Bestiario Cattedrale

90
I BESTIARI FANTASTICI DELLE CATTEDRALI di Felice Moretti Il coccodrillo Cattedrale di Bitonto, portale centrale: il coccodrillo dalla ferocia mandibolare L’arte in genere, in particolare quella figurativa, che per i Greci e i Romani fu spesso strumento di propaganda, costituì per le comunità cristiane un valido strumento didattico, ereditato dal Medioevo i cui artifices si sforzarono di comporre un linguaggio figurato rispondente ai bisogni spirituali della collettività. Attraverso il linguaggio dell’arte, gli artifices concorsero alla formazione di quel sistema ideologico di interpretazione simbolica che la società medievale ha applicato alla maggior parte delle sue attività. La zoologia, ad esempio, pur imprecisa come scienza sino alla fine del secolo XI, e perciò non libera dai vincoli della teologia, risponde al tema che l’ideologia dominante ha voluto che essa rappresentasse, cioè allegorie, che si vestono di curiosità anatomiche più strane e dalle origini più disparate, quali antiche fonti letterarie di provenienze diverse che fanno capo al genere medievale del Bestiario: testi che risalgono tutti al Physiologus greco. Il celebre opuscolo, composto presumibilmente ad Alessandria d’Egitto nel II o III secolo d.C., messo assieme per scopi didattici, è più un manuale di dottrina cristiana che una sintesi di conoscenze scientifiche, continuamente ripreso dalla vasta letteratura dei bestiari di epoche successive, abbellita in versi o in prosa, in latino o in volgare e poi metamorfosizzata dall’arte. Il Medioevo molto ha creduto ai Mostri dipinti o miniati su mappe o su libri pergamenacei, prodotti da monaci in preda al delirio e ad impulsi di varia natura. Questi monaci solitari si sono abbandonati a sognare e a produrre animali e mostri, alla cui

Transcript of Bestiario Cattedrale

Page 1: Bestiario Cattedrale

I BESTIARI FANTASTICI DELLE CATTEDRALI

di Felice Moretti

Il coccodrillo

Cattedrale di Bitonto, portale centrale: il coccodrillo dalla ferocia mandibolare

L’arte in genere, in particolare quella figurativa, che per i Greci e i Romani fu spesso strumento di propaganda, costituì per le comunità cristiane un valido strumento didattico, ereditato dal Medioevo i cui artifices si sforzarono di comporre un linguaggio figurato rispondente ai bisogni spirituali della collettività. Attraverso il linguaggio dell’arte, gli artifices concorsero alla formazione di quel sistema ideologico di interpretazione simbolica che la società medievale ha applicato alla maggior parte delle sue attività.

La zoologia, ad esempio, pur imprecisa come scienza sino alla fine del secolo XI, e perciò non libera dai vincoli della teologia, risponde al tema che l’ideologia dominante ha voluto che essa rappresentasse, cioè allegorie, che si vestono di curiosità anatomiche più strane e dalle origini più disparate, quali antiche fonti letterarie di provenienze diverse che fanno capo al genere medievale del Bestiario: testi che risalgono tutti al Physiologus greco.

Il celebre opuscolo, composto presumibilmente ad Alessandria d’Egitto nel II o III secolo d.C., messo assieme per scopi didattici, è più un manuale di dottrina cristiana che una sintesi di conoscenze scientifiche, continuamente ripreso dalla vasta letteratura dei bestiari di epoche successive, abbellita in versi o in prosa, in latino o in volgare e poi metamorfosizzata dall’arte.

Il Medioevo molto ha creduto ai Mostri dipinti o miniati su mappe o su libri pergamenacei, prodotti da monaci in preda al delirio e ad impulsi di varia natura. Questi monaci solitari si sono abbandonati a sognare e a produrre animali e mostri, alla cui

Page 2: Bestiario Cattedrale

reale esistenza hanno finito per crederci essi stessi, lasciandoli poi sciamare per l’Europa lacerata, nidificando sui pinnacoli e sui cornicioni delle cattedrali, a guardia, loro, simboli dell’Anticristo, del mistero della divinità e dell’umanità di Cristo.

Così, in un monastero britannico zeppo di silenzio si coagula in solitudine, fra VIII e IX secolo, il Liber Monstrorum de diversis generibus. Approdato sulle plaghe del continente europeo, il Liber è dominato dal segno della Difformità e dell’ambiguità come, ad esempio, il coccodrillo raffigurato in scultura sull’arco del portale centrale della cattedrale di Bitonto. Così come è raffigurato non si riesce a capire a quale regno animale l’anonimo scultore abbia voluto assegnarlo: se a quello alato, a quello strisciante, o a quello acquatico, o forse a tutti e tre, dal momento che il coccodrillo è una bestia ipocrita che si adatta a tutte le situazioni ambigue. Il suo stesso nome è d’altronde squartato, straziato e ricucito nei manoscritti. Si trasforma in Corcodri(l)lus, Crocodillus, Cocrodillus e in mille altre fogge ogni volta aprendo spazi semantici inediti.

Un copista folle e favolista inventò il Coc codrile, un miscuglio di gallo (dal francese coq) e di serpente, così come si legge nel Bestiario di Pierre di Beauvais (ms. Paris, B. N. Nouv. acq. fr. 13521, fol. 25v.)

I disegni che illustrano i bestiari manoscritti non mancano di rappresentarlo con la testa al rovescio, con gli occhi e le orecchie situati nella mascella inferiore fissa al suolo, mentre quella superiore è articolata e mobile. Le sue fauci spalancate sono simili alla gola dell’inferno e pronte ad inghiottire i dannati prima di essere scuoiato per rivestire con la sua pelle i soldati di Alessandro (Ep.ad Ar., ed. Boer, p. 19, 1-2).

è così che l’iconografia delle nostre cattedrali perpetua nei doccioni, sugli stipiti o sugli architravi dei portali la ferocia mandibolare. E non solo sulle nostre cattedrali. Il coccodrillo lo troviamo anche in quelle d’oltralpe. A Saint-Bertrand de Comminges un coccodrillo è sospeso all’ingresso del portale della cattedrale, vero museo di storia naturale come quello bitontino.

Da leggere:

F. Porsia (a cura di), Liber monstrorum, Ed. Dedalo, Bari 1976.

C. Bologna, Liber monstrorum de diversis generibus. Il libro delle mirabili difformità, ed. Bompiani, Milano 1977.

J. Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico, ed. gli Adelphi, Milano 1993.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui è tratta l'immagine di questa pagina).

L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, ed. Einaudi, Torino 1996.

La Sirena

Page 3: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, stipite del portale centrale: sirena a coda unica di pesce e dalla chioma fluente

La grandiosità della storia del pensiero e dell’arte dell’Occidente medievale sta nell’incontro tra i reali sviluppi degli avvenimenti e il mito, tra spazi continuamente inseguiti e quelli realmente raggiunti, tra regni sognati e regni privilegiati, tra libidine di conoscenza e frantumazione dei miti, le cui tracce guidano verso l’ignoto disseminato di mostri e animali fantastici: sfingi, grifoni, draghi, arpie e sirene. Tutte sentinelle poste a guardia di spazi ignoti alla cui suggestione erano in pochi a sfuggire: un complesso di grande ricchezza di civiltà fusa ai residui di quella antica, ai resti di quella barbarica, alla sconcertante bellezza di quella orientale. Chi in Oriente si è messo su queste tracce, si è alimentato delle sue suggestioni, si è impadronito delle zone dell’immaginario e dei fantastici animali residenti, accoppiandoli con altri che bazzicavano dalle parti d’Occidente. Qui, la Chiesa, già depositaria dell’eredità pagana, li ha affidati alle cure dell’artista, a questo operatore dell’intellettualità negata e controllata, demandandogli la creazione di una visualizzazione polemica della chiesa stessa verso il mondo. Di questi ha avuto bisogno nello sforzo di sanare i mali del mondo attraverso il procedimento lento ed oscillante di adeguamento dell’immagine animale a superiori processi conoscitivi.

La sirena: a sinistra, in un Bestiario medievale; a destra, nel mosaico pavimentale della Cattedrale di

Otranto

L’immaginario medievale si è nutrito della favola e del fantastico, e l’arte da essi generata, moltiplicando l’uomo nella bestia e la bestia nell’animale fantastico, aveva sospeso su capitelli, doccioni e portali di cattedrali e abbazie tutta una serie di

Page 4: Bestiario Cattedrale

chimeriche fatture, finendo per creare nelle coscienze di quell’età l’illusione diabolica di una distrazione di Dio nella Creazione. Ma l’immaginario era un modo di vivere la religiosità con atteggiamenti diversi da chi la viveva con grande impegno intellettivo.

Né vi erano differenze qualitative fra i diversi modi di viverla. L’intellettuale aveva a disposizione il libro e la logica, l’illetterato disponeva della realtà sensibile e degli elementi iconografici che erano simboli, segni che parlavano e indicavano la scorciatoia della fede, anche se combinati con linguaggi figurativi spesso difficili da intendere. Ci lasciano disorientati ad esempio certi soggetti iconografici come la sirena che sullo stipite del portale nord della cattedrale di Bitonto o sul pavimento musivo della cattedrale di Otranto e di Termoli o sui capitelli di cattedrali gotiche di Francia, sembra essere il risultato della creazione di una mente malata.

Ma quelle figure non sono altro che voci della coscienza collettiva del Medioevo: allegorie capaci di trasformare in armonia la raffigurazione del mondo che, pur tanto abietto in sé, si fa apprezzare e godere. Sta qui la grandezza del processo artistico che si trasforma in metafora, in mutatio moralis.

L’immagine della sirena sembra affiorare da più strati sovrapposti di archetipi scombinati, che pian piano si combinano fino a comporsi nella figura metà donna e metà pesce o metà donna e metà uccello che il simbolismo medievale ha sintetizzato nella rappresentazione concettuale della femminilità fatale.

Nella figura della sirena è infatti condensata tutta una concezione pessimistica relativa alla donna (la sua caducità fisica, la sua fragilità morale), ancora attuale presso la maggior parte degli autori monastici medievali, anche dei più grandi, soprattutto quando si richiamano alla dottrina tradizionale del contemptus mundi.

Le sirene (da un manoscritto del secolo XI del Physiologus)

San Bernardo di Clairvaux così si esprimeva: «La donna è lo strumento di Satana. Questa ti incanta con allettamenti mondani e ti indica la scorciatoia del diavolo… è simile alla sirena marina; bellissima dall’ombelico in sù ha l’aspetto di una vergine formosa; dall’ombellico in giù è simile ad un pesce… canta dolcemente… come la sirena inganna i marinai con dolci melodie, così la donna che vive nel mondo, con i suoi inganni trascina alla perdizione i servi di Cristo».

L’insaziabilità del desiderio femminile era, d’altronde, un luogo comune del Medioevo.

Page 5: Bestiario Cattedrale

Naturale era pertanto l’accostamento della donna alla sirena, una divoratrice di uomini, una orchessa castratrice che, come tutti gli animali ibridi, incuteva paura e repulsione.

Pur in un incompiuto sistema di conoscenze del regno dei pesci, comincia ad avvertirsi, tuttavia, già a partire dalla fine del secolo XII, un interesse nuovo all’esplorazione. Ma il regno dei pesci è ancora in gran parte chiuso dal suo elemento, il mare, alla compiuta conoscenza.

Il suo habitat resta ancora immerso nel suo spaventoso infinito, il più affamato, il più pauroso, il più misterioso. Ma una conquista l’abbiamo fatta, noi occidentali.

Abbiamo allontanato il mare dal cuore e lo abbiamo trasformato nella pozzanghera della terra.

Ci siamo impadroniti del fluttuante con la forza cieca dell’egoismo e dell’odio creando confini e divisioni sulle onde. Abbiamo svuotato i nostri cuori del desiderio di approdare su nuovi lidi. Forse è lo stesso mare che, tradito, ha smesso di offrire al navigante terre sconosciute. E per che cosa? Per creare suddivisioni e delimitazioni di terre nemiche? No. è meglio che le sirene continuino la loro danza infinita nel mare infinito, e che il loro canto resti nei confini dell’infinito. Chissà! Forse Ulisse, che non avrebbe mai sospettato che la forza del mare immensa nei suoi flutti potesse essere superata dalla violenza dei cuori, invincibili negli odi, potrebbe, nel suo infinito viaggio, riposarsi all’ombra di uno scoglio del Gargano, e deliziare le sue orecchie con la melodia di una sirena fuori rotta.

Da leggere:

E. Mâle, L’art réligiéux du XII siècle en France, Paris 1947.

H. Zug Tucci, Il mondo medievale dei pesci fra realtà e immaginazione, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, Spoleto 1985.

H. Focillon, L’ arte dell’Occidente, Torino 1987.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui è tratta l'immagine di copertina di questa pagina).

Il grifone

Page 6: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, interno, pavimento musivo: Grifone alato (XI-XII sec.)

L’animale costituisce per l’intelligenza medievale la chiave di lettura per comprendere la Creazione e il destino dell’uomo. Ed è in forza di questa convinzione che lo scrittore medievale raccoglie con scrupolosità maniacale ogni notizia, leggenda, descrizione faunistica desunte da tutta la tradizione cristiana. Considerevole è, inoltre, la pressione esercitata anche dalla letteratura antica, in ragione di quel fenomeno di venerazione che gli scrittori cristiani manifestano nei confronti di quelli greci e latini che il medioevo non ha esitato ad assimilare a figure precristiane.

Nessuna meraviglia, quindi, se gli scrittori ecclesiastici medievali hanno, nei confronti delle opere di autori pagani, un rispetto ben più considerevole che nei confronti di quelle di autori cristiani. Dai primi raccolgono immagini, aneddoti relativi al mondo animale e, in modo più considerevole, conoscenze zoologiche; dagli altri il sapiente e l’ignorante attingono il gusto delle immagini e dei simboli legati alla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) e trasmessi attraverso i commenti dei Padri della Chiesa greci e latini.

Ma non è tutto biblico. L’apporto pagano è considerevole. L’eredità pagana è infatti pienamente accettata e il suo bestiario coesiste senza difficoltà con quello di tradizione cristiana, capace di recepire nuove interpretazioni e di tradurle in simboli che trasformano l’arte in teologia.

Il grifone, ad esempio, prima di approdare sulle sponde della cristianità, era presente già da venti secoli prima di Cristo nell’arte assira, caldea e babilonese. Nel V secolo a.C. Ctesia, medico di Artaserse re di Persia, credette nella reale esistenza del grifone e lo descrisse come un uccello quadrupede col corpo di lupo coperto di piume nere sul dorso e rosse sul petto.

Il Medioevo occidentale dirà con Onorio di Autun che il grifone vive realmente in India e, chissà per quali rotte, è poi volato fra gli Assiri e i Caldei.

La convinzione poi che il suo mito abbia avuto origine nell’antica Grecia e di qui sia trasmigrato in Asia attraverso l’arte cipriota e micenea, trova conforto nel fatto che a Micene, nel palazzo di Cnosso, furono rinvenute immagini in pittura di due grifoni riposanti tra gigli. Grifoni in metallo furono inoltre scoperti da H. Schlieman a Micene.

Plinio li crede originari del paese degli Sciti, cioè nella Russia settentrionale, ed Eschilo, del paese degli Etiopi.

A Cnosso i grifoni erano i guardiani del trono: il loro ruolo, pertanto, assumeva un

Page 7: Bestiario Cattedrale

valore positivo. Qualunque variazione simbolica abbiano potuto subire in seno alle prime civiltà, è certo che tali simbologie si muovevano nell’alveo già tracciato dall’aquila e dal leone delle cui nature essi partecipavano.

In Grecia e a Roma il ruolo simbolico più conosciuto del fantastico animale fu quello di guardiano delle tombe e, quale animale consacrato ad Apollo, dio della luce e della bellezza, simboleggiava l’ispirazione poetica che portava lontano lo spirito dalla volgarità del mondo. Tale ispirazione traeva motivo dal busto aquilino; la volgarità del mondo, invece, dall’altra metà del corpo di leone.

Nell’arte cristiana dell’alto Medioevo, il grifone non trova una precisa collocazione simbolica, anche per la rarità della sua rappresentazione iconografica, assente pure nelle pitture delle catacombe. Risulta presente solo in oggetti d’arte longobarda, burgunda o gota nell’Est della Gallia e su ornamenti di tombe nell’arte degli Avari dei secoli VIII-IX.

Cattedrale di Bitonto: il grifone artiglia il capro (particolare del portale centrale)

In piena età medievale, il simbolismo in chiave cristiana si precisa e si afferma innegabilmente, allorquando la saggia fantasia dei monaci, nello spolverare antiche leggende, tira fuori dall’oblio la leggenda che riferisce di grifoni che portano in cielo Alessandro il Grande. L’artista allora la trasformerà in scena sui capitelli di chiostri abbaziali e di cattedrali.

L’ascensione di Alessandro, iconograficamente rappresentata nel XII secolo soprattutto nelle chiese italiane di Bari, Bitonto, Monte S. Angelo, Trani, Otranto, e Taranto, fu intesa come immagine dell’anima che vola verso Dio, guidata dall’animale aquilo-leonino, in accordo perfetto con l’arte e con il mito di antiche civiltà che fecero del grifone un animale psicagogo.

Poiché il simbolo è «un raggruppamento di forme visibili con lo scopo di mostrare forme invisibili» - come scriveva Riccardo di San Vittore -, il grifone, sintesi di due nature animali, l’aquilina e la leonina, racchiude la duplice natura di Cristo: Aquila, Christus … Leo, Christus.

E, come simbolo cristico, accettato anche da Dante (Purg. XXX, 106-114) e dai mistici del suo tempo, la bestia fantastica partecipa di due dei quattro elementi, dell’Aria e della Terra e, nello stesso tempo, delle due regalità di Cristo, re del Cielo e della Terra.

Per i mistici medievali il leone, re della terra, e l’aquila, regina del cielo, trasferiscono le loro corone al grifone che racchiude in sé le due nature sovrane; questo le trasferisce

Page 8: Bestiario Cattedrale

al Cristo, vero sovrano del Cielo e della Terra.

Con questa figura animale ci troviamo di fronte alla simbologia cristologia più compiuta che esprime più di quanto possa essere detto, e manifesta attraverso le sue strutture zoomorfe quelle realtà invisibili estranee alle categorie sperimentate.

Da leggere:

V. H. Debidour, Le bestiaire sculpté du Moyen Âge en France, Mulhouse 1961.

J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Torino 1981.

C. Lecouteux, Les montres dans la pensée médièvale européenne, Paris 1993.

J. Voisenet, Bestiaire chrétien. L’imagerie animale des auteurs du Haut Moyen Âge (V-XI s.), Toulouse 1994.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui sono tratte le immagini di questa pagina).

F. Moretti, Messaggi e simboli del bestiario medievale, in Bitonto e la Puglia tra Tardoantico e Regno normanno, Atti del Convegno di Studi, Bari 1999.

Il drago

Page 9: Bestiario Cattedrale

La mitica conoscenza della fauna medievale affondava le radici in antiche teogonie, in leggende popolari, in antiche cronache monastiche, in interpretazioni dotte mediate dalla cultura tardo-antica. Entrate nell’orizzonte cristiano durante i primi tentativi di organizzazione teologica del cristianesimo, esse dettero origine alla elaborazione di regesti naturalistici il cui esempio ed il principale fu la Naturalis Historia di Plinio. Grazie alla sua propensione incontrollata per l'immaginario e il favoloso, i lontani posteri hanno potuto fare la prima conoscenza di quella fauna mostruosa che popolò i bestiari e le enciclopedie medievali.

Importati dall’India non solo da Plinio ma anche da Solino e Pomponio Mela, questi animali in bilico fra il reale e il favoloso, si incrociarono nei monasteri europei di Cluny, Fulda, Reichenau, San Gallo, Montecassino, S. Vincenzo al Volturno con altri mostri, diavoli e draghi partoriti dalle penne d'oca di monaci solitari, dando origine ad una fauna più fantastica e mostruosa alla cui reale esistenza finivano per credere essi stessi. Né a questi monaci nutriti di cultura classica difettava le spigliata fantasia nella mitica conoscenza della geografia, di terre abitate da popoli e animali dalle strane fattezze, sorvolate a cavallo di draghi o grifoni o percorse sul dorso di ippocentauri prestati loro da Macrobio o Marziano Capella. Fu così che essi dettero inizio con due millenni di anticipo alla esplorazione dello spazio e di nuovi continenti, strappando il primato a Marco Polo o a Giovanni da Pian del Carpine. Furono così scoperte nuove isole e nuove montagne come quella su cui sorgeva l’Albero Secco e dove sgorgava la Fontana di Vita, minutamente descritta in un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (Nouv. Acq. Lat. 658, XII sec.). Ma nel linguaggio di quegli esploratori dell’immaginario fantastico il drago, il grifo alato, il centauro erano anche temi, allegorie mutuati dalla Bibbia, la inesauribile fonte della letteratura cristiana che fornì all’artifex romanico draghi e serpenti presi in prestito dall’Apocalisse di Giovanni, in cui il drago è il diavolo, è Satana: Drago ille magnus, serpens ambiguus, qui vocatur diabolus et Satanas (Gen., 12.9). E ancora nell’VIII secolo Giovanni Damasceno descriveva i demoni come draghi volanti per l’aria.

Page 10: Bestiario Cattedrale

Per Isidoro di Siviglia, il drago «è il più grande di tutti gli animali». è una bestia sotterranea ed aerea che ama lasciare le caverne in cui si nasconde per volare nell’aria; la sua forza risiede non nella bocca o nei denti ma nella coda con cui può stritolare il suo avversario per eccellenza, l’elefante. Per Rabano Mauro il «drago è il diavolo, è Satana, e draghi sono i suoi adepti» (De Universo, VIII, 3, in PL, III, coll. 229-30).

Nei manoscritti miniati lo si vede appollaiato sul tetto di una casa o nascosto dietro una porta di un uomo malvagio. La sua figura è orripilante: con una o più teste, col corpo squamoso che lo rende invulnerabile, con una coda micidiale in cui racchiude tutta la sua forza, con ali di pipistrello che, a partire dal XII secolo, diventano di moda nell’intero Occidente.

I diavoli e i draghi sono concepiti come esseri che abitano dirupi scoscesi e si librano nelle caverne. Nell’affresco giottesco, nella chiesa superiore di Assisi, i demoni-draghi scacciati dalla città di Arezzo da frate Silvestro, per ordine di San Francesco, salgono come tenebre al di sopra della città. E il Lucifero Trifonte di Dante spiega le stesse membrane.

Giotto: San Francesco scaccia i draghi da Arezzo (Assisi, Basilica Superiore, 1296).

Page 11: Bestiario Cattedrale

Paolo Uccello, dalla leggenda aurea di Jacopo da Varagine: il santo cavaliere uccide il drago che tiene prigioniera la figlia di un re.

Il drago con ali di pipistrello diventa sempre più frequente nella iconografia fra XII e XIII secolo. è la bestia che si batte ora sotto la lancia di San Michele e di San Giorgio, e che nell’età medievale fu uno degli accessori indispensabili dell’agiografia in cui l’apostolato trionfante dei santi che estirpavano l’idolatria fu simbolizzata dalla vittoria sul drago.

I modelli noti furono quelli di San Giorgio e San Michele che trionfavano sui draghi differenti in nome di tutti i cavalieri che sconfiggevano le dimensioni immense della dannazione collettiva e, nello stesso tempo, favorivano l'ascesa sociale dell'aristocrazia militare.

La diffusione del tema iconografico di San Michele e il drago nella nostra penisola, in epoca altomedievale, costituisce una ricca documentazione non solo storica, agiografica o liturgica legata all’Apparitio, ma anche una sintassi che ci avvia ad una delle chiavi di interpretazione, cioè quella di riaffermare e raffigurare nella lotta fra Dio e Satana quel principio dualistico, radicalizzatosi nella mentalità medievale, del bene e del male, della vita e della morte.

Il drago trafitto dalla lancia di San Michele è una creazione tutta garganica. Dal Gargano, il tema iconografico di San Michele cavaliere col drago si diffonde in tutta la penisola e poi in Francia e assume il massimo rilievo ufficiale nell’impero carolingio che accolse l’immagine dell’Arcangelo come sintesi della potenza imperiale, al sicuro sotto le sue ali protettive.

Page 12: Bestiario Cattedrale

L'arcangelo Michele in una miniatura del XV secolo

A questa celebrazione aulica e popolare del vittorioso condottiero delle schiere angeliche fece riscontro il tema, non meno ideologicamente utilizzabile, del suo avversario tenace, Satana, raffigurato sotto forma di drago. Ed è sempre al santuario garganico che bisogna fare riferimento. In esso sono infatti conservate alcune lastre scolpite che raffigurano l’arcangelo Michele in atto di trafiggere il drago; l’arcangelo Michele che uccide il drago con l'asta tenuta nella mano destra mentre con l'altra regge una bilancia con cui pesa le anime; infine l’arcangelo che trafigge un drago con un’asta tenuta con le due mani. Le prime due vengono datate all’VIII e IX secolo e sono ritenute i primi esempi del tema iconografico dell’angelo che uccide il drago.

Il drago, come il coccodrillo e il serpente, è una presenza ambigua nel bestiario medievale. Nemico di Dio è tuttavia dotato al tempo stesso di una saggezza profonda, custode di segreti ancestrali, potenzialità ancestrale, che avvolge nelle sue spire l’intero cosmo. Lo stesso oceano è raffigurato dagli antichi geografi come un enorme serpente circolare.

Se l’iconografia medievale lascia la porta aperta alla paura nella semplice visione della bestia, d’altra parte poi, un corredo di favole e miti teratologici relativi al drago neutralizzano la sua carica per così dire eversiva. Così, nella Lettera del Prete Gianni leggiamo di draghi portati a spasso da principi indiani nelle feste nuziali e nei banchetti, di draghi cavalcati da guardiani con tanto di morso e sella che ispirano simpatia. Dall’India e dall’Oriente, terra di draghi, questi sono volati in Occidente accoppiandosi con quelli che già da tempo bazzicavano in numerose città, dando origine a storie diverse di draghi diversi.

Da leggere:

J. Le Goff, Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, Napoli 1970, vol. II.

F. Cardini, Il drago, in «Abstracta», 9, 1986.

A. Petrucci, Origine e diffusione del culto di San Michele nell’Italia medievale, in

Page 13: Bestiario Cattedrale

Millénaire monastique du Mont-Saint Michel, III, Culte de Saint Michel et pèlerinages au Mont-Saint Michel, Paris 1971.

A. Ciattini e A. Sermasi, S. Michele e il suo antagonista: quando la realtà si configura come drago, in «Uomo e Cultura», XXIII-XXIV, 1979.

G. Otranto, Il ‘Liber de apparitione’ e il culto di San Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedievale, in «Vetera Christianorum», 18, 1981.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995.

F. Moretti, Fra diavoli e draghi: mirabilia del bestiario medievale, in Il Gargano tra medioevo ed età moderna, S. Marco in Lamis 1995.

Il lupo

Page 14: Bestiario Cattedrale

L'età classica ha visto nel lupo il nemico primo degli animali domestici, solo eccezionalmente pericoloso per l'uomo. Plinio lo ha posto tra gli àuguri, come portatore di presagi non necessariamente avversi, tanto che «quando ei viene da man ritta, e attraversa la via, e se egli ha la bocca piena, nessuno altro augurio è migliore». Petronio, nel suo racconto sulla licantropia, non ha avuto altra esigenza se non quella di far vivere un momento di terrore a Niceros senza pretendere di essere creduto dagli ascoltatori e senza alcun intento morale. Il Medioevo, invece, ha inserito il lupo nella lista dei demoni. La bestia diventa una realtà spaventosa non solo per animali e greggi, ma per lo stesso uomo di cui è anche il divoratore. E se nei Bestiari medievali gli animali reali o fantastici non assumono connotazioni solo positive o solo negative, tanto da leggerli simbolicamente nel "Bestiario di Cristo" e nel "Bestiario di Satana", il lupo, invece, è una realtà totalmente in negativo, il simbolo della paura panica.

Le ragioni di questo diverso rapporto delineatosi in età medievale fra l'uomo e il lupo, fra l'uomo e le altre specie animali, sono insite nelle variazioni e trasformazioni dell'ecosistema nel passaggio fra tarda antichità e alto medioevo: trasformazioni che hanno profondamente inciso anche nei rapporti fra uomo e ambiente. Gherardo Ortalli ha individuato gli elementi di novità rispetto all'età antica consistenti nella perdita di controllo dell'ambiente da parte dell'uomo,e della conseguente diminuzione della capacità di dominio sugli animali. Perciò, in una natura, quale quella altomedievale, che vede una crescita del ruolo della caccia e dell'allevamento rispetto alla agricoltura,diventa inevitabile lo scontro fra due divoratori di carne: l'uomo e il lupo. Quest’ultimo assume connotazioni demoniache,di bestia mandata da Dio per castigare gli uomini e sgozzare la pecorella smarrita, priva del buon pastore. Nella stessa trattatistica ecclesiastica, i potenti e i prevaricatori sono equiparati ai lupi.

Nel mondo medievale, soprattutto in quello del primo Medioevo, «in questo universo della fame», i termini del rapporto uomo/animale assumono valenze biologiche strettamente collegate alla sopravvivenza, in un certo modo e in una certa misura garantita dalla carne, dal momento che le colture non erano sufficienti per qualità e quantità a soddisfare i bisogni di un'Europa affamata. I1 lupo, pertanto, noto divoratore di carne, costituiva un concorrente temibile per l'uomo e una minaccia costante contro cui il potere civile e quello ecclesiastico affilarono le armi. La società tripartita strinse, solidale, le fila dei suoi ordines contro il nemico comune, ignorando nemici ben più temibili cha decimavano la popolazione europea, cioè la peste e i suoi naturali portatori, vale a dire il ratto nero o grigio o il Mus musculus, il portatore specifico della Pasteurella pestis ovvero della peste bubbonica, come quella descritta da Procopio, che flagellò l'Europa fra il 541 e i1 542 o quel flagello descritto da Rodolfo il G1abro mezzo millennio dopo. Ma quelli erano flagelli naturali, nemici invisibili contro cui non erano possibili forme di lotta, di difesa e resistenza, impiegate invece contro il grande “consumatore", il lupo.

Sballottato fra i mostri senza definiti o definibili caratteri o confuso fra bestie notturne dei “prodigi notturni” a rivivere il mito del licantropo, il lupo veniva cacciato da ogni parte e vagava alla ricerca di animali e uomini da divorare, immaginato ibrido e mostruoso, trasgressione materializzata della legge divina e naturale che aveva stretto un patto scellerato col diavolo. Considerato come un attendibile barometro della salute dei popoli: «quando questa ha una flessione, il lupo accorre, si moltiplica, divora», nel Medioevo esso era il naturale commensale dell’uomo debilitato dalla fame e dalle malattie e, perciò, pasto caldo pronto per 1a mandibola della bestia, fornita di canini aguzzi e molari massicci, capace di esercitare una pressione di quindici chili per centimetro quadrato.

La sua condanna a morte fu perciò senza appello. I1 lupo, «è il peggiore degli animali

Page 15: Bestiario Cattedrale

perché, secondo una massima passata in proverbio, se vi sono animali buoni da vivi e da morti (il bue), o buoni da vivi e cattivi da morti (il cane), o cattivi da vivi e buoni da morti (il porco), esso solo, il lupo, è cattivo da vivo da morto». Braccato da ogni parte, non ha proprio scampo. Per l'Occidente cristiano medievale esso rappresenta il diavolo o gli eretici, il peccato, la morte, l'inferno. Né valsero i tentativi letterari a renderlo più accettabile. L'Ysengrin del Roman de Renard è stato caricato dei difetti più infamanti: viltà, codardia, stupidità; allorquando beneficiato di caratteri antropomorfi, diventa vescovo, eremita, abate, pellegrino, catechista, penitente, cantore.

Cattedrale di Bitonto, rosone della facciata meridionale: il lupo

Anche l'arte delle cattedrali si era occupata del lupo. Nel rosone della facciata meridionale della cattedrale di Bitonto esso è raffigurato nei tratti caratteristici dell'agilità e dell'avidità: corpo teso, zampe agili, pronte a ghermire, occhio vivo e attento, fauci aperte, orecchie ritte, simbolo della morte dell'anima e di ogni realtà malvagia che trova i suoi prodromi nel testo biblico che 1o condannava a muoversi in un cerchio da cui non era possibile uscire con caratteri diversi da quelli con cui 1a mentalità e la tradizione si erano alimentati, rafforzandoli.

L'iconografia aveva raggiunto una considerazione generale che andava oltre i confini artistici regionali e le tecniche. Essa era diventata un mezzo universale di intendimento, che regolava e garantiva la comunicazione tra artisti, committenti ed osservatori.

E sta qui la grandezza dello scultore romanico che stabilisce nuovi valori, per i quali non vi era nessun modello diretto. I1 suo è un processo creativo sui generis, del quale possiamo prendere atto senza comprenderne lontanamente le cause. Perché i Bestiari di pietra delle cattedrali? Una domanda a cui difficilmente si potrà dare risposta, così com'è difficile rispondere al problema di coloro che hanno determinato il fenomeno.

La decisione di decorare facciate e capitelli con soggetti animali proveniva dall'artista o dal committente? E fino a che punto la Chiesa ne fu coinvolta? Sono stati gli artisti a dare l'impulso iniziale?

La tematica dei Bestiari di pietra e perciò non biblica e non religiosa può essere compresa probabilmente solo come invenzione senza precedenti da parte degli artisti, invenzione non solo tollerata ma anche approvata dalla gerarchia ecclesiastica, e successivamente gradita dal popolo dei fedeli e da tutto il clero. è questo un problema nuovo, non comprensibile attraverso le fonti e finora trascurato dalla ricerca.

Possiamo concludere comunque che la scultura animale delle cattedrali romaniche non doveva essere intesa, come pensava E. Male, solo dal punto di vista decorativo, ma anche e soprattutto del contenuto e del messaggio: il combattimento fra bene e male,

Page 16: Bestiario Cattedrale

anche attraverso la sola immagine del soggetto animale significante il male, come appunto il lupo, che rimanda per contrasto a ciò che gli si oppone, il bene.

Così, l'originalità creativa degli artisti si articolò nel contesto ecclesiastico senza essere regolamentata da disposizioni conciliari o da qualche altro testo.

Da leggere:

G. Ortalli, Realtà e immagine del lupo nel Medioevo: la nascita di un mito, in Natura e montagna, sez. 4, XII/4 (1972), pp. 11-20.

G. Ortalli, Natura, storia e mitologia del lupo nel Medioevo, in La cultura, XI (1973), pp. 257-311.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume è tratta la seconda immagine di questa pagina).

G. Ortalli, Lupi genti culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1997.

B. Brenk, Originalità e innovazione nell’arte medievale, in AA.VV., Arti e storia nel Medioevo. Tempi Spazi Istituzioni (a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi), Einaudi, Torino 2002, I, pp. 53-69.

Il centauro

Nella cornice della conoscenza codificata dalla legge dello spirito medievale, quegli stessi animali fantastici che già da tempo convivevano con l'umanità, entrano in una fase di nuove fortune in età romanica.

Il centauro, ad esempio, combinazione di uomo e di cavallo (semicaballus homo), con dorso umano e posteriore equino, sarebbe stato partorito dall’immaginazione dei poeti e

Page 17: Bestiario Cattedrale

poi plasmato dall’ingegno degli artisti dell'antica Grecia, che lo hanno creduto originario dei monti della Tessaglia. Qui viveva, secondo gli autori antichi, tutto un popolo di centauri poi sterminato dai loro più acerrimi nemici, i Lapiti.

Indipendentemente dalla poesia omerica (Odissea ed Iliade), virgiliana (Eneide) e ovidiana (Metamorfosi) e dalla favola greca, il centauro godeva presso gli Antichi di ottima reputazione perché metteva al servizio dell'uomo le principali qualità di cui il cavallo è la sintesi: la forza e la velocità. Nell'arte etrusca, queste qualità saranno poi tipiche non solo del cavallo, ma anche dei cervi e dei cani. Bronzi etruschi riproducono spesso nelle forme il mito del centauro dal dorso umano innestato in un posteriore di quadrupede, il cervo o il cane.

Se al centauro furono attribuite nel mondo antico qualità positive messe al servizio dell’intelligenza umana, d'altra parte, fu travolto da un capovolgimento di valori simbolici individuati nell'orgoglio richiamato della testa umana, dalla lussuria richiamata dal busto, dalla cupidigia richiamata dalle mani. è noto inoltre come fra i pagani il centauro fosse considerato un genio, un demone del mondo inferiore.

Per gli antichi greci, il centauro godette di un privilegio che non fu esclusivo dell'aquila: quello di psicagogo, cioè di conduttore di anime verso plaghe celesti divine e felici. Per questo, con l'avvento del Cristianesimo, il centauro pretese un posto di tutto rispetto nella fauna emblematica che si richiamava a Cristo salvatore.

In ragione della sua fluttuante simbologia e delle variazioni anatomiche combinantesi in onocentauro o in leontocentauro e spesso sessualmente indefinibili, la rappresentazione del centauro fu pressocché esclusa dall'iconografia nei secoli prima del Mille. Solo nei primi secoli del secondo millennio, essa fu recuperata all'arte dall'intuizione dei monaci che videro nel centauro l'allegoria della doppia natura di Cristo: l'umana e la divina. La prima, in virtù delle quattro zampe che legano il centauro alla terra; la seconda, in virtù del testo del Genesi: «Dio creò l'uomo a propria immagine e somiglianza». Ma il cristianesimo ereditò anche la cattiva reputazione che fece del centauro il simbolo delle passioni più basse tanto da identificarlo con Satana. Nel IV secolo San Basilio vide nel centauro la figura del demonio. Simbolo della sensualità sfrenata e della cieca violenza, l'ibrido animale, dipinto da Giotto in Assisi, rappresentava il trionfo di san Francesco sulle passioni.

Page 18: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, capitello della cripta: il leontocentauro. Nell'immagine in alto: Dante e Virgilio davanti al centauro (da un manoscritto del secolo XV)

Nessuna pietà per la centaura, voluttuosa e seduttrice perfida che più tardi Dante piazzerà nell'inferno assieme a tutti gli altri suoi soci, Chirone incluso. Seduzione, voluttà, lussuria, omosessualità sono per la coscienza collettiva del Medioevo i peccati più gravi di cui è gravida la centaura o il centauro e per i quali le facoltà dell'intelletto sono annientate dalla bestialità. Pertanto, la matura consapevolezza di realtà ed immagini sconcertanti, composte secondo guise disordinate e deformi di tratti umani e animali, fu evidenziata dalle decorazioni scultoree che costituirono la sintesi insuperabile del pensiero della Chiesa: significativi richiami alla centralità dell'uomo. In questo compiuto sistema didattico che mirava alla distinzione dell'uomo e alla sua separazione dal mondo inferiore, bestiale, si realizzava un compiuto sistema di potere la cui insegna visualizzante non era altro che l’interpretazione delle sue richieste. L’artista fu uno strumento di questo potere: strumento di formazione di una ideologia che calava dall'alto ad organizzare il consenso. La sua funzione essenziale fu quella di dare forma, attraverso l’arte, a richieste che gli giungevano da altri senza rifiutarla. Eius enim sola ars est.

Da leggere:

Dante Alighieri, La Divina Commedia, testo critico della Società Dantesca Italiana, Inferno, XII, vv. 55-139, Hoepli, Milano 1988.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

F. Zambon, Il Fisiologo, Milano 1975.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume è tratta la seconda immagine di questa pagina).

L' asino

Page 19: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, Galleria dell'esaforato: capitello raffigurante una coppia di asini.

Nell’arte scultorea dal XII al XIV secolo l’asino ricorre frequentemente. Lo troviamo in un capitello del XII secolo sul portale della chiesa di Meillet (Francia), nella cattedrale di Rouen dove è raffigurato con 1’arpa fra le zampe, sulle torri della chiesa di Saint-Denis, a Chartres, Nantes, Nevers, Strasbourg, sul pavimento a mosaico della cattedrale di Otranto. Lo troviamo anche su un capitello a stampella del XIII secolo della cattedrale di Bitonto, dove è messo in evidenza il suo fallo smisurato.

Certo, 1’immissione nelle chiese di questo tipo di raffigurazione ci lascia alquanto perplessi; tale presenza potrebbe essere giustificata solo se si pensa ad una particolare simbologia religiosa il cui archetipo affondi in antiche culture. La famosa immagine “satirica” dell’asino che suona la lira, ad esempio, ha un archetipo che affonda probabilmente le sue radici nella cultura di Ur. Tale figura è stata adeguatamente commentata da Marius Schneider, il quale ha osservato come tamburo e arpa, i due strumenti più di qualunque altro connessi, sia pure per differenti motivi, all’asino, siano per eccellenza strumenti di dolore e di rapporto con 1’aldilà. Ma nell’Occidente medievale 1’asino musicante vuol significare “1’assurdità”. Già nel XII secolo, Filippo di Thaun scriveva che i presuntuosi sono incapaci e insulsi come «gli asini a suonare 1’arpa». Né furono poche le caricature che ritraevano personaggi ecclesiastici o laici con grandi orecchie d’asino. Erano attributi di inequivocabile chiarezza che richiamavano il peccato d’orgoglio ostinato.

L’asino, che fu chiamato ad assumere un ruolo non indifferente in vari episodi della Sacra Scrittura, ebbe soprattutto nella Francia del XII secolo un riconoscimento che equivaleva ad un culto. A lui era dedicata addirittura una festa: “la festa dell’asino”, in ricordo della fuga in Egitto di Maria col piccolo Gesù. In occasione di quella festa, appariva una fanciulla riccamente vestita. Non v’era né Maria, né Gesù, ma 1’asino che, condotto in solenne processione sull’altare, veniva addestrato ad inginocchiarsi in momenti indicati e a ragliare tre volte alla risposta rituale del Benedicamus Domine. «Alla fine della Messa – è scritto in un codice manoscritto risalente all’XI secolo – il prete, anziché pronunciare Ite missa est, raglierà tre volte, e in luogo di Deo gratias il popolo risponderà tre volte hi-ha».

Al raglio asinino Schneider associa il grido altissimo di Gesù sulla croce. Scrive Jung: «è

Page 20: Bestiario Cattedrale

chiaro che il pericolo di teriomorfismo era reale: esistevano infatti determinate tendenze a porre 1’asino in relazione simbolica con Cristo, tanto più che fin dai tempi antichi il Dio dei Giudei era volgarmente rappresentato con i tratti di un asino, e la stessa figura di Cristo non era immune da questo pregiudizio, come dimostra il graffito del Paedagogius del Palatino, che è una raffigurazione satirica del Crocefisso». Il graffito del Paedagogius de Palatino accompagnato dalla scritta Alexamaenos sebete Theon (Alexamenos adora Dio) risale al II secolo d.C. e testimonia la confusione presso il paganesimo declinante tra Ebrei e Cristiani, accusati questi ultimi, di asinolatria il cui archetipo è forse da ricercarsi in certi culti dionisiaci di Asia Minore e di Creta o in quello egiziano legato al Dio Typhon dalla testa d’asino, oggetto di adorazione nel tempio di Gerusalemme, come testimonia il grammatico Apione nel racconto della Storia d’Egitto del II secolo a.C.

Riesce difficile cogliere i nessi che nel corso dei millenni hanno contrapposto e ribaltato i ruoli della simbologia animale. Nel caso dell’asino, simbolo evangelico dell’umiliazione e della docilità, riesce ancora più difficile spiegare certe parodie medievali legate all’animale, in bilico fra deviante ed osceno. L’oscenità del gesto (demisso pene) dell’asino di Fedro che provoca il cinghiale, mostrandogli il proprio fallo smisurato, è in perfetta consonanza con altre testimonianze dell’antico mondo pagano. Tale oscenità, al contrario, non è adattabile alla sensibilità religiosa medievale in cui la morale prende il sopravvento sulla favola che viene svuotata dei suoi elementi significativi, sostituiti da altri gesti e altri vocaboli che sviano o fanno perdere di vista il significato dell’episodio favolistico. Ora, pur volendo ammettere col Bachtin che 1’asino, uno dei simboli più antichi e più duraturi del «basso materiale corporeo», ha nello stesso tempo un valore abbassante (di mortificazione) e rigenerante, è indubbio, tuttavia, che il fallo dell’asino, che rinvia peraltro al culto priapico, come simbolo rigenerante, sia estraneo alla cultura cristiana medievale e alla sua letteratura; mentre è uno degli attributi caratterizzanti il diavolo nell’iconografia medievale e rinascimentale, e allusivo ai caratteri materiali del peccato: la sessualità, la sregolatezza, la bestialità.

Ma 1’asino non finisce di stupire. Se il cristianesimo, infatti, ha domato 1’impulsività animale dell’antichità pagana, ribaltandone addirittura i segni, è sorprendente considerare come 1’asino, più specificatamente 1’asino rosso, considerato come una delle entità più temibili fra tutte quelle che doveva incontrare il morto nel corso del suo viaggio nell’oltretomba, associato alla “bestia scarlatta” dell’Apocalisse, abbia potuto subire in età cristiana una metamorfosi così radicale. Oggetto di culti misterici ai quali i primi cristiani furono accusati di ricollegarsi – come al culto del ”dio dalla testa d’asino”, che suscitò 1’indignazione di Tertulliano – 1’asino fu poi cavalcato da Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme. E i Vangeli non specificano se 1’animale fosse di pelo rosso, bianco o nero. Solo una pia leggenda medievale trae dall’episodio della Domenica delle Palme la traccia cruciforme di pelo nero che gli segna la schiena.

Per meglio determinare 1’intrecciarsi di funzioni che potrebbero sembrare ambigue e contraddittorie, Franco Cardini ricorda come 1’asino rosso, che conosciamo attraverso il De Osiride et Iside di Plutarco, si collega al mito isiaco dell’antico Egitto, ed è un animale sacro a Seth e simbolo ctonio e malvagio. Questo asino si differenzia da quello dei popoli indoeuropei, in particolare di quelli stanziati fra Anatolia e la catena dell’Elburz, simbolo di regalità di saggezza per quelle popolazioni, in special modo per gli Ittiti e gli Hyksos per i quali le lunghe orecchie asinine erano un simbolo regale e sapienziale.

Cavalcatura di entità celesti, di principi e di eroi in India e in Cina, in tale veste e ruolo 1’asino emigrò dal mondo asiatico a quello greco e a tutto il bacino del Mediterraneo. La Bibbia ce lo presenta come cavalcatura dei potenti: «Benedite il Signore voi che

Page 21: Bestiario Cattedrale

montate asine bianche e splendenti» – cantava Deborah ai potenti di Israele. Con la profezia di Zaccaria che annuncia la venuta del Messia, 1’asino diventa cavalcatura dei profeti e dello stesso Gesù nel Vangelo: «Esulta di gioia, esulta figlia di Sion, perché ecco che il tuo Re viene a te. Egli è giusto, e umile; arriva sul dorso d’un asino». è con Cristo, quindi, e con i due episodi della sua vita nei quali 1’asino gioca un ruolo importante, che 1’aspetto positivo del suo simbolo viene legittimato presso i cristiani, anche se i Padri della Chiesa erano di avviso diverso. Sostenevano infatti che 1’asino cavalcato da Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme era la sintesi delle forze del male che il Cristo dominava cavalcandole e che 1’asino e il bue presso il presepio erano il simbolo delle forze ctonie, infere, che assistevano alla nascita di Gesù.

Il Medioevo erediterà molte storie e tradizioni legate all’asino il cui simbolo, continuamente rielaborato, «fa parte del metabolismo culturale del Medioevo». I Bestiari medievali, debitori di Apuleio e del suo Asino d’oro, sottolineano 1’ottusità, 1’ostinazione e la lussuria dell’asino, ma anche la sua docilità; trasferiscono invece – come fa il “Bestiario di Cambridge” i significati demoniaci al suo parente stretto, 1’onagro.

L'onagro (da un manoscritto del secolo XI del Physiologus)

«L’onagro – dice il Fisiologo – è il demonio, quando la notte, cioè il popolo dei Gentili, è divenuto eguale al giorno, cioè ai fedeli profeti: allora ha ululato 1’onagro, cioè il demonio». Il Bestiario di Cambridge: «L’onagro rappresenta il demonio che, venuto a conoscenza della conversione a Dio e alla fede da parte del popolo errante [...] raglia ogni ora reclamando la sua preda». Tale immagine deriva dalla credenza che 1’onagro, simbolo dell’ignavia, preferisca le lunghe notti ai giorni e che come animale del crepuscolo, il venticinquesimo giorno di marzo, cioè nell’equinozio di primavera, esso raglia ventiquattro volte, una all’ora, perché fa come 1’equinozio, la notte (cioè il paganesimo) uguale al giorno (cioè il cristianesimo).

Per altri autori di Bestiari medievali, 1’onagro che sazio si riposa nella serenità della solitudine, rappresenta il simbolo di coloro che hanno trovato nel Vangelo sazietà alle loro anime. Altri glossatori hanno interpretato 1’isolamento volontario dell’animale come la figura di Cristo nel deserto. Per associazione d’idee 1’onagro divenne cosi 1’immagine

Page 22: Bestiario Cattedrale

spirituale dell’eremita cristiano che vive in solitudine con la sua anima e non parla se non con Dio solo. Ma furono tuttavia rare le voci di questi glossatori. L’autorità dei grandi pensatori, come Guglielmo di Normandia o Vincenzo di Beauvais, non aveva lasciato spazio ad interpretazioni positive sulle qualità dell’onagro nella simbologia: esso continuava ad essere una figura demoniaca come quella della scimmia.

Da leggere:

G. Finzi, L'asino nella leggenda e nella letteratura, Modena 1892.

G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Torino 1963.

M. Schneider, La simbologia dell’asino, in «Conoscenza religiosa», 2 (1980), pp. 129-148.

F. Bertini, Gli animali nella favolistica medievale. Dal Romulus al secolo XIII, in L’uomo di fronte al mondo animale, II, Spoleto 1985.

F. Cardini, L’asino, in «Abstracta», 11 (1987), pp. 46-53.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume sono tratte le immagini di copertina di questa pagina).

Il leone

Page 23: Bestiario Cattedrale

Granada, Alhambra: Patio dei Leoni

Negli antichi culti pagani europei e afro-asiatici, 1’immagine del leone racchiudeva gli attributi della Divinità.

Presso gli antichi Egizi, la dea Sekhet portava una testa leonina; presso gli Ammoniti il sole era adorato col nome di Camos, il Leone-sole, e in Siria il leone aveva il carattere divino. In Persia era uno degli animali sacri al culto di Mitra, e gli antichi Persiani dedicavano al leone alcune feste che prendevano il nome di “Leontiche” in onore di Mitra “il Sole invincibile”, la cui statua portava una testa di leone su un corpo umano. Ancora oggi in Iran il leone è il simbolo araldico dello Stato; porta sul dorso un sole risplendente e brandisce una spada.

Nell’antica Assiria, il Dio del coraggio guerriero era rappresentato da un leontocentauro con quattro zampe leonine e due braccia umane. Questo simbolo del coraggio fu in seguito adottato dalle legioni romane in Oriente, che applicarono 1’immagine del leone sulle insegne militari. Segno della regalità e della potenza, 1’immagine leonina fu incisa anche su monete, come quelle coniate ai tempi di Alessandro il Grande, e su quelle degli imperatori Probo e Gallieno.

Simbolo della forza e del coraggio, il leone lo fu anche della giustizia. Gli antichi dicevano che esso non si avventava mai sulla preda se non spinto da un eccezionale bisogno di nutrirsi e che, anche in questo caso, non spiccava il balzo sull’avversario caduto a terra prima che avesse avuto inizio il combattimento. Si raccontava inoltre che il leone sapeva mostrarsi riconoscente per un bene ricevuto al punto tale che gli uomini lo additavano ad esempio di giusta gratitudine. Il Medioevo non aveva rotto questi legami riferiti al leone e al senso della giustizia. è noto infatti che in età medievale le cause di giurisdizione civile ed ecclesiastica venivano discusse e risolte sui sagrati delle chiese, dinanzi ai portali incorniciati da leoni di pietra; i giudizi venivano formulati ed

Page 24: Bestiario Cattedrale

emessi secondo la nota formula inter leones et coram populo, cioè tra i leoni e il popolo assemblato. Il motivo non è solo cristiano e occidentale. Se i leoni sono piazzati dinanzi ai portali delle nostre cattedrali come vigili perenni dell’ortodossia cristiana, leoni di granito montavano la guardia a Micene o dinanzi a templi indiani e, per le credenze religiose orientali, i leoni come i draghi, non chiudono mai gli occhi.

Cattedrale di Bitonto, particolare del finestrone absidale: il leone che artiglia e strazia un animale.

Nell’arte cristiana, il leone è il simbolo della misericordia, della regalità e della Resurrezione di Cristo. Nella cattedrale di Bourges, su una vetrata, esso monta la guardia dinanzi alla tomba di Cristo resuscitato. Simbolo di Cristo e della Sua Resurrezione perché il Signore sembrò solo addormentarsi nella morte, il leone è anche il simbolo della Sua Incarnazione, perché Cristo nascose accuratamente le tracce della Sua divinità quando s’incarnò nel seno della Vergine.

Principio della nostra futura resurrezione, 1’immagine di Cristo è associata a quella della leonessa quando, nel deporre sulla terra i suoi piccoli appena nati, che per tre giorni non danno alcun segno di vita, al terzo giorno la riacquistano col soffio materno.

Gli autori dei Bestiari medievali, nel processo di trasformazione in senso cristiano delle notizie di antichi autori pagani sulle abitudini del leone, si sono serviti in modo particolare delle interpretazioni di Origene e del Physiologus.

L’unione in Gesù Cristo di due nature, la divina e 1’umana, ha costituito il tema di numerose immagini allegoriche che ritroveremo applicate ad altri animali fantastici. Per quanto riguarda il leone, gli antichi autori pagani e cristiani concordano nell’asserire che tutte le qualità attive del leone sono localizzate nella parte anteriore del suo corpo, nella testa, nel petto e nelle sue zampe anteriori, mentre la parte posteriore del corpo non ha altra funzione se non quella di sostegno, di punto d’appoggio a terra: anterioribus partibus coelestia refert, posterioribus terram. Pertanto, essi fecero della parte anteriore il simbolo della natura divina di Cristo; di quella posteriore, 1’immagine della sua umanità.

Ma la simbologia del leone è ambivalente a seconda che la sua forza è messa al servizio del bene o del male. è interpretata come immagine di Cristo quando combatte il serpente, il drago o altre bestie maledette come il caprone (e questo è un tema iconografico che ricorre frequentemente nelle sculture delle nostre cattedrali), ma anche come simbolo di Satana, dei vizi e dell’eresia. Un leone che strazia con le zampe e con i denti un animale è 1’immagine della giusta severità della chiesa contro coloro che si

Page 25: Bestiario Cattedrale

ostinano a disconoscere la sua autorità. I commentatori dei libri sacri riconoscevano esplicitamente 1’immagine del demonio nel leone di cui Davide fu il vincitore. Sin dall’alba della Chiesa, Pietro aveva detto: «Siate sobri, o fratelli e vegliate; perché il diavolo vostro nemico è come il leone che ruggisce e cerca di divorarvi» (San Pietro, I epist.).

Il ruggito del leone è interpretato dagli antichi Padri della Chiesa anche come la potente parola del Signore di cui si servirà la liturgia latina: De Sion rugiet, et de Jerusalem dabit vocem suam.

I leoni (a sinistra, dal Bestiario manoscritto Bodley 764, metà del XIII sec.; a destra, da un

manoscritto del secolo XI del Physiologus)

Nel suo ruolo satanico, il leone è spesso il simbolo di una delle tre concupiscenze alle quali 1’ascetismo cristiano attribuisce la perdita delle anime: «concupiscenza della carne», da cui la lussuria, la gola, 1’ignavia; «concupiscenza degli occhi», da cui ancora la lussuria, 1’avarizia e 1’invidia; «concupiscenza dell’orgoglio della vita», da cui 1’orgoglio e la collera. In queste tre derivazioni dei peccati capitali, il leone rappresenta 1’orgoglio della vita. A seconda dei contesti, oltre ad essere il demone dell’eresia, è anche il vincitore dei culti idolatri quando 1’arte medievale lo associa ad altro animale o ad una figura umana femminile che soggiace sotto le sue zampe.

Pur nell’ambivalenza dei suoi ruoli simbolici, a partire dal IV secolo, la visione di Ezechiele e dell’Apocalisse di Giovanni assegnano al leone un posto stabile nella rappresentazione del Tetramorfo a significare 1’evangelista Marco accanto al vitello (Luca) e all’aquila (Giovanni), le cui più antiche rappresentazioni risalenti al V secolo si trovano nei mosaici del battistero di Napoli e nell’abside di S. Prudenziana a Roma.

Il Tetramorfo che sintetizza un solo Essere dalle multiple facce a significare i diversi sensi cristici dei quattro animali (uomo incluso: Matteo), fu un soggetto preferito nell’arte medievale del XII secolo per la decorazione dei portali principali delle grandi chiese e cattedrali.

Nel simbolismo medievale il corpo e il viso umano del Tetramorfo, nel richiamare «il Figlio dell’Uomo che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo», significano attributi diversi nell’unità della divinità: il leone significa che Cristo è re; il toro significa che Egli è sacerdote e vittima; 1’aquila proclama che Dio, Uomo nello stesso tempo, è venuto dal cielo. «Egli fu Uomo nella nascita, vitello nella morte, leone nella Resurrezione, aquila nell’Ascensione»: Fuit homo nascendo, vitulus moriendo, leo

Page 26: Bestiario Cattedrale

resurgendo, aquila ascendendo.

Da leggere:

F. MacCulloch, Mediaeval Latin and French Bestiaries, Chapel Hill, 1960.

P. Testini, Il simbolismo degli animali, in L’uomo di fronte al mondo animale, II, Spoleto 1985.

F. Zambon, Il Fisiologo, Milano 1985.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume è tratta la seconda immagine di questa pagina).

L'aquila

L'aquila simbolo della giustizia (ambone della cattedrale di Bitonto)

Nel regno alato, 1’aquila occupa il posto del leone. Con 1’aquila, si ha 1’impressione di trovarsi davvero dinanzi a quei simboli-base “universali”, tipici di molti popoli, di molti tempi e di molte culture.

è nell’Asia centrale e poi presso i popoli dell’Oriente mediterrraneo che troviamo le più antiche tracce sulla simbologia dell’aquila. Già simbolo di Vishnou nell’antica religione indiana, nell’arte caldea è il nobile uccello che accompagna il re nelle sue rappresentazioni, che doma il leone, che aiuta 1’Ercole caldeo nella sua lotta contro i mostri. è soprattutto nell’arte religiosa della Siria che 1’aquila assume significazioni tali da essere poi reinterpretate e applicate al cristianesimo. Sui monumenti funerari siriani 1’aquila assumeva il ruolo dell’animale psicopompo, che accompagnava le anime dei morti verso la loro dimora celeste. Questo elemento è ritenuto dal Cardini di eccezionale

Page 27: Bestiario Cattedrale

importanza per la individuazione del culto dell’aquila che «dovrebbe impiantarsi presso i popoli incineratori più spesso e più profondamente che non presso i popoli inumatori, che possono semmai averlo ricevuto indirettamente», pur ponendoci sull’avviso di una certa cautela per affermazioni che implicano la migrazione dei simboli.

Nell’antica arte sumerica, la indiscutibile sovranità dell’aquila su tutto il regno animale è evidenziata dall’innesto di testa di leone sul suo corpo alato. è 1’unico animale a cui spetta il privilegio di volare verso il cielo portando le anime dei morti nella regione degli dei: credenza che fu poi dei Greci e più tardi dei Romani. In Grecia e a Roma, 1’aquila divenne 1’uccello di Zeus e di Giove, e a Roma soprattutto 1’apoteosi dei Cesari fu celebrata col volo delle aquile.

Uccello glorioso, emblema della Roma imperiale, dei suoi trionfi e del suo dominio universale, 1’aquila divenne per i cristiani, dopo la conversione di Costantino e 1’editto del 314, 1’emblema del trionfo della religione di Cristo sul paganesimo persecutore dei cristiani, simbolo di Cristo: Aquila Christus.

Il ruolo di conduttore di anime verso gli dei del cielo che gli antichi culti asiatici e mediterranei avevano assegnato all’aquila, seguì una naturale migrazione simbolica nella religione cristiana dove il Redentore, Aquila Christus, aprendo alle anime le porte del cielo, con 1’infusione della sua grazia, le eleva verso Dio; verso le altezze spirituali essa eleva il pensiero degli uomini appesantito dalla materia.

Nella simbologia cristiana, 1’aquila è disincarnata e disanimalizzata, non confusa con gli uccelli a carattere puramente sessuale e pertanto facilmente contrapposta al serpente-demonio contro cui la lotta acquisterà una caratteristica valenza di pugna spiritualis: del fedele, della purezza, contro la tentazione, vale a dire, il peccato, la materia. Da qui, un tema iconografico dalle origini remote che affonda le radici in culti asiatici: 1’aquila che tiene fra gli artigli una preda, un capretto o una lepre. è un tema che ricorre frequentemente nell’arte medievale e che richiama alla mente la vittoria delle forze celesti contro il male, contro il demonio raffigurato dal capretto o contro 1’eresia raffigurata dalla lepre, il cui simbolo fu prediletto da Federico II. Sulla facciata principale della cattedrale bitontina, due grifoni, che come 1’aquila cercano gli spazi celesti, tengono fra gli artigli 1’uno un capretto, 1’altro una lepre, considerata anche animale impuro (Levitico, XI, 6) (Deuteronomio XIV, 7). La lepre infatti appartiene alla categoria degli immondi perché rappresenta la superbia intellettuale. Un altro tema iconografico che ricorre frequentemente nella scultura medievale è quello dell’aquila che artiglia un drago, con una combinazione simbolica che richiama una vicenda araldica molto particolare e interessante allorquando la regina dell’aria si trasforma decisamente in simbolo del Sacro Romano Impero nel XII secolo con Federico Barbarossa.

Uccello del Sole, 1’aquila fu presso antiche popolazioni anche il simbolo del fuoco e della luce; i Greci e poi i Romani 1’hanno rappresentata con i fulmini di Zeus-Giove fra gli artigli. Nella Storia naturale di Plinio si legge che 1’aquila è 1’unico volatile capace di fissare per lungo tempo ed intensamente il sole e che per provare la legittimità dei suoi piccoli, li espone alla luce accecante dei suoi raggi. I piccoli che riescono a sopportare la luce sono riconosciuti come vera prole e pertanto nutriti, gli altri invece che battono le palpebre e distolgono lo sguardo dai raggi solari, sono rinnegati e cacciati dal nido. Di questa leggenda ha fatto uso Onorio di Autun nel suo Speculum Ecclesiae per un accostamento simbolico fra 1’aquila e il Cristo-Giudice del Giudizio universale. Cristo, infatti, riserverà il nido, cioè il paradiso, solo ai giusti e getterà all’inferno i malvagi che si sono mostrati indegni del suo amore.

Gli accostamenti fra 1’aquila e Cristo che aveva detto: « Io sono la Luce del mondo ...

Page 28: Bestiario Cattedrale

Sono venuto a portare il fuoco sulla terra ... » sono frequenti nel pensiero simbolico cristiano e applicati ai sacramenti e alla liturgia.

Al sacramento del Battesimo e alla Resurrezione è legata la leggenda popolare tratta dal Physiologus in cui si legge che «quando l’aquila invecchia le si appesantiscono gli occhi, e la vista le si offusca. Che cosa fa allora. Cerca una fonte d’acqua pura, e vola su nel cielo del sole, e brucia le sue vecchie ali e la caligine dei suoi occhi, e scende nella fonte, e vi si immerge tre volte, e così si rinnova e ridiventa giovane ...». La fontana della giovinezza sta a significare la vasca battesimale da cui il cristiano esce purificato.

Nel volo dell’aquila verso il cielo è da intendersi anche il volo di Cristo resuscitato dai morti, del Cristo che, deposte le spoglie di un corpo corruttibile, sale al cielo.

La mitologia ha fortemente contribuito ad incanalare negli alvei della drammatica cristiana alcune immagini legate all’aquila che, salendo fino all’Olimpo per portarvi le anime, ne discende impregnata del favore degli dei. E quando il giusto offre un sacrificio a Zeus per assicurarsene il favore, egli immagina che su di sé scenda dall’Olimpo il bacio del padre degli dei, come 1’aquila che dalle celesti altezze vola verso il sole. Nella sistemazione drammatica, la Chiesa primitiva guardò all’aquila come immagine della grazia divina che discende con le sue immense ali sul giusto che 1’invoca.

Ganimede rapito dall'aquila-Zeus

Così, nel mito di Ganimede, rapito da Zeus invaghitosi della sua bellezza, la metamorfosi del dio in aquila che porta sull’Olimpo il bel ragazzo per farne il suo coppiere e il suo amante in cambio dell’eterna giovinezza, simboleggia 1’ascensione delle anime verso il cielo, nonostante 1’equivoco erotismo del racconto.

Page 29: Bestiario Cattedrale

Nel simbolismo cristiano l’aquila fu presa come uno degli attributi della Giustizia che ricompensa e punisce. Nella visione dantesca, fu messa all’ombra delle ali dell’aquila imperiale a cui si riconnette il concetto della giustizia, che dal cielo si riflette negli ordinamenti terreni.

In questa visione è racchiuso tutto 1’ideale etico politico del divin poeta che si manifesta e si esalta in difficoltà d’invenzioni. è d’altronde nota 1’invenzione dantesca dell’Aquila, concepita come una serie di figurazioni che si succedono e si sovrappongono in una danza di luci disegnanti una grande M che si trasforma in ‘Aquila’: «e quietata ciascuna in suo loco / la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi / rappresentare a quel distinto foco» (Par., XVIII, 106-108).

Con Dante, il simbolo dell’impero e quello della giustizia si coagulano in un’unica immagine, quella aquilina, che Federico II fece incidere sui suoi augustali assieme al suo nome. Con 1’aquila, Dante ha scelto un simbolo pregno di significati microcosmici e macrocosmici. Essa suggerisce al divin poeta un genio senza pari: Omero è «quel segnor de 1’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola» (Inf. IV, 95-96). Ma 1’aquila delle insegne romane, il «segno / che fe’ i Romani al mondo reverendi» (Par. XIX, 101-102) richiama alla mente un’immagine di portata macrocosmica: il potere imperiale di Roma trasferito da Dante ad Enrico VII salutato come ”aquila eccelsa” che «come folgore calando verrà» (Ep. V, 11), quando, attraversando gli Appennini, «successore di Cesare e Augusto », egli riporterà i veneranda signa Tarpeia (Ep. VII, 5), gli stendardi dell’aquila romana, «1’uccel di Dio» (Par. VI, 4).

Quest’aquila trionfale, messaggera di Zeus, da dove proviene? La universalità del suo simbolo che spazia nei meandri della psiche, che si libra in volo dall’Olimpo al Paradiso, che annulla gli spazi e il tempo, non permette una risposta semplice. Forse la storia di questo simbolo divino e regale non è ancora stata scritta del tutto. A complicare poi le cose ci hanno pensato alcuni autori medievali che hanno accostato la figura dell’aquila a quella del demonio: nell’aspra fierezza del volo aquilino essi hanno visto 1’orgoglio implacabile di Satana. Come antitesi dell’uccello psicopompo che porta le anime al cielo, rapitrice di anime fu interpretata la figura dell’aquila che colpisce col becco il pesce serrato nei suoi artigli, come è possibile vederla nella bifora inferiore del lato sud del transetto della cattedrale di Bari. E nonostante i tentativi di san Brunone d’Asti, sant'Isidoro e sant'Anselmo di restituire all’aquila 1’immagine del Salvatore pescatore di anime per il cielo, essi trovarono pochi sostenitori. Il volo ghermitore sul pesce continuò ad essere interpretato in una visione diabolica. Rabano Mauro, nell’elencazione dei dati positivi, ne aggiunge due negativi e definisce le aquile spiriti maligni raptores animarum, e gens impia vel civitas in aliorum depredationem decurrens, forse perché le associa all’avvoltoio e al corvo, animali malvagi, perché si riteneva che rubassero senza fatica le cose altrui.

Da leggere:

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Milano 1975.

F. Cardini, L’aquila, in «Abstracta» 13, marzo 1987, 38-43 e 14, aprile 1987, 34-41.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume è tratta la prima

Page 30: Bestiario Cattedrale

immagine di questa pagina).

Il toro

Il toro rappresentato nell'atteggiamento di un quieto bue domestico nel ciclo di affreschi trecenteschi della parete meridionale del Palazzo della Ragione di Padova

Nella visione di Ezechiele e dell’evangelista Giovanni il toro, come 1’aquila, il leone e 1’uomo, è un animale celeste che vediamo rappresentato sia distinto dagli altri sia ad essi unito, quasi saldato, sotto la forma di un unico essere strano e sconcertante che 1’arte sacra ha denominato Tetramorfo. La sacralità di questo animale nella simbologia cristiana non è nata tout-court dalla visione di Ezechiele o dall’Apocalisse di Giovanni. è chiaro che il toro prima di approdare sui lidi cristiani abbia subito un processo di purificazione che lo ha liberato dai lacci di antiche concezioni mitologiche di popoli e paesi diversi.

Nelle pratiche religiose dell’antico Egitto, in quelle assiro-babilonesi o nell’antica Grecia,

Page 31: Bestiario Cattedrale

il toro è stato 1’animale soggetto ai culti più disparati. Adorato come il dio Amon nell’antica Tebe, incarnazione dello stesso dio invocato col nome di toro celeste, personifica la forza divina che perennemente si rinnova nella natura. Ctonio come il cavallo, il toro fu simbolo astrale solare o lunare. In antiche religioni orientali troviamo infatti non soltanto dei lunari dalla forma taurina ben caratterizzata, come Osiride o il gran dio mesopotamico Sin, ma dee lunari taurocefale portano tra le loro corna 1’immagine del sole. La simbologia astrale di questo animale è ravvisabile anche nelle sue corna simili a quelle della falce di luna, e Assur il dio Toro è figlio del sole. Il Toro-Sole era stato incarnato sulla terra da Apis di Memphis; questo culto, che godette di eccezionale favore nel V e IV secolo a.C., subì nell’Egitto ellenizzato e romanizzato una metamorfosi tale che Apis finì per essere assimilato a Zeus e a Giove.

Il toro in uno geroglifico egizio

Universalmente considerato come simbolo della fecondità nei tempi antichi, la testa del toro nell’antico Egitto fu soggetta a trattamenti particolari durante i riti sacrificali proprio per questa assimilazione simbolica fra la disposizione delle corna e la luna crescente che assume la forma di falcetto durante il suo ”quarto”. Attraverso la simbolica teriomorfa, la luna o il sole furono quindi considerati come simbolo del tempo. Nelle complicate mitologie assire e caldee ancora più evidenti risultano le relazioni fra il simbolismo del toro e le influenze celesti. Assurto a divinità, il toro fu rappresentato con volto umano e con grandi ali aquiline rivestite di panneggi gemmati come i sovrani. Mediatore fra la terra e le divinità celesti, questa figura fu contrapposta all’altra dal volto umano ma sprovvista di ali che rappresentava invece il mostro infernale Eabani, una specie di minotauro della mitologia caldea. Nell’antica Grecia il toro fu legato al mito di Poseidone, il dio Nettuno dei Latini, del quale antiche leggende raccontano che i re sacrificavano un toro catturato da uno di essi e bevevano il suo sangue.

Nelle religioni misteriche di Mitra e Orfeo dell’antica Grecia, dell’Asia Minore e dell’Egitto, all’animale immolato furono attribuiti poteri di purificazione e di propiziazione così particolari che questo sacrificio assunse la forma di una liturgia sacra, una specie di battesimo del sangue. Simbolo delle forze psichiche e fisiche in Asia, della fecondità in Egitto e della forza creatrice in Grecia, la trasmigrazione simbolica del toro in Europa si espanse dalla Scandinavia al Baltico subendo modificazioni tali da non compromettere tuttavia il nucleo simbolico originario. In Spagna, in Scozia, in Germania o in Sicilia, ad esempio, esso diviene simbolo della fecondità delle sorgenti fluviali. Legato allo scatenarsi delle potenze meteorologiche e a quelle distruttrici nelle antiche culture orientali, lo si ritrova nei furiosi uragani australiani come, nell’antichità fenicia, nel minaccioso muggito. La trasmigrazione simbolica del toro nel primitivo panorama cristiano avviene senza bruschi salti, senza cesure e aperture improvvise attraverso il graduale innesto di antiche mitologie nella religione ebraica prima e in quella cristiana poi. Vittima di sacrifici espiatori e di propiziazione nell’antico mondo ebraico e nei santuari mitici della gentilità, 1’effusione rituale del sangue taurino fu sostituita nella

Page 32: Bestiario Cattedrale

Cristianità al sacrificio misterioso del Corpo e del Sangue di Cristo sull’altare. L’olocausto delle bestie come 1’agnello, la colomba, il capretto, la vacca, il vitello e soprattutto il toro, è stato accolto a simbolo del Salvatore immolatosi per noi sul Golgota: Vittima Redentrice che assicurerà con 1’effusione del suo sangue la riconciliazione fra 1’uomo e Dio.

Il toro alato (Cattedrale di Bitonto, fiancata meridionale)

Con questo linguaggio concettuale il toro sarà interpretato dagli scrittori medievali, da Rabano Mauro a Brunone d’Asti ad Ivo di Chartres. Per i Padri della Chiesa, la bestia non è solo il capo del gregge, è anche sposo e padre che procura la gioia, 1’amore e, attraverso 1’amore, la vita, assicurando cosi la perpetuazione della specie e la moltiplicazione del gregge: allo stesso modo con cui Cristo dona la vita nella Chiesa e fa crescere il numero dei fedeli e degli eletti. Anche in questa immagine, la trasposizione simbolica del toro fecondante dell’antico Egitto si innesta senza traumi nella teologia cristiana, e lo trasforma nel Tetramorfo in uno dei quattro misteri della salvezza. Questa trasformazione, adattamento, trasposizione di antiche simbologie animali, trovò nei dogmi cristiani saldi punti di raccordo e di contatto, che furono largamente favoriti dalla Chiesa primitiva per combattere e sconfiggere larghe sacche di paganesimo in Oriente e in Occidente.

Gli adattamenti contribuirono in maniera notevole a soddisfare 1’ardente sete che il Cristianesimo ebbe nel voler riconoscere il Cristo nella simbologia animale di origine pagana. Il trionfo, in una dimensione tutta cristiana di antiche teogonie, fu assicurato dai Padri della Chiesa che, nutriti di cultura classica, vissuti in tempi non lontani dal mondo pagano, taluni ancora immersi in un clima di paganesimo imperante, seppero muoversi a loro agio su un terreno impervio, appianato poi dalle analogie scaturite dalla fecondità del loro pensiero.

Già nel II secolo Tertulliano scriveva del toro: «Che cosa è questo animale dalla possente forza. Questo mostro favoloso. Questo toro misterioso è Gesù Cristo, giudice terribile per taluni, redentore pieno di mansuetudine per gli altri». Per Rabano Mauro il toro significava 1’indignazione di Cristo per i peccati del mondo e la potenza della sua collera. Trasferito in un circuito simbolico tutto cristiano, 1’animale subisce delle metamorfosi che, a seconda dei casi, o secondo il modo con cui viene rappresentato, diviene il simbolo di Cristo o di Satana per cui e possibile trovare la stessa figura nel Bestiario dell’uno o dell’altro. Il toro, ad esempio, messo in relazione con scene apocalittiche, è rappresentato in alcune miniature medievali sotto le forme di Satana con ibridi tratti zoomorfi: testa di leone, corna di toro, ali di pipistrello e petto di aquila, o con testa di gallo, una variante del basilisco.

Page 33: Bestiario Cattedrale

Da leggere:

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Milano 1975.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (dal volume è tratta l'ultima immagine di questa pagina).

L'elefante

L'elefante nel Bestiario manoscritto Bodley 764 (metà del XIII sec.)

Nella fantastica geografia faunistica de1 portale centrale della cattedrale bitontina è evidenziata 1'intenzione dell'anonimo artista o del committente o di tutti e due, di far uso nella scultura, di una fauna messa in relazione diretta con testi coevi o antecedenti, con Bestiari, dove gli animali reali o fantastici, familiari od esotici, si mescolano e si intrecciano in un'orgia fantasmagorica in cui riesce difficile cogliere o delimitare i confini del peccato e quelli della virtù.

Page 34: Bestiario Cattedrale

Se riesce difficile per il visitatore moderno cogliere in quelle strane e meno strane fattezze nessi e corrispondenze, per 1'ideologia dominante del secolo XII, la scelta dello spazio - la facciata principale - condensa il fascino e la potenza dei temi didascalici insiti in ogni figura, libro aperto alla coscienza dell'uomo di quel tempo. Non staremo qui a chiederci adesso perché Dio si sarebbe divertito a creare esseri tanto insoliti e se è vero poi che li avesse creati. Certamente, all'immaginario collettivo di quell'età, la rappresentazione scultorea di certi animali, come 1'elefante, poneva una serie di problemi, ma vi pensarono i mercanti e i crociati a dipanare i dubbi quando, di ritorno dalla Terrasanta, portarono notizie certe intorno a cammelli, scimmie, coccodrilli ed elefanti che arricchiscono il portale bitontino, la sedia vescovile nella cattedrale di Bari, quella di Canosa o la finestra absidale della stessa cattedrale barese.

L'elefante nel Bestiario del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto

Per quanto riguarda 1'elefante che era giunto in Europa già alla fine dell'VIII secolo (a parte la parentesi annibalica), non v'e dubbio che gli scultori lo abbiano iconograficamente rappresentato tenendo presenti dei modelli come tessuti, avori, miniature orientali ed anche testi che si sono prestati ad errori di interpretazione. Per Isidoro di Siviglia, ad esempio, gli elefanti sono dei buoi enormi senza giunture nelle ginocchia che dormono in piedi appoggiati ad un albero; alti di statura, il loro corpo poggia su zampe troppo magre le cui estremità hanno artigli di leone o zoccoli di bue. Le orecchie sono troppo piccole e la coda molto lunga. Ma 1'elefante delle nostre cattedrali, se non ha avuto solo un senso decorativo (non bisogna concludere che la fauna decorativa abbia avuto sempre un senso simbolico, di vedere in essa sempre e ovunque dei simboli, anche se con 1'elefante ci troviamo dinanzi ad un animale simbolo per eccellenza), quale simbologia ha voluto esprimere? Dovremmo dedurre senza forzature che 1'artista e il committente conoscessero il Fisiologo per sentito dire o forse per averlo letto in traduzione latina o in un manoscritto greco o copia di esso, dal momento che il Physiologus greco circolava in area pugliese già nel secolo XI.

In esso si legge che nell'elefante «non c'è brama di congiungimento carnale: quando vuol generare dei figli, si reca in oriente, vicino al paradiso. Ivi si trova un albero detto mandragora: vi vanno dunque la femmina e il maschio, e la femmina coglie per prima il frutto dell'albero, e ne porge anche al maschio e lo alletta, finché anche questi ne prenda, e dopo aver mangiato, il maschio si avvicina alla femmina e si congiunge con essa, ed essa subito concepisce nel ventre. Quando giunge l'epoca in cui deve partorire,

Page 35: Bestiario Cattedrale

se ne va in uno stagno d'acqua e vi entra finché l'acqua non le giunga fino alle mammelle, e poi in tal modo partorisce il suo figlio sull'acqua, e quest'ultimo sale sulle sue ginocchia e le succhia il seno. Mentre partorisce, l'elefante la protegge dal serpente, poiché il serpente è nemico dell'elefante, e quando l'elefante lo trova, lo calpesta e lo uccide... L'elefante e la sua femmina sono dunque immagini di Adamo ed Eva: quando erano nelle delizie del paradiso prima della trasgressione, non conoscevano l'unione carnale e non pensavano all'accoppiamento. Ma quando la donna ha mangiato il frutto dell'albero, cioè della spirituale mandragora, e ne ha dato all'uomo, allora Adamo ha conosciuto la donna, e ha generato Caino sopra le acque malefiche...».

L'elefante in un manoscritto dell'Historia Plantarum di Teofrasto

Dal momento che 1'elefante, cioè 1'uomo, è caduto e a nulla sono valsi gli sforzi dei dodici elefanti, cioè dei profeti, per sollevarlo, il Fisiologo conclude che solo con 1'arrivo dell'elefante spirituale, cioè Cristo, 1'uomo è stato sollevato da terra. L'elefante quindi simboleggia il Battesimo perché la femmina s'immerge nell'acqua per partorire e schiaccia il serpente, simbolo del male; è anche simbolo della castità perché, di temperamento frigido, non può generare se non dopo aver ingerito, come afrodisiaco, una radice di mandragora, simbolo della Temperanza e della Benignità. Il simbolismo dell'elefante varcò le soglie del Medioevo fino al secolo XVII, tanto da essere considerato "il più religioso di tutti gli animali". I dati naturalistici di cui si arricchisce tale simbologia, sono stati liberamente adattati secondo le necessità dell'interpretazione allegorica mutuata in modo particolare da Plinio secondo il quale 1'elefante adora il sole e le stelle, e quando nel cielo appare la luna nuova, va a lavarsi nello stagno più vicino, e dopo essersi purificato, sembra che invochi il soccorso del cielo.

Da leggere

Page 36: Bestiario Cattedrale

F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Milano 1975.

G. Cavallo, Manoscritti italo-greci e cultura benedettina (sec. X-XII), in L'esperienza monastica benedettina e la Puglia, a cura di C. D. Fonseca, I, Galatina 1983.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995.

L. Morini (a cura di), Bestiari, Torino 1997.

M. P. Ciccarese (a cura di), Animali simbolici alle origini del Bestiario cristiano, Bologna 2002.

L'unicorno

L'unicorno in un manoscritto del secolo XI del Physiologus

All'elefante può essere accostato 1'unicorno sia perché esprime nella simbologia cristiana medievale la castità, sia per le sue fattezze abnormi e mostruose: un incrocio fra cavallo, elefante, cervo e porco. Nato fra Cina e India o forse nell'Egitto ellenizzato del IV secolo da una leggenda, questo animale fantastico, descritto con i tratti della ferocia, diventa poi docile nella stagione dell'amore. Di esso parlano gli autori dell'antichità e viene minuziosamente descritto nei Bestiari medievali. Il Fisiologo dice di esso che è simile al capretto, ma ferocissimo; nessun cacciatore può avvicinarglisi a causa della sua forza straordinaria; ha un solo corno in mezzo alla fronte. Per cacciarlo, i cacciatori gli espongono davanti una vergine immacolata e 1'animale balza nel suo seno; dalla vergine viene allattato ed è da lei condotto al palazzo del re. «L'unicorno - recita il Fisiologo - è l'immagine del Salvatore: infatti "ha suscitato un corno nella casa di Davide padre nostro" (Luca, 1.69), ed è divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto aver dominio su di Lui gli angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre

Page 37: Bestiario Cattedrale

della vera e immacolata Vergine Maria, "e il Verbo si è fatto carne, e ha preso dimora fra di noi" (Giov., 1.14)».

L'unicorno, immagine dell'unico figlio di Dio, è il Cristo unicorno spirituale che s'incarna nel seno della Vergine Maria. Alla bestia è legata anche un'altra leggenda da cui trae origine un altro simbolo cristologico. La leggenda racconta che gli animali della foresta si riuniscono attorno ad una sorgente d'acqua avvelenata da un drago. Per bere, gli animali aspettano che 1'unicorno entri nell'acqua, faccia un segno di croce col suo corno e purifichi così 1'acqua. Il corno simboleggia la croce di Cristo. Come 1'unicorno salva gli animali purificando 1'acqua avvelenata, così il Cristo Redentore dona ai peccatori la salvezza eterna col suo sacrificio sulla croce.

Di probabile origine orientale, la leggenda dell'unicorno nata fra Cina e Persia tra i secoli del I millennio a.C. e 1'inizio del I millennio d.C., passò poi in Occidente forse attraverso uno scritto relativo all'India, composto fra V e IV secolo a.C. da Ctesia di Cnido, medico e viaggiatore greco. Se pur Ctesia non penetrò in Occidente, è anche vero che una folta letteratura di origine orientale, legata alle imprese di Alessandro Magno in India, vi penetrò, rivelandosi poi come la fonte primaria per 1'immaginario tardo-antico e medievale. Aristotele aveva escluso 1'esistenza di animali provvisti di corna che non avessero zoccoli forcuti.

Descrizioni poco chiare erano state date da Giulio Cesare, nel De Bello Gallico, in cui faceva riferimento ad un bos cervi figura. Plinio, pur conoscendo il rinoceronte, aveva parlato di «un bue con la testa di cervo». Giulio Solino, che conosceva il rinoceronte dal «color buxeus, in naribus cornu unicum et repandum, quod subinde attritum cauti bus in mucronem excitat, eoque adversus elephantos praeliatur», dà del monoceros pliniano questa descrizione: corpo di cavallo, testa di cervo dotata di un solo corno splendente, zampe di elefante, coda di maiale.

Il "monocero" nel Bestiario di Aberdeen

La fortuna dell'unicorno nel circuito simbolico cristiano fu dovuta non solo ad una confusione di dati zoologici, abbastanza esatti, solo se riferiti però al rinoceronte, ma anche al fatto che esso - ancora sulla base di alcuni malintesi linguistici - è presente nella Bibbia dove si parla di re'em, un animale difficile da identificare (per gli Ebrei indica il bufalo selvatico), messo in relazione etimologico-linguistica con il rim arabo (1'orice) o con il rimu assiro (il grande uro). Il termine re'em, nella versione biblica detta 'dei Settanta' fu resa con la parola monokeros; di qui 1'inserimento dell'unicorno fra gli animali della Bibbia, e la sua fortuna in età medievale da Tertulliano a Isidoro di Siviglia, da Ambrogio ad Onorio di Autun.

Page 38: Bestiario Cattedrale

L'unicorno nel Bestiario manoscritto Bodley 764 (metà del XIII sec.)

Il suo corno, inoltre, per il fatto che purifica le acque e allontana i veleni, fu ritenuto un eccezionale strumento taumaturgico, alle cui virtù ricorrevano principi e re per neutralizzare i veleni. «Le ricerche di laboratorio - scrive Cardini - intervengono, in questi casi, impietose a infrangere 1'incanto». Ci avvertono di trovarci di fronte al corno di un cetaceo della famiglia dei delfini detto monodon monoceros la cui polvere era contesa da opulenti signori a suon di oro e usata come controveleno. Contenti loro, più contenti gli apotecarii! I primi morivano ugualmente di veleno, gli altri continuavano ad arricchirsi gabbando.

Ulisse Aldovrandi, medico e naturalista tra i più quotati, vissuto a cavallo tra il '600 e il '700, nel suo De quadrupedis solidipedibus si occupò anche dell'unicorno, inventariando miti e credenze, leggende popolari e interpretazioni che il mondo cristiano aveva elaborato intorno ad esso; il tutto mutuato dall'inesauribile bagaglio di fenomeni legati all'Oriente. In Cina, per fare un esempio, la comparsa dell'unicorno significava la nascita di un saggio illuminato e venne elevato, secolo dopo secolo, al rango di animale di buon augurio, assieme al drago.

Da leggere:

F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Milano 1975.

F. Cardini, La leggenda dell'unicorno, in «Ulisse 2000», luglio 1989.

M. Restelli, Il ciclo dell'unicorno, Venezia 1992.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995.

Page 39: Bestiario Cattedrale

M. P. Ciccarese (a cura di), Animali simbolici alle origini del Bestiario cristiano, Bologna 2002.

Il caprone

Il sabba: il demonio è rappresentato come caprone.

E la mente smarrisce i suoi pensieri, li riordina e poi di nuovo sfuggono; li insegue fra il paradiso e l'inferno, fra il bene e il male, senza posa. Quando sta per arrendersi, si ferma, scruta i mostri e si impadronisce del sano insulto dell'artista che lì, sul portale della cattedrale, ha tentato di tracciare i confini del bene e del male, della dannazione e della salvezza.

Consapevole del suo ruolo, 1'artifex ha messo in guardia l'uomo della sua generazione e delle generazioni successive a non lasciarsi trascinare dal peccato nelle fauci spalancate del diavolo che, sotto forma di caprone, erutta i vizi dell'umanità. Come radice o vaso d'impurità, il caprone è raffigurato nella parte inferiore degli stipiti del portale centrale della cattedrale bitontina, con quelle fauci aperte in cui "si concentrano tutti i fantasmi terrificanti dell'animalità".

Legato al culto di Artemide (la Venere dei Latini, nei paesi di influenza ellenistica), il caprone prestò le sue zampe, i piedi e le corna e talvolta tutto il corpo al dio Pan, considerato come propagatore del potere procreativo universale; cavalcato da Afrodite e da Dioniso nell'antica mitologia ellenistica, veniva dato come ricompensa a quegli attori

Page 40: Bestiario Cattedrale

che si erano distinti sulle scene dei teatri greci in un genere di composizioni più considerate e apprezzate. Da qui il nome di tragados col quale si designavano generalmente gli attori, da dove poi il nome di tragodia, tragedia.

Sebbene nell'antico culto ebraico il caprone avesse assunto un ruolo positivo, come la vittima scelta per espiare i peccati del popolo d'Israele, tanto da essere poi messo in relazione con la profetica figura di Cristo Redentore, messo a morte per espiare i peccati del mondo, tuttavia, già nel primitivo cristianesimo, il suo ruolo assume connotazioni marcatamente demoniache.

Il caprone e la pantera: particolari dello stipite del portale centrale della Cattedrale di Bitonto.

In piccola età, quando ancora è capretto, la sua figura può ancora prestarsi ad interpretazioni simboliche legate al sacrificio; può ancora essere il capro espiatorio scelto nel culto di Mosé; ma da adulto, quando è assalito dai desideri della carne che gli danno una carica irrefrenabile e impetuosa, il caprone suda, spandendo un odore nauseabondo col quale insozza tutto ciò che lo circonda. È l'immagine dell'uomo che si abbandona ai vizi piú degradanti, che rendono appariscente la sua depravazione anche nei tratti esteriori tanto da rendere palpabile il vizio.

In tutta la demonologia medievale il caprone è Satana che si caratterizza con le corna e i piedi bifidi, è la figura della libido sessuale, un'immagine teriomorfa che incarna - secondo Origene - «lascivos et inquietos sensus».

Con elementi caprini Satana presiedeva - secondo una letteratura demonologica - alle turpitudini dei sabba e riceveva immondi omaggi. Fu anche con tratti caprini che Satana apparve a Rodolfo il Glabro «...mi apparve ai piedi del letto una figura di omiciattolo dall'aspetto tenebroso. Per quanto mi fu possibile distinguere, aveva modesta statura, collo esile, volto smunto, occhi nerissimi, fronte increspata da rughe, naso schiacciato, bocca sporgente, labbra gonfie, mento stretto e affilato, barba caprina, orecchie irsute e a punta, capelli ritti e scarmigliati, dentatura canina, cranio allungato, petto sporgente, dorso a gobba, natiche che si scuotevano, panni sudici; era affamato e con tutto il corpo in agitazione...».

Nell'arte, Satana, l'Angelo caduto, ha assunto anche la forma di un Angelo celeste ma con tratti ignominiosi: piedi caprini, orecchie di fauno e ali fatte di membrana come quelle del pipistrello.

Da leggere:

L. Réau, Iconographie de l'art chretien, I, Paris 1955.

Page 41: Bestiario Cattedrale

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christe, Milano 1980.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui è tratta la seconda immagine di questa pagina).

L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, Torino 1996.

La pantera

La pantera in un manoscritto medievale.

I1 pensiero che sembrava essere stato inghiottito dalla seduzione della depravazione e della turpitudine nelle fauci spalancate del padrone del mondo, riprende coscienza ed equilibrio nella ricchezza dell'allegoria della pantera che, amica della luce, sembra che sfugga, sullo stipite del portale della cattedrale bitontina, al morso del caprone, del padrone delle tenebre. La raffigurazione di questo animale sullo stipite del portale non indica chiaramente trattarsi di una pantera che zoologicamente - scrive Cardini - «è davvero un grosso enigma». Col suo nome infatti si intende un genere di mammiferi dell'ordine dei carnivori della famiglia dei felidi. Nel parlare comune, pantera è sinonimo di leopardo, ma potrebbe anche essere un ghepardo. Dal momento che gli zoologi medievali parlavano abitualmente di pardus come di una pantera maschio (credevano che il leopardo fosse il prodotto dell'accoppiamento del pardus con la leonessa), al quale avevano assegnato anche un linguaggio simbolico, noi seguiremo le tracce di questo linguaggio.

La pantera è una bestia che ha goduto di grandi simpatie presso i popoli piú antichi; le hanno attribuito qualità eccezionali legate alla sua pelle usata come parte dell'abbigliamento dei sacerdoti egizi, specie nei riti funebri. Il mantello screziato del nobile ghepardo serviva a dar veste a Seth, il dio del male e, messo sulle spalle dei sacerdoti, significava che il male era stato immolato. Da qui, la funzione catartica della pelle di leopardo non solo presso gli antichi egizi o nelle culture sciamaniche dell'Asia

Page 42: Bestiario Cattedrale

centrale, ma anche in quelle indie dell'America latina e nella tradizione azteca dove, in quest'ultima, assumeva il carattere di animale-guida di una confraternita guerriera.

Dello screziato mantello della pantera si servivano i sacerdoti e i faraoni egizi negli atti più solenni della loro vita sovrana e nelle cerimonie dei misteri. Le pelli che venivano sistemate dinanzi ad Osiride o dinanzi ad Anubis erano asportate alle pantere sacrificate come vittime perfette secondo certi riti che imponevano di vestire di pelle di pantera il dio Anubis, il dio dei morti. Usata nei riti funerari, la pelle ricopriva il letto di morte a significare la buona morte e la buona sepoltura, e in talune circostanze diventava il simbolo della forza e della resurrezione. È sintomatico considerare come, per l'uso che ne veniva fatto nei culti egiziani, i faraoni imponessero come tributo ai popoli soggetti l'invio di queste pelli che, per i loro sacerdoti, erano dotate anche di una carica magica oltre che spirituale.

Non solo i sacerdoti egiziani, ma anche quelli cretesi, in età micenea, si servivano come abbigliamento della pelle di pantera, così come sono stati raffigurati nel celebre sarcofago greco di Haghia Triada, e come gli dei egizi, anche quelli greci, Dioniso e Bacco, sono stati vestiti con queste pelli alle quali sono state attribuite virtù protettrici nel corso ordinario della vita umana.

La differenza sostanziale fra antiche credenze egizie e quelle greche consiste nel fatto che queste ultime avevano investito di sacralità non solo la pelle ma il corpo intero della pantera, considerata animale psicopompo, che guida e trasferisce le anime dei morti verso la sede degli dei.

Messa in rapporto con l'idea della luce in antiche culture mediterranee, considerata animale sacro, immagine siderale del sole, la pantera offriva alla simbologia cristiana una ricchezza di allegorie messe in rapporto con la luce e col suo volo psicopompo grazie al quale l'uomo si assicurava dopo la morte una seconda nascita.

Nonostante il nuovo ruolo in chiave cristiana, il Physiologus non aveva sfrondato la pantera da tutte le lodi esagerate e da quel mantello di favole da cui essa era stata coperta da tutta un'antica letteratura. In effetti, Aristotele, nel IV secolo a.C. fonda il topos, che acquisterà poi grande fortuna, della pantera dall'alito profumato col quale attirava la sua preda. Sulle orme di Aristotele anche Plinio, Eliano, Solino e altri autori scriveranno della pantera dall'alito odoroso e dall'attrazione irresistibile che esercitava sugli altri animali. Gli autori cristiani andarono oltre: affermarono che solo il drago e il serpente, al contrario, infastiditi dall'odore, fuggivano lontano. L'adattamento si rese necessario per un accostamento allegorico fra il Cristo e la pantera degli antichi.

I simbolisti cristiani videro nella pantera "il buon odore di Gesù Cristo" e la considerarono, alla stessa stregua dell'unicorno e dell'elefante, come uno dei tre casti animali, uno di quelli dotato del segreto di rendere nulli gli effetti dei veleni. In essa videro l'immagine di Cristo che, vissuto in mezzo agli uomini, in mezzo al peccato, non risentì della contagiosa corruzione.

La pantera, quando è sazia, dorme per tre giorni nella sua tana; al terzo giorno si risveglia e ruggisce. Dalla sua bocca diffonde un soffio odoroso: gli animali, attratti dai profumi, le si avvicinano. I1 simbolo cristico è evidente: i tre giorni sono quelli del sepolcro, il risveglio la resurrezione, il soffio profumato la dolcezza del Verbo, la pelle variopinta la Sapienza spirituale di Dio.

Page 43: Bestiario Cattedrale

La pantera in un manoscritto del secolo XI del Physiologus.

I1 Physiologus, nell'accostamento simbolico di Cristo alla pantera, fa riferimento alla pregnanza simbolica del numero 3. Tale accostamento diventa inquietante quando allude specificamente ad una antica tradizione riportata da Origene (Contra Celsum, I, 32-33) secondo la quale il vero padre di Cristo sarebbe stato un soldato romano di nome Pantera.

Anche la pantera, nella letteratura e nell'arte sacra è stata soggetta a mutazioni simboliche diametralmente opposte.

Nel Bestiaires d'amours di Richard de Fournival, l'alito profumato del felino è associato alla sua funzione di richiamo erotico. La sua immagine è sintesi allegorica del valore sensuale, una delle tre classi di concupiscenze in cui 1'ascetismo cristiano ha sintetizzato i cattivi istinti della nostra natura: «la concupiscenza degli occhi, quella della carne e l'orgoglio della vita».

E quella «lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta», che impedisce a Dante di ascendere al colle, è un felino come il leopardo o la pantera; è l'allegoria del peccato capace di bloccare i buoni propositi dell'uomo e di spingerlo al male. La lonza dantesca racchiude tutte le caratteristiche della seduzione: il mantello screziato, i movimenti aggraziati del suo corpo, il modo non aggressivo con cui ferma il poeta, insomma, quello che Cardini chiama «il triangolo funzionale caccia-inganno-eros», che viola le diverse norme della morale nella sregolatezza dei comportamenti.

Da leggere:

L. Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christe, Milano 1980.

F. Cardini, La pantera, in «Abstracta», 23 (1988).

Page 44: Bestiario Cattedrale

G. M. Pintus, Il Bestiario del diavolo. L'esegesi biblica nelle 'formulae spiritalis intelligentae' di Eucherio di Lione, in «Sandalion», 12-13 (1989-1990).

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995.

Il caradrio

Cattedrale di Bitonto, portale centrale: particolare dello stipite.

In bilico fra il bene e il male, fra gli allettamenti della carne e quelli dello spirito, la coscienza dell'uomo romanico si aggrappa disperatamente agli elastici fili della simbologia animale che la fertile immaginazione ha intriso di poteri straordinari consacrati dai Bestiari. Come la fenice e l'uccello del paradiso, il caradrio è un uccello reale trasformato in leggendario dall'immaginario medievale; a esso sono stati dati poteri straordinari capaci di guarire con i suoi escrementi gli occhi ammalati o la itterizia.

II Fisiologo dice di questo animale che è «un uccello tutto bianco, senza alcuna macchia, e i suoi escrementi curano gli occhi offuscati: lo si trova nelle corti dei re. Quando qualcuno è malato, si può sapere con l'aiuto del caradrio se il malato è destinato a vivere o a morire: lo portano infatti davanti al malato nel letto, e se la sua malattia è mortale, il caradrio distoglie lo sguardo dal malato e tutti riconoscono che è, destinato a morire; se invece la malattia tende alla guarigione, il caradrio fissa il malato, il caradrio assorbe la malattia, e la disperde, e cosí si salvano il caradrio e il malato. Conviene dunque applicare tutto ciò al Salvatore. Tutto bianco è infatti il Signore nostro, senza alcuna macchia...».

Nella sfera dello spirito fu così stabilito un parallelo fra l'uccello dallo sguardo salvifico e il Salvatore in croce, col viso rivolto verso il buon ladrone. Dotato della capacità di guarire le malattie col semplice sguardo come avevano asserito Aristotele ed Eliano, la speculazione medievale ha messo in relazione simbolica il caradrio con Cristo che guarisce le anime al capezzale dell'umanità ammalata.

Le qualità guaritrici del caradrio furono considerate anche con interesse "scientifico" nel corso del XIII secolo da Vincenzo di Beauvais e dagli autori degli ultimi Bestiari. Onorio di Autun, citando Eliano, si richiama al Fisiologo e adatta la leggenda sia nell'alveo della

Page 45: Bestiario Cattedrale

storia naturale sia in quello dei misteri divini. Conclude che il caradrio bianco è il Cristo nato dalla Vergine. Egli si è avvicinato all'ammalato quando il Padre suo l'ha mandato a salvare l'umanità. Poi è salito in cielo e ha portato la salvezza a tutta l'umanità.

Ci piace credere con una buona dose d'immaginazione - capaci però di riprenderla e dominarla - che quello strano uccello scolpito a basso rilievo sullo stipite del portale della cattedrale di Bitonto, sia proprio il caradrio - la cui simbologia fu nota in tutto l'occidente medievale - raffigurato con le fattezze di uno strano uccello, con testa umana coronata, con la coda che si prolunga in modo inquietante, simile a quella di un rettile: un richiamo, un avvertimento all'umanità ammalata, libera di scegliere fra la guarigione che l'uccello simboleggia o la dannazione richiamata invece dalla coda rettile.

Se soffermiamo per un momento lo sguardo e il pensiero sulla coda rettile del caradrio, il processo di ricaduta ha di nuovo inizio. Sappiamo che i rettili sono infidi e che tra le loro spire avvolgono i sette peccati capitali. E non v'è immagine più sconcertante di quel rettile dal regale nome a dare il senso dello smarrimento: il basilisco.

Da leggere:

Aristotele, Storia degli animali, a cura di P. Louis, vol. IV, Les Belles Letteres 1968.

F. Zambon, Il Fisiologo, Milano 1985.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui è tratta l'immagine di questa pagina).

Il basilisco

Page 46: Bestiario Cattedrale

Il basilisco: miniatura in un manoscritto medievale.

Sconosciuta nel regno degli animali striscianti, incrocio fra serpente e gallo, questa bestia partorita dalla spigliata fantasia letteraria e artistica incute piú paura di quelle reali, anche le più feroci. Il basilisco è 1'immagine del potere disastroso del male. Raffigurato in quello scultoreo ciclo di vita e di morte che è il portale bitontino, sembra lì pronto a dare la morte col solo suo sguardo dalla potenza infernale. Re dei serpenti, come il suo stesso nome richiama, il basilisco (da basileus) non ha del vero serpente che la coda; il resto del corpo è quello di un gallo, con piume, becco e cresta dentellata simile ad una corona. «Rex est serpentium basiliscus - afferma sant'Agostino - sicut diabolus rex est daemoniorum» (Enarr. in ps. 90 serm. 2, 9, in P.L. 37, col. 1168).

Il basilisco della Cirenaica era stato descritto da Plinio come un serpente di piccola taglia con una macchia bianca sulla testa a forma di diadema: il suo fiato fa perire i piccoli alberi, brucia le erbe e spacca le pietre. Plinio aggiunge inoltre che se un cavaliere colpisce la bestia con la punta della lancia, muoiono cavallo e cavaliere a causa del veleno che percorre l'asta dal punto di contatto fin verso l'alto, verso 1’impugnatura.

Sin dai tempi di Davide, presso i popoli pagani del bacino del Mediterraneo orientale, il basilisco non ha goduto di buona reputazione. Secondo alcune leggende greche e romane riportate da Plinio, anche i serpenti fuggono dinanzi al basilisco capace di ucciderli col suo solo fiato o col solo suo sguardo. Brunetto Latini ripete, seguendo Plinio, che questo rettile uccide col potente e velenoso sguardo uomini e bestie.

Nato da un uovo covato da un rospo, il basilisco è stato reso iconograficamente più raccapricciante dall'artista medievale per sottolineare la fraudolenta perversità del suo sguardo; lo ha raffigurato con gli organi visuali situati sulla coda, che talvolta assume la forma di testa di serpente. Così, dotato di doppi organi visivi, l'ambigua bestia è capace di dare la morte davanti e da dietro. Trasfigurazione del cristiano pervertito e depravato, sordo ad ogni voce che lo sollevi dal fondo del suo sudiciume, il basilisco non è una figura molto nota nell'arte delle cattedrali romaniche pugliesi, tuttalpiù si confonde con gli altri rettili senza particolari caratteristiche e difficilmente individuabile. Chiaramente identificabile è invece nel portale bitontino, cosí come nelle grandi cattedrali francesi: da

Page 47: Bestiario Cattedrale

Amiens a Sens a Poitiers, a Vezelay.

Cattedrale di Bitonto, portale centrale, particolare dello stipite: il basilisco fra mostro e sirena.

A sottolineare ancora la sua potenza malefica, l'anonimo scultore bitontino ha fornito al rettile un paio di ali membranose a significare il satanico rapporto col principe delle tenebre. Immagine di Satana, il basilisco incarna la lussuria: da qui la comune opinione che la sifilide, che cominciò a flagellare la popolazione europea dalla fine del XV secolo, fosse attribuita al veleno di questo rettile il cui tema trionfa ancora su un capitello della prima colonna della navata sinistra della cattedrale di Bitonto. È il capitello della tentazione diabolica sul quale il basilisco è raffigurato in posizione di movimento, con le ali spiegate, la coda strisciante, la cresta alzata, lo sguardo fisso e il becco semiaperto, pronto a soffiare sulla preda il suo fiato mortale.

Sin dai tempi di David, il basilisco aveva avuto come soci in sporchi e infernali affari l'aspide, il drago e il leone: «super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem», dice il salmo.

Da leggere:

E. Mâle, L’art réligiéux du XII siècle en France, Paris 1947.

L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, I, Paris 1955.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto, pref. di F. Cardini, ed. Schena, Fasano 1995 (da cui è tratta la seconda immagine di questa pagina).

L'aspide

Page 48: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, portale centrale, particolare dello stipite: aspide con testa coronata e ali membranose.

L'aspide è un piccolo drago che, nella rappresentazione scultorea del portale bitontino, abbiamo creduto di identificare in quel bizzarro rettile con la testa coronata. La sua conformazione, come quella di tutti i rettili, è variabile. Pur appartenendo al regno degli animali striscianti, esso è talvolta quadrupede, talvolta bipede, talvolta apodo. L'aspide del portale è bipede ed alato, con una coda a doppio giro, dai denti lunghi e serrati in uno spasimo infinito.

Di questo rettile si racconta che è molto sensibile alla musica: per sfuggire ai suoi irresistibili allettamenti si rende prudentemente sordo col piazzare un orecchio a terra e col bucarsi l'altro con la punta della coda. Onorio di Autun avverte che l'unico mezzo per catturare l’aspide è il canto, verso il quale tuttavia l'animale è molto guardingo al punto tale da rendersi sordo per evitare i magici incanti che tendono a togliergli la corona.

I teologi medievali hanno visto nell'aspide il peccatore che tappa le sue orecchie alle parole della vita; è 1'immagine di colui che rifiuta di praticare e ascoltare la parola di Dio. Questo rettile non è altro che una varietà del drago al quale antiche culture orientali hanno dato le ali con le quali ha volato nell'occidente medievale. Sotto questa forma il serpente si presentò ad Eva prima della colpa che gli fece perdere le ali. Da qui, il famoso verso biblico: «Tu striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere per tutti i giorni della tua vita» (Gen. II, 14). Con questo testo dei Genesi si spiegava nel Medioevo la perdita delle ali e delle zampe, che trasformava il drago in serpente: variazioni molto antiche, rintracciabili sia nella tradizione ebraica sia in quella greca.

Da leggere:

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘Bestiari fantastici’ delle cattedrali. La cattedrale di Bitonto

Il delfino

Page 49: Bestiario Cattedrale

Il delfino nella Historia Animalia di Konrad Gesner (1604, seconda edizione).

Se la Sirena, Scilla, Tritone e le "belve di mare" del Liber monstrorum sono nemiche del navigante e se Alessandro Neckam e Tommaso di Cantimpré sottolineano la natura feroce e vorace delle altre creature marine, solo il delfino - essi affermano - è tra esse l'unico che ama l'uomo, ne riconosce la voce, non lo attacca e anzi lo aiuta se è in pericolo; salvo tuttavia il caso in cui la persona in pericolo abbia mangiato carne di delfino, cosa questa di cui l'animale, non si sa come, s'accorgerebbe immediatamente.

Aristotele, Eliano, Solino e Plinio sono le fonti classiche piú autorevoli che ci parlano del delfino, delle sue metamorfosi divine, di metamorfosi umano-ferine, di miti e di salvataggi. Accanto a questi miti che ci fanno scorgere fondazioni di città marittime, porti, santuari legati alla salvezza delle acque in tempesta, rimbalzano anche notizie sugli aspetti e i caratteri del delfino. Plinio, in particolare, pone correttamente il problema della loro natura di mammiferi e del loro modo di respirare. Ed è ancora Plinio a rilevare la loro caratteristica di emettere suoni simili a quelli della voce umana e che essi amano essere chiamati Simon: nome con il quale greci e latini li chiamavano per il loro profilo camuso (simòs in greco e simus in latino significano «camuso»). Seguiamo un po' Plinio: «Il delfino è il più veloce di tutti gli animali, non solo dei marini; egli vince di velocità l'uccello e la saetta... I delfini, contro la natura degli altri animali d'acqua hanno la lingua mobile, corta e larga, poco differente da quella del porco. In cambio della voce hanno un gemito simile a quello dell'uomo, la schiena arcuata, il muso schiacciato, che in latino si dice simo e perciò tutti meravigliosamente conoscono questo nome Simone ed hanno caro d'essere così chiamati. Sono i delfini non solo amici dell'uomo, ma anche della musica e soprattutto si dilettano del suono degli organi…».

Nel XII secolo, il Bestiario di Cambridge sintetizzava così le conoscenze acquisite dagli autori dell'antichità classica:

«Delfini sono chiamati quei pesci che hanno l'abitudine di seguire la voce umana, o anche la musica, raccolti in gruppi. Niente vi è in mare più veloce dei delfini. Oltrepassano le navi con grandi salti, ed è tradizione comune ritenere nunzi di tempesta i delfini che giocano fra i flutti e si oppongono alla potenza delle onde con grandi balzi. Sono anche chiamati symones».

Page 50: Bestiario Cattedrale

Il delfino gioca con un uomo; in alto un pesce fantastico (da una stampa del XV-XVI secolo).

Il delfino presso i Greci era legato al culto di Apollo e aveva dato il suo nome a Delfi. Formalmente riconosciuta la provenienza iperborea di tale culto, la rappresentazione precristiana del mammifero si è sviluppata sulle rive del bacino nord-orientale del Mediterraneo e su quelle del Mar Nero, in Grecia e in Italia. I naviganti di questi paesi lo considerarono un animale di buon augurio, un compagno di rotta simpatico, dotato di tutti i doni dell'intelligenza e del cuore. «E d'altronde - scrive Franco Cardini - proprio una delle conquiste scientifiche dell'etologia e della zoologia moderne - la grande intelligenza del delfino e soprattutto la qualità di essa, la più simile forse a quella umana nell'intero mondo animale - induce per non dire obbliga a rivisitare gli antichi miti e a chiedere addirittura quanto in essi vi sia di simbolico, di metaforico, di fantastico, e quanto invece di verità fattuale». Dopo questa rivisitazione, ci accorgeremo di avere a che fare con uno dei grandi animali simbolici come l'aquila, il leone, l'elefante, l'orso, il lupo o la pantera.

Dalle culture minoica e greca arcaica ci vengono le prime e più belle raffigurazioni iconiche del delfino la cui stessa silhouette piegata ad arco, quei colori cerulei, le pinne taglienti e il simpatico muso atteggiato ad una sorta di eterno, dolce e feroce sorriso, non ci fanno intravedere quanto ci sia in essi di reale e quanto d'immaginario.

Gli stessi autori dell'antichità classica ci hanno pensato a confonderci le idee. Aristotele assicura che la velocità del delfino è inimmaginabile e che è capace di portare in salvo grossi navigli; Plinio scrive che dalla riva sorveglia con amore i bagnanti «onde evitare che siano travolti dai flutti». Nonostante l'antica tradizione letteraria in cui il reale e l'immaginario si confondono, questa solidarietà, questa simpatia ricambiata, questa antica affinità uomo-delfino, ritrascritte dal mito greco e rivisitate niente meno che da san Francesco di Sales, non hanno perduto la loro perenne attualità e continuano a deliziare generazioni di fanciulli e anche di adulti sia attraverso i cartoons sia attraverso "Quark" e Piero Angela. «Attraverso i mass media che rigurgitano di elogi all'intelligenza e alla bontà dei cetacei, si è scoperto che neppure l'orca è davvero "assassina"».

Page 51: Bestiario Cattedrale

Si dice che gli antichi consideravano un crimine contro le leggi dell'amicizia trattenere nelle reti i delfini che vi capitavano e questo amore, questo rispetto dell'uomo verso il cetaceo, spiegano le molteplici rappresentazioni pagane che troviamo su monumenti ed oggetti d'arte. Numerose furono in Grecia le città le cui monete portavano incise la figura del delfino: Argo, Sagunto, Messina, Catania, Taranto. Sulle monete tarantine è raffigurato Taras, il mitico fondatore della città, anch'egli giunto dal mare sul dorso di un delfino: un tema che diverrà familiare all'iconografia.

Ma il cetaceo non esauriva il suo mito nelle caratteristiche della socievolezza; attorno a lui si coagulò anche il complesso mitico-simbolico della psicacogia. Il suo portare in salvo gli uomini su lidi sicuri poteva essere preso a simbolo del passaggio dalla vita, alla vita dopo la morte: il delfino diveniva così animale psicopompo come l'aquila e come il grifone. Divenne pertanto naturale e comprensibile che esso, proprio in virtù di queste caratteristiche, venisse accolto nella simbolica e nella iconografia cristiana anche se fino alla fine del II secolo e agli inizi del III secolo non vi occupò un posto di privilegio, in quanto svolse fino ad allora il ruolo generico del pesce, animale, com'è noto, simbolo del Cristo e della salvezza. Fin dalle catacombe, l'iconografia cristiana aveva fatto ricorso al delfino sia per rappresentare l'anima del cristiano che giunge nel porto della salvezza attraverso le acque marine dell'esistenza, sia per raffigurare il Cristo stesso. L'ancora e il tridente potevano prendere in questo contesto il ruolo della croce.

Con tutto il suo patrimonio di mitologia greco-romana, il delfino entra nella simbolica cristiana dalla porta principale per trasformarsi in Cristo, così come Nettuno si era trasformato in delfino per portare via la ninfa Melanto, o come Apollo, sotto quelle sembianze, balzò un giorno su una nave di mercanti cretesi diretti a Pilo e la dirottò verso il porto di Crisa, luogo su cui sarebbe sorto piú tardi il santuario di Delfi.

Anche nell'agiografia il cetaceo occupa un posto importante. Due delfini portano a riva san Callistrato, che Diocleziano aveva fatto gettare in mare; il corpo di Luciano d'Antiochia è trasportato da un altro delfino; san Martiniano fugge cavalcando un delfino le tentazioni della lussuria. Personaggi a cavallo di un delfino si trovano anche nel pavimento a mosaico della cattedrale di Otranto.

La sua fedeltà all'amicizia fino alla morte di cui parla Plinio citando Teofrasto e ricordando fatti narrati anche da Erodoto, Pausania, Eliano, Cicerone e Ovidio, spiega come il cetaceo, che presso i Greci è talora compagno di Afrodite - cosa del resto agevole a spiegarsi, data l'origine marina di quest'ultima - sia preso anche a simbolo della fedeltà coniugale. Plinio riferisce di un delfino che, ai tempi di Augusto Imperatore, entrò nel lago Lucrino dove un fanciullo, che andava a scuola da Baia a Pozzuoli, lo vide e cominciò a chiamarlo e ad allettarlo con pezzi di pane.

Page 52: Bestiario Cattedrale

Giovanni Della Robbia, Putto su delfino (1520-1525 circa).

Nacque così la grande amicizia. Il fanciullo montava sul delfino che lo portava a scuola da Baia a Pozzuoli e poi a casa. Ma il fanciullo, dopo un po' di anni, si ammalò e morì. Poco dopo, anche il delfino morì di dolore per l'amico perduto. E Plinio prosegue con altri fatti che egli dà per certi, come quello, ad esempio, di delfini che, nel territorio di Nimes in Provenza, accorrono alla voce di pescatori di muggini perché li aiutino nella pesca:

«I delfini subito soddisfano i loro desideri, quando regna il vento di tramontana che porta loro la voce; quando tira Ostro, odono piú tardi. Ma pur sono in tempo e anche allora vanno in aiuto. Stretti in schiera da alto mare spingono addosso ai pesci e li cacciano in alto mare. Allora i pescatori li circondano con le reti, con le forche le sollevano...».

Per i Padri della Chiesa fu quindi naturale la trasposizione del delfino nella simbolica cristiana. I mistici cristiani lo salutarono nell'immagine che soccorre i naufraghi perduti nell'ombra della notte; fu l'immagine stessa di Cristo Salvatore che viene in soccorso dell'anima, soprattutto nell'ora tenebrosa della morte: del trionfo di Cristo su Satana che gli contende l'anima del moribondo. Una testimonianza singolare della lotta fra Cristo e Satana è stata raffigurata su un anello pastorale del vescovo Ademaro d'Angouleme che resse l'episcopato di quella sede dal 1070 al 1101. Sull'anello, forse del III secolo d.C., è incisa l'immagine del delfino attorcigliato al tridente: figura emblematica di Cristo sulla croce. Fra i suoi denti maciulla la testa della piovra i cui tentacoli battono l'acqua. L'incisione rappresenta in chiave simbolica la vittoria di Cristo sul male, su Satana. Vicino al delfino nuota un piccolo pesce che richiama alla memoria un passo di Tertulliano, che chiama i fedeli «piccoli pesci rispetto al grande Pesce»: Gesú Cristo.

Page 53: Bestiario Cattedrale

Da leggere:

Charbonneau–Lassay, Le Bestiaire du Christ, Milano 1980.

H. Zug Tucci, Il mondo medievale dei pesci tra realtà e immaginazione, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, Spoleto 1985.

F. Cardini, Il delfino, in «Abstracta», 21 (1987).

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996.

La balena

La balena nel Bestiario di Guillaume le Clerc, XIII secolo (ms. 14969, Bibl. Nat. Paris).

Se chiara ed intensa è la simbologia cristica del pesce fin dai Padri della Chiesa; se la sua allegoria moralizzante ed edificante non presenta difficoltà d'interpretazione, meno chiari sono invece i testi che fanno riferimento al pesce come cibo per gli uomini, soprattutto se si riferiscono a pesci di grossa taglia come il delfino e la balena che, parentia e spirantia - cioè mammiferi e provvisti di polmone - erano considerati cibo "opulento" ed incerto nella classificazione del pasto quaresimale.

Page 54: Bestiario Cattedrale

Poco univoco fu l'atteggiamento degli ordini monastici sulla liceità o meno di mangiare "pesce grasso" in tempo di Quaresima, in quanto cibo troppo simile alla carne, e ancora meno lo fu nella chiesa altomedievale.

Una discriminazione fra pesci leciti ed illeciti, fatta da Gregorio Magno, che riteneva inutile privarsi della carne di animali terrestri per rimpiazzarla con la polpa sanguinolenta di pesci di grosse dimensioni, fu ribadita tre secoli più tardi dal concilio di Tribur (895): la carne dei grossi mammiferi non poteva rientrare nel cibo quaresimale. Successivamente, con la credenza che il pesce di qualunque taglia traeva vita dall'acqua e quindi non illecito, la Chiesa cedette ad una più discreta liberalità del suo consumo, anche in virtù del fatto che la carne di pesce era meno pericolosa per l'eccitazione delle passioni e non soggetta a contaminazioni seminali. Se poi consideriamo che nel corso del secolo XI la carne di balena, secondo Hildegard di Bingen, era considerata rimedio contro la follia; il suo cuore contro gli svenimenti; il polmone, bollito in acqua, contro la febbre; il fegato, bruciato sui carboni ardenti, contro gli spiriti, la illeicità del suo consumo trovava ben pochi spazi.

L'azione terapeutica che producono gli organi della balena sono in sintonia con la simbologia positiva attribuita al cetaceo da Hildegard di Bingen, al contrario del Physiologus che lo identificava con il diavolo. La balena è anzi la sua avversaria per eccellenza. Così recita il Physiologus:

«C'è un mostro nel mare detto balena: ha due nature. La sua prima natura è questa: quando ha fame, apre la bocca, e dalla sua bocca esce ogni profumo di aromi, e lo sentono i pesci piccoli e accorrono a sciami nella sua bocca, ed esso li inghiotte; non mi risulta invece che i pesci grandi e adulti si avvicinino al mostro. Così anche il demonio e gli eretici, con la seduzione e l'inganno, che sembra essere un soave profumo, adescano i piccoli e coloro che non hanno il senno adulto; quelli invece che hanno l'intelletto adulto, sanno di non poterli attrarre... L'altra natura del mostro: esso è di proporzioni enormi, simile a un'isola; ignorandolo, i naviganti legano ad esso le loro navi, come in un'isola, e vi piantano le ancore e gli arpioni; quindi vi fanno fuoco sopra per cuocersi qualcosa: ma non appena esso sente caldo, s'immerge negli abissi marini e vi trascina le navi. Se dunque anche tu, o uomo, ti tieni sospeso alla speranza del demonio, questi ti trascina con sé nella geenna del fuoco».

La trasposizione dalla letteratura all'iconografia della balena affamata e dalla bocca aperta è di facile individuazione soprattutto nei doccioni delle cattedrali.

La prima "natura" della balena è accostata quasi con le stesse parole a quella della pantera, che nei Bestiari la precede immediatamente, ma con un simbolismo rovesciato; positivo nel Physiologus quello della pantera, totalmente negativo quello della balena in cui vi traspare l'allegoria degli increduli che si lasciano trascinare all'inferno ignorando gli inganni del demonio. È un motivo ricorrente, espresso da sant'Ambrogio come anche nella leggenda di san Brendano.

Di duplice natura, la balena acquista caratteristiche piú complesse nel mito di Giona. Per Bartolomeo Anglico è un mostro benefico che protegge i piccoli minacciati dalla tempesta o li libera se arenati, sputando acqua sopra di loro.

Page 55: Bestiario Cattedrale

La balena in un'incisione del XVI secolo.

Sballottata fra simbologie contrastanti dal Physiologus e dai Bestiari, talvolta sembra che alla balena sia stata negata anche una collocazione certa nella iconografia se talune rappresentazioni la raffigurano persino con due zampe e finanche in Islanda dove è familiare.

Piú reali invece sono le balene di Alberto Magno che ne distingue due sottospecie: una che «habet os ad sugendum sicut murena (et hoc habet carnem meliorem)» e l'altra che «habet dentes magnos ad masticandum (et non habet carnem minus bonam)», la prima vegetariana, l'altra carnivora.

Pur in questa distinzione, che farebbe ridere gli ittiologi moderni, è evidente in Alberto Magno una originalità di studio ed osservazione dell'ittiofauna come di tutto il mondo animale; e le descrizioni anatomiche raggiungono un buon livello specie se riferite all'ittiofauna dell'Occidente cristiano effettivamente osservabile.

È evidente che la scienza del tempo di Alberto Magno è superiore in qualità e quantità a quella dei secoli XI e XII. Egli eccelle soprattutto nella trattazione degli animali, delle piante e dei minerali, ed è pronto a contrastare anche i principii dei filosofi, le concezioni di autori cristiani: quelli dei secoli immediatamente precedenti al suo, come Hildegard di Bingen, che assegnava ai pesci un posto di tutto rispetto nella simbologia religiosa. La visione di Hildegard, nella trattazione della balena, era infatti ancorata al Physiologus e ai vari Bestiari. Conosciuta sotto il nome di cete, questa specie marina che incontriamo nel Genesi, assume le sembianze di un mostro di vaste proporzioni con l'appellativo di aspidochelone.

Se le acquisizioni dei secoli XII e XIII sul mondo dei pesci e sulla loro anatomia erano limitate; se le risposte ai problemi etologici della specie erano improntate su elementi di pura fantasia ed immaginazione non poggianti nemmeno sulle Scritture, quasi prive di una chiave di conoscenza del regno dei pesci, questo regno rimaneva e rimane ancora chiuso dal suo elemento, il mare, alla sua compiuta conoscenza. Nonostante gli sforzi della scienza e dell'intelligenza a penetrare il mare e nonostante i progressi nella conoscenza del suo habitat, resta pur sempre spaventoso il suo infinito.

«Nel mare e solo nel mare - scrive U. Galimberti -, non dietro la siepe dell'ermo colle, appare quanto è spaventoso l'infinito, e con l'infinito quanto è spaventosa la libertà sognata prima che l'ultima catena ci sciogliesse dalla terra, ora che non esiste più terra

Page 56: Bestiario Cattedrale

alcuna, ma solo il più assetato degli elementi, il più affamato, il più pauroso, il più misterioso, il mare. Allontanandolo dal proprio cuore, perché metafora dell'instabile e dell'inquietante, gli uomini delle stabilità plurali, gli occidentali, hanno fatto del mare la pozzanghera della terra dividendo le onde in acque territoriali per delimitare anche sull'instabile le loro proprietà, cioè i segni delle loro divisioni, l'odio cieco dei loro cuori esangui, e per questo cattivi. E così il mare ha smesso di offrire terre sconosciute al navigante che incoraggiava il suo cuore, perché il compito che gli uomini gli hanno assegnato è quello di delimitare terre nemiche. Ulisse non avrebbe mai sospettato che la forza del mare "immensa nei suoi flutti" potesse essere superata dalla violenza dei cuori invincibili negli odi».

Da leggere:

M. A. Grignani, Navigatio Sancti Brendani, Milano 1975.

A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, Milano 1984.

R. Delort, La balena: realtà e mito nel Medioevo, in L. Battaglia (a cura di), Lo specchio oscuro. Gli animali nell’immaginario degli uomini, Torino 1993.

L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, Torino 1996.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui è tratta la prima immagine di questa pagina).

F. Maspero - A. Granata, Bestiario medievale, Casale Monferrato 1999.

F. Zambon, L’alfabeto simbolico degli animali, Milano-Trento 2001.

M. P. Ciccarese (a cura di), Animali simbolici, Bologna 2002 .

Il gallo

Page 57: Bestiario Cattedrale

Cripta della Cattedrale di Bitonto: il gallo (particolare del capitello).

Anche il gallo, benché in minor grado dell'aquila, dell'allodola o della colomba, è disanimalizzato: ciò spiega la facilità con cui questo animale sia stato allegorizzato e utilizzato in araldica.

Iconograficamente rappresentato sin dal VI secolo a.C. su monete e ceramiche greche, costituiva anche motivo di decorazione nell'arte protostorica di antiche civiltà: babilonese, indiana e dell'estremo Oriente.

Simbolo di ciò che è buono e di gran pregio, il gallo bianco fu consacrato dai Greci e poi dai Latini a Zeus-Jupiter e ad Helios-Apollo. La sua voce che profetizza il giorno è l'esplosione mattutina della vita sul mondo ancora avvolto nelle tenebre: primo grido di guerra all'inerzia.

Simbolo naturale della vigilanza, fu legato anche al culto di Hermes-Mercurio, dio del commercio dal quale gli antichi saggi presso i Caldei credevano che il gallo ricevesse all'alba, dal pianeta Mercurio, un influsso divino. Consacrato ad Esculapio, dio della medicina nel tempio di Epidauro, gli antichi gli attribuivano un potere benefico sugli influssi maligni. Uccello della luce e della vita, caro ad Esculapio, il gallo si oppone simbolicamente al serpente, rettile subdolo e muto che porta con sé il veleno mortale nella funerea notte della terra. I ruoli simbolici dei due animali diventano a questo punto più chiari: l'uno è il simbolo della malattia che conduce alla morte, l'altro della guarigione che conserva la vita. Per questo i Greci fecero del gallo il simbolo del coraggio militare dopo la battaglia di Temistocle contro i Persiani e istituirono una festa durante la quale facevano combattere l'un contro l'altro i galli.

Nell'Europa pagana al gallo bianco fu riservato il triste onore di essere sacrificato all'aruspicina perché dal segreto delle sue viscere si potessero conoscere le intenzioni divine e i pronostici fausti e infausti.

Emblema solare presso popolazioni dell'antica Asia, nelle regioni dell'estremo Oriente il pennuto animale ha subìto un processo di assimilazione simbolica dovuto al suo accostamento alla fenice, uccello altrettanto sacro. Ancora oggi in Cina il gallo è considerato come portafortuna perché il suo nome, Ki, significa fortuna, buona sorte.

Per tutto il primo millennio cristiano ha conservato il carattere d'uccello della luce: qualità ereditata da tempi e da popolazioni antecedenti il millennio. Per questo divenne

Page 58: Bestiario Cattedrale

anche il simbolo dei predicatori che proclamano la luce della vita eterna nelle tenebre della vita sulla terra. Gli antichi Egiziani avevano modellato a forma di gallo le lampade di terracotta o di bronzo. La stessa forma avevano dato alle lampade i fonditori greci e romani e, nei primi secoli dell'era cristiana, accanto al gallo, su questi oggetti compariva la croce a significare il Salvatore. Un'ampolla di terracotta dei primi secoli cristiani, porta l'immagine della Vergine Maria che presenta suo figlio appena nato ad un personaggio che le sta dinanzi. Su di essi, un gallo canta e batte le ali; un altro è situato dinanzi ai loro piedi a simboleggiare l'arrivo del sole-Gesù che caccia via la notte.

Sin dall'antichità precristiana alla voce del gallo è stato riconosciuto il potere di allontanare l'infausta potenza delle tenebre e, in tempi cristiani, alcuni hanno creduto che il suo canto mettesse in fuga i demoni della notte e le potenze dell'inferno. Ancora oggi in Cina si crede che i cattivi spiriti spariscano al suo canto mattutino e la sua virtú protettrice è celebrata dall'Oriente all'Occidente dagli antichi poeti latini come da quelli arabi dei nostri tempi. Allo stesso suo canto mattutino, al Gallicinium, era legato l'esercizio della vita monastica. Nel V secolo i monaci egiziani non conoscevano che due tempi dedicati alla preghiera in comune: il Gallicinium al mattino e il Lucernarium alla sera; "1'ora del gallo" e "1'ora della lampada", l'ora della luce e l'ora delle tenebre. La rinascita del giorno che sconfigge la morte della notte che stende sulla terra l'ombra e il silenzio veniva interpretata come la Resurrezione del Signore. In questo trapasso dalle tenebre alla luce il canto mattutino del gallo non era che la voce di Cristo giudice che alla fine dei tem pi darà il segnale della resurrezione dei morti.

Un ricco corredo di mitologia e di cultura pagana aveva permesso al gallo di andar fiero del proprio ruolo fino all'estremo sacrificio (di cui volentieri avrebbe fatto a meno) di farsi torcere il collo per la gloria di Atene o di Roma. Il Medioevo cristiano, pur riconoscendogli indubbi meriti e funzioni in linea col proprio sistema religioso, lo aveva però privato di certi privilegi, primo fra tutti quello di instancabile amatore. La cultura pagana aveva creato un rapporto di complicità fra il gallo, Zeus e Vulcano - noti nella mitologia come gli dei più capaci nell'arte della seduzione e del piacere -, conferendo all'animale, in un processo di identificazione con gli dei, i requisiti di potenza virile e procreatrice.

Fu di conseguenza naturale che tale identificazione trasferì, per così dire, le naturali e positive qualità riproduttive del gallo in una sfera simbolica dal precipuo carattere lascivo. Ne troviamo la prova in certe oscene raffigurazioni dell'arte antica a Delo come nella Roma pagana. II Medioevo poi aveva trasformato il gallo non solo in un animale capriccioso e litigioso, simbolo della collera a causa dei suoi continui combattimenti con altri giovani e meno giovani galli, ma lo aveva inserito anche nel mostruoso serraglio. Metamorfosi del basilisco, lo troviamo raffigurato in scultura su un capitello della cripta della cattedrale di Bitonto. Metà gallo e metà leone, ali spiegate, corpo teso, coda mobile, ritto sulle zampe in posizione di vigile attesa, la sua confusione anatomica ci lascia perplessi e pensierosi sulla parte che sta reci tando. Quelle forme difformi non ci convincono e creano uno sforzo di nevrosi allegorica che non sa dove andare a sfogare per mancanza di strutture elementari di parentela.

Alla ricerca nevrotica di un albero genealogico o di uno stemma codicum nell'archeologia del pensiero, che dia ragione anche della presenza delle corna al posto della cresta, ci ritiriamo alla fine sconfitti e con i sensi confusi. Ma qualcosa quel mostro deve pur aver voluto significare perché, se è vero che facciamo fatica a trovare coincidenza fra mostro e mondo, alla fin dei conti ha ragione Corrado Bologna quando afferma che i mostri pur sapendo «di essere soltanto segni tracciati da un'intera cultura, per mano di quel monaco "incosciente" (aggiungeremmo anche di quello scultore "incosciente"; ma

Page 59: Bestiario Cattedrale

quanto "cosciente" in realtà!) che li scatena come i segni di una secolare dicotomia fra Anima e Corpo, loro Corpi senza Anima "fanno dire" più di quanto coscientemente essi vogliono».

Cripta della Cattedrale di Bitonto: animale fantastico, metà gallo, metà leone, metà basilisco (particolare del capitello).

In quel bizzarro miscuglio di forme animali dove il gallo, il leone e il basilisco si confondono v'è pure - anche se da noi chiaramente non afferrabile - una sintetica invocazione allegorica, una didascalia del sacro che passa attraverso il mostro che ammonisce, frutto della mente maledettamente sana di quel monaco miniatore che aveva prestato il disegno a quel maestro della pietra che, senza proferire il nome di Dio, lo ha fatto desiderare con la fatica del suo scalpello.

L'interpretazione del segno scultoreo, animale o mostro, vinceva la paura, e con quei signa il pensiero medievale si tuffava nella potenza infinita di Dio. Quei signa, così poco comprensibili al nostro pensiero, non erano portenta contra naturam, quia divina voluntate fiunt, scriveva Isidoro di Siviglia, parafrasando Agostino, che così si esprimeva: «Dio è infatti il creatore di tutto e, sapendo perfettamente con la somiglianza o dissomiglianza di quali parti intessere la bellezza dell'universo, sa anche dove e quando è o sarà necessario che qualcosa sia creata». E a proposito degli esseri mostruosi diceva: «Chi non può guardare il fondo di tutto rimane spiacevolmente impressionato da ciò che giudica essere la deformità di una parte, poiché non sa a cosa essa si riallacci e dove abbia il suo corrispettivo: sappiamo ad esempio che nascono uomini con più di cinque dita nelle mani e nei piedi... tuttavia non salti su alcuno tanto stolto che, pur non sapendo perché il Creatore lo ab bia fatto, pensi che Egli abbia sbagliato nel numero delle dita». Così, non salti su alcuno che pensi che lo scultore bitontino abbia sbagliato a raffigurare il gallo così mostruosamente ibridizzato. Un'idea doveva pur averla avuta o da qualcuno suggerita, partendo magari dall'equazione gallo=luce e basilisco=tenebra. Se in tal modo avesse pensato, potremmo azzardare una interpretazione: che la formosa difformitas abbia voluto esprimere la vittoria di Cristo, cioè la sua resurrezione, sulle tenebre del peccato.

Il Cristo vittorioso sta a significare anche la supremazia della Chiesa militante su cui Egli veglia e che sempre, per difenderla, fronteggia le tempeste da qualunque direzione

Page 60: Bestiario Cattedrale

provengano: è la protezione promessa all'apostolo Pietro contro le minacce delle potenze malefiche. È per questo che il gallo piazzato in cima ai campanili delle chiese, su un asse mobile che gira su se stesso secondo la direzione del vento, rende perpetuamente puntuale questo simbolismo.

Da leggere:

J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo. Magie e religione, Roma 1925.

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

Charbonneau –Lassay, Le Bestiaire du Christ, Milano 1980.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui sono tratte le immagini di questa pagina).

L'agnello

Il Buon Pastore: lunetta del Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.

Page 61: Bestiario Cattedrale

A1 trionfo del male incarnato dal lupo, si oppone l'innocenza dell'agnello, del Cristo che si offre in volontario olocausto come agnello sgozzato per riscattare i peccati del mondo. È lo stesso Signore Gesù che ha spiegato ai suoi Apostoli prima e ai suoi discepoli poi il suo simbolismo quando ha detto: «Ecco, disse ai suoi, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». Da queste premesse si era sviluppato nell'esegesi patristica tutto il simbolismo cristologico fino all'immagine del Cristo Redentore.

In tutti i tempi, il sangue dell'agnello sgozzato è sceso a rivoli dinanzi a tutti i simulacri e sul pavimento di tutti i templi. In Oriente, esso fu adorato come un dio, ma la pregnanza del suo simbolo cristiano non è debitrice alle concezioni pagane dei tempi precristiani: la sua scelta deriva esclusivamente dal Genesi, dal Pentateuco, dalle profezie d'Isaia e di Geremia, dal Vangelo e dall'Apocalisse di Giovanni.

L'agnello fu la vittima verginale per eccellenza in tutti i culti che richiedevano sacrificio: «Yahwet ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Lo si maltratta, e lui patisce e non apre bocca, simile all'agnello condotto al macello». E Giovanni il Battista, ricordando questi antichi testi, dirà di Gesú che veniva a lui incontro dalla valle del Giordano: «Ecco l'agnello di Dio: ecco Colui che toglie i peccati del mondo».

Vittima espiatoria e propiziatoria che si sostituisce all'umanità peccatrice, il mite animale ha preso il primo posto fra i simboli del Cristo. Le prime rappresentazioni iconografiche hanno voluto vedere in esso la vittima che soffre sulla terra prima di quella che trionfa in cielo; per questo, le sue più antiche immagini ce lo mostrano coricato non in piedi. Così lo vediamo su una pietra delle Catacombe di S. Callisto a Roma. Solo più tardi, quando Costantino concederà libertà alla Chiesa, l'agnello sarà rappresentato con una croce, della quale i Catecumeni conoscevano il vero significato: la croce, lo strumento più infamante dei supplizi romani su cui essi non avevano osato prima rappresentare il corpo adorato del Cristo.

Cattedrale di Bitonto, concio in pietra con bassorilievo.

L'iconografia, che rappresentava l'agnello sulla croce, persistette per lungo tempo sia in Oriente sia in Occidente fino a quando il concilio di Quini Sexte del 692 decretò l'adozione della figura umana per la realizzazione dei crocifissi. Nel X secolo il concilio In Trullo rinnoverà il decreto del 692, giudicando che 1'agnello sulla croce era insufficiente ad esprimere il mistero della redenzione; ciononostante, continuò ad essere rappresentato sulla croce anche nell'XI secolo.

Vittima immolata, esso appare nell'iconografia cristiana in piedi, spesso confuso con la pecora, o steso a terra col sangue che cola. Il Medioevo lo rappresenta quasi sempre in piedi con la gola sgozzata dalla cui ferita cola sangue.

Page 62: Bestiario Cattedrale

Nella simbologia cristiana, la docile bestia si afferma non solo come il Purificatore del mondo, ma anche come il dominatore, e l'iconografia medievale ce la presenta con una croce che le trapassa il corpo da parte a parte e verso la quale la sua testa si rivolge con la bocca semiaperta ad invitare con le parole del Signore: «Venite a me che sono dolce e umile di cuore e troverete il riposo delle vostre anime». Così l'agnello è rappresentato a rilievo su un concio in pietra recentemente scoperto nei lavori di scavo nella cattedrale di Bitonto: motivo di estrazione paleocristiana riscontrabile nel blocco di imposta della cattedrale di Bovino e negli esempi di Oristano, Spoleto, S. Saba a Roma, su un sarcofago del V-VI secolo nella chiesa di S. Pietro ad Alba Fucens e nei mosaici ravennati. Sono soltanto alcuni esempi.

Da leggere:

M. P. Ciccarese (a cura di), Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, I, Bologna 2002.

L. Morini (a cura di), Bestiari medievali, Torino 1996.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui è tratta la seconda immagine di questa pagina).

Il maiale

Cattedrale di Bitonto, rosone meridionale: particolare di figura di maiale.

Soffermandoci a considerare la figura a basso rilievo del maiale nel rosone meridionale della cattedrale di Bitonto, la sua immagine fa sprofondare il nostro pensiero in una nebulosità religiosa in cui l'animale vaga, fra medio-Oriente e Mediterraneo, alla ricerca di una propria identità fra l'impuro e il sacro. Incarnazione del divino Adone o personificazione di Attis, il maiale si muove in una confusione di ruoli in cui è difficile trovare un filo conduttore che lo conduca verso una sessualità definita: talvolta scrofa, viene identificata con Demetra, talvolta maiale, viene identificato con Attis. Quando poi vien messo in relazione con Adone, si trasforma in cinghiale, senza comprenderne le ragioni.

Page 63: Bestiario Cattedrale

Animale sacro per i Siriani, nella grande metropoli religiosa di Ierapoli sull'Eufrate non veniva né mangiato né sacrificato: chi lo toccava rimaneva impuro per tutto il giorno. Né era chiaro se tale impurità derivava dal fatto che il maiale era sacro o impuro. Nell'Antico Testamento, secondo il Levitico e il Deuteronomio questo animale di incerta classificazione era ritenuto impuro, né i Greci riuscivano a distinguere se gli Ebrei lo sacralizzavano o meno. La sua carne, considerata impura, non poteva essere mangiata; godeva di una certa tolleranza ed era vietato ucciderlo. Tale divieto evidenziava il carattere sacro per cui, in origine, il maiale era venerato dagli Ebrei per i quali tutti gli animali considerati impuri erano sacri e, pertanto, non commestibili.

Nell'antico Egitto, la carne di maiale, animale sacro, veniva mangiata nel banchetto sacramentale una volta sola durante l'anno. Alla sacralità dell'animale non erano disgiunte tuttavia la ripugnanza e l'impurità come in Siria e in Palestina. Se un uomo, infatti, lo sfiorava, questi entrava vestito nel fiume per lavare la contaminazione; gesto sollecitato più da timore religioso che da ripugnanza o dalla convinzione che il maiale fosse dotato di poteri soprannaturali. Di tanto erano convinti gli Egiziani che, certi della utilità dei maiali nell'agricoltura, li facevano scorazzare sui campi bagnati dal Nilo per permettere una penetrazione più a fondo dei semi.

Ora, pur occupando una posizione di equilibrio instabile fra l'impuro e il sacro nelle antiche religioni orientali e nelle antiche mitologie, in tempi storici il maiale ha assunto sempre più i connotati della ripugnanza. Le ragioni di tale trasformazione si perdono in antiche sovrapposizioni di archetipi, in lontane mitologie, in quella egiziana in particolare, che ne ha fatto l'incarnazione di Set o Tifone, il demone egiziano nemico di Osiride, giunto in età storica con tratti abbominevoli. Plinio scrive che «questo animale è molto brutto: onde gentilmente s'usava dire che l'anima gli è data per sale». Alla bruttezza Plinio aggiunge la sconcezza quando «ingravida in un coito, il quale anco si raddoppia per la felicità dello sconciarsi».

« La nostra - ripeto con Cardini - non vuol essere una scorribanda nel territorio del mito, nell'archetipo o nella leggenda letteraria, e se ogni tanto sconfiniamo in questo territorio, abbiamo le nostre ragioni che vagano alla ricerca di speciali amicizie o inimicizie, a speciali legami fra l'uomo e certe specie animali per spiegarci la paura, lo schifo, la diffidenza. E a torto o a ragione, attraverso consci o inconsci scarti cronologici e culturali, in una suddivisione della storia dell'umanità in epoche dalle "brevi" o "lunghe" durate, ci fermiamo al Medioevo dove crediamo che affondi le radici il nostro immaginario contemporaneo».

Page 64: Bestiario Cattedrale

La macellazione domestica del maiale in una miniatura del XV secolo, dal Breviarium di Ercole d’Este

È interessante notare come in questa età gli estensori di norme penitenziali abbiano potuto selezionare dalle antiche tradizioni quanto era possibile adattare alle esigenze dei loro tempi, soprattutto in materia alimentare, e interpretarle secondo le necessità e le emergenze che questi tempi richiedevano. Negli antichi canoni si legge ad esempio della commestibilità della carne di maiale anche nel caso in cui l'animale, da vivo, si fosse cibato di carne di cadaveri o di sangue umano. Risulta evidente a quale e quanta attenzione fosse soggetta la carne di maiale pur quando si fosse nutrito di carogne di animali anche dopo un congruo tempo di macerazione.

A queste limitazioni sul piano alimentare, determinate da sistemi di valori che hanno attribuito al maiale una "cultura" tutta particolare, corrispondono modelli simbolici del tutto negativi nel circuito religioso cristiano. Allegoria della debolezza umana e della schiavitù della lussuria e delle passioni, al maiale non è stato concesso il beneficio dell'appello; la condanna fu ed è inappellabile. Porco era e porco rimane. Non ci si può fidare di un suo ravvedimento perché, fra l'altro, il maiale è superficiale e incostante come gli uccelli, come quegli uccelli che, nel rosone bitontino, non sono iconologicamente corrispondenti alla loro reale anatomia.

Da leggere:

J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo. Magia e religione, Roma 1925.

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

Page 65: Bestiario Cattedrale

V. H. Debidour, Le Bestiaire sculpté du Moyen Age en France, Mulhouse 1961.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

M. Baruzzi, M. Montanari (a cura di), Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio, economia, alimentazione, Bologna 1981.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui è tratta le prima immagine di questa pagina).

Gli uccelli

La raffigurazione di un uccello nel rosone della cattedrale di Bitonto.

Così come sono stati raffigurati nel rosone della cattedrale di Bitonto, la visione degli uccelli non edifica, ma incute terrore, quel terrore suscitato da Aristofane, dall'avventarsi di uno stormo di uccelli contro un uomo.

La contraddizione potrebbe essere sanata da una serie di fattori riconducibili a voluti effetti di immaginazione dell'artista o del committente, ad un difetto di visione, al tipo di materiale su cui ha operato, ad un errore nella resa degli uccelli rappresentati, a precisi modelli espressivi di quell'epoca in quella determinata area geografica. Tutte queste considerazioni sono tuttavia in contrasto con quanti, come il Bagatti, sostengono che l'atteggiamento di riposo degli animali di qualunque specie evoca una visione di pace paradisiaca. Questi uccelli, invece, pur realizzati in atteggiamento di riposo, richiamano alla mente visioni demoniache. Sorge allora il sospetto che il committente abbia voluto deliberatamente creare in queste immagini un'audace bivalenza di sistemi didascalici a rovescio nel repertorio cristiano, in questa ragnatela di simboli in cui riesce arduo immaginare come il fedele dei secoli X, XI o XII abbia potuto districarsi senza perdere la bussola del suo orientamento.

Volendo richiamare alla mente qualche esempio sulle varianti simboliche degli uccelli, teniamo presente la nota lastra marmorea dell'ambone della cattedrale bitontina, impreziosita da due alberi con uccelli sui rami. Il significato di base è stato cristianizzato con l'accentuazione delle oppositae qualitates: albero del bene e albero del male con i relativi riferimenti allegorici in positivo e in negativo, che assegnano a questi uccelli interpretazioni diverse a seconda del contesto artistico in cui sono stati rappresentati. Vi

Page 66: Bestiario Cattedrale

sono insomma "uccellini" e "uccellacci", come avrebbe detto Pier Paolo Pasolini, non però nella diversità della specie, ma nella diversità di comprensione del loro linguaggio; possono essere rapaci e quindi simbolo del male, o miti, simbolo del "messaggero" dell'angelo", ovvero dell'anima umana, intermediari fra il cielo e la terra, fra Dio e l'uomo.

Ora, la comprensione del linguaggio animale nell'arte, degli uccelli nel caso specifico, è fondamentale per la coscienza collettiva dell'età di mezzo, proprio per la possibilità che le concede di ascendere al "superiore", al "divino", di orientarne lo spirito e correggerne la rotta. È un linguaggio alternativo, certo diverso da quello di un Francesco d'Assisi che parlava agli uccelli veri e si faceva da essi intendere, ma pur sempre un linguaggio, anche se sotto forma di monologo muto che poggia le sue argomentazioni su un humus archetipo pregno di simboli angelici e psichici, che richiamano alla mente l'idea della verticalità spirituale in opposizione alla piattezza della carne e alla caduta.

Giotto, La predica agli uccelli (1296-1304 circa): Assisi, dipinto sulla controfacciata della Basilica Superiore.

Page 67: Bestiario Cattedrale

In una visione più pacata e serena di immagini ornitologiche scolpite sui capitelli della cattedrale bitontina, il senso della verticalità è dato proprio dalle ali che costituiscono lo strumento ascensionale per eccellenza, «donde risulta paradossalmente che l'uccello non è quasi mai considerato come un animale, ma come un semplice accessorio dell'ala». Ed è per questo che l'immagine ornitologica, salvo quella degli uccelli notturni che rinvia al teriomorfismo, richiama l'idea d'elevazione e di sublimazione, non solo nel senso più puro dello spirito, ma anche come simbolo, quidditas di una volontà che sta in alto. In sostanza, «l'uccello è disanimalizzato a vantaggio della funzione» come l'aquila che, presso gli antichi romani, è essenzialmente il messaggero della volontà che sta in alto, così come in alto sta il corvo presso le popolazioni germano-celtiche.

Da leggere:

F. Cardini, Sognare a Firenze fra ‘400 e ‘500, in «Quaderni medievali», 9 (giugno 1980).

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

V. H. Debidour, Le Bestiaire sculpté du Moyen Age en France, Mulhouse 1961.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

R. Guènon, Simboli della scienza sacra, Milano 1987.

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui è tratta la prima immagine di questa pagina).

Il serpente

Gerona, Tesoro della Cattedrale: cavaliere e serpente.

Page 68: Bestiario Cattedrale

In questo fantastico mondo romanico dove sogno e realtà si confondono, dove il tempo stesso si dilata e si contrae a piacimento, dove scene e personaggi possono cambiare in ogni momento forma e figura, la combinazione in serpente di talune di esse trascina il pensiero in antichi miti.

Il serpente è uno dei simboli più importanti dell'immaginario collettivo. È l'animale che si presta ad una vastissima gamma di interpretazioni e di ruoli, di direzioni simboliche crescenti, «un vero e proprio nodo di vipere archetipologico». È «l'animale-metamorfosi» per eccellenza, per la sua facoltà di rigenerazione; è il doppione animale della luna, «perché scompare e riappare con lo stesso ritmo dell'astro e conterebbe tante spire quanti giorni conta la lunazione», perciò è legato ai differenti simboli teriomorfi del Bestiario lunare.

Triplice simbolo della trasformazione temporale, della fecondità e della perennità ancestrale, il serpente scivola verso significazioni differenti e contraddittorie.

Fu simbolo del Salvatore presso alcune sette ereticali del I secolo. Gli Gnostici della setta di Seth onoravano come divinità un serpente leontocefalo a cui avevano dato il nome di Clycon e, investendolo di un ruolo messianico, l'avevano reso partecipe della natura divina, con l'attribuire al Logos, cioè al Verbo divino, la forma di un rettile perché fu uno degli antichi emblemi della Saggezza eterna unita al Verbo divino.

Contro gli Gnostici si levò sant'Ippolito che condannò la setta di Seth, dimostrando il carattere pagano delle loro credenze. Anche gli Ofiti fecero del serpente il simbolo del Signore, lo adorarono sotto quest'aspetto nelle cerimonie religiose, rappresentandolo con testa di leone, di aquila o di montone e assegnandogli un posto d'onore nella gerarchia religiosa, superiore a quello di Cristo. Fu considerato possessore e dispensatore dei tesori della terra e intermediario fra la terra e il cielo.

Soggetto a incontrollabile polimorfismo nell'arte della decadenza romana, Attila, il terribile re degli Unni vinto nel 451 a Chalons-sur Marne, fu rappresentato con volto umano e corpo di serpente che si inarca e si torce sotto i piedi dell'imperatore Valentiniano o Marciano, che stringe nella mano destra la croce vittoriosa.

La mitologia universale legata alla bestia strisciante dà ragione della polivalenza del suo simbolismo. In Egitto incarnava il "Dio Grande", triplice ed unico il cui potere era in cielo e in terra, ed era raffigurato con gambe umane ed ali. Considerati ancora come incarnazione di genii buoni, i serpenti erano adorati come protettori delle grandi città egiziane e venerati con nomi propri: KNOUMIS, AMONOU, ANK-MOUTEROU, TOKA-HER. A questi genii buoni si opponeva APOP o APOPHIS, principe del male che aveva potere su tutti gli spiriti cattivi. Altra personificazione del dio del male era TYPHON o SET.

Anche le antiche religioni orientali dell'Assiria, della Caldea, della Cina e dell'India consideravano i serpenti come divinità o come gemi del bene e del male. Sulle antiche rive del Mediterraneo orientale l'animale svolgeva un ruolo importante nelle cerimonie religiose e nei riti cultuali di ASTAROTH. La Grecia ha conosciuto serpenti misteriosi e celesti: il piú divino fu quello di ZAGREUS-DIONYSOS, il piú infernale, quello di APOLLO, il PYTHON. In Grecia come nell'antica Roma incarnava il genio del Bene, Daimon-agathos e quell'Agatho-demon fu una delle personificazioni di Bacchus-Dionysos.

Strabone racconta di una tribú detta degli Ophiogeni che credeva essere imparentata ai serpenti e dove tutti gli uomini guarivano i loro morsi con la semplice imposizione delle mani sulla ferita. Questo potere, racconta ancora Strabone, derivava dal fatto che il

Page 69: Bestiario Cattedrale

capostipite di quella tribú era stato un eroe che da serpente fu trasformato in uomo. Secondo Plinio il Vecchio, esisteva un'altra tribú di Ophiogeni in Frigia, che credeva discendenti di un serpente sacro, considerato come nume tutelare della famiglia e partecipante della natura divina.

Il cambiamento di pelle a cui è soggetto il serpente ogni anno, fu considerato presso gli antichi l'immagine simbolica delle felici trasformazioni spirituali e fisiche dell'uomo. Il misticismo cristiano ne ha fatto riferimento quando ha affermato che il fedele deve spogliarsi del "vecchio uomo", come il serpente si spoglia della sua indesiderabile veste per indossare la nuova. Gaston Bachelard lega la facoltà del serpente di "fare pelle nuova" all'immagine dell'uroboro, del serpente colto a mangiare indefinitivamente se stesso: «Il serpente che si morde la coda non è un semplice anello di carne, è la dialettica materiale della vita e della morte, la morte che esce dalla vita e la vita che esce dalla morte, non come i contrari della logica platonica, ma come una inversione senza fine della materia di morte o della materia di vita». Questa immersione nel mare profondo della psicanalisi di Bachelard o di Freud (che vede nella forma oblunga del serpente e nel suo modo di scivolare, la virilità del pene) è determinata sì dalla morfologia dell'animale, in uno però con l'antichità del mito ad esso relativo.

Abbiamo visto come questo animale abbia occupato costantemente un posto singolare e privilegiato nella cultura di antichi popoli e sia stato adorato e venerato come dio o demone: attributo di divinità come Asclepio e Igea, simbolo di eterna rinascita, e simbolo della luce presso i Fenici e i Caldei, emblema solare, sacro ai faraoni in Egitto.

Pur con differenti caratteristiche anatomiche, il serpente è iconograficamente associato al drago e al basilisco, dai quali, tuttavia, si discosta nell'interpretazione simbolica delle antiche e diverse culture. Se il basilisco - un po' meno il drago - ha ereditato dalla cultura pagana un ruolo negativo, tanto che gli autori dei Bestiari medievali hanno fatto di quest'ibrido animale l'immagine dello spirito del male, il serpente invece è stato accolto anche in chiave positiva dalla simbologia cristiana. Si dimentica spesso che oltre a qualità malefiche comunemente attribuitegli, è talora un simbolo di Cristo e come tale iconograficamente rappresentato: prefigurazione di Cristo già presso gli Gnostici e gli Ofiti.

A proposito del duplice senso dei simboli, negli scrittori ecclesiastici la opposta interpretazione è tratta dai noti episodi v-terotestamentari: la tentazione e caduta dei progenitori; il prodigio della trasformazione del bastone in serpente dinanzi al Faraone, compiuto da Aronne; il serpente di bronzo di Mosé capace di guarire dal morso dei serpenti vivi. Per Clemente d'Alessandria è l'animale ingannatore; per Ireneo e Giovanni Crisostomo è invidioso dei doni elargiti all'uomo da Dio; per Girolamo e Agostino è l'immagine del peccatore. Il Fisiologo ne parla in termini positivi; Rabano Mauro in termini positivi e negativi accentuandone la natura negativa. Per Isidoro di Siviglia, è il simbolo della lussuria, desideria carnis. Dall'XI al XIV secolo la figura del Salvatore è iconograficamente richiamata su numerosi pastorali di vescovi e di abati, terminanti in volute modellate a testa di serpente con la croce fra i denti, a significare la guida sicura del vescovo o dell'abate nel governo della diocesi loro affidata. D'altronde, la positività del simbolo legato al rettile è riscontrabile anche in un passo del Vangelo di Matteo (X, 16), nelle parole di Cristo ai suoi discepoli: «Siate prudenti come il serpente e semplici come colomba».

Legato, in età classica, al culto di Esculapio, dio della medicina, ancora oggi esistono in Occidente tracce che conducono il serpente a questo culto. Nella cinta di Luco c'è ancora ai nostri giorni, una "Madonna delle Grazie" che gioca col serpente, e a Bolsena, con la festa dei serpenti si festeggia santa Cristina. La Basilica di S. Ambrogio in Milano

Page 70: Bestiario Cattedrale

conserva un grosso serpente di bronzo fissato su un antico capitello. Antico simbolo di Esculapio o ex voto offerto al dio, la superstizione popolare milanese attribuiva ad esso, fin sulla soglia dell'età moderna, dei poteri taumaturgici capaci di guarire i fanciulli dai vermi intestinali. A1 culto della Grande Madre Angitia è riferibile ancora l'attuale festa dei Serpari a Cocullo, in provincia dell'Aquila, il primo giovedì di maggio. Cristianizzata nel primo Medioevo, la festa commemora san Domenico di Foligno (morto il 1031). Invocato contro i morsi dei serpenti, come l'antica dea Angitia, grazie al santo, narra la leggenda, le serpi intorno a Cocullo persero il veleno.

Nel Genesi, la valenza ermeneutica della bestia si capovolge sino a diventare simbolo di Satana e dei malvagi che ad essa si associano, come si legge anche in un altro passo dello stesso Vangelo di Matteo: (XXIII, 33) «serpentes genimina viperarum».

Cattedrale di Bitonto, rosone meridionale: il serpente tentatore.

La scena biblica della cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva, tentati e sedotti dal serpente Satana, la si legge anche nel rosone meridionale della cattedrale di Bitonto. Ai piedi di un albero, forse una palma carica di frutti, Adamo gusta il frutto proibito mentre con la mano destra abbraccia l'albero e con la sinistra copre le sue vergogne. A1 di sopra di Adamo, in una posizione verticale iconograficamente strana, appare Eva che, appollaiata sull'albero, morde il frutto. In una cornice attigua à raffigurato il serpente seduttore, un enorme bestione dalla pelle chiazzata che striscia sull'albero.

L'immagine-simbolo del serpente, fossilizzata nelle tradizioni religiose dell'intera umanità, ereditata poi dal cristianesimo, pur con orientamenti teologici mutuati, non ha subìto nel suo arcaico e meta-psicanalitico percorso interruzione di continuità. L'accertamento del suo senso simbolico - sia se la figura è isolata da ogni altro contesto, sia se inserita nella scena del peccato dei progenitori - non propone difficoltà all'interpretazione.

La diffusione dei Bestiari, a cominciare dal Fisiologo, hanno reso il serpente uno dei protagonisti principali di questo genere letterario e di quello iconologico.

Se per il serpente, per il caprone o per il delfino non si può parlare di "lenta dissolvenza di tensione allegorica", non altrettanto si può dire per altri animali sia considerati isolatamente sia in contesti iconologici complessi, come ad esempio una scena pastorale o di caccia che, in età precristiana esaltavano figurativamente certe qualità morali, in età cristiana, invece, erano difficilmente interpretabili alla luce di una nuova visione del mondo e della sua moralità. Di qui, la difficoltà di intelleggibilità in chiave cristiana, di certe scene raffigurate nell'arte cristiana medievale come le cattedrali. Un esempio molto significativo è dato dalla scultura di una scena di caccia nel rosone meridionale della cattedrale bitontina, «l'accertamento del cui senso simbolico - come ci avverte Pasquale Testini - richiede una prudenza metodologica per lo studio del prodotto

Page 71: Bestiario Cattedrale

artistico, frutto d'incontro di artefice e committente ciascuno portatore di cultura e di opzioni, (che) rischia di essere stravolto nel suo valore di testimonianza storica se non lo si colloca nella temperie artistica e ideologica cui specificatamente si debbono la sua forma e il suo contenuto».

Alla luce di queste acute osservazioni, incerto resta per noi il significato simbolico del cacciatore che, nel rosone bitontino, con un lungo bastone, forse un'arma da lancio, tenuta nella mano destra, cavalca un cinghiale.

Da leggere:

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

F. Zambon (a cura di ), Il Fisiologo, Milano 1975.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

R. Guènon, Simboli della scienza sacra, Milano 1987.

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui sono tratte le immagini di questa pagina).

La scimmia

Page 72: Bestiario Cattedrale

Dürer, Madonna della scimmia (circa 1498).

Bestia satanica per eccellenza, la scimmia è una caricatura dell'uomo del quale scimmiotta ogni gesto. È la controfigura del diavolo: maligna, ladra, subdola, lussuriosa, ingorda e per di più bugiarda e idolatra.

Nella decorazione dei capitelli che adornano le colonne nella cripta della cattedrale di Bitonto, fra i numerosi esemplari di fauna reale o fantastica, anche le scimmie si danno il cambio nei cantonali degli abachi. In un capitello a stampella del matroneo della stessa cattedrale, il demonio tentatore ha le fattezze di una scimmia alata, così come la vediamo anche a la Puerta de las Platerias di San Giacomo di Compostela. Talvolta la si vede in raffigurazioni artistiche attaccata ai piedi della Vergine Maria, a simbolizzare la menzogna su cui ha trionfato la verità.

La paura e la repulsione che il committente ha inteso suscitare attraverso la mano dell'artista, esecutore in scultura della scimmia alata, risponde, come già sottolineato, ad una economia teologica per cui il brutto racchiuso nella figura animale non si esaurisce nella pura visione del deforme e del mostruoso. Queste qualità negative assumono una valenza positiva; fanno intuire i contrari, il bello e il buono, proprio perché contrastano, perché esprimono una tensione a liberarsi da tutto ciò che è brutto, mostruoso, deforme, peccato. La metamorfosi avviene con la garanzia della fede. Non

Page 73: Bestiario Cattedrale

sapremmo altrimenti spiegarci le applicazioni differenziate del simbolismo animale, già a partire dal XII secolo, nella gamma dei vizi rappresentati nelle sculture dei capitelli della cripta prima e del matroneo della cattedrale bitontina poi e di quelle di tutta l'area meridionale della penisola.

Dovremmo presumere insomma che la sfinge, l'asino o la scimmia il cui simbolismo resta ancora vago nell'arte delle cattedrali d'oltralpe e la cui sistemazione iniziò - come scrive Debidour - solo a partire dal XIII secolo, abbiano assunto prima di questo secolo un ruolo simbolico più preciso nell'area su considerata. Potremmo allora supporre che le infiltrazioni di antiche culture mediterranee e orientali abbiano agito da coagulante in quest'area, fissando, prima che altrove, i ruoli simbolici di figure animali reali o fantastiche qui giunte già pregne di stratificazioni di archetipi.

Da leggere:

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

F. Zambon (a cura di ), Il Fisiologo, Milano 1975.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996.

Il pellicano

Cattedrale di Bitonto, portale centrale: il pellicano.

Se il gallo, simbolo della vittoria di Cristo e della sua Resurrezione, ha avuto bisogno, per l'esplosione del suo simbolismo, dell'accostamento antitetico di altri animali di oppositae qualitates come il basilisco, la cui sporcizia morale richiama il carattere della caduta, il pellicano invece racchiude in sé solo una simbologia in senso verticale dove tutta la sua immagine rinvia al desiderio d'elevazione, di sublimazione, al volo, il cui archetipo profondo - come osserva il Durand - non è l'uccello animale ma l'angelo,

Page 74: Bestiario Cattedrale

giacché «ogni elevazione è isomorfa a una purificazione perché essenzialmente angelica».

Il pellicano è un uccello difficile da vedere, ed è per questo che diventa pura immagine dello spirito, una disincarnazione ascensionale che richiama al pensiero la purezza, Cristo, il "nostro pellicano" come lo chiama Dante quando si riferisce all'apostolo Giovanni: «Questi è colui che giacque sopra '1 petto del nostro pellicano, e questi fue / di su la croce al grande officio eletto».

La purezza celeste è quindi il carattere precipuo di questo uccello che, simile ad un angelo dalle ali spiegate, sormonta il portale principale della cattedrale bitontina a simboleggiare la Redenzione, la Resurrezione e l'amore di Cristo per le anime, espresso dal dono del suo sangue nell'Eucarestia.

Il pellicano che, nella simbologia cristiana significa il Cristo, è quell'animale che gli antichi Greci chiamavano Pelekos, da pelekus, l'ascia, perché l'apertura del suo becco smisurato, slargandosi a ventaglio, è simile ad una antica ascia. Dagli stessi Greci veniva chiamato anche Onocrotalo, perché il suo strano grido, krotos, era simile a quello di un asino. Vive nell'Europa orientale, nell'Asia sudoccidentale e nell'Africa e, secondo Plinio, nel mare del Nord. Nei Bestiari si legge che il pellicano apre il suo petto a colpi di becco per nutrire i suoi piccoli affamati, così come Gesù sulla croce aveva fatto dono del suo sangue per redimere l'umanità.

Antiche leggende raccontano che i suoi piccoli vengono al mondo talmente deboli da sembrare morti, o che la madre, tornan do al nido, li trovi uccisi dal serpente. Il Fisiologo dice che il pellicano ama moltissimo i suoi figli: «quando ha generato i piccoli, questi, non appena sono un po' cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genitori allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucciso. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo sangue effondendosi sui corpi morti dei piccoli li risuscita».

I teologi medievali lo identificano con Cristo in croce, e con Dio Padre che ama al tal punto l'umanità da inviare i1 suo unico Figlio che resuscita dalla morte il terzo giorno. Così il pellicano si presta ad una duplice simbologia; è inteso sia come immagine di Cristo che si lascia crocifiggere e dona il suo sangue per redimere l'umanità, sia come immagine di Dio Padre che sacrifica suo Figlio e lo resuscita dalla morte dopo tre giorni.

Negli ultimi tre secoli del Medioevo, non raramente lo spirituale uccello è stato al centro dell'attenzione artistica. Rappresentato in scultura o in pittura col nido dei suoi piccoli sulla sommità della croce e nell'atto di straziarsi il petto con i colpi del suo becco, l'uccello esprime il tema della purificazione del sangue di Cristo, sparso sul mondo per la nostra salvezza.

Ai temi cristici della purificazione, redenzione e resurrezione, si aggiunge quello dell'amore di Cristo per le anime, espresso dal suo sangue nell'Eucarestia.

Da leggere:

G. Frazer, Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo. Magie e religione, Roma 1925.

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

Page 75: Bestiario Cattedrale

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui è tratta l'immagine di questa pagina).

La sfinge

Cattedrale di Bitonto: loggiato dell'esaforato, sfingi addossate.

II grifone è l'allegoria del Cristo, e la sua forza consiste nell'indicare qualcosa in modo figurato sotto altre cose. Con la sfinge invece ci troviamo di fronte ad un significato oscuro, dinanzi ad un enigma adombrato da certe immagini che ci trascinano nel regno del mito.

La sfinge fu nell'antico Egitto il simbolo religioso per eccellenza che seppe maestosamente condensare la misteriosa grandezza del genio religioso di quel popolo; non una dea, ma un genio, intermediario fra l'uomo e le potenze superiori.

Nata sulle rive del Nilo, dove lo scalpello dell'uomo ha saputo più che altrove rivestirla di ieratica bellezza, la sfinge ha fatto il giro del bacino del Mediterraneo fino in Asia Minore e da lí in Grecia e poi in Sicilia e, risalendo la penisola, fino in Gallia dopo aver conquistato Cipro, Rodi e Creta. La si trova dappertutto sotto aspetti e posizioni diverse: seduta, coricata, in piedi o in atto di spiccare il volo verso il sole. In Egitto fu conosciuta con busto umano quasi sempre maschile e corpo di leone; in Grecia fu nota con busto di donna. Nell'arte micenea e in quella etrusca la parte bestiale del corpo assume fattezze più esili e più agili di quelle leonine: zampe anteriori simili a quelle di un levriero, parte posteriore simile a quella di toro.

Plinio, Solino e Pomponio Mela parlano della sfinge come di animale bizzarro ma reale che vive sui monti degli Etiopi, patria comune di una fauna mostruosa, coabitatrice di popolazioni mostruose come i Trogloditi. Tutti e tre la descrivono come un animale dal pelo scuro, con mammelle situate all'altezza dello stomaco.

Page 76: Bestiario Cattedrale

La sfinge alata.

Divinità solare presso gli antichi Egizi, la sfinge fu il simbolo della sovranità, della saggezza, della forza divina e dell'abbondanza, in virtù delle quali, il suo culto fu favorito dallo scettro dei faraoni; dall'Egitto trasmigrò nella Fenicia, a Cipro e Creta dove la strana bestia simboleggiò anche l'Unità, la Verità e l'Assoluto.

Essere mostruoso e raccapricciante, fu considerata dai mitologi parente stretta della dea cipriota Chet. Figlia di Tifone e di Echidna, «vergine dalle unghie uncinate» - come è nominata da Sofocle nell'Edipo re - la sfinge costituisce la sintesi di tutti i simboli sessuali, legata al destino incestuoso di Edipo: «una massa di libido incestuosa» in cui si rivolta assieme alla madre Echidna, essere ibrido, bella fanciulla nella parte superiore, mostruoso serpente nell'inferiore.

Con la ellenizzazione dell'Egitto da parte di Alessandro il Macedone, i Greci stabilitisi ad Alessandria paragonarono la loro sfinge di Tebe in Beozia ai grandi leoni dal viso umano di Memphis. A1 di là delle affinità morfologiche, un solo aspetto le accomunava: la sfinge egiziana, detentrice dei misteri del mondo visibile ed invisibile racchiudeva il segreto della saggezza divina; la sfinge greca custodiva l'enigma, segreto di suprema saggezza per la condotta della vita umana.

Divinità solare nell'antico Egitto, l'essere favoloso ha simboleggiato anche la luce del

Page 77: Bestiario Cattedrale

sole così come Gesú Cristo è luce eterna per i vivi e per i morti.

La trasmigrazione della simbologia solare nei misteri cristiani fu dovuta - secondo Eusebio di Cesarea - all'esistenza ad Alessandria, fin dal III secolo, di una scuola importante per l'istruzione dei catecumeni, che aveva diretto i propri sforzi ad un innesto armonico di principi teologici di antiche religioni nel sistema religioso cristiano: l'antica teoria egiziana del Verbo creatore, quela del Verbo divino, intermediario fra Dio e l'uomo, lo Spirito divino che soffia la vita spirituale alle anime, l'immortalità dell'anima. Gli antichi elementi simbolici che caratterizzavano la sfinge, si prestarono molto bene all'innesto.

Come la sfinge, anche Gesù diventa il "Signore dei due Orizzonti", dell'Oriente e dell'Occidente: la sua nascita e la sua morte. È il Dio della luce: «Io sono la luce che illumina ogni uomo che viene al mondo»; è sovranità, forza e saggezza; è il sole divino e la sorgente stessa della sovrabbondanza. Cristo non è solo l'immagine allegorica dell'Unità, della Verità e dell'Assoluto, ma l'Assoluto stesso nella Unità e nella Verità. Come la sfinge egiziana, ma con saggezza più infinita, Cristo è il detentore e il possessore degli eterni segreti per aver donato agli uomini la perfetta dottrina e la regola della sicura saggezza, necessaria alla salvezza delle loro anime.

Come il grifone e il centauro, anche la sfinge è la sintesi della natura divina e di quella umana, della duplice sovranità sul mondo spirituale e su quello materiale: sovranità che, in uno dei capitelli dell'esaforato della cattedrale bitontina, abbiamo la sensazione di intuire, in virtù di una corona che orna la sua testa mascolina. La mobilità di questa figura barbuta che, in piedi e con ali spiegate, sembra spiccare il volo, è data dalla posizione della testa tesa in avanti. A differenza del centauro e del grifone, la sfinge con testa umana, ali aquiline, busto di leone e posteriore taurino è anche la sintesi della sacralità dei quattro animali nella visione di Ezechiele e in quella di Giovanni, che i mistici cristiani hanno identificato nei quattro Evangelisti; commistione di elementi di ognuno dei quattro animali, è un vero Tetramorfo che, nella simbologia cristiana dei primi secoli, fu uno dei grandi e misteriosi simboli del Salvatore. Tale sintesi nell'unica figura costituì, pertanto, motivo sufficiente a giustificare l'ingresso della sfinge nella fauna sacra cristiana.

Cattedrale di Bitonto: capitello a stampella dell'esaforato con figura di sfinge alata.

II Medioevo preferì ignorare la sua genealogia; la storicizzazione del mito avrebbe tolto alla Chiesa la possibilità di aprire la porta del sacro per le implicazioni libidinose e sessuali legate all'immagine teriomorfa. Il simbolismo cristiano in età medievale non

Page 78: Bestiario Cattedrale

era andato oltre il pensiero dei primi mistici della cristianità: la sfinge non aveva subìto il processo di storicizzazione, anche se nell'arte delle catacombe essa era stata sottoposta ad un processo metaforico che individuava nella figura la Roma idolatra e depravata, il godimento dei sensi, piena di attrattive a prima vista, colma d'amarezza e di tristezza dopo il piacere.

Queste metafore, materializzate non solo nella primitiva arte cristiana, ma anche in rappresentazioni medievali nei diversi contesti, erano scaturite dalla considerazione che la sfinge, miscuglio di elementi umani e animali, possedesse due cuori. Quello situato nel busto umano racchiudeva le funzioni più nobili dello spirito e quelle più elevate dell'anima umana; l'intelligenza, la conoscenza, la volontà, tutte qualità che gli Assiri e gli Egiziani localizzavano nel cuore, non nel cervello. A1 secondo cuore invece era legata la vita fisica dell'uomo e i suoi bassi appetiti, la sua sensualità sfrenata.

Da leggere:

E. Mâle, L’art religieux du XII siècle en France, Paris 1947.

F. Zambon (a cura di ), Il Fisiologo, Milano 1975.

Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Arché, Milano 1980.

R. Guènon, Simboli della scienza sacra, Milano 1987.

G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.

F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali, Fasano 1996 (da cui sono tratte la prima e l'ultima immagine di questa pagina).

Il gatto

Page 79: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, facciata esterna: gatto ad altorilievo

L’uomo del Medioevo intrattiene con l’animale selvaggio o domestico una relazione ricca e forte su piani differenti e complementari: economico, sociale, culturale, religioso. Con alcune specie animali il contatto è più permanente rispetto ad altre. Tuttavia, nonostante l’onnipresenza dell’animale che mette l’uomo a contatto immediato e continuo con esso nella vita quotidiana, gli scrittori e gli artisti medievali (almeno fino al secolo XII) non ci offrono di essi descrizioni dettagliate. Tutt’al più, manifestano un interesse distratto.

L’animale è visto con l’occhio del moralista, soprattutto dai chierici. Anche l’artista, operatore dell’intellettualità negata e controllata non è altro che l’interprete delle esigenze delle ideologie, senza libertà di invenzione se non all’interno di precisi limiti convenzionali. Ecco perché le osservazioni zoologiche fornite dagli scrittori medievali (quasi tutti ecclesiastici) e dagli artisti, sono molto limitate e si caratterizzano per la grande povertà di procedimenti descrittivi.

L’imprecisione del vocabolario va di pari passo con l’incertezza della forma animale, allo stesso modo con cui gli scultori medievali mettono in scena animali non individuabili nella loro specificità zoomorfa. Così, anche gli scultori, al pari degli scrittori, partecipano al gioco della Creazione, alla lotta fra le forze del bene e quelle del male. Ma compensano questa generalizzazione e questa astrazione con dettagli anatomici intelligentemente scelti: le fauci, se mettono in scena un animale feroce; il becco, le zampe o gli artigli per un volatile aggressivo; l’ala per un uccello provvidenziale; la coda, i baffi o la testa per i felini, e fra questi, forse anche i gatti dei quali, soprattutto nell’alto Medioevo, poco si è scritto e poco si è detto. È lo stesso Umberto Eco a ricordarcelo con i suoi “perché”: «perché tra tanti cani che latrano, buoi che muggiscono, polli che chiocciano, persino pesci che emettono strani rumori, in queste pagine non si sente mai, a nostra scienza, un gatto che miagola?». E ce lo ricorda anche Gina Fasoli

Page 80: Bestiario Cattedrale

quando scrive che «la comparsa del gatto nel mondo occidentale è un problema su cui le idee sono molto confuse…Viene dall’Egitto? Viene dall’estremo Nord? E quando i gatti non c’erano, come facevano a difendere i granai e dispense dai topi?». Né riusciamo a sentire i suoi miagolii negli scarni riferimenti letterari, pur essendo stato, in età medievale, un felino a portata di tutti, soprattutto dei poveri e dei diseredati, e spesso unica risorsa affettiva di chi non possedeva nulla: «nihil in mundo possidebat praeter unam gattam». A ciò si aggiunge la scarsa considerazione nei suoi confronti messa in rilievo negli Annales di Alberto di Stade quando racconta la storia di due veneziani, uno ricco e l’altro povero al quale, quando viene chiesto qualcosa da commerciare, risponde di non possedere nulla se non due gatti: «non habeo…praeter duos cattos», che poi vendette a caro prezzo in una città infestata da topi: «vendidit catos pro magna pecunia, et suo socio per mercatum plurima comparans reportavit».

Le fonti agiografiche altomedievali sono piuttosto avare nel riferire la quotidianeità dei rapporti fra l’uomo e il gatto, e fra questo ed il suo antico nemico, il topo. L’assenza pressoché totale dell’animale nella vita dei santi, già evidenziata dal Boglioni, va di pari passo con quella iconografica. Le prime immagini a pittura del gatto le troviamo infatti solo a partire dalla fine del XIV secolo.

Un discorso a parte meriterebbe il privilegio che il gatto ha goduto nell’iconografia dell’Antico Egitto, dove compaiono assieme ai topi in un papiro conservato al Museo egiziano del Cairo. L’animale è lì raffigurato con uno specchio in mano davanti ad un topo, in costume di gala, una parrucca sulla testa e un bicchiere fra le zampe. Un altro gatto pettina madonna-topo e un terzo tiene fra le zampe un topolino, mentre un quarto artiglia un ventaglio: scene che anticipano di millenni le raffigurazioni medievali del mondo alla rovescia.

Forse perché assente nella Bibbia, gli autori cristiani da Isidoro di Siviglia ad Ugo di San Vittore hanno dedicato al gatto pochissimo spazio, menzionandolo appena per alcune sue peculiarità come l’astuzia, la capacità di vedere nel buio, l’abilità nella caccia ai topi. Così, quando il gatto fa il suo ingresso nel bestiario medievale alla fine del XII secolo,

Page 81: Bestiario Cattedrale

entra, indissociabilmente al topo, nell’immaginario collettivo. In pittura e nelle miniature tardo-gotiche i due animali sono raffigurati l’uno nelle grinfie dell’altro. Poca o nessuna fortuna ha avuto invece il gatto nella scultura romanica e gotica, se si esclude qualche raro esempio come quello sul portale della chiesa di Cardan in Guascogna o i capitelli con animali ad alto rilievo, con artigli prominenti e schiena in posizione di difesa, tipica dei gatti, nella cattedrale di Bitonto o nelle chiese di Saint-Paul-les Dax e Saubrigues. Ma anche in questi casi, la poca cura al realismo e alla precisione delle sculture non permettono una identificazione esatta dell’animale.

Fin dall’alto Medioevo, il gioco fra gatto e topo fu utilizzato dagli scrittori cristiani in funzione didascalica intesa a moralizzare il comportamento del felino che dà senso alla caccia al topo. Questa caccia è connotata come gioco perverso, messo in relazione con il diavolo che gioca con l’anima umana, per assumere poi forma di combattimento nel momento decisivo della morte, allorquando l’anima, nell’abbandonare il corpo, vacilla fra Dio e il diavolo. è quello il momento in cui si decide il suo destino nell’eternità. È quello il momento in cui il peccatore crede di essere assalito dai gatti, come si legge in una serie di storie esemplari. Cesario di Heisterbach racconta di un monaco che era nell’agonia della morte, mentre un frate vide in un sogno un gatto nero che tentava di azzannare una colomba bianca che trovò rifugio nella chiesa, sulla croce.

L’istinto naturale del gatto costituirà negli exempla dei predicatori il trionfo del male e del diavolo sul peccatore, vulnerabile come il topo. Tuttavia, nonostante questa sua pregnanza simbolica, anche il gatto si defila dal bestiario di Satana e si rifugia in quello di Cristo, quando diventa suo portavoce e difensore della dottrina e ortodossia della Chiesa contro gli eretici e le loro bestemmie. Questo insolito ruolo del gatto, che assume una singolare dimensione morale, lo si coglie in un racconto di Luca da Tuy (metà del XIII secolo): «A Lodi, un gatto domestico si scagliò contro un eretico che, in punto di morte, rifiutò l’eucarestia e bestemmiò il Sacramento». La serietà della scena non risparmia la drammaticità giocosa, determinata dal salto e dall’assalto felino sull’eretico morente lacerato alla gola e alle labbra dagli artigli e dai denti del gatto.

Particolare interesse assume in Luca da Bitonto, predicatore francescano del secolo XIII la fruizione originale della metafora moralizzante sul gioco fra gatto e topo: «Il diavolo - scrive Luca da Bitonto - si prende gioco di alcune anime, come fa il gatto con il topo che, lasciato fuggire più volte, viene poi catturato e ucciso. Allo stesso modo si comporta il diavolo quando permette che alcune anime, per un certo tempo, si allontanino da lui. Ma molte anime si prendono gioco del diavolo, come fa il gatto quando cattura un uccellino per giocare con esso, così come è solito fare con il topo. Ma l’uccellino non si lascia catturare e vola via…».

Questa metafora, che racchiude in sé connotazioni ludiche, costituirà il momento embrionale dell’exemplum relativo al gatto, e si diversificherà in una gamma di peccati che la Chiesa adatterà alle varie categorie sociali costituenti l’uditorio dei predicatori, ivi compresi i preti malvagi che rubano al popolo anziché proteggerlo. Nè raro è il ricorso alla «similitudo naturalis» di cui fa largo uso san Bernardino quando, ad esempio, parla dell’invidioso che «fa come fa naturalmente la gatta, che sempre ricuopre la sua feccia».

Se Luca da Bitonto non avesse fatto richiamo al concetto morale del gioco fra la vita e la morte, fra il gatto e il topo, fra il gatto e l’uccello, ci saremmo trovati dinanzi a immagini vivaci dove incanta e affascina il ruolo della Natura che muove le fila dell’istinto animale, non soggetto, quindi, ad alcun processo morale. La sua autonomia sarebbe stata giustificata e legittimata proprio in nome della Natura. È evidente che il gatto, sia negli exempla, sia negli accostamenti ai concetti morali, costituisce uno degli esempi più vistosi della sua refrattarietà ad ogni tentativo di addomesticazione da parte

Page 82: Bestiario Cattedrale

dell’uomo. Questa refrattarietà non fu messa nella dovuta evidenza se non nella seconda metà del secolo XIII, quando la natura selvaggia del gatto fu messa in relazione con la donna e i suoi comportamenti, considerati fuori dalle norme alimentari e sessuali: sregolatezze tipiche dei gatti.

Lussuria e vanità furono i peccati che associarono la donna al gatto: associazione testimoniata nella pittura italiana della fine del Medioevo e nel Rinascimento, allorquando nell’arte pittorica il gatto e la donna occupano lo stesso spazio della casa o allorquando il felino è raffigurato insieme alla Vergine in un capovolgimento di simboli e allegorie. Lo vediamo infatti nella Madonna con gatta di Giulio Romano dove è rappresentato in pace sulle ginocchia di Maria, come a sottrarlo da antiche e maligne allegorie. Lo vediamo nella cena in casa di Simone presso i discepoli di Emmaus del Veronese, nell’Ultima cena del Tintoretto o nell’Ultima cena di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore di Assisi.

Comunque sia, è l’istinto della Natura che caratterizza il gatto e gli conferisce i caratteri necessari alla caccia e al gioco. Queste peculiarità sono messe in evidenza nella parte narrativa del Dialogo di Salomone e Marculfo, forse anteriore al X secolo. In esso si racconta del rozzo servo Marculfo a cui era stato ordinato da Salomone, suo padrone, di vegliare per cinque notti consecutive, pena la morte. Sentendolo russare, Salomone gli chiese se dormisse o meno. Marculfo rispose che stava riflettendo sul fatto che la Natura è più forte dell’educazione, promettendogli di dargliene prova il giorno successivo. Il giorno dopo, infatti, mentre Salomone era seduto a cena con una comitiva di amici, Marculfo che gli siedeva vicino, fece scivolare tre topi nella manica della sua tunica. In quella casa viveva un gatto che era stato addestrato a stare ritto sulle zampe e a tenere fra gli artigli una candela accesa all’ora di cena. A cena finita, Marculfo lasciò scivolare un topo dalla sua manica; il gatto, pronto a scattare, fu trattenuto dal re. Lasciato scivolare il secondo topo e poi ancora il terzo, il gatto, gettata la candela, rincorse il topo fino a catturarlo. «Ecco - disse Marculfo al re - come ti ho dato prova che la Natura non è condizionata da nessun freno».

Nel trionfo della natura felina si riscatta l’iniziale impotenza del gatto, mortificato dalla corsa dei topi sotto il suo naso, che dà a tutta la scena una dinamicità ludica di grande rilievo. Essa ci offre un esempio della natura adattiva del gatto al gioco, strettamente correlata al comportamento reale di predatore, che si verifica in risposta a stimoli presenti nella preda.

Ora, pur sapendo come e quando il gatto sia entrato nella storia degli animali, a noi piace sottolineare l’aspetto mitico che ha caratterizzato il grazioso animale sin dalla sua prima comparsa, come la racconta Paradis de Moncrif:. «Dal naso del maiale era uscito un topo che andava in giro a rosicchiare tutto quello che gli capitava davanti, la qual cosa divenne così insopportabile a Noè che egli ritenne fosse il caso consultare ancora Dio, che gli ordinò di assestare al leone un gran colpo in fronte. Il leone starnutì all’istante, facendo uscire dal naso un gatto» che di niente si stupisce e niente lo mette in soggezione, nemmeno quando lo si maltratta come «elemento negativo, detronizzante e abbassante», come nettaculo sperimentato da Gargantua che sciorina a suo padre la lunga lista dei nettaculo: «…Quindi cacando dietro una siepe, e trovandoci un gatto marzolino, provai a pulirmi con lui, ma le sue grinfie mi ulcerarono tutto il perineo…».

Questa sua insolita utilizzazione, che acquista dignità letteraria nell’evidenziare la sua natura felina, qui racchiusa nelle sue grinfie, dà alla farsa la connotazione gioiosa e giocosa che mette in primo piano il cul e la bestia, che nulla ha da spartire con le sue prede abituali.

Page 83: Bestiario Cattedrale

Leonardo da Vinci, disegni di gatti

Pare che la natura si occupi del gatto solo per farlo giocare, anche se talvolta gli inciampi naturali gli hanno riservato una fine non meritata, come si legge in un trattato della peste che prescrive la condanna a morte per cani e gatti, veicoli di contagio in tempo di peste: «S’occidano cani e gatti, messi in fosse profonde e di sopra calcina viva, e un bastione di pietre». Pessimo ruolo e pessima reputazione hanno inoltre avuto i gatti, soprattutto i gatti neri, come compagni di bagordi in quel fenomeno diabolico-magico-stregonico che si ripropone in ogni tempo e sotto ogni cielo con sorprendenti connotati di omogeneità e somiglianza.

Nella bolla pontificia Vox in Rama di Gregorio IX si colgono gli elementi procedurali di un gioco infame che si conclude con l’osculum infame nella regione anale del gatto: «…Poi si siedono tutti a banchettare e quando si alzano dopo aver finito, da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di queste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all’indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori, poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno: ma solo quelli che lo hanno meritato».

Già Alano di Lilla faceva derivare il termine “Cataro” da cattus “gatto” in quanto a suo dire, gli adepti di quella setta adoravano il demonio sotto quella forma e gli tributavano l’osculum infame nelle loro riunioni, in quei ludi come talora venivano definiti, con termine significativamente ambiguo.

Sotto forma di gatto apparve il diavolo a Filippo, arcivescovo di Ravenna, assieme ad una pletora di altri animali che scorazzavano di qua e di là, come racconta Salimbene da Parma. Cesario di Heisterbach racconta ancora di una monaca che vide sulle spalle dei monaci dei demoni in forma di gatti, e scimmie che ripetevano burlescamente i loro gesti; o quel gatto che troneggiava sulla testa di un altro monaco, come a voler sottolineare la capacità illimitata di metamorfosi dei diavoli che appaiono sotto qualsiasi forma e con caratterizzazioni ludiche.

Sono il gioco e la burla le armi preferite dai diavoli per trascinare le anime all’inferno, e sono di tale pregnanza che, dalla fantasia popolare, profondamente caratterizzata dalla tendenza a tradurre lo spirituale in termini sensibili e materiali, confluirono nella letteratura e nell’arte che cominciò a vivere di vita propria, in parte indipendente dall’invenzione che l’aveva generata. Il tema rimaneva comune ad entrambe le età, ma diverso era il modo di vedere il mondo così come diverso era il linguaggio artistico e letterario. L’humus da cui fioriva la Novella era lo stesso dell’exemplum, ma

Page 84: Bestiario Cattedrale

trasformato ed integrato in un contesto nuovo dove il significato perdeva il suo carattere didattico e moralistico per diventare addirittura sovversivo rispetto alla morale ufficiale delle èlites ecclesiastiche.

Nella Novella, la dilectatio diventa una costante del comico letterario, con una funzione autonoma, separata dal contesto pedagogico, laddove lo stesso mondo animale acquista nuove dimensioni, anche nel gioco.

Da leggere:

G. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana dell’alto Medioevo: Termini di un rapporto, in L’uomo di fronte al mondo animale (Settimane di studio sull’alto Medioevo), vol. II, Spoleto 1985.

F. A. Paradis De Moncrif, Storia dei gatti, ed. Marsilio, Milano 2002

F. Moretti, Specchio del Mondo. I “bestiari fantastici” delle Cattedrali. La cattedrale di Bitonto, 2a ed. riveduta e ampliata, ed. Schena, Fasano 2004 (da cui è tratta la prima immagine di questa pagina).

Il Cervo

Pur appartenendo ad un regno diverso da quello del pellicano, anche il cervo è uno degli

Page 85: Bestiario Cattedrale

animali simbolici che, sin dai primi tempi cristiani, fu l'immagine allegorica di Cristo. Come il pellicano, che nel suo volo ascensionale racchiude la purezza celeste, il cervo che fugge è l'immagine dell'anima (anche Carl Gustav Jung ha sottolineato il simbolismo psichico del cervo) che si sottrae al diavolo, al peccato, al serpente tentatore.

Già antichi poeti e naturalisti greci e latini, Plinio, Teofrasto, Eliano, Marziale, Lucrezio, hanno ritenuto il cervo nemico implacabile dei serpenti. Marziale e Plutarco aggiungono che, col soffio delle sue narici, riesce a stanarli dalle sotterranee dimore e a divorarli, riacquistando in tal modo una nuova giovinezza.

Sin dal IV secolo della nostra èra gli scrittori ecclesiastici, da Agostino ad Ambrogio, da Eucherio di Lione a S. Bernardo, da Ugo di S. Vittore a S. Bonaventura, hanno interpretato questa particolare abitudine del cervo come metafora di Cristo vincitore delle forze del male. Da qui la fortuna dell'animale nei Bestiari medievali sin dal IV secolo, tanto che S. Epifanio, nel suo Commentario al Fisiologo, aveva dedicato al cervo uno dei ventisei capitoli, dove si leggono gli sviluppi di esegesi religiosa che fanno di esso uno degli emblemi di Cristo che combatte: l'immagine allegorica della parola vittoriosa del Salvatore. Il Physiologus infatti, partendo da David, cioè dal salmo 42 («Come la cerva anela ai rivi d'acqua, / cosí l'anima mia a Te anela, o mio Dio»), ricorda che il cervo è nemico del drago. La notizia sembra derivata da Plinio, ma ancor più dalla confusione tra le due parole "cervo" ed "elefante" in greco; è difatti l'elefante, nella tradizione pliniana, il vero nemico del serpente.

La caccia al drago, da parte del cervo, avviene cosí: se il drago si insinua nelle crepe del terreno, il cervo beve una quantità d'acqua e la rivomita poi in esse, costringendo il drago ad uscire per poi schiacciarlo ed ucciderlo. «Cosí - recita il Physiologus - anche il Signore nostro ha ucciso il grande drago per mezzo del le acque celesti di virtuosa sapienza... Il Signore è venuto a dare la caccia al grande drago: allora il demonio si è nascosto nelle parti piú profonde della terra, e il Signore ha versato dal proprio petto il sangue e l'acqua, ci ha liberato dal drago mediante il lavacro di rigenerazione, e ha distrutto in noi ogni nascosta influenza diabolica». Il cervo, quindi, diviene figura del Cristo e le acque sono quelle rigeneratrici del battesimo.

Il Bestiario di Cambridge del XII secolo, nella rielaborazione di dati biblici e pliniani desunti dal Physiologus, li interpreta in altro modo. Il cervo è reso invulnerabile dai colpi d'arco per aver mangiato un'erba detta dittamo; quando è malato, si avvicina alle tane dei serpenti e li cattura aspirandoli con le narici perché il lo ro veleno non gli è nocivo, e se ne ciba per riacquistare la salute.

Dopo aver mangiato i serpenti, tuttavia, il cervo corre alla fonte piú vicina e bevendo riacquista la giovinezza. Poiché il serpente è simbolo del demonio, l'autore del "Bestiario di Cambridge" interpreta la leggenda come l'allegoria della confessione: mangiato il serpente - cioè dopo aver peccato - il cervo (il peccatore) si abbevera all'acqua del pentimento e cosí facendo torna puro da ogni colpa.

Leggère sfumature al tema sono riscontrabili nel Bestiario divino di Guglielmo di Normandia (sec. XII) e nel Bestiario moralizzato di Gubbio, dove l'ambivalenza del simbolo del serpente gioca un ruolo talvolta diabolico e talvolta cristologico.

Il cervo partecipa con il toro e con l'ariete all'onore di rappresentare Gesù Crìsto nella sua trìplìce qualità di Padre, di Capo e di Guida che vìgìla sulla famiglia crìstiana composta dalla Chiesa, sua sposa, e dai Fedeli, suoi figli. D'altronde, le sue abìtudini e attitudìni nella vita delle foreste giustificano questi suoi privilegi. Esso, infatti, si pone a

Page 86: Bestiario Cattedrale

capo del branco di cervi e di cerbiatti e, con lo sguardo sveglio e le orecchie attente, previene ogni pericolo per sé e per i suoi piccoli. A testa bassa, per le sue grandi corna, attrae con le na rici i serpenti e li inghiotte; se avverte sintomi di avvelenamento, corre alla fonte, beve e ringiovanisce, e le corna e il pelo gli cadono di dosso. «Allo stesso modo - commenta l'autore del Bestiario divino - noi non possiamo alzare gli occhi al cielo in quanto grava ti dalle grandi corna ramificate dei nostri peccati; è per questo che incappiamo nei serpenti, cioè i demoni, e per salvarci dal loro veleno non ci resta che ricorrere al Cristo, fonte di Acqua Viva».

In sostanza, il cervo è simbolo di Crìsto che aiuta l'uomo a passare dalla vita terrena a quella celeste. Nei recenti lavori di scavo all'interno della cattedrale di Bitonto è stato rinvenuto un concio in pietra su una delle cui facciate è raffigurato un cervo a rilievo piatto. Trattasi di una delle 49 formelle, forse del X o XI secolo e forse facenti parte di un antico portale, su cui un fantastico bestiario si staglia a rilievo piatto. Su di esso si svolge la scena di un cervo dalle corna ramificate, azzannato al collo da un animale dalle fattezze incerte, forse un cane o forse un ghepardo, uno di quegli animali dalla simbologia negativa che mette in evidenza la lotta tra il male e il bene (il cervo), che resiste all'attacco e fugge.

Su un altro concio in pietra, proveniente dal medesimo sito, è raffigurato, sempre a rilievo piatto, un cerbiatto sul cui dorso, ad ali spiegate, un uccello becca le sue piccole corna. L' immagine, pur ri velando un tocco più lieve di tenerezza e leggiadria, non fa differenza nel contesto esegetico. Ambedue godono del medesimo privilegio: quello di significare Cristo. Ma se il cervo solitamente rap presenta il Cristo incarnato, il suo cucciolo viene a precisare che s'intende Gesù bambino, nato per noi piccolo e indifeso. La grazia dell'aspetto, sottolineata dall'immagine del cerbiatto, richiama al cristiano la `grazia' o meglio la molteplicità delle grazie spirituali.

Anche Nilo (Comm. in Cant. 55) sottolinea la distinzione fra cervo e cerbiatto, e spiega che, laddove gli uomini in gioventú soccombono facilmente alle passioni, fin dalla nascita il Signore si è di mostrato in grado di schiacciare le potenze avverse (qui simboleggiate dall'uccello che becca le piccole corna) e annientare il male.

Anche se in questo e in altri contesti viene degradata la figura cristologica a preda di caccia, la più onorevole e prelibata, del resto «il cervo - scrive Cardini - resta animale sacro, degno del sacrificio dell'altare e della mensa dei re».

Il simbolismo animale nel Medioevo non si esaurisce nei soggetti trattati. Il tema è vastissimo. Mi preme solo sottolineare che il fecondo terreno su cui germogliò, continua ad offrire frutti generosi. Sì, perché se l'intelletto del teologo, del monaco e dell'artista dei secoli dell'età di mezzo ha partorito certe "invenzioni", ebbene, quelle furono di portata incalcolabile nella storia della civilizzazione oc cidentale, e le loro conseguenze interessano ancora oggi i nostri modi di pensare, di agire e di sentire. E li interessano a tal punto che le "categorie" mentali dell'uomo del presente sono impregnate della sostanza dell'intelligenza medievale. Né è possibile trascurarla. Volente o nolente, anche nei tempi di tecnologia avanzata, l'uomo del presente deve fare i conti con la sostanza dell'uomo del passato.

Da leggere:

P. Galloni, Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare, Roma-Bari 1983.

Page 87: Bestiario Cattedrale

F. Cardini, Il cervo, in «Abstracta», 12 (febbraio 1987), 39-45.

F. Moretti, Specchio del Mondo. I “bestiari fantastici” delle Cattedrali. La cattedrale di Bitonto, 2a ed. riveduta e ampliata, ed. Schena, Fasano 2004.

TRA MiRABILIA E TERRIBILIA

Cattedrale di Bitonto, esaforato: animali fantastici.

Il viaggio nella fauna romanica continua alla ricerca dei confini fra il corpo e il mondo, fra il razionale e l'irrazionale, fra meraviglie e inganni, fra inquietudine e incredulità, fra disprezzo e paura in una immaginosità che vaga fra mostri e diavoli di un Hieronimus Bosch o di un Dante Alighieri.

Questo "perfido gioco di demoni" in cui viene trascinato anche il nostro pensiero, creava nella coscienza medievale l'illusione diabolica di una distrazione di Dio nella creazione. Ma era solo un'illusione che i demoni potevano modellare a loro piacimento sulla coscienza addormentata e intorpidita dell'umanità. L'abbondanza di allusioni a questo tema nella letteratura apologetica durante tutto il Medioevo, e l'importanza accordata da Tommaso d'Aquino alla dottrina medievale della metamorfosi, attestano gli sforzi della Chiesa per soggiogare le superstizioni e, nello stesso tempo, testimoniano la vitalità di una credenza pagana in tutto l'Occidente cristiano; né gli sforzi dei teologi medievali, che fecero ricorso agli scritti di sant'Agostino per debellare tale credenza, ottennero risultati apprezzabili.

In Agostino la Chiesa aveva cercato la chiave interpretativa dell'inconoscibile e della

Page 88: Bestiario Cattedrale

deformità che costituivano un attentato alla ragione e all'ordine cosmico: quella chiave che avrebbe dovuto chiudere la porta alla superstizione e alla credulità. «Noi chiamiamo mostri - scriveva Agostino - quelli che tali non sono secondo Iddio, il quale vede nell'immensità della sua opera l'infinità delle forme che vi ha compreso... Noi definiamo "contro natura" ciò che avviene semplicemente contro la consuetudine; ma in realtà non esiste niente che sia se non secondo la natura, qualunque cosa sia».

Queste considerazioni erano impennate del pensiero di Agostino da Ippona; ma per l'uomo ordinario, in un ordinario Medioevo, la percettibilità di un universo di sogni, di visioni, di strane creature costituiva un universo altrettanto reale di quello terreno, "non secondo la natura". L'affermazione poi, a partire dal XII secolo, di una nuova cultura aristocratica e profana che raccolse l'eredità della tradizione pagana della metamorfosi legata alla tradizione di Ovidio, rese più difficile alla cultura clericale sanare la frattura fra natura e sopranatura. In suo soccorso intervenne tutta una collaudata tradizione allegorica. Ad essa fece ricorso la cultura clericale per affacciarsi sugli spazi ancora inesplorati della mitologia greco-latina dal cui stesso grembo raccoglierà le forze necessarie da contrapporre alla cultura profana per cercare la verità, e la metamorfosi sarà lo nuova forza-guida. Già Boezio nella sua De consolatione philosophiae attribuiva un valore allegorico tutto cristiano alla metamorfosi, quando affermava che «il bene eleva l'uomo al di sopra di se stesso fino alla natura divina; il male lo abbassa fino alla natura animale».

Certo, nella proliferazione letteraria in cui agiscono animali e creature fantastiche, gli autori medievali hanno ricevuto stimoli e finalità diversi, interpretati in modo diverso a seconda della lingua in cui l'opera era stata scritta e del destinatario. Ma non è raro il caso in cui un'opera letteraria, ricca di riferimenti fantastici, destinata ad un certo pubblico, subisca poi variazioni di percorso. È il caso, ad esempio, della Lettera del Prete Gianni il cui contenuto politico ha poi subìto uno spostamento dell'asse letterario verso il meraviglioso per poi entrare nel XII secolo (in seguito alla traduzione in anglo-normanno da parte di un certo Roanz d'Arundel) a «far parte delle verità del mondo». L'autonomia della cultura profana veniva così pian piano a perdersi con la immissione nell'opera letteraria del meraviglioso cristiano che giustificava lo scompiglio dell'ordinato universo aristotelico delle specie e delle categorie. È ovvio che questo processo di integrazione fra cultura profana e quella clericale non ha interessato tutta la produzione letteraria medievale.

Gran parte della letteratura narrativa ha tuttavia conservato una propria autonomia anche se non sono mancati, da parte della cultura clericale, tentativi di razionalizzazione e cristianizzazione di certi racconti o favole con sopravvivenze pagane, su dati di base irrazionali, in cui avviene, ad esempio, la metamorfosi dell'uomo in lupo o del lupo nell'uomo, della donna in serpente o di serpente in donna come nella leggenda di Melusina.

SISTEMI CONCETTUALI

Page 89: Bestiario Cattedrale

Cattedrale di Bitonto, portale centrale.

Il monopolio conquistato dalla Chiesa in campo intellettuale costituì nell'età medievale il veicolo più importante per la diffusione del cristianesimo. Tutti gli strati sociali furono interessati a livelli diversi e con intelligenze diverse a questo processo di cristianizzazione.

Gli schemi mentali delle categorie di uomini erano senza dubbio diversi, come diversi erano i modi di vivere la religiosità. Per alcuni atteggiamenti mentali si rendeva necessario il sapiente innesto della cultura pagana in quella cristiana, anche con apporti iconografici; per gli altri, invece, il cui pensiero era affinato dalla speculazione, la religione era vissuta con grande impegno intellettivo in accordo con la fede in cui contraria contrariis sanantur.

La predisposizione naturale delle due categorie mentali nei confronti della religione, non deve essere vista in maniera distinta; lo schema mentale del primo tipo «recepisce la stessa "parola" della rivelazione non come complesso di realtà concettuali, ma come verità garantite da un'autorità suprema»; lo schema mentale dell'uomo colto «tende a sistemarsi in un'organizzazione concettuale dei dati offerti dalla "parola" della rivelazione cristiana» (R. Manselli, Il soprannaturale e la religione popolare nel medio Evo, Roma 1985, p. 5). Tra i diversi modi di vivere la religione non v'è tuttavia differenza qualitativa: tutti contribuiscono in ugual misura alla comprensione di una realtà umana e spirituale considerate sì sotto aspetti diversi, ma «non in contraddizione fra di loro, non esclusivi l'uno dell'altro, né di differente valore». In sostanza, la conoscenza era garantita sia dalla speculazione sia dalla sola e semplice visione dell'illetterato per il quale vedere equivaleva a leggere ed udire senza condizionamenti intellettuali.

La cattedrale e la decorazione scultorea costituiscono un sensazionale documento, la cui lettura, oltre a fornire un elemento unificante a livello universale, definisce il concetto di epoca della fede che proviene da diverse forme di vita, di attività e di condizione umana convergenti in un modo unico di intendere la realtà religiosa, filtrata sì da condizionamenti diversi, ma solo apparentemente antitetici. L'intellettuale ha a sua disposizione il libro e la logica, l'illetterato dispone della realtà sensibile, degli elementi iconografici che sono simboli, segni che parlano e indicano la scorciatoia della fede lungo la quale egli cerca di salire fino a Dio. La scorciatoia non è in discesa e il salirla comporta superare il mondo nascosto dei bestemmiatori, dei viziosi e degli eretici che

Page 90: Bestiario Cattedrale

l'ideologia dominante ha fatto raffigurare sui portali, sui cornicioni e sui capitelli delle cattedrali, servendosi del procedimento sintetico ed efficace della simbologia animale e della commistione antropozoologica dove il mostro è allegoria, è metafora.

Certamente, la combinazione di linguaggi figurativi del periodo romanico riesce spesso difficile da intendere. Ci lasciano sconcertati, ad esempio, certe iconografie che, sullo stipite del portale nord della cattedrale bitontina, sembrano essere il risultato della creazione di una mente ammalata. O forse qui ha modo di farsi sentire tutto il peso di una tradizione ben radicata della polemica fra gerarchia ecclesiastica, sintetizzata da un volto umano con mitria in testa, e correnti ereticali che scuotevano le fondamenta della Cristianità romanica anche in Puglia, sintetizzate invece da un uccello mostruoso, morfologicamente incerto, fenomeni devianti che mirano ad attentare all'ordine. Il tutto metamorfosizzato da un processo artistico che si trasforma in metafora, in mutatio moralis che vede l'uomo, avvilito dal peccato, degradarsi fino a ridursi a bestia.