B I T AR E L AC I T T À ON...Luglio - Agosto 2020 Il Bullone 1 Luglio - Agosto 2020 PENSARE. FARE....

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1 Il Bullone www.ilbullone.org PENSARE. FARE. FAR PENSARE. Luglio - Agosto 2020 ANNO 5 - N.47 SOSTIENICI Redazione: Via Voghera 11, Milano [email protected] www.ilbullone.org ILLUSTRAZIONE È DI PAOLA PARRA Il mensile dei B.Liver, ragazzi che stanno vivendo o hanno vissuto l’esperienza della malattia, e che con forza sono andati oltre. Realizzato insieme a studenti e volontari Il Bullone porta un nuovo punto di vista che va oltre pregiudizi e tabù. L A G R A N D E O C C A S I O N E I GITA IZZAZI N L E O ELAZI N O I ULTURA BITARELACIT À T Telmo Pievani Respiriamo il mondo che c’è A colloquio con il filosofo della scienza. O. Maggioni a pag. 24-25 Mauro Magatti Fare e immaginare Ora tocca a noi Parla il sociologo della generatività. F. C. Invernizzi a pag. 8-9 Giorgio Armani Fare meno, fare meglio. Diventiamo più responsabili Intervista al grande creativo e imprenditore. F. C. Invernizzi a pag. 4-5 Eugenio Borgna Risaniamo le città con il silenzio Dialogo con il numero uno della psichiatria. E. Grandi a pag. 16-17 Mariangela Gualtieri Innamoriamoci di noi e della Terra L'invito della poetessa e drammaturga. M. De Marco a pag. 20-21 L. Beatrici, S. Spadoni a pag. 6-7 E. Bignardi, M. Fiorentini, S. Pichierri a pag. 10-11 F. Colombo, E. Prinelli, D. Marchisello, A. Paggi a pag. 12-13 M. De Marco, I. Nembrini a pag. 14-15 M. Fagnani, A. Nebbia, M. Dimastromatteo a pag. 18-19 O. Gullone, S. Danese, A. Parrino a pag. 22-23 C. Bellomo, E. Bianchi, G. De Marchi, T. Fiammetta a pag. 26-27 (Foto: SGP) (Foto: Melina Mulas)

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  • 1Luglio - Agosto 2020 Il Bullonewww.ilbullone.org

    PENSARE. FARE. FAR PENSARE.Luglio - Agosto 2020ANNO 5 - N.47

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    Redazione: Via Voghera 11, [email protected]

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    Il mensile dei B.Liver, ragazzi che stanno vivendo o hanno vissuto l’esperienzadella malattia, e che con forza sono andati oltre. Realizzato insieme a studentie volontari Il Bullone porta un nuovo punto di vista che va oltre pregiudizi e tabù.

    LAGRANDEOCCASIONE

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    U L T U R A

    B I T A R E L A C I T ÀT

    Telmo PievaniRespiriamoil mondo che c’èA colloquio con il filosofo della scienza.

    O. Maggioni a pag. 24-25

    Mauro MagattiFare e immaginareOra tocca a noiParla il sociologo della generatività. F. C. Invernizzi a pag. 8-9

    Giorgio ArmaniFare meno, faremeglio. Diventiamo più responsabiliIntervista al grande creativo e imprenditore. F. C. Invernizzi a pag. 4-5

    Eugenio BorgnaRisaniamo le cittàcon il silenzioDialogo con il numero uno della psichiatria. E. Grandi a pag. 16-17

    Mariangela Gua

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    Innamoriamoci

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    L'invito della po

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    L. Beatrici, S. Spadoni a pag. 6-7E. Bignardi, M. Fiorentini, S. Pichierri a pag. 10-11F. Colombo, E. Prinelli, D. Marchisello, A. Paggi a pag. 12-13M. De Marco, I. Nembrini a pag. 14-15M. Fagnani, A. Nebbia, M. Dimastromatteo a pag. 18-19O. Gullone, S. Danese, A. Parrino a pag. 22-23C. Bellomo, E. Bianchi, G. De Marchi, T. Fiammetta a pag. 26-27

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  • 2 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 3Luglio - Agosto 2020 Il Bullone

    Le opinioni di architetti, medici, rettori, manager, intellet-IL DIBATTITO

    MILANO 2030«Mi piacerebbeuna cittàche non lascisoli i genitori»

    Lorenzo Bini Smaghi,è presidente di Societé Générale e di Italgas, e autore di vari articoli e libri

    I PROTAGONISTI DI MILANO 2030

    Pietro Modiano, è presidente del Gruppo SEA, che gestisce gli aeroporti di Milano Linate e Milano Malpensa.

    Le speranze di una neo-mamma, Margherita Galliani, per una Milano del futuro

    Gino e Michele, scrittori satirici e autori comici. Sono impegnati nel mondo dell’editoria, tv, cinema e teatro.

    Arnoldo Mosca Mondadori poeta, autore e scrittore.Simone Mosca, giornalista, autore e scrittore.

    Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio e della Camera di commercio Milano Monza Brianza Lodi.

    Cristina Messa, ex rettore dell’Università Bicocca. È professore di Diagnosticaper immaginie radioterapia.

    tuali e tanti altri personaggi testimoni di Milano

    Diana Bracco, presidente e AD del Gruppo Bracco, una multinazionale della salute leader mondiale.

    Gianmario Verona, rettore dal 2016 dell’Università Bocconi di Milano.

    Paolo Colonna, oggi promuove Club Deals come investitore e gestore. Da quasi 20 anni opera nel non profit

    Paolo Rotelli, Presidente del Gruppoospedaliero San Donato.

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    Elena Bottinelli, ad del San Raffaele e dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di cui è stata direttore generale.

    Giovanni Gorno Tempini, presidentedi Fondazione Fiera Milano.

    Roberta Cucca, professore associato alla NMBU di Oslo.

    Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano, punta a un’università internazionalee di qualità .

    Stefano Boeri, architetto e presidente della Triennale, si è soffermato sul futuro della città: dall’Area Expo alla Bovisa.

    Patrizia Grieco, presidente dell’Enel. Lunga esperienza manageriale,prima in Italtel,poi in Olivetti.

    Alberto Mantovani, medico, immunologo e ricercatore.Direttore scientificodi Humanitas.

    Alessandra Ghisleri, sondaggista italiana, direttrice di Euromedia Research. «Milano è il futuro».

    Giangiacomo Schiavi, opinionista del Corriere della Sera che ha aperto il dibattitto Milano 2030.

    Gianluca Vago, ex rettore della Statale. Costruire il futuro passandoper la scienzae la ricerca.

    Giuseppe Guzzetti, ex presidente della Fondazione Cariplo, «Non lasciare indietro i più bisognosi».

    Lionello Cerri, imprenditore dello spettacolo.

    Gabriella Scarlatti, ricercatrice all'Ospedale San Raffaele di Milano.

    Don Paolo Alliata, parroco di Santa Maria Immacolata.

    Elio Franzini, Rettore dell'Università Statale.

    Davide Montalenti, giovane musicista.

    Gianantonio Borgonovo, Arciprete del Duomo di Milano.

    AMargherita Galliani, mamma da due mesi e mezzo, è sociologa di formazione e responsabile della Associazione di Volontariato nata in memoria della sorella, la Casa di Emma. Ha lavorato come progettista sociale e animatrice di comunità per l'Amministrazione comunale e diverse organizzazioni nella città di Milano.

    di Margherita Galliani

    vere un figlio è sicuramente una scom-messa sul futuro, ma è anche un gesto istintivo, spinto dalla biologia, dall’amo-re, dall’irrazionale.Per me e mio marito è stato un desiderio che giaceva da tanto tempo, cui è stato naturale e urgente dare spazio quando, finalmente, ci siamo riconosciuti a vicen-da come la persona giusta.La determinazione con cui ho perseguito questo desiderio mi ha anche detto molto sulla fiducia nella bontà del mondo che mi circonda, che ancora è solida dentro di me - forse più di quanto pensassi -, no-nostante i dolori e le fatiche che, come tutti, ho incontrato nella vita.Forse per questo mi infastidisce sentire lo sconforto che questo anno così difficile lascia dietro di sé; un anno da dimentica-re, da cancellare, sento dire spesso.Per me sarà per sempre l’anno tanto atte-so in cui è nato mio figlio, un anno di cui voglio ricordarmi ogni secondo.Ora per questo articolo mi chiedono: che cosa mi auguro per mio figlio? Quale tipo di città in cui farlo crescere? Quale società intorno a lui tra dieci anni, nella Milano del 2030?Che domanda difficile, che mi mette da-vanti alla responsabilità di avergli dato la vita.Ciò che più desidero è che mio figlio sia felice di questo dono, che condivida con me e suo padre l’idea che ne valeva la pena, che vale la pena affrontare questo rischio che è la vita, di abbracciarlo per-fino.

    Ecco quindi alcune cose che mi auguro, perché mio figlio, e gli altri bimbi nati in questo 2020 così duro per la nostra Lom-bardia, possano abbracciare con gioia il rischio di vivere.Vorrei che fosse riconosciuto maggiore valore al dare ai nostri bambini occasio-ni e strumenti per sviluppare le proprie competenze relazionali ed emotive.È importante guidare i nostri figli a ri-conoscere le proprie emozioni, ad acco-glierle, gestirle e integrarle per costruire bellezza e relazioni positive, per non lasciarsi sopraffare ed essere prigionieri delle paure, insicurezze, rabbie, frustra-zioni che tutti abbiamo.Per me e per il padre sarà un compito difficile se non vi è un riconoscimento collettivo dell’importanza di investirvi tempo ed energie nei contesti educativi, formativi, pubblici.I genitori non possono essere lasciati soli a contrastare e difendere i propri figli da

    pressioni - nei consumi e nel marketing, nelle produzioni culturali, nei mass e so-cial media, nelle istituzioni formative ed educative - che fanno leva sulle fragilità, sulle paure e sulle dipendenze, perché convengono, o che ignorano le questioni emotive, valoriali, relazionali, relegando-le alla sfera familiare e privata, per fug-gire potenziali conflitti difficili da gestire, per non prendere posizione su questioni complesse e controverse.Educare i bambini è senz’altro compito dei genitori e delle famiglie in primo luo-go, ma ha bisogno di un dibattito pubbli-co, collettivo, di una responsabilità con-divisa, che sappia riflettere e agire per rendere più facile il compito ai genitori, nell’interesse di tutti.Spero che la nostra società trovi il modo di mantenere e aumentare lo spazio per la cura delle relazioni che segnano una vita: la famiglia (qualsiasi gruppo di per-sone ciascuno consideri famiglia), gli amici, le persone con cui si condividono esperienze importanti.Per me sono state anche quelle incontra-te grazie all’associazione di volontariato fondata in memoria di mia sorella, che negli anni ha raccolto persone molto di-verse e con cui difficilmente avrei condi-viso tanto in un altro contesto.Spero che, tra dieci anni, la nostra so-cietà offra spazi di socialità e di incon-tro che uniscano e facciano condividere esperienze tra persone eterogenee, spazi non segreganti, e con cui non ci si ritrovi solo tra uguali, tra chi si sceglie perché affine, ma ci sia spazio per l’inaspetta-to, il generativo dell’incontro autentico e profondo con il diverso da sé per età, estrazione sociale, esperienze, credenze.Spero che questi contesti continuino ad esistere e si moltiplichino, perché mio fi-glio possa trovare quello che farà al caso suo.Mio figlio - oltre che bellissimo e simpa-ticissimo, è ovvio - è nato maschio, e non ha la pelle bianca. Perché se sei un mix tra bianco e nero, di sicuro non sei bian-

    co. «Métis», meticcio, nel Senegal da cui viene mio marito, una parola che descri-ve senza accezioni una condizione scritta sulla sua pelle.Crescerà a partire da due genitori con storie, esperienze e riferimenti molto di-versi, e che nonostante ciò si sono trovati, innamorati, scelti, perché hanno sentito al di là delle differenze di condividere ciò cui danno valore nella vita.Maschio e meticcio, dunque, due caratte-ristiche diverse da me, e che costituisco-no per me una sfida a tratti inaspettata.Poco prima del suo arrivo mi sono resa conto di quanto fosse per me più natura-le immaginarmi mamma di una bambi-na, e, fatico ad ammetterlo, bianca; an-che se oggi non so vedermi che come sua madre, come se fosse con me da sempre.Spero che il mondo intorno a noi mi aiuti a far sì che queste sue caratteristiche bio-logiche non diventino trappole identita-rie, ma punti di partenza che aumentino le opzioni tra cui scegliere chi vorrà es-sere, i repertori a partire dai quali potrà costruire la sua persona.Spero che in questi futuri dieci anni - dir-lo mi fa paura, perché mi rendo conto che il tempo è poco, considerato il punto cui siamo oggi - perdano forza gli irrigi-dimenti, gli estremismi, figli di certo di ideologie e strumentalizzazioni intenzio-nali, ma anche di paure e fragilità, e si amplino le possibilità di sperimentarsi ed esplorare quale tipo di maschio si vuole essere, cosa significhi per ciascuno essere lombardo, italiano, meticcio, afrodiscen-dente, afroitaliano… Spero che non si moltiplichino le etichette o le sottocultu-re cui lui potrà scegliere di aderire, ma gli spazi di libertà in cui costruirsi, e diminu-isca la necessità di difendersi da chi, spes-so guidato dalle sue fragilità, attribuisce a caratteristiche fisiche ruoli e significati rigidi e limitati che ci ingabbiano tutti.In ogni caso io sono pronta a lottare con tutte le mie forze perché lui sia libero di costruire se stesso; e, si sa, le forze di una mamma sono infinite.Vi lascio quindi con la suggestione di al-cune canzoni - di cantanti non milanesi ma comunque lombardi - che mi hanno accompagnato durante la gravidanza e che a volte cullano il sonno di Giovanni Djibril, introducendolo alla complessità, spero bellissima, della vita che lo aspetta:La pelle e Afroitaliano, di Tommy Kuti; Lombardia, dei Mercanti di Liquore; Por-tavérta, di Lorenzo Monguzzi.

    Nuovi spazidi socialitàche uniscono persone diverseper età, credenze, estrazione sociale

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    Massimo Scaccabarozzi, Presidente e AD di Janssen Italia e Presidente di Farmindustria.

    Giovanna Iannantuoni, rettrice dell'Universita di Milano-Bicocca dal 2019, è Presidentessa di Economia Polititca.

  • 4 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 5Luglio - Agosto 2020 Il BulloneIL

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    di Fiamma C. Invernizzi, B.Liver

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    Diamo il giustovalore alle coseUn futuromeno orientatoal puro profitto

    Rallentare, ritrovare un giusto tempo, prendersi cura di sé. Abbiamo vissuto mesi difficili, di grandi cambiamenti, di riflessioni, di interruzioni. Ora, per ripartire, servono cura, attenzione e ca-pacità di leggere la realtà nella sua com-plessità, per non rientrare in quella normalità che conte-neva anche le concause della diffusione pandemica (un atteggiamento aggressivo e superficiale, invasivo e prepo-tente rispetto agli equilibri naturali). Per parlare di questo e di altro, Giorgio Armani ha accettato di rispondere alle nostre domande.

    Qual è la vera occasione, oggi? È forse un inizio per andare verso un mondo più umano, più vero, più attento?«L’emergenza che abbiamo vissuto nei mesi scorsi è stata una prova davvero difficile che ha completamente

    Giorgio Armani, genio creativo e

    imprenditore italiano, nasce a Piacenza nel

    1934.Stilista di fama

    internazionale, fonda nel 1975 l’azienda che porta il suo nome, riconosciuta come uno dei marchi più importanti al mondo nel

    campo della moda.

    Il nuovo murale di Tvboy sulla nave della ong spagnola Open Arms © Tvboy

    stravolto la nostra quotidianità. Un imprevisto di porta-ta enorme che ci ha inevitabilmente messi di fronte alle nostre responsabilità, facendoci fare i conti con realtà e sistemi che hanno rivelato tutta la loro fragilità e le loro distorsioni. Ci siamo resi conto che siamo davvero un piccolo e debole ingranaggio nel grande e complesso organismo naturale di cui dovremmo rispettare di più il delicato equilibrio. Ci è stata offerta un’occasione di ri-flessione e di cambiamento assai preziosa e sarebbe un peccato sprecarla. Sì, dovremo lavorare insieme per tro-vare nuove strategie che ci consentano di vivere un nuovo presente dando il giusto valore alle cose, e plasmare un nuovo futuro, più a misura d’uomo e meno orientato al puro profitto».

    Per ripartire ci vogliono uomini eccezionali e Lei è uno di questi, tra creatività, genio, visione e dedizione al lavoro. Potremmo dire che se fosse vissuto nel ‘500 sarebbe stato Leonardo Da Vin-ci. Oggi è Giorgio Armani. Chi sarà dopo questo lockdown? La sua creatività che cosa vede nel prossimo futuro?«Il paragone mi lusinga, ma credo sia un po’ eccessivo: non mi riconosco nella parola genio. Sono un creativo e imprenditore con un forte senso di responsabilità, a cui piace la concretezza dei fatti. Ciò che mi auguro è che le mie scelte possano in qualche modo fare da traino anche per altri, perché è tempo di decisioni coraggiose. Dopo questo lockdown sarò la persona di sempre, con un senso di responsabilità se possibile più forte, e questo sarà visi-bile nelle scelte estetiche come in quelle imprenditoriali. In sintesi: fare meno, ma meglio». La bellezza, oggi, accoglie la sofferenza e può avere la forza di raccontare le fragilità. I B.Liver hanno fatto una mostra delle proprie Cicatrici, rappresentandole, usando i corpi perfetti della Venere di Milo e del David di Michelangelo. Qua-rantadue opere d’arte che sono state esposte alla Triennale di Milano, al GAM di Catania, poi ad Amsterdam e Madrid. Il secolo scorso pensava-

    mo che la bellezza trascendesse la sofferenza. Oggi siamo più realistici. Come si potranno pro-muovere autenticità, umanità e fragilità nel pros-simo futuro? «Mi sono sempre definito una persona pragmatica, gui-data da un forte senso estetico, con un’idea di bellezza con una grande componente etica, fatta di semplicità e anche di rigore. Trovo che le nostre immense fragilità ci rendano speciali. Io con il mio lavoro ho cercato di aiu-tare gli uomini a scoprirle e ad accettarle, e le donne a superarle. La bellezza del futuro la vedo come un percor-so verso la consapevolezza, che si raggiunge attraverso la comprensione e l’accettazione dei nostri limiti».

    In un’intervista per The Business of Fashion del 2015, affermava che per Lei è importante avere paura. Di sbagliare, di non avere genio, di non es-sere capito. Come ha trasformato, negli anni di carriera, questa fragilità in un punto di forza? «Prendere coscienza dei propri difetti e delle proprie de-bolezze è uno dei momenti più importanti della crescita di ciascuno di noi. Penso che il dubbio sia uno stimolo continuo al miglioramento di sé. Può creare sofferenza, ma ne vale la pena. La certezza incrollabile porta alla non azione, e io, al contrario, amo l’energia e il dinami-smo del mettermi sempre in gioco».

    Noi B.Liver ci facciamo sempre questa doman-da: siamo più autentici perché scriviamo senza intermediari o perché sappiamo ascoltare? Gra-zie al suo sapere e alla sua lunga esperienza, Lei è arrivato a parlare liberamente, anche andando contro corrente. Quando si sente autentico? È au-tentico perché fa o perché ascolta?«Mi sento autentico ogni qual volta, fidandomi del mio pensiero, mi esprimo liberamente, anche a costo di anda-re controcorrente. È un modo di essere, profondamente radicato, un bisogno morale. Nel mio lavoro, ad esempio, ho sempre cercato di essere molto onesto, presentando in passerella quello che le persone possono realmente in-dossare, senza escamotage o trovate spettacolari. Questa

    sincerità il pubblico la percepisce e ti ripaga con il suo apprezzamento che continua nel tempo».

    Con i B.Liver ragioniamo spesso su quanto la malattia sia sinonimo di solitudine, isolamento. Il successo è solitudine?«La solitudine è il destino di chi fa della libertà di pensiero e dell’integrità artistica i suoi valori fondamentali e anche a me è capitato di sentirne il peso. Non la temo perché la libertà e l’indipendenza sono valori troppo importanti per me. E poi sento l’affetto di quella che è diventata una famiglia allargata, dove l’amicizia è solidarietà, cura, mo-menti di allegria, e questo mi fa bene».

    Alcuni B.Liver hanno sofferto di disturbi del com-portamento alimentare. Nella sua visione del mondo della moda e dell’immagine, questo set-tore ha una responsabilità nella diffusione di un immaginario di fisico ideale? Si sta tornando ver-so uno stile più autentico? «Riconosco che la moda in questo ambito lancia spes-so messaggi fuorvianti. Presentare gli abiti su corpi snelli aiuta, ma dovremmo tutti impegnarci a far capire che quello non è un modello assoluto, bensì una convenzione di comodo. Oggi per fortuna la moda sta cercando di aprirsi, ma è un percorso lento, che richiede tempo. Io faccio sfilare modelli in taglia standard, ma sono poi le

    Giorgio Armanidonne e gli uomini che incontro per strada ad attirare la mia attenzione: persone reali, con i loro corpi autentici, per le quali creo i miei abiti».

    In un’intervista a Tv7, ha affermato di essere «uomo di regole», che applica a se stesso e che cerca di diffondere agli altri. Le regole, il sapere, la responsabilità e il senso civico sono elemen-ti fondamentali per una ripartenza consapevole. Quali regole vorrebbe suggerire al futuro della moda, anche in relazione ai temi di sostenibilità e ambiente? «Penso che la ripartenza della moda dipenda da una sola regola: un recupero di autenticità, che si può tradurre in un prodotto di qualità, durevole, in una strategia di vendita più consona alle stagioni reali, in una comunica-zione più assennata. Le conseguenze di questo modo di operare saranno importanti anche per il pianeta, perché porterebbero alla riduzione degli sprechi e della sovrap-produzione».

    La moda racconta anche la storia. Le trasgressio-ni, gli stili, le provocazioni, la società e il potere. Come l’arte, la moda racconterà alle generazioni future chi siamo stati noi, oggi. Che storia ci rac-conterà il suo settore, in questo prossimo futuro post-pandemico?«Racconterà, mi auguro, del desiderio di tornare al bello che rassicura e che dura, della fine di un periodo troppo lungo di eccessi e del ritorno a un linguaggio più misura-to. Parlerà, spero, di artigianalità, attenzione, qualità. In sintesi, di una moda più intimista e discreta».

    Dopo tutte le interviste effettuate durante la sua carriera, esiste una domanda che vorrebbe sen-tirsi fare, che non le hanno mai fatto?«Credo di no. Ho rilasciato innumerevoli interviste e ognuna, per me, è un’occasione di incontro e di scam-bio. Domande ricorrenti, poiché sono poste da persone diverse, suonano ogni volta diverse. Sono gli interlocutori a incuriosirmi di più».

    I B.Liver hanno intervistato il grande creativo e im-prenditore italiano che propone la cultura del dub-bio. «Può creare sofferenza ma ne vale la pena. La certezza incrollabile porta alla non azione. Io amo l'energia e il dinamismo del mettermi in gioco».

  • 6 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 7Luglio - Agosto 2020 Il BulloneIL

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    (Foto: qds.it)

    LA GRANDEOCCASIONE

    di Loredana Beatrici, B.Liver

    Milano Marittima. Ore 7 del matti-no. Il sole fatica a farsi spazio tra le nuvole. In spiaggia solo io, la mia piccola di sei mesi e la signora An-nalisa, la nostra vicina di ombrello-ne. Annalisa, che di albe in spiaggia ne ha viste parecchie, ha sempre qualcosa d’interessante da raccontare. Anche oggi non mi delude. Mi dice che ieri sera è andata alla presentazione del libro di Massimo Gramellini, e che è rimasta colpita da una frase che si è appuntata su un foglio: «L’autunno che ci aspetta può es-sere una grande occasione di rinascita dalle macerie, ma dopo una guerra solo ascoltando il nostro talento e svilup-

    pando la creatività, senza affidarci alla politica, potremo farcela».Mi siedo sul lettino. In mano ancora il foglio, che leggo e rileggo. Non riesco a staccare gli occhi da due parole: GRANDE OCCASIONE. A un tratto è come se mi stessi risvegliando da un torpore in cui sono immersa da alcuni mesi. Da quando il mondo ha ricominciato piano piano a uscire dalle case, nel tentativo di tornare a una normalità che forse non è realmente mancata a nessuno. Un torpo-re che significa stanchezza. Troppi dati letti, troppi com-menti sui social, troppe teorie, troppe fake news, troppi morti. Un torpore che forse vuol dire rinuncia, o forse resa. Guardo mia figlia che non smette un attimo di far volteg-giare le braccine e le gambine. È così vorace di vita. Ha fame di esperienze. È curiosa del mondo. Lei. Rileggo. GRANDE OCCASIONE. Penso che un’oc-casione non debba mai andare sprecata. Il Coronavirus ci ha dato l’opportunità di accorgerci dei limiti e della fragilità del mondo in cui viviamo. Ha portato a galla le criticità dei sistemi governativi nazionali e degli organi so-vranazionali. Ha mostrato che l’economia fondata sulla voracità del capitale e sul profitto ad ogni costo, è un siste-ma dopato che funziona per pochi. Ci ha costretti a riflet-tere sulla direzione che stanno prendendo l’istruzione, la cultura e il sapere. Ci ha sbattuto in faccia il controverso rapporto uomo-natura. Ha accelerato dei processi, an-che pericolosi, che fuori da una condizione di emergenza avrebbero richiesto anni di sperimentazioni. Ci ha ricor-dato che siamo tutti uguali di fronte alla morte, ma che esistono troppe diseguaglianze in vita. Ci ha fatto capire che viviamo in un mondo instabile e disfunzionale. Il Co-ronavirus non è stato solo uno sgambetto da cui rialzarci e riprendere la nostra corsa, ma un monito per ripensare un futuro diverso, magari meno abbagliante e schizofrenico. Nel corso della storia le pandemie, le guerre e le rivolu-zioni non hanno solo distrutto, ma anche offerto la possi-bilità di ricostruire. È accaduto con la peste del 1346, che scompaginò e rimodellò la società feudale, dando impulso a innovazioni che aprirono la strada al Rinascimento. È accaduto dopo le grandi guerre, che hanno ridisegnato

    la società. La domanda che dobbiamo porci ora è: dopo il Covid-19, come lo ridisegniamo il futuro? Sono tanti i sociologi, filosofi, economisti, storici che stanno provando a immaginarselo.Il giornalista Timothy Garton Ash si domanda se quello che ci attende sarà uno scenario più affine al secondo do-poguerra o al primo. Ovvero, andremo verso una crescita delle democrazie e della comunità globale, o all’avvento di nuovi nazionalismi e alla chiusura degli Stati-nazione? Il pericolo, infatti, è che il virus abbia scatenato le paure ataviche del «loro» contro il «noi», che porteranno alla chiusura dei confini, proprio mentre la scienza ci ricorda la sua necessità di una cooperazione globale.Il sociologo Walden Bello sostiene che l’unica strada per-seguibile sia quella dell’abbandono del neoliberalismo a

    favore di un maggior intervento dello Stato. Si domanda, però, se questo intervento sarà progressista o repressivo.Il suo collega Anthony Giddens parla di «era di grandi opportunità e grandi rischi» in cui si potranno sviluppare forme di super-intelligenza in grado di risolvere la mag-gior parte dei problemi, ma anche di mettere in moto l’e-stinzione della specie.Lo storico Yuval Noah Harari sostiene che siamo di fronte a due importanti scelte: quella tra «sorveglianza totalitaria o responsabilizzazione dei singoli» e quella tra «isolazio-nismo o solidarietà globale». La prima ci pone di fronte al fatto che i governi hanno ormai i mezzi per monitorare e punire i cittadini che non rispettano le regole. Se finora quando il nostro dito cliccava un link, lo Stato poteva sa-pere quello che stavamo cercando e intuire i nostri gusti. Dopo il Coronavirus, l’interesse si è spostato. Ora vuole sapere la temperatura del dito e la pressione del sangue e fra un paio di anni potrebbe essere in grado di monito-rare le emozioni o rendersi conto se ci stiamo ammalan-do. Non è fantascienza. Basti pensare che in Cina esiste il «punteggio social», qualcosa di molto simile a una pun-tata della serie TV Black Mirror. Ogni momento della vita può essere monitorato e giudicato in base alle regole dello Stato. Coloro che attraversano con il semaforo rosso, o che pubblicano post critici sul governo, potrebbero veder-si sottratti dei punti nella valutazione sociale. Al contrario, coloro che acquistano cibo sano o leggono giornali legati al regime, crescono nella valutazione. Chiunque abbia abbastanza punti potrebbe ottenere un visto per un viag-

    «...noi non dobbiamo tornare a quella normalità lì, perché era piena di mali sociali e di lesioni dei diritti alla persona. Non ricostruire più il passato, ma andare alla ricerca di una nuova speranza, che deve prendere atto della terribile lezione del Covid 19»

    DIGITALIZZAZIONE

    IRONIA E TECNOLOGIA

    Sì all’ossitocina 2.0 attraversolo schermo di Skype e Zoomma serve uno sguardo globaledi Stefania Spadoni, B.Liver

    Proviamo a immaginare cosa sarebbe potuto essere il lock-down senza le infrastrutture digitali, facciamo un bel re-spiro e partiamo da qui.«Scrivi perché questa è stata la nostra grande occasione», mi chiedo-no dal giornale e io ci penso e ci credo in qualche modo perché ho visto e sperimen-tato quanto la tecnologia possa aiutare, semplificare, migliorare, anche cambiare la nostra vita. Eppure mi manca un po’ di ossitocina, un ormone associato a mol-ti dei nostri gesti di affetto, come gli ab-bracci. Ma il distanziamento sociale è la nuova regola da seguire, niente ossitocina per un po’. Scarico un App che si chia-ma ZOOM e inizio a usarla per restare in contatto con i miei colleghi, per produrre

    materiale utile al mio lavoro, per salutare i miei amici, per vedere i miei genitori e mia sorella che vivono in un’altra regione, ormai territorio irraggiungibile e vietatis-simo. Penso che non sono mai stata così tanto in contatto visivo con loro, che con i miei amici avevamo l’abitudine di uscire il venerdì e adesso ci «vediamo» tutte le sere, che con i miei colleghi realizzo in-terviste con persone dall’altra parte del mondo come se fosse la cosa più normale da fare e penso che Zoom esiste dal 2011 e sono passati nove anni senza che quasi ce ne accorgessimo o ne approfittassimo, eppure adesso non potremmo starne sen-za. Ma capisco che in realtà, adesso, io non posso stare senza di loro, le persone, i miei affetti, che mi mancano, che non posso vedere, né toccare e quindi digitaliz-zazione sia e grazie molte. Ossitocina 2.0! Proviamo a ingrandire questa mia picco-la visione personale e ad allargarla a tutti i campi della vita sociale e comunitaria: scuola, lavoro, sanità, spettacolo, medici-na, scienza, viaggi, conoscenze… Tutto torna, tutto serve, ovviamente questa è una grande occasione per migliorare, cre-scere, imparare. È quasi scontato dire che l’innovazione e le possibilità digitali servo-no e sono da sfruttare e da non dimen-ticare, ma rifletto su due cose. La prima: perché l’essere umano ha sempre bisogno di trovarsi alle strette, con l’acqua alla gola per dimostrare a se stesso e agli altri che siamo esseri intelligenti, produttivi e con grandi capacità di resilienza, adattamento e innovazione? Perché non crediamo in noi stessi e non camminiamo in maniera serena e costante verso un progresso utile, senza affannarci nella ricerca di soluzio-ni solo quando non abbiamo altra possi-

    bilità? La seconda: siamo sicuri che tutto questo (compresa l’ossitocina 2.0) ci basti e soprattutto siamo sicuri che questa gran-de occasione sia a disposizione o in favore di tutti? Ritengo che si debbano esami-nare molto le criticità di questo periodo, prendendo ad esempio, le cose ben riusci-te e adoperandosi per colmare le lacune

    che questo periodo ha fatto finta di non vedere, con la scusa che la digitalizzazio-ne avrebbe risolto tutto. Perché non riesco a immaginare mia nonna che utilizza un computer per prenotare visite mediche, o un bambino, la cui famiglia ha difficoltà economiche e sociali, poter seguire le le-zioni di quarta elementare da un dispo-

    sitivo tecnologico, se lo Stato non gliene fornisce uno (il 27% lamenta di non avere a casa un dispositivo personale per seguire la didattica, il 23% ha problemi di Rete).Credo fortemente nelle grandi occasio-ni, ma se lo sguardo deve essere globale, ricordiamoci che non tutti avanzano alla stessa velocità e con le stesse possibilità e non tutte le attività umane sono digitaliz-zabili. I cambiamenti e le innovazioni non sono sempre facili da accettare, ma avven-gono, volenti o nolenti. Sta a noi guardare al futuro, ma rispettare il passato, ci vuole equilibrio come in tutte le cose, perché continui ad essere bello poter ascoltare una canzone un secondo dopo la sua pub-blicazione sul web, ma allo stesso tempo concedersi il tempo lento di scegliere un vinile e rivivere un’atmosfera passata. Ci vuole attenzione e cura e tanta, tantissima consapevolezza per vivere questa digita-

    lizzazione e non creare un nuovo «1984» di Orwell, ma lasciare il pensiero libero e spazio per la privacy di ognuno di noi. Perché la tecnologia non ci deve invadere, ma accompagnare. Dico sì alla possibili-tà di fruire di contenuti multimediali da qualsiasi parte del mondo e a qualsiasi ora, ma allo stesso tempo sì a godere di uno spettacolo dal vivo che accade solo in quel luogo e in quel preciso momen-to. Tutto ha un peso e tutto va calibrato per non sbilanciarsi e cadere. Prima che tutto questo accadesse guardavo una serie televisiva britannica chiamata Black Mir-ror, con scenari e personaggi diversi per ogni episodio, ambientata nel futuro, ma in realtà ispirata al mondo di oggi, incen-trata su problemi di attualità e sulle sfide poste dall'introduzione di nuove tecnolo-gie, in particolare nel campo dei media. Alcune puntate raccontavano di un mon-do, «pilotato» dalla tecnologia, nel quale gli uomini vivevano e si relazionavano solo tramite dispositivi tecnologici, dove il valore di ogni singolo essere umano era definito da algoritmi e la spersonalizza-zione e l’alienazione erano la normalità. Poi spegnevo la TV e pensavo, «va beh, ma è assurdo, non potremo mai arrivare a questo punto», ed ero anche abbastanza angosciata. Oggi penso che tutto sia possi-bile, soprattutto in un mondo dove troppo spesso ci dimentichiamo di salvaguardare l’ambiente, di investire sulla ricerca, di vi-vere concretamente la parola relazione. Quindi per rispondere alla domanda che ha dato inizio a quest’articolo: la digita-lizzazione è la nostra grande opportunità? Si, è una grande occasione, insieme a tut-te le altre cose che l’essere umano sa fare, può fare, deve fare.

    Attenzione, cura e consapevolezza per viverequesta occasione senza creareun nuovo 1984

    Zoom esiste dal 2011: sono passati 9 anni prima che ci accorgessimo delle sue potenzialità

    gio o dei buoni acquisto. Chi, invece, scende sotto un certo punteggio potrebbe perdere il lavoro o non avere la possibilità di viaggiare. Il monitoraggio generalizzato e le punizioni severe, però, non sono l’unico modo per ottenere il rispetto delle regole. I cittadini, se informati sui fatti scientifici e se si fidano delle autorità pubbliche, possono fare la cosa giusta, anche senza un grande fra-tello che li spia. Una popolazione motivata e consapevo-le è più utile di una ignorante e controllata. Non serve la «polizia del sapone» per ricordarci di lavare le mani, perché è dal 1800 che ne abbiamo compreso l’utilità e lo facciamo in modo responsabile. Per questo, invece di co-struire un regime di sorveglianza, potremmo ricostruire la fiducia delle persone nella scienza, nelle autorità pub-bliche e nei mezzi d’informazione. Ognuno di noi ha il

    dovere di informarsi seriamente, piuttosto che cedere alla tentazione di credere a fake news e teorie complottiste.La seconda scelta importante che dobbiamo affrontare è quella tra isolamento nazionalista o solidarietà globale. Sia l’epidemia, che la conseguente crisi economica, sono innegabilmente problemi globali e possono essere risolti efficacemente solo con la cooperazione di tutti i Paesi. È necessario condividere le informazioni a livello interna-zionale. L’umanità deve fare una scelta: proseguire sulla strada della divisione o prendere quella della solidarietà globale. Se sceglierà la divisione, non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente provocherà catastrofi ancora peggiori in futuro.Torno a leggere il foglio che ho in mano. Un’altra paro-la mi colpisce: CREATIVITÀ. Voglio provare a giocare con la creatività e immaginarmi il mondo che vorrei. Un mondo in cui la diminuzione dei viaggi per lavoro riduca l’impatto sull’ambiente. Un mondo in cui siano favorite le filiere produttive locali. In cui ci si sposta a piedi o in bicicletta, riscoprendo il piacere di una passeggiata all’a-ria aperta. Un mondo in cui vengano potenziati i sistemi sanitari e le attività di ricerca scientifica. Un mondo dove le aziende siano incentrate non sugli utili, ma sul valore sociale che producono e dove si parli di valore dello Stato per la Comunità. Un mondo dove la scuola sia in grado di preparare a nuove professioni stimolanti, perché le vec-chie sono rimpiazzate da macchine efficienti. Un mondo dove si possa studiare online con un professore a migliaia di chilometri di distanza, ma incontrarsi in laboratori per condividere sapere ed esperienze. Un mondo che utilizzi energie rinnovabili e che lavori per livellare le disegua-glianze. Un mondo, insomma, di cui la mia piccolina pos-sa andare fiera.Milano Marittima. Ore 11 del mattino. Il vento ha spaz-zato via tutte le nuvole e il sole splende alto in cielo. An-nalisa è persa tra i suoi mille giornali. La mia piccolina dorme. Io non più. Non è più tempo per dormire. Ora ho la certezza che non si potrà più tornare indietro e la speranza che ce ne renderemo conto presto, perché vorrà dire che sarà partita la ricostruzione. Non è più tempo per dormire, perché è la nostra GRANDE OCCASIONE.

    Questa potrebbe essere l'era delle grandi opportunità ma anche dei grandi rischi.Ci vogliono creativitàe responsabilità

    Salvatore Vecanell'intervista sul Bullone del numero scorso

  • 8 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 9Luglio - Agosto 2020 Il Bullone

    di Fiamma C. Invernizzi, B.Liver

    ❞Il digitale è l'ingrediente centrale di questanuova visioneche dobbiamo riuscirea proporre e realizzare

    Siamo sospesi traAnni 20 e Anni 50 Non rischiamoL’occasioneè l'immaginazione

    Suona libero. Aspetto. Tra uno squillo e l’al-tro mi godo il misto di eccitazione e ansia che sento dal dicembre 2015, da quando ho iniziato a fare interviste per il Bullone.Scarabocchio, intanto che aspetto, qualco-sa di incomprensibile, come per ripercor-rere mentalmente l’elenco delle domande preparate.Mauro Magatti è professore di sociologia all’Univer-sità Cattolica di Milano, collabora con il Corriere della Sera con editoriali sulle trasformazioni culturali del ca-pitalismo contemporaneo.La tensione a comprendere i cambiamenti e le crisi dei sistemi economici e sociali è il fil rouge della sua ricerca: il lavoro e la ricerca del senso, le città e le pe-riferie, la tecnica e le sue derive, l’impresa come fatto sociale oltre che economico, sono solo alcuni dei temi a lui cari.Risponde. La voce ferma e pacata.

    Mauro Magatti,sociologo ed economista.

    Professore ordinario all’Università Cattolica di Milano, editorialista

    del Corriere della Sera, è membro della

    Commissione Centrale di Beneficienza della Fondazione Cariplo, del Comitato per la

    Solidarietà e lo sviluppo di Banca Prossima e del

    Comitato Permanente della Fondazione

    Ambrosianeum. Dal 2008 è direttore del Centro ARC -

    Anthropology of Religion and Cultural Change.

    Una scena tratta da Alice in the cities, film di Wim Wenders

    Ci presentiamo e io inizio a sorridere, come sempre. Ogni volta è sempre come la prima. La sorpresa, la curiosità, la scoperta. Un piccolo passo verso un mon-do migliore.

    «Ci troveremo a ricostruire ma non ci saranno macerie. Le macerie le avremo dentro. Per que-sto il nostro compito è iniziare ad immaginare il futuro». Partendo da questa sua frase, in che direzione dobbiamo muovere la nostra imma-ginazione? «Prima di tutto non dobbiamo cadere nell’illusione di ricominciare da dove eravamo rimasti e riprendere la realtà da così come l’avevamo lasciata. Perché non si può? Perché altrimenti la rabbia dei molti che reste-ranno ai margini – date le conseguenze economiche, sociali ed occupazionali – sarà travolgente. Anche se non volevamo vederle, la situazione passata conte-neva già al suo interno una successione di fragilità molto diffuse. Siamo come sospesi tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. Gli anni Venti con gli embrioni delle ideologie che conosciamo, da un lato, e gli anni Cinquanta, culla di una ripartenza economica e di una ragionevole coesione sociale, dall’altro. Ecco, se ci limitiamo a dire “ripartiamo”, finiamo dritti negli anni Venti. Se invece alimentiamo la spinta a prende-re questa vicenda della pandemia come un’occasione per affrontare tutte quelle questioni che ci trasciniamo dietro da troppo tempo, possiamo pensare di dare ini-zio a un processo di reale trasformazione. Un processo che si lega moltissimo all’immaginazione e alla capa-cità visionaria di riuscire a proiettare lo sguardo verso una dimensione che ancora non c’è».

    Chi ci aiuta ad immaginare e a generare questo nuovo processo? «L’importante è fare esperienza e non dimenticare. Etimologicamente, esperienza deriva da ex-perire, che richiama qualcosa che ci costringe a muoverci e che cambia la nostra lettura della realtà, mettendo in discussione le nostre certezze. “Voltare pagina” o “ri-

    accendere i motori dell’economia” sono pensieri folli. L’esperienza che abbiamo vissuto è una verità che si è imposta sulle nostre pretese. Non leggerla sarebbe sbagliato. Dimenticarsene sarebbe un dramma. Il compito nostro, adesso, è rispondere a questa realtà. Non si tratta di inventare niente. Si tratta di prendere atto di ciò di cui abbiamo fatto esperienza nella sua interezza e complessità, con tutte le criticità pande-miche, sociali, climatiche ed ecosistemiche, e con gli enormi scompensi demografici a cui assistiamo con le migrazioni. Questa è la realtà che ci parla. L’immagi-nazione e la visione di qualcosa che non c’è ancora, devono nascere da questo. È come trovare la giusta alchimia. L’alchimia della storia. E l’importante, per ciascuno di noi, è scegliere da che parte stare».

    Se ci avessero detto, a gennaio, che tutto que-sto sarebbe successo, non ci avremmo creduto. Immaginarlo era impossibile. Nella tragedia, noi B.Liver ci siamo mossi per esserci, per far sentire la nostra voce. Abbiamo fatto interviste e riunioni di redazioni online, vivendo e comu-nicando nel web. Dobbiamo immaginarci un futuro interamente digitalizzato? «Sicuramente il nuovo ciclo socio-economico e politi-co che speriamo di contribuire a far nascere non potrà non fare i conti con questo tema della digitalizzazione. Non si può saltare. C’è e ha delle potenzialità enormi, così come contiene dei rischi giganteschi. Più in ge-nerale bisogna combattere i dualismi, gli eccessi, gli estremi. In ogni particolare situazione ci sono delle tensioni polari che entrano in conflitto. Il digitale può, da un lato, spingere all’effetto Grande Fratello e alla concentrazione di potere, e può essere visto come uno strumento di controllo e dominio – tra capitalismo e sorveglianza - capace di trasformarci in atomi ancor più individualizzati. Dall’altra parte, il digitale - in qualità di rete - può favorire la pluralità, può ricom-porre diversamente il globale e il locale, può rende-re possibili nuove forme di socialità. Questa tensione polare c’è e non si risolverà. Dovremo conviverci. La

    cosa importante non è pretendere di scogliere questo dualismo, ma è prenderne consapevolezza e lavora-re per costruire degli equilibri che – seppur sempre parziali, provvisori e instabili – non si lascino lacerare da questi stessi estremi. Pensiamo per un momento all’incrocio tra digitale e sostenibilità, con il suo gran-dissimo potenziale. Una cosa che si è resa evidente nel lockdown è che da una parte il digitale è un’ancora di salvezza che ci ha tenuti connessi e collegati, rendendo possibili delle comunicazioni altrimenti non pensabili. Dall’altra, tutti abbiamo percepito ed è stato evidente, che una dimensione di compresenza fisica è necessa-ria. Se si perde quella, si sente che manca un pezzo. È come se la realtà non diventasse mai tale. Incontrarsi dal vivo genera inevitabilmente delle dinamiche che sfuggono e che sono irraggiungibili al mondo digita-le. Traiamo da questa riflessione un insegnamento. Se ripercorriamo la storia e pensiamo a due secoli fa, vediamo chiaramente come la rivoluzione sia nata se-parando nettamente la dimensione domestica dal luo-go di lavoro. Dopo questa pandemia cosa succederà? Non si tratta di far collassare un intero sistema, ma di ripensarlo con attenzione».

    Come si può tradurre, questo concetto, a livel-lo pratico? «Prendiamo in esame il tema delle città. Tutta la ri-

    Mauro Magattidefinizione tra luogo di lavoro e spazio dell’abitare, comprendendo quello della mobilità. Qui torna in campo l’immaginazione. Possiamo ripensare a di-mensioni diverse. Il digitale, con la sua realtà pola-re, è un ingrediente centrale di questa nuova visione che dobbiamo riuscire a proporre e a realizzare. Se scendiamo di scala, alla dimensione della casa, non dobbiamo pensare a una rivoluzione stravolgente, ma avvicinarci a un modello più simile a quello già diffuso nei Paesi del Nord. La dimensione intima e privata della casa rimane privata, mentre al piano terra del condominio o a pochi passi, nel quartiere, si ha uno spazio collettivo di lavoro. Il tema sta proprio nel di-pingere delle forme di vita nuove, cogliendo questa occasione unica. La pandemia è stata un acceleratore fenomenale – verso il bene ma anche verso il male – di una serie di dinamiche. Adesso non possiamo più star fermi a guardare. O acceleriamo anche noi, in dire-zione di una dimensione nuova, sostenibile, valida, o il rischio è troppo alto. La posizione che non accetto e che, anzi, considero sbagliata, è quella di dire sem-plicemente “ripartiamo”. “Torniamo a fare quello che facevamo prima e mettiamo tra parentesi l’accaduto”. Questo è spaventoso».

    In chiusura di tutte queste riflessioni, tra occa-sioni e digitalizzazione, tra speranze e visione, vorrei chiederle: qual è il titolo che le piace-rebbe leggere in prima pagina sul giornale, do-mani? «Nella fine è l’inizio. Per raccontare che questi sei mesi sono stati uno spunto per affrontare l’imprevi-sto e l’imprevedibile. Confrontarci con qualcosa che è stato al di là dell’immaginabile. Quindi, in un certo senso, una fine, ma che contiene – se non sprechia-mo l’esperienza che abbiamo fatto – un vero inizio. Un’occasione, soprattutto per i giovani, ma anche per tutti, per imparare; rifuggendo la retorica, trovando uno spazio prezioso in cui coltivare qualcosa di nuovo e di reale».

    Il sociologo della generatività va oltre la digitalizza-zione del Paese e paventa i rischi di scelte sbagliate come è avvenuto dopo la Prima guerra mondiale. «Meglio puntare su una coesione spontanea della società favorendo lo spirito d'iniziativa».

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  • 10 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 11Luglio - Agosto 2020 Il BulloneIL

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    SCUOLA

    LEZIONI SENZA APPELLO

    Mi mancano i rumori della classeUna priorità: studiare insiemedi Maddalena Fiorentini, B.Liver

    La scuola italiana è sempre stata unica rispetto alle altre scuole. La preparazione culturale che fornisce è invidiata e conosciuta in tutto il mondo. L’unica mancanza cre-do sia proprio la digitalizzazione.Ho trascorso un trimestre in Australia la scorsa estate, e sono rimasta colpita prin-cipalmente dal ruolo centrale della tecno-logia nel sistema scolastico.Ogni alunno, infatti, possiede un com-puter (anche fornito dalla scuola) che usa quotidianamente per le sue attività, rispar-miando così sui costi dei libri e facilitando il lavoro a casa. Con la quarantena, però, anche le nostre lezioni frontali hanno do-vuto piegarsi all’utilizzo delle tecnologie. È stato un cambiamento così improvviso che ci ha colti del tutto impreparati.All’inizio è stato divertente, una nuova sfida: mi svegliavo tardi e autogestivo il lavoro che i professori ci fornivano, tutti fiduciosi che saremmo tornati a scuola molto presto.Con la definitiva chiusura delle scuo-

    le, però, i miei professori hanno iniziato a pianificare lezioni in videochiamata e sono emerse le prime difficoltà. Nono-stante una maggiore concentrazione, vista la tranquillità e comodità di casa, ogni in-segnante aveva orari, ritmi e piattaforme diverse su cui lavorava, rendendo per noi studenti più difficile essere sempre al pas-so e aggiornati su tutto.Visto che il nostro sistema scolastico non la prevede, alcuni professori e ragazzi non erano abili nell’utilizzo della tecnologia e spesso si riscontravano problemi di svaria-to tipo.Le ore sembravano più lunghe e consiste-vano solo nella spiegazione del program-ma, senza i soliti minuti di svago che ave-

    vamo tra i cambi d’ora. Il programma è stato, quindi, molto denso e concentrato in poco tempo.Così ho capito che tutta la fretta che ci mettevano durante l’anno, per finire di spiegare il programma, in realtà non era proprio giustificata.C’era un costante senso di solitudine: solo voci robotiche, senza la presenza fisica dei compagni attorno a te con cui scambiarsi sguardi o piccole chiacchere. Non si era più una classe, mancava il rumore del-la sedia che si sposta, il colpo di tosse, la penna che scrive sul foglio, il gesso sulla lavagna: scompare tutto con il muto del microfono.Noi studenti partecipavamo poco, perché mancavano stimoli e mancava anche l’in-terazione fisica della conversazione, come espressioni del viso e postura. Così ho capito che, come in tutte le cose, serve il giusto equilibrio.Prima la scuola arrancava per stare al pas-so con i tempi e poi è diventata fin troppo fredda e distante. In quarantena ho capito che veramente la scuola è vita, negli anni del liceo occupa quasi tutta la mia gior-

    nata, per questo vorrei che fosse un luogo di scambio, ma anche di formazione per il futuro e senza la giusta digitalizzazione, non potrà mai prepararmi completamen-te.Sicuramente servono più discussioni e formazione su temi di attualità e preven-zione; il tempo per farlo c’è, così come c’è stato in quarantena, quando abbiamo avuto la metà del tempo per finire tutto. Mi piacerebbe vedere poi il computer come uno strumento d’appoggio in ogni ora di lezione e non come un ingestibile distrazione.Infine vorrei avere più indipendenza nella gestione del mio lavoro a casa: basta eser-cizi di compito che ogni giorno vengono copiati.Ognuno diventa responsabile della pro-pria preparazione a verifiche e interro-gazioni, appoggiandosi all’insegnante per qualsiasi dubbio.Da studentessa non lo dico per pigrizia, ma perché sono tutte cose che ho speri-mentato personalmente in quarantena e credo che possano diventare la grande occasione della scuola.

    LAVORO

    L'UFFICIO IN CASA

    Smart working: qualche rischioma è necessario provarci

    (Foto: insidemarketing.it)

    di Emanuele Bignardi, B.Liver

    Le parole del momento: Smart Working. Ne è stata data una definizione ufficiale, che recita «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile uti-lizzo di strumenti tecnologici per lo svol-gimento dell'attività lavorativa». Quindi, si può tranquillamente dire che il «lavoro agile» – altro nome dello Smart Working – sia ben inserito nell’ordinamento italia-no, anche se forse prima dell’emergenza Covid-19 non era così diffuso, apprezzato e odiato. La domanda sorge spontanea: perché mai abbiamo avuto bisogno di una pandemia per sviluppare un modello di lavoro agile e «smart»? Forse la nostra cultura del lavoro rimane piuttosto anco-rata ai modelli passati del luogo di lavoro, degli orari, della «timbratura del cartelli-no». Devo dire che non ho una risposta alla domanda che ci siamo appena posti e che non è una domanda retorica, quanto un dubbio lecito. Io e lo Smart Working abbiamo iniziato il nostro «rapporto» il 23 febbraio 2020. Quel giorno in ufficio, le notizie sul coro-navirus si alternavano a dubbi sul futuro e su come avremmo portato avanti la no-stra attività. Ad essere sincero, ero molto spaventato dalla situazione Covid-19, ma anche dalla possibilità di lavorare da casa: temevo che l’assenza del continuo con-fronto con i miei colleghi, che mi ha aiu-tato sempre moltissimo, potesse trasfor-marsi in tante piccole catastrofi lavorative,

    incomprensioni, errori. Quindi, quando è arrivata la mail che sanciva l’obbligo di lavorare da casa dal giorno successivo, la mia ansia è diventata palpabile. Tornando a casa, mi sono messo nello zaino il com-puter, sperando di non aver dimenticato nulla in ufficio. I primi giorni sono stati molto duri: per parlare con i colleghi bi-sognava utilizzare Skype o il telefono, non bastava più alzare lo sguardo e chiedere al collega della scrivania accanto. Nel silen-zio della mia casa, vivo da solo, non riusci-vo a concentrarmi, non riuscivo a mettere in fila le cose da fare, mi sembrava tutto insormontabile. Eppure, giorno dopo giorno, mi sono abituato e ho imparato a comunicare con gli altri in molti altri modi, ma anche a prendere tante piccole decisioni, nei limiti del mio ruolo, che mi hanno fatto crescere. Non è una banalità retorica, ma penso che lavorare da casa mi abbia davvero dato tanto in termini di autonomia e di sicurezza sul lavoro. Forse il mio lavoro, che si svolge per il 99% al computer, mi ha facilitato in questo; sicu-ramente colleghi di altre funzioni hanno avuto molte più difficoltà, abituati magari a contatti più diretti con le persone. La

    cosa che più mi manca dell’ufficio è po-ter parlare direttamente con i miei colle-ghi, ma anche prendersi un caffè insieme, fare due chiacchiere: infatti, lavorando da casa, tutte queste cose devono essere pro-grammate, la spontaneità si riduce. Anche se il lavoro da casa durante la pan-demia di Covid-19 è stata, almeno per me, un’esperienza difficile ma positiva, credo che non rispecchi veramente l’idea dello Smart Working: infatti, il vero lavoro agile è quello che ti permette di svolgere le tue mansioni ovunque tu sia, senza degli orari prefissati, ma lavorando per obietti-vi. Forse quello che abbiamo appena vis-suto è più un «lavoro da casa», differente dallo Smart Working della definizione; credo che questo modo di lavorare debba entrare sempre di più nel nostro modo di pensare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto del «lavoro per obiettivi», svinco-lato da orari di lavoro rigidi. Un rischio grosso è quello di costringere le persone a turni massacranti per raggiungere i fami-gerati obiettivi. È necessario che la classe dirigente italiana, da una parte, sorvegli e garantisca i diritti dei lavoratori; dall’al-tra, abbiamo bisogno che i manager delle aziende tutelino il lavoratore, vedendolo

    come una risorsa e credendo in una sua costante crescita. Inoltre, è necessario che le aziende diano grande fiducia alla sin-gola persona, permettendogli di lavorare per obiettivi, in qualunque luogo essa si trovi. È qualcosa di molto differente dal «lavoro da casa», qualcosa di più evoluto e che penso possa permettere a chi lavora di conciliare meglio la vita privata con quel-la lavorativa. In tutto questo, il lavoratore, in virtù della fiducia ricevuta, ha l’obbligo morale di ripagarla con una solida integri-tà: così il rapporto di lavoro diventerà più un rapporto di fiducia reciproca, con un guadagno enorme per entrambe le parti.Questo è quello che mi auguro succeda dopo l’emergenza Covid-19, cioè una trasformazione del lavoro, con alternanza di Smart Working e modalità più «tradi-zionali». Ovviamente, alcune professioni sono più adatte a questa tipologia di lavo-ro, ma credo che essa possa ben applicar-si, ad esempio, ai momenti di formazione che tutte le attività lavorative hanno. Ini-ziare a sviluppare e implementare l’e-le-arning può essere un primo passo, ma ce ne sono anche molti altri, come l’utilizzo delle risorse digitali nell’aggiornamento, nell’erogazione dei servizi al pubblico: penso, ad esempio, agli uffici pubblici e allo sforzo di digitalizzazione che in questi anni è iniziato e che, però, deve continua-re. Abbiamo grandi potenzialità tecno-logiche e di capitale umano che devono poter essere sfruttate.Non lasciamo, quindi, che l’emergenza Covid-19 sia solo un brutto ricordo – an-che se non è ancora finita – ma prendia-mola come spunto di crescita, mettendo in campo tutta la creatività e l’inventiva che ci caratterizza come genere umano.

    Con il lockdown si sono svuotati i pa-lazzi del lavoro, le strade e i bar senza clienti. Cominciano i primi conflittinelle aziende

    Le impresedevono dare fiducia al singolo, permettendoglidi lavorareper obiettivi

    Una B.Liver non ha dubbi: si può fare scuola solo in aula. «In quarantena ho capito che sta-re insieme ai miei compagni è vita».

    UNA STORIA, TANTE DIFFICOLTÀ

    Silvia: due figli, i compiti,il lavoro e un solo computerdi Silvia Pichierri, B.Liver

    Ho quarantatré anni e vivo a Milano da venti. Nata e cresciuta in Salento, seppur molto legata alle mie radici e alla mia famiglia d’origine, a ventitré anni, dopo essermi sposata, mi trasferi-sco a Milano. Dieci anni più tardi arriva la prima figlia, Giada, che oggi ha nove anni e - poco dopo - Diego, di sette anni. Frequentano entrambi la primaria, rispet-tivamente la terza e la prima elementare. Mio marito è un Sottufficiale dell'Aero-nautica Militare.All’inizio del 2020, viene chiamato in mis-sione ad Herat, in Afghanistan: il nove gennaio parte… diciamocelo, non poteva esserci anno peggiore! La situazione, in-fatti, già abbastanza complicata e faticosa così, a febbraio, con l’arrivo del coronavi-rus e della pandemia, è degenerata. Non avendo alcun aiuto parentale, la prima grande difficoltà è arrivata con la chiusu-ra delle scuole.Di colpo mi sono ritrovata a dover fare delle scelte forti ma inevitabili, come quel-

    la di rimanere a casa dal lavoro, perché non sapevo come fare con i bambini: rinchiusa in casa e senza la possibilità di poter chiedere e avere un aiuto fisico, il crollo emotivo non ha tardato ad arrivare. Essendo sola, infatti, anche le cose più «semplici» sono diventate complicate.Per poter andare a fare la spesa mi alzavo alle sei del mattino e uscivo di casa poco dopo, così da mettermi in coda fuori dai supermercati e fare la spesa il più veloce-mente possibile, per riuscire a rientrare entro le nove.Fino a quell'ora, infatti, i miei bambini solitamente dormivano, quindi era l’u-nico momento in cui potevo assentarmi, senza rischiare di incappare in piccoli o grossi probabili pericoli. E questo è stato solo uno dei tanti ostacoli che ho dovuto affrontare in questi mesi. Mio marito ad aprile sarebbe dovuto ri-entrare per una quindicina di giorni, ma la chiusura dei confini e il fatto che dalla base in Afghanistan non si potesse né en-trare, né uscire, ha bloccato tutto.Entrambi, ognuno nella propria fatica, abbiamo dovuto tirare avanti, ognuno con

    le proprie forze. Nel frattempo, con il passare delle setti-mane, ho iniziato a lavorare da remoto, collegandomi con l'unico computer a di-sposizione. Ed eccola lì, la tanto attesa e discussa DAD (Didattica A Distanza): le lezioni online, i compiti da svolgere sem-pre online, le fotocopie da stampare... Avendo a disposizione un solo computer e il cellulare, il gioco di incastri tra il mio lavoro e gli impegni scolastici di entrambi i bambini è stato complesso e, per l’enne-sima volta, è entrato in gioco il potere ma-terno del multitasking. Con non poca dif-ficoltà, purtroppo, in alcune occasioni ho

    dovuto rinunciare a far partecipare uno dei due alle lezioni: ho dovuto scegliere io quale fosse il collegamento più importante tra uno, l'altro, o l'altro ancora.Per non parlare della connessione che, ahimè, in sovraccarico reggeva davvero poco!Con il passare delle settimane, poi, i bam-bini hanno iniziato a stancarsi della situa-zione che stavamo vivendo: si rifiutavano di collegarsi e venivano, per forza di cose, costretti.Cercavo di far capire loro che era l'unico modo per fare scuola in quel periodo, ma non è stato semplice.Finivano per collegarsi solo per poter vedere i loro amici, di cui sentivano tre-mendamente la mancanza: senza più luo-ghi di aggregazione, senza la possibilità di relazionarsi, senza avere uno spazio dove esprimersi ed esprimere il loro essere bambino… tutto questo non può essere sostituito o ridotto a una relazione a di-stanza! Alcune volte ho pensato di non farcela, avevo molta paura, le notti passavano in-sonni. Quanto avrei voluto avere un cellu-lare in più in alcune occasioni... Fortuna-tamente, con l’arrivo di giugno, tutto si è concluso con un grande applauso, virtua-le, e la chiusura delle scuole. Io continuo a lavorare sempre da remoto, nell’attesa che mio marito rientri, finalmente, a fine luglio. Spero che questo brutto periodo non si ripresenti perché, solo al pensiero, il mio viso si riempie di lacrime.

    Ho dovuto scegliere quale lezione online fosse più importante:che fatica

  • 12 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 13Luglio - Agosto 2020 Il BulloneIL

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    SALUTE

    Il Coronavirus ha velocizzato il processo di digitaliz-zazione negli ospedali. Meno contatti, meno contagi. Per alcune specialità mediche si è capita l'efficacia dell'utilizzo delle tecnologie. Si tratta ora di struttu-rare e mettere a regime il sistema

    di Federica Colombo, B.Liver

    La pandemia di Covid-19 ha costretto ciascuno di noi ad abbandonare le proprie consuetudini e fare propri dei metodi comunicativi e strumenti che mai erano stati davvero essenziali quanto in queste condizioni. Telelavoro, videochiamate, file sharing. Tecnologie che esistevano già, eppure forse nemmeno ne eravamo consapevoli. Le grandi innovazioni sono spesso partite dai momenti più drammati-ci della storia. A livello della sanità e della medicina, molto è cambiato. Se da un lato si è tornati nei laboratori a studiare il vi-rus, si è dovuto far fronte non solo alle mi-gliaia di persone malate, ma anche al pro-blema della gestione dei pazienti cronici che quotidianamente si rivolgono al siste-ma sanitario. Questi pazienti spesso non hanno potuto accedere ai propri luoghi di cura, medici di base o farmacie. Un pic-colo esempio, banalissimo, è quello della ricetta elettronica: pronta da prima del 2016, mai entrata in funzione. In Lom-bardia in poche settimane è stata attivata e il paziente ora non deve più andare dal medico, può ricevere il codice per i propri farmaci sullo smartphone. All’istituto Na-zionale dei Tumori si è passati al follow up telefonico: i pazienti hanno potuto svolge-re le analisi necessarie fuori dall’ospedale e presentarle telefonicamente all’oncolo-go, evitando il rischio di contagio per i pa-zienti ricoverati, spesso immunodepressi. In altri ambiti della medicina, alcuni miei amici B.Liver hanno svolto sedute di te-rapia psicologica su Skype, altre potevano comunicare con il proprio medico anche

    su WhatsApp, che in un momento estre-mamente stressante anche da un punto di vista emotivo e sociale, è stato di grande aiuto per molte persone. Una grande oc-casione per dar via alla digitalizzazione che è stata così vicina a noi da diventare semplicemente invisibile davanti a prati-che quotidiane consolidate da anni. Sono una laureanda in medicina e ho visto dall’altro lato quello che i pazienti guarda-no con diffidenza durante le proprie visite: il pc del medico. Su una visita di mezz’ora almeno la metà vede il medico intento a scrivere al computer, moduli su moduli che sarebbero dovuti servire a riempire banche dati per permettere, ad esempio, la visione degli esami da parte di altri me-dici, i certificati digitali e ogni tipo di ricet-ta. Questa digitalizzazione esiste da anni eppure, nonostante l’enorme mole di dati già accumulata, non è ancora ottimizzata. Credo che questa spinta propulsiva possa fare la differenza e spingere verso una re-

    ale implementazione del sistema digitale che snellisca la burocrazia e semplifichi la vita al malato, magari anche solo liberan-dolo dalle mille scartoffie che è costretto a tenere in cartella ad ogni visita. Le criticità sono e saranno molte: bisognerà includere gli anziani in questo processo e ciò richie-derà in molti casi di attendere il ricambio generazionale, bisognerà avere in mente che esiste una grave disparità economica e anche culturale tra i cittadini. Una cattiva connessione non deve impedire a nessu-no di avere una buona esperienza di cura. Il rapporto medico paziente infine, che è esso stesso una cura, non potrà mai smet-tere di esistere e soprattutto la vicinanza del sanitario dovrà essere sempre garanti-ta, perché un malato in difficoltà, incapa-ce di interpretare il risultato di un esame che ha svolto fuori dal proprio ospedale, non può essere lasciato alla sua angoscia. Questa revisione dei modi e dei tempi del-la cura imporrà anche una rivisitazione della figura e del lavoro del medico, che dovrà essere presente in ambulatorio o in ospedale, ma anche reperibile sui mezzi informatici, cosa che negli attuali contrat-ti tipici della professione non è previsto e in un sistema perennemente rigido e sotto organico, difficilmente si potrà avviare. Servirà aumentare il personale e applicar-si con le migliori eccellenze dell’informa-tica italiana per dare forma a quella che è stata per anni un’idea, ma che forse solo con la violenza della pandemia è diventa-ta più che mai una necessità. Investire ora, risparmiare in futuro. È il momento di im-parare da questa esperienza e migliorare il servizio al malato. Un’occasione che la sanità italiana non può permettersi di per-dere.

    Dalla ricetta elettronicaai colloquicon lo psicologo:i benefici della semplificazione

    UNA B.LIVER LAUREANDA IN CORSIA

    La telemedicinaaiuta di piùi malati.Si parla quando si ha bisogno

    CRONICITÀ E SERVIZI

    Procedure digitali uniformiDoveroso guidare i pazientidi Eleonora Prinelli, B.Liver

    Durante il lockdown i pazienti cronici hanno dovuto speri-mentare, chi più chi meno, la medicina a distanza. C’è chi si è trovato bene a suon di videochiamate per verificare passo passo le terapie, ma anche chi oltre all’ansia provocata dalla pandemia e dalla propria condizione di salute, ha vissuto lo stress dei follow up online e della lettura delle analisi in au-tonomia. La reperibilità di medici e infer-mieri via whatsapp ha facilitato la comu-nicazione con il paziente, rincuorato dalla possibilità di avere un contatto diretto per porre domande all’interlocutore. Infatti spesso accade che allo stress generato dal-la patologia, si aggiunga quello provocato da procedure burocratiche a dir poco con-

    torte. Con l’avvento del Covid le strutture sanitarie sono state obbligate a sviluppa-re nuovi processi digitali e si è scoperto che tanto può essere fatto a distanza. Ciò che fa sorridere però, è che ci volesse una pandemia per capirlo. A onor del vero, anche prima del lockdown qualcosa si sta-va finalmente muovendo in questo senso, penso ad esempio al Fascicolo Sanitario Elettronico di Regione Lombardia. Tutta-via c’è ancora molta strada da fare. L’im-pressione è che molte di queste iniziative non siano poi davvero applicabili in senso pratico. Eppure la vita del malato croni-co potrebbe essere molto facilitata dalla digitalizzazione efficiente e continuativa dei processi burocratici di prenotazione delle prestazioni e consultazione dei re-ferti online, ad esempio. Nella maggior parte dei casi ancora oggi sembra di aver

    a che fare con entità complesse e intangi-bili, dove ottenere un dialogo diretto con un medico sembra impossibile. L’idea ge-nerale è che il paziente si debba sempre «sbattere» e correre da una parte all’altra per ottenere una visita o un consulto. Ma per un malato cronico questo diventa un vero e proprio lavoro che toglie tempo ed energie. E poi c’è anche chi, una vol-ta terminata la fase acuta della malattia, vive l’abbandono dei servizi nonostante riporti degli effetti cronici (i pazienti on-cologici ne sono un esempio). I casi sono molteplici e complessi, motivo per cui ri-chiedono dei processi integrati tra le va-rie realtà sanitarie. In alcuni ospedali vi sono delle sperimentazioni in corso, ma non rappresentano la prassi e rischiano di non fornire soluzioni concrete. Spesso dipendono esclusivamente dall’iniziativa

    personale di alcuni medici, con il risultato che tanti malati non vengono a conoscen-za dei servizi a loro riservati. Inoltre, il più delle volte, sono i pazienti «esperti» ad aiutare gli ultimi arrivati ad orientarsi nel marasma burocratico, nonostante non sia il loro ruolo. Manca un contatto facilitato con l’ospedale e una vera presa in carico del paziente cronico (Regione Lombardia ci ha provato con scarsi risultati). L’ideale sarebbe trovare il giusto equilibrio tra la digitalizzazione e l’istituzione di una figu-ra (un medico o un infermiere) che possa instradare il paziente verso i centri di ri-ferimento e ricordargli le scadenze. Una specie di servizio di «orientamento» per i malati cronici, che spesso fanno fatica per-sino a trovare specialisti adatti alle proprie peculiari esigenze di salute. Con la qua-rantena i pazienti cronici hanno avuto un assaggio di telemedicina e hanno iniziato a chiedersi come si troverebbero ad appli-carla sempre, anche in una situazione di normalità. Questa sarebbe la vera gran-de occasione per la digitalizzazione della nostra sanità. Snellire i processi e dare la possibilità di essere curati anche da remo-to, dove possibile. Ci sono tanti modi di applicare la tecnologia nelle nostre vite, questo è certamente uno dei più utili.

    COVID E FIBROMIALGIA 1

    Difficile curarela mia patologiadi Deborah Marchisello, B.Liver

    Mi chiamo Deborah Marchi-sello, ho 27 anni, e sono af-fetta da fibromalgia. Per chi non lo sapesse la fibromal-gia è una malattia che colpisce il sistema nervoso centrale, con la conseguenza di dolori sparsi su tutto il corpo, ventiquat-tr’ore su ventiquattro, dalle braccia alle gambe, alla schiena, alla mandibola, ai piedi, alle mani. Insomma, in qualsiasi parte del corpo. Ho scoperto di esserne affetta da quasi un anno, quando la mia amica Alice Paggi, dopo i miei continui dubbi sulla prove-nienza dei dolori, mi convinse a fare una visita presso il reparto di reumatologia dell'Ospedale Niguarda a Milano, dove anche lei è in cura da tempo.La reumatologa, dopo attenti esami e va-lutazioni, mi diagnosticò questa «strana» malattia, e iniziai ad adottare una terapia antalgica di prova per abbassare la soglia del dolore.Ebbene sì, di prova, perché la terapia non è uguale per tutti. C'è chi risponde a de-terminati farmaci e chi ad altri. Da allora, infatti, ho già cambiato diverse cure, e questo è stato difficile da gestire, soprattutto durante i mesi di lockdown. La chiusura totale dei reparti per l'emer-genza Covid, ha reso particolarmente dif-ficile per tutti quelli come me, convivere con questa situazione di fermo.Dover star chiusi e fermi a casa ha genera-to degli aggravamenti della percezione del dolore, perché questo tipo di malattia ha come controindicazione la sedentarietà. Noi, infatti, stiamo meglio quando faccia-mo esercizio fisico, o quando ci rechiamo da osteopati o fisioterapisti.

    Tutto ciò, come saprete, è stato impossi-bile.La reumatologa ha cercato di aiutarmi via e-mail con la modifica di qualche dose e di qualche farmaco, ma ovviamente non è stato semplice, né tantomeno risolutivo.Oltretutto questo tipo di farmaci non pos-sono essere prescritti dal medico di base e addirittura alcuni nemmeno dal reparto di reumatologia, quindi ho dovuto aspet-tare la fine del lockdown per cercare di avere una visita presso l'ambulatorio della terapia del dolore, come indicatomi dalla mia dottoressa, che inoltre, mi suggerì di recarmi da un neurologo e di fare un elet-tromiografia agli arti. Anche su questo ci sono stati, e ci sono an-cora, tantissimi problemi. Benché l'emergenza Covid si sia attenuata fortunatamente di molto, tante visite non possono essere fissate perché i reparti ri-sultano ancora fermi, senza data di aper-tura certa da indicare a noi pazienti.Ci viene detto di chiamare ogni giorno, perché le comunicazioni potrebbero cam-biare dall'oggi al domani...L'unica visita che sono riuscita a prenota-re, dopo diverse chiamate, è stata presso la terapia del dolore, che però mi è stata data con un'attesa maggiore di dieci gior-ni, tempo in cui l'ospedale deve riuscire a collocarti per legge, avendo in mano una prescrizione con priorità. Tutto questo risulta davvero difficile da gestire per noi, quasi debilitante.Non sapere quando e se le attività ospe-daliere riprenderanno, non è sicuramente positivo per chi ha bisogno di cure.Questo vale anche per chi soffre di altre patologie che richiedono assistenza conti-nua. L'Italia sembra non preoccuparsi di queste problematiche.

    COVID E FIBROMIALGIA 2

    Malattia invisibileI miei tanti rischidi Alice Paggi, B.Liver

    Che dire, parole sante amica mia! Il lockdown ha peggiorato di gran lunga la nostra sintomato-logia, nel mio caso i piedi sono la parte del corpo che mi da più problemi in assoluto: mi ritrovo piena di dolori e di effetti indesiderati strani, come gonfiore localizzato, crampi e altro.La conseguenza su di me è stata una fatica allucinante per riprendere a camminare anche per la mancanza di allenamento, l’impossibilità di recarmi nella mia pale-stra di fiducia in cui potevo fare movimen-to, ridurre il gonfiore ai piedi e attivare la circolazione. Mi sono allenata a casa, ma con il lavoro e tutto il resto non riuscivo mai veramente a mantenere un ritmo co-stante. La palestra per me è come una me-dicina, già ho dovuto rinunciare alla pisci-na per via dei problemi ai piedi, in più mi hanno tolto anche la palestra, l’osteopatia e la fisioterapia, la mia combinazione vin-cente, oltre le medicine, della terapia del dolore.Tuttora ho problemi a camminare su lun-ghe distanze, mi stanco più facilmente ri-spetto agli anni scorsi e questa settimana ho avuto un crampo alla gamba che mi fa zoppicare da due giorni: non era mai successo prima. Cercherò di capire se ci sono cause esterne o se è stata la sedenta-rietà forzata dello smartworking (che per fortuna c’è). Io a differenza della mia amica Deborah ho avuto più conseguenze da quarantena di questo tipo. Per quanto riguarda l’ap-proccio con gli ospedali ho avuto problemi a trovare una risonanza ai piedi su Milano e Bergamo: dovrò andare a farla a Bre-scia in una clinica piccola, per capire se la

    mia situazione sta avendo ritorsioni sugli arti inferiori. La fibromialgia non dovreb-be essere degenerativa, ma non possiamo esserne certi, si sa ancora troppo poco a riguardo. Per fortuna io ho una prescrizio-ne di medicinali fissa da anni, ci sono casi in tutta Italia di persone che non hanno neanche la possibilità di avere una VERA diagnosi: amiche della Campania e della Calabria hanno dovuto venire al nord per avere una diagnosi vera, perché nessuno credeva loro, anche il nostro caro INPS di Milano non crede ancora alla potenza di questa malattia, persino la terapia del dolore di Milano mi ha preso per pazza/depressa durante i primi mesi in cui avevo i sintomi, ma non ancora una certificazio-ne della patologia. Mi è stato detto: «Sei depressa, devi andare dallo psichiatra e combattere la cosa coi farmaci», e anche, «Suvvia, ti passerà sei giovane». LA FI-BROMIALGIA È CRONICA E NON È UNA MALATTIA MENTALE! Toglie-tevi dalla testa questi pensieri perché noi fibromialgici siamo stufi di sentirci catalo-gare così! Già è difficile trovare dottori che conoscano la patologia, in più anche da quelli che l’hanno sentita, non veniamo creduti. La cosa devastante è che con tutti i problemi di salute che ho, l’INPS non mi ha lasciato neanche un’agevolazione che attesti che non posso tirare su gli scaffali al lavoro. Chi non ha patologie sommate alla fibro non viene riconosciuto neanche dall’INPS e si deve pagare cure e farmaci. Al Nord e al Sud non ci sono distinzioni: in tutta Italia è ancora così, è un terno al lotto trovare qualcuno che ci creda.Informatevi, immedesimatevi e siate più empatici. Gioverete sia alla salute del pa-ziente che a voi stessi, perché ve ne sare-mo grati.

    La B.Liver Federica Colombo e Andrea Castellano, laureandi in Medicina

    Il rapporto medico-paziente fa parte della cura e non potrà mai smetteredi esistere

  • 14 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 15Luglio - Agosto 2020 Il BulloneIL

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    di Martina De Marco, B.Liver

    «Sensibilizzare». Quando nel 2018 è stata inaugurata alla Triennale di Milano la mo-stra Cicatrici, nata dalla collaborazione del Bullone con il +Lab, il laboratorio di stampa 3D del Politecnico di Milano, non sapevamo che sarebbe stato questo il suo principale compito. Rendere sensibili, più sensibili coloro che incontrano le sue opere, su cosa sia la fragilità e quali siano le sue forme, sco-prendo forza e bellezza dove i preconcetti collocano solita-mente solo fatica e debolezza. Come allora, ogni tappa di questo percorso itinerante, è stata accompagnata da incon-tri con alcuni rappresentanti della sanità pubblica, con l'o-biettivo di calare il compito di sensibilizzazione anche nel terreno concreto della vita nella malattia e delle decisioni e azioni pubbliche da intraprendere in materia.Luglio 2020: eccoci con una nuova inaugurazione. Cicatrici diventa 2.0, trasformandosi in un'esperienza di-gitale, grazie al supporto di Janssen Italia e dell’agenzia Inrete, che sono al fianco del progetto fin dal 2018.Obbligati dal lockdown a cancellare alcune tappe in pro-grammazione e motivati a rendere la mostra raggiungi-bile nonostante l'emergenza sanitaria, Il Bullone ha lavorato per realizzare una room di-gitale sul suo nuovo sito web, (ilbullone.org) in cui, oltre a incontrare le statue e il rac-conto che le accompagna, è possibile richiedere visite gui-date, formazioni per aziende, università e scuole e, in futuro, anche di realizzare la propria

    statua da aggiungere al piccolo esercito dei vulnerabili. Sono state due le tavole rotonde – naturalmente in digi-tale - che hanno fatto da corollario anche a questo nuovo inizio, occasioni preziose per portare la voce dei B.Liver alle istituzioni, in un momento di approfondimento e confronto sui temi della cronicità, anche nella prospettiva dell'esperienza del Covid-19. Nel primo webinar, che si è tenuto in diretta streaming il 13 luglio, i B.Liver hanno avuto l’occasione di dialogare con le onorevoli Giuseppina Versace - solo Giusy per noi del Bullone, come si fa sui campi d'atletica - e Fabiola Bologna, membri della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, e la Consigliera Michela Di Biase,

    della Commissione Sanità della Regione Lazio. Nel secondo incontro, tenutosi il 20 luglio, il confronto si è spostato sulle regioni del nord Italia, con la partecipa-zione di due Presidenti della Commissione Sanità: il con-sigliere Emanuele Monti per la Lombardia e il consigliere Alessandro Stecco per il Piemonte. In entrambe le occasioni hanno partecipato anche Mas-simo Scaccabarozzi, Presidente e Amministratore Dele-

    gato di Janssen Italia, e Bill Niada, fondatore del Bullone. Che un incontro digitale potesse essere così caloroso pro-prio non ce lo aspettavamo: i B.Liver, portando il loro vissuto come pazienti cronici o portatori degli effetti cronici di malattie gravi, hanno portato una testimonianza autentica sui temi specificata-mente sanitari, ma non solo. In questo tempo di emergenza sanitaria, che ha sconvol-

    to la vita di tutti noi, i ragazzi del Bullone infatti, si sono trovati in un mondo rovesciato. Tutto d’un tratto non si sentivano più soli, tagliati fuori. Non sentivano più quello sguardo sospettoso addosso per indossare una mascheri-na; non sentivano più quella forma di incomprensione quando dovevano dire «devo rimanere in isolamento, devo fermarmi». Certo, il Covid ha aggiunto difficoltà e timori alla vita di un paziente cronico. C’è chi ha vissuto la messa in stand by della propria vita, perché in attesa di un trapianto che è stato rimandato; chi ha dovuto interrompere il proprio percorso terapeutico o sostituirlo con altre strade più «tossiche»; chi si è trovato senza alcuna tutela sul lavoro; chi il lavoro l’ha perso perché «categoria a rischio»; chi ha vissuto in un limbo informativo rispetto a servizi e piani terapeutici; chi si è ritrovato a vivere di nuovo la paura dell’incertezza e dell’isolamento.Ma questo periodo è una grande occasione di trasforma-zione per tutti noi. Partire dalle criticità, ma soffermarsi anche sulle opportunità che questo periodo ha chiara-mente mostrato, accelerando la creazione di nuove strade possibili. In questi incontri, i B.Liver hanno condiviso e

    portato alla luce le esperienze positive della telemedicina, dei controlli online, raccontando come con il favorevole salto digitale si sia in parte ridotto lo stress della burocra-zia che spesso si aggiunge a quello della salute, ma an-che la fatica di essere malati in una società in allerta, in

    cui ogni sintomo è percepito con diffidenza e la possibilità di cura e screening è ridotta all'osso.

    Un grande tema aperto rima-ne quello della comunicazio-ne, che da anni abbiamo ca-pito essere una vera e propria questione di salute pubblica: lo è stato per il coronavirus, in

    cui il panico generato dalla mancanza di fonti affidabili e ufficiali di notizie ha raddoppiato i danni, ma lo è da sempre su molte malattie croniche di cui non si parla e in cui una comunicazione pensata, sarebbe una leva di prevenzione dalle malattie stesse, ma anche dai tabù che le accompagnano. Non ultimo, il grande tema del lavoro. Terreno spinoso per i pazienti cronici, reso quasi impraticabile dalla situa-zione attuale. Gli ospiti istituzionali hanno avuto la possibilità, in que-sto dialogo, di raccontare misure attuate in risposta alla situazione di emergenza e la visione a lungo termine che le sottende; hanno accolto le istanze emerse nel confron-to e lanciando l'invito per ospitare la mostra Cicatrici nei palazzi del Parlamento e delle Regioni, per sensibilizzare in primo luogo i propri colleghi e subito dopo ragazzi e scuole. È stato confortante sentire che, sebbene sia ancora lunga la strada per la realizzazione di un panorama sociale e dei servizi che doni realmente condizioni eque alla vita dei pazienti cronici, ci sono persone che presidiano con com-petenza e responsabilità i luoghi istituzionali che questo panorama possono costruirlo. «Sensibilizzare», si diceva: ancora una volta Cicatrici ci dà la possibilità di farlo, pian-tando un seme di verità e confronto di cui speriamo pre-sto di poter vedere i germogli.

    Gli incontri si possono rivedere sulla pagina Facebook del Bullone: @ilbullonefondazione

    IL DIBATTITO SULLA SALUTE

    Noi malati cronici in frontieraDubbi e speranze nel buio del lockdownConfronto tra B.Li-ver, istituzioni e Janssen per capire che cosa serve ai pazienti nei mo-menti di emergen-za sanitaria

    Sul sito del Bullonenews su Cicatrici

    La Versace e i difetti di comunicazione

    Le opportunità che cilascia la pandemia

    Uno sguado sul futuro delle nostre citta

    ABITARE LA CITTÀ

    ORIGINI E MODERNITÀ

    Case spaziose, alberi e socialitàLe smart city senza automa con trasporti puntualidi Irene Nembrini, B.Liver

    Gli ultimi mesi sono stati senza dubbio un perio-do straordinario: abbia-mo iniziato a vivere la città più da spettatori che da protagonisti.Da finestre e balconi abbiamo visto il tempo passare, le stagioni susseguirsi.Ci siamo fermati, come statuette dentro una boule de neige, e abbiamo iniziato ad osservare.Osservare come l'ambiente che ci circon-da cominciava a starci stretto, a soffocar-ci; come avremmo voluto avere un giar-dino per uscire a prendere una boccata d'aria, un panificio sotto casa per non do-ver accalcarci al supermercato, una pista ciclabile per andare al lavoro in sicurezza e senza preoccupazioni.Ora che la nostra bolla è «scoppiata» e

    facciamo i primi, esitanti passi nella nor-malità, resta l'urgenza di riprendere ciò che abbiamo appreso in questa quaran-tena, per applicarlo nelle nostre città. In questi mesi la maggior parte degli ita-liani si è ritrovata chiusa in piccoli appar-tamenti, costretta a vivere il lungo lock-down in pochi metri quadrati.Balconi, terrazzi e giardini comuni sono diventati un lusso, un’espressione dello status quo, tanto che le agenzie immobi-liari di tutta Italia hanno visto un boom nelle richieste di case con giardino o cor-tile.Un'altra criticità è stata la mancanza di distanziamento, in particolare nei condo-mini e nei palazzi con numerosi inquili-ni: per quanto questo tipo di alloggio sia particolarmente diffuso nelle città e con-veniente in termini di spazio e di costi, in tempo di Covid-19 queste strutture non sono state capaci di garantire la sicurez-za necessaria, esponendo gli inquilini a notevoli rischi.Nel dopo lockdown il fronte commer-cio è stata una delle più grandi sfide del Coronavirus: le lunghe code di fronte ai supermercati di tutta Italia hanno fatto discutere e indignare per mesi, mentre migliaia di piccole attività sono state messe in ginocchio dal lungo periodo di chiusura, dalle restrizioni e dai regola-menti. Mentre per moltissimi servizi la risposta è stata la digitalizzazione, per le città italia-ne un ritorno alle origini potrebbe essere benefico: recuperare la vita di quartiere, impegnandoci a lavorare per il benesse-re e l'integrazione della comunità loca-le nel tessuto socioeconomico della città potrebbe alleviare alcuni dei problemi

    riscontrati in questi mesi di pandemia.Dare una nuova spinta a queste attività creerebbe un ciclo di crescita che potreb-be dare nuova linfa ai nostri quartieri.Nonostante il periodo difficile e straor-dinario, l'interesse per le tematiche am-bientali non è scivolato in secondo piano durante la pandemia: l'abbassamento dei livelli di smog e di polveri sottili, così come il ritorno degli animali nei loro ha-bitat, ci hanno fatto sorridere e sperare durante il lockdown.Questi miglioramenti però, sembrano già svaniti, soppiantati dall'aumento del-la circolazione di autovetture e dall'inqui-namento da parte di mascherine e guanti che ormai costellano parchi e strade.Mentre quest'ultimo aspetto è riconduci-bile alla disattenzione umana, le nume-rosissime auto in circolazione sono com-prensibilmente dovute alla mancanza di forme di trasporto alternative: usare la

    propria automobile sembra essere l’uni-co modo per spostarsi e muoversi in città in presenza di un virus così pericoloso.Alcune città hanno fatto passi avanti im-plementando le piste ciclabili e miglio-rando il sistema dei trasporti pubblici, ma questi accorgimenti non sono suf-ficienti, e già si teme il ritorno alla vita pre-pandemia a settembre.Il tema della mobilità dolce è partico-larmente sentito nelle grandi metropoli, ed è proprio lì che deve essere ripreso: il post Covid-19 può diventare un impulso per abbandonare le vecchie abitudini e lasciare la macchina in garage, optan-do per biciclette, monopattini elettrici e mezzi pubblici.Questi ultimi devono essere potenziati, innanzitutto per mantenere il distanzia-mento, e per mantenere un eventuale cambio di rotta verso uno stile di mobili-tà più sostenibile.Si parla spesso di utilizzare la pandemia come un’opportunità di crescita, facendo tabula rasa e ripartendo consci degli er-rori del passato, ma ciò non è avvenuto finora: siamo tornati alle vecchie routine e abitudini dell’era pre-Covid e, nono-stante le buone intenzioni, nulla sembra destinato a cambiare.Occorre sfruttare la situazione per creare città più inclusive e sostenibili, e i cam-biamenti causati dal Coronavirus sono un buon punto di partenza.

    I politici hanno accolto le istanze emerse durante l'incontro proponendo l'apertura della mostra dei B.Liver nei palazzi della Regione

    I protagonisti degli eventi digitali We are B.Liver. La cronicità ai tempi del Covid-19.Nella prima fila, da sinistra a destra: Giusy Versace, Michela Di Biasi, Massimo Scaccabarozzi.Seconda fila: Emanuele Monti, Fabiola Bologna, Alessandro Stecco.Terza fila: Bill Niada, Martina de Marco, Edoardo Pini.

  • 16 Luglio - Agosto 2020Il Bullone 17Luglio - Agosto 2020 Il Bullone

    di Edoardo Grandi, B.Liver

    ❞Nella vita delle città vorrei che crescesse la coscienza delle nostre fragilità e l'attenzione alle solitudini

    Cambiare le cittàè una necessitàIl silenzio è terapia, fa beneall’equilibrio

    Eugenio Borgna, uno dei maggiori psichia-tri italiani, è lì. È come se ci stesse aspet-tando. Rende tutto facile, accessibile.Il cercarlo, il contattarlo, il parlarci.La semplicità del sapere fa anche sogge-zione. Ma il professor Borgna ascolta, ac-coglie, abbraccia.E il suo sì al Bullone, è un sì di uomo che ti fa stare bene. A prescindere.Rubando il titolo di un suo libro, possiamo dire che è un fiume della vita da percorrere con lui, da ascoltare i rumori, da immergersi. Un tuffo per convivere sere-namente con gli altri.

    Il lockdown per il coronavirus ha indubbia-mente imposto dei cambiamenti importanti nella vita delle persone. Come pensa che abbia influito, sotto il profilo psicologico ed emotivo?

    Eugenio Borgna, psichi