Barzanti - Fausto Sozzini e La Filosofia in Europa (2005)

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Indice ALESSANDRA MINETTI, Sarteano, l’eccezionale scoperta di una tomba dipinta nella necropoli delle Pianacce . . . . . pag. 3 SUSANNA FESTINESE, Il palazzo degli Scotti. La vicenda storica di un edificio gentilizio nel cuore della città . . . . . . . . . . . . . » 11 MENOTTI STANGHELLINI, Questioni testuali nella “Tenzone” di Rustico e due congetture di Michele Barbi . . . . . . . . . . . . » 19 ETTORE PELLEGRINI, Tra fede e politica. Uno scritto poco conosciuto di Pio II ai senesi . . . . . . . . . . » 23 WOLFGANG LOSERIES, Santa Caterina sul “luogo della giustizia” di Siena. Un ritratto topografico del Sodoma ...................... » 29 ROBERTO BARZANTI, Fausto Sozzini e la filosofia in Europa ... » 35 P AOLO NARDI, Fausto Sozzini e l’Università di Siena dopo la caduta della Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 39 P ATRIZIA TURRINI, Badesse, Trafisse… e una cappella da recuperare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47 ENZO BALOCCHI, Giovani nazionalsocialisti e Contrade . . . . » 55 MARCO BORGOGNI, La vetrata di Duccio di Boninsegna nel Museo dell’Opera del Duomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 61 Eventi Siena nel Rinascimento: L’ultimo secolo della Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65 Pietro Andrea Mattioli e un best seller del Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 69 Fuori dal Coro Un progetto di Leonardo in Val di Chiana e uno di Michelangelo in Maremma tra rivelazioni giornalistiche a sensazione e clamorosi falsi storici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71

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Indice

ALESSANDRA MINETTI, Sarteano, l’eccezionale scopertadi una tomba dipinta nella necropoli delle Pianacce . . . . . pag. 3

SUSANNA FESTINESE, Il palazzo degli Scotti. La vicenda storicadi un edificio gentilizio nel cuore della città . . . . . . . . . . . . . » 11

MENOTTI STANGHELLINI, Questioni testuali nella “Tenzone”di Rustico e due congetture di Michele Barbi . . . . . . . . . . . . » 19

ETTORE PELLEGRINI, Tra fede e politica.Uno scritto poco conosciuto di Pio II ai senesi . . . . . . . . . . » 23

WOLFGANG LOSERIES, Santa Caterina sul“luogo della giustizia”di Siena.Un ritratto topografico del Sodoma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 29

ROBERTO BARZANTI, Fausto Sozzini e la filosofia in Europa . . . » 35

PAOLO NARDI, Fausto Sozzini e l’Università di Sienadopo la caduta della Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 39

PATRIZIA TURRINI, Badesse, Trafisse…e una cappella da recuperare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47

ENZO BALOCCHI, Giovani nazionalsocialisti e Contrade . . . . » 55

MARCO BORGOGNI, La vetrata di Duccio di Boninsegnanel Museo dell’Opera del Duomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 61

Eventi

Siena nel Rinascimento:L’ultimo secolo della Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65

Pietro Andrea Mattiolie un best seller del Cinquecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 69

Fuori dal Coro

Un progetto di Leonardo in Val di Chiana e uno diMichelangelo in Maremma tra rivelazioni giornalistichea sensazione e clamorosi falsi storici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71

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Tra gli eretici italiani che si spostarono –perseguitati e avversati – per l’Europa,diffondendo principi e formule in sintoniacon gli sconvolgimenti della Riforma, occu-pa una posizione di spicco Fausto Sozzini(1539 – 1604), membro di un’illustre fami-glia, famosa per il grande contributo di dot-trina di molti suoi esponenti. In particolareLelio ed il nipote Fausto sono accomunatiin un’endiadi che evoca il primo manife-starsi delle idee di tolleranza religiosa, dellalotta per affermare la libertà del pensiero ol-tre l’impermeabile rigidità dei dogmi. Nonmancano episodi che attestano la considera-zione che hanno avuto in patria. FuoriPorta Camollia una via porta i nomi deiSocino, secondo l’aulica dizione umanisti-ca. Di tanto in tanto si è reso omaggio allaloro opera e alla loro azione, sempre conl’occhio molto rivolto al presente.

Un giornale senese suggerì fin dal 1868di dedicare almeno una lapide al ricordo deidue, ma invano. Solo dieci anni più tardiun volenteroso Comitato mise insieme lasomma necessaria e riuscì nell’intento, tra a-nimose polemiche. Ancor oggi inPantaneto, nella lapide, appunto, murata suPalazzo Sozzini, si leggono parole scanditecon sapiente retorica: “Nella prima metàdel XVI secolo nacquero in questa casaLelio e Fausto Sozzini, letterati insigni, filo-sofi sommi, della libertà di pensiero strenuipropugnatori, contro il soprannaturale.Vindici della umana ragione, fondarono lacelebre scuola sociniana, precorrendo di tresecoli le dottrine del moderno razionali-smo. I Liberali Senesi, ammiratori riverenti,questa memoria posero. 1879”. Passaronoquattro anni e i busti dei due – scolpiti da

Arnaldo Prunai – furono collocati sotto leLogge di Piazza Indipendenza. Si ribadivache i due “in tempi di feroce dispotismo ri-svegliarono con nuove dottrine la libertàdel pensiero”. Nel corso della cerimonia i-naugurale Antonio Delle Piane esaltò l’ini-ziativa con accenti tipici della fiera laicitàpostrisorgimentale. Più tardi sarebbero statisloggiati e trasferiti nel Palazzo avito, rispe-diti a casa insomma. La loro ombra avevafinito per infastidire il Potere.

Anche una Loggia massonica di rito scoz-zese, fondata a Siena il 4 aprile 1881, notaper l’impronta progressista e per le adesionipopolari, recò a lungo il nome Socino: fu es-sa certamente a promuovere le onoranze at-tribuite ai riformatori. Osteggiata per la suascelta troppo esplicitamente repubblicana,avrebbe ripreso alla fine del 1898 il nome diArbia: tratto dalla storia patria e intinto divittorioso ghibellinismo.

Le alterne fortune non cancellarono letracce di una presenza per certuni scomoda,spesso all’origine di accese polemiche. Pertrarli fuori da fastidiose diatribe furono ad-ditati quali esponenti eterodossi di un’ani-ma religiosa a Siena feconda e multiforme.Piero Misciattelli, ad esempio, non esitò adedicare un capitolo dei suoi “Mistici sene-si” (1911) ai due Sozzini, inserendoli disin-voltamente nelle schiere di una nebulosa eonnicomprensiva corrente mistica che ar-ruola tutti: dal beato Sorore a DavidLazzaretti. Descrivendo il sepolcro diLustawice, poco distante da Cracovia – do-ve Fausto morì il 3 marzo 1604, a 65 anni –Misciattelli trascrive i “quasi illeggibili esa-metri dell’iscrizione superba”: “Tota licetBabylon destruxit tecta Lutherus / Calvinus 35

Presentazione del Convegno:

Fausto Sozzinie la filosofia in EuropaOrganizzato dall’Università di Siena e dall’Accademia degli Intronatiper celebrare il quarto centenario della morte di un “eretico tollerante”

di ROBERTO BARZANTI

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muros, sed fondamenta Socinus” (SeppurLutero distrusse il tetto della Chiesa roma-na /e Calvino le pareti, fu Socino a estirpar-ne le fondamenta). E cita i versi, mossi dalladolente nostalgia dell’esilio, che Fausto, “tragli eretici senesi – annotò il nobile erudito –di quel tempo il più radicale e ardente”, ave-va indirizzato a Girolamo Bargagli: versi neiquali Fausto descrive con sospirosa pena ilcontrasto tra l’aspra terra dove si trovavaconfinato e il dolce clima del suolo natìo.

A tanti anni di distanza non cessano diesercitare un potente fascino quanti – arti-giani e nobili, gente di popolo e aristocraticidi alto lignaggio – parteciparono a quel mo-to di Riforma che è alla base stessa del deli-nearsi di alcune delle idee-guida costitutivedel pensiero moderno formatosi in Europa.Persone e gruppi che subirono vessazioni eoffese, persecuzioni e processi, per afferma-re e vivere nell’esperienza la novità delle lo-ro posizioni.

A Siena già nel 1543 fra BernardinoTommasini, Generale dei Cappuccini, avevascritto alla Balìa per spiegare le ragioni dellasua apostasia e per convincere il governodella Repubblica a diffondere il fondamen-tale messaggio della Riforma: la giustifica-zione per sola fede e il beneficio donato daCristo attraverso il suo sacrificio. La letteradell’Ochino ai Signori di Balìa – daGinevra, 1° novembre 1543 – fece scalporee destò grande interesse: “ Oh, quanto sare-sti felice, et si sarebbe per te, se ti purgasse,Siena mia, da tante ridicule, pharisaiche, fa-stidiose, pernitiose, stolte et impie frenesiedi quelli che mostrano di essere li tuoi sanc-ti e sono epsa abominatione apresso a dio,et pigliasse la pura parola di dio et el suovangelo nel modo ch ’l predicò Christo, liapostoli et quelli li quali in verità l’hanno i-mitato!”. Il barbiere Basilio Guerrieri si recòaddirittura a Strasburgo e ad Augusta per in-contrare l’Ochino. Quando fece ritorno aSiena iniziò segretamente a propagandare lenuove idee ed entrò a far parte di un grup-po guidato dall’appena diciannovenneLelio Sozzini. Caduta la Repubblica, Lelio ealtri membri della sua famiglia tornaronoancora a Siena nel 1577, ma l’accresciutopotere dei Gesuiti e l’opera dell’Inquisizio-

ne impedì che l’azione di proselitismo in-trapresa da Lelio e dal suo nipote Faustopotesse continuare. Accusati di contestarel’autorità pontificia, di negare la confessio-ne auricolare e di altre opinioni eterodosse,i due furono costretti alla fuga: Lelio tornòa Zurigo per morirvi il 14 maggio 1562 atrentasette anni.

“Lelio – ha scritto Frederic C. Church –uscì dalla vita dei suoi amici svizzeri quieta-mente come v’era giunto. Era arrivato inIsvizzera come studente; aveva compiuto isuoi vari viaggi come studente, dichiarata-mente mai come maestro. Morì studente,benché avesse da tempo cessato di porre lesue inquiete domande. Ma la sua vita e lesue carte, – che Fausto s’affrettò a venire aprendere da Lione quando apprese dalBesozzo della morte dello zio – esercitaronouna influenza fondamentale sul pensiero delnipote, e ne fecero il padre di una setta”.

Fausto Sozzini fu attivo a Basilea, quindiin Transilvania e a lungo, per 25 anni, inPolonia. Il suo insegnamento fu caratterizza-to da una radicalità che lo portò ad un ama-ro isolamento. La religione si fonda sulla ri-velazione e sulla fede, ma la ragione ha ildovere di penetrare nella Sacre Scritture conseverità filologica, secondo la linea inaugu-rata da Lorenzo Valla. La religione vale so-prattutto come metodo che ispira norme dicomportamento che affratellano tutti gli uo-mini. La tolleranza scaturisce da un umane-simo che esclude la violenza e la guerra.Perfino la politica, per come era stata scoper-ta da Machiavelli e coercitivamente impostadagli Stati, viene rifiutata. La risposta datada Fausto, che fu detto “il più coerente deglieretici italiani”, alla crisi fu “una negazionecompleta di ogni valore alla vita politica, inogni sua forma, in ogni suo aspetto”. Un cri-stiano non deve brandire la spada neppureper difendere la patria. “La difesa del paese edei confini della patria – ha chiosato DelioCantimori nelle memorabili pagine dei suoi“Eretici italiani del Cinquecento” (1939) –non significa nulla, dice il Sozzini, per il ve-ro cristiano, che è straniero su questa terra;né vale l’argomento della guerra fatta in di-fesa della pace, perché si tratta di una con-traddizione in termini”.36

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Ma non è qui il caso di riassumere fret-tolosamente, da parte di un lettore appas-sionato quanto incompetente, indicazioni etesi che puntarono a definire un quadro diprincipi da attuare con intrepido coraggio.Il rapporto con il retroterra senese non an-drà smarrito: con gli anni cruciali della finedella Repubblica, con le persecuzioni che siabbattono contro gli ebrei e contro gli ereti-ci. Nel 1558 il governo aveva deciso di sra-dicare “una certa semenza d’heresia”, ilSant’Uffizio fu riorganizzato, sulla piazzadi San Francesco si alzano le fiamme dei ro-ghi che inceneriscono i libri non ortodossi.Valerio Marchetti ha rievocato in un libroche leggemmo con la partecipazione entu-siasta che si riserva ad una scoperta – era il1975: i Sozzini non erano più visti, final-mente, come antesignani del verbo masso-nico, né assorbiti, e assolti, tra gli spiritacciribelli sorti dal genio senese: erano, semmai,imparentati con i giovani in rivolta del ’68 –l’attività dei gruppi ereticali in quel dram-matico passaggio, alla “straordinaria espe-rienza intellettuale” che ebbe proprio neiSozzini e nei loro compagni il nucleo piùaudace e innovatore.

Tra il 1561 e il 1663 nessuno dei Sozziniera rimasto in Siena. Le loro idee avrebberocamminato nei passi dell’esilio. FaustoSozzini si era formato nel clima battaglierodell’ambiente umanistico senese fiorito at-torno all’Accademia degli Intronati, dove a-veva assunto il nome di Frastagliato: con al-lusione, forse, alle sue doti di “dottor sotti-le”. Non solo doverosa è stata, per chi si èassunto l’onere di far sopravvivere, se nonaltro, l’insegna di un sodalizio così illustre etanto radicato nella vicenda di Siena, il con-vinto sostegno accordato ad un Convegnoche non ha solo preso ancora una volta inesame le carte del passato.

Questi esuli – tra essi Fausto – per moti-vi di religione, che lontani dalla patria affer-mano le ragioni della convivenza e del reci-proco riconoscimento e si sforzano di enu-cleare i temi di una comune etica pubblicain vista di una pacificata Europa plurale,fatta di differenze rispettate e di condivisivalori, furono animatori e martiri di unasperanza che i secoli non hanno fatto venirmeno.

La loro lezione, e perfino i marmorei ri-cordi che segnano luoghi e date della lorovita difficile, ebbero alterne fortune, conob-bero alti e bassi. Oggi è il momento di a-scoltarne ancora parole e incitamenti, ma-gari sulla scia di una sofferta pagina diWalter Benjamin: “In ogni epoca bisognastrappare la tradizione al conformismo cheè in procinto di sopraffarla. […] Solo quellostorico ha il dono di accendere nel passatola favilla della speranza, che è penetrata dal-l’idea che anche i morti non saranno al sicurodal nemico, se egli vince. E questo nemiconon ha smesso di vincere”.

Il Convegno internazionale su “FaustoSozzini e la filosofia in Europa” (25-27 no-vembre), organizzato dall’Università edall’Accademia degli Intronati con il soste-gno del Ministero dell’Università e dellaRicerca scientifica e della FondazioneMonte dei Paschi nel quarto centenario del-la morte, ha gettato nuova luce su Fausto eil socinianesimo, soprattutto indagando ilrapporto con le filosofie che accompagnanoil nascere dell’Europa moderna: Hobbes –anche lui fu accusato di essere un socinia-no!), Newton, Spinoza, Bayle, Locke, fino aKant e agli enciclopedisti. A suggerire l’ini-ziativa non sono stati né l’ossequio per lacelebrazione del quarto centenario dellamorte, né un pigro culto per le glorie citta-dine. Si è trattato piuttosto di riprendere lostudio di una figura davvero eccezionale,che merita ancora riflessione e ricerca.

Per l’occasione è stata approntata l’edizio-ne anastatica delle Opere di Sozzini, ed unlibretto di sue “Rime” (presso le romaneEdizioni di storia e letteratura) per la primavolta date alle stampe. Le opere furono riuni-te in due volumi e pubblicate ad Amsterdamnel 1668: subito se ne colse il valore e l’origi-nalità. Emanuela Scribano, che delConvegno senese è stata l’appassionata ani-matrice, ribadisce e motiva nell’analitica in-troduzione un giudizio ormai depositato aproposito di Fausto: “Il suo pensiero e la suaopera – scrive – furono una componente im-portante per il costituirsi delle tematiche rela-tive al razionalismo, alla tolleranza, alla ese-gesi biblica nel pensiero moderno. In breve,il socinianesimo superò di gran lunga i confi- 37

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ni della riflessione religiosa per svilupparepotenzialità filosofiche alle quali attinse granparte della cultura europea”. È appunto suquesta dimensione di storia delle idee checonviene oggi trattenersi e non per una sbri-gativa attualizzazione, né per esaltare, comesi usava sovente, un enfatizzato ruolo di pre-cursore. Quanto alle acquisizioni che alConvegno si sono registrate o alle indicazio-ni in esso emerse, non resta che attendere gliAtti e farne oggetto di studio o di informa-zione. Carlo Ginzburg ha collegato la rifles-sione attuale al dibattito perfino stucchevolesulle radici cristiane dell’Europa, che taluniavrebbero voluto esplicitate nel Trattato co-stituzionale: “ Ebbene nel cristianesimo cheha alimentato indubbiamente l’affermarsi diuna moderna coscienza europea c’è anchel’eresia di Fausto e di quanti come lui furonoaccusati e processati per il loro razionalismoermeneutico”. Adriano Prosperi ha commen-tato l’atteggiamento della Chiesa di Romaverso l’eretico, notando come sia stato pro-prio un pontefice senese, Alessandro VII, acondannare formalmente le dottrine del suoconterraneo. La “setta sociniana” era ritenutaparticolarmente insidiosa perché le idee sem-plici che diffondeva potevano facilmente“gabbare” il popolo. In Olanda si arrivò ad e-sprimere preoccupazione perché, tra l’altro, iseguaci di Fausto predicavano non solo unagenerica carità ma si battevano perché “li be-ni fussero comuni”: insomma alle accuse

non mancò un sospetto di comunismo!Il tema della formazione – che

Cantimori vedeva essenzialmente moralisti-ca e letteraria – di Fausto è stato al centro diuna singolare convergenza di analisi. Dapiù di trent’anni Paolo Nardi non si con-frontava su queste problematiche conValerio Marchetti. Entrambi, seguendo li-nee di ricerca autonome e diverse, hannoconcordato su un punto importantissimo.La frequentazione dei testi giuridici dellaimmensa biblioteca di famiglia e l’applica-zione di una nuova ottica per accostarli eintenderli ha influenzato non poco la cultu-ra di Fausto e gli ha fornito strumenti essen-ziali per la sua polemica. Infatti nel Sozzinisi riscontra più di un’eco della polemica u-manistica contro un certo modo di insegna-re e concepire il diritto, che era poi quellodei seguaci del “mos italicus”. Ai testi sacriFausto avrebbe applicato una metodologiache, “così sensibile – l’ha definita Nardi –alle istanze della filosofia e della storia”, si e-ra precisata e attrezzata anche attraverso ilsuo netto rifiuto di far ricorso ad un cumu-lo di dotte chiose e finezze erudite, più utiliper soffocare la verità dei testi che per farnerisaltare verità e forza. Alla stessa stregua sitrattava di sottrarre i Vangeli alla farragino-sa ingegneria teologica che li aveva ridotti aartificioso codice dottrinario, a repertorio didogmi incomprensibili.

38 Il sepolcro di Fausto Sozzini a Lustavice

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1. L’esordio bolognese.

A pochi giorni dalla scomparsa del cele-bre giureconsulto Mariano Sozzini iunior,avvenuta a Bologna il 19 agosto 1556, il fi-glio Celso, anch’egli giurista e docente co-me il padre nell’Alma Mater studiorum, siconvinse della necessità di dare alle stampel’opera omnia paterna, ma resosi conto del-l’impossibilità di condurre a termine l’im-presa entro breve tempo, decise di pubbli-care subito, presso l’editore bologneseAnselmo Giaccarelli, le repetitiones sul titoloDe legatis I del Digesto, sia per venire incon-tro alle esigenze degli studenti che nell’an-no accademico incipiente avrebbero seguitoi corsi sull’Infortiatum, dedicati “ex invetera-ta consuetudine” alla materia dei legati, siaper impedire che qualcuno, dopo avere oc-cultato quei testi, se ne attribuisse la pater-nità secondo un malcostume piuttosto dif-fuso da alcuni decenni. A narrare questa vi-cenda, nella premessa all’edizione finita distampare a Bologna il 30 ottobre di quel-l’anno, non fu lo stesso Celso, bensì il nipo-te Fausto Sozzini, il quale non aveva com-piuto ancora diciassette anni per essere natoa Siena il 5 dicembre 1539 dal primogenitodi Mariano, Alessandro, anch’egli giurista edocente per qualche tempo nello Studio se-nese.

Nell’elegante lettera dedicatoria il giova-ne Fausto si rivolgeva ai “legum candidatis”dell’ateneo bolognese lamentando la perdi-ta del “praestantissimus” nonno, che li ave-va lasciati “magna spe simulque praeceptoredestitutos”, e nel qualificarli, forse con unapunta d’ironia, come “studiosissimi iuve-

nes”, raccomandava loro di accogliere confavore la produzione scientifica del venera-to maestro e di consultare per eventualichiarimenti lo zio Celso, che in quell’annoaccademico era stato chiamato ad impartiredetto insegnamento. Fausto, dunque, sipresentava al mondo della scienza giuridicamunito delle migliori credenziali: discen-dente da una stirpe di autorevoli giuristi cheda oltre un secolo conferivano prestigio aimaggiori atenei della Penisola e dotato eglistesso di ingegno non comune, sembravadestinato ad emulare i suoi antenati, ma acausa della prematura scomparsa del padre,avvenuta nel lontano 1541, e adesso anchedel nonno, poteva contare soltanto sul so-stegno di una personalità mediocre come lozio, che era ormai divenuto il geloso custo-de delle memorie e dei cimeli di famiglia.

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Del testo che segue è stata data lettura al Convegno:

Fausto Sozzini e la Filosofia in Europa,

Fausto Sozzini e l’Universitàdi Siena dopo la cadutadella Repubblicadi PAOLO NARDI

Stemma della famiglia Sozzini

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2. Il magistero di Mariano Sozzini junior ela biblioteca di famiglia.

Il problema della formazione culturaledi Fausto, sollevato con grande acutezza daDelio Cantimori, sembra ormai avviato asoluzione dopo le fondamentali ricerchesvolte da Valerio Marchetti e GiampaoloZucchini e grazie anche ai contributi diAldo Stella, Riccardo Bruscagli e PaoloTrovato, ma lo storico del diritto non puòsfuggire alla tentazione di approfondire ilrapporto del giovane Sozzini con il mondodei giuristi, tenendo conto del metodo conil quale Mariano iunior aveva redatto le repe-titiones pubblicate da Celso. Afferma loStella che Jean de Coras, mentre studiava aPadova, prediligeva Mariano junior “per ilnuovo metodo filologico-critico”, ma si trat-ta di un’asserzione di tale importanza da e-sigere qualche verifica. È significativo, infat-ti, che uno studente tedesco in corrispon-denza con Bonifacio Amerbach, DegenhardHaess, seguendo nel 1526 le lezioni imparti-te dal Sozzini nello Studio patavino, abbiaaffermato che il docente senese, “doctordoctissimus”, sapeva insegnare in latino enon nascondeva la sua ammirazione perUlrico Zasio, che talora citava, così comeper Andrea Alciato, due esponenti di quel“triumvirato” che tra il 1508 e il 1522 avevafatto compiere importanti progressiall’Umanesimo giuridico, ma d’altra parte,nel giugno del 1532, sempre all’Amerbach,un altro studente, ben più autorevole, chefrequentava l’ateneo patavino, l’umanistaViglius Zuichemus – noto anche comeWigle van Aytta van Zuychem e destinato,tra l’altro, ad una brillante carriera di consi-gliere aulico – avrebbe descritto Marianocome un tipico esponente di quel mos itali-cus iuris docendi ac discendi che consistevanell’affastellare le interpretazioni elaboratedai precedenti maestri attorno al puro esemplice contenuto dei testi legali e qualcheanno dopo il raffinato filologo AntonioAgustín, nel porre in risalto il successo cheriscuotevano le lezioni padovane delSozzini, avrebbe sottolineato l’attaccamen-to di questi al metodo tradizionale.Successivamente, con il trasferimento aBologna, avvenuto nel 1542, Mariano si im-pose subito come il docente più seguito da-

gli scolari italiani che si preoccupavanomolto più di prepararsi all’esercizio dellaprofessione forense che di apprendere le hu-manae litterae. Eppure non va dimenticatoche lo stesso Amerbach avrebbe affidato ilfiglio Basilio al magistero di Mariano dal-l’autunno del 1555 sino a tre giorni primadel decesso. E venendo finalmente alla pro-duzione del Sozzini ed in particolare agliscritti pubblicati da Celso e Fausto nel1556, non v’è dubbio che fossero stati re-datti secondo i criteri metodologici dellascuola dei commentatori alla qualeMariano dichiarava di appartenere, procla-mandosi allievo dello zio Bartolomeo e del“praeclarissimus iureconsultus” FilippoDecio, senza tuttavia ignorare i problemiposti dalla critica testuale, per risolvere iquali il maestro senese ricorreva anche all’e-dizione delle Pandette curata dal grecistaHaloander, ribadendo peraltro la diffidenzaverso tale edizione già espressa dall’Alciatoe suggerendo di consultare l’antichissimomanoscritto laurenziano con la seguente e-sortazione: “si vis veram literam, consulePandectas Florentinas”.

In ultima analisi è assai probabile cheFausto, nonostante la netta prevalenza dellametodologia tradizionale nelle opere delnonno, abbia avuto cognizione, sino dalsuo primo approccio alla scienza giuridica,delle complesse problematiche che oppone-vano i giuristi filologi ai seguaci del mos ita-licus. Tale impressione è confermata dallaconsistenza qualitativa della biblioteca diCelso Sozzini, che doveva contenere anchei libri appartenuti a Mariano il Giovane eche fu trasportata, con altri beni della fami-glia, da Bologna a Siena dopo la conclusio-ne del lungo assedio subito dalla città tosca-na: mescolate alle opere di tutti i principalicommentatori civilisti e canonisti dei secolidal XIV alla metà del XVI spiccavano, infat-ti, anche le Emendationes dell’Agustín, iParerga dell’Alciato, le Adnotationes inPandectas del Budeo, il De iure accrescendi delDuareno, il De legibus connubialibus di AndréTiraqueau e naturalmente l’edizione delCorpus giustinianeo curata da Haloander,ovvero alcune tra le più significative opereprodotte da giuristi colti nella prima metàdel Cinquecento.40

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3. I docenti senesi.

Fausto, dunque, almeno dal 15 ottobre1557 dimorava nella città natale, nella qualeaveva fatto ritorno da Bologna ottemperan-do ad un editto del duca Cosimo, insiemealla sorella Fillide ed agli zii Celso, Cornelioe Camillo: quest’ultimo aveva quasi la suastessa età, era anch’egli studente e qualchesettimana prima, il 27 settembre, aveva assi-stito a Padova, quale testimone, ad un esa-me di laurea in diritto civile. Un altro zio diFausto, Lelio Pecci, che nel 1539 aveva spo-sato Porzia di Mariano Sozzini e, nonostan-te la nomina a giudice rotale procurataglidal suocero a Bologna nel 1551, era rimastoa Siena anche in tempo di guerra esercitan-do funzioni di governo sino alla resa dellacittà, si adoperò dopo la morte di Mariano,nella tarda estate del 1556, per salvaguarda-re gli interessi degli eredi presso il nuovoreggimento senese e fu proprio il Pecci, do-cente di diritto civile, oltre che personaggiodi spicco nella vita pubblica, a svolgere unruolo di primo piano nel tentativo di risol-levare lo Studio di Siena dalla profonda cri-si nella quale era precipitato, seguendo lesorti della città e del suo territorio negli an-ni tra il 1553 e il 1555, sebbene l’antico ate-neo, come struttura abilitata a conferire igradi accademici, non avesse mai interrottola sua attività, salvo che nell’ultima e più a-cuta fase dell’assedio.

Promotore di candidati alle lauree “in u-troque iure” e “in iure civili” sino dal lugliodel 1556, il Pecci fu condotto all’insegna-mento “ordinario della sera di civile” nel di-cembre del 1557. Gli altri civilisti della listaapprovata dal Duca Cosimo I, che in prece-denza aveva concesso ai Senesi di riattivareil loro Studio, erano Adriano Borghesi,Achille Santi e Giovanni Biringucci, il qualesi era laureato a Siena poche settimane pri-ma. Quest’ultimo, essendo figlio del celebregiurista Marcello, docente nello Studio diNapoli, era destinato a succedere al padre,ma intanto accettò l’incarico senese chemantenne almeno sino all’anno accademi-co 1560-61 e si ha motivo di ritenere cheFausto abbia seguito i suoi corsi insieme al-l’amico Girolamo di Giulio Bargagli.Costui, infatti, prima di rammentare al

Sozzini in una lettera dei primi di novem-bre del 1561 il comune impegno negli studigiuridici, il 16 agosto dello stesso anno ave-va scritto proprio a Giovanni Biringucci e-sprimendo ammirazione ed una certa no-stalgia per i suoi insegnamenti, dai quali a-veva tratto la convinzione “che la materiadelle leggi sia piena di maestà e di giuditio”,mentre “quando l’ascolto da questi altri –confessava – mi par tutto il contrario”. Glialtri docenti dovevano essere, oltre ai giàmenzionati Pecci, Santi e Borghesi, i variCamillo Palmieri, Giulio Petrucci, PanfiloColombini e Rinaldo Tolomei: nomi oscuripresenti nei ruoli e negli atti di laurea diquei malinconici anni di un dopoguerra re-so più duro dallo spopolamento della cittàe dalla dominazione medicea.

Nella lettera al Birigucci il Bargagli avevaaltresì sottolineato come la convinzione tra-smessagli dal maestro circa il valore del di-ritto fosse stata rafforzata “hora ancora chegodo il Benvogliente e che ne sento ragio-nar da lui”, vale a dire dai ragionamenti delgiurista Girolamo Benvoglienti e, pertanto,nella missiva successivamente indirizzata alSozzini esortava l’amico a ritornare agli stu-di giuridici:

Né potrei haver in ciò maggior contentoche il poter sperare che tu, quasi per poste-rità, fosse per ritornar tosto a questa profes-sione. Prima perché io veggo come in unospecchio che terresti in ciò viva la bella suc-cessione di casa Sozzini; perché (se ben ticonosco altissimo a inalzarti sopra gli altriin qualsivoglia studio che aplicarai l’animo)nondimeno a me par che tu sia nato per leleggi. Di poi, ancora, perché i nostri studifossero conformi, come sono gli animi e idesideri.

Ma, a tal proposito, occorre sottolinearecome oltre un anno e mezzo dopo, il 20 a-prile 1563, Fausto da Zurigo scrivesse alBargagli rammaricandosi per la sua scelta afavore della “materia delle leggi” con un lin-guaggio inequivocabile:

Dispiacemi che il Benvogliente sia statoegli cagione, quantunque non sia lontanodalle belle lettere, di ritrartene. Perdonimisua signoria, in questa parte non sa dov’eglis’habbia il capo, bisogna pur ch’io lo dica: 41

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“et che vale un leggista s’egli non è tutto ri-pieno di belle lettere?” o mi dirà: “le bellelettere non son de pane lucrando!”. Granmercé a lui. Adunque, si studia per guada-gnare o per divenir grande et famoso?Messer no. Questo non è il vero fine deglistudi, ma sì bene il giovar primieramentecon la sua scienza ad altrui, et poi l’havernelle lettere come un rifugio in tutti i trava-gli. Dirà: “Che cosa può più giovar al mon-do che le leggi et la conoscenza d’esse, perle quali tutte le città si mantengono in paceet tutte le provincie?”. Et in ciò s’ingannatroppo, evidentemente. Non è sì vil mestie-ro al mondo che hoggi non sia più giovevo-le a tutti communemente che la scienza del-le leggi civili, trattata come s’usa hora. Anzi,non vi ha scienza che sia ricevuta et appro-vata – parlo delle scienze humane – ch’ap-porti maggior nocumento al mondo chequella delle leggi civili, trattata da dottori,avvocati, auditori, et simile generatione, nelmodo che si costuma in tanti et tanti luo-ghi. Di che rendono piena testimonianzaquelle città c’hanno dato bando a sì fattegenti, le quali vivono tanto quietamenteche non si potrebbe dire. Non istà almenoun pover’huomo trent’anni a litigar et con-sumarsi su per li palazzi; non s’ode néBartolo, né Baldo, né Cino, né Alessandro[Tartagni], né tanta canaglia che nacqueroal mondo per mettervi una peste perpetua,ma percioché io non ho tempo, mi riserboad un’altra volta a mostrarti che non può e-legger l’huomo stato peggiore – o condizio-ne che la vogliam chiamare – che quello deldottor in ragion civile et canonica o civil so-lamente, o come ti piace, purché sia dottordi leggi fatte da uomini.

Sono parole famose che Cantimori com-mentò da par suo e che Marchetti ha fine-mente analizzato più di recente, ma nessu-no ha riservato particolare attenzione al giu-rista Benvoglienti, giudicato “non lontanodalle belle lettere”, eppure bersaglio di con-testazioni precise da parte del Sozzini. Ilpersonaggio doveva rivestire un certo fasci-no agli occhi dei due giovani studenti, ani-mati da spirito patriottico: si trattava di unprotagonista delle drammatiche vicende cheavevano segnato la fine della libertà senese.

Dopo avere esercitato le sue funzioni di do-cente e di uomo politico sino all’entrata inSiena delle truppe ispano-medicee, avevapreferito, diversamente da Lelio Pecci, re-carsi esule a Montalcino ed aveva fatto par-te della classe dirigente di quell’ultimo ba-luardo dell’antica Repubblica sino alla resadefinitiva nell’agosto del 1559, rifiutandopersino la pensione offerta dal ducaCosimo ai capi della resistenza. In autunnodovette far ritorno in città, poiché alla finedi ottobre, “in aula palatii archiepiscopa-tus”, fu tra i promotori ad un dottorato “inutroque iure”, ma non accolse l’invito deiconcittadini ad insegnare nel patrio ateneoe si trasferì subito a Roma – dove già risie-deva il fratello Fabio, distinto letterato mol-to attivo negli ambienti curiali – ottenendola cattedra di ius civile de sero alla Sapienzaper l’anno accademico 1559-60, né il suonome figura nel ruolo dei docenti delloStudio senese sino all’anno accademico1562-63. Poiché dal settembre del 1560 ilSozzini dovette restare nascosto in luogo si-curo per sfuggire all’azione inquisitoriale edall’aprile del 1561 fu costretto a lasciare ilterritorio senese, è presumibile che egli ab-bia conosciuto il Benvoglienti nell’autunnodel 1559, oppure nell’agosto del 1560, allor-ché il giurista fu di nuovo a Siena, promoto-re ad un’altra laurea “in utroque iure”.Certo è che il Benvoglienti emerge dal con-traddittorio immaginato da Fausto non solocome il docente navigato ed un po’ cinicoche dà consigli pratici al giovane allievo, maanche e soprattutto come un tipico espo-nente di quel mondo di “legisti” contro ilquale dai tempi del Petrarca appuntavano iloro strali specialmente i letterati-filologi epoi anche i medici ed i filosofi, protagonistidella “disputa delle arti” che proprio aBologna continuò fino al pienoCinquecento. Si avverte infatti, nelle paroledel Sozzini, l’eco della polemica umanisticacontro un certo modo di insegnare e conce-pire il diritto che era quello proprio dei se-guaci del mos italicus, una polemica cui, nonmolto tempo prima, aveva dato un fortecontributo anche un lontano parente diFausto stesso, il giurista e letterato ClaudioTolomei.42

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4. Colleghi e amici senesi.

I verbali degli esami di laurea conferma-no la presenza di Fausto nell’ambiente uni-versitario senese: così nei giorni 13 e 14maggio 1560 “d. Faustus quondam dominiAlexandri Sozzini” fu testimone “in palatioarchiepiscopali in sala magna”, insieme adue scolari tedeschi, alle lauree “in utroqueiure” di “Ascanius Mariscus de terraCropani” e di “Petrus Sances magistriIohannis Alfonsi Sances de terra Sibaris”, ilsecondo probabilmente un discendente delgran tesoriere del regno di Napoli AlonsoSanchez. Promotore di entrambi fu per l’ap-punto Lelio Pecci e del primo ancheAdriano Borghesi. Un mese dopo gli stessidocenti furono promotori dell’olandese“Nicolaus d.Gherardi de Valckesteyn de

Hoga, alla cui laurea fu presente an-che Girolamo Bargagli. In settem-bre uno dei tedeschi testimoni conFausto alle lauree di maggio,Sigismondo Kolreuther, si laureò asua volta “in artibus et medicina”alla presenza di un folto gruppo dipersonaggi dai nomi e dalle qualifi-che altisonanti come SigismondoFederico Fugger “baro augustanus”,“Leonhartus ab Harrock baro” inKoran e Scharffeneck e prefetto deicavalieri d’Austria ed i nobiluominiJoseph Sigharter, già scolaro aPadova e Bologna, e “MichaelLeonhartus Mayer”. Finalmente, unaltro cittadino di Augusta, CorradoPio Peutinger, nipote dell’omonimoumanista ed amico di BasilioAmerbach, si laureò il 29 aprile1561 “in utroque iure”, avendo tra ipromotori anche il Pecci ed ilBorghesi.Se è presumibile che gli studentisummenzionati siano stati colleghidi Fausto nell’ateneo senese, non ri-sulta comunque che siano stati an-che suoi amici, con eccezione ov-viamente del Bargagli, il quale con-seguì il dottorato “in iure civili” –

promotore, tra gli altri, il Benvoglienti – il24 giugno 1563, a distanza di due mesi daquando il Sozzini, con la lettera inviataglida Zurigo, aveva cercato di dissuaderlo dalperseverare negli studi giuridici. In realtà, lostesso Fausto, tra l’estate e l’autunno diquell’anno, parve dimenticarsi delle invetti-ve lanciate alcuni mesi prima contro ilmondo dei giureconsulti: ritornato in Italiasoprattutto per regolare gli affari di famiglia,il 3 novembre scriveva allo zio Camillo: “ioandando a Siena credo che comincerò a ri-veder l’Imperatoriam maiestatem [leIstituzioni di Giustiniano] et havrò percompagno il Materiale [nome intronaticodel Bargagli] il quale è hora dottore et ve-drò metter le cose nostre in quel miglior a-setto che per me si potrà”. In effetti dal ruo-lo del 15 ottobre 1563 risulta che ilBargagli, fresco di laurea, fosse stato subitocondotto alla lettura di Istituzioni in con- 43

Frontespizio di un volume sul pensiero sozziniano stampa-to in Francia nel 1723

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correnza con Dionisio Tantucci edAlessandro Agazzari, con il salario di 25 fio-rini, per l’anno accademico 1563-64.Fausto, dunque, aveva l’intenzione di tor-nare a vivere e studiare nella città natale,magari giovandosi dell’aiuto dell’amico do-cente e vi dimorò certamente anche nelmarzo e nel luglio del 1565, ma non risultache durante tale periodo abbia frequentatol’ateneo senese, dove tra i docenti primeg-giava proprio il Benvoglienti con il salariopiù alto e gli zii Celso e Lelio intervenivanocome promotori agli atti di laurea, mentrevi conducevano i loro studi gli amici intro-nati Lelio Maretti (l’Attonito) e Pier LuigiCapacci (il Raccolto), che avrebbero conse-guito l’uno il dottorato “in artibus et medi-cina” nel settembre del 1564 e l’altro “in iu-re civili” nell’ottobre del 1565. Il comporta-mento del Sozzini, tuttavia, non deve sem-brare contraddittorio, giacché la sua pole-mica era diretta contro il metodo tradizio-nale di studiare e interpretare le fonti, noncontro la figura del giurista, ove questi fossedotto e imbevuto di cultura letteraria: “etche vale un leggista s’egli non è tutto ripie-no di belle lettere?”, aveva obiettato Faustoal Bargagli e indirettamente al Benvoglienti,ribadendo in sostanza quanto aveva procla-mato circa vent’anni prima un giureconsul-to autorevole come Matteo Gribaldi Mofa,“eretico” e in strette relazioni con LelioSozzini, nel sostenere la necessità, per il ci-vilista, di possedere perizia linguistica, anti-quaria e storica.

D’altra parte, un rampollo del pur deca-duto ceto dirigente senese non poteva rifiu-tarsi di acquisire le nozioni giuridiche indi-spensabili alla cura del patrimonio familiareed all’esercizio di qualsiasi professione,mentre i problemi del vivere quotidiano simoltiplicavano e dovevano apparire insor-montabili “in una città così povera, anzimendica di denari che né credito né riputa-zione alcuna giova molte volte a trovar purechi ti presti uno scudo”. Con queste parole,infatti, Fausto descriveva Siena a Camillonella lettera che il 28 novembre 1565 gli in-viava da Roma, dove intanto si era trasferi-to, al servizio e sotto la protezione dell’au-ditore di Rota Serafino Olivier Razzali, ami-

co di famiglia sino dagli anni dell’insegna-mento bolognese di Mariano e Celso e de-stinato a divenire giurista di Curia tra i piùautorevoli non solo come decano dellaRota, ma anche come componente dellacommissione incaricata nel 1577 daGregorio XIII di provvedere alla riforma delcalendario, nonché della commissione pre-sieduta dal cardinale Pinelli nel 1587, che a-vrebbe dovuto allestire il Liber septimus decre-talium. Nella stessa missiva Fausto comuni-cava allo zio le novità concernenti i familia-ri e gli amici: dalla laurea conseguita dal cu-gino Dario, figlio di Celso, nel febbraio del-lo stesso anno agli insegnamenti tenuti daigiuristi di casa Colombini: “il Colombinovecchio [Leonardo] legge in Napoli la seracon 800 scudi di quella moneta. Il giovane[Panfilo] in Siena la mattina con pochissi-ma provisione secondo l’usanza di quelloStudio”, per concludere: “il primo dottoredi que’ che leggono hoggi è riputato misserGirolamo Benvoglienti”. L’ateneo senese,dunque, per essere tanto povero quanto lacittà e per avere come docente più quotatoil Benvoglienti, non poteva certamente at-trarre il Sozzini, che del resto non esitava aconfessare tutte le sue incertezze – “io stu-diacchio hora una et hora un’altra cosa” –suscitando la riprovazione dello zio Celso:questi, infatti, scrivendo pochi giorni dopo,il 5 dicembre, al fratello Camillo lo pregavaaffinché anch’egli esortasse Fausto “a segui-re e finire li studi di legge”, promettendo daparte sua il massimo aiuto: “Io gli ho offer-to casa, libri, compagnia e insomma tuttoquello che per me s’è potuto e posso e po-trò sempre”.

5. L’ultimo soggiorno senese.

Il 5 agosto 1574 il governatore di SienaFederigo Barbolani da Montauto scriveva aBartolomeo Concini per informarlo su undispaccio proveniente da Lione e diretto a“messer Fausto Sozzini che già ste moltotempo in Ginevra incolpato per sospetto,dissesi, di eresia, si bene stato poi in Siena,dove trovasi molto tempo, e alle volte inFirenze e Roma, in servitio dello Ecc.mo S.Pavolo Giordano, et è fratello de CornelioSozzini, credo ben conosciuto da V.S. et del44

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quale secondo il comandatomi io faccio te-ner diligente cura di catturar, se capitassi inquesta città”. L’informativa è da ritenersi at-tendibile anche se pecca di una grave inesat-tezza circa il legame di parentela tra Faustoe Cornelio: conferma, infatti, quanto già e-ra noto sulla permanenza di Fausto inSvizzera ed in particolare a Ginevra e suisoggiorni del medesimo a Roma e Firenzein qualità di segretario al servizio di PaoloGiordano Orsini e della moglie Isabella deiMedici. Se, dunque, si deve prestar fede allamissiva del Barbolani, sembra che Fausto,ritornato dalla Svizzera nell’estate del 1563,sia vissuto sino ai primi di agosto del 1574prevalentemente in Siena e solo saltuaria-mente a Roma e Firenze, ma allo stato at-tuale delle ricerche non è possibile confer-mare la veridicità di questa affermazione.Celso scrivendo a Camillo da Siena il 10maggio 1568 aveva auspicato: “dappoi conla gratia d’iddio lui [Fausto] è ritornato avoler finire i suoi studi di legge fra un annoo poco più, che lui gli finisca quietamente edipoi pigli quella resolutione che iddio glispirarà”, ma dalle fonti documentarie con-cernenti l’attività dell’ateneo senese non ri-sulta che tra il 1568 e il 1569 il giovaneSozzini frequentasse l’ambiente universita-rio, mentre è stato accertato che entrò al ser-vizio dei coniugi Orsini almeno dall’otto-bre del 1569 e che tra la fine degli anniSessanta e l’inizio dei Settanta era così beneinserito negli ambienti romani da poter for-nire agli amici senesi notizie riservate suipreparativi della Sacra Lega che si andavacostituendo tra le potenze cristiane alla vigi-lia della battaglia di Lepanto: il 27 aprile1571, infatti, scriveva a Scipione Bargagli:

La lega si farà se è vero quello che sta-mattina ha detto un cardinale di molta au-torità. Il papa per quello che ho inteso a ca-so da persona degna di fede, si sentì alquan-to indisposto, ma di gratia non mi fate au-tore di questa cosa nuova, la quale insiemecon quell’altre vi ho voluto scrivere comecose che pochi saranno costì alle quali sienoscritte.

Nel frattempo, il 12 marzo 1570 Celso e-

ra venuto a morte e la sua scomparsa nonfavorì certamente il proseguimento deglistudi giuridici da parte del nipote. Faustocomunque entrò nuovamente in contattocon l’ambiente universitario senese proprionell’anno della missiva del Barbolani alConcini: tra il 22 e il 23 marzo 1574, infatti,fu testimone alla laurea “in utroque iure”del cavaliere gerosolimitano Bartolomeodei Veltroni da Monte San Savino e tra il 5e 6 settembre a quella “in iure civili” diGirolamo di Niccolò Cerretani, patrizio se-nese. Tra i promotori dei due candidati ri-troviamo Girolamo Benvoglienti e PanfiloColombini, ma s’incontra anche un distintogiurista bolognese quale SigismondoZannettini, già collega di Celso Sozzini aBologna, docente a Macerata tra il 1560 e il1569 e quindi maestro nello Studio senesesino al 1578, allorché sarebbe stato chiama-to alla Sapienza romana, dietro le pressionidello stesso pontefice Gregorio XIII e, infi-ne, destinato a rivestire, in qualità di vesco-vo di Fermo, un ruolo di primo piano nellarifondazione di quella Università. Fausto,però, non intervenne come scolaro: in en-trambi gli atti figura con la qualifica di “pa-tritius senensis” e nel secondo caso la suapresenza è dovuta presumibilmente al fattoche il laureato Girolamo Cerretani è identi-ficabile con l’amico fidato al quale, nel lu-glio del 1575, avrebbe lasciato l’amministra-zione dei beni dati a mezzadria prima dipartire dall’Italia per Basilea.

Si concludeva, così, quel periodo dellavita del Sozzini, tra i ventitré ed i trentacin-que anni, che egli stesso rammenterà di ave-re trascorso “in patriae otio et partim in au-la”, vale a dire in ambienti cortigiani e curia-li oppure in patria, coltivando gli otia lette-rari. Nessun cenno nelle sue parole agli stu-di giuridici, anche se dalla sua lettera allozio Camillo del 3 novembre 1563 e da quel-la di Celso allo stesso Camillo del 10 mag-gio 1568 si evince che egli abbia continuatoa nutrire qualche interesse per certi studi. Seil Cantimori ipotizzò che, in mancanza dipreparazione filosofica e teologica, l’espe-rienza di Fausto fosse “puramente letterariae morale” e si nutrisse soprattutto “della cri-tica filologica inaugurata dal Valla” e recepi- 45

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ta dallo zio Lelio e “forse del metodo esege-tico delle scuole giuridiche italiane”, ilMarchetti ha rilevato come la sua opera gio-vanile più significativa, l’Explicatio primi ca-pitis Iohannis costituisca “forse quanto dipiù lontano vi possa essere dall’ermeneuticagiuridica”. Resta il fatto che ebbe a frequen-tare il mondo dei giuristi e che, come si èconstatato, più di una volta parve sul puntodi riprendere e portare a compimento que-gli studi di diritto che nel rispetto delle piùconsolidate tradizioni si coltivavano nel-l’ambiente universitario senese. Ma se ciòche più colpisce, a tal proposito, è il suo lin-guaggio polemico nei confronti della“scienza delle leggi civili trattata come s’usahora”, ovvero secondo il metodo scolasticofondato dai glossatori, sviluppato dai com-mentatori del Tre-Quattrocento e applicato“da dottori, avvocati, auditori et simile ge-neratione”, bisogna sottolineare che tale lin-

guaggio trovava preciso riscontro nella con-testazione da lui stesso portata avanti, nelmedesimo volgere di anni e con gli stru-menti della critica storica e filologica, neiconfronti di quei “detentori del potere er-meneutico” che erano “riusciti a renderedifficile il testo” delle sacre scritture ricor-rendo ai cavilla e facendo uso di figmenta esubtilitates, né più né meno alla stregua deigiuristi seguaci del mos italicus criticati dagliumanisti. Non sembri dunque fuori luogo i-potizzare che la metodologia applicata daFausto allo studio dei testi sacri, così sensi-bile alle istanze della filologia e della storia,sia passata anche attraverso il suo netto ri-fiuto del mos italicus di cui conosceva i limi-ti sino dagli anni della prima giovinezza everso il quale risultava assai arduo svolgereun efficace lavoro di contestazione e revi-sione operando in un ambiente politico-isti-tuzionale come quello dei principati italiani

46 La lapide che celebra i fratelli Sozzini posta in una facciata del palazzo di famiglia a Siena

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Oggi

A chi da Uopini raggiunge Badesse sipresenta, all’inizio dell’abitato, un ‘triste’spettacolo: una graziosa cappella in stato diabbandono, con il tetto in parte scoperchia-to per il crollo di alcune “passinate” e conlo stemma della facciata strappato. Se poi ilpassante ha la curiosità di avvicinarsi e scru-tare da una finestrella laterale, potrà appura-re che l’interno è, se possibile, in stato anco-ra più disastroso dell’esterno, con le volte egli intonaci crollati, con i muri trasudanti u-midità e imbrattati dagli escrementi dei pic-cioni. Poco resta dell’oratorio dove i mezza-dri delle Badesse per secoli si sono recati apregare, dove si sono riuniti nelle occasioniliete e tristi della vita, dove più forte è statoil loro senso comunitario. Denominazionequesta delle Badesse che è un toponimo ri-ferito alle passate proprietarie: le badessedel monastero di San Prospero poi delleTrafisse, le quali avevano in questa localitàun vasto possedimento agricolo, compren-sivo in prosieguo di tempo anche della cap-pella oggi abbandonata. Proprio la pro-prietà monastica - definita da un visitatoredi primo Settecento “un vero e proprio giar-dino”, per la cura con cui era tenuta e am-ministrata dalle suore - si colloca all’originedella storia di questo paese che ha avuto ne-gli ultimi cinquanta anni un ‘pesante’ svi-luppo esponenziale, anche industriale, e chequindi, a maggiore ragione, dovrebbe salva-guardare e, ove necessario, recuperare le po-che vestigia del passato.

Specie quando se ne individua, comeper questa cappella, sotto l’aspetto purtrop-po assai trascurato, un’indubbia eleganza diforme architettoniche e specie quando sitratta di un significativo luogo di culto.Restauro tanto più auspicabile, ove si consi-deri che in più recenti pubblicazioni dedi-

cate a Monteriggioni e al suo territorio nonsi fa neppure menzione di Badesse: a talpunto il paese si è estraniato dalle sue radicistoriche che se ne è perso anche il ricordo!

Di questa operazione di recupero, che ciauguriamo di promuovere anche con questobreve scritto, costituisce senz’altro parte in-tegrante la ricerca storica, al fine non solo didatare e contestualizzare il piccolo oratorioche si intende riportare a nuova vita, anchedi culto (se possibile!), ma anche di riscopri-re le lontane origini delle Badesse, assai piùantiche di quanto l’aspetto dell’attuale cen-tro abitato potrebbe fare sospettare.

Il passato remoto

Il sacerdote Giuseppe Merlotti, parrocodal 1846 al 1877 di Santa Maria Assunta alPoggiolo, scriveva – nella sua vasta operasulle parrocchie senesi fuori le mura - chenel territorio di giurisdizione di quella dalui retta vi erano alcuni oratori, fra cui quel-lo “detto delle Badesse, oggi [cioè all’epocadel Merlotti] dei signori Pozzesi, fatto erige-re ad onore di San Rocco nell’anno 1761dalle Reverende monache della Madonnadette le Trafisse” (G. Merlotti, Memorie stori-che delle parrocchie suburbane della diocesi diSiena, a cura di M. Marchetti, Siena 1995, p.393).

La notizia permette dunque di riferire almonastero della Madonna la proprietà dellacappella nel periodo antecedente il sec.XIX. Questo monastero, posto vicino allaporta San Marco, era conosciuto non solosotto il titolo della Madonna (dal quadrosull’altare maggiore rappresentante LaVisitazione della Madonna a Santa Elisabetta),con il quale è citato dal Merlotti, ma anchesotto quelli di Sant’Agnese delle Sperandiee di San Prospero, in quanto aveva avuto o-rigine dalla fusione nell’istituto posto nel 47

Badesse, Trafisse…e una cappella da recuperaredi PATRIZIA TURRINI

con la collaborazione di EUGENIO BERNABEI, LUCIANA FRANCHINO, ILEANA PIGNI

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Il bel frontespizio settecentesco della Cappella di San Rocco nelle attuali condizioni

borgo di San Marco (nella via detta appun-to delle Sperandie) tra le monache benedet-tine di Sant’Agnese che vi avevano già sedee quelle camaldolesi (pertanto anch’esse be-nedettine) del monastero di San Prospero.Quest’ultimo, a sua volta originato da quel-lo ancora più antico di Sant’Ambrogio giàSanta Maria a Montecellesi, era stato infattidistrutto nel 1526 nella guerra tra Siena epapa Clemente VII. Il convento in via delleSperandie fu poi intitolato, nel 1541, alla“Madonna sotto il misterio dellaTransfixione”, un’unica denominazione an-che per meglio unire religiose di diverse

provenienze che da quel momento preserotutte il nome di Trafisse (Archivio di Statodi Siena, Conventi, 3630, c. 29; G. Macchi,“Memorie”, mss. D 107, c. 106v, D 111 c.284v; Archivio di Stato di Siena, Guida – in-ventario dell’Archivio di Stato, vol. I, Roma1951, Pubblicazioni degli Archivi di Stato,V, pp. 39-40).

Si può riferire alla proprietà del duecen-tesco monastero di San Prospero, retto ap-punto da badesse – fra le poche donne cheavessero un effettivo potere in epoca medie-vale - la denominazione di Badesse con cuifurono conosciuti il mulino e il vasto teni-

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mento rustico appartenenti alle monache.Vari atti, a partire dalla fine del sec. XII, atte-stano la proprietà della chiesa di SanProspero, poi monastero femminile, nel ter-ritorio di Basciano, nella valle dello Staggia,e il suo continuo estendersi e razionalizzarsi(Archivio di Stato di Siena, DiplomaticoTrafisse, 1198 settembre 9, 1276 dicembre 12,1278 [ma 1279] febbraio 27, 1292 [ma 1293]gennaio 7, 1302 [ma 1303] marzo 17, 1303dicembre 18, 1305 maggio 24, 1307 ottobre31, 1308 dicembre 28, 1314 [ma 1315] feb-braio 13, 1319 [ma 1320] gennaio 31, 1319aprile 21, 1322 maggio 10, 1322 giugno 18,1326 [ma 1327] marzo 21, 1329 [ma 1330]febbraio 18, 1332 [ma 1333] febbraio 24,1339 settembre 2, 1389 [ma 1390] febbraio8, 1478 aprile 19; v. anche ms. B. 37, “Spoglidelle pergamene del monastero delleTrafisse di Siena”, alle date).

Tra i tanti, citiamo l’atto del 1198 relati-vo ai diritti di decima di San Prospero sulterritorio di Basciano, e inoltre alcuni docu-menti dei secc. XIII e XIV contenenti espli-citi riferimenti toponomastici: da quello deldicembre 1276, sull’acquisto da parte delmonastero di San Prospero di un terreno“in plano de Stagia, propre molendinumdicti monasterii”, si deduce che il mulino e-ra già in attività; l’altro del gennaio 1320contiene la dizione “in curia de Basciano,in plano molendinorum Abbatisse”, cosìcome quello del febbraio 1330 sull’affitto amezzadria di un podere “in contrata molen-dini Abbatisse”.

Dunque proprio il mulino si pone all’o-rigine di Badesse. Del resto questo tipo di e-dificio di pubblica utilità, per lo più di pro-prietà monastica, ha avuto spesso una rile-vanza particolare nel promuovere lo svilup-po della zona in cui è sorto, non solo perl’essenziale funzione della molitura del ce-reale svolta, ma perché l’energia idraulicasprigionata ha trovato in molti casi ulterioriutilizzi.

La denominazione di Badesse si era subi-to estesa alla zona circumvicina al mulino:in un atto del 6 marzo 1249 Forteguerra eMaria, figli del fu Maffeo, cedevano aBenencasa di Martino e alla di lui sorella laterza parte del reddito dell’affitto del pode-

re, terre e bosco “Abbatisse”, cioè delleBadesse (Archivio di Stato di Siena,Diplomatico San Francesco di Siena, 1248 [ma1249] marzo 6).

Un’ulteriore testimonianza sulla pro-prietà monastica è costituita dalla descrizio-ne, dell’anno 1462, degli immobili apparte-nenti al monastero di San Prospero, tra iquali si rintracciano “una posessione postaen el piano della Istaggia chiamato leMulina dell’Abbadessa, con tutte le loroconfini et apartenentie, la quale tiene al pre-sente Michele di Santi da Pançano con tuttie suoi felgluoli, la quale posessione tiene ameço [a mezzadria] ongni et ciaschedunacosa che in essa posessione si ricolgle”; inol-tre, contigua al mulino, la “posessione chia-mato el Poggio al Segone”, e nelle vicinanzel’altra “chiamata Fontes Degole” (Conventi,3616, cc. 4v-5).

Naturalmente tutte le proprietà del mo-nastero di San Prospero passarono a quelloin via delle Sperandie insieme alle suore, efurono in parte usate per restaurare e ingran-dire, nel 1535, l’immobile conventuale;Antonio, cardinale dei Quattro Coronati, ac-consentì infatti alla vendita di alcuni stabili,purché rimanessero di proprietà dell’istitutomonastico beni tali da garantire il manteni-mento delle religiose (Diplomatico Trafisse,1534 [ma 1535] febbraio 10; Conventi, 3617,c. 85). Nel 1536 il tenimento nel comunellodi Basciano, appartenente ora al monasteroriunito di San Prospero e di Sant’Agnese, ri-sulta comprensivo del mulino, della fattoriae di vari poderi, cioè quello detto “del’Abbadesse” con il mulino omonimo e glialtri di “Poggio al Segone”, “Fontesdegoli” e“Valachio” (Conventi, 3786, cc. 1-4).

La denominazione di Badesse, oltre almulino e al podere, si riferiva comunqueanche all’osteria sulla via Fiorentina, così ci-tata in un atto del settembre 1661 relativoalla successione di Armando Barletti(Biblioteca comunale degli Intronati diSiena, ms. A. IX. 64, cc. 49v-50v). Il toponi-mo in seguito è andato a indicare tutto ilpaese cresciuto intorno al nucleo primitivo.

Dalla tassazione del contado senese ef-fettuata alla fine del Seicento si hanno ulte-riori conferme. Le monache risultano infatti

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proprietarie nel comunello di Basciano ditre poderi: Badessine, Casa Nuova, MonteNero; in quello di Lornano di due: Campodi Fiore e Sugarella; e nell’altro del Poggiolodi quattro: Fonte Devoli, Poggio a Segoni,Piazza di Sotto, Valacchio (L. BonelliConenna, Il contado senese alla fine del XVIIsecolo. Poderi, rendite e proprietari, Siena 1990,pp. 92, 151, 202, 307, 385).

La cappella di San RoccoLa data di erezione del piccolo oratorio

alle Badesse è indicata dal Merlotti – comegià segnalato - nell’anno 1761. La ricerca diarchivio permette invece di retrodatare diquasi cento anni la costruzione della cap-pella e di verificarne la continua, più che se-colare, ufficiatura.

Mentre nei registri di entrata e uscita fi-no al 1665 non si rintracciano spese relativea una chiesetta alle Badesse, in quello del1666 – nel periodo del governo della reve-renda madre badessa donna Maria AuroraAccarigi – furono annotate, sotto il mese diagosto, di mano della carmalenga donnaMaria Giovanna Spannocchi, una serie dispese “per la capella fatta alle Badesse”: 100lire e altre 29.4 senza ulteriori indicazioni(forse spese di costruzione), 19 lire “per unapianeta gialla compra”, 56 lire “pagate alVolpi pittore per restaurare un quadro per lamedesima [cappella]”, 4 lire “per un gradi-no”, “14 spesi per l’arme” (dovrebbe trattar-si dello stemma del convento posto sullafacciata, oggi asportato) e 8.11.8 per le mes-se (Conventi, 3639, cc. 31v, 33v). Il Volpi, alquale fu affidato l’incarico di restaurare unquadro, probabilmente rappresentante SanRocco, dovrebbe essere Domenico figlio delpiù noto Stefano, al quale Cesare Brandi hadedicato alcune pagine in quanto allievo diRutilio Manetti; Stefano infatti era mortonel 1642 (C. Brandi, Rutilio Manetti 1571-1639, Firenze 1932, pp. 184-187).Domenico Volpi aveva eseguito, secondo ilRomagnoli, alcune miniature, oggi disperse,dei “Libri dei leoni” (E. Romagnoli,Biografia cronologica de’ bellartisti senesi, stam-pa anagrafica: Firenze 1876, vol. X, cc. 667-676).

Era stata dunque una delle reverende

madri “abbadesse”, coadiuvata dalla camar-lenga, entrambe elette dal capitolo dellemonache velate, tutte nobili senesi, a fare e-rigere la cappella per uso dei propri mezza-dri, certo allo scopo di favorirne la frequen-tazione della messa e dei sacramenti. E fu-rono le successive badesse e camarlenghe acurarne la manutenzione e l’ufficiatura.Dall’anno successivo alla costruzione – eradivenuta badessa la Spannocchi - le messecelebrate alle Badesse divengono infatti unavoce consueta del bilancio del monastero(Conventi, 3639, c. 39v). Ad esempio nell’e-lenco delle “spese fatte per la chiesa in mes-se di requie e altro”, relativo al 1684, è con-tenuta questa annotazione: “A dì 16 agosto,in messe sei fatte dire nella chiesadell’Abbadesse per la festivitàdell’Assunzione della Beatissima Vergine, 4dette a un giulio e 2 a una lira, dette da’ pa-dri Camaldolesi in tutto, lire 4.13.4”(Conventi, 3642, c. 32). E così nel 1685 furo-no spese lire 2.13.4 “per la festa che si fanella chiesa dell’Abbadesse ” (Conventi,3642, c. 33v). Nel 1686 si esplicita la cele-brazione, il giorno 16 agosto, della “festivitàdi San Rocco” (Conventi, 3642, c. 123).Stessa spesa nell’agosto 1686 (Conventi,3646, c. 120).

L’intitolazione a San Rocco, invocatonelle campagne contro le malattie epidemi-che e le catastrofi naturali, rimanda più chealla protezione del Santo nei confronti del-la peste (in pieno Seicento questa malattiaepidemica era in netta diminuzione) piutto-sto alla sua straordinaria popolarità comeintercessore contro le malattie del bestiame,dagli armenti agli animali più umili, quelliallevati dai mezzadri. La festa solenne veni-va celebrata fino a tutto l’Ottocento il 16 a-gosto, cioè il giorno successivo a quello del-le grandi cerimonie per l’Assunta, regina diSiena (A. Cattabiani, Santi d’Italia, Milano1993, pp. 819-823). Probabilmente le mona-che possedevano nel loro convento un qua-dro più antico (Rocco viene canonizzato al-la fine del sec. XV), davanti al quale aveva-no pregato per ottenere l’intercessione dallapeste durante le ricorrenti epidemie, e talequadro, restaurato, fu trasferito dal mona-stero alla nuova cappella.

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Nel “giornale, entrata e uscita” del 1701si rintracciano ancora spese di culto per lachiesetta: “A dì 16 detto [agosto], al fattoreper 6 messe alla festa della cappella alleBadesse per San Roccho” (Conventi, 3651, c.75v). Così in quello del 1760 è annotato: “Adì 16 detto [agosto], lire 4.13.4 per numerosette messe con la cantata celebrate ed ap-plicate nella cappella alle Badesse questo dìdi San Rocco” (Conventi, 3709, c. 91v). E nel“giornale” del 1761: “A dì 16 agosto, lire ot-to per numero sette messe con la cantata ce-lebrate per la festa di San Rocco alla cappel-la delle Badesse, essendo caduta in giornodi domenica, avendo dato due pavoli di ele-mosina per numero cinque messe celebratein detto dì, cioè due pavoli per caschedunsacerdote e altri due pavoli al signor curatoMeniconi, avendone celebrato altri due indue giorni feriali per il solito compimento”(Conventi, 3710, c. 96v). Certamente altremesse venivano celebrate a spese dei parti-colari locali, come si usa ancora oggi.

Nella relazione sulla visita pastoralecompiuta nell’anno 1774 dall’arcivescovo diSiena Tiberio Borghesi viene citata la cap-pella di San Rocco delle reverende madridella Madonna con obbligo di due messe al

mese e festa del Santo(Archivio arcivescovile diSiena, Sante visite, 62, c. 64).Così nella relazione sulla visitadell’arcivescovo Anton FeliceZondadari nell’aprile 1807 siprecisa che per la festa delSanto titolare erano celebratequattro messe (Sante visite, 68,c. 204). La soppressione del monasterodelle Trafisse risale all’epocanapoleonica; nell’inventarioredatto, il 12 giugno 1808, so-no descritti i beni della sop-pressa istituzione conventualeposti nella comunità diMonteriggioni, “fattoria delPoggiolo”. Oltre alla casa delfattore e al mulino denominatiBadesse, con annesse cantine eoliviera, è menzionata la cap-pella intitolata a San Rocco, di

cui furono elencati gli arredi, per lo più inmediocre o cattivo stato, probabilmente perl’incuria tipica di un periodo di notevoli ri-volgimenti quale fu appunto quello delladominazione francese che vide la forzatachiusura di tanti conventi e la vendita deiloro beni. Il patrimonio mobiliare dellacappella era comunque composto da “uncalice di rame uso assai, tre pianete use distoffa, con suoi refinimenti, un camice conamitto di tela ordinaria e lacero, due sopra-tovaglie e due sottotovaglie per l’altare assaiuse, un copritoio di filoindente assai lacero,sei candeglierini d’ottone di libbre 36, duedetti piccoli usi, 4 candeglieri di legno tuttirotti, 8 perette di legno lacere, 8 mazzi difiori di carta tutti laceri, carteglorie di legnouse assai, un messale in mediocre stato, unleggio assai uso, quattro quadri cattivi, unquadro piccolo nell’altare, una reliquia dilegno di San Rocco, un campanello d’otto-ne di libbra 1, un inginocchiatoio lacero, u-na cassa ove stanno le pianete, una campa-na piccola di circa libbre 25, un paro d’am-polle di cristallo con piattino di terra e unpurificatoio uso” (Conventi, 3826). Inoltrefu annotato che fra gli obblighi gravanti sulmonastero della Madonna vi erano appun-

L’evidente, grave degrado del tetto

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to “ventiquattro annue [messe] solite cele-brarsi dal parroco pro tempore della cura diSanta Maria Santissima Assunta al Poggiolo,nella cappella sotto il titolo di San Rocco al-le Badesse”; e ancora ogni anno, nel giornodi San Rocco, doveva essere celebrata unafesta solenne in detta cappella.

Acquirente dei beni al Poggiolo del sop-presso monastero della Madonna fuGaetano Pignotti. Costui esercitava il me-stiere di oste nella locanda della Scala diSiena e aveva acquistato, nel 1809, anche ilpodere Monte de’ Corsi in Asciano, apparte-nuto precedentemente al soppresso mona-stero di Castelvecchio (Archivio di Stato diSiena, Notarile postcosimiano, notaio NiccolòGiuggioli, protocolli, 6280, n. 1617).

Dopo la morte di Gaetano, avvenuta il 3gennaio 1819, i figli (Antimo) Luigi,Sebastiano e Rosa dividevano infatti l’ere-dità paterna con rogito di Niccolò Giuggiolidel 9 settembre 1819 (Notarile postcosimiano,protocolli, 6288, cc. 63-67v; originali, 2216,atto n. 110). All’atto notarile è allegata unastima da parte di tre periti: Montenero eCampo di Fiore posti nella comunità diMonteriggioni e popolo di Basciano furonoassegnati a Luigi Pignotti; ne facevano partela stanza ad uso di oliviera “a contatto delmolino delle Badesse” e la “cappella”, ormaioratorio ad uso pressoché esclusivo dellafamiglia dei proprietari.

Il passato prossimo: una cappella padronaleLa cappella è rappresentata nella mappa

catastale del 1825 relativa alla sezione A“detta di Lornano e Magione” (Archivio diStato di Siena, Catasto toscano poi catasto ita-liano, comunità di Monteriggioni, mappa n.4, particella 513 subalterno 337). Esente daredditi imponibili in quanto adibita al cul-to, con superficie pari a 80 braccia quadre,cioè metri quadrati 27,249 (1bq = 0.340619mq), risulta di proprietà, all’impianto delCatasto (anni 1830-1832), del citato LuigiPignotti di Gaetano (Catasto toscano poi cata-sto italiano, Campione terreni diMonteriggioni, c. 420).

Nel tempo la sua consistenza e la sua de-stinazione d’uso rimangono invariate, men-tre si succedono diversi proprietari che l’ac-

quisiscono unitamente al tenimento ruraledi cui fa parte. Dopo Luigi Pignotti, il beneè accampionato nel dicembre 1835 aDeifebo Brancadori Perini d’Angelo, possi-dente (Campione terreni, cc. 148-163; vol-tura 26), anche se Maria Assunta Vermigli,moglie del Pignotti posto sotto curatela,provvedeva a iscrivere il 9 giugno 1837 un’i-poteca legale per tutelare la sua dote eviden-temente messa in pericolo dalla vendita(Archivio di Stato di Siena, Bracandori, 750).Nel dicembre 1859 i beni sono iscritti ainuovi proprietari, cioè i figli di Deifebo:Angiolo, Giuseppe e gli eventuali figli ma-schi nascituri (Supplemento a campione, c.745; voltura 11); nel marzo 1866 oltre adAngelo e Giuseppe, è indicato Giovanni, al-tro figlio del citato Deifebo (Supplemento acampione, c. 938; voltura 1). Nel luglio1866 il tenimento agricolo con cappellapassa a Claudio Pozzesi di Filippo, quest’ul-timo di professione “postiere” (Supplemen-to a campione, cc. 233-970; voltura 6). Ladocumentazione catastale conferma dun-que la notizia sulla proprietà Pozzesi citatadal Merlotti, la cui descrizione del territoriodella parrocchia di Santa Maria al Poggioloè pertanto coeva o posteriore al 1866.

Nella visita pastorale condotta nel mag-gio 1882 dall’arcivescovo GiovanniPierallini è descritta la cappella, dotata di“pietra sacra in ordine; mancano gli arrediche vengono portati dal Poggiolo, quando il16 agosto, festa di San Rocco, si celebranoalcune messe. Il materiale di questa cappellaè mal ridotto e tutto è in misere condizio-ni” (Sante visite, 79, c. 181). Pertanto all’epo-ca l’uso della cappella era ormai limitato al-la sola festa titolare.

Per successione di Claudio Pozzesi,morto il 19 novembre 1895 (Archivio diStato di Siena, Ufficio del Registro di Siena,certificato del 9 luglio 1896), la proprietàpassa in varie quote ai figli del defunto:Filippo, Niccolò, Maria, Giuseppa eVirginia (Supplemento a campione, cc.2521, 2697). Costoro la vendono, con attodel 10 ottobre 1900 rogato Pollini, ai co-niugi Giuditta Lazzeri fu Luigi e cavaliereIlario Bandini fu Giovan Battista(Supplemento a campione, c. 2723). Per

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successione di Giuditta, morta il 27 giugno1908 (Ufficio del Registro di Siena, certificatodel 26 dicembre 1908) il marito Ilario risul-ta proprietario della metà e usufruttuarioper un quarto dell’altra quota, i figliCorradino e Gino proprietari per 10/24 edElena per 2/24 (Supplemento a campione,c. 3141; atto del 24 ottobre 1908 rogatoPollini e registrato in Siena il successivo 27al n. 403; Supplemento a campione, c.3171). A seguito alla morte di Gino avvenu-ta il 29 ottobre 1908 (Ufficio del Registro diSiena, certificato del 29/4/1909), il teni-mento rurale con la cappella è accampiona-to a Ilario per 4/6 e a Corradino ed Elenaper 2/6 (Supplemento a campione, c. 3189).Nel giugno 1909 il cavaliere Ilario fa dona-zione dei suoi beni, con riserva di usufrutto,a favore della figlia Elena (atto del 30 mag-gio 1909 rogato Pollini, registrato in Siena ilsuccessivo 18 giugno al n. 1117; Supple-mento a campione, c. 3198). Per successio-ne di Elena, morta in giovane età il 2 no-vembre 1918 (Ufficio del Registro di Pontedera,certificato del 23 aprile 1919 n. 1723), men-tre il vecchio padre Ilario rimane usufrut-tuario, i nuovi proprietari sono Brunetta,Dino e Piero, figli dell’avvocato RaffaelloBani, a sua volta usufruttuario legale di unquarto (Supplemento a campione, c. 3626).Nel 1921, stante la morte di Ilario Bandini,si riunisce l’usufrutto alla nuda proprietà afavore di Brunetta, Dino e Piero Bani, men-tre Raffaello rimane usufruttuario di unquarto (Ufficio del Registro di Siena, certifica-to dell’11 marzo 1921 n. 2594: Supplemen-to a campione, c. 3724).

Appartengono a questo periodo una se-rie di “libri di sagrestia” della parrocchia diSanta Maria Assunta del Poggiolo, relativi amesse e uffici per i morti dal 1911 al 1930;in tali registri è annotata la celebrazione dialcune messe annuali nella cappella delleBadesse. In particolare sotto la data del 10novembre 1914 è scritto: “Festa titolare del-la cappella delle Badesse, famiglia BandiniBani”; e così negli anni successivi la celebra-zione religiosa ricorre sempre fra la fine diottobre e il mese di novembre, stabilizzan-dosi infine a partire dal 1918 il giorno 18novembre (Archivio arcivescovile di Siena,

Parrocchia di Santa Maria Assunta al Poggiolo,libri di sagrestia, anni 1911-1930).

Probabilmente data a questo periodo ilcambio di intitolazione della piccola cap-pella che venne dedicata a Santa Barbara,come oggi è conosciuta nel paese di Badesse(si tratta comunque di un tema ancora daapprofondire). Si può ipotizzare che la nuo-va dedica corrispondesse al culto di questaSanta protettrice dei minatori, dal momen-to che nelle vicinanze vi erano una minieradi zolfo e un’altra di lignite, attive fino aglianni cinquanta del Novecento.

Nel 1928 i fratelli Bani dividono i lorobeni; la cappella fa parte della quota asse-gnata ai due maschi: Dino e Piero (atto del9 gennaio rogato Nascimbeni, registrato inSiena il successivo 29 al n. 954;Supplemento a campione, cc. 4187-4211).La quota è poi oggetto di una seconda divi-sione e la cappella, insieme ad altri beni, èassegnata a Dino, stante l’usufrutto del pa-dre Raffaello (atto del 7 luglio 1933 rogatoNascimbeni, registrato in Siena il 18 succes-sivo al n. 106; Supplemento a campione, c.4654). Successivamente Dino Bani vende lasua parte, comprensiva della cappella, aMario Roccavilla di Battista (atto del 14marzo 1941 rogato Maccanti, registrato inSiena il successivo 15 al n. 681;Supplemento a campione, c. 4875). IlRoccavilla aliena poi i beni a Badesse aTommaso Bono fu Tommaso, a SimoneGiacopelli fu Giovan Battista e a SalvatoreMannino fu Giuseppe (atto del 15 gennaio1947 rogito Maccanti, registrato in Siena il3 febbraio al n. 986; Supplemento a cam-pione, c. 506).

Il 28 novembre 1965 fu consacrata lanuova chiesa di San Bernardino alleBadesse, e questo portò al totale abbando-no dell’antica cappella, tanto che nella visi-ta pastorale dell’arcivescovo Mario IsmaeleCastellano, nel marzo 1966, il parrocoTiberi dichiarava che la cappella alleBadessine era “chiusa al culto perché perico-lante e di proprietà di diverse famiglie”(Archivio parrocchiale del Poggiolo).

Ancora oggiLa proprietà della cappella risulta oggi

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frazionata – e questo va senz’altro a ulterio-re detrimento dello stato di conservazione -fra più proprietari privati (che non citiamoper riguardo alla privacy) e così il luogo diculto è ormai in stato di totale abbandono.Nulla vieterebbe, a nostro parere, una legit-tima acquisizione da parte del Comune odella parrocchia locale, mentre i privati si li-bererebbero così dagli obblighi e dalle spesedi un bene non commerciabile. E in tal sen-so si è già fattivamente mosso il Comune diMonteriggioni, spronato anche da un comi-tato di cittadini che ha raccolto oltre trecen-to firme per promuovere il salvataggio dellacappella. Dopo il restauro, da attuare maga-ri con i fondi erogati da una banca locale,come è auspicabile, sarà possibile restituirela cappella alla comunità che potrebbe pro-muoverne il mantenimento, per pubblicodecoro, e magari ripristinare, il 16 agosto, lafesta di San Rocco celebrata in passato pro-

prio in quel luogo sacro. Una festa non ‘in-ventata’, come lo sono tante grandi e picco-le sagre, ma ‘recuperata’ dalla propria storia,come lo sono invece quelle più motivate evalide.

Saranno così ricordate le badesse chehanno abilmente sviluppato la proprietàmonastica nella valle dello Staggia, al puntoda dare il loro nome alla località, e inoltre itanti mezzadri, mugnai, fattori e fattoresse,sottofattori, guardia-boschi, carbonai, mina-tori… che, per secoli, hanno faticosamentelavorato nei campi, nei boschi e nelle vicineminiere, contribuendo in modo decisivo atale sviluppo. Saranno così valorizzate le ra-dici agricole di un luogo, oggi forse troppoestraniato da sé stesso. Il passato costituiràin tale modo un patrimonio culturale danon disperdere, ma da conservare con curaper le generazioni future.

Le drammatiche condizioni dell’interno

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Il Palazzo, oggetto di questo studio, è in-serito in uno dei più importanti siti urbani-stici medioevali, quello di Piazza delCampo a Siena. Le sue facciate si sviluppa-no su Via di Città, su Costarella dei Barbierie, appunto, su Piazza del Campo.

Si intuisce in maniera immediata l’altacomplessità presentata dall’analisi storica diquesto edificio, che per il suo posiziona-mento affonda radici nello studio urbanisti-co della città di Siena già in epoca altome-dioevale e forse romana.

In base alle considerazioni di PaoloBrogini (L’individuazione della Siena romanaed altomedioevale, in “Accademia dei Rozzi”,2003 ) l’antica Porta Salaria posta sulla cintamurata della colonia romana di Saena Iuliaera ubicata presso l’area dell’attualeCostarella dei Barbieri ed è ipotizzata, co-me quella di Stalloreggi, rappresentata da u-na porta a doppio arco, secondo uno stile-ma architettonico proprio del III secolod.C. Anche in epoca altomedioevale, alme-no fino al XI sec., la cinta muraria si aprivanella suddetta Porta Salaria, che metteva incomunicazione il settore urbano più antico

con quello successivo, detto del Popolo diSan Paolo, nel Terzo di Città. Inoltre, un re-cente scavo archeologico nelle cantine delPalazzo dell’Accademia dei Rozzi ha rivela-to consistenti tracce di un insediamento ro-mano, che doveva trovarsi poco fuori dellaPorta.

In questo punto, esattamente tra l’ango-lo di Costarella e Via di Città, il Guidoni (IlCampo di Siena, 1971) identifica il Triventum,esistente già nel 1029, in cui confluivano letre strade principali che univano Siena aFirenze, a Roma e alla Maremma. Solo suc-cessivamente, verso la fine del secolo, l’in-crocio stradale principale verrà spostato allaCroce del Travaglio.

In questa area si sviluppa il CampusSancti Pauli (acquistato in parte dalComune di Siena nel 1169) che rappresental’area più alta della Piazza, quella che, unitasuccessivamente al Campus Fori, determi-nerà il vuoto urbano dove i Senesi porran-no il massimo luogo rappresentativo del po-tere civico.

Via di Città, che nel tratto oggetto diquesto studio era detta Via degli Uffiziali, 11

Il palazzo degli ScottiLa vicenda storica di un edificio gentilizionel cuore della cittàdi SUSANNA FESTINESE

Fig. 1 - L’antico assetto del Palazzo Scotti e degli altri edifici in affaccio sul Camponella ricostruzione di Rohault de Fleury (1873)

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viene rialzata rispetto al Campo attraversoun intervento urbanistico specificamenteprogrammato per migliorare il deflusso del-le acque piovane, che in quella parte dellacittà tendevano al ristagno.

Dallo Statuto dei Viari si deduce che lestrade cittadine di Siena incominciarono adessere lastricate nel 1241, o nel 1242, in pie-tra viva. La stessa fonte normativa ci per-mette di conoscere che Via di Città fu am-pliata fino a una larghezza complessiva di12 “Bracchia”, cioè gli attuali 7,2 metri.

La pavimentazione a mattoni diCostarella dei Barbieri fu eseguita tra il1333 ed 1334, come quella del Campo,mentre la selciatura in pietra della fascia e-sterna della piazza tra il 1347 e il 1349. Ciòha permesso di individuare il contesto cro-nologico in cui si inserisce l’edificio oggettodi questo studio e in parte aiuta a definire ilperiodo di datazione della sua costruzione.

Nella facciata di Via di Città l’andamen-to non è omogeneo, ma si sviluppa su treparti di facciata leggermente inclinate perseguire l’andamento stradale; nella centralesi evidenzia la presenza inglobata di unaparte di torre dalle caratteristiche bozze dipietra “calcare cavernoso” dellaMontagnola; usata in età Romanica per letorri e i palazzi nobiliari. Nella restante par-te superiore la facciata è costruita in matto-ni con alcuni marcapiani in pietra.

Inoltre, anche l’andamento irregolaredella facciata sul Campo, tutta in mattonicon alcuni marcapiani in pietra e con quelsuo caratteristico dente - unica eccezione al-l’allineamento dell’edificato che fa da quin-ta scenica alla Piazza nelle sezioni antistantiil Palazzo Pubblico - presuppone che l’edifi-cio fosse preesistente all’impianto e allescelte politiche che lo avevano determinato.

L’identificazione dell’appartenenza delpalazzo ad una delle famiglie dei Grandi diSiena è stata possibile attraverso la descri-zione del Lusini (Note storiche sulla topografiadi Siena nel XIII sec. in “Bollettino Senese diStoria Patria”, XXVIII-1931) che ricorda co-me: Un rapido chiasso, che prese il nome daMattasala, lungo la casa di lui sale in Galgariaalla torre dal medesimo edificata; e quindi si ele-va maestoso tra i primi il palazzo degli Alessi,

con la parte media più elevata delle laterali, e conle forme fastose del portico a quattro archi d’ in-gresso alla corte tutta coperta di volte a costolonidiagonali e con finestre bifore e trifore, decorateda marmi bianchi e neri.

Da questo alla Costarella seguiva un palazzoa bifore di una famiglia degli Accarigi, con torredi pietra al canto della Galgaria. Di là dallaCostarella il palazzo degli Scotti serba ancora no-tevoli tracce delle sue bifore; seguito dal maggiore,che vi costruì il banchiere Bartolomeo Saracini, ilpiù antico forse sul Campo.

La famiglia degli Scotti apparteneva allanobiltà di Siena; la presenza in città di que-sta consorteria è accertata fin dal 1256. Sihanno poi notizie di un Beato BandinoScotti morto nel 1270.

All’epoca per ottenere la cittadinanza se-nese bisognava possedere un capitale supe-riore alle 1000 lire e impegnarsi nella co-struzione di un palazzo del valore di 100 li-re, che determinava l’imposizione di unatassa del 2,5%.

Quindi si può datare la costruzione del-l’edificio, intorno a una torre - o avamposto- preesistente, nella seconda metà del XIIIsec. e, comunque, prima dell’inizio dei la-vori per Piazza del Campo. In via subordi-nata si può pensare che il peso politico de-gli Scotti fosse talmente grande da permet-tere loro la costruzione del palazzo familia-re in deroga alle disposizioni degli Ufficialidell’Ornato; infatti la famiglia, composta danumerosi membri, al tempo del Governodei Nove veniva annoverata in questo po-tentissimo ordine. Tale ipotesi appare peròpoco probabile.

Lo stemma della famiglia Scotti è rappre-sentato daun’arma dirosso, con u-na scala diquattro piolid ’ a r g e n t o ,posta in palo,accostata daotto crescentim o n t a n t id’oro, quat-tro per parte,in palo.12

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In base al testo dell’Ugurgieri (PompeSenesi, 1649) alla metà del XVII sec. sono an-cora presenti in Siena gli eredi di questa stir-pe, mentre Giovanni Antonio Pecci (Letterasull’antica e moderna derivazione delle famiglienobili di Siena, 1764; pubblicata sotto lopseudonimo di Lucensio Contraposto daRadicondoli) ci informa che la “Consorte-ria” degli Scotti Dominici “non tutta rimasemonita… solo una branca quella dei figliolidi Domenico è ancora presente”.

Il Palazzo rientra nella concezione strut-turale della residenza magnatizia, assimila-bile nei tempi più antichi ad una torre: ele-mento strutturale che individuava l’apparte-nenza dei proprietari ai ceti più elevati dellacittadinanza.

Tali edifici, meglio di ogni altro appara-to, evidenziano il passaggio dal tipo di para-mento in tutta pietra - proprio dei manufat-ti più arcaici - a quello in laterizio attraversoil paramento misto assai usato nel periododi trapasso tra il XIII e il XIV secolo. Lemurature in mattoni a sacco o imbottite e-rano all’epoca costituite da due pareti ester-ne in laterizio, disposte regolarmente conall’interno un calcestruzzo formato con cal-ce forte, rena, pezzi di mattone, pietrame eghiaia. Perdendo lo scopo difensivo e assu-

mendo quello di dimora signorile la biforae la trifora - elemento ricorrente in questotipo di costruzioni - venivano ingentilite dapiccole colonne di pietra o di marmo, il cuiuso fu imposto dalle fonti normative delComune per Piazza del Campo e quindi a-dottato anche sulle facciate di PalazzoScotti, che infatti presentavano sul Campovari ordini di bifore con colonnelli (1297).

Il Palazzo magnatizio per descrizione diGabriella Piccinni e Duccio Balestracci (Sienanel Trecento, 1977) presentava un loggiato al-l’ultimo piano oggi non più esistente.

Indagheremo poi più attentamente lapresenza di tali logge in Palazzo Scotti attra-verso l’analisi delle tavole iconografiche ri-guardanti la Piazza, anche al fine di indivi-duare la datazione della loro chiusura.

Il tetto dell’edificio era a due falde coper-to da tegole e docci, detti canelli; le acque siconvogliavano nella strada. La finitura eradata da un paramento merlato, con merli ditipo guelfo, per le facciate sul Campo; ma ditali elementi non si hanno riscontri nell’ico-nografia oggi conosciuta relativa al Palazzo.La mancanza di gronde lasciava le pareti e-sterne indifese contro la pioggia. A tale in-conveniente all’epoca si cercò di ovviare po-nendo delle tettoie su ogni ordine di fine- 13

Fig. 2 - Veduta della Piazza del Campo in una stampa del 1717, tirata per celebrare l’arrivo a Sienadella Principessa Violante di Baviera

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stre, ma a seguito di un’ ordinanza delComune tali strutture furono rimosse datutti gli edifici prospicienti la Piazza.

Alla base del Palazzo si trovavano le bot-teghe della famiglia che si aprivano certa-mente sul Campo, principale luogo di mer-cato nella città e che erano gestite in proprioo affittate a terzi, secondo l’uso del tempo.

Piazza del Campo divenne nell’andaredei secoli successivi il luogo rappresentativoper eccellenza del potere politico, a cui ilGoverno dei Nove in origine l’aveva desti-nata, allontanando il mercato del bestiameed usando tale spazio per tutte le manifesta-zioni ufficiali della Repubblica di Siena.

Grazie a questi eventi esiste una vasta i-conografia che ci permette di seguire le evo-luzioni delle modifiche apportate alle fac-ciate di Palazzo Scotti insistenti sul Campoe sulla Costarella.

Dall’incisione su rame della “Veduta dellaPiazza di Siena illuminata pel Solenne ingressodella Serenissima Violante di Baviera G.Principessa di Toscana seguito la sera del 12Aprile 1717” , edita a Roma da DomenicoDe Rossi, possiamo evidenziare le caratteri-stiche della parte dell’edificio in affaccio sulCampo (fig. 2). Si può osservare come il ca-

ratteristico dente uscente dall’allineamentodella quinta scenica edificata della Piazzasia perfettamente riportato. In basso, sottol’allestimento effimero predisposto per l’e-vento, si possono vedere gli accessi alle bot-teghe ed al di sopra di esse una tettoia rea-lizzata con materiali in cotto, che presentauna sopratettoia più piccola, appoggiata sul-la precedente e sempre rifinita con elementiin cotto, nella parte più rientrata della fac-ciata. Alle bifore si sono sostituite finestre aforma rettangolare, ad eccezione di un pia-no alto nella parte più rientrata della faccia-ta dove possiamo vederne ancora due.Nell’ultimo dei cinque piani dell’edificiomostrati dalla stampa sono presenti le loggein tutte e due le sezioni in affaccio sulCampo, ma la loro presenza si percepisceanche dalla parte della Costarella deiBarbieri. Il trattamento della superficie del-l’edificio è stato reso dall’incisore attraversoun forte chiaro-scuro che richiama efficace-mente quello reale, all’epoca sicuramente disoli mattoni a vista.

Sul “Prospetto della Piazza di Siena collaComparsa delle Contrade e Corsa del Palio rap-presentata il 2 Luglio 1717...”, pure stampatodall’editore romano, la rappresentazione

14Fig. 3 Fig. 4

Il Palazzo Scotti nei dettagli di due rare incisioni settecentesche raffiguranti la Piazza del Campo

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appare invece meno fedele all’esistente, per-chè amplia la parte di facciata aggettantesulla piazza aumentandone il numero di a-perture vetrate (fig. 3).

I palazzi che circondano il Campo finoal ‘700 mantengono il caratteristico ed irre-golare assetto originario, ma in questo seco-lo la sistemazione di Palazzo Chigi-Zondadari (1724) e il rifacimento della fac-ciata del Palazzo della Mercanzia (1763) de-terminano un’evoluzione sostanziale nel-l’immagine della piazza.

Nell’ incisione su rame del “Prospetto diuna Parte della Piazza di Siena con la comparsadelle contrade e corsa del Palio rappresentata il15 Maggio 1767 “, intagliata da AntonioCioci (o Ciacci) su disegno del celebre ve-dutista fiorentino Giuseppe Zocchi, la raffi-gurazione del Palazzo Scotti permette unachiara identificazione delle logge ancora esi-stenti all’ultimo piano, sia in affaccio sullapiazza che sul lato della Costarella, ed offreun probabile richiamo di forme gotiche nel-le tracce delle vecchie bifore che incornicia-no le nuove finestre monofore aperte sullafacciata dell’edificio (fig. 4).

Nella Siena del Settecento le notizie sull’e-dilizia privata segnalano quasi sempre amplia-menti, restauri e ammodernamenti - come riferi-sce Fabio Gabbrielli ( Edilizia privata a Sienanei diari settecenteschi, 2002 ) - e la concentra-zione di ricchezza nelle mani di poche fami-glie, con l’estinzione di altre, favorisce lapossibilità di rinnovare e di ampliare le resi-denze nobiliari assorbendo nei nuovi palaz-zi le case del tessuto urbano circostante.

A questo periodo risalgono i diari delPecci e del Bandini, che narrano la storiadell’arte edilizia senese del periodo. Ed è intale periodo che il Bandini riporta un eleva-to numero di interventi sull’intonaco e sulcolore di molti edifici urbani, operazioneallora alla moda tra le famiglie dei ceti piùelevati, che dovevano dimostrare di abitarein una casa moderna. Ancora il Gabbrielliricorda che a livello urbanistico l’intonaco e lacoloritura, nascondendo le tracce delle trasforma-zioni, contribuirono alla creazione di una nuovaimmagine, ordinata e razionale, della città o al-meno delle sue strade e piazze principali, compre-sa Piazza del Campo la quale, come è noto, perseproprio nel Settecento quel carattere che dal secoloXIV aveva sostanzialmente mantenuto.

15Fig. 5 - La Piazza del Campo rappresentata da Alessandro Maffei durante la corsa del Palio, in una incisione del 1845

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Il Pecci fa risalire ad un ordinanza del1763 l’abbattimento di tutti i “morelli” e letettoie che con grandi mensole di legno so-stenevano docci, tegoli e altri materiali diterra cotta in Piazza del Campo e che furo-no sostituiti nel mese di Novembre dellostesso anno con nuove tettoie, tutte in le-gname di uguale grandezza e larghezza ver-niciate di rosso.

Questo provvedimento nasce nell’esalta-zione di un concetto di decoro – prosegueGabbrielli - che aspirava ad offrire un’immagi-ne ordinata e pulita della città, lo stesso che ispi-rava i rifacimenti delle facciate con aperture tuttea filo e prospetti uniformi. Non a caso nel 1757 ilPecci biasima un intervento fatto in un edificio inPiazza del Campo vicino alla Costarella, consi-stente in due finestre con ringhiere e mensole in le-gno, in quanto” senza gusto e simmetria”.

Ne esiste un altro preciso esempio neicosì detti “Palazzi Saracini”, dove si eviden-zia l’apertura di simili finestre. Considera-zione, questa, che potrebbe far ipotizzare ilpassaggio della proprietà del palazzo dagliScotti ai Saracini, già proprietari dell’edifi-cio limitrofo.

La presenza di un intonaco color rossomattone, su cui sono ridisegnati i mattonitipici dell’edificato, solo al piano terreno eal primo piano nella facciata sul Campodell’edificio, fa presumere che l’interventosi possa integrare nell’operazione urbanisti-

ca settecentesca precedentemente esposta.Ovviamente gli interventi successivi sul-

le facciate e i vari terremoti che nel periodosi susseguirono avevano lasciato tracce evi-denti e stridenti, destinate ad essere nasco-ste in ossequio all’esigenza di offrire un’im-magine ordinata degli edifici che si affaccia-vano sul Campo.

Dalla “Veduta della Piazza di Siena nell’ attodella corsa del 16 Agosto” incisa da FerdinandoLasinio su disegno di Alessandro Maffei,tratta da Storia e Costumi delle Contrade diSiena di Antonio Ercolani (Firenze 1845), cheritrae la gara in un suggestivo tripudio di co-lori, si può notare che il trattamento cromati-co adottato per Palazzo Scotti è lo stesso usa-to per il Palazzo Civico e si può quindi ipo-tizzare nel mattone a vista, e non nell’into-naco, il trattamento fondamentale della suafacciata (fig. 5).

Chiaramente la veduta identifica un sololato della Piazza con edifici intonacati: lastruttura settecentesca del Palazzo Chigi-Zondadari e alcuni edifici minori tra ViaPorrione e Via Salicotto ed esibisce la sceni-camente pregevole uniformità di alzato or-mai raggiunta dal fronte degli edifici che co-stituiscono il fondale antistante il PalazzoComunale.

Da notare, infine, che è questa la primaiconografia a stampa della Piazza che rap-presenta i balconi distribuiti, invero disordi-

16 Fig. 6 - Ciò che resta dell’antica loggia

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natamente, sulle facciate sia di PalazzoScotti, sia di Palazzo Saracini.

Con lo studio della Mappa Leopoldinadel 1824 - presso la Sezione Catastodell’Archivio di Stato di Siena - si sono po-tute identificare le particelle componenti ilPalazzo ed attraverso la visionedell’Impianto 1825-30 con riferimento allaSezione C - S.Agostino, Carte 37 delCampione, è stato possibile risalire ai nomidi coloro che ne erano all’epoca proprietari.

Il Catasto suddivideva l’edificio in parti-celle numerate dall’1 al 6 e riferite al n. civi-co 2475 di Via degli Uffiziali.

Risultavano proprietari della particella 1:- Binda Luigi , proprietario di una bottega- Rosini Pietro Orazio, proprietario di un

piano superiore- Pasquini Maria di Benedetto, proprietaria

di una bottega- Rossi Giovanni di Francesco, proprietario

di una bottega- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario dei piani superioriRisultavano proprietari della particella 2:- Rosini Pietro Orazio, proprietario di una

bottega superiore- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario dei piani superiori- Bigi Filippo di Gio-Putio, proprietario di u-

na bottega- Guerrini Giuseppe di Bartolomeo,proprieta-

rio di una bottegaRisultavano proprietari della particella 3:- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario dei piani superiori- Carini Gaetano di Francesco, proprietario

di una bottegaRisultavano proprietari della particella 4:- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario della bottega e dei piani superioriRisultavano proprietari della particella 5:- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario della casa- Bizzarrini Giovanni e Agostino di

Bonifazio, proprietari di una bottegaRisultavano proprietari della particella 6:- Arditi Sciarelli Carlo di Bernardino, pro-

prietario dei piani superiori

- Tabarrini Giuseppe d’Angelo, proprietariodi una bottega.

Il Sig. Arditi Sciarelli Carlo diBernardino era dunque il proprietario dimaggioranza del Palazzo, possedendo laparticella 1 in parte, la 2 in parte, la 3 inparte, la 4 intera, la 5 in parte e la 6 in parte;di fatto era sua tutta l’area residenziale del-l’edificio (articolo di stima n. 5).

La proprietà passò attraverso la volturan. 76, del 24 Maggio 1847, ad ArditiSciarelli Alessandro di Carlo ( passaggio al397 del supplemento). Nel 1858 venne ac-quisita una sezione della particella 2, botte-ga in Piazza del Campo, da Bigi FilippoGiovanni Pietro (articolo di stima 6).

Nell’ Impianto generale del 1875 la pro-prietà venne valutata in 7 piani corrispon-denti a 65 vani; poi rimarrà invariata fino al1882, quando Sciarelli Alessandro di Carlo,che era sposato con Crespi Billò Elena,muore e lascia la consorte usufruttuaria deisuoi beni; ereditano invece la proprietàArditi Sciarelli Carlo Alessandro, sposatocon Ricci Amalia Arditi Sciarelli e ArditiSciarelli Alfredo fu Alessandro.

Quest’ultimo, in data 8 Novembre 1888,con atto n. 417/1888 registrato dal notaioBicci (o Ricci), vende all’Accademia deiRozzi quattro vani della particella 1 – attoche conferma l’aspirazione dell’Accademiaad un affaccio sul Campo -, a Bartolazzi la5 e parte della 6, a Menichini parte della 5 (bottega e qualche stanza).

Nel 1894 il Catasto sposta l’identifica-zione della proprietà da Via degli Uffizialin°2475 a Via di Città n. 7.

In questa occasione si riscontra che RicciAmalia, erede di Carlo Alessandro, ha ri-comprato tutta la parte venduta del prece-dente proprietario, tornando in possessodegli stimati 7 piani composti da 65 vani.

Il tutto risulta invariato nel 1897.Quando nel 1901 la proprietà viene riu-

nita all’usufrutto, il 15 maggio, RicciAmalia Arditi Sciarelli può vendere tutto aBemporad Ferruccio di Giovanni. In talepassaggio la proprietà è cosi valutata: 4 vanial piano terreno, 17 vani al II° piano, 13 va-ni al IV° piano, 11 vani al V° piano. 17

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Subito dopo, nel 1902, Bemporad vendel’intera partita a Vitali Ulderigo TitoLorenzo

L’edificio è ancora identificato dal cata-sto in Via di Città al n. 7, che rimane taleanche se, in quegli anni, la strada prende ilnome di Via Umberto I.

Successivamente, il 12 Aprile 1907, ilVitali acquista un ingresso con due vani suCostarella dei Barbieri (bottega e magazzi-no interno) portando a 6 vani la sua pro-prietà al pian terreno; mentre il 5 Luglio1913 estenderà la sua proprietà dal V° al VI°piano ed è in occasione di questo passaggioche si può ipotizzare la chiusura delle loggesotto tetto (fig. 6).

Della ristrutturazione permangono evi-denti segni nelle tracce residuali delle strut-ture portanti del loggiato e nella stesura diquel velo di intonaco che avrebbe dovutomascherare l’intervento in superficie, tutt’o-ra ben visibile nelle parti alte del Palazzo inaffaccio sia sul Campo, sia sulla Costarella.

Il 14 Agosto 1939 ereditano la proprietàAleride Vitali fu Ulderigo Tito e SociniSofia. Rimane tutto invariato fino alla mor-te di Socini Sofia, nel 1941, ma la storia diquello che era stato Palazzo Scotti è ormaicronaca dei nostri giorni.

18Fig. 7 - Il Palazzo Scotti in una moderna fotografia

che evidenzia la facciata sul Campo

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Al v. 3 la maggior parte degli editori haaccolto la correzione congetturale del Barbi“ch’ell’ha forse vernata” al posto di “che lafosse vernata” e di “che la forte vernata” deicodici. Si sostiene che “il verbo neutro con-cordato con il soggetto e impiegato conl’ausiliare avere è d’uso antico” (Vitale 1956,p. 245 nota) e si citano passi della Vita Novae della Commedia di Dante. Per qualcunoquesti argomenti non devono essere statidel tutto convincenti, visto che ha preferitoleggere “che là fors’è vernata”. Dal suo pun-to di vista aveva motivo il Barbi a sostenere

una simile correzione, sicuro com’era che laTenzone fosse opera di Dante e Forese. Orasappiamo come stanno le cose: quella con-gettura dovrebbe essere meditata un po’ dipiù e messa in discussione.

Rustico, il vero autore, nei suoi sonetti,passati da 59 a 67, non usa mai la parola“forse”: sarà poetica per Dante, ma non perlui, che ha un modo netto e deciso di ver-seggiare, privo di tante sfumature.

Inoltre, per la questione a me sembranorisultare interessanti questi versi delBarbuto, tutti tratti dai sonetti realistici:

19

Questioni testualinella “Tenzone” di Rustico edue congetture di Michele Barbidi MENOTTI STANGHELLINI

Sonetto I

Chi udisse tossir la malfatatamoglie di Bicci vocato Forese,potrebbe dir ch’ella ha forse vernata

4 ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.

e rider vostro fosse men sovente (I, 6)Ma so bene, se Carlo fosse morto (III, 9)E spïate qual fosse la cagione (V, 9)e quando fosse sopra al vendemmiare (V, 12)che ’n mar vorria che fosse co·llui i·nave (IX, 13)si crede che ver’ sé fosse Merlino (XV, 8)Ma i’ so ben che, s’e’ fosse leale (XVII, 9)E se per rima fosse il suo lamento (XXII, 12)Buon inconincio, ancora fosse veglio (XXIV, 1)

Lo stile di Rustico porterebbe a respinge-re l’hapax congetturale “forse” nel verso pre-so in esame.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,dicendo: “Lassa, che per fichi secchi

14 messa l’avre’ in casa il conte Guido”.

È la parte finale del sonetto, come appa-

re nella recente edizione di Domenico DeRobertis. La madre di Nella, moglie diForese, ha molti buoni motivi per addolo-rarsi della sorte toccata alla figlia: rimpiangefra le lacrime di non averla data in sposa auno dei conti Guidi. Si tratterà forse diGuido novello da Romena, un po’ spianta-to, irriso da Rustico anche nel sonetto XXIVper le sue presunte mire sulla dote di Diana,

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figlia del villano rifatto Cione del Papa. Sesi trattasse di uno dei Guidi che avevano illoro feudo principale nel castello diPorciano in Casentino, la comicità del pas-so risulterebbe più evidente, ma è tutto in-certo.

Dall’apparato critico del De Robertis(2002, pp. 452-456) si viene a sapere che nelChigiano figura “lassa che per”, ma “che” èintegrazione d’altra mano, e “lassa a meper” compare nella raccolta Bartoliniana,raccolta che al verso successivo legge “in ca-sa il conte” contro “in ca del conte” o “nca-sa del conte” degli altri testimoni. Dopo laparola “lassa” toglierei di mezzo il “che”, ametà fra il pronome relativo e la congiun-zione. Forse con tale inserimento qualcunomirava a eliminare, almeno in parte, l’allit-terazione “lassa a me… / messa…” contri-buendo però a far aumentare il numero dei“che”, presenti pesantemente dal v. 8 in poi.Preferirei perciò leggere:

“Lassa a me! Per fichi secchimessa l’avre’ in casa il conte Guido”.

spiegando: “Povera me! E pensare cheper una dote irrisoria l’avrei potuta accasarecol conte Guido”.

Assonanze, consonanze, allitterazioni esequenze allitteranti sono i segni più evi-denti della tecnica poetica di Rustico. Ne haparlato estesamente il Marrani (1999,Introd.). Risultano particolarità molto evi-denti, per esempio, anche in “Ècci venutoGuido ’n Compastello” e in “Guido, quan-do dicesti pasturella”, sonetti da me attribui-ti a Rustico insieme ai sei della Tenzone, par-ticolarità che rendono stilisticamente in-confondibili e riconoscibili con immedia-tezza tutte queste composizioni.

Aggiungo che la lezione della raccoltaBartoliniana appare affidabile anche per unaltro motivo: in questi due versi colpisce ilfatto che la madre di Nella, non certo unadonna qualsiasi, visto che è imparentata tra-mite la figlia con la famiglia nobile deiDonati, si esprima con il linguaggio tipicodelle popolane. Lo testimoniano soprattut-to “Lassa a me!” e “Per fichi secchi”. A un e-spediente simile Rustico ricorre per accre-

scere la comicità dell’insieme. Trovo la ri-prova di tutto questo nelle commedie po-polari senesi del ’500: espressioni come “Otrist’a me”, “O poverella a me”, “O infelicea me”, cui fanno frequente ricorso special-mente i personaggi femminili, hanno unpredominio netto, almeno nelle composi-zioni a me note (circa una quarantina), sualtre simili come “O trista”, “O infelice”, “Olassa”.

Sonetto IV

Ma ben ti lecerà il lavorare,se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco,

11 che col Belluzzo tu non stia in brigata.A lo Spedale a Pinti ha’ riparare;e già mi par vedere stare a desco,

14 ed in terzo, Alighier co la farsata.

Forese rinfaccia a Dante di vivere allespalle dei fratelli: se continua così, sarà de-stinato a finire all’ospizio di Borgo Pinti,dove indossando la “farsata”, il camicione,dovrà mangiare da uno stesso piatto con al-tri due poveri.

Il testo è quello del Barbi, accolto in tut-te le edizioni successive, compresa la mia(Stanghellini, Siena 2004).

Al v. 9 mi pare che si affacci una questio-ne testuale di rilievo. La lettura “ti lecerà”,congetturale, risale al Barbi. Nell’apparatocritico del Vitale (1956, p. 376 nota) si legge:

v. 9: “ben t’alletterà” (testo del Barbi “ben ti le-cerà”).

e in quello del De Robertis (2002, p. 454):

“lenera” (donde “t’alenerà”) per “lecerà”.

Ritengo poco bella e molto improbabilela congettura del Barbi che costringe a spie-gare “il lavorare” con “fare in modo di”(Vitale) e che oscura in parte la comicità chel’autore ha voluto immettere nel passo. Se“t’alletterà” è inaccettabile in base ai mano-scritti (il De Robertis tace al riguardo), “t’a-lenerà” (senza scartare troppo decisamente“ti lenerà”) è la lettura da accogliere in baseal sonetto cortese di Rustico XXXIX, 12:

Amor, merzé, ch’aleni lo mio pianto;20

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dove “aleni” può essere forma mediale (“simitighi”), ma potrebbe anche essere la “2a

persona del presente indicativo, riferita adAmor” (Mengaldo 1971, p. 98), quindi usa-ta transitivamente. Perciò leggerei:

Ma ben t’alenerà il lavorare

spiegando il passo così: “E quando final-mente ti deciderai a lavorare (ma prega Dioche ti campino tanto i tuoi fratelli), il fattoche non potrai frequentare come ora il tuozio Belluzzo ti renderà più lieve la fatica”.

Tutti i commentatori parlano di questozio come di un miserabile. Afferma ilContini (1960, p. 376 nota):

Che il Belluzzo fosse caduto in miseria, risul-ta solo dal nostro luogo.

Per questo preferirei intendere “sciopera-to”, “sfaccendato”, “dissipatore”. In qualun-que modo stia la cosa, è un’altra frecciatacontro Dante e la sua parentela: brutta gen-te tutti gli Alighieri.

L’elevata attendibilità della lezione “t’a-lenerà”, basata sui manoscritti, costituisceun’altra prova manifesta della paternità diRustico, da aggiungere alle altre già da me e-lencate (Stanghellini 2004, pp. 103-124).

Al v. 14 non riesco a capire la lettura delDe Robertis “Alighier co·lla far sata”, a me-no che non si tratti di un errore di stampaper “farsata”. Certo, se la parola qui generaqualche difficoltà (nella parafrasi ho resa laparola con “camicione”, ma qualche dubbiorimane), non c’è che da leggere “farrata”,minestra di farro.

Con “farrata” si perde un’immagine po-tentemente comica di Dante rivestito del-l’uniforme ospedaliera, ma la scena di lui edi altri due miserabili seduti davanti a un’u-

nica larga scodella da cui voracemente at-tingono la minestra di farro, è più coerentee accettabile. Semmai “farrata” sarebbe unhapax in Rustico, mentre “farso” si trova nelsonetto di Aldobrandino (XI, 2, 9).

Un’ultima notazione sul Barbi: non saròcerto io a mettere in discussione la sua famadi maggior italianista del primo Novecento.Tuttavia, quando ci si trova davanti a spie-gazioni come quella su “occi” (cfr. M.Stanghellini, 2000, pp. VII-X, 87-92) e acongetture come quelle viste sopra, apparelegittimo pensare che talvolta tirasse d’im-bracciatura, fidandosi troppo della sua espe-rienza e della sua abilità di grande filologo.

BIBLIOGRAFIA

M. BARBI, La tenzone di Dante con Forese, in“Studi danteschi”, IX (1924), pp. 5-149.

M. BARBI, Ancora della tenzone di Dante conForese, in “Studi danteschi”, XVI, (1932), pp. 69-103.

G. CONTINI, Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, vol. II.

D. DE ROBERTIS, D. Alighieri, Rime, a c. diDomenico D.R., Firenze 2002.

G. MARRANI, Rustico Filippi, Sonetti, in “St.di Fil. It.”, LVII, 1999, pp. 33-199.

P.V. MENGALDO, Rustico Filippi, Sonetti,Torino 1971.

M. STANGHELLINI, Nuove congetture e interpre-tazioni sul “Trecentonovelle” di Franco Sacchetti,Siena 2000, pp. VII-X, 87-92.

M. STANGHELLINI, Rustico Filippi, I trenta so-netti realistici, Siena 2004.

M. VITALE, Rimatori comico-realistici del Due eTrecento, Torino 1956.

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22Pio II difende le ragioni della Crociata alla Dieta di Mantova.

Particolare dell’affresco del Pinturicchio nella Libreria Piccolomini del Duomo di Siena

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Dal marzo al maggio del 1453, la città diCostantinopoli subì il tremendo assediodelle forze terrestri e navali mussulmaneguidate da Maometto II. Oltre 150.000 uo-mini strinsero in una letale morsa di fuoco igreci dell’imperatore Costantino XIPaleologo, 10 volte inferiori per numero elasciati al loro triste destino dalle altre na-zioni europee con la sola eccezione diGenova. Dopo una strenua resistenza gli as-sediati furono costretti ad aprire le portedella città e a subire una delle più clamoro-se e sanguinarie carneficine della storia, cul-minata con la morte dello stesso imperatorePaleologo.

Dopo molti secoli, cadeva così misera-mente l’Impero Romano d’Oriente e quellopotentissimo degli Ottomani ne prendeva ilposto insediandosi nella capitale bizantina.Contestualmente l’irrefrenabile espansioni-smo mussulmano aggrediva i Balcani e ilPeloponneso, mentre i corsari saraceni ini-ziavano a terrorizzare con le loro scorrerienavali le coste ioniche e tirreniche, giungen-do tavolta a saccheggiare perfino i porti e leisole della Toscana.

L’Europa che subiva pavida e divisa l’ag-gressione turca, mostrò un’assoluta incapa-cità a reagire. Solo il papato, con CallistoIII e poi con Pio II, che gli sarebbe successonel 1458, tentò di fermare l’invadenza del-l’impero ottomano, anche contrastandolamilitarmente. Specialmente il papa senesededicò gran parte delle sue attenzioni politi-che a quello che riteneva essere il principaledovere delle nazioni europee: il ricorso alle

armi per salvaguardare, con l’indipendenzadegli stati, la fede religiosa dei loro popoli.Alimentando la speranza di una grande cro-ciata della cristianità contro i Turchi, rivolseil suo massimo impegno a sensibilizzare ecoalizzare i popoli d’Europa, anche quelli icui confini non erano direttamente minac-ciati dall’espansionismo mussulmano.

A tal fine, nel 1459, convocò a Mantovauna dieta dei principi cristiani e mise in mo-stra non comuni capacità diplomatiche perconvincere i partecipanti, invero pochi econ poca autorità, a dare corso all’impresa.

Non i nostri padri, ma noi abbiamo lasciatoconquistare Costantinopoli, la capitaledell’Oriente dai Turchi. E mentre noi ce ne stia-mo a casa nostra in oziosa tranquillità, le armidi questi barbari penetrano fino al Danubio e al-la Sava. Nella città dei re dell’Oriente essi hannoammazzato il successore di Costantino insiemecon il suo popolo, sconsacrato i templi delSignore, gettate ai maiali le reliquie dei martiri,ucciso i preti, disonorato mogli e figlie, …. hannotrascinato nel loro accampamento l’immagine delnostro cricifisso Salvatore con derisione e schernoal grido di “Questo è il Dio dei Cristiani!” el’hanno insozzata con fango e sputi. L’oratoria,eloquente e impetuosa del pontefice con-cludeva amaramente: Per piccole cause i cri-stiani afferrano le armi e combattono battagliesanguinose; contro i Turchi, che bestemmiano ilnostro Dio, distruggono le nostre chiese, cercanodi estirpare del tutto il nome cristiano, contro diloro nessuno vuole alzare un dito” (da Ritrattodi E. S. Piccolomini, di E. Garin, in BullettinoSenese di Storia Patria, LXIV – 1957, p. 23).

Con questo articolo l’Accademia dei Rozzi intende parteciparealla celebrazione dei 600 anni dalla nascita di Enea Silvio Piccolomini,pontefice tra i più grandi della storia e figura di assoluto livello europeonella cultura del Quattrocento.

Tra fede e politicaUno scritto poco conosciutodi Pio II ai senesidi ETTORE PELLEGRINI

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Accolte dall’ostilità di molti, dall’insoffe-renza dei Fiorentini e dei Veneziani che aCostantinopoli avevano comunque mante-nuto forti interessi commerciali, dalle reci-proche diffidenze, le veementi parole delpapa senese caddero nel vuoto, ottenendosolo consensi effimeri.

Cinque anni dopo, pur essendo grave-mente malato, volle recarsi ad Ancona, ani-mato da un’indomita fiducia nella possibi-lità di dare esecuzione all’immane progetto.Ma nella città marchigiana, dal cui porto laflotta cristiana sarebbe dovuta finalmentesalpare alla volta dell’oriente, la morte locolse pochi giorni dopo l’arrivo delle naviinviate dalla Repubblica di Venezia, che fu-rono immediatamente ritirate.

Il breve ai Senesi che qui si pubblica rien-tra nell’infaticabile azione di convincimen-to condotta dal pontefice nei confronti de-gli stati europei, per indurli a sostenere ilsuo progetto con la necessaria assistenzamilitare e logistica. Nonostante che i suoiconcittadini non fossero particolarmenteaccondiscendenti verso le sue richieste, ilPiccolomini desiderava fortemente cheSiena, sua patria, partecipasse in modo tan-gibile alla crociata e in occasione delle suevisite alla città non mancò di contestarepersonalmente i pregiudizi contro l’impresache gli stava tanto a cuore.

Una prima invero modesta disponibilitàdel governo senese che non aveva soddisfat-to il pontefice, lo indusse, nel 1461, a insi-stere nuovamente sull’opportunità dell’ini-ziativa e ad inviare il breve con l’auspicioche “oratores nostros ad nos remittatis cummeliori responso”.

Successivamente, avvicinandosi la dataper il concentramento in Ancona della spe-dizione, i Senesi stabilirono di aumentaresensibilmente la prevista assegnazione fi-nanziaria e pure di armare due galere “benein ponto” - come ricorda il Tommasi (Dell’historie di Siena, Siena, 2004, p. 212) -,affidandone il comando a Giovanni Bini eOrlando Saracini, ai quali il Capitano delPopolo nel corso di una cerimonia in piazzadel Campo consegnò solennemente le inse-gne della Repubblica da issarsi sulle navi.

La morte del pontefice sancì l’inesorabi-le fallimento della crociata ed è facile im-maginare che avesse pure spinto i Senesi adabbandonare il loro progetto navale.

Il breve ai Senesi di Pio II, nell’offrire unulteriore attestato della determinazione concui il pontefice sosteneva il progetto dellacrociata, sembra tuttavia lasciare un’ombrasulla sua intelligenza politica. Perché, infat-ti, il Piccolomini insisteva sulla necessità di

Pio II e l’imperatore Federico III in unaxilografia tardo-quattrocentesca

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PIO II AI SENESI

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26Pio II giunge ad Ancona nel luglio del 1464 per benedire la partenza della Crociata

Particolare dell’affresco del Pinturicchio nella Libreria Piccolomini del Duomo di Siena

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contrastare militarmente il pericolo turco,quando proprio grazie alla sua spiccata sen-sibilità negli affari internazionali e alla suaprofonda conoscenza della storia avvertivatutte le difficoltà insite nel tentativo di coa-lizzare militarmente gli stati cristiani?

Come poteva pensare di sconfiggere unnemico allora tanto potente come l’imperoottomano e un personaggio così abile e for-te come Maometto II, con un esercito rac-cogliticcio, diviso e poco voglioso di batter-si? Di amalgamare stati in lotta tra sé e diffi-denti nei confronti dello stesso pontefice?Di sopperire alla latitanza dell’Impero econseguentemente alla mancanza di un co-mandante supremo in grado di dare unitàd’azione e credibilità strategica all’impresa?

Certamente si rendeva conto dei tantiproblemi, ma non si scoraggiò e invece dirifugiarsi in una confortevole rinuncia, vol-le e seppe tentare altre strade.

Non dimentico della missione pacifica-trice della chiesa e consapevole delle nonmodeste capacità di convincimento in suopossesso, decise infatti di rivolgersi perso-nalmente a Maometto II con un preciso emotivato invito ad abiurare la propria fedee ad abbracciare la religione cattolica. Aquesta condizione, dall’alto della sua auto-rità pontificia, avrebbe potuto investire ilsovrano turco della corona imperiale che fudi Costantino. Una proposta forse utopica,ma frutto di una felice intuizione di EneaSilvio, al quale, in caso di successo, nessunoavrebbe potuto togliere il merito di aver pri-vilegiato la strategia della diplomazia per ri-stabilire l’Impero Romano d’Oriente e di a-ver evitato il pur sempre negativo ricorso al-le armi per riaffermare la supremazia dellaChiesa cristiana.

Pio II argomentò il suo invito al sovranoturco in uno degli scritti più celebri – certa-mente e giustamente assai più del nostrobreve -: in quella Lettera a Maometto II che,probabilmente, non fu mai letta dal desti-natario, ma ridestò nel mondo cristiano at-tenzioni e ripensamenti proficui, costituìun esercizio letterario di altissima qualitàformale e offrì alla cultura del tempo unostudio, profondo ed analitico, della dottrina

coranica comparata a quella cristiana, cheanche recentemente è stato oggetto delcommento di illustri critici. Un trattato informa di lettera attualizzato dalla constata-zione che la situazione internazionale nonsia oggi molto diversa da quella del lontano1461 e soprattutto destinato a mettere benein evidenza le eccelse doti intellettuali diPio II, non solo come pontefice illuminatoe letterato sensibile alla culturadell’Umanesimo – già ben si conoscevano -ma anche come politico attento e lungimi-rante.

La Lettera non va infatti letta in manife-sta contraddizione con la volontà di azionetanto fortemente propugnata dalPiccolomini, bensì come una riaffermazio-ne in senso pragmatico e teocratico dell’au-torità universale della Chiesa. Una genialemossa propagandistica ad esaltazione delpotere spirituale del papato per mezzo dellarinnovata consacrazione religiosa di quellotemporale: atto formale, rappresentato dal-l’imperatore genuflesso davanti all’erede diPietro nel momento dell’investitura, che a-vrebbe significativamente confermato laguida morale del pontefice nelle questionieuropee come in quelle asiatiche, e favorito,con la ritrovata unità tra chiesa e impero, lacreazione di un baluardo contro la crescen-te secolarizzazione.

In questi principi è possibile individuareun contributo dottrinario e filosofico basi-lare per quella che sarà l’ideologia dellaChiesa nel Rinascimento, esaltando ancorpiù la figura di papa Piccolomini tra i gran-di europei del XV secolo.

Per saperne di più:Franz Babinger, Pio II e l’Oriente maomet-

tano, in “Enea Silvio Piccolomini Papa PioII” a cura di Domenico Maffei, Siena,Accademia Senese degli Intronati, 1968.

Luca D’Ascia, Il Corano e la tiara,Bologna, Ed. Pendragon, 2001

Eugenio Garin, Ritratto di Enea SilvioPiccolomini, in Bullettino Senese di StoriaPatria, LXV (1958), pp. 5-28.

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Il Sodoma, La decapitazione di Niccolò di Tuldo, Siena, San Domenico, Cappella di Santa Caterina.

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I

Fa parte del ciclo di affreschi dellaCappella di Santa Caterina, nella chiesa diSan Domenico, una scena con laDecapitazione di Niccolò di Tuldo1. Si tratta diun episodio realmente accaduto nella Vitadi Santa Caterina, e cioè l’esecuzione capita-le di un giovane cittadino di Perugia, accusa-to di cospirazione politica2. Tempi e luogodell’evento sono documentati: esso avvenneinfatti nel 1375 a Siena. Ma guardando que-sta scena non si può certo dedurre cheSodoma puntasse palesemente all’esattezzastorica, al contrario. I due imponenti perso-naggi in primo piano indossano vesti di sol-dati romani dell’antichità, per contro se nepossono vedere altri in vesti contemporaneeo in armatura del primo Cinquecento: tantol’uno quanto l’altro, dunque, anacronismiche non individuano certo nello scorcio fi-nale del Medioevo l’epoca in cui la decapita-zione raffigurata ebbe effettivamente luogo.Si può affermare allora che Sodoma dispon-ga liberamente e in modo del tutto fantasio-so del luogo dell’azione come pure dell’epo-

ca a cui essa risale? o, in altri termini e piùsemplicemente: rivela l’artista che il fatto av-venne a Siena? Gli studiosi sinora hanno i-gnorato tale quesito o si sono pronunciati insenso negativo, escludendo cioè esplicita-mente che il paesaggio possa alludere diret-tamente alla topografia senese3.

D’altra parte, un indizio che spinge a ri-tenere che si faccia riferimento a Siena ci èofferto dai due conventi medievali sullasommità delle colline raffigurati con pecu-liarità specifiche e chiaramente distinti. Se liosserviamo più attentamente, riconoscere-mo due edifici che esistono tuttora a Siena.È vero che non hanno attraversato indennie immuni da cambiamenti il mezzo millen-nio che li separa dalla realizzazione degli af-freschi, tuttavia le loro caratteristiche indivi-duali sono così evidenti che entrambi gli e-difici si possono identificare con sicurezza.Osserviamo anzitutto sul lato sinistro lachiesa che ha subito minori trasformazioni:la sua facciata, priva di decorazioni, rispec-chia la sezione di un edificio con un’alta na-vata centrale e due navate laterali più basse.

Santa Caterina sul“luogo della giustizia” di SienaUn ritratto topografico del Sodomadi WOLFGANG LOSERIES (Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut, Firenze)

1 Questo breve saggio è tratto dalla mia conferen-za “Un theatrum sacrum del Sodoma: la Cappella diSanta Caterina” tenuta nell’ambito del convegno“Siena nel Rinascimento: l’ultimo secolo dellaRepubblica” organizzato dall’Università degli Studidi Siena, University of Warwick, Centro WarburgItalia e dall’Accademia Senese degli Intronati a Siena,16-18 settembre 2004, e sta uscendo in versione inte-grale con gli Atti del convegno. Nel frattempo, unaprima versione della conferenza, presentata a un con-vegno sulla rappresentazione del paesaggio nell’arteeuropea dal 1400 al 1600, organizzato dall’Universitàdi Torun nell’ottobre del 2003, è apparsa in lingua te-desca negli Atti del convegno, col titolo Landschaft -Vedute – Bühnenprospekt. Sodomas Fresken in derKatharinenkapelle von San Domenico in Siena, in: Pejzaz.

Narodziny gatunku 14 00-16 00. Materialy sesjinaukowej 23-24 X 2003, a cura di Sebastian Dudzik eTadeusz J. Zuchowski, Torun 2004, pp. 162-182.

Sulla storia e l’arredo della Cappella di SantaCaterina si vedano i contributi di I. Bähr, P.A. Riedl,S. Hansen e W. Loseries, in: Die Kirchen von Siena, acura di P.A. Riedl e M. Seidel, vol. 2.1.2, Oratoriodella Carità-S. Domenico, Monaco di Baviera 1992,pp. 562-588.

2 A.I. Galletti, ‘Uno capo nelle mani mie’: Niccolò diToldo, perugino, in: Atti del simposio internazionalecateriniano-bernardiniano, Siena, 17-20 aprile 1980, acura di D. Maffei e P. Nardi, Siena 1982, pp. 121-127.

3 P.A. Riedl, in: Die Kirchen von Siena, op. cit., p.580.

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Al centro si apre un portale rettangolare e aldi sopra, perfettamente in asse, una grandefinestra circolare. Si nota vistosamente iltetto a capanna sopra la navata centrale,con delle aperture praticate sotto le falde. Adestra della facciata e in posizione legger-mente più avanzata si innalza uno slanciatocampanile, e sul fianco destro della chiesa sivedono altri edifici. Tutte queste caratteristi-che osservate corrispondono soltanto a unachiesa a Siena, quella di Santa Maria deiServi. Il suo aspetto attuale coincide sostan-zialmente ancora con quello degli inizi delCinquecento. Essa è ben riconoscibile infat-ti nella pianta della città di Francesco Vanniincisa intorno al 15974 o in un anonimo di-pinto nella collezione senese ChigiSaracini5. E antiche fotografie mostrano

che, prima delle trasformazioni di gusto sto-ricistico, operate nel 1926/27 sulla cuspidestondata del campanile, la corrispondenzaera anche maggiore di quanto non sia ora6.

Uno sguardo alla seconda chiesa nellascena non può non cadere sul coro e sullanavata. Lateralmente, davanti alla facciata anoi non visibile, si innalza isolato il campa-nile dalla cuspide pure stondata e coronatadi merli. Chiaramente riconoscibili sono ibracci trasversali più bassi a due campateaccanto al coro, come anche i contraffortiche contribuiscono alla stabilizzazione delcomplesso, resa necessaria dal fatto che essosorge su un declivio. Infine, si vedono altriedifici adiacenti che – osservati dalla nostraprospettiva – sono costruiti a sinistra della

4 E. Pellegrini, L’iconografia di Siena nelle opere astampa. Vedute generali della città dal XV al XIX secolo,catalogo dell’esposizione, Siena, Palazzo Pubblico, 28giugno – 12 ottobre 1986, Siena 1986, pp. 105-109.

5 A. Brilli, Viaggiatori stranieri in terra di Siena,Siena e Roma 1986, tav. LX.

6 Cfr. le illustrazioni in P. Bacci, “Il campanile deiServi e la torre del Castel di Montone”, in: Rassegnad’arte senese e del costume, XX, N.S. I, 1927, pp. 77-84;Siena negli Archivi Alinari, catalogo della mostra, a cu-ra di G. Huebner, Firenze 1984, p. 68; L. Betti e A.Falassi, Com’era Siena, Siena 1993, p. 57.

Particolare della veduta di Siena di Francesco Vanni col Val di Montone e i conventi di Santa Maria dei Servi e Sant’Agostino.

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chiesa. Anche qui una sola chiesa senesepuò essere chiamata in causa, e cioèSant’Agostino. Negli ultimi cinque secoliSant’Agostino ha subito trasformazioni piùvistose di Santa Maria dei Servi: rifacimentisi ebbero in epoca barocca e, dopo un terre-moto, all’inizio dell’Ottocento il campaniledovette essere abbattuto7. Anche in questoedificio le corrispondenze con l’affresco diSodoma sono ugualmente evidentissime,soprattutto se si prendono in considerazio-ne vedute e disegni antichi: si osservi, ad e-sempio, la chiesa di Sant’Agostino nellapianta del Vanni o i progetti di ricostruzio-ne dell’architetto Agostino Fantastici, cheancora mostrano l’antico Campanile8.

Sodoma ha rappresentato qui in manierariconoscibile due edifici concreti, ha cioècreato due ritratti architettonici. E non solo.Il pittore ha riprodotto fedelmente anche lasituazione topografica dei due conventi. Adessere rappresentata è la parte meridionale diSiena, la Val di Montone, una valle che si a-pre nella campagna e che ancora oggi è pergran parte non edificata, chiusa com’è late-ralmente da due colline, su ciascuna dellequali rispettivamente si erge una chiesa, ap-punto Santa Maria dei Servi e Sant’Agostino.

II

Il paesaggio nel quale la scena è ambien-tata era dunque familiare all’osservatorecontemporaneo. Era ed è infatti il panora-ma che si gode dal Mercato Vecchio, sul la-to posteriore di Palazzo Pubblico verso laToscana meridionale. Lo sguardo dell’osser-vatore dalla città si apre verso il paesaggio,su cui si staglia in lontananza la montagnapiù alta della Toscana meridionale, il MonteAmiata. Anche questo vistoso rilievo com-pare nell’affresco di Sodoma nello sfondo,sebbene quasi nascosto dalla testa sollevatadel condannato. Perché però proprio questoscorcio di Siena e non un altro, ad esempio,quello con la chiesa di San Domenico, chenella vita di Santa Caterina era ben più im-portante rispetto alle chiese raffigurate diSanta Maria dei Servi e di Sant’Agostino? Larisposta è semplice: nella Val di Montone eper la precisione all’imbocco della valle, nel-la zona del Mercato Vecchio lì situato, soli-tamente avevano luogo a Siena le esecuzionicapitali. Ciò avveniva già nel Trecento e an-cora al tempo di Sodoma: “… fu tagliata latesta in Val di Montone” si legge in una cro-naca dell’anno 1390 o in un altro passo,sempre riferito allo stesso anno, “… li fe ta-gliare la testa in Val di Montone”9. Nel 1526,

7 Sulla storia edilizia di Sant’Agostino vedi H.Teubner, in: Die Kirchen von Siena, a cura di P.A. Riedle M. Seidel, vol. 1.1, Abbadia all’Arco-S. Biagio,Monaco di Baviera 1985, pp. 21-54.

8 Die Kirchen von Siena, a cura di P.A. Riedl e M.Seidel, vol. 1.2, Abbadia all’Arco-S. Biagio, Monacodi Baviera 1985, fig. 10.

9 Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti,Bologna 1931-1939 (L. Muratori, Rerum ItalicarumScriptores. Raccolta degli storici italiani dal cinquecento almillecinquecento, nuova edizione riveduta ampliata e

corretta, tomo XV, parte VI), pp. 732, 734. Le esecu-zioni in Val di Montone si svolgevano anche davantialla porta della città. Per gli anni 1334-1335 la cosid-detta Cronaca Maggiore riferisce: “Sanesi facevano farela justitia nel canpo del mercato e fenvi fare una fossadove riceveva il sangue; e poi conproro uno pezo diterra da’ figliuoli del Contino Maconi per farvi la det-ta Justitia, il quale è fuore a la porta di Valdimontone,che ogi si chiama la porta a la justitia, che fu serata euopresi quando si fa justitia”. Ibidem, p. 513.

Particolare da La decapitazione di Niccolò di Tuldo conSanta Maria dei Servi.

Particolare da La decapitazione di Niccolò di Tuldo conSant’Agostino.

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appunto nell’anno in cui Sodoma appose ladata sui suoi affreschi nella cappella di SantaCaterina, furono compiute nel MercatoVecchio cinque esecuzioni10. Qualsiasi osser-vatore del tempo, vedendo i dipinti murali,avrà riconosciuto subito il luogo dell’azione.

C’è da aggiungere inoltre che in questoSodoma si è conformato alla fonte letterariaa cui è ispirata la sua rappresentazione. Ladecapitazione di Niccolò di Tuldo avvennea Siena e viene descritta dalla stessa SantaCaterina in una lettera al suo padre confes-sore Fra Raimondo da Capua11. La Santa as-sistette l’infelice condannato a morte che la-mentava a Dio la propria sorte e cercò disalvare la sua anima promettendogli: “E iot’aspetto al luogo della giustizia”12. Caterinaracconta che si presentò ancora presto sullapiazza dell’esecuzione e che il luogo si sa-rebbe poi riempito di una folla così nume-rosa che in quella ressa ella inizialmentenon riusciva a distinguere il condannato. LaSanta dispensò parole di conforto, seppe ri-conciliare Niccolò col suo destino, infinene sostenne fra le sue stesse mani la testamozzata e insanguinata, come inebriata

dall’“odore di sangue, che io non potevosostenere di levarmi il sangue, che mi eravenuto addosso di lui”13.

III

La scelta di questo scorcio di Siena èquindi condizionata dalla storia narrata. Ilpaesaggio nell’affresco ha con ciò anche u-na funzione iconografica: esso contraddi-stingue un luogo concreto e ben riconosci-bile dall’osservatore della scena, luogo nelquale si compie l’evento. Come abbiamogià osservato, Sodoma del tutto consapevol-mente non persegue un obiettivo di esattez-za storica. Dovendo illustrare un episodiodel Trecento, egli ricorre a personaggi vestitiin abiti tanto dell’antichità romana quantocinquecenteschi. Del resto non si può di-menticare che nella pittura delRinascimento in genere c’era una certa li-bertà nel modo di vestire i personaggi14.Questo approccio libero dai vincoli di ade-renza storica lo ravviso anche nella rappre-sentazione del paesaggio: tanto pocoSodoma si è preoccupato dell’esattezza sto-

10 Biblioteca Comunale di Siena, ms. A.IX.46,Compagnia di S. Giovanni Battista della morte di Siena.Libro di memorie dei giustiziati e di cose lasciate allaCompagnia, dal 1461 al 1580, cc. 39v.-40v.

11 S. Caterina da Siena, Le lettere, a cura di D.U.Meattini, Milano 1987, pp. 1147-1151, n. 273.

12 Ibidem, p. 1149.13 Ibidem, p. 1150.14 Si veda R. Haussherr, Convenevolezza. Historische

Angemessenheit in der Darstellung von Kostüm undSchauplatz seit der Spätantike bis ins 16. Jahrhundert,Wiesbaden 1984, pp. 28-34.

Siena,Val di Montone con Santa Maria dei Servi prima dei restauri iniziati nel 1927

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rica, altrettanto poco egli si è sforzato di cu-rare la precisione topografica. Il suo dipintonon vuole essere una fedele documentazio-ne né di un evento storico, né del luogo incui si compie, anche se è rappresentato conrispetto dell’esistente. Importante per il pit-tore è solo che il significato dell’evento siacomprensibile all’osservatore, ciò che contaè quindi la sua riconoscibilità. Ed essa è resapossibile nonostante gli effetti di accentua-zione drammatica ottenuti sia nell’azioneche nel paesaggio sullo sfondo. Come nellarappresentazione dell’evento storico, anchenel modo di trattare il luogo Sodoma siconcede alcune licenze artistiche. Il dolcedeclivio della Val di Montone in Siena nel

suo dipinto è reso drammaticamente più a-spro: le due colline si ergono ripide, si scor-gono erte rupi rocciose e corsi d’acqua chescorrono a valle. L’effetto drammatico è ac-cresciuto anche dal bizzarro albero rinsec-chito sulla sinistra nello sfondo, come an-che dal cupo cielo del mattino con le suenuvole scure. Tuttavia, malgrado questi ele-menti di straniamento si è sostanzialmentepreservata l’identità topografica del paesag-gio. Sono dovuti trascorrere però cinque se-coli perché, nel prospetto paesaggistico im-maginato da Sodoma nella Cappella diSanta Caterina, noi oggi potessimo ricono-scere uno scorcio di Siena.

33Siena, convento e chiesa di Sant’Agostino

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34 Ritratto di Fausto Sozzini in una stampa del XVII secolo

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In piena guerra (l’euforia è al massimoper i bollettini pieni di buone notizie dalfronte africano eppure mancano pochi mesialla sconfitta di El Alamein che sarà perl’Italia il “principio della fine”, per la GranBretagna “la fine del principio”) il 30 di giu-gno del 1942, un sabato, Siena assiste ad unsingolare spettacolo che non aveva prece-denti e non ebbe seguiti: una specie di cor-teo storico del Palio sfilò in Piazza delCampo con il carroccio, i buoi, e le com-parse delle Contrade e le rappresentanze co-munali.

In onore di chi?È un episodio che merita un cenno e per

qualche senese, non più giovane, un fram-mento di memoria. Nell’ultima settimanadi quel giugno si svolse in Firenze una ma-nifestazione culturale italo-tedesca, il“Ponte Weimar-Firenze” con discorsi, in-contri di professori universitari e di studen-ti, con vari e interessanti accenni ad unnuovo ordine europeo. La eccezionalità del-la manifestazione, credo unica in quel pe-riodo, fu la presenza di numerosi giovanirappresentanti la Germania e gli Statidell’Asse e le nazioni sottomesse con i lorocollaborazionisti: giovani tedeschi, spagno-li, olandesi, belgi, ungheresi, romeni, croati,slovacchi, finlandesi, norvegesi, danesi, al-banesi e, ovviamente, italiani: gli sloveni e-rano divisi tra italiani e tedeschi, i polacchinel terrore, i giapponesi sono lontani, note-vole è l’assenza dei francesi di Vichy e dellaFrancia occupata. Alcuni giovani appartene-vano quindi a Paesi dove era in atto unaResistenza e il cui legittimo Governo (olan-desi, belgi, norvegesi) stava a Londra, altriper esempio gli spagnoli, ad uno Stato nonbelligerante, infine i sudditi di Stati sotto-messi e satelliti.

Sulla cronaca di Siena nella Nazione del19 giugno Piero Barblani Dini scrisse con

entusiasmo di questo “Ponte” culturale e il26 giugno sia la Nazione che il Telegrafo ri-portarono la grande notizia: “L’omaggio diSiena ai partecipanti alle manifestazioni fio-rentine. Le Contrade nei costumi storici sfi-leranno nel Campo”, appena vinta la guerrasi sarebbe corso il Palio, per ora i giovani o-spiti avrebbero visto “secondo gli accorditra le Autorità e il Magistrato delleContrade” sfilare mazzieri, vessillifero, mu-sici, le comparse delle Contrade, carro ditrionfo, armigeri; al termine la sbandieratacollettiva in onore agli ospiti. Si invitò lacittadinanza a presenziare per esprimere uncaloroso saluto con “l’austerità che il mo-mento richiede” (difficile spiegarsi cosa siintendesse), ma offrendo con l’omaggio delpopolo senese agli ospiti in un “tono fervi-do e spontaneo che conviene” (per la manife-stazione un po’ paliesca). Naturalmente il30 di giugno i giornali si aprirono propriocon la rifrittura “Siena apre il suo grandecuore”. Lo spettacolo avvenne nel Campo(all’ora di pranzo) e i giovani ospiti avverti-rono cordialità e amicizia là dove furono in-vitati nel balcone degli Uniti e in altre ter-razze, mentre i feriti di guerra e i militari i-taliani ebbero posto nei palchi, i cittadini inpiazza; applausi e acclamazioni (vedere labandiere della propria Contrada alla boccadel Casato avrà commosso non pochi sene-si) lungo l’intera sfilata che si concluse ap-punto con una sbandierata collettiva davan-ti al Palazzo Comunale; e tanti applausi agliospiti lungo le vie della città proclamandocosì “il più profondo spirito di comprensio-ne per l’epica gigantesca lotta del Tripartitoe le Nazioni alleate [alleate con laGermania] per dare al mondo una più am-pia giustizia sociale”. L’intera giornata fu as-sai impegnativa. Sfilata “marziale” dalla sta-zione (quella bella non ancora distrutta daibombardamenti) alla cripta di S. Domenico 55

Giovani nazionalsocialistie Contradedi ENZO BALOCCHI

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dove stavano le arche con i fascisti senesimorti nel ’20 e ’21 nei sanguinosi conflitticon i socialisti e i comunisti. Qui si cantò laPreghiera del Legionario e vi fu forte com-mozione: inquadro in questo momento losvenimento emotivo di una giovane hitle-riana descrittami da un amico presente: chesentimentali e romantici questi germanicianche nazionalsocialisti! Poi ricevimento inComune: il Podestà era alla guerra volonta-rio (tra tanti che ne parlavano…) e il salutofu dato dal vice podestà Casini che conclu-se ai camerati: il Palio sarà corso quando ilmondo sarà “liberato dalla plutocrazia”. Lavisita al Palazzo fu guidata dal sempre pre-sente segretario generale Baggiani. Dopo lospettacolo refezione cameratesca inFortezza con canti e balli folkloristici: alle-gria, di certo, erano tutti assai giovani (chedestino incombeva sulle loro fresche vite?).

Poche ore senesi dunque. Sui pennoniposti nel Campo sventolavano le bandieredi tutti i paesi partecipanti: trascorrevanodue anni appena e a garrire saranno le ban-diere Alleate.

Il ringraziamento a Siena verrà dal vicecomandante delle G.I.L. Orfeo Sellani, leaccoglienze di Siena avevano lasciato negliospiti “una impressione indimenticabile”.Siena esultava anche perché il Duce avevaconcesso a Siena la Facoltà di lettere, ago-gnatissima, che prcorrerà ben altro iter e a-vrà ben diversi patroni!

Potrà apparire strano, ma le cronache piùsobrie dell’avvenimento si leggono nel fo-glio ufficiale senese del Partito “LaRivoluzione fascista” sia pure corredate dafoto. Foto e notizia anche su “Gioventù se-nese, Gioventù Italiana del Littorio Siena.Ordine del giorno del Comando Federale,anno III n. 1 del novembre 1942 XXI”, do-ve Pasquale Pennisi descrive le prospettiveeuropee già accennate in altri numeri delperiodico, pure riportando uno scritto da“Critica Fascista” attribuibile al ministrocons. naz. Bottai con velatissime critiche acerti metodi educativi (della G.I.L.?) e sper-ticate lodi per lo svolgimento del convegnofiorentino.

Lo stesso periodico della G.I.L. riporta ilprogramma della giornata senese.

Pensavano all’Europa? Senza libertà e di-ritti civili? Con gli slavi considerati uominiinferiori? Con gli ebrei sterminati? Forsepensavano ad un’Europa così, terribile; po-chi anni ancora e il sogno o incubo si in-frangerà nel disastro militare.

E veniamo ai retroscena – ma non tanto– della manifestazione del 30 giugno.

Il 3 giugno 1942 il capo politico dellacittà, il Segretario Federale conz. naz. LuigiSommariva scrive al Podestà proponendo ilprogramma della iniziativa e riferendosi agli“accordi verbali intercorsi”: era intervenutadunque una ovvia previa intesa politica insede di Partito. In pari data Sommariva (cheappare nel suo ruolo di ComandanteFederale della G.I.L.), a firma del suo vice,scrive al Rettore del Magistrato delleContrade, conte Guido Chigi Saracini, pro-ponendo il corteo con la sbandierata in o-nore dei quasi mille ospiti.

Il 4 giugno Chigi risponde che ha convo-cato i Priori per decidere e prendere accordicol Podestà pur affermando “non com-prendo come possa effettuarsi il Corteosenza l’arredamento completo del Campo”.Forse non era la risposta che il Federale siattendeva! (Il “conte” non godeva fama diessere un entusiasta fascista, ma insommaviveva allora e gli premeva la musica).

Le lettere della Federazione danno alChigi regolarmente del “Voi” e sono attra-versate dal motto Vincere, il conte rispondeall’antica alla S.V. Il Magistrato si aduna l’8di giugno (stranamente la data è errata):

“Adì [16] Giugno 1942 – XX°Ad ore 16.30 del soprascritto giorno si è adu-

nato d’urgenza il magistrato sotto la presidenzadel Rettore Conte Guido Chigi Saracini, per co-municazioni urgentissime del Rettore.

Sono intervenutiAquila – Avv. Tailetti PrioreCivetta – Avv. Ricci PrioreIstrice – Avv. Manenti Pro VicarioLeocorno – Dott. Grassi PrioreLupa – Dott. PrioreNicchio – Guerrini VicarioOca – Prof. Raselli GovernatoreOnda – Rag. Silvietti PriorePantera – Rag. Pagni PrioreSelva – Avv. Vegni PrioreTartuca – Rag. Tamburi Vicario 56

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Scusa l’assenza il Priore della Contrada dellaChiocciola Rag. Tuci.

Essendo il numero dei presenti sufficiente perpotere deliberare il Rettore dichiara aperta la se-duta.

Assiste all’adunanza debitamente invitato ilVice Podestà Avv. Alessandro Casini.

Si omette la lettura del Verbale dell’adunanzaprecedente.

…………..Il Rettore presenta e fa dare lettura di una let-

tera pervenutagli in data 3 cor., nella quale ilSegretario Federale Sommariva comeComandante Federale della G.I.L. informa cheil 30 cor. giungeranno a Siena in gita istruttiva icomponenti le Missioni straniere partecipanti al-le manifestazioni culturali internazionali indettee organizzate dal Comando Generale dellaG.I.L. in Firenze: le Missioni che rappresentano14 Nazioni europee saranno costituite da circaun migliaio di componenti. Per rendere agli ospi-ti più gradita la visita e far loro conoscere le piùbelle tradizioni senesi, il Comando Federale ri-chiede che nell’occasione possa essere effettuato ilCorteo Storico delle Contrade e la visita alle sedidi alcune di esse.

Su tale richiesta apre la discussione, che divie-ne subito assai animata, partecipandovi quasitutti i presenti.

Si delineano varii pareri, pure essendo tuttifavorevoli a che le Contrade effettuino la richiestaOnoranza, discordando però nella forma cui deb-ba eseguirsi. Alcuni, specialmente Tailetti,Tamburi e Monti, esprimono il parere che debbacorrersi il Palio, mentre altri, , Grassi, RicciCampana si oppongono alla Corsa tradizionaleper le attuali emergenze e per esservi l’ordinanzapodestarile che sospende il Palio per tutta la dura-ta della guerra attuale. Altri opinano che ilCorteo nel Campo sia inopportuno anche per l’o-ra indebita, il mezzogiorno e propongono che sifaccia una sbandierata collettiva in Piazza delDuomo. Mazzeschi insiste che non avvenga lavisita alle sedi delle Contrade per ovvie ragioni.Chiusa la prolungata discussione, Raselli formu-la il seguente Ordine del giorno.

Il Magistrato, mentre aderisce unanime all’ef-fettuazione della richiesta Onoranza alleMissioni Straniere, considerando che il fare svol-gere nella Piazza del Campo, come in program-ma, lo Storico Corteo, per l’occasione di troppi e-

lementi e non fatto seguire dal suo naturale epilo-go, la Corsa del Palio, non corrisponderebbe alsentimento e alla sensibilità della cittadinanza, ene pregiudicherebbe la riuscita, anche per l’oraimpropria che esclude per l’ambiente la massadella folla popolare necessario complemento perdare l’impressione esatta del rito tradizionale, de-libera: Che la manifestazione invece che nelCampo si svolga nella Piazza del Duomo, doveegualmente potrà sfilare tale Corteo delleContrade così limitato e compiersi la ritualeSbandierata d’Onore secondo le modalità cheverranno concordate; che siano da escludersi peralcune ovvie ragioni le visite ad alcune Sedi postein programma.

Qualora però il Comando Federale dellaG.I.L. insieme alle altre autorità competenti rite-nesse opportuno che malgrado il grave momentodelle attuali contingenze si effettuasse la Corsa delPalio, accompagnato naturalmente dal CorteoStorico al completo, le Contrade non avrebberonulla da opporre; poiché soltanto così potrebbe es-sere data agli Ospiti la sensazione vera del rito edell’anima senese.

Messo ai voti di 16 presenti, essendosi assen-tato il Rettore della Contrada del Bruco, resulta-no approvati all’unanimità i primi due comma.Al terzo comma danno voto contrario palese iPriori Grassi, Manenti, Mazzeschi, Paghi, RicciCampana.

Il Rettore si incarica di comunicare subito alSegretario Federale Sommariva ComandanteFederale della G.I.L. e al Vice Podestà tale delibe-razione.

Dopo di che viene tolta l’adunanza ad ore20.30.”

Il Giorno dopo, 9 giugno, il Chigi rendenote le decisioni del Magistrato proponen-do Piazza del Duomo, escludendo la visitaad “alcune” Contrade e, ma è una evidenteprovocazione, niente da opporre alla effet-tuazione di un Palio se le Autorità lo voles-sero.

Ma il Federale non ci sta e si può imma-ginare un po’ inquieto e certo sorpreso.

Il Magistrato si aduna di nuovo il 16 giu-gno:

“Si passa quindi a trattare l’affare per cui èstata espressamente convocata la presente adu-nanza, circa l’Onoranza alle DelegazioniStraniere. 57

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Il Rettore riferisce che egli recò personalmentela deliberazione presa dal Magistrato nella prece-dente adunanza al Segretario Federale, il qualedichiarò di non poter accettare la proposta di ef-fettuare la progettata Onoranza in Piazza delDuomo ritenendo la località inadatta per ragionidi opportunità, specialmente per il fatto che ilVice Podestà allo scopo di rendere più completo ilCorteo delle Contrade ha disposto che vi si ag-giunga il Carro di Trionfo tirato da buoi, per ilcui percorso in Piazza del Duomo non si prestain modo assoluto. Il Vice Podestà conferma que-sta sua disposizione e spiega le ragioni per le qua-li anch’egli ritiene che la Sfilata delle Contradedebba svolgersi nel Campo, dove sarà eretto an-che il consueto palco delle Comparse e così puresaranno eretti palchi per i componenti leDelegazioni e per un ragguardevole numero di fe-riti di guerra che potranno così godere dell’ecce-zionale spettacolo, invita pertanto gli On. Prioria modificare la deliberazione presa nel senso chel’Onoranza si effettui nel Campo ove il CorteoStorico portato quasi al completo con l’aggiuntadel Carro di Trionfo potrà svolgersi più comoda-mente e avrà maggiore risalto dando un’impres-sione più approssimativa al Corteo del Palio perl’ambiente in cui dovrà svolgersi.

Aperta la discussione, alcuni propongono diinsistere per lo svolgimento nella Piazza delDuomo a causa della mancanza della Corsa tra-dizionale che le Autorità non hanno creduto dipermettere nelle presenti emergenze, mentre altriritengono che ormai non sia il caso di insistervianche in seguito alle spiegazioni date dal VicePodestà. Il Priore Mazzeschi ritiene che per ren-dere il Corteo sempre più completo si trovi mododi aggiungere ad ogni Comparsa il cavallo so-prallasso montato da un cavalcante e condottodal rispettivo palafreniere, e ne fa formale propo-sta. Il Vice Podestà accetta la proposta e prendeimpegno di fare il possibile per trovare i cavallioccorrenti.

Chiusa la discussione, il Magistrato a mag-gioranza di voti palesi delibera: Che per aderireal desiderio espresso al Rettore dal SegretarioFederale e dal Vice Podestà l’Onoranza si effettuinel Campo, esprimendo il desiderio che il Corteosi completi oltre che col Carro di Trionfo anchecon i cavalli secondo la proposta Mazzeschi.

Il Vice Podestà inoltre aggiunge che concerteràinsieme ad un rappresentante del Magistrato le

modalità dell’Onoranza nel senso sopra espresso ecosì pure il compenso da corrispondersi dalComando Federale della G.I.L. ad ogniContrada, per le spese occorrenti, in modo che leContrade non debbano risentirne aggravio econo-mico di sorte.

Su proposta del Rettore, viene nominato arappresentare il Magistrato in tutte le occorrenzee modalità come sopra è detto il Cancelliere Dott.Grassi, al quale il Comando della G.I.L. ha datoincarico di compilare un Cenno storico sulleContrade e sul Palio, che tradotto in varie linguesarà distribuito ai componenti le Delegazioni”.

Il 21 giugno (“per successivi accordi pre-si col Segretario Federale e coll’AutoritàPodestarile”) il Cancelliere dà disposizionialle Contrade (saranno rimborsate le spese ele “mercedi ai figuranti”) che usciranno dal-la Bocca del Casato, nonché in merito alcorteo, posto nel loro palco e sbandierata fi-nale.

Finalmente il 23 giugno il Podestà ema-na la sua necessaria delibera.

“Ritenuto che il giorno 30 corrente si reche-ranno a visitare questa Città i partecipanti allemanifestazioni culturali della Gioventù Europeache hanno preso il nome di Ponte Weimar-Firenze e che costituiscono un complesso di oltremille giovani appartenenti a ben tredici Nazioniamiche ed alleate dell’Italia;

Ritenuto che, per accordi presi col Magistratodelle Contrade sarà effettuata, in omaggio ai gra-diti Ospiti, un’onoranza collettiva da parte delleContrade medesime, mediante uno sfilamentodelle Comparse nel Campo, per far conoscerequeste caratteristiche Istituzioni senesi e dareun’idea della Festa tradizionale del Palio, chenon è opportuno celebrare per lo stato di guerra,come anche in passato è stato fatto;

Ritenuto che nel Corteo delle Comparse sia ilcaso di includere anche qualche elemento rappre-sentativo del Comune e cioè i Mazzieri,Trombetti e Musici di Palazzo, Vessillifero dellaCittà e dei suoi Terzieri, Carro di Trionfo eArmigeri, così da arricchire il Corteo medesimo eavvicinarlo a quello che si svolge in occasione delPalio;

Ritenuto che sia pure il caso di offrire agliOspiti pubblicazioni-ricordo, di concerto con laFederazione Fascista e coll’Azienda Autonomadella Stazione di Turismo;58

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Ritenuto che, nell’intento di diminuire quan-to più possibile l’onere del Comune, date le condi-zioni del Bilancio, la Federazione ha avvertitoche la maggior parte delle spese da incontrarsi sa-ranno rimborsate;

Ritenuto che, in ogni modo, l’Amministrazio-ne Comunale non possa venir meno ai doveri dicortesia e di ospitalità che costituiscono una dellepiù nobili tradizioni di Siena;

DELIBERADi autorizzare i competenti uffici a provvede-

re a quanto sarà necessario per la migliore riusci-ta dell’onoranza collettiva che le Contrade, in ac-cordo col Comune, hanno stabilito di effettuarenel Campo in occasione delle visite a questaCittà delle Delegazioni Giovanili Straniere alPonte Weimar-Firenze, nonché per offrire agliOspiti pubblicazioni-ricordo e riservarsi di liqui-dare le spese occorrenti a carico del Bilancio, nonappena si venga a conoscere quale parte sarà as-sunta, o rimborsata dalla Federazione Fascista.

Siena lì 23 Giugno 1942 XX°”.Il 25 giugno il Podestà invita il Chigi al

Palazzo per le onoranze (e Chigi chiese achi? e al Segretario “Pregola rappresentar-mi” con evidente poco entusiasmo e il reite-rato proibito uso del Lei).

I verbali del Magistrato delle Contradesono documenti notevolissimi che non siattenderebbero nell’estate del ’42, ci si a-spetterebbe un immediato assenso alle“proposte” del Federale. Invece prevalgonopreoccupazioni contradaiole certo senza en-tusiasmi patriottici o almeno di simpatia ve-ra per i giovani ospiti con lo sconcertantenetto rifiuto di scegliere le Contrade da in-vitare. Eppure i Priori erano (forse tutti) i-scritti al Partito e tuttavia prevale una speciedi attaccamento rituale alle “tradizioni”,mentre appare naturale una unanimità perl’omaggio in se stesso. Occorrerà un grandemediatore, Alessandro Raselli, imperturba-bile navigatore dal Fascismo allaDemocrazia per trovare una soluzione allafine accettabile. La presenza, comunque, diuna minoranza fino alla fine “voto contra-rio palese” è un fatto probabilmente unicodate le circostanze politiche del momento,anche se non debbono sopravalutarsi le te-mute personali conseguenze: il nostro Paesenon era la Germania nazionalsocialista né

tanto meno l’Unione Sovietica comunista.Anche le fughe e le assenze sono significati-ve: alla seconda riunione le Contrade rap-presentate sono soltanto undici!

I ragazzi nazionalsocialisti ebbero i loroapplausi e sfilarono “marziali”; ma una par-te, almeno, dei cittadini plaudenti, farà alafestante, nel ’44, alla sfilata delle truppeAlleate. Accadde in tutta Europa! Salvo la“sola” Gran Bretagna.

Suonò il Campanone (silenzioso dal 10giugno 1940) e qualche ignaro sarà sobbal-zato “È finita la guerra!”

Qualche piccola complicazione ci fu:l’Aquila dovette trovare due alfieri e un pag-gio dipendenti dalla Tortorelli chiedendoun permesso dal lavoro “per il periodo stret-tamente connesso al loro impiego”; occorsechiedere la urgente licenza per un colono,alle armi, necessario per i buoi. I palcaioli –primum vivere – volevano un compenso! IlComune mise in tutto ottomilacinquecen-tonovantotto lire, una bella cifra. LeContrade ebbero cinquecentocinquanta lirea testa, per un totale di novemilatrecento-cinquanta anche per la già citata “mercedeai figuranti”.

Il Prefetto ordinò di esporre il tricolore e“chiese” al Comune di lasciar liberi i dipen-denti nell’ora della sfilata. Agli ospiti venne-ro distribuiti opuscoli. Per le traduzioni, suun curioso appunto a lapis agli interpreti silegge: Germania tedesco, Belgio francese (eforse erano tutti fiamminghi!), Olanda,Danimarca, Norvegia, Finlandia,Slovacchia, Ungheria tedesco, Romaniafrancese (omaggio alla tradizione), Bulgariae Croazia tedesco, Albania … italiano; ènetta la prevalenza della lingua egemonedell’epoca.

Di là da ogni valutazione si può esser cer-ti che i senesi si strinsero con affetto vero in-torno ai soldati feriti che avevano combattu-to per la Patria ed ebbero nostalgia del Palio,sicché il Telegrafo poté lamentare che Sienanon avesse potuto offrire il Palio così comeFirenze aveva giocato il Calcio in costume,il Palio “sarebbe stato desiderabile per la ec-cezionale circostanza”. A nessuno venne inmente il rischio di un attacco aereo!

In fondo abbiamo raccontato un mini- 59

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mo episodio mentre immani battaglie scon-volgevano il mondo e sempre più gravi era-no le ristrettezze economiche e alimentari,ma significativo per la nostra città; nontraiamone, per carità, conclusioni di fasci-smo e di antifascismo, forse nessuno, pro-

prio nessuno, pensava che la guerra avrebberaggiunto anche Siena “tutta chiusa – comedirà Mario Bracci – nel segno melanconicodella sua grandezza e della sua gloria tra-scorse”.

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La comparsa della Pantera nei primi anni ’40

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La vetrata di Duccio di Boninsegna ese-guita alla fine del 1200 per il rosone absida-le del Duomo di Siena, oggi occupa unospazio provvisorio all’interno del Museodell’Opera.

Ripercorrendo brevemente le tappe chehanno accompagnato la sua storia, ricordia-mo che quest’opera subiva un primo restau-ro radicale ed invasivo nel 1697 eseguito dalmaestro Giulio Francesco Agazzini diArmeno.

Ricomposta nell’occhio dell’abside vi ri-maneva fino al marzo del 1943 quando, perproteggerla da eventuali danni bellici, ven-ne smontata e portata in luogo sicuro.

Dal 1996 si intraprendeva un nuovo re-stauro conservativo condotto da una equipedi esperti diretta da Camillo Tarozzi; per ol-tre sei anni le 9000 tessere di vetro vennero‘catalogate’e sottoposte ad operazioni lievidi pulitura.

Gli oltre 200 metri di intelaiatura inpiombo sono ristrutturati ed integrati da te-lai in accciaio inox e filo di rame per assicu-rare un migliore assemblaggio delle parti.

Concluso il restauro, nell’occasione del-la mostra dedicata a Duccio di Boninsegna,i nove pannelli che formano la vetrata, ri-composti in fasce distinte di tre, trovavanofinalmente spazio in una sala del PalazzoSquarcialupi nel museo del Santa Mariadella Scala e si mostravano a distanza ravvi-cinata suscitando nei visitatori grande sor-presa.

Finita la mostra, nel marzo 2004 la vetra-ta ritornava all’Opera del Duomo e lì avreb-be dovuto trovare una sistemazione provvi-soria, ma che al contempo fosse degna dellasua importanza.

Nello stesso mese il Dr. Mario

Lorenzoni, Rettore dell’Opera dellaMetropolitana, mi incaricava di progettareil nuovo allestimento nella galleria delle sta-tue al piano terra del Museo, e, più specifi-camente, dietro la settima arcata .

Il progetto si proponeva di affrontare tretemi principali: riorganizzare la ‘Galleriadelle Statue’, ricomporre le nove parti dellavetrata in un’unica struttura autoportante ericreare un’ambientazione simile allo spaziointerno del Duomo di Siena.

Alcune delle statue di Nicola Pisano edella sua bottega, opere di straordinaria bel-lezza che ornavano la facciata del Duomo,sono state ricollocate all’interno della sala,sotto gli arconi e tra le campate, formandoun percorso che trova uno straordinario ter-minale proprio nell’opera di Duccio.

Ricostruire la vetrata è stata l’operazio-ne più complessa; si trattava di unire tuttoin un telaio da assemblare in loco, in ac-ciaio inox, capace di sostenere un pesocomplessivo di oltre 5000 kg assicurandoassenza di deformazione della struttura. Lostudio dell’Ing. Rodolfo Casini ha verificatoil progetto architettonico e fornito tutti idati tecnici per la realizzazione strutturaledell’opera.

Montata la struttura portante, si è arriva-ti al collocamento dell’opera che, protettada un cristallo di sicurezza, è stata infine in-quadrata da una cornice in noce.

Il tema della luce all’interno dello spa-zio rimaneva l’ultimo da affrontare. La ve-trata doveva risaltare su tutto e divenire ilfulcro prospettico dello spazio, senza perònascondere i dettagli delle statue.

Dopo lunga meditazione e prove illu-minotecniche, si è arrivati ad una soluzione 61

La Vetratadi Duccio di Boninsegnanel Museo dell’Opera del Duomodi MARCO BORGOGNI

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per certi versi drastica, ma che ci sembra ab-bia affrontato questo tema con criteri sce-nografici tanto innovativi quanto suggesti-vi: tutte le pareti sono state dipinte con unatonalità di grigio e questo ha fatto subito ri-saltare le opere lapidee; le finestre sono sta-te oscurate e l’impianto di illuminazione ra-dicalmente trasformato.

La vetrata è retro illuminata, una mem-

brana traslucida posizionata davanti agli ap-parecchi illuminanti, protegge dai raggi ul-travioletti e trasmette la luce su nove metridi diametro in modo uniforme.

Il risultato finale è di grandissimo im-patto: per la prima volta, dopo aver percor-so una magica galleria, possiamo avvicinar-ci all’opera di Duccio ed arrivare quasi atoccarla.

La Galleria prima del nuovo allestimento

L’architetto Marco Borgogni è stato il progettista della ristrutturazione della Sala delle Statue pressoil Museo dell’OPA.

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Eventi

Le Università di Siena e di Warwick e ilCentro Warburg Italia, con le Accademie se-nesi degli Intronati e dei Rozzi hanno orga-nizzato una rassegna di studi su Siena in e-poca rinascimentale: “L’ultimo secolo dellaRepubblica”, che già nel 2003 aveva vistosvolgersi una prima sessione.

Lo scorso settembre, dopo l’inaugurazio-ne ufficiale avvenuta nella Sala delle Lupe,in Palazzo Comunale, il Graduate Collegedi Santa Chiara e la Sala degli Specchi pres-so l’Accademia dei Rozzi hanno ospitato ilconvegno, nell’ambito del quale è stato pos-sibile ascoltare ben 32 interventi destinatinel loro complesso a fornire un quadro dialtissimo valore scientifico sulla storia diSiena nel Cinquecento, analizzata sotto va-rie ottiche relative ai rapporti politici e aglieventi militari, ad aspetti sociali, scientifici edi costume, al contesto artistico, infine, nonlimitato ai campi della pittura e dell’architet-tura, ma opportunamente e attentamente in-dagato anche in quello della musica.

È facile misurare il successo di una rasse-gna di questo genere; basta verificare il coef-ficiente di novità espresso nelle varie rela-zioni e a “Siena nel Rinascimento” rara-mente si sono ascoltate tesi già note. Moltiinterventi hanno espresso approfondimentidi alta qualità e anche i relatori stranieri - al-cuni parlando apprezzabilmente in italiano- hanno mostrato non comuni capacità di a-nalisi delle antiche vicende senesi, dipanan-do annose questioni. E’ormai più di un se-colo che studiosi anglosassoni, francesi e te-deschi affrontano con successo temi dellastoria e della cultura di Siena. Stimolati –probabilmente - dal fascino ineguagliabiledi questa città, ne allargano la conoscenzastorica talvolta in misura maggiore di quan-to non sia riuscito agli studiosi locali, per i

quali, d’altra parte, sarebbe assurdo preten-dere un’esclusività nella ricerca che la stessavocazione internazionale di Siena di fattocontraddice.

È ormai universalmente riconosciutoche la cultura (quella con la C maiuscola)non ha confini, ma a Siena la gestione dellacultura è proprio ineccepibile? Forse al ri-guardo non sarebbe inopportuna una rifles-sione.

Tornando al convegno, nel confermarnegli eccellenti risultati - attestati anche dal ri-levante afflusso di pubblico specie in occa-sione della sessione ai Rozzi - dobbiamopure annotare la capacità di individuare a-ree rimaste inopinatamente in ombra, sucui si dovrà continuare a lavorare svilup-pando un esercizio di archeologia culturaleche a Siena, più che altrove, sembra trovareproficue motivazioni e offrire l’opportunitàdi nuove stimolanti ricerche.

Il quadro della storia di Siena nei primi50 anni del XVI sec., ricomposto a più maniin vari interventi (M. Ascheri, M. Mallet,J.C. D’Amico, C. Shaw, S. Pepper), accredi-ta definitivamente le tesi già proposte daJudith Hook (Habsburg imperialism and ita-lian particularism…, 1979), che avevano in-dividuato l’intreccio tra motivi di politicainterna e di carattere internazionale alla ba-se della crisi che avrebbe determinato, conla Guerra di Siena, la caduta della città sottoil controllo di Carlo V e quindi di Cosimodei Medici. Illuminante, a proposito del du-ca fiorentino, l’analisi della sua accorta atti-vità diplomatica svolta da A. ContiniBonacossi sulla base di un’attenta letturadel copialettere cosimiano. Da segnalare an-che la studio di M. Sangalli, che descrive“splendori e miserie” dell’episcopato senesenella società del tempo, mettendo in mo-

Siena nel Rinascimento:l’ultimo secolo della Repubblica

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stra, per la prima volta, fra quante difficoltàe contraddizioni il clero locale avesse dovu-to gestire l’eredità non lieve lasciata da unpapa importante come Pio II e quello di F.Guidi Bruscoli, che, sempre per la primavolta, evidenzia come le attività mercantili ebancarie di famiglie senesi anche nel XVIsec. rappresentassero una risorsa di non mo-desto significato economico, nonostantel’ormai diffuso abbandono delle attività diimpresa e il sempre più consistente ricorsoalle rendite passive, come quelle assicuratedall’agricoltura o dalla copertura dei pubbli-ci uffici.

In un precedente intervento H. Burns a-veva intessuto sulla trama storica degli ulti-mi decenni della Repubblica un dettagliatoprofilo della cultura senese del tempo. Unfenomeno coerentemente ancorato agli an-tichi principi generati dalla città per la cittàe tenuto alto dalla figura di BaldassarrePeruzzi, studioso e erede di un sommo ge-nio come Francesco di Giorgio Martini, in-sieme ad altri talentuosi personaggi nelcampo dell’arte, della letteratura e dellascienza: Domenico Beccafumi, Sodoma,Vanoccio Biringucci (ne parlerà diffusamen-te R. Vergani), Claudio Tolomei, AlessandroPiccolomini, Pier Andrea Mattioli. Sarà ildegrado della civica morale, il disintegrarsidel senso del bene comune che porterannoalla crisi irreversibile dello Stato e i Senesi,ormai incapaci di aggiornare il messaggio diAmbrogio Lorenzetti e poi di Caterina eBernardino, dovranno subire la trasforma-zione della loro antica libertà nella suddi-tanza medicea: una soluzione politica cheera ormai dietro l’angolo, ma che nessunoin città aveva saputo (o voluto) prevedere.

Come già ricordato, anche la storia dellamusica nella Siena del Rinascimento ha go-duto di un’ampia indagine, introdotta dallostudioso più accreditato in materia, F.D’Accone (autore dello straordinario volu-me The civic muse (2001): v. “Accadermia deiRozzi” n. 16, 2002) e ben sviluppata negliinterventi di F. Dennis e di C. Reardon –pure lei autrice di un’importante opera suAgostino Agazzari and music at SienaCathedral 1597-1641 (1993) - che ha rinver-dito la fama della scuola di canto tenuta

dalle monache di S. Abbondio nei primi an-ni del XVI sec.

In una piccante relazione su “conviti, ri-trovi, veglie e conventicole”, M. Ajmar haaffrontato il tema degli intrattenimenti gio-cosi, spostando l’attenzione sulla vita do-mestica e divertendosi ad analizzare gli a-spetti ludici della “microstoria” civica de-scritti in una fortunata opera di ScipioneBargagli. Un metro di lettura ripreso subitodopo da A. Cornice, che riesce abilmentead individuare il riflesso della società senesedel tempo tra le pagine di un libro verbaledella Contrada dell’Onda e, più tardi, da P.Holti, che si sofferma ad indagare sulla cir-colazione dei beni materiali e sulle attivitàd’artigianato nella città toscana durante ilCinquecento.

Ovviamente un ampio numero di inter-venti ha riguardato la storia dell’arte senesee, in particolare, Baldassarre Peruzzi (A.Huppert), il Maestro della Leggenda diGriselda (L. Syson), i rapporti con la culturadel Rinascimento Romano (D. Norman,che ha parlato della Cappella della SacraTesta in S. Domenico), le applicazioni deco-rative (M. Luccarelli per la ceramica e M.Ciampolini per la pittura di grottesche sumobili d’arredo) e il collezionismo artistico(B. Sani, che ha illustrato il mecenatismo diMarcello e Ippolito Agostini).

Una citazione particolare meritano duestudi sul Sodoma. Quello di W. Loseries,che nella scena della decapitazione diTuldo, affrescata su una parete della cappel-la cateriniana in S. Domenico, ha indivi-duato l’immagine dei due monasteri senesidi S. Agostino e dei Servi di Maria in unarealistica rappresentazione figurata delle lo-ro strutture architettoniche (assai significati-va per il cenobio agostiniano, che avrebbepoi subito ristrutturazioni tali da cancellar-ne l’originario assetto) e quello di M. Israelsrelativo alla Natività dipinta nel 1531 dalmaestro vercellese a porta Pispini: affrescostaccato nel sec. scorso e conservato ormaiilleggibile in S. Francesco. Una colta e illu-minante dissertazione tra “sorprese e miste-ri”, con cui la Israels riesce a coniugare il si-gnificato storico delle porte di Siena - memo-ria esortativa e testimonianza di civica identità -

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con le trame di una fino ad ora indecifratavicenda artistica, per spiegare la genesi deldipinto nell’insolita tenzone creativa traSodoma e Beccafumi, autore di un’altraNatività per la chiesa di S. Martino, grazieanche a un inedito disegno dell’affresco deiPispini scoperto dalla giovane studiosa inGermania.

La parte conclusiva di “Siena nelRinascimento” opportunamente riguardal’architettura di quegli anni, imperniata sul-la lezione che Baldassarre Peruzzi avrebbeimpartito a un manipolo di valenti autorilocali, da Giovanni Battista Lari a GiovanniBattista Pelori, dal figlio Sallustio a Pietro

Cataneo e a Bartolomeo Neroni detto ilRiccio. Dopo l’interessante studio introdut-tivo di M. Quast sul “linguaggio delle fac-ciate” dei palazzi senesi nel contesto storicopolitico dell’epoca, l’attenta indagine deglistudiosi si sposta nei cantieri di restauro delcastello di Belcaro (R. Samperi) e del palaz-zo di Bernardino Francesconi (G. CerianiSebregondi), per chiudere con l’ analisi con-dotta da M. Ricci sull’ “architettura all’anti-ca” del Riccio, forse il più talentuoso deiprogettisti senesi negli ultimi anni dellaRepubblica.

Nell’art. a pag. 29 l’approfondimento diW. Loseries sul tema.

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68 Frontespizio dell’editio major dell’opera botanica di Pier Andrea Mattioli

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Tra il marzo e il novembre del 2001 unconvegno e altre iniziative di carattere cul-turale organizzati dall’Accademia deiFisiocritici in collaborazione con ilDipartimento di Studi Classicidell’Università di Siena, opportunamente il-lustravano la vita e le opere di PietroAndrea Mattioli, erudito e scienziato senesenato cinquecento anni prima nel terzo di S.Martino, per proporlo tra i fondatori dellabotanica moderna.

Trasferitosi ancora in giovane età aVenezia, al seguito del padre che esercitavala professione medica, sostenne a Padovastudi classici per poi acquisire a Perugia, aRoma e nuovamente a Siena una solida for-mazione di carattere scientifico, che avreb-be successivamente consolidato inTrentino, al servizio del cardinale BernardoClesio. Per la grande fama acquisita comemedico, come botanico, come curioso e at-

tento indagatore della natura, per l’impor-tanza della sua opera di divulgazione scien-tifica, fu chiamato al seguito della famigliaimperiale d’Austria e avrebbe condotto lasua esistenza sempre lontano da Siena, masenza mai dimenticare di appellarsi “cittadi-no senese”.

D’altra parte il carattere tipicamente se-nese dell’educazione impartita al Mattiolinell’ambito di una famiglia appartenente alceto dirigente cittadino, fu essenziale per lasua maturazione culturale e per i proficui ri-sultati delle sue indagini in campo botani-co. In quegli stessi anni l’attenzione per i fe-nomeni naturali, la passione per la ricerca,lo spirito speculativo mostrati da alcuni uo-mini di cultura e di scienza formatisi aSiena tra Quattrocento e Cinquecento offri-vano un non modesto contributo alla mo-derna affermazione, tutta rinascimentale, didiverse discipline scientifiche.

Gli interventi al convegno sviluppati dauno scelto manipolo di studiosi locali e fo-restieri, nel cui ambito troviamo M.Ludovica Lenzi, Daniela Fausti, VinicioSerino, Roberto Guerrini, Fabio Bisogni,Concetta Petrollo Paglierini, Vivian Nutton,M. Giorgio Mariotti, Walter Bernardi, H.Walter Lack, Luigi Giannelli, AndreaUbrizsy Savoia, Silvia Tozzi, Laura DeBarbieri, M. Assunta Ceppari Ridolfi, SaraFerri, Maurizio Bettini, Mauro Barni, ven-gono puntualmente riferiti negli Atti chequi si segnalano, dove la personalità, le ri-cerche, gli scritti e la fortuna accademicadello scienziato senese trovano ampia e mo-derna visibilità, come in una scintillante ve-trina illuminata dagli approfondimenti criti-ci opportunamente raccolti nella pubblica-zione.

La nota biografia del Mattioli editadall’Accademico Rozzo Giuseppe Fabianinella seconda metà del XVIII sec. e poi ri-stampata a cura di Luciano Banchi nel suc-

Pietro Andrea Mattiolie un best seller del Cinquecento

Ritratto di Pier Andrea Mattioli in un’antica incisione

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cessivo, viene finalmente attribuita al veroautore grazie allo studio di M. LudovicaLenzi, che chiarisce come il Fabiani avessesemplicemente tradotto dal latino il testoredatto invece da un effervescente ed origi-nale erudito senese dell’epoca, più di luimeritevole di attenzioni critiche, il padreGiovanni Niccola Bandiera.

In posizione centrale troviamo i saggisulle opere scritte dallo scienziato, cheDaniela Fausti classifica con attenzione epone in rapporto con quelle dei principalistudiosi della materia a lui contemporanei.Fabio Bisogni commenta le rappresentazio-ni figurate delle piante offerte dalla pitturasenese tra Quattro e Cinquecento e VivianNutton osserva l’importanza dei commentarialla luce di altre redazioni botaniche deltempo per la capacità di bilanciare esperien-ze pratiche con il sapere accademico. Altriautori si soffermano ad analizzare la figuradel Mattioli scienziato e l’immediata in-fluenza delle sue opere specialmentenell’Europa orientale, proponendolo, perl’ampiezza dei suoi interessi e per la capa-cità di sviluppare le sue ricerche tramiteproficui criteri metodologici, anche alla ba-se della costruzione della moderna medici-na scientifica.

Non c’è dubbio che la più ampia cono-scenza della figura di Pietro AndreaMattioli prodotta da questo convegno, con-fermi pienamente l’importanza da riferirealla sua illuminata osservazione della naturacome uno dei momenti più significativi edalti del Rinascimento delle scienze in Italia.

D’altra parte, un ultimo aspetto che atte-sta oltre ogni ragionevole dubbio la gran-dezza di questo personaggio e la sua dignitàscientifica di sicuro livello internazionale,appare constatando la vasta e inossidabileportata della produzione a stampa delle sue

opere. I Discorsi della materia medicinale eb-bero tra il 1544 e il 1712 non meno di 22 e-dizioni successive; recentemente ne è statarealizzata un’accurata (e costosa) ristampaanastatica. Inoltre il testo è stato tradotto invarie lingue e pubblicato in centri impor-tanti della protoeditoria come Venezia,Lione, Basilea e Francoforte. Fino a tutto ilXVIII secolo, in Europa, esso ha rappresen-tato la bibbia degli studiosi di botanica: in-dispensabile per quanti volessero acquisireuna conoscenza sulla materia al più alto li-vello scientifico. Nessun altro autore senese,se si eccettua forse S. Caterina, ha mai otte-nuto una simile fortuna editoriale, unaperformance che, dati i tempi e la purtroppoormai conclamata incapacità di Siena a ge-nerare talenti di questo livello, sarà moltodifficile superare.

La Complessa Scienza dei SempliciAtti delle celebrazioni per il V centenario della na-

scita di Pietro Andrea Mattioli (Siena, 12 marzo –19 novembre 2001)

A cura di Daniela Fausti e con una premessadi Sara Ferri

In Atti dell’Accademia delle Scienze di Siena dettade’ Fisiocritici, serie XV, tomo XX (suppl.) – 2001.

Stemma della famiglia Mattioli

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ACCADEMIA DEI ROZZI

Anno XII - N. 22

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Dall’estate del 2000 Il Museo CivicoArcheologico di Sarteano con il localeGruppo Archeologico Etruria svolge, in re-gime di concessione di scavo al Comune,delle campagne nella necropoli dellePianacce, posta a meno di un chilometrodal centro storico di Sarteano, lungo la stra-da che porta a Cetona. La necropoli etrusca,già indagata nel 1954 da Guglielmo

Maetzke che vi aveva messo in luce duestrutture di cui una monumentale, ha resti-tuito ad oggi undici tombe scavate nel tra-vertino con lunghi dromoi, talvolta munitidi nicchie, e camere quadrangolari con unacronologia che va dalla seconda metà del VIall’inizio del II sec. a. C.. Si tratta, insiemealla necropoli della Palazzina e a quella del-le Tombe, dell’area sepolcrale riferibile alla

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Sarteano: l’eccezionale scopertadi una tomba dipintanella necropoli delle Pianacce1

di ALESSANDRA MINETTI Direttore del Museo Civico Archeologico di Sarteano

1 Il presente contributo accoglie il cortese invitodel dott. Pellegrini a presentare in questa sede un te-sto riferito alla recente scoperta da me compiuta nellanecropoli delle Pianacce, dopo un nostro incontroper una conferenza per il Centro Studi Farma Merse.La decorazione pittorica della tomba è stata pubblica-ta sul LXX volume di Studi Etruschi con il contributodal titolo “La tomba della Quadriga Infernale diSarteano” a cui si rimanda per ogni riferimento bi-bliografico. E’ inoltre in corso di stampa l’edizione

completa del monumento con l’esame dettagliato an-che del corredo nel volume della collana deiQuaderni dei Musei Senesi: “La Tomba dellaQuadriga Infernale della necropoli delle Pianacce diSarteano”. Tutto quello che viene realizzato aSarteano nel campo dell’archeologia, in collaborazio-ne con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del-la Toscana, si deve agli sforzi dell’AmministrazioneComunale e all’entusiasmo dei volontari del GruppoArcheologico Etruria.

La tomba della “Quadriga infernale” in sezione e in pianta

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zona insediativa posta lungo il tracciato chedal territorio di Sarteano conduceva al cen-tro egemone di Chiusi a partire dalla fase ar-caica, ovvero quando si delinea lo sposta-mento dalle sedi di altura comeSferracavalli e soprattutto Solaia, occupateintensivamente tra il tardo villanoviano e iltardo orientalizzante. Questa occupazione,testimoniata solo da rinvenimenti di necro-poli, copre tutti i costoni rocciosi che dal-l’altopiano di Sarteano degradano verso levallate dell’Astrone e dell’Oriato, che si a-prono sulla Val di Chiana, ed ha un’esten-sione impressionante con decine e decine ditombe, palesemente già saccheggiate, chedimostrano uno sviluppo demografico diun centro che, anche dalla ricchezza dellescoperte effettuate nelle ultime campagne,si palesa come di grandi dimensioni e occu-pato da gens aristocratiche di livello “urba-no”. La dimostrazione di questo ecceziona-le valore delle sepolture sarteanesi è testi-moniata dalla scoperta avvenuta nell’otto-bre 2003: una tomba databile agli ultimi de-cenni del IV sec. a. C. con uno straordina-rio ciclo pittorico in ottimo stato di conser-vazione. La tomba, ubicata tra la n. 7 e la n.8, coeve e con i dromoi convergenti, pre-senta un corridoio scoperto intagliato neltravertino di 19 metri di lunghezza conquattro nicchie simmetriche nella sua partecentrale. La porta introduce in un corridoiolungo 7 metri che dà accesso ad una cameraa pianta quadrangolare di metri 3,50 per3,80. A metà del lato sinistro del corridoiosi apre una nicchia che originariamente do-veva avere di fronte un vano simmetricodelle stesse dimensioni, ma che ha subito u-na devastante distruzione in epoca postclassica, come tutto il lato destro della ca-mera di fondo. Sul lato sinistro la decora-zione pittorica si sviluppa in quattro zone:sulla parte anteriore del corridoio, primadella nicchia con la più significativa scenadel demone che conduce una quadriga (fig.I), sulla stessa parete, ma dopo la nicchia,con due defunti distesi sulla kline nel ban-chetto dell’Aldilà (fig. II), il tutto incornicia-to tra un meandro superiore in rosso e neroe un fregio con delfini che si tuffano nelleonde correnti nella parte inferiore sopra u-

no zoccolo rosso; sulla parete sinistra dellacamera con un serpente a tre teste di grandidimensioni (fig. III) ed infine sul frontonedella parete di fondo, sempre a sinistra, conun ippocampo (fig. IV).

La prima scena, che è quella più com-plessa, costituisce un vero unicum icono-grafico nell’arte etrusca e rappresenta una fi-gura vestita di rosso, con capelli arancio,volto di colore bianco con caratteri singola-ri e arcigni, naso adunco, grande occhio spi-ritato e una zanna fuoriuscente dal labbroinferiore, che conduce un carro, anch’essorosso nei parapetti e con timone a testa digrifone. Il carro è condotto da quattro ani-mali, tenuti da briglie rosse nelle mani del-l’auriga, posti in sequenza alternata: duegrifoni crestati di rosso e due leoni con cri-niera gialla-arancio a fiamme, tutti e quattrocon corpi bianchi identici, e zampe anterio-ri sollevate munite di potenti artigli, mentrele posteriori, con la coda inserita tra esse,sono fisse rigidamente al suolo in contrastocon il movimento della veste e dei capellidella figura sul carro. L’interno del corpodel leone posto esternamente è caratterizza-to da una zona con margini arrotondati ir-regolari di colore bruno. Una nuvola neraavvolge le fiere sviluppandosi dalle teste deidue leoni fino oltre le zampe anteriori delprimo grifo, giungendo davanti al volto delconducente del carro. Di fronte a tutta lascena, diretta verso l’esterno della tomba,così come la quadriga, un’altra figura presu-mibilmente demonica di cui si conservano ipiedi e la parte inferiore di un’ala. Oltre chela lacuna iniziale che coinvolge questa figu-ra, tutta la scena è percorsa da un profondodanneggiamento, evidentemente realizzatodagli ultimi violatori della tomba, in quan-to posto all’altezza del riempimento che èstato trovato al momento della scoperta eche ha deteriorato irreversibilmente la partecentrale dei corpi degli animali e della figu-ra. Quest’ultima, di sesso non immediata-mente definibile, deve essere una figura de-monica, non solo per la presenza della nu-vola nera che la avvolge insieme a tutta laquadriga e che nelle tombe di IV secolo, co-me le tombe dell’Orco I e II di Tarquinia ola tomba Golini I di Orvieto, avvolge le fi-4

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gure infere, ma soprattutto per la presenzadella zanna fuoriuscente dal labbro inferio-re. Tra le figure infernali etrusche le due piùsignificative, che hanno il compito di de-moni psicopompi e che sono tra le più co-muni rappresentazioni nelle ceramiche figu-rate con temi escatologici nel IV secolo, so-no Charun, equivalente del Caronte greco,e Vanth, di sesso femminile, sempre raffigu-rata con fattezze giovanili e piacevoli, oltreche per lo più con le ali, indossante un chi-tone o nuda come sui vasi del gruppo omo-nimo. Di Charun la nostra figura non ha icaratteri tipici che compaiono sulle sue raf-figurazioni nelle pitture parietali: l’incarna-to è bianco, come quello dei Caronti sulleceramiche orvietane del Gruppo di Vanth, enon bluastro come di consueto; ha il nasoaquilino, ma non le orecchie ferine nè i trat-ti somatici tipicamente maschili della ma-scella squadrata, spesso della barba e anchel’abbigliamento con mantello, pur nel con-sueto colore rosso, non è comune per que-sto personaggio che in genere indossa cortichitoni senza maniche, mentre la capigliatu-ra a massa triangolare risente degli stilemipresenti nelle coeve (e presenti come vedre-

mo anche all’interno del nostro corredo),ceramiche del Gruppo Clusium odell’Officina Senese, oltre che essere condi-zionata dal movimento impresso dal ventodella corsa. Del tutto peculiare è la presenzadella zanna che è attestata in una rara reda-zione iconografica di Charun a Orvieto sulastre fittili conservate al Museo Faina.Peraltro il carattere ultraterreno del cocchioè dimostrato dalla stessa natura degli anima-li che lo conducono: i leoni rimandano aduna iconografia della dea Cibele, nota inambito greco almeno a partire dal fregio deltesoro dei Sifnî a Delfi e che avrà una note-vole diffusione in ambito romano e forse at-testata anche nella pittura parietale etruscacome si ricaverebbe da una notizia del rin-venimento di una tomba con tale raffigura-zione avvenuta nella necropoli diMonterozzi di Tarquinia nel 1738 e ora per-duta, mentre i grifoni, eccezionalmente nelnostro caso privi di ali, sono assimilabiliconcettualmente ai “draghi alati” che traina-no la biga di Persefone su due note anforedel Gruppo di Vanth al Museo Faina diOrvieto con rappresentazione del viaggio a-gli Inferi. Un altro elemento della scena che 5

Fig. I bis - La Quadriga Infernale: dettaglio del demone

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rimanda ad area orvietana è la singolare resadell’interno del corpo dei nostri animali chesi ritrova nel corpo del cavallo sul crateredello stesso Gruppo di Vanth e sul corpodel centauro del cratere del Gruppo diTroilo da Settecamini.

Questi elementi quindi fanno propende-re per una identificazione della figura de-monica della nostra tomba con Charun inun ruolo del tutto originale di conducentedi una quadriga con caratteri davvero ecce-zionali, che dovrebbe aver già accompagna-to il defunto nel mondo dell’Aldilà, rispet-tando quindi la sua canonica funzione didemone psicopompo.

Alle spalle del demone si apre la nicchia,incorniciata da una porta di tipo cosiddettodorico, che rappresenta il limite del mondoultraterreno. A destra della nicchia si svilup-pa la seconda scena che consiste in una cop-pia maschile distesa sulla kline del banchet-to che in quest’epoca, a differenza del pe-riodo tardo arcaico e classico in cui si raffi-gurava il banchetto reale dei parenti del de-funto, è sempre ambientato nell’Ade e svol-to dai defunti stessi. I due personaggi ma-schili semidistesi, secondo il consueto sche-

ma del banchetto di origine orientale, in-dossano mantelli che lasciano completa-mente scoperto il torace, e sono caratteriz-zati da una resa marcata della differenza dietà: quello di destra più maturo, con la bar-ba e la carnagione più chiara, è reso di profi-lo a sinistra, mentre avvolge con il bracciodestro le spalle dell’altro: un giovinetto conpelle più scura, rivolto al compagno con uninconsueto gesto di saluto affettuoso, an-ch’esso senza confronti nella pittura parieta-le etrusca. I due si appoggiano su una klinegialla ricoperta da un materasso con decora-zioni analoghe a quello dell’unica conserva-ta della tomba Golini II di Orvieto e condoppi cuscini decorati da fasce nere e rosse.Questa parte della figurazione pittorica è ca-ratterizzata da una serie di linee preparato-rie incise che non sono state seguite nel suc-cessivo sviluppo della linea di contorno edel colore, alcune anche in maniera clamo-rosa, come nel dito indice della mano sini-stra dell’uomo barbato, cioè i cosiddetti“pentimenti”.

Come detto dunque, siamo in linea conla tendenza instaurata con la metà del IV se-colo in cui il banchetto raffigurato è quello6

Fig. II - I defunti banchettanti

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ambientato nell’Aldilà, con i defunti eroiz-zati e, talora, alla presenza degli avi, comeavviene nelle coeve tombe tarquiniesidell’Orco e degli Scudi o nelle tombeGolini di Orvieto. Di nuovo con queste ul-time esistono i maggiori contatti soprattut-to per la presenza, pur non esclusiva, dicoppie maschili sulle klinai, legate da rap-porti di parentela, come dimostrano le iscri-zioni delle tombe orvietane che invece nelcaso di Sarteano sono completamente as-senti. Va peraltro notato che nella pitturachiusina di età arcaica tutte le scene di que-sto genere raffiguravano solo personaggimaschili, secondo i canoni del banchetto edel simposio greco, in linea con quanto av-viene con una certa frequenza anche sui ri-lievi dei cippi di pietra fetida, e diversamen-te invece da quanto succede a Tarquinia. Innessuno caso noto comunque la coppia sul-la kline compie un gesto simile a quello deidue banchettanti della nostra tomba, gestoche dovrebbe essere più espressione di affet-to da ricondurre alla sfera familiare, forseun saluto in occasione del ricongiungimen-to tra un padre e un figlio, piuttosto che ri-feribile alla sfera erotica. Il movimento delgiovinetto tuttavia trova notevoli affinitàcon quello compiuto dall’efebo della cop-pia maschile di amanti sulla lastra nord del-la Tomba del Tuffatore di Paestum, in uncontesto però distante cronologicamente egeograficamente. Un parallelo diretto è in-vece istituibile con il ritratto di profilo diVelthur Velcha sulla parete destra della tombadegli Scudi di Tarquinia: molte sono le cor-rispondenze, come la resa del profilo e dellabarba con pennellate a tratto, l’impostazio-ne delle spalle e dei pettorali, ed inoltre ilgesto di appoggiare la mano sulla spalla del-la figura che è accanto sulla kline, in quelcaso la moglie.

Al di sotto prosegue il fregio con delfinie onde marine correnti e lo zoccolo rossoche delimitava anche la scena della quadri-ga. La scena dei banchettanti prosegue a de-stra su quello che ora sembra un pilastrosporgente, ma che, prima della distruzioneoperata anche in quel settore, era solo l’ori-ginario accesso sinistro alla camera di fon-do, come dimostrano i resti sul pavimento e

sul soffitto. L’immagine è quella di un giovi-netto, presumibilmente un servitore chepartecipa all’adiacente scena di banchetto,vestito con una tunica trasparente e che tie-ne in mano un colino per filtrare il vino. Ilvolto giovanile con corti capelli chiari ricor-da molto quelli dei servitori della tombaGolini I di Orvieto, in particolare del suo-natore di doppio flauto. La figura è interes-sata nella parte centrale da un’ampia lacunadi forma circolare nella quale, con partico-lare accanimento, è stato asportato ancheun grosso strato del banco di travertino sot-tostante. Il colum dal lungo manico, tenutoverticalmente, è raffigurato di profilo in co-lore giallo, ma la linea preparatoria circolarechiarisce l’intenzione originaria di rappre-sentarlo frontalmente.

Nella camera di fondo, che viene simbo-licamente a rappresentare il recessodell’Ade, la struttura del dipinto muta e ri-mane solo lo zoccolo rosso di base, mentrescompaiono sia il meandro superiore che ilfregio con delfini e onde. A tutta parete sufondo bianco è raffigurato un enorme ser-pente a tre teste, impostate su lunghi colliche si uniscono al corpo avvolto in un’uni-ca grande spira dalla quale fuoriesce la co-da; il tutto con uno spettacolare contrastocromatico tra il verde delle squame, il giallodella pancia e il rosso fiammeggiante dellepupille, come sempre con un forte uso dellalinea di contorno nera. Le teste, due dellequali con denti digrignanti, sono munite diuna cresta rossa e di una lunga barba trian-golare. L’enorme mostro a tre teste, comeconsuetudine delle fiere infernali, è unachiara allusione all’ambito ctonio, ed è unapresenza simbolica ricorrente nella ceramo-grafia e nella pittura parietale della secondametà del IV sec. a. C.. Serpenti compaiononelle raffigurazioni del Gruppo di Vanth enelle tre tombe dipinte orvietane, ma in di-mensioni molto ridotte rispetto al nostro, ocome attributi di demoni nella tomba degliHescana e nella Golini I o nel frontone co-me nella Golini II in cui sono raffiguratibarbati, ma con corpo semplice disposto inorizzontale. E sempre in ambito orvietanosi trova il confronto più stringente per ilmostro di Sarteano, seppur chiaramente in 7

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tutt’altra dimensione: nel serpente a due te-ste con cui combatte il piccolo Eracle sul la-to A dello stamnos del Pittore diSettecamini, attivo a Orvieto tra il 360 e il330 a. C.. Un altro mostro che presenta al-cuni contatti con il nostro è il ”drago” av-volto in spire al centro del lato B dellostamnos di Vienna 448, proveniente an-ch’esso da Orvieto, così come sul sarcofagodi Torre San Severo i serpenti che si avvol-gono intorno alle braccia dei Caronti e del-le Vanth sui due lati corti hanno cresta ebarba. Sono quindi continui i rimandi tra ladecorazione figurata del sepolcro sarteane-se e Orvieto e in particolar modo con letombe di Settecamini. Tuttavia animali si-mili sono molto frequenti sulle ceramichedegli ultimi decenni del IV sec. a. C. conscene di viaggi agli Inferi e nel repertorio fi-gurativo dei sarcofagi ed inoltre rappresen-tazioni di serpenti con cresta e barba sonoconsuete sia in ambito greco che italiota, inparticolare sul noto cratere pestano delMuseo di Napoli attribuito ad Asteas conrappresentazione di Cadmo che uccide idraghi e sul suo omologo al Museo delLouvre attribuito a Python.

La parete di fondo è decorata solo nella

parte sinistra del semitimpano, delimitatoda una fascia rossa e da una nera lungo tuttala parte superiore, e fornito di uno stratopreparatorio di argilla anche nella zona de-stra. Un grande ippocampo rivolto verso ilcentro occupa tutto il triangolo sinistro,simbolo, come i delfini del fregio del corri-doio, del mondo marino come metafora dipassaggio, ovvero del tuffo fra i flutti intesocome momento di transizione tra il mondoterreno e quello ultraterreno. L’ippocampocostituisce la più comune decorazione deifrontoni delle tombe tarquiniesi compresetra il 530 e il 510 a. C., sia isolato sia asso-ciato a scene figurate, ed è poi attestato an-che in alcune tombe della seconda metà delIV sec. a. C..

La parte destra del frontone è ricoperta diuno strato di argilla grigia su cui si leggonosoltanto le fasce rosse della cornice. Quasisicuramente la parete al di sotto della fasciainferiore era stata lasciata volutamente senzapitture perché occupata dal grande sarcofagodi alabastro grigio con defunto recumbentesul coperchio e doppia kline a basso rilievosulla cassa, che è stato rinvenuto completa-mente distrutto a colpi di mazza e che ora èstato restaurato all’interno della tomba.8

Fig. III - Il serpente a tre teste

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Il corredo è stato rinvenuto in uno statoestremamente frammentario e di completosconvolgimento, posto in gran parte sul bat-tuto pavimentale al di sotto dello strato didistruzione di alcune zone della strutturaformato da pesanti blocchi di travertino. E’stato ricostruito in tempi rapidissimi per es-sere esposto durante la mostra sul nostromonumento inaugurata nel giugno 2004presso il Museo Civico Archeologico diSarteano e successivamente trasferita aFirenze al Museo Casa Siviero.

Di esso fanno parte una kylix del GruppoClusium, inseribile tra i prodotti di una bot-tega vicina ai due caposcuola, ovvero ilPittore di Sarteano e il Pittore diMontediano, e databile tra il 340 e il 330 a.C., due kylikes della cosiddetta “OfficinaSenese”, le cui attestazioni provengono almomento dall’area vicino Siena ed in parti-colare dalla necropoli di Poggio Pinci adAsciano e da Strove e sono anch’esse riferi-bili agli anni intorno al 330 a. C., oltre a nu-merose ceramiche a vernice nera, ceramichegrigie, tre grandi anfore di cui solo due rico-struibili e molti oggetti in bronzo in granparte pertinenti alla decorazione di una cas-sa lignea andata completamente distrutta,

nonché un complesso apparato di grappe eganci in ferro con molte tracce di legno cheformavano delle decorazioni accessorie dellastruttura.

Pertanto i materiali di corredo concorda-no perfettamente con la cronologia su basestilistica delle pitture e soprattutto con i nu-merosi confronti con i prodotti dei pittori eceramisti orvietani che operarono nella se-conda metà del IV sec. a. C. Palesementefurono loro a realizzare quest’opera in terri-torio chiusino che fornisce una testimo-nianza archeologica di un fenomeno giàampiamente dimostrato dai rapporti epigra-fici e sottolineato dal punto di vista storicoanche in studi molto recenti: quello di unaforte integrazione politica tra i centri diChiusi e Orvieto anche nel IV sec. a. C., ol-tre che nell’epoca di Porsenna. Ed appuntol’eccezionalità del ritrovamento sarteanesenon consiste soltanto nella rivoluzionarianovità delle sue iconografie e in una docu-mentazione straordinaria della rara pitturadi IV secolo con temi profondamente con-nessi al mondo infero, al viaggio nell’al di làe alle simbologie della morte così diverse daquelle di epoca arcaica, ma consiste anchein un totale sconvolgimento di tutte le co- 9

Fig. IV - L’ippocampo

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noscenze storiche e archeologiche sul IVsec. a. C. in area chiusina. La notizia livianadel quasi totale spopolamento delle campa-gne chiusine al momento della calata deigalli e il vero e proprio “buco” documenta-rio, dovuto alla scarsità di ritrovamenti diquesto periodo intorno al polo di Chiusi, a-vevano creato la falsa convinzione di unadiserzione dell’agro in questa fase che inve-ce si sta rivelando inesistente. La tomba di-pinta delle Pianacce non è infatti una isola-ta, seppur eclatante, dimostrazione dell’oc-cupazione del territorio da parte di aristo-crazie di livello urbano, ma si inserisce in

una serie di rinvenimenti degli ultimi anniche, insieme alle sei strutture coeve che almomento la circondano, vanno dalle sco-perte della necropoli della Palazzina a quel-le della Pedata di Chianciano e mostrano u-na continuità insediativa fino a pochi annifa sconosciuta.

Indubbiamente inoltre l’impressionanteritratto di demone della tomba di Sarteano,denominata “della Quadriga Infernale” pro-prio dalla sua scena più significativa, sarà daora in poi una delle testimonianze più viva-ci e originali dell’arte etrusca di IV secolo.

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Geniale, poliedrico, creativo ma anche male-dettamente ingenuo. Tanto da servire ad un colle-ga un’idea che lo avrebbe reso famoso, e che solodopo secoli qualcuno sta tentando di riattribuirea lui. Leonardo da Vinci aveva progettato la cu-pola della chiesa di Santa Maria delle Grazie alCalcinaio. La chiesa forse più prestigiosa dell’a-retino, il passaporto per la gloria di un architettoche se fosse vissuto oggi sarebbe tutti i mesi sullecopertine di Class: Francesco di Giorgio Martini

– artista senese di nascita ma spesso ad Arezzo -.Beh, dopo sei secoli salta fuori che una delle suepiù grandi prodezze forse fu un mezzo raggiro.

Con queste parole Alberto Pierini apre su“La Nazione” del 6/2/2005 (Cultura e spet-tacoli, p. 6) un suo breve, ma succoso inter-vento intitolato Uno scippo di cinque secoli fa evolto a sottrarre a Francesco di Giorgio lapaternità del progetto della cupola della stu-penda chiesa cortonese, per assegnarlo nien-temeno che a Leonardo da Vinci.Nell’articolo Pierini dà notizia della revisio-ne critica proposta da uno studioso, inveronon molto attestato, Carlo Starnazzi e riba-dita da Carlo Pedretti, uno tra i massimi e-sperti dell’architettura leonardesca, che con-siderano l’intervento progettuale martinianopedissequamente ricopiato da precedentistudi di apparati architettonici del da Vinci.

Il tema è tanto affascinante, quantocomplesso, per non pochi ordini di motivi.

La chiesa del Calcinaio è senza ombra didubbio uno dei monumenti più insigni del-la val di Chiana e una delle opere più stu-diate tra le non molte di carattere religiosoprogettate dall’artista senese, che, come ènoto, si dedicò soprattutto alla costruzionedi fortificazioni e in questa attività impiegòbuona parte della sua operosa esistenza, for-nendo apprezzate consulenze a varie testecoronate del suo tempo, passando molti an-ni al servizio del duca Federico diMontefeltro, studiando e teorizzando appa-rati che sarebbero stati posti alla base dello 71

Un progetto di Leonardoin Val di Chianae uno di Michelangelo in Maremmatra rivelazioni giornalistichea sensazione e clamorosi falsi storici

Fuori dal coro

Ritratto di Leonardo da Vinci in un’antica incisione

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sviluppo, tutto rinascimentale, dell’ archi-tettura moderna.

Anche i rapporti tra Francesco eLeonardo rappresentano un fertile campodi ricerca, che ha alimentato gli studi discrittori autorevoli come Gustina Scaglia(1980), Pietro C. Marani (1982, 1991),Manfredo Tafuri (1993), lo stesso CarloPedretti (1981) e che potrebbe fornire anco-ra nuove indicazioni. E’ tuttavia noto che idue artisti toscani si erano incontrati a

Milano nel 1490, convocati presso la fabbri-ca del Duomo per risolvere i problemi distatica del tiburio ed è ormai riconosciuta,sulla base di ampi apparati critici, l’impron-ta di invenzioni architettoniche martinianein diversi studi di Leonardo, che avrebbeaddirittura acquisito un codice dei Trattatidi Francesco di Giorgio nel 1505 o nel 1506(Pedretti, 1981).

Dunque, allo stato delle analisi più re-centi e accreditate non si trovano annota-72

Frontespizio della Chiesa di Santa Maria del Calcinaio a Cortona (AR)

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zioni relative all’ influenza dell’architetturaleonardesca su quella di Francesco diGiorgio, bensì la conferma del contrario eappare pertanto improponibile l’ipotesi diun surrettizio accaparramento da parte del-l’architetto senese di un’idea leonardescaper il progetto della cupola di Santa Mariadel Calcinaio.

D’altra parte è sufficiente controllare lavicenda storica della chiesa, per verificarecome sono andate esattamente le cose.

Francesco inizia la costruzione del tem-pio nel 1485, quindi ben 5 anni prima diconoscere Leonardo e quando muore, nel1501, l’edificio sacro è ancora privo dellacupola, il cui disegno viene affidato all’ar-chitetto fiorentino Domenico di Norbo nel1509. La costruzione della sovrastrutturasarà completata solo nel 1514, come risultada solida documentazione d’archivio(Matracchi, 1992).

L’ipotesi che il di Norbo sia stato in-fluenzato da un progetto leonardesco, purtutta da dimostrare, potrebbe non essere in-verosimile. Appare invece del tutto invero-simile proprio l’assunto dello Starnazzi,perchè Francesco di Giorgio non avrebbepotuto scippare un’idea di Leonardo nellacostruzione di un apparato che la storia hamostrato essere stato disegnato e realizzatoda un altro architetto.

Detto questo resta da sottolineare comeil malriuscito tentativo di ridimensionarel’originalità concettuale di Francesco diGiorgio nulla tolga ai meriti a lui ascrivibiliper l’altissima valenza formale della chiesadel Calcinaio nel suo complesso di struttu-re; come nulla toglie all’altissima capacitàprogettuale che la critica più autorevole or-mai riconosce all’artista senese nel campodell’architettura quattrocentesca per l’operadi teorizzazione svolta con i Trattati e per glialtri edifici da lui ideati soprattutto aUrbino e nel Montefeltro, ma anche aSiena, a Iesi, a Gubbio e in molte altre partid’Italia.

Esistono al riguardo un’ingente letteratu-ra e un consolidato indirizzo critico culmi-nati nella mostra senese del 1993 sull’eclet-tica figura di Francesco di Giorgio Martini,sia in campo artistico, sia in quello architet-

tonico-ingegneristico, e destinati a porre ingrandissima evidenza il ruolo dell’artista se-nese per il Rinascimento delle arti e dellescienze in Italia. Si vedano a questo propo-sito i volumi di corredo alla mostra curatida Luciano Bellosi, Manfredo Tafuri eFrancesco Paolo Fiore, ma si veda anchel’interessante opera di Paolo Galluzzi signi-ficativamente intitolata: Prima di Leonardo(1991).

Per la verità è chiaro che il Pierini nonintende svilire la grandezzza di Francescodi Giorgio ed è significativo che considerila chiesa del Calcinaio come “forse la piùprestigiosa dell’aretino”, ma non avrebbefatto male a informarsi più a fondo sul per-sonaggio, che se “fu spesso ad Arezzo”, sitrattò di semplici passaggi nei numerosiviaggi da Siena e Urbino, le due città tra lequali l’artista condivise gran parte della suaesistenza.

* * *

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Ritratto di Francesco Di Giorgio Martiniin un’antica stampa

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74 Il bel frontespizio rinascimentale della Chiesa di San Biagio a Caldana (GR)

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Ancora più emblematico il caso dellachiesa di S. Biagio a Caldana di Maremma,scoppiato qualche anno fa e protrattosi,praticamente fino ai giorni nostri, sui tonipolemici di una querelle cui quotidiani e pe-riodici hanno dato ampio risalto.

Scrive Diego Barsotti su “Il Tirreno” del15/6/2000 (Tempo libero & cultura, p. 34):La gente del posto è affezionata a questa vecchiachiesetta di Caldana, in provincia di Grosseto. Esembra addirittura scocciata dal fatto che qualcu-no gli venga a dire ora che S. Biagio non l’avreb-be progettata Antonio da Sangallo il Vecchio.Probabilmente ancora in pochi si rendono contoche la scoperta fatta da una studiosa fiorentinacambierà decisamente il futuro di questa finorasoltanto simpatica chiesetta. Maria GemmaGuidelli ha infatti trovato le prove che dimostra-no come S. Biagio in realtà sia stata disegnatada Michelangelo, che, a pochi mesi dalla morte,sarebbe stato chiamato dal suo allievoBartolomeo Ammannati.

E’ solo l’introduzione all’articolo, ma giàmostra con quanta superficialità e disinfor-mazione sia stata affrontata la materia.Infatti S. Biagio non è e non è mai stata unachiesetta…finora soltanto simpatica, bensì unodei monumenti in assoluto più importantidella Maremma, che mostra straordinariequalità formali e ben giustifica l’interessedegli studiosi; un capolavoro dell’architet-tura religiosa cinquecentesca toscana a pre-scindere – è bene dirlo subito - da chi siastato il suo vero ideatore.

Barsotti ricorda poi come la Guidelli ab-bia trovato i disegni progettuali diMichelangelo presso gli archivi di CasaBuonarroti a Firenze e presso la NationalGallery di Londra, arrivando perfino a so-stenere che l’edificio sacro fu commissiona-to al sommo artista a ricordo della morte didue figli di Cosimo dei Medici avvenuta inMaremma nel 1562 e della consorteEleonora di Toledo, stroncata poco tempodopo, probabilmente, dal dolore per la loroperdita.

Ovviamente la notizia fece molto scal-pore e Carlo Sestini, sul “Giornale dellaToscana” del 28/6/2000 la riprese con tonientusiastici: Riscoperta in Maremma una delle

ultime opere architettoniche realizzate dalla ma-no di Michelangelo. Una scoperta sensazionale eunica. Si tratta della piccola chiesa di S. Biagio aCaldana…E’ stata la studiosa fiorentina MariaGemma Guidelli a fare chiarezza sulla costruzio-ne di questa piccola chiesa e soprattutto su coluiche ne realizzò i progetti. Il padre di S. Biagionon è come è stato tramandato Antonio daSangallo il Vecchio ma addirittura MichelangeloBuonarroti.

Al di là del tono trionfalistico e apoditti-co che toglie qualsiasi minima possibilità didubbio alle affermazioni della Guidelli e aldi là della constatazione che anche questogiornalista non conosce la chiesa - che defi-nisce, e più di una volta, “piccola” come sefosse una semplice cappella - troviamo neibrani di un’intervista alla studiosa la detta-gliata enunciazione del suo pensiero, ma –sia ben chiaro - non un solo sostegno docu-mentale credibile.

“La mia ricerca ha preso il via dallo stu-dio dei disegni della facciata, oggetto dellamia tesi di laurea in storia dell’arte, la terzadella mia carriera. Successivamente ho pro-seguito l’indagine ponendo l’attenzione su-gli interni della chiesa di San Biagio. Pianopiano, grazie a una massa enorme di provedocumentali, tutte le tessere di questo mo-saico hanno cominciato ad andare al loroposto e sono così giunta a questa scopertasensazionale. San Biagio non è una sempli-ce chiesa, ma un grande mausoleo eretto insuffragio dei familiari del granduca Cosimodei Medici… Nel 1563 a pochi mesi di di-stanza da quei fatti luttuosi – relativi alla fa-miglia granducale – presero il via i lavori dicostruzione della chiesa…che terminarononel 1575.

Non è chiaro – continua la studiosa – dichi fu l’iniziativa di costruire S. Biagio, sedella famiglia Austini…che aveva appoggia-to Firenze nella guerra per la conquista diSiena… o di Cosimo I, ma è certo che diquesta edificazione Cosimo fosse piena-mente a conoscenza”.

Detto che gli Austini (o Agostini), fami-glia senese dell’ordine dei Nove, avevanoacquistato Caldana nel 1558 e avevano in-trapreso proficue iniziative di recupero de-mografico e di sviluppo agricolo della zona,

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favorendo pure un’intensa attività di rico-struzione edilizia nel borgo, torniamo aquanto affermato dalla Guidelli sull’inter-vento michelangiolesco.

“Quasi certamente Michelangelo, chenel 1563 aveva 88 anni e che l’8 febbraiodell’anno successivo sarebbe morto aRoma, non è mai stato fisicamente aCaldana ma ha certamente disegnato i pro-getti della facciata e dei due fondali interni.I lavori di realizzazione del progetto furonoportati avanti da Bartolomeo Ammannati,altro grande autore cinquecentesco, moltolegato a Michelangelo… Per secoli la chiesadi San Biagio è stata attribuita ad Antonioda Sangallo il Vecchio, un errore questo do-vuto inizialmente alla constatazione chequesto edificio era di qualità troppo elevataper una piccola località così lontana daicentri economicamente e culturalmente piùricchi della Toscana. Era quindi necessariotrovare un padre in grado di generare un’o-pera così raffinata”. La rassomiglianza neimateriali costruttivi con un altro S. Biagio,quello di Montepulciano realizzato dalSangallo, “fece il resto e per secoli anche lachiesa di Caldana fu riconosciuta come suaopera”. Tuttavia “sono molteplici le disso-nanze stilistiche tra la chiesa di Caldana e

quella di Montepulciano, tali da poter affer-mare in tutta tranquillità che si tratta di o-pere di autori diversi”, a prescindere poi dalfatto che quando fu intrapresa la costruzio-ne del tempio maremmano il Sangallo eramorto da “quasi trent’anni”.

Anche Pino Miglino pubblica sulle pagi-ne de “La Nazione” (7/7/2000) un’intervistaalla Guidelli, che chiarisce ulteriormente ilsuo pensiero sull’attribuzione al Sangallodella chiesa caldanese, che “è troppo mo-derna. C’è il senso della profondità, dellascultura. Sangallo invece è un maestro dellalinearità: edifici, spazi, concepiti con l’oc-chio del pittore”. Inoltre la studiosa fiorenti-na precisa che il progetto del S. Biagio è lostesso che Michelangelo aveva disegnatoper la facciata del grande tempio fiorentinodi S. Lorenzo, poi non realizzata: un pro-getto ripreso nella sola sezione centrale chepropone uno “stile scultoreo” simile a quel-lo della chiesa maremmana e, sia pure inproporzione, ne detta le misure. Mentre inriferimento al disegno del British Museum,relativo all’interno della navata, esso “è diMichelangelo, anche se è ignorata l’operada costruire”. Quando, infine, Miglino chie-de alla Guidelli perché un così rilevante“monumento funebre” fosse stato costruitoproprio a Caldana, la studiosa risponde chenella “cittadella fortificata del Granducato aguardia del confine con i grandi nemici deiMedici, gli Appiano, signori dell’Elba” la fa-miglia granducale veniva spesso “a ispezio-nare le truppe” e a dare sfogo alla “grandepassione per la caccia”.

Per la verità, Miglino riferisce corretta-mente anche le prime considerazioni con-trarie all’assunto della Guidelli: quella delladirettrice di Casa Buonarroti, PinaRagionieri, che nega l’esistenza a Londra ditale disegno e quella dell’allora soprinten-dente ai monumenti per le provincie diSiena e Grosseto, Domenico Valentino, se-condo il parere del quale, sebbene il SanBiagio di Caldana “ricordi le Cappelle me-dicee che tanto debbono a Michelangelo…questa chiesa è gemella del San Biagio aMontepulciano sulla cui attribuzione alSangallo non ci sono dubbi”.

Una collana di assurdi strafalcioni e fan-

Stemma della famiglia Agostini

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tasiose invenzioni tanto lunga, quanto diffi-cile da digerire senza che il rispetto per laverità storica non risultasse barbaramenteoffeso e mentre si susseguivano le notiziesulla “sensazionale scoperta”, MarioZannerini, presidente del Comitato Storicodi Caldana, iniziava una battaglia non ca-suale e coraggiosa per evidenziare gli erroripresenti nella ricostruzione della studiosafiorentina.

Zannerini conosce bene le vicende cal-danesi nei primi anni del principato medi-ceo, perché se è vero che riguardo all’ideato-re della chiesa manca una conoscenza speci-fica e documentata, è altrettanto vero chenon mancano riferimenti in fonti archivisti-che attendibili almeno sulla datazione del-l’edificio e sulla sua vicenda costruttiva, de-sumibili dalla relazione dell’Anichini (1762)e dal manoscritto posseduto da SeleneMaiani (1677).

Ecco la scansione cronologica degli av-venimenti attestata da questi documenti esconvolta dalla Guidelli:

1558: gli Agostini acquistano la tenuta eil borgo di Caldana dalla famiglia senese deiBellanti;

1564: gli Agostini ne vengono insignitida Cosimo dei Medici della signoria;

1575: Ippolito Agostini inizia la costru-zione della chiesa di San Biagio;

1585: completamento della chiesa e con-cessione dello jus patronato agli Agostini daparte del vescovo di Grosseto ClaudioBorghesi.

Conclude Zannerini “che la storia la siscrive solo con la penna della documenta-zione” e “che la dottoressa Gemma Guidelliha il dovere di dimostrare con documentiinconfutabili quanto da lei stessa affermato,prima di mandare in esilio la scuola diAntonio da Sangallo il Vecchio”.

Alla luce di questo ineccepibile invito, lastudiosa fiorentina doveva dimostrare la fal-sità della versione vigente, che vuole la chie-sa fatta costruire dagli Agostini e non daiMedici, nel 1575 e non nel 1565 - la diffe-renza cronologica è importante, perché nel1575 Michelangelo era morto da 11 anni enon avrebbe potuto seguire, sia pure da lon-tano, i lavori, come la Guidelli giustamente

contesta al Sangallo -. Poi doveva chiarireper quale arcano motivo proprio il tempiocaldanese avrebbe commemorato la mortedei familiari di Cosimo, avvenuta in realtàtra Livorno e Pisa tanti anni prima e perché,pur doverosamente riconoscente versoCosimo, Ippolito Agostini, avrebbe pensatodi sdebitarsi solo qualche anno dopo lamorte del suo benefattore, tralasciando di i-scrivere l’evento nella memoria collettivalocale e soprattutto di consegnarlo alla sto-ria con la consueta lapide celebrativa o al-meno con lo stemma mediceo affiancato aquello della famiglia senese (a Caldana nonmancava certo il marmo).

Inoltre devono essere categoricamentesmentiti alcuni richiami storici effettuatidalla studiosa in merito agli Agostini, che,sebbene appartenenti all’ordine filoimperia-le novesco, non risulta avessero mai aperta-mente militato dalla parte di Firenze “nellaguerra per la conquista di Siena”, anzi li tro-viamo insigniti di incarichi diplomatici perconto della Repubblica (Cantagalli, La guer-ra di Siena, 1962, p. 30); nonché agliAppiani, “grandi nemici dei Medici” perchéprovocati dalle irriducibili mire di Cosimosulla loro signoria piombinese, comunqueall’interno dello schieramento politico fede-le all’imperatore Carlo V, che tenne sempresotto controllo tensioni mai sfociate in fattidi guerra (Aglietti, La chiave della Toscana, loStatodi Piombino nella politica asburgica…,2002). Infine è necessaro che la Guidellichiarisca dove ha trovato altre notizie, circale frequenti ispezioni alle truppe dellaMaremma da parte della famiglia granduca-le, circa la costruzione da parte dei Medicidella “cittadella” di Caldana per difendere ilconfine con il territorio degli Appiani, circala cura posta da Cosimo nel seguire i lavoridi una chiesa che - guarda caso - iniziaronotre anni dopo la sua morte.

Nonostante la più volte affermata uscitadi un libro, anche col supporto dellaSoprintendenza senese, ad oggi la Guidellinon ha ancora scritto nulla per palesare “l’e-norme massa di prove documentali” in suopossesso. Quindi non una delle dimostra-zioni e delle confutazioni richieste è statafornita dalla studiosa, al cui arco resta l’uni-

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ca freccia del progetto per la facciata di S.Lorenzo; una freccia per altro spuntata, per-ché per adattare il disegno all’edificio realedi Caldana la Guidelli deve isolarne la se-zione centrale e alterarne i rapporti dimen-sionali; ma soprattutto perché deve fare iconti con la discrepanza cronologica tra lamorte di Michelangelo e l’inizio della co-struzione del tempio. Altrimenti chissàquanti altri progetti di chiese rinascimentali,eseguiti anche prima del 1575 – non ultimoquello per S. Maria del Calcinaio che è statasopra richiamata - una volta modificati, po-trebbero essere stati utilizzati per costruireSan Biagio a Caldana.

Nonostante l’intenso battage pubblicisti-co che è stato fatto, dobbiamo dunqueconcludere che ancora non è stato ritrovatoil progetto specifico redatto per edificarequesta chiesa e soprattutto non è stato pro-vato l’intervento di Michelangelo: quellache molti hanno definito una “sensaziona-le scoperta” può solo essere ricondotta alrango di mera ed assai opinabile supposi-zione.

Malgrado queste considerazioni, la legit-tima pretesa di verità storica affermata daZannerini e da lui ribadita ad autorità e so-printendenze, sembra caduta nel vuoto,mentre la stampa e perfino alcune guide lo-cali continuano a considerare le affermazio-ni della Guidelli come storicamente corret-te. Così la paternità della chiesa maremma-na viene ormai perentoriamente attribuitaal sommo artista fiorentino e sono rare levoci che invitano alla prudenza, sollecitan-do una severa riflessione critica, come l’art.di Alfio Cavoli pubblicato su “Le AnticheDogane” del Febbraio 2004.

In questa sede, per un doveroso senso dirispetto verso la storia e verso il monumentomaremmano, è necessario ribadire che giac-ciono ancora prive del necessario supportodocumentale le affermazioni tanto drastica-mente sostenute dalla Guidelli e da quantihanno voluto credere dogmaticamente al-l’intervento michelangiolesco, ma l’altissimaqualità architettonica della chiesa di SanBiagio è tale da imporre agli storici dell’arteattenzioni serie e – si spera - più efficaci neirisultati di tutte quelle qui segnalate.

Infatti non sembra condivisibile nemme-no la dichiarazione di Domenico Valentino,quando considera “gemelle” le due chiesetoscane dedicate a San Biagio per attribuireal Sangallo il progetto di entrambe. Perquanto sia indiscutibile che nella loro co-struzione venga impiegata la medesima pie-tra di travertino ed effettiva la rassomiglian-za di cordoni e lesene, i due edifici religiosisono troppo diversi nell’impianto architet-tonico generale e appare difficile ricondurliad un comune denominatore progettuale.E’ questo l’unico punto su cui possiamo da-re ragione alla Guidelli e, non a caso, lostesso Zannerini parla prudentemente di“scuola” del Sangallo, mentre l’ipotesi di unintervento da parte dell’Ammannati meritasicuramente adeguati approfondimenti.

D’altra parte, ancora non è stato effet-tuato uno spoglio mirato dei documenti re-lativi a Caldana nel fondo Agostini che siconserva presso l’Archivio di Stato di Siena:un’iniziativa colpevolmente mancata eun’opportunità che potrebbe arricchire laquerelle di nuovi e forse risolutori elementiconoscitivi, a disposizione di tutte le partiinteressate!

Non deve sorprendere che i giornali ten-dano ad enfatizzare certe informazioni, allaricerca degli scoop e di quelle notizie sensa-zionali che fanno alzare le vendite. D’altraparte la ricerca è uno dei motori di spintadella cultura e ben vengano indagini, ap-profondimenti e analisi che consentano dielevare il tasso di conoscenza della storia, acondizione, tuttavia, che quando non si tro-vano prove documentali o riscontri fattualidi un determinato assunto, questo sia dove-rosamente posto nei termini dell’ipotesi distudio. Sorprende, invece, che talvolta taleconnotazione sia volutamente evitata daglistessi studiosi, che espongono le proprie i-dee come verità inoppugnabili e che si e-spongono così all’inevitabile rischio di ama-re confutazioni.

E’ esemplare quanto accaduto proprio aSiena qualche anno fa, quando i media dette-ro grande risalto alla notizia di un castellolongobardo, quadrilatero e turrito, sottostan-te al Duomo, quale base fondante delle sue78

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strutture. Nella totale assenza di documenti edi riscontri oggettivi, la nostra rivista dettespazio ad alcune voci (R. Barzanti, F.Gabrielli, A. Leoncini; XI - 1999) che incri-navano la fondatezza dell’assunto, sul qualel’esimio lavoro Sotto il Duomo di Siena, a curadi Roberto Guerrini e Max Saidel (2003), hapoi imposto un significativo silenzio.

Il mondo accademico ha così disteso la

pesante coltre dell’indifferenza sul fantoma-tico castello, dimenticando, questa volta in-giustamente, che la scoperta di straordinariepitture duecentesche nel locale sotterraneodella cattedrale senese aveva pur sempre fat-to seguito al tentativo di individuare le trac-ce di quell’arcana struttura.

e.p.

79Caldana (GR), la chiesa di S. Biagio con il bastione cinquecentesco su cui sorge