Bella Ciao Belgio n. 2

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Stato d’ emergenza I terribili attentati di Parigi hanno portato la guerra nelle nostre vite, nei nostri bar, nei nostri quartieri. Per alcune ore i cittadini di Parigi hanno vissuto quello che quotidianamente vivono migliaia e migliaia di persone in Paesi lontani, in guerre di cui ormai sentiamo parlare distrattamente nei telegiornali senza sentirci coinvolti più di tanto. Ma ora che l'orrore ha bussato alle porte di casa nostra provocando la morte di 129 persone, in una città che è così vicina, culturalmente e geograficamente, l'indignazione e la paura si sono diffuse a macchia d'olio. Ancor più qui in Belgio, Paese di cui sono originari alcuni dei responsabili di quegli attentati, e che è stato messo in stato di massima allerta.Il giorno prima dell'attacco a Parigi un'altra tremenda carneficina era stata portata a termine a Beirut dove l'Isis ha colpito il quartiere sciita di Borj el Barajneh, provocando 43 morti e 239 feriti, nell'attentato più cruento commesso nella capitale libanese da oltre vent‟anni. La notizia è stata riportata nei media con minore risalto, così come minore è stata l'indignazione sui social network. Così come è passato quasi completamente inosservato l'attentato del 31 ottobre scorso contro un aereo della russa Metrojet, che è stato fatto saltare con 224 persone a bordo mentre sorvolava in Egitto la penisola del Sinai. Una strage sempre a opera di integralisti collegati allo Stato islamico in Siria. Morti lontani, che valgono qualche articolo di giornale e niente più. Niente minuti di silenzio negli stadi e niente interventi commossi dei leader mondiali. E invece ora dopo le terribili morti di Parigi si sprecano gli interventi sui media di intellettuali ed esperti di ogni risma, che ci spiegano quanto sia importante la lotta contro lo Stato islamico, parlando di guerra e, gettando benzina sul fuoco, approfittando di In questo numero: Pag. 2 Poverta’ in Belgio Pag. 4 Molenbeek, frontiera del dialogo Pag. 8 Poverta e crimine organizzato Pag. 10 Riforma Costituzionale in Italia Pag. 12 Il comites, per servirvi Pag. 13 Senza Parole Pag. 14 URCA Pag. 16 Ritmo e Consapevolezza Pag. 18 Dalla torta all’Universo Pag. 20 TTIP & Co Numero 2 Dicembre 2015 0,50Segue a pag 24 ...

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Page 1: Bella Ciao Belgio n. 2

Stato d’ emergenza

I terribili attentati di Parigi hanno portato la guerra nelle nostre vite, nei nostri bar, nei nostri quartieri. Per alcune ore i cittadini di Parigi hanno vissuto quello che quotidianamente vivono migliaia e migliaia di persone in Paesi lontani, in guerre di cui ormai sentiamo parlare distrattamente nei telegiornali senza sentirci coinvolti più di tanto. Ma ora che l'orrore ha bussato alle porte di casa nostra provocando la morte di 129 persone, in una città che è così vicina, culturalmente e geograficamente, l'indignazione e la paura si sono diffuse a macchia d'olio. Ancor più qui in Belgio, Paese di cui sono originari alcuni dei responsabili di quegli attentati, e che è stato messo in stato di massima allerta.Il giorno prima dell'attacco a Parigi un'altra tremenda carneficina era stata portata a termine a Beirut dove l'Isis ha colpito il quartiere sciita di Borj el Barajneh, provocando 43 morti e 239 feriti, nell'attentato più cruento commesso nella capitale libanese da oltre vent‟anni. La notizia è stata riportata nei media con minore risalto, così come minore è stata l'indignazione sui social network. Così come è passato quasi completamente inosservato l'attentato del 31 ottobre scorso contro un aereo della russa Metrojet, che è stato fatto saltare con 224 persone a bordo mentre sorvolava in Egitto la penisola del Sinai. Una strage sempre a opera di integralisti collegati allo Stato islamico in Siria. Morti lontani, che valgono qualche articolo di giornale e niente più. Niente minuti di silenzio negli stadi e niente interventi commossi dei leader mondiali. E invece ora dopo le terribili morti di Parigi si sprecano gli interventi sui media di intellettuali ed esperti di ogni risma, che ci spiegano quanto sia importante la lotta contro lo Stato islamico, parlando di guerra e, gettando benzina sul fuoco, approfittando di

In questo numero:

Pag. 2 Poverta’ in Belgio

Pag. 4 Molenbeek, frontiera del dialogo

Pag. 8 Poverta e crimine organizzato

Pag. 10 Riforma Costituzionale in Italia

Pag. 12 Il comites, per servirvi

Pag. 13 Senza Parole

Pag. 14 URCA

Pag. 16 Ritmo e Consapevolezza

Pag. 18 Dalla torta all’Universo

Pag. 20 TTIP & Co

Numero 2

Dicembre 2015 — 0,50€

Segue a pag 24 ...

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Povertà in Belgio. 2 bambini su 5 poveri a Bruxelles

di Roberto Galtieri

1.652.000 persone in Belgio vivono sotto la soglia di povertà, il 15,1% del totale. Questi i dati del rapporto annuale federale 2015 in materia di lotta alla povertà e l‟esclusione sociale.

La soglia di povertà è stata fissata a 1.704€ al mese per un single e a 2.256 per una coppia con 2 bambini. Questi dati, benché drammatici, non danno che un‟immagine parziale del problema. Considerato il salario minimo sotto il quale è stata considerata la soglia di povertà, lo studio governativo afferma che dell‟oltre un milione e mezzo di poveri, 561.000 persone sono in condizione di “privazione materiale”, il 5% degli abitanti il Belgio; ovvero queste persone non possono pagarsi né riscaldamento, luce e gas, né l‟affitto. Nel complesso alcune categorie soffrono maggiormente della gestione governativa della crisi volta solo a salvaguardare i profitti e le banche: i bambini, i giovani, le persone con più di 55 anni, e, ovviamente, le persone meno istruite e i disoccupati. 1 bambino su 5 (420.000) vive sotto la soglia di povertà, ma il dato è ancora più drammatico se consideriamo che in Vallonia il dato è 1

2 Dal Belgio

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bambino su 4 e a Bruxelles 2 bambini su 5. Quest‟ultimo dato è stato anche confermato dall‟UNICEF, il fondo dell‟Onu per l‟infanzia, specificando che i bambini che sopravvivono sotto il livello di povertà sono 4 su 10: il 40%: “la povertà colpisce i bambini in tutti gli aspetti dello loro esistenza con conseguenze dirette sulla salute, le possibilità di riuscita scolastica, sicurezza e conforto”. L‟agenzia dell‟Onu ha inoltre deplorato il ruolo del sistema educativo belga che “rafforza le differenze invece di livellarle. Per questo centinaia di migliaia di bambini non beneficiano delle medesime opportunità dall’inizio della propria vita”. Il rapporto federale sottolinea, inoltre, come le decisioni del precedente governo Di Rupo in merito alla riforma delle indennità di disoccupazione non hanno migliorato la situazione. Infatti il rischio di povertà per un disoccupato single è aumentato di 6 volte. Lo stesso vale per la sostituzione delle indennità di inserimento che hanno privato di reddito

Dal Belgio 3

ledessindulundi.net

"Come diminuire le cifre relative all'indennità di disoccupazione...e della

povertà in Belgio" "ONEM = ufficio nazionale dell'impiego"

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Molenbeek, frontiera del dialogo.

di Edoardo Luppari

Devo dire che la prima volta che misi piede a Molenbeek, in pieno mercato settimanale, mi sentii come consegnato alle fauci di un suk di Marrakesch. Piuttosto spiazzante. Poco più in là, fresco di lettura di Houellebecq, scambiai persino la cattedrale di Simonis per un‟ immensa moschea. Cosa non fa la suggestione. Più di qualcuno, al mio arrivo a Bruxelles, mi aveva caldamente sconsigliato di “attraversare il canale”. Salvo scoprire, ben presto, che la maggior parte di loro non ci era nemmeno mai stata. Col tempo e un po‟ di caparbietà affrontai le mie perplessità e i pregiudizi collettivi, che portano i nostri occhi a vedere cose che non esistono. Oggi considero il fatto di vivere qui come una grande opportunità. In questi giorni Molenbeek è tristemente alla ribalta dell‟informazione: quello che per tutti è un caso di terrorismo internazionale, qui è anche una storia di quartiere. Martedì sera la piazza comunale era insolitamente illuminata dai riflettori delle videocamere. Il circo mediatico ha decretato il grande momento di Molenbeek: telecamere in spalla, tutti a raccontare la fucina del terrorismo internazionale…

4 Vita di Quartiere

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Ammetto che, dopo aver appreso degli episodi di Parigi, ho evitato accuratamente di frequentare l‟informazione. E l‟ho fatto deliberatamente: per poter riflettere più liberamente. In casi come questo – è stato scientificamente studiato – i media diventano ossessivi e monomaniaci, tendono a recitare il proprio mantra in una sorta di ipnosi collettiva. A volte è ancor peggio, si veda il caso dell‟articolo del Messaggero del 15 novembre, dal titolo: “Belgio, c'è un quartiere di Bruxelles dove l'unica legge è la Sharia”. Me l‟ha inviato un amico e l‟ho letto con un occhio per non tradire il mio intendimento. Questa cosiddetta “informazione” insinua in maniera subdola stereotipi solo per la causa del sensazionalismo. L‟immagine di un quartiere “sottoposto alla Sharia” non corrisponde alla realtà. Ho ricevuto diverse chiamate da parte di amici di tutta Europa e dall‟Italia. Evidentemente avevano letto i giornali. Mi chiedevano se stessi bene… a Molenbeek, se fossi sano e salvo. Ho cercato di spiegar loro che la situazione è ben diversa e più complessa delle facili etichette affibbiate dai media. In questi giorni, camminando per le strade del quartiere, ho osservato soprattutto una cosa, che difficilmente si misura ma si sente: gli occhi della gente. Ed ho letto una cosa, oltre alla paura: la sconfitta. Questa gente è sconfitta due volte, perché sarà per sempre bollata come abitante del “ghetto terrorista”. Da quando abito qui, quasi un anno, ho conosciuto decine di persone, di associazioni e di amici attivi nel quartiere. Costoro, tra di loro molte donne, lottano per restituire di Molenbeek un‟immagine più aperta, più veritiera e multiculturale. Sono le persone come loro a ricevere lo schiaffo più grande. E sono marocchini, berberi ma anche francesi, belgi, rumeni, africani, italiani. A proposito di italiani: pochi sanno che prima di essere il “ghetto marocchino”, Molenbeek fu il punto di arrivo di numerosissimi italiani. Lo testimoniano tutt‟oggi i nomi sui campanelli, basta farsi un giro per il quartiere. Era la seconda onda migratoria, a partire dagli anni „70 e provenivano principalmente dalle miniere. Passare alle fabbriche di Molenbeek era un‟occasione di riscatto. Molenbeek ha sempre avuto questa vocazione di quartiere di passaggio, a suo modo trampolino sociale. Da italiano residente a Molenbeek, mi sento partecipe di questa storia, di appartenere a modo mio alla terza o quarta onda migratoria. I miei figli frequentano uno degli asili del centro, un autentico esempio di mixité. Ma ho anche scoperto numerose realtà, a partire dal Vaartkapoen,

Vita di Quartiere 5

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nederlandofono, famoso per la sua sala concerti che ospita spesso artisti italiani di calibro, luogo di autentica integrazione e dialogo al di fuori di ogni retorica (con i suoi Café Quartier e numerose altre iniziative). Poi c‟è la Maison des Cultures, giustamente chiamata “casa delle culture” e non della cultura. O associazioni come TYN (Talented Youth Network) che operano con un forte radicamento nel quartiere con la missione di lavorare sulle potenzialità dei giovani, sviluppando le loro capacità e il loro engagement di cittadini. Ho frequentato i piacevoli aperitivi del Centre Maritime e di Radio Maritime, dove il quartiere si incontra e si racconta. E vi assicuro che la birra c‟era. Il panettiere sotto la mia prima residenza, a due passi da Place Saint-Jean Baptiste è curdo ma parla almeno 6-7 lingue. Gli ho chiesto dove le ha imparate. Mi ha risposto “qui, per vendere il pane ci vuole”. Incontrando tutte queste realtà ho pensato sempre e solo una cosa: che Molenbeek – e di Molenbeek ne esistono certamente altre in tutta Europa – è un laboratorio, una frontiera. Lungi da me il voler negare quello che è stato più o meno ampiamente dimostrato. Non mi interessa di fare apologia, ma voler etichettare realtà come queste è non solo condannarle alla segregazione, ma anche condannare se stessi al conflitto. Sì perché conflitto c‟è e lo si può cogliere. Nei mesi scorsi ho avuto l‟occasione di lavorare, principalmente per strada, per un‟inchiesta della Regione di Bruxelles. Ho parlato con centinaia di persone ed ho capito che, a torto o a ragione il conflitto sociale qui è pesante, e si è aggravato con la crisi economica. Questo è certamente un humus non promettente, ancor peggio se lo si irriga di pregiudizi (da entrambe le parti) e di assenza di dialogo. Ci sono numerosi fraintendimenti e, da italiano, mi sono provato a spiegare “loro” che comunque lo stato belga è uno stato che chiede ma che dà anche molto. Qui delle opportunità ci sono… ho invitato chi si lamentava a farsi un giro in Italia: lì sì la disoccupazione giovanile supera il 30% un po‟ meglio di qua, ma praticamente non esistono i sussidi statali, il CPAS, le allocazioni famigliari, l‟indennità di disoccupazione è fortemente ridotta.Vivere qua, in definitiva, è certamente una scelta, significa mettersi nella sfida del confronto. Ma è rigorosamente vietato farlo in maniera naif. Essendo un incontro alla frontiera, o la relazione è autentica, seppur dura, oppure sfocia nell‟ipocrisia e nella retorica. Il confronto culturale non può avere posizioni a priori, è un lavoro quotidiano e mai scontato. La tolleranza, me lo ripeto

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sempre ultimamente, non è semplicemente una questione di buonismo, ma è il solo modo di poter evitare il conflitto – che è sempre la sconfitta di tutti. A Molenbeek, nel cuore della capitale dell‟Europa, l‟Europa si confronta con il suo altro che, giusto o sbagliato lo dirà la storia, ha accolto, coltivato e lasciato esprimersi secondo la propria cultura. Questo poteva accadere solo in un paese così speciale come il Belgio. Il 18 novembre sera, a quasi un anno di distanza dai fatti di Charlie Hebdo, centinaia di persone si sono riunite nella piazza comunale per affermare un‟identità del quartiere differente da quella affibbiatagli dai media. Allora si diceva con orgoglio Je suis 1080, oggi l‟associazione Vaartkapoen, con altre organizzazioni ha proposto il motto MOLENBEEK donne de la lumière/

geeft licht/ نور تشع مولنبيك / gives light. La vera “lotta contro il terrorismo” qui in Europa ma non solo, si fa con la cultura. Se per ipotesi, con un movimento individuale, interiore, e al tempo stesso collettivo, ogni singolo sapesse superare la Paura, che in gran parte è paura dell‟”altro”, ogni minaccia terroristica perderebbe la propria forza.

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Foto :Yves Herman / Reuters

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Povertà, causa o conseguenza del crimine organizzato?

di Vania Puttati

Considerata il “lato oscuro” della globalizzazione, la criminalità organizzata è una delle principali minacce per lo sviluppo e la sicurezza del nuovo millennio. Come spesso dichiarato anche da Antonio Maria Costa, ex-direttore esecutivo dell'Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, sembra infatti che le Mafie internazionali e la povertà siano due facce della stessa medaglia. La povertà come conseguenza della criminalità Secondo l'Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia c'è un collegamento diretto tra il crimine organizzato e il detrimento dello sviluppo. Inoltre i traffici illeciti traggono gran vantaggio dalla diminuzione delle restrizioni imposte dallo Stato e la deregolamentazione dei mercati finanziari rende più facile il riciclaggio di denaro su scala globale. Il crimine organizzato adotta ogni forma di corruzione per infiltrarsi a livello politico, economico e sociale. Attraverso la corruzione, i gruppi criminali generano povertà determinando l'uso improprio dei fondi destinati allo

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sviluppo e deviandoli da settori di vitale importanza come la salute e l'istruzione, privandone così chi ha bisogno. E mentre i poveri diventano più poveri, la corruzione alimenta la miseria e la disuguaglianza in un circolo vizioso. Insomma le organizzazioni criminali traggono beneficio dalla povertà. Diversi studi e un gran numero di inchieste giornalistiche hanno reso noto che le organizzazioni criminali prediligono e incentivano la povertà perché abbassa i costi di produzione. La povertà come causa della criminalità “La povertà...” scriveva Aristotele “... è madre del crimine”. Il dibattito su come la povertà porta al crimine è complesso. Diversi studi sono stati condotti sulla relazione tra la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e le variazioni del tasso di criminalità, illustrando risultati opposti. Questo si deve al fatto che la povertà non è un fattore determinante in sé e per sé, ma se lasciato fuori controllo e, specialmente, combinato ad altri fattori (disoccupazione, densità di popolazione, segregazione, età, località e livello d'educazione) ha conseguenze dirette sullo sviluppo della criminalità. Povertà e disoccupazione, per esempio, lasciano le persone davanti a una scelta: o prendere parte ad attività criminali o cercare di trovare fonti legali, ma spesso con un reddito molto limitato e non sufficiente per sostentare una famiglia. La maggior parte delle vittime di traffici illegali o gli agricoltori di coltivazioni illecite sono persone poverissime. Accettano le condizioni offerte dalle organizzazioni criminali perché pagate sufficientemente e nessun'altra istituzione riesce a offrirgli un'alternativa sostenibile. Inoltre, la povertà conduce a una percezione distorta della realtà, in particolare, dei valori della società in cui si cresce. Un caso classico è quello dei giovani che, cresciuti nella povertà, hanno una percezione distorta dell'educazione: spesso tendono a contare meno sull'accesso a scuole o lavori di qualità, preferendoli al crimine che, in un modo o nell'altro, porta “cash” facile e veloce. Questo non vuol dire che la povertà porta automaticamente all'aumento di crimini e violenza, ma sicuramente dà un incentivo a entrare nel mondo dell'illegalità.

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Riforma Costituzionale in Italia, qual è la posta in gioco?

di Alfonso Bianchi

Gli italiani, anche all'estero, potrebbero essere presto chiamati alle urne per esprimersi sulla riforma costituzionale voluta dal Pd di Matteo Renzi. Il testo, approvato al Senato e in attesa di una scontata approvazione definitiva alla Camera (senza una maggioranza di 2/3 del Parlamento diviene obbligatorio un referendum confermativo), modifica sostanzialmente il nostro sistema democratico abolendo il bicameralismo perfetto. In che modo? Al centro della riforma della Costituzione c'è una radicale modifica del Senato che passerà da 315 a 100 senatori, di cui 5 nominati per 7 anni dal capo della Stato e 95 scelti dai Consigli Regionali, in base al peso demografico: 74 consiglieri regionali e 21 sindaci. Alle elezioni politiche non si voterà più per eleggere i propri rappresentanti al Senato, ma si dovrà poter esprimere una preferenza durante le elezioni regionali. Ai senatori saranno lasciate le immunità parlamentari ma tolte le indennità economiche. La carica 'a vita' rimarrà solo per gli ex presidenti della Repubblica. Il Senato perderà il potere di dare la fiducia al Governo e parteciperà solo in parte al processo legislativo diventando Camera delle

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autonomie e avendo in sostanza solo una funzione di controllo degli enti territoriali, creando il cortocircuito per cui controllori e controllati coincideranno. Conserverà il potere legislativo solo per riforme e leggi costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali, leggi sui referendum popolari e il diritto di famiglia, matrimonio e il diritto alla salute. La maggior parte dei poteri saranno della sola Camera dei deputati. Questo renderà secondo i sostenitori della riforma l'iter legislativo molto più veloce ed efficace, anche se gran parte delle analisi sul funzionamento delle Camere evidenziano che i ritardi nel legiferare non sembrano provenire dal doppio passaggio Camera/Senato. Quello che lascia maggiormente perplessi è l'impatto sul bilanciamento dei po-teri che la riforma costituzionale introduce anche alla luce della nuova legge elettorale . Questa, denominata Italicum, prevede per la lista che ottiene il 40% dei voti un premio di maggioranza che la porterebbe ad avere il 55% dei seggi (circa 340 su 630). In caso di mancato raggiungimento del 40% al primo turno si prevede un ballottaggio tra le due liste più votate. Questo significa che il notevole premio di maggioranza potrebbe andare a un partito che raccoglie nel primo turno (quello in cui normalmente le percentuali di voto sono più alte) anche solo poco più del 20% dei voti. Le liste, in 100 collegi, prevedono le preferenze ma con i capolista bloccati e che possono candidarsi, solo loro, in più collegi. La soglia di sbarramento è del 3%. Con la combinazione di riforma costituzionale e modifica della legge elettorale ci si troverà in pratica con un governo che dovrà confrontarsi solo con una Camera in cui avrà assicurata una maggioranza molto forte e un potere delle opposizioni ridotto. Non solo. Il governo potrà chiedere alla Camera che alcuni disegni di legge abbiano la priorità all‟ordine del giorno e siano votati entro 70 giorni. Da qui le critiche, come quella del presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, secondo cui “la visione d‟insieme è quella d‟un sistema politico che vuole chiudersi difensivamente su se stesso, contro la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia”, o quelle ancor più dure dell'Anpi secondo cui “modificare, come proposto, le linee fondanti e il sistema equilibrato di poteri, contro poteri, dettato dalla Costituzione ha come conseguenza una riduzione degli spazi di democrazia e incide fortemente sulla rappresentanza dei cittadini verso un sistema autoritario”.

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Il Comites di Bruxelles, per servirvi

di La Talpa

Carissimi connazionali, la vostra talpa nel Comites di Bruxelles continua a scavare (pardon a partecipare) ai lavori di questa istituzione un po' schiacciata fra la burocrazia e l'irrilevanza. Proseguono infatti, con fatica ma buona volontà, i lavori preparatori necessari a rispondere agli obblighi burocratici di questa istituzione (piccola ma regolata da un discreto numero di leggi e regolamenti). Nominare l'esecutivo, eleggere i cooptati, preparare i bilanci, trovare una sede, ecc.. Se un consigliere è ancora sveglio, dopo questi affascinanti punti all'ordine del giorno delle riunioni, resterebbe pure il tempo (poco) per organizzare delle attività che possano essere interessanti e utili per i

nostri connazionali: verificare il livello dei servizi offerti dagli uffici consolari, studiare insieme la possibilità di aumentarli, laddove i Consolati sono stati chiusi, o migliorarli, laddove fortunatamente ancora esistono. Ma tutto questo ne siamo sicuri (quasi) arriverà. Nel frattempo la vostra talpa si è dovuta occupare anche dell'elezione dei nuovi rappresentanti per il Belgio al CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all'Estero) che, come dice la legge " è organo di consulenza del Governo e del

Parlamento sui grandi temi di interesse per gli italiani all'estero". Chi sono i "grandi elettori"? Gli eletti dei vari Comites del Belgio più i rappresentanti di alcune delle associazioni riconosciute dal Consolato. Proprio la definizione di quali associazioni erano invitate a far parte della platea elettorale ha sollevato un grosso problema. La scelta finale delle associazioni che possono partecipare al voto spetta all'ambasciatore, che si basa su dei criteri che non brillano per la trasparenza: infatti, tanto per fare un esempio, alcune associazioni storicamente presenti sul territorio belga come l'Anpi o l'Altra Sicilia, non hanno potuto esprimere il loro voto. Ancora una volta le procedure per eleggere i vari organismi rappresentativi degli italiani all'estero si sono dimostrate complesse e non chiare. Alla fine la vostra amata talpa è ancora viva e continuerà a informarvi sulle attività del Comites sperando,

finalmente, di potervi dare qualche buona notizia.

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Senza parole

di L’Indignato

Questa foto riproduce un pezzo del muro di Berlino. L'hanno rimontato qui a Bruxelles davanti al palazzo del Berlaymont, la sede più importante della Commissione Europea, quella che si vede sempre nei telegiornali quando c'è un collegamento da Bruxelles. L'hanno montato qui, come è detto nel pannello esplicativo che si trova sulla preziosa teca, come monito contro la divisione dell'Europa, quella divisione che era simbolizzata dal muro di Berlino come una cicatrice sul corpo di un continente diviso dalla guerra fredda. L'hanno montato qui, davanti al 'palazzo ufficiale' della Commissione e di fronte, dall'altro lato della strada, del Consiglio. L'hanno montato qui quelle istituzioni europee che contano fra i loro membri dei paesi che i muri li stanno costruendo adesso per impedire il passaggio ai rifugiati, a chi scappa dalla guerra e dalla fame. Senza parole. Purtroppo ormai da molti anni le azioni, sia concrete che simboliche, delle istituzioni europee lasciano senza parole.

Il Fioretto 13

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Usine Récréative de Cultures Autres

di Lapo Bettarini

L'Officina Ricreativa delle Culture Altre (Urca in francese, Usine Récréative de Cultures Autres) è un'associazione senza scopo di lucro che mira alla creazione di uno spazio virtuale e fisico dove le persone possano condividere le loro esperienze e competenze, la loro creatività, dove la possibilità di incontrarsi e discutere è l'ingrediente fondamentale per la realizzazione di eventi, corsi, atelier, scambi culturali e confronto su tematiche sociali, politiche, di scienza, arte e istruzione, il tutto a sostegno di artisti off-stream e di chiunque voglia apprendere, insegnare, condividere, discutere e rimettersi in questione trovando delle forme altre di espressione. L'associazione fu creata da tre italiani che si incontrarono in una città, in un paese in cui non avrebbero mai pensato di abitare: Bruxelles, il Belgio. Non si può dire che siano giunti fin là condividendo delle basi comuni o con storie personali simili, a parte il loro paese di provenienza e le loro aspettative di trovare una situazione migliore di quella lasciata, un lavoro, forse la possibilità di tornare a casa un giorno oppure di trovare nella nuova realtà un giusto spazio dove crescere e “stabilirsi”. Ognuno per conto suo, e poi dal loro incontro insieme, hanno scoperte nuove realtà e hanno interagito con un mondo e una società, quella belga, che hanno mostrato subito di contenere non solo i semi e le condizioni per un loro sviluppo personale, ma anche gli stimoli e lo spazio per “creare insieme” nuove prospettive sia culturali che sociali. Hanno anche riscoperto

14 Associazioni

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un nuovo modo di leggere l‟italianità, sia quella moderna fatta dei nuovi immigranti dell‟Europa unita, degli studenti, dei “cervelli in fuga” sia quella degli immigrati che li hanno preceduti e che hanno lasciato (e continuano a farlo) una forte impronta in questo piccolo, ma importante, paese del nord Europa. L'incontro delle due italianità, o forse dovremmo dire delle due ritalità, ha dato il via a un nuovo fermento, uno spirito culturale inquieto che voleva e vuole ancora trovare un luogo per la nuova cultura italiana in Belgio insieme a tutte le altre forme di alterità culturale che vi si possono facilmente trovare. Questo luogo divenne Urca che raccolse la sfida, i sentimenti e le voglie, le idee e gli sforzi, e da allora li mescola insieme alle culture di altre comunità, altre voglie, altri punti di vista, si trasforma in avanguardia culturale, si pone il problema di riflettere e di creare allo stesso tempo. Inizialmente chiamata Elephant in my Pajamas, dalla celebre battuta di Groucho Marx, ora diventata l'etichetta di produzione audio-video dell'associazione, Urca è prima di tutto un'officina di idee, un luogo di cultura popolare di creazione e condivisone di esperienze, un collettivo dove le competenze sono le più varie, i bisogni i più diversi, le esperienze le più eclettiche, e che crede fortemente nell'importanza degli scambi e collaborazioni con tutte le altre realtà culturali, etniche, linguistiche a Bruxelles, in Belgio. Urca è un ambiente che vuol essere creativo e ricreativo fatto dalla gente per la gente dove lo scopo ultimo è la valorizzazione dell'altro in tutte le sue forme. I tre sono sempre a Bruxelles, si sono separati, ma continuano a cr ea re , a r i f l et te r e , a confrontarsi e quindi a essere una componente di Urca.

Associazioni 15

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Ritmo e Consapevolezza!

di Pietro Lunetto

Il 4 Novembre si sono esibiti a Bruxelles, per la prima volta, i Modena City Ramblers insieme ai 99 Posse. Entrambi i gruppi, nati agli inizi degli anni 90, rappresentano un pezzo di musica italiana, controcorrente e politicamente impegnata. Abbiamo avuto l‟opportunità di intervistare Davide Morandi e Massimo Ghiacci dei Modena City Ramblers. Domanda (D) Nel 2015, ha ancora un senso fare musica impegnata

politicamente? Come è il riscontro da parte del pubblico?

Risposta (R): Noi, dopo 20 anni, continuaimo a farla perche è la nostra

identità, lo è sempre stata e non potremmo fare altrimenti. Siamo dei grandi appassionati di musica a 360 gradi e non necessariamente ascoltiamo solo musica impegnata. I Modena nascono dall‟esigenza di confrontarsi con temi di rilevanza sociale e di conseguenza connotati politicamente, ma nella nostra

musica non c‟ è solo questo. C’è il desiderio di condividere orizzonti di vita e la voglia di diverstirsi suonando; quando lo si fa inserendo dei temi e tante

riflessioni che hanno una connotazioe politica, si completa la nostra identità. Noi siamo allergici all‟antipolitica.

Fare antipolitica è un modo comodo di disimpegnarsi, e noi siamo per l‟impegno e la partecipazione.

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D: Quali sono le 2-3 parole chiave che potrebbero caratterizzare la vostra produzione musicale? R: Resistenza, Condivisione e Viaggio, non soltanto nel senso fisico della parola. D: Perché un tour all‟estero da parte dei Modena City Remblers? Solo un fatto

commerciale o c‟è dell’altro?

R. Ci sono varie ragioni. La prima è lavoglia di confrontarsi con una realtà diversa da quella italiana, con numeri di pubblico molto differenti da quelli

italiani; è un po’ un modo per tornare con i piedi per terra, alle origini della nostra carriera.

La seconda è che le cose avvengono perché accadono. Ci è stata fatta questa

proposta di fare un tour insieme ai 99 Posse e ci è sembrata da subito una bellissima idea, visto che non avevamo mai fatto qualcosa insieme a loro. E da

ultimo c‟è il fatto che il nostro ultimo disco è molto internazionale, cantiamo in francese e anche in arabo e quindi ci sembrava giusto andare a proporre alcuni di questi pezzi al pubblico che li conosce in altre versioni. D: La maggioranza delle persone in Italia quando sentono parlare di

emigrazione si irrigidisce: è frequente sentire frasi come “ci rubano il lavoro",

"perché non restano a casa loro"; gli italiani emigrati all’estero vivono questa cosa, sentendosi spesso parte del problema. Volete suggerire un‟idea per cominciare a cambiare questa situazione? R. Consiglierei di spiegare nelle scuole cosa sia l‟ emigrazione, chiedendo a ragazzi di tirare fuori le valige di cartone dei loro nonni e dei loro bisnonni, che partivano non solo da sud ma anche da nord, andando in giro per il mondo per trovare una vita migliore. Arrivare a dimenticarsi che gli italiani sono un popolo di emigranti, dopo solo pochi anni dalle massicce emigrazioni, mi pare scandaloso. E deve essere poi il

compito di tutti noi spiegare ai nostri figli che la migrazione è un fenomeno

che è sempre esistito. Puo‟ sicuramente portare a qualche iniziale situazione di assestamento tra culture diverse, ma alla fine porta arrichimento a tutta la

società. Aggiungo solo che noi non siamo politici e quindi non abbiamo ricette da offrire a chichessia, pero‟ personalmente credo che la strada per un domani

condiviso, dove l‟integrazione sia qualcosa di reale, passserà dalla lotta alla

volgarità, al pensiero rozzo e violento, ormai espressione di una buona parte della borghesia italiana.

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Dalla torta di mele all'intero universo Di Lapo Bettarini

Teoria delle corde, trapianti di retine, scoperte di nuove specie animali e estinzione di altre, cambiamento climatico, filologia ugro-finnica, materia oscura e tecnologia spaziale, ma quanto ci costa la ricerca? E soprattutto: questi soldi sono ben spesi o ne abbiamo bisogno per questioni più urgenti tipo la fame nel mondo, la sanità, le ingiustizie sociali, anche solo il miglioramento delle strade e dei trasporti pubblici? Chiariamo innanzitutto un punto fondamentale: la cifra spesa dagli Stati Uniti per la Nasa, 17 miliardi e mezzo di dollari nel 2014, pari alla metà della legge di stabilità del governo italiano per lo stesso periodo, non è altro che lo 0.5 % del budget del governo federale americano per un anno. Prendiamo ad esempio la ricerca spaziale che non consiste solamente nell'esplorazione di Marte o nell'osservazione di oggetti distanti e sconosciuti, ma ha conseguenze importanti e coinvolge varie discipline oltre all'ingegneria e alla fisica, quali la biologia, la medicina fino ad arrivare in qualche misura anche alla filosofia: come si può cercare la vita su altri pianeti se non cerchiamo prima di comprendere cosa è la vita? A prima vista lo studio

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dell'universo e le varie missioni spaziali che sono programmate su intervalli di tempo di decine di anni e, quando costano poco, hanno finanziamenti per centinaia di milioni di euro non sembra che abbiano un grosso impatto sulla vita di chi va al lavoro a Bruxelles con l'affollatissimo autobus 71 o deve recarsi in treno a Namur o, facendo un discorso più ampio, sulla sanità, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile della società. Negli anni 70 in pieno fermento per l'allunaggio dell'apollo 11, Mary Jucunda, una suora missionaria in Zambia, inviò una lettera al vice-direttore della Nasa dell'epoca, Ernst Stuhlinger, chiedendo semplicemente perché spendere miliardi di dollari nella ricerca spaziale quando milioni di bambini morivano di fame. La stessa domanda fu sicuramente posta ai ricchi mecenati olandesi, o forse tedeschi, alla fine del '500 quando in tutto il mondo centinaia di migliaia di persone morivano a causa di epidemie mentre sforzi e soldi finanziavano il lavoro di inventori e artigiani che studiavano il modo migliore per assemblare delle lenti in vetro e capire cosa farsene. La risposta di Stuhlinger è spesso ancora oggi utilizzata in molti dibattiti sulla necessità del finanziamento alla ricerca: quelle lenti mostravano microbi e batteri, quell'oggetto era l'antenato del moderno microscopio, lo strumento che più di ogni altro ha fatto avanzare la ricerca medica nella storia dell'umanità. Quegli artigiani stavano facendo della ricerca. Negli anni le tecnologie sviluppate grazie ai programmi spaziali hanno portato notevoli e fondamentali risultati nella cura del cancro, per esempio i risultati dello studio di cellule umane in condizioni di bassa gravità e di radiazione intensa nella stazione spaziale internazionale, condizioni che sviluppano anomalie nella riproduzione cellulare, ha permesso la comprensione dei meccanismi di insorgenza di molte forme tumorali. Da macchinari quali i magnetogrammi per la misura del campo magnetico solare si sono ottenuti gli strumenti che troviamo oggi negli ospedali per individuare e controllare il cancro al seno che colpisce ogni anno moltissime donne in tutto il mondo. È la conoscenza che spinge il progresso e con questo il miglioramento della condizione umana. Carl Sagan, famoso astrofisico e divulgatore scientifico morto alla metà degli anni novanta, disse che se “vogliamo fare una torta di mele dal nulla, dobbiamo innanzitutto inventare l'universo”. Per inventarlo, aggiungerei, dobbiamo sapere come funziona.

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TTIP &Co : questo modello di “sviluppo” non s'ha da fare

di Federica Morelli – L'Asino Europeo

Credo sia il momento di stilare la classifica delle migliori citazioni del 2015. Personalmente, nutrivo pochi dubbi sul fatto che Juncker avrebbe raggiunto il primo podio nella mia classifica con il suo "non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei", suggellando in questi termini il suo credo infinito nell'anti-democratica UE di fronte all'opposizione di massa contro la svendita della Grecia e la politica del ricatto.Le cose si sono complicate qualche settimana fa. Stessa élite irresponsabile. Avete sentito anche voi Cecilia Malmström farsi scappare un bel "io non ho avuto il mio mandato dal popolo europeo"? La prima volta in assoluto che concordassimo su qualcosa! La battaglia contro il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) sta facendo strage di propaganda UE: in questa reazione traspare tutto il nervosismo istituzionale che ne consegue. La mobilitazione assume proporzioni sempre più importanti nel continente. L'ampiezza delle proteste forse ha già superato quella di Seattle del 1999. Un mese fa, 250 mila persone si sono riunite a Berlino per manifestare contro questo progetto scellerato. Il 7 ottobre è stata consegnata una petizione con più di 3 milioni di firme contro TTIP e CETA (Comprehensive Economic

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and Trade Agreement) , l'accordo commerciale con il Canada concluso l'anno scorso. Un bel regalo per i negoziatori UE in vista dell'undicesimo round di colloqui TTIP che si é tenuto a Miami. A metà ottobre, diversi gruppi della società civile bruxellese ed europea hanno messo in piedi un intenso programma di incontri informativi, dimostrazioni e azioni di disobbedienza civile durante il summit europeo sotto la bandiera di 'Marce europee contro l'Europa delle finanze'.

Il messaggio gode di ampio sostegno ed è sempre più forte. É quello di un'opposizione chiara a un'idea di Europa in cui si negoziano i diritti dei lavoratori, la sicurezza alimentare, la legislazione ambientale e i servizi pubblici, in nome della fede assoluta nel libero scambio. Eppure i negoziati non si fermano. Il loro proseguimento è di per sé un atto di violenza contro le persone. E non è un caso che si stia discutendo di una proposta di direttiva sui “segreti commerciali”. Obiettivo: rendere ancora più difficile il lavoro di giornalisti, informatori e sindacalisti nel divulgare informazioni su pratiche commerciali che danneggiano l'interesse pubblico. La battaglia sarà lunga. Allora ribadiamo un paio di concetti da diffondere il più possibile. Chi sostiene i negoziati per un accordo commerciale con gli Stati Uniti? I gruppi di interesse privati dominano in maniera schiacciante il ciclo di consultazioni intraprese dalla Commissione: oltre il 93 per cento delle riunioni nella fase preparatoria delle negoziazioni é avvenuto con le grandi imprese e i gruppi di lobbying industriale, come Business Europe. E anche nel corso dei negoziati, le g r a nd i c o m p a g n i e e s e r c i t a n o massicciamente la loro influenza Quali settori sono coperti dai negoziati in corso? Praticamente tut to. Un'esclusione speciale è stata introdotta per i servizi audiovisivi grazie ad un'ondata di proteste da parte di autori, cineasti

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e attori. Tuttavia, il TTIP rappresenta tuttora una minaccia per la diversità culturale in Europa. I negoziatori americani spingono per la futura liberalizzazione del settore. Sono in gioco anche i servizi educativi e sanitari. In breve, il TTIP apre le porte ad un abbassamento generalizzato degli standard dei prodotti e alla commercializzazione dei servizi pubblici. Cosa inquieta maggiormente del TTIP e dei suoi gemelli? La segretezza. I colloqui si svolgono in gran segreto. Nel caso del TTIP, solo il direttorato generale del Commercio della Commissione e l'Ufficio della US Trade Representative sono a conoscenza dello stato dei lavori - neanche i nostri rappresentanti nazionali ed europei sono coinvolti né informati sul processo. Stessa cosa vale per i loro omologhi statunitensi. Possono solo accettare o respingere l'accordo una volta finalizzato. La cooperazione regolamentare. L'obiettivo principale di queste aree di libero scambio non è ridurre i dazi doganali, ma convergere sugli aspetti normativi, che variano enormemente tra le due sponde dell'Atlantico, su una vasta gamma di settori: dagli standard di sicurezza alimentare e chimica, ai regolamenti bancari e i diritti di proprietà intellettuale, dalla legislazione ambientale agli appalti pubblici. Inoltre, le grandi imprese sono invitate a sedersi in "gruppi di esperti" per elaborare nuovi regolamenti ancor prima che le discussioni si svolgano nei parlamenti. Diritti speciali per gli investitori (clausola ISDS—Investor-state dispute

settlement). Una procedura di arbitrato internazionale con tribunali privati senza alcuna garanzia di imparzialità e dove solo gli stati possono essere citati in giudizio, non gli investitori. Le multinazionali hanno già utilizzato questa clausola inclusa in alcuni trattati firmati negli anni '90 per citare in giudizio stati per l'introduzione di politiche pubbliche che danneggiavano i loro profitti. Lo sapevate che la Philip Morris International ha citato in giudizio l'Uruguay per le avvertenze sanitarie sui pacchetti di sigarette? E che il colosso energetico svedese Vattenfall pretende dalla Germania fior fior di dindini per la sua scelta di abbandonare il nucleare dopo il disastro di Fukushima? La Lone Pipe ha fatto causa al Canada per la sua moratoria sul fracking, ne avete sentito parlare? Stiamo parlando di miliardi. Soldi pubblici, ovviamente. Se riuscissimo a bloccare il TTIP, ma il CETA entrasse in vigore, le multinazionali potrebbero comunque attivare l'ISDS attraverso le loro filiali. Si scrive TTIP, CETA, etc. Si legge: neo-liberismo La propaganda della Commissione su una maggiore competitività, crescita e

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occupazione è inarrestabile. Ma è un modello economico che ha già fatto troppi danni. Ai diritti dei popoli di disporre delle proprie risorse, ai diritti dei lavoratori, all'ecosistema. A titolo di esempio, il governo dell'Ecuador ha messo in atto una politica di repressione sistematizzata per forzare le persone ad abbandonare la propria terra, in virtù dell'accordo bilaterale con l'UE. Si rende di più difficile attuazione, se non impraticabile l'agenda per lo sviluppo: lo status quo fortemente inegalitario del commercio agricolo mondiale ne esce rafforzato. Si dà ai grandi inquinatori mondiali carte blanche sulle politiche ambientali. Attualmente, il 60 per cento dei casi ISDS riguarda politiche che hanno posto dei paletti alla produzione di petrolio, carbone e gas. Immaginate quello che una compagnia di combustibili fossili potrebbe pretendere con questo sistema, se un governo varasse una legge che vieta tutte le nuove estrazioni. Bisogna abbandonare questo modello il prima possibile. Impedire la ratifica del CETA e bloccare il TTIP sono passaggi obbligati nel lungo percorso che ci attende.

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questa tragedia per chiedere l'edificazione di muri e barriere per tenere lontani i pericolosi immigrati. Idiozie propagandistiche di chi finge di non capire che gli autori degli attentati di Parigi sono le stesse persone da cui scappano i rifugiati che arrivano dalla Siria. Ha ragione Emergency quando dice che “vediamo accadere in Europa quello che da anni accade in Afghanistan, in Iraq, in Siria”, che “le nostre scelte di guerra ci stanno presentando il conto di anni di violenza e di distruzione”, che “diritti, democrazia e libertà sono l'unico modo di spezzare il cerchio della violenza e del terrore”, e che “l‟alternativa è la barbarie che abbiamo davanti e alla quale non possiamo arrenderci”. I politici che oggi invocano la guerra fingono di non sapere che questa guerra, che era già in atto prima che quelle vittime in Francia perdessero la loro vita in quella maniera tanto brutale e inaccettabile, è stata tollerata se non addirittura foraggiata in Siria allo scopo di liberarsi di Bashar al-Assad. Che i finanziamenti e gli armamenti all'Isis sono arrivati in parte dall'Arabia Saudita, uno dei Paesi più fondamentalisti e da sempre uno dei principali soci in affari degli Stati occidentali. Che la Turchia uccide e bombarda i curdi che proprio contro lo Stato islamico stanno combattendo in Iraq. Che bisogna lottare contro l'Isis, sconfiggerlo, ma che il modo per farlo non può essere una pioggia di bombardamenti che finisce soltanto per causare altre centinaia di vittime innocenti.La giusta indignazione e rabbia per le morti di Parigi non può e non deve servire all'Occidente per nascondere e dimenticare i propri crimini e le

Bella Ciao rue de Foulons 49, 1000 Bruxelles. Éditeur responsable: Alfonso Bianchi. Redazione: Lapo Bettarini, Alfonso Bianchi, Roberto Galtieri, Marco Grispigni, Pietro Lunetto; Grafica: Andrea Albertazzi — Imprimé à Bruxelles Le pagine dedicate alle associazioni sono autogestite.

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