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LA CITT À DEL SECONDO RINASCIMENTO LA CITT À DEL SECONDO RINASCIMENTO TRIMESTRALE - N. 66 - Dicembre 2015 - Spedizione in abb. post. 45% - Legge 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1. Filiale di Modena - Tassa pagata - Euro 5,00 BAT YE’OR CONTI DALLA VAL GALLI GIANNELLI MALENA MARCHETTI MASI MONTORSI MOROSATI MOSCATTI PIACENTINI RAIMONDI REGAZZI SAGUATTI SPADAFORA TONIOLO VENARA VERONESI ZENNARO BATTAGLIA DI CIVILT À

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LA CITTÀDEL SECONDO RINASCIMENTOLA CITTÀDEL SECONDO RINASCIMENTO

TRIMESTRALE - N. 66 - Dicembre 2015 - Spedizione in abb. post. 45% - Legge 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1.Filiale di Modena - Tassa pagata - Euro 5,00

BAT YE’OR

CONTI

DALLA VAL

GALLI

GIANNELLI

MALENA

MARCHETTI

MASI

MONTORSI

MOROSATI

MOSCATTI

PIACENTINI

RAIMONDI

REGAZZI

SAGUATTI

SPADAFORA

TONIOLO

VENARA

VERONESI

ZENNARO

BATTAGLIA DI CIVILTÀ

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668 Sergio Dalla Val

La battaglia intellettuale

11 Bat Ye’or

Le complicità europee con lo jihadismo islamista

17 Caterina Giannelli

La battaglia secondo la dissidenza

19 Anna Spadafora

Quale Europa: minaccia islamica o secondo rinascimento?

20 Dino Piacentini

La civiltà delle costruzioni per la città dell’avvenire

25 Bruno Conti

L’apporto del manifatturiero alla civiltà

27 Paolo Moscatti

La responsabilità dell’impresa per l’educazione dei giovani

29 Dante Marchetti

A scuola nell’azienda

31 Marcello Masi

Nuovo ristorante Exé 1985: dove si festeggia la vittoria di tante partite

33 Maurizio Venara

Investiamo nonostante la burocrazia

34 Raimondo Raimondi

Industrializzazione e qualità artigianale per le macchine R.C.M.

37 Paolo e Marco Veronesi

Dieci anni di Chantecler a Bologna

39 Marco Regazzi

A ogni epoca la sua 911

41 Andrea Roberto Morosati

L’intervento del capitano quando si annuncia la tempesta

42 Gianni Saguatti

La tecnologia Giotto Class per la diagnosi del tumore al seno

43 Bruno Toniolo

L’impresa vince con l’arte e la scienza, non con la burocrazia

45 Michele Malena

Ecco un privato che fa sconti sugli esami, non sulla salute

47 Roberto Zennaro

Tradizione e novità nell’area medica dell’Ospedale Madonna della Salute

49 Pier Luigi Montorsi

No all’allarmismo contro la carne

53 Davide Galli

La Carta di Bologna e la tutela del danneggiato

BATTAGLIA DI CIVILTÀ

Registrazione del Tribunale di Bologna n. 7056 dell’8 novembre 2000

TRIMESTRALE, SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALEArt. 2 - comma 20/B - Legge 23/12/96 n. 662Pubblicità inferiore al 45%, a cura dell’Associazione Il secondo rinascimentoIscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 11021 e al ROC n. 6173

Numero 66. Stampato nel mese di novembre 2015, Officine Grafiche Litosei Srl, via Gioacchino Rossini 10, 40067 Pianoro (BO).

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia RomagnaDIRETTORE RESPONSABILE: Sergio Dalla ValREDAZIONE E ABBONAMENTI:Bologna, via Galliera 62, 40121, tel. 051 248787 fax 051 247243Modena, via Mascherella 23, 41100, tel. e fax: 059 237697Sito internet: www.lacittaoline.com www.ilsecondorinascimento .it [email protected]

EQUIPE DI REDAZIONE:

Rossella Baiano, Roberto F. da Celano, Ornella Cucumazzi, Caterina Giannelli, Carlo Marchetti, Valentina Mattioli, Marco Moscatti,

Anna Maria Palazzolo, Fabio Pellizotti, Vincenzo Pisani, Daniela Prevedelli, Simone Serra, Panthea Shafiei, Anna Spadafora, Veronica Trasarti, Carlo Zucchi.

EQUIPE ORGANIZZATIVA:

Agnese Agrizzi, Pierluigi Degliesposti, Luca Monterumici, Silvia Pellegrino, Pasquale Petrocelli, Mirella Sturaro.

In copertina: Opera di Mary Palchetti, Scardinare il tempo (ovvero: la clessidra impazzita), 2000, acrilico su tavola, cm 65x90 opera pubblicata per gentile concessione del Museum of the Second Renaissance (Milano-Senago)

Oltre che nelle librerie, i numeri arretrati e gli abbonamenti si possono richiedere alla redazione di Bologna, via Galliera 62, tel. 051 248787 o tramite e-mail: [email protected]. Per la consultazione on line: www.ilsecondorinascimento.it www.lacittaonline.com

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.

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SerGIo DALLA VALpsicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia RomagnaNel libro Discorso sull’origine e i

fondamenti della disuguaglian-za tra gli uomini (1754) Jean-Jacques Rousseau considera la civiltà, e in parti-colare la figura giuridica della proprietà, come la causa di tutti i mali e dell’infe-licità della vita dell’uomo, che prima vi-veva libero nello stato di natura. Questa mitologia naturalistica, che risponde a un’idea di origine, offre le basi alla cri-tica della civiltà degli Annali franco-tedeschi di Karl Marx (1844). Secon-do Marx, la civiltà è fondata, sempre a causa della proprietà, sulla scissione tra lo stato e l’individuo e sull’alienazione di quest’ultimo. Più di cento anni dopo, nel libro Eros e civiltà (1955), Herbert Marcuse accuserà la civiltà di impedire il soddisfacimento delle pulsioni, a causa della sua organizzazione irrazionale e del dominio del principio di prestazione, e le opporrà una società basata sull’imma-ginazione. Il naturalismo utopico (an-che l’idea di utopia dipende dall’idea di origine) di Marcuse manca la questione posta da Sigmund Freud già nel 1930, con il libro Il disagio nella civiltà, in cui obietta al comunismo che “la pro-prietà è un aspetto incancellabile della natura umana” e constata che ogni civil-tà, non solo quella capitalistica, si fonda sul “compito assegnato a Eros di riunire uomini in una comunità”. Freud nota che questa esigenza di riunione propria della civilizzazione esige una gestione dell’amore, da finalizzare al contenimen-to dell’aggressività, che Freud ritiene causata proprio dalle limitazioni neces-sarie alla civiltà per canalizzare l’amore. “Ogni nuova rinuncia pulsionale”, scri-ve, “accresce la severità e l’intolleranza”, e non viceversa.

Con queste annotazioni, Freud apre la via alla constatazione cifrematica che la civiltà fondata sul naturalismo poggia sull’idea di bene che deve economizzare il male. Per questa via, cerca il suo limite o la sua definizione negativa nella bar-barie, da essa stessa ipotizzata e attribu-ita all’Altro, rappresentato nel nemico, che può essere anche un altro popolo o un’altra razza. Così ogni civiltà edifi-cata sulla rinuncia pulsionale è intolle-rante, poggia sul discorso della guerra, sull’idea di un nemico da combattere, dunque è polemologica, come nota nel suo libro L’atto antitotalitario (1983) André Gluksmann. Ma è anche civiltà tanatologica: imponendo ai sudditi il sa-crificio, dunque le colpe e le pene, trova, negli altri o nelle altre società, chi debba assumerlo, chi debba essere sacrificato,

chi debba espiare, anche con la morte. La civiltà tanatologica esige la vittima, parte dalla morte come pena, come espia-zione; morte da assumere vivendo nella mortificazione (nell’islam la condizione di dhimmitudine – di cui parla Bat Y’e Or nel suo articolo – richiede all’infedele il pagamento della tassa (jizya) per vi-vere) o morendo nell’immolazione (come gli shahid, i cosiddetti martiri di Allah), due modi della vittimologia per negare l’attuale, il tempo, il fare, in nome del-la promessa dell’avvenire. Con la jizya si inaugura il fiscalismo come segno di sottomissione e come tangente per vive-re: “Combattete quelli che non credono

in Dio... finché non versino la tassa con le proprie mani dopo essersi umiliati”, scrive il Corano (IX, 29), che è servito di lezione anche per le burocrazie fiscali europee.

La civiltà che si appella all’avvenire poggia sulla religione, che, come nota Freud, giustifica (ovvero, sia accetta sia limita) l’attuale in nome dell’avvenire. Non a caso Samuel Huntington, che nel libro Lo scontro di civiltà (1996) crede che “lo scontro di civiltà dominerà l’eco-nomia mondiale”, delinea le nove civiltà presunte protagoniste di questi scontri soprattutto a partire dalle loro religioni, affermando: “Quasi tutte le maggiori civiltà della storia sono state identifica-

te con le grandi religioni del mondo”. Il presunto scontro di civiltà è scontro tra religioni, tra dottrine religiose come alibi delle dottrine politiche. Il fondamentali-smo religioso deve affermare il primato del libro già scritto, della parola già det-ta, del dio antropomorfico, misericordio-so e vendicativo, che ama gli amici e odia i nemici. La stessa formulazione “Ama il tuo nemico”, nota Freud, aumentando le rinunce pulsionali, incrementa l’intolle-ranza. E come mostra l’islamismo politi-co, il dio misericordioso e vendicativo è un dio che agisce e trae all’azione i suoi fedeli.

Lo scontro delle civiltà di Huntington è scontro contro la civiltà e viene chia-mato guerra mondiale, dunque resta nel discorso della guerra. Con il terrorismo islamista, questa guerra è globale, è con-tro la civiltà. La civiltà non è le civiltà, non si pluralizza come il dio delle reli-gioni, il dio delle origini. Civilitas, la civiltà, da civis, cittadino romano. La civiltà non c’era a Babilonia o a Atene, è invenzione romana. Civitas era la cit-tadinanza, il diritto di cittadinanza che acquisivano gli abitanti dell’impero, a prescindere dalla nazione, dalla reli-gione, dal censo. Civitas, poi civilitas. Non tante civilitas, ma la civilitas per ciascuno. E civitas era la città, la città dei cittadini, del fare, la città del tempo, non l’urbs, città dei muri, degli edifici, città spaziale.

Se ciascuno è cittadino, non c’è più nemico. Civilitas è assenza di nemico, di conflitto, di scontro. Quando le cose si fanno secondo l’occorrenza, quindi se-condo la tolleranza, in particolare l’acco-glienza e l’ospitalità dell’Altro, s’insatu-ra l’incontro, non lo scontro. L’incontro è nella parola, l’incontro è per via del racconto: nessun incontro senza il rac-conto. Lo scontro nega la parola, espun-ge l’Altro fondandosi sulla logica del ter-zo escluso di Aristotele. Espunto l’Altro, dio, nel luogo dell’Altro, agisce. Allora entra nella dicotomia misericordioso-vendicativo. La filosofia aristotelica offre le basi all’islamismo politico, il terrori-smo partecipa alla tanatologia.

La civiltà è romana, nasce a Roma, si diffonde nel Mediterraneo, poi nell’Eu-

LA BATTAGLIA INTELLETTUALE

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ropa, con l’apporto di Gerusalemme e di Atene, come scrive in questo numero Bat Y’e Or, ma anche di Alessandria. E rinasce a Firenze, con la combinazione tra arte e cultura, scienza e finanza, con il Rinascimento e i viaggi di Colombo e Marco Polo. Senza più l’idea di alterna-tiva e di esclusione, la civiltà è cattolica, nel senso che procede dall’apertura per integrazione (katà olòn, secondo l’in-tero) dei vari elementi, senza bisogno di rinuncia. Non integrazione territoria-le o terroristica, ma integrazione nella parola, da cui nulla può essere espunto. È la civiltà come proprietà della parola,

civiltà intellettuale. Questa civiltà non è la civiltà occidentale, bensì la civiltà planetaria, civiltà che investe il pianeta nella misura in cui prescinde dall’idea di nemico e ignora il discorso della guerra illuministico-romantico. Il discorso del-la guerra si basa sulla giustificazione della morte in nome dell’idea di bene, e lo dimostra il terrorismo, che tanto ha imparato dell’ideologia franco-tedesca, imbevuta di Aristotele. Non con l’illu-minismo, ma con il rinascimento – in particolare con Niccolò Machiavelli – na-sce la modernità. È propria della moder-nità la distinzione tra politica e religione

che ogni fondamentalismo, soprattutto quello islamico con il suo terrorismo, non tollera. Come non tollera l’arte, la scienza, l’industria, la finanza; intolle-ranza condivisa da molti naturalisti, pu-risti, burocrati in Italia e in Europa. Con il secondo rinascimento delle arti e delle invenzioni, della ricerca e dell’impresa, della finanza e della comunicazione pla-netaria, ciascun paese si trova coinvolto verso la civiltà, si trova a acquisire la ci-viltà che non è già data, che non è mai data. Questa civiltà della parola è esente dal presupposto delle civiltà tanatologi-che, cioè dall’ideologia della vendetta, che fonda l’ideologia della colpa e della pena, dunque la logica sacrificale.

La battaglia di civiltà, allora, non è bat-taglia tra civiltà, è battaglia che instaura la civiltà. Essendo di civiltà, è battaglia senza nemico, non è contro qualcuno, è battaglia intellettuale, non ideologica o religiosa. Qui la vittoria è con l’Altro, non sull’Altro, perché la battaglia è sen-za l’idea di morte, quindi senza l’idea di vittima, quando il fare segue l’occorren-za. La battaglia, la battuta, il dibattito, il battito della vita. In questa battaglia nessuno può togliere il tempo, nessuno può togliere la città, nessuno può toglie-re nulla all’Altro. Nemmeno può togliere la proprietà, se la civiltà è proprietà della parola e non sulla parola, e non è il di-ritto di padronanza sulle cose. Come la parola, la proprietà della parola è incon-fiscabile, inalienabile, incancellabile. An-che gli strumenti della produzione sono nella parola: per questo l’imprenditore non ha da espiare la proprietà dei mez-zi di produzione inventandosi una fun-zione sociale che si risolva in filantropia ma, come indicano le interviste in questo numero, con mezzi e strumenti sempre da acquisire, offre un apporto indispen-sabile a questa battaglia senza nemico, perché produce valore e profitto con l’in-venzione e l’arte, senza potere farsi vit-tima, dunque ignorando l’ideologia della vendetta che nega la civiltà della parola e nella parola. L’imprenditore non può procedere dall’idea di origine, foriera di distruzione, bensì opera con spirito co-struttivo. La prova dell’inesistenza del sacrificio, dell’assurdità della rinuncia, dell’esigenza della riuscita: questo l’ap-porto essenziale che ciascun imprendito-re oggi fornisce alla battaglia di civiltà, quando combatte per vincere, anziché contro il nemico, l’Altro espunto e poi rappresentato. E senza mai abbattersi, nonostante il naturalismo, il terrorismo, il fiscalismo.

Mary Palchetti, Case dello spirito. La casa di uno spirito arrivista, 2000, acrilico su tela, cm 70x110

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BAT Ye’orarcheologa e studiosa dello statuto delle comunità etnico-religiose nei paesi islamici

Quando parliamo di Gerusalem-me e di Roma, è importante

capire il valore simbolico che queste due città hanno assunto nei seco-li. Per il cristianesimo e per la storia europea, Gerusalemme rimanda alla Bibbia, alla storia del popolo di Isra-ele, una storia in cui il cristianesimo riconosce le proprie radici e che, an-cora oggi, commenta ciascuna dome-nica, da duemila anni, in cia-scuna chiesa d’Europa. Roma è il simbolo dell’integrazione tra ellenismo e cristianesimo. La civiltà ellenistica si è lega-ta alla spiritualità di Gerusa-lemme e la fusione di queste culture ha formato la civiltà giudaico-cristiana.

Eppure, oggi questa nostra civiltà viene negata, soprat-tutto dalle nuove generazioni, che non ne riconoscono il si-gnificato. In particolare, il ra-dicamento del cristianesimo nell’ebraismo è stato spesso eluso, se non combattuto: co-nosciamo bene la storia del nazismo, la sua volontà di liberare la Chiesa dall’ebrai-smo e lo sterminio degli ebrei. Ma spesso ignoriamo che l’antisemitismo, anche nazi-sta, condannato alla fine della seconda guerra mondiale, ha continuato a esistere e a manifestarsi in Europa, in certi ambienti politici e intellettuali, anche successivamente. Negli anni sessanta, alcuni movimenti antisemiti europei sono stati suppor-tati dalle ambasciate dei paesi arabi e della Lega Araba Musulmana Inter-nazionale e hanno formato importanti gruppi di propaganda anti-israeliana e antisemitica. Questi gruppi hanno anche collaborato con i criminali na-zisti che si sono rifugiati in Egitto e in Siria e che si erano convertiti all’islam. Essi, con il Mufti di Gerusaleme, Amin al-Husseini, alleato con Hitler

e nel 1945 protetto dalla Francia per evitargli il Tribunale di Norimber-ga, prevedevano un’alleanza fra la Comunità Europea e i paesi arabi, in modo da creare un nuovo continente contro Israele e l’America. In questo contesto, nacquero in Europa associa-zioni di solidarietà con i popoli arabi, contro Israele, che formarono nume-rose reti legate ai nazisti islamizzati.

In questa direzione, dopo la per-dita delle colonie arabe, De Gaulle prese in considerazione l’idea del Mufti al-Husseini, che prevedeva l’unificazione degli stati attorno al Mediterraneo. Sognava di creare un’unione euro-araba, progetto pe-raltro non nuovo: lo aveva ipotizzato anche Hitler. Dopo la guerra dei Sei Giorni (1967), il presidente francese chiese all’ex-ministro dell’informa-zione Louis Terrenoire di creare una rete di solidarietà con i popoli arabi,

politica che conferì alle associazioni euro-arabe antisioniste una legittima-zione ufficiale. La Comunità Europea rifiutò il progetto di De Gaulle, ma dopo gli attentati terroristici palesti-nesi e il boicottaggio del petrolio in Europa, nel 1973, la Francia riuscì a convincere i nove paesi europei a sta-bilire un’alleanza euro-araba contro Israele, riconoscendo come legittimo interlocutore politico Arafat, il nipote del Mufti, e la creazione di un nuo-vo stato arabo-musulmano in Giudea e Samaria, proprio nel cuore dello stato di Israele. Questo piano, una condanna a morte per gli israeliani, prevedeva la sostituzione del popo-lo di Israele con un nuovo popolo, i palestinesi, di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima. Fu chiama-

to “via per la pace”! Questa era la condizione posta dalla Lega Araba per far cessare il boicottaggio del petrolio e per istituire con i paesi della Comunità Europea una strut-tura, non ufficiale, di collabo-razione a tutti i livelli, mirata a costituire un blocco unifica-to dei paesi mediterranei. La Comunità Europea, seguen-do questa linea, ha condotto due politiche collegate, una di supporto a Arafat e alla sua politica jihadista, l’altra mirata alla creazione di un nuovo continente euro-arabo che unisse le due sponde del Mediterraneo. Dal 1973, fu stabilita la cooperazione tra la Comunità Europea e i paesi arabi mediante un’istituzione politica, economica e cultura-le denominata DEA (Dialogo Euro-Arabo), organizzata ad

alto livello europeo e arabo, sotto la supervisione del Consiglio, della Commissione europea e della Lega Araba. Questa struttura era compo-sta da varie sezioni miste che lavora-vano per implementare, coordinare e sviluppare una comune politica nei campi dell’economia, della cultura, dell’immigrazione musulmana, dei media in Europa e in particolare del-la politica verso Israele. Alla base di questa politica c’erano due obiettivi strettamente legati tra loro: creare un continente mediterraneo euro-arabo, e sostituire Israele con la Palestina. Le

LE COMPLICITÀ EUROPEE CON LO jIhADISMO ISLAMISTA

I testi di Bat Ye’or, Caterina Giannelli e Anna Spadafora sono tratti dai dibattiti dal titolo Dall’attacco a Gerusalemme alla conqui-sta di Roma: come l’islamismo sottomette l’Europa (Modena, 5 novembre 2015; Bologna, 7 novembre 2015).

Bat Ye’or

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due politiche erano inseparabili. Dai documenti relativi a questa struttura emerge che essa era sotto la super-visione della Commissione europea e includeva deputati di tutti i partiti degli stati dell’Unione. Questo spie-ga l’uniformità della politica europea contro Israele e pro-immigrazione in Europa. Il palestinismo, ovvero la sostituzione di Israele con il popo-lo definito palestinese, fu il pilastro principale che univa le due politiche, in quanto si basava sulla simultaneità del riconoscimento del jihadismo di Arafat, della Palestina e l’attuazione della strategia euroaraba in Europa. L’unione euro-araba o Eurabia non era una strategia limitata a un’entità nazionale ma, come volevano il Muf-ti e i nazisti islamizzati, abbracciava un intero continente, che avrebbe adattato i principi della democra-zia e della cultura europea a quelli dell’islamismo.

Il termine palestinismo indica l’alle-anza fra i nazisti islamizzati nei pae-si arabi e gli jihadisti palestinesi per sradicare lo stato di Israele, negando la sua legittimità. Prima di essere chiamate palestinesi, le tribù arabe che vivevano nei territori di Giudea e Samaria, occupati dalla Giordania nella guerra del 1949 contro Israele, si definivano semplicemente arabe, an-che se fra loro c’erano immigrati mu-sulmani dalla Bosnia e dalla Crimea. Sotto l’occupazione della Giordania, tutti gli ebrei che vivevano in quelle terre da secoli vennero cacciati e la re-gione fu completamente islamizzata. In seguito alla guerra dei Sei giorni (1967), Israele riprese questi territo-ri liberando Gerusalemme. Ma, nel 1973, dopo la guerra del Kippur, la Francia decise che il popolo palesti-nese doveva avere il suo stato pro-prio nelle province precedentemente occupate dalla Giordania, da dove tutti gli ebrei erano stati cacciati.

Eppure, il palestinismo e la legitti-mazione di Arafat hanno avuto pe-santi conseguenze per l’Europa. Poi-ché la guerra di Arafat contro Israele era l’essenza del jihad, il palestinismo divenne la legittimazione europea e cristiana dell’ideologia e delle tatti-che del jihad.

L’ideologia jihadista mira a distrug-gere non solo il popolo ebreo, ma an-che tutti i popoli non musulmani, e il fatto che l’Europa l’abbia legittimata contro Israele ha innescato un pro-

cesso suicidario, implicando la legit-timazione della guerra ai cristiani e in generale ai popoli europei. Il jihad afferma che, poiché la terra appartie-ne ai seguaci di Allah, i musulmani hanno il dovere sacro di strapparla agli infedeli. Secondo questa logica, gli aggressori sono in realtà vittime e le vittime aggressori, poiché i jihadi-sti hanno il diritto e il dovere sacro di combattere i non musulmani e quan-do questi si difendono divengono aggressori. Il jihad viene ritenuto una guerra difensiva contro i non musul-mani. Anche l’Europa ha adottato questa visione, per esempio, quando afferma che le azioni di difesa di Isra-ele contro il terrorismo palestinese sono aggressioni contro i palestinesi, e così accetta il principio islamico del-la dhimmitudine, secondo cui gli ebrei e i cristiani non possono difendersi quando sono attaccati dai musulma-ni. Questo fa il gioco del terrorismo.

Quando in Europa parliamo del jihad spesso veniamo accusati di isla-

mofobia e addirittura di provocare i musulmani. Non siamo più legitti-mati a usare la nostra libera opinione, ma dobbiamo sottometterci alle leggi della shari’a. La nostra cultura è già, in qualche modo, islamizzata, e que-sto a causa della legittimazione del jihadismo palestinese. Nel periodo in cui il terrorismo arabo e palestinese in Europa era più attivo, parlare di jihadismo era tabù, nel presuppo-sto – come ancor oggi accade – che il supporto del palestinismo fosse uno strumento essenziale per promuo-vere il dialogo e la riconciliazione fra cristiani e musulmani, Europei e Arabi – una riconciliazione contro Israele che faciliterebbe l’emergenza dell’Eurabia. Uomini di chiesa, poli-tici, ministri promuovevano una san-ta alleanza nella lotta per la giustizia verso i palestinesi. La resistenza di Israele al piano euroarabo di sman-tellamento del suo paese venne vista come un ostacolo ai pacifici rappor-ti tra Europa e Islam. Israele venne

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accusato, particolarmente quando Romano Prodi presiedeva la Com-missione europea, di provocare la guerra e di essere un ostacolo alla pace, come documento nel mio libro Eurabia (Lindau).

I movimenti europei per l’unio-ne euro-araba sostengono, tra l’al-tro, che la shari’a aveva da sempre istituito un paradiso multiculturale e multireligioso negli stati domina-ti dai musulmani. Questa visione è contraria alla verità storica e ai prin-cipi della conoscenza europea, basati sull’analisi obiettiva dei documenti e dei fatti. La realtà della dhimmitudine, cioè dell’oppressione, della schiavitù e del genocidio di interi popoli con-quistati e sottomessi dal jihad, viene negata da una semplice affermazio-ne, cioè che ebrei e cristiani hanno sempre vissuto in accordo e in pace

sotto la legge della shari’a. In questo modo, la cultura europea viene sov-vertita dai valori del jihad: pensiamo nei termini e secondo le categorie musulmane, senza nemmeno saper-lo, siamo già islamizzati.

Per rispettare la verità storica dob-biamo lottare contro l’islamizzazione della cultura, poiché la cultura è l’es-senza della libertà e senza la libertà di ricerca, di comunicazione, di opinio-ne, non c’è cultura. La negazione da parte di Arafat e dei paesi arabi del diritto di Israele di vivere nella sua patria ancestrale si basa sul fatto che i musulmani negano la storia biblica: considerano bugie le parole contenu-te nei due testamenti, affermano che Adamo e Eva erano musulmani, che di conseguenza tutta l’umanità è mu-sulmana e che noi abbiamo rinnegato la nostra religione, che è l’Islam. Se-condo i musulmani, tutti i personaggi

menzionati nella Bibbia sono profeti dell’Islam, che hanno portato avanti il pensiero islamico prima dell’arrivo di Maometto, Gesù compreso. La sto-ria del popolo ebraico e dei cristiani è negata. Quando l’Unione europea nega il diritto di Israele di vivere nel-la sua patria accetta la visione islami-ca che Israele è un popolo che non ha mai vissuto in questo paese e dunque non ha diritti. Sopprime i nomi di due paesi, la Giudea e la Samaria, come se non fossero mai esistiti, e li cambia con il nome Cisgiordania. L’Unione europea chiama il Monte del Tempio di Gerusalemme “Spianata delle Mo-schee”, come se Gesù, anziché essere entrato in un tempio, fosse entrato in una moschea per predicare. Si tenta di legare il cristianesimo all’Islam, affermando anche che Gesù era pa-lestinese, anche se questo non sta

scritto da nessuna parte nel Corano, dove si afferma semplicemente che è nato sotto le palme. La volontà di legare il cristianesimo all’Islam ser-ve a islamizzare la teologia cristiana, una politica nazista per rompere tutti i legami fra ebrei e cristiani. Si vede così come il riconoscimento del pa-lestinismo abbia avuto un’enorme importanza, costituendo anche il nerbo della dhimmitudine cristiana in Europa, poiché l’Europa si è messa al servizio della politica dei paesi arabi per distruggere Israele, rinnegando le sue proprie radici giudaico-cristiane. L’Unione europea destina miliardi di euro ai palestinesi, sia per aiutarli sia per diffondere una campagna di odio e di demonizzazione contro Israele, perché la situazione di conflitto tra israeliani e palestinesi le permette di

esercitare la sua influenza sul mondo arabo: intervenendo a favore della Palestina, l’Unione europea guada-gna un rinvio sul jihad che la pren-de di mira. L’Europa strumentalizza questo conflitto, oltre a comprare una sicurezza temporanea, pagando miliardi di euro per la guerra con-tro Israele. Questo contesto spiega la decisione di marchiare i prodotti israeliani che provengono da Giudea e Samaria, di islamizzare i luoghi sa-cri ebrei e cristiani a Hebron e di non menzionare mai il terrorismo palesti-nese in Israele perché l’Unione euro-pea lo paga e lo incoraggia.

Il sottotitolo del mio libro Com-prendere Eurabia recita L’inarrestabile islamizzazione dell’Europa. Non è un sottotitolo che ho scelto personal-mente, ma è stato deciso dall’editore. Io ritengo infatti che questo processo

non sia irreversibile, perché credo nella forza che insieme possono ave-re ebrei e cristiani e credo nella for-za della gioventù. Quando Mosè si presentò al faraone per chiedergli di lasciare partire il suo popolo, lo fece in nome della libertà, e la libertà è proprio ciò che contraddistingue la nostra cultura, è la nostra forza. Noi crediamo nella libertà, nella dignità e nell’uguaglianza di tutti gli uomini e, grazie a questo, potremo vincere questa importante battaglia. Io ho molti amici in Italia e mi trovo sem-pre molto bene qui, proprio perché questo paese ha mantenuto forte il sentimento di libertà che ha svilup-pato con il Rinascimento prima e con il Risorgimento poi. D’altronde, Ver-di, nel Nabucco, ha accostato l’amore per la libertà del popolo italiano con quello del popolo ebraico, nel mera-viglioso Canto degli Ebrei.

Terre d’Israele

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CATERINA GIANNELLIbrainworker, scienziato della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

Dissidente, dis-sedeo, “avere se-de altrove”, oppure “non ho

sede”. Per un non dell’avere, Bat Ye’or, letteralmente “figlia del Ni-lo”, ha incominciato il suo viaggio. Figlia di padre ebreo italiano fuggi-to in Egitto a seguito delle leggi raz-ziali, l’Egitto di Nasser le nega la cit-tadinanza e poi le confisca i beni di famiglia. A Londra trova una prin-cipessa polacca, a sua volta fuggita dall’occupazione comunista della Polonia, che, grazie a un brillante nascosto nell’orecchio, ha trovato il modo di incominciare a vivere in Inghilterra. Questa donna incontra una giovanissima Bat Ye’or che bus-sa alla sua porta e riconosce negli oc-chi di cielo di questa minuta quanto determinata fanciulla, che chiede un alloggio per sé e la famiglia, un’in-quietudine antica, una non accetta-zione della morte. Anche Bat Ye’or incomincia una vita in Inghilterra.

Il viaggio incomincia per ciascuno lungo una dissidenza, un’assenza di localizzazione, un’assenza di se-de nella parola. “Non ho più niente a cui aggrapparmi”, “non so più a quale santo votarmi”. Viaggiando si incontrano gli amici. Chi sono gli amici? Gli interlocutori autentici del nostro viaggio. Oggi Bat Ye’or ha se-de in ciascun paese che l’ha ospitata per trasmettere la sua testimonianza a chi non vuole dimenticare, a chi non si accontenta del luogo comune, a chi non smette di cercare interlo-cutori per il suo viaggio. La testimo-nianza è essenziale per non smettere di viaggiare.

Dissidenza è l’assenza di con-formità, di standardizzazione, di sostenibilità. Nella parola e nella scrittura, nella ricerca e nell’impresa ciascuna cosa si struttura secondo la logica particolare a ciascuno, secon-do la dissidenza, secondo l’idioma. L’idioma è la particolarità, è la logi-ca della parola. La questione è come divenire cifra, caso di qualità, non come allinearsi allo standard. La dissidenza – “inaccettabile per ogni provincialismo e per ogni regime”,

scrive Sergio Dalla Val nel libro In direzione della cifra – non ha nulla a che fare con il dissenso o con l’altra sua faccia, il consenso al conformi-smo. Dissidenza senza soggezione, senza soggetto. Non c’è soggetto se c’è la battaglia, ovvero se ciascuno si costituisce come statuto intellet-tuale, se ciascuno si trova nella non accettazione del ruolo di vittima, che presuppone sempre un padro-ne a cui sottostare. Bat Ye’or coglie la questione quando scrive nel libro Comprendere Eurabia che “le guerre dell’Occidente e delle società libere saranno combattute contro la dhim-mitudine”, ovvero contro la sotto-missione di chi è costretto o accetta di vivere grazie alla protezione di qualcun altro che gliela concede. Protezione che i popoli sottomessi alla dominazione islamica devono pagare con una specifica tassa e che ognuno paga conformandosi al luo-go comune o al pensiero imposto, dunque accettando il regime della paura su cui si fonda ogni terrori-smo.

Tutti i regimi presuppongono la creazione della vittima. Nell’Islam politico e militare l’infedele è ac-cusato di blasfemia, punita con la morte. In Occidente, chi difende le ragioni dell’Occidente, per esempio degli ebrei, viene a sua volta bollato come colpevole o boicottato, com’è accaduto a Bat Ye’or. Da una parte è guerra santa e dall’altra è espiazione della colpa. In entrambi i casi è nega-ta la battaglia di civiltà. Questa bat-taglia non è in termini antagonistici, che sono sempre distruttivi. Come si fa a costruire qualcosa se dinanzi c’è il nemico? Chi combatte contro un nemico combatte per paura e non a caso ha bisogno di sostanze, ovvero di droghe o di psicofarmaci.

Qual è la battaglia che avviene secondo la dissidenza e che si con-duce senza paura? “Chi combatte in direzione della qualità è senza paura”, scrive Armando Verdiglio-ne. Chi combatte in direzione della qualità assoluta avvia dispositivi

del fare, imprese e strutture, con-sentendo a ciascuno di trovarsi in un ritmo anziché di darsi alla paz-zia. Machiavelli scrive: “Il principe che fa ciò ch’ei vuole è pazzo”. La battaglia presuppone forse di poter scegliere? Il principe di Machiavel-li può scegliere, fare ciò che vuole? Sarebbe pazzo. La battaglia è ine-ludibile per ciascuno se è battaglia per la riuscita e per la salute, per il valore assoluto, la cifra, e non per i valori relativi. La battaglia per i valori è ideologica, perché presup-pone anche in questo caso l’anta-gonismo fra quelli buoni e quelli cattivi. Al nemico come causa della battaglia si sostituirebbe il valore come causa, che diventa addirittu-ra difesa dell’identità. Cioè, ancora una volta, all’attacco si contrappo-ne la difesa, entrambe della logica del mercenario. Chi è il mercenario nella battaglia, nell’impresa, nella città? Chi crede di poter scegliere fra il bene e il male, fra l’amico e il nemico, è fedele all’alternativa, ha sempre un’alternativa e talvolta ad-dirittura fa l’alternativo. E chi gioca in difesa è sempre sotto attacco.

La testimonianza dei dissiden-ti e degli imprenditori che in que-sti anni abbiamo accolto nella città del secondo rinascimento è per la battaglia senza nemico, la battaglia senza alternative, la battaglia per dare un apporto alla civiltà e al suo testo ben oltre le ideologie e la logi-ca della guerra, fredda o calda, che ne consegue. Questa battaglia non è per sottomissione a nessun padro-ne e all’altra sua faccia: la vittima. Questa battaglia è battaglia per la li-bertà intellettuale, un altro lusso: il lusso della parola, il lusso delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, non secondo la volontà soggettiva, non secondo il mio o il tuo nemico, come fine ultimo per la soluzione fi-nale. La battaglia intellettuale è sen-za fine perché è battaglia che esige un’altra verità, non la verità come causa, ma la verità come effetto del-la qualità.

LA BATTAGLIA SECONDO LA DISSIDENZA

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di tutto affinché siano sanzionati nei tribunali internazionali e da parte dei governi europei. Nelle società occi-dentali innumerevoli reti internazio-nali pro-multiculturalismo, pro-im-migrazione e antisionismo, finanziate dai governi europei e dalla UE, sono impegnate a tempo pieno in questa politica”.

Impossibile rimanere indifferenti dinanzi a queste informazioni docu-mentate con rigore estremo da Bat Ye’Or. E tante domande alimentano la nostra inquietudine per il destino dell’Europa: davvero, la civiltà che ha le sue radici nella cultura giudai-co-cristiana sta volgendo al declino? Davvero, come diceva Niccolò Ma-chiavelli: “Molte volte, per la paura solamente, sanza altra esperienza di forze, le città si perdono”? O sta pro-prio qui la nostra speranza, nel fatto che anche Eurabia, come tutti i siste-mi, si “perde”, perché si fonda sulla paura?

Lo diceva Armando Verdiglione in una conferenza alla Confindustria di Modena: “La Mecca è una contrada di Atene” (2 aprile 2004, testo pubbli-cato nel n. 10 della “Città del secondo rinascimento”). Lo stesso sistema di pensiero che sta alla base del discorso occidentale — quella volgarizzazio-ne di Platone e Aristotele che nutre l’idea di impero — possiamo riscon-trarlo nel fondamentalismo islamico: sono entrambi frutto della paura della morte eretta a tabù, la morte come al-tra faccia della sostanza, senza la pa-rola e senza l’intellettualità. I concetti platonici di possessione e padronan-za li ritroviamo in pieno negli scritti dell’islam. Come notava Armando Verdiglione nella citata conferenza: “La scuola di Atene viene chiusa da Giustiniano nel cinquecento e i libri della scuola di Atene — Platone e Aristotele — se ne vanno, viaggiano, arrivano a Bagdad. Da Bagdad, arri-veranno poi in Spagna, in Sicilia, in Europa. Erano spariti, ma il Corano e gli altri testi sacri dell’Islam sono

ANNA SPADAFORApsicanalista, cifrematico, direttore dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Ci ha avvertito Bat Ye’Or, nelle sue recenti conferenze a Modena

e Bologna (5 e 7 novembre 2015): non uno spettro si aggira per l’Europa, ma una minaccia incombe sul nostro con-tinente, che rischia di sgretolarsi sotto gli occhi increduli dei suoi cittadini, ignari dei patti scellerati che molti dei suoi alti rappresentanti istituzionali strinsero con il mondo arabo, avidi di potere e ricattati dalla crisi petrolifera del 1973, quando videro nel sostegno alle guerre arabe contro Israele una fortunata occasione per costituire una sorta di terzo blocco, che avrebbe unito le due sponde del Mediterra-neo, con la Francia in testa. Ma, come scrive l’Autrice nel suo libro Eurabia: “Avviandosi lungo questa strada, l’Europa entrò in un mostruoso pro-cesso di negazione dei valori che pre-tendeva di difendere e in un processo interno di auto-disintegrazione con conseguenze imprevedibili”. Insiste Bat Ye’Or sugli effetti ormai lam-panti di questo autogol segnato da Bruxelles all’insaputa dei cittadini, apparentemente per proteggerli dal terrorismo, ma che in realtà rischia di trasformarsi nella consegna delle chiavi delle nostre nazioni all’OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica).

Ma l’allarme più forte che lancia Bat Ye’Or agli europei riguarda la loro ignoranza di vivere nella dhim-mitudine, termine da lei coniato sulla base della classifica degli “infedeli” insita nel concetto di jihad: i dhimmi sono quegli infedeli che ottengono protezione grazie a un trattato di re-sa (dhimma) al dominio islamico. Una delle tante prove fornite dall’Autrice è la continua ingerenza dell’OCI nelle istituzioni occidentali, con la pretesa di dover proteggere i musulmani che vivono in Europa, in quanto esposti alle idee e alle usanze immorali dei non musulmani. Come scrive l’Au-trice nel suo ultimo libro Comprendere Eurabia: “L’OCI accusa di ‘islamofo-bia’ alcuni movimenti culturali e fa

impregnati del discorso occidentale. È la correzione del cristianesimo, a opera del discorso occidentale. Con altre aggiunte, con costruzioni fanta-siose, con altri principi, ma i principi fondamentali sono questi”.

Di questo sembra avvertirci Bat Ye’Or: il rinascimento della parola e la sua industria non possono accet-tare i fantasmi di padronanza e pos-sessione che fondano il discorso della morte, con i suoi principi fondamen-talisti: principio di identità, principio di non contraddizione e principio del terzo escluso.

Il rinascimento e, prima ancora, l’atto di Cristo, come atto della parola originaria, sconfiggono questo dis-corso della morte. Così possono sor-gere le arti e le invenzioni, la scienza, la politica dell’ospite e la sessualità, senza la paura delle donne e della differenza.

Allora, la nostra battaglia di civiltà non è contro il nemico che avanza, ma esige innanzitutto che venga dissipa-ta la paura. L’Europa non tramonta, se i suoi cittadini, anziché fare le cose per paura — avendo il negativo, il male, la morte dinanzi —, danno un contributo all’arte, all’invenzione, all’impresa e alla civiltà del secondo rinascimento, al dibattito e al pen-siero, come fanno gli autori di questo giornale. Perché la civiltà si basa sulla parola, non sulla morte e sulla paura della morte. Con l’atto di Cristo, non è più possibile vivere nella pena, nella mortificazione, perché anche il corpo, nella parola, è immortale. Con l’atto di Cristo, lo spauracchio della fine del tempo si dissolve: il tempo non finisce, a vantaggio della spazialità pura, a vantaggio del regno di utopia agognato da tutti gli ismi della storia. Nella battaglia di civiltà che occorre combattere ciascun giorno, anziché la paura della fine, importa il modo in cui ciascun imprenditore, ciascun ar-tista, ciascun poeta, ciascuno diviene dispositivo e giunge al valore, par-lando, facendo e scrivendo quel Van-gelo che è ancora da scrivere. Così, anche il testo dell’islam potrà trovare la sua restituzione nella lettura e es-sere tratto nel rinascimento, anziché rimanere nelle pastoie omologanti del relativismo culturale tanto caro al discorso occidentale e ai suoi offi-cianti. Così, capiremo che la civiltà o è planetaria o non è. E la parola non ha padroni.

QUALE EUROPA: MINACCIA ISLAMICA O SECONDO RINASCIMENTO?

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DINO PIACENTINIpresidente del Gruppo Piacentini Costruzioni Spa, Modena, presidente dell’ANIEM (Associazione Nazionale Imprese Edili Manifatturiere)

Il titolo di questo numero della rivista, Battaglia di civiltà, non si riferisce al-lo scontro fra civiltà, ma verte intorno alla testimonianza delle imprese come baluardi della civiltà nella tecnologia, nella scienza e nella cultura d’impresa, che portano avanti in vari paesi, come il Gruppo Piacentini Costruzioni Spa, che dal 1949 si dedica alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali in Italia e, dal 1981, anche nel mondo...

Fin dal suo sorgere, la civil-tà si è avvalsa degli scambi commerciali, che nascevano per soddisfare desideri e biso-gni della gente. Il commercio ha sempre messo in comuni-cazione tribù, popoli e culture diverse. È anche vero che nei momenti storici in cui è pre-valsa la volontà di prevarica-zione da parte di un popolo o dell’altro, dall’incontro si è passati allo scontro. Ma le no-stre piccole e medie imprese non hanno certamente mire egemoniche quando espor-tano in altri paesi, per noi globalizzazione non significa imperialismo industriale o politico.

Come ci ricorda l’editoriale di Sergio Dalla Val in questo numero, i nostri an-tenati dell’antica Roma hanno inventato la civilitas, la civiltà, da civis, cittadino romano. E “civitas era la cittadinanza, il diritto di cittadinanza che acquisivano gli abitanti dell’impero, a prescindere dalla nazione, dalla religione, dal cen-so”. Quindi, nelle nostre radici storiche e culturali, nemmeno l’impero si poneva come obiettivo la prevaricazione...

In un certo senso, quello che fa il nostro Gruppo per soddisfare un bi-sogno insito nella missione di qual-siasi impresa – la crescita dell’azien-da e delle famiglie di chi ci lavora – è entrare in comunicazione con le culture più disparate nei paesi in cui lavoriamo: Costa Rica, Libia e Sviz-zera, dove abbiamo le nostre filiali, ma anche Papua Nuova Guinea, Bra-

sile, Marocco, Serbia, Polonia, Medio Oriente, Indonesia, Kazakhstan, Ca-raibi e persino il Polo Sud. È impossi-bile mantenere una mentalità chiusa e rigida quando si incontrano genti con culture tanto differenti dalla nos-tra e la scommessa, ciascuna volta, è quella di riuscire a capire le esigenze di ciascuno e trovare un’idea che possa soddisfare entrambe le parti.

In questo, le imprese italiane sono non solo un baluardo forte, ma an-che un’avanguardia: reinventando la tradizione di tolleranza da cui pro-vengono, riescono a sottolineare le differenze e a farne buon uso.

Se parliamo di avanguardia nella tec-nologia costruttiva, la Piacentini si è dis-tinta già negli anni ottanta per l’utilizzo delle palancole (paratie metalliche), quan-do in Italia erano pressoché sconosciute...

All’epoca, l’utilizzo delle palanco-le era in auge nel Nord Europa, ma in Italia era noto solo in ambito acca-demico. Si tratta di profilati speciali che permettono di sostituire le clas-siche paratie in cemento con grandi vantaggi, anche economici, e che permettono di creare opere sia defi-

nitive che provvisionali. In pratica, possiamo dire che abbiamo contri-buito a fare diventare tale tecnolo-gia un brand sul mercato italiano. E questo ci ha permesso di entrare in altri mercati, non appena ci siamo specializzati e siamo riusciti a fare innovazione di processo, quindi di costruzione.

Considerando che le palancole sono in acciaio, quindi, biodegradabili al cento per cento, questa innova-zione è una prova che la vostra attenzione all’ambiente risale già agli anni ottanta. Non a caso, ave-te realizzato le opere specialistiche relative a questa tecnologia nel MO.S.E. di Venezia, il progetto finanziato dal Governo italiano e dall’Unesco con l’obiettivo di sal-vare Venezia dall’erosione delle acque alte.

Come presidente dell’Aniem (Associazione Nazionale Imprese Edili Manifatturiere), invece, che cosa può dirci delle prospettive di un settore così importante per la nostra economia come l’edilizia?

Rispetto al muro nero che avevamo davanti fino a un anno fa, adesso s’intravvede

una piccola luce in fondo al tunnel. A questo punto però le imprese devono trovare il modo per intro-durre un’innovazione di processo straordinaria, perché le innovazioni di prodotto (edifici in classe A, non energivori, dotati delle più moderne le tecnologie) non bastano più. Al-lora, proprio per dare una risposta a questa esigenza di trasformazione, come Aniem nazionale e, soprattu-tto, come Aniem Modena, abbiamo compiuto una riflessione che già tre anni fa ci ha portati a presentare con il Politecnico di Torino un progetto per la riqualificazione di intere aree urbane a ridosso dei centri storici. Siamo partiti da due considerazioni importanti: prima di tutto, il fatto che i centri storici della maggior parte delle città italiane di medie dimen-

LA CIVILTÀ DELLE COSTRUZIONI PER LA CITTÀ DELL’AVVENIRE

Dino Piacentini

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Vista ingresso del progetto pilota per Modena Ovest

sioni sono musei a cielo aperto, un patrimonio inestimabile che va man-tenuto nella sua bellezza; se però le città hanno l’esigenza di espandersi, dobbiamo interrogarci sia sulle mo-dalità per reperire le risorse indis-pensabili perché ciò possa avvenire, sia sulle aree che potranno essere destinate a soddisfare tale esigenza. È evidente che non possiamo farlo sottraendo terreno all’agricoltura, soprattutto in regioni come quelle della Pianura Padana, per esempio, che hanno nel settore alimentare la loro principale fonte economica, ma anche perché la scarsità di cibo è un grande problema e in prospettiva lo sarà sempre di più.

Allora, dobbiamo concentrarci sulla prima periferia, dove, fatti salvi i primi cento, duecento metri dal centro, ci sono edifici degli anni sessanta e novanta, che non hanno più alcun valore, perché sono cos-truiti con ragionamenti e tecnologie superati e non hanno più mercato. Quindi, bisogna incominciare a ra-gionare anche in edilizia a favore del rinnovamento del nostro patrimo-

nio immobiliare, perché a nessuno potrebbe interessare un parco mac-chine che vale zero. E, tuttavia, se gli edifici non hanno valore, l’area in cui sono situati vale ancora e varrà sempre di più. Ecco perché è sorto questo progetto di riqualificazione delle città, che si propone di ricos-truire interi isolati con edifici moder-ni, a consumo di energia pari quasi a zero, antisismici, con grandi spazi verdi nelle aree comuni e giardini verticali. E dove troviamo le risorse per realizzare questo bel progetto? Come destinatario di un progetto pi-lota, abbiamo considerato un isolato, in zona Modena Ovest, in cui vivono 120 famiglie, ciascuna proprietaria di un appartamento, di un capannone o di altri beni che non hanno più mer-cato. Una volta raggiunto l’accordo con almeno il 90 per cento dei pro-prietari, ciascuna famiglia proprie-taria cede all’impresa di costruzioni che realizza il progetto la proprietà del solo terreno e riceve in cambio

un appartamento della stessa metra-tura di quello di cui è proprietaria, ma moderno e dotato di tutte le più avanzate tecnologie; il proprietario non ha costi aggiuntivi, ma l’unico vincolo di affidare la gestione del ca-lore all’impresa costruttrice per i pri-mi sei, sette anni. In pratica, dovrà continuare a spendere la stessa cifra che ha speso nel vecchio edificio, fin-ché, dopo sei, sette anni, l’impresa non avrà ripagato il suo investimen-to. Poi, la famiglia avrà per sempre un risparmio inestimabile perché, se prima spendeva 2500 euro all’anno, poi ne spenderà solo 250. Inoltre, fin dal primo giorno, sarà proprietaria di una “macchina” del modello ap-pena uscito, mantenendo la stessa metratura e rimanendo nello stesso isolato. Qual è la condizione perché il progetto si realizzi? Che il costrut-tore abbia un premio in volumetria per andare in alto. Nel caso dell’iso-lato di Modena Ovest, per esempio, dove abitano 120 famiglie, l’impresa ne aggiunge altre 130 e, al posto di un quartiere con strade strette e edifici attaccati l’uno all’altro, res-

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tituisce 9000 metri quadrati di area verde ai 120 proprietari, costruendo sei torri da nove piani, in acciaio, vetro, con i giardini verticali, oltre a un consumo di energia pari quasi a zero. Grazie a questo accordo, l’im-presa ha la possibilità di mettere sul mercato altri 130 alloggi, a prezzo di costo industriale (1300 euro al metro quadrato), non del terreno. Ma c’è di più: da solo, questo comparto che abbiamo preso come progetto pilota, ci farà risparmiare 380 tonnellate di CO2 all’anno.

È geniale e straordinario. Quando partirà?

È la stessa cosa che ci hanno chiesto le famiglie di questa area, quando abbiamo presentato loro il progetto, ormai già tre anni fa. Ma, come sempre, in Italia, si devono fare i conti con gli interessi partico-lari di bottega, soprattutto quando si va a toccare la sfera del pubblico, che tende a frenare, se non addirittura a far svanire, i sogni.

I comuni dovrebbero fare loro questa idea e sfidare le imprese a mettersi in gioco. Se vogliamo far ri-partire veramente questo paese, dob-biamo fare ripartire anche i consumi interni e, com’è risaputo, l’edilizia è

un volano insostituibile per il mer-cato interno. Ma bisogna smetterla di pensare, come fanno gli addetti ai lavori dell’immobiliare e alcuni funzionari, che l’edilizia possa ri-partire con le speculazioni fondiarie, facendo passare le aree da agricole a edificabili. La speculazione sul ter-reno non è produzione, non serve a creare occupazione. Le imprese che finora hanno pensato di guadagnare così hanno vita breve e devono orga-nizzarsi per ricavare il loro margine dalle costruzioni.

Tornando al progetto, avete pensato alla gente che deve spostarsi durante la costruzione delle torri?

Naturalmente, abbiamo pensato che non si può spostare per diciotto mesi una famiglia in attesa che sia terminato il suo nuovo alloggio, mentre il vecchio è stato demolito. Per evitare questo disagio, allora, lasciamo le persone nelle loro case, finché non sarà pronto il nuovo al-loggio. Per questo, la prima torre de-ve essere costruita al posto di un ca-pannone o di una piazza, di un’area non abitata, così si spostano gli abi-tanti di una parte dell’isolato nella

prima torre appena conclusa e poi si procede con le altre, man mano che si svuotano i vecchi edifici. Inol-tre, le famiglie non devono pensare nemmeno al trasloco, che è a cura dell’impresa di costruzione.

Questo non è un progetto, è un concerto...

Se a Modena partiamo con questo progetto, in cinque anni avremo cos-truito un’altra città. Oltre a riqua-lificare il patrimonio immobiliare – dando alle famiglie un vero capi-tale, a costo zero, senza spese per il pubblico, per il quale abbiamo ad-dirittura previsto di pagare il 50 per cento degli oneri –, la buffonata del-le targhe alterne non avrà più senso, perché, risparmiando 380 tonnellate di CO2 all’anno per ciascun isolato, dopo sette, otto anni, il problema dell’inquinamento in città si risolve-rà. Ma occorre trovare nel pubblico chi è ancora disposto a sognare.

Allora, con la sua arte di costruttore di grandi opere, che mettono in collega-mento la terra, il mare e il cielo, proviamo a mettere in collegamento le persone...

In questo senso, non ho ancora per-so la speranza che ci sia uno scatto di orgoglio di questa città, perché lo meriterebbe.

Progetto pilota per Modena Ovest

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BRUNO CONTIpresidente di Sefa Holding Group Spa, Sala Bolognese (BO)

La battaglia di civiltà oggi in Italia esi-ge una politica industriale che favorisca l’apertura di nuove imprese e il rilancio di quelle che hanno tenuto durante la crisi economica degli anni scorsi. Da do-ve occorre incominciare?

È necessaria una programmazione industriale che indirizzi gli investi-menti allo sviluppo del manifattu-riero per la produzione di ricchezza da distribuire nel paese. La nostra attività è strategica nella fornitura di materia prima, come acciaio e leghe. Occor-re incentivare l’impresa anche con accordi fra industriali seri, che cioè non scelgano la via facile di esportare le struttu-re produttive all’estero. Inoltre, le istituzioni de-vono impegnarsi ad ab-bassare la tassazione per non rendersi complici dell’espatrio delle nostre migliori imprese, che, a pochi chilometri dai no-stri confini, in Slovenia o in Austria per esempio, trovano condizioni fisca-li e amministrative più efficienti, che consen-tono in appena quattro mesi di costruire lo sta-bilimento e avviare la produzione. In Italia, invece, solo per costruire una cabina elettrica per aumentare il voltaggio di energia dei macchinari, occorre attendere almeno un anno a causa della burocrazia che rallenta i tempi di produzione e richiede costi esosi per essere mantenuta.

Oggi la battaglia si svolge anche in ciascuna azienda, per esempio, ri-ducendo i tempi di lavorazione dei prodotti che occorrono alle imprese, quindi offrendo maggiore flessibilità al settore manifatturiero. Noi stiamo facendo la nostra parte con l’avvio dell’innovativo servizio di Sefa Ma-chining Center, che poche imprese offrono in Italia e a breve implemen-teremo il magazzino automatico di un ulteriore nuovo macchinario a

taglio ad acqua per la preparazione di semilavorati in acciaio e leghe ap-plicati nei diversi settori produttivi, dall’aeronautico al biomedicale a quello meccanico. Abbiamo investi-to in nuovi macchinari il 9 per cento del nostro fatturato, che si aggira at-torno ai venticinque milioni di euro annui, e abbiamo assunto a tempo indeterminato nuovi collaboratori.

Quale può essere l’apporto degli indu-striali in questo momento?

L’attività del manifatturiero è stret-tamente connessa a quella della gran-de industria. È necessario individuare i filoni d’interesse comune nel mani-fatturiero. In Emilia Romagna ci sono officine in cui gli operai svolgono un mestiere che si tramanda da genera-zioni, come quello della meccanica. Occorre non far finire tutto questo, abbassando il prezzo delle commes-se o aprendo un settore interno che svolge il lavoro fino al giorno prima affidato a imprese di subfornitura esterne. Se la subfornitura viene im-poverita, come farà a investire nei macchinari di ultima generazione per prodotti sofisticati e la fornitura di commesse in tempi più ragionevoli

per la grande industria? Ancora pri-ma delle istituzioni, spetta ai grandi gruppi industriali avere rispetto della manifattura e mantenerla attiva. Co-me avrebbero fatto le multinazionali di Mirandola a produrre, se non ci fossero state le tante piccole e medie imprese della zona? A Bologna, salvo poche eccezioni, non esiste quasi più il settore degli stampi, così è accaduto per l’industria motoristica, che aveva reso questo territorio la Motor Valley

dell’Italia. In questo pae-se il manifatturiero non ha interlocutori e, nella maggioranza dei casi, i grandi gruppi industriali continuano a trarre van-taggi da una manifattura sempre più disgregata. Questo è accaduto duran-te la crisi siderurgica che si è aperta con il caso Ilva. Oggi, l’acciaio è svalutato del trentacinque per cen-to rispetto alla quotazio-ne del 2012, quando sono incominciate le vicende giudiziarie dell’Ilva. Un acciaio comune si vende a 65 centesimi, mentre fi-no a pochi anni fa quello povero era valutato attor-no agli 85. A questo si ag-

giunge la svalutazione del costo ora-rio del lavoro di operai che non hanno prospettive per il futuro del settore. In Emilia ci sono imprenditori che so-no costretti a invitare i propri operai a rientrare a casa prima del solito per-ché non hanno commesse da evadere. Il manifatturiero ha perso milioni di lavoratori in Italia, dal 2007 a oggi. Nell’indifferenza generale, padri di famiglia dell’età di cinquant’anni so-no stati espulsi dall’apparato produt-tivo. Questa è la sconfitta peggiore per un settore come quello manifattu-riero, che ha contribuito alla prospe-rità delle nostre città. La battaglia di civiltà in Italia è quella di rilanciare la cultura del manifatturiero perché civiltà vuol dire anche privilegiare gli interessi delle città in cui viviamo.

L’APPORTO DEL MANIFATTURIERO ALLA CIVILTÀ

Bruno Conti

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Il nostro programmae tutte le iniziative

sono disponibili su www.aziendemodenesiperlarsi.it

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Aziende Modenesi per la Responsabilità Sociale d’ImpresaCompetitività e sviluppo per creare valore sostenibile

Aziende Modenesi per la Responsabilità Sociale d’Impresa è un’Associazione nata a fine 2014 dalla volontà e impegno di alcune

imprese del territorio, che si pone l’obiettivo di promuovere principi e pratiche di Corporate Social Responsibility (CSR). Welfare

aziendale, green economy, mobilità sostenibile, stakeholder engagement, smart city e formazione sono alcuni dei temi condivisi.

Eventi di formazione interna

Seminari pubblici itineranti

Diffusione di buone pratiche di CSR

Collaborazione con altre Reti di imprese

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PAOLO MOSCATTIpresidente di TEC Eurolab Srl, Campogalliano (MO)

A proposito del titolo di questo numero del giornale Battaglia di civiltà, stiamo indagando in che modo l’imprendito-re dia un contributo a questa battaglia, anche per il semplice gesto di instaurare dispositivi con i collaboratori, i clienti, i fornitori e altri, che magari non avrebbe-ro occasioni di parola in altri ambiti della società o non avrebbero modo di valoriz-zare i propri talenti...

La conduzione di un’impresa esige sempre più la formazione intellettua-le dell’imprenditore, perché è sem-pre meno limitata e circoscritta agli aspetti economici e finanziari, quindi alla produzione e alla vendita di beni e servizi. Nessun imprenditore oggi dovrebbe ritenere superfluo occupar-si della Responsabilità sociale d’im-presa. Il nostro impegno in questa direzione ci ha portati a partecipare, il 30 settembre 2014, alla costituzione dell’associazione Aziende Modenesi per la Responsabilità Sociale d’Impre-sa. Mi sarebbe piaciuto però togliere l’aggettivo “sociale”, che evoca im-mediatamente un’idea di assistenza ai bisognosi, mentre la responsabilità d’impresa a cui dobbiamo puntare riguarda soprattutto il ruolo dell’im-presa nel territorio in cui opera e, vi-ceversa, il modo in cui il territorio la considera sua parte integrante.

Considerando che la responsabili-tà d’impresa oggi contribuisce anche alla produzione di valore, la nostra azienda ha posto alla base del pro-prio sviluppo due principi essenzia-li. Prima di tutto, il principio che la creazione e la distribuzione di valore realizzati dall’impresa non possano prescindere dal capitale intellettuale delle persone che la costituiscono, co-sì come dal territorio in cui è situata.

In secondo luogo, il principio che il cervello dell’impresa debba essere diffuso: l’imprenditore che pensa di potere fare tutto da sé, avvalendo-si dei collaboratori per le loro mere competenze tecniche, perde gran parte del valore intellettuale che sor-ge dal contributo e dal confronto con

i collaboratori. E, anche in questo, la connessione con il territorio è fonda-mentale, soprattutto se consideria-mo che il cervello dell’impresa non è solo diffuso all’interno dell’azienda, perché le sinapsi, per dir così, delle persone che ci lavorano sono attive anche all’esterno, nella famiglia, ne-gli ambienti che ciascuno frequenta nel tempo libero o nei suoi rapporti con le istituzioni. Per questo nessuna azienda, anche quelle che vendono i loro prodotti principalmente all’este-ro, può lasciare al caso il legame con il territorio, perché il valore di cia-scun brand oggi non è indipenden-te dal modo in cui l’impresa viene percepita nel territorio in cui opera. Non si può parlare di un’impresa in-dipendentemente dal suo territorio, così come è ridicolo parlare di terri-torio, senza considerare le imprese ivi insediate. Penso sia chiara a tutti l’influenza che un’impresa esercita sulla qualità della vita nel territorio dove opera. L’imprenditore deve es-sere consapevole di questa influenza e delle ricadute che le sue decisioni possono avere sul territorio.

Può fare qualche esempio?Proseguendo il tema della respon-

sabilità sociale, penso, per esempio, a quelle aggregazioni sportive o di volontariato che i giovani frequenta-no durante l’adolescenza. Definisco queste realtà “terzi attori” dell’edu-cazione, dopo la famiglia e la scuola, con la differenza che queste hanno un carattere obbligatorio, mentre quelle sono scelte dai giovani in base alle loro preferenze e alle opportuni-tà di socializzazione e realizzazione che v’intravedono. Se, in tali ambiti educativi – la palestra, il campo di calcio, l’oratorio o altro –, i giovani incontrano figure di riferimento in grado di concorrere alla loro forma-zione, proprio in quell’età nella qua-le iniziano a prendere le distanze dalla famiglia e spesso percepiscono la scuola più come obbligo che co-me opportunità, ecco che allora la

valenza sociale di quella che appa-re essere semplicemente la squadra dell’oratorio o della polisportiva, as-sume un’importanza rilevante, per il giovane, per la famiglia e per la società in generale, non ultime per le aziende che, senza averne consape-volezza, usufruiscono dei risultati di questa educazione. Cito un esempio di una realtà, che ho avuto la fortu-na di conoscere: la Scuola di Palla-volo Anderlini, centinaia di ragazzi e ragazze, decine di istruttori che insegnano sì la pallavolo, ma prima ancora l’educazione civica, portano i ragazzi a riconoscere, a vivere, i va-lori del rispetto, della collaborazio-ne, dell’appartenenza, della respon-sabilità verso se stessi e gli altri. Si sono dati una Carta Etica dove leg-giamo principi e valori, in linea con quelli che caratterizzano le imprese responsabili. Aiutare queste realtà significa aiutare a educare i collabo-ratori e gli imprenditori di domani. Naturalmente, ragionamenti analo-ghi valgono per il sostegno a ogni al-tra iniziativa volta a creare benessere sociale e opportunità di incremento del capitale intellettuale, come ad esempio l’associazione culturale che pubblica questo giornale.

Sono solo piccoli esempi per di-re che l’azienda responsabile cura il territorio, i propri stakeholder, in ragione delle possibilità e delle ne-cessità, avendo la consapevolezza che dal territorio attinge il capitale umano, le risorse intellettuali indi-spensabili al compimento della pro-pria missione.

Quella della responsabilità sociale d’impresa è una battaglia in cui si vince sempre e vince ciascuno, non ci sono sconfitti; sconfitto è chi non combatte.

LA RESPONSABILITÀ DELL’IMPRESA PER L’EDUCAZIONE DEI GIOVANI

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DANTE MARCHETTIpresidente di Officina Meccanica Marchetti Srl, Sala Bolognese (BO)

non come qualcosa di pesante per l’individuo, ma come fonte di sod-disfazione e miglioramento perso-nale. Per questo abbiamo cercato di coinvolgere gli istituti tecnici privati, come l’Istituto Salesiano di Bologna, poiché da quelli statali non abbiamo ricevuto alcuna risposta.

In questo numero apriamo un dibattito sulla battaglia di civiltà che gli impren-ditori più lungimiranti stanno condu-cendo sul territorio…

Questa battaglia non ha nemici. Noi vogliamo far sentire ai giovani studenti l’orgoglio che si prova nel vedere il prodotto di un lavoro co-struito con le proprie mani e far capi-re loro di cosa c’è bisogno nella città. Attorno agli anni ottanta, insieme a un gruppo di stampisti con cui ci ri-univamo abitualmente per discutere dei problemi del settore, abbiamo

intuito che in futuro avremmo avuto difficoltà nell’assumere personale preparato. Già allora abbiamo pensato di coinvolgere le scuole, in particolare l’Istituto Aldini Valeriani, in cui si svolse un primo incontro. La nostra proposta di accogliere studenti che svolgessero un’esperienza di lavoro nelle nostre aziende è stata esposta ai docenti della scuola e ad alcuni esponenti del sindacato. Tuttavia, da questi ultimi è stata interpretata subi-to in modo ideologico, come un tentativo per strumentalizzare i giovani. La proposta non ha avuto seguito, anche perché, particolarmente in quel perio-do, non si potevano avviare ini-ziative senza il beneplacito del sindacato.

Cosa prevede il vostro progetto di formazione?

Prevediamo di insegnare le proce-dure che occorrono per produrre gli stampi, cominciando dalla fase del montaggio della macchina – poiché lo stampo, anche per denominazione formale, è una quasi-macchina. Così, se non stampisti, possiamo formare addetti alle macchine, progettisti e montatori meccanici. Questo tipo di formazione dovrebbe durare 6 mesi nelle aule scolastiche per concluder-si con la pratica in azienda qualche mese dopo, in modo che gli studen-ti possano constatare nella pratica quello che hanno imparato durante le lezioni teoriche a scuola.

A SCUOLA NELL’AZIENDA

La vostra azienda, attiva da qua-rant’anni nella produzione di stampi, è sempre stata attenta alla formazione professionale meccanica dei giovani e più volte ha accolto scolaresche in visita per testimoniare le opportunità della pratica tecnica e le sue implicazioni nella quoti-dianità…

Attualmente, siamo impegnati in un progetto per la formazione pro-fessionale nel settore degli stampi. Questa iniziativa ha preso spunto da quella che ha avviato a livello na-zionale Meusburger, un’azienda au-striaca attiva nella produzione di stampi, fra le più importanti del settore in Europa. Al suo interno gestisce una scuola in cui ragazzi fra i quattordici e i diciotto anni seguono lezioni teoriche per metà giornata e per la restante parte lavorano negli stabilimenti produttivi. Conclu-so il percorso di studi, possono iscriversi all’università oppure incominciare subito a lavora-re all’interno dell’azienda o in altre fabbriche, grazie alla pro-mozione di Meusburger. Se-condo un’indagine di mercato condotta dall’azienda austriaca, nei prossimi dieci anni l’Italia potrebbe registrare una cresci-ta nella produzione industriale degli stampi. Il mercato italiano sarebbe dunque appetibile per potenziare le esportazioni di Meusburger, che ha però constatato anche l’arretratezza dei programmi scolastici improntati a parametri di quarant’anni fa in diversi istituti tec-nici italiani, peraltro dotati di labora-tori con attrezzature obsolete. L’azien-da ha sottoscritto, quindi, un accordo a livello nazionale per insegnare a gruppi di docenti e studenti di alcu-ni istituti tecnici privati le tecniche di costruzione che saranno utilizzate tra 5 o al massimo 10 anni. Attualmente, per esempio, dobbiamo adoperare 50 chili di acciaio di alta qualità, quindi molto costoso, per realizzare il pezzo di uno stampo da 5 chili. Lo smalti-mento dei 45 chili rimanenti richiede

l’utilizzo di oli inquinanti e energia elettrica in quantità elevate. Per il futuro di questo settore è necessario avvalersi di tecnologie che riducano gli sprechi e l’inquinamento: per co-struire lo stesso pezzo da 5 chili, ne vengono impiegati solamente 5 di polvere d’acciaio, con la fusione me-diante laser. In questo caso, non si producono rifiuti, non si utilizzano oli di lavorazione e viene consumato circa un centesimo dell’energia elet-trica necessaria per lavorazioni svol-te con le tecniche precedenti. Queste

tecnologie verranno utilizzate dagli studenti quando incominceranno a lavorare.

Noi siamo fra le aziende che par-tecipano a un nuovo progetto di formazione tecnica con l’Istituto Sa-lesiani di Bologna. Per i tempi ridot-ti a nostra disposizione, però, non potremo formare stampisti, ma per noi è già sufficiente interessare gli studenti alla nostra attività. Se riu-sciremo a suscitare questa curiosità, credo che sarà compiuta una buona parte del lavoro, perché avremo sti-molato i giovani a intendere il lavoro

Dante Marchetti

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Via Circondariale San Francesco 2

41042 - Fiorano Modenese

[email protected] 030013

www.exe1985.it

L’EXÉ Restaurant di Fiorano, completamente rinnovato,

ha festeggiato il proprio trentennale iniziando la nuova

attività sotto il nome diExé1985

L’ambiente ideale per vivere e festeggiare il veglione di Capodanno e ogni vostra

ricorrenza

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MARCELLO MASIpresidente di Finmasi Group, Modena

Con oltre 500 dipendenti, le sue azien-de, che fanno capo a Finmasi Group, hanno reso Modena e l’Emilia Romagna celebri nel mondo, in settori che vanno dalla siderurgia (Metalsider e Sidermed), ai trasporti (Sanvitale Trasporti e Spedi-zioni), all’elettronica di eccellenza (MD Microdetectors, che produce sensori industriali, e Cistelaier e Techci Rhône-Alpes che producono circuiti stampati) e, per finire, al turismo e servizi (Executi-ve Hotel e Ristorante Exé 1985). Ma le opere esposte nel vostro headquarter ci ri-cordano anche il suo amore per l’arte, che non si limita al bel canto, con cui a volte intrattiene i suoi amici, ma sfocia nello sport, considerando che lei è stato fino a ieri, per ben quarant’anni, presidente dell’Associazione Calcio Formigine. In breve, nella battaglia di civiltà, che trova nell’impresa terreno fertile, lei ha sempre giocato tante partite, con risultati più che soddisfacenti …

La mia prima partita è incomincia-ta il 27 giugno 1961, quando, lascian-do la mia città di origine, Bologna, mi sono trasferito a Modena, dove ho costituito quella che oggi è la Me-talsider, decisione frutto della fame e della follia, per dirla con Steve Jobs. Avevo ventidue anni, sposato con una figlia e genitori a carico. All’epo-ca ero uno dei venditori considerato fra i più performanti della Divisio-ne Centri di Servizio del Gruppo si-derurgico Falck. Quindi avevo già un’ottima posizione, ma come tanti imprenditori che hanno incominciato nel momento del boom economico ho seguito il mio istinto e ho avviato quella che è diventata una realtà di riferimento importante a livello na-zionale, la Metalsider, oggi con sede nel porto di Ravenna.

A partire dalla sua esperienza, quali so-no le armi vincenti per un imprenditore?

Premetto che non si possono fare paragoni con il pregresso né tantome-no con l’epoca definita “boom econo-mico”, dove il mercato aveva fame di tutto. Tuttavia, ora come allora, la riuscita di un’impresa richiede la ne-

cessaria ambizione e tanto coraggio, ingredienti che producono gli effetti indispensabili se sostenuti da impe-gno, conoscenza e da una predisposi-zione, che, senza ricorrere a sinonimi, si chiama “talento”.

Lei non sta parlando solo del marketing e della pubblicità, vero?

Certo, non solo. Sto parlando del modo di porsi dell’individuo, sia egli dirigente o imprenditore, verso il mondo con il quale deve rapportarsi. L’imprenditore può essere un uomo di studi, oppure, come nel mio caso, un uomo che proviene dal mondo del lavoro – marketing e vendita prima e poi dell’impresa nella sua globalità, una volta divenuto imprenditore –, ma deve tenere conto dei diversi fat-tori che entrano in gioco nell’incontro e deve avere il gusto della parola e della comunicazione.

Allora, non è casuale se un imprendito-re con il suo talento e le sue doti comuni-cative ha avviato nel 1985 anche un’av-ventura nel settore turistico, realizzando l’Hotel Executive di Fiorano e l’annesso Exé Restaurant, allora prima e unica re-altà a quattro stelle nel cuore del distretto ceramico più importante al mondo, strut-tura di cui, da poco più di due anni, lei si occupa direttamente, a capo di una squa-dra di ottimi collaboratori, con la direzio-ne di Lorena Merli, che faceva parte dello staff fin dagli inizi.

Le rispondo volentieri, anche se de-vo sfatare in questo caso le doti che lei mi accredita, nelle quali tuttavia mi riconosco, senza timore di apparire immodesto. L’impresa dalla quale è nato il complesso dell’Hotel Executi-ve, oggi proprietà di Finmasi Group, è stata un’operazione atipica rispetto alle modalità da me usate abitual-mente. Nacque come un’operazione con intento speculativo in campo immobiliare, la quale, per diverse ra-gioni, mi mise di fronte alla necessità di fare una scelta di tutt’altra natura, cioè quella di creare un’impresa nel settore dei servizi. Oggi devo dire che sono contento di aver gestito quella

scelta con coerenza imprenditoriale. Il 29 ottobre scorso, abbiamo festeg-giato il trentennale di questa struttura e, in particolare, abbiamo inaugurato il ristorante Exé, dandogli appunto il nome di EXÉ 1985, locale completa-mente rinnovato e moderno, che sarà gestito dalla società omonima di re-cente costituzione fra l’Hotel Executi-ve Srl e l’economista Stefano Gualdi, che ha assunto il ruolo di ammini-stratore delegato e direttore di que-sto ristorante, che si offre al mercato e, in particolare, a tutti coloro che nel comprensorio vivono o si trovano a operare. L’intento è stato quello di far rivivere una storia e una realtà che fin dall’inizio della sua attività – 18 mag-gio 1985 – annoverò fra i suoi clienti tanti imprenditori del comprensorio e con essi tutto il mondo che gravita-va intorno alle loro aziende, fra cui la società Ferrari e i suoi famosi piloti.

Abbiamo inteso riprendere l’attivi-tà del nostro ristorante con rinnovata lena e fiducia, proponendo al merca-to del nostro importante comprenso-rio – e non solo – una cucina che, pur nel rispetto della territorialità, offre anche soluzioni innovative, compre-sa la scelta che abbiamo fatto di servi-re una pizza gourmet che possa vera-mente competere e farsi apprezzare, oltre che per il gusto, per una partico-lare leggerezza. Tutto quanto assistito da condizioni e servizio degni di tale clientela.

NUOVO RISTORANTE EXÉ 1985: DOVE SI FESTEGGIA LA VITTORIA DI TANTE PARTITE

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MAURIZIO VENARApresidente di TracMec Srl, Mordano (BO)

La vostra azienda, da dieci anni pro-tagonista nel settore dei cingolati, sta investendo nel rinnovo della sede e in nuovi macchinari. Eppure, in questo periodo, sembra difficile fare previsioni, soprattutto in Italia, sull’avvenire delle imprese…

Proprio perché non conosciamo le richieste del mercato nei prossimi anni dobbiamo pensare ora a qualificare ulteriormente l’azienda. Per questo stiamo investendo in un’organizza-zione interna più efficiente e in macchinari all’avanguar-dia, come la nuova alesatri-ce, per la quale abbiamo in-vestito un milione e mezzo di euro, per produrre ancora di più in termini di qualità. Inoltre, oggi, il prezzo com-petitivo del prodotto finale si ottiene non con un rispar-mio nella qualità, ma con un’organizzazione mirata. Gli scenari futuri, infatti, restano ignoti, ma la qualità è sempre un ottimo investi-mento. È come il caso di una bella donna che compra il vestito migliore per uscire la sera. Se sapesse a priori di non incontrare nessuno, non lo comprerebbe. Inve-stire in tecnologia all’avan-guardia è un’occasione in più per entrare in una nicchia di mercato in cui è premiata la qualità e non il basso prezzo. Inoltre, è an-che un modo per ottenere maggiore efficienza energetica, considerando che oggi la tecnologia consente an-che questo.

Qual è la nuova scommessa di Trac-Mec?

Stiamo studiando l’intervento dei nostri cingolati in due settori di-versi, quello dei sottocarri classici, da impiegare in ambito forestale, e quello dei carri anfibi, utili in am-bienti paludosi, fluviali o lacustri. Si tratta di nicchie di mercato e per noi

sarebbe già un record costruire cin-que o dieci pezzi all’anno. Inoltre, stiamo organizzando l’inserimento di collaboratori specializzati per soddisfare le particolari richieste tecniche dei clienti.

Scommettere sui carri anfibi indica che il futuro del paese sarà quello d’in-vestire sempre più nella manutenzione

dei terreni che hanno ceduto a causa di piogge e nubifragi spesso proprio per la mancata manutenzione...

Il cingolato anfibio permette all’escavatore di operare in zone paludose, oppure anche in zone con una certa profondità di fondali, per questo è necessario che galleggi. Per costruire un carro anfibio dobbiamo tenere conto di specifiche normati-ve, diverse per ciascun paese euro-peo e estero. Nei paesi francofoni, per esempio, includendo anche il Nord America, sono richieste carat-

teristiche tecniche peculiari, men-tre alcuni paesi del Nord Europa ne richiedono altre. È chiaro che, quando cambiano certi parametri progettuali, anche le prestazioni della macchina sono diverse. Il co-struttore deve essere sicuro di quali sono i criteri tecnici che ciascun pae- se richiede. Ma avere questo tipo di informazioni è difficile, e in Italia è quasi impossibile. Non è chiaro, anche all’estero, quali siano i pa-rametri tecnici che occorrono per ottenere la certificazione. Pertanto, o la certificazione è data dal clien-te, che assume la responsabilità di eventuali problematiche, oppure l’imprenditore costruttore rischia che sia bloccata la vendita da un

ente omologatore solamente perché manca un dettaglio che invece l’ente richiede. La questione è che si tratta di macchine il cui costo è intorno ai 400 mila euro cia-scuna.

La vostra scommessa è quella di inventare un carro anfibio che rispetti le omologazioni di ciascun paese?

La difficoltà è anche quella di acquisire le informazioni tecniche specifiche, dal mo-mento che la confusione in materia dipende proprio dagli enti fluviali o marit-timi deputati a dare queste indicazioni. Per noi è impor-tante definire un progetto che consenta di produrre un certo numero di macchi-ne all’anno. Ma, in Italia, le normative non definiscono molti aspetti, lasciando la disciplina dei criteri tecnici alla regolamentazione del-

le singole province o delle regioni. Pertanto, lo stesso procedimento di costruzione, presentato in due regioni, è valutato in modi diversi e questo accade anche fra province distanti cinquanta chilometri l’una dall’altra. La burocrazia pensa di essere utile al paese in questo mo-do, ma dimentica che quello che serve è lasciare lavorare le impre-se. Intanto, assistiamo al paradosso di aziende che vogliono lavorare e che, invece, sono bloccate a cau-sa dell’interpretazione di postille, i veri cavilli burocratici che intasano l’apparato produttivo.

INVESTIAMO NONOSTANTE LA BUROCRAZIA

Maurizio Venara

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RAIMONDO RAIMONDIMarketing Manager di R.C.M. Spa, Casinalbo (MO)

Lei gestisce la filiale spagnola della R.C.M. dal 2005, da quando i tre fratelli fondatori — Renzo, Roberto, suo padre, e Romolo — hanno deciso di passare il te-stimone ai successori. Qual è stata la sua esperienza precedente in azienda?

Nel 1985, appena diplomato, ho in-cominciato a lavorare in azienda, oc-cupandomi di aspetti amministrativi. È stata un’esperienza importante, che mi ha permesso di acquisire strumenti che in seguito si sa-rebbero rivelati indispensabili nella gestione dell’impresa. Dopo una sosta obbligata per prestare il servizio militare, al mio rientro, nel 1987, sono pas-sato dal reparto amministra-tivo all’ufficio commerciale, che si occupava della gestione delle commesse e degli ordini, ma anche della formazione offerta ai clienti sull’utilizzo corretto dei prodotti vendu-ti, organizzata presso i nostri concessionari in tutt’Italia. È stata un’esperienza entusia-smante, che ricorda quella vissuta da mio padre quando doveva lanciare per la prima volta le motoscope sul mer-cato e si recava direttamente dai potenziali clienti per fare dimostrazioni del prodotto (come possiamo leggere nel n. 64 di questo giornale).

Dall’area commerciale sono poi pas-sato al reparto produttivo, di cui sono diventato successivamente responsa-bile. Nei molti anni in cui ho lavorato in questo settore, ho potuto seguire e gestire direttamente l’evoluzione di R.C.M. verso l’informatizzazione di tutti i processi, fino all’applicazione dei principi della lean production. Ho visto crescere l’azienda, che è passata rapidamente a un’offerta di model-li numericamente molto superiore rispetto al periodo precedente. Poi, nel 2005, come ricordava lei, la no-stra famiglia si è riunita e abbiamo deciso che era arrivato il momento di

compiere il passaggio generazionale all’interno dell’azienda. Ci siamo av-valsi della collaborazione di un con-sulente, che poi è diventato un amico, e ci siamo ridistribuiti le responsabi-lità: oltre al marketing, io ho preso in gestione la nostra filiale spagnola.

Quali sono state le difficoltà che ha do-vuto affrontare nei primi anni della sua esperienza in Spagna?

La società spagnola, che nel corso degli anni abbiamo acquisito al 100 per cento — mentre all’epoca aveva-mo solo una quota di minoranza —, era stata fondata nel 1993 a Sant Ce-loni, nei pressi di Barcellona. Finché R.C.M. deteneva solo il 40 per cento, i contatti con la filiale spagnola av-venivano una volta ogni tre, quattro mesi. Il nostro socio spagnolo parlava perfettamente italiano e aveva una speciale comunione d’intenti con mio padre. Quando abbiamo acquisito la maggioranza della società, chia-ramente, i contatti con la filiale sono

diventati più stretti e ho incomincia-to a recarmi in Spagna sempre più spesso, circa tre giorni ogni due set-timane, come amministratore della società, mentre il nostro ex socio ha mantenuto soltanto la responsabilità di organizzare la rete commerciale. La produzione è sempre rimasta a Modena, mentre la filiale si dedica al-la commercializzazione, garantendo la disponibilità delle macchine, dei ricambi e del servizio tecnico.

Per qualche anno la filiale è andata benissimo, con piani di crescita del 20 per cento annuo, fino al fatidico 2007, quando la Spagna fu colpita dalla cri-si. Proprio poco prima che scoppiasse la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Spagna, forti degli ottimi risultati commerciali, avevamo deciso di inve-

stire per dare ulteriore slancio alla nostra filiale, acquistando un immobile di maggiori di-mensioni per servire meglio i nostri nuovi clienti. Non solo, avevamo aperto una sede della filiale a Madrid, dove si trova-no le più importanti imprese di pulizia della penisola, alle qua-li volevamo rivolgerci con uno specifico piano di marketing. A differenza delle imprese di pulizia presenti in Italia, le im-prese spagnole sono costituite da un gruppo numeroso di so-cietà di servizi nate da grandi gruppi di costruzioni edili, im-pegnati nella realizzazione di grandi infrastrutture pubbli-che e private sul territorio na-zionale ed estero, oltre che da una grande quantità di impre-se medio piccole. Purtroppo, anche le grandi imprese di pu-

lizia, come tutto il comparto produt-tivo, hanno profondamente risentito della crisi. Di conseguenza, da quel momento, anche per R.C.M. sono in-cominciati anni difficili, anche se que-sto non ci ha impedito di rimanere sul mercato, grazie all’intuizione di tro-vare, in nuovi canali di distribuzione, nuove possibilità di fatturato. Ed è in questo periodo che è nata Alkiberica, un’innovativa piattaforma per il no-leggio a livello nazionale delle nostre motoscope e lavapavimenti.

E l’avvenire come si sta prospettando?Crediamo che la nostra capacità di

aumentare le attuali quote di mercato debba passare soprattutto dallo svi-luppo di prodotti innovativi. Di re-

INDUSTRIALIZZAZIONE E QUALITÀ ARTIGIANALE PER LE MACCHINE R.C.M.

Raimondo Raimondi con la lavapavimenti Tera R.C.M.

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cente abbiamo posto le basi della no-stra visione per il futuro della pulizia avviando il progetto RCM Cleaning Solutions con l’obiettivo di realizzare prodotti che, oltre a pulire bene, ridu-cano al minino l’impatto ambientale. Ne sono un esempio la lavapavimenti ECO3 Sanitizing, che sfrutta la capa-cità ossidante dell’ozono per la sani-ficazione dei pavimenti senza l’uso di detergenti chimici, oppure Reaqua, il primo sistema di chiarifloculazione mobile che permette di riutilizzare fino a 8 volte la stessa acqua delle la-vapavimenti, riducendo il consumo e lo spreco di acqua. Ma oggi puntiamo molto anche a coprire nuovi settori di mercato. Ed è in quest’ottica la nascita nel 2014 di Macroclean, una joint-ven-ture per la produzione di una grande spazzatrice a completamento sia del-la nostra ampia gamma di macchine industriali, sia per affiancare le nostre più piccole spazzatrici Ronda e Patrol per la pulizia urbana. In verità, non abbiamo mai scommesso molto sul settore della pulizia urbana in Italia, perché è risaputo da quante pastoie burocratiche deve districarsi chi de-cide di lavorare con il pubblico, ma fuori dall’Italia queste macchine sono molto richieste anche in ambito indu-

striale e da qui è scaturita la nostra decisione. La Macroclean M60 è una macchina meccanica aspirante adat-ta per lavori molto gravosi in ambito industriale (miniere, fonderie, acciaie-rie ecc.), ma è anche particolarmente funzionale nella pulizia delle città di aree del mondo con caratteristiche differenti da quelle europee. In Medio Oriente, per esempio, dove le strade sono invase dalla sabbia, le tradizio-nali macchine aspiranti, senza filtri, non riuscirebbero a dare gli stessi ri-sultati. M60 spazza e raccoglie la pol-vere contemporaneamente in un con-tenitore e, grazie a un sistema di filtri, la cattura impedendo la diffusione in atmosfera, diversamente dalle altre spazzatrici aspiranti, che utilizzano ingenti quantità di acqua, un bene considerato sempre più prezioso, per abbattere la polvere fissandola a terra senza rimuoverla. Ronda, che utilizza lo stesso sistema meccanico aspirante di M60, è stata sottoposta a un test da una società di Modena, lo studio Alfa, dal quale è emerso che, grazie al suo sistema di filtri, riesce a raccogliere la quasi totalità della polvere dal suolo e che, una volta catturata, lascia passare nell’ambiente solo pochi milligram-mi.

Come responsabile marketing, lei ha in-ventato lo slogan: “C’è sempre una rossa fatta apposta per te”, con un forte richia-mo alle Ferrari di Maranello, a due passi da Casinalbo, dalla vostra sede, eccellenze italiane che riescono a coniugare la mec-canica all’estetica. In questo senso, nel vostro settore, anche le macchine R.C.M. non scherzano: è raro infatti trovare mac-chine per la pulizia così funzionali ed ele-ganti...

È vero. Tuttavia, anche i nostri com-petitor più aggressivi producono ot-time macchine. Il mercato oggi è più affollato di un tempo ed è in parte occupato da grandi gruppi multina-zionali, con fatturati importanti e con grande capacità di investire in ricerca e sviluppo. Noi stiamo lavorando per raggiungere quegli stessi livelli, indu-strializzandoci, per contenere i costi e offrire macchine con finiture migliori.

Lei dice che l’industrializzazione dà un valore aggiunto alle finiture, rispetto all’artigianalità?

La macchina artigianale non è peg-giore di quella industriale, ma per ridurre i costi, per rimanere compe-titivi sul mercato e per realizzare un prodotto finito che unisca in sé la cu-ra dei particolari e la produzione su larga scala, l’industrializzazione è un passaggio necessario, anche perché permette di limitare molto gli sprechi. Tuttavia, abbiamo deciso di lasciare le caratteristiche artigianali in alcuni componenti delle nostre macchine, per il loro valore aggiunto e per l’im-patto visivo che offrono. È vero che abbiamo sempre dato importanza all’estetica, tant’è che le ultime mac-chine hanno raggiunto un ottimo li-vello in questa direzione. La Tera, per esempio, l’ultimo modello di lavapa-vimenti per grandi superfici, è parti-colarmente ben riuscita. Rispetto alla Metro, la versione precedente, nella progettazione della Tera abbiamo curato attentamente ogni dettaglio, dall’aspetto estetico a quello tecnico, sempre con l’obbiettivo di ricavarne un valore aggiunto. Per esempio, ab-biamo reso più semplice una partico-lare attività di manutenzione grazie a un’idea che ho avuto un giorno, men-tre preparavo una presentazione nel nostro showroom.

In effetti, l’imprenditore trova i modi per migliorare i prodotti, strada facendo...

Certo. L’evoluzione dei prodotti è costante, in corso d’opera, e non ha mai fine.

Grande spazzatrice Macroclean M60 R.C.M.

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PAOLO E MARCO VERONESItitolari della Gioielleria Ferdinando Veronesi e Figli S.r.l., Bologna

Il marchio di gioielleria Chantecler rilancia il mito dell’isola di Capri ne-gli anni cinquanta, quando divenne la meta turistica internazionale più am-bìta da attrici, cantanti, playboy, eredi di grandi dinastie industriali e scrittori di tendenza ispirati da una sciarada di profumi, colori e bellezze naturali. Da dieci anni, la vostra storica gioielleria diffonde a Bologna le creazioni artigia-nali della fortunata casa gioielliera ca-prese…

Contrariamente a quanto farebbe pensare il nome in francese arcaico, Chantecler è un marchio che nasce proprio a Capri. Il gioiello simbolo di Chantecler è il portafor-tuna che ha fatto innamo-rare le donne più raffinate del mondo: la campanella Chantecler. La storia di que-sta campanella, infatti, nasce dall’antica leggenda capre-se di san Michele. Si narra che fu il dono del santo a un giovane pastore che aveva smarrito la sua unica peco-rella. Il tintinnio della cam-panella avrebbe fatto avverare ogni desiderio a chi l’avesse tenuta fra le mani, attirando la fortuna ovunque e in ogni momento. Al suono soave della campanella il pastorello trovò la gioia perduta e la sua pecorella.

Anche noi siamo stati rapiti dal suono della campanella Chantecler,

che avevamo notato nella boutique della casa gioielliera a Cortina per la fantasia e l’eleganza delle sue proposte. L’intuizione di Chante-cler è stata quella di aver trasfor-mato la campanella, il souvenir più desiderato di Capri, in un gioiello porte-bonheur di diamanti, oro, zaffi-ri, rubini, pietre dure e semiprezio-se, un arcobaleno di gemme dai mil-le colori che indicano un equilibrio prezioso di semplicità e fantasia.

Come nasce il mito Chantecler?Nel 1947, Pietro Capuano, membro

di un’antica famiglia di gioiellieri na-poletani, è un uomo eccentrico – non

a caso è soprannominato “Chante-cler”, come il gallo cantachiaro della favola – con una vera passione per l’alta gioielleria, ma quando incon-tra Salvatore Aprea, giovane caprese

dotato di grande creatività e tecnica, avvia un sodalizio indissolubile. Il mito Chantecler è nato da quell’in-contro. Chantecler e Salvatore Aprea diventano i gioiellieri di fiducia del-

lo spensierato universo dei frequentatori dell’isola. Il mito del gallo Chantecler, come in-dica il marchio, ha conquistato personaggi come Grace Kel-ly, Ingrid Bergman, Jaqueline Kennedy, che furono lette-ralmente ammaliate dall’arte gioielliera dell’azienda capre-se. Ancora oggi Chantecler esprime nei suoi gioielli unici il puro spirito della sfavillan-

te Capri di quegli anni, non a caso raccontata in diversi film ispirati dall’atmosfera elegante e gioiosa dell’isola, di cui Chantecler e Aprea sono stati nobili testimoni. Oggi, le fortune dell’azienda made in Capri continuano con i figli del fondatore Salvatore Aprea, Maria Elena, Co-stanza, Gabriele e sua moglie Teresa. “In questo splendido futuro non di-menticare mai la tua storia”, recita il motto sul prezioso libro che racconta la storia di questa nobile avventura di alta gioielleria italiana, che, nel 1986, ha reso omaggio all’Italia e alla terra natia nella collezione Logo, che ritrae nelle sue creazioni la fortunata piazzetta di Capri con incastonato un piccolo brillante nel campanile (www.chantecler.it).

Proporre le collezioni Chantecler ai nostri clienti significa farli entrare in questa atmosfera di gioia e fortu-na, per farli sognare con noi.

DIECI ANNI DI CHANTECLER A BOLOGNA

Campanella con pavé di diamanti

Orecchini in oro rosa e smalto “Collezione paillettes”

Collana di diamanti e corallo bianco “Chiave di violino”.

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MARCO REGAZZIResponsabile marketing di Soveco Spa, Centri Porsche Bologna, Modena e Mantova

Gli ottantacinque anni che Porsche compie fra pochi mesi non hanno appe-santito la giumenta alata simbolo della casa automobilistica di Stoccarda, che conferma il suo inconfondibile stile spor-tivo con la nuova edizione della storica 911, icona delle auto sportive di tutto il mondo. Quali sono i punti di forza di Porsche?

Negli ultimi anni la casa automo-bilistica tedesca ha attuato molte in-novazioni non solo negli aspetti tecnici delle vetture, ma anche nella relazione con il cliente e nella gestione delle concessio-narie, compresa la formazione dei collaboratori. Il programma “Trenta e lode” è stato pensato da Porsche per sottolineare l’im-portanza della cura del cliente da parte di chi lo accoglie in con-cessionaria e da parte di mecca-nici, magazzinieri e personale amministrativo.

Sono cresciuto in Emilia-Ro-magna a “pane e meccanica”, per dir così, considerando che mio padre ha fondato un’azienda nel settore delle cremagliere di pre-cisione. Dopo la laurea in eco-nomia e un master in statistica, sono andato a lavorare a Milano, all’Istituto Europeo di Design (IED), dove ho avuto l’occasio-ne di seguire i clienti di diverse multinazionali, fra cui Tiscali, Coca Cola e Pirelli, finché un collega del master mi ha propo-sto di fare un colloquio con Porsche. Dopo quasi dieci anni di collabora-zione, posso dire che i punti di forza dell’azienda sono l’innovazione e la tradizione che si fondono nella mec-canica e nello stile delle autovetture. Modelli come la 911, che è sul mer-cato da ben cinquantatre anni, con-fermano come questo connubio sia perfettamente riuscito. È una mac-china sportiva, ma che si può usare tutti i giorni. Non esiste un’altra auto sportiva così versatile. D’altronde, Porsche è la casa automobilistica che in assoluto ha vinto più corse auto-mobilistiche al mondo e in tutte le

categorie, salvo la Formula Uno in cui non si è mai cimentata. La nuova edizione della 911 indica che il mon-do sta cambiando, ma ogni epoca ha la sua 911. Ancora una volta le carat-teristiche principali sono l’innova-zione nel motore turbo, che migliora le prestazioni dell’edizione prece-dente, ma vanta consumi ridotti, e i tradizionali sei cilindri contrapposti, in perfetto stile Porsche.

Le nuove automobili tengono con-to della grande rivoluzione nella comunicazione, per questo avranno all’interno stazioni di connessione paragonabili a grandi smartphone. Il cliente acquista anche diversi servizi che può utilizzare guidando, come avvalersi della mappa del traffico in tempo reale o prenotare il ristorante, l’albergo o il volo aereo. Tutto que-sto avviene mentre è accomodato nel suo speciale salotto mobile, in cui dovrà solo preoccuparsi di gui-dare e di parlare, dal momento che

l’auto è dotata di comandi vocali. Inoltre, Apple ha predisposto alcune funzioni che consentono di trasferire nel computer di bordo la memoria dello smartphone semplicemente appoggiandolo nell’auto. Stiamo anche studiando tecnologie per cui, se l’automobilista nota qualcosa che non sta andando come dovrebbe, potrà collegarsi in remoto con i no-stri tecnici, che, attraverso appositi sistemi di controllo, faranno una diagnosi immediata direttamente dall’officina. Ciascuna modifica tec-nica sarà annunciata tramite un sem-plice messaggio, inviato dall’officina al computer dell’autovettura.

Sono tanti gli appassionati del mar-chio Porsche che amano collezionare i

modelli della casa automobilisica… Porsche li chiama clienti

esperti perché hanno una vera e propria passione per la mec-canica del marchio al punto da acquistare più di un’auto. So-litamente, comprano vetture a benzina perché per loro il cuore della meccanica resta il motore a benzina, non a caso seguono le corse automobilistiche e i raduni Porsche. In ogni parte del piane-ta i nostri più fedeli estimatori hanno fondato diversi Porsche Club. In Italia è molto attiva la Federazione Italiana Porsche Club, che raccoglie i Club ri-conosciuti ufficialmente dalla casa automobilistica di Stoccar-da. La nostra concessionaria ha un suo Porsche Club e i nostri clienti usufruiscono di conven-zioni speciali con l’officina, oltre a essere convocati per primi in occasione delle presentazioni di nuovi prodotti. Inoltre, ogni Club organizza un weekend

dedicato, almeno una volta al mese. Solitamente sono occasioni per cene conviviali, per eventi sportivi o per visitare cantine vitivinicole, mostre d’arte e altro ancora. Quest’anno, l’Associazione Green Porsche Club Italia ha presentato la 24° edizione del circuito di golf “Porsche Green Cup 2015”, affinché i suoi porschisti possano misurarsi in avvincenti gare sui campi più belli d’Italia. Ma non mancano anche i Porsche Sci Club per gli appassionati dello sci e dei motori Porsche, che seguono il ca-lendario di appuntamenti nelle più suggestive località sciistiche.

A OGNI EPOCA LA SUA 911

Marco Regazzi

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ANDREA ROBERTO MOROSATIdirettore commerciale, Volkswagen Financial Services

Nelle interviste precedenti del nostro giornale a lei e ai suoi più stretti colla-boratori, abbiamo illustrato differenti di-spositivi in cui il capitano interviene in direzione della qualità in vari settori di un’azienda di servizi come Volkswagen Financial Services. Ma in che modo il ca-pitano mantiene la rotta, quando il mare è in tempesta e gli stessi marinai potreb-bero soccombere per paura?

In più di sessant’anni di vita del Gruppo, possiamo dire che l’im-magine percepita dai nostri clienti, l’appeal delle marche e dei prodotti che rappresentiamo ha fatto spingere il veliero con un vento molto favo-revole. In questo momento il vento soffia un po’ meno forte, e allora si tratta di in-tervenire per dare maggiore spinta alle persone che lavo-rano con noi – dai venditori ai concessionari a tutti i no-stri collaboratori – per fare di più e meglio, puntando su valori che avevamo dato per scontato venissero perce-piti naturalmente dai clienti. Questo vale su tutta la catena della distribuzione: i vendi-tori che ricevono il cliente nello showroom, i titolari delle Con-cessionarie e, a monte, i reparti che decidono la strategia interna per sviluppare questo tipo di approccio. Non è un approccio in difensiva per aspettare che i tempi cambino, ma è un approccio attivo, che prende in considerazione le eventuali piccole imperfezioni da gestire e da governa-re. Pertanto, abbiamo messo in moto azioni per aiutare la nave a tenere la rotta e a riprendere la velocità di crociera voluta. Sono abbastanza abi-tuato a lavorare con una squadra che vince le partite e i campionati, però, in tanti anni di attività come manager o come responsabile dei vari marchi del Gruppo, qualche goal l’ho preso anch’io e so che si possono prendere i goal, senza però perdere le partite. In questo momento stiamo per reimpo-stare la partita e rilanciare tutti i valo-

ri del Gruppo, ben noti alla clientela, che per molti aspetti considera i nostri prodotti addirittura inavvicinabili dai concorrenti. Forse, quella di compie-re uno sforzo straordinario per tenere clienti e volumi è più una preoccupa-zione da parte nostra, perché siamo abituati “ad andare veloci” e a gestire situazioni commerciali sempre posi-tive. Sentiamo tuttavia il dovere di applicarci di più e di concentrarci con le risorse disponibili, per accorciare le maglie, stare più vicini ai clienti e

rientrare nell’ambito di tranquillità come riteniamo che debba essere.

Lei mi chiedeva come si gestisce e quali sono le reazioni a un momento in cui, quando tutto andava esagera-tamente bene, si vede un nuvolone e ci si accorge che fra qualche minuto può arrivare un temporale forte...

Sì, quali misure si mettono in pratica? Si rivedono le strategie di gioco,

con le risorse e le persone disponibili, si ragiona su ciò che può accadere, peggiorando lo scenario in termini di potenziali effetti, si rimane prudenti e si lavora sui valori e sulle aree di at-tività che sono le più specifiche verso il cliente finale, sugli anelli più deboli della nostra catena, che sono i vendi-tori, affinché possano dare risposte ai clienti ed evitare che questi percepis-

cano qualche imbarazzo, quando en-trano in concessionaria.

Come suggerisce il Vangelo, il vero peccato non è tanto ciò che si è commesso, quanto abbattersi, abbandonarsi e assu-merlo come segno della fine della propria vita...

Invece il proseguimento, aumentando lo sforzo per valorizzare il patrimonio di tecnologia, arte e cultura di tanti anni, consente non solo di non abbandonarsi, ma di non abbandonare né la rotta né la nave e di condurla in porto con tutto

l’equipaggio...Nel business si può sintetiz-

zare in poche parole: bisogna riconoscere gli errori, capirli e immediatamente reagire in termini costruttivi.

Non è facile, per un’azien-da con migliaia di persone, reagire per riportare la nave sulla rotta quando ci si ac-corge dell’errore, ma questa è la prova che un’azienda riesce a gestire una situazio-ne imprevista e a cambiare velocemente lo schema di gioco con gli stessi giocatori, reimpostando la partita in maniera positiva. Questa è la forza di un gruppo, questa è

la forza di un’azienda che funziona. In Italia abbiamo oltre trecento con-cessionarie, con tantissimi lavoratori, più tutti i collaboratori che lavorano nelle nostre filiali, e muovere tutta la nave in modo coordinato non è facile, ma è proprio questa la sfida.

Soprattutto per lei, che deve gestire tra l’altro la formazione di circa 1300 vendi-tori sul territorio. Ma dalle nostre inter-viste precedenti è emersa l’importanza che lei dà alla parola e ai suoi dispositivi...

Purtroppo, spesso si pensa che i problemi debbano essere risolti da chi sta in alto, invece, credo che cias-cuno di noi debba intervenire di volta in volta con le persone che ci sono più vicine. Occorre assumere la respon-sabilità di parlare dei problemi, di interessarsi, perché parlare vuol dire anche comprendere. Troppo facile protestare.

L’INTERVENTO DEL CAPITANO QUANDO SI ANNUNCIA LA TEMPESTA

Andrea Roberto Morosati

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GIANNI SAGUATTIradiologo, direttore dell’Unità Operativa di Senologia-Dipartimento Oncologico dell’AUSL di Bologna e presidente di GISMa, Gruppo Italiano Screening Mammografico

La Regione Emilia Romagna è l’unica ad avere avviato un ampio e dettagliato programma di diagnosi e sorveglianza per il rischio eredo-familiare di carcino-ma mammario…

Dal 2012, ciascuna donna residente in Emilia Romagna e in età compresa fra i 45 e i 74 anni riceve una lettera di convocazione per lo screening mam-mografico insieme alla scheda in cui segnalare i casi di carcinoma mam-mario e di carcinoma ovarico che si sono verificati in famiglia. In segui-to, può incominciare un programma di sorveglianza molto accurato, che comprende una serie di appunta-menti per l’esecuzione di esami co-me la mammografia, l’ecografia e la risonanza magnetica, combinati in modo differente in relazione all’età e al livello di rischio. Questo percorso si svolge in regime di esenzione dal pagamento del ticket e costituisce una delle eccellenze della regione.

Ho incominciato l’attività nel 1982 e ricordo bene quando, alla fine de-gli anni ottanta, Angelino Sgarzi, che considero il mio maestro, mi dis-se di essere stato invitato a vedere un innovativo apparecchio mammo-grafico, contraddistinto dal cerchio in omaggio al celebre disegno di Giotto. Inoltre, negli anni novanta, la Regione è stata la prima in Italia ad avviare un dettagliato programma di screening mammografico sull’in-tero territorio, grazie alla donazione della Fondazione del Monte di due mammografi “Giotto”, nome che è profondamente legato all’avven-to dello screening mammografico in Italia. In particolare, a Bologna e a Ravenna è incominciata con IMS (l’azienda produttrice di Giotto) la campagna di sensibilizzazione per l’esame mammografico verso tutte le donne nella fascia di età più espo-sta al rischio di carcinoma. Questo è stato possibile grazie all’integra-zione di competenze differenti fra

la Fondazione bancaria, l’Ospedale, la AUSL di Bologna e l’azienda pro-duttrice di Giotto.

In che modo la nuova tecnologia Giot-to Class, di cui si avvale nel reparto di senologia dell’Ospedale Bellaria di Bolo-gna, offre un contributo alla sua pratica clinica?

Il rapporto con IMS è di tipo isti-tuzionale, quindi è necessariamente legato alle modalità di acquisizione secondo norme di legge che hanno consentito in questi anni di avvalerci delle loro apparecchiature. Nei primi anni duemila, la tecnologia mammo-grafica ha sostituito al mammografo cosiddetto analogico quello digitale. IMS ha lanciato la sfida di produr-re il primo mammografo a selenio amorfo, aprendo una nuova strada nella tecnologia per mammografia digitale, che da quel momento han-no seguito le più importanti multina-zionali del settore. Questa tecnologia consente l’assunzione simultanea di immagini consecutive su uno stesso spessore, permettendo al radiologo di analizzare in stretta successione uno per uno i diversi strati mam-mari. È una tecnologia molto utile soprattutto per l’analisi delle mam-melle più dense. Nel nostro repar-to di senologia convergono tutte le immagini diagnostiche che sono ri-levate nei dodici punti di screening mammografico della nostra AUSL, l’Azienda sanitaria fra le più grandi in Italia, che comprende un territorio molto vasto di 46 comuni, fra Casti-glione dei Pepoli e Bentivoglio e fra San Giovanni in Persiceto e Pianoro. La logica dello screening è quella di portare la mammografia alle donne, offrendo l’opportunità di fare l’esa-me sotto casa o comunque nel pro-prio paese, se compreso nell’area dei comuni bolognesi dell’AUSL. Attualmente, siamo impegnati nella lettura di circa settantamila mam-mografie all’anno.

Ampio e importante è l’uso che stiamo già facendo di Giotto Class, che ancora una volta rappresenta un’innovazione assoluta, non solo perché effettua mammografie digitali, come altre tipologie di mammografi ormai fanno, o perché fa biopsie, co-me pure avviene altrove, ma perché è anche l’unica apparecchiatura che può fare biopsie in modalità tomosin-tesi con paziente in posizione prona. La possibilità di applicare la biopsia stereotassica alla tomosintesi ci per-mette di fare biopsie molto accura-te. Le biopsie stereotassiche vacuum assisted (VABB) infatti individuano aree o formazioni per le quali esiste un significativo sospetto di patologia, mentre la tomosintesi digitale mam-maria (DBT) evidenzia lesioni molto piccole. Tutto questo acquista ancora più efficacia se la paziente è disposta su un apposito lettino, in posizione prona, perché ci consente di avere maggiori possibilità di centratura della biopsia. Chi conosce la modalità operativa della VABB sa bene quan-to, in alcune occasioni, la differenza di posizionamento della mammella tra mammografia di base e scout-view bioptica, e soprattutto la diversa mo-dalità di compressione mammaria tra queste, possa rappresentare una diffi-coltà nell’identificazione delle lesioni focali piccole non microcalcifiche e di quelle di tipo distorsivo. Attualmen-te, Giotto Class è l’unica apparecchia-tura nel mondo che coniuga queste caratteristiche.

Quali sono le prospettive per la preven-zione e la cura del tumore al seno?

Grazie a queste tecnologie, oggi abbiamo la possibilità di individuare lesioni sempre più piccole e di fare prelievi con bersagli millimetrici. Un buon programma di screening mam-mografico, infatti, riesce quando inci-de in termini di riduzione della mor-talità. Per ottenere questo risultato, occorre individuare le lesioni prima che diventino cancerose o quando sono ancora di dimensioni inferiori al centimetro, in caso di patologia con-clamata. In altre parole, con Giotto Class siamo in grado non solo di dia-gnosticare le lesioni prima che diven-tino cancerose, rendendo necessaria l’asportazione chirurgica perché si estenderebbero, ma anche lesioni che non evolverebbero mai verso un can-cro conclamato e che quindi non ne-cessitano di intervento chirurgico.

LA TECNOLOGIA GIOTTO CLASS PER LA DIAGNOSI DEL TUMORE AL SENO

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BRUNO TONIOLOpresidente di IMS Srl, Sasso Marconi (BO)

Nel 1988, l’economista Emilio Fon-tela considerava indispensabile per il brainworker e per la formazione dell’im-prenditore del XXI secolo la propen-sione all’innovazione, che non dipende dall’applicazione di un sapere tecnolo-gico alla produzione, ma dalle qualità dell’imprenditore, per questo indicato come l’artista del nuovo millen-nio…

L’imprenditore italiano è un artista perché fa cose di grande ingegno e all’estero è molto ap-prezzato proprio per questa spe-cifica vocazione. In Italia, invece, si sente dire che il difetto delle piccole e medie imprese sarebbe quello di essere individualiste e di non fare gruppo. L’impren-ditore, come l’artista, è e resta individualista e, come l’artista, inventa in solitudine. L’inven-zione esige la solitudine, non si può inventare in gruppo. Anche per questo l’Italia è piena di tanti piccoli imprenditori e inventori. Non lontano dalla nostra sede, Guglielmo Marconi ha cambiato la vita di tutti noi grazie a questa sua vocazione. Non a caso il mio motto recita: “Se si vuole pensare in grande bisogna essere da soli, ma se si vuole andare lontano bi-sogna camminare insieme”.

Come spiega il paradosso per cui in Italia riscontriamo un’elevata densità di artisti ma anche di burocra-ti?

L’artista non può essere un buro-crate, odia la burocrazia perché fre-na il suo ingegno complicando ogni cosa. L’imprenditore italiano è unico al mondo per ingegno e arte. Nella mia pratica ho notato che anche il semplice operaio ha l’esigenza di la-vorare in modo non convenzionale, per questo è importante accogliere le sue proposte. Non è casuale che i no-stri musei siano apprezzati in tutto il pianeta, per non parlare della nostra musica. In ciascun caso è questio-ne di arte e allora l’artista non può comporre in gruppo. Sarebbe come convocare due attori in un film per

la stessa parte da protagonista. Quando ho incominciato a pensa-

re all’idea del cerchio per l’applica-zione rivoluzionaria del dispositivo mammografico Giotto, in molti han-no manifestato perplessità. Per pa-recchie notti non ho quasi dormito. Avevo bisogno di pensare a nuove

combinazioni e se fossi stato in com-pagnia, in una riunione con cinque o sei persone, Giotto non sarebbe mai stato progettato.

Consideriamo un altro esempio. Per Giotto Class noi utilizziamo un detector, un dispositivo che consen-te di vedere direttamente l’imma-gine radiologica del seno. Quando abbiamo acquistato da un’azienda canadese il nuovo detector per la mammografia digitale, i nostri tec-nici hanno valutato che, con una piccola modifica, quel detector po-teva consentire l’esame mammogra-fico anche in modalità tomosintesi.

Abbiamo discusso molto di questa possibilità con i produttori canadesi perché non erano convinti che potes-se essere utilizzato per la tomografia. Hanno perfino inviato dal Canada i loro migliori ingegneri, ma hanno dovuto constatare che la nostra in-tuizione era innovativa.

IMS è l’unica azienda al mondo che produce solamente dispositivi dedicati alla mammografia. È un’ec-cezione nel settore, costituito in pre-valenza da multinazionali…

La senologia è una branca della medicina molto delicata e Giotto Class è l’unico dispositivo a ese-guire la mammografia in moda-lità tomosintesi con biopsia pro-na. La nostra forza è stata quella di avere una valida catena di vendita all’estero che ho creato passo dopo passo, anche lungo le amicizie acquisite negli anni. Le multinazionali, invece, hanno interesse a diversificare il loro intervento, per questo sono mol-to attente alle innovazioni delle piccole e medie imprese italiane. Non sono mancate quelle che mi hanno proposto l’acquisto, ma mi sono subito chiesto cosa ne sarebbe stato dei collaboratori che hanno contribuito a far dive-nire leader nel settore IMS, che finora ha venduto nel mondo 3.800 mammografi Giotto. La lo-

gica della multinazionale è che, men-tre pensa di produrre una tecnologia superiore a quella dell’avversario, è focalizzata a fare business, quindi il suo interesse per l’innovazione è finalizzato. Del resto la multinazio-nale deve rendere conto dei singoli programmi giornalieri a una schiera di soci, mentre l’azienda di piccole e medie dimensioni è molto più fles-sibile e ha interesse a far crescere i propri collaboratori perché deve essere certa dell’utilità dell’apparec-chiatura per la paziente: se l’azienda non offre qualcosa in più della multi-nazionale non può vendere, dunque non può proseguire il suo itinerario di arte e invenzione.

L’IMPRESA VINCE CON L’ARTE E LA SCIENZA, NON CON LA BUROCRAZIA

Bruno Toniolo

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MICHELE MALENApresidente del Laboratorio poliambulatorio Exacta, Modena

Il 22 settembre scorso è stato presenta-to dal Ministero della Salute ai sindacati medici l’ultima versione del decreto sulle prestazioni sanitarie inappropriate. So-no 208 le misure che saranno soggette a condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva e riguardano tra l’altro odontoiatria, radiologia e pre-stazioni di laboratorio. Cosa pensa di tali misure annunciate come necessarie per ridurre gli sprechi della spesa pubblica?

Vivere di contraddizioni può avere il suo fascino per un artista, ma coloro che governano un paese dovrebbero attenersi a uno stile improntato alla coerenza. Nel nostro paese, invece, accade che la recente stretta attivata sull’assistenza sanitaria (in Italia si chiama ancora “assistenza”) contra-sta palesemente con lo slogan “È me-glio prevenire che curare”, da sempre strombazzato dai politici in ambito sanitario. Ebbene, come si può fare prevenzione se gli esami sono con-siderati inappropriati nei casi in cui non ne è ancora emersa la necessità per sospetto diagnostico?

Il cittadino paga molto in Italia, non solo tasse sulla salute, ma anche attra-verso i tickets, che si pagano sempre e soprattutto per gli esami e per la prescrizione dei farmaci, arrivando al caso assurdo – che potrebbe essere derubricato come indebito o illecito arricchimento del SSN – di quei far-maci i quali, se comprati con ricetta medica del SSN, costano di più che se comprati direttamente senza l’utiliz-zo della prescrizione.

Intanto si fanno campagne per il contenimento dei costi, paventando il privato come estremo male, anziché come rimedio alle tante deviazioni del servizio pubblico gestito dai politici.

A partire dall’esperienza del vostro Laboratorio poliambulatorio Exacta, che opera a Modena da quasi mezzo secolo, può dirci quali sono i vantaggi che offrono i servizi privati ai cittadini?

I cittadini che si rivolgono a labora-tori privati per i loro esami dovreb-bero avere l’accortezza di ricorrere a

centri che facciano gli esami in sede e che li offrano a costi competitivi con i costi finali del SSN (ticket su esami e ticket su prescrizione), centri che eseguano gli esami e non funzionino come “centri di raccolta” per poi tra-sferire i campioni in altre città, se non addirittura in altre regioni.

Detto questo, dobbiamo riconosce-re che c’è un privato competitivo, che esegue tutti gli esami, anche quelli speciali richiesti con poca frequenza, di cui a volte sostiene i costi di esecu-zione senza recuperarli per intero, ma li esegue per la completezza dell’of-li esegue per la completezza dell’of-li esegue per la completezza dell’offerta insita nella propria missione e filosofia portante.

Questa è la realtà proposta a Mode-na dal Laboratorio poliambulatorio Exacta che, nato quasi mezzo secolo fa, da sempre ha scelto di offrire un servizio per i cittadini utenti con gli esami di chimica clinica, batteriologia e microbiologia a costi parametrati sulla spesa sostenuta per l’esecuzione degli esami.

Nel nostro Laboratorio, non è ri-chiesto nessun ticket sulla prescrizio-ne: succede spesso che proprio il va-lore del ticket sulla prescrizione copra o superi addirittura il costo degli esa-mi, a maggior ragione se si aggiunge al ticket per la prescrizione il ticket per gli esami.

La struttura Exacta dà un contribu-to importante all’attività di medici e specialisti che non vogliono essere condizionati dalla limitazione sul nu-mero e sulla tipologia degli esami da prescrivere. È, pertanto, un sostegno insostituibile alla medicina preven-tiva, nel dare risposta a sospetti dia-gnostici, consentire di pervenire a una diagnosi certa, affrontare le eventuali patologie con le armi più avanzate, seguire l’andamento della patologia in rapporto alla terapia e seguire i pazienti affetti da patologie croniche, monitorando i parametri ritenuti si-gnificativi dallo specialista.

Ci sono particolari servizi che Exacta offre in questo periodo per andare in-

contro alle esigenze dei cittadini?Nell’ambito della prevenzione,

Exacta offre pacchetti di esami per check-up che vanno dal checkup base a quello di “genere” (“uomo”, “don-na” “bambino”), diversificati per fa-sce di età, per attività professionali e per stili di vita, pacchetti checkup di prevenzione per le malattie sessual-mente trasmissibili e altri, tutti a prez-zi scontati.

Exacta va incontro alle necessità dei suoi clienti non solo con la riduzione dei costi degli esami e delle visite, ma anche con la comodità di accesso e gli orari di apertura al pubblico: si ese-guono prelievi tutti i giorni dalle 7.00 alle 11.00, anche sabato, domenica e festivi. Soprattutto in periodi di crisi, l’apertura nei giorni festivi è partico-larmente importante perché consente a chi lavora di non dover chiedere permessi per effettuare esami, per sé o per familiari anziani o ammalati da accompagnare, e agli studenti di non assentarsi dalle lezioni. Il servizio prelievo viene eseguito anche a domi-cilio, presso aziende e case protette.

Inoltre, non c’è bisogno di prenotare il giorno e l’ora del prelievo e i risul-tati vengono consegnati nella medesi-ma giornata, a meno che non si tratti di colture, antibiogrammi e alcuni po-chi altri esami speciali che richiedono tempi di esecuzioni più lunghi.

Infine, vorrei sottolineare che nel nostro laboratorio viene usato siste-maticamente il microscopio per gli esami morfologici e batteriologici del sangue, anziché affidare la risposta solo al risultato delle macchine, le quali, specialmente nel riconoscimen-to delle forme, presentano limiti non ancora superati.

Il 22 settembre scorso è stato presenta centri che facciano gli esami in sede e

ECCO UN PRIVACCO UN PRIVACCO UN PRIV TO CHE FA SCONTI SUGLI ESAMI, NON SULLA SALUTE

27/11/15 07.4627/11/15 07.4627/11/15 07.4627/11/15 07.4627/11/15 07.46 27-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:4627-11-2015 12:11:46

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ROBERTO ZENNAROresponsabile dell’area medica dell’Ospedale Madonna della Salute, Porto Viro (RO)

L’Ospedale Madonna della Salute di Porto Viro, in provincia di Rovigo, nel 2015 ha celebrato 60 anni di attività. Na-to nell’estate del 1955, nel corpo centrale della villa dell’ammiraglio Arcangeli, uti-lizzava i mezzi di un ospedale da campo regalato dai militari americani all’ammi-nistrazione di Contarina, attuale Porto Viro. Oggi è uno tra gli ospedali di rife-rimento per i pazienti veneti e ferraresi, ma non solo.

Responsabile dell’area medica è il dot-tor Roberto Zennaro, specialista in medi-cina interna, endocrinologia, diabetologia e malattie del ricambio.

Da quando si occupa dell’area medica?Sono responsabile dell’area medica

dal giugno 2008. Prima di iniziare a lavorare qui, ho lavorato all’Ospedale Civile di Rovigo, nel reparto di medi-cina, per venticinque anni. Il reparto di cui sono responsabile ora ha 56 po-sti letto, inclusi i letti di cardiologia, di geriatria, di medicina generale, di neurologia e la lungodegenza.

I nostri pazienti provengono so-prattutto dal pronto soccorso. Altri, soprattutto dell’area cardiologica, so-no pazienti cosiddetti “programmati” per interventi di tipo elettrofisiologi-co, come gli impianti di pace-maker, o per eseguire coronariografie. Il no-stro reparto si occupa, in modo par-ticolare, di cardiologia e di medicina cardiovascolare, con utilizzo di dop-pler e di altre forme d’indagine.

Quali sono gli ambulatori specialistici dell’area medica?

I nostri ambulatori specialistici più noti sono la diabetologia, la medicina interna, l’endocrinologia e la cardio-logia. Nell’ambulatorio cardiologico, oltre alle visite con ECG, eseguiamo ecocardiogrammi, test da sforzo, test provocativi, tilt test e test per la fun-zionalità cardiopolmonare.

Per quanto concerne problemi en-docrinologici, in particolare quelli di natura tiroidea, la struttura segue cia-scuna fase della patologia. Vengono eseguiti esami di funzionalità tiroi-dea, riscontri ecografici e valutazio-ne endocrinologica successiva. Per patologie neoplastiche della tiroide ci appoggiamo al nostro reparto di chirurgia, in cui il dottor Sartori e il dottor Neri si occupano di interventi chirurgici delle forme neoplastiche e, in questo caso, anche di gozzi volu-minosi con necessità di ablazione. In caso di neoplasie tiroidee, l’eventuale terapia con radioiodio viene general-

mente organizzata da noi e i pazienti vengono mandati al reparto di medi-cina nucleare dell’Ospedale Civile di Rovigo.

Rientra nell’area medica anche l’ambulatorio di neurologia: tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, sono aperti gli ambulatori in cui vengo-no eseguiti esami elettrofisiologici e elettroencefalogrammi. Vi operano valenti neurologi, che fanno sia con-sulenze per i ricoverati, sia attività specialistica ambulatoriale, sia con-sulenze in pronto soccorso, quando è necessario. I casi più frequenti in que-sto ambito sono pazienti anziani con disturbi come vasculopatie cerebrali degenerative. Abbiamo anche pa-zienti più giovani con patologie quali la sclerosi multipla e altre patologie molto diffuse. Anch’essi fanno da noi il primo screening e successivamente, per esami più complessi, come quel-lo del liquor, vengono inviati in altri centri specialistici come l’Ospedale di Rovigo.

Per il settore pneumologico inter-viene una volta alla settimana nella nostra struttura il dottor Dallara, che esegue anche esami di funzionalità respiratoria e l’emogasanalisi arterio-sa. Le patologie pneumologiche, pur-troppo, sono in continua espansione anche in pazienti giovani, soprattutto se fumatori. Ricordo che in questo momento le patologie neoplastiche, come quelle cardiovascolari, sono in stallo, mentre quelle pneumologiche aumentano. È da sottolineare che la presenza del reparto di terapia in-

tensiva permette alla nostra struttura di accogliere pazienti con patologie pneumologiche croniche riacutizzate o acute. Quando le condizioni clini-che di tali pazienti migliorano, ven-gono trasferiti al centro di pneumolo-gia di Rovigo.

Ci sono nuovi progetti per il vostro re-parto?

A ottobre è stato avviato il progetto del piede diabetico, per evitare gravi interventi di amputazione, attraver-so trattamenti periodici e costanti in ambulatorio. Il progetto è partito in collaborazione con la Casa di Cu-ra Pederzoli di Peschiera del Garda, dove opera un centro di riferimento a livello nazionale per il piede dia-betico. Per il trattamento di questa patologia saranno indispensabili sia l’attività ambulatoriale sia quella del-la sala operatoria. I pazienti candida-ti all’intervento chirurgico verranno operati sempre qui. Questa parte del progetto sarà coordinata inizialmente dal dottor Nicoletti, responsabile del centro di Peschiera, in collaborazione con il chirurgo vascolare.

Abbiamo inaugurato da poco anche l’ambulatorio di epatologia, con il fi-broscanner, una metodica nuova che consente di rilevare patologie diffuse del fegato, con una precisione addi-rittura maggiore di quella dell’esame istologico. Il dottor Anastassopulos si occupa in particolare di questa meto-dica e delle visite epatologiche avan-zate. Per quanto riguarda le patologie epatiche, i pazienti di solito vengono inviati dai medici di famiglia.

TRADIZIONE E NOVITÀ NELL’AREA MEDICA DELL’OSPEDALE MADONNA DELLA SALUTE

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UNA COMBATTENTE

A PRANZO DA DANILO

Il 5 novembre scorso, l’As-sociazione Culturale Pro-getto Emilia Romagna ha organizzato a Modena un

dibattito con una delle più grandi intellettuali del nostro tempo: basti dire che quando Oriana Fallaci lesse i suoi libri, nell’ultimo periodo della sua vita, trascorso a New York, le te-lefonava spesso per confrontarsi con lei intorno agli argomenti che coin-volgevano entrambe nella battaglia di civiltà. Nonostante il dibattito fosse alle 21, all’Hotel Canalgrande, la Figlia del Nilo, come recita la traduzione del suo nome d’arte, è arrivata di buon mattino per visitare la nostra città. Così, ha potuto ammirare il nostro “libro di pietra”, il Duomo, con la Ghirlandina che si libra verso il cielo, il Palazzo Ducale, la galleria dell’Ac-cademia Militare, con l’accurata guida di Anna Maria Vastarella, e

le meravigliose opere della Galleria Estense, dove la guida di Annunzia-ta Lanzetta ha completato il viaggio con un entusiasmo travolgente.Ma il regno dell’ospitalità, si sa, in Italia è la tavola e, se volevamo coro-nare la giornata culturale e artistica con un’esperienza della tradizione enogastronomica modenese, non

potevamo sbagliarci: il ristorante da Danilo è una garanzia assoluta.Accolta con il sorriso di Paola e Gior-gia e con la gentile di-screzione di Danilo, la Figlia del Nilo ha gustato deliziata al-cuni dei più rinomati piatti della tradizione e, quando ha ricevuto in omaggio una bot-tiglietta del famoso Aceto Balsamico Tra-dizionale di Modena, offerto dall’Acetaia La Bonissima, è sta-to per lei il dono più prezioso, grazie al quale porterà con sé la memoria della nostra città. Se non avete ancora capito di chi stiamo parlando, andate a pagina 11

di questo gior-nale e leggete il suo impor-tante articolo: a c q u i s i r e t e informaz io-ni incredibili intorno alle vicende che hanno porta-to l’Europa e l’Occidente a ciò che pur-troppo sta ac-cadendo pro-prio in questi giorni.

Quando Danilo ha letto il libro del-la sua ospite, Comprendere Eurabia, è rimasto sconvolto dalla disinfor-mazione alla quale i poteri forti tentano di costringerci: “La terza guerra mon-diale – dice –, è già in atto, è quella che

si sta facendo grazie ai mezzi di co-municazione, pilotati da chi cerca di mantenere le persone, soprattutto i giovani, in uno stato di assuefazione perenne. È vero che il terrorismo è frutto del fondamentalismo, ma, per

quanto un giovane abbia abbracciato una fede così radica-le, mi chiedo come possa indossare una cintura di esplosivo e farsi saltare per aria, provocando una stra-ge in mezzo alla gen-te comune, se non perché il suo cervel-lo è completamente spappolato. Io credo davvero che solo una

persona drogata possa fare una cosa simile. E chi manda questi giovani al macello ha di mira gente comune, altri giovani, proprio come la mafia, che uccide i bambini, per eliminare chiunque possa crescere con possibili idee di ribellione all’onorata società. Il problema è che i poteri forti go-vernano la comunicazione, che passa anche attraverso internet, e oggi an-che gli abitanti dei paesi emergenti hanno in mano uno o due telefoni cellulari collegati a internet. Questa è la nuova droga, questa è la vera ter-za guerra mondiale”.Allora, forse occorre promuovere e valorizzare il nostro patrimonio cul-turale, artistico, scientifico e enoga-stronomico, come fa questo ristoran-te da cinquant’anni, perché la me-moria non si cancelli. “Per fortuna – conclude Danilo – ci sono giovani disposti a portare avanti la traccia, che è impossibile da eliminare”.

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PIER LUIGI MONTORSI presidente di Sami Srl, Vignola (MO)

Il riscontro che Sami ha avuto all’Expo è andato oltre ogni aspettativa, come abbia-mo illustrato nel numero precedente del nostro giornale. È stata anche una prova delle vostre antiche radici nelle tradizioni agroalimentari del territorio e nella storia di una famiglia che ha fatto della lavora-zione della carne un’arte. Non dimenti-chiamo che suo padre aveva aperto già nel 1943, a Pozza di Maranello, uno dei più grandi macelli della penisola, seguito poi da quelli di Viadana (Mantova), e che molti dei salumieri diventati poi famosi avevano lavorato per lui...

È vero, la nostra famiglia è rinoma-ta, ha trovato fortuna e nutrimento sano grazie alla carne suina e bovi-na. Io sono l’ultimo di ventuno figli, tutti sanissimi, mia madre è morta a 98 anni ed è stata soltanto due volte in ospedale, pur mangiando sempre carne della nostra macelleria. Mio padre è morto a 90 anni ed è stato in ospedale una volta sola. La nostra famiglia allargata, compresi zii e cu-gini, con collocazione territoriale e abitudini alimentari simili alla nostra, è stata sempre prevalentemente sana. È vero anche che l’Expo ci ha dato tante soddisfazioni, ma mi sembra or-mai un secolo da quando ho sentito tante belle parole spese fra i padiglio-ni e sui media di tutto il mondo sul nostro cibo sano, sicuro, controllato, sostenibile, sui piatti che hanno una storia millenaria. Dopo poche setti-mane, si è scatenata una campagna terroristica sull’equazione semplici-stica carne=tumore, basata peraltro su cose risapute e ovvie. Intere pa-gine di giornali e servizi televisivi e radiofonici sono serviti a creare allar-mismo quando sono gli stessi esperti a collegare il rischio di sviluppare un tumore per chi consuma carne rossa a due condizioni: quantità e tipo di trattamento. Lo stesso coordinatore del Programma monografie dello Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), professor Kurt Straif, ha spiegato che “il rischio di sviluppare il cancro del colon-retto a causa del consumo di carne trattata resta picco-lo, ma aumenta a seconda della quan-

tità di carne consumata”. E il direttore della Iarc, Christo-pher Wild, ricorda che, oltre a segnalare tali rischi per la tutela della salute pubblica, occorre sottolineare l’inne-gabile “valore nutrizionale” della carne.

Chiunque sa che non può mangiare per lungo tem-po tutti i giorni un etto di carne, oppure solo uova oppure solo frutta e verdura senza andare incontro a problemi di salu-te. Ma l’Oms, con l’aiuto di alcuni media, terrorizza i cittadini, e questo potrebbe incidere anche sulla nostra economia, mettendo in crisi aziende e lasciando a casa migliaia di lavora-tori.

Per fortuna, qualcuno, come Car-mine Pinto, presidente dell’Associa-zione Italiana di Oncologia Medica, AIOM, abbassa i toni, ricordando che i dati diffusi dall’Oms erano noti da tempo: “Per quanto riguarda le car-ni rosse è una questione di modalità e di quantità e non esiste una soglia di esposizione oltre la quale ci si am-mala sicuramente. Il messaggio che dobbiamo dare è che la carne rossa va consumata una o due volte a set-timana al massimo”.

Infatti, la salute nell’alimentazione è sempre legata anche alla quantità. E, d’altronde, la stessa radice della parola “medicina” è “med”, che vuol dire “mi-sura”...

Quindi, chi ha sempre mangiato carne suina o bovina può continua-re a farlo tranquillamente. Tanto più se consideriamo i nostri consorzi di tutela, i controlli che vengono effet-tuati, la competenza dei nostri opera-tori, compresi i veterinari, siamo tra i paesi all’avanguardia nel controllo della qualità della carne offerta ai consumatori. Qualcuno dice che sia-mo addirittura i primi e che i nostri veterinari siano tra i più preparati del mondo. Bisognerebbe ricordarsene e valorizzare questo patrimonio che fa parte del made in Italy, soprattutto quando arriva l’invito da Bruxelles a

portare sulla nostra tavola cavallette, lombrichi, scarafaggi e altri insetti, guarda caso proprio mentre viene messa alla gogna la carne. Quanti insetti dovremmo mangiare per rag-giungere la quantità di proteine pre-senti in una bistecca? E quanti italiani sarebbero disposti a rinunciare alla memoria di secoli di gusto e tradizio-ni alimentari, a vantaggio del cosid-detto “new food” che l’UE vorrebbe propinarci insieme alle cavallette e che, per giunta, è preparato in labora-torio con l’uso delle nanotecnologie?

La nostra alimentazione è varia e deve continuare a esserlo, senza ce-dere alle pressioni di gruppi di inte-resse economico che hanno tutto il vantaggio a attaccare le nostre eccel-lenze per mettere in ginocchio le no-stre imprese che, nel comparto agro-alimentare, hanno vita sempre più dura, per il peso della burocrazia, ma soprattutto per le tante nuove rego-le e norme cogenti che interessano il settore. Basti pensare che nella nostra azienda dobbiamo dedicare quattro persone esclusivamente agli iter di certificazioni e rintracciabilità. Fare industria oggi è sempre più difficile, lo stato non aiuta e la concorrenza è particolarmente spietata. Per questo occorre inventare sempre qualcosa di nuovo, come facciamo alla Sami, per invogliare i clienti.

Quali saranno le novità per il 2016?Ne parleremo nel numero di gen-

naio, ma per il momento posso dire che stiamo preparando un nuovo packaging per la scatola da 12 pezzi di Arrostichetto, che si porta come una borsetta.

NO ALL’ALLARMISMO CONTRO LA CARNE

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Dalla cucina di Ildegarda a quella di Gilbert:

Da anni, nel mondo occidentale, si parla di veganismo e di cu-

cina vegana. Da ancora più tempo è invalso l’interesse per la cucina ve-getariana. Da moltissimi anni, più di quanto siamo comunemente portati a credere, è aperto il dibattito se gli umani debbano avvalersi di un’ali-mentazione mista o comun-que bilanciata, tra prodotti alimentari di derivazione animale e altri di derivazione vegetale o di un’alimentazio-ne prevalentemente vegetale, fatta anche di sementi e di tu-beri. Le scelte alimentari han-no interessato un po’ tutte le civiltà, mediterranee, orien-tali, americane, anche pre-colombiane, come testimo-nianze raccolte con strumenti sempre più probativi indica-no. Queste scelte sono dipese dal tipo di terreni, dalla pre-senza di animali da cacciare, dalla ricchezza di scambi: quanto più si sono arricchiti gli scambi e i commerci, tan-to più le popolazioni si sono trovate a potere “scegliere” di cosa alimentarsi. Il noto antropologo tedesco Franz Boas ha illustrato quanto le civiltà più antiche, come quelle precolombiane, abbiano co-nosciuto una costante trasformazio-ne non solamente a causa di guerre ma per adiacenza, con scambi prima tra le popolazioni confinanti, poi tra queste e quelle via via più interne, e gli scambi alimentari hanno fatto da vettori a queste trasformazioni.

Due fattori degli ultimi due secoli hanno tuttavia inciso in modo quasi planetario sulle abitudini alimen-tari. I grandi allevamenti di bovini del Nord e del Sud America e che hanno portato il consumo di carne, anche esagerato, alla portata di mol-ti, divenendo indice di un raggiunto benessere. D’altronde è intervenuta una reazione, corroborata da moti-

vazioni storiche, culturali e medico biologiche, a favore di una dieta più bilanciata o addirittura di soli pro-dotti vegetali, fino alla riscoperta della “cucina vegetariana”.

Negli anni quaranta del secolo scorso è sorta una sua forma estre-ma, affermatasi negli ultimi anni

in combinazione con i “diritti degli animali” e con l’istanza di limitare o di abolire le sofferenze di quelli da allevamento: la “cucina vegana”.

Oggi non è facile orientarsi tra cucina vegetariana, cucina vegana, cucina macrobiotica, cucina ayurve-dica e loro declinazioni. La cucina vegana, per esempio, prevede la pre-parazione di piatti conformi alle re-gole della dieta vegana, escludendo totalmente l'uso di prodotti animali e loro derivati (carne, pesce, latticini, uova, miele e pappa reale). Il termi-ne è un'italianizzazione di vegan, ne-ologismo ideato nel 1944 dall’inglese

Donald Watson utilizzando le prime tre e le ultime due lettere del signifi-cante vegetarian. Tale dieta può esse-re o meno inserita in un movimento filosofico che propugna uno stile di vita fondato sul rifiuto di ogni for-ma di sfruttamento degli animali per alimentazione, abbigliamento, spet-

tacolo e altro: il “veganesi-mo”. Un grande impulso alla conoscenza del “veganesimo” è venuto dalla pubblicazione del libro di Colin Campbell The China Study.

Queste e altre informazioni le abbiamo ricavate nel corso di un’interessante intervi-sta a Gilbert Casaburi, cuoco italo-francese, chef di cucina naturale nato a Marsiglia da genitori italiani di Cava dei Tirreni, operante in Italia, promotore e divulgatore di una cucina apparentata con quella vegana. La sua cucina è frutto di un’approfondita ri-cerca, che lo ha portato a risco-prire preparazioni e principi dell’antica cucina medievale, in particolare quelli raccol-ti, nel campo dell’alimenta-zione vegetale, da Ildegarda di Bingen, benedettina fatta santa dalla chiesa cattolica e

nel 2012 proclamata “dottore della Chiesa” da Benedetto XVI, vissuta tra il 1098 e il 1179, che ha lasciato numerose testimonianze scritte, in particolare nei due libri Physica e Causae et curae. Tali cibi e princi-pi sono accostabili a quelli odierni dell’alimentazione vegetariana.

Casaburi ha disposto l’effettuazio-ne di test nutrizionali probativi, che gli hanno permesso di promuovere la sua cucina anche presso strutture sanitarie, a cui offre consulenza. Tra queste, l’unità oncologica dell’Ospe-dale di Macerata, diretta dal dottor Luciano Latini. Esiste inoltre una consulenza fissa con la Casa di Cura “dott. Marchetti” di Macerata, dove,

QUANDO L’ALIMENTAZIONE COMBINA SCIENZA E TRADIZIONE PER GIUNGERE ALLA SALUTE

Gilbert Casaburi

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d’accordo con una dieto-loga, prepara piatti della sua cucina per i degenti.

Alcuni tra i suoi piatti più famosi: la crema di fave e cicorie, il risotto all’ortica, la polenta di farro che i gladiatori assu-mevano prima di combat-tere, le erbe selvatiche del territorio come verdure. Tale struttura ha ottenu-to l’autorizzazione per preparare pasti anche per esterni. D’altronde le Mar-che, oggi, vengono consi-derate il maggior centro italiano per la produzione e il consumo di cibi biolo-gici, la capitale di molte alimentazioni alternative, macrobiotica e vegana innanzi tutto, e, insieme alla Calabria, il maggior centro italiano per l’utiliz-zo della cosiddetta “dieta mediterranea”.

Casaburi, laureato in commercio internazionale, “folgo-rato” prima dalla macrobiotica poi dalla cucina vegana, ha trovato una sua strada per una proposta di cu-cina originale, che tiene conto delle più importanti cucine vegetariane e dei principi nutrizionali e salutisti-ci connessi, che propone non sola-mente come produzione, ma anche come consulenze individuali e come insegnamento, attraverso corsi, equi-pe, conferenze e dimostrazioni pub-bliche, come abbiamo visto anche al “SANA 2015” di Bologna, e come consulenze individuali.

Gli abbiamo posto una domanda fondamentale. È necessario seguire fino in fondo i principi propri a cia-scuna di queste tipologie di cucine, oppure esiste un plafond di principi

comuni a esse e ad alimentazioni che tengono comunque conto di finalità nutrizionali salutistiche?

La risposta è molto indicativa del suo modo di intendere la cucina. “Nell'alimentazione vegana, come in qualsiasi regime alimentare, è impor-tante pensare alla qualità e alla varietà dei cibi che si assumono. Innanzi tut-to, è bene consumare prodotti coltivati da agricolture biologiche, per la mag-gior ricchezza di vitamine e minerali. Poi occorre puntare all'uso di prodotti non raffinati, non idrogenati, non pa-storizzati e privi di glutammato.

Una scelta di salute naturale nell'ambito dell'alimentazione ve-

gana vede l'esclusione di alcuni tipi di alimenti in favore di altri più saluta-ri: ad esempio, all'aceto di vino è preferibile l'aceto di mele per le verdure cotte e l'agro di umeboshi per quelle crude. L'alimenta-zione biologica prevede anche altri criteri, come l’uso di oli vegetali spre-muti a freddo, dadi senza glutammato e prodotti in-tegrali.

Si prevede un consumo di caffè di cereali e d'orzo, zucchero di canna inte-grale o, ancor meglio, dol-cificanti naturali con mi-gliori qualità di entrambi gli zuccheri, quali lo sci-roppo d'acero (tra l'altro ricchissimo di minerali e vitamine) dall'elevato po-tere dolcificante, il malto di riso, il malto d'orzo o malto di grano, il malto di mais, il succo d'agave

e, nell'ambito di una preparazione dolciaria, è meglio prevedere l'uso di succhi di frutta e di frutta secca. An-cora più semplicemente, si consiglia di rispettare almeno i principi della dieta vegetariana mediterranea con prodotti locali a elevate territorialità e stagionalità. Rispettare le stagioni è fondamentale perché così si han-no più proprietà alimentari: quando congeliamo o usiamo altri metodi di conservazione le proprietà organolet-tiche non sono più garantite.”

Insomma, per dimostrarci degni “seguaci della terra” non basta la-sciarsi andare alle mode, anche se suggestive, ma occorre sempre avva-lerci dell’intelligenza e dell’esperien-za, senza mai abbandonare la memo-ria, anche quella alimentare.

Giuseppe Arcimboldo, Rudolf II of Habsburg as Vertumnus.

Credits: Google Art Project

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DAVIDE GALLIpresidente della Federazione Italiana Carrozzieri Indipendenti - Federcarrozzieri e cofondatore della Carta di Bologna

L’indennizzo diretto è una procedura liquidativa per i danni subiti in caso di sinistri stradali fra due vetture assicu-rate in Italia, secondo cui il rimborso è richiesto dal danneggiato direttamente alla propria compagnia assicuratrice e non a quella del responsabile del sini-stro. La compagnia provvede quindi ad anticipare il risarcimento del danno per conto dell’assicurazione di contropar-te, per ottenere poi da quest’ultima un conguaglio forfettario secondo la Con-venzione fra Assicurazioni per il Risar-cimento Diretto, a cui entrambe hanno aderito. Tuttavia, la Carta di Bologna, sottoscritta da diversi enti a tutela del consumatore e di cui lei è cofondatore, ha rilevato alcune incongruenze…

Si tratta propriamente di un in-dennizzo e non di un risarcimento. Il risarcimento è quello che il dan-neggiato richiede integralmente, per tutti i danni subiti, mentre l’in-dennizzo è quello che la compa-gnia riconosce in base alle clausole contrattuali contenute nella polizza, clausole denominate “indennizzo in forma specifica”, che possono porre limitazioni al risarcimento integra-le. Ne cito alcune come il divieto di cedere il credito alla carrozzeria non convenzionata con la compagnia, in caso di riparazioni occorrenti in seguito al sinistro. Peraltro, occorre notare che, invece, la cessione del credito consentirebbe al danneggia-to di non anticipare l’importo della riparazione. Fra le altre limitazioni alla liquidazione integrale del dan-no ci sono quelle che prevedono franchigie o scoperti, per esempio, fino al 20 per cento dell’importo del-la fattura della riparazione. Su un danno che ammonta a 10 mila euro, la compagnia ne può decurtare 2 mi-la qualora la vettura non sia riparata presso le carrozzerie convenzionate.

Tali limitazioni sono diverse in base alla polizza di ciascuna diversa compagnia assicurativa in cambio di sconti che non superano le poche decine di euro. Il consumatore, invo-

gliato da questi sconti, rischia però di sottoscrivere un contratto che li-mita di fatto i propri diritti.

Sul punto si è già espressa più vol-te la Corte Costituzionale (con le or-dinanze 205/08, 154/2010, 192/2010 e con la sentenza 180/09), stabilendo inequivocabilmente che la procedu-ra di indennizzo diretto, per essere legittima, deve essere facoltativa, ovvero non sono escluse le azioni già previste dall’ordinamento in fa-vore del danneggiato, in quanto non è una procedura esclusiva.

Attualmente, le compagnie as-sicurative tendono a rimborsare i danneggiati solamente in quanto as-sicurati e non in quanto danneggia-ti. Per intendere la questione, consi-deriamo cosa accade nell’ipotesi del pedone che è investito da un’auto-mobile mentre attraversa la strada sulle apposite strisce. Il pedone non è assicurato e si rivale sull’assicu-razione dell’automobilista che l’ha investito, pretendendo l’integrale risarcimento dei danni e il rimbor-so delle spese sostenute. Conside-riamo il caso, invece, dello stesso automobilista che investe un’auto, anziché il pedone, causando danni al veicolo. La polizza del danneg-giato, non quella del responsabile dell’incidente, prevede limitazioni nel risarcimento in caso d’incidente. L’automobilista paga un premio Rc Auto per i danni che potrebbe cagio-nare a un’altra persona, quindi, non è coperto dal risarcimento integrale dei danni. In altre parole, è risarcito in quanto assicurato e non in quanto danneggiato. Noi crediamo, invece, che il danneggiato debba essere ri-sarcito come tale e non come assicu-rato perché è un’altra cosa. Se è con-siderato come danneggiato, potrà essere risarcito nei termini indicati dal codice civile.

Questo tema è stato sollevato dalla Carta di Bologna (www.cartadibologna.org) in un’apposita audizione alla Ca-mera dei Deputati…

La Carta di Bologna ha raccolto le adesioni di diversi enti per in-formare il Parlamento del rischio della lesione di diritti che il Dise-gno di legge sulla concorrenza può avallare nei confronti di portatori di interessi diversi non appena sa-rà convertito in legge. Si prospetta, infatti, nell’ambito del settore Rc Auto, la riduzione del costo della polizza in cambio della limitazione dei diritti dei danneggiati. Anche per questo abbiamo proposto la por-tabilità delle polizze Rc Auto, come accade per un mutuo o per una com-pagnia telefonica, offrendo la possi-bilità all’utente di valutare nel corso dell’anno se mantenere il contratto con la compagnia o cambiare. La portabilità della polizza Rc Auto è una pratica che in Francia, per esem-pio, ha portato benefici alla concor-renza nel mercato e potrebbe essere operativa anche in Italia, soprattutto se consideriamo che quello italiano è gestito in prevalenza da tre com-pagnie assicurative, che detengono il 70 per cento delle polizze Rc Auto, mentre la restante parte è suddivisa fra le altre venticinque. Con il 70 per cento di premi pagati a tre compa-gnie è difficile pensare che ci sia una vera concorrenza. La portabilità del-la polizza garantirebbe un effettivo diritto di scelta dell’assicurato, che potrà confrontare i servizi effettiva-mente più convenienti.

In che termini la Carta di Bologna sta conducendo una battaglia di civiltà?

È civile chi non è indifferente a quello che gli accade intorno e non si limita a considerare il problema quando lo riguarda direttamente. Noi abbiamo semplicemente ascol-tato diverse istanze come quelle dei medici legali, per esempio, che, con la prima stesura del Ddl concorren-za avrebbero avuto pesanti ripercus-sioni nella loro attività. Alcune po-lizze, infatti, prevedevano che fosse la compagnia a indicare il medico al quale rivolgersi e quali cure sareb-bero state pagate. Anche in questo caso era limitata la libertà di scelta del medico curante nell’eventualità di un incidente. Gli emendamenti approvati dalla Camera dei Depu-tati hanno depurato il testo del Ddl concorrenza da tutte le limitazioni in ambito Rc Auto. La scelta di ci-viltà è stata quella di ascoltare cosa accadeva intorno a noi.

LA CARTA DI BOLOGNA E LA TUTELA DEL DANNEGGIATO

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