei certificati successori nazionali nelle successioni con implicazioni internazionalistiche (Corte di giustizia, 21 giugno 2018, n. 20)

La Corte di giustizia è, poi, intervenuta sul rapporto tra il certificato successorio europeo e gli analoghi certificati nazionali, ma soltanto per il profilo concernente la competenza al loro rilascio, affermando, nella sentenza del 21 giugno 2018, nella causa C-20/2017, che il criterio previsto dall’art. 4 del regolamento (UE) n. 650/2012 (competenza attribuita all’autorità dello Stato di residenza abituale) trova applicazione anche per il rilascio dei certificati nazionali di successione.È opportuno ricordare che il rapporto tra il certificato successorio nazionale (che è previsto solo in alcuni ordinamenti europei, quali appunto quello tedesco e quello francese, ma non in Italia, sebbene se ne auspichi da tempo l’introduzione) e il certificato successorio europeo (disciplinato dagli artt. 62 e ss. reg. 650 ed il cui uso non è obbligatorio) è tale per cui quest’ultimo non sostituisce il primo («i documenti interni utilizzati per scopi analoghi negli Stati membri» art. 62, par. 3), ma, una volta rilasciato, produce gli effetti di cui all’art. 69 (tra, l’altro, «si presume che il certificato dimostri con esattezza gli elementi accertati in base alla legge applicabile alla successione o a ogni altra legge applicabile a elementi specifici. Si presume che la persona indicata nel certificato come erede, legatario, esecutore testamentario o amministratore dell’eredità possiede la qualità indicata nel certificato e/o sia titolare dei diritti o dei poteri enunciati nel certificato, senza nessun’altra condizione e/o restrizione ulteriore rispetto a quelle menzionate nel certificato stesso»).La questione oggetto dell’intervento della Corte di giustizia era stata sollevata dal Kammergericht Berlin (Tribunale superiore del Land di Berlino), e nasceva da una vicenda in cui il figlio di un cittadino francese che aveva l’ultima residenza abituale in Francia, deceduto il 28 novembre 2015 senza lasciare testamento ed il cui patrimonio comprendeva beni in Francia e in Germania, aveva richiesto due certificati successori nazionali, uno in Francia, regolarmente rilasciato, ed uno in Germania, limitato alla quota dei beni ereditari siti in Germania. In particolare, si chiedeva che quest’ultimo indicasse che, in applicazione del diritto francese, il richiedente e suo fratello avevano ereditato, ciascuno per una quota pari alla metà, i beni del de cuius. L’Amtsgericht Schöneberg (Tribunale circoscrizionale

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di Schöneberg), con decisioni del 17 novembre e del 28 novembre 2016, si era dichiarato incompetente a statuire su tale domanda, ritenendo che le disposizioni dell’articolo 105 e dell’articolo 343, paragrafo 3, del FamFG non potessero essere applicate per determinare la competenza giurisdizionale internazionale senza violare l’articolo 4 del regolamento n. 650/2012, in forza del quale sono competenti a decidere sull’intera successione gli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui il defunto aveva l’ultima residenza abituale.A fronte del rifiuto del rilascio del certificato nazionale da parte del Tribunale circoscrizionale di Schöneberg, l’erede proponeva ricorso al Tribunale superiore del Land di Berlino, il quale, pur ritenendo che il Tribunale di Schöneberg avesse competenza giurisdizionale internazionale a rilasciare il certificato ereditario ai sensi dell’art. 343, paragrafo 3, del FamFG in ragione della presenza di beni ereditari nel territorio tedesco, afferma come non appaia chiaro se, con le disposizioni di cui al capo II del regolamento n. 650/2012, il legislatore dell’Unione abbia inteso regolare esaustivamente la competenza giurisdizionale internazionale in materia di rilascio dei certificati ereditari nazionali, come ha fatto riguardo alla competenza per il rilascio del certificato successorio europeo con l’articolo 64, paragrafo 1, reg. UE 650/2012.L’art. 343 FamFG contrasta con quanto stabilito dall’art. 4 reg. UE 650/2012, in quanto prevede che «1. Competente per territorio è l’organo giurisdizionale nel cui distretto il de cuius, al momento del decesso, aveva la propria residenza abituale. 2. Se al momento del decesso il de cuius non aveva la residenza abituale nel territorio nazionale, è competente l’organo giurisdizionale nel cui distretto il de cuius aveva la sua ultima residenza abituale nel territorio nazionale. 3. Ove non sussista una competenza ai sensi dei paragrafi 1 e 2, è competente l’Amtsgericht Schöneberg in Berlino, se il de cuius era cittadino tedesco o i beni ereditari si trovano nel territorio nazionale». L’art. 105 dispone a sua volta che «Gli altri procedimenti condotti in base alla presente legge rientrano nella competenza degli organi giurisdizionali tedeschi se è territorialmente competente un organo giurisdizionale tedesco».Le due citate previsioni stabiliscono, dunque, un criterio per l’attribuzione della competenza diverso da quello previsto dall’art. 4 del regolamento (UE) n. 650/2012, perché nel caso in cui al momento della morte il de cuius risiedeva abitualmente all’estero, attribuiscono la competenza all’autorità tedesca se il de cuius aveva risieduto in Germania o se i beni ereditari si trovano in Germania o il defunto era cittadino tedesco.Si tratta, quindi, di disposizioni in contrasto con il reg. UE 650/2012, che stabilisce il principio dell’«unità della successione» utilizzando il criterio della residenza abituale del de cuius al momento della morte sia per ciò che concerne la

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legge applicabile all’intera successione (art. 21, par. 1), sia per l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente a decidere in materia successoria (art. 4).Secondo la Corte di giustizia, benché dal tenore letterale dell’art. 4 reg. 650/2012 – il quale stabilisce che sono competenti a decidere sull’intera successione gli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui il defunto aveva la residenza abituale al momento del decesso – non emerga che la sua applicazione sia assoggettata alla condizione dell’esistenza di una successione che coinvolga più Stati membri, la norma trova fondamento nell’esistenza di una successione con implicazioni transfrontaliere; mentre la ripartizione delle competenze giurisdizionali sul piano interno è stabilita secondo le norme nazionali, in conformità dell’art. 2 del regolamento.Poiché la norma sulla competenza generale stabilita dall’art. 4 riguarda l’«intera successione», essa dovrebbe trovare applicazione, in linea di principio, in tutti i procedimenti in materia successoria che si svolgono dinanzi agli organi giurisdizionali degli Stati membri.Quanto all’ulteriore questione, rappresentata dalla circostanza che l’art. 4 fa riferimento a «decisioni» e al dubbio che esso sia riferibile alle sole decisioni adottate dagli organi giurisdizionali nazionali nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, anche qui il tenore letterale della norma non è dirimente, ma la soluzione può trarsi dal contesto in cui la stessa si inserisce.In particolare, l’art. 13 reg. 650/2012 afferma che, oltre all’organo giurisdizionale competente a decidere sulla successione, sono competenti a ricevere dichiarazioni successorie gli organi giurisdizionali dello Stato membro di residenza abituale di qualsiasi persona che, in base alla legge applicabile alla successione, può rendere una dichiarazione di accettazione o di rinuncia dell’eredità, di un legato o di una quota, oppure una dichiarazione diretta a limitare la responsabilità della persona interessata in relazione alle passività ereditarie: gli organi giurisdizionali competenti a decidere sull’intera successione in forza dell’art. 4 del regolamento citato sono, dunque, in linea di principio, competenti a ricevere dichiarazioni successorie, sicché la norma sulla competenza riguarda anche le ipotesi in cui non si pervenga all’adozione di una decisione giurisdizionale.Conclusione, questa, che è corroborata dal considerando 59 reg. 650/2012, da cui emerge che le disposizioni dello stesso sono applicabili indipendentemente dal fatto che le decisioni relative a una successione con implicazioni transfrontaliere siano state adottate nell’ambito di un procedimento contenzioso o non contenzioso.Pertanto, l’art. 4 determina la competenza internazionale degli organi giurisdizionali degli Stati membri in materia di procedimenti aventi ad oggetto provvedimenti relativi all’intera successione, quali, segnatamente, il rilascio di

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certificati successori nazionali, indipendentemente dalla natura contenziosa o non contenziosa di tali procedimenti.Siffatta interpretazione non è inficiata dall’art. 64 reg. n. 650/2012, nella parte in cui esso prevede che il certificato successorio europeo è rilasciato nello Stato membro i cui organi giurisdizionali sono competenti a norma degli articoli 4, 7, 10 e 11 di tale regolamento.Il certificato successorio europeo – il cui uso non è obbligatorio e che non sostituisce i documenti interni utilizzati per scopi analoghi negli Stati membri, quali i certificati successori nazionali – gode, infatti, di un regime giuridico autonomo, stabilito dalle disposizioni del capo VI del regolamento. In tale contesto, l’art. 64 ha lo scopo di chiarire che sono competenti a rilasciare siffatto certificato successorio tanto gli organi giurisdizionali quanto talune altre autorità, indicando al contempo, mediante rinvio alle norme sulla competenza di cui agli artt. 4, 7, 10 e 11 del medesimo regolamento, in quale Stato membro debba avvenire tale rilascio.Dunque, l’art. 64 non può essere interpretato nel senso che i certificati successori nazionali esulino dall’ambito di applicazione della norma sulla competenza di cui all’art. 4.Sul piano teleologico, infine, la Corte ricorda come fra gli obiettivi perseguiti dal regolamento n. 650/2012, ed enunciati dai suoi considerando 7 e 8, vi siano quelli di aiutare gli eredi e i legatari, le altre persone vicine al defunto, nonché i creditori dell’eredità ad esercitare i loro diritti nell’ambito di una successione con implicazioni transfrontaliere, nonché a permettere ai cittadini dell’Unione di predisporre la loro successione. E tali obiettivi si ricollegano al principio dell’unità della successione, cui dà espressione, in particolare, l’art. 23, par. 1, del regolamento, che precisa che la legge applicabile a norma di tale regolamento è destinata a regolare «l’intera successione» e che è sotteso anche alla regola di cui all’art. 4 nei limiti in cui tale norma precisa, a sua volta, che la suddetta regola determina la competenza degli organi giurisdizionali degli Stati membri a decidere «sull’intera successione».Richiamando a tal proposito una recente pronuncia (sentenza del 12 ottobre 2017, Kubicka, C-218/16), la Corte ribadisce come un’interpretazione delle disposizioni del regolamento n. 650/2012 che conducesse alla frammentazione della successione non sarebbe conforme agli obiettivi di tale regolamento, fra i quali vi è quello di istituire un regime uniforme applicabile alle successioni con implicazioni transfrontaliere, ed il cui conseguimento implica l’armonizzazione delle norme sulla competenza internazionale degli organi giurisdizionali degli Stati membri nell’ambito di procedimenti tanto contenziosi quanto non contenziosi. In tale prospettiva l’art. 4 va interpretato nel senso che esso

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determina la competenza internazionale degli organi giurisdizionali degli Stati membri relativamente ai procedimenti di rilascio dei certificati successori nazionali, limitandosi così il rischio di procedimenti paralleli dinanzi agli organi giurisdizionali di Stati membri diversi e di contraddizioni che da ciò potrebbero derivare.In conclusione, «l’articolo 4 del regolamento n. 650/2012 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, la quale preveda che, pur se il defunto non aveva, al momento del decesso, la residenza abituale in tale Stato membro, permangono competenti a rilasciare i certificati successori nazionali, nell’ambito di una successione con implicazioni transfrontaliere, gli organi giurisdizionali del suddetto Stato membro, allorché i beni ereditari si trovano nel territorio di detto Stato o il defunto era cittadino dello stesso Stato».

5. I moduli della domanda per il rilascio del certificato successorio europeo (Corte di giustizia, 17 gennaio 2019, n. 102)

La Corte di giustizia è stata, altresì, investita della questione se, ai fini della richiesta di un certificato successorio europeo ai sensi dell’articolo 65, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 650/2012, l’impiego del modulo IV (allegato 4) di cui all’articolo 1, paragrafo 4, del regolamento di esecuzione n. 1329/2014, elaborato secondo la procedura consultiva di cui all’articolo 81, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012, sia obbligatorio oppure meramente facoltativo.La vicenda portata all’attenzione dei giudici concerne il caso di una cittadina tedesca, abitualmente residente in Germania al momento dell’apertura della successione, i cui unici parenti in vita sono i discendenti del fratello deceduto e nel cui asse ereditario sono compresi beni situati in Germania, Italia e Svizzera, che con testamento notarile ha nominato una Congregazione con sede in Italia quale sua unica legataria e ha designato un esecutore testamentario per l’esecuzione delle sue ultime volontà.L’esecutore presenta, ai sensi dell’articolo 65, paragrafo 1, del regolamento n. 650/2012, dinanzi all’Amtsgericht Köln, domanda ai fini dell’ottenimento di un certificato successorio europeo, relativamente ai beni della defunta situati in Italia, senza utilizzare a tal fine il modulo IV contenuto nell’allegato 4 del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014. Il Tribunale circoscrizionale di Colonia respinge la richiesta di rilascio del certificato per il mancato utilizzo del modulo IV e che la domanda non era stata quindi presentata nelle forme dovute.Avverso tale decisione viene presentata impugnazione all’Oberlandesgericht

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Köln (Tribunale superiore del Land, Colonia), che rimette la questione alla Corte di giustizia.Quest’ultima pone l’accento sul dato testuale dell’art. 65 e, in particolare:– del paragrafo 2, secondo cui ai fini della presentazione di una domanda di certificato il richiedente «può» utilizzare il modulo elaborato secondo la procedura consultiva prevista dall’articolo 81, paragrafo 2, del regolamento stesso;– e del paragrafo 3, per il quale la domanda di certificato deve contenere le informazioni elencate nella disposizione stessa, nella misura in cui il richiedente ne sia a conoscenza ed esse siano necessarie per consentire all’autorità di rilascio di attestare gli elementi di cui il richiedente chiede la certificazione, e dev’essere corredata di tutti i documenti pertinenti in originale o in copia autentica.Ne consegue che, se è pur vero che il richiedente è tenuto a fornire le informazioni che consentano all’autorità di rilascio di attestare tali elementi, dall’articolo 65 del regolamento n. 650/2012 non risulta peraltro che egli sia tenuto a farlo utilizzando il modulo IV.Tuttavia, se, da un lato, il tenore dell’articolo 65, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012 non presenta alcuna ambiguità per quanto attiene alla natura facoltativa dell’utilizzazione del modulo IV, i dubbi del giudice a quo discendono, dall’altro lato, dal tenore dell’articolo 1, paragrafo 4, del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014 secondo cui il «modulo da utilizzare per la domanda di [certificato] di cui all’articolo 65, paragrafo 2, del [regolamento n. 650/2012] è il modulo IV figurante all’allegato 4».In proposito, la Corte rileva che l’art. 1, paragrafo 4, del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014 dev’essere letto in combinato disposto con l’allegato 4 del regolamento medesimo, cui esso fa rinvio ed in cui figura il modulo IV. Ciò posto, nella sezione «Avviso al richiedente», in calce allo stesso modulo IV, è chiaramente precisato che il modulo IV è facoltativo. Il termine «modulo da utilizzare» di cui all’articolo 1, paragrafo 4, del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014 non determina, quindi, la natura obbligatoria o facoltativa dell’utilizzazione del modulo IV, bensì indica solamente che, laddove il richiedente intenda presentare la domanda di certificato per mezzo di un modulo, il relativo modulo da utilizzare sarà il modulo IV.Tale conclusione risulterebbe avvalorata dal fatto che l’articolo 67, paragrafo 1, del regolamento n. 650/2012 stabilisce l’obbligo per l’autorità competente, ai fini del rilascio del certificato de quo, di utilizzare il modulo V, di cui all’allegato 5 del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014. Il diverso tenore dell’articolo 65, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012, riguardante la domanda di certificato, e dell’articolo 67, paragrafo 1, del regolamento medesimo suggerisce, quindi,

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che il legislatore dell’Unione non ha inteso imporre, ai fini della domanda di certificato, l’utilizzazione obbligatoria del modulo IV.Inoltre, a ulteriore conferma della volontà del legislatore dell’Unione di prevedere l’utilizzazione facoltativa del modulo IV, si rileva come negli allegati da 1 a 3 e 5 del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014 non si rinvenga alcuna indicazione in merito all’utilizzazione facoltativa dei moduli ivi contenuti. Unicamente il modulo IV precisa, nella sezione «Avviso al richiedente», la natura facoltativa del modulo stesso. Tale precisazione si ritrova nelle altre versioni linguistiche di detto allegato, segnatamente nelle versioni francese, inglese, italiana, romena e spagnola.Infine, tale interpretazione non risulta in contrasto con l’obiettivo generale perseguito dal regolamento n. 650/2012 consistente, come emerge dal suo considerando 59, nel mutuo riconoscimento delle decisioni emesse negli Stati membri in materia di successioni di natura transfrontaliera. Se, infatti, la sezione «Avviso al richiedente» di cui al modulo IV precisa che l’utilizzazione del modulo stesso può agevolare la raccolta delle informazioni necessarie per il rilascio del certificato, resta il fatto che, con la domanda di certificato presentata ai sensi dell’articolo 65 del regolamento n. 650/2012, l’obiettivo del regolamento medesimo può essere sufficientemente conseguito dagli stati membri, conformemente al principio di sussidiarietà, senza necessità di rendere obbligatoria l’utilizzazione del modulo IV.In conclusione, l’articolo 65, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012 e l’articolo 1, paragrafo 4, del regolamento d’esecuzione n. 1329/2014 vengono interpretati dalla Corte nel senso che, ai fini della domanda del certificato di cui all’articolo 65, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012, l’utilizzazione del modulo IV è facoltativa.

6. La natura delle certificazioni attestanti lo status di erede (Corte di giustizia, 23 maggio 2019, n. 658)

La Corte di giustizia, nella sentenza del 23 maggio 2019 relativa alla causa C-658/2017, è investita delle seguenti questioni:1) se l’articolo 46, paragrafo 3, lettera b), del regolamento n. 650/2012, in combinato disposto con l’articolo 39, paragrafo 2, dello stesso regolamento, debba essere interpretato nel senso che il rilascio dell’attestato relativo a una decisione in materia di successioni, il cui modello è costituito dall’allegato 1 del regolamento di esecuzione n. 1329/2014, sia ammissibile anche relativamente a decisioni che certificano lo status di erede ma che non sono dotate (nemmeno

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in parte) di esecutività;2) se l’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), del regolamento n. 650/2012 debba essere interpretato nel senso che costituisce decisione ai sensi di tale disposizione un atto di certificazione della successione ereditaria, rilasciato da un notaio in conformità della domanda concorde di tutti coloro che partecipano al procedimento di certificazione, il quale produce gli effetti giuridici di una decisione giudiziale, passata in giudicato, dichiarativa dell’acquisto dell’eredità e di conseguenza se l’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, del regolamento n. 650/2012 debba essere interpretato nel senso che il notaio che predispone tale atto di certificazione debba essere considerato un organo giurisdizionale ai sensi della disposizione da ultimo richiamata;3) se l’articolo 3, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 650/2012 debba essere interpretato nel senso che la notifica, che lo Stato membro effettua ai sensi dell’articolo 79 dello stesso regolamento, ha valore informativo e non costituisce una condizione affinché venga riconosciuto come organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, del regolamento, un professionista legale competente in materia di successioni che esercita funzioni giudiziarie, qualora soddisfi le condizioni previste nella disposizione da ultimo richiamata;4) se l’articolo 3, paragrafo 1, lettera i), del regolamento n. 650/2012 debba essere interpretato nel senso che il riconoscimento quale decisione ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), del regolamento n. 650/2012 di uno strumento procedurale nazionale di certificazione dello status di erede ne precluda il riconoscimento quale atto pubblico;5) se l’articolo 3, paragrafo 1, lettera i), del regolamento n. 650/2012 debba essere interpretato nel senso che costituisce atto pubblico ai sensi di tale disposizione un atto di certificazione della successione ereditaria redatto da un notaio in conformità di una domanda concorde di tutti coloro che partecipano al procedimento di certificazione.La Corte si sofferma, in particolare, sulla questione se la mancata notifica, da parte di uno Stato membro, relativa all’esercizio, da parte dei notai, di funzioni giudiziarie prevista all’articolo 3, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 650/2012, abbia un carattere determinante per quanto riguarda la qualifica di detti notai in quanto «organi giurisdizionali» e, in caso di risposta negativa, se l’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, di tale regolamento debba essere interpretato nel senso che un notaio che redige un atto di certificazione della successione, su domanda concorde di tutte le parti del procedimento notarile, in forza della propria normativa nazionale, costituisce un «organo giurisdizionale»

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ai sensi di tale disposizione; infine, se l’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), dei tale regolamento debba essere interpretato nel senso che un atto di certificazione della successione, redatto da un notaio su domanda concorde di tutte le parti del procedimento notarile, costituisce una «decisione» ai sensi di tale disposizione.In particolare, ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, lettera g), del regolamento n. 650/2012, il termine «decisione» comprende qualsiasi decisione in materia di successioni emessa da un organo giurisdizionale di uno Stato membro, a prescindere dalla denominazione usata, compresa una decisione sulla determinazione delle spese giudiziali da parte del cancelliere. Conseguentemente, occorre determinare innanzitutto se l’autorità che l’ha rilasciato debba essere considerata un «organo giurisdizionale» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, di detto regolamento.La Corte precisa che la nozione di «organo giurisdizionale», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, del regolamento n. 650/2012, indica «qualsiasi autorità giudiziaria e tutte le altre autorità e i professionisti legali competenti in materia di successioni che esercitano funzioni giudiziarie o agiscono su delega di un’autorità giudiziaria o sotto il controllo di un’autorità giudiziaria, purché tali altre autorità e professionisti legali offrano garanzie circa l’imparzialità e il diritto di audizione delle parti e purché le decisioni che prendono ai sensi della legge dello Stato membro in cui operano possano formare oggetto di ricorso o riesame davanti a un’autorità giudiziaria e abbiano forza ed effetto equivalenti a quelli di una decisione dell’autorità giudiziaria nella stessa materia».Ciò posto, il paragrafo 2, secondo comma, di detta norma prevede che gli Stati membri notificano alla Commissione, in particolare, le autorità non giudiziarie che esercitano funzioni giudiziarie e, a tal riguardo, l’articolo 79 del regolamento precisa che la Commissione, sulla base delle notifiche degli Stati membri, elabora un elenco delle altre autorità e dei professionisti legali.Tuttavia, il caso all’esame della Corte concerne un certificato rilasciato da notaio polacco, laddove i notai polacchi non figurano nel predetto elenco, poiché la Repubblica di Polonia non li ha designati come autorità non giudiziarie che esercitano funzioni giudiziarie come gli organi giurisdizionali.Poiché il regolamento n. 650/2012 subordina la qualifica di «organo giurisdizionale» alla sussistenza delle condizioni fissate da tale stessa disposizione, ogni Stato membro, ai fini della redazione dell’elenco di cui all’articolo 79 di tale regolamento, deve verificare se le autorità competenti in materia di successioni soddisfino le predette condizioni.Tuttavia, secondo la Corte di giustizia, sebbene l’inclusione nell’elenco crei una presunzione che le autorità nazionali dichiarate in forza dell’articolo 79

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del regolamento n. 650/2012 costituiscano «organi giurisdizionali», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, di tale regolamento, il fatto che un’autorità nazionale non vi sia stata menzionata non può, di per sé, essere sufficiente per concludere che tale autorità non soddisfi le condizioni previste all’articolo 3, paragrafo 2, del suddetto regolamento15.In particolare, l’obiettivo del regolamento n. 650/2012, diretto a garantire una buona amministrazione della giustizia all’interno dell’Unione europea, risulterebbe compromesso se ciascuno Stato membro potesse determinare la sussistenza o meno della qualificazione come «organo giurisdizionale» astenendosi dall’includere le autorità e i professionisti legali che esercitano funzioni giudiziarie come gli organi giurisdizionali nella comunicazione alla Commissione o, al contrario, includendoli senza rispettare le condizioni espressamente elencate in tale disposizione.Pertanto, non si può dedurre dalla mancata notifica alla Commissione, da parte della Repubblica di Polonia, dei notai polacchi, ai sensi dell’articolo 79 del regolamento n. 650/2012, che essi non possano essere qualificati come «organi giurisdizionali» qualora soddisfino le condizioni previste da detto regolamento.Di conseguenza, la Corte ritiene che occorre determinare autonomamente se un notaio che redige un atto di certificazione della successione, su domanda concorde di tutte le parti nel procedimento notarile, soddisfi le condizioni di cui all’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, del regolamento n. 650/2012, per essere qualificato come «organo giurisdizionale» ai sensi di tale disposizione.A tal fine occorre verificare se, nel contesto e nel senso del regolamento n. 650/2012, il notaio che redige l’atto di certificazione della successione eserciti funzioni giurisdizionali ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, di detto regolamento.A tal riguardo, va ricordato che la Corte ha dichiarato che l’esercizio delle funzioni giudiziarie comporta il potere di statuire con poteri propri su eventuali questioni controverse tra le parti interessate16 e affinché si possa considerare, alla luce della specifica natura dell’attività da essa esercitata, che un’autorità eserciti una funzione giudiziaria, a tale autorità dev’essere riconosciuto il potere di risolvere un’eventuale controversia17, cosa che non avviene quando la competenza del professionista di cui trattasi dipende dalla sola volontà delle parti.Come in precedenza rilevato, un’autorità esercita funzioni giudiziarie quando può essere competente in caso di contestazione in materia di successioni e tale

15 In tal senso anche la sentenza del 30 maggio 2018, Czerwinski, C-517/16.16 Sentenza del 2 giugno 1994, Solo Kleinmotoren, C-414/92.17 Ordinanza del 24 marzo 2011, Bengtsson, C-344/09.

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criterio si applica indipendentemente dalla natura contenziosa o non contenziosa del procedimento di rilascio di un atto di certificazione della successione18.Per ciò che concerne le competenze dei notai polacchi, dalla disciplina contenuta nell’art. 1027 del codice civile emerge che le attività notarili relative al rilascio dell’atto di certificazione della successione sono esercitate su domanda concorde delle parti interessate, lasciando impregiudicate le prerogative del giudice in assenza di accordo tra le parti, anche se i notai hanno l’obbligo, in forza della legge polacca, di verificare il rispetto delle condizioni richieste dalla legge per il rilascio di un atto di certificazione della successione, dal momento che essi non esercitano alcun potere decisionale.Inoltre, ai sensi degli articoli 4 e 5 della legge notarile polacca19, i notai esercitano una professione liberale che implica, in quanto attività principale, la prestazione di più servizi distinti dietro retribuzione, fissata sulla base di un accordo con le parti, entro il limite di una tabella.La Corte di giustizia ritiene, quindi, che le suddette attività non rientrino, in quanto tali, nell’esercizio di funzioni giudiziarie e che, quindi, l’atto di certificazione della successione rilasciato dal notaio polacco non promani da un organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento n. 650/2012, né costituisce una «decisione» in materia di successioni, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), del regolamento.Conseguentemente:– se, da un lato, l’articolo 3, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento deve essere interpretato nel senso che la mancata notifica relativa all’esercizio da parte dei notai di funzioni giudiziarie, prevista da tale disposizione, da parte di uno Stato membro, non è determinante per quanto riguarda la qualificazione come «organo giurisdizionale» di tali notai;– tuttavia, dall’altro lato, l’articolo 3, paragrafo 2, primo comma, del regolamento deve essere interpretato nel senso che un notaio che redige un atto su domanda concorde di tutte le parti del procedimento notarile non costituisce un «organo giurisdizionale» ai sensi di tale disposizione e, pertanto, l’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), di tale regolamento deve essere interpretato nel senso che un atto del genere non costituisce una «decisione» ai sensi di tale disposizione.Dette conclusioni fanno venir meno tanto la questione se il rilascio dell’attestato relativo a una decisione in materia di successioni, il cui modello è costituito

18 Sentenza del 21 giugno 2018, Oberle, C-20/17.19 Ustawa Prawo o notariacie (legge recante codice notarile), del 14 febbraio 1991 (Dz. U. n. 22, posizione 91), come modificata dalla legge del 13 dicembre 2013 (Dz. U. del 2014, posizione 164.

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dall’allegato 1 del regolamento di esecuzione n. 1329/2014, sia ammissibile anche relativamente a decisioni che certificano lo status di erede ma che non sono dotate (nemmeno in parte) di esecutività, quanto la questione se il riconoscimento quale decisione ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera g), del regolamento n. 650/2012 di uno strumento procedurale nazionale di certificazione dello status di erede ne precluda il riconoscimento quale atto pubblico.La Corte affronta, infine, la questione se un atto di certificazione della successione, quale l’atto di certificazione della successione polacco, redatto dal notaio su domanda concorde di tutte le parti del procedimento notarile, costituisca un «atto pubblico» ai sensi dell’art. 3 del regolamento, il cui rilascio può essere accompagnato dal modulo di cui all’articolo 59, paragrafo 1, secondo comma, di detto regolamento, corrispondente a quello che figura nell’allegato 2 del regolamento di esecuzione n. 1329/2014.Ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera i), del regolamento n. 650/2012, si intende per «atto pubblico» un atto in materia di successioni che sia stato formalmente redatto o registrato come atto pubblico in uno Stato membro e la cui autenticità, da un lato, riguardi la firma e il contenuto dell’atto pubblico e, dall’altro, sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a tal fine autorizzata dallo Stato membro di origine.Inoltre, dal considerando 62 di tale regolamento risulta che occorre adottare un’interpretazione autonoma del concetto di «autenticità», rispondendo ad una serie di elementi, quali in particolare la genuinità dell’atto, i presupposti formali dell’atto, i poteri dell’autorità che redige l’atto e la procedura secondo la quale l’atto è redatto. L’autenticità dovrebbe comprendere, altresì, gli elementi fattuali registrati dall’autorità interessata nell’atto pubblico, quali il fatto che le parti indicate sono comparse davanti a tale autorità nella data indicata e che le medesime hanno reso le dichiarazioni che vi sono indicate.Dette caratteristiche risultano sussistere nei confronti dell’atto di certificazione della successione elaborato dal notaio polacco e, pertanto, la relativa copia può essere rilasciata accompagnata dal modulo di cui all’articolo 59, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento, corrispondente a quello che figura nell’allegato 2 del regolamento di esecuzione n. 1329/2014.

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7. I casi Hallyday, Jarre e Colombier

Il panorama giurisprudenziale in materia di successioni internazionali è stato negli ultimi tempi arricchito dalle vicende successorie riguardanti tre artisti francesi, tutti accomunati dalla circostanza di aver diseredato i figli di primo letto, in violazione delle norme francesi sulla tutela dei legittimari, attraverso l’istituzione di trust in favore del coniuge più recente e dei figli avuti da quest’ultimo. In tutti i casi i trust erano stati istituiti secondo il diritto americano dello Stato della California, sul presupposto che la successione sarebbe stata regolata dalla legge di tale stato e non, invece, dal diritto francese.Dette vicende vedono coinvolti Johnny Hallyday, autore di Que Je T’aime, Maurice Jarre, noto per le colonne sonore dei film Lawrence d’Arabia, Dottor Zhivago e Ghost, e Michel Colombier, autore delle colonne sonore di Man on Fire - Il fuoco della vendetta, Il bambino d’oro e New Jack City.Delle tre vicende soltanto la prima risulta disciplinata dal reg. UE 650/2012, in quanto la successione si è aperta dopo il 17 agosto 2015, mentre le altre due sono regolate dal diritto internazionale privato francese anteriore.Prima dell’entrata in vigore del reg. UE 650/2012 mancava nella codificazione francese una regola di conflitto espressamente dedicata alle successioni, con la conseguenza che la dottrina e la giurisprudenza francesi ritenevano che il criterio di collegamento applicabile alla materia successoria dovesse essere individuato, per i beni immobili, nella legge dello Stato nel quale essi si trovano, stante il disposto dell’art. 3 del code civil, relativo all’applicazione della legge nello spazio, che in via generale applica agli immobili il criterio della lex rei sitae («Les immeubles, même ceux possédés par des étrangers, sont régis par la loi française»)20.Quanto i beni mobili, la successione risultava regolata dalla legge dell’ultimo domicilio del defunto, indipendentemente dal luogo in cui i predetti beni si trovano21. Si tratta, beninteso, di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale – non essendovi in Francia una norma che codifichi una specifica regola di conflitto in campo successorio – che si desume dagli arresti giurisprudenziali ed importa l’adozione di un regole successorie diversificate a seconda che la successione abbia riguardo a beni immobili o a beni mobili22.

20 In tal senso, Cass. civ., 14 marzo 1837, Stewart, S., 1837, 1, 95; D.P., 1837, 1, 275; Grand arrêts, n. 3).21 Così ha stabilito la c.d. sentenza Labedan (Cass. civ., 19 giugno 1939, D.P., 1939, 1, 97; S., 1940, 1, 49; Rev. crit., 1939, 481, con nota di NIBOYET; Grand arrêts, n. 18).22 Sul punto, P. LAGARDE, France, in Etude de droit comparé sur les règles de conflits de

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Il criterio del luogo dell’ultimo domicilio del defunto ha portato a ritenere che tanto la successione di Jarre, quanto quella di Colombier, fossero regolate dalla legge dello Stato della California.Colombier, artista di nazionalità francese, aveva lasciato la Francia da più di trent’anni per stabilirsi in California e al momento della morte non possedeva alcun bene immobile in Francia; gli unici elementi attivi del patrimonio ereditario che si trovavano in Francia erano alcuni conti correnti bancari e dei diritti d’autore relativi a colonne sonore di film.Al momento del decesso, avvenuto il 14 novembre 2014 a Santa Monica, lasciava a sé superstiti la terza moglie, un figlio nato dal primo matrimonio, due figli nati dal secondo, una figlia nata da una relazione extra coniugale e due figlie nate dal terzo matrimonio.Con testamento redatto e registrato negli Stati Uniti, Colombier aveva assegnato tutti i suoi beni a un trust, denominato famiglia Colombier e istituito in comune con la terza moglie, il cui beneficiario sarebbe stato il coniuge superstite e, alla morte di quest’ultimo, le due figlie nate dal terzo matrimonio.I figli che di fatto risultano diseredati dalle predette disposizioni invocano l’applicazione dell’art. 2 della legge 14 luglio 1819, che attribuisce ai legittimari il diritto di prelevare dai beni siti in Francia la quota di eredità ad essi spettante in forza della legge francese e della quale risultino esser stati privati per effetto dell’assoggettamento della successione ad una legge straniera che non contempli l’istituto della riserva ereditaria.Tuttavia, detta disposizione – a lungo criticata dalla dottrina in considerazione della discriminazione in favore degli eredi francesi basata sul criterio della sola nazionalità23 – è stata dichiarata incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale del 5 agosto 2011, n. 2011-159 QPC.Inoltre, detta disposizione non potrebbe essere considerata una regola di ordine pubblico internazionale, tale da costituire norma di applicazione necessaria, in quanto risponde principalmente all’esigenza di conservare i beni all’interno della famiglia, esigenza che è stata tuttavia superata dal sistema introdotto

juridictions et de conflits de lois relatives aux testaments et successions dans les Etats membres de l’Union europeenne, 2002, rinvenibile sulla pagina del European Justice Network del sito della Commissione europea, secondo cui «La succession aux immeubles est régie par la loi de l’Etat où ils sont situés, tandis que la succession mobilière est régie par la loi du dernier domicile du de cujus».23 J.L. VAN BOXSTAEL, Successions internationales, droit de prélèvement et exception d’ordre public. À propos des arrêts Kazan et Colombier de la Cour d’appel de Paris, in Revue de planification patrimoniale belge et internationale, 2016, 199 ss., spec. 203.

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proprio con il reg. UE 650/2012, improntato al principio di garantire tanto una maggiore libertà testamentaria, quanto la possibilità di consentire al testatore di anticipare gli effetti dell’apertura della successione mediante la stipula di contratti successori24.In conclusione, l’intera successione di Colombier è regolata dalla legge della California, in quanto l’asse ereditario comprende immobili situati in California e beni mobili che, tuttavia, per il diritto internazionale privato francese sono soggetti alla legge dell’ultimo domicilio del defunto.Stessa conclusione vale per la legge applicabile al testamento: mancando, infatti, una norma di diritto internazionale privato che stabilisca espressamente la legge regolatrice del testamento, questo risulta soggetto alle medesime regole applicabili alla successione ab intestato25.Una vicenda pressoché identica ha interessato Maurice Jarre: trasferitosi in California negli anni 50, istituisce un trust di diritto californiano i cui disponenti e beneficiari sono lui e la seconda moglie.Nel 2008 redige testamento con il quale lascia tutti i beni mobili alla seconda moglie e i restanti beni al trust.Nel 2009 muore a Malibu, lasciando a sé superstiti, oltre alla seconda moglie, due figli nati dal primo matrimonio.Anch’essi invocano l’applicazione dell’art. 2 della legge 14 luglio 1819, che attribuisce ai legittimari il diritto di prelevare dai beni siti in Francia la quota di eredità ad essi spettante in forza della legge francese e della quale risultino esser stati privati per effetto dell’assoggettamento della successione ad una legge straniera che non contempli l’istituto della riserva ereditaria.Peraltro, in questo caso, la successione si è aperta prima della dichiarazione

24 Cour d’Appel de Paris, 16 dicembre 2015, Colombier, n. 13/17078. Per ciò che concerne il nostro ordinamento, P. PERLINGIERI, Ragionevolezza e bilanciamento nell’interpretazione recente della corte costituzionale, in Riv. dir. civ., 2018, 736 osserva che «la questione se una consuetudine internazionale, una legge straniera o un lodo di un arbitrato internazionale possano derogare una “legge” italiana, o se una norma debba essere applicata a condizione di reciprocità, si risolve non tanto in distinzioni astratte tra ordine pubblico interno e internazionale, ma in un problema di gerarchia dei valori normativi (non delle fonti) e di bilanciamento, secondo ragionevolezza, tra norme e principi in concorso. Bilanciamento che deve essere condotto tenendo conto delle peculiarità del caso, delle limitazioni di sovranità derivanti dal diritto internazionale generale, dal diritto dell’UE (artt. 10 e 11Cost.), dagli eventuali obblighi internazionali pattizi (art. 117, comma 1, Cost.) e in considerazione del c.d. margine di apprezzamento che ciascuno Stato conserva nell’attuazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo».25 Così, H. PEROZ – E. FONGARO, Droit international privé patrimonial de la famille, Parigi, 2010, 352.

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di incostituzionalità avvenuta con la sentenza della Corte costituzionale del 5 agosto 2011, n. 2011-159 QPC.Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che una norma abrogata per incostituzionalità non può essere applicata alle fattispecie oggetto di giudizio non ancora chiuso al momento della sentenza abrogativa e, quindi, anche nel caso di specie gli eredi pretermessi non si sono potuti avvalere della riserva in loro favore prevista dal diritto francese26.Anche la successione di Maurice Jarre risulta, quindi, interamente regolata dalla legge californiana, in quanto luogo dell’ultimo domicilio del defunto e luogo in cui si trovano gli immobili da esso posseduti.Peraltro, quest’ultimo possedeva un unico immobile in Francia, che tuttavia era stato da esso conferito in una società civile di diritto francese ben 14 anni prima della sua morte. Pertanto, nell’asse ereditario era caduta non la titolarità dell’immobile, di proprietà della società, bensì la titolarità della quota sociale, la cui successione ereditaria è soggetta al criterio del luogo dell’ultimo domicilio del defunto, trattandosi di elemento patrimoniale avente la natura di bene mobile.La vicenda successoria di Johnny Hallyday è l’unica soggetta al reg. UE 650/2012, in quanto il decesso è avvenuto il 5 dicembre 2017 e quindi, dopo la data di entrata in vigore del regolamento, avvenuta il 17 agosto 201527.La legge regolatrice della successione sarà, dunque, ai sensi dell’art. 21 reg. UE 650/2012 «quella dello Stato in cui il defunto aveva la propria residenza abituale al momento della morte», senza distinguere tra beni mobili e immobili e, quindi, rispetto al passato non si realizzerà comunque più alcuna “scissione” tra la successione dei beni mobili e quella dei beni immobili.Nel caso in esame non viene, poi, in rilievo l’art. 22 reg. UE 650/2012, che consente all’interessato di scegliere, in deroga alla regola generale di cui all’art. 21, come legge che regola la sua intera successione la legge dello Stato di cui ha la cittadinanza al momento della scelta o al momento della morte, in quanto Hallyday al momento della morte aveva la cittadinanza francese.

26 Cass., 27 settembre 2017, n. 1005, in Trust e att. fid., 2018, 347, con nota di P. PANICO, Conflitto di leggi e riserva ereditaria: la successione di Maurice Jarre, 253. Sul tema, v. anche E. CALÒ, Vite (e morti) parallele di Michel Colombier e di Maurice Jarre: la colonna sonora dell’ordine pubblico internazionale successorio nel diritto italiano e francese, in Dir. succ. fam., 2016, 879.27 Per una disamina della fattispecie, v. D. MURITANO, La successione di Johnny Hallyday, in Trust e att. fid., 2019, 54 ss. Cenni in E. CALÒ, Il terzo uomo: con Johnny Hallyday dopo Michel Colombier e Maurice Jarre si ripropone il rapporto fra successione necessaria e ordine pubblico internazionale, in Riv. not., 2018, 1141 ss.

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La questione principale del caso Hallyday concerne, quindi, la verifica del luogo di “residenza abituale” del de cuius.Al momento della morte, avvenuta in Francia, Hallyday aveva la cittadinanza francese e lasciava a sé superstiti la moglie, i due figli che aveva adottato con quest’ultima e due figli nati da due precedenti matrimoni.Con testamento del 3 aprile 2014, Hallyday aveva diseredato i figli nati dai precedenti matrimoni.Pochi giorni dopo, con testamento datato 11 aprile 2014, Hallyday revoca ogni precedente disposizione testamentaria, dichiara di essere residente e domiciliato a Los Angeles e assegna tutti i suoi beni a un trust regolato dalla legge della California i cui beneficiari sono la moglie, per il caso in cui gli sopravviva, e dopo di lei i due figli adottivi.In questa ipotesi i figli diseredati impugnano il testamento perché contrario alla legge francese, secondo loro applicabile al caso di specie perché, benché Hallyday fosse formalmente residente in California, il luogo della sua residenza abituale era la Francia.Peraltro, per l’ipotesi in cui si dovesse dimostrare che la residenza abituale effettiva fosse in California, i ricorrenti invocano l’applicazione, in subordine, della clausola di eccezione contenuta nel comma 2 dell’art. 21 reg. UE 650/2012, secondo cui se, in via eccezionale, dal complesso delle circostanze del caso concreto risulta chiaramente che, al momento della morte, il defunto aveva collegamenti manifestamente più stretti con uno Stato diverso da quello della residenza abituale, la legge applicabile alla successione è la legge di tale altro Stato.Da un lato, la tesi degli eredi pretermessi si fonda sui seguenti elementi: la morte è avvenuta in Francia, le cure mediche sono state ricevute in Francia, la Francia è stata a lungo al centro della vita familiare e artistica del defunto, la cui grande notorietà è legata principalmente alla Francia, il defunto ha sempre mantenuto la nazionalità francese e possedeva diversi immobili in Francia.Dall’altro lato, la difesa della moglie si basa sui seguenti dati: il marito risiedeva negli Stati Uniti e il testamento era stato redatto in California conformemente alle leggi di tale Stato, che non contempla la riserva ereditaria in favore dei discendenti.Con ordinanza del 28 maggio 2019, il Tribunal de Grande Instance di Nanterre si è dichiarato competente a decidere della controversia ereditaria in ragione del fatto che Hallyday deve considerarsi residente in Francia al momento della morte.Il provvedimento è stato impugnato in appello dalla vedova di Hallyday, la quale, tuttavia, nel novembre 2019 ha ritirato l’impugnazione. Attualmente

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la causa pende anche dinnanzi al tribunale di Los Angeles che dovrebbe presumibilmente dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, ma a seguito di vari rinvii d’ufficio la causa non risulta ancora, quantomeno nel mese di maggio 2020, definita.Indipendentemente dall’esito del procedimento, l’elemento risolutivo della questione è rappresentato dall’accertamento del luogo di residenza abituale del defunto o, in alternativa, dello Stato con il quale esso presenta un collegamento più stretto.Si tratta di questione che presenta notevoli riflessi applicativi, considerato che la nozione di residenza abituale presenta un certo margine di incertezza in considerazione del fatto che questa può non necessariamente coincidere con la residenza anagrafica del de cuius.Occorre, infatti, tenere presente che i considerando 23, 24 e 25 del regolamento contengono una serie di indicazioni alle quali potrà attenersi l’autorità che si occupa della successione al fine di determinare la residenza abituale.In particolare, tali considerando prevedono quanto segue:– al fine di determinare la residenza abituale, l’autorità che si occupa della successione dovrebbe procedere a una valutazione globale delle circostanze della vita del defunto negli anni precedenti la morte e al momento della morte, che tenga conto di tutti gli elementi fattuali pertinenti, in particolare la durata e la regolarità del soggiorno del defunto nello Stato interessato nonché le condizioni e le ragioni dello stesso. La residenza abituale così determinata dovrebbe rivelare un collegamento stretto e stabile con lo Stato interessato tenendo conto degli obiettivi specifici del presente regolamento (considerando 23);– nei casi in cui dovesse risultare complesso determinare la residenza abituale del defunto (ad esempio, qualora per motivi professionali o economici il defunto fosse andato a vivere all’estero per lavoro, anche per un lungo periodo, ma avesse mantenuto un collegamento stretto e stabile con lo Stato di origine; o qualora il defunto fosse vissuto alternativamente in più Stati o si fosse trasferito da uno Stato all’altro senza essersi stabilito in modo permanente in alcuno di essi), si potrebbe ritenere che il defunto, alla luce delle circostanze della fattispecie, avesse ancora la propria residenza abituale nello Stato di origine in cui è situato il centro degli interessi della sua famiglia e della sua vita sociale. Se, poi, il defunto era cittadino di uno di tali Stati o vi possedeva tutti i suoi beni principali, la sua cittadinanza o il luogo in cui sono situati tali beni potrebbero costituire un elemento speciale per la valutazione generale di tutte le circostanze fattuali (considerando 24);– l’autorità che si occupa della successione può, in casi eccezionali in cui, per esempio, il defunto si fosse trasferito nello Stato di residenza abituale in un

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momento relativamente prossimo alla sua morte e tutte le circostanze del caso indichino che aveva collegamenti manifestamente più stretti con un altro Stato, concludere che la legge applicabile alla successione non debba essere la legge dello Stato di residenza abituale del defunto, bensì la legge dello Stato con il quale il defunto aveva collegamenti manifestamente più stretti. I collegamenti manifestamente più stretti tuttavia non dovrebbero essere invocati come criterio di collegamento sussidiario ogni qual volta la determinazione della residenza abituale del defunto al momento della morte risulti complessa (considerando 25).Viene, quindi, lasciato all’autorità che si occupa della successione un ampio margine di valutazione per individuare il luogo di residenza abituale del defunto, con la precisazione, però, che la circostanza per cui detta valutazione risulta particolarmente complessa non giustifica, di per sé, il ricorso al criterio sussidiario del collegamento più stretto.

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Novità legislative in materia di edilizia residenziale pubblica convenzionata

(art. 25-undecies, legge 17 dicembre 2018, n. 136)

Mauro Leo Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

La sentenza della Cassazione, sez. un., n. 18135 del 2015, riconoscendo il diritto del compratore degli alloggi ERP in diritto di superficie ex art. 35 legge n. 865 del 1971, di pagare l’immobile a prezzo vincolato e non a prezzo libero di mercato, ha provocato molti giudizi. L’art. 25-undecies della legge 17 dicembre 2018, n. 136, ha consentito ai venditori di rimuovere i vincoli sul prezzo dell’immobile venduto, anche se dello stesso non più proprietari, mediante stipulazione di apposita convenzione.

The sentence of the Supreme Court SS. UU. n. 18135 of 2015, recognizing the right of the buyer of ERP housing in surface right pursuant to art. 35 Law n. 865 of 1971, to pay the property at a restricted price and not at a free market price, caused many judgments. Article 25-undecies of the Law 17 December 2018, n. 136, allowed sellers to remove the constraints on the price of the property sold, even if they are no longer owners, by stipulating a special agreement

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Sommario: Premessa. Ambito e finalità dell’intervento normativo. – 1. Presupposti per l’applicazione della nuova procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione. – 1.1. Decorso dei 5 anni dal primo trasferimento. – 1.2. La qualità di persona fisica del soggetto istante. – 1.3. La titolarità, anche pregressa, di “diritti reali sul bene immobile”. – 1.4. L’interesse alla stipulazione. – 2. Convenzioni PEEP in diritto di superficie. – 3. Convenzioni PEEP in diritto di proprietà. – 3.1 Convenzioni PEEP in diritto di proprietà stipulate dopo la legge n. 179 del 1992. – 4. Le convenzioni Bucalossi e il comma 49-ter. – 4.1 Il comma 49-quater e la nuova sanzione di inefficacia. – 5. La disciplina attuativa. – 6. Riflessioni conclusive.

Premessa. Ambito e finalità dell’intervento normativo

L’articolo 25-undecies della legge 17 dicembre 2018, n. 136, entrata in vigore il 19 dicembre 2018, di conversione del decreto legge 23 ottobre 2018, n. 119, ha apportato una serie di modifiche all’art. 31 della legge 23 dicembre 1998 n. 448, relativo alle convenzioni di edilizia residenza pubblica (di seguito indicate come ERP o PEEP), in diritto di superficie e in diritto di proprietà, stipulate in base all’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.La novella nasce fondamentalmente per risolvere un’esigenza sociale ed economica di ampia portata, e cioè il conflitto tra acquirenti e venditori creatosi dopo la sentenza della Cassazione a sezioni unite del 16 settembre 2015, n. 181351. Questa pronuncia avendo riconosciuto il diritto del compratore di pagare il bene – nato come di edilizia residenziale pubblica – a prezzo vincolato, ha determinato quale effetto la proliferazione di giudizi volti al recupero dell’indebito per gli atti di trasferimento posti in essere non solo dopo ma anche prima di quella pronuncia. Per rispondere a tale esigenza è stato quindi emanato l’art. 25-undecies, comma 2, norma che stabilendo l’applicabilità della nuova disciplina anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 136 del 2018 (19 dicembre 2018), è indubbiamente retroattiva. Non poteva essere diversa, del resto, la novità normativa introdotta, considerato che occorreva produrre un effetto deflattivo sui giudizi in corso e prevenire le richieste restitutorie degli acquirenti, in molti casi destinate a sfociare in rivendicazioni economiche ben al di sopra del differenziale di prezzo pagato in misura superiore2.

1 Cass., sez. un., n. 18135/2015, in Giur. it., 2015, 2572, con nota di C. SGOBBO; in Corr. giur., 2016, 1040, con nota di M. BELLANTE; in Notariato, 2016, 365, con nota di C. DE ROSA.2 Come di recente ha ricordato la Corte Costituzionale nella sentenza 12 aprile 2017 n. 73, al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive, sia innovative che di

Novità legislative in materia di edilizia residenziale pubblica convenzionata

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Persistendo il vecchio assetto normativo, l’acquirente che avesse agito in giudizio ottenendo l’accoglimento di tutte le domande presentate, avrebbe potuto conseguire non solo la restituzione della differenza di prezzo pagata in eccedenza al venditore, ma anche la condanna di quest’ultimo al pagamento delle somme per la stipulazione della convenzione ex comma 49-bis (ed impregiudicata ogni altra eventuale richiesta risarcitoria). La sentenza di condanna, inoltre, avrebbe determinato un ulteriore sacrificio a carico dell’alienante ed un vantaggio economico aggiuntivo per il compratore. Il venditore soccombente, verosimilmente, non avrebbe neppure potuto rivalersi verso il proprio dante causa, a seguito della prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c. mentre l’acquirente, all’esito della vicenda, si sarebbe ritrovato titolare di un bene non più di edilizia convenzionata ma di libera contrattazione3.Il riequilibro prodotto dalla novella, peraltro, riguarderebbe tutte le posizioni contrattuali, anche di quelle esterne al contratto di vendita, come ad esempio quella facente capo all’istituto di credito finanziatore dell’acquisto, che vedrebbe confermata la bontà dell’erogazione del mutuo per l’acquisto di un bene a prezzo libero e non vincolato (come pure la congruità del valore dell’iscrizione ipotecaria sul bene acquistato).La nuova disciplina modifica il comma 49-bis, incide sui presupposti per richiedere la stipulazione della convenzione di rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione, inserisce un comma 49-quater, e introduce un (nuovo) meccanismo sanzionatorio per le clausole sul prezzo che violano il vincolo sul prezzo. Per il resto lascia invariati i commi dal 45 al 49 dell’art. 31 relativi alle convenzioni per la trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà (comma 45) e per la sostituzione della convenzione PEEP in convenzione Bucalossi (comma 46). L’articolo 25-undecies lascia anche inalterato, in particolare, l’inquadramento giuridico del vincolo sul prezzo massimo di cessione in materia di ERP quale “onere reale”, secondo l’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza della Cassazione n. 18135 del 16 settembre 20154 (poi seguita da altre

interpretazione autentica, purché la scelta si giustifichi attraverso un «bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato l’introduzione e i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall’efficacia retroattiva della norma adottata. Tra tali valori sono ricompresi il principio generale di ragionevolezza, che si riflette tra l’altro, nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, la tutela dell’affidamento legittimamente, la coerenza e la certezza dell’ordinamento».3 Con riferimento ad una diversa ricostruzione delle pretese restitutorie vantate dalla parte acquirente, si segnala Trib. Roma, sez. 10, 17 aprile 2018 (G.U. Perinelli).4 Cass., sez. un., n. 18135/2015, in Giur.it., 2015, 2572, con nota di C. SGOBBO; in Corr. giur., 2016, 1040, con nota di M. BELLANTE; in Notariato, 2016, 365, con nota di C. DE ROSA.

Mauro Leo

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pronunce di legittimità5), in base al quale questo vincolo sul prezzo segue il bene nei successivi passaggi di proprietà, con naturale efficacia indefinita. A seguito di questo inquadramento la sentenza del 2015 ha ribadito la necessità di ricorrere alla stipulazione della convenzione del comma 49-bis per rimuovere i vincoli sul prezzo massimo di cessione che, solo in senso atecnico, potrebbe ricondursi ad una procedura di “affrancazione” in senso stretto6.Tale conclusione viene riferita dalle sezioni unite agli alloggi realizzati in base alle convenzioni in diritto di superficie e non a quelle in diritto di proprietà – entrambe disciplinate dall’art. 35 della l. n. 865 del 1971 – che differiscono per il fatto che nelle prime non è mai esistito un divieto di inalienabilità, previsto solo per quelle in diritto di proprietà, poi abrogato dalla legge n. 179 del 1992. La modifica normativa, quindi, interviene “a valle” della vicenda circolatoria degli immobili di edilizia convenzionata, nell’ipotesi in cui l’atto traslativo non sia stato preceduto dalla stipulazione di questa convenzione.Ancorché sarebbe più corretto ritenere che la nuova disposizione, consentendo di intervenire su posizioni contrattuali già stabilizzate, agisce successivamente al trasferimento del diritto sul bene, il cui status viene pertanto modificato.Qui risiede la particolarità della novità normativa che consente ad un soggetto privato, diverso dal proprietario, di avviare una procedura amministrativa e negoziale (istanza al Comune e stipulazione della convenzione con lo stesso) che incide sulla proprietà “conformandola” ex lege. Con il risultato che il bene, pur negoziato come bene di edilizia residenziale pubblica, diviene bene privato liberamente commerciabile.Il nuovo articolo 49-bis, però, non disinnesca solo il conflitto tra compratori e venditori ma è destinato ad eliminare anche alcune incertezze interpretative che prima della riforma, erano state poste in evidenza rispetto alle convenzioni PEEP in proprietà.La più evidente è quella relativa all’eliminazione dell’inciso «precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 179» (15 marzo 1992). Tale modifica consentendo l’accesso alla procedura di eliminazione dei vincoli, anche a quelle convenzioni in proprietà stipulate dopo il 1992, ha rimosso una disuguaglianza che appariva incomprensibile per le convenzioni

5 Cass., 3 gennaio 2017, n. 21 e Cass., 4 dicembre 2017, n. 28949. 6 Sul sito web del Comune di Roma, nelle Faq sulla procedura per la liberazione degli alloggi sul prezzo massimo di cessione, si legge che «per affrancazione si intende la rimozione del vincolo relativo al prezzo massimo di cessione e locazione degli immobili realizzati nei Piani di Zona, a fronte del pagamento di un corrispettivo da parte del proprietario dell’immobile a favore dell’Amministrazione Comunale».

Novità legislative in materia di edilizia residenziale pubblica convenzionata

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stipulate dopo tale anno, poiché solo per queste (e non invece per quelle stipulate prima del 1992) era presente il vincolo sul prezzo massimo di cessione, in quanto stipulate “con l’osservanza” dello schema delle convenzioni Bucalossi (secondo lo schema delle convenzioni Bucalossi, – artt. 7 e 8 legge n. 10 del 1977 – secondo quanto stabilito dall’art. 35 comma 13 della L. n. 865 del 1971) e oggi dell’art. 18 d.P.R. n. 380 del 2001.L’eliminazione di tale inciso appare chiarificatore – come più avanti meglio precisato – anche in relazione ad altra questione interpretativa, quella relativa all’ambito applicativo del comma 49-ter, secondo il quale le disposizioni del comma 49-bis si applicano anche alle convenzioni previste dall’art. 18 del TU edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001).Il dubbio che si agitava tra gli interpreti è se il richiamo alle convenzioni (ex) Bucalossi fosse da riferirsi alle convenzioni edilizie di diritto privato, volte ad ottenere una riduzione del contributo concessorio (e quindi alle convenzioni Bucalossi “pure”) oppure alle convenzioni PEEP stipulate «con l’osservanza dello schema» delle convenzioni Bucalossi. L’aver consentito l’accesso alla procedura di eliminazione dei vincoli a tutte le convenzioni ERP in proprietà, anche se stipulate dopo il 1992 secondo lo schema delle convenzioni Bucalossi, (in base a quanto stabilito dall’art. 35 comma 13 della l. n. 865 del 1971), porta a ritenere, come si vedrà, che del comma 49-bis debba darsi una nuova, più ampia, chiave di lettura, con la conseguenza di circoscrivere il perimetro applicativo del comma 49-ter alle sole convenzioni Bucalossi “pure”.

1. Presupposti per l’applicazione della nuova procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione

La modifica di maggiore rilevanza apportata al comma 49-bis dell’art. 31 della legge n. 448 del 1998, è quella che amplia la platea dei soggetti che possono ricorrere alla stipulazione delle convenzioni – per atto pubblico ed ora anche per scrittura privata autenticata7 – per la rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione contenuti nelle convenzioni ex art. 35 della legge n. 865 del 1971.

7 La possibilità di ricorrere alla stipulazione delle convenzioni ex comma 49-bis anche per scrittura privata autenticata, non estende a soggetti diversi dal notaio e dal segretario comunale la facoltà di riceverle, quest’ultimo potendo ora intervenire quale ufficiale autenticante, così come prima della riforma poteva essere chiamato in qualità di ufficiale rogante. Prima del d.l. n. 119 del 2018, infatti, oltre al notaio, solo il segretario comunale era abilitato a ricevere le convenzioni in

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I soggetti a ciò legittimati sono ora le «persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile», anziché i “singoli proprietari” dell’unità immobiliare, come prevedeva l’originario comma 49-bis.L’eliminazione dei vincoli sul prezzo di cessione, quindi, purché siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, è consentita anche al soggetto che non sia più proprietario dell’alloggio, pienamente legittimato ad avanzare la richiesta al Comune per la stipulazione della convenzione.Ecco i requisiti che devono congiuntamente ricorrere in capo al richiedente.

1.1. Decorso dei 5 anni dal primo trasferimento

La rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione è consentita a condizione che sia decorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento. Tale requisito è stato confermato dal legislatore del 2018, continuandosi ad inibire al costruttore (cessionario per la piena proprietà o concessionari per il diritto di superficie) di poter rimuovere detti vincoli.La previsione è chiaramente finalizzata ad impedire manovre di tipo speculativo da parte dei soggetti costruttori che, con il Comune, hanno stipulato la convenzione originaria, beneficiando del minor costo per l’acquisizione delle aree edificabili. Finalità che trova oggi una sponda nella previsione che ha consentito l’accesso alla procedura di rimozione dei vincoli solo alle persone fisiche.

1.2. La qualità di persona fisica del soggetto istante

È stabilito che il soggetto istante possa essere solo una persona fisica.Da tale prescrizione traspare la finalità sociale, di sostegno alle famiglie (come pure è stato detto), che ha ispirato la modifica normativa, con la quale si è voluto evitare che alla nuova procedura potessero accedere soggetti animati da finalità speculative.Il legislatore ha quindi ritenuto (con scelta assolutamente discrezionale) che non siano legittimati alla stipulazione delle convenzioni ex comma 49-bis, pur in assenza di qualunque intento speculativo, le persone giuridiche o, più

parola per atto pubblico, essendo il Comune parte della convenzione, così ora, solo il segretario comunale (oltre al notaio) potrà autenticarne le sottoscrizioni, ricorrendo l’interesse del Comune (art. 97, comma 4, lett. c), d.lgs. n. 267 del 2000).

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genericamente, gli enti che successivamente alla costruzione, siano divenuti proprietari di singole unità immobiliari o di interi edifici, in sede di conferimento, di apporto o, semplicemente, per averli acquistati (es. società – anche di persone – associazioni, fondazioni o fondi immobiliari).C’è da dire, in ogni caso, che la preclusione per gli enti concessionari, di accedere alla facoltà di stipulazione della convenzione di rimozione dei vincoli, discenda già dalla norma stessa. Questa infatti, avendo mantenuto quale condizione per accedervi, che siano decorsi cinque anni dalla data del “primo trasferimento” delle unità abitative (che è quello posto in essere dal concessionario-costruttore), continua a precludere al concessionario – a prescindere se persona fisica o ente – la stipulazione della convenzione.La lettera della norma, però, riferendosi alle persone fisiche senza altra precisazione, non esclude che l’imprenditore persona fisica (non costruttore iniziale del bene) che sia stato già titolare di diritti reali sull’alloggio, possa richiedere la stipulazione della convenzione ex comma 49-bis.

1.3. La titolarità, anche pregressa, di “diritti reali sul bene immobile”

L’altro requisito richiesto dalla norma è che il soggetto che richiede la stipulazione della convenzione ex comma 49-bis, sia, o sia stato in passato, titolare di diritti reali sul bene.Il legislatore, accanto alla legittimazione del proprietario attuale del bene, per prevenire ogni pretesa restitutoria degli acquirenti, ha legittimato le richieste di stipulazione (ex post) di quella convenzione anche in capo agli ex proprietari. Cioè a quei soggetti che al tempo della vendita, conformandosi alla communis opinio precedente alla pronuncia di legittimità del 2015 e alle prassi comunali vigenti, avevano alienato gli immobili di edilizia residenziale pubblica a prezzo di mercato.La conseguenza di ciò è che la rimozione dei vincoli da parte del venditore-ex proprietario che si accorda con il Comune, fa venire meno la natura di bene di edilizia residenziale pubblica, rendendo il bene liberamente alienabile a prezzi di mercato, escludendo la sussistenza di un “indebito” che sia stato corrisposto, come pure la ricorrenza di un “danno” in capo al nuovo proprietario derivante dall’indebito, di cui possa richiederne il ristoro.Il riferimento ai “diritti reali sul bene” deve intendersi come proprietà superficiaria o proprietà piena che il soggetto possa aver trasferito, a seconda dell’oggetto della convenzione PEEP La frase può considerarsi corrispondente,

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quindi, con la posizione giuridica facente capo al “singolo proprietario” – pieno o superficiario – della precedente versione del comma 49-bis. La nuova lettera della norma, però, più generica, impone comunque di considerare che in sede di stipulazione della convenzione la richiesta possa provenire anche da persone fisiche titolari (o che lo siano state) di diritti reali di godimento costituiti sul bene dall’assegnatario delle unità immobiliari, compatibilmente con le disposizioni in materia di edilizia residenziale pubblica, e con quanto previsto dalla convenzione. Non può escludersi, ad esempio, che la richiesta provenga dal titolare dell’usufrutto o di altro diritto reale a favore del quale l’assegnatario del bene l’abbia costituito, facendosi applicazione della teoria della compatibilità o coesistenza dei diritti reali8, con i limiti e alle condizioni, anche temporali, imposte all’assegnatario9.La previsione che il soggetto legittimato a richiedere la stipulazione sia anche colui che «non sia più titolare di diritti reali sul bene», conduce evidentemente a ritenere che la richiesta possa provenire dal soggetto che non coincida con l’ultimo alienante, ma che si collochi invece all’interno di una catena di trasferimenti (es. assegnatario originario o avente causa da quest’ultimo) e che sia comunque portatore dell’interesse di cui si dirà più avanti.È da ritenere, infine, che la norma per le finalità “sociali” che l’hanno ispirata, consenta la richiesta della stipulazione anche a quelle persone fisiche che pur essendo portatori dell’interesse contemplato dal nuovo comma 49-bis, non risultino però mai essere state formalmente titolari di diritti reali sul bene, né lo siano divenute a seguito di atti traslativi a titolo particolare, ma lo siano diventati, in realtà, “indirettamente”, a seguito di vicende successorie.È il caso, ad esempio, dell’erede del venditore che succedendo nella medesima posizione del de cuius, rinviene nell’universalità dei beni ereditati anche la

8 G. PUGLIESE, Della proprietà. Art. 810-956, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, 575 ss. secondo il quale sarebbe possibile la costituzione di diritti reali di godimento o di garanzia su altri diritti reali sul medesimo bene, con i limiti e alle condizioni, anche eventualmente temporali, imposte al primo superficiario. R. CATERINA, Usufrutto, uso, abitazione e superficie, in Tratt. Sacco, Torino, 2009, 202 che riprende S. SALIS, La superficie, in Tratt. Vassalli, Torino, 1958, 51, ricorda che l’assegnatario del diritto di superficie è pur sempre il proprietario del fabbricato edificato che quindi ne potrà fare «l’uso che ritiene più opportuno: potrà alienarlo, imporvi dei diritti reali di godimento o garanzia, farvi tutte quelle modifiche interne od esterne che ne rendano più comodo l’uso o il godimento».9 Analoga richiesta potrebbe pervenire anche da parte del soggetto rispetto al quale “la legge” fa sorgere un diritto reale, come ad esempio il coniuge superstite, a favore del quale l’art. 540 c.c. riserva il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare.

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facoltà di stipulazione della convenzione ex comma 49-bis che avrebbe potuto esercitare il defunto.Si tratta di una interpretazione estensiva dalla norma, ma una soluzione contraria creerebbe disparità di trattamento tra soggetti destinatari delle richieste restitutorie da parte degli acquirenti attuali titolari del bene. L’erede infatti, pur potendo assumere il ruolo di legittimato passivo in un eventuale giudizio restitutorio, esattamente come coloro che siano o che siano stati proprietari del bene, non potrebbe invece come questi ultimi, avvalersi del nuovo comma 49-bis in quanto mai stato titolare di diritti reali sul bene. Sicché la posizione di erede seppure idonea a fronteggiare la restituzione della differenza di prezzo (prelevandola dall’asse relitto), non sarebbe ugualmente idonea a scongiurare o prevenire tale eventualità, avvalendosi della facoltà concessa dalla nuova disciplina.

1.4. L’interesse alla stipulazione

Come detto, la ratio che ha ispirato il nuovo comma 49-bis, va rinvenuta nella volontà del legislatore di prevenire le pretese restitutorie degli acquirenti nei confronti dei venditori (a tanto legittimati dalla pronuncia della Cassazione del 2015), a cui è stato corrisposto un prezzo superiore a quello vincolato, che è quello che invece avrebbe dovuto essere richiesto a fronte dell’alienazione di un bene di edilizia convenzionata.In ossequio a tale finalità, l’ “interesse” alla stipulazione si rinviene certamente in capo all’alienante, chiamato in giudizio dall’acquirente che vanti la pretesa sopra richiamata, ed anche in assenza di giudizio, nell’ipotesi in cui abbia violato il vincolo sul prezzo massimo di cessione ed intenda evitare possibili conseguenze sanzionatorie o risarcitorie.Analogamente, l’interesse potrebbe ritenersi sussistente in capo al soggetto che, originariamente destinatario di provvedimenti sanzionatori da parte dell’Amministrazione Comunale per violazione della convenzione, abbia trovato con quest’ultima un accordo che passi dalla stipulazione della convenzione ex comma 49-bis.Non può escludersi, inoltre, che un “interesse” rilevante così come considerato dalla norma, possa rinvenirsi, tanto in capo alla persona fisica assegnataria dell’unità immobiliare in diritto di proprietà, prima dell’entrata in vigore della legge n. 106 del 2011 (che ha introdotto i commi 49-bis e ter nell’art. 31 della l. n. 448 del 1998), quanto in capo ai suoi aventi causa che abbiano acquistato prima dell’introduzione di quei commi. Prima del 2011, infatti, la

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legge non riconosceva ai titolari degli alloggi assegnati in diritto di superficie, la facoltà di rimuovere i vincoli sul prezzo massimo di cessione, sicché se questi avessero alienato a titolo oneroso, la proprietà superficiaria trasferita sarebbe stata permanentemente gravata dal vincolo sul prezzo (secondo la tesi di Cass. n. 18135/2015). È solo dal 2011 infatti, con l’art. 49-bis, che si è concessa la facoltà di rimuovere quei vincoli anche per quei soggetti.Analogo interesse sembra rinvenibile, inoltre, in capo a coloro che abbiano posto in essere i medesimi atti traslativi dopo il 2011, ma prima della sentenza a sezioni unite del 2015 della Cassazione, che ha inaugurato il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità poi divenuto orientamento consolidato.Sotto questo profilo non può non venire alla mente il principio sancito dalla Cassazione nel 2011 in relazione alla nullità delle clausole compromissorie di arbitrato. Quella pronuncia stabilì che determinati atti notarili sarebbero stati sanzionabili con l’art. 28 l. not. ove ricevuti dopo una certa data (e cioè il 1° settembre 2011) perché dopo quella data poteva ritenersi pacifica l’interpretazione nomofilattica da parte della Cassazione su quella questione10.

2. Convenzioni PEEP in diritto di superficie

La nuova formulazione del comma 49-bis impone di verificare se la portata delle modifiche al quadro normativo di riferimento, da cui muovevano le interpretazioni dottrinali e – soprattutto – giurisprudenziali, sia tale da condurre ad una diversa soluzione interpretativa, con riferimento al perimetro applicativo di quella norma11.Se si guarda alle convenzioni in diritto di superficie, il regime degli atti di alienazione che vi si ricollegano, non viene toccato dalla nuova disciplina, nel senso che i beni negoziati soggiacciano al vincolo sul prezzo massimo di cessione, così come sancito dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 18135 del 2015, che ha qualificato come “onere reale” il vincolo sul prezzo derivante dalle convenzioni stipulate in base all’art. 35 l. n. 865 del 197112.

10 Cass., 22 settembre 2011, n. 21202, in Giur. it., 2012, 10, 2033, che ha ritenuto che l’interpretazione “pacifica”, tale da determinare l’orientamento consolidato, poteva ritenersi raggiunta negli operatori giuridici, decorso il tempo necessario alla diffusione delle due precedenti pronunce del S.C. che la precedevano, e quindi alla fine di agosto 2011.11 Tale operazione ermeneutica, tuttavia, non potrà ignorare che l’applicazione del nuovo precetto dovrà avvenire sempre ratione temporis, facendo riferimento al quadro normativo vigente e all’interpretazione che dello stesso si prospettava in un determinato periodo.12 Secondo il ragionamento delle sezioni unite, il vincolo sul prezzo massimo di cessione nasce

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Per queste convenzioni la novità di rilievo è costituita dall’introduzione della sanzione di inefficacia della clausola sul prezzo, limitatamente alla differenza tra prezzo convenuto e prezzo vincolato. Precedentemente la legge non prevedeva nessuna sanzione per l’ipotesi in cui fosse violata quella clausola, perché era la convenzione che avrebbe dovuto prevederla (art. 35 comma 8 l. n. 865 del 1971) e solo a questa si sarebbe dovuto far riferimento. Su tale aspetto si rinvia al par. 4.1.Per gli atti derivanti da queste convenzioni, quindi, ricorrendo i presupposti introdotti dal d.l. n. 118 del 2019, resta inalterata la facoltà di rimuovere quel vincolo senza alcun limite temporale.Questo vale anche per gli atti di trasferimento stipulati prima del 13 luglio 2011 sulla base delle convenzioni in diritto di superficie stipulate prima di quella data (e quindi antecedentemente dell’entrata in vigore dei commi 49-bis e 49-ter), periodo nel quale non era consentita la rimozione del vincolo sul prezzo di cessione. Il nuovo art. 25-undecies comma 2 non lascia infatti spazio a dubbi in tale senso, quando prevede che il (nuovo) comma 49-bis si applica anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 119 del 2018.

3. Convenzioni PEEP in diritto di proprietà

Quanto alle convenzioni in diritto di proprietà occorre interrogarsi sulla portata dell’eliminazione dal comma 49-bis, del riferimento temporale della data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 179, e cioè il 15 marzo 1992.Fino a questa data, l’originaria formulazione dell’art. 35 della l. n. 865 del

comunque dalla legge, ancorché questa preveda – come nell’art. 35 l. n. 865 del 1971 – che l’individuazione della clausola sia fatta da altra fonte (e cioè la convenzione). Questo perché, secondo la Cassazione, quando la legge delega la fissazione di un prezzo ad un atto amministrativo o ad una convenzione, questi atti in quanto promananti da una specifica delega legislativa, traggono da quest’ultima, direttamente, il carattere dell’imperatività, il che giustificherebbe peraltro l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1339 e 1419 comma 2 c.c. alla clausola sul prezzo superiore a quello di “legge”, inserita nel contratto di vendita. Corre l’obbligo di segnalare che la pronuncia delle sezioni unite nulla ha detto per l’ipotesi (molto frequente) in cui la convenzione ometta di regolamentare quanto richiesto dall’art. 35, comma 8, lett. e) (criteri per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi) ed f) (sanzioni) l. n. 865 del 1971. Sulle possibili conseguenze della violazione del prezzo massimo di cessione quando nulla sia stabilito nella convenzione, si rinvia a G. RIZZI, Ulteriori considerazioni in tema di edilizia residenziale convenzionata (ad integrazione dello Studio n. 521-2011/C), in Studi e materiali, 2013, 3, 681.

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1971 non contemplava, per gli alloggi realizzati in base a convenzione PEEP in diritto di proprietà, alcun vincolo sul prezzo massimo di cessione così come inteso per le convenzioni in diritto di superficie, ma un divieto di alienazione. Nel senso che il trasferimento sarebbe potuto avvenire solo «al prezzo fissato dall’ufficio tecnico erariale”, il cui pagamento, previsto dagli abrogati commi 16 e 17, era condizione necessaria per il trasferimento. Non quindi un prezzo massimo di cessione in presenza della libera cedibilità degli alloggi, ma un divieto di alienazione – assistito dalla sanzione della nullità – eliminabile con la corresponsione di un prezzo fissato dall’Autorità comunale.Successivamente l’art. 23 legge 17 febbraio 1992, n. 179 (c.d. Ferrarini Botta), con l’abrogazione dei commi dal quindicesimo al diciannovesimo dell’articolo 35 della legge n. 865 del 1971, ha definitivamente eliminato tutti i vincoli relativi alla circolazione degli immobili contenuti in queste convenzioni (divieti di alienazione, di locazione e di cessione in violazione del prezzo imposto).Relativamente a queste unità immobiliari, sebbene realizzate in forza di convenzioni in proprietà stipulate prima del 15 marzo 1992 (e quindi nella vigenza di quei vincoli), l’opinione prevalente – condivisibile – ha sempre ritenuto che il trasferimento delle stesse che fosse avvenuto dopo quella data, non dovesse soggiacere ad alcun limite di prezzo massimo. E questo perché, si riteneva, il negozio di trasferimento dovesse essere regolato dalla disciplina in vigore al momento della sua stipulazione e non da quella vigente al momento della stipulazione della convenzione in proprietà. Venuta meno nel 1992 la fonte normativa che fondava il divieto di alienazione, non aveva più alcuna rilevanza giuridica che la convenzione contenesse il divieto ormai abrogato, al quale tutt’al più poteva riconnettersi un valore meramente pattizio13.Con riferimento alle unità immobiliari realizzate in base a convenzioni PEEP in proprietà stipulate prima del 15 marzo 1992, pertanto, si è sempre ribadita la libera trasferibilità delle stesse anche dopo l’entrata in vigore, nel 2011, del nuovo comma 49-bis14.

13 G. CASU, L’edilizia residenziale pubblica. Problematiche notarili, Studio CNN n. 171-2008/C, in Studi e materiali, 2008, 3, 1020; G. RIZZI, La disciplina sull’edilizia residenziale convenzionata dopo il decreto sviluppo, 2011, studio CNN n. 521-2011/C, in Studi e materiali, 2012, 1, 87, secondo il quale i divieti di alienazione contenuti nei commi abrogati dall’art. 23 della l. n. 179 del 1992, non erano generati dalla convenzione ma la loro fonte risiedeva esclusivamente nella legge (come confermato dal fatto che erano presidiati dalla sanzione della nullità la quale non può avere fonte convenzionale ma legale).14 Per tale ragione appariva oscuro, rispetto alle convenzioni in diritto di proprietà stipulate prima della legge Ferrarini-Botta, la circostanza che il comma 49-bis della legge n. 448 del 1998 (già nella sua originaria formulazione) avesse esteso (solo) a queste convenzioni la possibilità di rimuovere i vincoli sul prezzo massimo di cessione.

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La rimozione del riferimento temporale del 17 febbraio 1992, inoltre, appare del tutto ininfluente per le convenzioni in proprietà stipulate tra il 15 marzo 1992 (data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992) ed il 1° gennaio 1997 (data di entrata in vigore della legge n. 662 del 1996 – finanziaria per l’anno 1997), lasso temporale nel quale l’art. 35 l. n. 865 del 1971 non conteneva alcun vincolo di prezzo alla circolazione degli alloggi realizzati in proprietà. Sicché le convenzioni stipulate in questo periodo non avrebbero potuto contenere alcun limite alla circolazione degli alloggi.Per le convenzioni in diritto di proprietà stipulate dopo il 1° gennaio 1997, invece, il vincolo alla circolazione dell’alloggio è quello che discende dall’ “osservanza delle disposizioni” dell’art. 8 commi 1, 4 e 5 l. n. 10 del 1977 (legge Bucalossi), così come ora è previsto dall’art. 35, comma 13 della l. n. 865 del 1971, modificato dall’art. 3, comma 63 della l. n. 662 del 1996. Dopo questa legge, infatti, il costruttore che intenda stipulare con il Comune una convenzione PEEP in diritto di proprietà, deve utilizzare lo strumento della convenzione Bucalossi, il cui schema (oggi riprodotto nell’art. 18 TU edilizia, d.P.R. n. 380 del 2001) prevede appunto che si indichi il prezzo massimo di cessione degli alloggi realizzati. La sanzione prevista nell’ultimo comma di questa norma è la nullità della pattuizione – testualmente prevista – nella parte in cui è stipulata in misura eccedente il prezzo massimo.

3.1. Convenzioni PEEP in diritto di proprietà stipulate dopo la legge n. 179 del 1992

L’eliminazione dal comma 49-bis del requisito temporale della data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992 (15 marzo 1992), sembra introdurre un elemento di chiarezza, consentendo di ricostruire più agevolmente la situazione giuridica facente capo agli acquirenti di alloggi di edilizia convenzionata.Non si comprendeva, infatti, per quale ragione nel comma 49-bis fosse consentita la rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione solo per le convenzioni in proprietà anteriori al 1992, dal momento che proprio a seguito della l. n. 179 del 1992 erano stati abrogati tutti i limiti alla circolazione delle unità immobiliari realizzate in forza di tali convenzioni. Né poteva sostenersi che la previsione di quel limite temporale, valesse come volontà implicita del legislatore di ripristinare (o reintrodurre) i vincoli abrogati, poiché tale effetto avrebbe dovuto essere espressamente previsto dal legislatore. Non solo, si era anche chiarito – come già detto – che gli alloggi PEEP acquistati con atti posti in essere dopo il 15 marzo 1992, sebbene la convenzione

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regolatrice dello status del bene fosse anteriore a tale data15, potessero circolare liberamente, dovendosi considerare privi di limiti alla circolazione (compreso il vincolo di prezzo quale limite al divieto di alienazione), sicché il proprietario di quelle unità immobiliari non avrebbe dovuto fare ricorso alla convenzione ex comma 49-bis.La dottrina quindi concludeva che la previsione della data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992 nell’originaria formulazione del comma 49-bis, fosse il risultato di una mera “svista” in sede di compilazione della norma.L’eliminazione dell’inciso «precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992 n. 179» (15 marzo 1992), quindi, rimuove la disuguaglianza temporale tra le diverse convenzioni PEEP in proprietà, legittimando alla stipulazione della convenzione di rimozione dei vincoli sul prezzo anche rispetto alle convenzioni in proprietà stipulate dopo il 1992.Ora, poiché per le convenzioni in proprietà stipulate tra il 1992 e il 1997, non sussiste alcun limite alla circolazione dei beni, ne consegue che le sole convenzioni PEEP in proprietà stipulate dopo il 1992 che contengono il limite sul prezzo massimo di cessione, sono solo quelle stipulate dopo il 1° gennaio 1997, secondo lo schema delle convenzioni Bucalossi richiamato dal comma 13 dell’art. 35 l. 865 del 1971, per le quali tale limite discende dall’art. 18 del TU edilizia, sanzionato con la nullità parziale della clausola dal comma 516.

4. Le convenzioni Bucalossi e il comma 49-ter

È da ritenere che per le convenzioni ERP in proprietà stipulate dal 1° gennaio 1997, l’eliminazione del riferimento alla data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992, unitamente alla ratio posta a base del d.l. n. 119 del 2018, consenta di reimpostare più chiaramente la questione relativa all’ambito applicativo del comma 49 ter e, di riflesso, del comma 49-bis.La prima norma (non modificata dal d.l. n. 119 del 2018) stabilisce che «le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano anche alle convenzioni previste dall’articolo 18 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380».

15 Per gli atti stipulati prima del 1992 in violazione dei divieti di alienazione, contenuti in convenzioni stipulate prima del 1992, la conseguenza è l’illegittimità degli stessi.16 Un riferimento alla data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992, quanto alle convenzioni proprietà, è ancora contenuto nel comma 46 dell’art. 31. Ma in questo caso non per differenziare in ordine alla rimozione del prezzo massimo di cessione, quanto per individuare le convenzioni da sostituire con quelle Bucalossi, secondo i termini indicati dalla lett. a).

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Il dubbio che si poneva, quindi, era comprendere se il comma 49 ter, richiamando le convenzioni previste dall’art. 18 del TU edilizia, avesse inteso riferirsi solo a queste (e quindi alle convenzioni di edilizia privata, finalizzate ad ottenere una riduzione del contributo concessorio), oppure a quelle di edilizia residenziale pubblica (ispirate a ben altre finalità) anche se “vestite” da convenzioni Bucalossi, in quanto stipulate in base all’art. 35 comma 13 l. n. 865 del 1971, che impone l’osservanza dello schema di queste convenzioni (oggi disciplinato dall’art. 18 del TU edilizia).La prima lettura, volta ad ammettere l’estensione della procedura di rimozione dei vincoli alle sole convenzioni edilizie di diritto privato (convenzioni Bucalossi “pure”), poteva contare su un’interpretazione delle disposizioni orientata in questa direzione, ferma restando la laconicità ed incertezza del quadro normativo generale.In effetti il richiamo del comma 49-ter al comma 49-bis, che limitava la procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo alle sole convenzioni ERP stipulate prima del 1992, poteva lasciare intendere che le convenzioni che potevano beneficiare di quella procedura potessero essere solo quelle private, nate come vere e proprie convenzioni regolate dall’art. 8 commi 1, 4 e 5 l. n. 10 del 1977 (legge Bucalossi). È solo a partire dal 1° gennaio 1997, infatti, che è stata imposta l’adozione dello schema delle Convenzioni Bucalossi per le convenzioni ERP in proprietà stipulate a partire da quella data.La non applicabilità della procedura de qua alle convenzioni ERP stipulate dopo il 199217, infatti, portava ad escludere che il richiamo del comma 49-ter potesse valere anche per le convenzioni ERP in proprietà stipulate (dal 1997) secondo la forma delle convenzioni Bucalossi.Il richiamo al comma 49-bis, quindi, poteva essere letto come volontà del legislatore di introdurre una (speciale) procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo per le sole convenzioni Bucalossi pure – fino ad allora inesistente e dunque non contemplata dal comma 49-bis – e quindi circoscrivere solo a tali convenzioni la portata del comma 49-ter.È evidente che aderendo a questa ricostruzione, il comma 49-ter applicandosi alle sole convenzioni Bucalossi “pure” (e non a quelle ERP) si caratterizzava come la sola la disposizione non destinata a regolare la materia dell’edilizia

17 In realtà il vincolo sul prezzo massimo di cessione, viene in considerazione solo per le convenzioni ERP in proprietà stipulate dopo il 1° gennaio 1997, poiché l’art. 35 l. n. 865 del 1971, nel lasso temporale tra il 15 marzo 1992 (data di entrata in vigore della legge n. 179 del 1992 c.d. Ferrarini-Botta) ed il 1° gennaio 1997 (data di entrata in vigore della legge n. 662 del 1996 – finanziaria per l’anno 1997, che ha novellato l’art. 35 nella sua attuale formulazione), non conteneva alcun vincolo di prezzo per la circolazione degli alloggi ERP realizzati in proprietà.

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residenziale pubblica, per quanto collocata all’interno del blocco di norme che tale materia disciplinano, ricomprese dal comma 45 al comma 49-quater dell’art. 31 del d.lgs. n. 448 del 199818.Analizzando gli effetti della modifica apportata al comma 49-bis, è da ritenere che tale interpretazione del comma 49-ter precedente al d.l. n. 119 del 2018 resti confermata, con la conseguenza che la procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione trova ora due distinti ed autonomi ambiti di operatività.Il primo nell’art. 49-bis, esclusivamente riferito alle convenzioni ERP disciplinate dall’art. 35 della l. n. 865 del 1971. L’altro nel comma 49-ter, destinato a regolare l’eliminazione di quei vincoli dalle convenzioni disciplinate dall’art. 18 TU edilizia (già art. 8 l. n. 10 del 1977) venendo circoscritta la portata del comma 49-ter alle sole convenzioni regolate e disciplinate da questa norma.L’avere consentito il legislatore l’accesso alla procedura di eliminazione dei vincoli a tutte – indistintamente – le convenzioni ERP in proprietà anche se “vestite da Convenzioni Bucalossi”, in quanto stipulate dopo il 1992 secondo lo schema di quelle convenzioni (come stabilito dall’art. 35 comma 13 della l. n. 865 del 1971), porta a ritenere che per queste convenzioni, è all’interno del comma 49-bis che deve essere rinvenuta la procedura per la rimozione dei vincoli sul prezzo, divenendo quindi norma “autosufficiente”, non dovendo più preoccuparsi l’interprete di ricorrere al comma 49-ter per individuare la norma applicabile alle convenzioni ERP in proprietà stipulate dopo il 1992.Se si aderisce a questa ricostruzione è agevole risolvere la questione relativa alla sorte degli atti traslativi degli alloggi stipulati in base alle convenzioni ERP in proprietà, stipulate dopo il 1° gennaio 1997 (data di entrata in vigore del nuovo comma 13 dell’art. 35 l. n. 865 del 1971).Per questi beni sarà possibile infatti la rimozione dei vincoli sul prezzo facendo applicazione del comma 49-bis, anche sulla base dell’art. 25-undecies comma 2 del d.l. n. 119 del 2018, il quale lo estende agli “immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione” del d.l. n. 119 del 2018.

18 Già prima del d.l. n. 119 del 2018 poteva sostenersi l’estraneità delle convenzioni Bucalossi c.d. “pure”, dalla materia dell’edilizia residenziale pubblica oggetto dei commi 45 e seguenti, materia sulla quale è poi intervenuto il d.l. n. 70 del 2011 modificando l’impianto dell’art. 31 d.lgs. n. 448 del 1998, senza che l’intervento normativo fosse indirizzato anche all’edilizia privata. Ciò sembra confermato dal fatto che quando la legge di conversione (legge n. 106 del 2011) ha inserito il comma 3-bis nell’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011 – e così introducendo i commi 49-bis e ter nell’art. 31 d.lgs. n. 448 del 1998 – non ha pensato di integrare il precedente comma 2 dell’art. 5,

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Dalla portata “omnicomprensiva” del comma 49-bis discende, conseguentemente, che il perimetro applicativo del comma 49 ter è ora destinato a racchiudere le sole convenzioni Bucalossi “pure” nate ex art. 8 l. n. 10 del 1977 (oggi art. 18 TU edilizia), dovendosi pertanto intendere il richiamo alla procedura di rimozione dei vincoli del comma 49-bis, come integrativa della disciplina contenuta nell’art. 18 TU edilizia. Confermandosi, quindi, l’estraneità – per materia – del comma 49-ter dal blocco di norme di edilizia residenziale pubblica tra le quali è collocato.L’applicazione della procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo anche alle convenzioni Bucalossi “pure”, pone in ogni caso dei dubbi interpretativi.Il primo dei quali è certamente quello relativo alla reale necessità di avere una norma come il comma 49-ter, che consenta di rimuovere i vincoli sul prezzo massimo di cessione anche da queste convenzioni, vincoli della cui esistenza in capo ai successivi aventi causa dal costruttore è lecito dubitare.A questo proposito, prima dell’introduzione del comma 49-ter, l’orientamento giurisprudenziale prevalente19 era nel senso di escludere l’ambulatorietà del vincolo sul prezzo massimo di cessione dal costruttore verso i suoi aventi causa. I giudici ritenevano che la lettera degli articoli 7 e 8 della legge n. 10 del 1977, fosse chiara nell’individuare in chi abbia ottenuto la concessione edilizia a contributo ridotto (e cioè il costruttore) – e, quindi, concluso con il comune la convenzione necessaria (ovvero l’atto d’obbligo equivalente) – il destinatario degli obblighi assunti di contenere i prezzi di cessione ed i canoni di locazione degli alloggi, nei limiti indicati nella stessa convenzione e per la prevista durata di sua validità. Giungendo pertanto a sancire che l’estensione di questi obblighi ad altri soggetti e, in particolare, a chi sia acquirente dell’alloggio dal concessionario costruttore – in base ad una non meglio precisata “obbligazione “propter rem” – non trova giustificazione nella esplicita norma di legge, che non esprime alcun riferimento soggettivo ulteriore rispetto a quello del concessionario costruttore.Una diversa impostazione che volesse sostenere la trasmissione dell’obbligo di rispettare il prezzo massimo di cessione, dal costruttore ai successivi aventi causa, dovrebbe riconnettere all’entrata in vigore del comma 49-ter, l’effetto di aver tacitamente assegnato all’obbligo di contenere i prezzi di cessione degli alloggi nei limiti indicati nella stessa convenzione, il valore di obbligazione

contenente tutte le modifiche al TU edilizia, inserendovi una norma ad hoc per la rimozione del prezzo massimo di cessione per le convenzioni Bucalossi.19 Cass., 2 ottobre 2000, n. 13006, in Riv. not., 2001, 422; Cass., 4 aprile 2011, n. 7630, in Riv. not., 2011, 1417.

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“propter rem” – per chi lo ritenga ammissibile – quindi opponibile erga omnes, nonostante il titolo costitutivo del vincolo sia di tipo negoziale e non legale.Solo così sarebbe possibile sostenere il subentro dei successivi acquirenti, nei vincoli sulla determinazione del prezzo di cessione discendenti dalla “convenzione Bucalossi”, e quindi estendere la sanzione della nullità (dei patti sui prezzi o canoni di locazione in eccedenza) non solo ai trasferimenti posti in essere dal costruttore, ma anche dei successivi aventi causa per tutta la durata della convenzione. Aderendo a questa ricostruzione, avrebbe senso l’estensione anche alle convenzioni Bucalossi “pure” del presupposto per accedere alla procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo per le convenzioni ERP, costituito dal decorso di almeno «cinque anni dalla data del primo trasferimento», contento nel comma 49-bis richiamato dal comma 49-ter.Ove si ritenga di aderire a questa seconda impostazione, l’altro interrogativo riguarderebbe il diverso trattamento sanzionatorio riservato alle clausole sul prezzo “contra legem” contenuto nelle convenzioni ERP rispetto alle convenzioni Bucalossi.Per le prime viene ora stabilito dal nuovo comma 49-quater, che il contratto di trasferimento dell’immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato, mentre l’art. 18 del TU n. 380 del 2001 sancisce la nullità di ogni pattuizione stipulata in violazione dei prezzi di cessione per la parte eccedente.Occorre chiarire pertanto quale sia il regime sanzionatorio per le clausole che stabiliscano un prezzo eccedente quello massimo consentito, contenute nelle convenzioni ERP stipulate secondo lo schema di quelle Bucalossi. E quindi se il regime sia quello dell’inefficacia (art. 49-quater) o quello della nullità (art. 18, comma 5 TU edilizia).

4.1. Il comma 49-quater e la nuova sanzione di inefficacia

La l. n. 136 del 2018 ha inserito nell’art. 31 del d.lgs. n. 448 del 1998 il comma 49-quater20 il quale, a fronte delle clausole sul prezzo che non rispettino i limiti

20 Così recita il comma 49-quater: «In pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi 49-bis e 49-ter, il contratto di trasferimento dell’immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. L’eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter. La rimozione del vincolo del prezzo massimo di cessione comporta altresì la rimozione di qualsiasi vincolo di natura soggettiva».

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imposti, prevede un meccanismo sanzionatorio21, sancendo che la “differenza” di prezzo pagata in eccedenza dal compratore, resta ”inefficace” («… non produce effetti …») fino al momento in cui non venga attivata la procedura per la rimozione del vincolo sul prezzo22.Che il nuovo comma 49-quater abbia introdotto una sanzione di inefficacia (prima inesistente) per le convenzioni ERP, sia in proprietà che in superficie, sembra piuttosto evidente, ove si consideri che se l’inefficacia stabilita dal comma 49-quater fosse quella derivante dalla nullità della clausola contra legem – discendente, secondo la prospettazione delle sezioni unite n. 18135/2015, dal combinato disposto degli articoli 35 l. n. 865 del 1971, 1339 e 1419 comma 2 c.c. – non vi sarebbe stata alcuna ragione per introdurla. Inoltre se tale inefficacia fosse connessa alla nullità sopra indicata, poiché è espressamente previsto che l’inefficacia è temporalmente limitata alla durata del procedimento amministrativo di rimozione del vincolo sul prezzo (cfr. comma 49-quater), coerentemente si dovrebbe ammettere che anche la nullità della clausola contra legem dovrebbe essere limitata nel tempo, in deroga al principio generale della imprescrittibilità dell’azione di nullità (art. 1422 c.c.). Le conseguenze che scaturiscono dall’introduzione della sanzione

21 È di incerto significato il comma 49-quater nella parte in cui accenna alla rimozione ope legis di «qualsiasi vincolo di natura soggettiva» derivante dalla stipulazione della convenzione.È noto, infatti, come sia nell’art. 35 della legge n. 865 del 1971 che nell’art. 18 del d.P.R. n. 380 del 2001, non sono presenti vincoli (o requisiti) soggettivi in capo all’acquirente quali condizioni per l’acquisto di immobili di edilizia convenzionata (previsti solo nell’ambito dell’edilizia sovvenzionata, ad esempio cittadinanza, residenza, reddito, ecc.). Ne consegue che il solo significato che è possibile far discendere da questa parte del comma 49-quater, è quello di ricollegare alla stipulazione della rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione, l’automatica rimozione dei vincoli di natura soggettiva stabiliti, però, pattiziamente all’interno delle convenzioni PEEP.22 Tale previsione se letta insieme alla seconda parte della norma ha indubbiamente una valenza processuale, facendo comprendere come l’inefficacia ivi prevista, non impedisca comunque al compratore di agire giudizialmente per pretendere la restituzione della differenza di prezzo. È stabilito infatti che «l’eventuale pretesa di rimborso … si estingua con la rimozione dei vincoli». È comunque plausibile sostenere che l’ “inefficacia” della differenza di prezzo tra quello convenuto e quello vincolato, vada inteso quale inefficacia della sola clausola nella quale viene fissato il prezzo di vendita in misura eccedente rispetto a quello massimo stabilito (così, invece, G. RIZZI, Le novità in materia di edilizia residenziale convenzionata, cit., 18). Anche perché l’impiego della frase «limitatamente alla differenza di prezzo», non può che legarsi all’inciso precedente sulla mancata produzione di effetti del contratto, il cui senso viene appunto corretto nel senso dell’inefficacia della singola clausola del negozio.È comunque plausibile sostenere che l’ “inefficacia” della differenza di prezzo tra quello convenuto e quello vincolato, vada inteso quale inefficacia della sola clausola nella quale viene fissato il prezzo di vendita in misura eccedente rispetto a quello massimo stabilito.

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dell’inefficacia sembrano rilevare sotto un duplice profilo, operando infatti diversamente il comma 49-quater a seconda del tipo di convenzione PEEP e del tempo di stipulazione, in alcuni casi colmando una lacuna, in altri casi sostituendo l’inefficacia al posto di una sanzione già prevista. Da un lato la “lacuna” viene colmata, ad esempio, con riferimento alle clausole non rispettose del vincolo sul prezzo massimo di cessione, contenute negli atti di trasferimento stipulati sulla base di convenzioni PEEP non contenenti alcuna sanzione. Ci si riferisce alle convenzioni in diritto di superficie, rispetto alle quali l’art. 35 comma 8 lett. f) l. n. 865 del 1971 non stabilisce alcuna sanzione, ma prevede solo che debbano essere indicate dalla convenzione “le sanzioni” per la violazione degli obblighi contenuti nella convenzione stessa. Per queste convenzioni la mancata previsione di un meccanismo sanzionatorio, aveva portato prima dell’introduzione dei commi 49-bis e ter nella legge n. 448 del 1998 ma, soprattutto, prima delle sezioni unite della Cassazione n. 18135/2015, a prospettare sul piano interpretativo, una serie di possibili conseguenze per le clausole sul prezzo contra legem: nullità dell’intero contratto (ipotizzando una – errata – estensione della disciplina in materia di edilizia sovvenzionata); annullabilità dello stesso per errore essenziale ex art. 1429 c.c. (nel senso che l’errore cadrebbe sulla mancata conoscenza da parte del venditore del prezzo imposto); nullità parziale della clausola sul prezzo, in base al combinato disposto dell’art. 1339 e 1419 c.c.; risarcimento del danno23.Dall’altro lato, invece, la previsione di inefficacia della clausola sul prezzo determina una “sostituzione” delle sanzioni già previste dalla legge per la violazione del prezzo massimo di cessione. In questo caso ci si riferisce alle convenzioni ERP in proprietà stipulate dopo il 1° gennaio 1997 e quindi, a quelle stipulate secondo lo schema delle Convenzioni Bucalossi, dopo che la legge finanziaria del 1997 (legge n. 662 del 1996), modificando il comma 13° dell’art. 35 l. n. 865 del 1971, così aveva imposto di stipularle.Per queste convenzioni, in quanto stipulate nel rispetto dell’intero art. 18, si pone un problema di coordinamento tra il comma 5 di questa norma, nel quale si rinviene l’attuale disciplina sanzionatoria delle convenzioni Bucalossi (e cioè la nullità per la parte eccedente di prezzo) e il nuovo comma 49-quater che prevede invece la semplice inefficacia.È da ritenere che condividendo in parte una recente opinione manifestata sul punto, per le convenzioni di edilizia residenziale pubblica in proprietà, stipulate

23 Si rinvia a G. RIZZI, Ulteriori considerazioni, cit. che compie una rassegna analitica delle varie ipotesi.

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ai sensi del comma 13° dell’art. 35 l. 865 del 1971, come modificato nel 1997, la sanzione introdotta dal comma 49-quater, di “inefficacia” delle clausole sul prezzo contra legem contenute nei contratti traslativi della proprietà, impedisca l’applicazione24, a queste convenzioni del comma 5 dell’art. 18 del TUE contenente la previsione della nullità della pattuizione stipulata in violazione dei prezzi di cessione per la parte eccedente. Ciò appare coerente, d’altronde, con la ricostruzione prospettata nel paragrafo precedente, in cui si sono delineati due diversi ambiti applicativi del comma 49-bis e del comma 49-ter, il primo riferito alle sole convenzioni ERP (anche se stipulate secondo lo schema delle convenzioni Bucalossi), l’altro riferito alle sole convenzioni private stipulate ex art. 18 del TUE (c.d. Bucalossi “pure”).Il richiamo allo schema delle convenzioni Bucalossi per la stipulazione delle convenzioni ERP in proprietà, quindi, deve intendersi come riferito all’intero schema delineato dall’art. 18 del TUE, ad esclusione del regime sanzionatorio contenuto nel comma 5.Da tanto discende che è consigliabile adottare una particolare cautela nell’estendere la nuova sanzione di inefficacia anche alle clausole contenute nei contratti traslativi, stipulati in forza delle Convenzioni Bucalossi c.d. “pure”, e cioè riconducibili esclusivamente (e stipulate in base) all’art. 18 del TU dell’edilizia, e quindi ritenere che il nuovo comma 49-quater abbia determinato un’abrogazione tacita della sanzione di nullità di cui al comma 5 dell’art. 18 del TUE25.Non sembra infatti possa sostenersi che si sia verificata tale conseguenza, in base a quanto previsto dall’art. 15 delle preleggi, poiché quell’abrogazione presuppone l’incompatibilità tra le nuove disposizioni di legge e quelle precedenti. Tale incompatibilità, ricorda la Cassazione nel 200226, si verifica solo quando «tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché dalla applicazione ed osservanza della nuova legge, non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra».Rispetto alle convenzioni Bucalossi “pure”, invero, il comma 5, dell’art. 18 del TU edilizia ha un suo specifico campo di operatività, per cui non si ravvisa

24 G. RIZZI, Le novità in materia di edilizia residenziale convenzionata, cit., 18 il quale però ritiene che il comma 49-quater, quale norma sopravvenuta, abbia determinato tout court l’abrogazione tacita nell’art. 18, comma 5, della parte in cui si prevede la nullità.25 È seriamente dubitabile infatti che il comma 49-quater, quale norma sopravvenuta, abbia determinato tout court l’abrogazione tacita della nullità prevista nel comma 5 dell’art. 18 TUE. Così, invece, G. RIZZI, Le novità in materia di edilizia residenziale convenzionata, loc. cit.26 Cass., 1° ottobre 2002 n. 14129.

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alcuna impossibilità nell’applicare integralmente questa disciplina (contenente la previsione di nullità parziale) a quelle convenzioni per le quali è stata pensata, contemporaneamente all’applicazione del comma 49-quater in un diverso ambito.

5. La disciplina attuativa

In base al comma 49-bis la nuova disciplina sembra avere completa attuazione solo a seguito dell’emanazione27 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, che dovrà stabilire la percentuale per la determinazione del corrispettivo da pagare al Comune per la rimozione del vincolo sul prezzo, oltre ai criteri e alle modalità per la concessione da parte dei Comuni, di dilazioni di pagamento del corrispettivo (art. 25-undecies comma 3, d.l. n. 119 del 2018). Ci si chiede se nelle more dell’emanazione del suddetto decreto28, sia possibile stipulare la convenzione di rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione, secondo quanto previsto dall’attuale comma 49-bis dell’art. 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448.Tale norma prevede che la rimozione mediante convenzione stipulata con il Comune (per atto pubblico o per scrittura privata autentica), avvenga a fronte della corresponsione a favore di questo ente di «un corrispettivo … determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall’applicazione del comma 48 del presente articolo. La percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l’applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Il decreto di cui al periodo precedente individua altresì i criteri e le modalità per la concessione da parte dei comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancazione dal vincolo».

27 Entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore (19 dicembre 2018) della legge di conversione del decreto legge n. 119 del 2018. 28 Anche l’originaria formulazione del comma 49-bis, come introdotto dalla legge n. 106 del 2011, aveva previsto che «la percentuale di cui al presente comma è stabilita, anche con l’applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Successivamente l’art. 29 comma undecies della legge n. 14 del 2012 (di conversione del d.l. 29 dicembre 2011, n. 216) ha affidato ai Comuni il compito di fissare tale percentuale.

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Nel meccanismo delineato dal legislatore, il ruolo affidato al decreto ministeriale è circoscritto alla fissazione della percentuale del corrispettivo (oltre ai criteri e alle modalità per la concessione di dilazioni di pagamento e di affrancazione del vincolo), da calcolarsi facendo applicazione del precedente comma 48 al quale la norma fa espresso rinvio (il comma 48 recita: «il corrispettivo delle aree cedute in proprietà è determinato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello determinato attraverso il valore venale del bene, con la facoltà per il comune di abbattere tale valore fino al 50 per cento, al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall’Istat»).A ben vedere, quindi, la vera e propria fase di determinazione del corrispettivo è rimessa all’Autorità Comunale ai sensi del comma 48, mentre l’emanando decreto ministeriale stabilirà solo un elemento accessorio, di natura economica, non destinato a creare preclusioni sul piano giuridico, sostanziandosi in una riduzione del corrispettivo (peraltro ulteriormente ridotto in «relazione alla durata residua del vincolo») già determinato dal Comune, nell’esclusivo interesse delle persone fisiche che richiedono la stipulazione della convenzione. Il meccanismo delineato dal comma 49-bis, quindi, non introduce un nuovo criterio di individuazione del corrispettivo, diverso e alternativo rispetto a quello del comma 48, la cui operatività ricadendo interamente nella competenza dell’ente comunale, non risulta condizionata dall’emanazione del decreto ministeriale29.Il comma 48 è norma autonoma rispetto al comma 49-bis, operando all’interno della disciplina sull’edilizia convenzionata come disposizione a regime, necessaria per il funzionamento di altre disposizioni. La procedura di determinazione del corrispettivo stabilita in questa disposizione, infatti, è impiegata dall’autorità comunale per calcolare il corrispettivo per la sostituzione delle convenzioni in proprietà in convenzioni Bucalossi secondo quanto previsto

29 Nello stesso senso Trib. Roma, ord., 17 giugno 2019 (inedita) il quale ritiene che «la mancata emanazione del decreto attuativo – che deve determinare la percentuale del corrispettivo risultante dall’applicazione del comma 48 dell’articolo 31, quindi indirettamente il prezzo di affrancazione dell’alloggio e i criteri e le modalità per la concessione da parte dei Comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancazione dal vincolo – rende inoperante la novella solo per quanto riguarda la determinazione dei nuovi criteri di quantificazione degli oneri di affrancazione e delle modalità di pagamento. Infatti la misura dell’onere di affrancazione e le modalità di pagamento sono indipendenti dalla legittimazione a chiedere l’affrancazione, per cui non c’è motivo di ritenere che l’inapplicabilità della riforma di esse interferisca con riforma della legittimazione Pertanto, fino all’emanazione del decreto attuativo, gli oneri di affrancazione e le modalità di pagamento sono regolati dalle disposizioni legislative e regolamentari previgenti».

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dal comma 46 lett. b) e per la trasformazione del diritto di superficie in piena proprietà ai sensi del comma 47.Quando il Comune sia pervenuto alla determinazione del corrispettivo, tale elemento è stabilito in via definitiva, ed è impiegabile non solo in previsione dell’emanazione del decreto di cui al comma 49-bis, nell’ambito della procedura di rimozione dei vincoli sul prezzo, ma anche rispetto ad una delle fattispecie previste dai commi 46 e 47 sopra ricordati, essendo stato determinato secondo un meccanismo legale e con riferimento a dati storici (il valore venale del bene al tempo del calcolo).La rilevanza autonoma del corrispettivo determinato ai sensi del comma 48, porta a ritenere che l’iter per la rimozione del prezzo massimo di cessione delineato dal comma 49-bis, sia rapportabile ad un “procedimento”, caratterizzato da una sequenza di atti ed eventi destinati a rimanere strutturalmente distinti così che pur nella loro concatenazione, il verificarsi dell’ultimo di essi non impedisca agli altri di continuare a sopravvivere30.Ove si condivida tale impostazione, che sostanzialmente muove dalla disarticolazione dall’iter procedurale comunale rispetto all’emanazione del Decreto Ministeriale, non si ravvisano impedimenti affinché il Comune fissi il corrispettivo ai sensi del comma 48 in assenza dell’emanazione di questo decreto, ciò non essendo impedito dal comma 49-bis che non pone al Comune alcuna preclusione o condizionamento nel proprio operare.Conseguentemente, se nell’ambito della procedura per la rimozione dei vincoli sul prezzo massimo di cessione, è possibile che sia determinato il corrispettivo ex comma 48 ma non anche la misura della percentuale di questo, per non essere stato emanato il decreto ministeriale del comma 49-bis, in assenza di un divieto contenuto in questa disposizione è possibile medio tempore la stipulazione della convenzione.Saranno le parti (privato interessato e Comune) a stabilire come inciderà sul piano dei rapporti economici reciproci la successiva emanazione del decreto ministeriale.Potrebbe stabilirsi, ad esempio, che il privato non intenda giovarsi dell’ulteriore riduzione del corrispettivo determinato dalla percentuale che verrà fissata dal decreto, rinunziando semplicemente alla stessa. In questo caso l’ente locale avrà interesse a stipulare senza riserve la convenzione ex comma 49-bis, avendo la certezza di percepire un vantaggio ulteriore rispetto a quanto previsto dal

30 In tal senso A. FALZEA, La condizione e gli elementi del negozio giuridico, Milano, 1941, 191, al quale – anche per la distinzione con la «fattispecie a formazione progressiva» – si rinvia per ulteriori approfondimenti.

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comma 49-bis. Tanto più ove si consideri che il comma 49, per le somme (già) percepite dal Comune ex comma 48, esclude la retrocessione delle stesse al privato.Potrebbe presentarsi più articolata, invece, la regolamentazione dell’ipotesi in cui nella convenzione il Comune assuma l’impegno – riproduttivo dell’eventuale delibera comunale assunta – di rimborsare al privato la percentuale stabilita dal decreto ministeriale quando questo verrà emanato. E ciò fondamentalmente per la difficoltà di armonizzare nella convenzione, gli interessi del privato con quelli del Comune, soprattutto legati alla necessità di rispettare la disciplina sulla contabilità di Stato e degli enti locali. In conclusione, se la nuova disciplina potrà avere completa attuazione solo a seguito dell’emanazione del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, ciò non esclude che le parti possano scegliere di addivenire alla stipulazione della convenzione di rimozione dei vincoli anche prima dell’emanazione di questo decreto, adottando in sede di stipulazione ogni opportuna cautela per il tempo in cui verrà emanato il decreto.Non dovranno invece attendere nessun decreto attuativo gli acquirenti che alla data del 19 dicembre 2018 (data di entrata in vigore dell’articolo 25-undecies della legge 17 dicembre 2018, n. 136), abbiano presentato al Comune istanza di determinazione del corrispettivo ex comma 48. In questo caso, infatti, la procedura rimozione del vincolo sul prezzo massimo di cessione è stata incardinata secondo la vecchia disciplina.

6. Riflessioni conclusive

Sono certamente apprezzabili gli innesti legislativi che vanno nella direzione di una maggiore chiarezza del corpo normativo in esame, oltre ad introdurre quella stabilità nei rapporti contrattuali pregressi ricercata dal legislatore. La parificazione tra convenzioni ERP in superficie ed in proprietà, quanto al tempo della stipulazione, rimuove un limite alla stipulazione delle convenzioni ex comma 49-bis anche per le convenzioni in proprietà stipulate dopo il 1992. Ciò portando, conseguentemente, a differenziare gli ambiti applicativi dei commi 49-bis e 49-ter, il primo riferito solo alle convenzioni ERP ed il secondo solo alle convenzioni Bucalossi “pure”.Al contempo non sembra possa escludersi a priori che la nuova disciplina, specialmente per la previsione di retroattività, possa determinare l’insorgenza delle problematiche interpretative e applicative, normalmente connesse con

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l’introduzione di norme destinate ad incidere su atti e rapporti esauriti o in corso31. Con riferimento alle situazioni giuridiche che non siano ancora sfociate in un giudizio, «l’estinzione di ogni pretesa di rimborso», determinerà per questo profilo una carenza di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), tale da fondare – nell’ipotesi che il giudizio sia poi instaurato – una eventuale pronuncia di rigetto della domanda principale e di quelle connesse, come ad esempio l’eventuale azione di responsabilità professionale esperita nei confronti del notaio rogante. Pertanto se alla data di entrata in vigore della legge (19 dicembre 2018) il compratore, attuale proprietario, non abbia avviato alcuna azione giudiziaria, il venditore potrà precludere l’azione (ed il conseguente rimborso della differenza di prezzo) mediante stipula della convenzione di rimozione dei vincoli; in caso di inerzia del venditore, considerato che la norma non pone alcun limite temporale per la stipulazione della convenzione ex comma 49-bis, il meccanismo delineato dal comma 49-quater sposta (nuovamente) sul compratore la disparità economica dell’operazione negoziale.Naturalmente il compratore potrà stipulare egli stesso la convenzione ex comma 49-bis; in questo caso, però, non sono agevolmente delineabili, al di fuori di un meccanismo negoziale, i rimedi a sua tutela per recuperare gli oneri sostenuti per la convenzione.Quanto invece all’incidenza della nuova disciplina sui procedimenti giudiziari in corso, l’inciso del comma 49-quater – «l’eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità di cui ai commi 49-bis e 49-ter» – andrà rapportata allo stato della procedura di rimozione dei vincoli.In caso di completamento della procedura di rimozione prevista dal comma 49-bis (e quindi stipulazione dell’atto pubblico o della scrittura privata

31 Il principio di legalità della decisione giudiziaria enunciato dall’art. 113, primo comma c.p.c., in forza del quale il giudice deve individuare la norma generale ed astratta applicabile alla fattispecie specifica e concreta tra tutte quelle che compongono l’ordinamento giuridico, impone che il giudice consideri anche l’evoluzione che il medesimo subisce con il trascorrere del tempo. Come precisato in dottrina (S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959) l’applicazione della norma nuova sopravvenuta implicherà delle diverse considerazioni a seconda dello stato in cui si trova il giudizio. Nello stesso senso G. FINOCCHIARO, Commentario al codice di procedura civile, Torino, 2012, 282 ss., secondo il quale «il principio di legalità della decisione giudiziaria enunciato dall’art. 113, primo comma c.p.c., in forza del quale il giudice deve individuare la norma generale ed astratta applicabile alla fattispecie specifica e concreta tra tutte quelle che compongono l’ordinamento giuridico, impone che il giudice consideri anche l’evoluzione che il medesimo subisce con il trascorrere del tempo». Aggiungendo che «il giudice è chiamato a rilevare d’ufficio il mutamento delle norme di diritto applicabili nella causa».

Novità legislative in materia di edilizia residenziale pubblica convenzionata

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autenticata tra il privato e il Comune), tale fatto è destinato certamente porre fine al giudizio. In questo caso l’impiego del termine “estinzione” non è da intendersi – probabilmente – in senso tecnico, riferito al provvedimento del giudice emesso per la ricorrenza dei presupposti previsti dagli articoli 306 ss. c.p.c. È verosimile invece ritenere che a seguito della stipula della convenzione di rimozione dei vincoli, il giudice non potrà che accertare (con sentenza) la «cessazione della materia del contendere». Se invece la procedura sia pendente, in quanto già presentata in Comune l’istanza per la rimozione dei vincoli ex comma 49-bis, e tale circostanza sia ritualmente sottoposta al giudice, quest’ultimo non potrà che dichiarare l’improseguibilità della domanda pendente per la ripetizione di indebito. La medesima circostanza, inoltre, condizionerà l’iter del giudizio in corso anche per le altre domande che siano state presentate, compresa quella volta a far dichiarare la nullità parziale della clausola sul prezzo fissato in misure eccedente, sicché così come – «in pendenza della rimozione dei vincoli» – l’inefficacia di cui al comma 49-quater determina l’inesigibilità del diritto di ripetizione dell’indebito dell’acquirente, allo stesso modo precluderà «immediatamente l’accertamento della nullità della clausola determinativa del prezzo di vendita»32.

32 In questo senso Trib. Roma, ord. 17 giugno 2019, (inedita).

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L’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo termine nell’analisi della giurisprudenza più recente

Annarita Lomonaco Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Il lavoro propone un’analisi della casistica tratta dalla giurisprudenza più recente avente ad oggetto il regime fiscale applicabile alle operazioni di finanziamento a medio e lungo termine, anche alla luce delle ultime modifiche normative, con particolare riguardo al tema della cessione del credito, della durata contrattuale minima del finanziamento e della territorialità dell’imposta sostitutiva.

The study proposes an analysis of the case history of the most recent jurisprudence on the tax regime applicable to medium and long-term transactions, also in light of the latest legislative innovations, with particular reference to the issue of credit transfer, the minimum contractual duration of the loan and the territoriality of the substitute tax.

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Sommario: 1. Premessa. – 2. Le modifiche normative e la cessione del credito derivante dal finanziamento. – 3. La Corte costituzionale ed il requisito soggettivo del regime sostitutivo. – 4. Il requisito temporale della durata contrattuale minima del finanziamento. – 4.1 Il recesso della banca finanziatrice. – 4.2 Le ultime sentenze sul recesso ad nutum da parte del soggetto finanziatore e la sua configurabilità. – 4.3 La durata minima e l’interpretazione del contratto di finanziamento e dei suoi allegati. – 5. La questione della territorialità dell’imposta sostitutiva.

1. Premessa

Gli articoli 15 ss. d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, disciplinano il regime fiscale applicabile alle operazioni di finanziamento a medio e lungo termine, in presenza di determinate condizioni.Più in particolare, queste operazioni possono essere assoggettate ad un’imposta sostitutiva (art. 171), in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecaria e catastale (e delle tasse sulle concessioni governative) che sarebbero dovute per gli atti ad esse inerenti (art. 152).Negli ultimi anni questa disciplina è stata oggetto, oltre che di modifiche normative3, anche di pronunce giurisprudenziali che offrono spunti di riflessione in ordine ad alcune questioni già da tempo dibattute.

1 Ai sensi dell’art. 17 comma 1 «gli enti che effettuano le operazioni indicate negli artt. 15 e 16, a seguito di specifica opzione, possono corrispondere, in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle tasse sulle concessioni governative, una imposta sostitutiva. L’opzione è esercitata per iscritto nell’atto di finanziamento».2 Ai sensi dell’art. 15 «[1] Le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti, nonché alle successive cessioni dei relativi contratti o crediti e ai trasferimenti delle garanzie ad essi relativi effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, statutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine, e quelle effettuate ai sensi dell’articolo 5, comma 7, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, per le quali è stata esercitata l’opzione di cui all’articolo 17, sono esenti dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative. [2] In deroga al precedente comma, gli atti giudiziari relativi alle operazioni ivi indicate sono soggetti alle suddette imposte secondo il regime ordinario e le cambiali emesse in relazione alle operazioni stesse sono soggette all’imposta di bollo di lire 100 per ogni milione o frazione di milione. [3] Agli effetti di quest’articolo si considerano a medio e lungo termine le operazioni di finanziamento la cui durata contrattuale sia stabilita in più di diciotto mesi».3 Si pensi, ad esempio, alla trasformazione del regime in esame da ordinario ad opzionale, alla

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Da qui l’esigenza di un’analisi della casistica tratta dalla giurisprudenza più recente per individuare degli orientamenti che possano essere di ausilio nelle scelte professionali degli operatori del diritto.

2. Le modifiche normative e la cessione del credito derivante dal finanziamento

La modifica dell’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973, ad opera dell’art. 22 comma 2 d.l. n. 91 del 2014 cit. – che ha inserito nell’ambito dell’indicazione degli atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni di finanziamento a medio/lungo termine, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, un riferimento espresso «alle successive cessioni dei relativi contratti o crediti e ai trasferimenti delle garanzie ad essi relativi» – consente di ritenere, senza più alcun dubbio4,

sua estensione ad operazioni di finanziamento strutturate, a seguito delle modifiche introdotte dal art. 12 d.l. n. 145 del 2013, conv. In l. n. 9 del 2014, o ancora all’ampliamento della platea dei soggetti ammessi a fruire del regime in oggetto, con l’obiettivo di incrementare l’offerta fiscalmente agevolata di credito da parte di soggetti non residenti, anche non bancari, quali imprese di assicurazioni, organismi di investimento collettivo del risparmio, e delle società di cartolarizzazione, ad opera dell’art. 22 d.l. n. 91 del 2014, conv. in l. n. 116 del 2014.4 Si ricorda che, prima delle modifiche apportate all’art. 15 comma 1 d.P.R. n. 601 del 1973 cit. dall’art. 22, comma 2, cit., la questione relativa all’applicabilità dell’esenzione da imposte di cui al suddetto art. 15 alle surroghe o ad altre vicende del finanziamento, quali la cessione del credito derivante dal contratto di finanziamento a medio/lungo termine, da parte della banca finanziatrice, era oggetto di divergenti opinioni (vedi anche le note successive) espresse dalla prassi, dalla giurisprudenza e dalla dottrina. La Commissione Studi Tributari del Consiglio Nazionale del Notariato aveva costantemente affermato, a partire dallo Studio n. 50-bis del 14 dicembre 1991, che «il legislatore ha comunque inteso agevolare tutte le vicende dell’operazione principale, cioè del finanziamento, indipendentemente dalla loro causa e per il solo fatto di derivare funzionalmente dal rapporto principale» e che «il presupposto impositivo dell’imposta sostitutiva si realizza all’atto dell’erogazione del finanziamento: ciò significa che i requisiti ... vanno accertati esclusivamente in relazione all’originaria previsione contrattuale ed avuto riguardo al momento genetico». Successivamente, lo Studio n. 104-2000/T (U. FRIEDMANN, Tassazione della cessione di crediti, assistiti da garanzia ipotecaria, derivanti da finanziamenti a medio/lungo termine, in Studi e materiali, 2002, 595 ss.) aveva ritenuto la cessione del credito riconducibile all’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 cit., posto che essa «comportando il subentro di un nuovo creditore a quello vecchio, consiste … in una mera modificazione del solo lato soggettivo attivo del rapporto giuridico, il quale invece rimane esattamente quello iniziale nelle sue caratteristiche oggettive (tant’è che esso non può essere modificato senza il consenso del debitore ceduto) e perciò continua ad essere disciplinato in tutto e per tutto, fatto salvo per quanto riguarda il soggetto al quale il debitore ceduto deve pagare il debito, dal contratto originario; tale contratto continua infatti a sussistere a tutti gli effetti di legge. Tale tipo di cessione inoltre dà

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che la cessione da parte della banca finanziatrice del credito (o del contratto) derivante da un precedente finanziamento a medio/lungo termine, soggetto all’imposta sostitutiva, sia compresa nell’ambito applicativo dell’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973, a prescindere dalla qualità del soggetto cessionario5.L’Agenzia delle entrate ha confermato questa conclusione, in risposta ad un interpello6 relativo ad una cessione di credito a titolo oneroso da parte della banca a favore di una società, chiarendo che «in considerazione delle modifiche normative intervenute, deve ritenersi che l’effetto sostitutivo derivante dall’applicazione dell’imposta sui finanziamenti operi, tra l’altro, con riferimento alle cessioni di credito derivanti da finanziamenti soggetti ad imposta sostitutiva ed ai trasferimenti di garanzia posti in essere dalle banche (nonché dagli altri soggetti ‘qualificati’ individuati dalle norme in argomento),

luogo ad una sorta di surrogazione o sostituzione (ipotesi espressamente previste dall’art. 15) dello stesso soggetto cessionario nella garanzia ipotecaria, la quale infatti, a seguito dell’annotazione, mantiene il grado iniziale, e continua ovviamente a gravare sugli stessi immobili».5 In tal senso cfr. la risposta a quesito n. 230-2015/T, est. A. LOMONACO, Applicabilità dell’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 alla cessione del credito derivante da un mutuo fondiario da parte della banca finanziatrice ad una società non esercente il credito, in CNN Notizie del 22 dicembre 2015, richiamando anche la posizione assunta dall’Abi [circ. serie tributaria n. 9 del 30 ottobre 2014, ove si legge che la modifica normativa in esame «rende di fatto ora irrilevante la verifica di un nesso di inerenza (verifica che, peraltro, sulla base di una lettura sistematica della norma, non avrebbe nemmeno dovuto essere considerata necessaria per le cessioni di contratto, in quanto evento modificativo). In altri termini, la norma non sembra avere portata innovativa se non nella misura in cui generalizza l’applicazione degli effetti di sostituzione dalle imposte ordinarie a tutte le cessioni di crediti (e di contratto) già soggetti all’imposta, a prescindere quindi da ogni verifica di inerenza, assumendo invece rilievo unicamente il fatto che il finanziamento, sussistendone i requisiti, sia stato assoggettato ad imposta sostitutiva, per obbligo di legge … o per opzione», e ciò a prescindere dalla circostanza che la controparte sia un soggetto abilitato ad usufruire del regime dell’imposta sostitutiva (e comprendendo nell’esenzione, naturalmente, anche le formalità ipotecarie conseguenti al trasferimento del credito). Inoltre l’Abi sottolinea, condivisibilmente, come «trattandosi di una disposizione concernente il perimetro del regime di esenzione dalle ordinarie imposte indirette, e non invece di una nuova fattispecie tassabile, in via opzionale, la disposizione non comporta ovviamente un nuovo pagamento di imposta sostitutiva, bensì unicamente l’opportunità di indicare espressamente che l’atto, e le connesse formalità, sono esenti da imposizione indiretta»] e dall’Assonime [circ. n. 19 del 5 giugno 2015, secondo la quale la genericità della nuova formulazione normativa non dovrebbe far dubitare che nella locuzione “cessione dei crediti e dei contratti” rientrino anche le cessioni dei crediti da parte del finanziatore successive all’operazione finanziaria soggetta all’imposta sostitutiva (essendo necessario in tal caso, secondo l’Assonime, richiamare in atto il contratto originario assoggettato a tale regime). Così come la nuova disposizione espressamente comprende nel range dell’esenzione «le garanzie trasferite insieme ai crediti»].6 Risoluzione n. 17/E del 16 febbraio 2018.

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a prescindere dalla natura del soggetto cessionario. Il richiamato articolo 15 non prevede, infatti, quale condizione per l’applicabilità del regime sostitutivo particolari requisiti in capo al soggetto cessionario del credito e subentrante nella relativa garanzia». Ed al riguardo richiama la Nota di lettura dell’A.S. n. 1541, dalla quale si evince che l’intervento operato con il comma 2 dell’art. 22 cit. ha inteso «ampliare l’ambito di applicazione del regime sostitutivo delle imposte gravanti sui finanziamenti a medio e lungo termine», prevedendo con la modifica all’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 che «oltre alle cessioni di credito stipulate in relazione ai finanziamenti che beneficiano del regime, anche le eventuali successive cessioni dei relativi crediti o contratti unitamente ai trasferimenti delle garanzie ad essi relativi ricadano nell’ambito di applicazione dell’imposta sostitutiva».Pertanto, in ragione del riferimento alle «successive cessioni … unitamente ai trasferimenti delle garanzie», l’Agenzia delle entrate supera il precedente orientamento restrittivo, che limitava l’inerenza alla cessione di un credito preesistente finalizzata ad un successivo finanziamento7.

7 Con la ris. n. 310273 del 18 aprile 1988 l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che la cessione pro soluto del credito nascente da un finanziamento a medio/lungo termine da parte dell’istituto di credito «non può considerarsi stipulata in relazione all’operazione di finanziamento effettuato dalla banca … così come prescrive il dettato normativo del ripetuto art. 15 del decreto 601. E d’altra parte, non essendo il soggetto cessionario una banca non è dato neppure prevedere che la cessione sia finalizzata ad un successivo finanziamento a medio e lungo termine», in definitiva ritenendo la cessione in oggetto del tutto autonoma ed indipendente rispetto al pregresso rapporto obbligatorio originato dal finanziamento. L’Amministrazione finanziaria aveva poi ulteriormente precisato (ris. n. 310932 del 4 aprile 1989) l’irrilevanza della natura di istituto di credito del cessionario in quanto «nella fattispecie considerata non si versa nell’ipotesi di cessione di un credito preesistente in correlazione ad un finanziamento da effettuarsi, ipotesi che legittimamente si colloca nell’ambito dell’articolo 15 del d.P.R. n. 601 del 1973, ma della cessione di un finanziamento già effettuato da un istituto di credito e da questi ceduto poi ad altro istituto di credito, senza che esista una precisa inerenza fra la predetta cessione (di credito) e la originaria operazione di mutuo». L’Amministrazione finanziaria aveva anche negato in più occasioni l’applicabilità dell’art. 15 d.P.R. n. 601 citato alla formalità di annotazione per surroga. Nella risoluzione n. 271389 in data 9 dicembre 1982 veniva affermato che «... presupposto per l’applicazione del regime sostitutivo è che il finanziamento venga concesso da un Istituto di credito, a ciò debitamente autorizzato, e che la garanzia ipotecaria, da chiunque concessa, sia direttamente connessa con l’anzidetta operazione di finanziamento». Successivamente, nella risoluzione Dir. gen. tasse n. 400352 del 21 aprile 1989, veniva specificato che «nel concetto di pagamento di imposta sostitutiva relativa a finanziamenti devono intendersi ricompresi tutti i provvedimenti, atti e contratti inerenti all’operazione medesima e non, come nella specie, del tutto autonomi ed indipendenti rispetto al pregresso rapporto obbligatorio originato dal finanziamento». Alcuni anni dopo, l’incompatibilità con il particolare regime tributario di cui all’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 della formalità di annotazione per surroga, eseguita ai sensi dell’art. 2843 del codice civile, non

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Anche la recente8 giurisprudenza di legittimità (Cass., 24 gennaio 2019, n. 1957 e Cass., 1° febbraio 2019, n. 3071) ha riconosciuto all’art. 15 cit. un più ampio ambito applicativo, ritenendo con riguardo alla cessione del credito rinveniente da operazione di finanziamento a medio/lungo termine, con subentro nella relativa garanzia ipotecaria, che «il requisito soggettivo [n.d.r., la qualifica di azienda di credito] … deve riguardare il soggetto cedente e non il cessionario …, quanto a quello oggettivo, dal tenore del disposto dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 15, comma 1, si evince che il legislatore ha scelto di assumere a riferimento l’operazione di finanziamento complessivamente intesa, unitamente a tutti i provvedimenti, atti e contratti e formalità inerenti all’operazione medesima, sia sotto il profilo statico che dinamico, prendendo in considerazione cioè anche le vicende dell’esecuzione, della modificazione e dell’estinzione»9.Resta tuttavia da chiarire se possano rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 15 cit. anche eventuali ulteriori cessioni del credito, effettuate a sua volta dal (primo) cessionario ad altro soggetto, non “qualificato”.

avente la propria causa giustificatrice in un finanziamento erogato da una banca, è stata ribadita dall’Agenzia del territorio (circolare del 27 dicembre 2002, n. 12/T).8 In passato la giurisprudenza di legittimità si era espressa, in più occasioni, negando la sussistenza di un rapporto di inerenza al finanziamento a medio/lungo termine con riguardo a vicende relative alle garanzie (quali, in particolare, formalità di annotamento per surroga ipotecaria ex art. 2843 del codice civile effettuate nei confronti di un terzo intervenuto nel pagamento del debito derivante dal finanziamento). Infatti, sulla base della necessaria sussistenza del rapporto di “inerenza”, la Corte di Cassazione aveva precisato che «l’agevolazione fiscale potrà essere – ad esempio – riconosciuta quando l’istituto di credito, concedendo un finanziamento per estinguere delle preesistenti obbligazioni garantite da ipoteca, si surroghi al creditore ipotecario. Non potrà essere invece riconosciuto nel caso in cui la surroga avvenga a favore di un terzo per motivi non connessi ad una operazione agevolata, perché il solo fatto che l’ipoteca abbia inizialmente assistito un finanziamento a medio e lungo termine, ed abbia perciò goduto di agevolazione, non consente di trasmettere analogo beneficio a tutti coloro che subentrino, per ragioni diverse dal finanziamento a lungo e medio termine, nella garanzia stessa». In tale ottica, l’annotamento di una surroga ipotecaria rientrerebbe nel regime sostitutivo solo se la stessa «abbia la propria causa giustificativa in un finanziamento da parte di un’azienda ed istituto di credito che esercitano il credito a medio o lungo termine e che corrispondano, in luogo dell’imposta ordinariamente prevista, l’imposta sostitutiva di cui al successivo art. 17 dello stesso decreto del Presidente della Repubblica». Secondo i giudici, quindi, la misura dell’imposta sostitutiva prevista dall’art. 17 del d.P.R. n. 601 del 1973 «in luogo di quella ordinaria, stabilita a favore degli enti che effettuano le operazioni di finanziamento a medio e lungo termine elencate dagli artt. 15 e 16, non è estensibile ai creditori che subentrino a titolo di surroga nella garanzia ipotecaria, se tale sostituzione non abbia, come sua causa giustificativa, un ulteriore finanziamento – necessario ad estinguere le preesistenti obbligazioni – da parte di altra azienda o istituto che eserciti il credito a medio e lungo termine, atteso che l’agevolazione è stabilita dalla legge per favorire tale genere di finanziamenti».9 Così Cass. n. 1957/2019 cit.

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Laddove rispetto al primo cessionario ricorra il requisito soggettivo dell’esercizio dell’attività creditizia, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3071/2019 cit.) ammette l’applicabilità dell’art. 15 cit. anche all’ulteriore (seconda) cessione, dallo stesso effettuata a favore di un soggetto non esercente il credito.Potrebbero sussistere delle perplessità, invece, qualora anche il primo cessionario sia soggetto non esercente il credito, in quanto rispetto alla seconda cessione verrebbe meno quel requisito soggettivo, che sembra essere richiesto dall’art. 15 cit. ai fini dell’applicabilità del regime sostitutivo anche alle “successive cessioni” (oltre ad essere forse più difficile rinvenire l’inerenza del credito ceduto al rapporto fondamentale costituito dall’originario contratto di finanziamento). Infine, con riguardo alle vicende dell’operazione agevolata, appare utile ricordare che, secondo la Corte di Cassazione10 e l’Agenzia delle entrate11, l’inciso «ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti», di cui all’art. 15 cit., anche prima della modifica consentiva di ricondurre alla suddetta previsione normativa le cessioni di credito effettuate, da parte del soggetto finanziato a favore della banca finanziatrice, ad estinzione o a garanzia di un precedente finanziamento a medio/lungo termine.E sempre con riguardo alle modifiche soggettive dal lato passivo del rapporto giuridico derivante dal contratto di finanziamento, la giurisprudenza di merito ha ammesso l’applicazione dell’art. 15 cit. all’accollo del mutuo, anche se tra privati (Comm. trib. prov. Torino, n. 201/7/2018; Comm. trib. reg. Milano, n. 3064/ 2019), e all’espromissione (Comm. trib. prov., n. 1367/2017) fatta da un soggetto privato (espromittente) a favore dell’originario debitore di un finanziamento a medio/lungo termine12.

10 Cass. n. 2734/2009, secondo cui «dall’interpretazione letterale e logica dell’art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973 si ricava che la norma, nella sua ampia latitudine (desumibile dal riferimento a “tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni“), include nell’agevolazione tutto quanto concerne non solo il finanziamento, ma anche la “modificazione ed estinzione” delle operazioni agevolate, elencando espressamente, tra gli atti fruenti dell’agevolazione “le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti”» (in Riv. dir. trib., 2010, 3 ss., con nota di R. SURACI, Imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine e cessioni di crediti in favore di soggetti bancari). Si veda altresì Cass. n. 10766/2013.11 Ris. n. 29/E del 3 aprile 2012, secondo la quale è riconducibile all’art. 15 cit. una cessione pro solvendo a favore della banca finanziatrice di tutti i diritti di credito, presenti e futuri, di cui il finanziato era titolare nei confronti del GSE, a garanzia del rimborso delle somme ricevute a titolo di mutuo dalla banca stessa, trattandosi di «un atto giuridico volto a garantire l’estinzione del debito assunto … nei confronti della Banca».12 Cfr. A. GENTILI – G. BARALIS – D. MURITANO – A. PISCHETOLA, Diritto burocratico

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3. La Corte costituzionale ed il requisito soggettivo del regime sostitutivo

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 20 novembre 2017, relativa al profilo soggettivo del regime in esame, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 cit., nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. La questione relativa all’applicabilità dell’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 cit. – con conseguente assoggettamento all’imposta sostitutiva prevista dal successivo art. 17 – alle operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate dagli intermediari finanziari abilitati alla relativa erogazione, era stata rimessa alle sezioni unite della Corte di cassazione per la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale13. Le sezioni unite – non condividendo l’orientamento minoritario, anche in ragione del «principio per il quale le disposizioni fiscali di agevolazione sono di “stretta interpretazione”, ossia inapplicabili a casi o situazioni non riconducibili al significato letterale del testo normativo» (da cui l’impossibilità di un’integrazione interpretativa per riportare alla nozione di “banca”, testualmente riferibile all’art. 15, quella di “intermediario finanziario”, ontologicamente eterogenea e non pienamente coincidente sul piano dell’operatività) – hanno ritenuto che l’art. 15 cit., interpretato nel senso dell’inapplicabilità dell’agevolazione agli intermediari finanziari, violi gli artt. 3 e 41 Cost, rimettendo perciò alla Corte costituzionale la decisione sulla legittimità della disposizione14.La Consulta, considerata la natura agevolativa del richiamato art. 15 – la cui formulazione «limitando agli istituti bancari esclude automaticamente la sua applicabilità ad altri soggetti in quanto, oltre agli espressi destinatari, nessun altro è riconducibile al significato letterale del testo» – e ravvisando la medesima ratio di favore riguardo agli investimenti produttivi nelle situazioni messe a confronto, aventi in comune l’elemento oggettivo dei finanziamenti a medio e lungo termine, conclude per «l’irrilevanza della diversa natura dei soggetti che pongono in essere tali attività poiché … non v’è ragione per cui gli investimenti

fiscale. La realtà del “doppio stato” nella tassazione degli atti negoziali e profili di responsabilità, Milano, 2019, 145 ss.13 Un primo orientamento si esprimeva in senso contrario all’applicabilità del suddetto regime (ex multis, tra le più recenti, Cass., 9 marzo 2011, n. 5570, Cass., 20 aprile 2012, n. 6234, Cass., 12 marzo 2014, n. 5697). Un secondo indirizzo era, invece, favorevole all’estensione soggettiva (Cass., 11 marzo 2001, n. 5845).14 Cfr. Cass., sez. un., ord. 3 giugno 2015, n. 11373. Le sezioni unite sono poi intervenute nuovamente dopo la sentenza della Corte costituzionale, con sentenza 18 luglio 2018, n. 19106.

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produttivi siano discriminati in relazione al soggetto finanziatore». Ed avvalora questa conclusione anche in ragione dell’attuale pluralità di operatori abilitati a porre in essere tali operazioni e delle ripercussioni che una limitazione soggettiva comporterebbe sotto il profilo della concorrenza per il minor costo del prodotto offerto dalle banche.La sentenza della Corte Costituzionale argomenta in sostanza sulla base dell’identità dell’attività – limitatamente al fronte delle operazioni c.d. “attive”, cioè di concessione di finanziamenti – degli operatori bancari e degli intermediari finanziari abilitati ai sensi dell’art. 106 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, soggetti ai quali è riservata l’attività di concessione di finanziamenti, sempre se svolta “nei confronti del pubblico”ed a fronte di penetranti oneri di vigilanza.

4. Il requisito temporale della durata contrattuale minima del finanziamento

L’art. 15 cit. al comma 3 stabilisce che, agli effetti delle disposizioni in esame, si considerano a medio e lungo termine le operazioni di finanziamento la cui durata contrattuale sia stabilita in più di diciotto mesi.Secondo un orientamento consolidato la durata minima deve essere verificata con riferimento alle pattuizioni contrattuali, restando ininfluenti eventuali vicende successive del rapporto negoziale15.In altri termini, si ritiene che il contratto di finanziamento debba fissare una durata minima di diciotto mesi ed un giorno e non debba contenere clausole che possano risultare incompatibili con detta durata minima.

4.1. Il recesso della banca finanziatrice

Diversi anni fa era emerso, a seguito di recuperi di imposte effettuati dagli uffici della (allora) Agenzia del territorio, in ragione anche di alcune sentenze della Cassazione, il problema della compatibilità con il regime dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine delle clausole che prevedono la possibilità di risolvere anticipatamente il rapporto di finanziamento16.

15 Cfr. ris. 27 aprile 2011, n. 3.16 Con riferimento alla questione relativa alla rilevanza della facoltà di estinzione anticipata da parte del finanziato, atteso che la facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore trova fondamento nella legge, che la stessa è irrinunciabile e indipendente dalle previsioni contrattuali,

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Quanto alle clausole relative al recesso da parte della banca si era ritenuto che l’applicazione del regime sostitutivo non fosse escluso se «in applicazione delle ordinarie norme del codice civile in tema di inadempimento … e in virtù di particolari clausole contrattuali, il rapporto venga ad essere anticipatamente risolto, sempreché tale anticipata risoluzione sia collegata a circostanze di fatto obiettivamente accertabili e non rimesse al mero arbitrio del mutuante», mentre la facoltà di recesso ad nutum – cioè non correlata «ad ipotesi di inadempienze contrattuali o di obblighi pattiziamente assunti» – farebbe venir meno il requisito della durata ai sensi dell’art. 15 d.P.R. 601/1973 cit. Ed in particolare, è stata riconosciuta la compatibilità con il requisito della durata contrattuale minima del finanziamento di quelle clausole contrattuali che consentono alle banche l’esercizio della facoltà di recesso anticipato dal contratto, ma soltanto in relazione a circostanze di fatto pattiziamente predeterminate ed obiettivamente riscontrabili (ed anche qualora dette clausole prevedano che la banca possa optare, in via alternativa, per la prosecuzione del rapporto a condizioni diverse rispetto a quelle originariamente negoziate), in quanto esse «sembrano assicurare al rapporto contrattuale un grado di stabilità sufficiente a garantirne una durata potenziale conforme a quella minima stabilita dalla norma citata», a differenza delle clausole che attribuiscono alla banca la facoltà di recesso ad nutum la quale «impedisce al vincolo negoziale di sorgere ab origine in modo stabile»17.In linea era anche l‘orientamento della Corte di cassazione, secondo il quale sarebbero compatibili con la durata minima contrattuale di cui all’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 quelle «clausole che attribuiscono all’Istituto stesso facoltà di risoluzione, che, per quanto diverse da quelle previste dalla legge, siano subordinate all’accertamento di circostanze obiettive», quali quelle riflettenti la diminuzione della garanzia, l’inefficacia delle ipoteche, il pericolo di perdita del capitale (Cass. n. 4470/1983). La Corte, peraltro, ha ritenuto che l’ipotesi del

essa è stata ritenuta ininfluente ai fini dell’individuazione della durata contrattuale dell’operazione di finanziamento. Cfr. circ. n. 6/T del 14 giugno 2007. Si veda altresì A. LOMONACO – V. MASTROIACOVO, Estinzione anticipata da parte del finanziato e art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973, Studio CNN n. 86-2005/T, in Studi e materiali, 2006, 470 ss.17 Cfr. Agenzia del territorio, circ. 24 settembre 2002 n. 8/T, ove a titolo meramente esemplificativo si fa riferimento alle clausole che prevedono la decadenza dal beneficio del termine al verificarsi di una delle ipotesi di cui all’art. 1186 c.c., ivi compreso il prodursi di eventi tali da incidere negativamente sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della parte finanziata, oppure alle clausole che disciplinano casi di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1456 del codice civile; clausole che per l’Amministrazione finanziaria non riservano, in via generale, alla banca una facoltà di recesso rimessa alla sua libera determinazione ed esercitabile in qualsiasi momento. Si veda anche ris. 24 febbraio 2003 n. 1/T.

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mero arbitrio non ricorra comunque qualora, in presenza di tali fatti obiettivi, sia attribuito al mutuante l’esercizio della facoltà di recesso a suo insindacabile giudizio, in quanto una clausola di questo genere va interpretata nel senso di riferire la valutazione discrezionale soltanto all’apprezzamento della situazione di pericolo e dell’opportunità di richiedere o meno l’anticipato rimborso della somma mutuata18.

4.2 Le ultime sentenze sul recesso ad nutum da parte del soggetto finanziatore e la sua configurabilità

Nel corso degli ultimi anni la Suprema Corte è intervenuta di nuovo a concludere una serie di giudizi che avevano tutti alla base la contestazione del requisito della durata del finanziamento, in ragione di clausole contrattuali ritenute disciplinanti una facoltà di recesso ad nutum da parte della banca, offrendo degli spunti di riflessione sulla stessa configurabilità di un recesso ad nutum dal contratto di finanziamento19.La Cassazione, con la sentenza n. 2188 del 6 febbraio 201520, in relazione ad un contratto di apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria ha ritenuto, invero senza particolari argomentazioni, incompatibile con la necessità della durata contrattuale minima di diciotto mesi e un giorno la clausola che preveda per la banca la facoltà di recedere dall’apertura di credito «in qualsiasi momento al ricorrere di un giustificato motivo».Questa sentenza evidenzia un aspetto che forse era rimasto in ombra nel passato dibattito, ossia se vi sia uno spazio tra le clausole relative a circostanze di fatto obiettivamente accertabili ed il mero arbitrio della banca finanziatrice21. In altri termini è da chiedersi se sia necessario, ai fini della compatibilità con

18 Cfr. G. CIPOLLINI – F. COLUCCI – A. LOMONACO, Ancora sull’art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, Studio CNN n. 92/2001/T, in Studi e materiali, 2002, 603 ss., anche per i riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti.19 Le ultime sentenze vertono tutte su casi di recesso ad nutum della banca, non essendo assolutamente in dubbio che laddove la facoltà di estinzione anticipata sia correlata a circostanze di fatto oggettivamente accertabili il regime della sostitutiva sia salvo.20 Cfr. D. STEVANATO, Imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio-lungo termine e spettanza dell’agevolazione, in Dialoghi trib., 2015, 102 ss.; A. PISCHETOLA, Imposta sostitutiva sui finanziamenti in caso di ripianamento debiti e recesso per “giusto motivo”, in Il Fisco, 2015, 3348 ss.21 La circolare 8/T già citata faceva espresso riferimento a «circostanze di fatto pattiziamente predeterminate ed obiettivamente riscontrabili», distinguendo questa ipotesi dal recesso ad

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la durata contrattuale minima di cui all’articolo 15, una predeterminazione contrattuale dei singoli casi legittimanti l’estinzione anticipata del vincolo, come sembra implicitamente ritenere la citata Cassazione n. 2188 sul recesso per giustificato motivo, considerato alla stregua di un recesso.Ai fini dell’individuazione delle ipotesi di recesso influenti sulla stabilità del rapporto, andrebbe considerato che uno ius poenitendi rimesso al mero arbitrio della banca e senza alcuna giustificazione obiettiva in realtà ben difficilmente ricorrerebbe nei contratti di finanziamento, in quanto potrebbe porsi in contrasto con lo stesso schema causale. La prestazione della banca, infatti, necessariamente dovrebbe essere misurata in funzione del tempo, perché essa adempie non solo con la consegna della somma ma anche impegnandosi a garantire al debitore l’utilizzazione di questa somma per un certo periodo di tempo (tanto che, secondo una certa dottrina e parte della giurisprudenza civilistica, non sarebbe ammissibile prevedere un recesso rimesso al mero arbitrio del soggetto che eroga il finanziamento22). La clausola di recesso andrebbe, quindi, armonizzata ed interpretata non solo alla luce delle specifiche disposizioni del codice civile, quale l’art. 1845 che prevede per l’apertura di credito a tempo determinato il recesso per giusta causa, ma più in generale alla luce del principio codicistico di buona fede nell’esecuzione del contratto23. Potrebbe, pertanto, ritenersi che il recesso, anche se contrattualmente previsto come puro e semplice, cioé non ancorato a eventi predeterminati, non possa considerarsi di per sé come rimesso alla libera determinazione della banca.Sulla questione interviene la Cass. con la sentenza n. 9506 del 18 aprile 2018.La fattispecie contestata riguardava un’apertura di credito recante una clausola di recesso unilaterale a favore della banca «al ricorrere di una giusta causa».La Corte ritiene «che la pattuizione di una clausola risolutiva o di recesso a favore dell’ente erogante – ricollegata alla sussistenza di gravi inadempimenti e, comunque, di una giusta causa impeditiva del normale svolgimento del

nutum, cioè non correlato ad ipotesi di inadempienze contrattuali o di obblighi pattiziamente assunti, mentre la giurisprudenza risalente era più sfumata sul punto.22 Parte della giurisprudenza ha ritenuto sindacabile la legittimità del recesso cosiddetto ad nutum da parte del giudice di merito, così da ridurre – come osserva la dottrina – la differenza tra recesso per giusta causa e recesso ad nutum ad una differenza di ordine processuale, dovendo nel primo caso essere provata l’assenza delle ragioni giustificatrici, e nel secondo dovendo provarsi la sussistenza della giusta causa, mentre le due fattispecie finirebbero per identificarsi nei loro presupposti di fatto. Cfr. G. CIPOLLINI – F. COLUCCI – A. LOMONACO, Ancora sull’art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, cit., 610 ss.23 Sul punto cfr. G. CIPOLLINI – F. COLUCCI – A. LOMONACO, Ancora sull’art. 15 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601, loc. cit.

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rapporto secondo la natura e gli scopi suoi propri – non determini il venir meno della ratio agevolativa».Osserva infatti come «la previsione di una clausola di recesso per giusta causa: – opera in direzione non espansiva ma limitativa dell’autonomia delle parti, là dove esclude di per sè l’antitetica facoltà di recesso ad nutum (della banca)24; – risponde ad un principio connaturato ai rapporti negoziali di durata, e coessenziale anche all’ambito della funzione creditizia; – è posta essa stessa a presidio del nucleo fondamentale del contratto di finanziamento a medio-lungo termine e della possibilità di concreta realizzazione del suo sostrato causale, così come valorizzato dal regime fiscale di favore; – è selettivamente assoggettata, a tutela del contraente debole in rapporto asimmetrico, a vaglio giudiziale circa l’effettiva rispondenza a giusta causa dell’evento ostativo alla prosecuzione del rapporto dedotto dalla banca; – consente che tale vaglio venga espletato anche quando non vi sia stata predeterminazione contrattuale dei singoli casi legittimanti l’estinzione anticipata del vincolo, dovendo l’ipotesi concretamente dedotta pur sempre rispondere a caratteri di serietà, gravità, comprovata improseguibilità del rapporto».

4.3 La durata minima e l’interpretazione del contratto di finanziamento e dei suoi allegati

Un altro spunto di riflessione offerto dalle sentenze più recenti sul recesso ad nutum riguarda l’individuazione dei criteri interpretativi applicabili nella specie per valutare la compatibilità delle clausole contrattuali con la durata minima, con riferimento al profilo della rilevanza o meno della “complessità documentale” dell’operazione di finanziamento.L’Amministrazione finanziaria, nella ris. 2/T del 24 marzo 2003, partendo dalla considerazione che alla formazione della disciplina contrattuale complessiva dell’operazione di finanziamento concorrono sia le disposizioni inserite nel documento contrattuale principale sia quelle previste dagli schemi negoziali allegati, variamente denominati, ed aventi funzione integrativa delle previsioni contrattuali, ha ritenuto che l’eventuale presenza, nei predetti schemi negoziali integrativi, di clausole che consentono all’istituto di credito la cosiddetta facoltà di recesso ad nutum, comporti «l’incompatibilità dell’operazione di

24 La Corte mantiene, quindi, la distinzione con il recesso ad nutum, non spingendosi, cioè, fino a quell’assimilazione pur prospettata da un certo orientamento civilistico.

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finanziamento con il regime tributario di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973, ancorché nel contratto principale la clausola di durata temporale dell’operazione appaia in astratto compatibile con il requisito minimo normativamente fissato».La Cassazione, con la sentenza n. 7254 del 13 aprile 2016, interviene sul tema e pronunciandosi con riferimento a contratti di apertura di credito con garanzia ipotecaria, regolati in conto corrente, ravvisa l’incompatibilità con la durata minima contrattuale in presenza di una clausola di recesso ad nutum da parte della banca prevista unicamente nel contratto (tipo) di conto corrente (superando, o meglio prescindendo dalla stessa previsione contrattuale contenuta nell’apertura di credito che, nel rinviare per la disciplina anche ai patti ed alle condizioni di cui all’allegato contratto-tipo, stabiliva però la prevalenza delle clausole speciali dell’apertura di credito nel caso di contrasto con le clausole del contratto tipo).E ciò in quanto, secondo la Corte, pur trovandosi in presenza di due diversi contratti, di finanziamento ipotecario e di conto corrente, si deve apprezzare il collegamento negoziale fra gli stessi alla luce del criterio interpretativo di cui all’articolo 20 del testo unico dell’imposta di registro, che imporrebbe – sempre secondo la Cassazione – di ricostruire la causa reale complessiva ed unitaria del regolamento negoziale tra le parti anche nell’ipotesi di una pluralità di atti negoziali, ravvisando, nella specie, questa unitarietà sul piano giuridico in quanto la regolazione in conto corrente del finanziamento «costituiva nell’obiettivo assetto di interessi, elemento fondamentale di svolgimento del rapporto … anche per quanto concerneva la facoltà della banca di porre termine a quest’ultimo, eventualmente anche prima della scadenza, in ipotesi di recesso dal conto corrente».Sul tema la Cassazione è ritornata successivamente con argomentazioni, però, non sempre coincidenti.Più nello specifico, la sentenza n. 6316 del 14 marzo 2018 ritiene che, per ricostruire le pattuizioni delle parti, al fine nella specie di verificare se sia presente una facoltà di recesso ad nutum della banca da un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, debbano essere interpretate complessivamente, secondo i criteri di interpretazione letterale e sistematica ex art. 1362 comma 1 e 1363 del codice civile, le clausole contenute nel contratto di apertura di credito e nell’allegato contratto di conto corrente, la cui disciplina il primo richiama espressamente (e che nella fattispecie recava una clausola che prevedeva il recesso ad nutum da ogni apertura di credito gestito sul conto corrente). Anche secondo Cass. n. 356 del 9 gennaio 2019 occorre valutare sulla base

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dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. se l’eventuale risoluzione del c/c possa interferire sulla durata del finanziamento (e nella specie esclude tale interferenza, in quanto l’inciso contenuto nel contratto di conto corrente – pur costituente parte integrante dell’apertura di credito – «per tutto quanto in esso non previsto» valeva a mantenere ferma la clausola del finanziamento impeditiva del recesso prima dei 18 mesi).La sentenza n. 7649 del 28 marzo 2018 si pone su una posizione analoga, con qualche passaggio motivazionale particolare, precisando che «la concedibilità dell’agevolazione fiscale di cui al d.P.R. n. 601 del 1973, art. 15 va dunque valutata in relazione alla causa concreta del contratto (o in caso di contratti collegati, alla luce dell’operazione economica complessiva realmente posta in essere dai contraenti), in ossequio al principio costituzionale di uguaglianza e di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., dal momento che sarebbe irragionevole trattare in maniera fiscalmente diverse situazioni assimilabili dal punto di vista socio-economico quali un mutuo garantito da ipoteca privo di clausole che attribuiscono il recesso ed un altro che contenga delle clausole sostanzialmente interpretabili come risolutive espresse ex art. 1456 c.c., in presenza di inadempimenti particolarmente gravi o come recesso per giusta causa; viceversa sarebbe altrettanto irragionevole trattare in maniera fiscalmente uguale situazioni diverse dal punto di vista socio-economico quali un mutuo garantito da ipoteca privo di clausole che permettano il recesso ed è un altro che invece contenga delle clausole che consentono il recesso ad nutum».Invece, le sentenze nn. 6504, 6505, 7651 del 2018 richiamano e confermano espressamente la posizione della sentenza della Cassazione n. 7254 del 2016 prima illustrata, che ravvisa nell’art. 20 del testo unico del registro (nella ben nota lettura della Corte di Cassazione) il criterio interpretativo applicabile.Più precisamente, la Cassazione nella specie ritiene che, attesa la peculiare articolazione contrattuale tra conto corrente bancario da un lato ed apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria dall’altro, l’effetto ostativo all’agevolazione debba operare anche nell’ipotesi in cui la clausola di recesso ad nutum a favore della banca sia contenuta unicamente in un contratto di conto corrente che, in esito all’applicazione del criterio interpretativo di valutazione complessiva ed interdipendente del regolamento negoziale tra le parti (il quale, si legge in un inciso nelle sentenze, sarebbe «rilevante, per l’imposta di registro, anche ex art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, nella formulazione vigente ratione temporis») risulti collegato al contratto di finanziamento.Al di là delle conclusioni dei giudizi, ossia se effettivamente il recesso ad nutum della banca dal contratto di conto corrente potesse dirsi, nella fattispecie concreta,

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collegato ed incidente sul recesso dall’apertura di credito, il dubbio che queste ultime sentenze, lette unitamente a quella del 2016, potrebbero ingenerare è se, mutata la formulazione dell’art. 20 del testo unico dell’imposta di registro, ed esclusa espressamente la rilevanza degli elementi extratestuali e dei negozi cd. collegati25, la questione dell’interpretazione complessiva del finanziamento, tenuto conto anche delle clausole contenute in contratti-tipo dallo stesso richiamati e in genere allegati, sia venuta meno agli effetti dell’applicazione del regime sostitutivo, e della conseguente esenzione dai tributi di cui all’art. 15 citato, dovendosi avere riguardo cioè, ad esempio, solo alle pattuizioni dell’atto notarile di mutuo o di apertura di credito.Conclusione questa che potrebbe destare, ad avviso di chi scrive, delle perplessità, in quanto, in primo luogo, va osservato, più in generale, che il rinvio fatto dall’art. 20 comma 5 del d.P.R. n. 601 del 1973, in materia di dichiarazione e pagamento dell’imposta sostitutiva, alle norme sull’imposta di registro, per quanto possa apparire ampio («per quanto altro riguarda l’applicazione dell’imposta sostitutiva, valgono le norme sull’imposta di registro»), non pare comportare un’automatica applicazione delle disposizioni del testo unico dell’imposta di registro. La dottrina, che si è occupata del tema in modo più approfondito, sembra abbastanza concorde, infatti, nel riconoscere all’imposta sostitutiva un’autonomia rispetto alle imposte sostituite, nel senso che sono diversi i rispettivi presupposti26. E più precisamente, l’imposta sostitutiva colpisce la capacità contributiva espressa dell’attività creditizia, misurata attraverso l’ammontare dei finanziamenti erogati nell’anno, quindi ha

25 Ma si veda Cass., 23 settembre 2019, n. 23549, che ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui esclude la rilevanza di elementi evincibili da atti eventualmente collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali. E i dubbi di legittimità costituzionale di una disposizione che vieti la qualificazione giuridica dell’atto (anche) in ragione di atti collegati, secondo la Cassazione, trovano radice, giustificazione e logica conseguenzialità proprio in quell’orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità (formatosi con riguardo alla precedente formulazione dell’art. 20) che a tali elementi attribuiva invece necessaria rilevanza e che ad esempio (con riguardo alla casistica ricordata dalla Cassazione n. 23549) escludeva l’applicazione del «l’imposta agevolata sostitutiva di quelle di registro, bollo ed ipotecaria sulle operazioni di credito a medio-lungo termine (d.P.R. n. 601 del 1973, art. 15), …, non solo quando il contratto di finanziamento contenga una clausola che renda discrezionale il recesso unilaterale della banca prima dei 18 mesi, ma anche quando tale clausola sia contenuta in un contratto di conto corrente con apertura di credito al quale il contratto di finanziamento risulti collegato: Cass. 7254/2016 e 6505/2018».26 Cfr. D. CANÈ, Territorialità dell’imposta sostitutiva sulle operazioni di credito a medio e lungo termine, in Rass. trib., 2013, 1441; G. PETRELLI, Imposta sostitutiva sui finanziamenti ipotecari a medio e lungo termine contratti all’estero, in Riv. not., 2016, 12 ss.

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riguardo all’operazione di finanziamento, con ciò richiamando un concetto più economico che giuridico27, mentre l’esenzione dai tributi sostituiti di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973 – che è giustificata e dipende dalla sussistenza del presupposto dell’imposta sostitutiva – attiene ai singoli atti (anche se pur sempre funzionali e strumentali all’operazione di finanziamento). E se è ragionevole intendere il rinvio dell’articolo 20 comma 5 d.P.R. n. 601 del 1973 nel senso che l’interprete deve fare riferimento al testo unico del registro per colmare eventuali lacune nella applicazione dell’imposta sostitutiva, sembra altrettanto ragionevole che ciò debba essere subordinato ad una valutazione di coerenza con la ratio di quest’ultima. Allora seguendo questo ragionamento, a mio avviso non si tratta tanto di applicare l’art. 20 del testo unico dell’imposta di registro, quanto di individuare ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 601 cit. la durata contrattuale dell’operazione di finanziamento. Pertanto, se la suddetta operazione è regolata da pattuizioni contenute in una pluralità di documenti – tenuto conto, peraltro, che redazionalmente si tratta in genere di atti notarili che richiamano come parte integrante i contratti-tipo, spesso allegati – occorre avere riguardo alla regolamentazione complessiva dagli stessi emergente, per valutare se esista o meno una clausola di recesso ad nutum dal finanziamento.

5. La questione della territorialitá dell’imposta sostitutiva

Le riflessioni appena svolte, in ordine al presupposto ed all’autonomia dell’imposta sostitutiva e ai suoi “rapporti” con la disciplina dell’imposta di registro, sono di interesse anche per affrontare un’altra e diversa questione, relativa alla territorialità dell’imposta sostitutiva.Essa è stata oggetto di alcune pronunce della giurisprudenza di merito (Comm. trib. prov. Verona, 16 giugno 2014, n. 261, Comm. prov. Milano, 24 giugno 2014 n. 6045, e del 14 luglio 2014, Comm. trib. reg. Lombardia, 1 febbraio 2016, n. 588), le quali escludono, per carenza del requisito di territorialità, la legittimità di pretese, invocate nei confronti di banche italiane, per l’imposta sostitutiva relativa a contratti di finanziamento stipulati all’estero.Ed in particolare la Commissione regionale della Lombardia n. 588 del 1° febbraio 2016 argomenta ritenendo il criterio della territorialità essenziale e necessario anche per l’imposta sostitutiva e da rinvenire nel testo unico

27 Cfr. D. CANÈ, Territorialità dell’imposta sostitutiva, cit.; V. MASTROIACOVO, Operazioni complesse ed imposta sostitutiva, Studio n. 88-2005/T, in Studi e materiali, 2006, 542 ss.

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dell’imposta di registro, il quale all’art. 2 stabilisce che l’imposta si applica agli atti formati per iscritto nel territorio dello Stato.E su questa linea sembra essere anche l’Amministrazione finanziaria (ris. n. 20/E del 28 marzo 2013).Per quanto si abbia l’impressione che l’applicabilità del criterio di territorialità proprio dell’imposta di registro all’imposta sostitutiva sia frutto di quella automatica applicazione della disciplina dell’imposta di registro menzionata nel precedente paragrafo, comunque, pur volendo ragionare in termini più sistematici, avendo presente la diversità dei tributi, appare corretto ritenere che un presupposto di territorialità debba esserci anche per l’imposta sostitutiva.Tuttavia mutuare quello dell’imposta di registro, legato alla formazione dell’atto, può destare delle perplessità, soprattutto perché – come già detto – l’imposta sostitutiva in esame è legata ad un’attività, più che ad un atto.Peraltro, le pronunce non si occupano della fattispecie che in realtà – specie dopo l’introduzione del regime opzionale dell’imposta sostitutiva – è più problematica, ossia il finanziamento stipulato all’estero ma con costituzione di ipoteca su immobili siti in Italia.Ipotesi nella quale occorre valutare se possa venire in rilievo la disposizione di cui all’art. 2, lett. d) del d.P.R. n. 131 del 1986, secondo la quale sono soggetti all’imposta di registro gli atti formati all’estero che comportano la costituzione di diritti reali su immobili in Italia, o se più in generale possa assumere rilevanza, anche riguardo all’imposta sostitutiva, la ricorrenza del requisito di territorialità per i tributi sostituiti, o anche solo per alcuni di essi.L’ABI nella circ. n. 15 del 5 giugno 2000 si è espressa favorevolmente, ma nell’ipotesi in cui sia riscontrabile una contestualità documentale, ossia nel caso in cui l’atto formato all’estero incorpori nel medesimo documento il finanziamento e la costituzione della garanzia su immobili siti nel territorio italiano, ritenendo in tal caso ricorrere la territorialità ai sensi del citato art. 2 lett. d) d.P.R. n. 131 del 1986.Limitazione documentale che, invece, non condivide una parte della dottrina, che più di recente ha affrontato la tematica, e che ritiene integrato il requisito della territorialità in tutte le ipotesi in cui anche uno solo degli atti di cui si compone l’operazione sia territoriale ai fini dell’imposta di registro, o di uno degli altri tributi sostituiti (come l’imposta ipotecaria legata all’esecuzione della formalità in Italia), perché tale atto sarebbe legato a tutti gli altri negozi di cui si compone l’operazione che costituisce oggetto di imposizione, e per questo sarebbe idoneo ad attrarre l’intera complessiva operazione nel regime

L’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo termine nella giurisprudenza

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dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio e lungo termine28. In altri termini, posto che l’operazione di finanziamento costituisce il presupposto dell’imposta sostitutiva – laddove si ritenga (e non tutta la dottrina è concorde sul punto29) di accedere ad una nozione di operazione complessiva di finanziamento idonea a ricomprendere non solo il finanziamento in sè ma anche tutti gli atti ad esso inerenti, per i quali l’art. 15 prevede l’esenzione dalle imposte, ed essendo la garanzia, in tale ottica, elemento essenziale dell’operazione, in quanto funzionale alla sua concessione – potrebbe sostenersi che ricorra il requisito della territorialità anche quando questo si realizza per uno solo dei tributi sostituiti, applicando quindi a tutta l’operazione il regime sostitutivo e la collegata esenzione dai tributi di cui all’articolo 15 del d.P.R. n. 601 del 1973.Tuttavia va segnalato che sul punto la giurisprudenza di legittimità e l’Amministrazione finanziaria non si sono ancora espresse, mentre la dottrina, come accennato, non è giunta a delle soluzioni concordi, quindi resta una questione che ancora non può definirsi risolta.

28 Cfr. G. PETRELLI, Imposta sostitutiva sui finanziamenti ipotecari, cit.; G. PANZERA, Il mito della “ territorialità” dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine, in Corr. trib., 2018, 2127 ss.; V. MASTROIACOVO, Considerazioni sul regime fiscale del prestito vitalizio ipotecario, Studio CNN n. 156-2017/T, in CNN Notizie del 17 luglio 2018. V. altresì D. CANÈ, Territorialità dell’imposta sostitutiva, cit.29 Cfr. A. BUSANI, L’imposta di registro e l’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari, Milano, 2018, 2413.

Annarita Lomonaco

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L’esercizio della prelazione artistica nell’analisi della giurisprudenza

Cristina LomonacoUfficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

La rassegna esaminando la giurisprudenza delinea gli aspetti più rilevanti della prelazione artistica come disciplinata dal codice dei beni cultural (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Il lavoro si divide in tre parti. La parte A ha ad oggetto la natura della prelazione artistica, anche in relazione alle altre prelazioni legali. Nella parte B, alla luce della casistica giurisprudenziale, si delinea l’ambito di applicazione della prelazione e i presupposti per il suo corretto esercizio. La parte C si sofferma sul procedimento disciplinato dal codice dei beni culturali negli articoli 61 e 62.

Starting from jurisprudence, the study outlines the relevant aspects of the discipline of the code of cultural heritage (legislative decree n. 22 of 22 january 2004). The study divides into three parts: the first part concerns the artistic preemption, also in conjunction with the other legal preemptions; the second part, starting from the case law, outlines the scope of the pre-emption application and the conditions for the correct exercise of it; finally, the third part is concentrated on the procedure governed by the code of cultural goods in articles 61 and 62.

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Sommario: Il quadro normativo. Parte A: La natura della prelazione artistica. 1. Le differenze tra la prelazione artistica e le altre prelazioni. – 2. segue La prelazione artistica e le procedure espropriative. – 3. La natura della prelazione artistica e il corretto esercizio del potere di supremazia da parte dello Stato. Parte B: I presupposti per l’esercizio della prelazione artistica. 4. L’ambito della prelazione artistica. – 5. Atto di compravendita e contratto preliminare. – 6. Permuta. – 7. Cessione di quota di un bene culturale. – 8. Lease back e leasing. – 9. I negozi esclusi dall’esercizio della prelazione. – 10. Il vincolo indiretto. Parte C: Il procedimento. 11. Il procedimento di prelazione. – 12. segue Il termine per l’esercizio della prelazione. – 13. segue. Il comma 3 dell’art. 61 del codice dei beni culturali. – 14. segue. Il provvedimento di esercizio della prelazione. – 15. La condizione legale. – 16. Gli altri enti competenti all’esercizio della prelazione. – 17. La sanzione civilistica di cui all’art. 164 del codice dei beni culturali.

Il quadro normativo

La presente rassegna si pone come obiettivo quello di esaminare la prelazione artistica alla luce delle pronunce della giurisprudenza, e ciò al fine di permettere all’operatore del diritto, e quindi al notaio, di verificarne l’applicazione concreta. La prelazione artistica è stata disciplinata da prima dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, poi dal d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 ed infine dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 421.Attualmente, quindi, il dato normativo da cui è partire è contenuto nel d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali). Più precisamente secondo l’art. 60: «Il Ministero o, nel caso previsto dall’articolo 62, comma 3, la regione o gli altri enti pubblici territoriali interessati, hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento. 2. Qualora il bene sia alienato con altri per un unico corrispettivo o sia ceduto senza previsione di un corrispettivo in denaro ovvero sia dato in permuta, il valore economico è determinato d’ufficio dal soggetto che procede alla prelazione ai sensi del comma 1.3. Ove l’alienante non ritenga di accettare la determinazione effettuata ai sensi del comma 2, il valore economico della cosa è stabilito da un terzo, designato concordemente dall’alienante e dal soggetto che procede alla prelazione. Se le parti non si accordano per la nomina del terzo, ovvero per la sua sostituzione qualora il terzo nominato non voglia o non possa accettare l’incarico, la nomina è effettuata, su richiesta di una delle parti, dal presidente

1 Il codice dei beni culturali è stato modificato dal D.lgs. 24 marzo 2006, n. 156 e successivamente dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62; poi dal d.l. 13 maggio, n. 70, convertito con modifiche dalla l. 12 luglio 2011, n. 106. Da ultimo è intervenuta la l. 4 agosto 2017, n. 124.

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del tribunale del luogo in cui è stato concluso il contratto. Le spese relative sono anticipate dall’alienante. 4. La determinazione del terzo è impugnabile in caso di errore o di manifesta iniquità. 5. La prelazione può essere esercitata anche quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento». L’art. 61 che regolamenta le condizioni della prelazione dispone che: «1. La prelazione è esercitata nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia prevista dall’articolo 59. 2. Nel caso in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, la prelazione è esercitata nel termine di centottanta giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma 4. 3. Entro i termini indicati dai commi 1 e 2 il provvedimento di prelazione è notificato all’alienante ed all’acquirente. La proprietà passa allo Stato dalla data dell’ultima notifica. 4. In pendenza del termine prescritto dal comma 1 l’atto di alienazione rimane condizionato sospensivamente all’esercizio della prelazione e all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa. 5. Le clausole del contratto di alienazione non vincolano lo Stato.6. Nel caso in cui il Ministero eserciti la prelazione su parte delle cose alienate, l’acquirente ha facoltà di recedere». Infine, per quanto attiene al procedimento per la prelazione, l’art. 62 afferma che: «1. Il soprintendente, ricevuta la denuncia di un atto soggetto a prelazione, ne dà immediata comunicazione alla regione e agli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il bene. Trattandosi di bene mobile, la regione ne dà notizia sul proprio Bollettino Ufficiale ed eventualmente mediante altri idonei mezzi di pubblicità a livello nazionale, con la descrizione dell’opera e l’indicazione del prezzo. 2. La Regione e gli altri enti pubblici territoriali, nel termine di venti giorni dalla denuncia, formulano al Ministero una proposta di prelazione, corredata dalla deliberazione dell’organo competente che predisponga, a valere sul bilancio dell’ente, la necessaria copertura finanziaria della spesa indicando le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene. 3. Il Ministero può rinunciare all’esercizio della prelazione, trasferendone la facoltà all’ente interessato entro venti giorni dalla ricezione della denuncia. Detto ente assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica all’alienante ed all’acquirente entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima. La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica. 4. Nei casi in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, il termine indicato al comma 2 è di novanta giorni ed i termini stabiliti al comma 3, primo e secondo periodo, sono, rispettivamente, di centoventi e centottanta giorni. Essi decorrono dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque

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acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma 4». Premessa la disciplina di riferimento, nel proseguo del lavoro si cercherà di dar conto delle decisioni più recenti e di maggiore interesse che sono intervenute sui diversi aspetti dell’istituto della prelazione artistica.

Parte A: La natura della prelazione artistica

1. Le differenze tra la prelazione artistica e le altre prelazioni legali

L’art. 60 del codice dei beni culturali prevede che: «Il Ministero o, nel caso previsto dall’articolo 62, comma 3, la regione o gli altri enti pubblici territoriali interessati, hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società».Dalla lettera della norma si evince che la prelazione artistica si esercita dopo che il negozio di trasferimento è stato posto in essere dalle parti. Partendo da tale assunto, cercando di definirne gli aspetti peculiari, la giurisprudenza ha posto in luce le differenze esistenti tra la prelazione artistica e le altre prelazioni legali.È stato osservato come la prelazione legale consiste nel diritto di un determinato soggetto ad essere preferito ad altri nell’acquisto di un determinato oggetto, per il caso che il proprietario intenda alienarlo, a parità di condizioni offerte dal terzo. Caratteristica essenziale della prelazione legale è che il soggetto preferito entra come parte nel negozio divisato e l’acquisto che avviene a suo favore trova la sua fonte nel negozio posto in essere, cioè nello scambio di volontà tra l’alienante e l’acquirente preferito.In altri termini, la prelazione legale presuppone un negozio soltanto programmato e non concluso, imponendo la denuntiatio, che unita all’intento di esercitare la prelazione dà luogo al contratto di trasferimento tra prelazionante e prelazionato.Operandosi, per effetto della prelazione, la sostituzione di un soggetto ad un altro, il soggetto preferito assume tutti i diritti e gli obblighi scaturenti dal negozio, il quale pertanto trova per il preferito integrale applicazione. Ciò significa che la prelazione legale opera in modo fisiologico quando il contratto divisato è stato appena abbozzato e non ancora concluso; nel caso contrario opera in modo patologico con il meccanismo del retratto, che implica il subentro del preferito nel negozio posto in essere a suo danno.Niente di tutto ciò si verifica nella c.d. “prelazione artistica”.La prelazione artistica, infatti, presuppone un contratto già concluso e destinato

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a produrre effetti immediatamente, imponendo la denuntiatio successivamente alla stipula del negozio stesso. Sul punto la Suprema Corte ha affermato che: «il diritto di prelazione artistica ha una propria configurazione giuridica che si differenzia nettamente dalla prelazione legale»; in quest’ultima il soggetto attivo, esercitando il suo diritto, si pone in un rapporto contrattuale rispetto al soggetto passivo, surrogandosi all’acquirente originario; nella prelazione artistica, invece, «lo Stato agisce mediante l’esplicazione di un potere di supremazia e per il conseguimento di un interesse pubblico; in tal caso il trasferimento del bene si attua non già attraverso un rapporto negoziale, ma per effetto di una manifestazione della potestà di imperio dello Stato»2.In altre parole, mentre nell’usuale prelazione legale il trasferimento si verifica per effetto del negozio posto in essere, nella prelazione artistica il trasferimento si verifica per effetto del provvedimento dell’Amministrazione pubblica.Chiarisce tale aspetto quella giurisprudenza che afferma che: «l’istituto della prelazione sulle cose di interesse storico, artistico ed archeologico di proprietà privata differisce nettamente dall’omonimo istituto civilistico, costituendo tipica espressione di potestà autoritativa a carattere ablatorio, in quanto la p.a. non acquista la proprietà attraverso un mero rapporto negoziale, subentrando nella regolamentazione giuridica posta in essere dai privati, bensì attraverso un provvedimento amministrativo a contenuto sostanzialmente espropriativo, come tale idoneo a degradare le posizioni soggettive dei privati contraenti al rango di meri interessi legittimi …»3.Gli elementi tipici della prelazione artistica, che la pongono dunque in contrapposizione con le altre forme di prelazione, sono da ricercarsi, secondo l’analisi della giurisprudenza, nello scopo stesso della prelazione artistica. Scopo che deve essere ricercato nella salvaguardia di un interesse pubblico qual è quello della salvaguardia di un interesse primario della collettività che attiene alla tutela dei valori culturali propri di un paese4. La cura del predetto interesse primario nel caso del compimento di un atto disposizione di un bene culturale legittima il sacrificio del diritto del privato che degrada a mero interesse legittimo.

2 Così Cass., 21 agosto 1962, n. 2613, in Giust. civ., 1963, I, 324. 3 Cons. Stato, sez. VI, 08 aprile 2002, n. 1899, in Foro amm., 2002, 962. 4 Tar Campania, sez. I, 28 settembre 1999, n. 2546, in Foro amm., 2000, 1033, che evidenzia come l’istituto della prelazione storico-artistica presenti «caratteri peculiari rispetto alla prelazione civilistica essendo finalizzato alla salvaguardia di beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese».

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E ciò in quanto la prelazione artistica è concepita «in funzione dell’interesse pubblico alla conservazione ed al pubblico godimento di tali beni, assume la natura di atto autoritativo o espropriativo in senso lato, ovvero ablatorio»5. Essendo, quindi, l’istituto della prelazione di cose d’interesse storico ed artistico espressione di potestà autoritativa a carattere ablatorio essa è «in grado di degradare le posizioni soggettive dei privati contraenti al rango di meri interessi legittimi»6.Partendo dalla considerazione che la prelazione artistica comporta l’esercizio di un potere di acquisizione coattiva del bene, la giurisprudenza ha sottolineato che il provvedimento con il quale lo Stato esercita la prelazione artistica è espressione del potere autoritativo dello Stato, altro non è che un provvedimento ablatorio. Ne consegue che lo stesso necessita di congrua motivazione7, che dia conto degli interessi pubblici attuali all’ acquisizione del bene8; ossia «una indicazione delle ragioni che hanno indotto l’amministrazione a scegliere in concreto quella forma di tutela che si realizza attraverso la prelazione»9.

2. Segue. La prelazione artistica e le altre procedure ablatorie

Premessa la natura della prelazione artistica, e considerato il carattere autoritativo della stessa, la giurisprudenza ha anche messo in luce le differenze con le altre ordinarie procedure espropriative.La Corte Costituzionale10 ha espressamente distinto le due procedure sancendo che: «è impossibile comparare le procedure ablative connesse al settore della tutela artistica e storica con le ordinarie procedure espropriate. Infatti, le prime sono giustificate dal particolare regime giuridico fissato per le cose di interesse storico e artistico; in particolare tale regime comprende anche la prelazione storico-artistica, che si ricollega all’art. 9 della Cost. e si giustifica in relazione

5 Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2000, n. 1889, in Riv. giur. ed., 2000, I, 884.6 Cons. Stato, sez. VI, 02 novembre 2007, n. 5665, in Foro amm., 2007, 11, I, 3172. Negli stessi termini anche Cons. Stato, sez. VI, 13 ottobre 1993, n. 706, in Giust. civ., 1994, I, 283, secondo cui «l’istituto della prelazione di cose d’interesse storico ed artistico va tenuto distinto dall’omonimo istituto civilistico, concretizzandosi il primo in una tipica espressione di potestà autoritativa a carattere ablatorio, in grado di degradare le posizioni soggettive dei privati contraenti al rango di meri interessi legittimi».7 Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 1982, n. 129.8 Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 1997, n. 1125.9 Cons. Stato, sez. VI, 03 aprile 1992, n. 226, in Riv. giur. urb., 1993, 541. 10 Corte cost., 20 giugno 1995, n. 269, in Foro amm., 1998, 319.

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al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese. La prelazione, pur manifestando una sostanza ablativa, è istituto ben distinto dagli ordinari provvedimenti di natura espropriativa, posto che essa si ricollega ad un’iniziativa negoziale della parte privata. Pertanto non è possibile comparare, sotto il profilo del principio di eguaglianza, le modalità temporali della prelazione storico-artistica con quelle proprie degli ordinari istituti espropriativi».

3. La natura della prelazione artistica e il corretto esercizio del potere di supremazia da parte dello Stato

La ratio della prelazione artistica è dunque da ricercarsi nell’esigenza di tutelare, di conservare e di valorizzare i beni culturali mediante un controllo pubblico sugli atti di disposizione di questi beni posti in essere da soggetti lato sensu – privati. Carattere principale della prelazione artistica è infatti quello di essere espressione di un potere di supremazia che nasce dalla necessità di difendere un interesse pubblico, quale quello della conservazione e del pubblico godimento di determinati beni. La prelazione è dunque prevista in un’ottica di tutela del patrimonio storico – artistico nazionale, e presuppone che l’acquisizione del bene al patrimonio statale ne consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio storico – artistico.Come detto, l’esercizio della prelazione artistica si pone come espressione del potere autoritativo dello Stato nei confronti del diritto del privato che viene sacrificato. Premesso ciò, la giurisprudenza per controbilanciare l’esercizio di tale potere e al contempo per garantire sia il suo corretto esercizio e sia di salvaguardare il diritto del singolo, partendo dalla considerazione che l’acquisizione dei beni in questione non avviene attraverso un mero rapporto negoziale, ma in forma procedimentalizzata, ha delineato gli elementi che devono essere rispettati per garantire la legittimità dell’esercizio del potere stesso. In tale ottica devono leggersi quelle pronunce che hanno osservato come in tema di beni di rilievo storico e artistico è stato demandato «alla P.A. di valutare se, tenuto conto delle caratteristiche dei beni, del prezzo per essi pattuito e delle risorse finanziarie disponibili, sussista o meno l’utilità di acquisirne la proprietà con prelazione rispetto al terzo acquirente»11.

11 Cass. civ., sez. un., 03 maggio 2010, n. 10619, in CED Cassazione, 2010. Sul punto cfr. Cons.

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O ancora è stato ulteriormente specificato come «la prelazione attribuita alla P.A. dall’art. 31 della l. 1 giugno 1939, n. 1089 con riguardo alle alienazioni fra privati di cose di interesse artistico o storico, comporta l’esercizio di un potere di acquisizione coattiva del bene e si concreta nell’emanazione di un provvedimento amministrativo e nella sua comunicazione all’interessato – che assume il valore di elemento costitutivo della fattispecie e non di uno strumento di conoscenza – nel termine di decadenza di due mesi all’uopo stabilito. Ne consegue che, in caso di mancanza di detta comunicazione o di ritardo della medesima, viene meno il potere acquisitivo della P.A. …»12.

Parte B: I presupposti per l’esercizio della prelazione artistica

4. L’ambito della prelazione artistica

Delineati in linea generale gli aspetti peculiari della prelazione artistica appare utile, attraverso la lettura della giurisprudenza, verificarne l’ambito di applicazione.Lo scopo della prelazione è quello di soddisfare l’interesse pubblico al godimento ed alla conservazione del patrimonio artistico, ossia alla salvaguardia dei beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese.Ciò che rileva è che la prelazione nasce dal negozio posto in essere dai privati che diventa il presupposto oggettivo per il suo esercizio. In altri termini: «il negozio traslativo dei privati è solo il presupposto dell’esercizio del diritto di prelazione storico artistica da parte della P.A. che, intervenuta nel rapporto contrattuale, non subentra nella posizione dell’acquirente, ma avoca a sé il bene con un atto di esercizio dello ius praelationis, implicante il trasferimento della proprietà in capo alla P.A. medesima e l’obbligo di corresponsione del prezzo, a nulla rilevando le vicende estintive o modificative del contratto a monte: sul piano generale, in altri termini, il negozio di trasferimento a titolo

Stato, sez. VI, 30 luglio 2018, n. 4667, Massima redazionale, 2018, secondo cui: «L’atto di prelazione artistica, ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, è un provvedimento amministrativo in correlazione al quale il privato è titolare di un interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice del giudice amministrativo. La giurisdizione del Giudice ordinario è configurabile sono in presenza di un atto nullo perché adottato in difetto assoluto di attribuzione e dunque in carenza di potere in astratto (art. 21-septies della l. n. 241 del 1990)».12 Cass. civ., 01 luglio 1992, n. 8079, in Giust. civ. Mass., 1992. Ved. anche Cons. Stato, sez. VI, 27 febbraio 2008, n. 713, in Foro amm., 2008, 2, I, 564. Ed ancora Cass. civ., 06 maggio 1994, n. 4386, in Foro it., 1995, 895.

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oneroso del bene, con la dichiarazione di alienare del proprietario del bene culturale, assume il ruolo di presupposto oggettivo e occasione storica del procedimento destinato a sfociare nella prelazione»13.Tuttavia, per realizzare lo scopo predetto è necessario che in seguito all’esercizio della prelazione da parte dello Stato, quest’ultimo acquisti il diritto di proprietà della cosa. Pertanto, per l’individuazione dei presupposti necessari per l’esercizio del diritto di prelazione occorre far riferimento unicamente alle disposizioni contenute nell’art. 60 del codice, che li individua nella circostanza che si tratti di cose, mobili o immobili, dichiarate di interesse storico artistico, e che si versi in ipotesi di “alienazione a titolo oneroso” o “conferimento di bene in società”.Sono assoggettati – a titolo di esempio – alla prelazione i seguenti tipi di atto: compravendita di un bene culturale; permuta; dazione in pagamento; transazione; leasing immobiliare; tutti quei negozi atipici che, sebbene non integrino una compravendita in senso stretto, abbiano i medesimi effetti traslativi della proprietà, sempreché in essi sia previsto un corrispettivo, anche non strettamente pecuniario, purché attribuisca al negozio natura di negozio oneroso.

5. Atto di compravendita e contratto preliminare

Condizione per l’esercizio della prelazione è il compimento di un atto di alienazione a titolo oneroso avente ad oggetto un bene culturale. Rientra quindi nell’ambito di applicazione delle disposizioni di cui all’art. 60 del codice dei beni culturali la compravendita. Si discute invece riguardo ad un contratto preliminare avente ad oggetto un bene culturale. La giurisprudenza evidenzia come «solo la determinazione definitiva del privato di porre in essere un atto idoneo a trasmettere la proprietà di un bene d’interesse storico e artistico pone alla P.A. l’onere dell’esercizio del diritto di prelazione, attesi la finalità della legge che consente allo stato di acquisire il bene che il privato ha già definitivamente determinato di trasmettere e il dato testuale dell’art. 30 che presuppone la presenza di un atto che comunque “trasmetta” la proprietà del bene; pertanto, non è collegabile un tale effetto ad un contratto preliminare il quale non trasmette la proprietà, di per sé ed immediatamente, richiedendo necessariamente un’ulteriore espressione di volontà»14.

13 Cons. Stato, sez. VI, 27 agosto 2014, n. 4337, in Guida dir., 2014, 37.14 Tar Lazio, sez. II, 17 ottobre 1983, n. 900, in Foro amm., 1984, 159.

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6. Permuta

Come detto il comma 1 dell’art. 60 del codice dei beni culturali prevede l’esercizio della prelazione «nell’ipotesi di alienazione a titolo oneroso o conferimento di beni in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento». Il comma 2 dell’art. 60 citato dispone altresì che. «Qualora il bene sia alienato con altri per un unico corrispettivo o sia ceduto senza previsione di un corrispettivo in denaro ovvero sia dato in permuta, il valore economico è determinato d’ufficio dal soggetto che procede alla prelazione ai sensi del comma 1». Infine, il comma 5 dell’art. 60 citato dispone che: «La prelazione può essere esercitata anche quando il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento».La giurisprudenza si è soffermata sulle predette disposizioni, evidenziando come ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione storico-artistica è sufficiente che la regolamentazione negoziale posta in essere comporti comunque un effetto traslativo delle cose soggette al vincolo culturale, sempreché sia previsto un corrispettivo, anche non strettamente pecuniario15.Ai fini di valutare se un atto rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 60 del codice dei beni culturali, per la giurisprudenza è necessario che ci sia una regolamentazione negoziale che comporti un effetto traslativo della cosa con un sacrificio patrimoniale che sia reciproco tra le parti. In tale ipotesi all’amministrazione spetta sempre il diritto di prelazione.La permuta, quindi, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 60 del codice dei beni culturali.Infatti, come osserva la giurisprudenza: «il diritto di prelazione spetta all’amministrazione in ogni caso di alienazione (recte, trasferimento) di cose soggette a vincolo artistico storico e archeologico a prescindere dalla causa del contratto essendo sufficiente l’esistenza di una regolamentazione negoziale che comporti, comunque, un effetto traslativo della cosa soggetta a vincolo e che sia caratterizzata, altresì, dall’esistenza di un reciproco sacrificio patrimoniale delle parti. Ne consegue, che il diritto di prelazione di che trattasi è esercitabile anche in presenza di un contratto di permuta, non rilevando la causa del trasferimento della cosa soggetta a vincolo artistico, storico e archeologico, né la fungibilità o meno delle prestazioni assunte dall’acquirente, con il solo limite della gratuità del trasferimento»16.

15 Tar Campania, sez. I , 28 settembre 1999 , n. 2546, in Foro amm., 2000 , 1033. Cfr. Tar Trentino-Alto Adige Bolzano, 28 febbraio 1995, n. 35, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1663.16 Tar Lazio Latina, sez. I, 16 febbraio 2006, n. 150, Massima redazionale, 2006.

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E ciò in quanto «l’esercizio della prelazione, anche se applicato all’ipotesi di permuta o altro negozio traslativo con corrispettivo infungibile, viene comunque accompagnato dalla corresponsione dell’esatto valore monetario del bene e, inoltre, l’eventuale sacrificio dell’acquirente è giustificato dall’interesse pubblico all’acquisizione del bene»17.Partendo dalle considerazioni svolte in tema di permuta, la giurisprudenza amministrativa è pervenuta alla conclusione che le norme sulla prelazione artistica collegano la possibilità dell’esercizio della prelazione da parte dell’amministrazione non all’esistenza di un contratto tipico o ad una specifica causa negoziale, ma all’esistenza di una regolamentazione negoziale che comporti, comunque, un effetto traslativo della cosa soggetta a vincolo, e che sia caratterizzata, altresì, dall’esistenza di un reciproco sacrificio patrimoniale delle parti, allo scopo di conseguire un’attribuzione patrimoniale. Più precisamente è stato ha affermato come «risulta evidente che il legislatore non ha inteso collegare la possibilità dell’esercizio della prelazione all’esistenza di un contratto tipico, o ad una specifica causa negoziale, ma ha invece ancorato il legittimo esercizio della prelazione all’esistenza di una regolamentazione negoziale che comporti, comunque, un effetto traslativo della cosa soggetta al vincolo e che sia altresì caratterizzata dall’esistenza di un reciproco sacrificio patrimoniale delle parti allo scopo di conseguire un’attribuzione patrimoniale. La previsione della legge n. 1089 del 1939 non appare pertanto limitata a quei negozi la cui funzione economico-sociale sia costituita dallo scambio di cosa contro prezzo (anche se quelle relative a tali negozi restano, ovviamente, le ipotesi più frequenti), ma si estende a tutte le regolamentazioni convenzionali che vedano comunque, oltre che la realizzazione di un effetto traslativo, l’assunzione di obbligazioni a carico di entrambe le parti del negozio»18.

7. Cessione di quota di un bene culturale

Si discute sulla possibilità di esercitare la prelazione in riferimento agli atti di alienazione di una quota indivisa del bene culturale o di una parte di un bene culturale unitario.Da una parte, è stato ritenuto di escludere la possibilità di esercitare la prelazione, in quanto in tali ipotesi si opererebbe un mutamento del regime giuridico del

17 Cons. Stato, sez. IV, 03 aprile 2000, n. 1889, in Riv. giur. ed., 2000, I, 884.18 Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 1987 n. 400, richiamata da sez. IV, 30 aprile 1997, n. 679; Cons. Stato, 03 aprile 2000, n. 1889; Tar Campania, 28 settembre 1999, n. 2546.

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bene. Infatti, in seguito all’esercizio della prelazione, la parte o quota del bene, acquisita dallo Stato, sarebbe assoggettata alle regole vigenti in materia di beni pubblici, con la conseguenza che un medesimo bene resterebbe sottoposto a due diversi regimi giuridici, di cui l’uno demaniale e l’altro privatistico. Sul punto la Cassazione, in una sentenza non recente19 ha ritenuto di escludere tale ipotesi dall’obbligo della prelazione, perché «in questo caso l’acquisto coattivo darebbe luogo ad una situazione non compatibile con gli effetti conseguenti l’ingresso del bene nella sfera pubblicistica; l’acquisto da parte dello Stato conferisce alla cosa – automaticamente se immobile, potenzialmente se mobile – la qualità di bene demaniale, che non tollera una simultanea appartenenza della cosa medesima a titolo di proprietà privata».Tale ricostruzione è stata criticata; si è eccepito infatti come non possa escludersi che un acquisto pro-quota non sia rispondente ad un interesse pubblico di carattere culturale, dato che accresce comunque la disponibilità del bene in capo all’amministrazione.È stato inoltre anche sottolineato come non possa trascurarsi che la contraria tesi fornirebbe un facile accorgimento per eludere, con vendite ripartite il potere di prelazione.Le predette considerazioni sono state recepite da quella giurisprudenza che si è pronunciata nel senso dell’ammissibilità della coesistenza, sul medesimo bene, di titolarità pro-parte o pro-quota in capo a privati di titolarità in capo alla pubblica amministrazione. È stato sostenuto che: «pertanto, se anche il trasferimento parziale, a qualsiasi titolo, della proprietà o detenzione di beni culturali, fa sorgere tale potere/dovere di tipo ablatorio in capo all’Amministrazione, è ovvio che il relativo atto con cui si esercita la prelazione (rectius: il potere ablatorio) non può che coerentemente riguardare la proprietà, anche parziale oggetto del trasferimento denunciato dal venditore o dal cedente. A nulla rileva il diverso regime cui potrebbe sottostare il bene, poiché è ovvio che, sebbene ciascuna parte indivisa possa soggiacere alla pertinente disciplina proprietaria, la parte del bene astrattamente in regime di diritto privato sarà comunque funzionalmente legata a quella oggetto di prelazione, nel senso che non potranno comunque adottarsi a livello di comunisti, decisioni che possano incidere e pregiudicare l’interesse pubblico alla conservazione e valorizzazione del bene artistico. Peraltro, ulteriore conferma del fatto che il diritto di prelazione è ammesso anche su parte dei beni alienati deriva dalla circostanza che se ne riconosce l’esercizio anche

19 Cass., 21 agosto 1962, n. 2613, in Foro it., 1963, I, 303.

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su beni relativi ad universitates o insieme di cose di valore storicoculturale, in conformità all’art. 822 c.c., ed in base al vincolo di destinazione che non può far venir meno il carattere economico e sociale del bene separandolo dall’insieme (così come già disponeva l’art. 31, ult. comma, l. 1 giugno 1939, n. 1089)»20. Si afferma altresì che: «ancora in merito alla censura con la quale si deduce la non esercitabilità del diritto di prelazione nel caso di quota indivisa di un immobile, il Collegio osserva che detta limitazione non trova riscontro nel dato positivo e, nella misura in cui consente che i privati dispongano a più riprese di quote di un immobile sulla base di operazioni sempre sottratte allo strumento della prelazione, innesca uno strumento di facile elusione della norma di legge e frustra la ratio dell’istituto della prelazione data dalla prevalenza dell’interesse pubblico soddisfatto con l’acquisizione anche solo parziale della proprietà di un bene e con il conseguente esercizio dei poteri di gestione nella qualità di comproprietario in modo da assicurare la migliore tutela e l’ottimale fruizione del bene. In merito, poi, all’obiezione con la quale si contesta l’anomalia della simultanea connotazione di un bene quale bene demaniale ed al tempo stesso appartenente ad un privato proprietario pro quota, si deve rimarcare, in prima battuta, che trattasi di ostacolo che attiene non al mezzo acquisitivo in sé considerato bensì alla situazione giuridica conseguente all’acquisto. In seconda battuta va rimarcato che la stessa obiezione potrebbe essere mossa per qualsiasi forma di acquisto di un bene culturale da pare dello Stato, come una vendita o una donazione o un lascito ereditario, la cui ammissibilità, anche se limitata ad una quota di proprietà, è certo fuori discussione. Si deve poi soggiungere che, secondo tesi dottrinale che merita attenzione, in caso di acquisto di una quota indivisa, il soggetto pubblico non può che vantare un diritto di comproprietà di natura meramente privatistica, così da superare l’obiezione della natura mista o ibrida del regime. Decisiva appare, infine, la rammentata considerazione che un acquisto pro quota non elude la ricorrenza dell’interesse pubblico al quale è funzionale l’istituto della prelazione, dato che consente la disponibilità del bene in capo alla P.A., con la conseguente possibilità di piegarlo ad un regime di utilizzo congruo per il pubblico interesse; per non dire della prospettiva dell’acquisto esclusivo del bene che deve passare in via preferenziale per l’acquisto di una quota dello stesso»21.

20 Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2012, n. 2944.21 Cons. Stato, sez. VI, 01 ottobre 2003, n. 5705. O ancora secondo Tar Trentino-Alto Adige, sez. I - Bolzano, 10 settembre 2019, n. 203, in Riv. giur. ed., 2019, «L’esercizio della prelazione da parte dello Stato relativamente a beni vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 in relazione a una quota indivisa di un immobile richiede una puntuale motivazione che indichi le ragioni che hanno

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8. Lease back e leasing

La giurisprudenza sottolinea come il lease-back (anche sale and lease-back) consiste in un contratto tramite il quale un’impresa commerciale o industriale vende un bene immobile di sua proprietà ad un imprenditore finanziario il quale ne paga il corrispettivo, diventandone proprietario, e contestualmente lo concede in locazione finanziaria al venditore, che versa periodicamente dei canoni per una certa durata con facoltà di riacquistare la proprietà del bene venduto riscattandolo al termine della durata del contratto22.Data la struttura della predetta operazione, si è posto nella pratica il dubbio se nell’ipotesi di bene culturale sia applicabile il codice dei beni culturali.Le medesime perplessità sono state sollevate anche per il contratto di leasing.Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale23 che ha esaminato entrambe le operazioni, affermando che: «Il rapporto atipico c.d. di “lease-back” è caratterizzato dal trasferimento in proprietà del bene al finanziatore, mentre la detenzione resta al cedente che conserva il godimento del bene stesso dietro pagamento del canone ed al termine del rapporto l’utilizzatore potrà esercitare il riscatto, riunendo così nuovamente proprietà e detenzione. Di conseguenza, non è fondata la q.l.c. dell’art. 17 comma 2 secondo periodo l. prov. Bolzano n. 13 del 2005, che prevede che il diritto di prelazione c.d. “artistica”, di cui agli art. 60, 61 e 62 del codice dei beni culturali e del paesaggio non trova applicazione in caso di operazioni di lease-back, se il locatario si obbliga contrattualmente ad esercitare il diritto di riscatto previsto nel contratto di leasing. In caso di inadempimento dell’obbligo contrattuale di esercitare il diritto di riscatto, il diritto di prelazione può essere esercitato entro sessanta giorni dalla scadenza del rispettivo contratto di leasing».O ancora sempre nella sentenza della Corte costituzionale appena citata si legge che: «la disciplina dell’istituto della prelazione c.d. “artistica” prescinde dalla specificità dei titoli giuridici degli atti, ma ha riguardo soltanto ai loro effetti. Nel caso di contratto atipico di leasing, di norma, la proprietà del bene passa nella fase iniziale dal venditore all’acquirente-finanziatore il quale, nel trasferirne il godimento all’utilizzatore dietro pagamento del canone, riveste la qualità di concedente o locatore, cui è correlativa quella di concessionario-

determinano l’acquisto della quota di comproprietà, sotto il particolare profilo della compatibilità della situazione di comunione».22 Cass., 14 marzo 2006, n. 5438, in Giur. it., 2007; in Dir. giust., 2006.23 Corte cost., 21 giugno 2007, n. 221, in Giust. civ., 2007, 9, I, 1810, in Foro it., 2008, 4, I, 1073.

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locatario dell’utilizzatore medesimo, ed al termine del rapporto, la proprietà potrà passare a quest’ultimo, che ne ha già la detenzione, nel caso in cui egli eserciti il diritto di riscatto, altrimenti resterà in capo al locatore-concedente, che verrà così a riacquistare la piena disponibilità del bene. Di conseguenza, è costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole “solamente” e “non” l’art. 17, comma 2, primo periodo l. prov. Bolzano 23 dicembre 2005, n. 13, che recita: “Il diritto di prelazione di cui agli art. 60, 61 e 62 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – codice dei beni culturali e del paesaggio – trova applicazione per i beni oggetto di finanziamento leasing” solamente “per il passaggio del bene nella proprietà del locatore e non per il passaggio successivo del bene nella proprietà del locatario”».Anche per la giurisprudenza di merito: «nell’ipotesi di leasing finanziario, il diritto di prelazione di cui all’art. 60, d.lgs. n. 42 del 2004 va riconosciuto sia al momento dell’acquisto da parte del finanziatore che in quello in cui l’opzione dell’utilizzatore-locatario realizza, anche a distanza di anni, un secondo trasferimento a favore di quest’ultimo»24.

9. I negozi esclusi dall’esercizio della prelazione

Come detto nella prelazione rientrano gli atti a titolo oneroso o conferiti in società, quindi non rientrano nell’ambito della prelazione artistica i contratti di donazione in quanto difettano del requisito dell’onerosità25. Non rientrano neanche gli atti mortis causa in quanto oltre alla mancanza del requisito dell’onerosità non sono atti inter vivos.

10. Il vincolo indiretto

Non è soggetto a prelazione un bene sottoposto a vincolo indiretto. Secondo l’art. 46 del codice dei beni culturali: «1. Il soprintendente avvia il

24 Tar Lazio, 3 aprile 2008, n. 2843.25 La prelazione artistica di cui all’art. 60 del codice dei beni culturali ricomprende solo gli atti il cui effetto sia l’integrale trasferimento della titolarità del bene. Ne consegue che non appaiono essere soggetti a prelazione, gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali come l’usufrutto. Infatti nell’ipotesi in cui è trasferito un diritto reale limitato non potrebbe operare la prelazione, e ciò in quanto non è congruente con l’acquisto del bene da parte dello Stato il semplice acquisto di un diritto reale limitato. Ai fini della prelazione, quindi, si dovrebbero prendere in considerazione i soli atti di disposizione che siano idonei a far acquistare allo Stato la proprietà dei beni.

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procedimento per la tutela indiretta, anche su motivata richiesta della regione o di altri enti pubblici territoriali interessati, dandone comunicazione al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile cui le prescrizioni si riferiscono. Se per il numero dei destinatari la comunicazione personale non è possibile o risulta particolarmente gravosa, il soprintendente comunica l’avvio del procedimento mediante idonee forme di pubblicità. 2. La comunicazione di avvio del procedimento individua l’immobile in relazione al quale si intendono adottare le prescrizioni di tutela indiretta e indica i contenuti essenziali di tali prescrizioni. 3. Nel caso di complessi immobiliari, la comunicazione è inviata anche al comune e alla città metropolitana. 4. La comunicazione comporta, in via cautelare, la temporanea immodificabilità dell’immobile limitatamente agli aspetti cui si riferiscono le prescrizioni contenute nella comunicazione stessa. 5. Gli effetti indicati al comma 4 cessano alla scadenza del termine del relativo procedimento, stabilito dal Ministero ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di procedimento amministrativo».Il contenuto del vincolo indiretto di cui all’art. 46 del codice è dato, dunque, dalle prescrizioni imposte dal Ministero o che attengono all’uso dei beni che vi sono assoggettati. Da tale normativa è, quindi, possibile dedurre il seguente principio: gli immobili assoggettati al cd. vincolo indiretto non costituiscono cose d’arte. Il bene assoggettato a vincolo indiretto è diretto ad avvantaggiare un bene culturale che sta nelle vicinanze. Tale bene non è mai per se stesso bene culturale e pertanto esso non è assoggettato, ove alienato a terzi, né ad autorizzazione preventiva, né a denuncia ai fini della prelazione artistica Il vincolo indiretto, pertanto, non riguarda mai aspetti negoziali relativi al bene, ma soltanto aspetti di ordine edilizio che siano suscettibili di danneggiare il bene culturale ubicato nelle vicinanze. Tanto è vero che la norma sul vincolo indiretto è stata intesa come norma non prevedente ablazione del diritto di proprietà, e come tale non in contrasto con la norma costituzionale sull’obbligo di indennizzo. I predetti aspetti sono stati chiariti dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui: «Il bene sottoposto a vincolo ex art. 21 della legge 1089 è diverso dal bene sottoposto a vincolo diretto: questo è esso stesso di rilevante interesse storico, artistico o archeologico e come tale oggetto anche di una forma più penetrante e intensa di tutela; mentre il primo bene (sottoposto a vincolo indiretto) è assoggettato a misure di entità ridotte, perché strumentali e complementari alla tutela di un bene storico»26.

26 Tar Toscana, 17 gennaio 1991, n. 5, in Riv. giur. ed., 1991, I, 469; Ved. anche Cons. Stato, 22

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La Corte Costituzionale27 chiarisce che la norma di cui all’artt. 46 del codice dei beni culturali non è preordinata in alcun modo a condizionare la titolarità del bene assoggettato a vincolo indiretto, data la natura di quest’ultimo tutta tesa alle modalità di godimento del bene, a prescindere da chi ne abbia la titolarità, ed evidentemente senza preoccuparsi del mutamento della stessa titolarità.

Parte C: Il procedimento

11. Il procedimento di prelazione

Gli articoli 61 e 62 del codice dei beni culturali delineano il procedimento per l’esercizio della prelazione artistica che si esercita «attraverso un complesso procedimento amministrativo che prevede l’emissione di un formale provvedimento da parte della competente amministrazione dei beni culturali ed ambientali, nella sua notificazione al venditore ed al compratore, nell’emissione del mandato di pagamento»28.La prelazione ai sensi dell’art. 61 del codice dei beni culturali è esercitata nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia prevista all’art. 59 del codice.

12. Segue. Il termine per esercizio ella prelazione

In primo luogo occorre soffermarsi sul termine prescritto dalla legge per l’esercizio della prelazione. Infatti: «Ai sensi dell’art. 59 e 60 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del Paesaggio), ed in funzione dell’esercizio della prelazione, deve essere presentata al Soprintendente – competente ratione loci – la denuncia del negozio traslativo della proprietà e l’art. 61, a sua volta, fissa in sessanta giorni il termine perentorio per l’esercizio della prelazione da parte del Ministero, ovvero ex art. 62 della Regione o di altro ente pubblico territoriale interessato decorrente dalla data di ricezione della denuncia. Tale termine diviene di centottanta giorni nella ipotesi che la denuncia sia stata omessa, ovvero tardivamente presentata oppure risulti incompleta»29.

agosto 1991, n. 524, in Giust. civ., 1992, 1973.27 Corte cost., 4 luglio 1974, n. 202, in Foro it., 1974, I, 2245.28 Cass. civ., sez. un., 11 marzo 1996, n. 1950, in Foro it., 1996, I.29 TAR Toscana, sez. III, 13 aprile 2006, n. 1221.

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La giurisprudenza si è soffermata da una parte sull’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine prescritto e dall’altra parte sulla sua natura. È stato precisato come: il termine di due mesi per l’esercizio del diritto di prelazione inizia a decorrere solo dalla data della formale denuncia dell’alienazione30.Inoltre è stato specificato come il suddetto termine è da intendere prorogato, nell’ipotesi di scadenza in giorno festivo, al primo giorno seguente non festivo31. Si discute se il termine decorra oltre che dall’atto di denuncia, anche dall’invio dell’atto di compravendita che contiene tutti gli elementi della denuncia. In altri termini, premesso che il codice dei beni culturali descrive l’atto di denuncia come un atto separato e successivo al negozio di trasferimento del bene ci si è interrogati sulle “possibili” modalità tramite le quali si adempie al prescritto obbligo di presentare la denuncia. Ad esempio, si è chiesto se l’invio alla competente Soprintendenza di copia autentica dell’atto di trasferimento del bene – laddove contenga tutti gli elementi richiesti dalla legge – possa validamente essere considerato come “denuncia” ex art. 59 del codice. Premesso che la denuncia persegue lo scopo di mettere in grado lo Stato di conoscere le vicende circolatorie che interessano i beni culturali, potrebbe essere corretto ritenere che tale finalità possa essere raggiunta mediante la notifica di copia autentica dell’atto di trasferimento.Questo, infatti, contiene tutti quegli elementi che il legislatore ha previsto come essenziali al fine di permettere alla P.A. di esercitare la prelazione.Ne consegue che la notifica di una copia autentica di un atto di trasferimento, sempreché contenga tutti gli elementi di cui all’art. 59 del codice, e purché la P.A. competente possa conoscere che la notifica dell’atto sia effettuata ai sensi e per l’effetto dell’art. 59 e ss. del codice, possa essere equipollente alla notifica della denuncia.La giurisprudenza ha fatto propri i precedenti ragionamenti ed ha affermato come: «formale ricezione del rogito notarile produce i medesimi effetti della denuncia di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 490 del 1999, come è riconosciuto dalla giurisprudenza maggioritaria per la quale “scopo della normativa in esame è,

30 Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 1997, n. 1489, in Urb. app., 1998, 81. Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2008, n. 4569, in Urb. app., 2009, 1, 54, secondo cui. «Il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 62, comma 3, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 al fine di adottare e notificare il provvedimento di esercizio della prelazione, decorre dalla data di notifica della “denuntiatio” ex art. 59 dello stesso decreto».31 Cass. civ., sez. un., 06 maggio1994, n. 4386, in Foro it., 1995, I, 895.

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infatti, quello di consentire alle Autorità competenti di valutare l’opportunità di acquisire al patrimonio pubblico determinati beni, in considerazione del peculiare interesse storico o artistico dei medesimi”; i dati necessari per effettuare tale valutazione sono compiutamente indicati dal ricordato art. 59, comma 4 d.lgs. n. 42 del 2004, nei seguenti termini: a) dati identificativi delle parti e sottoscrizione delle medesime o dei loro rappresentanti legali; b) dati identificativi dei beni; c) indicazione del luogo ove si trovano i beni; d) indicazione della natura e delle condizioni dell’atto di trasferimento; e) indicazione del domicilio in Italia delle parti, ai fini di eventuali comunicazioni. Sembra appena il caso di sottolineare come tutte le indicazioni sopra elencate siano contenute nell’atto di compravendita ... In tale situazione, deve ritenersi che l’invio dell’atto in questione potesse equivalere alla trasmissione di un diverso documento, formalmente qualificato come “denuncia ai sensi dell’art. 59 del d.lgs. n. 42 del 2004”, non risultando specificate a livello normativo primario le modalità formali, con cui la denuncia stessa avrebbe dovuto essere redatta ed essendo, in linea di principio, dette modalità libere, ove non diversamente prescritto. Sempre in rapporto alla formulazione dei più volte citati articoli 59 e 61 d.lgs. n. 42 del 2004, peraltro, non può non ritenersi applicabile il principio di strumentalità delle forme, secondo cui le modalità e il contenuto della denuncia di cui trattasi debbono ritenersi viziate, in modo tale da rendere la denuncia stessa “tamquam non esset”, solo quando i dati trasmessi non consentano l’apprezzamento discrezionale, cui la comunicazione è finalizzata»32.Il termine in oggetto, inoltre, ha natura perentoria. La perentorietà del termine si giustifica a ragione della tutela dell’affidamento delle parti del contratto che devono conoscere il momento oltre il quale il loro contratto diventa definitivo.Ne consegue che: «una volta che il privato abbia assolto l’onere di inviare in modo corretto la denuncia, il decorso del termine di sessanta giorni dal compimento di tale atto determinerà, in caso di mancato esercizio da parte dell’amministrazione del diritto di prelazione, il definitivo consolidamento del contratto di compravendita»33.Inoltre, dalla natura perentoria del suddetto termine deriva che: «trascorso inutilmente il detto termine, viene meno quella situazione di negozio sospensivamente condizionato assegnata all’atto di vendita dall’art. 32, comma 2 cit., con la conseguenza che le parti private restano libere dall’osservanza degli

32 Cons. Stato, sez. VI, 27 febbraio 2008, n. 713; Tar Lombardia, 8 aprile 2011, n. 935.33 Cons. Stato, sez. VI, 30 ottobre 2009, n. 6703, Massima redazionale, 2009.

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obblighi nascenti dalla sospensione legale degli effetti del negozio, acquistando la piena facoltà di dare esecuzione al contratto»34.

13. Segue. Il comma 3 dell’art. 61 del Codice dei beni culturali

Il comma 3 dell’art. 61 del codice dei beni culturali dispone che nel caso in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, la prelazione è esercitata nel termine di centottanta giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’articolo 59, comma 4.In caso di denuncia tardiva il problema che potrebbe porsi nella pratica riguarda il prezzo in base al quale lo Stato è chiamato ad esercitare la prelazione. Infatti recuperare l’atto “nullo” significa sottoporlo alla prelazione anche se in ritardo, e significa altresì sottoporlo alla prelazione al prezzo del precedente atto.Evidenzia tale aspetto anche la giurisprudenza laddove afferma che: «Il danno che i contraenti vengono a subire, in conseguenza dell’esercizio ritardato della prelazione storico-artistica da parte dell’Amministrazione, effettuata in applicazione dell’impugnato combinato disposto degli artt. 61, 31 e 32 della legge n. 1089 del 1939, nel caso di precedente alienazione di cose di interesse storico o artistico non regolarmente denunciata (ai sensi del R.d. 30 gennaio 1913, n. 363, richiamato dall’art. 73 della legge n. 1089 del 1939) allo stesso prezzo stabilito nell’atto di alienazione, è conseguenza diretta dell’inadempimento realizzato dagli stessi contraenti a seguito della mancata presentazione di una denuncia regolare e della situazione di illiceità che ne consegue e che peraltro può essere rimossa in ogni momento da parte del privato mediante la presentazione tardiva di una regolare denuncia, di fronte alla quale l’esercizio della prelazione, dovendo avvenire entro due mesi (cfr. art. 32 della legge n. 1089 del 1939) non può essere procrastinato. D’altra parte i rischi che l’omessa o l’irregolare denuncia dell’alienazione sono suscettibili di determinare ai fini della conservazione del bene al patrimonio culturale nazionale ben possono giustificare il particolare rigore della disciplina adottata: rigore che conduce a colpire l’inadempienza del privato non solo sul piano delle norme penali (art. 63) ma anche su quello delle norme di natura civilistica, il cui carattere sanzionatorio non può ritenersi in contrasto con il consentito esercizio discrezionale delle misura, giacché

34 Tar Lazio, sez. II, 13 gennaio 1998, n. 16, in Trib. amm. reg., 1998, I, 426

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questa opera su un piano diverso da quello proprio delle sanzioni penali e amministrative. Escluso perciò che la legittimità costituzionale della norma “de qua” possa porsi in dubbio in riferimento al precetto dell’art. 42 Cost. relativo all’indennità di esproprio, va comunque rilevato che, anche ad ammettere che, nell’ipotesi in questione, il prezzo della prelazione sia assimilabile all’indennità di esproprio, esso non potrebbe assumere, almeno nella normalità dei casi (riferibili all’esercizio della prelazione entro un arco temporale contenuto) le connotazioni di un compenso, oltre che ridotto rispetto al valore reale del bene, del tutto irrisorio e simbolico e pertanto lesivo dei criteri di determinazione dell’indennità di esproprio desumibili dall’art. 42 Cost.»35.È quindi legittima la «prelazione da parte dell’amministrazione, nei confronti di un bene assoggettato a vincolo artistico, molti anni dopo una alienazione che le era stata denunciata in modo incompleto, per il prezzo allora dichiarato, senza adeguamento al valore reale del bene, e senza tener conto della svalutazione monetaria intervenuta nel frattempo e degli interessi»36. Ribadisce quanto sopra anche il Consiglio di Stato37 secondo cui: «In ipotesi di esercizio tempestivo della prelazione da parte del Comune, a fronte di una denuncia di vendita tardiva di un bene culturale sottoposto a vincolo, è legittima la quantificazione del prezzo da pagare per l’esercizio della prelazione nell’importo originariamente pattuito, somma divenuta modesta per effetto dell’inflazione, trattandosi di pregiudizio che l’interessato deve sopportare in quanto avrebbe potuto evitarlo con l’ordinaria diligenza».

14. Segue. Il provvedimento di esercizio della prelazione

Nel termine prescritto nei commi 1 e 2 dell’art. 61 del codice il provvedimento di prelazione deve essere notificato all’alienante ed all’acquirente.In giurisprudenza si discute sulla “necessità” di comunicare alle parti l’avvio del procedimento di prelazione. Da una parte si sostiene che «ai sensi della l. 7 agosto 1990 n. 241 art. 7, l’amministrazione dei beni culturali è tenuta a dare avviso di avvio del

35 Corte cost., 20 giugno 1995, n. 269. V. sul punto anche Cass. civ., sez. un., ord., 19 marzo 1994, n. 228, in Giust. civ., 1994, I.36 Tar Lazio, sez. II, 26 gennaio 1990, n. 224, in Foro it., 1991, III, 37.37 Cons. Stato, 3 ottobre 2018, n. 5671, in Riv. giur. ed., 2018, 6, I, 1504, ed anche in Notariato, 2020, 64 ss, con nota di P. GUIDA, Notifica tardiva e prezzo del trasferimento di beni vincolati.

Cristina Lomonaco

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procedimento di prelazione all’alienante ente pubblico (nel caso si tratti di beni in proprietà di questo) e all’acquirente»38.Da un’altra parte è stato affermato come: «In tema di prelazione sulle alienazioni di beni di interesse storico-artistico, non occorre la comunicazione dell’avvio del procedimento, in quanto il procedimento stesso scaturisce da una serie di atti di iniziativa privata, quali il trasferimento negoziale del bene e la successiva denuncia all’amministrazione, per cui un’ulteriore fase partecipativa degli stessi soggetti privati autori dell’atto negoziale su cui si innesta il diritto di prelazione non avrebbe alcun risvolto di utilità, essendo rimessa all’esclusiva valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione la consistenza e l’importanza dell’interesse generale in base al quale si esercita la prelazione medesima»39. Riguardo al provvedimento con il quale è esercitata la prelazione lo stesso è «riconducibile nella categoria dei provvedimenti ablatori reali di natura discrezionale, richiede la motivazione circa la rilevanza dell’acquisto del bene, ai fini della funzione pubblica che questo deve svolgere nell’ottica dell’interesse pubblico storico ambientale; nel caso, pertanto, di esercizio della prelazione rispetto a quota indivisa di immobile avente i requisiti di cui alla cit. l. n. 1089 del 1939, incombe alla P.A. il dovere di enunciare le ragioni che la determinino all’acquisto della quota condominiale, sotto il particolare profilo della compatibilità della situazione di comunione con la destinazione del bene stesso»40.Si deve specificare come la giurisprudenza qualifica il provvedimento amministrativo con il quale viene esercitato il diritto di prelazione come “atto amministrativo recettizio”, nel senso che il suo effetto caratteristico si verifica non al momento della sua emanazione, bensì nel momento in cui l’atto viene notificato ad entrambe le parti41.Infatti, è stato precisato come: «Il provvedimento con il quale viene esercitata la prelazione si configura, ai sensi degli art. 31 e 32 l. n. 1089 del 1939, come atto ricettizio e va notificato sia all’alienante che all’acquirente entro il termine di due mesi dalla data in cui l’alienazione è stata denunciata alla P.A.»42.In questo modo la comunicazione del provvedimento alle parti viene ad

38 Cons. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2001, n. 923, in Foro amm., 2001, 590.39 Cons. Stato, sez. VI, 29 maggio 2012, n. 3209, Massima redazionale, 2012.40 Cons. Stato, sez. VI, 09 marzo 1988, n. 323, in Foro amm., 1988, 498. Si esprime nel senso di ritenere l’atto di esercizio del diritto di prelazione artistica spettante alla P.A. come un provvedimento amministrativo anche Cass. civ., sez. un., 1 aprile 2020, n. 7643. 41 Cass., 8 febbraio 1982, n. 720, in Foro it., 1982, I, 1612.42 Cons. Stato, sez. VI, 28 agosto 1995, n. 819, in Giur. it., 1996, III,1, 66.

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assumere il valore di strumento essenziale della fattispecie, la quale si articola pertanto su due momenti: a) l’emissione del provvedimento; b) la sua notifica mediante partecipazione ai soggetti interessati.Inoltre «in tema di vendita di cose di interesse artistico e storico, il provvedimento con il quale l’amministrazione esercita il diritto di prelazione segna il passaggio allo Stato della proprietà del bene (artt. 32 terzo comma della legge 1 giugno 1939, n. 1089 e 65 secondo comma del R.d. 30 gennaio 1913, n. 363 – applicabili “ratione temporis”) …»43. Inoltre lo stesso «deve essere motivato dall’amministrazione in merito all’interesse pubblico attuale all’acquisizione al patrimonio statale al fine della tutela del bene e non anche allo scopo di destinare il bene stesso a sede di pubblici uffici»44.Questo però non deve motivare in relazione ad eventuali situazioni pregresse o ad interessi che sarebbero esistiti in passato, ma solo con riferimento ad interessi attuali al momento dell’adozione del provvedimento stesso45.

15. La condizione legale

Secondo il comma 4 dell’art. 61 del codice dei beni culturali in pendenza del termine prescritto dal comma 1 l’atto di alienazione rimane condizionato sospensivamente all’esercizio della prelazione e all’alienante è vietato effettuare la consegna della cosa. Dunque, trascorso il termine prescritto per l’esercizio della prelazione senza che lo Stato o l’ente locale abbia esercitato il diritto di prelazione (oppure in caso di dichiarazione entro il termine di legge di non voler esercitare la prelazione) il negozio giuridico acquista ex tunc tutti i suoi effetti.L’effetto sospensivo è dunque rapportato al termine entro il quale può essere esercitato il diritto di prelazione, ossia al termine previsto dal primo comma dell’art. 61.Si tratta di una condizione sospensiva legale in quanto la subordinazione dell’efficacia del contratto all’avverarsi di un avvenimento futuro ed incerto non ha la sua fonte nella volontà negoziale, bensì in una norma di legge.In altri termini: «In tema di vendita di beni culturali la menzione nell’atto di

43 Cass. civ., sez. I, 12 giugno 2007, n. 13779, in Mass. Giur. it., 2007.44 Cons. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2001, n. 923, in Foro amm., 2001, 59, in Riv. giur. ed., 2001, I, 398.45 Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 1997, n. 1125, in Cons. Stato, 1997, I, 1094.

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compravendita della condizione sospensiva collegata al mancato esercizio della prelazione da parte dello Stato non vale a trasformare la condizione da legale in volontaria, atteso che rimangono fermi i caratteri della condizione legale, che trova la sua fonte in norme di legge e non certo nella volontà negoziale, tant’è che la stessa è operante a prescindere dal richiamo delle parti, né può mutarne la natura la previsione del divieto di consegnare la cosa in pendenza della condizione (tra l’altro già prevista dallo stesso comma 4 dell’art. 61 del codice dei beni culturali) o l’obbligo negoziale di restituzione delle somme e rimborso delle spese. Dalla natura legale della condizione in oggetto – per la cui pendenza il codice dei beni culturali non dispone una particolare pubblicità – consegue che non si pone alcun obbligo di evidenza pubblicitaria per la stessa e, quindi, di conseguenza, nessuna formalità di annotazione mediante cancellazione della condizione. La tutela dei terzi – comunque – quanto al verificarsi o meno dell’esercizio della prelazione artistica da parte dello Stato deve ritenersi sussistente anche in relazione a detto fatto, atteso che gli stessi, a conoscenza per legge della pendenza della “condicio iuris”, ben potranno accertarsi dell’avvenuto o non avvenuto avveramento della stessa»46.

16. Gli altri enti competenti all’esercizio della prelazione

L’art. 62 del codice dei beni culturali nel disciplinare il procedimento di prelazione delinea il ruolo che in tale procedimento assumono anche gli altri enti territoriali.Più precisamente il soprintendente, ricevuta la denuncia di un atto soggetto a prelazione, ne dà immediata comunicazione alla regione e agli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il bene. I predetti soggetti nel termine di venti giorni dalla denuncia, formulano al Ministero una proposta di prelazione, corredata dalla deliberazione dell’organo competente che predisponga, a valere sul bilancio dell’ente, la necessaria copertura finanziaria della spesa indicando le specifiche finalità di valorizzazione culturale del bene. Inoltre, nell’ipotesi in cui il Ministero rinunci all’esercizio della prelazione, la facoltà è trasferita all’ente interessato entro venti giorni dalla ricezione della denuncia. Detto ente assume il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica all’alienante ed all’acquirente entro e

46 Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2016, n. 9618, in Guida dir., 2016, 36, 74. O ancora Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 332, in Foro amm., 2016, 1, 68.

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non oltre sessanta giorni dalla denuncia medesima. La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.La giurisprudenza si sofferma in particolar modo sull’organo competente ad esercitare la prelazione nel caso in cui la stessa spetti al Comune. Si sostiene come: «l’atto con il quale, ai sensi dell’art. 62, comma 3, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali), viene esercitato il potere di prelazione, rientrando nella materia degli acquisti ed alienazioni immobiliari di cui all’art. 42 comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 267 (TU Enti locali), appartiene alla competenza del Consiglio comunale»47.Si sottolinea come in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l), d.lgs. n. 267 del 2000, per individuare la corretta ripartizione delle competenze nell’adozione degli atti previsti dall’art. 62 del d.lgs. n. 42 del 2004 (in tema di procedimento per la prelazione), occorre distinguere fra gli atti di cui al comma 3 dell’art. 62, con cui viene in concreto esercitato il diritto di prelazione e che determinano il trasferimento del bene in capo all’ente che l’abbia adottato e quelli di cui al comma 2 dell’art. 62, cit., con cui l’ente interessato formula nei confronti del competente Ministero la propedeutica proposta di prelazione. Mentre infatti gli atti del primo tipo rientrano “pleno jure” fra quelli inerenti alla materia degli “acquisti ed alienazioni immobiliari”, di cui è menzione all’art. 42, comma 2, lett. l), TUEL – d.lgs. n. 267 del 2000, con la relativa competenza del Consiglio comunale, gli atti del secondo tipo, che hanno carattere meramente preparatorio, prodromico rispetto al trasferimento della titolarità del bene, possono correttamente essere ascritti al novero di quelli menzionati nell’art. 42 TUEL, con la conseguenza che la relativa competenza correttamente va ascritta all’ambito operativo della Giunta comunale (v. art. 48, d.lgs. n. 267 del 2000)48.

47 Tar Campania Salerno, 4 ottobre 2016, n. 2234, Massima redazionale, 2016. Sempre nella stessa pronuncia si legge che: «L’art. 42 comma 2 lett. l) d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (TU Enti Locali), attribuisce espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia di acquisti ed alienazioni immobiliari senza alcuna eccezione, pertanto è competente il consiglio anche in ipotesi di deliberazione di acquisto a seguito di esercizio della prelazione da parte del ministero per i beni culturali ed ambientali in favore dell’ente locale».48 Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2008, n. 4569, in Urb. app., 2009, 1, 54. Merita di essere segnalato anche quanto evidenziato da Cons. Stato, sez. VI, 29 maggio 2012, n. 3209, Massima redazionale, 2012, secondo cui: «la proposta formulata dall’ente interessato, in quanto atto irrevocabile e vincolante, va assimilata ad un provvedimento di acquisto del bene e perciò, ai sensi del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TU Enti locali), è soggetta all’obbligo di provvista e copertura finanziaria; di conseguenza è inefficace la proposta di prelazione deliberata da un Comune che per la copertura della spesa rinvii ad un mutuo ancora da stipulare con la cassa depositi e prestiti».

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17. La sanzione civilistica di cui all’art. 164 del codice dei beni culturali

Secondo l’art. 164 del codice dei beni culturali: «1. Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli. 2. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la prelazione ai sensi dell’articolo 61, comma 2». Si ritiene che l’atto compiuto in violazione delle norme di legge sia nullo, o meglio “inopponibile” nei confronti dello Stato. Tuttavia, in seguito alla denuncia “tardiva”, e decorso il termine di 180 giorni, senza che lo Stato abbia esercitato la prelazione (considerato che quest’ultimo non può più vantare alcun diritto sul bene che rimane pertanto di proprietà del soggetto al quale è stato trasferito) l’atto non denunciato diventa “efficace definitivamente.” La giurisprudenza consolidata della Cassazione, afferma trattarsi di nullità relativa, cioè di nullità caratterizzata dal fatto che l’azione intesa a pronunciarla può essere fatta valere soltanto dallo Stato, sul presupposto che essa costituisca una sanzione intesa a tutelare soltanto un interesse dello Stato. Conseguenza di questa opinione è che, non potendo le parti contrattuali agire per far dichiarare la nullità, il negozio è idoneo a produrre effetti tra le parti ma non per lo Stato; in tal modo l’acquirente del bene, sulla base di una nullità che non avrebbe riflessi nei suoi confronti, ma soltanto nei confronti dello Stato, diviene regolarmente proprietario del bene acquisito, ancorché ad effetti sospesi.La giurisprudenza sul punto sottolinea come: «La nullità prevista, a tutela delle cose di interesse storico e artistico, dall’art. 61 della l. 1 giugno 1939 n. 1089 per le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla legge stessa o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte, è di carattere relativo, essendo stabilita nell’interesse esclusivo dello Stato e non può, quindi, essere dedotta dai privati o essere rilevata di ufficio dal giudice»49.Ragionando sul modo di operare della predetta nullità si è anche arrivati a declassare la nullità in discorso in semplice inopponibilità; l’atto sarebbe sempre valido per le parti, ma sarebbe inopponibile allo Stato, cioè privo di effetti nei suoi confronti. Sopravvenuta la denuncia, l’atto diventerebbe opponibile allo Stato, che peraltro potrebbe esercitare su di esso il diritto di prelazione.

49 Cass., 26 aprile 1991, n. 4559, in Giust. civ. Mass., 1991. Cfr. Cass., sez. un., 24 novembre 1989, n. 5070, in Dir. e giur. agr., 1992, 102. Cass., 12 giugno 1990, n. 5688. V. anche Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2019, n. 30984, in Guida dir., 2020, 8, 100.

L’esercizio della prelazione artistica nell’analisi della giurisprudenza

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La prelazione agraria

Serena MetalloUfficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato

Lo studio affronta il tema delle prelazioni agrarie disciplinate dalla legge del 26 maggio 1965, n. 590 e legge 14 agosto 1971, n. 817 con particolare riguardo alla giurisprudenza che ha vivificato l’istituto in questione. In effetti, sebbene la matrice normativa risalga al passato, mantiene il suo particolare interesse per la giurisprudenza che ne definisce continuamente l’applicazione e le caratteristiche, facendo evolvere continuamente la materia.

The study deals with the subject of agricultural pre-emptions as governed by the law of 26 May 1965, n. 590 and law 14 August 1971, n. 817 with particular regard to the jurisprduence that vivified the institution in question. in fact, although the normative matrix dates back, it maintains its own particular interest in the jurisprduence that continually defines its application and characteristics, making the matter evolve continuously.

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Sommario: 1. Il quadro normativo. – 2. Requisito soggettivo: il coltivatore diretto. – 3. Requisito oggettivo: il fondo agricolo. – 4. Denuntiatio. – 5. Fabbricato rurale. – 6. Elementi di esclusione.

La prelazione agraria trova spazio nel nostro ordinamento dal 1965 ed eccettuando lievi e recenti interventi del legislatore, volti peraltro solo ad ampliare il concetto di coltivatore diretto e la platea dei titolari del diritto di prelazione e non a modificarne l’originaria struttura, gli elementi peculiari del diritto in questione sono rimasti immutati nel corso degli anni.È la giurisprudenza che vivacizza di continuo la materia ed è quindi di tutta evidenza l’interesse per l’operatore del diritto, quale è il notaio, seguirne l’evoluzione nelle Corti, affinchè sia sempre aggiornata l’applicazione in concreto del dato teorico.

1. Il quadro normativo

L’art. 8 della l. 26 maggio 1965, n. 590 recante Disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice, così recita:«In caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale, l’affittuario, il mezzadro, il colono o il compartecipante, a parità di condizioni, ha diritto di prelazione purché coltivi il fondo stesso da almeno due anni, non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria, ed il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.La prelazione non è consentita nei casi di permuta, vendita forzata, liquidazione coatta, fallimento, espropriazione per pubblica utilità e quando i terreni in base a piani regolatori, anche se non ancora approvati, siano destinati ad utilizzazione edilizia, industriale o turistica.Qualora il trasferimento a titolo oneroso sia proposto, per quota di fondo, da un componente la famiglia coltivatrice, sia in costanza di comunione ereditaria che in ogni altro caso di comunione familiare, gli altri componenti hanno diritto alla prelazione sempreché siano coltivatori manuali o continuino l’esercizio dell’impresa familiare in comune.Il proprietario deve notificare con lettera raccomandata al coltivatore la proposta

La prelazione agraria

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di alienazione trasmettendo il preliminare di compravendita in cui devono essere indicati il nome dell’acquirente, il prezzo di vendita e le altre norme pattuite compresa la clausola per l’eventualità della prelazione. Il coltivatore deve esercitare il suo diritto entro il termine di 30 giorni.Qualora il proprietario non provveda a tale notificazione o il prezzo indicato sia superiore a quello risultante dal contratto di compravendita, l’avente titolo al diritto di prelazione può, entro un anno dalla trascrizione del contratto di compravendita, riscattare il fondo dell’acquirente e da ogni altro successivo avente causa.Ove il diritto di prelazione sia stato esercitato, il versamento del prezzo di acquisto deve essere effettuato entro il termine di tre mesi, decorrenti dal trentesimo giorno dall’avvenuta notifica da parte del proprietario, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti.Se il coltivatore che esercita il diritto di prelazione dimostra, con certificato dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura competente, di aver presentato domanda ammessa all’istruttoria per la concessione del mutuo ai sensi dell’art. 1, il termine di cui al precedente comma è sospeso fino a che non sia stata disposta la concessione del mutuo ovvero fino a che l’Ispettorato non abbia espresso diniego a conclusione della istruttoria compiuta e, comunque, per non più di un anno. In tal caso l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura deve provvedere entro quattro mesi dalla domanda agli adempimenti di cui all’art. 3, secondo le norme che saranno stabilite dal regolamento di esecuzione della presente legge.In tutti i casi nei quali il pagamento del prezzo è differito il trasferimento della proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento stesso entro il termine stabilito.Nel caso di vendita di un fondo coltivato da una pluralità di affittuari, mezzadri o coloni, la prelazione non può essere esercitata che da tutti congiuntamente. Qualora alcuno abbia rinunciato, la prelazione può essere esercitata congiuntamente dagli altri affittuari, mezzadri o coloni purché la superficie del fondo non ecceda il triplo della complessiva capacità lavorativa delle loro famiglie. Si considera rinunciatario l’avente titolo che entro quindici giorni dalla notificazione di cui al quarto comma non abbia comunicato agli altri aventi diritto la sua intenzione di avvalersi della prelazione.Se il componente di famiglia coltivatrice, il quale abbia cessato di far parte della conduzione colonica in comune, non vende la quota del fondo di sua spettanza entro cinque anni dal giorno in cui ha lasciato l’azienda, gli altri componenti hanno diritto a riscattare la predetta quota al prezzo ritenuto congruo dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, con le agevolazioni previste dalla presente legge,

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sempreché l’acquisto sia fatto allo scopo di assicurare il consolidamento di impresa coltivatrice familiare di dimensioni economicamente efficienti. Il diritto di riscatto viene esercitato, se il proprietario della quota non consente alla vendita, mediante la procedura giudiziaria prevista dalle vigenti leggi per l’affrancazione dei canoni enfiteutici.L’accertamento delle condizioni o requisiti indicati dal precedente comma è demandato allo Ispettorato agrario provinciale competente per territorio.Ai soggetti di cui al primo comma sono preferiti, se coltivatori diretti, i coeredi del venditore».Con tale previsione il legislatore ha avuto di mira la tutela del lavoratore della terra, intendendo accordargli un privilegio consistente nell’essere preferito ad altri terzi estranei l’attività diretta sul fondo, in occasione della vendita dello stesso. Parimenti è stato tutelato il proprietario del fondo che resta comunque libero di stabilirne il prezzo, dovendo notificare la sua decisione di vendere al coltivatore del fondo il quale può decidere di aderirvi o meno. In buona sostanza, non vi è compressione alcuna della disponibilità del fondo ma solo una tutela generale dello sviluppo del settore primario.Peraltro, il tutto a determinate condizioni: il prelazionario deve essere un coltivatore diretto da almeno un biennio che esercita tale attività in virtù di un titolo giuridico determinato quale affittuario, mezzadro, colono o compartecipante; questi non deve aver alienato altri fondi rustici nel biennio precedente l’esercizio della prelazione; il fondo trasferendo deve avere e mantenere fino all’esercizio del diritto di prelazione, natura agricola; la natura del trasferimento del terreno deve essere a titolo oneroso o di costituzione in enfiteusi; infine, deve avvenire la denuntitatio da parte del proprietario alienante il fondo.Su tutti questi elementi è intervenuta ripetutamente la giurisprudenza, come si vedrà appresso, mantenendo di stretta attualità una materia di origine lontana nel tempo.Quella fin qui brevemente tratteggiata è la c.d. prelazione agraria comune, a cui in epoca quasi immediatamente successiva, si è affiancata la c.d. prelazione del confinante che mutua le condizioni applicative della prima, ma si arricchisce per peculiari requisiti.L’art. 7 della l. 14 agosto 1971, recante Disposizioni per il rifinanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà coltivatrice, recita:«Il termine di quattro anni previsto dal primo comma dell’articolo 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, per l’esercizio del diritto di prelazione è ridotto a due anni.

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Detto diritto di prelazione, con le modifiche previste nella presente legge, spetta anche:1) al mezzadro o al colono il cui contratto sia stato stipulato dopo l’entrata in vigore della legge 15 settembre 1964, n. 756;2) al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti;2-bis) all’imprenditore agricolo professionale iscritto nella previdenza agricola proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purchè sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti o enfiteuti coltivatori diretti.Nel caso di vendita di più fondi ogni affittuario, mezzadro o colono può esercitare singolarmente o congiuntamente il diritto di prelazione rispettivamente del fondo coltivato o dell’intero complesso di fondi».Il legislatore con questa successiva previsione ha inteso tutelare l’unitarietà del territorio, evitandone lo spezzettamento, favorendo cioè la formazione di imprese diretto-coltivatrici di più ampie dimensioni, più efficienti sotto il profilo tecnico ed economico. Come già accennato, la giurisprudenza ha mantenuto l’attenzione dell’interprete sulla materia e di seguito sono passate in rassegna le decisioni più recenti e di maggiore interesse sui vari elementi peculiari del diritto di prelazione agraria sia comune che del confinante.

2. Requisito soggettivo: il coltivatore diretto

Ai sensi dell’art. 31 l. n. 590 del 1965, sono coltivatori diretti «coloro che direttamente ed abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed all’allevamento ed al governo del bestiame».Il d.lgs. 22 marzo 2004, n. 99 all’art. 2 ha esteso il riconoscimento dell’esercizio del diritto di prelazione o di riscatto di cui all’articolo 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, e successive modificazioni, ed all’articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, anche alla società agricola di persone qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 e seguenti del codice civile.Ancor più di recente, il d.l. 24 giugno 2014, n. 91, come convertito da l. 11 agosto 2014, n. 116, ha previsto all’art. 7-ter che l’esercizio del diritto di prelazione o

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di riscatto di cui all’articolo 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, e successive modificazioni, ed all’articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, spetti anche alle società cooperative di cui all’art. 1 comma 2 d.lgs. n. 228 del 2001, qualora almeno la metà degli amministratori e dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui agli articoli 2188 e seguenti del codice civile.Il Tribunale Catania, il 7 dicembre 2018, con pronuncia n. 4790, ha osservato che «la qualità di coltivatore diretto deve essere fornita in concreto in relazione alle necessità colturali del fondo, senza che certificazioni anagrafiche o altre attestazioni amministrative possano assurgere al valore di prova piena. Di conseguenza deve essere rigettata la domanda di prelazione agraria qualora l’attore non provi né abbia chiesto di provare di essere in concreto abitualmente dedito all’attività di coltivazione della terra, mancando la prova della sussistenza del presupposto soggettivo necessario per poter esercitare il diritto di prelazione agraria».Laddove la Cassazione con sentenza del 31 maggio 2018, n. 13787, ha ritenuto che «in tema di prelazione agraria non è necessario che il prelazionante eserciti professionalmente l’attività di coltivazione diretta, essendo sufficiente che essa sia svolta abitualmente, purché con carattere di stabilità e continuatività». «Di conseguenza, nell’ambito della prelazione agraria, il riconoscimento della qualifica di coltivatore diretto è strettamente collegato all’ elemento di fatto rappresentato dal concreto svolgimento di attività di coltivazione diretta del fondo agricolo che garantisce uno stretto rapporto tra il proprietario ed il suo bene. Sono considerati coltivatori diretti, ai sensi dell’art. 31, l. n. 590 del 1965, coloro che direttamente ed abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed all’allevamento ed al governo del bestiame, sempreché la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo e per l’allevamento ed il governo del bestiame. La prova della qualità di coltivatore diretto, ai fini del riconoscimento del diritto di prelazione, deve essere fornita in concreto ovvero dimostrando l’effettivo esercizio dell’attività agricola con lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia, rimanendo irrilevante il dato formale dell’eventuale iscrizione dell’interessato in appositi elenchi o albi» (Tribunale Arezzo, 23 ottobre 2017, n. 1180).Il concetto dell’abitualità applicato a quello di coltivatore diretto serve da dirimente per il riconoscimento della prelazione agraria del confinante in luogo di quella comune, laddove è stato puntualmente osservato «ai sensi dell’art. 7 l. 14 agosto 1971, n. 817, il dato della coltivazione del fondo deve sussistere non solo in termini di attualità, ma anche di prospettiva futura, per porsi tanto quale

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elemento costitutivo del diritto di prelazione agraria esercitabile dall’affittuario coltivatore diretto e dal mezzadro, quanto come elemento ostativo al diritto di prelazione spettante, invece, al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con il fondo offerto in vendita. Ne consegue che il diritto di prelazione spettante a tale secondo soggetto non è impedito dall’insediamento di un affittuario sul fondo, allorché esso sia privo del carattere di stabilità, ovvero non sia preordinato alla prosecuzione, da parte del suddetto affittuario, dell’attività di coltivazione esistente al momento della stipula dell’atto di acquisto, evenienza – quest’ultima – cui deve essere ricondotta anche una preordinata combinazione negoziale comportante, poco tempo dopo la stipulazione, il subentro nella detenzione del bene da parte di terzi non aventi alcun diritto, con evidente finalità elusiva (e quindi in frode alla citata disposizione di legge) della prelazione del confinante» (Cass., 12 marzo 2013, n. 6122). L’attualità della coltivazione è, altresì, requisito applicativo della prelazione del confinate, considerato che è stato osservato «ai fini dell’esercizio della prelazione agraria da parte del proprietario confinante, ai sensi dell’articolo 7 della legge 14 agosto 1971 n. 817, è necessario non solo che egli rivesta la qualifica di coltivatore diretto, ma anche che coltivi direttamente il fondo adiacente a quello posto in vendita, non essendo sufficiente che egli eserciti altrove l’attività di agricoltore; ciò in quanto l’intento perseguito dal legislatore è l’ampliamento dell’impresa coltivatrice diretta finitima e non l’acquisto della proprietà della terra da parte di qualsiasi coltivatore diretto» (Cass., 22 aprile 2013, n. 9737). Peraltro, «ai fini del riconoscimento del diritto di prelazione agraria (e, quindi, di riscatto) agli affittuari, ai mezzadri e ai coloni o compartecipanti, perché possa ritenersi integrato il requisito temporale di cui all’ art. 8, comma 1, della l. n. 590 del 1965 , è necessario che il fondo venga coltivato da almeno due anni in virtù di un valido titolo idoneo a giustificare la coltivazione diretta, non potendo attribuirsi rilevanza alla coltivazione in sé considerata, in mancanza di uno specifico nesso con un rapporto siffatto» (Cass., 8 gennaio 2020, n. 123).Sempre in tema di requisito soggettivo, di particolare interesse è l’atteggiarsi della prelazione agraria nei confronti della possibile dicotomia tra usufrutto e nuda proprietà, quando da una parte è stato deciso che «il diritto di prelazione agraria non può spettare all’usufruttuario ma solo al nudo proprietario posto che l’acquisto del terreno confinante da parte dell’usufruttuario comporterebbe il totale fallimento dello scopo della legge n. 817 del 1971, perché impedirebbe la formazione definitiva di un’unica e più vasta proprietà agricola, ed invero, l’accorpamento di due terreni agricoli sarebbe soltanto temporaneo ed avrebbe fine con la cessazione dell’usufrutto, una volta cessato l’usufrutto uno dei fondi

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diventerebbe, per effetto di consolidazione, di proprietà dell’ex nudo proprietario o dei suoi eredi e l’altro fondo resterebbe di proprietà dell’usufruttuario o, più probabilmente dei suoi eredi» (Corte Appello Roma, 2 maggio 2018, n. 2794).Dall’altra parte, è stato altresì precisato che «l’esercizio del diritto di prelazione agraria può essere consentito anche al nudo proprietario del fondo confinante con quello posto in vendita, essendo egli pur sempre titolare di un diritto di proprietà, seppure temporaneamente compresso dall’esistenza dell’altrui diritto reale sul medesimo bene, a condizione che coltivi legittimamente e direttamente il terreno da almeno due anni, in base ad un titolo legittimo, la cui ricorrenza – da accertarsi in concreto, potendo sussistere laddove l’usufruttuario abbia consentito la coltivazione – consente, in concorso con gli altri requisiti legali, l’operatività della prelazione e del riscatto» (Cass., 10 novembre 2016, n. 22887). Infine, giova osservare, sembrerebbe in difformità con il dato normativo, che «la prelazione agraria non opera tra coeredi. All’interno della comunione ereditaria ciascuno dei coeredi è libero di trasferire la propria quota di fondo rustico all’uno o all’altro coerede, non essendo applicabili tra i coeredi le limitazioni all’autonomia negoziale che discendono dalla prelazione riconosciuta dall’art. 8, ultimo comma, della l. n. 590 del 1965 a favore del coerede coltivatore diretto» (Cass., 11 settembre 2017, n. 21050). Oggetto della decisione è stata la spettanza o meno della prelazione agraria in capo ad un coerede a seguito di un trasferimento tra gli altri coeredi di quote di un terreno agricolo. Tizio, coerede, rimasto estraneo al negozio di trasferimento delle quote ha agito nei confronti di Caio, coerede cessionario, ritenendo violate le sue ragioni di coerede coltivatore diretto, e chiedendo: 1) in via principale, il riscatto della quota oggetto di cessione; 2) in via subordinata, l’attribuzione di metà della stessa, previo accertamento del diritto di prelazione ai sensi dell’art. 8, l. n. 590 del 1965. Caio ha contestato l’esercizio del diritto di prelazione, assumendo di essere lui stesso coltivatore diretto e che oggetto del trasferimento era stata la quota di eredità propria di ciascuno dei coeredi e non del singolo bene. In primo grado, il Tribunale ha accolto la domanda subordinata di Tizio ed ha dichiarato validamente esercitato il diritto di riscatto su metà della quota oggetto di trasferimento. È stata ritenuta applicabile la prelazione agraria ex art. 8, ultimo comma, l. n. 590 del 1965: secondo il giudice il contratto aveva ad oggetto la quota indivisa del fondo rustico e non la quota ereditaria; il Tribunale ha accertato, altresì, che sia l’attore che il convenuto avevano i requisiti di cui all’art. 31 della citata legge per esercitare il diritto di riscatto. In appello, la Corte ha ritenuto trattarsi di alienazione di quota ereditaria e che tra coeredi non si può invocare il disposto dell’art. 8, ultimo comma, l. n. 590 del 1965,

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riformando la decisione di primo grado. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del giudice di secondo grado, sebbene correggendone la motivazione. Nella motivazione dei giudici di legittimità si possono distinguere due parti: la prima, nella quale i giudici si sono soffermati sull’art. 732 c.c.; la seconda dedicata al rapporto tra prelazione ereditaria e prelazione agraria. La S.C., pur rigettando il ricorso, ha dato però ragione al ricorrente che aveva ritenuto che oggetto del contratto fosse stato il trasferimento della quota di un bene determinato dell’asse e non il trasferimento di quota ereditaria. Ciò avrebbe dovuto comportare ipoteticamente l’applicabilità – così come richiesto dal ricorrente – dell’art. 8, l. n. 590 del 1965, impedita tuttavia per aver i giudici di legittimità affermato che: a) la disciplina dell’art. 8 l. n. 590 del 1965 rileva quando oggetto di trasferimento a titolo oneroso da uno o più coeredi è una quota di fondo rustico indiviso; b) la prelazione a favore del coerede prevista dai commi 3 e 12 dell’art. 8 opera soltanto nei casi ivi previsti; essa si traduce in una limitazione all’autonomia negoziale e si giustifica nel rapporto tra coerede e terzo estraneo alla comunione ereditaria, mentre è priva di giustificazione all’interno della comunione ereditaria; c) le limitazioni all’autonomia negoziale che discendono dalla prelazione riconosciuta a favore del coerede coltivatore diretto (art. 8, ultimo comma, l. n. 590 del 1965) non sono applicabili tra coeredi (cfr. https://dejure.it/#/ricerca/giurisprudenza_documento_massime?idDatabank=0&idDocMaster=7082275&idUnitaDoc=0&nVigUnitaDoc=1&docIdx=0&semantica=0&isPdf=false&isCorrelazioniSearch=false).

3. Requisito oggettivo: il fondo agricolo

La norma è chiara nel definire i contorni del requisito oggettivo, vale a dire del fondo agricolo, quando nel comma 2 dell’art. 8 l. n. 590 del 1965 stabilisce che «la prelazione non è consentita … quando i terreni in base a piani regolatori, anche se non ancora approvati, siano destinati ad utilizzazione edilizia, industriale o turistica».La giurisprudenza non è mancata di intervenire sulla questione, osservando che «in base al chiaro dettato dell’articolo 8, secondo comma, della l. n. 590 del 1965, sono esclusi dalla prelazione agraria tutti i terreni la cui destinazione, seppure non edificatoria, sia comunque da considerare urbana in contrapposizione ad agricola, atteso che, una volta assegnata a una certa zona un’edificabilità maggiore di quella considerata normale per le zone agricole e non vincolata alle esigenze dell’agricoltura, si è perciò stesso in presenza di una zona sottratta al retratto in favore dei coltivatori diretti; a tal fine, la qualificazione di un territorio

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come agricolo non ha carattere costitutivo, assumendo rilievo essenziale, invece, il tipo di sfruttamento consentito dagli strumenti urbanistici vigenti o in corso di approvazione» (Cass., 17 ottobre 2016, n. 20910).Peraltro, «la prelazione agraria, agli effetti dell’articolo 8, secondo comma, della legge n. 590 del 1965, è consentita soltanto quando il terreno abbia destinazione agricola in base al piano regolatore, sicché non sono soggetti a essa tutti i fondi aventi destinazione urbana, quale quello vincolato a verde privato» (Cass., 29 settembre 2015, n. 19236; Cass., 10 aprile 2015, n. 7182).In ossequio al dato normativo che parla espressamente di piani regolatori “non ancora approvati”, è stato ritenuto sufficiente ad escludere la prelazione, uno strumento urbanistico ancora in itinere, osservando variamente quanto segue: – in tema di prelazione agraria, la mera previsione, contenuta nello strumento urbanistico, pure solo “in itinere”, di un mutamento di destinazione del fondo da agricolo ad edilizio costituisce, ex art. 8, secondo comma, della legge 26 maggio 1965, ragione ostativa all’esercizio del diritto di prelazione, sicché, a maggior ragione, il diritto non sussiste nell’ipotesi, inversa, in cui sia prospettabile un cambio da edilizio ad agricolo, attesa l’irrilevanza della mera potenzialità di uno sfruttamento futuro del terreno per tale ultimo scopo (Cass., 12 giugno 2015, n. 12230); – L’esercizio della prelazione agraria è precluso anche nel caso in cui il nuovo piano regolatore, che preveda per il terreno in contestazione una destinazione non agricola, sia ancora “in itinere”: è a tal fine irrilevante che il nuovo piano regolatore non sia poi approvato, ove risulti comunque adottato al momento della conclusione del contratto (Cass., 24 febbraio 2015, n. 3717);– In tema di prelazione agraria, è correttamente escluso il diritto di riscatto in considerazione della destinazione “urbano-edilizia” impressa al terreno, ancorché in concreto non ancora sfruttabile per mancanza di un piano attuativo all’adozione del quale sia subordinato lo “ius aedificandi”, avendo questo solo funzione di completamento o integrazione del piano regolatore generale (Cass., 15 maggio 2013, n. 11762);– Perché operi la previsione di cui all’art. 8, comma 2, l. n. 590 del 1965 (secondo cui la prelazione non è consentita quando i terreni in base a piani regolatori, anche se non ancora approvati, siano destinati a utilizzazione edilizia, industriale o turistica) con conseguente inapplicabilità delle norme sulla prelazione agraria, è sufficiente che sia “in itinere” – attraverso atti conoscibili dalla generalità – un procedimento diretto alla realizzazione di un nuovo strumento regolatore che abbia per oggetto i terreni oggetto di vendita. Deriva, da quanto precede, pertanto, che mentre è priva di effetti una mera richiesta, proveniente da un privato e diretta alla Amministrazione comunale,

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perché sia adottata una variante al vigente piano regolatore, non può dubitarsi che allorché le competenti autorità comunali deliberino di procedere a una variazione del precedente assetto urbanistico del territorio, fissandone – anche se genericamente – i contenuti, il procedimento per l’approvazione del nuovo piano è “in itinere”. In altri termini l’art. 8, comma 2, l. n. 590 del 1965 postula che nel momento in cui la prelazione o il riscatto vengono esercitati, sia già iniziato un procedimento amministrativo volto al cambiamento di destinazione urbanistica, attraverso atti pubblici della amministrazione che incidano sull’assetto territoriale con scelte certe e conoscibili (Cass., 9 giugno 2011, n. 12718).– In tema di retratto agrario, le condizioni soggettive ed oggettive che legittimano l’avente diritto a riscattare il fondo dall’acquirente devono esistere sia alla data della vendita del fondo al terzo, che segna la nascita del diritto, sia alla data in cui tale diritto viene esercitato, coincidente con quella della ricezione della dichiarazione di riscatto da parte del retrattato, con la conseguenza che, ove prima o nell’intervallo di tempo tra i suddetti momenti si verifichi il mutamento della destinazione da agraria ad edilizia o urbana in generale, del fondo oggetto di retratto, la vicenda traslativa a favore del retraente non si perfeziona, mentre tale mutamento non rileva quando sopravvenga dopo il concreto esercizio del retratto e sia sussistente al momento della decisione del giudizio in cui il retratto sia ancora in discussione (Cass., 13 settembre 2018, n. 22260).Altro elemento caratterizzante il fondo agricolo è quello dell’autonomia culturale che in molti casi decisi, è valso quale dirimente per l’applicazione della prelazione agraria del confinante. Più in particolare è stato osservato che «il diritto di prelazione agraria è esercitabile anche quando il fondo su cui si appunta è parte di una più vasta estensione, purché presenti un’autonomia colturale e produttiva. In questo caso, l’accertamento delle condizioni che consentono l’esercizio del suddetto diritto deve essere compiuto non con riguardo alla configurazione data dalle parti al contratto di vendita, ma considerando la situazione oggettiva, in modo tale da verificare, da un lato, se il terreno trasferito si presenti frazionato in appezzamenti aventi caratteristiche diverse e differenti colture e, dall’altro lato, se il fondo trasferito non debba, ciò malgrado, essere ritenuto un fondo oggettivamente unitario, per essere le attività svolte sui diversi appezzamenti coordinate fra loro, sì da costituire aspetti complementari di un’unica gestione» (Cass., 17 aprile 2013, n. 9235). Ai fini specifici della sola prelazione del confinante, la contiguità rappresenta il primo peculiare elemento da valutare ai fini dell’applicazione di tale diritto. Sul punto copiosa e continua la giurisprudenza che ha stabilito che «il diritto di prelazione e riscatto del coltivatore diretto proprietario del terreno confinante,

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previsto dall’art. 7 della l. n. 817 del 1971, integrando una limitazione della circolazione della proprietà agricola e dell’autonomia negoziale, spetta solo nel caso di fondi confinanti in senso giuridicamente proprio, ovvero caratterizzati da contiguità fisica e materiale, per contatto reciproco lungo la comune linea di demarcazione, non potendo essere esteso alla diversa ipotesi della cd. contiguità funzionale (fra fondi separati ma idonei ad essere accorpati in un’unica azienda agraria), con la conseguenza che deve escludersi la configurazione di tale “contatto” ove i due fondi siano separati da un corso d’acqua demaniale». (Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva escluso la contiguità tra fondi aventi tra loro due punti di contatto mediante un canale di acqua demaniale, in parte anche interrato, ed un terzo punto di contatto, senza canale ma ritenuto dal giudice di merito non idoneo ad integrare la necessaria contiguità materiale) (Cass., 13 febbraio 2018, n. 3409).«Cosicché, ai predetti fini, devono considerarsi non confinanti i fondi posti ai lati di una strada vicinale non aperta al pubblico transito o di una strada agraria privata, posto che il terreno che costituisce la sede stradale, anche se può risultare dall’unione di porzioni distaccate dai fondi confinanti, non resta nella proprietà individuale di ciascuno dei conferenti, così da risultare soggetto a servitù di passaggio a favore degli altri, ma dà luogo alla formazione di un nuovo bene oggetto di comunione e goduto da tutti in base a un comune diritto di proprietà» (Cass., 9 giugno 2015, n. 11905).Inoltre, «allo scopo, non è sufficiente che una porzione di fondo sia stata riservata alla parte alienante esclusivamente al fine di evitare il sorgere del diritto di prelazione o che lo sfruttamento dei fondi, risultati dalla divisione, sia meno razionale che non la conduzione dell’intero, originario complesso, ma è indispensabile che la porzione costituente la fascia confinaria, per le sue caratteristiche, sia destinata a rimanere sterile e incolta o sia, comunque inidonea a qualsiasi sfruttamento coltivo autonomo, sì che possa concludersi che la porzione non ceduta è priva di qualsiasi utilità per l’alienante» (Cass., 29 maggio 2018, n. 13368).Peraltro, «il requisito della contiguità tra il fondo del prelazionario e quello posto in vendita deve sussistere con riferimento alle porzioni di quest’ultimo che abbiano destinazione agricola. Pertanto, se viene posto in vendita un fondo unitario, avente solo in parte destinazione agricola, la prelazione od il riscatto non possono essere esercitati se le parti a destinazione non agricola si frappongono fra quelle a destinazione agricola ed il confine del fondo del prelazionario, perché in questo caso viene meno il requisito della contiguità materiale tra i due fondi» (Cass., 9 marzo 2012, n. 3727).Sui generali concetti di fondo agricolo e attività agricola, la giurisprudenza

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ha riconosciuto la prelazione agraria sia comune che del confinante anche al silvicoltore, laddove è stato valutato che «alla luce di un’interpretazione evolutiva del sistema che tenga conto dei successivi e più recenti interventi legislativi, i quali in modo non equivoco tendono ad equiparare l’attività di coltivatore diretto a quella di chi eserciti la silvicoltura, il diritto di prelazione e riscatto agrario di cui all’art. 8 l. n. 590 del 1965, esteso dall’art. 7 l. n. 817 del 1971 al coltivatore diretto proprietario di terreno confinante, deve essere riconosciuto anche al silvicoltore che eserciti, in via esclusiva o principale, tale attività, con il solo limite in riferimento alla prelazione del confinante, che i terreni da vendere è quello di proprietà del silvicoltori siano entrambi boschivi» (Cass., sez. un., 14 aprile 2011, n. 8486).

4. Denuntiatio

L’art. 8 comma 4 l. n. 590 del 1965 ha definito i caratteri della comunicazione del proprietario del fondo al coltivatore della volontà di voler vendere l’immobile in questione, nei termini seguenti: «Il proprietario deve notificare con lettera raccomandata al coltivatore la proposta di alienazione trasmettendo il preliminare di compravendita in cui devono essere indicati il nome dell’acquirente, il prezzo di vendita e le altre norme pattuite compresa la clausola per l’eventualità della prelazione. Il coltivatore deve esercitare il suo diritto entro il termine di 30 giorni».L’attuale dizione della norma è il frutto di una sostanziale modifica che fu operata sull’originario testo dell’art. 8 da parte della legge istitutiva della prelazione agraria del confinante. Fu resa necessaria tale modifica stante la scarna previsione a suo tempo dettata dal legislatore che diede luogo a difficoltà applicative ed interpretative sia in punto di forma che di effetti. Tuttavia, anche l’attuale indicazione normativa ha dato luogo a numerosi interventi della giurisprudenza, laddove inizialmente assestata su posizioni interpretative non formali e non rigide, nel corso degli ultimi anni ha invece inteso assumere una posizione più rigorosa.In particolare, «in materia di contratti agrari, per la comunicazione al coltivatore o al confinante della proposta di alienazione del fondo, ai fine della prelazione di cui all’art. 8 l. n. 590 del 1965 e all’art. 7 l. n. 817 del 1971, da parte del proprietario venditore è richiesta la forma scritta ad substantiam e, quindi, a detto scopo è inidonea la comunicazione in forma diversa (nella specie, verbale)» (Cass., 20 gennaio 2009, n. 1348; Tribunale Arezzo, 22 giugno 2011).Inoltre, «è irrituale e priva di effetti la “denuntiatio” indicante il prezzo

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complessivo del fondo, qualora il destinatario abbia diritto di prelazione solo su una porzione del fondo stesso, atteso che l’omessa specificazione del prezzo dei singoli lotti impedisce al prelazionario di esercitare il proprio diritto» (Cass., 29 agosto 2013, n. 19862).Circa gli effetti della denuntiatio, «il diritto di prelazione agraria si esercita secondo lo schema normativo di cui agli artt. 1326 e 1329 c.c., sicché la denuntiatio non è revocabile durante il termine di trenta giorni previsto per l’accettazione della proposta, considerato che la trasmissione del preliminare ha tutti i connotati della proposta contrattuale e che la possibilità di revoca mal si concilierebbe con la natura, di atto unilaterale di adempimento di obbligo legale, destinato a rendere attuale l’altrui diritto soggettivo» (Cass., 22 giugno 2016, n. 12883). Coerentemente è stato osservato che «in tema di prelazione agraria, a partire dalla trasmissione del preliminare (c.d. denuntiatio) il proprietario alienante si trova in una situazione di pati, dovendo egli attendere un termine prestabilito dalla legge, pari a 30 giorni, entro il quale il titolare del diritto può esercitarlo dandogliene comunicazione. La denuntiatio costituisce, pertanto, un atto unilaterale di adempimento di obbligo legale, per sua natura irrevocabile, destinato a rendere attuale l’altrui diritto potestativo, a cui consegue una limitazione della propria autonomia negoziale di carattere meramente temporaneo, dovendo intendersi come perentorio il termine di 30 giorni attribuito al prelazionante per l’esercizio del proprio diritto stante il carattere eccezionale di siffatta limitazione della sfera patrimoniale privata» (Trib. Arezzo, 17 febbraio 2020, n. 160).Sul tema degli effetti della denuntiatio e più in particolare sull’accoglimento da parte del prelazionante della denuntiatio stessa ci si chiede come debba essere interpretato l’inciso «salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti» di cui al comma 6 art. 8 l. n. 590 del 1965 in tema di prelazione agraria, nell’ipotesi in cui tale prelazione sia stata esercitata dal coltivatore confinante e questi abbia convenuto con il proprietario venditore un differimento del termine legale per il pagamento del prezzo, laddove nulla era stato detto in tema nell’originario contratto preliminare oggetto di denuntiatio. L’art. 8 comma 6 l. n. 590 del 1965 recita così: «Ove il diritto di prelazione sia stato esercitato, il versamento del prezzo di acquisto deve essere effettuato entro il termine di tre mesi, decorrenti dal trentesimo giorno dall’avvenuta notifica da parte del proprietario, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti».La dottrina non è concorde nella definizione soggettiva dell’ambito di rilevanza dell’eccezione al termine trimestrale legale. In particolare, vi è chi la restringe ai soli patti eventualmente intercorsi tra l’alienante del fondo ed il promissario acquirente e trasfusi nel preliminare e comunque, per il prelazionante

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rileverebbero solo le clausole che stabiliscono condizioni più favorevoli rispetto a quelle legali e non quelle più onerose, che si riterrebbero non apposte. È stato specificato che «tale conclusione è desumibile dall’art. 8, sesto comma, il quale stabilisce che il pagamento del prezzo deve avvenire entro tre mesi salvo che sia diversamente pattuito tra le parti, ove per “parti” bisogna intendere il proprietario e il terzo acquirente; solo così interpretata, infatti, tale espressione ha un senso, in quanto se per “parti” si dovessero intendere il proprietario del fondo e colui che esercita la prelazione, essa sarebbe stata superflua, dal momento che nulla impedisce al primo di concedere al secondo tutte le agevolazioni e le facilitazioni ritenute opportune o a quest’ultimo di rinunziare al termine in questione» (R. TRIOLA, La prelazione agraria, Milano, 1990, 141).Altri, invece, aprono a tutte le figure presenti nella vicenda contrattuale e ritengono che il “diversamente pattuito” «palesemente fa riferimento alla eventualità che le parti, proprietario e coltivatore, differiscano espressamente il pagamento del prezzo oltre il trimestre …; o che proprietario e terzo abbiano pattuito nel preliminare termini più ampi di quelli di legge» (D. CALABRESE, Le prelazioni agrarie, Santarcangelo di Romagna, 2019, 119). In ogni caso, la dottrina è concorde, unitamente alla giurisprudenza, sulla circostanza che il prelazionante non possa approfittare di un termine più favorevole, laddove esso sia stato espressamente previsto nel preliminare con riferimento alla stipula del definitivo, dal momento che tale stipula non è prevista nel caso di conclusione della vendita del fondo a seguito dell’esercizio della prelazione (R. TRIOLA, La prelazione agraria, cit., 142; D. CALABRESE, Le prelazioni agrarie, cit., 117; D. CALABRESE, La prelazione agraria, Padova, 2004, 91. In giurisprudenza Cass., 10 maggio 1982, n. 2886).La giurisprudenza sulla definizione del concetto di “parti” e sulla rilevanza delle modifiche del termine trimestrale legale per il pagamento, in epoca meno recente ha asserito che «in tema di prelazione agraria, l’art. 8, comma 6 della legge n. 590 del 1965, disponendo per il versamento del prezzo il termine di tre mesi decorrenti dal trentesimo giorno dalla notifica della proposta di alienazione, “salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti”, si riferisce, con tale inciso, non ai soggetti del preliminare di vendita (proprietario del fondo e promissario acquirente), bensì a quelli del contratto di compravendita che si perfeziona con l’adesione del coltivatore alla proposta di alienazione notificatagli (proprietario del fondo e coltivatore), rispetto al quale il promissario acquirente, parte unicamente dell’indicato preliminare, oramai superato, è “terzo”, con la conseguenza che l’eventuale successiva pattuizione in ordine alle modalità di pagamento del prezzo, costituendo nei suoi confronti res inter alios acta, non solo non è preclusa dalla mancata previsione nel preliminare notificato

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al coltivatore di dilazioni nel pagamento del prezzo, ma non richiede neppure una sua manifestazione di volontà adesiva» (Cass., 18 febbraio 1983, n. 1260; Cass., 24 luglio 1987, n. 6451; Cass., 4 dicembre 190, n. 11616).Più di recente invece, la giurisprudenza ha adottato un criterio interpretativo più ampio, coinvolgendo tutti i soggetti della vicenda contrattuale contemperando però gli interessi reciproci con i seguenti criteri: «il termine di legge di tre mesi per il pagamento del prezzo da parte del prelazionante è perentorio, essendo irrilevanti eventuali accordi per maggior termine intervenuti tra il promittente alienante ed il soggetto prelazionante, in quanto occorre tutelare i diritti del promissario acquirente, che sono sospesi in attesa dell’avveramento della condizione non solo dell’esercizio della prelazione ma anche del pagamento del prezzo nel termine di legge; tale principio esterna la necessità del bilanciamento tra la tutela del prelazionante (che ha diritto ad un termine minimo di tre mesi per il pagamento del prezzo, anche se il preliminare notificatogli contenga un “accordo” per un termine inferiore) e quella del promissario acquirente (che vede i suoi diritti sospesi in attesa dell’avveramento della condizione e che ha diritto ad un termine massimo di sospensione); in tale interpretazione si inquadra la clausola di riserva della diversa pattuizione tra le parti, da cui al comma sesto dell’art. 8, per cui solo se tra il promittente alienante ed il promissario acquirente è pattuito nel preliminare un termine più lungo (rispetto a quello legale) di pagamento, di questo “elemento contrattuale” può beneficiare anche il prelazionante, senza che venga leso il diritto del promissario acquirente, che continua a rimanere condizionato (sospensivamente) per un maggior tempo rispetto a quello legale, ma ciò come conseguenza di una scelta del promissario acquirente già trasfusa nel preliminare (poi notificato al prelazionante), e non per un successivo accordo tra prelazionante e promittente alienante, ma a cui il primo è e rimane irrimediabilmente estraneo; reciprocamente, se tra il prelazionante ed il promittente alienante è pattuito un termine per il pagamento del prezzo inferiore ai tre mesi, di tal minor termine potrà beneficiare anche il promissario acquirente ai fini dell’avveramento della condizione sospensiva; in altri termini, la “salvezza della diversa pattuizione tra le parti” sul termine di pagamento, di cui al citato comma sesto dell’art. 8, opera nei confronti del soggetto estraneo al patto solo se è ad esso (più) favorevole nei termini suddetti (per usare la locuzione adottata dalla sentenza della Corte, se non è “elusiva” dei diritti e delle aspettative del soggetto estraneo)» (Cass., 12 marzo 2013, n. 6120).

La prelazione agraria

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5. Fabbricato rurale

Interessante anche la valutazione che la giurisprudenza ha fatto della combinazione della prelazione agraria con le pertinenze immobiliari del fondo oggetto della stessa.È stato osservato che «il coltivatore diretto che intende esercitare la prelazione agraria, ai sensi dell’art. 8, legge 26 maggio 1965, n. 590, nonché dell’art. 7, legge 14 agosto 1971, n. 817, su un fabbricato rurale messo in vendita, deve dimostrare che esso sia pertinenza del fondo in quanto funzionalmente adibito al servizio dell’impresa agraria, e che perciò sia rimasto nella sua disponibilità in base all’originario contratto agrario. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto soggetto a prelazione un fabbricato rurale il cui rapporto pertinenziale col terreno coltivato era stato interrotto in conseguenza della sua concessione in comodato a terzi per fini abitativi)» (Cass., 10 aprile 2015, n. 7183).Infatti, già in precedenza si era osservato che «in tema di affitto di fondi rustici e dei pertinenti fabbricati rurali, l’affittuario coltivatore diretto che, nell’esercizio della prelazione agraria, abbia acquistato i terreni agricoli ma non anche le costruzioni pertinenziali in quanto non ancora poste in vendita, pur continuando a servirsi delle stesse per la coltivazione del fondo, mantiene il diritto di prelazione, in costanza del rapporto di affittanza, anche nel caso di successivo trasferimento a titolo oneroso delle medesime da parte del proprietario concedente, atteso che permane il vincolo pertinenziale tra fabbricati rurali e i fondi rustici» (Cass., 15 maggio 2009, n. 11314).

6. Elementi di esclusione

La disciplina in commento è costituita in parte da elementi positivi, quali quelli fin qui elencati (fra tutti la qualifica di coltivatore diretto e le qualità del fondo agricolo), ma anche da elementi negativi o meglio, di esclusione, che valgono ad eliminare il diritto ad essere preferito in capo a quel soggetto ed in quella fattispecie concreta, che pur presentando tutti gli elementi positivi, cede davanti al realizzarsi degli elementi negativi.Essi possono essere individuati in condotte del coltivatore diretto: aver coltivato il fondo da almeno due anni; il non aver venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria; ovvero in situazioni concrete: per il caso della prelazione agraria del confinante, necessità che sui fondi offerti

Serena Metallo

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in vendita non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti, mentre per l’ipotesi della prelazione agraria comune che il fondo per il quale si intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della famiglia del coltivatore diretto; infine, tali elementi di esclusione possono essere contrattuali, laddove non si tratti di trasferimento a titolo oneroso. La giurisprudenza non è mancata di intervenire neanche su questo segmento della disciplina osservando «in tema di prelazione agraria, costituisce condizione impeditiva del sorgere del diritto del proprietario-coltivatore diretto del fondo confinante la presenza, sul fondo oggetto del trasferimento, di un insediamento che tragga origine da un rapporto agrario qualificato, nel senso cioè di un rapporto agrario, sia pure atipico, che presupponga la qualità di coltivatore diretto. Il diritto di prelazione del coltivatore confinante torna a prevalere su quello dell’affittuario del fondo compravenduto solo quando venga provato che l’insediamento sul fondo compravenduto abbia perduto stabilità già prima della stipulazione del rogito, anche per effetto di un accordo in forza del quale il conduttore del fondo venduto si sia impegnato al rilascio con il nuovo proprietario» (Tribunale Grosseto, 16 novembre 2016, n. 931).Nonché «alla stregua dell’art. 8 l. 26 maggio 1965, n. 590, l’esercizio del diritto di prelazione agraria da parte dell’affittuario, in caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi del fondo rustico, richiede, oltre ad un insediamento non precario, ma effettivo e stabile sul fondo, e al requisito negativo della mancata vendita, nel biennio precedente, di altri cespiti rustici, la condizione positiva che il predio per il quale viene esercitata la prelazione, in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà o in enfiteusi, non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia. Attesa la rilevante compressione dell’autonomia privata che comporta l’esercizio di diritto, l’accertamento dei requisiti richiesti dalla legge deve essere condotto con particolare rigore al fine di scongiurare intenti speculativi e di salvaguardare le finalità sociali dell’istituto» (Cass., 20 luglio 2011, n. 15899). Sulla mancata vendita nel biennio precedente è stato spiegato che «il diritto di prelazione agraria previsto dall’art. 8 l. 26 maggio 1965, n. 590 ed esteso al proprietario di terreni confinanti dall’art. 7, comma 2, l. 14 agosto 1971, n. 817, è sottoposto, fra l’altro, alla condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici nel biennio precedente. Tale previsione – che si radica sulla necessità di favorire l’accorpamento dei fondi al fine di migliorare la redditività

La prelazione agraria

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dei terreni, evitando, nel contempo, l’esercizio della prelazione con finalità speculative – va interpretata restrittivamente alla luce di un bilanciamento tra valori costituzionalmente rilevanti e, perciò, si applica anche al caso di vendita di quote in proprietà indivisa, a prescindere dalla percentuale delle medesime» (Cass., 10 maggio 2011, n. 10220).

Serena Metallo

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La Fondazione, costituita per volontà del Consiglio Nazionale del Notariato e della Cassa Nazionale

del Notariato, ha per scopo la valorizzazione e la diffusione della conoscenza del ruolo storico e

sociale della cultura notarile e del notariato italiano, a garanzia dei diritti dei cittadini e del pubblico

interesse.

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QUESTIONI ED ARGOMENTI TRA EVOLUZIONE NORMATIVAED ORIENTAMENTI DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALI

L’opera – risultato di un progetto di ricerca biennale promosso dalla Fondazione Italiana del

Notariato – è articolata in tre parti, ciascuna delle quali affronta tematiche di rilevante interesse

scientifico ed operativo.

La prima parte è dedicata ad argomenti di diritto societario: le recenti riforme legislative che hanno

modificato la struttura delle società a responsabilità limitata, determinando, dall’originario “tipo” di

Srl, la nascita di diversi modelli riconducibili o comunque ascrivibili all’originario schema codicistico;

la responsabilità notarile nel controllo sulla iscrivibilità delle delibere di società a responsabilità

limitata, alla luce della più recente giurisprudenza; le società tra professionisti.

La seconda parte contiene due contributi, l’uno illustra la modifica normativa intervenuta nella

disciplina degli assegni; l’altro approfondisce il tema dei parcheggi pertinenziali.

La terza parte, infine, raccoglie le “rassegne” su varie tematiche, tutte di notevole interesse per

i notai e, più in generale, per gli operatori del diritto: dal regolamento successorio europeo al

trasferimento di immobili di edilizia residenziale pubblica convenzionata, dall’imposta sostitutiva

sui finanziamenti bancari alla prelazione artistica ed agraria.

Autori dei contributi sono Daniela Boggiali, Mauro Leo, Annarita Lomonaco, Cristina Lomonaco,

Serena Metallo e il compianto Antonio Ruotolo, tutti componenti dell’Ufficio Studi del Consiglio

Nazionale del Notariato.

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Rivista semestrale

QUESTIONI ED ARGOMENTI TRA EVOLUZIONE NORMATIVA ED ORIENTAMENTI DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALIA CURA DI ANTONIO ARENIELLO

FONDAZIONE ITALIANA DEL NOTARIATO

Via Flaminia, 160 - 00196 Romawww.fondazionenotariato.it

ISSN 2611-4313

21101431