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FIOR DI PELLE. LAVORARE IL CUOIO IN ETÀ ALTOMEDIEVALE a cura di Michelle BEGHELLI e P. Marina DE MARCHI L’Alto Medioevo. Artigiani, tecniche produttive e organizzazione manifatturiera 3 Atti del 3° Seminario Arsago Seprio Civico Museo Archeologico 26 novembre 2016 ROMA 2018

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FIOR DI PELLE. LAVORARE IL CUOIO IN ETÀ ALTOMEDIEVALEa cura di Michelle BEGHELLIe P. Marina DE MARCHI

L’Alto Medioevo.Artigiani, tecniche produttive e organizzazione manifatturiera3

Atti del 3° SeminarioArsago SeprioCivico Museo Archeologico26 novembre 2016

ROMA 2018

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FIOR DI PELLELAVORARE IL CUOIO IN ETÀ ALTOMEDIEVALE

L’Alto Medioevo. Artigiani, tecniche produttive e organizzazione manifatturiera, 3

a cura di Michelle BEGHELLI e P. Marina DE MARCHI

Atti del 3° Seminario Arsago Seprio, Civico Museo Archeologico

26 novembre 2016

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Roma 2018

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In copertina: la lavorazione del cuoio nell’archeologia sperimentale. Foto di Cristiano Brandolini.

COMUNE DI ARSAGO SEPRIO Assessorato alla Cultura

CIVICO MUSEO ARCHEOLOGICOArsago Seprio

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Associació per la Recerca, Estudi i Difusió en Antiguitat Tardana

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FIOR DI PELLE. LAVORARE IL CUOIO IN ETÀ ALTOMEDIEVALEL’Alto Medioevo. Artigiani, tecniche produttive e organizzazione manifatturiera, 3

a cura di Michelle BEGHELLI e P. Marina DE MARCHI

IntroduzioneMichelle Beghelli, P. Marina De Marchi7

I lavoratori della pelle nelle fonti latine altomedievaliGiovanni Assorati9

Cuoio e metallo nella penisola iberica in epoca visigotaAppunti sull’organizzazione della produzione di borse e cintureJoan Pinar Gil

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La ricostruzione delle cinture reggiarmi di età longobarda: il caso studio delle tombe di Monselice (prima metà del VII secolo)Elisa Possenti

31

Archeologia del cuoio in età medievale: conservazione, riconoscimento, lavorazioniMauro Rottoli

57

L’analisi chimica per lo studio dei cuoi archeologiciSilvia Bruni71

PremessaMartino Rosso5

Sperimentazione: la ricostruzione di un fodero di scramasax secondo le tecniche degli artigiani altomedievaliCristiano Brandolini

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A quattro anni dalla pubblicazione della prima raccolta degli atti della giornata di studi dedicata all’artigianato medievale, con grande piacere presento il terzo volu-me della serie, frutto del seminario tenutosi al Civico Museo Archeologico di Arsago Seprio il 26 novembre 2016. La pubblicazione degli atti rappresenta, per il Comune, una tappa importante nella condivisione e nella divulgazione alla co-munità degli studiosi, al pubblico degli ap-passionati e alla cittadinanza, dei risultati del processo di ricerca nel quale il museo è attivo da anni. Motivo di ulteriore compiacimento è il tema di questa terza uscita: vale a dire lo studio della lavorazione della pelle e del cuoio. La deperibilità dei materiali organici e la conseguente scarsità delle attestazioni a essi pertinenti – soprattutto per il periodo in questione – ha rappresentato una sfida e un incentivo per gli autori e le curatrici, che hanno affrontato l’argomento da una straor- dinaria molteplicità e ampiezza di punti di vista, fonti e discipline.

Premessa

Come per gli altri due volumi, l’artigianato, il “sapere delle mani”, è elemento portante e identitario delle indagini scientifiche del Museo, in linea con la centralità dell’analisi della cultura materiale per la comprensione degli aspetti più sfuggenti dell’Alto Me-dioevo.Ringrazio sentitamente gli autori, le cura-trici e l’editore, i collaboratori, i volontari del Civico Museo Archeologico e il per-sonale dell’Assessorato alla Cultura per il loro costante impegno e contributo, non solo per questa fatica editoriale, ma in tutte le iniziative culturali dell’assessorato.

Martino RossoAssessore alla Cultura

Comune di Arsago Seprio

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Questo volume raccoglie gli atti del semi-nario dedicato alla lavorazione del cuoio in età altomedioevale, terza tappa della serie di incontri avviati nel 2013 e dedicati agli artigiani e all’organizzazione manifattu-riera nell’Alto Medioevo. In questa terza ricorrenza abbiamo voluto percorrere l’a-nalisi di una materia organica – il cuoio – ancora scarsamente oggetto di studi in Ita-lia, fatta eccezione per le analisi diagnosti-che condotte sul materiale, sempre però in qualità di operazione sussidiaria allo studio dei manufatti metallici ai quali è spesso ab-binato.Il voler indagare espressamente questa ma-teria prima, che doveva essere facilmente reperibile e molto utilizzata, nasce proprio dall’aver constatato l’interesse marginale dimostrato finora dalla ricerca. In realtà lo studio del cuoio offre molti spunti di riflessione, se affrontato come in questi atti in modo interdisciplinare.Le fonti storiche relative agli artigiani del cuoio in età altomedievale, al loro ruolo

Introduzione

sociale e all’organizzazione del lavoro, sono scarse e poco note, ma Giovanni Assora-ti riesce nell’intento di offrirne un quadro dettagliato, raffinato e ricco di informa-zioni. L’autore ripercorre le fonti scritte riprendendone anche le descrizioni dei di-versi cicli di lavorazione del materiale, con riferimenti non solo alle preziose testimo-nianze della produzione di pergamene, di certo il prodotto più ricercato negli scripto-ria monastici dell’epoca, ma anche all’atti-vità più corrente dei sellai, dei produttori di borse, di stivali, di vesti. L’excursus archeologico di Joan Pinar Gil che tratta della Spagna visigota offre no-tevoli informazioni circa la vicinanza tra artigiani del cuoio e artigiani del metallo, appaiati nella composizione di numerosi oggetti, borse, scarpe, cinture. L’autore do-cumenta, inoltre, che molte volte la ricerca archeologica non ha prestato la giusta at-tenzione all’abbinamento, nei diversi con-testi, di oggetti in metallo e cuoio che se analizzati insieme e contestualizzati rispet-

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to ai dati di scavo forniscono prova della collaborazione di professionisti diversi, al-cuni dei quali firmavano il loro prodotto.Una ricostruzione plausibile di un oggetto in cuoio a partire dagli elementi metallici superstiti potrebbe a un primo sguardo ap-parire un’operazione relativamente sempli-ce, ma Elisa Possenti, attraverso l’esempio delle cinture longobarde, ce ne mostra la complessità e le problematiche, che pos-sono essere risolte solo grazie a una scru-polosa metodologia. L’autrice ripercorre la storia degli studi di questo indispensabile manufatto altomedievale e giunge a una ricomposizione puntuale analizzando la posizione dei singoli elementi metallici sul corpo del defunto, riuscendo quindi non solo a ricostruire bandoliere e cinture vere e proprie, ma anche a ricavare informazioni sul rito funerario: abbiamo cinture indos-sate ovvero avvolte all’arma. Di particolare interesse è anche l’apparato iconografico che accompagna il testo a ricordare, in al-cuni casi, che il mondo germanico e quel-lo romano-bizantino hanno contatti per quanto riguarda alcuni aspetti dell’abito militare. Mauro Rottoli illustrando la diversità dei cuoi (da animali selvatici, bovini, ovicapri-ni) utilizzati per produrre oggetti diversi ne rileva le caratteristiche di resistenza, robustezza, malleabilità, e mostra l’im-portanza delle analisi diagnostiche e delle macrofotografie per lo studio dei dettagli, su reperti che spesso giungono a noi in stato di conservazione mediocre. Il quadro delineato comprende tecniche di cucitura, o fissatura con collanti, decorative più fre-quentemente utilizzate nella lavorazione di complementi d’arma: foderi, cinture, scudi, calzari e borse.

Spetta a Silvia Bruni introdurre alle tec-niche diagnostiche delle analisi chimiche finalizzate al riconoscimento dei cuoi e dei diversi componenti (tannini vegetali, minerali, altro) utilizzati nei processi di concia, difficili da individuare su reperti numericamente scarsi e poco conservati. Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche su un numero di campioni più vasto sarebbe, infatti, di grande utilità per individuare botteghe e per puntualizzare l’attribuzione cronologica dei reperti. Cristiano Brandolini chiude questo volu-me (breve, ma ricco di informazioni e di linee di sviluppo per il futuro degli studi), con la realizzazione concreta e materiale di un fodero di scramasax, seguendo il per-corso dalla scelta del cuoio, al taglio, alle cuciture, all’applicazione degli elementi di fissaggio e scorrimento alle cinture, della realizzazione dei motivi decorativi impres-si a bulino o incisi, alla tintura e finitura. Si documenta in tal modo l’importanza dell’archeologia sperimentale per la com-prensione dei processi di lavorazione. Questo libro aspira a offrire informazioni scientificamente attendibili e fruibili sia agli studiosi e agli studenti della discipli-na, sia – come le curatrici si erano proposte già dal primo seminario – al pubblico più ampio di appassionati e cultori dell’archeo-logia e dell’Alto Medioevo.

Michelle Beghelli, P. Marina De Marchi

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I lavoratori della pelle nelle fonti latine alto medievali trovano pochissimo spazio, così come, del resto, nella letteratura lati-na in generale1. Ne sono riprova non solo le citazioni presenti nelle poche opere che trattano della pelletteria nell’antichità2, ma in generale la storiografia che tratta della scienza e della tecnica nel mondo classico3, così come i glossari e i lessici medievali che per termini come byrsarius, caligarius, coriarius, pellifex, pergaminarius, sellarius,

1 Lungi dal poter offrire un quadro esaustivo, si avverte che sono state prese in considerazione le fonti lettera-rie rintracciabili, sia nelle principali banche dati online, sia nella letteratura accademica specializzata, a cui è stata affiancata la ricognizione di una selezione di edi-zioni di documenti d’archivio, sia pubblici che privati, tra le ormai decine pubblicate per tutta l’Europa, come esemplificazione della diffusione dei termini anche al-dilà degli ambiti eruditi. L’epigrafia, a mia conoscenza, non riporta al momento testimonianze utili.2 Sopr. i recenti Dercy 2015 per il mondo greco e LeguiL-Loux 2004 per quello romano e Bravo 1964 come quadro storico generale.3 Basti indicare che nel sommario di un’opera di riferi-mento come raDici coLace 2010, pp. 17-20 non sia indica-ta alcuna voce concernente la lavorazione della pelle, né essa è compresa nelle voci specifiche (cfr. p.e. Bovini, pp. 258-262 e Ovini, pp. 762-766).

I lavoratori della pelle nelle fonti latine altomedievali

stratarius, sutor, per citare quelli più diffusi, forniscono quasi esclusivamente citazioni di fonti dall’XI sec. in avanti4.Tale situazione perpetra e rispecchia quel-la dell’antichità classica: nelle tavole degli annexes della sintesi di M. Leguilloux, tra le fonti che indicano lavoratori e prodotti

4 P.e.: Du cange 1883-1887, voci Affectatores, Calcea-mentarius, Calceator, Calciarius, Calciator, Caligariarus, Caligarius (sotto Caliga), Calligarius, Calligator, Cerdo-nia (ars), Cerdonissa, Cordebanarius, Cordoanerius (sot-to Cordebisus), Cordoanarius, Cordubanarii (sotto Cor-debisus), Cordubenarius (sotto Cordebisus), Corduarius (sotto Cordebisus), Coriarius 1. e 2., Coriator, Curaterius, Frunitor, Pelliciarius, Pellifex, Pelliparius, Pellissarius, Pellizarius, Pergamenarius (sotto Pergamenum), Per-gaminerius (sotto Pergamenum), Sabaterius, Sellarius 4, Sellerius, Sutor, Sutorium, Sutorius, Sutrius, Tannator, Tannerius; BLaise 1975, voci Affectator, Calcearius, Cal-ceator, Caligarius, Cerdo, Cerdonissa, Confector, Corde-visarius, Cordoanarius, Coriarius, Coriator, Curaterius, Frunitor, Pelliciarius, Pellifex, Pelliparius, Pellissarius, Pergamenarius, Sabaterius, Sellarius, Tannarius, Tan-nator; niermeyer 1976, voci Affectator, Calceamentorius, Calceator, Calcifex, Calciolarius, Caligarius, Caligator, Cerdo, Confector, Cordevisarius, Cordoanarius, Coria-rius, Coriator, Curaterius, Frunitor, Pelliciarius, Pellifex, Pelliparius, Pergamenarius, Sabaterius, Sellarius, Sella-tor, Stratarius, Tannarius, Tannator. Le voci non citate nel testo sono segnalate come attestate dopo l’XI se-colo.

Giovanni AssoratiDipartimento di Storia Culture Civiltà, Università di Bologna

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della pelle, quella più tarda e l’unica alto medievale è l’enciclopedia di Isidoro di Si-viglia5. Questo testo è una vera e propria cartina al tornasole anche per notare che, come per altri campi del sapere e della tec-nica, per i secoli tra la seconda metà del VI e il X la terminologia ha la pretesa, errata, di essere rimasta sostanzialmente e voluta-mente invariata rispetto alle epoche imme-diatamente precedenti6.È forse così possibile assumere come valida per l’epoca non solo alto medievale quella che sembra essere l’unica citazione di un lavoro concernente la pelle7. Si tratta di al-cuni passaggi che descrivono la lavorazio-ne e la tintura in funzione della scrittura, quindi relativi alla produzione della perga-mena e alla sua colorazione per la realiz-zazione di prodotti di pregio. Sono alcune ricette, come sono definiti i paragrafi di questi testi, contenute in alcune delle prin-cipali raccolte dei c.d. trattati medievali di tecniche artistiche, molti dei quali sono dedicati alla produzione e soprattutto alla decorazione libraria8.Così, la ricetta 39 del Compositiones ad tin-genda musiva, testo datato all’VIII sec. che tratta della realizzazione di diversi prodotti artistici, descrive la procedura per passare dalla pelle grezza, sottintesa nel testo, alla pergamena:

De pargamina. Pargamina quomodo fieri debet. Mitte illam in calcem et iaceat ibi per dies III; et tende illam in cantiro et

5 LeguiLLoux 2004, tab. III, e pp. 60-72 e tabb. IIa-IIb sui lavoratori della pelle nelle fonti scritte romane.6 TosaTTi 2007, pp. 1-4; Bravo 1964, p. 170 anche per quel-le successive; sull’erroneità cfr. l’elenco di termini citati con quello di LeguiLLoux 2004, tabb. IIa-IIb.7 Cfr. Bravo 1964, pp. 169-172.8 TosaTTi 2007, pp. 4-26 in generale, Baroni 2012, pp. 12-37 sulla letteratura specifica.

rade illa(m) cum nobacula de ambas par-tes et laxas des[s]iccare. Deinde quodquod volueris scapi latura(m) facere, fac et post pingue cum coloribus.

Sulla pergamena. In che modo si debba fare la pergamena. Mettila in (acqua di) calce e lasciala per tre giorni; stendila su un sostegno e raschiala con un col-tello da ambo le parti e lascia asciugare. Quindi prepara qualunque cosa vorrai arrotolare su un cilindro, e dopo dipingi con i colori9.

Il testo in effetti riferisce la base della la-vorazione della pelle al fine di ricavarne pergamena, ma fornisce solo dei passaggi semplificati di una lavorazione più com-plessa e lunga, che infatti è più esplicita nel secondo dei due testi medievali che sono alla base per la ricostruzione della produ-zione di pergamena nelle età pre-indu-striali10, il testo conservato nel f. 128r del ms. Harley 3915 della British Library:

Ad faciendas cartas de pellibus caprinis more boboniense. Accipe pelles caprinas et pone in aquam per diem et noctem. Postea extrahas, et ablue tandiu donec clara exeat aqua. Postea accipe vas omnino novum et pone intus calcem non recentem et aquam et misce bene simul quod bene spissa sit aqua; et nunc imponantur pelles, et com-plicentur a latere carnis, postea moveantur cum baculo singulis diebus bis vel ter et

9 caffaro 2003, pp. 84-85, sul testo e sul codice 490 della Biblioteca Capitolare Feliniana di Lucca che lo conser-va caffaro 2003, pp. 1-24. Per sottolineare le difficoltà di interpretazione del testo anche dal punto di vista lin-guistico, è da citare la diversa interpretazione dell’ulti-ma frase in agaTi 2009², p. 66: Deinde quodquod volueris scapilatura facere fac et post pingue cum coloribus, tra-dotto “Quindi, qualunque levigatura tu voglia fare fa’, e dopo dipingila con i colori”.10 agaTi 2009², p. 66.

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GIOVANNI ASSORATII lavoratori della pelle nelle fonti latine altomedievali

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ita stent in estate VIII dies, in hyeme bis tantum. Postea debent extrahi et depilari. Postea quod in vase est totum debet proi-ci et aliud eiusdem generis pone in eadem quantitate; et iterum pelles imponantur et moveantur, et vertantur singulis diebus sicut primitus per alios VIII dies. Tunc debent extrahi et ablui fortissime, quod exeat aqua clarissima. Tunc debent poni in aquam claram in alio vase et stare per duos dies. Tunc extrahantur et ponantur corde et ligantur in circulis; et tunc debent preparari cum bene incidenti ferro. Postea debent per duos dies absque sole stare. Cum extracta fuerit aqua, et cum pumice bene fuerit extracta caro, post duos dies iterum madefiant, spargendo parum de aqua de-super, et purgando bene cum pumice car-nem totam ita madefactam. Postea exten-dantur corde melius et equaliter sicut carte debent permanere; et tunc non restat aliud postquam siccate fuerint. Per fare la carta con pelli caprine secondo l’uso bolognese. Prendi le pelli di capra e ponile in acqua per un giorno e una notte. Dopo estraile, e immergile finché l’acqua non risulti limpida. Prendi quin-di un recipiente del tutto nuovo e metti dentro calce spenta e acqua, e mescola bene tutto insieme affinché l’acqua sia ben spessa; ed ora si pongano le pelli, e si pieghino dal lato carne, dopo si girino con un bastone due o tre volte al giorno, e stiano così, in estate per otto giorni, e in inverno per due volte tanto. Dopo si debbono estrarre e depilare. Quindi si deve gettare tutto il contenuto del recipiente, e un altro deve approntarsi allo stesso modo; di nuovo le pelli vi vanno poste e rimosse, e rigirate ogni giorno come prima per altri otto giorni. Quindi si debbono estrarre e immerge-re energicamente, perché l’acqua risulti limpidissima. Allora si debbono porre in acqua pulita in un altro recipiente,

e stare per due giorni. Quindi si deb-bono estrarre e attaccare delle corde, e tendere le pelli in telai circolari. Quindi debbono essere preparate con un ferro (lama) ben tagliente, e stare al riparo dal sole per due giorni. Dopo che si saran-no asciugate dell’acqua, e con la pietra pomice si sarà ben levigata la carne, per altrettanti due giorni si facciano mace-rare, spargendo sopra un po’ d’acqua e ripulendo bene con la pomice la pelle tutta così macerata. Dopo, si stendano con una corda meglio e in modo sim-metrico, sì che stiano tese come carta. Ed ora non resta altro, dopo che saran-no essiccate11.

Anche se il testo risale ad un periodo leg-germente successivo a quello indagato, essendo datato al XII sec., la rarità della menzione del procedimento e l’impor-tanza nella storia della produzione della pergamena12, fa sì che esso meriti di essere riportato.Non deve poi stupire il fatto che le princi-pali citazioni relative alla lavorazione della pelle nell’alto medioevo si riferiscano alla pergamena: la sua importanza come sup-porto scrittorio si impone in modo defini-tivo proprio in questi secoli e la produzione di codici di pregio è una delle principali di tipo suntuario13, ma anche solo l’importan-za della produzione soprattutto nel mondo religioso cristiano, e monastico più in par-ticolare, è evidenziata dalla necessità della presenza di un Pergaminarius, qui pergame-num aptat, come recita un passaggio degli

11 agaTi 2009², pp. 66-67.12 agaTi 2009², pp. 67-68.13 agaTi 2009², pp. 64-69, 75, 80-81, e 308-344 in generale sulla decorazione libraria nel medioevo; Baroni 2012, pp. 11-12.

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Statuta che s. Adalardo di Corbie ha redat-to agli inizi del IX sec. per la sua abbazia14. Infatti, la miscellanea confluita nelle Com-positiones comprende anche le indicazioni per tingere le pelli, naturalmente in primo luogo quelle destinate alla scrittura15. Le ricette 24-34 illustrano i procedimenti per la tintura in diversi colori delle pelli già conciate: le 24 e 25 riguardano De pelle(s) alithinae tinguere e De secunda tinctio(ne), ovvero la colorazione in rosso porpora e, stando al testo della seconda rubrica, la tintura di una pelle di pecora nella stessa tintura usata per una caprina16; la 26 tratta della colorazione in verde (De tinctio pel-lis prasini), la 27 in azzurro (titolata Tertia tinctio, ma l’incipit tertia tinctio veneti indi-ca il colore), le 28 e 33 in giallo (28 ancora titolata De quarta tinctio(ne), con incipit chiarificatore quarta tinctio melini, 33 tito-lata De porfiro melino, cioè la porpora gialla, variante della tintura col chermes)17; infine le ricette 29-32 e 34 indicano colorazioni di vari gradi di pandius, termine che do-vrebbe indicare una colorazione variegata, anche se in ogni ricetta si indica un colore di riferimento18. Più avanti, la ricetta 81 intitolata Inauratio pellis, spiega come do-rare una pelle per farne una pagina vuota di massimo splendore; la prima parte della ricetta sembra però un riassunto della parte finale della lavorazione di base, quella per realizzare la pergamena, anche se è possi-bile che il materiale di partenza sia invece la pergamena già tinta19:14 Adal. stat. 1 (col. 537), con accenno in Bravo 1964, p. 145 al largo consumo di pergamena nel medioevo.15 caffaro 2003, pp. 14-16.16 caffaro 2003, pp. 72-75.17 caffaro 2003, pp. 76-79, 80-81.18 caffaro 2003, pp. 78-83.19 caffaro 2003, p. 113 nota 161.

tollis pellem rubeam et pumicas eam dili-genter et temperas aquam tepidam et labas ea(m) diligenter, quoadusque limpida[m] aqua egrediatur. Deinde tendis in canta-rio et lamnizas usque IIII vices. Post h(a)ec tendis in axe, munda[m] facies desuper et cum ligno mundo cuoequas e(am) dili-genter.

Prendi una pelle rossa e la spiani scru-polosamente con pietra pomice e con acqua tiepida e la lavi diligentemente, fin quando esce l’acqua limpida. Quindi stendi su un supporto e la raschi fino a quattro volte. Dopo di ciò la stendi su una base, pulirai la superficie e spianala bene sopra un legno pulito20.

È evidente il legame coi testi già citati nell’indicare i passaggi fondamentali della produzione della pergamena, probabilmente qui richiamati per l’importanza dell’operazione descritta, appunto la doratura del folium, pratica par-ticolarmente importante nella produzione libraria medievale21, e infatti non specifi-cati poi nella ricetta 111, De operatio(ne) externiture, ovvero la stesura di una patina dorata da usare su una pelle già tinctam ma anche su una cruda(m), ovvero non ancora conciata22. La doratura è l’elemento ripreso poi nella seconda ricetta dell’Ut auro scriba-tur, testo contenuto nel codice 54 dell’Ar-chivio Capitolare di Ivrea, compilato agli inizi dell’XI sec.23.

20 caffaro 2003, pp. 112-113, cfr. 16 anche se sembra con indicazione sbagliata della ricetta (26 anziché 81).21 caffaro 2003, pp. 16-21 sull’uso dell’oro nella pratica libraria secondo le Compositiones.22 caffaro 2003, pp. 134-135.23 caffaro 2003, pp. 198-199, e sul testo 13 con nota 36, 14-15, 18, e più specificatamente TravagLio 2012, pp. 82-83 e sul testo 69-81.

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La particolarità delle citazioni sulla lavo-razione della pelle per la realizzazione di pagine di alto valore corrisponde alla loro unicità. Infatti, anche il citato Isidoro di Siviglia, protagonista di un testo enciclo-pedico fondamentale nel medioevo, men-ziona la pergamena e la colorazione che gli viene data a seconda della lavorazione24, di pregio soprattutto se di porpora con lettere dorate25, ma non i sistemi di realizzazione: fornisce comunque qualche indizio quan-do, dopo aver ricordato la mitica origine del prodotto (pergamena dai re di Perga-mo26), indica che haec et membrana dicun-tur, quia ex membris pecudum detrahuntur27.Come accennato, Isidoro non scrive delle tecniche di lavorazione e pure poco dei lavoratori legati alla pelle: soprattutto cita termini come lorium, pellis e corium, ovvero i materiali di cui erano costituiti gli ogget-ti28, anche se non mancano alcuni passaggi utili. Infatti, da Isidoro si può partire per individuare le poche citazioni di mestie-ri legati alla pelle nell’alto medioevo, tra i quali spiccano i fabbricanti di calzature, i caligarii ma soprattutto i sutores.Secondo l’erudito ispanico, sutor deriva

24 Isid. orig. 6,11,2 e 4. Su Isidoro e la colorazione del-la pergamena Baroni 2012, pp. 28-30, sull’importanza dell’opera isidoriana si vedano i diversi contributi con-tenuti in veLásquez, ripoLL 2015.25 Isid. orig. 6,11,5 e 12,6,50 con la derivazione della porpora.26 Su questa spiegazione leggendaria dell’origine del prodotto, già presente in antico, agaTi 2009², p. 65.27 Isid. orig. 6,11,1: la pergamena è chiamata anche membrana in quanto staccata dalle membra delle pe-core.28 P.e. Isid. orig. 10,162 sul colore del cuoio lorum, 11,1,79 sul corium come pellis degli animali brutis, 18,14,1 sulla galea, un elmo di cuoio, 19,22,6 sulle pel-liciae tunicae di Adamo e Eva, 19,23,5 sulla mastruca, una veste germanica ex pelliculis ferarum, 19,26,9 sulle cortinae, tende fatte di corium, 19,14,13 sulle corrigiae, i lacci di cuoio, etc.

a suendis pellibus cioè dalle pelli che deve cucire, ad indicare la tipologia di realiz-zazione delle calzature29; anche il termine di per sé indica il materiale della cucitura, costituito dalle setole dei suini misto a filo vegetale30, come più volte ripreso da Raba-no Mauro31. Altro materiale fondamentale per i calzolai è il legno, che può derivare dai lavori dei campi, quando alcuni scarti utili, i subseciva, sono tenuti da parte pro-prio per i sutores32, anche se dal materiale ligneo secondo Isidoro deriva l’altro nome dei calzolai, caligarii, legato al calo, la forma attorno alla quale si realizza la calzatura33, poi fissata con claves34. A parte alcune indi-cazioni relative a ortografia e metrica35, po-che altre citazioni riguardano questa figura nelle fonti alto medievali, e ancor meno il loro lavoro: fa in parte eccezione Agnello di Ravenna che, riferendo la storia di Mas-simiano, narra che il futuro arcivescovo accersivit sutores calciamentorum, praecepit illis ut magnas zancas ex hircorum pellibus operarent per riempirli delle monete d’oro trovate in un campo36.La letteratura giuridica e le fonti d’archivio permettono di illustrare le diverse grada-zioni sociali di questi artigiani. Il sutor è protagonista di vari esempi nei Digesta, tra

29 Isid. orig. 10,263.30 Isid. orig. 12,1,26 e 19,34,1.31 Rab.Maur. rer. nat. 7,8 (col. 206a), 21,26 (coll. 585d-586a).32 Isid. orig. 15,13,15.33 Isid. orig. 19,34,2 ripreso da Rab.Maur. rer. nat. 21,26 (col. 586a).34 Isid. orig. 16,21,3.35 Beda orth., C, l. 182: caligarius artifex, caligaris clavus; Aldh. pedus reg., p. 162 con sutores come parola utile al verso molossus.36 Agn. 70: «fece venire dei calzolai e ordinò loro di confezionare grandi stivali con pelli di caprone» (trad. Pierpaoli 1988, p. 95).

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cui il più significativo riguarda il caso in cui un calzolaio colpisca alla testa con forma calcei, quindi con lo strumento di base del lavoro, un apprendista fanciullo ingenuus, cioè di condizione libera, che non lavora bene, facendogli un danno tale da danneg-giargli un occhio: qui il sutor è un artigiano di condizione libera che dirige una botte-ga, con strumenti ed apprendisti rispetto ai quali ha piena libertà nei metodi d’in-segnamento, visto che il giurista conclude che, se per monendi et docendi causa, il sutor non è perseguibile per il danno arrecato37. Questo artigiano può però essere anche di condizione servile, visto che in altra par-te il Digesto cita un verna sutor, quindi un calzolaio nato schiavo nella domus dove opera la sua professione38. Tale condizio-ne è ribadita nella Lex Gundobada e forse come elemento divenuto più comune, visto l’inserimento del sutor in un lungo elenco di artigiani la cui attività è regolamenta-ta proprio in riferimento alla condizione servile39, come ancora sembra essere nel X sec. Adso, che calceamentoriam arte agens in servitio del nobile Godescalco, fratello dell’abate di Lobbes Folcuino40. E come è forse al servizio del vescovo locale il ma-gister sellario Iohannes de Episcopo, membro della comunità di Comacchio, a metà del IX sec., o lo erano i suoi immediati ante-nati41, mentre deve essere di condizione leggermente più elevata, almeno economi-camente, il calciolarius Benedictus che detie-

37 Dig. 9,2,5,3 e 19,2,13,4, cfr. 35,1,17,1 sulla possibilità di nominare legati, altro elemento della condizione li-bera.38 Dig. 36,1,80,12.39 Lex.Gund. 21,2.40 Folc. gest. 35.41 Cart. Rav. VIII e IX, n. 19.

ne in affitto due clusure vineate di proprietà della chiesa di Tivoli per un affitto di due denarios nel 94542.Il corpus documentario di Ravenna illustra invece le (rare) possibilità per i calegarii di elevare la propria condizione economica e sociale: se la ricchezza fondiaria del calle-gario Petrus quondam Lutjanus, in grado di donare all’arcivescovo di Ravenna un’intera massa nell’858/85943 sembra un’eccezione, diversi altri esempi dimostrano la buona posizione sociale ed economica dei caliga-rii, spesso presenti tra i testimoni degli atti rogati a Ravenna tra IX e X sec. accanto a negociatores e tabelliones, subito dietro duces e magistri militum44, e in grado di darsi una scola callegariorum, la sede di una primiti-va forma associativa che in queste prime menzioni risulta solo come luogo45. Dei ca-ligarii sono protagonisti di altre iniziative tra cui spiccano la possibilità dei coniugi Martinus caligarius e Maria di macellum fatjendum nel 95446, e il cambio lavorativo di Martinus negociator dudum callicario nel-lo stesso periodo47.

42 Reg. Tivol. n. II.43 Cart. Rav. VIII e IX, n. 20.44 Cart. Rav. X, n. 282 del 942; Cart. Rav. X, n. 59 del 948; Cart. Rav. X, n. 62 del 949; Cart. Pomp., n. 7 del 957; Cart. Rav. X, n. 297 del 964; Cart. Rav. X, n. 182 del 974.45 La scola è citata come bene confinario in Cart. Rav. X, n. 213 del 980, in Cart. Rav. X, n. 248 del 990 dove diven-ta adiacente alle abitazioni affittate da una consorteria di calegarii, e in Cart. Rav. X, n. 276 del 998/9 in cui è ci-tata la mansio scola calicorum. La precocità è evidente nel cfr. con gli accenni sulle primitive forme associative degli artigiani del cuoio in Europa dati in Bravo 1964, pp. 145, 146-147, 153, 156-157, 159, 162 che non risalgono a prima del 1000.46 Cart. Rav. X, n. 77.47 Cart. Rav. X, n. 180 del 974: Martinus risulta defunto e padre dei quattro fratelli che chiedono all’arcivescovo una casa in enfiteusi in Ravenna, e probabilmente era ancora vivo, callegario e possessore di una casa vicino a quella chiesta dai figli in Cart. Rav. X, n. 122 del 966, dove è citato come Martinus callegario filio Dominici

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Normalmente la condizione di questi e consimili lavoratori in questo periodo è ri-masta ai più bassi livelli della società, senza che questo abbia pregiudicato il riconosci-mento del loro ruolo nella comunità, come implicitamente attestato dal dubbio del giovane s. Benedetto di Aniane di exerce-re artem sutoris come esercizio di povertà, donando i proventi del lavoro ai poveri, piuttosto che fare il pastore gratis48. An-cor di più lo attesta la presenza del sutor in documenti come il Capitulare de villis di Carlo Magno e altri che indicano la neces-sità di boni artifices per le grandi proprietà: così, ci devono essere sutores tra i lavorato-ri specializzati al servizio di un iudex nel suo ministerium, al quarto posto tra fabros ferrarios, aurifices, tornatores, e altri ancora quos ad numerandum longum est49, ai quali ne sono poi aggiunti altri, tra cui i sella-rii, con la specificazione che anche dal loro lavoro si valuterà il servizio dello iudex50. L’indispensabile utilità dei pellettieri si nota anche in contesto monastico in al-cuni importanti documenti del IX sec.: attorno all’820/830 la pianta dell’abbazia di San Gallo dedicata all’abate Gozbert indica che nell’area riservata a chi fratrum qui tegmina curat si trovano le mansiunculae (officine) fra gli altri dei sutores, dei sella-rii e dei coriarii51; negli stessi anni a Bob-

callegario. Altri esempi significativi di azioni economi-che sono attestate in Cart. Rav. X, n. 305 del 975 e Cart. Rav. X, n. 225 del 982.48 Ardo v. Ben. Anian. 1.49 Capit. reg. Franc. 32 (Capitulare de villis), 45, cfr. Bravo 1964, p. 145.50 Capit. reg. Franc. 32 (Capitulare de villis), 62.51 Al sito http://www.stgallplan.org/StGallDB/plan_components/public_list_berschin_english (consultato il 28 luglio 2017) è disponibile la digitalizzazione navi-gabile della Pianta di San Gallo (Stiftsbibliothek Sankt Gallen, Ms 1092), con trascrizione delle didascalie con-tenute.

bio il breve memorationis dell’abate Wala sull’organizzazione dei beni e delle dota-zioni del monastero afferma che sotto la supervisione del camararius, che provideat omnia vestimenta vel pannos … seu calcia-menta pedum ac manuum, devono operare i sutores calciamentorum ac vestimentorum seu conpositores pellium, e con loro i sellarios, i pergamentarios e gli altri artigiani al servi-zio del monastero52; infine, l’importanza di queste figure è evidenziata in alcuni docu-menti relativi al monastero di Reichenau emanati nell’887 da Carlo III di Germa-nia: egli, confermando le grandi pertinenze terriere al monastero, specifica che quando i sutores, i pellifices et alii servitores lavorano per il monastero, questo deve provvedere al loro sostentamento (le formule usate sono: ut sutores vellifices fullones et alii servitores, dum in eorundem fratrum vestitu occupantur, de fructibus prefatae ville vescantur53, e ut eorum sutores pellifices fullones in his diebus, quando in vestibus preparandis fratrum ocu-pantur, de fructu prefatae villae pascantur54). I Miracula sancti Columbani attestano come il sutor pellium sia una figura di servizio all’interno di una comunità monastica: Rainerius, nobile pentito, chiede di vivere nel monastero e si pone a servizio dei mo-naci, fratribus omnibus exinde libentissime servet come sutor pellium55.Un passaggio dei Miracula di s. Vedasto in-

52 Cod. Bobb., n. 36.53 DD Karl III 172, ll. 25-27, base del falso documento carolingio edito in DD Karol. 1 232 con la stessa formu-la, e ripreso anche per la formula dell’altrettanto falso DD Karol. 1 231.54 DD Karl III 191, ll. 34-36: che i calzolai, i pellicciai, i tintori (e gli altri artigiani) in quei giorni in cui sono occupati a preparare i vestiti dei monaci, siano nutriti coi prodotti dei suddetti villaggi (di proprietà del mo-nastero).55 Mirac. s. Columb. 26.

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forma che già nel IX sec. un centro impor-tante associato ai sutores era Soissons, ma non per la produzione, bensì per il culto dei ss. Crispino e Crispiniano, la cui mancata citazione dice della fama che tali santi ave-vano nella Francia alto medievale56.Pochi altri termini ricorrono nelle fonti alto medievali, e spesso sono associati a episodi e personaggi ben precisi e ricorrenti nella letteratura del tempo, oppure non manca-no termini isolati che dimostrano ambiva-lenze di significato che rendono anche più difficoltosa la ricerca. È il caso del termine sellarius: rispetto ai casi citati, le maggiori e più note occorrenze letterarie ne indica-no il significato militare di cavaliere, come nelle diverse redazioni delle vite e passio-nes del martire s. Anastasio di Persia57. A complicare le cose, tale mestiere in una redazione della Lex Salica è indicato come stratarius (forse per gli strati di pelle da cu-cire per formare il manufatto) e associato a quello di altri artifices di bassa condizione sociale ma di alto valore economico58.Rara, soprattutto rispetto all’antichità, è la citazione del coriarius, il conciatore, le cui attestazioni si riferiscono quasi tutte a commenti a Atti degli Apostoli 10,32 in cui si dice che s. Pietro è stato ospite in domo Simonis coriarii a Giaffa59, con la significa-tiva segnalazione della glossa 30 della sectio 61 del codice 258 della Burgerbibliothek

56 Mon. Vedast. Mirac. 2,9, e Bravo 1964, pp. 203-208 sui santi protettori, tra cui i più importanti sono i fratelli martiri di Soissons.57 Du cange 1883-1887, s.v. Sellarius 3.58 Pact. leg. Salica 10,6 A2: altre redazioni riportano strator, ma stando ai lessici si tratterebbe di una figura di militare non compatibile con la qualifica di artifex.59 AT 10,32, ripreso nei commenti agli Atti del periodo di: Cassiod. compl. 21 e 22 del VI sec.; Beda retract. 10 dell’VIII sec.; Agob.Lug. iudaic.super. 15 del IX sec.; Gloss.Bibl., Fuld. 58.32 del X sec.

di Berna, dove è indicato per conciato-re byrsarius, derivato dall’allora diffuso grecismo byrsa60. Fanno eccezione Paolo Diacono, che negli excerpta ex libris Festi ricorda che i coriarii utilizzano i grana ni-gra dell’erba nautea61, e in parte il letterato del IX sec. Sedulio Scoto: infatti, se in un passo anch’egli cita Simon coriarius, in altra massima della sua miscellanea afferma che non bisogna sottolineare con troppa forza l’errore altrui, per non fare come il fullo e il coriarius che passando davanti alla taber-na pigmentarium si turano il naso62, come se i loro lavori non producessero terribili olezzi63!

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60 Gloss.Bibl., Bern. 61.30 del X sec., sulla diffusione del termine byrsa, equivalente a corium, Du cange 1883-1887, s.v. Byrsa e niermeyer 1976, s.v. Byrsa.61 Paul. Fest. p. 165.62 Sed.Scot. coll.mem., div. 6,39, mentre la citazione neo- testamentaria è a div. 13,36,14.63 Cfr. LeguiLLoux 2004, pp. 42-43.

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In generale, una delle carenze principali della ricerca sugli oggetti di abbigliamento e di attrezzatura personale è costituita da una sorta di amnesia cronica – tranne in alcuni territori con lunghe e proficue tradizioni di studi, come la Scandinavia – che ci fa dimenticare spesso le componenti organiche di questi oggetti, le quali, va detto, sono di solito quelle più significative per capire la loro funzionalità, le modalità di utilizzo e l’aspetto visivo. Solo in tempi molto recenti la moltiplicazione degli studi sul cuoio e tessuti antichi nell’Europa meridionale ha cominciato a riempire quello che era diventato un enorme buco nero nella ricerca. L’insieme di contributi di questo volume ne è un bell’esempio1.Ci sono, ovviamente, significative ragioni per il tardivo sviluppo di questo tipo di approccio, in primis la rarità degli elementi tessili o delle pelli da contesto archeologico. In Spagna, inoltre, le condizioni climatiche

1 La redazione di questo contributo è stata sostenuta da una fellowship della Fondazione Alexander von Hum-boldt.

Cuoio e metallo nella penisola ibericain epoca visigotaAppunti sull’organizzazione della produzionedi borse e cinture

e dei suoli non sono, in generale, le più adeguate per la conservazione di questi elementi. È vero, però, che alcuni particolari permettono di andare un po’ oltre nello studio degli insiemi di abbigliamento: un caso paradigmatico è quello delle cinture e delle borse, di cui spesso recuperiamo unicamente la parte metallica (fibbie, placche, rivetti, ecc.), ma che nella loro parte sostanziale venivano realizzate, nell’Alto Medioevo come oggi, in cuoio.Il fatto che fibbie e fermagli – che troviamo nel deposito archeologico, ad esempio dentro a una tomba – fossero utilizzati insieme alle cinture e alle borse, di cui costituivano gli elementi di chiusura, è suggerito dal buon senso ma è anche attestato da numerosi resti di cuoio conservati, in forma di aderenze, sul tergo di questi elementi metallici. Cosa succedesse prima dell’acquisto del manufatto da parte dell’ultimo proprietario, invece, è meno chiaro: a oggi nessun centro produttivo di accessori del genere è stato identificato archeologicamente con certezza in area

Joan Pinar Gil Römisch-Germanisches Zentralmuseum, Leibniz-Forschungsinstitut für Archäologie

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visigota. Quindi, sostanzialmente, non sappiamo né dove si svolgesse questo tipo di produzione né come essa fosse organizzata.L’esame di alcuni rinvenimenti tombali, tuttavia, offre alcune indicazioni in merito. Un buon punto di partenza è una borsa di cuoio seppellita insieme a un uomo di 30-40 anni di età, datata intorno alla metà o alla fine del VI secolo, rinvenuta nella tomba 24 del cimitero di Cacera de las Ranas presso Aranjuez (Madrid)2. La borsa, totalmente degradata già al momento dello scavo, era ancora visibile attraverso la traccia lasciata dalla sua decomposizione sul fondo della tomba (fig. 1). Questa borsa sarebbe stata chiusa da una piccola fibbia a forma di

2 arDanaz 2000, pp. 50-57, 306.

rettangolo con estremità “a freccia” e tenuta insieme da applicazioni e rinforzi metallici. Questi ultimi avrebbero conservato dei resti di legno sul retro, il che ha portato alcuni ricercatori a collegare questo tipo di oggetto a scatolette in legno3. I confronti da altre regioni europee (fig. 2.4), tuttavia, rendono chiaro che questo tipo di fibbia è in realtà un elemento strutturale delle borse di cuoio4, così come i resti di legno, i quali corrispondono probabilmente all’“anima” interna del lembo di chiusura dell’oggetto della borsa (fig. 2.5)5.3 Ibid., p. 52; azkaraTe 1999, pp. 461-462.4 Si veda ad esempio Dannheimer 1998, pp. 187-189, tavv. 82, 117; schiek 1992, pp. 30-31, tav. 17.5 In casi eccezionalmente lussuosi, il coperchio o lem-bo di chiusura di questo genere di borsa sarebbe stato realizzato in osso o avorio, come suggerisce l’esempio della celebre tomba di Sutton Hoo nel Suffolk (Bruce-

Fig. 1. Cacera de las Ranas (Aranjuez), tomba 24. Elementi metallici da cintura e borsa e posizione in situ della borsa all’interno della tomba (da Hispania Gothorum 2007 e ArdAnAz 2000)

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Sia la fibbia che le applicazioni da Cacera de las Ranas mostrano gli stessi motivi ornamentali e la presenza di iscrizioni (fig. 3). Quella della fibbia è di particolare interesse, poiché ci si legge «ex officina Nepotiani», cioè «dalla bottega di Nepoziano». Tale iscrizione, assolutamente eccezionale in questo genere di oggetti metallici, rimanda al luogo di produzione del manufatto.Anche se per ora non possiamo localizzare con precisione la bottega di Nepoziano,

miTforD 1968, p. 73, n. 83).

questo documento epigrafico invita a chiedersi quali sarebbero stati i prodotti da essa realizzati. La fibbia appartiene a un tipo ben attestato in Spagna (fig. 4), prodotto lungo il VI secolo e collegato in maniera esclusiva alla chiusura di borse6; in altre parole, questi oggetti erano prodotti appositamente per svolgere questa funzione. Sembra dunque chiaro che il manufatto acquistato dal titolare della tomba 24 di Cacera de las Ranas – o da qualche eventuale proprietario 6 moLinero 1969.

Fig. 2. Esempi di borse spagnole del VI secolo e alcuni confronti europei. 1: Aldaieta, tomba B95; 2: Cacera de las anas tom a Ma rona tom a M nc en u ing tom a er ac t tom a a ArdAnAz

2000; AzkArAte 1999; Molinero 1971; dAnnheiMer 1998; Schiek 1992)

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precedente – fu appunto la borsa, e che la produzione dell’atelier di Nepoziano corrispondeva a borse montate e pronte all’uso, cioè con tutti i componenti organici (cuoio e legno) e inorganici (lega di rame) convenientemente assemblati.Pur in assenza di dati epigrafici comparabili7 è di buon senso pensare che la produzione di cinture segua principi molto simili; come per il caso delle borse, alcuni contesti deposizionali possono essere di aiuto. A questo fa pensare una notevole quantità

7 n’iscrizione sul retro di una fibbia a placca articolata della seconda metà del VI secolo è forse riconducibile alla produzione di un artigiano di nome Egica: «Egica ego f(?)ec(i)». Si veda DüweL 1994, p. 279. Il pezzo, tutta-via, proviene dal mercato antiquario ed è privo di pro-venienza (Treasures of the dark ages 1991, pp. 98-99). Anche la valutazione dell’iscrizione pone alcuni proble-mi derivati dall’assenza di confronti epigrafici esatti e dalla sua posizione questo tipo di fibbia è solitamente dotato di una controplacca, la quale avrebbe reso total-mente invisibile l’iscrizione perfino in assenza della cin-tura di cuoio. In generale sugli elementi di abbigliamen-to firmati si veda BegheLLi, De marchi 2017, pp. 177-178.

di tombe all’interno delle quali furono collocati insieme sia fibbie di cintura in bronzo o ferro sia coltelli per scarnare la pelle8. L’identificazione funzionale di questi strumenti, fondamentali nella lavorazione del cuoio, lascia pochi dubbi: la confermano sia i paralleli iconografici (fig. 5B-C), sia le analisi dei resti aderenti

8 paLoL 1957; moLinero 1971, p. 59, tavv. LXXXII-LXXXIII; fernánDez gómez et al. 1984, pp. 285-288; soLanes, aLòs 2003.

Fig. 3. Cacera de las Ranas, tomba 24. Fibbia da borsa con iscrizione (da ArdAnAz 2000)

Fig. 4. Fibbie da borsa spagnole del VI secolo. 1: Duratón, tomba 549; 2: Tinto Juan de la Cruz, tomba 22; 3: Cacera de las Ranas, tomba 127; 4: Carpio de Tajo, tomba 104; 5: Madrona, tomba 22; 6: Cacera de las Ranas, tomba 24; 7: Madrona, tomba 188; 8: Aldaieta, tomba B95 (da Molinero 1971; BArroSo et al. 2002; ArdAnAz 2000; SASSe 2000; AzkArAte 1999)

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al ferro9. In tutte queste tombe le fibbie non furono rinvenute in posizione di utilizzo nell’abbigliamento, ma accanto all’inumato, attaccate ai coltelli da scarnare (fig. 5A): appare dunque evidente che i due elementi formavano parte di un solo deposito simbolico, integrato da un oggetto già finito e da uno strumento connesso alla sua produzione. È anche ben plausibile che questo tipo di deposito sia da collegare a persone coinvolte nella produzione di cinture.È forse interessante il fatto che queste tombe, nonostante siano state rinvenute in territori molto lontani tra loro, siano

9 Ibid.

riconducibili a una cronologia molto precisa (sostanzialmente seconda metà VII-inizi VIII secolo, con qualche esempio della prima metà del VII) e anche a un contesto tipologico molto simile (fig. 6): si tratta sempre di fibbie a placca mobile liriforme e, in minor misura, di fibbie realizzate in un solo pezzo a placca linguiforme. Gli stessi tipi di fibbie e di coltelli per scarnare pelli, inoltre, appaiono in due tombe adiacenti nel cimitero di El Carpio de Tajo10: tenendo conto dei grandi problemi di documentazione del sito, non è azzardato ipotizzare che i due oggetti potessero provenire originariamente da un solo corredo funerario (fig. 7). Infine, fibbie e coltelli della stessa tipologia sono stati rinvenuti in tombe vicine tra loro anche nel cimitero di La Indiana (Pinto, Madrid)11.Questa costante combinazione di elementi può forse aiutarci a individuare alcuni possibili centri di produzione di questo tipo di oggetto, poiché essa si ripete non solo all’interno di tombe, ma anche in abitati. Così, la presenza di coltelli da scarnare e di elementi di cintura si ripete in insediamenti come il castrum di Sant Julià de Ramis (Girona) e, soprattutto, El Bovalar (Seròs, Lleida)12. In quest’ultimo (fig. 8), una quantità del tutto eccezionale di questi coltelli – si parla di una trentina – sarebbe stata accompagnata da una quantità altrettanto anomala di fibbie da cintura a placca liriforme, cioè otto. Il sito, tradizionalmente ritenuto un piccolo insediamento rurale, è stato recentemente interpretato come un 10 sasse 2000, pp. 231-232, tav. 22.11 morín et al. 2006, pp. 573-575, 578.12 Burch et al. 2006; paLoL 1989; paLoL, pLaDevaLL 1999, pp. 145-146, 319-321, 343-345; soLanes, aLòs 2003; casas, noL-La 2011, pp. 101-102.

Fig. 5. Coltelli da scarnare a doppio manico. A: Palous (Camarasa, Lleida), tomba 4: coltello da scarnare e fi ia a cintura e ositati accanto alla testa ell inu-mato; B-C: Norimberga, Biblioteca Civica, Mendelsche

aus c er ra figura ioni i conciari el secolo (da SolAneS, AlòS 2003; treue et al. 1965; www.nuernberger-hausbuecher.de)

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Fig. 6. Esempi di tombe del VII secolo con coltello da scarnare. A: Madrona, tomba 231; B: Madrona, tomba 214; C: Las Huertas, tomba 6; D: Los Goros; E: Palous, tomba 4; F: La Indiana, tomba 8 (da Molinero 1971; Fernández GóMez et al. 1984; PAlol 1957; SolAneS, AlòS 2003; Morín et al. 2006)

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monastero, a cui si sarebbe collegata una significativa attività artigianale, incentrata sulla produzione di pergamena per uso interno13. Il rinvenimento delle fibbie, a mio avviso, consente di individuare una bottega funzionale piuttosto alla produzione e forse alla vendita di cinture pronte all’utilizzo. I rinvenimenti monetali sono infatti consistenti; la presenza di una bottega pare logica, soprattutto se pensiamo che prodotti finiti (le fibbie) e mezzi di pagamento (le monete) sono stati trovati insieme negli stessi ambienti (forse da identificare come negozi).Per riprendere le domande poste all’inizio del contributo, appare dunque probabile che casi come quello di El Bovalar siano da ricollegare al processo di lavorazione e di commercializzazione di questo genere di manufatti. In questo contesto, meritano di essere ricordati i rinvenimenti del quartiere artigianale adiacente alla basilica

13 saLes 2014.

D di Caričin Grad (Serbia)14, un ambiente topografico che, seppur in contesto urbano, rimanda a quello di El Bovalar15. In quest’area, infatti, sia la lavorazione del cuoio sia la produzione di guarnizioni metalliche da cintura sono ben attestate da vari coltelli per scarnare nonché da matrici da fusione (fig. 9). Curiosamente, la tipologia e cronologia di questi elementi di cintura, datati al pieno VII secolo, sono notevolmente simili ai rinvenimenti spagnoli.I ritrovamenti sia da tomba che da insediamento rispecchiano fedelmente fino a che punto l’elaborazione e la commercializzazione di cuoio e metallo fossero connesse l’una con l’altra. Prodotti quali le cinture e le borse venivano probabilmente finiti congiungendo i componenti metallici e organici in una sola bottega, ad esempio quella di Nepoziano.

14 BavanT 1990, pp. 220-224.15 marToreLLi 1999; saLes 2014.

Fig. 7. Fibbia liriforme da cintura (tomba 171) e coltello da scarnare (tomba 172) dal Carpio de Tajo (Torrijos, Toledo), forse riconducibili a un solo corredo funerario (da riPoll 1993-1994; SASSe 2000)

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Probabilmente questo era lo spazio dove essi venivano anche messi in vendita16, come suggerito anche dai reperti da El Bovalar.Questa manciata di esempi, certamente, non consente di individuare con precisione i particolari dell’organizzazione della produzione di borse e cinture. I componenti metallici venivano commissionati a una bottega specializzata e poi montati insieme al cuoio nel centro produttore dell’ultimo, oppure al contrario? O, diversamente, poteva tutta la produzione realizzarsi in una stessa bottega, nella quale avrebbero 16 pinar 2017, pp. 145-150.

lavorato artigiani con competenze diverse?

In assenza di fonti esplicite, dobbiamo affidarci esclusivamente al buon senso. È noto il fatto che, in linea di massima, la posizione sociale del conciario fosse inferiore a quella dell’artigiano del metallo, e che i suoi prodotti fossero in media meno apprezzati e più economici di quelli del fabbro o dell’orafo. La fonte più esplicita in merito sono le leggi irlandesi: fabbri, orafi e falegnami appartengono alla piccola nobiltà dell’isola (aire désa) e hanno buone possibilità di promozione sociale in base alla qualità del loro lavoro; altri artigiani, come i conciari o anche i

Fig. 8. El Bovalar (Seròs): insediamento di epoca visigota coi relativi rinvenimenti di monete, cinture e attrezzi er la la ora ione el cuoio ianta fi ie e monete a PAlol, PlAdevAll coltelli a scarnare otografia el

Museu de la Noguera, per gentile autorizzazione di Carme Alòs Trepat)

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tornieri, si inseriscono invece nel ceto più basso tra i cittadini liberi (fer midboth)17. È ovvio che questi dati non sono da prendere alla lettera per il caso spagnolo, ma sono comunque indicativi del fatto che è molto più probabile che fosse il fabbro o l’orafo a commissionare le cinghie già pronte al conciario.Un altro modello di interazione tra artigiani del cuoio e del metallo viene proposto nel Livre des Métiers parigino. Esso descrive, in pieno XIII secolo, un processo produttivo altamente specializzato, in cui il corroier (“cinturiere”) era soltanto l’incaricato di montare insieme le cinghie di cuoio o tessuto con i loro componenti metallici (fig. 10), che otteneva rispettivamente da conciari e da “fibbiai” (boucliers)18. Ma l’altissima specializzazione degli artigiani della Parigi bassomedievale era rara al di fuori dei grandi centri urbani: come norma generale, il montaggio del pezzo finito

17 mac neiLL 1923, pp. 279-281. Per le attestazioni sugli artigiani del cuoio nelle fonti latine, si veda il contributo di Giovanni Assorati in questo volume.18 fingerLin 1971, p. 24.

veniva realizzato nella stessa bottega del fabbro o del fonditore19.

Il modello del Livre des Métiers sembra avvicinarsi ai rinvenimenti altomedievali spagnoli, in primis l’insieme di piccoli oggetti individuato a El Bovalar (fig. 8). Altri centri artigianali di media grandezza dell’area visigota rispecchiano la stessa tendenza alla convivenza di diverse produzioni specializzate: ad esempio, al Roc de Pampelune (Aude) sono state individuate tracce sia di lavorazione del metallo e del vetro sia di produzione tessile20. Per ora non sono stati individuati né strumenti né altri indicatori di lavorazione dei metalli collegati a contesti “conciari”, ma è vero che i documenti disponibili sono ancora pochissimi.Probabilmente, i centri artigianali di questo genere erano i luoghi dove si svolse la vita professionale delle persone

19 Ibid.20 schneiDer 2003, 2007.

Fig. 9. Caričin Grad, quartiere artigianale intorno alla basilica D. Matrice da fusione e coltello da scarnare (da BAvAnt 1990)

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Fig. 10. Ciclo produttivo delle cinture bassomedievali, secondo il Livre des Métiers arigino secolo otogra-fie a PAlol 1957; disegno: da treue et al. 1965)

sepolte nelle tombe con fibbia e strumento da conciario. È anche lecito pensare, dunque, che la bottega di Nepoziano, produttore di borse, sia da collegare a un ambiente di questo genere. Ci sono buone possibilità, tuttavia, che non esistesse un solo modello di organizzazione della produzione, e questo discorso vale in particolare per le piccole botteghe, che potrebbero essersi appoggiate a reti locali

di artigiani e commercianti per ottenere manufatti sia metallici che di pelle prodotti in altri luoghi del territorio. Comunque sia, mi sembra che questo ristretto gruppo di rinvenimenti spagnoli metta in rilievo le molteplici connessioni tra la lavorazione del cuoio e del metallo e le ricche possibilità che ci offre un accostamento integrato tra le due tipologie di testimonianze.

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Il piccolo sepolcreto longobardo di Mon-selice (PD) fu scavato negli anni ’90 per iniziativa della Società Archeologica Ve-neta, nell’ambito di una serie di indagini scientificamente dirette da Gian Pietro Brogiolo volte a ricostruire le fasi di occu-pazione del colle omonimo tra l’età antica e il medioevo1. Attualmente il rilievo, appartenente al complesso dei Colli Euganei a sud-ovest di Padova, è dominato dal mastio di età federiciana che gli conferisce un profilo inconfondibile. La prima fortificazione del colle risale tuttavia ai primi secoli dell’alto medioevo e sarebbe da riferirsi ai Bizanti-ni (seconda metà del VI secolo) o, secondo le più recenti ipotesi, al re goto Teodori-co (primi decenni del VI secolo)2. In ogni caso, determinante per la fortificazione del sito fu la posizione strategica del colle, sia nei confronti della viabilità sottostante, sia dell’abitato e delle aree rurali ubicate ai

1 Da ultimo BrogioLo 2017, con bibliografia precedente.2 BrogioLo 2017, p. 12.

La ricostruzione delle cinture reggiarmi di età longobarda: il caso studio delle tombe di Monselice (prima metà del VII secolo)

suoi piedi. Alla fase longobarda, avviatasi dopo la conquista del castrum bizantino da parte di Agilulfo tra 601 e 603, appartenevano alcune sepolture ubicate nell’area interna del castrum, messe in luce all’esterno di una torre inglobata nel circuito murario di di-fesa (fig. 1). Il piccolo gruppo di sepolture, databile nel suo insieme alla prima metà del VII secolo, era costituito da cinque fos-se per un totale di sette deposizioni, tutte di individui maschili adulti o di età infanti-le. Percentualmente elevata era la quantità di cinture reggiarmi, coerente con la crono-logia delle sepolture e la loro deposizione all’interno di un castrum altomedievale3.Delle cinture rinvenute nel sepolcreto lon-gobardo di Monselice, la maggior parte è inquadrabile nel tipo cosiddetto “a cinque pezzi”.Un primo set, corredato di tracolla, pro-veniva dalla tomba US 711 (fig. 2). Nella sepoltura, di cui si conservava solo la metà

3 De marchi, possenTi 2017.

Elisa Possenti Università degli Studi di Trento

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superiore, non vi erano armi anche se è probabile una loro originaria presenza. La tomba era stata infatti tagliata da alcune buche nel cui riempimento sono stati recu-perati un bottone piramidale in osso forse pertinente al sistema di sospensione di una spada, la ghiera di uno scramasax e, inol-tre, un punteruolo in ferro, un manufatto quest’ultimo attestato spesso nelle sepoltu-re maschili con armi delle prime genera-

zioni longobarde in Italia. Un set dello stesso tipo, ma con guarnizioni in ferro, proveniva dalla sepoltura bisoma US 748-749 (fig. 3). Le guarnizioni, rin-venute al di sopra della lama di una spada posizionata sul fianco destro dell’inumato 748, erano riferibili ad una cintura che al momento della cerimonia funebre era sta-ta deposta ripiegata sopra il fodero ligneo della spada medesima.

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Un terzo set, diversamente dai precedenti privo di tracolla e con guarnizioni in ferro ageminato e placcato, era nella sepoltura US 729 (fig. 4). In questo caso, la com-posizione del corredo e la posizione delle singole guarnizioni inducono ad ipotizzare che la cintura, posizionata sopra il corpo del defunto, fosse stata funzionale al siste-ma di sospensione di uno scramasax medio, l’unica arma presente nella tomba.Riferibili ad una cintura multipla erano invece le guarnizioni in ferro ageminato e placcato associate alla sepoltura infantile US 741 (fig. 5). Di quest’ultima non è più possibile ricostruire la posizione originaria dal momento che una seconda inumazione infantile aveva causato il totale sconvolgi-mento delle ossa e dei singoli elementi di corredo di quella più antica. Le cinture reggiarmi e gli altri tipi di fib-bie rinvenute a Monselice sono stati ap-profonditamente analizzati da Paola Ma-rina De Marchi in due diversi contributi (1998, 2017), ai quali si rimanda per tutti gli aspetti concernenti la tipologia e la cro-nologia dei singoli gruppi di guarnizioni4.In questa sede vengono invece presentate le ipotesi relative alla ricostruzione delle cinture. Ipotesi la cui prima formulazione era già stata effettuata una ventina di anni fa in occasione del mio coinvolgimento nell’allestimento dell’Antiquarium Lon-gobardo di Monselice (1998) nell’ambito del quale erano confluite altre mie prece-denti esperienze professionali sempre rela-tive alle tombe longobarde di Monselice: il disegno di tutti gli elementi di corredo (matite e lucidi) e la revisione dei rilievi di scavo funzionali alla prima pubblicazione

4 De marchi, possenTi 1 8, pp. 206-214 De marchi, possen-Ti 2017, pp. 63-73.

delle sepolture, fatta insieme a Marina De Marchi (1998) e poi riproposta, con alcu-ne integrazioni, nell’articolo, sempre a due nomi, uscito del 2017. Per quanto concerne la metodologia se-guita nella ricostruzione delle cinture, nel 1997 il dato di partenza era stato costituito dalla posizione delle singole guarnizioni nelle sepolture. Queste informazioni erano poi state incrociate con altri dati: le osser-vazioni che avevo in precedenza fatto sui materiali durante le operazioni di disegno, lo studio tipologico di Marina De Marchi e i dati antropologici forniti dal prof. Dru-sini e dal dott. Businaro, in particolare re-lativamente alle stature degli individui5. Il passo successivo fu quindi costituito dalla realizzazione di rudimentali cinture in sca-la 1:1 (con strisce di cuoio e guarnizioni in cartone rigido) che potessero confermare come erano state indossate dal defunto al momento del funerale, oppure, se e come erano state piegate e deposte nella tomba. Il momento finale era quindi stato costitu-ito dagli schizzi (sempre in scala 1:1) delle sagome degli individui adulti US 748, 749 e 729, poi rielaborate dai grafici per le seri-grafie delle vetrine dell’Antiquarium. Le proposte qui formulate tengono quindi conto di quanto elaborato in quelle occa-sioni, al quale vanno poi aggiunte la bi-bliografia più recente sull’argomento uni-tamente ai dati relativi ad alcuni materiali che non era stato possibile considerare nel 1995-1997 e che sono stati poi pubblicati a parte nella monografia su Monselice del 20176.

5 A questi due studiosi si deve il primo inquadramento antropologico effettuato in occasione dell’allestimento dell’Antiquarium di onselice, poi ripreso e perfeziona-to da marinaTo 2017. 6 possenTi 2017.

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Le cinture “a cinque pezzi”

Origine e cronologiaDal punto di vista tipologico le cinture “a cinque pezzi” appartengono ad una ampia e articolata famiglia, di cui a Monselice sono attestati tre set, uno in bronzo e due in ferro. Si tratta di un tipo di cintura che la maggior parte degli studiosi ritiene origi-nariamente funzionale alla sospensione di un’arma da taglio, spada o scramasax. Più precisamente, la letteratura italiana ri-tiene che le guarnizioni in bronzo fossero state utilizzate già a partire dalla fine VI- inizi del VII secolo e, stando alla docu-mentazione archeologica, fino alla fine del medesimo secolo. In questo lasso di tem-po si verificarono significative evoluzioni morfologiche che portarono, a partire dalla metà del VII secolo, a un allungamento e a una maggiore sagomatura dei bordi delle guarnizioni, originariamente caratterizzate da un profilo triangolare (placca e contro placca, placche secondarie) o trapezoidale (placche secondarie) piuttosto marcato7. Punto di riferimento tipologico è ancora oggi un gruppo di materiali rinvenuti a Santa Maria di Zevio (Verona), peraltro strettamente confrontabile con quello rin-venuto nella sepoltura US 711 di Monseli-ce, spesso utilizzato per indicare la compo-sizione dei set e le peculiarità formali delle cosiddette produzioni “classiche”, prive di sagomature lungo i bordi e probabilmente realizzate nella prima metà del VII secolo in uno o più laboratori dell’Italia setten-trionale. 7 n primo inquadramento cronotipologico si deve a von hessen 1 83, pp. 24-27. Sulla cronologia e lo svilup-po morfologico delle cinture in bronzo a cinque pezzi , da ultimo De marchi, simone zopfi 2014. Altre considera-zioni in cini 1 88, p. 131 giosTra 2000, pp. 31-32, possenTi 2011, pp. 52-54.

Stando alla documentazione archeologi-ca la composizione dei set sembra essere stata sostanzialmente inalterata nel tempo (placca, contro placca, puntale principale, placche secondarie trapezoidali o triango-lari a volte con foro passante, eventuale tra-colla). Meno scontata è invece la questione dell’origine e della funzione che ha visto il fiorire di un vivace dibattito tra gli studiosi, non ancora completamente risolto.In merito alle modalità di utilizzo, una pri-ma ipotesi avanzata da von Hessen e accet-tata ancora oggi dalla maggior parte degli altri studiosi italiani, proponeva che queste cinture fossero destinate alla sospensio-ne delle spade8, anche se il riscontro con i contesti archeologici spinse ben presto ad affermare che, a partire dai primi decenni o dal secondo quarto del VII secolo, fosse-ro state utilizzate anche per la sospensione degli scramasax medi e lunghi. Diversamente altri studiosi, per lo più di area tedesca, ritengono che le guarnizioni di tipo “classico”, definite anche di “tipo Bieringen”, siano databili in Italia solo a partire dal secondo quarto del VII seco-lo e Oltralpe a partire dal secondo terzo/metà del VII secolo; inoltre che fossero state quasi esclusivamente utilizzate per la sospensione degli scramasax o, sempli-cemente, come simboli di rango sociale9. L’unica associazione certa di una spada con una cintura a cinque pezzi in bronzo sa-rebbe infatti costituita dalla tomba 495A di Weingarten (del secondo terzo/metà del VII secolo), in cui vi erano due distinte cinture a cinque pezzi in bronzo, l’una per la sospensione di una spada, l’altra per lo 8 von hessen 1 83, p. 24 ricci 1 88, pp. 185-188.9 keim 2007, pp. 37-42 (con bibliografia precedente). l significato sociale di queste cinture è stato di recente indagato da De marchi, simone zopfi 2014.

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scramasax10. Due cinture che, diversamente da quanto a suo tempo riscontrato da Ricci sul materiale italiano11, erano caratterizza-te dalla presenza di una placca trapezoidale con foro passante e di un bottone pirami-dale in bronzo con ponticello, una solu-zione questa che come vedremo, è in parte confrontabile con la cintura di Monselice US 711. In merito al quadro dei rinvenimenti ita-liani alcune considerazioni sembrerebbero tuttavia confermare quanto a suo tempo

10 keim 2007, p. 141 e abella 1. Per le singole cinture roTh, Theune 1 5, tav. 17 . 11 Sulla base dei dati noti fino al 1 88, Ricci aveva ri-scontrato che le cinture a cinque pezzi in bronzo rinve-nute in talia non erano mai associate a bottoni pirami-dali ma solo a placche trapezoidali con foro passante (ricci 1 88, p. 187).

proposto da von Hessen, sia per quanto riguarda la cronologia (dagli inizi del VII secolo), sia per quanto concerne l’associa-zione con le spade. Innanzi tutto una prima riflessione deriva dall’analisi dei cosiddetti “prototipi” franchi della seconda metà del VI secolo, già a suo tempo considerati si-gnificativi da von Hessen12. Come già sot-tolineato da quest’ultimo, gli esempi più significativi di materiali di tipo franco sono costituiti nel nostro paese dalle guarnizioni in bronzo forse “stagnato” dalle tombe 73 e 145 di Nocera Umbra13, oltre che, in solo 12 von hessen 1 83, pp. 25-26. ueste guarnizioni sono state considerate anche dalla eim la quale tuttavia opta per una cronologia delle cinture a cinque pezzi in bronzo esclusivamente a partire dal secondo quarto del

secolo (keim 2007, p. 40).13 os secondo pasqui, pariBeni 1 18, coll. 266 e 330. el

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bronzo, dalla tomba di cavaliere di Marza-glia (Reggio Emilia)14. Tutti casi, quindi, relativi a sepolture “antiche”, databili già entro la fine del VI secolo (570-590, No-cera Umbra)15 o, entro gli inizi del VII se-colo (Marzaglia)16. Coevi sono quindi altri set, che se da una parte sono ancora ben confrontabili con i materiali di tipo franco, dall’altra presentano caratteri ormai mol-to simili alle produzioni bronzee “a cinque pezzi”. Si tratta nello specifico delle guar-nizioni auree di Santo Stefano in Pertica, della fine VI-inizi VII secolo17 e da quelle in bronzo, sempre “stagnato”, dalla tomba 143 di Nocera Umbra (570-590)18. Facen-do fede a queste cronologie e alle indiscuti-bili somiglianze appare pertanto abbastan-za problematica l’ipotesi che le produzioni bronzee “classiche” (“tipo Bieringen”) fos-sero, diversamente da quelle a cinque pezzi in ferro, di venticinque-trent’anni più tarde rispetto ai supposti prototipi franchi19.

catalogo di rupp 2005 non si parla di stagnatura ma di un’argentatura ormai in tracce solo per le guarnizioni della tomba 73 (rupp 2005, p. 2) ma non per quelle del-la tomba 145 (rupp 2005, pp. 163-164). Al momento non ci sono i dati per affermare che la stagnatura riporta-ta da Pasqui e Paribeni fosse stata applicata secondo le modalità descritte da uido evoto. risultati delle analisi archeometriche finora pubblicate riportano in-fatti, esclusivamente, che la stagnatura era presente su un gruppo, non elencato nel dettaglio, di materiali provenienti da astel rosino e, in misura minore, da

ocera mbra (DevoTo 1 7, p. 282). 14 sTurmann ciccone 1 77, pp. 11-12.15 rupp 1 6, tav. 1 (tabella riassuntiva delle tombe ma-schili).16 sTurmann ciccone 1 77, p. 12.17 La prima edizione delle sepolture si deve a utinelli 1 61, pp. 146-147 e tavv. 53-55. Sulla cronologia, da ul-tima ahumaDa siLva 2007.18 pasqui, pariBeni 1 18, coll. 325-326. La presenza di una argentatura è invece riportata da von hessen 1 83, p.

26 e da rupp 2005, p. 161. 19 ueste perplessità erano già state espresse in possenTi 2011, p. 53 nota 43.

Da un punto di vista funzionale le sopra menzionate cinture, in particolare quelle di Nocera Umbra20, sembrerebbero anche indicare come, per lo meno a livello dei co-siddetti prototipi, le guarnizioni bronzee a cinque pezzi” fossero già entro la fine del VI secolo funzionali alla sospensione della spada. Nelle due tombe nocerine era infatti presente, oltre alla spada, solo un coltello. Nella tomba 145, per quanto sconvolta in antico, la posizione di alcune guarnizioni è inoltre inequivocabile: la placca e la con-tro placca erano infatti l’una “sul femore destro”, l’altra “quasi a metà della spada”, posizioni che nel loro complesso richiama-no quella delle cinture avvolte o posizio-nate al di sopra della lama della spada. Le altre quattro guarnizioni a forma di grifo (alcune rinvenute nella zona dell’addome) potrebbero aver quindi configurato una cintura nel suo complesso analoga a quella di Hailfingen, tomba 459 (fig. 6, n. 3)21. Rispetto a quanto detto sopra ulteriori ele-menti di riflessione sono forniti da alcuni corredi in cui le cinture a cinque pezzi era-no associate a scramasax corti. Per l’Italia settentrionale ricordo i casi di Garbagnate Monastero, Boffalora d’Adda e Rodigo22. Per i territori del Ducato di Benevento, la tomba bisoma 43 di Pagliarone (Potenza), nella quale guarnizioni di tipo “classico” erano in associazione, sia con uno scrama-sax corto (generalmente attribuito alla fine del VI-inizi del VII secolo) (individuo 1), sia con uno scramasax medio (prima metà del VII secolo) (individuo 2)23. Anche se

20 A arzaglia il corredo è incompleto, a Santo Stefano in Pertica non si hanno sufficienti informazioni sulla po-sizione dei reperti nella sepoltura.21 Per la cintura da haiLfingen, werner 1 53, p. 47.22 sannazaro 1 4, pp. 300-301 e nota 131 a p. 316. 23 russo, peLLegrino, gargano 2012, pp. 270-271.

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non è una prova inconfutabile (gli scara-masax corti non sono esclusivamente da-tabili entro la fine del VI secolo) esistono pertanto fondati motivi per ritenere che le cinture a cinque pezzi potessero essere state prodotte già nel corso del primo tren-tennio del VII secolo.Dal punto di vista funzionale e cronologi-co, una conferma all’utilizzo per la sospen-sione della spada già a partire dagli inizi/primi decenni del VII secolo potrebbe infi-ne provenire proprio dalla deposizione US 711 di Monselice (v. infra).Molto meno problematico è il quadro rela-tivo alle guarnizioni in ferro. In questo caso la cronotipologia delle cinture copre senza difficoltà tutto il VII secolo e le scansioni cronologiche sono fondamentalmente arti-colate sulla base della presenza od assenza di decorazioni ageminate e/o placcate ol-tre che, analogamente a quanto riscontra-

to per le guarnizioni bronzee, della forma delle singole placche, sempre più lunghe e sagomate a partire dalla metà del VII se-colo. Dal punto di vista funzionale le guar-nizioni in ferro sembrerebbero essere state utilizzate, in prima battuta, per le sole spa-de (fino ai primi decenni del VII secolo), e solo successivamente per gli scramasax (dal secondo quarto del VII secolo), rical-cando quindi la cronologia generalmente accettata dagli studiosi italiani per le guar-nizioni in bronzo. Caso mai il dibattito si è finora incentrato sui tipi e le cronologie delle decorazioni, per lo più in stile zoo-morfo (Civezzano e II stile in tutte le sue varianti). Altrettanto condivisa è l’ipotesi, già formulata a suo tempo da von Hessen, che si tratti di cinture derivate da prototipi tardo romani, forse mediati proprio dalle produzioni bronzee di fine VI-inizi VII se-colo24. Cronologicamente, dopo una prima suddivisione in trentenni proposta da von Hessen, prevale inoltre adesso l’idea che la scansione sia articolata in quarti di secolo, ricalcando quella elaborata Oltralpe25.

La ricostruzione delle cinture a cinque pezzi, breve storia degli studiRelativamente agli aspetti ricostruttivi del-le cinture a cinque pezzi, la storia degli stu-di vanta un considerevole numero di con-tributi, giustificati dall’elevato numero di deposizioni abbigliate di VII secolo e, per quanto riguarda la componente maschile, equipaggiate con armi e relative cinture di sospensione.

24 von hessen 1 71, pp. 26-27.25 von hessen 1980; von hessen 1 83, pp. 20-21. Per quan-to concerne la bibliografia di epoca successiva si cita-no, a titolo esemplificativo, cini 1 88 De marchi, possenTi 1 8 e 2017 giosTra 2000; schwarz 2004; De marchi 2005; possenTi 2011, pp. 54-57.

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Sostanzialmente la maggior parte degli au-tori concorda sulla disposizione e numero delle guarnizioni principali delle cinture a cinque pezzi, sia in bronzo, sia in ferro. Queste erano fissate lungo la striscia di cuoio che costituiva la cintura e in gene-re prevedevano una placca e una contro placca di forma triangolare, un puntale di forma allungata “a becco d’anatra” e un nu-mero variabile (di solito 3-5 unità) di plac-chette più piccole di forma quadrangolare-trapezoidale o, nel caso delle guarnizioni bronzee, anche triangolare. Le placchette più piccole potevano essere forate e in que-sto caso si ritiene fossero destinate al pas-saggio di cinghie in cuoio funzionali alla sospensione della spada o dello scramasax. In alternativa potevano essere prive di fori e avere quindi una funzione forse prevalen-temente ornamentale. Le placchette forate sono attestate soprattutto nelle guarnizio-ni bronzee mentre sono molto più rare in quelle in ferro (un esempio è costituito proprio dalle guarnizioni ageminate di US 729). La presenza abbastanza frequente di una seconda fibbia e di un secondo punta-le, simili ma di dimensioni più piccole, è invece collegabile ad una tracolla che pas-sava sopra una spalla e controbilanciava, sul

lato opposto, il peso della spada o dello scramasax. Le estremità della tracolla era-no fissate e unite alla cintura principale grazie ad altre placche, di solito trapezoi-dali e, in corrispondenza della schiena, anche romboidali. Come già ricordato da Ricci26, un’importante testimonianza iconografica di una cintura reggi-spada con tracolla è costituita dal personaggio (Longinus) raffigurato nell’affresco della Crocifissione nella Cappella di Teodoto in Santa Maria Antiqua a Roma (fig. 7). Estremamente variabili sono invece sta-te, nel tempo, le soluzioni proposte per il fissaggio della spada o dello scramasax alla cintura, nell’ambito delle quali un ruolo-chiave fu senz’altro ricoperto dai bottoni piramidali i quali, oltre che in ferro ageminato (generalmente associati a guarnizioni a loro volta in ferro agemi-nato), potevano anche essere in osso o in bronzo. In particolare gli studi hanno di-mostrato che i bottoni ageminati erano i più recenti. Quelli in osso, con ponticello orizzontale o con foro verticale (attestati ambedue a Monselice), spesso rinvenuti singolarmente, erano invece i più antichi (generalmente entro la fine VI-inizi VII secolo, con le attestazioni più tarde che non oltrepassano il primo terzo del VII secolo). Intermedi erano quelli in bron-zo, databili solo a partire dagli inizi del VII secolo27. Un’altra soluzione su cui non ci si sofferma dal momento che non è attestata a Monselice, prevedeva invece l’impiego di placche rettangolari passanti (cosiddette “di tipo Weihmörting”)28.

26 ricci 1 88, p. 187.27 cini 1 88, p. 1328 Per le placche di questo tipo cfr. werner 1 53, pp. 54-55 menghin 1 83, pp. 145-14 .

ig otesi ricostrutti a ell uso ei ottoni irami-ali a Werner

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In una rapida panoramica e limitando-ci agli autori che hanno prodotto anche immagini grafiche utilizzabili per la rico-struzione delle cinture a cinque pezzi di Monselice (quindi con bottoni piramidali), possiamo ricordare le ricostruzioni di Jo-achim Werner nel volume sulla necropo-li di Bülach del 1953 (fig. 8)29 e quella di Neuffer su Donzdorf del 1972 (fig. 9)30, poi sostanzialmente ripresa nel 1983 da Wilfried Menghin nella monografia de-dicata alle spade di età altomedievale31. Le ipotesi di quest’ultimo studioso sono poi state alla base di altre ricostruzioni , tra cui quella di Isabel Ahumada Silva per la tom-ba 18 di S. Stefano in Pertica a Cividale32. Leggermente diverse ma, come vedremo, maggiormente convincenti sono invece state quelle per le guarnizioni di Castelli

29 werner 1 53, p. 5 , fig. 14.30 nueffer 1 72, pp. 34-35, figg. 6-7.31 menghin 1 83, p. 150.32 ahumaDa siLva 1 0, p. 36 fig. 20.

ig in alto a sinistra otesi ricostrutti a el siste-ma i sos ensione ella s a a a neuFFer

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Calepio di Marco Ricci (fig. 10)33, a cui ci si è poi rifatti per Collegno, t. 53 (fig. 11) e Trezzo sull’Adda (Caterina Giostra)34. Differenti sono invece le soluzioni propo-ste da Claudia Theune (fig. 12) e da Bar-bara Sasse (fig. 13)35. Il contributo più re-cente ed esaustivo si deve infine, a quanto mi risulta, a Tobias Brendle36 che partendo proprio dall’uso e funzione dei bottoni pi-ramidali ha nel 2012 riassunto un po’ tutti i termini della questione, proponendo a sua volta un ventaglio di soluzioni in cui sostanzialmente si ritiene (come aveva già in precedenza fatto Ricci nel 1988) che il bottone piramidale servisse per fissare alla cintura principale, tramite un occhiello, le cinghie in cuoio che partivano dal fodero della spada. Ritenute poco credibili sono invece, da parte di Brendle, la maggior

33 ricci 1 88, pp. 186-187, tavv. - .34 giosTra 2004, p. 5 , fig. 42 giosTra 2012, p. 225, fig. 7.35 Theune 1 , p. 66, figg. 12-14 sasse 2001, pp. 74-75, figg. 15-1636 BrenDLe 2012, pp. 5-101.

parte delle altre ipotesi sopra elencate, dal momento che avrebbero di fatto reso assai disagevole lo sguaino della spada.

Le ricostruzioni delle cinture “a cinque pezzi” di Monselice Passando al caso specifico di Monselice, l’esempio più chiaro e meno problematico è certamente costituito dalla cintura del defunto US 748, le cui guarnizioni furono rinvenute al momento dello scavo al di so-pra della lama della spada (deposta lungo il fianco destro del defunto), a sua volta parzialmente al di sotto dell’umbone dello scudo. Pertinenti al set erano la fibbia prin-cipale, un passante cruciforme, due guar-nizioni di forma rettangolare, una piccola placchetta triangolare con un gancetto e un bottone piramidale in osso. Inoltre erano presenti una seconda fibbia e un secondo puntale di minori dimensioni, pertinen-ti alla tracolla. Al sistema di sospensione apparteneva infine una placca in ferro di forma triangolare con passante. Quest’ulti-ma doveva essere originariamente fissata al

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tenstein (Germania)37 (fig. 14). Nella parte superiore il prezioso reperto è infatti deco-rato dal motivo di un guerriero con una te-sta di lupo munito di faretra, che impugna con la destra una lancia e con la sinistra una

37 menghin 1 83, p. 3 fig. 46 Böhner 1 1, p. 718. l ma-nufatto è relativo a una lamina di fine -inizi , riuti-lizzata alla fine del secolo per decorare il fodero di una spada. ià conservato a erlino e trafugato nel cor-so della seconda guerra mondiale, è oggi conservato nel useo Pu kin di osca e dopo essere stato per de-cenni dato per disperso è stato riesposto al pubblico a

erlino nel 2007 (menghin 2007, pp. 406-407, n. .2.1.1).

legno del fodero della spada e, come con-fermato dalla radiografia in cui appare di colore più chiaro (fig. 15), era al contrario di tutte le altre guarnizioni, al di sotto della lama, quindi a contatto con il terreno.Facendo le prove con la riproduzione in cuoio e cartone e tenendo conto della ra-diografia si è pertanto stabilito che la cin-tura al momento del funerale, per quanto unita al fodero, non era stata avvolta attor-no a quest’ultimo ma probabilmente ripie-gata al di sopra, in modo tale da lasciarla ben in vista durante la cerimonia funebre. Solo la placca con passante era rimasta al di sotto, probabilmente perché non c’era altra scelta.Quale fosse l’aspetto delle cinture reggiar-mi “a riposo” è in ogni caso testimoniato, oltre che dai ritrovamenti archeologici, dall’eccezionale lamina argentea di fine VI-inizi VII secolo da Sigmaringen-Gu-

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spada. Di quest’ultima sono chiaramente leggibili l’impugnatura con anello laterale(Ringknaufspatha), il fodero e la cintura di sospensione avvolta attorno alla lama. Passando agli aspetti pratici, testati, come si diceva sopra, grazie alle riproduzione in scala 1:1 della cintura, si è arrivati a una ricostruzione (fig. 16) in cui le fasce in cuoio che collegavano la cintura alla spada dovevano essere piuttosto ravvicinate tra di loro ma soprattutto avere una lunghezza variabile che consentisse, un’impugnatura comoda al momento dello sguaino, dall’al-tra una posizione del fodero che non fosse d’impaccio nel momento di riposo o a ca-vallo. Questo era possibile solo se le fasce di collegamento con il fodero potevano essere spostate in senso orizzontale lungo la cintura, in modo tale che fodero e spada (il cui peso totale non deve essere sottova-

lutato) potessero scivolare avanti e indietro senza eccessiva difficoltà. Queste conside-razioni inducono pertanto a ritenere, con-dividendo le ipotesi ricostruttive di Marco Ricci, che il bottone tronco piramidale in osso costituisse la soluzione ottimale per chiudere gli occhielli, stretti attorno alla cintura principale e costituiti dall’estremità superiore ripiegata delle fasce in cuoio che partivano dal fodero della spada. La mobilità consentita da questa soluzio-ne non poteva essere invece garantita dalle guarnizioni metalliche, così come ipotizza-to da Menghin, Theune e Sasse, ma anche da Ahumada Silva. Per gli stessi motivi si ritiene anche poco probabile che il bottone piramidale fissasse le fasce di cuoio al fode-ro, così come formulato da Menghin, Theu-ne ma anche da Brendle. In tutti questi casi il fodero sarebbe infatti stato bloccato alla

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cintura in una posizione non modificabile e, di conseguenza, il suo utilizzo sarebbe stato o estremamente difficoltoso nel mo-mento dello sguaino o, viceversa, scomodo nelle posizioni di riposo o a cavallo. Sem-pre considerazioni di ordine pratico sug-geriscono che le fasce che univano fodero e cintura dovessero essere due: una posi-zionata nella porzione inferiore del fodero, una in quella più prossima all’impugnatura. Nel caso specifico di Monselice, una pri-ma fascia partiva dalla placca con passante fissata al fodero ligneo, posizionata poco sotto le fascette ageminate (una soluzione, questa, tipica dei primi decenni del VII se-colo38); una seconda fascia doveva invece partire poco sotto il bordo superiore del fo-dero. Una sola fascia di sostegno, così come ipotizzato nel caso di Collegno, tomba 53

38 possenTi 2011, p. 56.

(cfr. fig. 11) appare invece poco verosimile dal momento che il peso avrebbe fatto qua-si rovesciare in avanti la spada e il fodero. Un ultimo appunto è infine relativo ai casi, tra cui Monselice, in cui è stato rinvenuto un solo bottone in osso o, addirittura non ne è stato trovato nessuno. Anche se è solo un’ipotesi si ritiene verosimile che uno dei due bottoni sia andato perso oppure che il passante/i fossero stati realizzati con una semplice cucitura. Un’altra osservazione, scaturita dalla rico-struzione della cintura e dall’aver verificato la corrispondenza di questa con la posi-zione di scavo delle singole guarnizioni, è relativa al fatto che ambedue le placche rettangolari erano probabilmente in cor-rispondenza del punto di giunzione tra la tracolla e la cintura. La più grande sulla schiena, la più piccola sulla parte anteriore del busto, venendosi pertanto a collocare

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tra le due fasce di sospensione della spada. Più ridotte sono state le possibilità di ri-costruzione della cintura a cinque pezzi in bronzo di tipo “classico” (“tipo Bieringen”) della sepoltura US 711. Di questa si con-servava infatti solo la metà superiore e il corredo superstite è stato solo parzialmen-te integrato da alcuni reperti rinvenuti in buche di età successiva. Pur con una certa prudenza sembrerebbe in ogni caso potersi dire che il set originario era costituito da una cintura non molto diversa, in quanto a composizione, da quella con guarnizio-ni in ferro del defunto US 748. La cintura, così come è stata ricostruita (fig. 17)39 era in primo luogo caratterizzata da una placca e da una controplacca di forma triangolare mentre mancava il puntale a becco d’anatra, probabilmente andato disperso. Il puntale rinvenuto, di dimensioni contenute e con due sole borchie di fissaggio, apparteneva invece quasi certamente a una tracolla. Le estremità di quest’ultima (di cui non è stata rinvenuta la fibbia) dovevano essere fissate alla cintura dalla grande placca smerlata di forma trapezoidale (sulla parte posteriore) e, probabilmente, dalla placchetta trapezoi-dale priva di foro passante (sulla parte an-teriore). È inoltre verosimile che facessero parte del set anche la placchetta bronzea a forma di 8 e il singolo bottone piramidale in osso con foro verticale, la cui cronolo-gia, come sopra ricordato, si colloca entro i primi decenni del VII secolo. Se il ragiona-mento è corretto saremmo quindi davanti a una cintura per la sospensione di un’arma da taglio. La posizione dei reperti all’inter-

39 Per questa cintura la proposta ricostruttiva qui pre-sentata si differenzia notevolmente da quella elabo-rata per l’Antiquarium di onselice, dal momento che allora non si era potuto tener conto dell’esistenza del bottone piramidale in osso.

no della sepoltura (tutti raggruppati e vici-ni gli uni agli altri), fa inoltre ipotizzare che la cintura non fosse stata indossata dal de-funto al momento della cerimonia funebre ma più probabilmente deposta al di sopra del bacino. Purtroppo non possiamo sapere se la cintura era funzionale alla sospensione di una spada (la cui presenza è forse dedu-cibile sulla base del bottone in osso) o di uno scramasax medio (la cui ghiera è stata rinvenuta nel riempimento di una buca di età successiva). Pur con una certa cautela si ritiene tuttavia più plausibile l’associa-zione con una spada. Oltre al bottone in osso, significativa in questo senso appare la posizione delle guarnizioni superstiti al centro del corpo. Nelle sepolture longo-barde, infatti, le spade oltre che lungo un fianco sono rinvenute anche al centro della sepoltura, lungo l’asse principale del defun-to, mentre gli scramasax medi sono gene-ralmente posizionati di lato.Quindi, anche se con prudenza, la ricostru-zione della cintura di US 711 arricchisce la discussione relativa alla cronologia e alla funzione delle cinture a cinque pezzi di tipo “classico”: da una parte la verosimile associazione con il bottone piramidale in osso sembrerebbe indicare una datazione entro i primi decenni del VII secolo (del resto pienamente compatibile con le altre sepolture), dall’altra offrire un possibile esempio di associazione con una spada.Di un tipo completamente diverso era in-vece la cintura nella sepoltura del giovane adulto US 729, priva di tracolla e associata a uno scramasax medio. La posizione dei reperti all’interno della sepoltura rende probabile l’ipotesi che il set fosse costitu-ito da due se non addirittura tre gruppi di-

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stinti di guarnizioni40. Da una parte placca, controplacca e puntale con una decorazio-ne in II stile armonioso, dall’altra quattro placchette di forma vagamente triangolare con un foro passante ciascuna, decorate da semplici motivi lineari ageminati. Infine era presente una piccola placchetta con gancio fittamente decorata ad agemina. Sulla base della disposizione dei singoli elementi, in posizione probabilmente ori-ginaria a eccezione di una placchetta con foro passante rinvenuta tra i femori, si è così ottenuta una cintura del tipo a cinque pezzi senza tracolla (fig. 18) con due cop-pie di placchette traforate sui fianchi e un piccolo gancetto sul solo fianco destro. As-sociazioni di questo tipo, con materiali di tipo diverso, non sono particolarmente fre-quenti nelle cinture a cinque pezzi ma co-

40 Per l’analisi stilistica delle guarnizioni si rimanda a De marchi, possenTi 2017.

munque documentati41. In relazione al caso qui esaminato un buon riscontro è offerto dalla necropoli svizzera di Bülach (tombe 87, 146 e 269, cfr. fig. 6, nn. 2, 7, 8). Si ri-tiene che in US 729 le placchette sul fianco sinistro fossero funzionali alla sospensione dello scramasax, rinvenuto sullo stesso lato con la punta rivolta verso l’alto, mentre quelle sul fianco destro potrebbero essere state destinate al fissaggio di una piccola borsa, ipotesi quest’ultima avvalorata dal rinvenimento sul fianco destro dell’inuma-to, di un coltellino in ferro. Di rilievo, sempre a proposito della cintura di US 729, è il fatto che anche in questo caso la cintura non era indossata ma proba-bilmente appoggiata, a livello della cintura, al di sopra del corpo del defunto. Alcune considerazioni suggeriscono questa ipote-41 Sono invece più frequenti nelle cinture multiple (cfr. in ra, il paragrafo relativo alla ricostruzione della cintu-ra multipla di S 741).

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si. Al momento della cerimonia l’inumato indossava infatti probabilmente una veste chiusa in vita da una fibbia a placca fissa in bronzo, rinvenuta nella zona del bacino. A questo va aggiunto che dalla comparazione delle quote dei singoli reperti è emerso che alcune placchette con foro passante pur es-sendo rovesciate (ovvero con la parte deco-rata rivolta verso terra) si trovavano a una quota uguale se non addirittura superiore rispetto a quelle della placca e della contro-placca in II stile armonioso. La posizione della cintura così come è stata documenta-ta dallo scavo potrebbe essere stata così de-terminata da un rituale funerario nel corso del quale, con modalità simili a quelle ipo-tizzate per i defunti US 748 e US 711, le cinture e le armi venivano caricate di un elevato significato simbolico. Nel caso di US 729 questo potrebbe essere stato ul-teriormente ribadito dalla posizione verso l’alto della punta dello scramasax, forse al-lusiva secondo alcuni autori a una defun-zionalizzazione simbolica dell’arma42.

La cintura multipla

Origine e cronologiaAlla sepoltura infantile US 741 appartene-vano numerose placchette pertinenti a una ricca cintura multipla in ferro ageminato o ageminato e placcato che Marina De Mar-chi ha datato tra il 630 e il 64043.Le cinture multiple (indicate in bibliografia anche come “moltelplici” o “a frange”) sono state nel tempo oggetto di importanti con-

42 Su una defunzionalizzazione simbolica, ottenuta ca-povolgendo l’arma, De marchi 1 7, p. 2 0. Su una de-funzionalizzazione effettiva, conseguente alla rottura della punta, possenTi 2011, p. 6 (tomba della necro-poli di ontecchio aggiore, in provincia di icenza). 43 De marchi, possenTi 2017, pp. 6 -72.

tributi che hanno di volta in volta affronta-to la questione della loro origine e crono-logia. Il primo e autorevole inquadramento si deve a J. Werner, il quale propose che le cinture multiple fossero produzioni di ori-gine “turco-mongola” (nomadica), arrivate negli ultimi decenni del VI secolo negli imperi persiano e bizantino, grazie ai cava-lieri turchi e avari44. Più recentemente altri studiosi (in particolare Bálint e Schmau-der) hanno invece avanzato la proposta che fossero un prodotto genuinamente bizan-tino diffusosi lungo le sponde del Medi-terraneo già alla fine del V secolo per poi divenire frequente nel resto del territorio dell’impero e, quindi, generare imitazioni anche nel Ponto, in Persia e altri territori limitrofi45. Ad ogni modo le cinture multi-ple si diffusero in modo considerevole, so-

44 werner 1 74. 45 BáLinT 2000 schmauDer 2000.

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prattutto nei territori orientali, a partire dal 550 circa, per poi continuare a essere pro-dotte e utilizzate, anche in Occidente fino ad almeno tutto l’VIII secolo46. Dalla fine del VI-inizi del VII secolo divennero ricor-renti nelle sepolture di individui di origine germanica, in particolare tra i Longobardi che a loro volta furono il tramite per espor-tazioni nelle aree franche e alamannne47. Per quanto concerne il VII secolo, le sepol-ture italiane di ambito longobardo hanno restituito un gran numero di guarnizioni di cinture multiple. Tra la fine del VI e gli inizi VII secolo le guarnizioni, ancora legate alle produzioni bizantine, erano per lo più in metallo nobile (oro e argento) e realizzate con repertori decorativi e tecniche produt-tive prettamente romano-bizantine (lami-ne impresse su modano per quanto riguar-da la produzione; motivi a punto e virgola,

46 schmauDer 2000, Daim 2000.47 Sulle produzioni e cronologia dei manufatti di ambi-to longobardo von hessen 1980, cini 1 88, p. 150 giosTra 2000, pp. 81-104. Sui contatti tra i territori a sud e a nord delle Alpi keim 2007, pp. 51-61.

motivi Martinovka e assimilabili, motivi perlinati etc. per quanto concerne le deco-razioni). Stando al dato archeologico con gli inizi del VII secolo si imposero invece guarnizioni in ferro ageminato e/o placcato in relazione alle quali i principali indicatori cronologici sono principalmente costituiti, come per le cinture a cinque pezzi, dalle evoluzioni del II stile zoomorfo oltre che dalle dimensioni e dal profilo esterno delle guarnizioni (sempre più grandi e sagoma-te). Contestualmente e limitatamente alle cinture multiple furono inoltre molto usa-ti motivi a spirali per le decorazioni delle placchette e puntali secondari. Sulla base delle carte di distribuzione sem-brerebbe potersi dire che le decorazioni in II stile zoomorfo e derivati fossero partico-larmente gradite dalle committenze longo-barde o di ambito longobardo, soprattutto in Italia settentrionale. Nelle aree più me-ridionali sembrerebbe invece emergere, ac-canto a quella zoomorfa, una componente più prettamente bizantina caratterizzata da repertori astratti e geometrici. Due interes-

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santi esempi sono rispettivamente costitu-iti da una placchetta rinvenuta nell’erga-sterion della Crypta Balbi a Roma (datata alla seconda metà del VII secolo)48 e da un secondo reperto, di qualità eccezionale e forse coevo, rinvenuto a Spoleto negli scavi diretti da E. Arslan nell’area della Rocca Albornoziana49. Dal punto di vista funzionale le cinture multiple sono state spesso associate agli scramasax corti ma sembra certo, che per lo meno a partire dalla fine VI-inizi VII se-colo, abbiano anche assunto, indipenden-temente dalla loro funzione reggiarmi, una

48 ricci 1 7 p. 252, fig. 4.3 arena, DeLogu, paroLi, saguì, venDiTeLLi 2001, pp. 37 -380 (scheda di . Ricci). 49 utt oggi in o, 13 dicembre 2011 (edizione on-line).

funzione di indicatore di status50. Ad ogni buon conto le cinture multiple rimasero in uso per lo meno fino alla fine dell’VIII secolo e per quanto ne sappiamo sia in ambito longobardo e poi franco, sia nei territori in cui l’influenza bizantina fu più forte e politicamente strutturata. Per le epoche più tarde le attestazioni archeolo-giche sono pochissime dal momento che entro la fine del VII o al più tardi entro gli inizi dell’VIII secolo fu abbandonato l’uso del corredo funerario nelle sepolture. Eccezioni sono costituite da alcuni conte-sti funerari estremamente privilegiati della tarda età longobarda o della prima età ca-rolingia51, accanto ai quali si pone il notis-simo affresco nella cosiddetta “cappella di Teodoto” in Santa Maria Antiqua a Roma (metà dell’VIII secolo) in cui è rappresen-tato, peraltro senza armi ma con una cintu-ra multipla, un ragazzino identificabile con il figlio forse adottivo del committente (fig. 19). Anche in questo caso l’ambito sociale è elevatissimo: il bambino è stato infatti identificato con colui che in età adulta sa-rebbe diventato papa Adriano (772-795)52.

La ricostruzione delle cinture multiple, breve storia degli studiLe cinture multiple erano in generale ca-ratterizzate oltre che dalla fibbia e da un puntale, talora combinati con un passante, da un numero variabile di placchette se-condarie alle quali erano collegate altret-tante fasce di cuoio che pendevano verti-calmente dalla cintura e al termine delle quali erano fissati dei puntalini secondari. Diversamente che per le cinture a cinque

50 schmauDer 2000, p. 3 schüLze-DörrLamm 200 , p. 265.51 Daim 2000.52 reTTner 2000; Daim 2010, p. 68.

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pezzi abbiamo a disposizione un certo nu-mero di rappresentazioni iconografiche, sulla base delle quali è abbastanza chiaro quale fosse l’aspetto complessivo di que-sti manufatti. Oltre al sopracitato affresco nella capella di Teodoto a Santa Maria Antiqua possiamo citare alcuni mosaici e portacandele di area bizantina nel loro complesso datati tra l’età tardo antica e il VI-VII secolo (figg. 20-21)53, ai quali fan-no pendant altre raffigurazioni più legate all’ambito longobardo quali ad esempio la placca decorativa di cavaliere dello scudo di Stabio (fig. 22) e un interessante frammen-to di ambone da Novara datato alla fine VII-prima metà dell’VIII secolo (fig. 23)54. In alcuni contesti archeologici particolar-mente ben conservati è stato possibile ipo-tizzare con elevata precisione quale fosse la posizione originaria delle singole guar-nizioni. Lo studio combinato delle fonti

53 schmauDer 2000; DaskaLov 2012, tavv. 2-3.54 giosTra 2007.

iconografiche e archeologiche ha inoltre consentito di appurare che la composi-zione dei set era abbastanza libera, sia per quanto concerne il numero sia per quanto concerne la foggia delle decorazioni55. Tra le ipotesi ricostruttive più note si ricor-da quella di Lazlo, utilizzata anche da von Hessen nel catalogo del Museo Stibbert di Firenze (fig. 24). Per quanto riguarda i set con guarnizioni ageminate una delle ricostruzioni più note è invece quella pro-posta da Marco Ricci (fig. 25) al quale si sono poi rifatti un po’ tutti gli autori suc-cessivi. Limitatamente alle cinture di area bizantina il contributo più recente si deve a Daskalov che nel 2012 ha riassunto un po’ tutti i termini della questione56 (fig. 26). Un’importante conferma ai dati archeolo-gici è infine offerta da una cintura rinve-nuta ancora nell’Ottocento nella necropo-li renana di Kaltenengers nel distretto di Mayen-Koblenz, di cui si conservano, oltre che le guarnizioni, ampie porzioni di cuoio eccezionalmente conservato (fig. 27)57.

55 possenTi 200 , pp. 1 6-1 8 e possenTi 2011, p. 63. 56 DaskaLov 2012, in particolare tavv. 4 e 20, di cui in que-sta sede è riprodotta quella di tav. 4 (con guarnizioni di tipo artinovka).57 grünewaLD, koch 200 , pp. 5 2-5 3.

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La ricostruzione della cintura multipla di MonseliceNella cintura multipla di US 741 erano presenti due insiemi di reperti caratteriz-zati da decorazioni diverse, il primo in stile in stile spiraliforme e relativo alle placchet-te e ai puntali secondari, l’altro alla fibbia e ad alcune placche decorate con agemina e placcatura. Come anticipato sopra, la se-poltura era stata completamente sconvolta dalla deposizione successiva e non era più

possibile risalire al posizionamento origi-nario delle singole guarnizioni. Il criterio utilizzato in questo caso è stato pertanto quello del confronto con altri set noti dalla bibliografia e della simmetria nella disposi-zione delle singole placchette. Ne è scaturi-ta una ricostruzione (fig. 28) verosimile ma quasi certamente non aderente all’originale.

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Conclusioni

Giunti al termine, possiamo affermare che la ricostruzione delle cinture delle sepoltu-re longobarde di Monselice è stata possibi-le grazie ad una documentazione di scavo, particolarmente attenta che ha consentito, a posteriori, uno studio analitico, incro-ciato con i dati desunti dall’osservazione ravvicinata dei singoli pezzi nonché dalla bibliografia esistente sull’argomento. Fon-damentale è stata inoltre la ricostruzione sperimentale dei set che ha consentito di testare la validità delle ipotesi formulate su base teorica. Non da ultimo ricordo il contesto in cui è maturata questa esperienza: la predisposi-zione degli allestimenti e degli apparati di-dascalici dell’Antiquarium di Monselice, il cui fine è stato quello di rendere facilmente comprensibile ad un pubblico di non spe-cialisti nozioni e concetti generalmente ri-servati ad una ristretta cerchia di studiosi.

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ELISA POSSENTILa ricostruzione delle cinture reggiarmi di età longobarda

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Vestirsi di cuoio

L’uso delle pelli animali, per fabbrica-re abiti e altri accessori, è sicuramente antichissimo, ma la scarsità di reperti do-vuta alla rapidità del degrado della sostan-za organica limita fortemente le nostre co-noscenze sull’uso di questo materiale. Non abbiamo idee precise di quanto fosse diffuso l’impiego del cuoio e delle pellicce nella Preistoria. Il ritrovamento dell’uomo del Similaun ha fornito, sotto questo aspet-to, una nuova visione del problema. Nono-stante Ötzi sia vissuto in un periodo in cui la tessitura era certamente conosciuta, i suoi abiti sono fatti di pelle e il materiale vegetale è impiegato solo per i foderi delle armi, l’imbottitura delle scarpe e un intrec-cio usato come stuoia o mantello1. Nessun capo di vestiario è ottenuto da fibre tessili in senso stretto. Trattandosi di un perso-naggio di rango, ritrovato in alta monta-gna, non si può essere certi che l’abito di

1 fLeckinger 2011.

Archeologia del cuoio in età medievale: conservazione, riconoscimento, lavorazioni

Ötzi sia rappresentativo di un ampio grup-po umano, ma certo questo ritrovamento ha fornito indicazioni del tutto inaspettate sul modo di vestirsi nell’Età del Rame. In epoche più recenti, il cuoio non sembra avere avuto un così ampio impiego per la realizzazione degli abiti. Esso sembra esse-re stato utilizzato solo in alcuni ambiti (so-prattutto militari) e per specifiche attività artigianali. Di cuoio sono, ad esempio, i grembiuli trovati sulla nave di Comacchio2, verosimilmente utilizzati dai marinai per la navigazione o per la pesca; di cuoio, ov-viamente, erano le scarpe, utilizzate in età romana da quasi tutte le categorie sociali.Anche in età medievale il cuoio sembra essere stato impiegato principalmente per la fabbricazione delle scarpe e di determi-nati accessori e solo in modo occasionale per gli abiti. Stando alle scarne indicazioni di Paolo Diacono, i longobardi andavano vestiti di tessuti di lino (H.L. IV, 22) e l’uso del cuoio doveva essere piuttosto limitato

2 parmeggiani 1990.

Mauro Rottoli Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como

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L’Alto Medioevo. Artigiani e organizzazione manifatturiera 3

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anche nell’abito militare. Raramente sono citati prodotti di cuoio o di pelliccia: «sel-le», che supponiamo essere in cuoio ma non è escluso che fossero fatte anche in tessuto, e «calzari fermati da lacci di cuoio intrecciati» (H.L. IV, 22). Perctarito (H.L. V, 2), riesce a mettersi in salvo passando in mezzo alla soldataglia e fingendosi un servo, a capo coperto, con una «pelle d’or-so», delle lenzuola e un cuscino. Quando riceve la visita di delegazioni straniere, An-sprando (H.L. VI, 35), per simulare povertà e semplicità, si ricopre di «panni vili e di pelle», cioè di abiti non adatti a un re né all’aristocrazia longobarda.

Che cosa è il cuoio?

Tutti gli animali, non solo i mammiferi, presentano una pelle che, opportunamente trattata, può essere impiegata per ottene-re abiti e altri manufatti. La possibilità di trasformare la pelle in un prodotto resi-stente e sufficientemente elastico dipende dalla presenza del collagene, una proteina non solubile, composta da diversi amino-acidi (glicina, prolina, idrossiprolina), che costituisce gran parte dell’impalcatura del corpo degli animali. La pelle dei mammiferi è costituita dall’e-pidermide e dal derma. All’interno di que-sti strati vi sono diverse altre strutture: vasi sanguigni, cellule sebacee, bulbi piliferi, ecc. Per ottenere un cuoio morbido ed elastico, ed evitare che imputridisca, è necessario asportare i peli e la parte inferiore della pelle (la carne) e devono essere rimosse le altre proteine non strutturali presenti nella pelle insieme al collagene. Queste opera-zioni vengono effettuate tramite la concia. Alla fine della lavorazione, il cuoio presenta uno strato superficiale (o strato papillare)

detto “fiore” (o grana), liscio e più o meno lucido, e uno strato inferiore, lo “strato fi-brillare” (o corium), composto da un intrec-cio irregolare di fibrille di collagene.È possibile utilizzare la pelle di ogni ani-male per produrre del cuoio, ma le pelli più frequentemente utilizzate in età storica erano quelle delle specie domestiche: bovi-ni, pecore, capre e maiali3.Il cuoio bovino (fig. 1) può essere spesso più di un centimetro, è costituito media-mente per un quinto dallo strato papillare e per il resto dallo strato fibrillare, la transi-zione tra i due strati è graduale; il disegno della superficie è dato dalla presenza di follicoli più o meno della stessa grandez-za, abbastanza uniformemente distribuiti. Dato il grande spessore, il cuoio può essere sezionato trasversalmente per ottenere fo-gli più facilmente lavorabili; ovviamente il cuoio dei maschi adulti risulta particolar-mente spesso; più sottili, meglio lavorabili e in genere di migliore qualità, sono i cuoi derivati dalle pelli di vitello, manzo e vac-ca. Lo spessore notevole è perfetto per la produzione di suole di scarpa e altri robusti manufatti. Il cuoio di pecora (fig. 2) presenta un di-segno diverso, poiché la selezione operata dall’uomo per produrre più lana ha favo-rito la formazione di un numero maggio-re di peli. In superficie i follicoli appaiono più numerosi, relativamente più piccoli di quelli bovini, addensati a gruppi, separati tra loro da piccole zone prive di peli. Lo spessore è minore, gli aggregati di fibre di collagene più sottili: ne deriva un cuoio più morbido e più adatto alla fabbricazione di vestiti. La presenza di molti follicoli, con

3 Le descrizioni che seguono sono tratte principalmente da reeD 1972 e micheL 2014.

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molti vasi sanguigni e molte ghiandole se-bacee, rende il cuoio di pecora più fragile rispetto agli altri. La transizione tra corium e strato papillare è netta, ciò può deter-minare il fenomeno della “delaminazione” cioè il distacco dei due strati, che può ren-dere il cuoio inutilizzabile. Una concia ac-curata può limitare questo problema, ma è opportuno evitare l’utilizzo di questo cuoio dove si abbiano forti sollecitazioni e pie-gature. Il cuoio di capra (fig. 3) ha un fiore carat-terizzato dalla presenza di follicoli di due classi di grandezza diverse, tendenzialmen-te allineati; ogni allineamento di follicoli grandi è strettamente connesso a un alli-neamento di follicoli piccoli. Lo spessore è più limitato della pelle bovina, ma non vi sono i problemi legati all’eccessivo nume-ro di peli delle pelli di pecora; la gradua-le transizione tra corium e strato papillare e la presenza di fasci di fibre di collagene più fini permette un uso molto versatile di questa pelle, con l’unico limite dato dalle ridotte dimensioni degli animali. Il cuoio di maiale (fig. 4) è caratterizzato da una grana molto ruvida e granulare, i peli sono poco numerosi ma di grandi di-mensioni e attraversano tutto lo strato fi-brillare; il cuoio ha così lo stesso aspetto sui due lati ed è permeabile. Per le particolari

A sinistra, dall’alto.

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caratteristiche della struttura è un cuoio che si graffia facilmente, ma che si presta a molteplici impieghi, perché è robusto e può essere reso particolarmente sottile asportando gran parte del corium. Veniva tipicamente impiegato per ricoprire libri e piccoli oggetti.In età medievale dalle pelli si ottenevano diversi prodotti: pellicce, in genere ricavate da animali selvatici; pergamene, da pelli di pecora e capra ma anche da quelle bovine (vellum) e cuoio cotto (cuir bouilli), spesso impiegato per fabbricare armature e con-tenitori.

La conservazione del cuoio

Come per tutti i materiali organici, la con-servazione del cuoio può avvenire solo in determinate condizioni, relativamente poco frequenti alle nostre latitudini. I re-perti di maggiori dimensioni si rinvengono in sedimenti che si sono conservati costan-temente ghiacciati – come è avvenuto nel caso di Ötzi – oppure sommersi o aridi. Condizioni ambientali estremamente sec-che/aride non sono presenti in Italia in siti all’aperto, ma possono presentarsi in situa-zioni più riparate, come ad esempio all’in-terno di murature e altri ambienti edificati. In ambiente costantemente sommerso (se-dimento in falda, laghi, torbiere, mare) la conservazione può essere particolarmente buona se altre caratteristiche ambientali, soprattutto il pH, giocano a favore (fig. 5). I reperti imbibiti, una volta estratti dal luogo di rinvenimento, sono molto fragili e devono essere adottate immediatamente precauzioni che ne permettano il restauro e la conservazione4.

4 Si veda ad esempio ui elines or t e care o ater-

Più frequente, alle nostre latitudini, so-prattutto nelle tombe longobarde, è la conservazione tramite mineralizzazione, il processo che avviene in rapporto alla corro-sione di oggetti di ferro, rame/bronzo e, più raramente, d’argento e altre leghe. La con-servazione per mineralizzazione è tenden-zialmente puntiforme e strettamente legata al numero degli oggetti metallici presenti, alle loro dimensioni e alla loro posizione. I

logge arc aeological leat er, a cura del ALG, Archae-ological Leather Group e pubblicato a cura dell’English Heritage (www.archleathgrp.org.uk/EHGuidelines.pdf).

ig rammento i cuoio arc eologico conser ato in al a o strato a illare en conser ato oto

M a oratorio i rc eo iologia ei Musei i ici i omo

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meccanismi che sottostanno al fenomeno non sono ancora completamente conosciu-ti. In presenza di prodotti di corrosione del ferro, il cuoio si può presentare in tracce “polverose”, prive di consistenza, oppure in lembi più spessi e coerenti o in schegge quasi completamente mineralizzate, dif-ficili da distinguere dalle patine di altera-zione dei metalli. Le colorazioni possono variare dall’ocra al giallo, al rosso (fig. 6). In presenza di prodotti di corrosione del rame e del bronzo, il cuoio può assumere talvolta aspetto polveroso e inconsistente, ma più spesso si conserva schiacciato, sottilissimo, come fosse essiccato (fig. 7). L’attività an-timicrobica e antifungina dei prodotti di corrosione del rame, più che impregnare o sostituire le fibre di collagene, impedisce l’attacco degli organismi decompositori. Il colore può variare dal nero, al grigio, al verde. Anche l’argento tende ad annerire il cuoio.

Riconoscere e determinare il cuoio mineralizzato

La mineralizzazione, pur essendo un fe-nomeno diffuso e frequente, determina cambiamenti morfologici importanti, che talvolta non permettono nemmeno di rico-noscere il cuoio e di distinguerlo dagli altri materiali organici alterati. La porzione che si conserva più frequentemente è lo strato fibrillare, ma l’andamento delle fibrille può non essere più chiaramente leggibile e di-

ig s etto el cuoio conser ato in ra orto ai ro otti i corrosione el rame ron o

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L’Alto Medioevo. Artigiani e organizzazione manifatturiera 3

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ventare simile alle tracce tessili fortemente alterate (fig. 8). La pessima conservazione del “fiore”, la sua abrasione o assenza (fig. 9), oltre a impedire la determinazione della specie su basi morfologiche, rende impos-sibile, o particolarmente complesso, iden-tificare il tipo di concia impiegata. Altre analisi fisico-chimiche o biologiche, come l’estrazione del DNA e di alcune proteine (collagene e peptidi caratteristici), specie-specifiche, che potrebbero essere impie-gate per la determinazione dell’animale, sono impossibili da effettuare o forniscono dati incerti su materiale mineralizzato. La frammentarietà e la variabilità di conser-vazione da punto a punto possono rendere poco leggibili le tracce e spesso impedisco-no di riconoscere l’aspetto complessivo del manufatto in cuoio e le modalità di lavora-zione. La formazione di repliche e pseudo-morfi permette più facilmente di individua-re i peli, presenti su cuoi non ben depilati o in vere e proprie pellicce. L’andamento e la morfologia dei peli, lo spessore del cuoio, l’andamento delle fibrille, il disegno creato dai follicoli se conservati, sono comunque elementi utilizzabili per la determinazione dell’animale, anche se, nei reperti minera-lizzati, l’incertezza è sempre alta.

Il cuoio in età longobarda

La maggior parte delle indicazioni sull’uso del cuoio in età altomedievale derivano dai rinvenimenti in tombe, soprattutto di età longobarda. In questi contesti è possibile rinvenire lembi di cuoio pertinenti a diver-si tipi di oggetti. Nelle tombe maschili di armati, dove la presenza di molti elementi metallici favorisce la conservazione della sostanza organica, il cuoio risulta essere impiegato per cinture, corregge e altre fi-

niture dell’abito, per le calzature e per le guarnizioni delle stesse. Il cuoio è poi uti-lizzato per la costruzione di diverse parti delle armi di attacco e di difesa: per foderi di spade, scramasax e coltelli, per gli scu-di, per la manifattura di custodie di cesoie e pettini, per la costruzione delle faretre e sotto forma di cinghie, di varia larghezza e lunghezza, per legare, fissare, avvolgere porzioni di archi, frecce, lance. Certamente era impiegato nei finimenti di cavallo e per la fabbricazione di borse. L’uso di caschi o di imbottiture di elmi, così come di in-dumenti in senso stretto, non è stato per il momento verificato.Nelle tombe femminili la presenza di cuo-io è molto più limitata, anche per effetto della minor presenza di oggetti metallici; è sicuro che il cuoio fosse impiegato per cinture e corregge, nelle calzature, per cu-stodie di attrezzi e nelle borse e talvolta per infilare collane. Non si può escluderne l’uso per la fabbricazione di contenitori diversi (borracce) e come materiale impiegato per rivestire casse e cassette.

Le cinture: il caso di Monselice e di Tignale

La cintura, come è noto, costituisce un ele-mento fondamentale dell’abito longobardo. Le cinture dovevano essere particolarmen-te robuste per sostenere le armi piuttosto pesanti e i numerosi elementi di guarnizio-ne. I puntali, appesi all’estremità delle cin-ture o di cinghie pendenti, erano muniti di una tasca in cui era infilata la cintura, poi fissata da robusti fili di legatura o da ribat-tini in metallo o in altro materiale orga-nico. Placchette, passanti e fibbie avevano sul retro appendici metalliche (maglie), che attraversavano in tutto o in parte lo spesso-

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re della cintura ed erano poi fissate da perni o cuciture. In diverse tombe, attaccate alle guarnizioni metalliche, sono rimasti fram-menti di cuoio e talvolta porzioni un poco meglio conservate che ci consentono di ca-pire la manifattura di queste cinture5. Per garantire robustezza, flessibilità e spessore, il cuoio era posto in due strati sovrapposti, ottenuti da due strisce cucite da entrambi i lati o da una singola correggia ripiegata su sé stessa e cucita lungo un solo lato. Tra i due strati era posta una sorta di imbotti-tura, ottenuta da grossi fili in fibra vegetale. A Montecchio Maggiore questi fili hanno torsione complessiva a S e sono sempre composti da più capi, ognuno ritorto a Z. La fibra impiegata è lino poco lavorato (cioè scarsamente digrezzato) o canapa6.L’ottima conservazione di un frammento di cintura all’interno di un passante trovato a Monselice7 permette di osservare altri par-ticolari (fig. 10). In questo caso la striscia di cuoio è ripiegata su sé stessa lungo un

5 Si rinvia al contributo di E. Possenti in questo volume.6 roTToLi, reTTore 2011.7 roTToLi 2017. I disegni ricostruttivi della cintura di Monselice e di quella di Tignale sono di Elisabetta Ca-stiglioni.

margine e verosimilmente cucita sul mar-gine opposto, anche se le cuciture non si leggono più. All’interno dei due strati di cuoio sono disposti 5 grossi fili paralleli con un diametro di 2-3 mm. La superficie della cintura, in corrispondenza di questi fili di rinforzo, presenta ondulazioni che ne ricalcano l’andamento, ma non sono visibili i fili di cucitura che dovevano essere invece presenti sul cuoio tra filo e filo, per evitare che questi si spostassero (fig. 11). Finissi-me cuciture parallele, perfettamente rego-lari, frutto di un lavoro certosino, sono sta-te osservate in reperti di cuoio provenienti da altre necropoli longobarde. La presenza di uno strato di imbottitura con fili di rinforzo è documentata anche a Tignale8, anche se la minore conservazio-ne del materiale non permette di leggere con precisione i rapporti tra i fili e il cuoio; in quel caso è evidente la presenza di fili di imbottitura, in due serie sovrapposte, perpendicolari tra loro; i fili non sembra-no incrociarsi e non è affatto chiaro come siano stati fissati alle estremità e al cuoio (fig. 12).

8 roTToLi 2005.

A

A’ A - A’

ig icostru ione ella mo alit i a rica ione ella cintura i cuoio i Monselice

ig assante metallico alla necro oli longo ar a i Monselice con resti ella cintura i cuoio im ottita

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I foderi

Coltelli, scramasax e spade presentano qua-si sempre tracce dei foderi in cuoio. Gene-ralmente, coltelli e sax avevano fodero di solo cuoio, ottenuto tagliando una forma ricalcata sull’arma, che veniva ripiegata in-torno alla costa e cucita sul lato opposto, in corrispondenza del tagliente. Vi sono pro-ve abbastanza evidenti che molti coltelli e sax avessero un fodero a tasca, cioè con un

lembo di cuoio che continuava, da un lato, sotto l’impugnatura, dove era fissato con dei ribattini e con uno dei due ponticelli in metallo (l’altro era posto più in basso a circa metà della lama), che servivano per l’attacco del fodero alla cintura. La consuetudine di deporre nelle sepoltu-re il coltello appoggiato al sax ha suggerito che il primo fosse inserito in una tasca ri-cavata al centro del fodero del sax; le tracce finora osservate in vari corredi tombali non consentono però di ricostruire con preci-sione come fosse effettivamente realizzato un fodero di questo tipo.Al contrario dei sax, che presentano qua-si sempre il fodero di solo cuoio, le spade hanno un fodero costituito da più strati di materiale diverso (fig. 13). Due valve di le-gno, probabilmente incollate ai margini e spesso fissate da rinforzi metallici decorati, costituivano l’anima del fodero. All’interno di queste, a contatto con il metallo, pote-va trovarsi una “pelliccia”, cioè uno strato di cuoio non depilato che, naturalmente untuoso o artificialmente ingrassato, assi-curava una migliore protezione del metal-lo e del taglio. Esternamente al legno era presente uno strato di cuoio; non sempre è possibile verificare se il cuoio coprisse per tutta la lunghezza le valve di legno, se la copertura fosse parziale, o fossero pre-senti solo delle strisce di legatura, perché man mano che ci si allontana dal metallo della lama la conservazione del materiale organico è minore. Quando non è presente internamente la pelliccia, il cuoio sembra rivestire completamente il fodero ligneo.

Decorazioni

Chiodini e ribattini in bronzo vengono utilizzati spesso per ottenere decorazioni

ig otesi ricostrutti e el sistema i cucitura e ermo el cuoio su una lacc etta a ignale

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molto fini, a bande o greche, dei foderi in cuoio dei sax, decorazioni poste per lo più lungo il lato tagliente, anche con significa-to funzionale.In realtà, il cuoio poteva essere decorato in molti modi: inciso, pirografato, lavorato a sbalzo o col bulino, asportando il “fiore”, per ricavare disegni di diverso tipo. La pos-sibilità di osservare su materiale archeolo-gico tinture o disegni, alle nostre latitudini, è decisamente rara: in reperti medievali più tardi sono presenti cuoi dorati9.La contemporanea presenza di acqua e metalli ha permesso la conservazione di un fodero lavorato nella tomba 200 di Bolga-

9 Járó 2005.

ig so ra c i o ricostrutti o el o ero i una spatha longo ar a isegno i lisa etta astiglioni

ig a estra i ro u ione ella ecora ione resente sul o ero ella om a i olgare a FortunAti, Ghiroldi

re (BG)10. Il fodero (fig. 14) presentava un disegno complesso che sembra essere stato ottenuto a impressione, utilizzando uno stampo particolarmente accurato. Solo lo strato papillare conserva il disegno, mentre lo strato fibrillare ne è privo, forse a cau-sa della maggiore plasticità o forse perché maggiormente degradato. La perfetta cor-rispondenza tra il disegno a impressione del cuoio e alcuni degli elementi in bronzo

10 forTunaTi, ghiroLDi 2006; roTToLi 2009.

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inseriti suggerisce che lavorazione e in-chiodatura siano avvenute contemporanea- mente. Decorazioni di questo genere non sono conosciute nei foderi delle spathae, dove invece sono documentati inserti in avorio (a Collegno, tomba 4911, fig. 15), in osso o

11 casTigLioni et al. 2004.

avorio (a Verona, vicolo Bernardo da Ca-nal12) e in tessuto (Testona13), rispettiva-mente verso la punta, all’inizio del fodero e centralmente.

12 giosTra et al. 2008; cavaLieri manasse, giosTra, roTToLi cs.13 roTToLi, casTigLioni 2014.

ig materiali organici c e costi-tui ano il o ero

ella om a i ollegno a

cAStiGlioni et al

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Lo scudo

Lo studio delle tracce organiche sugli umboni e sull’imbracciatura degli scudi suggerisce che il disco fosse costruito ac-costando alcune tavolette di legno, e che queste, ricoperte all’esterno da un robusto strato di cuoio, fossero unite all’umbone e all’imbracciatura da un complesso sistema di perni e borchie. Non è chiaro se il cuoio ricoprisse lo scudo anche all’interno o se fosse solo ripiegato sul margine. La sot-tigliezza delle tavolette lignee e l’impiego di legno leggero e tenero (è documentato spesso l’uso di salice e pioppo, fig. 16) fan-no ipotizzare la necessità di uno strato di rinforzo anche internamente.

I calzari e borse

Nelle tombe longobarde non sono presenti chiodi da scarpa, tipici delle caligae roma-ne; le calzature dovevano possedere suole di semplice cuoio. In realtà non abbiamo reperti che ci possano suggerire quali mo-delli fossero in uso in età longobarda, e se si impiegassero oltre a scarpe basse anche sti-vali. A parte alcuni cenni di Paolo Diacono sull’uso di fasce bianche sulle gambe, uose e calzari, le pochissime testimonianze ico-nografiche (come l’altare di Ratchis) sug-geriscono l’uso maschile di alti calzari o di fasce di tessuto o cuoio arrotolate lungo le gambe. Tracce di cuoio e tessuto sono state rinvenute, ad esempio, sugli speroni di una

ig icostru ione ello scu o ella

tom a i ollegno a cAStiGlioni et al.

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sepoltura a Verona, in via Bernardo da Ca-nal. La presenza di speroni implica l’uso di stivali di una certa altezza14, di cuoio robu-sto; non è possibile, in questo caso, stabilire con precisione la funzione del tessuto che potrebbe derivare dalle brache. Frequente è il ritrovamento in tombe, sia maschili sia femminili, di fibbiette metalliche, che ven-gono in genere interpretate come “reggi-calze” di tessuto15, ma non si può escludere che potessero avere anche la funzione di stringere lacci di scarpe.Infine un piccolo cenno sulle borse: fre-quente è il ritrovamento di elementi me-tallici, piatti, a forma arcuata, muniti tal-volta di ganci o fori alle estremità, talvolta definiti “acciarini” perché rinvenuti insieme a pietre focaie; la presenza di tracce di cuo-io, spesso su entrambi i lati, fa ritenere che questi elementi fossero inseriti nel cuoio o cuciti esternamente alla patta, cioè al bordo ripiegato che chiudeva le borse.

14 Si veda invece ahumaDa siLva 2010, p. 91.15 Si veda ahumaDa siLva 2010, p. 132.

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Introduzione

L’analisi chimica applicata allo studio dei reperti archeologici beneficia oggi di un’ampia gamma di tecniche strumentali, che hanno in larga misura sostituito i me-todi classici e si rivelano particolarmente utili nel caso in cui i materiali in esame sia- no di natura organica, come è appunto il caso degli oggetti in cuoio. Per tali oggetti, le possibilità offerte da tali tecniche spaziano dall’identificazione dei materiali all’esame delle modalità di lavo-razione e, infine, alla valutazione delle con-dizioni di conservazione.

Il riconoscimento di reperti in cuoio

Il cuoio è essenzialmente costituito da fi-bre di collagene, la proteina della pelle. Tale proteina è contraddistinta da una struttu-ra primaria, ossia da una composizione in amminoacidi, che si distingue da quella delle altre proteine per la presenza di un amminoacido particolare, la 4-idrossiproli-

L’analisi chimica per lo studio dei cuoi archeologici

na. L’identificazione di questo amminoaci-do consente dunque in linea di principio di distinguere il cuoio da altri materiali fibrosi come il legno o il tessuto, soprattutto nel caso di contesti di seppellimento aridi e in presenza di ossigeno.L’analisi degli amminoacidi contenuti in un materiale proteico prevede un proce-dimento detto di idrolisi, in cui l’utilizzo di un acido forte ad elevata temperatura in opportune condizioni consente la rottura dei legami peptidici che uniscono gli am-minoacidi a formare le proteine. La miscela di amminoacidi liberi così ottenuta viene poi analizzata mediante tecniche croma-tografiche, ossia metodi nei quali i diversi componenti vengono separati, identificati ed eventualmente quantificati. La tecnica più comunemente utilizzata è la gascro-matografia abbinata alla spettrometria di massa (GC-MS). In gascromatografia una miscela di composti viene separata nei suoi componenti facendola passare in fase gas-sosa attraverso una colonna capillare con-tenente un riempimento con cui tali com-

Silvia BruniUniversità degli Studi di Milano, Dipartimento di Chimica

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ponenti interagiscono in misura diversa, venendone quindi più o meno trattenuti ed emergendo perciò dalla colonna in tempi diversi e quindi separatamente. Nella ga-scromatografia abbinata alla spettrometria di massa, le molecole dei diversi compo-nenti del campione all’uscita della colon-na sono sottoposte a una frammentazione che, essendo caratteristica della struttura molecolare, ne permette il riconoscimen-to. La sensibilità più elevata si ottiene in modalità SIM (Selected Ion Monitoring) in cui si misura selettivamente un determina-to frammento caratteristico della molecola di interesse. Chahine e Richardin1 hanno riportato l’utilizzo della tecnica GC-MS con sorgente a ionizzazione chimica con ammoniaca (il metodo con cui si produce la suddetta frammentazione delle moleco-le) per la rilevazione di 4-idrossiprolina in cuoi archeologici sino a quantità dell’ordi-ne di 10 picogrammi.

Lo studio del processo di concia

Come è noto, il cuoio è pelle animale che alla fine di una lunga serie di trattamen-ti di tipo fisico e chimico, detta “processo conciario”, diviene imputrescibile e facil-mente lavorabile. Il componente della pelle che più interessa il conciatore è appunto il collagene, la proteina che reagisce diretta-mente con gli agenti concianti, i coloranti e gli ingrassi.Gli agenti concianti possono essere di na-tura organica o inorganica. Rientrano nel primo gruppo i tannini utilizzati nel pro-cesso di “concia al vegetale”, molto antico e ampiamente diffuso dal punto di vista geo- grafico. I tannini vegetali sono sostanze

1 chahine, richarDin 1991.

(polifenoli) naturali presenti nelle piante, che ricorrono anche in un’ampia varietà di verdure e frutta. Possono essere divisi in base alle loro strutture e proprietà in due principali gruppi, idrolizzabili e conden-sati. I primi possono essere separati nei loro componenti; derivano generalmente da uno zucchero (ad es. glucosio) e da un acido organico quali l’acido gallico e l’aci-do ellagico. I secondi invece non possono essere scissi mediante idrolisi perché basati su legami tra atomi di carbonio di unità aventi la struttura dei flavonoidi2. I tanni-ni più utilizzati storicamente nell’Europa occidentale erano ottenuti dalle piante del genere Quercus, in particolare dalla cortec-cia di quercia, e del genere Rhus, il cosid-detto sommacco3. Nel primo caso si tratta di miscele di tannini idrolizzabili (ellagi-tannini) e tannini condensati, nel secondo di gallotannini4.Nella concia detta “minerale” gli agen-ti concianti sono di natura inorganica. Il tipo di concia minerale più antico è quella all’alluminio, in cui come conciante si uti-lizzava l’allume di rocca (solfato di allumi-nio e potassio idrato).In linea di principio l’analisi chimica offre la possibilità di ricercare sostanze indica-trici dell’utilizzo di tannini per la concia del pellame. È recente in tal senso la proposta di uti-lizzare metodi semi-microanalitici basati sull’utilizzo di opportuni reagenti che, de-positati su alcuni milligrammi del campio-ne di cuoio, sviluppano colorazioni diverse a seconda del tipo di tannini eventualmen-

2 khanBaBaee, van ree 2001.3 faLcão, araúJo 2013.4 faLcão, araúJo 2011.

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SILVIA BRUNIL’analisi chimica per lo studio dei cuoi archeologici

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te presenti5. Una tecnica di analisi strumentale non invasiva nei riguardi del reperto si basa invece sull’impiego della spettroscopia di assorbimento nell’infrarosso (in trasforma-ta di Fourier6, FTIR), nella modalità det-ta di riflessione totale attenuata (ATR)7. Cuoi recenti esaminati con questa tecnica mostrano in effetti segnali di assorbimen-to tipici delle diverse famiglie di tannini8, come mostra la fig. 1 per un campione di cuoio moderno conciato al vegetale. Ana-loghi segnali sono stati osservati per cuoi storici di epoca compresa tra il XVII e il XIX secolo9. Nel caso dei cuoi archeologici, peraltro, lo spettro di assorbimento nell’in-frarosso permette al più il riconoscimento dei segnali caratteristici del collagene ed è spesso dominato da quelli di altre sostan-ze possibilmente depositate nel contesto di seppellimento, come mostrato in fig. 1 per un frammento di cuoio dallo scavo del cantiere navale di Pisa San Rossore, appar-tenente a un insieme di reperti simili datati dal II secolo a.C. al I secolo d.C. Si tratta di frammenti che mostrano per la maggior parte una notevole usura della superficie che potrebbe dipendere dalla lavorazione, dall’utilizzo o dal degrado tafonomico.Per il riconoscimento nei cuoi antichi di piccole quantità di tannini, in particolare 5 faLcão, araúJo 2013.6 Così detta per il particolare tipo di strumentazione utilizzata.7 Questa modalità prevede che il campione sia posto a stretto contatto con un cristallo di un materiale traspa-rente alla radiazione IR e ad elevato indice di rifrazione (ad esempio seleniuro di zinco). Il raggio IR attraversa il cristallo, interagisce con il campione che eventual-mente assorbe alcune componenti della radiazione in-cidente e, sempre attraverso il cristallo, viene inviato al sistema di rilevazione. 8 eDeLmann, LenDL 2002.9 faLcão, araúJo 2013.

tannini idrolizzabili, la tecnica più indi-cata è senz’altro l’analisi di gascromato-grafia abbinata alla spettrometria di massa (GC-MS). I tannini liberi eventualmente presenti all’inizio sono assai probabilmente scomparsi, mentre possono essere rintrac-ciati quelli ancora legati alle fibre di colla-gene. Per liberare da questi ultimi l’acido gallico e/o ellagico è necessario romperne i legami mediante procedimenti di metano-lisi (utilizzando metanolo e acido cloridri-co a caldo per alcune ore) oppure idrolisi acida (con acido cloridrico a caldo per al-cune ore). Successivamente la miscela otte-nuta da tali procedimenti viene analizzata mediante la già descritta tecnica GC-MS. La fig. 2 mostra il segnale caratteristico dell’acido gallico osservato con tale tecni-ca in modalità SIM per l’estratto ottenuto

Fig. 1. Spettri di assorbimento nell’infrarosso ottenuti in ri essione totale attenuata i cam ione i cuoio re-cente conciato al egetale so ra cam ione i cuoio arc eologico allo sca o el cantiere na ale i isa

an ossore sotto er il cuoio recente si osser ano segnali associati oltre c e alla roteina collagene ai tannini utili ati er la concia er il cuoio arc eolo-gico in ece sono a ena istingui ili i segnali o uti al collagene mentre il icco i maggiore intensit

resumi ilmente o uto a silicati e ositati sulla su erficie el cuoio si e a la fig

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mediante metanolisi di un frammento del fodero del langsax rinvenuto nella necro-poli longobarda di San Chierico di Bolgare (BG)10. Con la medesima tecnica GC-MS, in mo-dalità di corrente ionica totale, è anche possibile evidenziare la presenza di acidi grassi (acidi organici con lunghe catene di atomi di carbonio), nonché glicerolo e mo-noacilgliceroli, che possono essere associati a oli utilizzati per il nutrimento del cuoio medesimo11. Le sostanze lipidiche, ossia grassi e oli, sono costituite dai cosiddetti triacilgliceroli (formati dal glicerolo con tre molecole di acidi grassi), che a seguito dell’invecchiamento dei materiali si idro-lizzano a formare di- e monoacilgliceroli e infine acidi grassi liberi. Sono questi ultimi a essere ritrovati in maggiore abbondanza nei materiali più invecchiati.Eventuali tracce di concia minerale posso-no invece essere ricercate mediante analisi elementare, sia su campione massivo (qual-che decina di milligrammi) mediante spet-troscopia di emissione atomica in plasma accoppiato induttivamente (ICP-AES) sia a livello microscopico mediante analisi di raggi X in dispersione di energia abbina-ta alla microscopia elettronica a scansione (SEM-EDX), che possono evidenziare particolari abbondanze di determinati elementi, ad esempio alluminio, associa-

10 Bruni 2006.11 chahine, richarDin 1991.

ti a tale procedimento di concia. Si vedrà nel prossimo paragrafo come tali analisi permettano comunque di rilevare anche elementi associati a composti inorganici depositatisi o formatisi durante il seppel-limento, di cui dunque è importante deter-minare correttamente l’origine.

Lo stato di conservazione dei cuoi

Abbiamo già visto nel paragrafo preceden-te come la spettroscopia FTIR possa dare indicazioni sullo stato di conservazione di un cuoio. In letteratura sono riportati studi in cui tale tecnica viene utilizzate per va-lutare il degrado del collagene, ad esempio nelle pergamene, sulla base della posizione e dei rapporti di intensità dei segnali ca-ratteristici della componente proteica di un materiale12.Per la maggior parte dei già citati fram-menti di cuoio dal cantiere navale di Pisa San Rossore, peraltro, la risposta ottenu-ta in modalità ATR mostra in realtà solo deboli caratteristiche associate al collage-ne13, e si presenta simile a quella descritta in letteratura per la superficie del derma di corpi conservati nella brughiera, rinvenuti nella Germania settentrionale e risalenti a un periodo compreso tra il III secolo a.C. e il V secolo d.C.14 Anche in quel caso, come

12 Derrick 1991.13 BramBiLLa 2006.14 küpper et al. 2001.

Fig. 2. Cromatogramma ottenuto all analisi me iante gascromatogra-

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nello spettro mostrato nella fig. 1, il segna-le dominante è da assegnare a sostanze di-verse dalla componente proteica della pelle. Secondo Küpper et al. si tratta di monosac-caridi quale ad esempio il glucosio. Anche nel caso dei cuoi del cantiere di Pisa l’a-nalisi gascromatografica evidenzia la pre-senza di quantità significative di glucosio e altri monosaccaridi, possibilmente ma non necessariamente derivanti dai tannini idro-lizzabili, tuttavia appare più corretto rite-nere che il segnale dominante nello spettro infrarosso della superficie dei campioni sia dovuto a silicati depositati su di essa du-rante il seppellimento.Si osservino infatti le immagini ottenute al microscopio elettronico a scansione (SEM) per la sezione trasversale lucida di uno dei cuoi in esame nella fig. 3, che mostrano evidenze di depositi superficiali da ambo i lati della sezione. L’analisi EDX mediante microsonda elettronica dei grani depositati ha individuato la presenza di abbondanti silicio e alluminio, a conferma della deposi-zione di alluminosilicati riconosciuti anche mediante spettroscopia micro-FTIR.

Anche la già citata analisi elementare me-diante spettroscopia di emissione atomi-ca (ICP-AES) permette di individuare la presenza di altre specie inorganiche. Nello studio sui cuoi dal cantiere navale di Pisa15 sono stati esaminati con tale tecnica nove campioni, appartenenti a due diversi lotti dei quali il primo è stato sottoposto a di-versi trattamenti tra cui lavaggio e tratta-mento con fungicida, mentre i frammenti appartenenti al secondo lotto sono stati semplicemente conservati nell’acqua di ri-trovamento. Questi ultimi hanno mostrato in generale, se posti a confronto con cuoi moderni conciati al vegetale, un contenuto piuttosto elevato di calcio (dell’ordine del 10%), coerentemente con quanto ripor-tato per cuoi ritrovati in ambienti umidi che risultano in genere saturati con sali di calcio16. Tali sali vengono evidentemente rimossi almeno in parte dall’operazione di lavaggio, in quanto nei campioni del pri-mo lotto la percentuale di calcio scende a

15 BramBiLLa 2006.16 sTrzeLczyk, Bannach , kurowska 1997.

ig mmagini al microsco-io elettronico a scansione ella se ione tras ersale i un

cam ione i cuoio allo sca o el cantiere na ale i isa an ossore le aree i c iare

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valori compresi tra l’1% e il 4%. Diversa la situazione per quanto attiene al contenuto di ferro, piuttosto elevato nei cuoi di en-trambi i lotti (dallo 0.6 al 3%) sempre se confrontati con cuoi recenti. Anche questa osservazione trova rispondenza con quanto discusso da altri ricercatori, secondo i qua-li gli ioni ferro sono le specie minerali più reattive nei confronti di cuoi saturi di tan-nini vegetali immersi in ambienti umidi, grazie alla capacità che essi presentano di formare complessi stabili di colore bruno con i tannini stessi17 (in sostanza gli stessi composti su cui si basava la preparazione degli inchiostri ferro-gallici). Quantità di ferro particolarmente alte (attorno all’11%) sono state rilevate per due dei campioni esaminati, per almeno uno dei quali anche l’osservazione al microscopio ottico18 aveva

17 i .18 L’osservazione è stata effettuata da Mauro Rottoli del Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como. Si veda anche il contributo dello stesso in questo volume.

indicato la probabile presenza di prodotti di corrosione di metalli. Si è infine effet-tuata la ricerca del contenuto di zolfo, poi-ché tra i prodotti di alterazione riportati per i cuoi conservati in ambienti umidi vi sono anche solfuri, in particolare di ferro, derivanti dal degrado microbiologico di proteine contenenti zolfo (associate a lana, capelli, ecc.). Le percentuali di zolfo rileva-te non sono risultate significativamente più alte di quelle riscontrate per i cuoi moder-ni, tuttavia le analisi SEM-EDX condotte su due campioni in sezione trasversale han-no evidenziato una buona corrispondenza tra la distribuzione dello zolfo e quella del ferro (fig. 4). L’analisi spettroscopica all’infrarosso suggerisce peraltro che siano presenti, oltre che solfuri, anche solfati di ferro. Anche nel caso del cuoio del fodero del langsax dalla necropoli di San Chierico di Bolgare l’analisi SEM-EDX è stata uti-lizzata per evidenziare la presenza di ele-menti diversi da quelli caratteristici delle sostanze organiche, individuando in parti-

ig mmagine al microsco io elettronico a scansione ella se ione tras ersale i un cam io-ne i cuoio allo sca o

el cantiere na ale i isa an ossore so ra

ma e i raggi ella distribuzione di zolfo in giallo a sinistra e i erro in a urro a estra nella se ione el

cam ione sono e i en-iate le aree in cui i unti

a maggior concentra-zione di zolfo e di ferro coinci ono suggeren o c e i ue elementi siano associati in un me esimo com osto sotto

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colare il rame presumibilmente associato ai piccoli chiodi di bronzo che decoravano il fodero19.Come illustrato sopra, per rilevare il degra-do del collagene è invece necessario ricor-rere a tecniche più sensibili della spettro-scopia infrarossa. In particolare, tra queste si annovera la calorimetria differenziale a scansione (DSC). Si tratta di un metodo analitico in cui viene misurata la quantità di calore necessaria per far avvenire deter-minate trasformazioni di un materiale, ad esempio la fusione o la decomposizione termica, e così via. Nel caso del collagene il processo che viene studiato è la denatu-razione della proteina (processo che porta all’alterazione della struttura della proteina stessa), che si manifesta macroscopicamen-te attraverso la contrazione del materiale. La temperatura a cui avviene tale contra-zione quando il campione è riscaldato in presenza di un eccesso di acqua è un pa-rametro correlabile al deterioramento del materiale contenente collagene, come de-scritto per il cuoio e per la pergamena20. Al tempo stesso anche la quantità di calore assorbito nel processo (desunta dall’area del picco osservato nel tracciato) varia in funzione dello stato di conservazione del collagene. I valori di entrambi i parametri in particolare tendono a diminuire all’au-mentare del degrado della proteina21. La fig. 5 mostra il tracciato ottenuto dall’ana-lisi DSC di un campione di cuoio moderno conciato al vegetale e di uno dei campioni di cuoio da Pisa22. Nel primo caso si osserva il

19 Bruni 2006.20 chahine 2000.21 i .22 Le analisi sono state effettuate dal Dimitrios Fessas dell’Università degli Studi di Milano.

picco atteso, con massimo a 82 °C e quan-tità di calore assorbito di 26 joule/grammo di materiale, valori del tutto affini a quelli riportati dalle fonti per cuoi recenti trat-tati al vegetale23. Per il campione archeo- logico non vi è addirittura alcun picco os-servabile, ossia nessuna evidenza della tra-sformazione in esame, il che è indice di un elevato grado di deterioramento del colla-gene nel frammento di cuoio analizzato.Un diverso approccio allo studio del de-grado dei cuoi è basato sull’analisi della composizione in amminoacidi da essi pre-sentata. Abbiamo già visto più sopra come il riconoscimento della 4-idrossiprolina, l’amminoacido caratteristico del collagene, possa consentire di identificare come cuoio un reperto di natura non certa. La varia-zione delle percentuali relative degli altri amminoacidi è poi esaminata da diversi anni come indicatore del grado di invec-chiamento delle pelli e delle pergamene.

23 chahine 2000.

ig ur e ottenute me iante calorimetria i e-ren iale a scansione i lu cuoio recente conciato al egetale rosso cuoio arc eologico allo sca o

el cantiere na ale i isa an ossore er il cuoio recente si osser a il icco caratteristico associato alla

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Un lavoro pionieristico24 ha individuato nell’utilizzo simultaneo delle percentuali degli amminoacidi lisina e prolina un cri-terio che distingue cuoi recenti sottoposti a diversi tipi di concia da cuoi storici con-ciati al vegetale risalenti al XIX e XVIII secolo. In particolare, i cuoi storici sono caratterizzati dalla diminuzione del con-tenuto dei due amminoacidi. Altre coppie di amminoacidi sono risultate discriminare il cuoio recente da quello deteriorato, in-cludendo sempre la lisina accanto all’acido glutammico, all’acido aspartico, all’argini-na, alla leucina o alla treonina. Il confronto con l’invecchiamento artificiale ottenuto mediante riscaldamento od ossidazione di cuoi recenti suggerisce che l’ossidazio-ne sia appunto il principale meccanismo di degrado. Sempre nel medesimo lavoro si è valutato l’utilizzo delle percentuali dei tre amminoacidi lisina, prolina e isoleucina come indicatori della specie animale di ap-partenenza del cuoio, potendosi individua-re, in ciascuno dei due insiemi dei cuoi mo-derni e antichi, due sottoinsiemi associati rispettivamente a cuoi bovini e ovicaprini. Più di recente, uno studio finalizzato a valutare il deterioramento di cuoi storici conciati al vegetale ha proposto l’utilizzo congiunto di una serie di indicatori quali la temperatura di contrazione e il rapporto B/A, dove B è la somma degli ammino-acidi basici arginina, lisina e idrossilisina, mentre A è la somma degli amminoacidi acidi acido aspartico e acido glutammico25. Il rapporto B/A è pari a 0,7 per il colla-gene della pelle e del cuoio intatti, mentre diminuisce all’aumentare dell’ossidazione, sino ad assumere un valore pari a 0,5 per

24 Larsen, BarkhoLT, nieLsen 1989.25 Larsen 2000.

pelli molto deteriorate. Nel lavoro citato si esaminano pelli conciate al vegetale invec-chiate naturalmente e datate sino al XVI secolo. Parallelamente sono ivi descritti esperimenti di invecchiamento artificiale che hanno messo in luce come il tipo di concia al vegetale subita dai campioni, os-sia con tannini idrolizzabili o condensati, influenzi la sensibilità all’ossidazione di questi materiali, che risulta maggiore per quelle pelli che sono state conciate con tannini condensati. L’analisi dei prodotti di degrado del col-lagene in pelli invecchiate naturalmente e artificialmente è stata anch’essa oggetto di studio26. Si osservi che, tra i tre meccani-smi possibili di degrado del collagene ossia denaturazione, idrolisi ed ossidazione, l’os-sidazione può avere effetto sia sulle catene laterali degli amminoacidi sia sulla catena principale della proteina. Si formano così nuovi amminoacidi, quali ad esempio acido a- e g-amminobutirrico, b-alanina, acido piroglutammico, 3-idrossiprolina e acido a-amminoadipico, la cui quantificazione può costituire una misura del deteriora-mento ossidativo del collagene. Questi parametri basati sulla tipologia e sulla quantità relativa dei diversi ammino-acidi ricavati dall’idrolisi dei materiali in cuoio sono stati applicati a un terzo lotto di campioni provenienti dallo scavo di Pisa San Rossore27. Rispetto a quelli menzio-nati precedentemente e provenienti dal medesimo scavo, si trattava di campioni in condizioni di conservazione migliori, per i quali è stato possibile distinguere la presenza di numerosi fori da cucitura ed anche, laddove il fiore risultava più leggi-

26 richarDin et al. 1996.27 fracasseTTi 2008.

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bile, ipotizzare la specie animale di appartenenza28. Nello studio in oggetto si sono determinate innanzitutto le percentuali dei diversi amminoacidi costituenti il collagene previa idrolisi acida ad alta temperatura dei campio-ni e successiva analisi GC-MS. I dati ottenuti sono stati sotto-posti ad analisi statistica, in par-ticolare analisi delle componenti principali (PCA) e analisi discri-minante lineare (LDA). Si tratta in entrambi i casi di metodi di analisi multivariata che permet-tono di trasformare le variabili di partenza in combinazioni lineari in grado di descrivere in numero minore la varianza del sistema. Tuttavia, a differenza della PCA, la LDA tenta esplicitamente di rappresentare con un modello le differenze tra le classi di ap-partenenza dei campioni, di cui la prima invece non tiene conto. Questo permette di assegnare a una classe even-tuali campioni incogniti. Il grafico ricavato da questa analisi dei dati è presentato nella fig. 6 ed evidenzia innanzitutto la separa-zione tra cuoi recenti e cuoi archeologici dal punto di vista della distribuzione de-gli amminoacidi. La PCA evidenzia che, come atteso, i primi sono caratterizzati da maggiori percentuali di prolina, idrossipro-lina e lisina. Inoltre nel grafico della fig. 6 si osserva anche, all’interno di ciascuno dei due raggruppamenti, una discreta se-parazione dal punto di vista della specie

28 L’osservazione è stata effettuata da Mauro Rottoli del Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como. Si veda anche il contributo dello stesso in questo volume.

animale di appartenenza, con la possibilità di assegnare in via di tentativo anche al-cuni campioni per i quali l’osservazione al microscopio ottico non aveva permesso di ipotizzare la specie di origine. Il rapporto poi tra le quantità relative degli ammino-acidi basici e degli amminoacidi acidi, de-finito B/A da Larsen29 come detto sopra, ha presentato in effetti valori molto bassi per i cuoi archeologici, permettendo però di distinguere quelli tra essi che presentano un minor grado di deterioramento e per i quali il suddetto valore risulta significati-vamente diverso da zero. È interessante osservare che proprio per questi ultimi ma-teriali è stato possibile rinvenire quantità

29 Larsen 2000.

ig rafico ottenuto all analisi iscriminante lineare ella com osi ione in amminoaci i i cuoi recenti conciati al egetale e cuoi arc eologici allo sca o el cantiere na ale i isa an

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apprezzabili di alcuni degli amminoacidi derivanti dal degrado ossidativo del col-lagene, i già citati acidi a-amminoadipico e g-amminobutirrico nonché b-alanina e acido piroglutammico, questi ultimi pre-senti anche nei cuoi recenti ma in minor proporzione rispetto alla prolina utilizzata come riferimento poiché da essa derivano alcuni di tali prodotti di degrado. Signi-ficativamente, questi composti sono stati rinvenuti in altri studi in cui si esaminava-no cuoi invecchiati artificialmente oppure cuoi storici ma alquanto più recenti rispet-to a quelli in oggetto, essendo datati dal XVI al XIX secolo. Possiamo quindi rite-nere che quelli tra i campioni archeologici in esame che sono caratterizzati da valori piccoli ma non nulli del rapporto B/A e dalla presenza dei sopra citati amminoaci-di presentino un grado di deterioramento intermedio rispetto ai cuoi restanti, il cui stato di degrado è notevolmente avanzato.

L’utilizzo sinergico delle diverse tecniche di analisi chimica presenta dunque inte-ressanti potenzialità per lo studio del pro-cesso di lavorazione e dello stato di con-servazione dei cuoi antichi, potenzialità meritevoli di un ampliamento delle ricer-che soprattutto per ciò che attiene ai mate-riali propriamente archeologici.

Ringraziamenti

Ringrazio il dott. Andrea Camilli della So-printendenza Archeologia, Belle Arti e Pae- saggio della Toscana per aver autorizzato la pubblicazione dei risultati relativi ai cuoi dallo scavo del cantiere navale di Pisa San Rossore.

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Introduzione

Conosciuta in ambito internazionale col termine di Reenactment, ossia “rimettere in atto la storia”, la ricostruzione storica definisce un preciso campo d’azione, che si potrebbe riassumere nel ricostruire la storia tramite l’attività di ricerca e studio delle fonti, nell’elaborare i dati raccolti e quindi, soprattutto, nello sperimentare le tecniche produttive, attraverso la ricostru-zione artigianale del manufatto, cercando di attenersi il più possibile ai dati scientifici e archeologici. Questa pratica ebbe origine tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso in Inghilterra. Da qui si diffuse poi abbastanza velocemente negli altri paesi anglosassoni, arrivando in-vece in Italia verso la metà degli anni ’90, dove si sviluppò ulteriormente intorno al 2000.La sperimentazione artigianale non è una scienza esatta: l’aspetto affascinante di questa disciplina è, infatti, che ogni rico-struttore interpreta le fonti e il dato ma-

Sperimentazione: la ricostruzione di unfodero di scramasax secondo le tecniche degli artigiani altomedievali

teriale sperimentando, con notevole abilità manuale, i metodi in modo diverso, per-mettendo così di tracciare un quadro ricco di spunti di riflessione.La sperimentazione e la ricostruzione sto-rica riferita alla lavorazione del cuoio, per l’intero ciclo produttivo, è complessa e affascinante allo stesso tempo, poiché ini-zia dai processi chimici della concia delle pelli, per passare poi alla raffinata manua-lità della tecnica di realizzazione artistica. Risalire alle pratiche produttive conciarie attraverso i dati ricavati dalle indagini ar-cheologiche è sempre alquanto complesso. Il percorso di trasformazione della materia prima (pelle animale) in manufatto (pellic-cia e cuoio) è abbastanza articolato e com-porta l’impiego incrociato di varie tecniche e lavorazioni. Alla base del processo conciario vi è la chi-mica, ma sappiamo bene che solo in epoca moderna tale processo è stato chiarito in ogni sua parte, perfezionato e standardiz-zato. In antico le trasformazioni nascevano dalla sperimentazione e dall’esperienza di

Cristiano Brandolini Associazione Insubria Antiqua

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pochi “maestri”, che trasmettevano il loro sapere oralmente a terzi e a chi lavorava all’interno della bottega. Era un sapere che nasceva dall’esperienza diretta di tutti i processi, ma non per questo meno effi-ciente di altri. Difficile, quindi, per un artigiano, ricer-catore e ricostruttore, che non operi con analisi diagnostiche, ripercorrere i processi manifatturieri. Le caratteristiche chimico-fisiche dei ma-teriali sono costanti nel tempo e le sequen-ze di lavorazione possono essere definite in tre semplici operazioni: scarnatura, concia e manipolazione finale manifatturiera, che hanno subito cambiamenti e influenze a seconda delle diverse culture e zone geo-grafiche.È evidente che la conoscenza chimico-fisica dei materiali impiegati non basta per delineare un quadro interpretativo chiaro in ambito di ricerca archeologica; si rende quindi indispensabile il parallelo confronto con fonti non archeologiche: iconografi-che, scritte e orali. Spesso queste fonti si discostano dal punto di vista cronologico rispetto al dato archeo-logico che stiamo analizzando, ma possono comunque fornire un indirizzo d’indagine valido, da seguire per raggiungere delle corrette conclusioni. Si rinvia, pertanto, per gli studi storico-analitici, ai saggi di Mau-ro Rottoli e Silvia Bruni presenti in questo stesso volume e alle relative bibliografie1.

1 Deferrari 1997, p. 363.

La lavorazione artigianale del cuoio nell’Alto Medioevo

Come per la concia delle pelli, anche per le tecniche di lavorazione del cuoio nelle botteghe artigianali altomedievali abbiamo scarsi dati archeologici e relativamente po-che fonti storiche che trattano l’argomento2.Si presume che molti degli strumenti uti-lizzati dagli artigiani del cuoio in epoca al-tomedievale siano rimasti invariati rispetto a quelli utilizzati nelle epoche precedenti; tali strumenti possono, quindi, indicativa-mente essere individuati, anche per discreta abbondanza di dati, attingendo dall’icono-grafia di età egizia e romana, senza dimen-ticare però che l’esperienza metallurgica e artigianale maturata in ambito germanico può presentare varianti tipologiche.La più antica raffigurazione di epoca egizia relativa ai fabbricanti di sandali proviene dalla tomba egizia di Rekmire a Tebe, da-tata al 1450 a.C. In essa compaiono quattro artigiani intenti alla lavorazione del cuoio. Nella scena è raffigurato il taglio del cuoio, che viene eseguito con il tipico coltello a mezzaluna (fig. 1, primi due a sinistra), ri-masto inalterato fino ai giorni nostri e una serie di strumenti tra cui punteruoli, lesine, aghi e mazzuoli in legno.Nell’arte epigrafica romana possiamo tro-vare raffigurazioni di artigiani calzolai (su-tores), con i loro strumenti da lavoro, come sulla stele di P. Latinius Primus, datata alla prima metà del I secolo d.C., conservata a Tortona, dove nella parte inferiore si iden-tifica chiaramente un coltello a mezzaluna accostato ad altri arnesi3.

2 Si vedano gli interventi di G. Assorati e di J. Pinar Gil in questo stesso volume.3 Dé Spagnolis 2000, pp. 62-68.

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Fig. 1. Evoluzione del coltello mezzaluna dall’epoca egizia a quella moderna (da dé SPAGnoliS 2000)

Fig. 2. Sax c.d. di Carlo Magno (da SAchSe 2008) Fig. 3. Foderi di sax anglo-scandinavi da York. (da leAhy 2010)

Fig. 4. Fodero di sax da Dublino (da okAShA 1992)

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Per identificare invece gli strumenti utiliz-zati per decorare la superficie dei manufatti in cuoio ci si è basati sullo studio dei reperti d’Oltralpe. Molte sono, infatti, le testimo-nianze ben conservate di foderi di armi, scar-selle, calzari e altri oggetti di uso comune.Un raffinato esempio è il sax c.d. di Car-lo Magno (VIII secolo), conservato pres-so il Museo del Tesoro della Cattedrale di Aquisgrana, in Germania. Il fodero in cuo-io è finemente decorato su tutta la superfi-cie e da ambo i lati, con motivi impressi a rilievo (fig. 2). Sempre presso il medesimo museo si trova anche un altro sax con rela-tivo fodero, datato al IX secolo, anch’esso finemente decorato, e del quale non si co-nosce la provenienza. Sul fodero compare una scritta impressa a solcatura che recita BYRHTSIGE MEC F[E]CID, Beorthsige mi ha fatto4.Altri esempi molto elaborati sono tre fo-deri di sax databili tra la seconda metà del IX e gli inizi dell’XI secolo, di manifattura anglo-scandinava, rinvenuti a York in In-ghilterra. In questo caso il cuoio presenta una decorazione impressa in parte a rilievo e in parte a solcatura (fig. 3). Interessante anche un fodero di sax prove-niente da Dublino ed esposto al National Museum of Ireland (fig. 4) datato tra il IX e l’XI secolo. Il cuoio del fodero riporta una decorazione a intreccio impressa a rilievo e, come per l’esemplare di Aquisgrana, an-che su questo troviamo un’iscrizione im-pressa a solcatura che riporta EDRIC ME FECI[T], Eadric mi ha fatto5.Un esempio italiano finora unico è dato dalle parti di fodero di langsax rinvenuto nella tomba 200 della necropoli di San

4 Marchi 1992, pp. 61-63.5 Ibid.

Quirico a Bolgare (BG), datato verso la fine del VII secolo6.Il frammento meglio conservato e leggibile conserva ben identificabile una complessa decorazione a motivi geometrici lineari, impressa a solcatura sulla superficie del cuoio, oltre a parte del margine con ben visibili i fori di cucitura7 (fig. 5).

Dagli studi alla sperimentazione: la ri-costruzione di un fodero di scramasax

Per la ricostruzione di un fodero in cuoio di scramasax, in uso presso i longobardi e altre popolazioni germaniche, secondo le tecniche degli artigiani altomedievali, si è iniziato col riprodurre uno scramasax di dimensioni intermedie, con lama di 34 cm di lunghezza, indispensabile per realizzare poi il fodero in cuoio.Il secondo passaggio è stato valutare che tipo di cuoio utilizzare per la realizzazione del fodero.Il cuoio inoltre, per grandezza, spessore e durezza, oltre che per la grana (densità dei pori della pelle), si distingue in cuoio fiore, ricavato dalla parte superficiale della pelle o cuoio crosta, ricavato dagli strati più pro-fondi a contatto con la carne.Il fiore, ancor oggi, è particolarmente indi-cato per l’impiego nella produzione di ma-nufatti artistici. Nell’antichità era utilizzato ad esempio nella produzione di foderi per armi, cinture e scarselle, scarpe, indumenti, finimenti per cavalli, selle, sedili, conteni-tori, legature di libri, ecc.La crosta, a causa della sua scarsa compat-tezza, era utilizzata invece per manufatti di minor pregio, come ad esempio indumenti

6 De Marchi, Fortunati 2006, pp. 129-135.7 Rottoli 2006, pp. 153-162; Bruni 2006, pp. 163-166.

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Fig. 5. Frammento di fodero di sax da Bolgare (BG) (da Bruni riela ora ione grafica i ristiano ran olini

Fig. 6. Ricostruzione di un fodero di scramasax. Gli strumenti da lavoro: un paio di cesoie, un coltello, un ago, un punteruolo, un martello, e alcuni bulini per

ecorare otografia ell autore

Fig. 7. Disegno e taglio della sagoma. Disegno del o ero otografia ell autore

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da lavoro.La scelta è quindi caduta su un cuoio fiore di vitello a concia vegetale, di colore mar-roncino rosato, mediamente rigido e con uno spessore di circa 2-2,5 mm, che ben si presta alla realizzazione di foderi di sax. Essendo questi foderi privi di un’anima interna in legno si rendeva indispensabile l’utilizzo di un materiale che fornisse la giusta rigidità al manufatto.Per gli strumenti da lavoro si è cercato di ricreare e utilizzare strumenti il più possi-bile simili a quelli dell’epoca: un paio di ce-soie, un coltello, un ago, un punteruolo, un martello, e alcuni bulini per decorare (fig. 6). Un legno carbonizzato è stato usato per tracciare il disegno, filo di lino naturale per le cuciture.

Procedimento

1) Disegno e taglio della sagoma.Si è proceduto con il tracciare sul lato car-ne8 del cuoio la sagoma del fodero (fig. 7), che è stato poi tagliato utilizzando un paio di cesoie (fig. 8).2) Disegno del decoro.Tramite un apposito bulino in ferro con una sottile punta arrotondata, e median-te l’utilizzo di un’asticella in legno, sono state incise lievemente nella superficie del cuoio, sul lato pelo, le linee di riferimento necessarie alla costruzione del motivo del decoro (fig. 9).Si è pensato di realizzare un decoro mo-dulare che si ripetesse su tutta la superficie del fodero, con un motivo geometrico ab-bastanza semplice.

8 Lato carne è la parte del cuoio opposta al lato pelo (fiore).

3) I bulini per decorare.Sappiamo, grazie agli studi effettuati sui manufatti d’Oltralpe, che per decorare la superficie del cuoio a motivi impressi, a rilievo o a solcatura, venivano utilizzati bu-lini e stecche, realizzati in osso o metallo, con punte diversificate che potevano essere usati in diversi modi: a pressione per sfre-gamento, o tramite battitura.Anche in questo caso i rinvenimenti archeo- logici riferiti a questo tipo di strumen-ti sono molto scarsi, e si presume che gli strumenti non siano stati molto differenti da quelli che ancor oggi sono in uso.Per quanto riguarda i motivi decorativi si è tratta ispirazione dai decori geometrici presenti sulle croci auree, le lamine metal-liche che ornano foderi di armi o conteni-tori, placche di cintura, fibule, ecc.È stata quindi realizzata una serie di quat-tro bulini in ferro (fig. 10) riproducenti vari motivi geometrici che ritroviamo fre-quentemente nelle decorazioni incise sulle fibule, come ad esempio quella a pavone in bronzo da Villa Lagarina, Rovereto (fig. 11), sugli elementi di cintura e lacci, come ad esempio sul puntale da calza in argento punzonato dalla tomba 47 della necropoli di Collegno (fig. 12), o sulle placche deco-rative degli scudi da parata, come quella di cavaliere proveniente da Stabio nel Ticino svizzero (fig. 13).4) L’utilizzo del bulino.Le decorazioni a bulino possono essere realizzate in due modi differenti: a) a secco tramite bulini diversi, per creare

le forme desiderate, battuti con appositi mazzuoli di vario peso; in questo modo si ottengono decorazioni a solcatura;

b) inumidendo la superficie con acqua, ammorbidendo quindi il cuoio e la-vorandolo sempre con stecche e bu-

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Fig. 8 (in alto a sinistra). Disegno e taglio della sagoma. aglio el o ero con l ausilio i cesoie otografia

dell’autore)

Fig. 9 (sopra). Disegno del decoro. Tracciamento a bulino delle linee di costruzione del motivo del decoro

otografia ell autore

Fig. 10 (a sinistra). I bulini per decorare. Quattro bulini in ferro riproducenti differenti motivi geometrici (foto-grafia ell autore

Fig. 11. Fibula a pavone da Villa Lagarina, Rovereto (da MeniS 1990)

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lini. Questa tecnica a cuoio bagnato è particolarmente indicata per realizzare le decorazioni a rilievo, anche di alto spessore, ed è necessaria per consentire alla pelle di mantenere la forma dopo che il processo di scultura è stato com-pletato.

Per la realizzazione di questo fodero si è optato per la tecnica a secco (figg. 14-16).La sagoma di cuoio è stata posta su un soli-do piano di legno sul quale è stata posizio-nata una lamina di piombo di circa 5 mm di spessore.Durante l’esecuzione è necessario posi-zionare sul retro del cuoio una lastra di piombo al fine di sostenere i colpi di buli-no. Il solo utilizzo del piano in legno non è sufficiente a reggere i colpi e a permettere una precisa e pulita incisione; viceversa se si utilizzasse una lamina in ferro, molto più rigida e indeformabile rispetto al piombo, si rischierebbe di bucare il cuoio da parte a parte con il bulino. 5) Cucitura.Completato il processo di decorazione, la sagoma del fodero viene piegata longitudi-nalmente a metà e cucita per tenerla serrata in posizione.Con un punteruolo si praticano i fori lungo il margine esterno (fig. 17) per poi prati-care, con un ago da calzolaio, la cucitura in filo di lino (fig. 18). Per meglio fissare le due parti è possibile anche applicare un leggero strato di colla tra le due9.6) Fissaggio dei ponticelli reggi fodero.Ultimata la fase di cucitura si fissano i due ponticelli in ferro, per la sospensione dell’arma alla cintura, mediante l’utilizzo di piccole borchie in bronzo (fig. 19). Que-ste borchie in alcuni casi possono essere

9 Si veda il contributo di M. Rottoli in questo volume.

decorate come ad esempio quelle dei rinve-nimenti di Arsago Seprio, tomba 20 della necropoli longobarda di viale Vanoni10.Negli scavi archeologici questi due ele-menti sono spesso stati rinvenuti insieme ai resti del fodero, e risultano posizionati nella parte superiore dello stesso (fig. 20).Su alcuni scramasax, oltre ai ponticelli, sono stati trovati anche serie di piccoli chiodini in bronzo che decoravano interamente il profilo del fodero lungo il lato corrispon-dente alla cucitura. Alcuni importanti esempi sono stati scavati nelle sepolture della necropoli di Trezzo sull’Adda/via delle Racche (tombe 3, 5 e 911).Ai ponticelli si fissavano le due cinghie in cuoio per sorreggere l’arma, le quali erano poi agganciate alla cintura tramite placche.La ricostruzione del fodero è quindi ulti-mata (fig. 21).7) Tintura e finitura.Un ultimo passaggio è quello della tintura e finitura del fodero. Per tingere il cuoio si usavano tinture naturali, nella maggior parte dei casi a base vegetale, le quali veni-vano stese a pennello sulla superficie.La finitura poteva essere a base di grasso animale o cera d’api. Si stendevano uno o più mani di grasso, facendolo penetrare nella porosità del cuoio, oppure tramite il calore si rendeva liquida la cera d’api e la si stendeva con l’ausilio di un pennello sulla superficie (fig. 22).In entrambi i casi si attendeva che l’appli-cazione fosse asciutta e la si strofinava con della lana rendendo lucida la superficie. Il fodero così finito era reso impermeabile all’acqua.

10 De Marchi, Mariotti, Miazzo 2004, pp. 150 e 153.11 Roffia 1986, pp. 121, 145, 113.

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ig lacca ecorati a i scu o a arata ra figu-rante un cavaliere, da Stabio, Canton Ticino (da MeniS 1990)

Fig. 12. Puntale di laccio reggicalze da Collegno (TO) (da PejrAni BAricco 2004)

Fig. 14-16. Il bulino. Realizzazione del decoro mediante l’utilizzo di differenti bulini usati a battitura a martello.

otografia ell autore

Fig. 17. Cucitura. Foratura del margine superiore del o ero tramite l utili o i un unteruolo otografia

dell’autore)

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ig icostru ione el o ero ultimata otografia dell’autore)

ig intura e finitura sem io i o ero tinto in rossiccio e rifinito a cera a i otografia ell autore

Fig. 18. Cucitura del margine superiore del fodero mediante l’utilizzo di un apposito ago da calzolaio e filo i lino naturale otografia ell autore

Fig. 19. Fissaggio dei ponticelli reggi fodero. Ponticello in erro e orc ie in ron o otografia ell autore

Fig. 20. Fissaggio dei ponticelli reggi fodero. Il ponticel-lo iene fissato in osi ione otografia ell autore

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€ 15,00

COMUNE DI ARSAGO SEPRIOAssessorato alla Cultura

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Il volume raccoglie gli atti del seminario dedicato alla lavorazione del cuoio in età altomedioevale, terza tappa

della serie di incontri, avviati nel 2013, dedicati agli artigiani e all’organizzazione manifatturiera

nell’Alto Medioevo. Il libro analizza questa volta, attraverso una prospettiva il più possibile multidisciplinare, il cuoio, materia prima che

doveva essere facilmente reperibile e molto utilizzata in epoca antica, ma che a oggi non ha ancora destato, in

ambito scientifico, l'interesse che merita.

Contributi di di G. Assorati, M. Beghelli, C. Brandolini,

S. Bruni, P.M. De Marchi, J. Pinar Gil, E. Possenti,

M. Rosso, M. Rottoli

CIVICO MUSEOARCHEOLOGICOArsago Seprio

Associació per la Recerca, Estudi i Difusió en Antiguitat Tardana

Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Como, Lecco, Monza e Brianza, Pavia, Sondrio e Varese