Banchetto reale in Corriere della Sera, 17 marzo...

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- t e t t Martedì 17 marzo 1959 Oh. BANCHETTO REALE Ripensando ai discorsi intorno alla tavola della Valsolda mi son venute in mente conversa- zioni conviviali, di ogni gene- re, a cui avevo preso parte nel- le situazioni più diverse, con persone di ogni colore — filo- sofi, poeti, savi, bizzarri, rivo- luzionari e re — quanto baste- rebbe, insomma, per scrivere un volume (che non scriverò mai). Ed ecco il sottilissimo filo che mi aveva fatto errare qua e là per il mondo, ricondurmi a un banchetto reale dato a Buckin- gham Palace (7 marzo 1950) in onere del Presidente della Repubblica francese: Auriol. Come tutto par lontano nel tempo, nella storia! Era la pri- ma grande manifestazione del- la solidarietà anglo-francese do- po la vittoria nella seconda guerra mondiale, ma Bevin, so- prattutto, aveva voluto dare un carattere di apertura verso una nuova unità di Nazioni euro- pee a quel banchetto per cui l'invito reale era stato rivolto anche a me. Non so se allora, nel mio Paese, si sia tenuto ab- bastanza conto di ciò che si- gnificava questo gesto sovrano, verso la nostra Nazione, che riprendeva il suo posto nella Europa libera. Certo non era senza una intima commozione — e umiltà — che mi sentivo portato da avvenimenti tanto maggiori di me a quel posto per rappresentare l'Italia anche coi suoi errori, ma al di là delle sue fazioni. Tutta un'epoca intorno alla mensa di un Re. La magnifica scena si svolgeva nella sala da ballo del Palazzo di Buckin- gharn, a stucchi bianco e oro, di stile vittoriano, illuminata dal- le sei grandi rose di cristallo, pendenti dalla volta, e dai cen- to candelabri d'argento dorato, che spandevano il pacato chia- rore delle candele di cera sulle tavole adorne di vasellame d'oro e di rose tee. Il Re sedeva al centro della tavola d'onore, a ferro di ca- vallo, col Presidente alla sua de- stra e madame Auriol alla si- nistra. La Regina yeniva alla destra di Annoi. La Principessa Elisabetta — ora Regina (scor- rono come ombre le generazioni sui troni) — era tra il duca di Gloucester e il ministro degli Esteri francese Schuman, che ba- stava vederlo per capire quanto in lui ci fosse di un monaco, distaccato dalle pompe e atten- to alle voci della sua vita in- teriore. Seguivano gli atnbascia- tori, le ambasciatrici, gli alti commissari. Io sedevo vicino a Dona Isabel Monìz de Aragao — moglie dell'ambasciatore del Brasile — decano del Corpo di- plomatico. Dona Isabel era sim- patica, discorsiva, lieta e diver- tita di stare a questo mondo, non fatta per filosofare (da me voleva sapere che cosa fosse l'esistenzialismo, di cui aveva sentito parlare a Parigi). Gli in- glesi li ammirava molto, soprat- tutto per il loro coraggio, che aveva visto alla prova: un'eroi- smo con una venatura di biz- zarria insulare che li aiutava a combattere e a morire. A que- sto proposito, le raccontai che della reazione popolare al pri- mo bombardamento di Londra avevo avuto l'eco, a Milano, da una vecchia governante inglese in una sua lettera piena di hu- mour. Scriveva che la prima im- pressione era stata di sgomento e che anche la sua unica compa- gna — una gattina — si era mes- sa a tremar tutta e a miagolare. Ma che lei l'aveva ficcata so- pra una seggiola di fronte alla sua e le aveva detto, severamen- te: «Remember that we are En- glish », dopo di che nessuna delle due aveva tremato più. Intanto nella grande sala, che era piena di un brusio come di alveare, trascorreva leggera, som- messa, suonata dall'orchestra della Guardia Irlandese, una Ouverture di Gounod, che mi rese sordo ai discorsi della mia dama. Quel pezzo di musica ro- mantica mi toccava il cuore con certi ricordi di una vecchia casa di campagna. Eran cose lontane, non ritrovabili più; e io avevo fatto un lungo e difficile cammi- no nella vita. o2:1 Ma non appena le schiere dei maggiordomi e dei camerieri in alta livrea ebbero servito il se- condo piatto (« Poussin Bouquet- tière - Petit Pois au Beurre - Pommes Nouvelles à la Menthe - Salade Royale »), un inatteso suono di cornamuse che si avvi- cinava dalle sale remote della reggia, ci scosse tutti. Erano i « pipers» della Guardia Scoz- zese, e la loro musica pareva venire da profondità di foresta, da lontananze indefinite di se- coli, con echi di una melopea barbara tra pastorale e guerrie- ra_ Suonavano una marcia, che non somigliava a nessuna altra marcia militare, in cui ritornava- no antichi canti gaelici e lamen- ti funebri, che avevano in altre età accompagnato i combattenti caduti in guerra, al sepolcro. Un brivido di commozione parve scorrer tra i convitati mentre i suonatori di cornamusa, nel loro tradizionale « kilt », non belli nZ:t giovani tutti, ma ruvidi e fol- ti, rossicci, per tre volte gira- vano intorno alla mensa regale, riempiendo gli animi di un esal- tamento primigenio, a comin- ciar dal Re. I suoi occhi chiari, di solito non espressivi, brilla- vano improvvisamente di'una in- definibile commozione (forse di orgoglio); mentre a ogni giro intorno alla tavola a cui pre- siedeva, la musica si faceva sempre più esaltante, con un cre- scendo di toni e di note, come nei remoti banchetti dei re dalle lunghe chiome, seduti sopra un tronco di quercia. Anche la Re- gina pareva visibilmente emozio- nata. Guardava il Re sorriden- do, quasi interrogandolo, con la ansietà di chi ne conosceva i più segreti pensieri. Quella sua trepidazione di donna amante e fedele l'avevo già indovinata fin da 'quando, all'apertura del Par- lamento, Giorgio VI, con tanto di corona in testa come in un libro di fiabe, leggeva il discorso del Trono e la Regina, a ogni intoppo della parola, diventava un po' pallida, come la più sem- plice delle mogli. Finchè la marcia andò allon- tanandosi e si spense in una melodia mesta in cui pareva che le cornamuse richiamassero con lunga insistenza i reduci — mon- tanari e pastori — alle loro case, ai greggi, sugli altipiani rosei d'erica e gialli di ginestra. Intanto il pranzo volgeva al dolce (« Bombe Glacée Nigoise - Petit Fours Glacés »). Lo champagne > spumeggiava ap- pena nelle coppe di cristallo. Si fece gran silenzio. Il Re si alzò per il brindisi di rito. Giorgio VI era, di apparen- za, freddo, contenuto. Leggeva piuttosto a stento e con fre- quenti esitazioni, (suo padre gli aveva detto: fortunato te che non avrai da leggere i discorsi della Corona) ma quando toc- cava delle cose veramente gran- di della sua Nazione e doveva render conto, anche a se stesso, degli ideali a cui erano state sacrificate tante vite umane, il timbro della voce aveva un di- verso calore, e vibrazioni di con- vinzione religiosa: «Il vostro Paese e il mio — diceva volgen- dosi al Presidente — condivido- no lo stesso rispetto per la di- gnità e la fraternità dell'uomo: la stessa fede nella libertà del pensiero e della persona, nel governo democratico e nella funzione della legge ed anche lo stesso desiderio di dare a ogni uomo una eguale possibi- lità di vita degna. Questi prin- cipi sono la vera anima della nostra civiltà occidentale ». E con fine tatto egli invitava alla nuova comunità europea « anche altri Paesi che condividono la stessa eredità; e noi sappiamo che è solo col loro aiuto che tale idealità può essere preserva- ta in tutta la sua bellezza._ >. Poi parlò il Presidente Auriol. Più altisonante la frase, più scintillante la parola. Esaltò con entusiasmo la figura, già quasi mito, di Winston Churchill « lan- eant à l'ennemi le défi presque in- sensé de la Grande Brétagne una- nime ». (Il grand'uomo parte- cipava sì al banchetto, ma al suo posto protocollare di Capo dell'opposizione). Quindi Auriol rivolse il saluto all'altro gran- de animatore della guerra, all'e- sponente e simbolo della Fran- cia che aveva vinto: il generale De Gaulle. Nulla ormai — con- cludeva — avrebbe potuto se- parare le due Nazioni, e non le vicende della storia e della vita, nè la minaccia delle pe- santi nuvole, che gravano su la nostra civiltà> e per cui era più che mai necessaria l'unione dei cuori e delle volontà per l'orga- nizzazione di un mondo pacifico. Tutti erano in piedi con le coppe in mano mentre suonava la Marsigliese. Ma subito dopo i camerieri versarono nei bic- chierini da liquore un vino pre- zioso: e Brandy 1815 »! (Penso che chi era stato preposto per quell'occasione alla scelta dei vi- ni, nelle cantine reali, fosse un oscuro filosofo della storia). tJ Finito il banchetto, si rifor- mò, secondo l'etichetta, il corteo dei commensali, che, tra due fila di alabardieri, gravi nel loro costume elisabettiano, raggiunse la sala della musica e le due laterali (la Bianca e l'Azzur- ra) aperte sulla Galleria dei Quadri. I Sovrani e il Presiden- te vi tenevano circolo. Alti di- gnitari del Regno Unito, del Commonwealth e della Repub- blica francese, Altezze Reali, Marescialli, ministri, con gran cordoni e placche (io ero nu- do di decorazioni e mi piace- vo così) intrecciavano discorsi politici, commenti più o meno spiritosi o frivoli, dialoghi ter- ribilmente stantii di vecchi di- plomatici di mestiere con dame incipriate e ingioiellate. Quan- do da quel confuso tutt'uno, che è un ricevimento ufficiale, si staccò venendomi incontro con volto amico il Lord Cancelliere Jowitt col suo profilo antico e il portamento maestoso e de- gno dell'altissima carica. Egli ca- piva molte cose della politica italiana e voleva bene anche a me. In certi momenti difficili mi aveva aiutato. « Sono contento di vedervi qui questa sera». E' stato un magnifico ban- chetto pieno di significati — diss'io —. Le parole del Re sono state alte e sobrie, quelle di Auriol più drammatiche. Ma, in fine dei conti, che cosa vo- leva significare il Presidente con quell'accenno alle nuvole oscu- re che ci stanno sul capo, se non che ciò che crediamo la fine non è che il principio di una lotta tragica tra due mondi, per la libertà? ». Il « custode della coscienza del Re » rimase per qualche mo- mento pensoso: « Noi siamo me- no enfatici nell'espressione dei nostri amici latini e siamo ma- gri profeti. Risolviamo i nostri problemi giorno per giorno. Rin- grazio Dio di avermi fatto vi- vere in un'ora così grande in cui abbiamo sacrificato tutto per salvare l'anima della nostra civiltà. Il nostro desiderio è di vivere e far vivere in pace. Ma se qualcuno volesse fare il pa- drone del mondo... ». Allora compresi il significa- to di quel vino vecchio di cen- totrentacinqu'anni che, come per uno sbaglio, ricordava Waterloo. Tommaso Gallarati Scotti raffrke Anna Kashfi chiede Il divorzio da Marion Brando Santa Monica (California) 16 marzo. L'attrice Anna Kashfi ha Inoltrato oggi domanda di di- vorzio da suo marito, l'attore Marlon Brando. Nella doman- da essa accusa il marito di crudeltà mentale. La settimana scorsa l'attri- ce Si recò in volo alle Hawaii insieme al figlio di Brando, Christian, nato 1'11 maggio 1958. Al ritorno andrà a vive- re in una villa a Beverly Hills. Brando è ora occupato nella regia del film «One-eyed Jacks» dove appare anche come inter- prete. Negli ambienti a lui vi- cini si ritiene che egli non si opporrà al divorzio e avrebbe, anzi, già accettato i termini propostigli per una sistema- zione finanziaria. I due si erano sposati 1'11 ottobre 1957. Qualche giorno dopo le nozze si apprese che Anna non era indiana, ma sol- tanto nata in India, e si chia- mava in realtà Joanne O' Cal- i agh an. CORRIERE DELLA SERA

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Martedì 17 marzo 1959 Oh.

BANCHETTO REALE

Ripensando ai discorsi intorno alla tavola della Valsolda mi son venute in mente conversa-zioni conviviali, di ogni gene-re, a cui avevo preso parte nel-le situazioni più diverse, con persone di ogni colore — filo-sofi, poeti, savi, bizzarri, rivo-luzionari e re — quanto baste-rebbe, insomma, per scrivere un volume (che non scriverò mai). Ed ecco il sottilissimo filo che mi aveva fatto errare qua e là per il mondo, ricondurmi a un banchetto reale dato a Buckin-gham Palace (7 marzo 1950) in onere del Presidente della Repubblica francese: Auriol.

Come tutto par lontano nel tempo, nella storia! Era la pri-ma grande manifestazione del-la solidarietà anglo-francese do-po la vittoria nella seconda guerra mondiale, ma Bevin, so-prattutto, aveva voluto dare un carattere di apertura verso una nuova unità di Nazioni euro-pee a quel banchetto per cui l'invito reale era stato rivolto anche a me. Non so se allora, nel mio Paese, si sia tenuto ab-bastanza conto di ciò che si-gnificava questo gesto sovrano, verso la nostra Nazione, che riprendeva il suo posto nella Europa libera. Certo non era senza una intima commozione — e umiltà — che mi sentivo portato da avvenimenti tanto maggiori di me a quel posto per rappresentare l'Italia anche coi suoi errori, ma al di là delle sue fazioni.

Tutta un'epoca intorno alla mensa di un Re. La magnifica scena si svolgeva nella sala da ballo del Palazzo di Buckin-gharn, a stucchi bianco e oro, di stile vittoriano, illuminata dal-le sei grandi rose di cristallo, pendenti dalla volta, e dai cen-to candelabri d'argento dorato, che spandevano il pacato chia-rore delle candele di cera sulle tavole adorne di vasellame d'oro e di rose tee.

Il Re sedeva al centro della tavola d'onore, a ferro di ca-vallo, col Presidente alla sua de-stra e madame Auriol alla si-nistra. La Regina yeniva alla destra di Annoi. La Principessa Elisabetta — ora Regina (scor-rono come ombre le generazioni sui troni) — era tra il duca di Gloucester e il ministro degli Esteri francese Schuman, che ba-stava vederlo per capire quanto in lui ci fosse di un monaco, distaccato dalle pompe e atten-to alle voci della sua vita in-teriore. Seguivano gli atnbascia-tori, le ambasciatrici, gli alti commissari. Io sedevo vicino a Dona Isabel Monìz de Aragao — moglie dell'ambasciatore del Brasile — decano del Corpo di-plomatico. Dona Isabel era sim-patica, discorsiva, lieta e diver-tita di stare a questo mondo, non fatta per filosofare (da me voleva sapere che cosa fosse l'esistenzialismo, di cui aveva sentito parlare a Parigi). Gli in-glesi li ammirava molto, soprat-tutto per il loro coraggio, che aveva visto alla prova: un'eroi-smo con una venatura di biz-zarria insulare che li aiutava a combattere e a morire. A que-sto proposito, le raccontai che della reazione popolare al pri-mo bombardamento di Londra avevo avuto l'eco, a Milano, da una vecchia governante inglese in una sua lettera piena di hu-mour. Scriveva che la prima im-pressione era stata di sgomento e che anche la sua unica compa-gna — una gattina — si era mes-sa a tremar tutta e a miagolare. Ma che lei l'aveva ficcata so-pra una seggiola di fronte alla sua e le aveva detto, severamen-te: «Remember that we are En-glish », dopo di che nessuna delle due aveva tremato più.

Intanto nella grande sala, che era piena di un brusio come di alveare, trascorreva leggera, som-messa, suonata dall'orchestra della Guardia Irlandese, una Ouverture di Gounod, che mi rese sordo ai discorsi della mia dama. Quel pezzo di musica ro-mantica mi toccava il cuore con certi ricordi di una vecchia casa di campagna. Eran cose lontane, non ritrovabili più; e io avevo fatto un lungo e difficile cammi-no nella vita.

o2:1 Ma non appena le schiere dei

maggiordomi e dei camerieri in alta livrea ebbero servito il se-condo piatto (« Poussin Bouquet-tière - Petit Pois au Beurre - Pommes Nouvelles à la Menthe - Salade Royale »), un inatteso suono di cornamuse che si avvi-cinava dalle sale remote della reggia, ci scosse tutti. Erano i « pipers» della Guardia Scoz-zese, e la loro musica pareva venire da profondità di foresta, da lontananze indefinite di se-coli, con echi di una melopea barbara tra pastorale e guerrie-ra_ Suonavano una marcia, che non somigliava a nessuna altra marcia militare, in cui ritornava-no antichi canti gaelici e lamen-ti funebri, che avevano in altre età accompagnato i combattenti caduti in guerra, al sepolcro. Un brivido di commozione parve scorrer tra i convitati mentre i suonatori di cornamusa, nel loro tradizionale « kilt », non belli nZ:t giovani tutti, ma ruvidi e fol-ti, rossicci, per tre volte gira-vano intorno alla mensa regale, riempiendo gli animi di un esal-tamento primigenio, a comin-ciar dal Re. I suoi occhi chiari, di solito non espressivi, brilla-vano improvvisamente di'una in-definibile commozione (forse di orgoglio); mentre a ogni giro intorno alla tavola a cui pre-siedeva, la musica si faceva sempre più esaltante, con un cre-scendo di toni e di note, come nei remoti banchetti dei re dalle lunghe chiome, seduti sopra un tronco di quercia. Anche la Re-gina pareva visibilmente emozio-nata. Guardava il Re sorriden-do, quasi interrogandolo, con la ansietà di chi ne conosceva i più segreti pensieri. Quella sua trepidazione di donna amante e fedele l'avevo già indovinata fin da 'quando, all'apertura del Par-lamento, Giorgio VI, con tanto di corona in testa come in un libro di fiabe, leggeva il discorso del Trono e la Regina, a ogni intoppo della parola, diventava un po' pallida, come la più sem-plice delle mogli.

Finchè la marcia andò allon-tanandosi e si spense in una melodia mesta in cui pareva che le cornamuse richiamassero con

lunga insistenza i reduci — mon-tanari e pastori — alle loro case, ai greggi, sugli altipiani rosei d'erica e gialli di ginestra.

Intanto il pranzo volgeva al dolce (« Bombe Glacée Nigoise - Petit Fours Glacés »). Lo

champagne > spumeggiava ap-pena nelle coppe di cristallo. Si fece gran silenzio. Il Re si alzò per il brindisi di rito.

Giorgio VI era, di apparen-za, freddo, contenuto. Leggeva piuttosto a stento e con fre-quenti esitazioni, (suo padre gli aveva detto: fortunato te che non avrai da leggere i discorsi della Corona) ma quando toc-cava delle cose veramente gran-di della sua Nazione e doveva render conto, anche a se stesso, degli ideali a cui erano state sacrificate tante vite umane, il timbro della voce aveva un di-verso calore, e vibrazioni di con-vinzione religiosa: «Il vostro Paese e il mio — diceva volgen-dosi al Presidente — condivido-no lo stesso rispetto per la di-gnità e la fraternità dell'uomo: la stessa fede nella libertà del pensiero e della persona, nel governo democratico e nella funzione della legge ed anche lo stesso desiderio di dare a ogni uomo una eguale possibi-lità di vita degna. Questi prin-cipi sono la vera anima della nostra civiltà occidentale ». E con fine tatto egli invitava alla nuova comunità europea « anche altri Paesi che condividono la stessa eredità; e noi sappiamo che è solo col loro aiuto che tale idealità può essere preserva-ta in tutta la sua bellezza._ >. Poi parlò il Presidente Auriol.

Più altisonante la frase, più scintillante la parola. Esaltò con entusiasmo la figura, già quasi mito, di Winston Churchill « lan-eant à l'ennemi le défi presque in-sensé de la Grande Brétagne una-nime ». (Il grand'uomo parte-cipava sì al banchetto, ma al suo posto protocollare di Capo dell'opposizione). Quindi Auriol rivolse il saluto all'altro gran-de animatore della guerra, all'e-sponente e simbolo della Fran-cia che aveva vinto: il generale De Gaulle. Nulla ormai — con-cludeva — avrebbe potuto se-parare le due Nazioni, e non le vicende della storia e della vita, nè la minaccia delle pe-santi nuvole, che gravano su la nostra civiltà> e per cui era più che mai necessaria l'unione dei cuori e delle volontà per l'orga-nizzazione di un mondo pacifico.

Tutti erano in piedi con le coppe in mano mentre suonava la Marsigliese. Ma subito dopo i camerieri versarono nei bic-chierini da liquore un vino pre-zioso: e Brandy 1815 »! (Penso che chi era stato preposto per quell'occasione alla scelta dei vi-ni, nelle cantine reali, fosse un oscuro filosofo della storia).

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Finito il banchetto, si rifor-mò, secondo l'etichetta, il corteo dei commensali, che, tra due fila di alabardieri, gravi nel loro costume elisabettiano, raggiunse la sala della musica e le due laterali (la Bianca e l'Azzur-ra) aperte sulla Galleria dei Quadri. I Sovrani e il Presiden-te vi tenevano circolo. Alti di-gnitari del Regno Unito, del Commonwealth e della Repub-blica francese, Altezze Reali, Marescialli, ministri, con gran cordoni e placche (io ero nu-do di decorazioni e mi piace-vo così) intrecciavano discorsi politici, commenti più o meno spiritosi o frivoli, dialoghi ter-ribilmente stantii di vecchi di-plomatici di mestiere con dame incipriate e ingioiellate. Quan-do da quel confuso tutt'uno, che è un ricevimento ufficiale, si staccò venendomi incontro con volto amico il Lord Cancelliere Jowitt col suo profilo antico e il portamento maestoso e de-gno dell'altissima carica. Egli ca-piva molte cose della politica italiana e voleva bene anche a me. In certi momenti difficili mi aveva aiutato. « Sono contento di vedervi qui questa sera».

E' stato un magnifico ban-chetto pieno di significati — diss'io —. Le parole del Re sono state alte e sobrie, quelle di Auriol più drammatiche. Ma, in fine dei conti, che cosa vo-leva significare il Presidente con quell'accenno alle nuvole oscu-re che ci stanno sul capo, se non che ciò che crediamo la fine non è che il principio di una lotta tragica tra due mondi, per la libertà? ».

Il « custode della coscienza del Re » rimase per qualche mo-mento pensoso: « Noi siamo me-no enfatici nell'espressione dei nostri amici latini e siamo ma-gri profeti. Risolviamo i nostri problemi giorno per giorno. Rin-grazio Dio di avermi fatto vi-vere in un'ora così grande in cui abbiamo sacrificato tutto per salvare l'anima della nostra civiltà. Il nostro desiderio è di vivere e far vivere in pace. Ma se qualcuno volesse fare il pa-drone del mondo... ».

Allora compresi il significa-to di quel vino vecchio di cen-totrentacinqu'anni che, come per uno sbaglio, ricordava Waterloo. Tommaso Gallarati Scotti

raffrke Anna Kashfi chiede Il divorzio da Marion Brando

Santa Monica (California) 16 marzo.

L'attrice Anna Kashfi ha Inoltrato oggi domanda di di-vorzio da suo marito, l'attore Marlon Brando. Nella doman-da essa accusa il marito di crudeltà mentale.

La settimana scorsa l'attri-ce Si recò in volo alle Hawaii insieme al figlio di Brando, Christian, nato 1'11 maggio 1958. Al ritorno andrà a vive-re in una villa a Beverly Hills.

Brando è ora occupato nella regia del film «One-eyed Jacks» dove appare anche come inter-prete. Negli ambienti a lui vi-cini si ritiene che egli non si opporrà al divorzio e avrebbe, anzi, già accettato i termini propostigli per una sistema-zione finanziaria.

I due si erano sposati 1'11 ottobre 1957. Qualche giorno dopo le nozze si apprese che Anna non era indiana, ma sol-tanto nata in India, e si chia-mava in realtà Joanne O' Cal-i agh an.

CORRIERE DELLA SERA