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Barbara Bettoni DAL BOTTONE FRUTTOALLA CERNIERA LAMPO. CREAZIONI, MACCHINE E BREVETTI A PALAZZOLO SULL’OGLIO TRA XIX E XX SECOLO DSS PAPERS STO 02-07

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Barbara Bettoni

DAL BOTTONE “FRUTTO” ALLA CERNIERA

LAMPO. CREAZIONI, MACCHINE E BREVETTI A PALAZZOLO SULL’OGLIO TRA

XIX E XX SECOLO

DSS PAPERS STO 02-07

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INDICE

1) Premessa ...................................................................................Pag. 05

2) Verso le prime forme di produzione industriale del bottone: una storia di materiali che cambiano ........................................... 10

3) I progressi industriali a Palazzolo sull’Oglio: stato dell’industria “manifattrice” e l’affermarsi dei primi bottonifici ..................... 22

4) Il bottone “frutto”: procedimenti di produzione dei bottoni vegetali, creazioni e reperimento delle materie prime ................ 32

5) Il problema dell’espatrio delle maestranze, i trattati commerciali e la bilancia delle importazioni e delle esportazioni .................... 37

6) La serie storica dei brevetti dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra: invenzioni, macchine e privative dal bottone frutto alla cerniera lampo .............................................................. 47

7) Riflessioni conclusive ...................................................................... 58

8) Tabelle .............................................................................................. 60

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

5

1) Premessa

Alcuni studi recenti sull’innovazione nell’economia bresciana hanno

suggerito, soprattutto mediante la ricostruzione della serie storica dei

brevetti industriali registrati a nome di individui o di imprese bresciane in

relazione all’arco di tempo che va dall’Unità d’Italia al secondo

dopoguerra, un percorso di ricerca stimolante al fine di approfondire il

tema che lega l’evoluzione dell’industria bresciana alla capacità innovativa

dei suoi protagonisti1. Palazzolo sull’Oglio, uno dei cinque comuni della

provincia per i quali è stata registrata una maggiore concentrazione di

richieste di attestati di privativa, si presenta come terreno fertile di indagine

per la molteplicità delle attività industriali e per la marcata specializzazione

delle produzioni. La concentrazione, all’interno della provincia, della

manifattura dei bottoni prevalentemente nel territorio di Palazzolo e

l’elevato numero di richieste di brevetto registrate tra Otto e Novecento al

fine di apportare miglioramenti alle procedure, ai materiali e alle

attrezzature utilizzate per la produzione di questi accessori d’abbigliamento

suggeriscono un percorso di approfondimento interessante al fine di

valutare creatività, abilità e capacità innovativa nella realizzazione di un

prodotto, quello dell’allacciatura per abiti e accessori, soggetto a un

continuo adeguamento ai dettami delle mode2.

1 La serie storica cui si fa riferimento in questo caso è stata ricostruita in Tecnici,

empiristi, visionari. Un secolo di innovazioni nell’economia bresciana attraverso i brevetti (1861-1960), a cura di Carlo Marco Belfanti, Brescia 2002. Il volume riporta in appendice il data-base completo delle registrazioni di brevetti richieste da inventori bresciani dal 1861 al 1960.

2 C. M. Belfanti, Un secolo di innovazioni nell’economia bresciana, in Tecnici, empiristi, visionari…, cit., pp. 47-59 e A. Pietta, La geografia dei brevetti, in Tecnici, empiristi, visionari…, cit., pp. 81-84.

Le fonti bibliografiche disponibili sulla storia del bottone presentano caratteristiche diverse che dipendono sia dal periodo preso in considerazione dai singoli studi, sia dal

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La centralità di Palazzolo sull’Oglio nella produzione industriale di

bottoni, chiusure lampo e accessori legati all’allacciatura di capi

d’abbigliamento viene ulteriormente ribadita sul piano nazionale,

soprattutto qualora l’indagine si spinga nel lungo periodo, dagli ultimi

decenni del XIX secolo fino a tutto il Novecento3. La produzione di bottoni

taglio (più frequentemente artistico e legato alla storia del costume, più raramente economico e imperniato su dinamiche che coinvolgono consumatori e produttori) che li distingue. Non è, però, assolutamente trascurabile l’utilità che rivestono alcuni studi, spesso svolti sul lungo periodo e in prospettiva comparata, di storia del costume e della moda che senz’altro offrono uno sguardo attento alla rappresentazione di queste creazioni nelle produzioni artistiche coeve e una serie di informazioni circa le origini e il contenuto innovativo di questo tipo di allacciatura per l’evoluzione delle forme nel vestire. Si vedano: R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1964, vol. II, pp. 77-82, 395-401; vol. III, pp. 203-207; vol. IV, pp. 263-264; S. M. Newton, Fashion in the Age of the Black Prince. A study of the years 1340-1365, Woodbridge 1980; C. Frugoni, Medioevo sul naso: occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Bari 2001; V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, Modena 1995. Vi sono, inoltre, cataloghi di mostre e studi specifici sulla storia del bottone, la cui caratteristica più evidente è quella di fornire un apparato iconografico utile per il riconoscimento dei materiali impiegati e una serie di indicazioni dirette in modo particolare al mondo dei collezionisti: B. Pagano, Bottoni, Milano 2002; P. A. Osborne, About buttons: a collector’s guide: 150 A. D. to the present, Atglen 1994; Bottone: storia, arte e moda: collezione Franco Jacassi, Milano 2003; Mister bottone e i suoi gioielli, catalogo a cura di Franco Jacassi, Milano 1994; C. Wilcox-V. Mendes, Modern fashion in detail, Londra 1991.

3 Circa l’area di Palazzolo sull’Oglio diverse informazioni intorno all’importanza rivestita dalle manifatture di bottoni tra Otto e Novecento e stimoli all’approfondimento del tema si possono ricavare dalla lettura di studi più generali sulla storia dell’economia e dell’industria bresciana, da ricerche di carattere maggiormente locale legate alla storia di Palazzolo e dei suoi protagonisti e, infine, da suggerimenti che provengono da più recenti studi sulla storia dell’abbigliamento e della confezione: P. Tedeschi, Economia e sindacato nel bresciano tra primo dopoguerra e fascismo. Le unioni del lavoro (1918-1926), Milano 1999, pp. 7, 8, 30-46, 71, 168-169, 324, 359, 360, 387; F. Facchini, Alle origini di Brescia industriale. Insediamenti produttivi e composizione di classe dall’Unità al 1911, Brescia 1980, p. 266; F. Ghidotti, Appunti sugli scioperi a Palazzolo nel sec. XIX, in “Memorie illustri di Palazzolo sull’Oglio”, 2, 1969, p. 106; T. Bianchi, I cento anni della banca mutua popolare agricola 1872-1972, Bergamo 1972, pp. 114 -116, 133, 151, 153, M. Belpietro, Bottoni e cerniere-lampo da oltre un secolo sulle rive dell’Oglio tra l’antico centro e i sobborghi di Palazzolo laboratori artigiani e medie aziende lavorano corozo, dum e resine, in La banca credito agrario bresciano e un secolo di sviluppo: uomini, vicende, imprese nell’economia bresciana, Brescia 1983, vol. II, pp. 343-344; F. Ghidotti, I Lanfranchi a Palazzolo, in Les dames de Fontainebleau,

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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in materie vegetali in Italia risulta, infatti, particolarmente concentrata fin

dalle origini nei comuni bergamaschi e bresciani situati in prossimità del

fiume Oglio (distretto diciannove). La più nota eccezione al riguardo è

invece rappresentata da Piacenza che sul territorio nazionale incominciò a

emergere alla fine del XIX secolo, alla pari di Palazzolo sull’Oglio, per la

precoce introduzione della lavorazione di bottoni “frutto” o vegetali. I

primi bottonifici italiani per la lavorazione del corozo o avorio vegetale

furono infatti installati intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento a

Palazzolo per merito del milanese Edoardo Taccini e a Piacenza, poco più

tardi, grazie all’iniziativa di Vincenzo Rovera (1870)4. Si trattava di

produzioni destinate a riscuotere un particolare successo anche sul mercato

Graziella Buccellati e Ruth Sullivan (a cura di), Milano 1987, in particolare pp. 216, 218; I. Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Milano 2006, pp. 79-80.

4 L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine del bottone dalle origini alla fine del’900, Piacenza 2000, p. 9. Vi sono studi monografici relativi alla storia della manifattura dei bottoni concernenti un’area specifica e un periodo determinato che spesso interessa gli ultimi decenni dell’Ottocento e il Novecento. In questi casi è possibile rintracciare informazioni precise anche intorno all’entità delle produzioni e dei procedimenti di lavorazione adottati. Il riferimento è in modo particolare agli studi sulla storia del bottone nel piacentino, un’area caratterizzata, insieme a quelle bresciane e bergamasche della zona del fiume Oglio, dalla precoce introduzione di procedimenti innovativi nella manifattura dei bottoni in materie vegetali dalla seconda metà dell’Ottocento: si veda in proposito il sopraccitato L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine…, cit.. Talvolta questi testi, soprattutto qualora siano stati pubblicati in occasione di esposizioni, fiere o “saloni”, contengono un forte intento promozionale e ricollegano il tema del bottone a quello dell’importanza degli accessori nella moda, con richiami al mondo emergente della confezione. S. Maggi-C. Artocchini, L’industria del bottone nella storia: moda e costume a Piacenza, Piacenza 1971. Risalgono, invece, alla fine degli anni Settanta alcuni studi dal taglio economico specifico che trattano in modo preciso, e in prospettiva nazionale e internazionale, problemi e prospettive dell’industria italiana del bottone, con riferimenti analitici non solo al settore di interesse, ma anche a quelli correlati, e riflessioni circa l’utilità e il significato di manifestazioni mondiali e fieristiche come quella del Salone Internazionale del Bottone & Affini piacentino, volto a ospitare contemporaneamente bottoni, materie prime, semilavorati e impianti: G. Bianchini, Modelli di internazionalizzazione della produzione: una verifica sull’industria del bottone, Milano 1980.

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estero, rispetto alle versioni analoghe offerte da altri paesi, poiché dotate di

tutti i requisiti, dalla maggiore convenienza di prezzo alle caratteristiche

estetiche, cromatiche e di durata, per soppiantare le precedenti creazioni di

metallo e di legno, nonché quelle in passamaneria, molto più costose e

elaborate. Nei decenni successivi parte dei bottonifici palazzolesi si

distinsero nel panorama locale per le loro capacità di resistere a periodi di

crisi abbastanza gravi che colpirono il settore soprattutto nel primo

dopoguerra, di adattarsi in maniera rapida all’utilizzo di macchinari e

materiali diversi (dal “dum” e dalla galalite alle materie plastiche più

innovative) e di adeguarsi alle richieste del mercato anche attraverso scelte

di diversificazione della produzione che spinsero, in alcuni casi e a partire

dagli anni Trenta, ad associare la realizzazione delle più innovative cerniere

lampo alla ormai consolidata produzione di bottoni frutto e in galalite5.

Obiettivo di questo contributo è quello di ricostruire le origini del

particolare tipo di lavorazione legata ai bottoni vegetali che portò Palazzolo

sull’Oglio e i paesi limitrofi a una posizione di particolare vantaggio,

rispetto agli altri rari episodi di manifatture italiane analoghe, per tutta la

seconda metà del XIX secolo e per i primi decenni del Novecento, fino

all’introduzione delle materie plastiche nelle produzioni di allacciatura per

abiti e accessori. Una prima parte del paper è però dedicata a una

prospettiva più ampia, ossia all’analisi delle prime forme di produzione

5 Si è registrato dagli ultimi anni del XX secolo, a cent’anni dalla sua prima

introduzione, un interesse degli studiosi per la storia della chiusura lampo ricostruita, soprattutto attraverso l’analisi di casi provenienti dal panorama americano, anche in volumi a carattere monografico. Cfr. P. Willer, Whose zip?, Enderby 1994. Sulle produzioni italiane si veda La via italiana della moda: costanti e variabili in dodici storie di successo imprenditoriale e creativo, a cura di Paola Chessa Pietroboni, Milano 2004; F. Ghidotti, I Lanfranchi a Palazzolo…, cit. e la raccolta di articoli sulle chiusure lampo conservati presso la Biblioteca Tremelloni di Milano dal titolo O. Calabrese, Zip: 100 anni di sicurezza: inventing the age: zip fasteners 100 years on, collocazione F.0137.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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industriale dei bottoni, dei procedimenti di lavorazione e dei materiali

impiegati non solamente per la lavorazione di bottoni di frutto, ma anche

per nuove versioni dei più tradizionali bottoni in stoffa e in metallo. I

paragrafi centrali riguardano invece in modo più dettagliato il contesto

locale dell’industria manifatturiera palazzolese, con particolare riguardo ai

progressi registrati verso la fine dell’Ottocento nella fabbricazione di

bottoni vegetali e all’affermarsi dei primi grandi bottonifici. Altre pagine

sono dedicate al problema dell’espatrio degli artefici della manifattura e a

quello dei riflessi sulla bilancia delle importazioni e delle esportazioni nel

primo Novecento conseguenti l’innalzamento di barriere doganali da parte

di altri paesi e, in modo particolare, dalla Germania e dalla Francia.

Alcune osservazioni vertono inoltre intorno al problema degli elevati

costi della materia prima impiegata per la realizzazione di bottoni vegetali e

alla volontà di svincolarsi dall’importazione della materia prima, a veri e

propri periodi di crisi dei materiali in uso, verificatesi già negli anni venti,

in rapporto alla richiesta del mercato (per esempio bottoni di maggiori

dimensioni si potevano ricavare solo da noci più grosse o da materiali

sostitutivi come la galalite), e alle reazioni delle ditte di fronte a questa

necessità di adeguarsi che, in alcuni casi, stimolò una ricerca verso la

diversificazione della produzione, attraverso tentativi di coniugare

innovazione e esigenze di continuità con la produzione tradizionale.

I paragrafi conclusivi comprendono l’analisi delle caratteristiche

della serie storica dei brevetti, dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra,

rilasciati a inventori italiani, una significativa parte dei quali legata al

territorio di Palazzolo, e stranieri per accorgimenti e miglioramenti

connessi a materiali, prodotti e procedimenti di produzione relativi al

prodotto “allacciatura”, sia esso presente in forma di bottone sia in qualità

di pratica cerniera.

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2) Verso le prime forme di produzione industriale del bottone: una

storia di materiali che cambiano

Dalla fine del XVII secolo si avvertono i primi sintomi di quel

processo che porterà nei decenni successivi a una produzione industriale

del bottone. Proprio a partire da questi anni il bottone, quale gioiello

raffinato di pietre, metalli e smalti elaborati, o quale produzione di

passamaneria in tessuto prezioso frutto dell’abilità creativa artigiana, viene

progressivamente affiancato da forme diverse “la cui fabbricazione

consente una lavorazione seriale”. Si tratta di un fenomeno che prende

forma sempre più concreta nel XVIII secolo espandendosi “insieme con

una nuova filosofia vestimentaria che non riguarda più solo l’abito, ma

anche la biancheria personale di uomini, donne e bambini”. In queste più

recenti soluzioni d’allacciatura il materiale impiegato per la fabbricazione

si presenta come la chiave di lettura più interessante per ripercorrere i

progressi tecnologici di questa particolare manifattura che, come ha

sottolineato la letteratura più recente sull’argomento, “dopo la metà del

XVIII secolo […] si inserisce a pieno diritto nella cultura protoindustriale

contemporanea”6. Le nuove materie prime utilizzate, e che spesso hanno

scandito le tappe dell’evoluzione della manifattura del bottone verso forme

sempre più industriali, hanno presentato frequentemente il vantaggio di non

essere state preziose e costose quanto i materiali tradizionali già in uso, ma

di apparire simili a quelli e di consentirne un’imitazione, insieme a una più

facile e seriale lavorazione. Materiali più costosi di quelli già impiegati

furono invece preferiti nel momento in cui presentarono una migliore

6 V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., pp. 18-22.

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applicazione e soprattutto una maggiore versatilità nell’adattarsi a una

gamma di prodotti più ampia o particolarmente resistenti (madreperla).

Benché per tutta l’età moderna accanto alle produzioni di bottone-

gioiello in materiale prezioso si fossero fatta strada anche soluzioni più

economiche di allacciatura, con funzione non solo ornamentale, in metalli

meno pregiati, come l’ottone o il rame, la manifattura di bottoni per

eccellenza, cioè quella in metallo prezioso, era rimasta principalmente

affidata agli artigiani gioiellieri poiché in questo prodotto era ancora forte il

segno di distinzione sociale che l’aspetto decorativo, accentuato

dall’impiego di materiali preziosi, metteva meglio in luce7. Se in Italia nel

corso del XVII e XVIII secolo la produzione di bottoni incomincia a essere

meno concentrata nelle mani degli artigiani orefici o in quella delle

corporazioni preposte alla loro fabbricazione, dati i numerosi tentativi di

imitazione del raffinato prodotto originario in accattivanti soluzioni più

simili alla bigiotteria8, manifatture di bottoni vere e proprie incominciano a

7 Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti, Roma 1930, VII, Bil-bub, p. 593, ad

vocem “bottone”. 8 Per il caso italiano, e per tutta l’età moderna, soprattutto nelle regioni soggette a

Venezia, la fabbricazione dei bottoni era affidata a rami “speciali” di alcune corporazioni. Pare che addetti alla fabbricazione di anime da bottone fossero gli “anemeri” che rientravano nella corporazione dei “coroneri”, i quali avevano il compito di realizzare grani in legno per rosari (vedasi Archivio di Stato di Venezia, Savi alla Mercanzia, prima serie diversorum, b. 393, foglio n. 222, importazione proibita di bottoni in modo particolare di anime, 7/06//1780). Di fatto, però, la manifattura dei bottoni, per le svariate forme che già all’epoca essi presentavano, tendeva a legare il prodotto alla corporazione o all’artigiano che impiegava il materiale di cui era fatto il bottone: e in ogni caso il bottone la cui anima era stata realizzata in legno dall’“anemero” doveva comunque essere ultimato, a seconda dei casi, da bottonai che svolgevano un mestiere più simile a quello del “passamantero”, del “reccamatore”, del sarto. Vedasi D. Davanzo Poli, I mestieri della moda a Venezia nei secoli XIII-XVIII. Documenti: Parte II, Mestre 1986, pp. 149 e ss.. Gli “anemeri” producevano “anime di bosso da velada”, “da camisolla”, “d’osso da velada”. “d’osso da camisa” e “da camesetto” (vedasi Archivio di Stato di Venezia, Savi alla Mercanzia, prima serie diversorum, b. 393, attestazione dei capimastri delle anime di bottoni, 1/03/1781). Il bottone in metallo raro e prezioso, in quanto gioiello, spettava

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sorgere in Inghilterra tra Sei e Settecento, specialmente a Birmingham che

divenne presto in questo campo centro di fama internazionale. Tra coloro

che apportarono i maggiori perfezionamenti alla manifattura di bottoni in

metallo sono senza dubbio da ricordare Matthew Boulton (1745), il quale

“aveva messo a punto un sistema di fabbricazione di castoni di acciaio per

bottoni pregiati anche smaltati” e B. Sanders (1807)9. La nuova manifattura

prese piede quindi in Francia, durante la Repubblica e l’Impero, ed ebbe in

seguito largo sviluppo anche in Europa e in America con la

sperimentazione di nuove materie prime10. Tra l’altro, da fonti archivistiche

emerge come alcune fabbriche privilegiate “di bottoni di Princisbech d’oro

dunque all’orefice. Nel Settecento, inoltre, “bottonami” venivano prodotti anche dai “perleri” che avevano imparato a colare non solamente cannucce di vetro incolore, ma anche vetri colorati e paste di smalto in pane, dai quali nascevano interessanti soluzioni d’allacciatura: dai bottoni-bigiotteria, alle spille, agli aghi per scialle. Queste abilità vengono evidenziate chiaramente nelle carte del processo intorno “le differenze fra margariteri, supialume e verieri di Murano” conservate presso l’Archivio di Stato di Venezia, Censori, b. 22, f. 27.

Diverse informazioni circa gli artigiani “bottonieri” e i tipi di bottoni conosciuti tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento si ritrovano in D. Diderot-D’Alembert, Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Livourne 1770-1775, Tome second [B-cez], ad vocem “bouton”, secondo i quali i bottoni si dividevano nelle tre categorie principali del bottone di pietra, di metallo e di tessuto; in J. Savary de Bruslons, Dictionnaire universel de commerce, Geneve 1742, ad vocem “bouton” e “boutonnier”, in cui viene ribadita la varietà dei bottoni (in pietre preziose, in stoffa, in oro e argento filato, in seta, in pelo di capra) contemporaneamente all’appartenenza dei bottonieri alla più ampia categoria dei “maitres passamentiers-boutonniers-enjoliveurs”; e, infine, in F. Griselini, Dizionario delle arti e de’ mestieri, Venezia 1768, tomo terzo, Bot-Cam, in cui si fa riferimento sia a coloro che fabbricavano anime per bottoni, prevalentemente in legno di quercia, sia agli artigiani che forgiavano bottoni con metalli più o meno preziosi a seconda dei casi, sia a coloro che, invece, realizzavano raffinati bottoni con materie filate (pelo di capra, fili di oro e di argento).

9 Tra le nuove produzioni industriali inglesi erano particolarmente rinomate quelle dei “bottoni piatti di acciaio lucidato di trentacinque mm di diametro”, nelle quali l’acciaio lucidato, “lavorato a lamelle sottili disposte a stella o a losanga su un fondo opaco, martellato a cabochon e in perle che formano coroncine o fiori stilizzati”, brillava come “uno specchio”. V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., pp. 18-23.

10 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 593, ad vocem bottone.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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e d’argento ad uso di Francia ed altri esteri luoghi” fossero già state fondate

in area bergamasca nella seconda metà del Settecento (1772)11.

Tra i metalli impiegati per sostituire oro e argento, oltre all’acciaio,

vanno ricordati anche “il princisbecco, una lega di rame ottone e zinco,

ideata e battezzata dall’orologiaio inglese Christopher Pichebeck, e

l’alpacca argentata”: nella sua forma piatta o a superficie bombata il

bottone si prestava così a rappresentare “stemmi gentilizi, monogrammi,

simboli di associazioni e confraternite, armi di reggimenti militari che in

quel periodo cominciano a diversificarsi nei vari eserciti europei”12.

Venivano anche impiegati l’ottone, il similoro, l’alluminio, la latta, nonché

i metalli preziosi, oro e argento, e i relativi placcati. Fonti bibliografiche del

primo Novecento riferivano come i bottoni in metallo potevano “anche

essere a un sol pezzo massicci, oppure a due pezzi, vale a dire una parte

superiore”, sulla quale potevano essere stampati “lettere, fregi e segni

diversi” e “una parte inferiore (rovescio)”, del medesimo metallo della

parte superiore o in latta, nella quale era fissato “il gambo”13. Questi piccoli

oggetti, che mediante “la galvanoplastica” potevano essere “dorati,

argentati, nichelati, zincati, bruniti”, potevano essere fatti anche nella

versione con buchi invece che con gambo, soprattutto per i pantaloni. Larga

diffusione, anche per il suo impiego per guanti, carrozzerie e abiti dalle

forme più attillate che richiedevano allacciature meno vistose,

incominciava a guadagnare anche il bottone a pressione che, in alcuni casi,

11 Archivio di Stato di Venezia, V Savi, b. 378, 22 dicembre 1772. Il documento è

interessante anche perché riporta descrizioni dettagliate anche sulla fattura del bottone in metallo, costituito da un’anima in legno e da una calottina in metallo.

12 V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., p. 23. 13 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 594, ad vocem bottone.

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poteva avere la calotta superiore di “metallo oppure di corozo, di corno, di

madreperla” e successivamente “di galalite, di celluloide”14.

Negli anni Trenta dell’Ottocento un materiale di origine naturale si

impone sul mercato inerente la produzione di bottoni. Si trattava del

cosiddetto “avorio vegetale”, l’albume duro e compatto “dei grossi semi di

alcune palme tropicali”, note come corozo o tagua, solitamente impiegati

per zavorrare le navi provenienti dall’America Latina verso il porto di

Amburgo15. L’origine della manifattura dei bottoni “vegetali” ricavati da

queste noci risale dunque con ogni probabilità alla Germania benché dagli

anni settanta dell’Ottocento il tipo particolare di lavorazione del “bottone

frutto” incominciò ad essere più frequentemente associato ad alcuni paesi

italiani localizzati intorno alle sponde del fiume Oglio16. In queste località

italiane, in cui già radicata era la produzione di bottoni in altri materiali,

quali i metalli, le stoffe, il legno e le ossa di animali, la nuova manifattura

dei bottoni “vegetali” trovò un terreno tanto fertile e particolarmente

sensibile all’innovazione da divenire in seguito, tra la fine dell’Ottocento e

i primi decenni del Novecento, la più praticata e quella maggiormente

sviluppata.

Gli studi più recenti sull’argomento datano con certezza la nascita

delle prime manifatture italiane di bottoni vegetali, già a carattere

industriale, a un periodo che oscilla tra il 1850 e il 1870, evidenziando

come una forte azione di stimolo fosse derivata dalla scoperta del corozo,

che per le sue caratteristiche si adattava a una produzione subito seriale e

dall’affermarsi dell’industria tedesca dei bottoni di corozo che, come

sottolinea Bianchini, in breve tempo “conquistò il monopolio mondiale

14 Ibidem. 15 V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., pp. 23 e ss.. 16 Ibidem.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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della produzione di bottoni e delle macchine per fabbricarle”, fungendo

anche da modello da imitare per paesi, quali l’Italia, particolarmente

sensibili all’introduzione di questo tipo di innovazioni17. Se negli anni

precedenti la prima guerra mondiale in Italia erano presenti 55 fabbriche

che occupavano 8000 addetti, alla metà degli anni venti, la lavorazione del

corozo ebbe il suo massimo sviluppo raggiungendo un’esportazione record

pari a 142 milioni di lire18.

Accanto alla nuova lavorazione dei bottoni di frutto, che meglio

verrà descritta in un paragrafo successivo, venivano praticate, già note o di

nuovissima introduzione, lavorazioni di diversi materiali con i quali

venivano realizzati bottoni. In particolare continuava la produzione di

bottoni di corno e di unghia: i primi, ricavati dalle corna del bue o del

bufalo, erano di maggiore qualità e costavano di più. Questi venivano

ricavati da placche frutto del taglio delle corna e seguivano un processo di

lucidatura analogo a quello cui venivano sottoposti i bottoni di frutto. Si

trattava di bottoni molto “fini e perciò di uso limitato, fabbricati

specialmente in Inghilterra”. Quelli di unghia, erroneamente spesso indicati

come di corno, si ottenevano dalle unghie bovine provenienti in gran parte

dall’America Latina e seguivano un processo di lavorazione diversa dai

primi per cui la fase di stampatura del bottone veniva praticata a caldo su

dischetti ricavati da placche ottenute da un lungo processo di macerazione

delle unghie in cui lavoro manuale e lavoro della macchina si alternavano.

Una volta stampato, il bottone di unghia veniva rifinito al tornio, forato e

verniciato come i bottoni di corozo. I bottoni di corno e quelli di unghia

17 G. Bianchini, Modelli di internazionalizzazione della produzione…, cit., pp. 16-17. 18 Ibidem. I dati coincidono con quelli commentati da C. Friso, L’industria dei bottoni di

corozo ed i trattati di commercio, a cura della Camera di Commercio ed Industria della provincia di Brescia, Brescia 1914, p. 3.

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Barbara Bettoni

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possedevano già striature proprie e potevano essere venduti anche “al

naturale”, benché fossero comunque passibili di ulteriore verniciatura19.

Alla gamma dei bottoni di frutto e di quelli di corno e d’unghia si

aggiungeva quella dei bottoni d’osso, generalmente venduti in colorazione

bianca, benché suscettibili di verniciatura, e particolarmente adatti alla

biancheria anche se largamente impiegati sui colletti. Essi venivano torniti

e forati come quelli di avorio vegetale. I bottoni di legno, invece, fabbricati

soprattutto in Germania e in Polonia, dal Novecento vennero prodotti in

Italia specialmente durante i periodi di guerra20: anche in quest’ultimo caso,

però, alcune regioni italiane potevano avvalersi di un’esperienza

consolidata dal momento che è noto come, ancora per tutto il Settecento, le

anime dei bottoni, che poi venivano più frequentemente rivestite in tessuto

e passamaneria, potessero essere ricavate anche dal legno di bosso e dal

guscio delle noci di cocco21.

Maggiormente impiegati rispetto ai bottoni di legno, anche per il loro

impiego nelle finiture di mobili d’arredo e di carrozzeria, continuavano a

essere i bottoni in stoffa composti da una parte interna da rivestire, spesso

costituita da un dischetto metallico (latta) di forma piana o curvata a

seconda del tipo, dal rivestimento in stoffa della parte interna, dal rovescio

pure di latta, verniciato in nero o nichelato a seconda dei casi, dal gambo

(di stoffa o in metallo a seconda delle applicazioni) per la cucitura, da un

19 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 593, ad vocem bottone. Spesso l’introduzione di una nuova lavorazione veniva seguita dalla pubblicazione di

trattati specifici sulla tecnologia applicata come nel caso della lavorazione “industriale” dei bottoni di corno: vedasi in proposito lo scritto M. G. Ponzio, Procédé et fabrication mecaniques des boutons de corne, extrait du XXXII volume de la Publication industrielle de machines, outils et appareils, Paris, Libraire Technologique, 1891.

20 Cfr. Enciclopedia italiana…, cit., VII, pp. 593 e ss., ad vocem bottone. 21 Vedasi Archivio di Stato di Venezia, Arti, b. 101 e Savi alla mercanzia, prima serie

diversorum, b. 393, foglio n. 222.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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dischetto di cartone collocato all’interno del bottone. I bottoni in stoffa

potevano essere confezionati con qualsiasi stoffa tranne nel caso dei bottoni

per abito maschile “per i quali le stoffe” (originariamente prodotte solo in

Germania) erano “espressamente tessute, in pezze o nastri, in tanti

quadratini di misure e di disegni differenti”22.

Con conchiglie di madreperla di diverse provenienze venivano

realizzati pregiati bottoni madreperla. Si trattava di produzioni costose

anche per via dei tempi lunghi di lavorazione richiesti dalle caratteristiche

del materiale impiegato. Particolarmente usati per la biancheria, perché

suscettibili di continui lavaggi senza rischi di alterare il materiale, questi

bottoni presentavano superfici lucide con effetti iridescenti e Giappone e

Austria, nei primi del Novecento, ne erano i principali produttori. In Italia

non mancavano fabbriche in cui si praticava questa produzione già alla fine

del XIX secolo: veniva impiegata, soprattutto dai primi anni del

Novecento, una qualità di conchiglia chiamata trocas che si trovava in

abbondanza anche nelle colonie italiane sulla costa del Mar Rosso. Queste

conchiglie potevano sostituire la madreperla vera, “ma non eguagliarla

perché i bottoni ricavati da esse” erano “privi di riflessi perlacei”, erano

inoltre meno lucidi e tendevano a spezzarsi. Presentavano però il vantaggio

di poter essere facilmente sottoposti a processi di tintura23.

Intorno al 1910 oltre al corozo incominciò a essere utilizzato anche il

dum, il frutto di una palma largamente diffusa in Eritrea, Sudan e Etiopia.

Esso venne impiegato quale sostituto discreto del corozo24.

22 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 594, ad vocem bottone. 23 Ibidem, p. 594 . 24 Ibidem, p. 593, in cui si afferma che “tuttavia nel periodo postbellico l’industria

italiana ha fatto molti progressi nella lavorazione del dum, giungendo a ottenere buoni bottoni di ogni forma, colore e macchia, spinta a ciò non solamente dal desiderio di valorizzare un prodotto delle nostre colonie, ma anche dall’alto costo del

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Barbara Bettoni

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Contemporaneamente, e soprattutto dagli anni venti del Novecento, diversi

sforzi furono prodotti al fine di trovare “sostanze di composizione che

potessero legarsi nella fabbricazione dei bottoni”: le maggiori difficoltà

incontrate erano connesse alla “colorazione” e alla “macchiatura”. Fonti

bibliografiche coeve a questi primi sviluppi della ricerca di materie

plastiche parlavano dei risultati “sorprendenti” raggiunti da alcune

fabbriche in Olanda e in Germania e sottolineavano come qualche tentativo

fosse già stato praticato anche in Italia. Le nuove sostanze, presto impiegate

per realizzare bottoni dalle forme e dai colori più svariati, prendevano il

nome di “galalite” o “galakerite” o “neolite”: la loro base era sempre la

caseina industriale solidificata con bagni di formaldeide. Con queste

sostanze venivano infatti ricavati “specialmente i bottoni fantasia per

donna, per la possibilità di ottenere da esse forme, disegni e colori non

sempre ricavabili dal corozo”, e i bottoni da uomo “per i tipi imitanti il

corno e l’unghia”. Si trattava di materie più costose del corozo, ma per il

ventaglio maggiore di soluzioni che offrivano in rapporto a una moda in

continua evoluzione, vennero presto preferite25.

corozo nei confronti di quello del dum”. Il problema della reperibilità di una materia meno costosa del corozo ritorna in L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine…, cit., p. 18 in cui si spiega come “per alleggerire l’industria di questi costi, si incrementò in quegli anni l’uso del frutto della palma DUM, che aveva un costo nettamente inferiore, importato in Italia a partire dal 1902 ad opera del prof. Boldrati direttore dell’Ente per la colonizzazione dell’Eritrea”.

25 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 595, ad vocem “bottone”. In proposito nel contributo L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine…, cit., pp. 31 e ss., in un paragrafo dedicato alla storia dei materiali, si fa riferimento all’impiego di galalite dalla metà degli anni venti del Novecento con un incremento del suo uso negli anni trenta e quaranta. L’impiego di galalite fu contemporaneo a quello della resina ureica, altro materiale che “tolse spazio al corozo”. Entrambi i nuovi materiali “ebbero difficoltà di ampliamento di mercato per ragioni differenti ma comprensibili” legate, nel caso della galalite, ai lunghi tempi di stagionatura della caseina nei bagni di formaldeide e, nel caso dell’urea, alla richiesta di “immobilizzazioni tecniche non indifferenti sotto forma di pastigliatrici, di buratti speciali per sbavature, di presse verticali, di foratrici a piano, ma soprattutto di

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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La galalite impresse una brusca accelerazione al processo di

produzione industriale del bottone, “stimolando, tra l’altro, la produzione di

macchine automatizzate da parte dell’industria tedesca”. Solamente negli

anni successivi al secondo conflitto mondiale alcune aziende italiane, già

dedite alla produzione di bottoni, sperimentarono con successo la

produzione di macchine analoghe26.

Le stesse fonti, alla fine degli anni venti, a fronte di tanta varietà di

materiali impiegati, rendevano inoltre noto come, “ad eccezione però dei

bottoni di frutto, d’osso, di madreperla e di metallo”, che richiedevano una

forte specializzazione e si adattavano a una produzione più standardizzata,

tutte le altre materie utilizzate non avessero “dato vita a singole aziende”,

ma solamente a lavorazioni “di complemento” ad altre “con le quali”

avevano “in comune la materia prima”27. Nella fabbricazione dei bottoni

venne in seguito introdotta anche la celluloide, in cui inizialmente

spiccavano le fabbriche cecoslovacche. Permanevano, inoltre, tipi di

bottone più artigianali, forgiati ancora interamente attraverso procedimenti

stampi, indispensabili, questi ultimi, per variare le forme del campionario”. L’urea, a causa degli ingenti costi poteva essere impiegata solo per modelli di largo consumo che avrebbero permesso, con la loro lunga permanenza in catalogo, l’ammortamento progressivo degli impianti. Il corozo si presentava dunque relativamente più conveniente e più adatto della resina ureica al “continuo rinnovo di disegni ad ogni stagione”.

26 G. Bianchini, Modelli di internazionalizzazione della produzione…, cit., p. 17. 27 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 593, ad vocem bottone. Questa affermazione

risulta ulteriormente confermata, anche in relazione ad alcune produzioni in metallo, da alcune notizie circa la produzione caratteristica di alcune fabbriche di ottonerie di Lumezzane che, essendo dedite alla fabbricazione di posaterie, candelieri e “fornimenti da sciabole” e da fucili, comprendevano tra i propri articoli “bottoni a uso militare” e fibbie. Vedasi Archivio di Stato di Novara, Archivio Tornielli di Vergano, b. 173-m: ringrazio Sergio Onger per avermi segnalato questo dato. Anche nella serie storica dei brevetti che verrà commentata nel paragrafo in chiusura del paper compaiono, tra coloro che richiedevano brevetti per bottoni e chiusure, i nomi di ditte dedite alla produzione di posaterie e ottonami.

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manuali: si trattava di quelli in vetro per la cui produzione era nota la

Boemia28.

La letteratura coeva metteva in luce come le varie qualità dei

materiali impiegati nella fabbricazione dei bottoni avessero richiesto

lavorazioni differenti “fatte con macchine a mano o automatiche che si

adatta[va]no alle singole fasi delle lavorazioni stesse” e come, in

particolare, la manifattura dei bottoni di frutto, per la sua complessità,

avesse sempre necessitato di “macchine più varie e più numerose”. La

lavorazione dei bottoni metallici, invece, comportava il ricorso a “macchine

poco diverse da quelle destinate alla ordinaria stampatura dei metalli”.

Altre qualità di bottoni (madreperla, galalite, celluloide, legno, globeite,

stoffa) richiesero nel tempo l’impiego di macchinari simili a quelli destinati

alla produzione di bottoni vegetali o ai metalli, con alcune varianti

introdotte in funzione della durezza del materiale da lavorare29.

Contemporaneamente all’allargarsi del ventaglio di materie prime

disponibili per la produzione di bottoni, alla fine del XIX secolo, si assiste

anche a un mutamento delle forme dei bottoni che sempre più spesso

coinvolgono l’abito femminile, precedentemente meno allacciato con

bottoni di quanto invece non fosse stato quello maschile, che ne aveva fatto

ampio sfoggio. Come è stato sottolineato, “trascurando pochissime

eccezioni, la storia del bottone” è rimasta per lungo tempo “una storia al

maschile”: solamente dopo la metà del XIX secolo e “dopo l’ascesa e la

caduta della crinolina” anche gli abiti femminili incominciarono a “ornarsi,

oltre che allacciarsi, con quell’oggetto che molti fin dall’antichità usavano

definire, erroneamente, di minor valore di una monetina”30. La letteratura

28 Enciclopedia italiana…, cit., VII, p. 594, ad vocem bottone. 29 Ibidem, p. 596, ad vocem “bottone-bottoni”. 30 V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., p. 28.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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più recente documenta parte di questo passaggio dal bottone

esclusivamente maschile al bottone anche femminile, parlando degli anni

settanta dell’Ottocento come di un periodo invaso da una sorta di “bottone-

mania” resa possibile anche attraverso l’imitazione di bottoni pregiati

mediante soluzioni economiche più simili alla bigiotteria che al gioiello. Il

bottone da donna era soprattutto il bottone di passamaneria che, derivando

dalle “elaborate tecniche ricamatorie di quelli preziosi del XVII e XVIII

secolo che ornavano le giubbe e le marsine dei gentilhuomeni italiani,

francesi e spagnoli”, viene riproposto in versioni meno pregiate, ma

comunque di grande effetto, in cordoncino di seta lucida variamente

intrecciato seguendo un disegno a rilievo, reso più brillante con

l’inserimento di pailletes colorate in sostituzione delle schegge preziose. I

bottoni incominciano ad allacciare e guarnire non solamente i giacchini

dell’abito femminile, ma anche guanti e calzature, in un periodo in cui si fa

strada una nuova forma di allacciatura a cerniera, brevettata alla fine del

XIX secolo e inizialmente sperimentata solo nell’ambito delle calzature e

degli accessori di pelletteria31.

31 La chiusura lampo o cerniera venne brevettata nel 1893 da un certo Whitecomb

Judson per risparmiare alla moglie il problema dell’allacciatura del busto. Il modello verrà tuttavia perfezionato solamente nel 1912, ponendosi così come un’efficace e pratica alternativa al bottone dal primo dopoguerra. Cfr. A. Donnanno, Le parole della moda. Dizionario tecnico, Milano 2001, p. 125.

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3) I progressi industriali a Palazzolo sull’Oglio nella seconda metà

del XIX secolo: stato dell’industria “manifattrice” e affermarsi

dei primi bottonifici

Nel 1872 veniva pubblicato sul quotidiano bresciano “La provincia

di Brescia” uno speciale curato da Gabriele Rosa sui progressi industriali

registrati a Palazzolo sull’Oglio nei primi decenni della seconda metà

dell’Ottocento nel quale l’autore consigliava, tra l’altro, “una visita riposata

alle industrie di Palazzolo pella gioventù iniziata nella fisica, nella

meccanica, nel commercio” in quanto sarebbe valsa più “che lo studio di

molti libri”32.

Rosa sottolineava, dopo una parentesi sui successi conseguiti dalle

aziende operanti nel settore tessile e in quello della produzione di calce,

come “di tutti gli stabilimenti industriali di Palazzolo il più notevole e

peregrino” fosse “la fabbrica di bottoni di Taccini da Milano”. In questo

stabilimento “cogli ingegni i più sottili” si potevano realizzare

“elegantissimi bottoni da madreperle comprate al Cairo, da latta bianca

inglese, da latta nera prussiana, da ossa d’ogni qualità, da corna di varie

specie, da unghie di cavalli e buoi tratte sino dall’Argentina, da noci

americane di durezza e candore osseo, da stoffe di seta”. La fabbrica,

fondata di recente alla fine degli anni Sessanta, nell’arco di un triennio

aveva già maturato una serie di progressi introducendo la produzione di

bottoni di stoffa e sperimentando, con l’aiuto di un chimico prussiano, una

serie di tinte “vaghissime” d’anilina con le quali tingere i bottoni

“vegetali”. Nello stabilimento si stampavano, inoltre, “molto graziosamente

bottoni di unghia e di corna con stampi francesi d’acciaio fuso (…); colla 32 G. Rosa, Progressi industriali a Palazzolo sull’Olio, in “La provincia di Brescia”,

mercoledì 20 novembre 1872, n. 323, pp.1 e ss..

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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ammoniaca vi si imbianca[va]no le unghie così da sembrare ossa candide”,

mentre contemporaneamente si tentava di diversificare la produzione

attraverso la confezione di altri accessori e guarnizioni per abbigliamento e

tessuti: “spighette”, “cordoni” ed “elastici di seta”. Taccini impiegava il

lavoro di circa duecento persone, in massima parte donne che

“guadagna[va]no ad opera da centesimi cinquanta a due lire e mezza al

giorno”. La produzione, metteva bene in evidenza Rosa, era “tanto eletta

che non solo esclude[va] dall’Italia i bottoni stranieri”, ma riusciva a

esportare i propri sia in Germania sia in America.

Nell’insieme la fabbrica aperta a Palazzolo dal milanese Taccini

presentava molte analogie con “la grande fabbrica Binda da Milano” che

Rosa definiva “la maggiore d’Italia”. Quest’ultima impiegava circa trecento

operai, soprattutto donne, e riusciva a conquistare con le proprie creazioni

anche il mercato francese. La fabbrica Binda se, da un lato, non poteva

superare quella di Taccini “nella appariscenza de’ prodotti”, dall’altro,

aveva però il merito di riuscire a “preparare tutto l’occorrente di

meccanismi da se”: “il suo chimico”, aggiungeva Rosa, era “allievo della

scuola milanese di Kramer”, la motrice impiegata era uscita “dall’Elvetica

di Milano nel 1866”. L’azienda dava lavoro anche a cesellatori e realizzava

“non solo cordoni e nastri, ma anche stoffe di seta con telai meccanici”.

Il panorama fornito da Rosa sulla manifattura palazzolese dei

bottoni, come di una tra le più inclini nel contesto locale a introdurre

metodi innovativi per la produzione di articoli di alta qualità e al passo con

i tempi, aiuta a portare l’attenzione su alcune questioni, prima fra tutte

quella relativa alla paternità della lavorazione dei bottoni del tipo

“vegetale” detto anche “frutto” che, oltre a essere stata al centro di

polemiche di cui si può leggere tra gli scritti lasciati da alcuni operatori del

settore, è stata spesso ripresa, con interpretazioni non sempre uniformi,

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Barbara Bettoni

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dalla bibliografia più recente sulla storia della manifattura di bottoni in

Italia33. Altri temi che indirettamente la lettura dell’approfondimento di

Rosa suggerisce sono relativi alle possibili influenze esercitate

dall’ambiente milanese nell’area di Palazzolo sull’Oglio e del ruolo giocato

dalle figure di alcuni imprenditori milanesi che ebbero il merito di

individuare in questa zona, a cavallo tra la provincia di Brescia e quella di

Bergamo e ricchissima di acque, il terreno più adatto all’installazione di

fabbriche moderne per la manifattura di bottoni. Approfondire questo tema

potrebbe essere opportuno soprattutto qualora si prenda in considerazione il

debito che alcune aziende, già impegnate nella fabbricazione di bottonami,

dovettero a Milano nel momento in cui decisero di diversificare la propria

produzione sperimentando anche la realizzazione di cerniere lampo. Dal

resoconto di Rosa emergono, oltre al tema della manodopera impiegata,

soprattutto femminile, anche quello delle macchine, dei tipi di energia

impiegate per la realizzazione di questi prodotti e, infine, soprattutto del

ventaglio delle produzioni offerte, alcune delle quali sembrano avvalersi di

abilità che si riconducono a un’esperienza più consolidata e tradizionale,

altre si configurano, invece, come nuove sperimentazioni.

33 Cfr. G. Bianchini, Modelli di internazionalizzazione della produzione…, cit., p. 17. Si

vedano, inoltre, V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni & Bottoni, cit., p. 26; S. Cannara, Cenni storici sul bottone, 1° Salone Italiano Bottoni e Affini SIBA, Convegno nazionale su “Il bottone italiano nel mondo”, Piacenza 22-26 aprile 1971, p. 5; L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine…, cit., p. 9, S. Maggi-C. Artocchini, L’industria del bottone nella storia…, cit., p. 13. Vedasi al riguardo anche l’articolo non firmato La produzione bottoniera. Un’industria che merita attenzione e sostegno. Il problema della materia prima e le risorse dell’Impero. Priorità palazzolese nell’uso del corozo, pubblicato in “Il popolo di Brescia” A 16 – 1938, n. 5, giovedì 6 gennaio e P. G. Lanfranchi, Storia del bottone frutto in Italia dalla seconda metà del sec. XIX alla fine della seconda guerra mondiale, ms Bilioteca Civica di Palazzolo s/o (Bs).

.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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Il 10 febbraio 1890 il Prefetto della Provincia di Brescia scriveva ai

Sindaci dei vari comuni al fine di ottenere da ciascuno di loro

collaborazione nella raccolta di informazioni circa lo stato dell’agricoltura,

dell’industria e del commercio, nonché sulle “condizioni fisiche, morali,

intellettuali ed economiche della popolazione”, utili alla compilazione di

una monografia dettagliata sullo stato della provincia bresciana alla fine del

XIX secolo. La relazione consegnata al prefetto e curata da Antonio Ricci

evidenziava i progressi della quale era stata protagonista la comunità di

Palazzolo nella seconda metà dell’Ottocento. Nel paragrafo relativo

all’industria “manifattrice” Ricci sottolineava come Palazzolo possedesse

“un bel numero di stabilimenti industriali, molti de’ quali, importantissimi

e fiorenti”, traevano gran parte dell’energia impiegata dalle “acque

dell’Oglio e sue diramazioni”. In particolare tra gli stabilimenti che

ricorrevano a questa fonte di energia si annoveravano “quattro fabbriche di

bottoni”.

La relazione di Antonio Ricci sui bottonifici si apre inoltre con un

esplicito richiamo all’attività dei milanesi, all’esempio che essi

rappresentavano per l’industria di Palazzolo e soprattutto al diretto

interesse che alcuni imprenditori di Milano avevano manifestato rispetto

all’area di Palazzolo34. Se dunque “l’industria bottoniera” era sorta in Italia

al principio del XIX secolo per “opera del benemerito Ambrogio Binda”, la

cui prevalente attività consisteva nella produzione di bottoni in metallo,

raggiungendo in pochi anni “uno sviluppo considerevole”, a Palazzolo, ove

alla fine del secolo era possibile contare “parecchi stabilimenti congeneri”,

34 Le informazioni e le citazioni riportate in queste pagine sono tratte dalla relazione di

Antonio Ricci pubblicata in F. Ghidotti, Palazzolo 1890. Notizie sull’agricoltura, l’industria e il commercio e sulle condizioni fisiche, morali, intellettuali, economiche della popolazione, Palazzolo 1970, pp. 22-24.

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l’industria dei bottoni era stata avviata nel 1867 con la ditta “Edoardo

Taccini”, produttrice di bottoni e passamaneria, trasformatasi qualche anno

più tardi in “Taccini e Fanti” e affermatasi successivamente come “Società

Anonima Manifattura Bottoni” con sede in Piazza V. Rosa.

Questo stabilimento, racconta Ricci, “si regge[va] colla forza

idraulica che mette[va] in moto una ruota ed una turbina, a cui si

aggiunge[va] da qualche anno una motrice a vapore raggiungendo così la

totalità di 35 cavalli di forza”. L’acqua proveniva dalle seriole Fusia e

Vecchia. Lo stabilimento dava luogo a una produzione varia, come aveva

già bene sottolineato Gabriele Rosa nel suo intervento sulla stampa locale,

nella quale spiccavano “i cosiddetti bottoni vegetali e corno”, che

rappresentavano la novità dell’epoca: in proporzioni minori venivano

realizzati anche bottoni di stoffa e di metallo. Le materie prime venivano

importate dalle “due Americhe”: il materiale impiegato per la fabbricazione

dei bottoni frutto era una sostanza “conosciuta sotto il nome di avorio

vegetale” perché caratterizzata, una volta stagionata, dall’essere assai

simile all’avorio sia per durezza che per “bianchezza”. Per i bottoni di

corno si faceva invece solamente uso di “unghie di bue” con le quali si

potevano realizzare “bottoni colorati che imita[va]no perfettamente quelli

vegetali”. Nella relazione si sottolineava come il lavoro, “salvo piccole

eccezioni”, non fosse pericoloso per gli operai dal momento che era “tutto

regolato secondo le moderne esigenze”. Si trattava insomma di uno

stabilimento che “cammina[va] a grandi passi per raggiungere il suo

massimo sviluppo”, come scriveva Ricci, sia “in riguardo alla quantità

produttiva, sia alla qualità” che già all’epoca poteva “rivaleggiare con le

migliori fabbriche estere”. Alla Taccini trovavano lavoro “in media 82

uomini e 18 fanciulli dai 10 ai 14 anni, nonché 140 donne e 30 ragazze”. La

produzione si aggirava intorno alle 300.000 grosse di bottoni, frutto di un

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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lavoro esercitato in tutti i giorni dell’anno esclusi quelli festivi. Nello

stabilimento vi erano 40 torni e 270 trance. La paga, come riferiva Ricci,

era “molto al di sotto di quella che si poteva accordare” qualche anno

prima: le ragazze e i ragazzi venivano pagati 50 centesimi, le donne non

percepivano più di una lira, gli uomini venivano retribuiti dalla una lira e

mezza a due lire.

Alla manifattura di bottoni era dedito anche lo stabilimento “Cella e

Regondi”, fondato intorno al 1875 “nel luogo in cui trovavasi un piccolo

torcitoio di proprietà Muzio”. Dopo aver subito alcune trasformazioni e

dopo aver arrestato l’attività per qualche anno, dal 1882 circa, lo

stabilimento aveva ripreso la produzione di “bottoni vegetali per circa

90000 grosse all’anno” e minore quantità di “bottoni di osso (circa 30000

grosse) e di metallo (circa 20000 grosse)”. La materia prima impiegata per

la fabbricazione dei bottoni era data dal “corozols proveniente la maggior

parte da Amburgo e dall’America e lo stucco di Napoli”. L’azienda che si

avvaleva di “una piccolissima forza d’acqua” e di “un motore a vapore di

16 cavalli di forza”, occupando 81 persone di cui 45 maschi (35 adulti e 10

sotto i 15 anni) e 36 femmine (26 adulte e 10 sotto i 15 anni) aiutate nelle

operazioni da 48 “macchine accessorie”, “cioè 22 trancie e 26 torni”. La

media dei giorni di lavoro era di 210 all’anno, la qualità delle merci

prodotte era “press’a poco identic[a]” a quella dello stabilimento

Manifattura Bottoni.

Nel corso degli anni Ottanta erano stati avviati altri due stabilimenti

dediti alla fabbricazione di bottoni. La “terza fabbrica di bottoni”, della

quale riferiva Ricci, esercitava solamente da due anni e la sua caratteristica

principale era quella di essere stata avviata “da un semplice operaio in

bottoni” che aveva incominciato “in piccolo per proprio conto ed in casa

propria” e che, alla fine degli anni Ottanta, si era unito in società

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“costituendo la ditta Lanfranchi e Corrodori”. L’attività di questo

stabilimento andava “lentamente sì, ma progredendo”, la forza idraulica era

di “un cavallo e mezzo”, si disponeva di 8 torni e di una sega circolare, la

produzione media annua era di 26000 grosse di bottoni vegetali. Gli operai,

tra maschi e femmine 22, lavoravano da 250 a 270 giorni all’anno, l’avorio

vegetale “generalmente usato” proveniva dall’America, lo smercio aveva

“luogo per 20000 grosse in Italia e per 6000 all’estero”. L’ultima fabbrica

di bottoni cui accennava Ricci era la ditta “Schivardi Antonio”. Si trattava

di “una piccola fabbrica di bottoni” per la quale “le operazioni prime”

venivano “eseguite in Pontoglio con due cavalli e mezzo di forza

idraulica”. I bottoni “quasi compiuti” venivano “portati presso il domicilio

del proprietario”, ove venivano “ultimati, messi sulle carte e poscia nelle

scatole e spediti”. Venivano impiegati “5 torni, una sega, una foratrice” e vi

trovavano lavoro “15 operai di cui 11 maschi e 4 femmine”. Un solo

maschio era minore di 14 anni. Si lavorava in tutti i giorni feriali. La

materia prima, anche in questo caso “avorio vegetale”, proveniva dalle

Americhe. Il prodotto veniva smerciato in Italia e in piccola parte anche

all’estero.

Il quadro vivace e particolarmente sensibile all’introduzione di

produzioni e processi innovativi viene ribadito per le fabbriche di bottoni

palazzolesi anche nella statistica industriale pubblicata nel gennaio del

1911 a cura della Camera di Commercio e industria di Brescia35. Nel

paragrafo dedicato alle fabbriche di bottoni si sottolineava come i sei

stabilimenti presenti in provincia dediti alla manifattura di bottonami, in

modo particolare “bottoni di metallo, bottoni frutto (corozo e palma Dum),

perletta, aloa e madreperla”, fossero concentrati nel comune di Palazzolo. 35 Camera di Commercio e Industria di Brescia, Statistica industriale al gennaio 1911.

Industrie varie, Brescia 1911, pp. 27-28.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

29

Complessivamente i bottonifici palazzolesi lavoravano “col sussidio di due

caldaie Tosi della forza di 50 cavalli; di 22 cavalli di forza idraulica, di 421

cavalli di forza elettrica”, impiegando in tutto, per tutto l’anno e per 10-11

ore al giorno a seconda delle stagioni, 1209 operai “dei quali 539 maschi

adulti, 42 fanciulli, 555 donne e 73 fanciulle”. Gli uomini percepivano un

salario da due lire e mezza a sei lire, i fanciulli da 70 centesimi a due lire, le

donne da una lira a una lira e mezza, le fanciulle da mezza lira a una lira e

mezza.

Tra tutti gli stabilimenti il principale era ancora quello della “Società

Anonima Manifattura Bottoni” che nel frattempo, dal 1903, si era trasferito

in locali più ampi edificati sopra un’area di 5000 metri quadri. I prodotti,

bottoni “di vegetale e aloa (legno)”, avevano inoltre riscosso parecchio

successo sui mercati esteri di tutto il mondo. La ditta lavorava “ col

sussidio di 2 caldaie Tosi della forza di 50 HP ad uso tintoria e

riscaldamento”; lo stabilimento era inoltre “animato da 15 motori Elettrici

della forza di 190 Kilowatt pari a 258 HP forniti dalla Società Elettrica

Bresciana”. Presso il maggiore bottonificio di Palazzolo trovavano impiego

500 operai circa, di cui la metà era rappresentata da donne che lavoravano

per 10 ore al giorno nei mesi invernali e per 11 nelle altre stagioni. Gli

uomini percepivano in media “lavorando a cottimo un salario massimo di L

5, minimo di L 1,80”. I fanciulli percepivano da un massimo di una lira e

mezza a un minimo di 60 centesimi, le donne da un massimo di lire 2,80 a

un minimo di una lira e 25 centesimi, le fanciulle da 60 centesimi a una lira

e mezza.

La relazione statistica forniva dati anche intorno a due ditte

precedentemente menzionate nella relazione di Ricci e che, nel 1911,

potevano registrare, alla pari della maggiore Società Anonima Manifattura

Bottoni, un incremento delle produzioni, del personale impiegato e un

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Barbara Bettoni

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allargamento dei mercati ai quali inviare le produzioni. La prima era quella

di Giovanni Lanfranchi che, fondata nel 1887, lavorava “col sussidio di 3

motori elettrici della forza di 35 cavalli”, impiegava 135 operai “di cui 8

fanciulli, 25 donne, 30 fanciulle” che prestavano servizio per 11 ore al

giorno per tutto l’anno. Gli “adulti”, termine con il quale ci si riferiva al

solo personale adulto maschile, percepivano un salario massimo di 6 lire e

un minimo di lire 2,50; i salari per i fanciulli oscillavano da un massimo di

due lire e mezza a un minimo di 70 centesimi, quelli per le donne da un

massimo di due lire e mezza a un minimo di 85 centesimi, quelli per le

fanciulle da un massimo di due lire a un minimo di 80 centesimi. La

seconda fabbrica, pure già nota a Ricci, era quella di Antonio Schivardi:

questa lavorava con il “sussidio di un motore idraulico della forza di 2

cavalli, di 2 motori elettrici della forza di 12 cavalli” e impiegava 34

operai, più del doppio rispetto a venti anni prima, di cui “8 fanciulli, 7

donne e 3 fanciulle” che prestavano servizio per 11 ore al giorno, per tutto

l’anno. I salari degli “adulti oscillavano da un massimo di 5 lire a un

minimo di 2, quelli dei fanciulli da un massimo di 2 a un minimo di una,

quelli delle fanciulle da un massimo di una lira e mezza a un minimo di una

lira.

La statistica riferiva anche dell’esistenza di ulteriori stabilimenti

dediti alla manifattura di bottonami e successivi, per fondazione, alla data

in cui Ricci aveva condotto la sua indagine sulle industrie palazzolesi. Si

trattava della ditta “Colombo Aquilino”, produttrice di bottoni di metallo

dal 1892. Il lavoro era svolto in questo caso da 4 fanciulli, 10 donne e 10

fanciulle che lavoravano in media 10 ore al giorno. I fanciulli percepivano

un salario massimo di 2 lire, minimo di 80 centesimi; le donne un massimo

di una lira e mezza e un minimo di una, le fanciulle un massimo di una lira

e mezza e un minimo di 50 centesimi. Dal documento si apprende anche

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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dell’apertura delle ditte “Lozio G. B.”, fondata nel 1906, e della ditta

“Lozio Svanetti e C.”, la cui data d’impianto risaliva al 1903. La prima di

queste, dedita alla produzione di bottoni frutto, perletta e aloe, aveva la

peculiarità di essere l’unica “fabbricante in Italia di bottoni imitazione

madreperla”. Essa lavorava “col sussidio di una caldaia a vapore per

riscaldamento e tintoria, di una turbina idraulica della forza di 20 cavalli, di

2 motori elettrici della forza di 8 cavalli ciascuno” e impiegava 128 operai,

“di cui 7 fanciulli e 80 donne” che lavoravano “in media 11 ore al giorno,

per tutto l’anno; gli adulti col salario massimo di lire 4,50, minimo di lire

2,50; i fanciulli massimo di lire 1,50, minimo di lire 0,80; le donne

massimo di lire 3,00 minimo di L. 1”. Presso la “Lozio Svanetti”, che

lavorava “col sussidio di 2 caldaie a vapore per tintoria, di 6 motori elettrici

della forza di 100 cavalli”, prestavano impiego, lavorando per 11 ore al

giorno tutto l’anno, 390 operai di cui 15 fanciulli, retribuiti con un massimo

di lire 3,50 e un minimo di lire 1,20, 185 donne, pagate con un massimo di

3,50 lire e un minimo di 1,20 lire, 30 fanciulle, con salario massimo di una

lira e minimo di 60 centesimi.

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Barbara Bettoni

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4) Il bottone “frutto”: procedimenti di produzione dei bottoni

vegetali, creazioni e reperimento delle materie prime

Nel 1968 Paolo Gentile Lanfranchi che si definiva “un bottoniere”

che aveva lavorato “in una fabbrica di bottoni dal 1897 al 1955” si

accingeva a scrivere una “storia del bottone frutto in Italia dalla seconda

metà del XIX secolo alla fine della seconda guerra mondiale”, al principio

della quale, piuttosto rammaricato, sosteneva che purtroppo, “dopo la

comparsa dell’industria delle materie plastiche, nata durante la seconda

guerra mondiale” era venuto meno “quel primato che era stato di Palazzolo

sull’Oglio e dei paesi circonvicini e […] anche di Piacenza”36.

I primi bottoni di frutto secondo Lanfranchi dovevano essere stati

fabbricati in Germania: “prima di allora si facevano di osso, di madreperla,

di unghie di bue, di latta, di legno, di stoffa”. Secondo l’autore i fabbricanti

di bottone “germanici” erano riusciti a capire che le noci americane di

corozo, per il loro colore chiamate “avorio vegetale”, utilizzate come

36 P. G. Lanfranchi, Storia del bottone frutto in Italia dalla seconda metà del sec. XIX

alla fine della seconda guerra mondiale, ms Bilioteca Civica di Palazzolo s/o (Bs). L’autore era figlio di quel Giovanni Lanfranchi che, tra i primi a Palazzolo, aveva fondato, negli ultimi anni del Novecento, un bottonificio per la lavorazione del corozo. Come si ha modo di leggere nel dattiloscritto curato da P. G. Lanfranchi sulla storia della sua famiglia e del suo bottonificio, conservato presso l’archivio dell’attuale ditta G. Lanfranchi a Palazzolo s/o, tra il 1886 e il 1887 Giovanni Lanfranchi decise di avviare in proprio una piccola fabbrica di bottoni accanto alla ditta Cella. Dopo la morte di Giovanni Lanfranchi, al principio del Novecento, i figli si avvalsero nella gestione dell’azienda della consulenza di due rappresentanti di origine ebraica, Aristide Calef di Milano e James Floercheim di Londra, provvedendo in seguito al rinnovo di locali e all’aggiornamento di impianti: gran parte dei macchinari erano stati acquistati in Germania. L’attività, prevalentemente orientata alla produzione di “bottoni di frutto, galatite (…), fibbie ed articoli similari” che, come si reclamizzava nelle carte intestate dell’azienda, venivano esportati “in tutti i paesi del mondo”, dagli anni trenta venne integrata con la produzione di cerniere lampo. Dalla metà del Novecento, abbandonata negli anni quaranta la lavorazione del bottone vegetale, la produzione delle lampo assorbì tutta l’attività della ditta.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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zavorra per le navi degli armatori che giungevano ad Amburgo, “potevano

adattarsi ottimamente alla fabbricazione di bottoni”: “difatti la materia si

prestava magnificamente a essere tagliata (tornita)”. “Il colore” era inoltre

“di un bianco candido e poteva facilmente essere colorato”. Questo

materiale reggeva, a fine lavorazione, anche all’operazione di lucidatura la

cui perfezione rimaneva a lungo nel tempo resistendo alle intemperie.

Lanfranchi sosteneva che il primo a installare in Italia una fabbrica per la

produzione di bottoni frutto fosse stato proprio Taccini il quale, “per

impiantare una fabbrica di bottoni” aveva dovuto ricorrere “a tecnici da far

venire dalla Germania”. Taccini “seppe dare alla propria industria tutta

nuova una buona fama”, sosteneva l’autore, “se nel giro di pochi anni” fu

in grado di produrre “tanti imitatori”.

Lanfranchi accennava anche ai sistemi di “lavorazione del bottone

tornito”: “il frutto, dopo l’operazione della sgusciatura [poiché arrivava

tutto con la corteccia], non veniva segato”. L’operazione di sgusciatura non

era delle più semplici in quanto il frutto, mancando di stagionatura, aveva

una corteccia molto aderente. “La rotonda castagna veniva presa fra la

griffa dentata del coupè e il mandrino del tornio, che portava la fresa. Vi si

incidevano all’intorno tanti bottoni quanti ne poteva occupare la superficie.

Indi su un sasso, con una vecchia lima, la castagna veniva spezzettata. I

vari pezzi inseriti sul mandrino o morsetto venivano torniti dall’altra parte”.

Nei passi successivi il bottoniere precisava che “a quei tempi la qualità del

frutto era solamente quella proveniente da Cartagena”: si trattava dunque di

un “frutto piuttosto grosso, ma rotondo che si prestava molto bene per

essere marcato tutto all’ingiro”. Nei periodi successivi si aggiunse a questa

prima qualità di frutto quella del tipo “Guajaquil” proveniente

dall’omonima località sull’Oceano pacifico: questi frutti avevano una

superficie più piatta e potevano essere segati mediante “veloci seghe

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Barbara Bettoni

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circolari”, introdotte verso il 1880. Se al principio anche le noci di

Guajaquil arrivavano ancora provviste di guscio, successivamente “le case

importatrici di corozo”, da allora sempre tedesche, “organizzarono la

sgusciatura sul posto di raccolta”.

Negli anni successivi ulteriori passi in avanti nella manifattura del

bottone vegetale furono possibili grazie all’introduzione di un frutto ancora

più adatto detto “Manta”. Lanfranchi ricorda che in seguito si ricorse anche

al “Dum”, un frutto di origine africana, che, a detta dell’autore, “si

dimostrò sempre uno scadente surrogato”, non in grado di resistere alla

lucidatura alla pari del corozo e caratterizzato da una superficie “untuosa” e

non bianca. Adatto solamente “per certi tipi di bottone” era invece il

prodotto “Tahiti”, che era anche più costoso

Lanfranchi ricorda che, prima dell’introduzione dell’elettricità, la

fase di tornitura veniva effettuata tramite l’impiego di “tornitori a gamba” e

che solamente l’operazione di segatura veniva eseguita “col concorso di un

manovale, che aveva il compito di azionare a mano un grande volano con

manovella”. L’autore fa inoltre presente come il “tornietto a gamba” non

fosse “fornito della cosiddetta canna”, che fu introdotta più tardi, e come

all’epoca fosse invece impiegata “una fresa a croce”: i tre corpi della

tornitura, il “tornietto”, il “coupè” e la “contropunta”, rimasero sempre “i

medesimi per tutti gli ottant’anni, salvo piccole varianti meccaniche come

perfezionamento”.

Un paragrafo della storia era inoltre dedicato alla descrizione dei

“bottoni in uso durante tutta l’epoca del bottone frutto”, che fino al 1885

erano stati essenzialmente di due tipi: uno da uomo e l’altro per la donna.

Per l’uomo si produceva il tipo “bombé” con foro centrale “che si biforcava

in due fori”. Si trattava di un tipo che rimase in uso anche in epoche

successive, impiegato prevalentemente per le forniture militari e fino a

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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quando l’amministrazione militare decise di adottare “il tipo di cartone

pressato color grigio-verde”. Un altro bottone maschile era quello “caccia”

che Lanfranchi definisce “quasi identico al primo”, abbinato a abiti da

caccia “fustagno rigati marrone”. Le dimensioni erano due, quella della

giacca e quella del gilet, mentre per le grandezze superiori, per pastrani, “si

continuava a utilizzare il legno coperto di stoffa oppure altre materie,

soprattutto di ossa di animali”. Per la donna si fabbricava il solo tipo a

sfera, “borline”, nella dimensione di circa 6, 8, 10 millimetri a colori

vivaci. L’autore sottolineava come per la donna non fossero previsti altri

tipi di bottone e fossero, invece, maggiormente impiegati, e ancora in

vigore, altri tipi di allacciatura, come spilli e uncini che avevano la

funzione di unire i due lembi del capo d’abbigliamento. In seguito venne

introdotta la “crapeta”, il bottone noto per essere divenuto classico, con i

quattro fori.

Lanfranchi nel suo scritto chiarisce come la lavorazione dei bottoni

frutto venne da subito orientata “verso il concetto di produrre molto al

minor prezzo possibile”. I tornitori di bottoni, “a coppie di due uomini per

due lavorazioni davanti e retro”, successivamente nella maggior parte dei

casi sostituiti dalla meno costosa manodopera femminile, riuscivano a

produrre oltre cento grosse di bottoni in un giorno lavorativo in media di 11

ore: si trattava di una lavorazione che nei primi anni veniva interamente

retribuita a cottimo.

Un contributo efficace alla lavorazione venne fornito dal successivo

impiego di appositi macchinari, forniti esclusivamente dalla ditta tedesca

“Sylbee & Pandorf di Scmoolh”, situata al centro della regione che

produceva bottoni in Germania. Queste macchine servivano “per forare, per

stampare, per tornire, per lucidare”: nel frattempo contribuirono sia ad

accrescere la produzione e a migliorare il prodotto, sia a configurarsi come

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Barbara Bettoni

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modello da imitare per alcune aziende, come la Marzoli, la Morandi e la

Giusi, che presto si cimentarono nella realizzazione di macchinari analoghi.

Il manufatto venne dunque progressivamente perfezionandosi soprattutto in

funzione della coloritura a macchie. Questo prodotto realizzato in corozo

rimase apprezzato sul mercato anche in seguito al secondo dopoguerra e

all’introduzione massiccia di materie plastiche, benché a richiederlo fossero

solamente “i commercianti e i sarti raffinati”.

Non manca nello scritto di Lanfranchi anche un riferimento ai

mercati di sbocco dell’enorme produzione che, ai tempi d’oro della

manifattura del bottone frutto, raggiungeva in Italia la cifra del mezzo

milione di grosse al giorno. La produzione si articolava principalmente nei

tre tipi “calzoni”, “impermeabili”, “India”. Altri prodotti erano destinati al

consumo locale per quelli che Lanfranchi definiva “i nostri abiti e

pastrani”; il tipo “calzoni” e “impermeabili” era soprattutto richiesto

dall’Inghilterra fino a quando Londra, “padrona di mezzo mondo” aveva la

necessità di inviare “nei suoi possedimenti […] i suoi abiti fatti, muniti di

bottoni italiani”. Altro mercato era rappresentato dall’India cui i bottonieri

italiani spedivano, in quantità sempre enormi, direttamente i bottoni

piccoli, quelli di un massimo di 18 millimetri di diametro.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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5) Il problema dell’espatrio delle maestranze, i trattati commerciali

e la bilancia delle importazioni e delle esportazioni

Nel 1914 Friso, tra le industrie più affermate in Italia nominava,

quella dei bottoni, che aveva “concentrato […] la sua operosità nella media

Valle dell’Oglio […] ed in provincia di Piacenza”37. Si trattava di

un’industria che, inizialmente “sorta col fabbricare bottoni in stoffa”, subì

una “graduale evoluzione fabbricando successivamente bottoni di legno,

osso, di corozo, di palma dum”. Nel 1914 essa impiegava

complessivamente “circa 12000000 di lire di capitale”, dava lavoro a più di

8000 operai e produceva giornalmente 55000 grosse di bottoni, “pari a n.

7920000 bottoni per un valore complessivo di circa lire 83000”.

Friso sosteneva che per questa manifattura non erano senz’altro

mancati periodi di crisi, ma che fortunatamente essi erano stati spesso

controbilanciati da periodi di fiorente attività per cui “anni buoni furono il

1900, 1901, anni di crisi, invece, il 1902, 1903, 1904”. Le sorti della

manifattura “si risollevarono senza interruzioni preparando un periodo di

viva ripresa e di prosperità” che culminò nel biennio 1909-1911, nei quali

le fabbriche si ingrandirono e incrementarono la propria produzione. Il

1913, “forse anche in seguito allo sviluppo degli anni precedenti, senza

dubbio per effetto della crisi balcanica”, si presentava un anno “di qualche

crisi”: le commissioni incominciavano a scarseggiare, i prezzi dei prodotti

crollavano, lasciando prevedere all’autore che la crisi al momento solo

“accennata” fosse destinata a perdurare e ad accentuarsi negli anni

successivi38. Ciò nonostante, nella sua relazione, Friso cercava di porre

37 C. Friso, L’industria dei bottoni di corozo…, cit., pp. 3-9. 38 Previsioni di crisi per gli anni 1913 e successivi emergono anche da Camera di

Commercio e Industria di Bergamo, Rapporto sull’andamento industriale e

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Barbara Bettoni

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bene in evidenza come l’industria del bottone fosse comunque tesa al

“miglioramento del prodotto” tanto che si poteva affermare in linea di

massima coma essa avesse ormai raggiunto “ed in certi casi superate le

migliori e più vecchie fabbriche estere”.

A prova di ciò l’autore sottolineava come il “prodotto italiano”

andasse “in tutte le parti del mondo, comprese quelle regioni che un tempo

furono le principali produttrici e le maestre” di questa industria. Per i

bottoni di corozo si poteva inoltre affermare che fossero inesistenti le

importazioni e molto abbondanti le esportazioni (v. tab. 1).

I mercati di sbocco erano principalmente rappresentati, all’epoca,

dall’America del Sud, dal Canada, dalle “Indie Inglesi” e dal Giappone e,

in Europa, dall’Inghilterra, dai Paesi Bassi, dalla Germania e dalla Russia.

Friso sosteneva, inoltre, come l’industria italiana del bottone avesse potuto

affermarsi “anche in confronto alla similare industria straniera” per il fatto

che tra i concorrenti e l’Italia vi fosse sostanzialmente la medesima

posizione rispetto alle difficoltà e ai costi di reperimento della materia

prima (corozo), mentre l’Italia poteva “godere di qualche beneficio”,

risparmiando, ma ancora per poco, sulla manodopera che non era così

commerciale nella provincia di Bergamo. Anno 1913, Bergamo 1914, in cui, alle pagine 20 e 21, si affermava che la provincia di Bergamo, pur vantando il primato su tutto il resto d’Italia “in tre branche dell’industria bottoniera (…), dell’osso, della madreperla, del corozo e dum”, stava attraversando un periodo di crisi. La produzione dei bottoni di osso, per la quale si richiedeva una maggior protezione doganale, continuava a urtare contro l’ostacolo del difficile reperimento della materia prima; quella di bottoni madreperla era posta in difficoltà dalla concorrenza di Austria e Giappone; quella principale, di bottoni di corozo e dum, doveva fare i conti con la diminuita domanda “perfettamente spiegabile sia col fatto che moda femminile” aveva “abbandonato, quasi completamente, il bottone di corozo che negli ultimi anni”, invece, era stato “ricercatissimo”, sia “col ritorno in genere dal bottone grande al medio e piccolo”, circostanza, quest’ultima, che concorreva ad aumentare “non indifferentemente la superproduzione”, dal momento che “la potenzialità in numero di grosse di una fabbrica” diminuiva “col preponderare del bottone grande e viceversa”.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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costosa come in altri paesi. Se dunque, da un lato, il nostro paese si trovava

in posizione di “inferiorità” per ciò che concerneva “il combustibile”,

dall’altro, nel caso specifico della manifattura dei bottoni questa

arretratezza scompariva perché era possibile impiegare “su larga scala

l’energia bianca”. Gli industriali italiani, ammetteva Friso, si

preoccupavano però particolarmente dell’inevitabile aumento del costo

della manodopera e, nel frattempo, cercavano di puntare sull’elevata qualità

del loro prodotto.

Proprio per premiare questi sforzi, a detta di Friso, la manifattura dei

bottoni era da incoraggiare e da sostenere, benché essa si presentasse ormai

come “un’industria naturale” e quindi non bisognosa di “speciale

protezione sottoforma di aumento di dazi doganali”. La protezione, “o

meglio l’appoggio”, che infatti Friso chiedeva, doveva “essere dato sotto

ben altra forma” ovvero attraverso “due ordini di azioni”: il primo

consisteva “nell’impedire che altre nazioni” ponessero “freni o ostacoli” a

questo tipo di esportazione; il secondo “nel facilitare l’esportazione dei

prodotti italiani “coi mezzi di cui si” poteva “disporre” e vale a dire nel

concedere, per esempio, “speciali tariffe di trasporto per l’esportazione” e

consentire “la reimportazione in Italia in esenzione di dazio di spedizioni

fatte all’estero”, anche se queste erano già state soggette a sdoganamento

nel paese di destinazione. Questo secondo ordine di azioni era richiesto

soprattutto per ovviare alle conseguenze generate da malintesi relativi al

prezzo fatto sul prodotto esportato che, per sua natura, era soggetto a

un’oscillazione continua. Con la proposta del primo ordine di azioni si

sperava che le autorità italiane preposte predisponessero e stipulassero

trattati commerciali con la Russia, la Serbia, la Bulgaria, la Grecia, la

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Barbara Bettoni

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Turchia e la Spagna anche se il mercato che più interessava l’Italia era

quello francese, reso proibitivo da una tariffa doganale molto elevata39.

Intorno alla metà degli anni venti del Novecento, in un rapporto

curato dalla Camera di Commercio ed Industria della provincia di Brescia,

ci si lamentava del fatto che, nel periodo successivo alla prima guerra

mondiale, la manifattura di bottoni italiana, così fiorente per tutti i primi

anni del XIX secolo, avesse perso, “o quasi”, tra i principali mercati quello

della Francia “il cui dazio altissimo” aveva “rallentato fino a farla cessare

del tutto l’importazione” dei bottoni “di tipo più corrente” sui quali il dazio

pesava troppo gravemente in rapporto al valore40. L’Italia aveva perso

anche gran parte del mercato rumeno, sul quale veniva praticato un dazio

talmente elevato “da equivalersi a un divieto di importazione”, e

difficilmente poteva raggiungere i compratori portoghesi e spagnoli.

Si sottolineava, inoltre, come fosse di molto diminuita anche

l’esportazione dei bottoni di frutto in Germania: questo andamento

derivava, non tanto da una “diminuita domanda di quel mercato”, quanto

piuttosto “dalle difficoltà poste all’esportazione stessa dai dazi

assolutamente proibitivi che la Germania” aveva “imposto nel dopoguerra”.

La Germania, che prima della guerra aveva rappresentato uno dei principali

sbocchi per la produzione di bottoni frutto, seconda solo alla Gran Bretagna

39 Friso sottolineava come in un allegato alla nota 21 novembre 1898 “i bottoni a buchi

od a gambo, senza alcun ornamento, non sorpassanti un diametro di 16 millimetri, intieramente in corno o in corozo” venissero compresi sotto il paragrafo 3, e quindi sottoposti a un minore inasprimento della tariffa rispetto a quelli che erano stati inclusi nel paragrafo 7. Purtroppo però non ci si poteva avvalere di questo beneficio per via dell’applicazione restrittiva che la dogana francese aveva adottato facendo rientrare sotto il paragrafo 3 solamente i bottoni del tipo indicato, ma unicamente nel caso in cui fossero per pantaloni.

40 Archivio della Camera di Commercio di Brescia, posizione 8-9, commercio estero 1913-1924, c. commercio estero 1922-23, L’industria italiana dei bottoni di frutto (corozo e dum) e il trattato di commercio con la Germania.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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che era stata la massima importatrice (assorbendo il 36% circa delle

esportazioni), nei primi anni venti era scesa, invece, agli ultimi posti. Si

faceva presente anche il fatto che l’industria del bottone frutto aveva fatto

di tutto per mantenere comunque il mercato tedesco, cercando di

risparmiare sui costi di manodopera per non fare venire meno la qualità del

prodotto. Da ciò derivava il rischio di una prolungata disoccupazione, di un

problema di carattere sociale oltre che economico quindi, che poteva

sfociare anche nel pericolo che il “forte numero di operai specializzati”

fosse spinto a lasciare il paese, ad “allontanarsi dalla […] residenza e

portare all’estero, e specialmente in Francia, la [propria] abile opera,

facilitando così da un alto la concorrenza di quelle fabbriche, concorrenza

[all’epoca] meno sentita appunto per la differenza delle lavorazioni, e

creando invece dall’altro una rarefazione di mano d’opera specializzata” in

Italia.

Le richieste che provenivano dunque dai bottonieri che lavoravano il

corozo e il dum riguardavano in modo particolare la revisione del trattato

commerciale con la Germania facendo leva sul fatto che l’esportazione di

questo prodotto verso quel mercato aveva sempre “tenuto una delle

primissime posizioni, arrivando persino a rappresentare da sola, sia pure

anche per diminuita esportazione di altre merci, quasi un terzo del totale dei

prodotti finiti esportati”. Si chiedeva in particolar modo una revisione della

tariffa doganale imposta sulle merci da importare in Germania anche al fine

di rendere più facile il raggiungimento dei Paesi Baltici e della Russia,

attraverso la collaborazione dei grossisti tedeschi, rispetto ai quali ci si

dimostrava solidali nell’appoggiare la richiesta che “ad essi grossisti”

venisse facilitata “l’istituzione di depositi franchi di transito” che all’epoca

risultava ancora loro “impossibile”. Veniva inoltre specificata la richiesta

che venissero accordate all’esportazione di bottoni di frutto “tutte le

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Barbara Bettoni

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maggiori facilitazioni possibili per ciò che” concerneva le “formalità di

frontiera”, le “spedizioni di campioni” e le “formalità riguardanti i

viaggiatori di commercio”. Inoltre qualora la clausola della nazione più

favorita fosse accordata solamente per alcune categorie di prodotti si faceva

pressione perché tra queste venisse inclusa la categoria dei bottoni frutto41.

Nel rapporto sullo stato dell’industria italiana pubblicato nel 1929 a

cura della Confederazione generale fascista dell’industria italiana si

affermava che “la produzione italiana di bottoni” era “costituita per circa il

75% da bottoni di frutto” derivati dal corozo e dal dum. “Data l’elevata

specializzazione delle maestranze, favorita dalla concentrazione

dell’industria in determinate zone dell’Alta Italia, la produzione italiana”

aveva incontrato, come già aveva sottolineato Friso nella sua relazione,

“rapidamente il favore dei consumatori esteri, cosicché, mentre

l’importazione dei bottoni di frutto divenne trascurabile, l’esportazione

andò assumendo sempre maggiore importanza” (v. tab. 2, tab. 3, tab. 4, tab.

5)42.

Nel rapporto si evidenziava come, in seguito alla crisi di

esportazione dovuta alla guerra, l’industria dei bottoni frutto fosse stata in

41 Analoghi disagi venivano denunciati nel piacentino: la crisi veniva collegata al

numero eccessivo di imprese operanti nel settore, al calo delle esportazioni, in questo caso, contrariamente a quanto affermato da Friso, dovuto anche alla qualità del prodotto comunque sempre inferiore rispetto a quello tedesco, agli alti dazi doganali imposti da molti paesi importatori, alla scarsa capacità di assorbimento del mercato interno, alla flessione nella remunerazione del prodotto a causa degli aumenti nei costi di produzione (maggior prezzo del corozo importato, che copriva circa il 50% del valore del prodotto finito; elevato prezzo dell’energia elettrica che nel piacentino costava il doppio di quanto costasse ai concorrenti bresciani e bergamaschi; immobilizzi di magazzino ai quali i produttori erano costretti a causa della moda, la quale richiedeva il bottone di larghe dimensioni che poteva essere ricavato solamente dalle noci più grosse). Vedasi in proposito: L. Paraboschi, Storia delle industrie piacentine…, cit., pp. 17-18.

42 Confindustria, L’industria italiana, Confederazione generale fascista dell’industria italiana, Roma 1929, pp. 592-595.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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grado di riprendersi giungendo a impiegare fino a 10000 operai. Purtroppo

però questa fase di ripresa delle esportazioni venne ostacolata dall’adozione

da parte dei paesi esteri di elevati dazi sulle merci, determinati soprattutto

dal sorgere di industrie locali e dalla conseguente applicazione di forti dazi

protettivi. Da ciò era derivata la tanto temuta diminuzione del numero delle

fabbriche in attività che, nel triennio 1922-1924, si erano ridotte a una

quarantina. Si era inoltre registrato un brusco ridimensionamento degli

operai, inizialmente, da 8000 a 6500 unità e, poco più tardi, a 3000, delle

ore lavorative, insieme alla caduta precipitosa dei prezzi. Nel rapporto si

faceva presente come da questo primo periodo di crisi, che a lungo aveva

anche preoccupato la stampa locale43, l’industria fosse riuscita a risollevarsi

impiegando, all’epoca della stesura della relazione sullo stato dell’industria

italiana, 8000 operai distribuiti su una cinquantina di fabbriche.

Contemporaneamente si registrava l’esistenza di “impianti fermi, ma in

efficienza, capaci di occupare altri 3-4000 operai” e si sottolineava come

però si trattasse di una battaglia non ancora del tutto risolta in quanto, per

mantenere la propria posizione sui mercati esteri, l’industria italiana del

bottone di frutto stava ancora lottando. Venivano inoltre comprese tra le

industrie bottoniere anche quelle che, occupando complessivamente 3000

43 In proposito vedasi La nostra inchiesta sulla disoccupazione. L’industria bottoniera,

l’industria meccanica e l’industria dei cementi a Palazzolo sull’Oglio, in “La provincia di Brescia”, 11 dicembre 1921. Nello speciale pubblicato sul quotidiano bresciano si faceva riferimento alla crisi del 1921, dovuta, secondo il redattore dell’articolo, principalmente alla carenza di materie prime e alla chiusura dei mercati. L’inchiesta denunciava lo stato di difficoltà in cui diverse industrie palazzolesi si erano ritrovate a causa dell’inasprimento dei dazi da parte di Francia e Inghilterra. La “prima profonda manifestazione della crisi”, si legge, “si ebbe nel maggio u.s.. I più importanti bottonifici della bergamasca e del piacentino furono chiusi e la stessa sorte toccò a quelli palazzolesi. Unica che trionfasse nella marea degli avvenimenti disastrosi fu la ditta Luciano Lozio”. Si fa riferimento anche all’uso di legno di ulivo, in sostituzione delle materie usualmente impiegate per la realizzazioni di bottoni, durante il periodo bellico.

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Barbara Bettoni

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persone e lavorando per quantità inferiori di produzione, erano dedite alla

manifattura di bottoni in metallo, di osso, di madreperla, di corno, di

unghia, di galalite, di agata, di vetro e porcellana e di surrogati di frutto.

Il problema degli elevati dazi doganali che gravavano sulle

esportazioni dei bottoni italiani ritorna anche nel rapporto curato dalla

Confederazione generale dell’industria italiana negli anni di poco

successivi il secondo conflitto mondiale44. Nello scritto si tessevano gli

elogi della sorprendente manifattura dei bottoni di frutto e si apprezzava la

qualità eccellente di tutti gli altri tipi di bottone in grado di superare “di

gran lunga tutte le analoghe produzioni estere” che, per conseguenza, erano

obbligate ad elevare barriere doganali per difendersi dalla concorrenza

italiana (v. tab. 6). Si sottolineava, inoltre, come progressi tecnici fossero in

continuo sviluppo, “seguendo pari passo i perfezionamenti nelle materie

prime”, soprattutto nel settore della “nuovissima produzione dei bottoni di

resina sintetica”.

Alla metà del Novecento, il panorama dell’industria bottoniera in

Italia si articolava, sulla base del numero di dipendenti impiegati, in 5

grandi aziende (con più di 200 operai), in 20 medie aziende (con un

numero di operai superiore ai 100), in 20 piccole aziende (con un numero

di operai superiori ai 50), in 30 aziende semi-artigiane (con un numero di

operai inferiore ai 10), tutte concentrate nei territori di Piacenza, Bergamo,

Brescia che assorbivano circa il 90% delle aziende bottoniere italiane. Altri

stabilimenti erano invece dislocati in provincia di Torino, Cuneo, Mantova,

Pavia, Como, Parma, Milano, Lucca. Le grandi e medie aziende, si rendeva

noto nel rapporto, erano quasi tutte in forma di società per azioni, mentre le

piccole e le semi-artigiane erano costituite da aziende personali. L’industria 44 Confindustria, L’industria italiana alla metà del secolo XX, Confederazione generale

dell’industria italiana, Roma 1953, pp. 1139-1142.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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del bottone, inoltre, viveva “in condizioni di libera concorrenza”, anche se

“talune delle maggiori ditte” si impegnarono nella costituzione di “un loro

Consorzio, l’Ufficio Bottonieri Italiani, al quale affidare l’esclusività di

vendita per determinate loro produzioni”. Questo consorzio resisteva, a

venti anni dalla sua prima costituzione, ancora negli anni cinquanta,

accanto a un altro consorzio (Confabos) che raggruppava, invece, la totalità

dei produttori dei fabbricanti di bottoni di osso e affini45.

Gli impianti esistenti avevano “indubbiamente una capacità

produttiva decupla” della produzione effettiva registrata al principio degli

anni cinquanta: si trattava di impianti “gradatamente aggiornati, in base alle

nuove migliorie tecniche richieste dai nuovi prodotti” e, forse, “solo nel

campo della produzione delle resine sintetiche” essi necessitavano di un

ulteriore rinnovo, “specialmente per poter competere con la produzione di

massa degli Stati Uniti e dell’Inghilterra” che, come si sottolineava nella

relazione, “durante l’ultima guerra” aveva “compiuto indubbi progressi.

Per quanto riguardava la valutazione dei capitali investiti nell’industria

bottoniera italiana si facevano le seguenti considerazioni per cui, “senza

tener conto del capitale circolante necessario per l’acquisto delle materie

prime e per la gestione delle aziende”, gli immobili dovevano essere pari a

300 milioni di lire, il macchinario a 2 miliardi, le attrezzature a 200

milioni46.

Nel rapporto si manifestava una certa preoccupazione riguardo al

fatto che l’industria bottoniera segnasse, però, alla metà del Novecento, “il

più basso livello quantitativo” che essa avesse dovuto “registrare dal 1938”

al principio degli anni cinquanta. Poiché il mercato nazionale non era in

grado di assorbire più del 30% della produzione nazionale era necessario 45 Ibidem. 46 Ibidem.

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Barbara Bettoni

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orientare il restante 70% all’esportazione. Ma, si metteva in luce, “durante

l’ultima guerra le altre nazioni importatrici, non avendo potuto rifornirsi in

Italia, gradatamente” avevano incominciato a creare “delle industrie

bottoniere nazionali” in grado di soddisfare buona parte del fabbisogno

interno, che, nei paesi in cui la concorrenza delle produzioni italiane si

sarebbe fatta sentire, furono protette con barriere doganali che andavano

“da un minimo del 30 per cento ad un massimo del 200 per cento ad

valorem”. Se, nel primo dopoguerra, l’industria bottoniera italiana era

riuscita a far fronte alla crisi generata dalla chiusura dei mercati esteri

attraverso la riduzione dei costi della manodopera, in questo caso, tale

soluzione non poteva essere senz’altro praticata, in quanto sul costo del

bottone gravavano comunque gli oneri sociali, benché la manodopera

italiana fosse retribuita in modo notevolmente inferiore rispetto a quella

straniera.

Il rapporto si concludeva con l’auspicio che venissero concesse al

settore tessile, e per conseguenza anche a quello bottoniero, “quelle

agevolazioni che palesemente altri paesi”, come l’Inghilterra e la Francia,

avevano concesso alle loro aziende esportatrici. Si denunciava, infine,

nell’ambito del consumo nazionale in cui la diminuita esportazione aveva

sicuramente inciso, “il sorgere di molte piccole aziende artigiane” che,

sfuggendo totalmente a un controllo di tipo sindacale, riuscivano a creare

una sorta di concorrenza illecita a detrimento delle aziende “regolarmente

osservanti tanto i contratti di lavoro quanto gli obblighi assistenziali”.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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6) La serie storica dei brevetti dall’Unità d’Italia al secondo

dopoguerra: invenzioni, macchine e privative dal bottone frutto

alla cerniera lampo

La serie storica dei brevetti rilasciati a nome di imprese o di singoli

inventori dall’Unità d’Italia agli anni immediatamente successivi la

seconda guerra mondiale47 documenta in modo chiaro sia l’alternarsi di

materiali diversi per la realizzazione dei bottoni lungo l’arco di un secolo,

sia la compresenza di diverse soluzioni d’allacciatura (diversi tipi di

bottone, cerniere lampo inizialmente applicate alla calzatura e alla

pelletteria), sia un significativo spirito di emulazione dei progressi

contemporaneamente registrati in Germania o in altri paesi da parte di

alcuni imprenditori che, gravitando intorno all’area, comprensiva del

territorio di Palazzolo, particolarmente interessata dalla produzione di

bottoni di frutto e successivamente di galalite, provarono a produrre da sé i

macchinari necessari per alcuni tipi di lavorazione.

I dati di cui inoltre si dispone circa la partecipazione di alcune ditte

italiane a esposizioni internazionali nella seconda metà dell’Ottocento

contribuiscono a evidenziare la rapida diffusione della manifattura dei

bottoni vegetali tra il piacentino, il milanese, la provincia di Como, l’area a

confine tra la provincia di Brescia e quella di Bergamo, nelle quali

47 Si fa riferimento sia alla serie storica per i soli inventori bresciani ricostruita in

Tecnici, empiristi, visionari…, cit. e ad una serie di dati relativi ai brevetti depositati dalla metà del XIX secolo alla metà del XX in Italia, raccolti in un data-base da Lavinia Parziale, che ringrazio per avermi fornito i dati, sulla base delle informazioni contenute ne Ministero d’Agricoltura industria e commercio, Bollettino della proprietà intellettuale (1902-1940), Roma, 1902-1940; Ministero delle corporazioni, Ufficio centrale dei brevetti per invenzioni, modelli e marchi, Bollettino dei brevetti per invenzioni, modelli e marchi, Roma 1941-1966, fasc. 1/2 (gennaio 1941) – fasc. 23/24 (dicembre 1962).

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Barbara Bettoni

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comunque persistevano produzioni già avviate di bottoni nelle forme più

tradizionali ricavate dall’osso, dal legno, dalla stoffa e dal metallo48.

Il milanese Ambrogio Binda aveva partecipato sia all’esposizione di

Londra del 1862, con una varietà notevole di prodotti che andavano dai più

tradizionali bottoni in metallo, legno, osso e stoffa ai più rari realizzati in

corno e in madreperla, sia a quella di Parigi del 1867 nella quale aveva

esposto bottoni per giacca49. Tra i milanesi sono da ricordare anche Canesi,

che aveva portato i suoi bottoni all’esposizione parigina del 1867, Giuseppe

Cernuschi che, nel 1881 a Milano, espose “un campionario di trecce,

cordoni, bottoni, articoli per militari”, Edoardo Taccini che nel 1873 a

Vienna rese nota la sua produzione di bottoni e di cravatte e che, alcuni

anni dopo, nel 1888 a Londra presentò i suoi bottoni “di ogni specie”, già

prodotti in un nuovo bottonificio a Palazzolo sull’Oglio che all’epoca era

già stato iniziato alla produzione di bottoni vegetali. Bottoni nel cosiddetto

“avorio vegetale” venivano presentati a Londra nel 1888 da un tale

Robbiati di Como e, una decina di anni dopo, a Torino dalla piacentina

Mauri-Agazzi & c.. A Torino esponeva i suoi “bottoni e conchiglie” anche

la prima “Industria italiana per la madreperla” fondata a Taranto nel 1893,

benché, come si è visto, già nel 1862 Ambrogio Binda si fosse cimentato in

questa difficile e costosa produzione.

La serie storica dei brevetti depositati per la sottocategoria “bottoni e

chiusure” nell’ambito degli accessori di abbigliamento vede, per tutta la

seconda metà dell’Ottocento e fino a i primi anni del Novecento, da un lato, 48 I dati, ripresi dai cataloghi delle esposizioni cui si fa riferimento, sono stati raccolti in

S. Onger – L. Parziale, La moda italiana alle esposizioni nella seconda metà dell’Ottocento, di prossima pubblicazione.

49 Ambrogio Binda, nato a Milano nel 1811, incominciò la lavorazione di bottoni di metallo e ottone dorato intorno agli anni quaranta dell’Ottocento, in concorrenza con i fabbricanti di Prussia e di Francia. Vedasi Dizionario Biografico degli italiani, Roma 1968, pp. 490-491 ad vocem “Binda, Ambrogio” curata da M. Gobbini.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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l’affermarsi di bottoni ricavati da materie vegetali accanto a tipi di “bottoni

doppi”, “bottoni a vite”, bottoni–fermaglio da impiegare, oltre che sui capi

d’abbigliamento, anche sulle calzature e sui guanti. Queste soluzioni

d’allacciatura vengono spesso affiancate da un tipo diverso utilizzato

soprattutto per sacchetti e borse chiamato “fermaglio” o “serrame”. In

particolare si nota però come da alcuni inventori milanesi, austriaci e

tedeschi, già in questo primo periodo, provenga la richiesta di privativa per

metodi di fabbricazione (o addirittura già di per perfezionamenti di metodi

o nei materiali) per bottoni di “legno, di corno e di noce di corozo”

(Edouard Dinklage e Carl Franze, 06/07/1877, Austria) e ancora il

13/04/1882 per “nouvelle méthode de fabriquer des boutons de bois, de

corne et de noix de corozo au revers, à fils ou à tissues”), per “gambo per

bottoni, applicabile mediante incastonatura dei bottoni curasol, detto anche

avorio vegetale, corno, cocco, legno ecc.” (Luigi Varoli, 20/04/1881,

Milano), per “perfezionamenti nel materiale adoperato per la fabbricazione

dei bottoni corozol” (Domenico Robbiati, 02/03/1883, Milano), per

“perfezionamenti nella fabbricazione dei bottoni di frutto” (Ditta Nessi,

Cella e Comp., 15/09/1885, Milano), per “bouton en corozo à queues en

corozo rapportées ou fixées au moyen de rondelles” (Adolphe Dinklage,

16/08/1887, Schonthal, Germania), per “procédé de fabrication de boutons

en noix angleuses d’Australie” (Eduard Julius Conn, 30/06/1906,

Amburgo, Germania). Seguono, ancora per i primi dieci anni del

Novecento, le richieste di privativa avanzate dal tedesco Paul Sylbe

(18/04/1907, Schmolln, Germania) per un “processo per il taglio

dell’avorio vegetale per la fabbricazione dei bottoni”, dalla Ditta Schimmel

Schmieder e C. (21/02/1910, Schmolln, Germania) per “bottone di frutto”,

per “innovazioni nei bottoni di frutto e simili” richiesta da Eugenio Rossini

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Barbara Bettoni

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di Piacenza (09/09/1910), per “bottone di frutto con fondo per gambo” da

Pietro Pozzi (21/01/1911, Meina, Novara).

Emerge, inoltre, un dato interessante circa la capacità innovativa di

inventori bresciani in quanto nella serie, per l’anno 1890, viene riportata la

richiesta di privativa, avanzata dalla ditta palazzolese di recente fondazione

“G. Lanfranchi e Comp.”, per un “nuovo metodo per la fabbricazione di

bottoni di frutto (corozol)”, seguita nel 1910 da un’ulteriore richiesta di

brevetto portata avanti da un’altra ditta di Palazzolo e da un inventore, la

Società Anonima Manifattura Bottoni e Pozzi Pietro, per un “bottone di

frutto con fondo per gambo, applicatovi approfittando della dilatabilità del

materiale per effetto di immersione”.

Se per i primi cinquanta anni della serie dei brevetti di cui si dispone

il protagonista pare essere il bottone frutto insieme alla varietà di

perfezionamenti ideati al fine di lavorarlo nel modo più opportuno, dagli

anni dieci del Novecento incominciano a farsi strada con maggiore

frequenza altre innovazioni nel campo delle chiusure di abiti e accessori.

Queste ultime vengono più spesso segnalate con le diciture “chiusura

automatica per le fascette” (Max Mewes e Mario Teja, Torino,

22/07/1911), di “dispositivo per chiusura a molla per vestiti” (Wilhelm

Schlotzhauer, Philippsthal, 24/05/1912), di “cerniera di sicurezza per tasche

d’abiti, sistema Sormani” (Ettore Sormani, Milano, 05/06/1913). Nella

serie si fa inoltre riferimento con maggiore frequenza a bottoni del tipo

“automatico”, “doppio” e “a pressione”, solitamente realizzati in metallo e

arricchiti sulla superficie del lato visibile con dischetti decorativi ricavati

da altre materie. Dagli anni venti del Novecento compaiono richieste

avanzate anche per soli perfezionamenti a invenzioni già sperimentate:

anche in questi casi ricorrono con frequenza i tipi di allacciatura “bottone

d’arresto”, “bottone di sicurezza”, “bottone automatico”, “bottone doppio

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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movibile”, “bottone a scatto automatico”. Contemporaneamente, per

quest’ultimo tipo di innovazioni legate all’introduzione di ganci, fermagli e

bottoni metallici, più evidente, rispetto a quelli stranieri, si fa la

partecipazione di centri italiani, tra i quali si ricordano, oltre alla città di

Milano che ricorre spesso, quelle di Torino, Perugia, Ancona, Roma,

Firenze; Lucca, Venezia, Genova e Bologna. Sempre negli anni venti si

incomincia a far uso di “affibbiature elastiche” con parti in gomma, come i

casi di privativa legati a Giovanni Cacioppo (10/04/1922, Genova, “nuovo

sistema di affibbiatura elastica della parte posteriore dei pantaloni a mezzo

di una lista di gomma elastica a stampo o altrimenti”) e a De Bernardi e

Cacioppo (02//06/1924, Firenze, “nuovo sistema per la allacciatura

posteriore dei pantaloni a mezzo di striscia in gomma elastica munita alle

due estremità d’opportune fibbie”) dimostrano.

La serie relativa agli anni trenta del Novecento è caratterizzata da

due novità di rilievo. La prima concerne la “chiusura a strappo” o la

“chiusura lampo” per i cui modelli o perfezionamenti vengono richieste

numerose privative, inizialmente quasi esclusivamente da inventori

stranieri, ma poco più tardi anche da inventori italiani e, soprattutto,

milanesi. Se nel 1932 richiedevano il brevetto per “chiusura a strappo”

Geltrude Vaas Baker di New York, Karl Stockel di Leipzig, Sim Frey di

Berlino, nel 1933 altre richieste di privativa venivano avanzate, oltre che

dalla Waldes & C. praghese per “chiusura a strappo (chiusura lampo) in cui

il rivestimento del corsoio consiste in nastri di stoffa” e dalla Lighting

Fasteners Ltd. di Birmingham per “perfezionamenti nei dispositivi di

chiusura a corsojo detti chiusura lampo”, da Renato Ponzetta di Milano,

che aveva elaborato un’“innovazione nei cursori per le […] chiusure

lampo, per indumenti, borse ed altri oggetti, atta a permettere

l’occultamento di detta chiusura lampo”. Tra il 1934 e il 1936 numerose

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Barbara Bettoni

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privative relative a cerniere lampo vengono richieste da inventori milanesi

e torinesi: si trattava in modo particolare di brevetti per “perfezionamenti

alle chiusure lampo o di chiusure a strappo” (Paola Crida camusso,

22/06/1934, Torino), per “cursore con fermo automatico per chiusure

lampo” (Officina Ri-Ri Soc. An., 26/12/1934, Milano), per “corsoio a

contatto volvente per chiusura a strappo” (Mario Tonio e Enrico Hefti,

30/03/1935), per “chiusura lampo a corsoi congiunti a catena” (Angelo

Santoro, 05/02/1936, Milano), per “perfezionamenti agli elementi delle

chiusure a corsoio, cosidette chiusure-lampo” (Carlo Crida, 16/05/1936,

Torino), per “corsoio ad aletta di chiusure, cosidette lampo” (Vincenzo

Flotte e Carlo Crida, 16/12/1936, Torino). Un altro Milanese, tale Ugo

Corio, nel 1938, aveva inoltre richiesto il brevetto per aver apportato

“perfezionamenti ai ganci scorrevoli delle cerniere lampo”. Si trattava di

perfezionamenti e di modelli che verranno ulteriormente ripresi, con una

larga partecipazione di inventori milanesi, nel corso di tutti gli anni

quaranta del Novecento.

La seconda novità negli anni trenta era legata al bottone, quale

elemento altamente funzionale, che, però, con il farsi avanti di altre

pratiche e alternative soluzioni di allacciatura doveva dotarsi di un ruolo

decorativo particolarmente brillante ed estroso cui, tra l’altro, aveva dato

un primo impulso, tra i grandi e già affermati stilisti, Elsa Schiaparelli50 con

50 Sull’estro di Madame Schiap si veda V. De Buzzaccarini-I. Zotti Minici, Bottoni &

Bottoni, cit., pp. 62-66 in cui si legge che “i bottoni hanno sempre molto intrigato la stilizzazione di Elsa Schiaparelli poiché aborriva quelli comuni che perseguitava con lo zelo di un riformatore”. Elsa Schiaparelli divenne negli anni trenta il simbolo della più raffinata fantasia creativa introducendo nella lavorazione nuovi materiali come il tweed, il tessuto goffrato a scorza d’albero, fibre artificiali e anche un tipo di plastica trasparente, il rhodophane, e ricercando nuove soluzioni tecniche nella realizzazione di capi come l’applicazione di cerniere di plastica colorata in qualità di elemento decorativo. In proposito si legga l’interessante profilo della stilista tracciato in A. Donnanno, Le parole della moda…, cit., pp. 433-444.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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la sua stravagante collezione di allacciature per la cui realizzazione erano

state per la prima volta più efficacemente impiegate le materie plastiche.

Dalla fine degli anni trenta quindi numerose sono le richieste di privativa

per bottoni particolarmente ricercati soprattutto legati all’abito femminile e,

quindi, a una moda nella quale l’accessorio incomincia ad assumere un

ruolo importante che andrà accentuandosi nel secondo dopoguerra anche in

rapporto alle creazioni frutto dell’abbigliamento confezionato emergente51.

Molte di queste richieste sono legate al nome del milanese Alfonso

Verati che aveva presentato bottoni stravaganti come quelli “per abiti

femminili in forma di matita per labbra”, “in forma di testa maschile con

baffi spioventi con turbante”, “per abiti femminili in forma di sigaretta” o

“in forma di specchio con manico”, “per indumenti femminili in forma di

ferro da stiro”, “in forma di libro rilegato in pelle a sbalzo con decorazione

sul dorso, sui bordi e al centro della facciata”, “in forma di spirale con

cilindretti in cui sono incastonati dei vetrini imitazione brillanti”.

Contemporaneamente da alcuni bottonifici del piacentino, che avevano già

sperimentato le nuove materie plastiche per produrre bottoni, giungevano

richieste di privative per soluzioni d’allacciatura nella cui descrizione

allegata al brevetto si poneva l’accento oltre che sull’aspetto decorativo del

bottone sull’innovativo materiale impiegato. Il Bottonificio Pietro Capra &

c. Soc. An. di Piacenza aveva infatti richiesto il brevetto per un “bottone in

materiale plastico o simili con forma a scodellino e canaletto periferico sul

fronte dello stesso”, per un “bottone in materiale plastico od altro con

motivo floreale ed a fogliame sul fronte fermato a calotta convessa” e per

51 Sull’importanza del bottone nella moda e in rapporto alla confezione si vedano i

seguenti articoli: Importanza dei bottoni, in “L’abbigliamento italiano”, giugno 1972, I bottoni fanno moda, in “L’abbigliamento italiano”, febbraio 1973 pp. 7 e 8. Ringrazio Ivan Paris per avermi segnalato questo approfondimento.

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Barbara Bettoni

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un “bottone in materiale plastico od altro con fronte conico a gradini

circolari eccentrici scendenti dal centro curvo, convesso verso la periferia”.

Se questa esplosione di creatività pare interessare soprattutto i

bottonifici del piacentino e del milanese, nel corso degli anni quaranta, dal

secondo dopoguerra, non mancano nella serie delle richieste di privativa

per bottoni in materiale plastico anche i nomi di alcune ditte operative

nell’area bergamasca e bresciana: si ricordano al riguardo i modelli

presentati dal Bottonificio di Albano Soc. An., nel 1946, di “bottone a

forma di corolla di fiore a petali lobati”, di “bottone per abbigliamento a

calotta frontale e divisa in quattro settori due dei quali, tra loro opposti

sono finemente provvisti di disegni a festoni concentrici o di linee strisce”,

di “bottone in resina sintetica, materia cornea e simili a forma di disco con

affondamento conico fuori centro e bordino zigrinato”, e la richiesta di

privativa presentata dalla Soc. An. Bottonificio Lozio nel 1941 per un

“procedimento di fabbricazione di oggetti macchiati in resine sintetiche, in

particolare bottoni macchiati e simili oggetti di abbigliamento e prodotti

relativi”.

A fronte comunque di un prevalere della richiesta di privativa per

bottoni in resine e materie plastiche naturali da parte di ditte milanesi e

piacentine, l’area bresciana sembra attratta maggiormente dalla

sperimentazione di nuove macchine per la produzione di bottoni e questo

aspetto segnala come ancora una volta il territorio di Palazzolo sull’Oglio

fosse interessato all’introduzione di un nuovo materiale con il quale

realizzare grandi quantità di bottoni in adeguamento alle nuove esigenze

del mercato. Questo intento, già evidente nei primi anni venti, nel momento

in cui la ditta Marzoli e fratelli di Palazzolo richiese una privativa per

“griffa d’avanzamento di bottoni per le macchine a forare bottoni”, si

rafforza negli anni trenta, durante i quali, Pietro Brambati di Palazzolo s/o

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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richiese il brevetto per una “macchina per spianare automaticamente

d’ambo i lati bottoni del tipo trocas e madreperla” e si accentua, infine,

negli anni quaranta e nel secondo dopoguerra.

I brevetti relativi a perfezionamenti apportati alle macchine da

impiegare nella manifattura di bottoni sono legati soprattutto ai nomi Giusi,

Bonetti e Darone, il primo e il terzo di Palazzolo e il secondo di Rudiano.

Se Aldo Darone brevettava nel 1949 uno “stampo per la fabbricazione dei

bottoni in resine sintetiche dotato di punzone mobile per ricavare durante lo

stampaggio i fori di cui i bottoni sono dotati” e nel 1950 un analogo

“stampo per la fabbricazione di bottoni in resine sintetiche i fori dei quali

vengono ricavati durante lo stampaggio”, negli anni cinquanta, nella serie

delle privative, incominciano a ricorrere maggiormente i nomi di Giusi e di

Bonetti.

Giuseppe Giusi nel 1952 richiedeva un brevetto per “macchina

foratrice di bottoni in genere” e per una “taglierina verticale per ricavare

dischi da conchiglie di madreperla e da conchiglie e trottola

particolarmente indicati per la fabbricazione di bottoni”, mentre, pochi anni

più tardi, nel 1954, per un “morsetto o pinza autocentrante per il fermo di

bottoni in genere da forare ed in particolare dei tipi in madreperla da

montarsi su macchine automatiche perforatrici”, nel 1956, per un

“apparecchio per l’alimentazione automatica di macchine per la

lavorazione dei bottoni” e ancora per un “dispositivo di avanzamento

intermittente con trasmissione a leva oscillante per la variazione del passo

nelle macchine per la fabbricazione dei bottoni” e per una “foratrice

automatica per bottoni, a due mandrini”. Al nome della ditta Giusi sono

ancora legate le richieste di brevetto risalenti al 1957 per un “dispositivo

automatico di avanzamento passo passo, spostamento trasversale ed

inversione, specialmente per il taglio di elementi discoidali da lastra e

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Barbara Bettoni

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simili”, per un “dispositivo per la rotazione unidirezionale intermittente

specialmente per macchine foratrici per bottoni e simili”, infine, per un

“dispositivo di avanzamento intermittente con trasmissione a leva

oscillante, per la variazione del passo nelle macchine per la fabbricazione

di bottoni”.

Da Alberto e Ferrante Bonetti nel 1957 venivano richieste una

privativa per una “macchina per formare bottoni in madreperla, coroso o

altre sostanze a mezzo di utensili tornitori e lisciatori” e un’altra per una

“macchina per la lavorazione all’utensile di dischetti, particolarmente per la

fabbricazione di bottoni, con dispositivo per la rotazione intermittente e il

posizionamento angolare del mandrino porta-pezzo”. Nello stesso anno i

Bonetti richiedevano anche i brevetti per un “dispositivo per il caricamento

frontale di dischetti in mandrini a pinza delle macchine per la fabbricazione

particolarmente di bottoni” e per un “mandrino del tipo a pinza ad elementi

radiali elastici ottenuti mediante intagli longitudinali praticati in un corpo

assialmente cavo, particolarmente adatto per la lavorazione di dischi di

materiale elastico per la lavorazione di bottoni” e, l’anno successivo,

nuovamente per una “macchina per la lavorazione all’utensile di dischetti,

particolarmente per la fabbricazione di bottoni, con dispositivo per la

rotazione intermittente del mandrino porta-pezzo” e per un “mandrino del

tipo a pinza ad elementi radiali elastici ottenuti mediante intagli

longitudinali praticati in un corpo assialmente cavo, particolarmente adatto

per la lavorazione di dischi per la fabbricazione di bottoni”.

Inoltre, mentre nel corso degli anni cinquanta continua, soprattutto

da parte di aziende milanesi, la produzione di bottoni in resine e plastiche

in svariati colori e forme, nelle quali dagli anni sessanta si cimenteranno

anche ditte bolognesi, alcune aziende palazzolesi sperimentano la

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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brevettazione di cursori per cerniere lampo sulla scia dei perfezionamenti

registrati nel decennio precedente da case di produzione milanesi e inglesi.

Tra i migliori esempi di questi tentativi di coniugare tra loro esigenze

di continuità di una produzione tradizionale e stimoli all’innovazione si può

ricordare l’attività, vicina al mondo della moda e dell’abbigliamento, della

ditta Giovanni Lanfranchi. Avviata alla produzione di bottoni “frutto”

vegetali (dapprima in corozo e poi anche in galalite) da un esperto tintore

nel 1886, verso la fine degli anni Trenta la ditta acquistò e successivamente

incorporò nei propri locali a Palazzolo la “Società Italiana Chiusure

Lampo”, una piccola azienda milanese52. Venne dunque sperimentata anche

la produzione di chiusure lampo che, da dopo gli anni Cinquanta, si

configurerà, grazie al successo riconosciuto ai vari modelli venduti anche

sui mercati internazionali, come attività esclusiva della ditta. Queste nuove

“rivoluzionarie” creazioni, realizzabili in metallo, ma anche in materie

plastiche colorate, risulteranno particolarmente adatte a sposarsi con le

pelletterie e i capi d’abbigliamento provenienti dall’industria emergente

dell’abbigliamento confezionato. La serie dei brevetti riporta la domanda di

privativa avanzata dalla Giovanni Lanfranchi per un modello di “cursore

per chiusura lampo”, realizzato nel 1951 e brevettato nel 1953 e per un

“cursore autobloccante ad aletta rovesciabile per chiusura lampo”,

brevettato nel 1957, cui seguiranno negli anni successivi numerose

versioni.

52 P. G. Lanfranchi, Dattiloscritto sulla storia della famiglia, Archivio Lanfranchi s.p.a.,

Palazzolo s/o; L. Parziale, Ditta Giovanni Lanfranchi s.p.a., (scheda produttori n. 589), http://www.db.ccdi.glauco.it.; Lanfranchi. La vera lampo si chiama Lanfranchi in “Epoca”, maggio 1967, pp. 19-20.

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Barbara Bettoni

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7) Riflessioni conclusive

L’analisi delle serie storiche dei brevetti cui si è fatto riferimento

nelle pagine precedenti ha consentito di focalizzare l’attenzione su

invenzioni, e perfezionamenti di invenzioni, legate alla produzione di

bottoni e chiusure promosse sia da inventori italiani sia da inventori

stranieri lungo l’arco temporale che va dall’Unità d’Italia al secondo

dopoguerra. Per tutto questo periodo l’ambiente bresciano, e in modo

particolare quello di Palazzolo sull’Oglio, che come si è fatto notare nei

primi paragrafi del paper non era nuovo alla lavorazione di bottoni di varie

materie già al principio del XIX secolo, si è presentato come un terreno

molto sensibile all’introduzione di innovazioni e alla sperimentazione di

lavorazioni ancora poco diffuse, come quella del bottone di frutto, in un

primo momento, e quella legata alle più moderne cerniere lampo, in un

secondo tempo.

Indubbiamente favorita dalla presenza sul territorio di numerosi corsi

d’acqua, che incentivando in modo naturale l’impiego della forza idraulica

consentì inizialmente una relativa riduzione dei costi di produzione, l’area

di Palazzolo sull’Oglio, influenzata positivamente anche dall’iniziativa di

imprenditori milanesi e dalla collaborazione di tecnici tedeschi, esercitò

presto un ruolo di attrazione e di formazione per una manodopera altamente

qualificata dedita alla realizzazione di prodotti per l’allacciatura per abiti e

accessori. La vivacità e la propensione a innovare proveniente dall’area di

Palazzolo e dai comuni limitrofi viene ancora una volta evidenziata dalle

serie storiche dei brevetti di riferimento, all’interno delle quali i nomi di

inventori e innovatori legati alla storia di Palazzolo e del territorio al

confine della provincia bresciana e di quella bergamasca sono menzionati

non solo in relazione alla creazione di prodotti di allacciatura quali i bottoni

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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(in metallo, in stoffa, in osso fino a quelli in frutto, in madreperla e

successivamente in galalite e materie plastiche) e le chiusure lampo (da

quelle in metallo alle più recenti in plastica), ma anche con rifermento alla

progettazione e realizzazione di moderni macchinari da impiegare in questo

settore.

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8) Tabelle

Tabella 1 Esportazioni di bottoni di corozo in quintali e in lire per il periodo 1909-1912

Anni Quintali di bottoni di corozo

Lire

1909 7306 6.137.040

1910 9528 8.093.520

1911 11275 10.147.500

1912 14479 13.031.100

Fonte: C. Friso, L’industria dei bottoni di corozo…, cit., p. 3.

Tabella 2 Importazione (in quintali e in lire) di bottoni, distinti in base al materiale di fabbricazione, in Italia per gli anni 1913 e 1926

Bottoni importati

1913 quintali

lire

1926 quintali

lire

corozo o dum (1) (1) 1.673 1.889.508

metallo comune (2) (2) 591 2.601.204

porcellana, vetro e smalto 207 22.770 178 1.119.011

ambra, avorio, madreperla e tartaruga

1.098 2.746.125 561 6.928.013

osso e di corno 39 32.250 22 146.508

celluloide, galalite e simili (2) (2) 560 5.585.820

Fonte: Confindustria, L’industria italiana…, cit., p. 594. Legenda: (1) = i bottoni di corozo erano compresi nelle mercerie di legno, altre. (2) = le statistiche del 1913 non contenevano queste voci.

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Dal bottone “frutto” alla cerniera lampo

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Tabella 3 Importazione (in quintali e in lire) di bottoni, distinti in base al materiale di fabbricazione, in Italia per gli anni 1917 e 1928

Bottoni importati

1927 quintali

lire

1928 quintali

lire

corozo o dum 161 830.137 120 494.991

metallo comune 380 1.613.018 585 2.765.304 porcellana, vetro e smalto

184 947.003 232 1.184.193

ambra, avorio, madreperla e tartaruga

503 4.926.672 592 4.487.369

osso e di corno 50 314.496 44 217.532 celluloide, galalite e simili

523 3.161.936 557 2.996.350

Fonte: Confindustria, L’industria italiana…, cit., p. 594.

Tabella 4 Esportazione (in quintali e in lire) di bottoni, distinti in base al materiale, in Italia per gli anni 1913 e 1926

Bottoni esportati

1913 quintali

lire

1926 quintali

lire

corozo o dum 19.640 15.712.000 24.940 142.110.838 metallo comune (1) (1) 338 774.684 porcellana,vetro e smalto

1.541 169.510 2.855 3.015.598

ambra, avorio, madreperla e tartaruga

21 51.375 84 618.606

osso e di corno 1.390 1.138.300 641 2.322,930 celluloide, galalite e simili

(1) (1) 207 2.251.017

Fonte: Confindustria, L’industria italiana…, cit., p. 594. Legenda: (1) = le statistiche del 1913 non contenevano queste voci.

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Barbara Bettoni

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Tabella 5 Esportazione (in quintali e in lire) di bottoni, distinti in base al

materiale, in Italia per gli anni 1927 e 1928

Bottoni esportati

1927 quintali

lire

1928 quintali

lire

corozo o dum 23.316 99.332.222 19.899 72.871.008 metallo comune 185 399.476 197 411.054 porcellana, vetro e smalto

1.725 1.612.324 1.725 1.615.126

ambra, avorio, madreperla e tartaruga

35 241.723 55 299.283

osso e di corno 279 824.268 386 983.411 celluloide, galalite e simili

145 1.104.425 221 1.105.228

Fonte: Confindustria, L’industria italiana…, cit., p. 594.

Tabella 6 Elenco del tipo di bottoni prodotti in Italia al principio degli anni cinquanta del Novecento

Bottoni - di frutto (corozo e dum) - di resina (ureica, fenolica, polivinilica) - di trocas e madreperla - di osso - di metallo, a pressione e d’altro tipo - di galalite - di cuoio ed uso cuoio - di vetro e di agata - di sangue animale, polverizzato e compresso - di caseina, polverizzata e compressa - di polvere d’unghia, macinata e compressa - di unghia di bue - di corna di bue e di bufalo - di stoffa e rivestiti in stoffa - di legno

Fonte: Confindustria, L’industria italiana alla metà del secolo XX, Confederazione generale dell’industria italiana, Roma 1953, p. 1140.