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AVV. GUIDO BARDELLI4 LUGLIO 2011

DEONTOLOGIA PROFESSIONALE NELL’AMBITO

DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

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PROFILI DEONTOLOGICI DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

SEZIONE I

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IL NUOVO PROCESSO AMMINISTRATIVO E IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

Tra i diversi principi di giusto processo che informano il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), quelli che assumono notevoli risvolti sul piano deontologico sono certamente il principio del contraddittorio e della parità processuale delle parti.

“Il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall'articolo 111, primo comma, della Costituzione” (art. 2, comma 1, c.p.a.).

Si consideri, in particolare, il nuovo regime della tutela cautelare, nelle diverse forme collegiale, monocratica interinale e monocratica ante causam, l’ampliamento dei mezzi di prova anche nella giurisdizione di legittimità e l’espresso richiamo al principio dell’onere della prova.

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GLI STRUMENTI DEL CONTRADDITTORIO: I TERMINI PROCESSUALI NELLA FASE

CAUTELARE

In una prospettiva di omogeneità della disciplina dei termini processuali (tanto nel rito ordinario che in quelli speciali), il codice ha avuto di mira un più pieno contraddittorio e di una migliore conoscenza della controversia da parte del Giudice (obiettivo cui sono finalizzati i nuovi termini per il deposito dei documenti e delle memorie e l’introduzione del diritto di replica):

Analoga finalità traspare dalle modalità per il relativo computo (come nel caso dei termini a “ritroso” dall’udienza o dalla camera di consiglio in scadenza in giorni festivi), e cercando per un verso di semplificare le modalità di deposito degli atti soggetti a notifica e delle decisioni impugnate e per l’altro di garantire l’effettiva disponibilità dei documenti depositati alle altre parti processuali.

Particolare attenzione è stata posta alla fase cautelare, laddove – a fronte dell’aggravio del termine per la produzione di documenti e memorie, anticipato a due giorni precedenti la Camera Consiglio – si è voluto, da un lato, tutelare la partecipazione più ampia possibile delle parti attraverso la produzione di atti e documenti, dall’altro, garantire comunque la conoscenza degli stessi a tutte le parti costituite.

Così, è prevista la facoltà del Collegio di autorizzare la presentazione tardiva di memorie o documenti quando la produzione degli stessi nel termine di legge risulti “estremamente difficile”, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti (art. 54, comma 1, c.p.a.).

Ancora, è ammessa la produzione di documenti in camera di consiglio “per gravi ed eccezionali ragioni”, specificando che occorre comunque consegnarne copia alla parti prima dell’inizio della discussione (art. 55, comma 8, c.p.a.).

Infine, anche nel corso dell’esame della domanda cautelare è data la facoltà al giudice di adottare, su istanza di parte, “i provvedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria e l’integrità del contraddittorio” (art. 55, comma 12, c.p.a.).

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IL CONTRADDITTORIO NEI PROCEDIMENTI CAUTELARI MONOCRATICI

Il codice, disciplinando i procedimenti di tutela cautelare monocratica nelle more della camera di consiglio e per quella ante causam, ha cercato di bilanciare le posizioni di parte ricorrente e parti resistenti e controinteressate introducendo disposizioni volte ad una più effettiva garanzia di contraddittorio.

Così è stato imposto alla parte ricorrente di dimostrare la ricevuta notifica e di depositare l’istanza di fissazione prodromica alla fissazione della camera di consiglio, come è stato consentito alle parti resistenti e controinteressate di poter essere sentite prima della decisione sull’istanza.

Inoltre resistenti e controinteressati hanno la possibilità di chiedere la revoca della misura eventualmente adottata.

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IL CONTRADDITTORIO NELLA FASE DEL MERITO

Con riferimento alla fase del merito, il codice ha innovato la disciplina relativa al deposito degli atti volti ad instaurare il contraddittorio fra le parti.

In particolare, a norma dell’art. 73, comma 1 del c.p.a.: “1. Le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche fino a venti giorni liberi.”

Nel progetto di decreto correttivo, attualmente in corso di elaborazione, si parla invece di “repliche ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell’udienza”.

Tale ultima precisazione, si legge nella relazione al correttivo, serve a far capire che le repliche sono possibili solo se è stata depositata, dalla controparte, una memoria o documenti in vista dell’udienza di merito, evitando così la produzione delle stesse in mancanza di contraddittorio rispetto alla controparte e quindi di evitare strumentalizzazioni.

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IL RUOLO DELL’AVVOCATO NELLA DIFESA PROCESSUALE IN UNA

PROSPETTIVA COSTITUZIONALE

SEZIONE II

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LA FUNZIONE COSTITUZIONALE SVOLTA DALL’AVVOCATO

Prima di affrontare i corollari deontologici delle disposizioni del codice del processo amministrativo, non è superfluo soffermarsi sul ruolo dell’avvocato nella difesa processuale in una prospettiva costituzionale ed europea.

Qualche utile indicazione viene dai due Preamboli al Codice deontologico italiano ed europeo.

Il primo afferma: “L'avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all'attuazione dell'ordinamento per i fini della giustizia. Nell'esercizio della sua funzione, l'avvocato vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell'Ordinamento comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l'inviolabilità della difesa; assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela di questi valori”.

Il Codice deontologico degli avvocati europei si apre con l’enunciazione della “missione dell’avvocato”: “In una società fondata sul rispetto della giustizia, l’avvocato interpreta un ruolo eminente.La sua missione non si limita alla esecuzione fedele di un mandato nell’ambito della legge. In uno Stato di diritto l’avvocato è indispensabile alla giustizia e a coloro di cui deve difendere i diritti e le libertà; egli è tanto il consulente quanto il difensore del proprio cliente.La sua missione gli impone una serie di doveri e obblighi, a volte in apparenza contraddittori, verso: il cliente; i tribunali e le altre autorità davanti alle quali l’avvocato assiste o rappresenta il cliente; la professione in generale e ciascun collega in particolare; la società, per la quale una professione liberale e indipendente, legata dal rispetto delle regole che essa stessa si è data, è un mezzo essenziale per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e degli altri poteri.

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(segue) LA FUNZIONE COSTITUZIONALE SVOLTA DALL’AVVOCATO

A partire da tali enunciazioni è possibile qualificare l’attività del professionista in termini di doppia fedeltà, verso l’ordinamento da una parte e verso il proprio assistito dall’altra.

Il C.N.F. ha da sempre qualificato la funzione dell’avvocato come di rango costituzionale. Tale impostazione discende sia dal fatto che nella Costituzione è sancito il diritto alla difesa agli artt. 24 e 111, sia dalla considerazione che senza l’avvocato non c’è attuazione dell’ordinamento, né spontanea né coattiva. Egli infatti è colui che, assistendo il proprio cliente, interpreta la legge al fine di suggerire i comportamenti applicativi nella vita ordinaria; e, nell’eventualità di un processo, senza l’avvocato non sarebbe possibile l’applicazione coattiva della legge.

Nel fare ciò l’avvocato deve evitare di “sposare” a tal punto le richieste dell’assistito fino a violare il dovere di agire nel rispetto degli interessi superiori dell’ordine costituzionale stabilito. Per stigmatizzare tale principio, il C.N.F. ha aggiunto all’art. 7, Cod. Deont. - che prescrive il dovere di fedeltà del legale verso il proprio assistito - un nuovo secondo canone: “L’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

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CONCLUSIONI

In sintesi, il dovere di fedeltà verso il cliente deve sempre essere pur sempre declinato all’interno dei limiti posti dalla natura stessa della professione forense.

Così, nelle parole della Cassazione, nel dare l’indispensabile contributo tecnico per la risoluzione della lite in favore del proprio cliente “l’avvocato deve elevarsi al di sopra delle parti”(Cass. Sez. Un., 19 gennaio 1991, n. 520).

“È dovere dell’avvocato tenere una condotta che manifesti, anche all’esterno, la propria piena indipendenza dal cliente, le cui affermazioni e i cui diritti debbono essere sostenuti con ogni impegno e vigore ma sempre nel rispetto dei ruoli”(C.N.F., 27 giugno 1997, n. 76).

Di modo che si può concludere affermando che, in ultima analisi, il primo dovere dell’avvocato, pur rispettoso del principio di doppia fedeltà, è quello della lealtà nei confronti dell’ordinamento costituzionale.

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APPLICAZIONE DEI PRINCIPI DEONTOLOGICI RISPETTO ALLE

NORME DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

SEZIONE III

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IL DOVERE DI COLLEGANZA E DI COLLABORAZIONE

Dal punto di vista deontologico, le predette novità processuali chiamano in causa il corretto esercizio del dovere di colleganza e di collaborazione (artt. 22 e 23 Cod. Deont.).

In breve, il principio di colleganza consiste nel “mantenere sempre nei confronti dei colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà” (art. 22 Cod. Deont.), che si esplica, in particolare nei confronti dei difensori delle altre parti, nella possibilità di collaborare, anche scambiando informazioni, atti e documenti, nei limiti in cui ciò non sia contrario all’interesse della parte assistita e alle disposizioni di legge (art. 23 Cod. Deont.).

Di recente il C.N.F. ha statuito: “Se è vero che l’avvocato deve porre ogni più rigoroso impegno nella difesa del proprio cliente, altrettanto vero è che tale difesa non può tuttavia mai travalicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della controparte e del suo legale, in ossequio ai doveri di lealtà e correttezza ed ai principi di colleganza” (C.N.F. 13 dicembre 2010, n. 203).

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(segue) IL DOVERE DI COLLEGANZA E DI COLLABORAZIONE

Nel contesto delle nuova disciplina della fase cautelare, il suddetto principio si declina, innanzitutto, nella necessità di depositare tempestivamente memorie e documenti affinché tutte le parti ne possano avere completa conoscenza prima della discussione in aula, non abusando dei rimedi che – seppur in via del tutto eccezionale – sono concessi per la produzione tardiva degli atti in giudizio.

In particolare, è bene ricordare che tale rimedio eccezionale deve comunque esercitarsi nel rispetto delle regole procedurali a tutela del contraddittorio – come si è visto, particolarmente rilevanti nel nuovo codice del processo amministrativo - dovendosi pertanto ritenere “censurabile il professionista che cerchi di ottenere un provvedimento favorevole al proprio assistito senza rispettare maniere, forme e strumenti della procedura comunicando notizie direttamente al magistrato su pretese nuove circostanze mai rese note in precedenza al collega avversario” (C.N.F. 19 aprile 1991, n. 28).

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NECESSITA’ DI ULTERIORI ATTI DIFENSIVI

Assume altresì rilevanza rispetto al tema del contraddittorio nel processo amministrativo, la possibilità di richiedere o meno rinvii anche qualora il Collegio abbia dichiarato la propria intenzione di decidere la controversia con sentenza in forma semplificata.

Ci si riferisce in particolare alla possibilità concessa alla parte di formulare motivi aggiunti al ricorso principale, ovvero di proporre ricorso incidentale, che non dovrebbe essere pretesto di rinvii ingiustificati dalla reale intenzione di proporre motivi aggiunti.

Analogamente la richiesta di rinvio dell’udienza di merito - a fronte della produzione di nuovi documenti prima non disponibili – per l’esigenza di formulare motivi aggiunti deve essere sorretta da reali esigenze difensive e non dilatorie.

Dal punto di vista deontologico la questione assume rilievo in particolare nei rapporti di fiducia (art. 35, Cod. Deont.) intercorrenti tra il professionista ed il proprio assistito nonché sull’attività dell’avvocato stesso, la quale deve essere necessariamente improntata ai doveri di lealtà e correttezza (art. 6, Cod. Deont.) nonché al dovere di diligenza (art. 8, Cod. Deont.).

Infatti, come di recente sostenuto dal C.N.F.: “le norme deontologiche, in considerazione del rilievo pubblicistico della professione forense, non costituiscono uno strumento di tutela privilegiata a favore dell’avvocato, ma sono essenzialmente dirette a garantire alla parte assistita anche la correttezza nella gestione del rapporto professionale” (C.N.F. 15 settembre 2010, n. 59).

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LE PRODUZIONI DOCUMENTALI

Il codice ha sposato il principio dell’onere della prova con maggior decisione rispetto alle regole processuali previgenti, pur mitigato dal metodo acquisitivo in relazione all’effettiva disponibilità dei mezzi di prova.

La produzione dei documenti – in relazione alle necessità di adeguamento delle domande (motivi aggiunti e ricorsi incidentali) – se non informata ai principi del contraddittorio può quindi incidere sullo svolgimento del giudizio con necessità di provvedimenti del giudice e rinvii delle udienze.

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IL PRINCIPIO DI CELERITA’ DEL PROCESSO ED IL COMPORTAMENTO DELLE PARTI

Il codice ha introdotto disposizioni dirette ad assicurare la celerità delle decisioni (vd. il rapporto tra fase cautelare e fase di merito, il regime di acquisizione e valutazione delle prove; i nuovi termini per la produzione di atti e documenti difensivi; i limiti all’obbligo di integrazione del contraddittorio e al rinvio al primo giudice), l’uso dilatorio degli strumenti di difesa processuale può quindi inficiare questo obiettivo che rappresenta un’espressione del principio costituzionale di tutela giudiziale.

Vedremo nel prosieguo come questi principi possano avere una rilevanza in caso di soccombenza.

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RIFLESSI DELLA CONDANNA “AGGRAVATA” ALLE SPESE LEGALI SUGLI OBBLIGHI DEONTOLOGICI

SEZIONE IV

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SPESE DI GIUDIZIO

A norma dell’art. 26 c.p.a.: “1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile.

2. Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell'altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”.

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LITE TEMERARIA

Il primo comma del citato art. 26 c.p.c. rinvia alle disposizioni del codice di procedura civile relative alla responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali.

In particolare l’art. 96 c.p.c prevede forme di responsabilità aggravata per il caso di comportamento temerario delle parti.

La l. n. 69/2009 introducendo il comma 3 all’articolo 96 stabilisce che in ogni caso il giudice può condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata.

Certamente tali disposizioni hanno l’obiettivo di regolamentare il comportamento delle parti nel processo e di sanzionarlo laddove esso risulti scorretto.

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa la condanna aggravata per il carattere temerario della lite va «ravvisato nell’ipotesi in cui una parte abbia agito o resistito in giudizio o colpa grave, dovendosi riconoscere siffatti stati psicologici quando la parte abbia agito o resistito nella coscienza dell’infondatezza della domanda o delle tesi difensive sostenute ovvero nel difetto dell’ordinaria diligenza nell’acquisizione di detta consapevolezza» (Cons. Stato, sez. VI, n. 4459/03; id. sez. V, n.1026/03).

Per contro «Si deve escludere, di regola, che la semplice proposizioni di tesi giuridiche, poi riconosciute errate o infondate in sede giudiziale, possa di per sé costituire fonte di responsabilità ex art.96 c.p.c., perché una simile impostazione verrebbe a porsi in contrasto con il diritto di agire in giudizio costituzionalmente garantito dall’art.24, 1° comma Cost.» (Cons. Stato, sez. V, n.1026/03).

In ogni caso la condanna aggravata presuppone la totale soccombenza: «La condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata , in aggiunta al pagamento delle spese del giudizio, prevista dagli artt. 26 c.p.a e 96 c.p.c. per l'ipotesi che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, postula la totale soccombenza della parte nei cui confronti sia stata proposta l'istanza risarcitoria, con la conseguenza che il suo accoglimento deve intendersi precluso qualora vi sia stata una soccombenza reciproca delle parti, trattandosi di circostanza di per sé idonea ad escludere la mala fede o la colpa grave nell'aver agito o resistito in giudizio.» (Consiglio Stato a. plen., 2 dicembre 2010, n. 3).

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LA CONDANNA “AGGRAVATA”

Il comma 2 dell’art. 26 del c.p.a. offre un ulteriore strumento sanzionatorio rispetto al comportamento delle parti, qualora la decisione risulti essere fondata su ragioni manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati.

In realtà la citata disposizione pone una serie di quesiti in ordine alla natura di tale norma: mentre la responsabilità per lite temeraria viene ricondotta a requisiti comportamentali e soggettivi delle parti (mala fede o colpa grave), la condanna “aggravata” di cui all’art. 26, comma 2, c.p.a. risulta essere correlata a presupposti di tipo oggettivo (ragioni manifeste/orientamenti giurisprudenziali consolidati).

Il tal senso la disposizione da ultimo richiamata pare assumere la veste di un vero e proprio strumento deflattivo del contenzioso, discostandosi in ciò dalla categoria delle spese di giudizio le quali invece si pongono l’obiettivo di sanzionare il comportamento scorretto delle parti nel processo.

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SENTENZA CONS. STATO ,n. 3083/2011

La Sez. V del Consiglio di Stato di recente si è espressa in merito alla natura della disposizione in argomento precisando che la previsione del pagamento della somma ex art. 26, comma 2, c.p.a.:

A- Non riguarda le spese di lite (quantificate con la condanna alle spese secondo la logica propria delle disposizioni sancite dagli artt. 91 e 92 c.p.c.)

B- Non riguarda la responsabilità per lite temeraria(tipizzata dai commi 1 e 2 dell’art. 96 c.p.c.)

C- Non riguarda la pretesa sostanziale (sulla quale statuisce il contenuto dispositivo della sentenza)

D- Non è configurabile come sanzione pubblica (il gettito non è dovuto all’erario – non sono indicati i limiti o i criteri oggettivi di liquidazione)

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(segue) SENTENZA n. 3083/2011

In merito alla natura giuridica della misura pecuniaria ex art. 26, c. 2 il Consiglio di Stato ha qualificato tale disposizione quale vero e proprio “indennizzo per il <<danno lecito da processo>>, cioè il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza”.

Tale interpretazione, a parere del Collegio, “oltre a non collidere con la ratio e la lettera della norma s’inserisce armonicamente nel sistema costruito dall’ordinamento nel suo complesso per rendere effettivo il principio di ragionevole durata del processo”.

Peraltro il richiamo «a orientamenti giurisprudenziali consolidati», suggerisce grande prudenza nell’applicazione della disposizione in parola, che non potrebbe porsi in contrasto con il diritto di agire in giudizio costituzionalmente garantito dall’art. 24,  primo comma, Cost.

In questa prospettiva, anche se riferita alla diversa ipotesi della lite temeraria, merita di essere qui richiamata la considerazione svolta dal Cons. Stato (sez. VI, n. 2054/09) secondo cui vanno rispettate le tesi difensive che – benché contraddette da precedenti giurisprudenziali – vengano rappresentate con ulteriori argomentazioni, o si riferiscano comunque ad un contesto normativo di non facile interpretazione.

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COROLLARI DEONTOLOGICI

L’aderenza alle previsioni processuali qualora, l’uso di strumenti leciti con effetti dilatori porti ad indebiti ritardi può essere rilevante sul piano deontologico.

Come osservato da Cass. civ., sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 4422, va escluso che «tra i doveri di un professionista sia compreso quello di "aggirare" le prescrizioni di legge, deviandole dallo scopo loro proprio».

D’altro canto, il Codice deontologico all’art. 36 (Autonomia del rapporto), prescrive che: «L’avvocato ha l’obbligo di difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei principi deontologici. L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità».

Nel contempo, all’art. 40 (Obbligo di informazione) il Codice deontologico avverte che: «L’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili.».

La potenziale applicazione dell’ipotesi di condanna aggravata diviene quindi un possibile elemento di considerazione da sottoporre alla parte assistita.

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LA CONDANNA “AGGRAVATA” NEL D.L. SVILUPPO

Il nuovo decreto legge n. 70 del 13 maggio 2011, apportando una serie di modifiche al codice dei contratti pubblici, si occupa tra l’altro di introdurre l’art. 246-bis il quale, nella sua ultima versione, attualmente all’esame del Senato, così dispone: “Nei giudizi in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, il giudice, fermo quanto previsto dall’articolo 26 del codice del processo amministrativo approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio quando la decisione è fondata su ragioni manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati”.

In disparte alla compatibilità di questa disposizione - che ha espressa natura sanzionatoria – con il già richiamato principio costituzionale di diritto alla difesa in riferimento agli articoli 24 e 111, primo e secondo comma, Cost., trattandosi di sanzione scollegata alla lesione di interessi delle parti processuali, per le quali sono previsti i diversi strumenti di tutela (risarcitoria) dell’art. 26 c.p.a.

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CONCLUSIONI

Certamente le disposizioni in tema di condanna aggravata non potranno non influenzare il comportamento delle parti (ed in primis di quella ricorrente) le quali avranno l’onere e la cura di sincerarsi in merito agli orientamenti giurisprudenziali relativi a medesime problematiche giuridiche.

Dal che discende la necessità di una maggiore attenzione al dovere di competenza (art. 12, Cod. Deont.) e di aggiornamento professionale (art. 13, Cod. Deont.) da parte del professionista.