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ETICA E CONOSCENZA NEL XIII E XIV SECOLO I RENE ZAVATTERO 6 DIPARTIMENTO DI STUDI STORICO-SOCIALI E FILOSOFICI Lavori in corso – Work in progress 6 ETICA E CONOSCENZA NEL XIII E XIV SECOLO a cura di Irene Zavattero UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DI AREZZO Volumi pubblicati: WALTER BERNARDI e DOMENICO MASSARO (a cura di), La cura degli altri. La filosofia come terapia dell’anima ALESSANDRO CATELANI e MARIANO BIANCA (a cura di), Aspetti e attualità del diritto naturale FERDINANDO ABBRI (a cura di), Metamorfosi della filosofia antica. Studi in onore di Paolo Gualtieri ALBERTO FORZONI, Innovazioni e trasformazioni economiche nell’aretino dopo l’Unità PAOLO PICCARI, Logiche dell’argomentazione IRENE ZAVATTERO è assegnista di ricerca e docente a contratto di Storia della filosofia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo, Università di Siena. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in “Discipline storico- filosofiche” all’Università di Lecce con una tesi dal titolo: Berthold von Moosburg. Expositio super Elementationem Theologicam Procli. Propositiones 66-107, pubblicata nel 2003 dalla casa editrice Meiner (Amburgo) nella serie Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi. Ha pubblicato vari saggi sull’etica medievale e si occupa in particolare dei primi commenti latini all’Ethica Nicomachea redatti dai ‘maestri delle arti’ nel XIII secolo.

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DIPARTIMENTO DI STUDI

STORICO-SOCIALI E FILOSOFICI

Lavori in corso – Work in progress 6

ETICA E CONOSCENZA

NEL XIII E XIV SECOLO

a cura di Irene Zavattero

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DI AREZZO

Volumi pubblicati:

WALTER BERNARDI e DOMENICO MASSARO (a cura di), La cura degli altri. La filosofia come terapia dell’anima

ALESSANDRO CATELANI e MARIANO BIANCA (a cura di), Aspetti e attualità del diritto naturale

FERDINANDO ABBRI (a cura di), Metamorfosi della filosofia antica. Studi in onore di Paolo Gualtieri

ALBERTO FORZONI, Innovazioni e trasformazioni economiche nell’aretino dopo l’Unità

PAOLO PICCARI, Logiche dell’argomentazione

IRENE ZAVATTERO è assegnista di ricerca e docente a contratto di Storia della filosofia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo, Università di Siena. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in “Discipline storico-filosofiche” all’Università di Lecce con una tesi dal titolo: Berthold von Moosburg. Expositio super Elementationem Theologicam Procli. Propositiones 66-107, pubblicata nel 2003 dalla casa editrice Meiner (Amburgo) nella serie Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi. Ha pubblicato vari saggi sull’etica medievale e si occupa in particolare dei primi commenti latini all’Ethica Nicomachea redatti dai ‘maestri delle arti’ nel XIII secolo.

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DIPARTIMENTO DI STUDI

STORICO-SOCIALI E FILOSOFICI

Lavori in corso - Work in Progress 6

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La Collana Lavori in corso – Work in progress pubblica alcuni risultati delle ricerche che vengono svolte dai membri del Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filo-sofici della Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo dell’Università di Siena.

Coordinatore: Francesco Solitario

Comitato di Redazione: Mariano Bianca, Maria Luisa Meoni, Renzo Sabbatini, Francesco Solitario. Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici Viale L. Cittadini 33, 52100 Arezzo Università degli Studi di Siena Tel. 0575.926310. Fax 0575.926312 Sito web: http://www.unisi.it/ricerca/dip/dsssf/ssf_ndx.htm E-mail: [email protected] Il volume è stato pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici dell’Università di Siena

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ETICA E CONOSCENZA

NEL XIII E XIV SECOLO

a cura di

Irene Zavattero

AREZZO 2006

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INDICE Premessa di Irene Zavattero.............................................................................. p. 7

Introduzione: ISTVÁN P. BEJCZY

Ethique et connaissance au moyen âge: la vertu entre intellectualisme et volontarisme........................................... p. 9

IRENE ZAVATTERO Il ruolo conoscitivo delle virtù intellettuali nei primi commenti del XIII secolo all’Ethica Nicomachea .................. p. 15

PAOLA BERNARDINI La dottrina dell’anima separata nella prima metà del XIII secolo e i suoi influssi sulla teoria della conoscenza (1240-60 ca.) .................... p. 27

EMANUELE COCCIA Il Bene e le sue aporie in un trattato anonimo della fine del XIII secolo .................................... p. 39

PAOLO FALZONE L’Ethica Nicomachea e i ‘prevolantes’ di Monarchia III, iii, 4 ............. p. 53

LEONARDO CAPPELLETTI Il problema dell’intelletto agente in Matteo da Gubbio: una proposta di lettura ............................................................................. p. 65

Conclusioni: MICHELA PEREIRA

Il fiore nel seme ....................................................................................... p. 75

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PREMESSA In un capitolo fondamentale dell’Ethica Nicomachea (I,13), Aristotele afferma che è compito del ‘politico’, ovvero di ciascuno di noi in quanto individui inseriti in un contesto sociale, occuparsi dell’anima perché la “felicità è attività dell’anima” e ciascuno di noi desidera essere felice. Etica e psicologia si interse-cano nella ricerca dell’eudaimonia: l’anima è la protagonista dell’azione intellet-tiva, condotta secondo la virtù migliore, che porta al conseguimento del bene sommo per l’uomo, cioè alla felicità. Secondo Aristotele è dunque la conoscenza intellettiva degli oggetti più sublimi a produrre la felicità. Dagli studi sul paradigma aristotelico della felicità e sulla sua ricezione me-dievale è nata l’idea di discutere con alcuni amici e colleghi le intersezioni di eti-ca e conoscenza nella giornata di studio tenutasi il 1 dicembre 2005 ad Arezzo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. I risultati del nostro incontro sono raccol-ti in questo volumetto il cui titolo ripropone il tema di quella giornata di studio. I saggi qui pubblicati prendono in esame testi redatti nei decenni successivi al ‘ritorno’ del corpus aristotelico nell’Occidente latino e in particolare la ricezione dell’Ethica Nicomachea e del De Anima. Ciò significa analizzare, in ambito etico e conoscitivo, non solo l’assimilazione del pensiero aristotelico, ma il confronto tra quest’ultimo e quello neoplatonico-agostiniano già consolidato e mostrare come i medievali si districhino fra tradizioni di pensiero diverse amalgamandole o raffrontandole senza spaccature o iati insuperabili, bensì in un continuo e pro-ficuo dialogo. Questo opuscolo rappresenta la fase iniziale – un work in progress, come di-chiara la collana che lo ospita – di un dibattito troppo ampio per essere esaurito in poche pagine ma che potrà introdurre nuovi elementi di discussione su temati-che spesso affrontate separatamente e su testi per la maggior parte inediti che co-stituiscono, tuttavia, dei tasselli indispensabili di quel variopinto mosaico che è la cultura medievale. Desidero esprimere la mia gratitudine per aver stimolato e sostenuto la realiz-zazione della giornata di studio al Direttore del Dipartimento di Studi storico-sociali e filosofici, professor Mariano Bianca, e al Preside della Facoltà di Lette-re e Filosofia di Arezzo, professor Camillo Brezzi. Un ringraziamento particolare va ai professori Michela Pereira, Ferdinando Abbri e Loris Sturlese per i preziosi e amichevoli consigli, nonché all’amica e collega Paola Bernardini per aver atti-vamente contribuito, attraverso un proficuo scambio di idee e suggerimenti, alla progettazione della giornata di studio. Rivolgo infine un vivo ringraziamento ai membri del Comitato di redazione della collana Lavori in corso - Work in progress per aver accolto la pubblicazione di questo fascicolo.

Irene Zavattero

Arezzo, settembre 2006

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INTRODUZIONE

ETHIQUE ET CONNAISSANCE AU MOYEN AGE: LA VERTU ENTRE INTELLECTUALISME ET VOLONTARISME *

István P. Bejczy

Comment faire justice au double thème de cette collection d’articles? Quel est le point commun entre éthique et connaissance, entre les règles pratiques de la vie active et les règles théoriques de la vie intellectuelle? Ne s’agit-il pas de deux sujets fondamentalement différents – moralité et bonté d’une part, cognition et vérité de l’autre – qu’il vaudrait mieux traiter séparément? En nous posant ces questions, c’est le moyen âge qui parle en nous. Après tout, le lien entre l’éthique et la connaissance allait de soi pour la plupart des phi-losophes de l’antiquité. Dans la conception aristotélicienne notamment, on ne peut pratiquer le bien sans le connaître; et, qui plus est, on ne peut connaître le bien sans le pratiquer, sauf en cas de dérangement mental. Il n’en est pourtant pas ainsi pour tous les penseurs du moyen âge. Selon eux, il faut évidemment connaître le bien pour pouvoir l’appliquer; ainsi, la vertu morale ne peut exister sans la vertu intellectuelle. Par contre, pour de nombreux auteurs des XIIIe et XIVe siècles, la vertu intellectuelle peut très bien exister sans la vertu morale, puisque la connaissance du bien au niveau intellectuel ne garantit nullement l’application du bien au niveau pratique.1 C’est donc le moyen âge qui a dissolu quelque peu les liens entre l’éthique et la connaissance. Explorons l’expérience médiévale de plus près. Pourquoi les penseurs du moyen âge ont-ils souvent opté pour l’idée que la connaissance du bien n’implique pas forcément la pratique du bien? Je crois que la réponse à cette question doit être simple: ces penseurs étaient des chrétiens, au moins en ce qui concerne leur pensée morale, et peut-être même sans toujours se rendre compte du caractère religieux de leurs réflexes. Or, pour le christianisme, les origines de la conscience morale remontent au Paradis, au moment de la chute. Immédiate-ment après sa création, l’homme n’avait pas la connaissance du bien et du mal, donc pas de conscience morale; c’est en transgressant l’interdiction divine de manger de l’arbre de la connaissance que l’homme a obtenu cette conscience et qu’il est devenu un être moral responsable de ses actions. L’histoire morale de l’humanité débute donc avec la double naissance de la connaissance du bien et la

* Cet article provient du projet de recherche A Genealogy of Morals: The Cardinal Virtues in the Middle Ages, dirigé par l’auteur et subventionné par l’Organisation Néerlandaise de Recherche Sci-entifique (N.W.O.) ainsi que par la Radboud Universiteit Nijmegen, Pays Bas. 1 Cfr. notamment Bonnie Kent, Virtues of the Will: The Transformation of Ethics in the Late Thir-teenth Century, Catholic University of America Press, Washington 1995.

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pratique du mal, tout contrairement à l’idée aristotélicienne que la connaissance du bien va de pair avec la pratique du bien. Le récit ambigu de la chute revêt une importance primordiale dans la conception chrétienne du moyen âge pour com-prendre l’homme et ses difficultés à vivre une vie morale. Pour expliquer l’écart entre la connaissance du bien et son application prati-que, le moyen âge a eu recours à la conception de la volonté. Là où Aristote s’imaginait que la vie morale suit à peu près automatiquement les préceptes de la raison, la pensée chrétienne, lourdement imprégnée de Saint Augustin, situe la volonté entre la raison et la pratique. La volonté est libre d’accepter ou de rejeter les préceptes de la raison, et donc d’appliquer l’idée du bien ou de s’y opposer. C’est ainsi que la volonté, dans la conception occidentale, est devenue le siège propre de la moralité, au point même que l’intention subjective de l’homme compte souvent plus dans le jugement moral que la bonté objective de ses actes. En effet, la triple division platonique de l’âme en raison, désir et passion sera remplacée au moyen âge par une quadruple division en raison, volonté, appétit irascible et appétit concupiscent; à ces quatre facultés de l’âme correspondent, selon Thomas d’Aquin, les quatre vertus cardinales sur le plan moral. Tous les penseurs médiévaux n’ont pas suivi cette doctrine de Saint Thomas; pour cer-tains, tel Jean Duns Scot, toutes les vertus morales se trouvaient dans la volonté, tandis que pour d’autres elles se situaient dans les appétits, tout comme Aristote l’avait enseigné.2 Mais malgré les avis partagés, tous les penseurs du XIIIe et XIVe siècles ont reconnu la volonté et l’intention subjective comme l’élément central de la vertu. Ceci est vrai pour les théologiens, dont plusieurs ont cité la phrase virtus est bona voluntas faussement attribuée à Saint Augustin,3 mais aus-si pour les philosophes, y compris les commentateurs de l’Ethique à Nicomaque. De fait, l’Ethica vetus contient les phrases virtus est habitus voluntarius et virtu-tes autem [sunt] voluntates quedam, vel non sine voluntate.4 Robert Grosseteste a eu beau remplacer ces phrases avec virtus est habitus electivus et virtutes au-tem [sunt] elecciones quedam, aut non sine eleccione,5 les commentateurs qui utilisaient sa traduction ont continué à employer ces phrases pour établir un lien entre la vertu et la volonté ou l’intention. Le commentaire attribué à Raoul le Breton († 1320), par exemple, constate à propos de ces passages: “omnis uirtus est habitus electiuus, modo electio ad uoluntatem pertinet, ideo omnis uirtus est

2 Cfr. Thomas Graf, De subiecto psychico virtutum cardinalium secundum doctrinam scholasticorum usque ad medium saeculum XIV, 2 voll., Herder, Rome 1935. 3 Probablement pour la première fois dans Philippus Chancellarius, Summa de bono, ed. N. Wicki, Francke, Berne 1985, pp. 525, 533; repris, entre autres, par Bonaventura de Balneoregio, Commen-taria in libros Sententiarum II.27 dub. 3, in Opera omnia, ed. Collegium S. Bonaventurae, 10 voll., Collegium S. Bonaventurae, Quaracchi 1882-1902, II, p. 672; Giovanni Marchesini (fl. ca. 1300) (?), Centiloquium III.36, in Bonaventura de Balneoregio, Opera omnia, ed. A.Ch. Peltier, 15 voll., Vivès, Paris 1864-71, VII, p. 405. 4 Ethica vetus II.6 (1106b), transl. Burgundio de Pisa, ed. René A. Gauthier, Aristoteles Latinus XXVI.1.3.2, Brill-Desclée de Brouwer, Leiden-Bruxelles 1972, p. 14; II.4 (1106a), p. 12. 5 Ethica nicomachea transl. Grossetesti [recensio pura] II.6 (1106b), ed. René A. Gauthier, Aristote-les Latinus XXVI.1.3.3, Brill-Desclée de Brouwer, Leiden-Bruxelles 1972, p. 171; II.4 (1106a), p. 169.

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habitus uoluntarius”;6 Gérard d’Odon († 1349) a commenté au même endroit: “in electione includitur appetitus finis qui est intentio”.7 Face à l’intellectualisme de l’éthique ancienne, le moyen âge a donc tenu à un volontarisme parfois modéré, parfois radical, mais toujours présent. C’est d’ailleurs au plus grand fils d’Arezzo, François Pétrarque, que l’on doit l’une des plus sévères attaques du moyen âge contre l’intellectualisme aristotélicien au nom du volontarisme chré-tien. Selon Pétrarque, Aristote avait manqué le but qu’il s’était posé au début de l’Ethique à Nicomaque, c’est-à-dire, de perfectionner ses lecteurs par ses théo-ries. Sur le plan intellectuel, Pétrarque avait beaucoup appris de l’analyse de la vertu présentée par le Stagirite, et pourtant cette analyse n’avait touché ni son âme, ni sa volonté. Savoir et comprendre est une chose, aimer et vouloir en est une autre, déclare Pétrarque; l’objet de l’intellect réside dans le vrai tandis que l’objet de la volonté est le bien, et mieux vaut vouloir le bien que comprendre la vérité, car seul notre amour des vertus nous conduit au royaume céleste.8 Dans cette logique, il n’est même pas nécessaire de comprendre le bien, pourvu qu’on l’aime. La vie intellectuelle et la vie morale se jouent selon Pétrarque sur deux plans bien distincts, et on peut facilement s’imaginer que le double thème de cette collection d’articles lui aurait posé problème. Le fait que la volonté occupe une place centrale dans l’éthique médiévale est notoire, et plusieurs générations de chercheurs ont déjà étudié le débat scolasti-que sur le statut de la vertu morale entre l’intellectualisme et le volontarisme. J’aimerais introduire ici deux autres caractéristiques de l’éthique médiévale, moins évidentes peut-être et certainement moins reconnues, mais intimement liées, à mon avis, à son volontarisme incontestable. Ces deux caractéristiques sont l’égalitarisme et l’individualisme. Pour comprendre l’égalitarisme de l’éthique médiévale, une comparaison avec Aristote s’impose. Parmi les dix ou onze vertus morales qui figurent dans l’Ethique à Nicomaque se trouvent la magnificence et la magnanimité. La magni-ficence consiste à dépenser de grandes sommes d’argent pour le bien public. Se-lon Aristote, les pauvres ne peuvent jamais agir selon cette vertu et ils se rendent ridicules en faisant semblant;9 par conséquent, il leur manque l’une des vertus morales. La magnificence ne peut se développer que parmi l’élite sociale. La même chose est vraie pour la magnanimité, définie comme l’aspiration à la gran-deur et à la reconnaissance publique de ceux qui possèdent des qualités excep-tionnelles. Ceux qui ne possèdent pas de qualités exceptionnelles ne peuvent ja-mais acquérir cette vertu. De nouveau, c’est surtout dans l’élite sociale que l’on trouve la magnanimité, car la naissance, le pouvoir et la richesse destinent cer-

6 Radulphus Brito, Questiones in Ethicam VI q. 138, MS Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 832, f. 34vb. Je dois la transcription à Iacopo Costa, qui prépare une édition critique de ce texte. 7 Geraldus Odonis, Sententia super libros Ethicorum II q. 20, Simon de Luere, Venise 1500, f. 34rb. 8 Franciscus Petrarca, De sua ignorantia IV, in Invectives, ed. trans. D. Marsh, Harvard University Press, Cambridge MA 2003, pp. 314, 318. 9 Aristoteles, Ethica nicomachea, transl. Grossetesti [recensio pura] IV.5 (1122b), cit. p. 210: “Prop-ter quod inops quidem, non erit magnificus [...] Temptans autem, insipiens”.

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tains à devenir magnanimes, comme le précise Aristote.10 Il semble évident qu’Aristote s’adresse surtout à la couche supérieure de la société athénienne; le but principal de son éthique, c’est d’instruire les aristocrates à une conduite émi-nente et digne dans la sphère publique. Les gens ordinaires et les femmes, qui n’ont pas les moyens de s’affirmer socialement, sont forcément privés de quel-ques vertus morales et peut-être de toutes, vu qu’Aristote souscrit à la thèse de la connexion des vertus. Même si Aristote rejette l’idée que les vertus sont innées, seuls les aristocrates de naissance ont la possibilité de les développer. A cet éli-tisme aristotélicien s’oppose l’égalitarisme de l’éthique médiévale. Tant que la vertu est définie religieusement, tous les croyants sont censés capables de rece-voir toutes les vertus, puisque les gens ordinaires et les femmes ont les mêmes moyens de plaire à Dieu que les hommes de pouvoir. Cet aspect égalitaire d’inspiration chrétienne évidente s’enracine tellement dans la moralité du moyen âge qu’il agit même sur la théorie de la vertu non-religieuse: dans l’opinion des scolastiques, toute l’humanité a accès aux vertus naturelles, tant les hommes que les femmes, tant les riches que les pauvres, tant les chrétiens que les autres. Même de nombreux commentateurs de l’Ethique à Nicomaque affirment, contrairement à Aristote, que les pauvres sont bel et bien capables d’acquérir la magnificence et la magnanimité. Pour défendre leur position, ces commentateurs font appel au caractère volontaire de la vertu. Selon eux, c’est la volonté de bien agir qui est décisif pour l’acquisition de la vertu; même dans l’absence de moyens, l’être humain peut développer la vertu par sa bonne intention seule.11 Egalitarisme et volontarisme s’impliquent donc dans la moralité du moyen âge. Pour éclairer la deuxième caractéristique de l’éthique médiévale que nous venons d’introduire, l’individualisme, commençons de nouveau par Aristote. Je crois que l’éthique d’Aristote est non seulement élitiste, mais aussi collectiviste dans le sens où la valeur morale de l’action humaine est mesurée selon son utilité publique. Faire quelque chose qui apporte du bien à de nombreuses personnes est préférable, selon ce point de vue, à faire quelque chose qui n’apporte du bien qu’à soi-même. Les vertus s’appliquent tout d’abord à la vie publique: à l’action politique (telle la justice), à l’action sociale (telle la magnificence), à la guerre (tel le courage), etcetera. Dans la moralité religieuse du moyen âge, par contre, la vertu sert avant tout à la rédemption de l’âme individuelle. Le motif principal pour la suppression des vices et le développement des vertus est la perspective de la béatitude, résultat du jugement individuel de chaque croyant par Dieu. La va-leur morale de l’action humaine est donc mesurée selon son utilité individuelle: il

10 Ibid., IV.8 (1124a), p. 213. 11 Cfr. par ex. Thomas Aquinas, Sententia libri Ethicorum I.5, in Opera omnia, S. C. de Propaganda Fide, Rome 1865-, XLVII, p. 20 (repris par Albertus de Saxonia, cfr. G. Heidingsfelder, Albert von Sachsen: Sein Lebensgang und sein Kommentar zur Nikomachischen Ethik der Aristoteles, Aschen-dorff, Münster 1927, p. 97); Iohannes de Tytynsdale, Questiones in Ethicam IV, qq. 11 et 16, MS Durham, Cathedral Library C.IV.20, ff. 248ra (magnificence), 249vb-250ra (magnanimité); R.A. Gauthier, Trois commentaires averroïstes sur l’Ethique à Nicomaque, in “Archives d’histoire doctri-nales et littéraires du Moyen Âge” XXII-XXIII (1947-48), p. 299 (Radulphus Brito, Aegidius Aurelianensis, Iacobus de Duaco).

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ne s’agit pas de faire du bien aux autres, mais de se sauver soi-même, d’assurer son propre salut. Cet aspect individualiste de la moralité, produit évident du christianisme, se maintient également au moyen âge dans un contexte non-religieux. Le moyen âge a bien reconnu les vertus politiques qui servent à tous,12 mais il a toujours considéré celles-ci inférieures aux vertus contemplatives qui ne servent qu’à ceux qui les possèdent. Le volontarisme de l’éthique médiévale fa-vorise le maintien de cet individualisme: après tout, la volonté de faire le bien provient de la conscience individuelle, et la bonne intention est moralement va-lable même dans l’absence de bonnes actions qui profitent aux autres. Pour terminer, résumons que l’éthique du moyen âge fait prévaloir la volonté à l’intellect, l’intention à l’acte, l’égalité à l’élitisme et l’individu à la collectivi-té. Ces préférences, qui s’opposent toutes à l’éthique d’Aristote, sont de caractère profondément chrétien; établies dans la conscience morale depuis l’époque des pères de l’église, elles se maintiennent aux XIIIe et XIV siècles, quand l’éthique d’Aristote domine le débat scolastique sur la vertu. Ceci ne veut pas dire que l’éthique du bas moyen âge se caractérise par une synthèse gilsonienne entre la foi et la raison, ni même par une adaptation chrétienne d’Aristote. Le volonta-risme, l’égalitarisme et l’individualisme médiévaux atteignent les racines de la pensée aristotélienne. Plutôt que d’une adaptation d’Aristote, il faut parler d’une subversion évangélique de son système.

12 Cfr. I.P. Bejczy, The Concept of Political Virtue in the Thirteenth Century, in Princely Virtues in the Middle Ages, ed. I.P. Bejczy and C.J. Nederman, Brepols, Turnhout (à paraître).

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IL RUOLO CONOSCITIVO DELLE VIRTÙ INTELLETTUALI NEI PRIMI COMMENTI DEL XIII SECOLO ALL’ETHICA NICOMACHEA

Irene Zavattero

“Animum debes mutare, non caelum”

(Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, III 28) La caratteristica principale dei commenti all’Ethica Nicomachea (EN) della pri-ma metà del XIII secolo1 è quella di esporre soltanto la dottrina dei primi tre libri del testo aristotelico, vale a dire l’ethica nova (libro I) e l’ethica vetus (libri II e III), redatte entrambe da Burgundio da Pisa prima del 1150.2 I primi commenta-tori, attivi negli anni 1220-1245, non conobbero, quindi, la traduzione completa dell’EN conclusa da Roberto Grossatesta nel 1246-473 e la loro conoscenza si limitò alle linee più generali del pensiero etico di Aristotele riguardanti il fine e il bene per l’uomo, vale a dire la felicità, le modalità del suo conseguimento attra-verso le virtù e la volontarietà dell’azione. Tale limitazione contribuì al frainten-dimento della dottrina aristotelica operato dai primi commentatori di cui andiamo ad analizzare alcuni aspetti dottrinali. I maestri della Facoltà delle Arti di Parigi furono i primi fruitori di questo moncone di testo sul quale cominciarono, intorno al 1215, a tenere lezioni nei giorni festivi.4 Essi interpretarono la dottrina di Aristotele partendo da concezio-ni etiche a lui del tutto eterogenee arrivando, talvolta, addirittura a stravolgerne il pensiero.5 È il caso ad esempio del concetto di felicità che, lungi dall’essere la somma realizzazione intellettuale dell’essere umano, viene descritto come una realtà esistente in se stessa e identificato con Dio, al quale l’uomo non può che unirsi. Questa e altre teorie cui si accennerà nelle prossime pagine dimostrano che, nella prima fase della ricezione del pensiero aristotelico, l’universo concet-

1 Per uno studio introduttivo su questi primi commenti si veda G. Wieland, Ethica - scientia practica. Die Anfänge der philosophischen Ethik im 13. Jahrhundert, Aschendorff, Münster 1981 (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters 21). 2 Cfr. F. Bossier, L'élaboration du vocabulaire philosophique chez Burgundio de Pise, in Aux origi-nes du lexique philosophique européen. L’influence de la «Latinitas». Actes du Colloque internatio-nal organisé à Rome par la F.I.D.E.M. (Academia Belgica, 23-25 mai 1996), ed. J. Hamesse, Lou-vain-la-Neuve 1997, pp. 81-116. 3 Le versioni latine dell’EN sono edite, a cura di R.A. Gauthier, in Aristoteles Latinus, XXVI, 1-3, Brill-Desclée de Brouwer, Leiden-Bruxelles 1972. 4 Cfr. lo statuto del 1215 nel Chartularium Universitatis Parisiensis, éd. par H. Denifle et É. Châte-lain, Delalain, Paris 1889-1894, t. I, p. 78, n° 20: “Non legant in festivis diebus nisi philosophos et rhetoricas, et quadruvialia, et barbarismus, et ethicam, si placet, et quartum topichorum”; Cl. Lafleur, Transformations et permanences dans le programme des études à la Faculté des arts de l’Université de Paris au XIIIe siècle. Le témoignage des «introductions à la philosophie» et des «guides de l’étudiant», in “Laval théologique et philosophique” LIV,2 (1998), pp. 387-410. 5 Cfr. la presentazione de “La ricezione dell’Etica Nicomachea” di R. Lambertini, Felicità, virtù e “ragione pratica”: aspetti della discussione sull’etica, in La filosofia nelle università. Secoli XIII-XIV, a cura di L. Bianchi, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 305-343, in part. pp. 307-309.

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tuale della riflessione etica agostiniana possiede ancora una forza sufficiente a influenzare l’ermeneutica del testo di Aristotele. Dopo un breve cenno alla dottrina della ‘felicità sussistente’ che, come si può intuire, condiziona lo svolgimento della dottrina delle virtù, mi propongo in que-sto studio di delineare il ruolo esercitato dalle virtù intellettuali nella conoscenza del Sommo Bene e di indagare i caratteri di questa conoscenza. La mia indagine si basa soprattutto sul Commento di Parigi, alla cui edizione critica sto lavorando relativamente alla parte ancora inedita sull’ethica vetus;6 la parte di commento sull’ethica noua è stata pubblicata da R.A. Gauthier nel 1975.7 Fornirò, inoltre, alcuni riferimenti anche al Commento detto Pseudo-Peckham8 e ad altri testi, redatti nello stesso periodo di tempo, come la Guida dello studente9 e la Divisio scientiarum di Arnolfo di Provenza10 che non sono esposizioni del testo aristotelico bensì testi ‘didascalici’, come li definisce Clau-de Lafleur11, concernenti, cioè, le materie da studiare nel curriculum delle Arti e quindi espressione dell’insegnamento universitario parigino. Contrariamente ad Aristotele che nell’EN non vuole dimostrare l’esistenza di un primo Bene, bensì cercare la finalità e il bene dell’azione umana, senza per forza demandare questo bene a un Bene trascendente, i maestri delle Arti della prima metà del XIII secolo, ritengono che il bene sommo sia il Primum, il Principio Primo da cui provengono tutti gli enti, vale a dire il Dio della dottrina cristiana, descritto però ‘filosoficamente’ con gli stessi attributi del Primum neoplatonico. Partendo dall’assunto aristotelico che “tutti desiderano il sommo bene”, i maestri 6 Il commento è tramandato dai mss. Paris (B.N.) lat. 3804A (ff. 152ra-159vb, ff. 241ra-247vb) e Paris (B.N.) lat. 3572 (ff. 226ra-235ra). Possediamo il commento dell’intero II libro dell’EN, mentre l’esposizione del III libro si interrompe a EN 1113a12. Le citazioni nel testo sono frutto di una prima trascrizione confrontata, quando possibile, con quella proposta, per alcuni escerti di particolare inte-resse, da O. Lottin, Psychologie et morale à la Faculté des arts de Paris aux approches de 1250, in Id., Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, J. Duculot, Louvain-Gembloux 1942, I, pp. 505-534. Per le citazioni userò la formula “Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A” seguita dall’indicazione del numero del foglio. 7 Cfr. R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova d’un maitre ès arts à Paris (1235-1240), in “Archi-ves d’histoire doctrinales et littéraires du Moyen Âge” XLII (1975), pp. 94-141. Anche questa parte di commento è frammentaria e riguarda soltanto EN I, 3-6 (1095a3-1097a14). 8 All’edizione critica dello Pseudo-Peckham sta lavorando Valeria Buffon (Università Laval, Qué-bec) che ringrazio per avermi messo a disposizione la sua trascrizione, dalla quale traggo tutte le cita-zioni che indico con la dicitura: “Anonimi Magistri Artium Commentarium super Ethica nova et ve-tus” seguita dall’indicazione della lectio e della quaestio da cui sono estrapolate. 9 Per l’edizione provvisoria del testo cfr. Cl. Lafleur, avec la collaboration de Jeanne Carrier, Le «Guide de l’étudiant» d’un maître anonyme de la Faculté des arts de Paris au XIIIe siècle. Édition critique provisoire du ms. Barcelona, Arxiu de la Corona d’Aragó, Ripoll 109, fol. 134ra-158va, Faculté de philosophie, Québec 1992. 10 Arnulfus Provincialis, Divisio Scientiarum, in Cl. Lafleur, Quatre introductions à la philosophie au XIIIe siècle. Textes critiques et étude historique, Institut d’Études Médiévales-Vrin, Montréal-Paris 1988, pp. 295-355. 11 Per un quadro riassuntivo dei testi didascalici e della bibliografia sull’argomento cfr. Cl. Lafleur, avec la collaboration de J. Carrier, L’enseignement philosophique à la Faculté des Arts de l’Université de Paris en la première moitié du XIIIe siècle dans le miroir des textes didascaliques, in “Laval théologique et philosophique” LX,3 (2004), pp. 409-448.

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indagano la natura del Bene in sé, la sua suddivisione in bene creato e increato, l’azione produttiva con cui la Prima Causa o il Primo Principio effonde se stesso su tutte le creature e permane in tutti i suoi effetti.12 Ogni ente possiede un appe-titus del Sommo Bene e tende ad esso come al fine ultimo da perseguire per rag-giungere la felicità. I maestri delle Arti concludono, quindi, che il Primum è la felicità.13 L’identificazione della felicità con il Primum allontana dall’uomo la possibi-lità di essere felice e cambia radicalmente la modalità di conseguimento della felicità. Il bene vivere et bene agere aristotelici non sono sufficienti, e i maestri delle Arti, assumendo una posizione diametralmente opposta a quella di Aristote-le, ritengono necessaria un’unione con il Primo. Più precisamente, è la felicità a unirsi a noi perché essa è un attributo del Primum e quindi ne condivide anche il carattere di inaccessibilità.14 All’uomo, tuttavia, è affidato un compito nel processo di unione a questa fe-licità perfetta: egli può cognoscere e diligere il Primo Principio. Conoscere e amare sono le azioni precipue delle persone felici,15 sono azioni concomitanti con la felicità.16 L’uomo conosce e ama il Primo Principio mediante la virtù intellettuale che “è rivolta verso gli esseri superiori, perché tale virtù risiede nella contemplazione e nell’amore del Primo”.17 La virtù intellettuale è quella “virtù, con cui si rag-giunge la vita contemplativa, è il mezzo attraverso cui la Felicità si unisce a noi”, dice il Commento di Parigi;18 essa “consiste nella conoscenza e nell’amore del

12 I primi commenti all’EN utilizzano la dottrina neoplatonica dell’influxio contenuta nel Liber de causis e quella agostiniana dei vestigia o immagini del divino presenti nelle creature, espressa nel De Trinitate, come si vede chiaramente in questo passo del Commento di Parigi (R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., pp. 106-107) “summum bonum partitur in partes quantum ad suam boni-tatem, id est influit bonitatem suam in omnibus, et in quibusdam rebus est imago aud uestigium sue sufficiencie, in quibusdam autem aliis rebus est imago siue uestigium sue sapiencie, in quibus-dam autem delectationis, et sic de aliis; illud enim quod est in primo non potest esse in aliis rebus nisi si-cut imago est uestigium”. Il corsivo è mio. 13 Su questa problematica si veda A. J. Celano, The Understanding of the Concept of felicitas in the pre-1250 Commentaries on the Ethica Nicomachea, in “Medioevo” XII (1986), pp. 29-53; V. Buffon, Philosophers and Theologians on Happiness. An Analysis of Early Latin Commentaries on the Ni-comachean Ethics, in “Laval théologique et philosophique” LX,3 (2004), pp. 449-476; I. Zavattero, Felicità e principio primo. Teologia e filosofia nei primi commenti latini all'Ethica Nicomachea, in “Rivista di storia della filosofia” LXI,1 (2006), pp. 109-136. 14 R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 99,14-15: “[…] de felicitate, que unitur nobis per operationes multas”; p. 115,17-18: “uirtus secundum quam attenditur uita contemplatiua est medium quo nobis unitur felicitas”. 15 Ivi, p. 107: “Iterum, felices operantur, scilicet in aspiciendo primum et cognoscendo; unde cogno-scere primum et diligere sunt opera alicuius cum habet felicitatem”. 16 Anonimi Magistri Artium Commentarium super Ethica nova et vetus, Lect. XI, q. 3: “[…] actus concomitantes felicitatem ut cognoscere uel diligere bene possunt esse in parte cognoscitiua uel in parte motiua sed beatitudo est totius anime et ipsius secundum se”. 17 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, f. 153vb: “Virtus intellectualis attenditur in comparatione ad superiora, quia huiusmodi virtus est in contemplatione Primi et dilec-tione eiusdem”. 18 Cfr. n. 14.

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Sommo Bene in se stesso”, si legge nello Ps.-Peckham;19 essa agisce contem-plando e indagando le cose divine e ci spinge ad amare il Primo sopra tutte le al-tre cose, sostiene la Guida dello Studente.20 Queste definizioni mostrano chiaramente che cognitio e dilectio sono le ca-ratteristiche precipue della virtù intellettuale e che questa gioca un ruolo fonda-mentale nel conseguimento della felicità. Un ruolo che traspare con evidenza dal-la descrizione che il Commento di Parigi fornisce della vita contemplativa. Un tipo di vita, come vedremo fra poco, in cui agiscono congiuntamente le migliori capacità conoscitive e le migliori disposizioni morali dell’uomo, l’unica vita in cui la cognitio e la dilectio del Primo possono avere luogo e in cui può risiedere la felicità, seppure limitatamente al parere dei filosofi. Prima di analizzare le caratteristiche della vita contemplativa, si deve premet-tere che l’autore del Commento di Parigi espone una dottrina dell’anima e della conoscenza assai elaborate che egli riprende dalla Summa de bono di Filippo il Cancelliere21 e soprattutto dal De potentiis anime et obiectis, un trattato redatto probabilmente da un teologo inglese intorno al 1230.22 Il De potentiis anime co-stituisce per molti aspetti, come ha dimostrato Gauthier,23 una fonte del Com-mento di Parigi, probabilmente anche per quanto riguarda la teoria dell’intelletto agente inteso come facoltà dell’anima che il De potentiis anime ricava, a sua vol-ta, dal De anima et potenciis eius,24 uno dei testi rappresentativi del cosiddetto “primo averroismo”.25 Dopo aver scartato la vita voluptuosa e la vita civilis, che dipendono dall’anima vegetativa e sensibile e sono dei tipi di vita ‘bestiale’ (vita pecu-dum),26 il Commento di Parigi afferma che, secondo i teologi (penes theologos),

19 Anonimi Magistri Artium Commentarium super Ethica nova et vetus, Lect. XXII, q. 1: “uirtus in-tellectualis consistit in cognitione et dilectione summi boni propter se”. 20 Cl. Lafleur, Le «Guide de l’étudiant», cit., § 101: “[…] Dicendum quod uirtus intellectualis est per contemplationem et inspectionem diuinorum; ex qua efficitur aliquis ad diligendum Primum super omnia”. 21 Philippus Cancellarius, Summa de bono, ed. N. Wicki, Francke, Bernae 1985, 2 voll. 22 D.A. Callus, The Powers of the Soul. An Early Unpublished Text, in “Recherches de théologie an-cienne et médiévale” XIX (1952), pp. 131-170. 23 Cfr. il saggio introduttivo di R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., pp. 79-84. 24 Il De anima et potenciis eius è un trattato di contenuto naturalistico (1225 circa) edito da R.A. Gau-thier, Le traité De Anima et de potenciis eius d’un maître ès arts (vers 1225). Introduction et texte critique, in “Revue des sciences philosophiques et théologiques” LXVI,1 (1982), pp. 3-55. Il De po-tentiis anime rielabora e adatta ai suoi propositi teologici il contenuto del De anima et potenciis eius, come nel caso della dottrina dell’intelletto agente facoltà dell’anima che accetta e attribuisce al piano della filosofia naturale (secundum naturalem philosophiam) non senza aver prima precisato l’opinione, più semplice per i teologi, di altri filosofi che affermano la separatezza dell’intelletto a-gente, cfr. D.A. Callus, The Powers of the Soul, cit., p. 156,1-24. 25 Per il “primo averroismo” cfr. R.A. Gauthier, Notes sur les débuts (1225-1240) du premier «aver-roïsme», in “Revue des sciences philosophiques et théologiques” LXVI,3 (1982), pp. 321-373. Si veda anche Ch. Trottmann, La vision béatifique des disputes scolastiques à sa définition par Benoît XII, Ècole française de Rome, Roma 1995, pp. 219-243. 26 R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 111,1-3: “et notandum quod hic non loquitur solum de uita uoluptuosa, set eciam de uita ciuili; et dicit quod quidam sunt qui eligunt uitam pecu-dum, et isti sunt bestiales”. Gauthier osserva che il maestro parigino abbassa la vita civile al livello

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anche la vita contemplativa è imperfetta e soltanto la vita dell’anima separata è veramente felice. La suddivisione aristotelica delle vite risulta, quindi, incomple-ta per i teologi perché non prevede una vita futura beata.27 Il maestro parigino, tuttavia, ammette che secundum philosophos la felicità si può predicare della vita contemplativa in quanto essa è sintesi di conoscenza e di virtù.28 Certamente non si tratta di una conoscenza e di una virtù qualsiasi, che di per sé sono imperfette (scientia et uirtus imperfectorum) bensì di una conoscenza senza immagini (co-gnitio sine fantasmate) e della virtù appartenente alla parte superiore dell’intelletto pratico o facoltà desiderativa.29 Esaminiamo nel dettaglio ciascuna delle due componenti, la conoscenza e la virtù, necessarie alla vita contemplativa. Secondo il Commento di Parigi esistono due tipi di conoscenza, una che si compie mediante i fantasmi, ovvero mediante le immagini degli oggetti partico-lari percepite dai sensi e un’altra che si compie senza queste immagini particolari e che interviene, appunto, nell’attuazione della vita contemplativa.30 Il maestro parigino non offre spiegazioni circa la cognitio sine fantasmate e l’espressione non ricorre di frequente nemmeno in altri testi del periodo. Gau-thier31 ritiene che la fonte sia da cercare nella tradizione del De potentiis anime che distingue due tipi di conoscenza dell’anima razionale identificabili con l’astrazione aristotelica e con l’illuminazione agostiniana: l’una conosce le forme spirituali connesse al corpo, vale a dire le specie nei fantasmi e l’altra conosce in modo assoluto (simpliciter) e per illuminazione superiore le forme spirituali.32

della vita di piacere, tradendo il pensiero di Aristotele per il quale la vita civile o politica assumeva la finalità dell’etica. Trottmann (La vision béatifique, cit. p. 242) definisce questi maestri delle Arti “trop théologiens et trop prudes” e ritiene che “le bien politique disparaît dans une société universitai-re dominée par un clergé à la fois ‘spirituel’ et ‘pauperiste’”. 27 Ivi, p. 116, 9-11: “[…] de illa uita que est cum anima separata potest praedicari felicitas et sic patet quod non sumit hic sufficienter modos ipsius uite. Et ista respontio est penes theologos”. 28 Ivi, p. 116,12-15: “Est autem alia respontio secundum philosophos et hec est respontio. Dicendum est quod uita in quam ponendo felicitatem non errabant philosophi predicatur de uita contemplatiua; set dicendum est quod uita contemplatiua est secundum uirtutem et scienciam siue cognitionem”. 29 Ivi, p. 116,23-26: “uita que est idem felicitati predicatur de uita contemplatiua in quantum uita con-templatiua est circa cognitionem sine fantasmate et uirtutem que est circa partem superiorem intellec-tus practici siue uirtutis desideratiue”. Il Commento di Parigi (Ivi, p. 102,5-103,16; 116,15-26) di-stingue tra intelletto speculativo e intelletto pratico, quest’ultimo viene chiamato anche pars deside-rativa. L’intelletto speculativo è suddiviso in due parti: l’una superiore che è l’intelletto agente e l’una inferiore che è l’intelletto possibile. Anche l’intelletto pratico prevede una parte superiore, la volontà indistinta, e una inferiore, il libero arbitrio. 30 Ivi, p. 116,16-20: “duplex est cognitio: est enim quedam cognitio sine fantasmate et est quedam cognitio mediante fantasmate; et illa uita contemplatiua que attenditur penes scienciam et cognitio-nem que est sine fantasmate est de qua predicatur uita quam ponendo esse felicitatem non errabant philosophi”. 31 Ivi, p. 81. Gauthier segnala anche un passo di Alberto Magno che pochi anni dopo (1246-49), nel Commento alle Sentenze (ed. Borgnet XXV, p. 472a) sembra riprendere la stessa distinzione fra un intelletto che percepisce ex phantasmate e un altro intelletto che non accipiens ex phantasmate ma soltanto nella luce dell’intelletto agente. 32 D.A. Callus, The Powers of the Soul, cit., p. 148,19-21: (anima rationalis) “cognoscit aut per for-mas spirituales simpliciter, aut spirituales coniunctas corporibus, prout dicitur quod intelligit species in phantasmatibus”; p. 157,12-14: “Nam quaedam est operatio eius respectu specierum intelligibi-

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Filippo il Cancelliere riprende questa distinzione e usa precisamente l’espressione sine phantasmate per indicare la conoscenza delle essenze semplici contrapposta alla conoscenza delle sostanze composte che avviene mediante phantasmate.33 Oltre a questi testi segnalati da Gauthier, anche il trattato De a-nima et potenciis eius cita, accanto all’astrazione prodotta dall’intelletto agente delle specie dai fantasmi, l’illuminazione superiore mediante la quale vengono acquisite alcune delle forme presenti nell’intelletto possibile.34 Dal raffronto di questi testi sembra emergere la corrispondenza fra la ‘cono-scenza senza fantasmi’ e l’illuminazione che l’intelletto agente riceve dal Primo Principio, cui il maestro parigino fa frequenti riferimenti senza, però, spiegarne il preciso ruolo conoscitivo.35 L’autore del Commento di Parigi, tuttavia, parla di un altro tipo di conoscenza, la cognitio in summa, che sembra esprimere la stessa esclusione dei dati sensibili provenienti dai sensi. La facoltà che compie la cognitio in summa è l’intelletto agente, che è consi-derato una facoltà dell’anima, precisamente la parte superiore della parte specu-lativa dell’anima. Esso è rivolto verso gli enti superiori e non entra in contatto con gli oggetti particolari, ma conosce le cose in generale e in modo indistinto (in summa et indistincte).36 Questa conoscenza delle cose in summa è un abito innato dell’intelletto agente, in quanto è nata con l’anima stessa ed è frutto dell’amore del Primo Principio; in essa, quindi, non vi può essere errore.37 Si potrebbe definire la cognitio in summa una conoscenza in blocco, indistin-ta e globale che il nostro maestro descrive facendo ricorso a un passo della Con-

lium, que recipiuntur in phantasmate ministerio sensus; quaedam vero respectu specierum que fit per illustrationem superiorem”, poche linee dopo p. 158,22 dice “per illuminationem superiorem”. 33 Philippus Cancellarius, Summa de bono, cit., p. 271,238-242: “Aliter enim intelliguntur simplices essentie, quia sine phantasmate […]. Item aliter res composite, quia mediante phantasmate …”. 34 R.A. Gauthier, Le traité De anima et de potenciis eius, cit., pp. 53,482-54,487: “Set quia diximus supra quod intellectus agens abstrahit species a fantasmatibus et ordinat eas in intellectu possibili, hic notandum est quod alique forme sunt in intellectu possibili quas non abstrahit intellectus agens a fan-tasmatibus, set anima adquirit eas per rectam operationem, sicut sunt iusticia, prudencia; et alique sunt quas adquirit per superiorem illuminationem, ut quedam que intelliguntur de Deo et diuino mo-do”. Cfr V. Buffon, Philosophers and Theologians, cit., p. 474 sottolinea, tuttavia, che questo trattato e il Commento di Parigi non condividono la stessa struttura dell’anima. Si noti che il De potentiis anime rielabora e sviluppa questo passo del De anima et potenciis eius nei luoghi citati alla n. 32. 35 Cfr. n. 46. Il maestro sottolinea a più riprese il ruolo dell’illuminazione a livello morale, dove essa determina l’infusione della recta ratio che è il fondamento di qualsiasi buona azione: f. 154vb: “ratio recta est data a prima intelligentia ut illuminet intellectum humanum”; f. 157va: “ista recta ratio est bonum infusum sicut uolunt theologi; et dicunt quo <est> a prima intelligentia illuminante intellec-tum humanum”. 36 R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 102,8-12: “Illa enim pars speculatiui intellectus que est superior semper est recta, et illa pars uocatur intellectus agens, qui habet cognitionem omnium rerum in summa et indistincte ; unde dicit Boetius [Cons. Phil. V, m. 3]: «Summam retinet singula perdit»; et in cognitione huiusmodi intellectus non potest esse error”. 37 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, f. 152va: “humana anima se-cundum partem que uocatur agens habet cognitionem rerum in summa, et ista cognitio seu habitus innascitur cum ipsa anima; item anima nascitur cum amore Primi, et iste habitus seu istud desiderium est innatum; et secundum huiusmodi habitus accipiendo intellectum, intellectus semper est rectus”.

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solatio Philosophiae38 − summamque tenet singula perdens − col quale Boezio esprime lo stato di conoscenza dell’anima che, perduta la purezza originaria, si trova immersa nel corpo ma tuttavia non si è scordata totalmente dell’antica con-dizione e “conserva l’idea del tutto, mentre dimentica i particolari”. Questa stessa dottrina è usata da Filippo il Cancelliere nella Summa de bono a proposito della distinzione fra intelletto umano e intelletto angelico. I due intel-letti differiscono a livello della conoscenza per astrazione che l’angelo non com-pie,39 ma condividono una conoscenza d’insieme che si realizza mediante delle forme innate che non sono, però, le idee delle singole cose in quanto singolari, individuali, perché, come dice Boezio nel verso citato sopra – che Filippo propo-ne in una formula soltanto leggermente modificata rispetto a quella usata dal no-stro maestro: Qui summam retinet, singula perdit –, gli intelletti conservano l’idea del tutto, ma perdono i singoli concetti.40 A livello di questa ‘conoscenza d’insieme’, quindi, l’intelletto umano e l’intelletto angelico condividono forme simili che sono la totalità degli intelligibili. Tuttavia, prosegue Filippo, soltanto l’intelletto angelico non perde la conoscenza delle cose individuali, in quanto nella totalità esso può conoscere i singoli enti.41 Per l’intelletto agente umano, in conclusione, Filippo prevede, oltre alla conoscenza per astrazione, anche una co-noscenza in summa che lo rende simile all’intelletto angelico e che poche righe sotto sembra far corrispondere ad un’illuminazione proveniente dalla Somma Verità.42 Il nostro maestro, invece, non attribuisce esplicitamente all’intelletto agente la capacità di conoscere per astrazione,43 ma, anzi, anche nella vetus riprendendo

38 Cfr. Boethius, Philosophiae consolatio V, m.3, ed. L. Bieler, Turnhout 1957 (Corpus Christianorum Series Latina 94), p. 96,25. 39 Philippus Cancellarius, Summa de bono, cit., p. 85: “In homine est intellectus possibilis et agens: intellectus autem agens secundum conversionem ad inferiora cognoscibilia est abstrahens species a phantasmatibus; intellectus vero possibilis est recipiens eas abstractas. Sed neutra harum operationum est in intellectu angelico, quia non cognoscit res per abstractionem formarum ab ipsis. Ecce in quo differunt”. 40 Philippus Cancellarius, Summa de bono, cit., p. 85: “Item est alia operatio intellectus agentis se-cundum quam intelligit res omnes vel aliquas per quasdam formas innatas que sunt forme singula-rium rerum secundum quod sunt singule, prout dicit Boethius: «Qui summam retinet, singula per-dit»”. Si veda anche l’articolo di Paola Bernardini in questo volume, in particolare il paragrafo sull’innatismo. 41 Ibidem: “Quantum ad hanc operationem convenit intellectus angelicus cum humano, quia habet formas consimiles quantum ad quid; habet enim intellectus angelicus summam intelligibilium et non perdit cognitionem singulorum; in summa enim cognoscit singula, et in hoc differ humanus ab ipso”. Gauthier (Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 86) propone di correggere l’et non perdit in Set non per-dit, inserendo una pausa per sottolineare che l’intelletto angelico, rispetto a quello umano, non perde la conoscenza dei singoli enti. 42 Ibidem: “Item, intellectus humanus receptibilis est illuminationis ad verum a Summa Veritate, et in hoc convenientiam habet cum intellectu angelico”. 43 Il maestro non ne tratta esplicitamente, ma ciò non significa che egli neghi all’intelletto agente la capacità astrattiva. Secondo Gauthier (Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 88), il maestro colloca la conoscenza in summa “au même plan que la connaissance abstractive: c’est cette connaissance même qui, lorsqu’interviennent les phantasmes, se transforme dans l’intellect possible en une connaissance disticte” (corsivo di Gauthier).

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la dottrina della cognitio in summa, nega nuovamente all’intelletto agente (fa-cendo ricorso ancora alla formula boeziana) la capacità di conoscere le specie singolarmente e quindi di produrre la conoscenza delle singole cose nell’intelletto possibile, tanto che quest’ultimo è necessario riceva da un’altra parte la conoscenza dei singoli, rivolgendosi alla phantasia e ai sensi.44 La cognitio in summa dell’intelletto agente sembra quindi coincidere con la cognitio sine fantasmate ed entrambe potrebbero essere interpretate come la tra-sposizione in termini astratti della teoria dell’illuminazione secondo la quale l’intelletto superiore vede le cose in Dio.45 Questa ipotesi, del resto, sembrerebbe in linea con l’affermazione del maestro parigino secondo cui l’intelletto agente viene illuminato dal Primo Principio e in misura maggiore di quanto non lo sia l’intelletto possibile.46 Quanto detto fin qui riguarda quella cognitio che è una delle componenti ne-cessarie, come abbiamo visto, alla vita contemplativa. L’altra componente è la virtù intellettuale che appartiene alla parte superiore dell’intelletto pratico, chia-mato anche, secondo la terminologia avicenniana, parte desiderativa o ‘motiva’. Questa parte dell’anima possiede in modo innato l’amore e la contemplazione, cioè ama e contempla il Primo Principio in modo indistinto (in summa).47 In que-sto senso la virtù intellettuale che le corrisponde è un habitus innato. Tuttavia, ex doctrina – come dice Aristotele all’inizio del II libro dell’EN – attraverso, cioè, l’esercizio dell’insegnamento, questa parte dell’anima conosce in modo distinto gli attributi del Primo, vale a dire bontà-potenza-sapienza, attributi che i maestri di S. Vittore avevano considerato espressione delle tre persone della Trinità.48 Questa conoscenza distinta e particolare (discrete), che consiste nell’amare la bontà del Primo e nel mettersi in relazione con essa, porta a perfetto compimento la virtù intellettuale che quindi, in questo senso, è un abito acquisito.49 La virtù intellettuale è ordinata alle cose superiori perché contempla e ama il Primo Prin-cipio. Essa produce, quindi, una cognitio cum affectu realizzata dalla facoltà su-

44 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, f. 153va: “Intellectus agens habet cognitionem rerum in summa; unde dicit Boethius: «Summam retinet, singula perdit». Sic ergo patet quod intellectus agens non cognoscit res uel species rerum singillatim, et sic non potest facere cognitionem rerum singillatim in intellectu possibili; et propter hoc oportet quod intellectus possibilis habeat aliunde cognitionem singulorum, et sic in habendo huiusmodi cognitionem comparatur ad phantasiam et sensus”. 45 Cfr. O. Lottin, Psychologie et morale à la Faculté des arts, cit., p. 515. 46 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, f. 153ra: “Et intellectus agens plus recipit illuminationem a primo quam possibilis”. 47 Ivi, f. 154rb: “pars desideratiua quantum ad superiorem partem habet dilectionem et affectum sibi innata, sed hoc est in summa; unde in summa habet predilectionem et contemplationem”. 48 Cfr. R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 121, nota (h). La triade conobbe una certa fortuna grazie a Pietro Lombardo che la inserì nelle Sentenze, cfr. Sententiae in IV libris distinctae, ed. collegium S. Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata 1971-1982, vol. 1: 34,3-4, pp. 251-253. 49 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, f. 154va: “tamen ex doctrina, sicut prius dictum est, cognoscit bonitatem et potentiam et sapientiam discrete, et quia cognoscit bo-nitatem discrete, ideo diligit, et sic afficitur, et sic fit consummatio uirtutis intellectualis; et hoc modo est uirtus intellectualis habitus acquisitus et non innatus”.

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periore della parte desiderativa dell’anima, facoltà che è sempre rivolta al bene e in cui desiderio e volontà sono sempre retti, perché sono ‘indistinti’.50 La volontà appartenente a questa facoltà, infatti, è la volontà sine deliberatione o uoluntas indistincta secondo la quale “tutti desiderano il sommo bene”. Questo tipo di vo-lontà, secondo la partizione operata da Filippo il Cancelliere51 fra una volontà naturale e una deliberativa, può essere definita anche volontà naturale e corri-spondere dunque alla sinderesi dei teologi, come, del resto, si legge nel De po-tentiis anime che chiama sinderesi la parte superiore della desiderativa. Il com-mentatore parigino, tuttavia, pur descrivendo questa facoltà come aderente natu-ralmente al bene, non usa mai il termine sinderesi. La dottrina della conoscenza affettiva, benché non espressa precisamente con la formula cognitio cum affectu usata dal Commento di Parigi, si trova in altri testi, ad esempio nella Guida dello Studente secondo cui la virtù intellettuale spinge ad diligendum Primum, ad amare il Primo sopra tutte le altre cose52 e nel De potentiis anime che considera la virtù intellettuale, nella sua triplice articola-zione in fronesis, sapientia, intelligentia, come una triplice modalità di cono-scenza del Sommo bene e di amore del dato conosciuto.53 Da questo passo potrebbero aver preso spunto lo Ps.-Peckham e Arnolfo di Provenza per sviluppare la loro teoria della fronesis come conoscenza amorosa del Bene Supremo.54 I due maestri infatti vedono nelle tre virtù intellettuali elen-cate da Aristotele alla fine del primo libro, tre gradini di una scala conoscitivo-affettiva. Secondo lo Ps.-Peckham, la sapienza, che occupa il grado inferiore, conosce il Sommo Bene nelle cose inferiori,55 l’intelligenza, che è un’affezione

50 R.A. Gauthier, Le cours sur l’Ethica nova, cit., p. 102,14-18: “pars intellectus practici superior de-siderat et appetit et cognoscit, set ista cognitio est cum affectu, et istud desiderium et ista uoluntas semper sunt recta; ista enim uoluntas indistincta est, et hoc modo intelligit auctor cum dicit quod om-nes summum bonum uolunt”. 51 Philippus Cancellarius, Summa de bono, cit., p. 194: “Dividit Iohannes Damascenus voluntatem in voluntatem que naturalis dicitur et deliberativam. Sed constat quod synderesis non est voluntas deli-berativa; nam hec non est que semper remurmurat peccato et que corrigit errantem, immo secundum hanc fit peccatum et ratio est que errat. Ergo non erit illa. Erit ergo voluntas naturalis que solum ap-petit bona ad que nata est anima rationalis, sicut ibidem dicitur”. 52 Cfr. n. 20. È interessante sottolineare, per inciso, che per la Guida la virtù intellettuale è totalmente spirituale e noi non possiamo conoscere le sue proprietà. Essa è posseduta soltanto da chi è massi-mamente ispirato dalla Grazia divina, cfr. Cl. Lafleur, Le «Guide de l’étudiant», cit., § 101. 53 D.A. Callus, The Powers of the Soul, cit., p. 161,10-14: “Habitus autem qui est in comparatione ad superiorem essentiam et nominatur virtus intellectualis, dividitur per tres differentias, scilicet frone-sim, sapientiam, intelligentiam, secundum quod tripliciter est cognoscere Summum bonum et cogni-tum (quemadmodum est <al>ibi determinatum) diligere”. 54 Come propone R.A. Gauthier, Arnoul de Provence et la doctrine de la fronesis, vertu mystique suprême, in “Revue du Moyen Âge latin” XIX (1963), pp. 135-170. 55 Anonimi Magistri Artium Commentarium super Ethica nova et vetus, Lect. XXI, q. 7: “Si uero sapientia dicatur cognitio summi boni in inferioribus cum aliquo gustu participationem eius et sic eius dilectio, sapientia erit nobilior virtutibus moralibus et secundum hunc modum uidebitur hic acci-pi”.

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intellettuale del Sommo Vero, conosce le realtà intelligibili all’uomo,56 la frone-sis, che si trova al culmine della scala, è la conoscenza amorosa del Bene Supre-mo, conosciuto nelle creature spirituali che riflettono al massimo grado l’immagine di Dio.57 Secondo Arnolfo l’intelligenza è un abito che l’intelletto acquisisce quando la sua parte superiore guarda il Creatore, benché in questa fase l’atto contemplativo non sia caratterizzato da un grande affetto. Quando l’atto contemplativo si realizza con una certa intensità affettiva, invece, l’intelletto en-tra in possesso della virtù della saggezza. Se l’affetto accresce fino a divenire bruciante, allora l’intelletto si conforma al Creatore e acquisisce un habitus di virtù che Arnolfo chiama fronesis.58 La fronesis, quindi, costituisce il grado su-premo della conoscenza affettiva e conforma l’uomo a Dio, privando la sapienza del posto privilegiato in cima alla scala delle virtù assegnatole dalla teologia ago-stiniana. Questa dottrina della fronesis – sulla cui particolarità hanno discusso vari studiosi59 – dimostra che i due maestri non si sono resi conto dell’identità di fro-nesis e di prudentia nel testo aristotelico, tanto da trasformare la prima nella su-prema virtù contemplativa e la seconda in una virtù morale con il semplice com-pito di abilitare la facoltà razionale a governare il corpo.60 Ciò che, tuttavia, im-porta evidenziare nella nostra indagine è che le tre virtù intellettuali costituiscono

56 Ibidem, “Intelligentia potest eodem modo accipi dupliciter vel pro habitu rerum intelligibilium, vel pro intelligibili affectione ex habitu intelligibilium procedente”; “[…] intelligentiam, id est cognitio relata ad cognitionem summi veri”. 57 Ibidem, “Fronesis vero est cognitio summi boni cum dilectione eius prout cognitio summi boni est per intelligibiles creaturas in quibus maxime relucet eius imago secundum quod possibile est in crea-turis suis relucere”. 58 Arnulfus Provincialis, Divisio Scientiarum, p. 336, 544-550: “Nam secundum quod per partem superiorem intuetur Creatorem absque multa et magna affectione, informatur habitu virtutis qui dici-tur intelligentia; secundum vero quod ulterius per affectionem extenditur et affectus intenditur, in-formatur secundo habitu virtutis qui dicitur sapientia, quasi sapore condita; secundum quod per inten-sum affectum et amorem inflammatur ut Illi, quantum possibile est, se conformet, adquiritur ei habi-tus virtutis qui dicitur fronesis, id est informatio”. In questo passo si vede chiaramente come le virtù intellettuali aristoteliche si sostituiscano alle virtù teologali, fede, speranza e carità che i teologi dell’epoca consideravano capaci, al pari delle virtù contemplative, di disporre l’uomo all’unione con il Creatore. Per una lettura della teoria della fronesis di Arnolfo, cfr. Cl. Lafleur, Scientia et ars dans les introductions à la philosophie des maîtres ès arts de l’Université de Paris au XIIIe siècle, in Scientia und ars im Hoch- und Spätmittelalter, ed. I. Craemer-Ruegenberg and A. Speer, W. De Gruyter, Berlin-New York 1994, pp. 45-65, in particolare pp. 59-62. 59 Cfr. R.A. Gauthier, Arnoul de Provence, pp. 150-154; A. J. Celano, The End of Practical Wisdom: Ethics as Science in the Thirteenth Century, in “Journal of the History of Philosophy” XXXIII,2 (1995), pp. 230-232; M. E. Ingham, Phronesis and Prudentia: Investigating the Stoic Legacy of Moral Wisdom and the Reception of Aristotle’s Ethics, in Albertus Magnus und die Anfänge der Aristoteles-Rezeption im lateinischen Mittelalter. Von Richardus Rufus bis zu Franciscus de Mayronis, ed. L. Honnefelder, R. Wood, M. Dreyer and M.-A. Aris, Aschendorff, Münster 2005, pp. 631-656, in part. pp. 648-649. 60 Per uno studio sulla dottrina delle virtù esposta dai primi commentatori dell’EN mi permetto di rinviare al mio Moral and Intellectual Virtues in the Earliest Latin Commentaries on the Nico-machean Ethics, in Virtue Ethics in the Middle Ages: Commentaries on Aristotle’s Nicomachean Ethics, 1200-1500, ed. I. P. Bejczy and B. Kent, Brill, Leinden-Boston (in corso di pubblicazione).

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i gradini di un graduale processo di ascesi, culminante nell’unione mistica con il divino. Benché non possediamo la parte conclusiva del Commento di Parigi all’ethica nova e quindi non sappiamo quale trattamento riservi nello specifico alle tre virtù intellettuali elencate da Aristotele, sembra, tuttavia, che il maestro parigino abbia seguito la stessa strada tracciata dallo Ps-Peckham e da Arnolfo, arrivando a definire la virtù intellettuale contemplatio primi cum dilectione et af-fectu.61 Tornando alle facoltà dell’anima impegnate nella realizzazione della vita con-templativa, appare chiaramente dalla lettura dei testi l’esistenza di una corri-spondenza fra le parti superiori delle due facoltà dell’anima speculativa e deside-rativa: entrambe agiscono in modo indistinto, in summa, l’una nell’ambito della conoscenza, l’altra della volontà; entrambe sono volte al bene e in esse non c’è errore proprio grazie alla caratteristica di agire ‘indistintamente’. La vita contemplativa che, secundum philosophos, è il miglior tipo di vita possibile, adatto al conseguimento della felicità, è il risultato dell’azione con-giunta di queste due facoltà superiori: è sintesi, dunque, di cognitio sine fanta-smate o in summa e di cognitio cum affectu. Nella vita contemplativa l’uomo sperimenta una conoscenza universale e immediata (senza il ricorso ai dati sensi-bili), nonché affettiva del Sommo Bene: egli vive la sintesi di cognitio e affectio prodotta dalle virtù intellettuali. La felicità che ne consegue è, senza dubbio, quella felicità che il commentatore ha identificato con il Primum, è la Felicità in sé, il Bene in sé, è Dio. Viene da chiedersi se la felicità descritta nel Commento di Parigi sia la felici-tà perfetta realizzabile in questa vita e capace, secondo Aristotele, di rendere gli uomini “felici come possono esserlo gli uomini” (beati ut homines, EN I,1101a19-21), o se piuttosto non si tratti della felicità celeste che rende gli uo-mini simili agli angeli, beatos autem homines ut angelos, come recita una glossa presente in tutti i manoscritti dell’ethica nova che potrebbe aver influenzato l’interpretazione dei nostri maestri delle Arti.62 Il maestro parigino, tuttavia, è chiaro al riguardo: questa felicità perfetta non appartiene alla vita futura, come volevano i teologi, ma è realizzabile nel corso della vita terrena, seppure soltanto secondo il parere dei filosofi. In conclusione, si deve notare che la descrizione offerta dai maestri delle Arti della prima metà del XIII secolo della vita contemplativa come una conoscenza affettiva di Dio, diverge del tutto dal pensiero di Aristotele che aveva definito la vita contemplativa come esercizio attivo del pensiero umano, ovvero come risul-

61 Anonimi Magistri Artium Lectura in Ethicam veterem, Paris 3804A, ff. 154ra-154rb: “Pars intel-lectiua comparatur ad superiora et inferiora; et in comparatione ad superiora attenditur uirtus intellec-tualis; sed sic est quod uirtus intellectualis est in intellectu sicut in radice, et complementum ipsius est contemplatio primi cum dilectione et affectu eiusdem; et sic patet quod origo intellectualis uirtutis est a parte intellectiua et etiam eius perfectio siue complementum” 62 I maestri delle Arti dispongono di una versione latina del I libro dell’EN già corrotta, dove l’affermazione aristotelica beati ut homines è trasformata in beatos autem homines ut angelos (cfr. Aristoteles Latinus, cit., p. 88,13-14).

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tato dell’azione dell’intelletto agente, che conosce per astrazione, e della virtù migliore, la sapienza, che è scienza delle realtà più sublimi. Essa diverge, a mio avviso, anche dall’ideale etico contemplativo teorizzato nella seconda metà del XIII secolo da pensatori come Boezio di Dacia o Giacomo da Pistoia per i quali, sebbene la felicità risieda nella contemplazione delle sostanze separate e di Dio, il percorso che conduce a tale sommità non è contemplativo e affettivo, bensì un processus naturae che sale gradualmente dagli effetti alle cause, fino alla Causa Prima, mediante l’indagine degli esseri naturali.63 I nostri maestri ritengono, in-vece, che per conseguire la felicità, l’uomo debba conoscere e amare Dio e, seb-bene accordino una chiara fiducia alla facoltà conoscitiva umana, sottolineano con insistenza la necessità dell’amore per Dio che alimenta ogni passo dell’ascesi verso il divino compiuto mediante l’acquisizione delle virtù intellet-tuali.

63 Cfr. I. Zavattero, La Quaestio de felicitate di Giacomo da Pistoia: un tentativo di interpretazione alla luce di una nuova lettura critica del testo, in Le felicità nel Medioevo, a cura di M. Bettettini e F. Paparella, Louvain-la-Neuve: Fidem, 2005, pp. 355-409.

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LA DOTTRINA DELL’ANIMA SEPARATA NELLA PRIMA METÀ DEL XIII SECOLO E I SUOI INFLUSSI SULLA TEORIA DELLA CONOSCENZA

(1240-60 ca.)

Paola Bernardini La teoria dell’identità degli intelletti

Con la categoria ‘primo averroismo’ si suole identificare una corrente dottrinale, i cui rappresentanti furono i magistri della facoltà di Arti che commentarono l’opera psicologica dello Stagirita tra il 1225-30 e il 1260. Come è noto, la defi-nizione di ‘primo averroismo’ è stata proposta da R. A. Gauthier in un noto e di-scusso articolo del 1982: “Le premier averroïsme, c’est cela: la doctrine qui fait de l’intellect agent une puissance de l’âme”.1 Più genericamente, possiamo affermare che i magistri artium cui si riferisce lo studioso condividevano la medesima esigenza di attribuire interamente la fa-coltà intellettiva al singolo individuo conoscente, nonostante la conoscenza ap-profondita e l’attenzione costante che essi dimostravano nei confronti del com-mento di Averroè, che com’è noto, propone la tesi dell’unicità dell’intelletto, che avrà effetti dirompenti nell’interpretazione del De anima aristotelico nella se-conda metà del secolo XIII. All’interno della corrente denominata “primo averroismo”, Gauthier segnala la presenza di sostenitori di una posizione, che, come vedremo, ha conosciuto una certa diffusione, secondo la quale intelletto agente e intelletto possibile sa-rebbero sostanzialmente identici, e distinti solo secundum rationem.2 Vediamone alcune formulazioni. La prima che riportiamo, tratta dall’inedito Super de anima di Guglielmo di Clifford, ci offre una presentazione lucida e sintetica della dottrina: “Potest igitur poni ista tertia positio, scilicet quod intellectus agens et possibilis idem sint in substantia, differens tantum secundum racionem”.3 Più nel dettaglio si spinge la spiegazione dell’anonimo maestro autore della Lectura super librum de anima, edita da Gauthier, che su questo punto si trova assolutamente in linea con Guglielmo:

Enim sic dicentes quod <idem> est secundum substanciam intellectus a-gens et possibilis et uterque est anima tota, set differunt secundum ratio-nem, quia intellectus secundum se consideratus agens dicitur; ipse autem consideratus secundum quod inclinatur ad fantasiam et ei unitur recipiens

1 R. A. Gauthier, Notes sur les débuts (1225-1240) du premier ‘averroïsme’, in “Revue de Sciences philosophiques et theologiques” LVI (1982), p. 335. 2Cfr. R. A. Gauthier, Introduction, in Anonymi Magistri Artium Lectura in librum de anima a quo-dam discipulo reportata, Editiones Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata 1985, p. 21*. 3 Guillelmus de Clifford, Super de anima, in ms. Cambridge, Peterhouse Library 157, I, f. 129vb.

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fantasmata que sunt in ea, possibilis dicitur; et hoc est intellectus noster, quod non intelligit sic nisi ea que faciunt fantasmata in sensu vel fantasia, ut sunt in inferiora; set agens intelligit substantias simplices et spirituales, ut primum et intelligentias, quod secundum se aptum natum ad intelligen-dum eas.4

Le parole che Gauthier dedica ad illustrare tale dottrina nell’introduzione mi sembrano particolarmente perspicue:

[…] il [notre maître] distingue l’intellect agent et l’intellect possibile, mais ni l’un ni l’autre ne sont des parties de l’âme: ils sont l’un et l’autre l’âme toute entière, mais envisagée sous differents aspects. L’intellect agent, c’est l’intellect tel qu’il est en lui-même; l’intellect possible, c’est ‘notre’ intellect, dans les conditions d’exercice ici-bas. […] il ne connaît que ce qui impressionne les sens, à savoir les être inférieures. L’intellect agent, lui, connaît Dieu et les intelligences, car il est fait pour les connaître.5

L’anima intera, quindi, in se stessa, è detta “intelletto agente”, mentre quando essa è colta nella sua relazione con le sostanze materiali, con il mondo sensibile, è definibile nei termini di “intelletto possibile”. Questa concezione è rintracciabile, oltre che nel Super de anima di Gugliel-mo di Clifford e nella Lectura in Librum de anima, nelle anonime Questiones super librum de anima conservate anonime in un unico testimone, ms. Siena, Bibl. Com. degli Intronati L.III.21, ff. 134ra-174va;6 in una formulazione più ambigua nella Sentencia cum questionibus di Pietro Ispano;7 infine, nella Senten-tia super II et III de anima edita da Bazán nel 1998, in cui più esplicitamente viene affrontato il nodo della questione, ovvero della modalità con cui l’intelletto si congiunge con il corpo.

4 Anonymi Magistri Artium Lectura in librum de anima, cit., III 2, q. 5, p. 470. 5 R.A. Gauthier, Introduction, in Anonymi Magistri Artium Lectura in librum de anima, p. 21*. 6 Per la descrizione delle anonime Questiones senesi mi si permetta di rimandare a P. Bernardini, Nota su alcune tematiche dei commenti al De anima della facoltà delle arti (ca. 1250-60), in Il com-mento filosofico nell’Occidente latino, a cura di C. Leonardi, G. Fioravanti, S. Perfetti, Brepols, Tur-nhout 2002, pp. 311-325; una parziale edizione del testo è pubblicata in M. Gardinali, Da Avicenna ad Averroè: Questiones super librum De Anima, Oxford 1250 ca. (ms. Siena Com. L.III.21, in “Rivi-sta di storia della filosofia” II (1992), pp. 375-407 (in cui sono comparsi prologo e la quaestio ottava) e P. Bernardini, La scienza dell’anima. Le questioni epistemologiche del commento al De anima conservato nel ms. Siena, Bibl. Com. degli Intronati, L.III.21, ff.134ra-177ra, in “Studi Medievali” II (1999), pp. 897-939 (le prime otto questioni). L’edizione completa è in corso d’opera, a cura di P. Bernardini. 7 Petrus Hispanus, Commentario al "De anima" de Aristóteles, ed. M. Alonso, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid 1944, I, lect. VI, pp. 294-5: “Dicendum quod anima intellectiva habet duplicem aspectum: unum scilicet ad creatorem a quo exit in esse quem cognoscit, quoniam illius est causa. Item habet aspectum ad substancias superiores sibi similes separatas a materia et ad corpus quod dirigit et ad ea que ad corpus ordinantur que sub ipsa sunt. Et secundum duplicem aspec-tum duplicem habet potentiam: unam per quam comparatur ad superiora et per quam nata est separari et que est lumine ipsius anime illuminata. Et hec potencia est intellectus agens, et hec ei propria. In hac enim non indiget corpore immo materia. Alia autem potentia eius est intellectus possibilis per quam cognoscit corpus et ista inferiora et regit corpus”.

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Nella prospettiva appena tratteggiata, infatti, l’intelletto possibile è presente nel composto-essere umano in quanto anima, ma la sua natura di potenzialità pertiene l’anima per il fatto di essere nel corpo. Sembra così delinearsi l’idea che i maestri di Arti considerassero la potenzialità nell’atto intellettivo come una ca-ratteristica propria della conoscenza sensibile, in stretta relazione con la presenza della materia corporea, come attesta più esplicitamente un passo della Sentencia super II et III de anima:

Anima enim intellectiva et est hoc aliquid et est forma: in quantum est forma, sic unitur corpori, <et> ex unione ipsius cum corpore contrahit in-tellectum possibilem, et sic anima possibilis est recipere omnes species in-telligibiles; in quantum autem anima est hoc aliquid, sic est motor corporis et sic debetur sibi intellectus agens.8

L’intelletto possibile, quindi l’elemento di potenzialità, è il risultato della ‘con-trazione’ subita dall’anima quando essa si congiunge al corpo; data l’identità so-stanziale tra intelletto possibile ed intelletto agente, si può inferire che il primo è sottoposto alla corruzione in quanto ‘possibile’, ma è incorruttibile in quanto ‘in-telletto’. La dottrina dell’anima separata

Proviamo ora ad interrogarci sui motivi che hanno condotto verso una interpreta-zione della dottrina dell’intelletto agente/possibile così palesemente differente da quella aristotelica. È immediatamente evidente che questa concezione reca il segno della teoria avicenniana delle due facies dell’anima.9 Questa imposta la duplice considera-zione dell’anima che pressoché tutti i maestri di Arti a quest’altezza cronologica condividono (l’anima in sé – che è oggetto della metafisica e, in senso più ampio, della teologia – l’anima in relazione al corpo, oggetto della trattazione naturali-stica). La dottrina dell’identità degli intelletti può essere letta infatti come il ri-sultato della trasposizione a livello gnoseologico di una duplice natura che i no-stri maestri riconoscono all’anima umana: quella di sostanza spirituale e di forma e perfezione del corpo. Questa duplicità, da un lato, tuttavia, non segna una frat-tura ontologica nell’anima stessa: l’anima umana è in sé, esattamente come la

8 Anonymi Magistri Artium (c. 1246-1247) Sententia super II et III de anima (Oxford, Bodleian Libr., Lat. Misc. c. 70, ff. 1ra-25b, Roma, Bibl. Naz. V. E. 828, f. 46vb, 48ra-52ra), éd. par B. C. Ba-zán, texte du ‘De anima’ établi par Kevin White, Éd. De l’Institut Supérieur de Philosophie- Peeters, Louvain-La-Neuve, Louvain-Paris 1998, III, lect. 3, p. 426. 9 La dottrina avicenniana delle due facies costituisce un motivo ricorrente nei commenti al De anima della prima metà del secolo, ed è spesso presentata senza riferimento esplicito all’autore. La teorizza-zione della duplicità dell’anima permette infatti di tenerne insieme l’aspetto formale e quello sostan-ziale, che altrimenti apparirebbero inconciliabili. Avicenna, Liber de Anima seu Sextus de Naturali-bus, ed. S. Van Riet, Leiden 1968, p. 94: “Tamquam anima nostra habeat duas facies, faciem scilicet deorsum ad corpus, quam oportet nullatenus recipere aliquam affectionem generis debiti naturae cor-poris, et aliam faciem sursum, versus principia altissima, quam oportet semper recipere aliquid ab eo quod est illic et affici ab illo”.

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sostanza spirituale, semplice, indivisibile e immortale. L’esigenza, evidentemen-te accentuata, di preservare tale semplicità di natura che si configura come un tratto comune alla tradizione filosofica agostiniana precedente, si traduce nel ten-tativo di scongiurare qualunque tipo di distinzione all’interno dell’anima umana che non sia puramente concettuale, ossia di ragione, compresa quella che Aristo-tele introduce per spiegare la modalità conoscitiva dell’essere umano. In questo modo si chiarisce l’affermazione, altrimenti ambigua, o addirittura insensata, se-condo la quale gli intelletti sono identici nella sostanza. Il doppio ‘sentiero’ percorso dai maestri di Arti nell’indagare sull’anima u-mana, che si trasmette a più livelli del discorso scientifico, testimonia la volontà di tenere insieme elementi propri della tradizione patristica e dell’elaborazione delle auctoritates altomedievali che concepiscono l’anima come principio spiri-tuale, semplice, immortale, creato immediatamente da Dio, con quelli provenien-ti dalla trattazione aristotelica, che ne riconosce in modo eminente la natura di atto del corpo, quindi di principio che governa l’insieme complesso di funzioni che presiedono allo svolgimento di tutte le operazioni del corpo vivente. Da quanto ho potuto verificare, nel corso delle mie indagini, il rapporto tra questi due percorsi non è di simmetria, o reciprocità: la scienza dell’anima, di impostazione aristotelica, si regge e si struttura sulla dottrina dell’anima separata come su un solido fondamento; la caratterizzazione che viene data di quest’ultima non traspare semplicemente, ma apporta delle modifiche fondamen-tali alla configurazione dell’indagine naturalistica aristotelica sull’anima. Abbiamo accennato al fatto che i magistri artium toccano nella loro trattazio-ne la concezione dell’anima in sé. Essa è definita talora agostinianamente quae-dam substantia,10 talora hoc aliquid, ovvero un “qualcosa di determinato”, un’entità, che tuttavia è capace nel contempo di svolgere il ruolo di forma nel composto umano. Il fine è quello di garantirle l’autosussistenza, ovvero la possi-bilità di permanere alla morte del corpo.11 Essi non trovavano apparentemente alcuna contraddizione (che invece riconoscerà Tommaso d’Aquino nella ben no-ta apertura della Questio de anima) nel riconoscere all’anima la dignità ontologi-ca connessa allo statuto di sostanza, unendo a questa considerazione l’idea che essa potesse nel contempo svolgere la funzione di forma del corpo. Mantengono cioè un dualismo radicale ed esplicitamente ammesso, già presente nelle dottrine dei teologi che hanno operato nella prima metà del secolo.12

10 Il riferimento è sia agli scritti agostiniani autentici, sia allo ps. Agostino del De Spiritu et anima (Alcherus Claraevallensis o pseudo Augustinus, De spiritu et anima, PL 40) testo che conobbe un’ampia fortuna sia in ambiente teologico sia alla facoltà di arti durante tutta la prima metà del XIII secolo. 11 Per approfondire il tema del doppio statuto dell’anima come forma et hoc aliquid nei maestri delle arti, cfr. B. C Bazán, Pluralisme de formes ou dualisme de substances? La pensée pré-thomiste touchant la nature de l’âme, in “Revue philosophique de Louvain” LXVII (1969), pp. 30-73 e Id., The Human Soul: Form and Substance? Thomas Aquinas’ Critique of Eclectic Aristotelianism, in “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge” LXIV (1997), pp. 95-126. 12 Cfr. le posizioni di Gundissalinus, Alexander Nequam, John Blund, Filippo il Cancelliere, Ales-sandro di Hales, Guglielmo di Alvernia, Rolando da Cremona, Roberto Grossatesta in R. Dales, The

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L’innatismo

Il risvolto noetico di questo doppio statuto ontologico è l’ammissione, anche per quegli autori che sembrano orientati verso un aristotelismo più schietto, di una qualche attività connessa alla sua condizione, ancorché temporanea, di sostanza separata dal corpo. Nella prospettiva cristiana, infatti, è impensabile che essa sussista inerte: è necessario postulare un’attività conoscitiva che le sia propria, indipendente dal corpo, e che le consenta di entrare in rapporto con il divino. Ri-fiutando esplicitamente l’idea che l’anima sia “oziosa” (primo passo per aprire la strada alla riflessione teologica sul piano della visione beatifica), essi sono co-stretti ad accettare forme, più decise o sfumate, di innatismo. Questa convinzio-ne, maturata in relazione al riconoscimento della natura sostanziale e immortale dell’anima, è chiaramente discutibile nella prospettiva della filosofia aristotelica, che non sembra mai lasciare intendere la possibilità di una conoscenza per l’uomo che prescinda dal dato sensibile. Una volta ammessa la sopravvivenza dell’anima rispetto al corpo, tuttavia, anche dal punto di vista della filosofia peri-patetica è inaccettabile che esista qualcosa che rimane inerte. Negli scritti natura-listici cui ci stiamo riferendo questa convinzione è posta sotto l'autorità di Aver-roè: nel grande commento alla Metaphysica, egli afferma che: “[…] nulla res est otiosa in fundamento naturae et creaturae”.13 Alla base delle diverse elaborazioni dottrinali che rendono conto della cono-scenza dell’anima separata riposa dunque l’idea che l’anima umana abbia un’attività propria. Nonostante l’influenza platonica sia la più sotterranea, ma anche la più presente, è consistente il debito contratto dai maestri di Arti con il Liber de anima seu Sextus naturalibus di Avicenna, con lo pseudoaristotelico Liber de causis e lo pseudoagostiniano De spiritu et anima, ma anche con autori coevi come Filippo il Cancelliere, dal quale i magistri assimilano la cosiddetta teoria della “conoscenza in summa”.14 Secondo Filippo, infatti, l’intelletto agente è un’intelligenza che al pari delle sostanze separate contiene in sé le idee delle cose (chiamate esplicitamente “forme innate”), che sono presenti in modo indistinto, a causa dell’affievolimento del potere intellettivo che deriva dalla lontananza dal Creato- Early Scholastics, in The Problem of the Rational Soul in the XIII Century, Leiden, Brill 1985, pp. 13-46. 13 Averroes (Ibn Rushd), In Aristotelis Librum II (a) Metaphysicorum commentarius, a cura di G. Darms, Paulusverlag , Freiburg 1960, II. 1, 23 , p. 54. 14 Philippus Cancellarius, Summa de Bono, ed. N. Wicki, Berne 1985, I, p. 85: “In homine est intel-lectus possibilis et agens: intellectus autem agens secundum conversionem ad inferiora cognoscibilia est abstrahens species a phantasmatibus; intellectus vero possibilis est recipiens eas abstractas. Set neutra harum operationum est in intellectu angelicu, quia non cognoscit res per abstractionem forma-rum ab ipsis. Ecce in quo differunt. Item, est alia operatio intellectus agentis secundum quam intel-ligit res omnes vel aliquas per quasdam formas innatas que non sunt forme singularium rerum secun-dum quod sunt singule, prout dicit Boetius: «Qui summam retinet, singula perdit». Quantum ad hanc operationem, convenit intellectus angelicus cum humano, quia habet formas consimiles quantum ad quid; habet enim intellectus angelicus summam intelligibilium, set non perdit cognitionem singulo-rum, in summa enim cognoscit singula; et in hoc differt humanus ab ipso”.

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re. Le formulazioni che descrivono l’attività conoscitiva dell’anima in statu se-parationis aventi alla base questa teoria sono spesso ambigue, perché sottolinea-no da un lato la superiore dignità dell’acquisizione cognitiva così ottenuta, dall’altro lasciano irrisolta, dal punto di vista filosofico, la questione della non completa distinzione nell’accoglimento delle forme concettuali di origine imma-teriale nell’anima medesima. Tale indistinzione infatti sembra esser dovuta pla-tonicamente all’appesantimento dell’anima, principio spirituale di natura intelli-gente, che immessa nel corpo si vede oscurare la propria capacità di cogliere le essenze delle cose allo stato puro; tuttavia, l’assenza di precisazioni esplicite può lasciare il dubbio che l’imperfezione della conoscenza sia dovuta ad una sostan-ziale condizione di inferiorità della potenza concettuale dell’anima umana rispet-to a quella delle altre intelligenze superiori, indipendentemente dal legame con-tingente che questa intrattiene con il corpo.15 Quest’ultima soluzione si presenta quindi come una forma di innatismo ‘de-potenziato’, che indica la via che sarà percorsa da Tommaso d’Aquino, per il quale la condizione di incompletezza essenziale che caratterizza l’anima separata dal corpo si riflette immediatamente sul piano epistemologico con l’impedimento di una perfetta ricezione delle species.16 Diversa è la posizione dei maestri di Arti di cui ci siamo occupando: essi ri-tengono che l’anima umana separata dal corpo goda del medesimo statuto onto-logico delle sostanze spirituali propriamente dette. L’unico elemento che le di-stingue è la proprietà dell’unibilitas, o inclinatio, o dependentia rispetto al corpo (più o meno accentuata) che l’anima umana possiede: pur non giungendo ad ammettere che l’unione con il corpo modifichi l’essenza dell’anima stessa (anche

15 Cfr., in qualità di mere esemplificazioni, le posizioni di due anonimi magistri artium: Anonymi Magistri Artium Questiones super librum de anima, Prohemio, ed. in Gardinali, Da Avicenna ad A-verroè, cit., pp. 403-4: “Obiectum autem eius in quantum agens non est nisi materia denudata in quantum in ipsa agit, ut prius dictum est; in quantum tamen est substancia in se habet obiectum, scili-cet cognoscibile, sicut intelligencia et intellegit res per species innatas et sibi concreatas sicut intelli-gencia, tamen sub quadam confusionem secundum quod testatur Boecius: «Cum mentem cerneret altam: omnia novit. nunc membrorum condita nube summam tenet singula perdit» [Cons. Phil. V. III, 20-24]. Set illa confusio est in ipsa per defectum illustracionis sufficientis propter sui elongationem a prima causa illuminante, sicut patet quod senibus litterarum per se distinctio aliquando apparet con-fusa propter debilitatem visus. Hec ergo est sua operacio in se, respectu alterius habet duplicem ope-racionem: una est respectu obiecti in rebus materialibus, que indigent ut fiant inmateriales ad hoc quod intelligantur ab intellectu possibili, quia res inmateriales ut substancie separate non egent hoc, de se enim nate sunt ut intelligantur”. Cfr. anche la dottrina di Pietro Ispano, che sembra più fedele alla linea platonica: Petrus Hispanus, Commentario al “De anima”, cit., I, lect. VI, pp. 295-6: “Set potentia supprema que est intellectus agens, dirigit inferiorem qui est intellectus possibilis excitando ipsam et illuminando et ducendo ipsam ad effectum et illuminare et dirigere ipsam et quantum ad hoc quodam modo a corpore dependet et quantum ad hc non est omnino operatio anime propria. Alia est que est intelligere res separatas et quia has intelligit per distantiam a corpore et quanto plus ab ipso distat, tanto verius (?) eas cognoscit, ideo quantum ad hoc est intellectus agens omnino proprius et operatio eius omnino propria anime intellective”. 16 Sancti Thomae de Aquino Quaestiones disputatae de anima, ed. B. C. Bazán, Commissio Leonina, Les éditions du Cerf, Paris 1996, q. 20, 322-325, pp. 172-3: “[…] anima separata non cognoscit omnia naturalia, etiam secundum species, determinate et complete, sed in quadam universalitate et confusione” (corsivo mio).

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quando si tenta di fare questo passaggio, assumendo la duplice definizione di a-nima come forma del corpo e come sostanza, l’operazione è condotta in modo incoerente, e rimane spesso una pura pretesa priva di fondamento concettuale), l’anima umana si distingue dalle altre intelligenze per questa tendenza all’unione con il corpo . Su questo punto vediamo sostanzialmente convergere le posizioni dei teologi della prima metà del XIII secolo: abbiamo così tracciato un percorso che dalla facoltà di Arti ci conduce a quella di teologia, verificando che i maestri di Arti, nell’indagine sull’anima separata dal corpo, tengono ben presenti le produzioni teologiche di inizio secolo.17 Sulla scorta di tale consapevolezza, proviamo ora a soffermarci su un esem-pio, a mio parere assai perspicuo, del modo con cui un commentatore del De a-nima aristotelico ha fruito dell’elaborazione teologica di un noto maestro france-scano, Giovanni de La Rochelle, proprio riguardo ad un punto della sua tratta-zione naturalistica che va a toccare la natura e le caratteristiche proprie dell’anima separata. Anima separata e sostanza separata: la discussione sul luogo

Come ho anticipato, le anonime Questiones super librum de anima conservate nel ms. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, L.III.21, ff. 134ra-174va mo-strano una stretta dipendenza dalla Summa de anima di Giovanni de la Rochelle18 su un luogo della trattazione che concerne la discussione sul luogo dell’anima separata.19

17 A proposito delle formulazioni della relazione di dipendenza dell’anima rispetto al corpo è oppor-tuno ricordare che la discussione fra teologi sul grado di unione realizzata dai due principi fu assai vivace durante tutta la prima metà del secolo, e oltre; ricordiamo, in qualità di esempi, le posizioni dell’anonimo autore della Summa Duacensis e di Filippo il Cancelliere che sostengono un netto dua-lismo: cfr. Summa duacensis (Douai 434), ed. P. Glorieux, Vrin, Paris 1955 (Textes philosophiques du Moyen Âge, 11), cap. VII, q. 1, p. 58 e Ex summa Philippi cancellarii Questiones de anima, ed. L. Keeler, Münster 1937 (Opuscula et Textus. Series Scolastica, XX), p. 88. Più orientati verso l’unificazione dell’essere umano, e quindi più vicini alle posizioni dei maestri delle arti, sono invece Guglielmo d’Alvernia, Giovanni de La Rochelle, Ruggero Bacone e Bonaventura, che impiegano i concetti di unibilitas e inclinatio per spiegare l’attitudine dell’anima che è attratta dal corpo. Per le posizioni di questi ultimi, escluso Guglielmo d’Alvernia (per il quale si veda Guilelmi Parisiensis, Tractatus de anima, Paris 1674, pars secunda, p. 66b), rimando alla rassegna proposta in B. C. Ba-zán, Pluralisme de formes ou dualisme de substance?, cit., pp. 48-65. 18 Ioannes de Rupella, Summa de anima, ed. J. Guy Bougerol, Vrin, Paris 1995. 19 Ivi, cap. 51 e Anonymi magistri artium Questiones super librum de anima, q. 27 (a), f. 146ra; sulla priorità cronologica della Summa rispetto alle Questiones non vi sono dubbi: questa risale agli anni ’40 del XIII secolo, mentre la produzione delle questioni anonime è collocabile intorno al 1250. Il rapporto di dipendenza è quindi univocamente determinato.

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Riportiamo a seguito in parallelo le soluzioni delle due questioni:20 Ioannes de Rupella, Summa de anima, [cap. 51, An spirituali substancie de-beatur locus]

Anonymi magistri artium, Questiones super librum de anima, [q. 27 (a), f. 146ra Queritur utrum ipse anime se-parate debeatur locus]

Respondeo. Esse in loco dicitur tribus modis: pro-prie, minus proprie et communiter. Proprie esse in loco dicitur aliquid per circumscriptionem, et sic convenit soli corpori cui secundum locum principium, medium et finis assigna-tur; quia minus in maiori, et minus in minori loco. Minus proprie dicitur aliquid esse in loco per diffinicionem et determinacionem, secundum quod aliquid dicitur esse alicubi, ita quod non alibi; et ita anima extra corpus. Et eciam angeli dicuntur esse in loco quia ita alicubi quod non alibi. Com-muniter dicitur aliquid esse in loco per presenciam ubi, scilicet operatur et sic dicitur Deus esse in loco cum presens dinoscitur per operacionem. Sed non predictis modis, scilicet per cicumscriptionem ut corpus, vel per diffinicionem ut anima vel angelus. Item, esse in loco per circumscriptio-nem dicitur duobus modis, per se et per accidens. Per se, corpus cui se-cundum locum principium, medium et finis assignatur; per accidens, ut ani-ma corpori unita dicitur circumscribi

[Solucio] Dicendum quod esse in loco tripliciter dicitur: proprie, et minus proprie et communiter. Proprie est in loco quod determinat sibi locum et replet ipsum, ita quod primum locatum respondeat primo loco et medium medio, et po-stremum postremo, et sic esse in loco est proprie circumscribi a loco21; et sic solum debetur locus corporibus, quia solum corpus replet locum per se loquendo, quia dimensionatum est. Minus proprie est in loco quod de-terminat sibi locum et diffinit22 ita, scilicet quod cum est hic non est alibi, set non replet locum, et sic substancia spiritualis est in loco cum a corpore separatur. Communiter est in loco quod confun-dit omnem locum et nullum sibi de-terminat, et sic Prima causa est in lo-co, quia presens est omni loco. Et ut magis proprie dicatur, omnis locus sibi proprius est, tamen sua operacio magis viget in una parte universi quam in alia, ut in dextra parte cir-cumferencie celi, octavus Phisice in fine23, et a Comentatore ibidem24 et

20 Per facilitare la messa a confronto dei due testi, sono state evidenziate con il neretto le fonti esplici-te e con il corsivo le parti dove la dipendenza testuale è più evidente. Sono state segnalate inoltre solo le fonti del testo senese, perché ancora inedito, mentre per quelle della Summa De anima, cfr. Ioannes de Rupella, Summa de anima cit, cap. 51. 21 Giovanni de la Rochelle su questo punto fa riferimento a Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, c.13, n.6. 22 diffinit/ distinguit ms. 23 Aristoteles, Phys. VIII. 10, 267 b 7- 10, in Averroes, In Phys. VIII. 83, (ed. Venetiis 1562-1574), f. 432r. 24 Averroes, In Phys. VIII. 84 (ed. Venetiis 1562-1574), ff. 432r-432v.

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loco, eo quod in corpore est ens et non extra ipsum et corpus in quo est circumscribitur loco. Non ergo per se, sed per corpus dicitur circumscribi loco et ideo per accidens. Unde Au-gustinus, in libro De anima et spiri-tu: “Anima idcirco quia in carne clau-ditur esse in loco et localis dici potest. Verumptamen non sicut corpus cui secundum locum principium, medium et finis assignatur”. Nota ergo quod esse in loco per diffi-nicionem convenit anime racione sub-stancie que est terminata et finita. Un-de ei convenit ita esse alicubi quod non alibi, ad differenciam divine sub-stancie que interminata est et infinita et ideo ubique est. Et hic modus es-sendi in loco convenit anime separate. Esse vero per presenciam in loco ei convenit propter operacionem. Unde et Ioannes Damascenus de angelo dicit quod ibi est ubi operatur. Esse vero in loco per circumscriptionem ei convenit per accidens, scilicet per eam unionem que est ad corpus. Debetur ergo ei esse in loco per diffinicionem racione substancie; esse vero per pre-senciam eidem racione operacionis; esse vero per circumscriptionem, sed per accidens, racione corporis. Item, nota quod haec tria esse in loco per circumscriptionem, per determi-nacionem, per presenciam se habent hoc modo, ut esse per presenciam po-nat solum coexistenciam rei et loci;

in primo [De] celo et mundo25; dicit enim quod in hoc conveniunt omnes leges26: quod celum est locus Dei et spiritum, tamen credimus quod sua substancia non sit magis hic quam ibi, et hoc habemus in De articulis fidei27, quod Deus essencialiter est ubique. Similiter anima intellectiva in corpore dicitur habere situm in cerebrum, quia magis ibi sue operaciones [sunt], licet secundum sui substanciam sit in qualibet parte corporis28. Et isti tres modi se habent secundum addicione: primus enim addit supra secundum circumscriptionem, id est clausionem, ita quod primum primo et medium medio, et cetera. Secundus autem addit supra tercium distinctio-nem in loco et determinacionem, quod non contingit cause Prime. Posito igitur quod anima separata sit in loco secundo modo: ad tres primas raciones, quia procedunt de eo quod primo modo est in loco, 146rb et sic verum est quod non debetur locus nisi quanto. Et dices forte quod celum est locus unigeneus substanciis spiritualibus, set hoc non videtur, quia tunc cum substancia spiritualis esset extra, ce-lum violenter esset ibi.

25 Aristoteles, De caelo, 270 a 22 e segg.. 26 Averroes, In Phys. VIII. 84, (ed. Venetiis 1562-1574), f. 432: “Unde omnes leges conveniunt in hoc, quod Deus habitat in coelo”. 27 Alanus de Insulis, De articulis catholicae fidei, PL 210, I, col. 603: “Deus essentialiter est ubique, et nusquam localiter”. 28 Il riferimento implicito di questo parallelo è al De spiritu et anima: Ps. Augustinus De spiritu et anima, cit., cap. 18, col. 794, l. 14: “Sicut enim Deus ubique est totus in toto mundo, et in omni crea-tura sua: sic anima ubique tota in toto corpore suo, tanquam in quodam mundo suo, intensius tamen in corde et in cerebro, quemadmodum Deus praecipue dicitur esse in coelo”. Si veda più avanti.

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esse vero per determinacionem ponat et coexistenciam et eciam superaddat terminacionem et distinctionem; esse vero per circumscriptionem ponat et coexistenciam et determinacionem sive distinctionem et superaddat di-mensionem. Cum ergo dicitur de Deo: Deus est in loco per presenciam, sensus est quod non abest loco sed simul cum illo, ita quod hic dico: simul cum illo, non no-tet paritatem; cum vero dicitur ange-lus est in loco per determinacionem vel anima sensus est, quod non abest loco, immo presens est in illo et non in alio; cum vero dicitur: corpus est in loco per circumscriptionem sensus est, quod presens est loco ens, in loco illo et non in alio, et eciam in tanto ita quod non in minori vel maiori loco. Esse ergo in loco per presenciam non excludit pluralitatem loci; esse vero in loco per determinacionem excludit pluralitatem loci, sed non excludit maioritatis vel minoritatis loci assi-gnacionem; esse vero per circumscrip-tionem excludit et pluralitatem loci et assignacionem maioritatis vel minori-tatis loci. Unde Augustinus in libro De anima et spiritu, dicit quod respectu incorpo-ree nature que summe incommutabilis est t ubique est, scilicet per presen-ciam, ipsa anima dicitur corporea sive localis, quia alicubi est, ita quod non alibi; hoc et esse per diffinicionem, non tamen loci spacio ita sistitur, ut maiore sui parte maiorem locum oc-cupet, quod est esse in loco per cir-cumscriptionem, immo in omnibus partibus corporis est tota et in singulis tota.

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Dall’esame dei testi sopra riportati possiamo formulare due principali considera-zioni. La prima, di carattere squisitamente metodologico, concerne l’uso delle fonti, e può avere una ricaduta sulla messa a punto delle modalità con cui con-durre la ricerca su questi commenti: si noti infatti che sia Giovanni sia l’anonimo artista, pur veicolando il medesimo contenuto dottrinale, esplicitano esclusiva-mente le fonti che ciascuno ritiene attendibili o sufficientemente autorevoli in relazione all’ambito dottrinale cui fanno riferimento. Pur muovendosi su un ter-reno comune, i due fanno infatti riferimento ai materiali che sembrano loro più consoni alla contestualizzazione della loro indagine e al campo di afferenza della loro disciplina: si noti che l’anonimo commentatore, pur parafrasando sostan-zialmente il cap. 50 della Summa de anima, ‘impreziosisce’ la trattazione con il richiamo a fonti naturalistiche che sono del tutto assenti nel testo del teologo francescano, e precisamente il libro VIII della Physica di Aristotele, con il com-mento di Averroè, e il libro I del De caelo et mundo aristotelico. Vengono invece omessi i riferimenti al De anima et spiritu e a Giovanni Damasceno che troviamo invece citati da Giovanni de La Rochelle, mentre l’unica fonte esplicita di carat-tere teologico nelle anonime Questiones è il De articulis fidei di Alano di Lille. La riproposizione in parallelo di questi due testi diventa allora un caso esem-plare per comprendere la discrezionalità nell’utilizzo delle fonti che talvolta ca-ratterizza i testi, il che fa comprendere quanto possa essere fuorviante restare troppo aderenti alla mera individuazione delle auctoritates nominate. Il caso che abbiamo appena esaminato ci mostra infatti che un medesimo contenuto dottrina-le può essere trasposto da un ambito disciplinare ad un altro (dalla teologia alla filosofia naturale) semplicemente introducendo nel testo riferimenti ad hoc che ne segnalino il ‘nuovo’ carattere. Per converso, è bene notare che le fonti natura-listiche introdotte dall’anonimo autore non stonano affatto nella trattazione, per-ché, in qualche modo, si può pensare che vi fossero implicitamente presenti, o quanto meno ben note a Giovanni, che tuttavia non ha ritenuto di doverle esplici-tare, forse perché non strettamente pertinenti, o sufficientemente autorevoli, al testo teologico cui stava attendendo. La seconda osservazione che possiamo for-mulare a partire dal confronto con questi testi è invece centrata sui contenuti dot-trinali e ci permette di confermare quanto precedentemente ipotizzato sullo statu-to dell’anima separata negli scritti della prima metà del XIII secolo (fino al 1260 ca.). È infatti opportuno rilevare che in entrambi i testi ‘anima separata’ e ‘so-stanza separata’ sono considerati come sinonimi, come ci attesta la significativa oscillazione nei titoli (l’anonimo studia il luogo della sostanza spirituale, Gio-vanni quello dell’anima separata) e all’interno delle trattazioni stesse (dopo aver posto la questione del luogo della sostanza spirituale, l’anonimo continua a trat-tarla facendo riferimento all’anima separata). Questa sostanziale equivalenza è un’ulteriore prova a conferma dell’ipotesi prima suggerita, ovvero che la messa a punto con strumenti filosofici dell’assimilazione della dottrina aristotelica dell’anima umana come forma, o atto, del corpo, è ancora ben lontana dall’essere compiuta.

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IL BENE E LE SUE APORIE IN UN TRATTATO ANONIMO DELLA FINE DEL XIII SECOLO

Emanuele Coccia

“Ex omni parte videtur de ratione boni difficultas insurgere”

(Gerardo da Bologna) In una data imprecisata, tra la fine del XIII secolo ed il primo ventennio del XIV un filosofo a cui non è possibile restituire un nome ed un volto deve aver compo-sto un trattato sulla natura del bene che, nel suo testimone più antico, è conserva-to oggi in un manoscritto in possesso della Bibloteca Civica di Sarnano (segnatu-ra E 99). Il testo, che ha circolato più tardi come opera pseudoepigrafica di Al-berto Magno sotto il titolo di De ordine entium,1 è stato sepolto dall’oblio dei se-coli successivi; solo nel ventesimo secolo la curiosità filologica di Martin Gra-bmann ha permesso il ritrovamento di due testimoni quattrocenteschi, conservati in due biblioteche romane. Comunicando la scoperta del testo in un saggio sulle traduzioni latine dell’Elementatio theologica di Proclo, Grabmann aveva propo-sto di riconoscere in quest’opera il celebre trattato De ordine entium a cui Witelo aveva accennato nella epistola introduttoria della propria Perspectiva.2 Un più attento esame del suo contenuto rende piuttosto improbabile una simile attribu-zione. L’enigma del suo autore, così come quello del suo titolo, sembrano del resto aver costantemente accompagnato la vita postuma di quest’opera. Respon-sabile di questo enigma è, con ogni probabilità, lo stato in cui essa è riportata nel testimone più antico. Incipit ed explicit, luoghi canonici in cui il copista era soli-to depositare il nome dell’autore ed il titolo dell’opera, sono stati resi illeggibili da una rasura. Dopo la rasura, nelle prime righe leggibili del trattato, l’autore compendia la materia dell’opera in questo modo:

De bono universi, scilicet productione, perfectione et gubernatione ipsius universi, secundum quod omnia producta sunt ab uno rerum principio et secundum quod reducuntur ad idem ut ad unum finem inquantum congruo

1 Sono due dei cinque testimoni superstiti a denunciare una simile attribuzione. L’opera, in cinque libri, è testimoniata da cinque mss: Sarnano, Bibl. Civica E 99; Città del Vaticano, Vat. Lat. 3739; Reg. Lat. 1459; Roma, Bibl. Angelica 619, Napoli, Bibl. Nazionale, VII E 38. Il testo è databile all’ultimo quarto del tredicesimo secolo (terminus post quem: 1272). Chi scrive ha presentato un’edizione critica del testo come Tesi di dottorato presso il Dipartimento di Studi sul Medioevo e il Rinascimento (Università di Firenze, 2005), con il titolo: Il De bono universi attribuito a Witelo. Edi-zione critica e saggio introduttivo. Per la discussione del contesto storico-filosofico in cui il testo ha avuto origine, si rimada al saggio introduttivo, che occupa il primo volume. 2 M. Grabmann, Die Proklosübersetzungen des Wilhelm von Moerbeke, und ihre Verwertung in der lateinischen Literatur des Mittelalter, apparso prima in “Byzantinische Zeitschrift” XXX (1929-30) pp. 78-88, poi raccolto con delle aggiunte in Mittelalterliches Geistesleben. Gesammelte Abhandlun-gen zur Geschichte der Scholastik und Mystik, II Band, pp. 413 – 424.

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sibi modo suas perfectiones assequntur, et secundum quod per eiusdem regimen et prudentiam gubernantur.3

Il trattato ha per oggetto dunque il bene dell’universo, “ovvero la produzione, la perfezione ed il governo dello stesso”. Questa indicazione permette una pur mi-nima definizione assieme storica e spirituale dell’atmosfera culturale e filosofica in cui il testo deve esser stato concepito. Tra gli infiniti tratti che caratterizzano la cornice letteraria e speculativa della filosofia del tredicesimo secolo v’è infatti una straordinaria ma ancora inspiegata diffusione di trattati e di summae de bo-no4: la moltiplicazione ed il successo di questo genere non possono essere infatti ricondotti a delle semplici necessità di ordine accademico, visto che la loro gene-si non fu sempre (o non solo) motivato dall’insegnamento universitario.5 Dall’importantissima Summa de bono di Filippo il Cancelliere, in cui tradizio-nalmente la filologia è solita riconoscere la nascita delle speculazioni medievali sui trascendentali,6 alla cosiddetta Summa Duacensis del misterioso G. de Sois-sons, riscoperta nel secolo scorso da P. Glorieux, dall’opera incompiuta di Alber-to Magno sino alla grandiosa De summo bono del suo “allievo” Ulrich von Stras-sburg, passando proprio per la summa anonima del Ms. Vat. Lat. 4305, e senza contare i numerosissimi loci della trattatistica teologica (Sententiae, Summae ecc.)7 espressamente rubricati come de bono, la riflessione sulla natura del bene sembra aver assunto un’importanza decisiva nel sistema dei saperi del XIII seco-lo. La centralità di questo tema non può che trovare una conferma dal titolo au-tentico dell’opuscolo pseudo-aristotelico che proprio in questo secolo sembra aver goduto di una maggiore fortuna: il Liber de expositione bonitatis purae, co-nosciuto più diffusamente come Liber de Causis. Il trattato De bono universi rappresenta un elemento non anodino di questa tradizione che attende ancora di essere recensita nella sua interezza. L’interesse del trattato sta innanzitutto nella capacità di fondere entro un’unica cornice epi-stemologica la riflessione etica e quella sulle intelligenze (a cui è dedicato il pri- 3 Ms. Sarnano, Bibl. Civ. ms. E 99, f. 4r. 4 I primi studiosi ad aver notato questa centralità sembrano essere stati gli editori (ma si tratta di un’edizione delle prime pagine del manoscritto) della Summa de bono conservata nel Ms. Vat. Lat. 4305, per lungo tempo attribuita a Giovanni di Lichtenberg ed ora invece attribuita ad un anonimo operante all’inizio della seconda metà del tredicesimo secolo. Cfr. L. Sweeney, W. Topp, J. Whit-head, R. Roemer, Transcription of Initial Folios of Summa de bono, Codex Vaticanus Latinus 4305, in “Manuscripta” VII (1963), pp. 131-157; e L. Sweeney, W. Topp, Ch. Ermatinger, Summa de Bono, Codex Vaticanus Lat. 4305: Transcription of Folios 4r-7(bis)r, in “Manuscripta” IX (1965), pp. 30-52. 5 Cfr. la voce “summa” del Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1941, vol 14, 2, P. Gauthier sbaglia però nell’affermare che la Summa non sia mai legata all’insegnamento. Il caso della Summa di Nicola di Argentina testimonia il contrario. Cfr. in proposito le importanti indicazioni di R. Im-bach-U. Lindblad, Compilatio rudis ac puerilis. Hinweise und Materialien zu Nikolas von Strassburg O.P. und seine Summe, in “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie” XXXII (1985), pp. 155-233. 6 Resta ancora da risolvere l’enigma per il quale è stata proprio una Summa de bono ad aver ‘inventa-to’ la dottrina dei trascendentali. 7 Si potrebbero fare infiniti esempi: da Alessandro di Hales o di Guglielmo d’Auxerre sino a Tomma-so d’Aquino, da Bonavenura sino a Berthold von Moosburg ecc.

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mo libro dell’opera), le riflessioni di filosofia naturale (a cui sono dedicati i libri centrali) e quelle sul governo divino (a cui è dedicato il quinto libro, testimoniato solo in modo incompleto). La convergenza dei saperi entro un unico quadro – quello tracciato dalla scientia boni – coincide con la reale confluenza di tutte le cose nell’unica ragione del bene: i saperi possono articolarsi in una cornice unita-ria proprio perché tutti gli enti scaturiscono e ritornano naturalmente al bonum universi e sono mantenuti in essere e nella loro perfezione dal regimen e dalla gubernatio di questo. Se è il bene a permettere a tutti gli enti non solo di venire ad essere, ma di rapportarsi nel loro stesso essere ad un’unico principio, a com-porsi in un unico mondo, la scientia de bono potrà aggregare nel suo seno tutti i saperi che riguardano questo mondo, le sue forme, i suoi elementi, ed il suo prin-cipio. Questa operazione di reductio ad unum assieme concettuale ed epistemo-logica è tanto più interessante ed originale se si pensa che le riflessioni sul bene avevano portato a formulare le equazioni di separazione tra il principio e i suoi derivati, e all’interno degli enti tra l’essere e l’essenza. È proprio in un trattato dedicato al bene ed alla determinazione del grado in cui le cose sono buone che appare per la prima volta la cesura ontologica su cui tutta la filosofia medievale ha fondato la propria metafisica, quella tra esse e essentia. È infatti nel De heb-domadibus boeziano, uno degli archetipi più importanti e rivoluzionari della trat-tatistica tardo-antica de bono che il tentativo di fondare una qualche articolazione tra essere e bene si scontra con l’impossibilità di contenere le divisioni all’interno dell’ente.8 Già il titolo del trattato annuncia l’ambiguità della sua so-luzione: si tratta di comprendere infatti «in che modo le sostanze siano buone nel fatto stesso di essere, pur non essendo sostanzialmente buone». La riflessione latina era stata inaugurata proprio dal paradosso per cui in questo mondo l’unione di essere e bene si dà sempre nella forma di una loro disunione: se le cose sono buone nel fatto stesso di essere, lo saranno proprio nel grado in cui non coincide-ranno con il bene stesso, a patto cioè di mantenere una separazione tra il loro es-sere e l’essere-il-proprio-bene. Questa paradossale condizione di un essere-buono che coincide con il non-essere il bene deve garantire cioè che l’accordo tra essere e bene in ciò che è – nelle cose del mondo – si dia sempre nella forma di un descortz. Il bene sembra poter esercitare la funzione di aitia sunektiké, come gli stoici erano soliti definirla, solo disgregando il cosmo in piani incomunicabili, come se fosse capace di unire le cose solo moltiplicando le divisioni all’interno dell’essere, introducendo nel tessuto continuo dell’ontologia delle irreparabili fratture, differentiae che nessun genere riuscirà più a ridurre.

8 Per la vastissima bibliografia su questa Axiomenschrift e una sua discussione critica si rimanda alla prefazione di P. Porro alla sua traduzione del commento di Tommaso al De hebdomadibus: Tommaso d’Aquino, Commenti a Boezio, intr., tr., note e apparati di P. Porro, Milano 1997, specialmente p. 47 n. 30. Importanti sulla teologia del De hebdomadibus sono anche C. Micaelli, Il De Hebdomadibus di Boezio nel panorama del pensiero antico, in Boèce ou la chaîne des savoirs. Actes du colloque inter-national de la fondation Singer-Polignac, Paris 8-12 juin 1999, éd. par A. Galonnier, Louvain Paris 2003, pp. 33-53. Del medesimo autore si cfr. anche la monografia Dio nel pensiero di Boezio, Napoli 1995. Sul tema resta insuperata la monografia di E. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung der abendländischen Willensmetaphysik, Stuttgart 1932.

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Il bene e la prassi

Sotto la rubrica bene la filosofia non ha sempre archiviato speculazioni di tipo morale. Se si fa fede alla sua origine, questa nozione ha avuto infatti connotazio-ni politiche (nella Repubblica, dove definisce l’apice del sapere politico) o co-smologiche (nel Timeo, dove esprime la natura del demiurgo cui si deve il pro-getto del mondo). È stato Aristotele il primo artefice della limitazione della no-zione di agathos al dominio della prassi.9 Bene è ciò che è prakton, quanto deri-va, cioè, dalle operazioni e dalle azioni delle cose più che dal loro essere. Il bene non è, come aveva suggerito Platone, quanto si diffonde e istituisce le cose, ma definisce un’altra forma di causalità, un altro modo cioè di determinare movi-mento nel reale: quello della finalità.10 Esso non riguarda tanto l’esistenza delle cose o il loro venire a essere, ma la loro perfezione, il loro compimento, la loro realizzazione. Per questo il suo luogo non è tanto l’essere quanto il desiderio che ha per oggetto l’essere. E, viceversa, l’ordine della finalità, in quanto ordine della perfezione e del compimento, coincide con l’ordine del bene. Bene e fine sono sinonimi. Far coincidere il bene con la perfezione delle cose stesse significa porre il progetto di una scienza del bene dinanzi a un sicuro nau-fragio. Se infatti il bene coincide con la perfezione della cosa e con il suo com-pimento esso si dirà tante volte quante si dice l’essere. Non solo infatti la perfe-zione di una sostanza non coincide con quella di un’altra sostanza differente dal-la prima per genere e specie, ma per una medesima sostanza la perfezione può dirsi relativamente alla quantità, al tempo, al luogo ecc. Allo stesso modo, il bene differisce per ciascuna delle sostanze, si dice diversamente e ha diversa natura a seconda che lo si consideri come attributo della sostanza o invece della quantità, della qualità, del tempo o del luogo di una cosa. Per ogni singolo ente si dovrà pensare un bene specifico, non univoco a nessun altro ente di altra natura; e per questo stesso ente si dovrà parlare in maniera diversa se si considererà il suo be-ne quanto alla sostanza o invece quanto al tempo o al luogo: il bene che coincide con la sua forma sarà diverso dal suo bene specifico relativo al luogo. “Come l’essere non è qualcosa di uno”, così nemmeno il bene, e alla plurivocità dei sa-peri circa l’essere, dovrà corrispondere la molteplicità dei saperi relativa al be-ne.11 Medicina, ginnastica, strategia e quella “scienza della felicità” che è la poli-tica: l’unità dei saperi sembra essere definitivamente infranta. “Non vi potrà es-sere un’unica scienza del bene” conclude Aristotele nell’Etica Eudemia, “allo stesso modo in cui non vi può essere un’unica scienza dell’essere” (1217b 34-35). E in questa affermazione – che resterà sconosciuta al medioevo latino – si annida tutta l’ambiguità della soluzione aristotelica: perché come in realtà può

9 H.G. Gadamer ha insistito lungamente su questo punto. Cfr. Die Idee des Guten zwischen Plato und Aristoteles, Tübingen 1978, tr. it. di G. Moretto in “Studi platonici”, II vol., Torino 1984, p. 234 sqq. Cfr. anche E.E. Ryan The Notion of the good in Books Alpha, Beta, Gamma and Delta of the Meta-physics of Aristotle. Copenhagen 1961. 10 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, 982b 10. 11 Cfr. Aristoteles, Ethica Nicomachea, 1096 a 29 sqq.

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esservi un’unica scienza dell’essere che si basi sulla sua analogia, allo stesso modo dovrà pure esservi un’unica scienza del bene. L’occasione, la misura, la forma, e tutti i beni hanno il medesimo nome perché si dicono kat’analogian.12 Se “il bene si dice come l’essere”,13 ontologia e scienza del bene saranno legati ad un comune destino. Se il bene, come l’essere, si dice in tanti modi (legetai pollachôs), ed è im-possibile pensare all’esistenza di un unico bene, sarà parimenti impossibile im-maginarsi che tutte le cose aspirino ad un solo bene: “ciascuno infatti desidera il bene proprio, l’occhio la vista, il corpo la salute e così ogni altra cosa il suo bene diverso”.14 Se poi esistesse davvero un bene in sé separato esso “non sarebbe qualcosa di operabile (prakton) e di possedibile per l’uomo”.15 È in questa obie-zione che si rivela il principio che ispira le riflessioni aristoteliche. Il bene appar-tiene alla prassi, deve essere oggetto d’azione: per questo esso concerne in primo luogo la politica e non la metafisica. “Cosa è dunque il bene di ogni cosa? Ciò in vista di cui si opera tutto (prattetai) il resto. E questo è in medicina la salute, nel-la strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in una tecnica, e un’altra in un’altra tecnica. Ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine. In vista di questo si fa tutto il resto”. L’iscrizione della dottrina del bene in una teoria della finalità è forse la più importante eredità della speculazione aristotelica.16 Ogni cosa tende a qualcosa, è in relazione con il proprio compimento, la propria realizzazione, il proprio fine (telos). E bene è “ciò a cui ogni cosa tende”, il compimento specifico di ogni co-sa, la sua perfezione permanente. Ciò che una simile equazione sembra lasciare non detto è che tra una cosa e la sua perfezione non v’è immediata coincidenza: una cosa non è la sua perfezione, ma vi tende (ephietai) e può possederla o parte-ciparne in diverso grado. Proprio per questo il bene definisce lo spazio possibile della prassi, di una perfezione che non si è ma si può acquisire. Il rapporto cioè tra una cosa e il suo bene non declina l’essere, ma il fare, l’agire, l’avere. Per questo il bene si dà a conoscere come qualcosa che è assieme interiore e esterio-re, trascendente e immanente. Più precisamente, definire bene la forma e la per-fezione di un ente significa produrre e aprire in esso uno spazio in cui poter arti-colare questa dialettica. Plotino si farà discepolo di questa tradizione ‘aristoteli-ca’ in uno dei due trattati Peri tagathou che figurano nella sesta Enneade, quan-do affermerà che il bene non definisce l’immediato proprio (idion) di una cosa,

12 È Aristotele ad accennare a questa possibile soluzione, cfr. Ivi, 1096b 27-28. 13 Aristoteles, Ethica Eudemia, 1217b 26-27 14 Ivi, 1217b 30-33. 15 Aristoteles, Ethica Nicomachea, 1096 a 32 sqq 16 L’assimilazione di bene (agathon) e fine è testimoniata in più luoghi dell’opera aristotelica. Cfr. Metaphysica 1013b 25-28; 982b 5-6; 983 a 31-32. Questa identità è un luogo comune dell’aristotelismo medievale. Cfr. ad esempio Thomas Aquinas, Summa theologiae. I, q. 5. a. 4; Summa Contra Gentiles, III, 16; Matthaeus de Aquasparta, Quaestiones disputatae de productione rerum et de providentia, ed. G. Gal, Quaracchi 1956, q. 2, p. 37; p. 241; Henricus de Gandavo, Sum-ma (Quaestiones ordinariae) art. XLI-XLVI, ed. L. Hödl, Leuven 1998, a. XLI, p. 3.

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ma la potenza del proprio, o un proprio in potenza.17 Il bene è il luogo in cui ogni cosa sospende o riduce per un attimo l’esteriorità della propria perfezione: per questo “quanto più puri e buoni sono gli enti, tanto maggiore sarà l’accordo e l’intimità (oikeiosis) con se stessi”.18 Gadamer sembra ricordare il passo ploti-niano quando scrive che la riflessione aristotelica sul bene può concepirsi nei termini di “un’autoconciliazione dell’ente con la propria essenza”.19 Con ciò si traduce in termini etici quella peculiare tensione metafisica tra ogni cosa e la sua perfezione: come l’esistenza della materia in ogni ente è la variabile che contem-poraneamente impedisce e rende possibile formulare la perfetta equazione tra esso e la sua forma, allo stesso modo il fatto che si dia prassi è l’elemento che assieme articola e disarticola negli enti l’essere e il bene. È perché vi è prassi che non coincidiamo senza resto con il nostro bene. E, poiché vi è prassi il bene non potrà mai coincidere con l’essere. Tra l’esse e l’esse bonum non v’è che la possi-bilità di agire. Ma cosa significa in realtà agire? E qual è il segno ed il peso del bene in ogni forma di prassi? E perché è l’azione ad essere il luogo di costituzione di ogni be-ne? La teologia medievale possiede la rara capacità di trasformare quanto in altre discipline è separato da limiti invalicabili, nel monogramma dell’inseparabilità. Un tale privilegio le deriva dal supporre come proprio oggetto un ente (Dio) che non ammette in sé divisioni o separazioni reali. Se in Dio infatti pensiero e esse-re, sostanza ed azione coincidono, allora ontologia, etica e teoria della conoscen-za devono comporsi nella teologia entro un medesimo e indivisibile tratto. Chie-dersi, a proposito di Dio, cosa significhi agire, permetterà di evitare di cogliere in esso un fenomeno puramente “pratico”, “morale”, per descrivere la segnatura metafisica e gnoseologica originaria di ciò che chiamiamo prassi. Che Dio possa agire, che in Dio possa esservi una qualche forma di azione, è affermazione tutt’altro che ovvia. Nel mondo greco infatti l’argia e l’ozio sono attributi propri e quasi coessenziali al divino. Aristotele aveva scritto che “per l’essere che si trova nella condizione migliore non v’è alcun bisogno di azione (praxeos): egli è infatti lo stesso fine (to hou heneka), mentre ogni azione comporta sempre due termini (he de praxis aei estin en dusin)”.20 Proprio per questo il principio moto-re non muove agendo ma permanendo nella propria quiete, attirando gli enti a sé piuttosto che operando qualcosa verso di essi. Se Dio è capace di azione, lo è so-lo nella creazione. A partire da Filone di Alessandria, oggetto privilegiato della scienza teologica diviene il tentativo di pensare sino in fondo il kosmos come oggetto di poiesis (e di una poiesis particolare – la creazione – che non si esercita su alcun presupposto); la teologia è dottrina della cosiddetta kosmopoiesis. Se il creare infatti non coincide con un semplice facere, è perché esso presuppone una qualche forma di azione e di prassi, anche se particolare e superba: la creazione si esercita infatti secondo un preciso intreccio di volontà e sapere, che secondo

17 Plotinus, Enneades VI, 7, 27. 18 Ibidem. 19 Cfr. H. G. Gadamer, Die Idee des Guten, cit., p. 261. 20 Aristoteles, De caelo, 292 b 4-6.

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Aristotele definivano il modo d’essere dell’agire umano.21 Se del resto si trattas-se di una mera forma di poiesis, i teologi non avrebbero potuto parlare di libertà a proposito dell’azione divina. Essa è invece l’espressione suprema dell’arbitrio di Dio. Per questo Tommaso d’Aquino parlerà della creazione come di propria actio dei (S. theol. I, q. 45). Nel De bono universi, la descrizione della creazione si inserisce invece nella cornice di una più vasta e accurata fenomenologia dell’azione divina. “Dio – si legge in quest’opera – è la causa delle cose che agisce attraverso l’intelletto e la volontà, non attraverso la necessità della natura. Chi agisce attraverso l’intelletto e la volontà, poiché precede il fine per cui agisce, precede nell’ordine degli agen-ti chi agisce secondo la necessità di natura”.22 L’agente naturale infatti agisce così come è: l’azione di un agente naturale è proporzionata alla natura dello stes-so agente. “L’azione di colui che agisce attraverso l’intelletto non è affatto pro-porzionata alla natura dello stesso agente. Infatti chi edifica non edifica quanto può, ma quanto esige la ragione del fine. Per cui se v’è una qualche potenza in-tellettuale infinita, da essa non procede qualcosa secondo la proporzione della sua potenza, ma secondo ciò che conviene al fine e alla natura del soggetto”. Per questo “l’essere divino è interminabile e dalla sua bontà infinita procedono di-versi effetti, determinati secondo la determinazione dell’intelletto e della volon-tà”.23 Non solo Dio è un agens, un principio cioè che agisce, ma la sua azione, a differenza delle azioni o delle operazioni proprie degli agenti naturali non è affat-to proporzionata alla natura né alla potenza dell’agente. Dio è detto agire attra-verso la volontà e l’intelletto, e pensiero e desiderio, a differenza di quanto pote-va leggersi in Plotino, impediscono a Dio di agire secondo la sua natura, “così come è”. Se Dio agisce per essenza, ciò non significa che agisce ut est. In Plotino e in tutta la tradizione neoplatonica l’Uno “vuole e opera secondo la sua natura”, proprio perché “come volle, così egli è”.24 Natura e volontà coincidono, azione e essere non possono essere separati. Per questo dell’uno non si potrebbe dire a rigore né che è, né che agisce. Nel passo appena citato del De bono universi in-vece il pensiero e la volontà sembrano postulare una precisa autonomia dell’azione divina dalla sua natura e dal suo essere. Non che l’azione sia qualco-sa di distinto dalla sua essenza. “Se infatti Dio non agisse per la sua stessa essen-

21 Aristoteles, Ethica Nicomachea, III, 5, 1113b 3 sqq. L’opposizione aristotelica tra praxis e poiesis si era completamente stemperata in epoca ellenistica (basti pensare al De fato di Alessandro di Afro-disia): le categorie della poiesis vengono adoperate per descrivere la praxis, e ogni poiesis sembra presupporre una forma di prassi. 22 De bono universi, L. 1, cap. V: “Est igitur deus causa rerum agens per intellectum et voluntatem non necessitate naturae. Agens enim per intellectum et voluntatem cum finem praestituat propter quem agit, est prius in ordine agentium agente per naturae necessitatem”. 23 Ibidem. 24 Plotinus, Enneades VI, 8, 13: “se gli attribuiamo delle operazioni e diciamo che i suoi atti per così dire avvengono attraverso la volontà (non può operare senza volere), e che queste operazioni costitui-scono la sua essenza, la sua volontà (boulesis) e la sua essenza (ousia) saranno la stessa e medesima cosa. E se è così, come egli volle, così è. Non vale di più dire che ‘vuole e opera secondo la sua natu-ra’ che non ‘come vuole e opera sono la sua sostanza’. È signore di se stesso e il suo stesso essere dipende da sé (eph’hauto)”.

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za, agirebbe allora per un elemento aggiuntosi alla sua essenza, come il fuoco che agisce attraverso il calore che non è la sua essenza. Per questo sarebbe com-posito e non sarebbe il primo”.25 In questo Dio differisce dagli agenti naturali, che non agiscono per suam essentiam. Ma agire secondo l’essenza, significa in Dio agire secondo la sua volontà e secondo la sua sapienza. Dio è detto agire dall’ordine della sua sapienza e attraverso la libertà della sua bontà e cionono-stante attraverso la sua essenza, senza che questo determini in esso una qualche necessità.26. La creazione è un atto, un’azione che pur coincidendo con l’essenza divina e non aggiungendovi nulla, non perde l’autonomia dalla natura divina. Al-la base della creazione non v’è una natura ma una volontà indeducibile dalla sua natura. Essa è cioè una sorta di azione assoluta che non ha alcun fondamento nell’essere divino in fondo proprio perché, paradossalmente, coincide con esso. Affinché sia possibile parlare di creazione è necessario poter riconoscere alla sua origine un’azione e non un semplice essere. D’altra parte, affinché il creatore non arrivi a perdersi e confondersi con ciò che crea, è necessario riconoscere un’essenza divina che non si fondi sulla sua azione. A Dio non basta essere per creare, deve volere e pensare il mondo: deve agire. D’altra parte l’azione non è mai rivolta a se stesso: Dio è, e non ha bisogno di creare per essere. Che la genesi del mondo si fondi su una forma trascendentale e archetipica di azione, del tutto infondata rispetto all’essere, a qualsiasi forma di essere e non solo a quello divino trova in fondo conferma nella glossa dogmatica per cui la creazione è sempre ex nihilo.27 Che cosa significa infatti ex nihilo? La creazione esprime un’azione primigenia che non si fonda su alcun ente, nemmeno quello divino, perché a differenza di ciò che avviene per l’emanazione neoplatonica creante e creato non hanno (né possono avere) la medesima forma. La formula ex nihilo non fa che sottolineare l’autonomia della Ur-praxis divina, quella che vie-ne definita la sua libertà. E, del resto, se non si trattasse di una forma di praxis non si potrebbe parlare appunto di libertà, che non può mai essere attributo di un essere, ma riguarda esclusivamente la facoltà di agire. Abbiamo qui quella che resterà la definizione paradigmatica dell’azione sino alla modernità. L’agire si definisce in modo privativo rispetto all’essere e in completa autonomia rispetto alla natura di chi agisce. L’azione non esprime l’essenza di chi agisce, né esauri-sce la sua potenza, ma produce effetti non comparabili per potenza e essenza agli agenti, indeducibili dalla loro natura. Il bene è quanto impedisce all’azione di

25 Albertus Magnus, Super Dionysii De divinis nominibus, ed. P. Simon, Aschendorff, Münster 1978 (Editio Coloniensis XXXVII, 2), p. 118. 26 Ibidem. 27 Si tratta ovviamente solo di un suggerimento esegetico che non intende esaurire la questione. Sulla creatio ex nihilo la bibliografia è sterminata. Tra gli interventi più recenti si cfr. il libro di G. May, Creatio ex nihilo. The Doctrine of Creation out of Nothing in Early Christian Thought, translated by A.S. Worall, T&T Clark, Edimburgh 1994 (1 ed. Shöpfung aus dem Nichts, Walter de Gruyter, Berlin 1978), che per primo ha avanzato la tesi di un’origine gnostica (basilidea) di questa dottrina. Ormai classici gli interventi di H.A. Wolfson, The Philosophy of the Kalam, Cambridge (Mss.) and London 1976 e soprattutto Studies in the History of Philosophy and Religion, ed. by I. Twersky and G. H. Williams, Cambridge 1973 (soprattutto pp. 170-181; pp. 355-370; pp. 371-391).

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coincidere con l’essere di chi agisce: esso è l’operatore di disgiunzione tra essere e agire. Proprio perché ogni cosa sembra rimessa a un bene in qualche modo se-parabile dall’essere che essa è, la sua azione non potrà mai riposare esclusiva-mente sul proprio essere. Se la prassi è ciò che articola l’essere al bene, il bene è quanto permette alla prassi di separarsi dall’essere. In fondo, la grande differenza tra creazione e emanazione neoplatonica, tra cristianesimo e spirito greco, è proprio questa: l’emanazione è una produzione del mondo per una sorta di deduzione dalla natura divina, dal suo essere. Nella creazione l’essere del mondo non è affatto dedotto né deducibile dall’essenza di-vina. Non è una conseguenza necessaria dell’esistenza di Dio. Essa è il frutto di una prassi originaria del tutto infondata, di una scelta, di una volontà immotivata, che non si fonda sulla natura di Dio. Per questo tutta la relazione tra Dio e mon-do acquista valenza etica e politica. Se il bios politikos è reso possibile non da un essere o dal semplice pensiero ma dalla capacità di prassi, il mondo, già a partire dalla sua genesi, non ha altra determinazione e consistenza che politica: perché le cose esistano è necessario che vi sia stata in origine una forma originaria di prassi. In questo senso il mondo è simile ad una polis,28 e gli enti di questo mon-do, come tutto ciò che esiste in una polis, dovranno essere amministrati: Dio stesso dovrà curarsi29 di essi dopo averle create, perché possano conseguire il proprio bene. Il fatto che le cose siano segnate dalla prassi sin dalla propria ori-gine (perché alla loro origine c’è una prassi e non un essere o un atto di pensiero) significa infatti solo che esse non godono immediatamente e senza resto del pro-prio bene. Tutto ciò che si costituisce e ha essere nel medio di una prassi, non può coincidere immediatamente e senza resto con il proprio bene. Deve agire per conseguire la propria perfezione: il rapporto al proprio compimento è mediato da una fragile rete di desideri, condotte, passioni, emozioni. E proprio perché il rap-porto alla propria perfezione diviene labile e estrinseco, gli enti creati avranno bisogno di essere guidati e condotti al proprio bene, devono cioè essere governa-ti. Costituirsi nell’ordine del bene significherà allora corrispondere a una volon-tà ordinatrice, farsi oggetti di una cura che porta le cose verso la loro perfezione, di una provvidenza.30 E l’azione propria della provvidenza divina è il governo (gubernatio est actio ipsius providentiae).31 Creazione e provvidenza sembrano implicarsi reciprocamente. È perché Dio è il creatore del mondo che egli prov-vede, continua a prendersi cura di esso, si preoccupa di agire in esso. “Il padre infatti e creatore si prende cura del generato, come il padre si interessa alla pre-

28 Cfr. Philo de Alexandria, De opificio mundi, ed. par R. Arnaldez, (Les oevures de Philon d’Alexandrie, 1), Paris 1961, § 17-19 29 Ivi, § 10: il principio primo «si prende cura (epimeleisthai) di ciò che ha generato» 30 Cfr. De bono universi, L. V, cap. I: “Solus deus est per essentia bonus; cetera per participationem optinent bonitates. Et quia secundum hoc aliqua reguntur et gubernantur quod in boni ordine statuun-tur ex eo quod quaelibet creatura secundum modum suum statuitur et conservatur in bono, omnia reguntur et gubernatur ab ipso”. 31 Alexander Halensis, Summa theologica, studio et cura pp. Collegii S. Bonaventurae, 4 voll., Qua-racchi 1925-1928, I, p. 285.

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servazione dei suoi piccoli o l’artigiano alla preservazione delle sue opere; essi ne scartano per tutti i mezzi tutto ciò che è funesto e nocivo, cercano con ardore di procurargli tutto ciò che è utile e avvantaggioso”. Negare questa cura significa rimettere il cosmo ad una totale anarchia: “è un’opinione insostenibile e nociva che instaura in questo mondo l’anarchia, come in una città che non avrebbe né efori né arbitri né giudici su cui debbono riposare tutte le amministrazioni e tutti i governi”.32 Nella creazione così come nella provvidenza, il mondo si costituisce e resta sotto l’impero di una prassi. Bontà e dominio, agathotes e exousia – i due principali attributi divini33 – sono forme di espressione della sua prassi. La potenza del bene

La creazione del mondo presuppone una prassi divina del tutto autonoma rispet-to alla sua natura. Dio non genera il mondo perché è, ma perché vuole; e non crea ut est, ma ut vult. Il mondo non è un effetto fisico o ontologico della sua na-tura, ma conseguenza etica (o politica) di una sua scelta. Al punto che, secondo la celebre formula agostiniana infinitamente ripetuta nel medioevo, la sola ragio-ne che è possibile addurre a motivo della creazione è il fatto che Dio volle.34 L’impossibilità di dedurre questa volontà e questa scelta dalla sua natura35 rende ogni esplicazione fisica o naturale (nei termini dell’azione di un soggetto su una materia) del tutto impropria: la creazione presuppone cioè un avvenimento prati-co, non un ente fisico, né un fatto puramente speculativo. L’irriducibilità della volontà divina ad una natura o alla necessità del suo essere è la causa di una non-proporzionalità di potenza, tra l’operante e l’opera. Poiché, cioè, la creazione presuppone una scelta razionale, non tutta la potenza del produttore si realizzerà nel prodotto. È infatti il fine che muove la volontà a determinare e limitare le in-finite possibilità che la potenza sottende. Ma – e è questo il paradosso – il fine che muove la volontà divina è la sua bontà. Se la creazione avviene per volunta-tem e la volontà è sempre mossa dalla bontà, sarà la bontà la vera ratio della cre-

32 Philo de Alexandria, De opificio mundi, cit., § 10-11. 33 Cfr. Philo de Alexandria, De cherubin, ed. par Jean Gorez, (Les oevures de Philon d’Alexandrie, 3) Paris 1963, § 27: “le sue potenze prime e più elevate sono due: la bontà (agathotêta) e la potestà (exousia). Attraverso la sua bontà fa nascere tutto (to pan gegennêkenai), attraverso la potestà regge ciò che ha generato (tou gennethentos archein). Una terza potenza che riunisce le altre due e che è nel mezzo è il verbo (logos): è attraverso il verbo infatti che dio è sia sovrano (archonta) che buono (agathon)”. Come spiega Wolfson (Philo. Foundation of Religious Philosophy in Judaism, Christian-ity and Islam, Cambridge (Mass.) 2 voll. 1947, I vol. p. 224) la bontà è da identificarsi con gli attribu-ti della creazione (poiêtikê) o della charistikê o della euergetis (beneficenza) ecc.; per quello invece dell’autorità (exousia) si parla di sovranità (archè) governo (archikè) legislazione (nomothetiké) o regale (basiliké) o punitiva. Questa duplicità è probabilmente riconducibile al duplice nome divino nella Torah, Yhvh/Adonay (kurios) da una parte e Elohim (theos) dall’altra. Nel mondo latino questa polarità si tradurrà nella coppia tra bonitas e iustitia. Cfr. ad esempio Tertullianus, Adversus Marcio-nem, II, 12, 1, 3. 34 Cfr. Augustinus, De genesi contra Manichaeos, I, 2, 4, PL 40 c. 18. 35 Lo afferma esplicitamente, tra gli altri, un testo dello pseudo-Giustino: nella natura divina ousia e boulé debbono potersi distinguere: cfr. Pseudo-Iustinus, Quaestiones christianae ad Graecos, ed. J. C. Th. Otto, Jena 1876, p. 286.

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azione. È quanto le prime summae scolastiche compendieranno nell’assioma per cui Dio crea non perché è potente o sapiente ma perché è buono. D’altra parte proprio perché Dio crea in quanto vuole, il flusso degli enti dal primo non può pensarsi nei termini di una realizzazione esaustiva di una potenza infinita. Se il bene è ciò che impone una limitazione della potenza divina, se è l’operatore principale di questa limitazione, in un mondo creato esso sarà sempre ciò che impedisce agli enti di coincidere con la potenza assoluta – e risolversi senza resto in ciò che possono essere. Le ricerche sul tema della potentia absoluta/ potentia ordinata hanno già da tempo messo in luce come l’atto creativo comporti sempre una limitazione della potenza divina; sarebbe inutile volervi insistere. Ciò che è invece importante sottolineare è la relazione paradossale tra la limitazione della potenza divina e il bene. L’uno plotiniano proprio perché “vuole come è e è ciò che vuole”, si configura rispetto a ciò che da esso deriva come una potenza asso-luta (una dynamis ton panton).36 Per questo la processione delle ipostasi avviene sub specie potentiae, e avvenuta la processione nel principio non resta più nessun grado di potenza irrealizzato. È lo stesso Plotino a sottolinearlo: “Ma ora non è più possibile che qualcosa nasca, non c’è più nulla ormai che non sia nato perché tutte le cose sono state generate”.37 L’emanazione implica un esaurimento dei possibili, una completa realizza-zione della potenza dell’uno, che non resta nel principio in quanto irrealizzata. Affermare che il principio trattenga presso di sé la propria potenza in quanto ine-saurita significherebbe tacciarlo di invidia, sterilità, avarizia o, più banalmente, di impotenza (adunamia). “Vediamo che quando le cose che arrivano al proprio compimento, generano e non riescono a trattenersi in se stesse, generano qualco-sa di diverso da sé. Ciò vale non solo per chi possegga la facoltà di scegliere ma anche per chi non è capace di scelta o decisione, e si limita a vegetare. Persino le cose inanimate donano e trasmettono di sé quanto possono, come il fuoco che riscalda, e la neve raffredda, e i farmaci operano in altro. […] Come potrebbe il più perfetto e il primo bene rimanere in se stesso sterile, come se fosse avaro o impotente, esso che è la potenza di tutte le cose? E come potrebbe essere allora principio (arché)? Anche da lui deve di certo nascere qualcosa, e se esiste qual-cosa di diverso, perché tutto deriva da lui con necessità”.38 È in quanto sommo bene, che la potenza onnicomprensiva dell’Uno non può non-potere. Il bene è qui principio della completa realizzazione della potenza. Ed è questo passaggio che può riconoscersi formulato in nuce l’assioma celebre in tutta la tradizione plato-nica – di cui però non si conoscono a tutt’oggi le reali origini testuali – secondo il quale il bene è diffusivo di sé.39

36 Cfr. Plotinus, Enneades III, 8, 10; V, 4, 1; V,3, 15. 37 Ivi, V, 5, 12 38 Ivi, V, 4, 1. 39 Sull’origine di questo ‘assioma’ cfr. lo studio di K. Kremer, Bonum est diffusivum sui. Ein Beitrag zum Verhältnis von Neuplatonismus und Christentum, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, hrsg. von W. Haase, 36.1, Berlin 1987, pp. 994-1032.

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L’impossibilità di concepire il processo degli enti da Dio sotto la specie della potenza è ciò che condurrà la teologia medievale a dover limitare la validità di questo principio. In una questione del proprio commento alle Sentenze, Bonaven-tura si chiede se Dio avrebbe potuto creare le cose migliori di quanto siano. Ri-spondere a una simile questione significa determinare chiaramente il legame tra bene e potenza divina: fare le cose migliori significa, alla lettera, esser capaci di crearle ‘più buone’ di quanto esse siano. Ciò che è in gioco è appunto la comuni-cabilità del bene – l’essenza stessa di Dio – alle creature. Del resto il fatto stesso di porre un simile enigma porta necessariamente a riconoscere una non perfetta coincidenza tra bene e potenza in Dio: non poter creare le cose migliori di quanto sono significa che la sua potenza non arriva a esaurire il bene effettivamente pos-sibile (dunque il bene è superiore alla potenza). Se al contrario si risponde affer-mativamente allora il bene sembra coincidere con una parte e non con la totalità della potenza e cioè dell’essenza divina. Sono le domande poste e non le solu-zioni ad esse fornite a decidere spesso il destino della filosofia; ciò vale in mas-sima misura per la filosofia medievale, in cui la prosa del pensiero si articola at-traverso il ritmo armonico di quaestiones. Una delle ragioni che sembrerebbero far pendere per una risposta affermativa potrebbe formularsi nel modo seguente: se le creature non poterono diventare migliori ciò accadde o perché Dio non poté dare di più (non potuit dare plus) di quanto ha effettivamente dato, o perché le creature non poterono accogliere o prendere (capere) di più di quanto hanno ef-fettivamente accolto. Nel primo caso si dovrà ammettere che la potenza divina è limitata e finita. Il secondo caso è invece evidentemente falso perché l’esperienza quotidiana insegna che ogni ente non cessa di migliorarsi o di deteriorarsi senza cambiare quanto a sostanza e capacità.40 La risposta di Bonaventura a questa o-biezione, approfondisce, in quella che potremmo chiamare la ‘fisiologia del be-ne’, la polarità tra l’ambito del fisico (bonitas rei) e quello del volontario (boni-tas voluntatis). Quella che sembra essere una semplice differenza di ambiti, di-viene qui una frattura di due diversi regimi di trasmissione e di diffusione (e dun-que di causalità) del bene: v’è infatti una diffusione o comunicazione volontaria e ve n’è una naturale. Dire che il sommo bene si diffonde e si comunica è vero per quanto riguarda la diffusione naturale. Ciò non vale invece per la diffusione volontaria o quella causata da una scelta (propositum). E se si ha una diffusione naturale nel caso della productio personarum della trinità, nel caso della creazio-ne si avrà invece solo una diffusio voluntaria.41 Il principio secondo cui bonum est diffusivum sui ha dunque validità limitata. Simili affermazioni possono leg-gersi anche in una delle Quaestiones disputatae de potentia di Tommaso d’Aquino. All’altezza dell’articolo 15 della terza quaestio Tommaso si chiede se le cose procedono da Dio per necessità di natura o per l’arbitrio della volontà e una delle ragioni che porterebbero a concludere che ogni cosa deriva da Dio per

40 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, Commentaria in libros Sententiarum I, d. 44, q. 2, in Opera omnia, ed. Collegium S. Bonaventurae, 10 voll., Collegium S. Bonaventurae, Quaracchi 1882-1902, I, p. 785. 41 Ibidem.

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necessità di natura è l’affermazione della II lettera a Timoteo, secondo la quale “Dio resta fedele, e non può negare se stesso”. Se Dio è la sua stessa bontà, ne-gando la sua bontà egli negherà necessariamente se stesso. E negherebbe la sua bontà se comunicandola non la diffondesse, perché questo è il proprio della bon-tà. Dunque Dio non può non produrre la creatura comunicando la sua bontà e per questo la produce per necessità (ex necessitate) perché il non poter non essere e il necessario si convertono come si educe dal II libro del De interpretatione aristo-telico.42 Piuttosto che un determinato uso della propria potenza, la creazione di Dio si configurerebbe nei termini di una definitiva estinzione del suo poter non-creare. Dopo aver risposto alla questione affermando che “senza ombra di dubbio” bisogna tenere per vero che Dio ha prodotto le cose per arbitrio della sua volontà, Tommaso replica a questa obiezione con una sorprendente negazione del legame necessario tra bontà e comunicazione riconosciuto dal neoplatonismo. “Se Dio negasse la sua bontà facendo qualcosa contro la sua bontà, ne seguirebbe che ne-gherebbe se stesso. Ciò non accadrebbe invece se non comunicasse a nessuno la sua bontà. Nulla della sua bontà deperirebbe infatti se non venisse comunica-ta”.43 In qualche modo l’obiezione è rovesciata. Una simile risposta non è però certo priva di aporie: significa infatti riconoscere di fatto che la potenza divina non coincide perfettamente con il bene, ovvero che Dio può il male. L’impossibilità di far coincidere bene e potenza rappresenta forse la più segreta aporia di tutta la teologia latina medievale. Tommaso aveva affrontato più diret-tamente il problema in una quaestio precedente a quella citata, chiedendosi se Dio può ciò che è possibile agli altri, come ad esempio peccare o camminare. Dopo l’enumerazione canonica delle ragioni a favore o contro la tesi accettata, la risposta inizia con il ricordare che l’impotenza divina può pensarsi o nei termini di una limitazione della stessa potenza, o invece nella forma di una limitazione della volontà. Dinanzi all’evidenza dogmatica dell’impossibilità di affermare una qualche limitazione della potenza divina (come poter pensare a un Dio impoten-te? Cosa resterebbe della religione degli uomini se Dio fosse tacciabile di impo-tenza?) è evidentemente alla seconda soluzione che è necessario rivolgersi. Dio non può fare ciò che non può volere. E v’è un legame naturale tra la bontà e la volontà divina: Dio vuole naturalmente il bene e non può volere il male o il pec-cato.44 La bontà è ciò che argina la volontà divina e le permette di limitare nella realizzazione la sua onnipotenza. Per questo Dio, se è detto onnipotente e onni-sciente, non può dirsi in nessun caso omnivolens. In una bellissima questione, in cui cerca di dare ragione di questa inspiegabile dissimetria, Bonaventura ammet-te che “Dio può tutto ciò che è possibile e sa tutto ciò che è conoscibile, ma non vuole tutto ciò che è possibile volere (volibile)”. Dio non fa tutto ciò che potreb-be volere (non facit omne volibile), e dunque non vuole tutto ciò che gli sarebbe

42 Cfr. Thomas Aquinas, Quaestiones disputatae de potentia, ed. P.M. Pession, in Quaestiones dispu-tatae, ed. P. Bazzi et al. Torino 1965, q. III, a. 15. 43 Ivi, a. 12 44 Cfr. Ivi, q. I, a. 6.

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possibile desiderare.45 In modo perfettamente speculare a quanto accadeva in Plotino il bene, proprio in quanto ratio creationis, è ciò che trattiene la potenza divina nel suo estrinsecarsi, e impedisce al mondo di poter coincidere nella sua potenza con il primo. Esso sembra configurarsi come un principio della articola-zione divisoria tra Dio e le creature piuttosto che come il luogo della loro con-giunzione. La bontà di Dio scava una faglia nell’universo, proprio in quanto cau-sa la sua esistenza: Dio dona essere alle creature perché è buono, ma proprio per-ché buono non può comunicare loro la totalità della propria potenza. Il bene è assieme ragione della comunicazione e della non-comunicazione tra creatore e creature, è la causa della loro unione così come della loro irreparabile divisione. Questa forza di divisione attraversa e penetra le cose: conoscere il proprio bene significherà d’ora in poi riconoscere in sé una frattura tra il proprio essere e la propria potenza. Il bene, in ogni cosa, è quanto le impedisce di essere fino in fondo ciò che può; viceversa la potenza di ogni cosa, le possibilità di cui la sua esistenza si nutre, saranno pensate in forma disgiuntiva rispetto al suo bene. Il nostro bene è ora tutto ciò che ci salva e ci difende da ciò che possiamo.

45 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, In I Sentiarum, d. XLV, art. 1, q. 2

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L’ETHICA NICOMACHEA E I ‘PREVOLANTES’ DI MONARCHIA III, iii, 4

Paolo Falzone Il capitolo terzo del terzo libro della Monarchia si apre distinguendo tre gradi di attuazione del rapporto tra ignoranza e disputa, valutati in corrispondenza della natura di ciascuna delle tre questioni che il trattato analizza. La questione dibattuta nel III libro – se l’autorità del Monarca dipenda da Dio direttamente oppure ne dipenda attraverso l’autorità del Pontefice – realizza il caso, insolito, in cui l’intensità della contesa turba violentemente o addirittura sopprime l’atto conoscitivo, generando da sé una situazione di grave ignoranza:

Huius quidem tertie questionis veritas tantum habet litigium, ut, quemad-modum in aliis ignorantia solet esse causa litigii, sic et hic litigium causa ignorantie sit magis.1

Il problema, deve intendersi, è oggetto di un così aspro contendere che molti, sopraf-fatti dalla passione, finiscono per smarrire in esso le proprie capacità di giudizio. Dall’essere il normale rapporto tra ignoranza e litigio sovvertito a favore del secondo termine, deriva all’argomentazione dantesca, si osservi, una seria restrizione del pro-prio potere persuasivo. Poiché, se l’ignoranza dalla quale la nuova questione deve essere districata è il riflesso di un disordine morale, quale si verifica ogni qual volta la passione (nella fattispecie la passione del contendere) produca un offuscamento del giudizio, va da sé che la rimozione dallo stato di ignoranza non può immediatamente conseguire, come nelle questioni dibattute nei libri I e II, alla dimostrazione del vero, bensì richiede che quella dimostrazione operi nella natura del ‘passionato’ e ne retti-fichi i desideri. Che l’errore sia dissolto, e insieme con esso l’ignoranza, è eventualità che viene pertanto a dipendere dalla condizione che colui che la logica di parte abbia reso privo della verità acceda ad un risanamento morale. A questo stato di disordine morale, specificato nei termini di un sovvertimen-to del normale rapporto tra desiderio e giudizio, allude il paragrafo 4, sul quale intendiamo fermare la nostra attenzione. Esso ha avuto infatti due interpretazioni contrarie, la cui diversa esecuzione dipende, nella sostanza, da due modi diversi di leggere il testo. La maggior parte degli editori moderni, sia il Rostagno,2 sia il Bertalot,3 sia, ancor prima, il Witte,4 ritenne che la frase con la quale Dante spiegava in che modo dalla discordia avesse a generarsi ignoranza, dovesse essere letta in questo modo: 1 Mn. III, iii, 3. Mn. III, iii, 1. Cito il testo, salvo diverso avviso, da Dante Alighieri, Monarchia, a cura di P. G. Ricci, (Le Opere di Dante Alighieri [.] Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, V), Mondadori, Milano 1965. 2 Cfr. la sua edizione della Monarchia in Le opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana, Bemporad, Firenze 1921. L’edizione, come noto, manca di apparato critico. 3 Dantis Alagherii De Monarchia libri III, recensuit Ludovicus Bertalot, Freidrichsdorf, apud Franco-furtum 1919 e Gebennae 1920. 4 Dantis Alligherii De Monarchia libri III, codicum manuscriptorum ope emendati per Carolum Wit-te, Vindobonae 1874.

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Hominibus namque rationis intuitum voluntate prevolantibus hoc semper contingit ut, male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi ceci trahantur et pertinaciter suam denegent cecitatem.

Parole che nel 1950 il Vinay traduceva:

Infatti, agli uomini avvezzi a precorrere con la volontà l’intuito della ra-gione accade sempre che, mal disposti per aver rinunziato alla sua luce, sono trascinati come ciechi dalla passione e si ostinano a negare la loro cecità.5

Questa lettura si fondava, oltre che su dati testimoniali, sull’autorità che gli edi-tori sopra nominati erano concordi nel riconoscere al volgarizzamento di Marsi-lio Ficino. Tale in effetti era stata la sua versione del passo:

Agli huomini che volano collo appetito innanzi alla consideratione della ragione, sempre questo seguita: che·lloro, mal disposti, e posposto e·lume della ragione, sono tirati come ciechi dallo affetto, e pertinacemente la lo-ro cechità nieghano.6

Ciò nondimeno è parso opportuno all’ultimo editore della Monarchia, Pier Gior-gio Ricci, discostarsi dalle scelte dei precedenti editori (e del Ficino), e proporre una diversa lettura del passo, che nel testo dell’Edizione Nazionale (1965) si pre-senta modificato nel modo che segue (indico in corsivo le parole interessate da modifica):

Hominibus nanque rationis intuitu voluntatem prevolantibus hoc sepe con-tingit: ut, male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi ceci tra-hantur et pertinaciter suam denegent cecitatem.

Il Ricci, come si può agevolmente constatare, ha trasformato in un ablativo (con valore strumentale) ciò che precedentemente era letto come un accusativo (r. in-tuitum › r. intuitu) e, viceversa, ha mutato in accusativo ciò che gli editori prece-denti leggevano come ablativo (voluntate › voluntatem). Questa modifica impone un senso inverso rispetto alla lettura tradizionale: non è la volontà a ‘prevolare’ rispetto alla considerazione razionale, ma è la ra-gione a ‘prevolare’ rispetto, ovviamente, alla volontà. Da qui discende l’obbligo, per il Ricci, di sostituire al semper dei suoi prede-cessori, l’avverbio saepe, attestato nel ramo α della tradizione, al fine di preser-vare quella che egli ritiene la logica del passo. Si è in grado di valutare a pieno il senso degli interventi del Ricci avendo sot-to gli occhi una qualsiasi delle traduzioni della Monarchia fondate sul testo dell’Edizione Nazionale (in pratica tutte quelle successive al 1965). Si consideri,

5 Dante Alighieri, Monarchia, Testo, introduzione, traduzione e commento a cura di G. Vinay, San-soni, Firenze 1950. 6 Cito dall’edizione curata da P. Shaw in “Studi Danteschi” LI (1978), pp. 328-408: pp. 379-380.

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ad esempio, la versione eseguita da Bruno Nardi per l’edizione Ricciardi delle Opere minori di Dante:

Giacché ad uomini avvezzi a guidare la volontà col lume di ragione, acca-de spesso questo, che, mal disposti, lasciatosi dietro il lume del raziocinio, sian trascinati come ciechi dalla passione e pertinacemente disconoscono la loro cecità.7

La fedeltà alle scelte del Ricci, aspramente criticate in altri casi, induce il Nardi non solo a tradurre il passo in una forma che ospita in sé una vera e propria mo-dulazione logica - perché mai infatti a quanti sono avvezzi a guidare l’appetito con la ragione dovrebbe spesso accadere di essere ottenebrati dalla passione? - bensì a forzare il testo latino oltre quello che esso effettivamente dice: che il ver-bo ‘prevolare’, indicante, come si vedrà meglio più avanti, un movimento preci-pitoso e sregolato, venga tradotto con ‘guidare’, cioè a dire con un verbo che e-sprime piuttosto un movimento ordinato e, sopra tutto, deliberato, è cosa che rie-sce tanto più difficile a spiegarsi quanto più si apprezzi la raffinata sensibilità linguistica della quale il Nardi seppe dar prova nella traduzione del testo.8 E tuttavia, se i rilievi alla scelta del Ricci si limitassero all’esibizione di ar-gomenti di buon senso, la questione certo non potrebbe dirsi né approfondita né, tanto meno, risolta. Né in vero si sarebbero seriamente discusse le motivazioni con le quali l’editore critico ha ritenuto di dover giustificare il suo intervento sul testo. Procederò dunque esaminando le motivazioni del Ricci, cercando al con-tempo di chiarire, mediante un’indagine sul significato del termine ‘prevolare’, perché la lettura accolta nell’Edizione Nazionale sia da giudicare irricevibile. Afferma il Ricci che “tutti gli editori moderni” preferirono la forma rationis in-tuitum voluntate, appoggiandosi al codice Trivulziano (siglato T) e al volgariz-zamento del Ficino. Gli altri codici della Monarchia (cioè a dire: gli altri due te-stimoni del ramo α: A - che tuttavia, composito, per questa porzione del testo dipende da un codice appartenente al ramo β della tradizione - e K, l’editio prin-ceps, congiuntamente a tutti i codici della famiglia β), recano in effetti la lezione rationis intuitu voluntatem, messa a testo dall’editore. Ma, a parte l’autorevolezza che, sul piano stemmatico, deve essere ricono-sciuta al ms. T – che, quattrocentesco, suppone però un ms. cronologicamente assai prossimo all’archetipo –, è abbastanza evidente che ove si verifichi un caso

7 Dante Alighieri, Opere minori, t. II, Ricciardi, Milano-Napoli 1979, p. 439. 8 L’incongruenza tra ‘prevolare’ e ‘guidare’ è sottilmente rilevata da G. Sasso, Dante [.] L’Imperatore e Aristotele, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, (“Nuovi Studi Sorici”, 62), Roma 2002, p. 303, n. 13. Va da sé che ‘guidare’ è una scelta suggerita a Nardi dal Ricci; l’unica compati-bile, del resto, con la nuova lettura del passo. Che il ‘guidare’ di Nardi derivi dal Ricci, lo si può fa-cilmente constatare leggendo la nota ad locum dell’editore critico, riprodotta infra. ‘Guidare’ hanno anche le più recenti versioni di F. Sanguineti (Garzanti, Milano 1985) e di M. Pizzica (Rizzoli, Mila-no 1988). Poiché entrambi i curatori riproducono il testo dell’Edizione Nazionale, senza che ciò su-sciti loro, per quanto attiene al caso specifico, la minima perplessità, è del tutto ovvio che essi si man-tengano fedeli alla traduzione del Nardi.

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di alternanza tra forme del genere, che in origine presuppongono un compendio, e si sia in presenza di una tradizione come quella della Monarchia – tarda e assai più contaminata di quanto il Ricci non fosse disposto a riconoscere9 – le scelte dell’editore critico devono affidarsi al principio del grado di plausibilità e di coe-renza (logica, linguistica, stilistica, ecc.) che ciascuna forma esibisce in rapporto alla forma o alle forme (nell’eventualità che sia più d’una) che le sono alternati-ve. Poiché dunque dall’esame della tradizione non discende, nel caso specifico, un particolare obbligo verso una forma piuttosto che verso l’altra, non stupisce che Ricci abbia motivato la sua scelta soprattutto con un argomento di ordine in-terpretativo. Onde evitare che il pensiero dello studioso possa essere riportato frettolosa-mente o in maniera inadeguata, sarà bene riferire per intero la nota da lui apposta al luogo che ci interessa:

rationis intuitu voluntatem: Tutti gli editori moderni, appoggiandosi al Fi-cino e al codice Trivulziano, preferirono rationis intuitum voluntate cre-dendo che qui Dante voglia accennare agli uomini che sottomettono la ra-gione al desiderio. Le cose stanno diversamente. Dante distingue due grandi categorie di uomini: quelli che vivono secondo ragione, da quelli - e sono i più - che vivono secondo il senso (cfr. Conv., I, iv, 3: “La mag-gior parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplice-mente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione”). In pochi uo-mini – i migliori – gli occhi della ragione guidano invece la volontà (ra-tionis intuitu voluntatem), salvo che la passione non li ottenebri, ponendoli al livello degli altri: male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi ceci trahantur. Frase che benissimo è commentata da Par., XIII, 120 (“l’affetto l’intelletto lega”) e da Conv., III, x, 2 (“discordante dal vero per infermitade dell’anima che troppo era passionata”; e poco sotto “l’anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione”). Tutti discorsi che Dante dice per gli uomini nei quali, normal-mente, la volontà è guidata dalla ragione; per gli altri ogni discorso è inu-tile (cfr. I, xii, 5, 17-20).10

Molte, in questo discorso, sono le cose che devono essere osservate. È opinione del Ricci che Dante voglia qui distinguere “due grandi categorie di uomini: quelli che vivono secondo ragione, da quelli [...] che vivono secondo il senso”. Ora, non sembra che le cose stiano esattamente in questo modo. Dante, a questo punto del discorso, non sta affatto distinguendo tra chi vive secondo ra-gione e chi vive secondo il senso, o almeno non ancora: egli, più semplicemente,

9 Cfr. P. Shaw, Il codice Uppsalense della «Monarchia», in “Studi Danteschi” XLVI (1969), pp. 293-331: pp. 330-331. 10 Così a p. 226 dell’Edizione Nazionale, nota ad locum.

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sta spiegando in che modo accada che la passione, quale concepisce dentro di sé chi, per amore di parte, si abbandoni senza freni alla contesa, generi l’ignoranza, cioè a dire l’offuscamento delle capacità di giudizio. Quando ciò si verifica, l’errore prende piede e si propaga: “Unde fit persepe quod [...] falsitas patroci-nium habeat”.11 La distinzione voluta dal Ricci c’è, ma è posteriore all’enunciazione della re-gola generale e, soprattutto, non è posta nei termini in cui lo studioso l’ha imma-ginata. E infatti, dopo aver spiegato come la passione, in tutti gli uomini che se ne lascino conquistare, sia causa di ignoranza, Dante distingue tre casi particolari che specificano la regola generale (III, iii, 6-10). I tre casi sono differenziati se-condo il grado di ignoranza che in essi si realizza. Ad un primo caso, in cui l’ignoranza è transitoria e reversibile (è il caso del Pontefice e dei vescovi, ottenebrati da una eccessiva premura verso la Chiesa) si oppone un secondo caso, più grave, in cui l’ignoranza arriva a negare i principi ed è perciò irreversibile (è il caso di quanti, principi e re, negano la legittimità stessa dell’Impero). Nell’un caso lo zelo corrompe il giudizio particolare (l’Impero è sottomesso alla Chiesa), non però la scelta del fine, in sé giusto (servire alla Chiesa), né, tan-to meno, la conoscenza dei principi (costoro non negano che l’Impero sia un be-ne per l’Umanità); nell’altro la passione, in forza del suo essere obstinata e non transitoria, inclina ormai al vizio la natura di chi ne è affetto (si è mutata cioè in disposizione permanente), ed è tale da pervertire non soltanto il giudizio (dipen-denza dell’Imperatore dal Papa), bensì la cognizione stessa dei principi (giacché il giudizio perverso discende in uomini siffatti dal disconoscere che un Impero sia comunque necessario al bene dell’umanità, come invece i primi continuano a concedere). Vi è poi un terzo caso in cui l’ignoranza assume un’estensione tale da sop-primere ogni capacità di ragionamento. È il caso dei decretalisti, i quali, moven-do da principi costruiti senza possedere né scienza filosofica né teologica (e per-ciò fallaci), giungono ad affermare, contro ogni principio logico, che le decretali siano causa dell’esistenza della Chiesa. Le tre categorie distinte da Dante, come si vede, non fanno che determinare, secondo il più e il meno, ciò che appartiene ad ognuna di esse, presa singolar-mente, e a tutte nel loro insieme, cioè a dire il fatto di andare incontro, per aver ceduto alla passione, ad un ottundimento delle facoltà di giudizio. E in ciò tutte, esclusa nessuna, seguono il senso. Sebbene – e qui sta la distinzione che Ricci vorrebbe anticipare rispetto alla sua reale collocazione – l’ottundimento del giu-dizio si realizzi in forme diverse a seconda del grado di estensione del deside-rio.12

11 Mn. III, iii, 5. 12 Tutto il ragionamento di Dante mi sembra presupporre il capitolo 8 del libro VII dell’Ethica Nico-machea, nel quale Aristotele tratta dei vari gradi di offuscamento del giudizio in relazione alla possi-bilità che chi è affetto dalla passione receda dal proprio stato. A tale scopo, lo Stagirita introduce la distinzione tra incontinente e intemperante. Mentre l’incontinente subisce un offuscamento transito-

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Quanto più l’appetito prevale sul giudizio, tanto meno l’ignoranza risulta re-versibile e transitoria. Tanto più, di conseguenza, si restringe la possibilità che una categoria acceda utilmente alla dimostrazione del vero.13 rio, dovuto al momentaneo prevalere della passione rispetto alle facoltà deliberative, l’intemperante subisce invece un offuscamento continuo e irrimediabile. Nel primo caso si ha ignoranza della circo-stanza particolare, ma non ignoranza del fine: è possibile dunque che, movendo dalla considerazione delle norme fondamentali, il ‘passionato’ torni ad imprimere al proprio desiderio un ritmo conforme a ragione. Nel secondo caso si ha invece non soltanto ignoranza delle circostanze particolari, bensì anche ignoranza del fine; nessuna norma riuscendo più deducibile, è improbabile che il ‘passionato’ si ravveda. Benché in Dante lo stato d’ignoranza riguardi un problema teorico e non pratico, e colpi-sca perciò i principi più che il fine, il modo in cui egli deduce la reversibilità di tale stato dal grado di ottundimento delle facoltà razionali, è del tutto conforme a quello aristotelico. Si avvicina ulterior-mente alla logica del discorso dantesco l’esposizione tomistica della dottrina. Quale si rinviene, ad esempio, nell’articolo 3 della quaestio 156 della Secunda Secundae, dedicata al peccato d’incontinenza. L’articolo contiene un’interessante riflessione sul rapporto di causalità tra ignoranza e appetito concupiscibile. Talvolta, scrive l’Aquinate, è l’ignoranza a precedere e a causare l’inclinazione dell’appetito. In questo caso si ha azione involontaria e non imputabile. Altre volte è l’inclinazione dell’appetito, viceversa, a causare ignoranza. Ne risulta allora un’azione volontaria ed imputabile (in modo analogo, si ricorderà, Dante distingue i casi in cui è l’ignoranza a generare la passione del contendere, meno gravi, dai casi in cui è piuttosto la passione del contendere a generare ignoranza, più gravi). L’ignoranza che affligge incontinenti e intemperanti, continua Tommaso, pro-cede da una perversa inclinazione dell’appetito; essa rientra perciò nel genere di vizi imputabili mo-ralmente. Per due aspetti però l’ignoranza degli uni si distingue da quella degli altri: per la durata e per la natura dell’oggetto su cui essa si esercita. Quanto alla durata, l’ignoranza dell’incontinente dura solo per il tempo in cui dura la passione, mentre l’ignoranza dell’intemperante è continua, a cau-sa della permanenza dell’abito vizioso. Quanto invece alla natura dell’oggetto ignorato, l’ignoranza dell’incontinente è limitata alla considerazione delle circostanze particolari, là dove quella dell’intemperante si estende alla considerazione del fine. In forza di ciò la guarigione (sanatio) dell’intemperante è assai più improbabile che non la guarigione dell’incontinente. Come infatti diffi-cilmente potrà essere ricondotto a verità, in ambito speculativo, colui che erra circa i principi, così difficilmente potrà essere ricondotto a virtù, in ambito pratico, colui che erra circa la considerazione del fine. La dottrina è efficacemente sintetizzata da Tommaso nelle Quaestiones disputatae de malo, q. III, a.13, in Thomas Aquinas, Opera Omnia, iussu Leonis XIII P. M. edita, tomus XXIII, cura et studio fratrum Praedicatorum, Roma-Paris 1982, p. 95, ll. 91-108: “...ille qui peccat ex infirmitate habet voluntatem ordinatam in bonum finem: bonum enim proponit et querit, set interdum recedit a proposito propter passionem; set ille qui peccat ex malitia habet voluntatem ordinatam in malum fi-nem: habet enim firmatum propositum ad peccandum. Manifestum est autem quod finis in appetibili-bus et operabilibus ‹est› sicut principium in speculativis, ut Philosophus ait in II Phisicorum. Ille au-tem gravissime ignoraret et periculosissime, qui errat circa principia, quia talis non potest reduci per aliqua principia priora. Ille autem qui errat tantum circa conclusiones, potest reduci per principia, in quibus non errat. Sic gravissime et periculossisime peccat qui peccat ex malitia, et non potest de faci-li revocari sicut revocatur ille qui peccat ex infirmitate, in quo ad minus manet bonum propositum”. La distinzione in tre categorie dei nemici dell’Impero riposa in Dante su di un criterio analogo: igno-ranza delle circostanze particolari (transitoria e reversibile) versus ignoranza dei principi (permanente e irreversibile). 13 Nell’aver ritenuto che il periodo da hominibus a trahantur implicasse già la distinzione tra ignoran-za reversibile e ignoranza irreversibile, che in realtà è introdotta solo nel ragionamento successivo, consiste, a nostro avviso, l’errore interpretativo del Ricci. Lo studioso nega infatti che con quella frase Dante abbia voluto riferirsi in generale a coloro che sottomettono la ragione al talento e sostiene che egli abbia inteso in realtà alludere, più specificamente, a quegli uomini che pur seguendo di solito il consiglio della ragione, si trovino accidentalmente ad essere ottenebrati dalla passione, riducendosi al livello di quanti, e sono la maggior parte, vivono seguendo i piaceri volgari del senso. Ma di tutto questo, nella frase da Hominibus a trahantur non c’è traccia. La frase si limita a spiegare in che modo l’inversione del normale rapporto tra facoltà conoscitive e facoltà appetitive, causata da una passione

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Né d’altra parte, anche a prescindere da quanto nel testo vien dietro, la frase così come il Ricci l’ha costruita, restituisce un senso plausibile. Stando alla logica dell’editore, Dante avrebbe prima ammesso che certi uo-mini sono avvezzi a guidare l’appetito (voluntatem) con gli occhi della ragione (intuitu rationis), per poi subito aggiungere che ai medesimi uomini “accade spesso questo, che, mal disposti, lasciatosi dietro il lume del raziocinio (lumine rationis postposito), sian trascinati come ciechi dalla passione (affectu quasi ceci trahantur) e pertinacemente disconoscano la loro cecità”.14 Ora, perché mai uomini avvezzi al controllo di sé dovrebbero non solo perde-re il lume della ragione, ma addirittura perderlo spesso (sepe e non aliquando o raro!), è una duplice incoerenza che il Ricci non si cura di spiegare. Ma anche se volessimo ammettere, sacrificando il rigore dei concetti, che la frase vada intesa come egli vuole che sia intesa, subito ci troveremmo davanti alla difficoltà di trovare un senso al verbo ‘prevolare’ che risulti coerente con l’interpretazione accolta. E un tal senso non potrebbe essere allora se non quello che il Ricci sug-gerisce - e che il Nardi purtroppo accoglie - e cioè ‘guidare’: “hominibus rationis intuitu voluntatem prevolantibus” sarebbe detto dunque di quegli uomini che con “gli occhi della ragione [...] guidano la volontà”.15 Se non che, come già si diceva sopra, il senso di ‘prevolare’ non è affatto i-dentico al senso di ‘guidare’. L’un termine, ‘prevolare’, esprime infatti un mo-vimento impetuoso e sregolato; l’altro, ‘guidare’, un movimento che procede or-dinatamente, secondo una regola. È quanto meno insolito, si deve ammettere, che Dante, per esprimere un mo-vimento governato dalle facoltà razionali – e che perciò deve supporsi sottoposto a regola – abbia utilizzato un termine che meglio invece si sarebbe convenuto a descrivere un movimento dalle caratteristiche contrarie, quale appunto è quello proprio delle facoltà appetitive. E tuttavia non si vuole pretendere che le cose stiano nel modo che a noi sembra debba preferirsi soltanto perché così suggerisce il sentimento della lingua. L’indicazione di occorrenze precise provvederà ad of-frire ad un tale sentimento il conforto di dati apprezzabili sul piano della conside-razione storica. Nel libro VII dell’Etica Nicomachea, nel quale Aristotele tratta del rapporto tra facoltà conoscitive e facoltà desiderative, nonché del potere che hanno queste ultime di ottundere la nostra capacità di giudizio, si distinguono due forme di in-continenza (akrasía), l’incontinenza causata da precipitazione (propéteia) e

troppo intensa, arrivi a turbare o ad inibire il processo deliberativo. Una volta che ciò sia accaduto la ragione si ritrova, inevitabilmente, sottomessa al desiderio. Che poi non sempre l’offuscamento delle capacità di giudizio sia grave al punto da compromettere in maniera definitiva la possibilità di un ravvedimento e che, in considerazione di ciò, convenga distinguere gradi diversi d’ignoranza e di colpevolezza, è uno sviluppo del ragionamento che è successivo alla frase in questione e che in nes-sun modo può costituirne il presupposto. Le tre categorie distinte valgono, al contrario, come attua-zioni particolari della situazione psicologica generale descritta in quella frase. 14 Ricorro, evidentemente, alla traduzione di Bruno Nardi. 15 Che è appunto la traduzione suggerita dal Ricci. Cfr. la nota ad locum riportata sopra.

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l’incontinenza causata da scarsa fermezza (asthéneia). La prima forma è tipica dell’impulsivo, che si precipita verso il proprio oggetto di piacere senza aspettare che la ragione deliberi sulla conformità di esso al bene in quanto tale; la seconda forma è invece tipica del debole, il quale, non sapendo resistere alla forza della passione, lascia che la deliberazione razionale, che pure in questo caso è riuscita ad esprimersi, resti inattuata.16 Ebbene, nel textus recognitus della versione grossatestiana dell’Etica, il so-stantivo propéteia è tradotto con ‘prevolacio’.17 ‘Prevolacio’ viene pertanto ad indicare, nell’anonima revisione della translatio lincolniensis, quella specie d’incontinenza nella quale la foga dell’appetito anticipa la considerazione razio-nale, impedendo a quest’ultima di frapporsi, quale giudice, tra il soggetto deside-rante e l’oggetto desiderato:

Incontinencie autem hoc quidem prevolacio, hoc autem debilitas. Hii qui-dem consiliantes non immanent quibus consiliati sunt propter passionem, hii autem propter non consiliari ducuntur a passione.18

Ciò che la versione latina esprime in forma ellittica guadagna una forma più lim-pida e distesa nella Sententia tomistica, per la quale Tommaso, come ha dimo-strato il padre Gauthier, ebbe a servirsi di un testo in cui le due recensiones erano già ad un livello avanzato di contaminazione.19 Giunto a commentare il luogo che ci interessa, Tommaso osserva:

Deinde cum dicit: Incontinentes autem etc., distinguit species incontinen-tiae. Et circa hoc tria facit. Primo ponit divisionem. Et dicit quod inconti-nentia dividitur in duo, quorum unum est praevolatio et aliud est debilitas. Secundo ibi: Hi quidem enim, etc, exponit membra divisionis. Et dicit quod quidem incontinentes sunt qui superveniente concupiscentia consi-liantur quidem, sed non permanent in his quae consiliati sunt propter pas-sionem a qua vincuntur, et talis incontinentia dicitur debilitas; quidam ve-ro ducuntur a passione propter hoc quod non consiliantur, sed statim concupiscentia superveniente eam sequuntur, et haec incontinentia dicitur

16 Eth. Nic., VII 8, 1150b20ss. 17 Là dove il Grossatesta aveva tradotto irrefrenacio. Il revisore della traduzione si è reso conto, pro-babilmente, che il termine propéteia era lo stesso con il quale, nel III libro (7, 1116 a7) Aristotele aveva qualificato gli audaci. Per la caratteristica di precipitarsi sul pericolo senza prima aver riflettu-to, simili in ciò agli incontinenti, gli audaci sono infatti definiti in quel luogo propeteîs. Già nella Translatio vetus propeteîs è reso con ‘prevolantes’ e ‘prevolantes’ si riscontra anche nelle traduzioni successive. Da questa forma sarà partito, verosimilmente, il revisore della grossatestiana per coniare il sostantivo ‘prevolacio’, dopo essersi accorto che il vocabolo greco impiegato da Aristotele era il medesimo in entrambi i luoghi. 18 Cfr. Ethica Nicomachea. Translatio Roberti Grossateste Lincolniensis sive ‘Liber Ethicorum’. B. Recensio Recognita, (Aristoteles Latinus, XXVI 1-3, fasc. IV), edidit R. A. Gauthier, Brill-Desclée de Brouwer, Leiden-Bruxelles 1973, liber VII, cap. IX, ll. 6-9. 19 Su ciò si veda R. A. Gauthier, Praefatio a Sancti Thomae de Aquino Opera Omnia [.] Tomus XLVII [.] Sententia Libri Ethicorum, vol. I, Romae, ad Sanctae Sabinae 1969, pp. 232*-234*.

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praevolatio, propter sui velocitatem qua anticipat consilium. Si autem consiliarentur, non ducerentur a passione [...].20

Egli aggiunge, poco più oltre, che gli incontinenti precipitosi (praevolantes!) non si lasciano guidare dal consiglio della ragione, ma agiscono seguendo le diletta-zioni immediatamente offerte loro dai sensi (sequuntur primam fantasiam con-cupiscibilis). Concetti analoghi sono espressi nella quaestio CLVI della Secunda Secundae, dedicata all’analisi del peccato d’incontinenza. Si ha incontinenza, osserva l’Aquinate, quando la ragione manca di resistere alle passioni. Ciò può avvenire in due modi: o perché l’uomo, sopraggiunto dalla passione, non riesce a trattenere quanto la ragione ha consigliato (“non permanet homo in his quae con-siliata sunt”) oppure perché l’anima cede alle passioni ancor prima che la ragione abbia deliberato (“anima passionibus cedit antequam ratio consilietur”). Nel pri-mo caso si ha debolezza (infirmitas), nel secondo si ha incontinenza sregolata, ovvero precipitazione (“irrefrenata incontinentia sive praevolatio”).21 Difficile dubitare, alla luce di questi riscontri, che il prevolantibus della Mo-narchia non riproduca il senso che il sostantivo prevolacio detiene nel VII libro dell’Etica e nelle esposizioni tomistiche. Tanto più che la ripresa avviene nel quadro di un’analisi egualmente dedicata all’inversione del normale rapporto tra appetito e considerazione razionale. E dal momento che con ‘prevolacio’ Aristo-tele indicava lo slancio impetuoso che, comunicato dalla passione alle facoltà desiderative, precipita queste ultime alla conquista dell’oggetto prima che la ra-gione ne abbia considerato l’intrinseco valore, non diversamente con prevolan-tes, nella Monarchia, Dante avrà voluto alludere a quanti, sopraffatti dalla pas-sione, lasciano che il desiderio precorra l’analisi razionale. Solo in questo modo, del resto, il passo guadagna un senso soddisfacente. È infatti proprio a causa del-la prevolacio che l’intuitum rationis si trova a venir dietro alla passione, là dove, in una situazione di equilibrio, avverrebbe più tosto il contrario. A questa inver-sione del normale rapporto fra facoltà desiderative e facoltà conoscitive, si riferi-sce Dante quando scrive che il lumen rationis, nel caso in cui l’appetito voli in-nanzi ad esso, si ritrova postpositus all’appetito medesimo. Dove l’essere postpo-situs del raziocinio logicamente consegue al prevolare dell’appetito. Che poi, come suggerisce il Ricci, questa sia la stessa dottrina già illustrata da Dante al capitolo 12 del I libro, è cosa che non si vuole certo negare: tanto più che un tale rinvio rafforza gli argomenti per i quali la lettura tradizionale ci sembra preferibi-le.22 Il libero arbitrio, aveva spiegato Dante in quel luogo della Monarchia, non è altro che l’atto mediante il quale il giudizio di ragione, anticipando l’attuazione del desiderio, si costituisce termine medio tra l’apprensione desiderativa e il mo-

20 Sententia Libri Ethicorum, cit., VII, 7 (1150b20), p. 412, corsivo nostro. 21 Thomas Aquinas, Summa Theologiae, II-II, q. CLVI, art. 1 (“Utrum incontinentia pertineat ad ani-mam, an ad corpus”), ed. Leonina, p. 259. 22 Degli altri rinvii proposti dal Ricci non sarà necessario che si discuta, giacché per logica sono tutti riducibili, in un modo o nell’altro, a questo che stiamo analizzando.

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to della volontà.23 Nel caso in cui, viceversa, sia l’appetito ad anticipare il giudi-zio, quest’ultimo si ritrova ad essere trascinato come schiavo della passione.24 La dottrina, problematica per ciò che essa implica sotto il rispetto dell’imputabilità, è nondimeno esplicita nel far coincidere il libero arbitrio con la condizione psicologica in cui il giudizio è anteposto all’appetito e lo guida.25 Ma allora, se questa è anche la logica che sorregge Mn III iii 3-4 e se prevo-lantibus vi compare nell’accezione che si è detta (e che è la medesima dell’aristotelica ‘prevolacio’), sembra indubbio che non “hominibus rationis in-tuitu voluntatem prevolantibus” dovrà leggersi, come suggerito dal Ricci, bensì, d’accordo con i precedenti editori, “hominibus rationis intuitum voluntate prevo-lantibus”, con conseguente ripristino di semper in luogo di saepe.26 Accogliendo questa lettura, il senso dell’intero passo viene ad essere quello già indicato dalla versione ficiniana:

Agli huomini che volano collo appetito innanzi alla consideratione della ragione, sempre questo seguita: che·lloro, mal disposti, e posposto e·lume della ragione, sono tirati come ciechi dallo affetto, e pertinacemente la lo-ro cechità nieghano.

23 Cfr. Mn. I, xii, 4: “[...] dico quod iudicium medium est apprehensionis et appetitus: nam primo res apprehenditur, deinde apprehensa bona vel mala iudicatur, et ultimo iudicans prosequitur sive fugit”. 24 Per un esame più approfondito del passo, anche in rapporto alla Commedia, mi permetto di rinviare a P. Falzone, Psicologia dell’atto umano in Dante. Problemi di lessico e di dottrina, in La Filosofia in volgare nel Medioevo. Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medie-vale (S.I.S.P.M.), Lecce, 27-29 settembre 2002, a cura di L. Sturlese e N. Bray, Brepols, Louvain-La- Neuve 2003, pp. 331-366. 25 Mn I, xii, 4: “Si ergo iudicium moveat omnino appetitum et nullo modo preveniatur ab eo, liberum est; si vero ab appetitu quocunque modo preveniente iudicium moveatur, liberum esse non potest, quia non a se, sed ab alio captivum trahitur”. Che significa la stessa cosa, mi sembra, di quanto viene detto in Mn. III, iii, 4 e cioè che gli uomini “male affecti, lumine rationis postposito, affectu quasi ceci trahuntur”. Si noterà per inciso, a conferma del rapporto che lega questa dottrina all’insegnamento aristotelico, che il verbo trahere, usato in entrambi i luoghi per indicare la tirannia esercitata dal desiderio sulla ragione, discende a Dante, in quest’uso specifico, da un luogo del VII libro dell’Etica. Quello, per l’esattezza, dove è riportata l’opinione socratica, poi parzialmente confu-tata da Aristotele, secondo la quale è impossibile che chi possiede la conoscenza del bene si sottomet-ta al desiderio. Si confronti il passo nella versione del Grossatesta, ‘textus purus’, édita da R-A. Gauthier in Aristoteles Latinus, cit., vol. XXVI 1-3, fasc. III, pp. 272-273 (45b20): “Durum enim sciencia existente, ut existimabat Socrates, aliud quid imperare et trahere ipsum quemadmodum ser-vum”. Luogo così commentato dall’Aquinate: “[...] difficile videtur quod, existente scientia in homi-ne, aliquid aliud imperet scientiae et trahat ipsam quasi servam, cum magis ratio, cuius perfectio est scientia, dominetur et imperet sensibili parti sicut servae”. Si veda inoltre la parafrasi fattane da Hen-ricus de Gandavo, Quodlibet I, q. 17, ed. R. Macken, p. 131: “Circa illam ergo dubitationem primo recitat sententiam Socratis, qui aestimabat durum esse quod scientia praeexistente in aliquo, aliquid, ut puta sensibilis concupiscentia, imperaret et traheret ipsum quemadmodum servum ad incontinenter operandum”. 26 Sicché, quella che al Pizzica, Monarchia, cit., p. 373, nota ad locum, è sembrata essere una lectio difficilior, per ciò stesso preferibile alla lezione tradizionale, non è che una lezione priva di senso. L’esistenza della difficilior, nel caso specifico, è l’effetto di un’illusione: il critico percepisce come lezione di significato inusuale, ma coerente, ciò che di fatto corrisponde ad una lezione assurda.

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Solo così, a nostro avviso, si evita che la logica dell’argomentazione dantesca patisca in sé il peso di una grossolana contraddizione, quale sarebbe quella di ammettere la saggezza di alcuni uomini e al contempo di affermare la loro incon-tinenza. E d’altra parte, se davvero vi fossero, tra quelli cui Dante ha voluto alludere, uomini avvezzi a guidare la volontà con gli occhi della ragione, che senso avreb-be per costoro la dimostrazione della verità? Essi non dovrebbero, in quanto tali, quella verità già possederla? Va da sé che se essi hanno bisogno di quella dimostrazione è perché tutti, sia pure in modo diverso, sono affetti da ignoranza. E se sono affetti da ignoranza è perché, ancor prima, hanno sottomesso la parte migliore di se stessi, la ragione, ad un impulso vizioso. Quali conseguenze poi ciò abbia nella riflessione dantesca intorno alla natura del peccato, è questione ulteriore e tale, per la sua gravità, da non poter essere esaurita in quel poco che qui potrebbe dirsene. Su di essa con-verrà dunque soffermarsi in altra occasione.

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IL PROBLEMA DELL’INTELLETTO AGENTE IN MATTEO DA GUBBIO: UNA PROPOSTA DI LETTURA

Leonardo Cappelletti

In queste pagine cercheremo di definire i contorni dottrinali concernenti la natura dell’intelletto agente in Matteo da Gubbio tenendo conto del contesto storico-filosofico in cui egli si trovò ad operare: l’averroismo bolognese della prima me-tà del XIV secolo. Certamente non mi soffermerò, in questa sede, ad enumerare gli studi che su questo argomento sono stati fatti da storici del pensiero medieva-le quali M. Grabmann, B. Nardi, F. Van Steenberghen, S. Vanni Rovighi, A. Maier, Z. Kuksewicz, C. J. Ermantinger, A. Ghisalberti; tuttavia mi limiterò a ricordare come le loro ricerche abbiano messo bene in evidenza il carattere po-liedrico di questa corrente filosofica al punto che uno stesso argomento veniva spesso analizzato e risolto secondo diverse prospettive. Se, in linea di massima, possiamo dire d’accordo con Sofia Vanni Rovighi1 che per quanto concerne il problema dell’unicità dell’intelletto possibile vi fosse all’interno dell’averroismo bolognese un sostanziale accordo con la tesi di Sigieri che emerge nel Tractatus de anima intellectiva secondo la quale l’intelletto pos-sibile è un operans intrinsecum, una ben diversa trattazione viene riservata al nous poietikòs, nel senso che esso sembra assumere caratteristiche singolari a seconda dell’autore che ne ha trattato; pensatori come Anselmo da Como, Gia-como da Piacenza, Taddeo da Parma e Matteo da Gubbio hanno infatti dedicato specifiche argomentazioni volte a determinare sia la natura dell’intelletto agente (il quid est) che le sue operazioni (il quo est). I temi appena accennati sono stati affrontati da Matteo da Gubbio nel quodli-bet “Utrum sit dare intellectum agentem vel propter quid ponatur, si ponitur” contenuto nel ben noto codice miscellaneo della biblioteca Vaticana, l’Ottobon. 318 ai fogli 170v-173r, ed edito da Kuksewicz nel 1965;2 tuttavia fa problema il fatto che la questione si presenta incompleta in quanto, dopo aver esposto sette opinioni con le relative critiche, manca di una solutio quaestionis in grado di de-finire in modo preciso quale fosse il reale pensiero dell’eugubino circa la natura e le facoltà dell’intelletto agente. Di qui, appunto, l’intento del presente lavoro: e cioè cercare di connotare l’intellectus agens in Matteo da Gubbio non solo nega-tivamente, ovvero dicendo ciò che esso non è, ma anche positivamente facendo riferimento a quanto emerge in altri testi come le Quaestiones de anima contenu-

1 Cfr. S. Vanni Rovighi, Gli averroisti bolognesi, in Convegno internazionale Oriente ed Occidente nel Medioevo: filosofia e scienze, Roma 1971, p. 171: “sulla separazione dell’intelletto possibile in essendo, sulla sua unità per tutta la specie umana e sul modo in cui esso si unisce ai singoli individui umani in operando, mi sembra che non solo l’averroismo bolognese, ma l’averroismo del secolo de-cimoquarto in genere, non abbia detto nulla di nuovo rispetto a Segerus Magnus”. 2 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem vel propter quid ponatur si ponitur, in Averroїsme bolonais au XIV siècle. Edition des textes, a cura di Zdzislaw Kuksewicz, Ossolineum, Wroclaw-Varsovie-Cracovie 1965, pp. 296-306.

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te nel codice Fesulano 161 della biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ai fogli 84v.-103v., edite ed a lui attribuite da Ghisalberti,3 ed il quodlibet “Utrum actus intelligendi, quo intelligentia intelligit deum, sit idem cum deo”, edito da Kuksewicz.4 Ciò ci permetterà di poter affrontare anche il problema della felicità umana in questa vita dal momento che ci preoccuperemo di mettere in evidenza il fatto che l’uomo è in grado di raggiungere, speculativamente, la felicità solo in virtù di una precisa facoltà del conoscere. Per prima cosa, dunque, percorriamo velocemente le tesi che Matteo scarta decisamente dimodoché sia possibile non solo prendere visione del contesto dot-trinale in cui si trovava il nostro argomento intorno agli anni ‘40 del secolo XIV, ma anche renderci meglio conto di quale fosse la tradizione contro cui Matteo da Gubbio argomentava. La prima opinione che egli critica è quella per cui l’intelletto agente è posto a) quale principio astraente e b) quale principio in grado di imprimere al phanta-sma una disposizione subiectiva dimodoché questo passi dalla potenza, all’atto di produrre la conoscenza nell’intelletto possibile.5 Ora, così per come è posta da Matteo da Gubbio e da altri autori come Giacomo da Piacenza e Taddeo da Par-ma, questa opinio descrive l’intelletto agente quale causa prima di un movimen-to che altrimenti non si darebbe essendo che una potenza non può passare all’atto senza una causa esterna. Secondo Taddeo da Parma, infatti, l’intelletto agente è necessario affinché i fantasmi siano preparati a muovere alla conoscenza l’intelletto possibile6 e sembra disposto, al contrario di Giacomo da Piacenza e Matteo da Gubbio, a concedere a questo argomento una certa cogenza salvo poi esporre dei dubbi che riprende da Giovanni di Jandun.7 L’eugubino invece, porta contro questa prima opinione ben sette argomenti piuttosto intricati volti a dimo-strare la sua infondatezza riflettendo in particolar modo sulla realtà dell’“aliquid impressum phantasmatibus” che non potrà essere né sensibile né intellegibile, né astratto né determinato, e dunque neppure in grado di fare in modo che il fanta-sma possa muovere l’intelletto possibile. La seconda opinione contro cui Matteo da Gubbio argomenta afferma che l’intelletto agente si pone al fine di elicere ed imprimere nell’intelletto possibile, ed evidentemente, sebbene questa affermazione sia ellittica del complemento og-

3 A. Ghisalberti, Le “Quaestiones de anima” attribuite a Matteo da Gubbio, Vita e Pensiero, Milano 1981. 4 Matheus de Eugubio, Utrum actus intelligendi quo intelligentia intelligit deum sit idem cum deo, in Averroїsme bolonais au XIV siècle, cit., pp. 235-239. 5 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 296: “intellectus agens ponitur propter irradiadum vel propter abstrahere vel hoc illuminare, et hoc aliquid subiective imprimendo ipsi fantasmati”. 6 S. Vanni Rovighi, Le ‘Quaestiones de anima’ di Taddeo da Parma, Vita e Pensiero, Milano 1951, p. 141: “dicunt enim quidam quod intellectus agens est necessarius propter phantasmata quae de se non possunt movere intellectum, et ideo ut ipsa moveant ipse intellectus agens quandam preparationem et quandam dispositionem et quandam impressionem imprimit”. 7 Ivi, pp. 143-144.

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getto,8 ci si sta riferendo al fantasma; pertanto anche questa seconda critica sem-bra essere rivolta al fatto che l’intelletto agente sia ordinato ad agire direttamente sul fantasma affinché questo poi possa essere ricevuto dall’intelletto possibile. Anche la terza opinione riportata da Matteo da Gubbio sembra prendere le mosse dall’idea che l’intelletto agente debba essere posto in quanto causa prima dell’intellezione. Secondo questa tesi, cioè, la conoscenza procede da una doppia causalità: una universale, e cioè l’intellectus agens, ed una particolare, che l’eugubino definisce la “rei quiditas”;9 la stessa opinione viene presentata anche da Giacomo da Piacenza con la differenza che, al posto di parlare di una quiddi-tas rei quale causa particolare, fa esplicito riferimento al fantasma.10 Contro l’idea che l’intelletto possibile sia mosso alla conoscenza da questa doppia cau-salità, Matteo da Gubbio porta ben dieci argomentazioni. Tra queste vorrei sof-fermarmi brevemente sulla sesta dal momento che mi sembra che da questa e-merga una particolare natura del nous poietikòs in diretto contrasto con le posi-

8 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 298: “intellectus agens ponitur propter actum intelligendi eliciendum et imprimendum in intellectum possibilem”. Ora, ciò che è inte-ressante notare, è il fatto che questa opinio viene fatta risalire direttamente a Taddeo da Parma, ma, come è stato fatto notare dalla Vanni Rovighi, questa seconda confutazione piuttosto che riportare fedelmente il pensiero di quest’ultimo, rimanda alla opinio VIII delle sue Quaestiones de anima, che espone la teoria di Giovanni di Jandun (cfr. S. Vanni Rovighi, Le ‘Quaestiones de anima’ di Taddeo da Parma, cit., p. XII n. 2). La complicazione, credo, nasce dal fatto che Matteo da Gubbio riporta effettivamente la tesi del filosofo parmense, salvo poi giustificarla con le argomentazioni del maestro parigino; effettivamente il pensiero dei due filosofi è molto simile dal momento che entrambi sosten-gono la necessità causale dell’intelletto agente: ma mentre per Giovanni di Jandun questa necessità di causa è, per così dire, più generale in quanto investe semplicemente l’atto dell’intellezione, quella di Taddeo da Parma sembra essere più specifica in quanto attualizza la possibilità dell’intelletto possibi-le solo dopo avere predisposto in questo i fantasmi. Non sono convinto che a Matteo da Gubbio sia ascrivibile un vero e proprio errore di interpretazione dal momento che credo che riportando l’opinione “intellectus agens ponitur propter actum intelligendi eliciendum et imprimendum in intel-lectum possibilem”, si riferisca al passo della quaestio XV delle Quaestiones de anima di Taddeo da Parma secondo cui “intellectus agens est necessarius propter intellectum possibilem et est necessarius propter phantasmata ut possint movere intellectum”. Semmai si potrebbe supporre che all’interno della scuola bolognese, si leggesse Giovanni di Jandun, almeno in riferimento al nostro argomento, non in modo diretto, bensì tramite Taddeo da Parma. Ecco spiegato il sovrapporsi delle tesi dei due pensatori; in effetti nel quodlibet “Utrum abstractio fantasmatum ab intellectu agente sit aliquid aut nihil”(in Z. Kuksewicz, Averroїsme bolonais au XIV siècle, cit., pp. 81-91) Anselmo da Como ripor-tando l’opinione di quello che lui definisce essere il “doctor meus”, e cioè Giovanni di Jandun, ri-manda al testo di Taddeo da Parma asserendo che l’intelletto agente opera direttamente sul fantasma affinché questo possa poi muovere l’intelletto possibile: “doctor meus tenet, quod [intellectus agens] est respectus, qui est associatio et presentia quedam intellectus ad fantasma vel econverso, propter quam presentiam redditur fantasma potens actu movere intellectum possibilem”. Giacomo da Piacen-za, invero, nella opinio VI delle Quaestiones super tertium de anima riporta non solo le giustificazio-ni ma anche la tesi del maestro parigino secondo cui l’intelletto agente “ponitur propter actum intelli-gendi”, e pertanto sembra essere l’unico tra i nostri autori ad avere letto direttamente il testo dell’averroista parigino. 9 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 301: “tertia opinio est, quod intel-lectus agens ponatur propter actum intelligendi, tanquam causa universalis propter effectum particula-rem […], et causa particularis, ut rei quiditas”. 10 Z. Kuksewicz, Jacobi de Placentia. Lectura cum quaestionibus super tertium de anima, Osso-lineum, Wroclaw-Varsovie-Cracovie 1967, pp. 85-86: “dicunt quod intellectus agens est sicut causa universalis et phantasma est sicut causa particularis ad movendum intellectum possibilem”.

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zioni di Giovanni di Jandun e di Taddeo da Parma in quanto volta a negargli lo statuto di necessarietà: se l’intellectus agens realmente fosse una causa produtti-va universale, lo sarebbe o per sorte (“a casu et fortuna”), o per un atto di ragione e di volontà (“per intellectum et voluntatem”), o per natura. Che non lo sia per un semplice caso lo si prova dal fatto che a casu un evento non accade sempre ma solo talune volte, mentre l’atto dell’intelletto agente lo si riscontra sempre; se derivasse da un atto di ragione, si cadrebbe nell’assurdo che vi sarebbe una cono-scenza nell’intelletto anteriore allo stesso atto intellettivo: parimenti una volizio-ne segue una cognitio, e pertanto da essa non può derivare l’intelletto agente; che questo, poi, sia una causa universale in quanto ciò rientrerebbe nell’ordine natu-rale delle cose, viene scartato tramite l’autorità di Averroè dal momento che l’ordo rerum agisce secondo necessità, ed il Commentatore nel terzo libro del suo commento al De anima sostiene appunto che l’intelletto agente non agisce secondo necessità. In polemica poi, con il collega Anselmo da Como, Matteo da Gubbio nega che l’intelletto agente possa coincidere tout court con la facoltà astraente;11 ma la critica è piuttosto generale se si considera che Anselmo da Como, nel quodlibet “Utrum abstractio fantasmatum ab intellectu agente sit aliquid aut nihil” pone sul tappeto, una volta dimostrato che l’astrazione è possibile, una nutrita serie di o-pinioni concernenti sia l’oggetto per cui essa si pone sia la sua natura. La tecnica con cui l’eugubino comprova i suoi argomenti è sempre la medesima: considera-re ciò di cui si sta parlando – in questo caso l’abstractio – una res substantialis, e far vedere che ogni sua forma ontologica, corporea o incorporea, sostanziale o accidentale comporterebbe una contraddizione con l’assunto di partenza. La quinta delle opinioni enumerate dal nostro autore considera l’intelletto a-gente in relazione a quello possibile secondo una formula che, come vedremo, ci lascerà forse un po’ perplessi se paragonata a quanto emerge nelle Quaestiones de anima a lui attribuite: in questo testo infatti viene affermato che la nostra co-noscenza delle realtà separate (di cui parleremo più avanti) avviene secondo due modalità concernenti il concetto di adeptio: da una parte l’intelletto agente si u-nisce a quello possibile come forma, mentre dall’altra come causa efficiente e finale.12 Tuttavia, poiché “forma et finis coincidunt”13 direi che in ultima analisi viene sostenuto che l’intelletto agente si congiunge a quello possibile in qualità di forma; ora, nel quodlibet di cui ci stiamo occupando sembrerebbe che Matteo da Gubbio critichi proprio una simile posizione dal momento che confuta con cinque argomenti (in realtà si parla di sei argomenti, solo che dal primo si passa, nel codice manoscritto, al terzo saltando il secondo) l’idea che l’intelletto agente

11 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 303: “quarta opinio est, quod in-tellectus agens solum ponitur propter abstrahere”. 12 A. Ghisalberti, Le “Quaestiones de anima”, cit., p. 214: “modum coniunctionis intellectus agentis nobiscum per modum formae sunt duo modi”, e cioè, appunto, come forma e come causa efficiente e finale. 13 Ivi, p. 216: “quia forma et finis coincidunt [intellectus agens] intellectui possibili et nobis coniunge-tur ut forma”.

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sia posto per ‘informare’ quello possibile.14 Questa discrepanza tra i due testi, sebbene non credo possa inficiare l’attribuzione delle Quaestiones de anima a Matteo da Gubbio proposta da Ghisalberti, mi sembra essere tuttavia piuttosto forte e sicuramente conferma come, all’interno della scuola bolognese, gli argo-menti fossero trattati con una cavillosità tale da renderli non solo ‘aggrovigliati’, come dice Vanni Rovighi,15 ma anche, aggiungerei, contraddittori; non solo, in seguito vedremo che questa discrepanza aprirà le porte ad una duplice facoltà umana del conoscere: da una parte la conoscenza del sensibile da parte dell’intelletto possibile, e dall’altra la conoscenza di Dio e delle sostanze separa-te grazie al solo intelletto agente. La sesta opinione confutata da Matteo da Gubbio, citata anche da Anselmo da Como16 e da Giacomo da Piacenza,17 pone l’intelletto agente quale operans in grado di liberare la quidditas del fantasma da tutto ciò che di sensibile esso si porta dietro, al fine di porlo nell’intelletto possibile e quindi muoverlo alla cono-scenza; anche qui, dunque, ci troviamo davanti all’idea che l’intelletto agente sia un operans intrinsecum in relazione a quello possibile quale primo motore dell’atto conoscitivo. Con l’ultima opinione, espressamente ricondotta ad Averroè, si direbbe di essere infine giunti alla teoria che secondo Matteo da Gubbio meglio risponde alla domanda del quodlibet in quanto è detta essere ‘conveniente’; ma dal mo-mento che anche questa viene criticata, dobbiamo prendere atto che l’intelletto agente non ha neppure la funzione di far passare il fantasma che si trova nell’anima cogitativa dalla condizione materiale a quella spirituale.18 Il transitum cui si sta facendo riferimento concerne il passaggio dall’essere individuo, e cioè materiale, all’essere universale, e cioè spirituale; di qui la critica del nostro auto-re rivolta non tanto all’idea in sé del mutamento essenziale, quanto a quella con-cernente la natura dell’‘essere spirituale’. Matteo da Gubbio, portando l’esempio di un odore che si diffonde nell’aria, afferma che l’esse spirituale non ha bisogno di una causa agente che lo porti all’atto di essere tale;19 in realtà, dobbiamo con-siderare il fatto che, trovandoci in un ambiente di studi medici, come appunto lo

14 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 304: “intellectus agens ponitur, ut informet intellectum possibilem”. 15 S. Vanni Rovighi, Gli averroisti bolognesi, cit., p. 179: “il modo di risolvere questi problemi è fati-coso, aggrovogliato, dogmatico. Si discutono venti argomenti, si citano obiezioni, risposte, repliche alle risposte: si espongono dubbi contro la proprie o l’altrui soluzione e si risolvono”. 16 Anselmus de Cumis, Utrum abstractio fantasmatum ab intellectu agente sit aliquid aut nihil, cit., p. 86: “abstractio non est aliud nisi quedam remotio prohibentis fantasma seu quiditatem movere intel-lectum possibilem, unde intellectus agens circa fantasma non facit aliud, nisi quia removet prohibens denudando quiditatem a conditionibus materialibus”. 17 Z. Kuksewicz, Jacobi de Placentia, cit., p 87: “intellectus agens ponitur propter hoc, ut separaret individua a conditionibus individuantibus, quae sunt hic et nunc”. 18 Così infatti recita la settima ed ultima opinione: “intellectus agens ponitur propter fieri transitum de esse materiali ad spirituale”, opinione precedentemente definita “Commentatoris et conveniens”. 19 Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 306: “non ponitur propter illum transitum, quia tunc odor quando imprimit suam similitudinem in aer in nocte, requireretur aliquod agens, quod est falsum”.

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era l’università bolognese, il concetto di ‘spirito’ cui fa riferimento l’autore ha uno statuto ontologico ben diverso da quello cui invece fa riferimento Averroè:20 quest’ultimo, nell’opinione che stiamo considerando, intende per ‘spiritus’ l’universale completamente privo di materia, mentre in Matteo da Gubbio questo concetto mantiene una dimensione corporale – quasi fosse una sorta di ‘vapore’ che richiama ad ambienti sicuramente alchemici.21 Una simile duplice accezione del termine la ritroviamo nella quaestio “De prophetia” di Alessandro di Hales secondo il quale i filosofi naturali ed i medici, per ‘spiritus’, intendono propria-mente un corpo spirituale; di seguito il filosofo francescano riporta anche l’accezione secondo cui il termine connota una realtà totalmente intellettuale:

Spiritus accipitur multipliciter. Spiritus enim aliquando accipitur pro cor-pore spirituali, sicut utuntur naturales et medici hoc nomine ‘spiritus’. Item spiritus dicitur secundum quod est spiritualis vis, in qua imagines corporum non praesentibus corporibus recipiuntur; sic visio spiritualis eadem est quod imaginaria; et sic spiritualis visio dividitus contra corpora-lem et intellectualem.22

Terminata la critica alla settima ed ultima opinione, il quodlibet s’interrompe senza fornire la solutio dell’autore; tuttavia la domanda che vorrei porre è se re-almente ci troviamo davanti ad un testo incompleto o se piuttosto Matteo da Gubbio non affronti l’argomento in modo compiuto. A tal proposito vorrei sotto-lineare che, sebbene non abbiamo che preso visione di proposte in negativo volte a definire come l’intelletto agente non opera, una cosa mi sembra che non sia sta-ta messa in discussione, e cioè il fatto che l’intelletto possibile è mosso alla co-noscenza da un aliquid. Tenuto conto di ciò, il quodlibet un termine teoretico che lo renda ben completo ce l’ha, ed è l’esplicita affermazione che ciò che muove l’intelletto possibile non ha bisogno di alcuna astrazione in quanto, affinché esso conosca, è sufficiente il semplice esistere di tale oggetto, ovvero il fatto che sia presente: “dico, quod illud, quod movebit intellectum possibilem, non oportet quod sit primo abstractum, sed ipsa quiditas separata secundum esse existentie movebit intellectum possibilem”.23 E che il fantasma (e di conseguenza la sua astrazione da parte dell’intelletto agente) non abbia un ruolo fondamentale nel processo conoscitivo dell’uomo, viene sottolineato anche in una anonima repeti-tio di una quaestio del filosofo eugubino intitolata “Utrum species vel imago, que est organum mediante quo aliqua res cognoscitur, utrum pro tunc illa species

20 Per quanto riguarda uno studio concernente il significato del termine spiritus in ambiente medico, sebbene contestualizzato nella modernità, si veda Daniel P. Walker, Medical ‘Spirits’ and God and the Soul, in Spiritus. IV Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, pp. 223-244. Si veda E. Garin, Relazione introduttiva, ivi, pp. 3-14. Per quanto concerne le diverse accezioni che il concetto di spiritus ha assunto nei secoli XII e XIII, cfr. J. Hamesse, ‘Spiritus’ chez les auteurs philosophiques des 12e et 13e siècle, ivi, pp. 157-190. 21 Di qui, appunto, l’esempio di un odore che si diffonde nella notte (cfr. sopra, n. 19). 22 Alexander Halensis, Quaestiones disputatae ‘Antequam esset frater’, Quaracchi 1960, vol. 1, p. 297 (corsivo mio). 23 Cfr. Matheus de Eugubio, Utrum sit dare intellectum agentem, cit., p. 306.

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cognoscitur”.24 In questa si afferma infatti che l’opinione del nostro autore è quella per cui la species influisce sull’intelletto possibile solo in quanto essa è, per così dire, ‘connaturata’ all’oggetto e che solo quest’ultimo è in grado di muovere alla conoscenza l’intelletto possibile.25 Se questo è realmente l’intento del filosofo di Gubbio, ovvero mostrare, co-me Ockham, che nel processo conoscitivo non c’è posto per gli universali, quale sarà, in ultima analisi, lo statuto che in questo stesso processo riveste l’intelletto agente se appunto gli viene negata una simile facoltà? Se la risposta presente nel nostro quodlibet circa il quo est è stata, in definiti-va, l’affermazione del fatto che la funzione dell’intelletto agente non è quella di essere un operans concernente l’astrazione del fantasma, cerchiamo almeno di chiarire il quid sit facendo riferimento agli altri testi del filosofo di Gubbio sopra menzionati. Soffermandoci brevemente sulle Quaestiones de anima, possiamo notare che nel terzo libro Matteo da Gubbio dà dell’intelletto agente delle definizioni piutto-sto puntuali volte essenzialmente a caratterizzarlo sia come una sostanza separata (un atto puro) sia come quella facoltà in grado di intelligere le sostanze separa-te.26 Tornando dunque alla critica di quella opinione per cui l’intelletto agente viene posto in qualità di forma, notiamo che nelle Quaestiones de anima viene sì, effettivamente inteso come una forma, ma senza la precisa specificazione che lo sia dell’intelletto possibile o, come emerge nel commento di Averroè al terzo li-bro del De anima, dell’intelletto materiale. E l’idea che l’intelletto agente si uni-sca a noi non relativamente al processo conoscitivo proprio dell’intelletto possi-bile, sembrerebbe giustificata non solo dalla sua natura, ma anche dall’altezza del suo oggetto che è Dio. Ora, se per Matteo da Gubbio l’intelletto agente è esclusivamente ordinato a conoscere le realtà separate, è possibile trovare una specifica trattazione sulla sua natura nel quodlibet sopra citato “Utrum actus intelligendi, quo intelligentia in-telligit deum, sit idem cum deo” sebbene l’autore non faccia esplicitamente men-zione dell’intellectus agens. Quindi, posta come valida l’inferenza “ciò che si rivolge alle sostanze separate è l’intelletto agente, ma Dio è una sostanza separa-ta; dunque l’intelletto agente si rivolge a Dio”, possiamo vedere che Matteo da Gubbio identifica questa facoltà conoscitiva con Dio stesso tramite quattro ar-

24 Z. Kuksewicz, Averroїsme bolonais au XIV siècle, cit., pp. 307-310. 25 Ivi, p. 309: “species seu fantasma movet intellectum solum delative, non autem impressive nec co-gnitive” (corsivo mio). Il testo prosegue specificando non solo che la conoscenza è causata non dal fantasma ma dall’oggetto, ma anche in che senso si deve intendere il rapporto tra i due: “sed nota, quod aliquid deferre alterum delative potest intelligi quinque modis. Uno modo sicut unum corpus defert aliud corpus, ut asinus saccum; secundo deferre delative sicut subiectum accidens; tertio sicut materia formam substantialem; quarto sicut species defert virtutem, ut habemus in memorativa; quinto et ultimo, sicut effectus defert causam. Et ita fantasma defert obiectum principale, cuius est ymago, et sic movet intellectum delative, quia habet obiectum, quod proprie et directe habet movere intellectum. Et hec est positio magistri Mathei” (corsivo mio). 26 A. Ghisalberti, Le “Quaestiones de anima”, cit., p. 165: “intellectus agens vocatur substantia sepa-rata quae est actus purus”, e p. 206: “intellectus agens, secundum se acceptus, semper intelligit sepa-rata a materia quantum est de se”.

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gomentazioni tratte dai commenti di Averroè al De Coelo, alla Metaphysica e al De anima. E dato che il testo, questa volta, segue l’andamento classico della quaestio disputata, possiamo già da subito leggere la solutio quaestionis e poi, in conclusione, vedere più da vicino gli argomenti pro e contra che ci interessano maggiormente. Matteo da Gubbio, abbiamo detto, si allontana da quella tradizione noetica secondo cui l’intelletto agente è un atto astraente necessario al processo conosci-tivo umano per aderire all’idea che ciò che muove l’intelletto possibile alla cono-scenza è di per se stesso in grado di produrre un tale movimento; tuttavia, essen-do un atto intellettivo, egli non rifiuta l’idea che esso sia unito alla nostra natura al fine di conoscere e pertanto, piuttosto che eliminare la tesi che in noi viene po-sta una simile facoltà, sembrerebbe richiamarsi a quella tradizione detta dell’ ‘a-gostinismo avicennizzante’ per la quale l’intelletto agente piuttosto che coincide-re con il dator formarum di Avicenna, coincide con Dio stesso.27 Anzi direi che da questo punto di vista vi sia da parte di Matteo da Gubbio una caratterizzazione ulteriore, in quanto egli afferma che esso si identifica con l’oggetto cui si rivolge e pertanto non solo con Dio, ma anche, in quanto capacità riflessiva, con se stes-so:

actus intelligendi est duplex: quidam est per quem intelligentia intelligit deum, quidam vero est per quem intelligentia intelligit se ipsam. Modo se-cundum illam distinctionem dico ad quaestionem, quod actus intelligendi, quo intelligentia intelligit deum sit idem cum deo, sed actus intelligendi, quo intelligentia intelligit se ipsam, dico, quod est idem cum ipsa intelli-gentia.28

In definitiva possiamo dire che il nostro autore analizza l’intellectus agens tanto nella prospettiva della sua funzione che della sua natura per cui se nel primo caso esso è preposto alla conoscenza delle realtà separate, nel momento in cui esso le coglie si identifica con esse. Certamente, per affermare che in Matteo da Gubbio vi sia il preciso intento di condurre una riflessione circa la possibilità per l’uomo di raggiungere la felicità in questa vita oppure no, non è sufficiente l’affermazione che l’intelletto agente coincide con l’essenza divina. Semmai mi sembra cha la sua ricerca sia piuttosto volta a determinare, teoreticamente, il campo d’azione del nostro conoscere af-finché la conoscenza legata all’intelletto possibile non risulti sminuita da quella legata all’intelletto agente. Domandandosi infatti “Utrum in intelligentiis sit dare intellectum possibilem realiter distinctum ab actualitate ipsarum”,29 egli non solo afferma che l’intelletto possibile è ordinato a conoscere, tra tutti gli intellegibili, quelli inferiori, ma sostiene anche che intelletto possibile ed intelletto agente de-vono essere tenuti distinti realiter:

27 Cfr. A. de Libera, La philosophie médiévale, Presses universitaires de France, Paris 1989, pp. 105-110. 28 Matheus de Eugubio, Utrum actus intelligendi, cit., p. 237. 29 Z. Kuksewicz, Averroїsme bolonais au XIV siècle, cit., pp. 248-252.

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intellectus possibilis, qui est in nobis, bene realiter distinguitur ab agente […]. Sicut se habent omnia sensibilia ad materiam primam, sic omnia in-telligibilia ad intellectum possibilem; dico, quod non est simile, quia ma-teria prima est receptiva omnium formarum sensibilium, sed intellectus possibilis in intelligentiis non est talis […] quia non est receptivus omnium formarum intellegibilium, sed intellectus noster possibilis bene est receptivus omnium actuum intelligendi istorum inferiorum;30

e ciò a conferma, dunque, della tesi che è emersa dalla nostra indagine secondo la quale l’intelletto agente non coopera con quello possibile nel nostro processo conoscitivo allorquando questo si rivolge alle cose terrene; ed in questa duplice natura speculativa, non mi sembra di ravvisare una frattura noetica tra sensibile e intellegibile tale per cui lo sforzo dell’uomo dovrebbe essere quello di abbando-nare il primo per seguire completamente il secondo, come invece proponeva la tradizione agostiniana ripresa anche dalla teologia renana grazie alla mediazione di Alberto.31 Tuttavia, è anche vero che alla luce di questa duplice realtà intellettuale pos-siamo dire che qualora volessimo ricercare una riflessione etica circa la possibili-tà o meno di una felicità terrena da parte dell’uomo grazie alla sua attività specu-lativa, questa la si troverà a partire dalla natura dell’intelletto agente. Difatti, per tornare al quodlibet in cui ci si domanda se l’atto di intellezione che si rivolge a Dio si identifica con Dio, egli giunge alla conclusione che l’intelletto agente coincide con il sommo ente argomentando, tra le altre cose, che se l’atto di intellezione che si rivolge a Dio non coincidesse con lui, allora si darebbe il caso che l’intelletto potrebbe trovare una maggiore felicità nel rivolgersi ad un altro og-getto;32 ed alla obiezione secondo la quale non è possibile che Dio e un atto intel-lettivo – umano, evidentemente – traggano benessere da una stessa fonte di benes-sere, Matteo risponde che Dio comprende se stesso primariamente mentre l’intellezione comprende Dio tramite la sua essenza, e che dunque viene a darsi uno scarto di perfezione che rende compatibile una simile identificazione. In defi-niva si potrebbe dire che il filosofo eugubino vede sì, nell’intellezione delle realtà separate, una identificazione all’essenza divina – mercé, si è detto, l’azione dell’intelleto agente – ma una identificazione, per così dire, partecipata o diminui-ta, e dunque dotata di uno statuto ontologico ben minore di ciò cui si ‘identifica’; altrimenti ogniqualvolta ci si rivolgesse a simili oggetti si godrebbe di quella felici-tà riservata ai soli beati che di Dio hanno una visio diretta.33 Alla luce di quanto detto possiamo dunque dire che se l’uomo può raggiungere la felicità in questa vita è sì grazie alla sua facoltà conoscitiva, ma limitatamente a

30 Ivi, p. 251. 31 Per questo argomento cfr. A. de Libera, Introduzione alla mistica renana, Jaca Book, Milano 1998, in particolar modo le pp. 23-58. 32 Matheus de Eugubio, Utrum actus intelligendi, cit., p. 236: “sequitur, quod intelligentia magis de-lectaretur in intelligendo aliud a deo quam intelligendo deum”. 33 In tal senso la felicità, pur essendo un qualcosa che ci deriva da Dio, risulta avere una natura ‘cor-rotta’ dalla nostra condizione umana post-lapsaria.

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quella in grado di rivolgersi alle sostanze separate; in effetti, come emerge nel quodlibet “Utrum omnes homines naturaliter scire desiderent” (probabilmente una repetitio di una quaestio di Matteo da Gubbio) si legge chiaramente che il fine, la perfezione dell’intelletto umano (che in questo caso non può che identificarsi con l’intelletto possibile dato che abbiamo detto che quello agente si identifica con Dio) coincide con la ‘scienza’ e non con la felicità: “dico quod omnes homines na-turaliter scire appetunt, quod probatur: nam omne perfectibile inclinatur naturaliter ad suam perfectionem, sed scientia est perfectio intellectus et hominis”.34 In questo senso possiamo dire che l’assunto aristotelico che vede nella speculazione delle realtà separate il massimo grado della felicità viene mantenuto solo in parte, e cioè in quanto raggiungimento legato al solo intelletto agente: pertanto, questa duplice facoltà umana del conoscere che abbiamo riscontrato nel nostro autore, pone una netta cesura in quell’unione etico-epistemica che Dante aveva così compendiato nelle battute iniziali del Convivio in piena adesione alla corrente aristotelico tomi-sta: “la scienza è ultima perfezione della nostra anima, ne la quale sta la nostra ul-tima felicitade”;35 insomma, si direbbe che per il filosofo eugubino non è detto che chi è tout court sapiente sia anche ‘felice’, lo scienziato essendo tale solo in virtù dell’uso che fa dell’intelletto possibile.36 Il problema dell’intelletto agente in Matteo da Gubbio e della sua ‘definizio-ne’, dunque, se non ci siamo ingannati riguardo alla compiutezza del quodlibet da cui abbiamo preso le mosse, non trova una soluzione relativamente ad un sin-golo testo, ma deve essere inserito in un più ampio contesto epistemico-filosofico volto a definire l’intero campo conoscitivo dell’uomo. Difatti l’essere umano ri-sulta epistemologicamente scisso nello stesso oggetto del conoscere: da una parte le cose terrene, dall’altra le realtà separate tanto che intelletto possibile ed intel-letto agente sono speculativamente indipendenti ed autosufficienti nel conoscere il proprio oggetto. Tuttavia, poiché, in ultima analisi, all’uomo appartengono per natura tanto l’intelletto possibile che quello agente, possiamo ben dire che per Matteo da Gubbio esso è in grado di raggiungere il sommo bene in questa vita proprio in virtù del fatto che l’intelletto agente, piuttosto che identificarsi con una facoltà ordinata ad essere la causa prima e necessaria della nostra intellezione ad terrena – secondo quanto emergeva invece nelle opinioni da lui criticate – coincide tout court con una realtà separata totalmente svincolata dalla conoscenza del sensibi-le: l’essenza divina.

34 Matheus de Eugubio, Utrum omnes homines naturaliter scire desiderent, in Z. Kuksewicz, Averroї-sme bolonais au XIV siècle, cit., p. 282. 35 Dante, Convivio, I, i, 1. 36 Un risultato questo, a ben guardare, piuttosto ‘contemporaneo’ se si pensa alle discussioni che ven-gono fatte in campo bio-etico; in tal senso, si sarebbe tentati a dire, che per Matteo da Gubbio lo scienziato debba condurre la sua attività in modo ‘a-morale’.

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CONCLUSIONI

IL FIORE NEL SEME

Michela Pereira Perché accostare etica e conoscenza? La domanda posta in apertura dei lavori trova nei contributi riuniti in questo volumetto, che riportano (con qualche assen-za e qualche variazione) i lavori della giornata seminariale organizzata presso il Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici nel dicembre scorso, non una risposta, forse non ancora possibile a questo stadio della riflessione, ma sicura-mente alcuni ‘cartelli segnaletici’ che indicano una direzione da prendere e im-plicano delle scelte, relative sia all’impostazione storico-ermeneutica, sia ai per-corsi ulteriori della ricerca storico-filosofica e anche filologica (come mostra e-semplarmente il caso di filologia dantesca analizzato in uno dei contributi qui presentati): perché sicuramente la questione si pone in termini diversi a seconda delle fonti analizzate e dell’ottica con cui le si analizza. È la messa a fuoco del mutamento di concezione antropologica implicito nel-la costruzione di un’ottica aristotelico-cristiana che permette, e anzi quasi impo-ne, l’accostamento scelto come tema di confronto, la cui piena comprensione non è possibile se si leggono separatamente gli sviluppi dell’etica e quelli della gno-seologia: infatti la definizione dei due ambiti e la loro evoluzione nella storia del pensiero cristiano altomedievale prima della lettura dell’Etica Nicomachea non rimangono invariate dopo che questo testo viene introdotto nella riflessione sco-lastica. Postulare tale invarianza non permetterebbe di comprendere quello che avviene a partire dal momento in cui il testo fondamentale dell’etica aristotelica viene recepito in tutta la sua portata. La volontà come capacità di scelta, dunque come effettivo motore della vita morale, e la conoscenza come astrazione e contemplazione delle specie intellegi-bili non sono in effetti collegabili nel pensiero medievale prima della svolta co-stituita dall’introduzione delle opere di Aristotele, e in particolare dal De anima e dalla già ricordata Etica Nicomachea. La volontà, mezzo necessario della salvez-za (non dimentichiamo che tutti i pensatori medievali si muovono entro il para-digma religioso, e che il tema soteriologico è fondamentale anche quando non esplicitamente tematizzato), e tendenzialmente fattore di uguaglianza fra gli esse-ri umani, ha bisogno di un fine che la orienti, ma questo fine può esserle offerto da fonti non-intellettettuali (la fede, l’obbedienza alla legge divina) altrettanto quanto dalla conoscenza – e anzi le fonti rivelate sono, in un’ottica cristiana, as-sai miglior garanzia di un orientamento corretto (anti-intellettualismo). La cono-scenza intellettuale non risulta da nessun punto di vista necessaria per la conqui-sta della vita eterna, per la quale è sufficiente accogliere la rivelazione della fede. Si delinea anzi fra volontà e conoscenza una possibile contrapposizione, che op-pone la vita activa alla vita contemplativa, ascrivendo implicitamente alla prima

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il compimento normale e normativo della natura umana e dunque la caratterizza-zione del campo proprio dell’etica, e riservando la seconda alla particolare con-dizione connessa alla vita monastica, scelta elitaria di una perfezione che non appartiene per natura all’essere umano. Tutto dipende, in realtà, dalla definizione di ‘natura umana’: se nel contesto platonico-agostiniano, che caratterizza l’antropologia altomedievale, l’essere umano si identifica con la natura spirituale dell’anima, la vita etica non può che essere orientata a guidare il tragitto verso la vita futura dell’uomo peccatore, cui certamente non è dato raggiungere la felicità in questo mondo. Le virtù, che nell’etica antica erano sempre orientate alla produzione della vita felice, riman-gono allora l’unico obiettivo morale praticabile per la natura umana corrotta dal peccato. Ma proprio la problematica antropologica è sicuramente uno dei punti di massimo impatto nei cambiamenti che avvengono in ambito filosofico e, di ri-flesso, teologico, con la ricezione del pensiero aristotelico: non la separatezza fra anima e corpo, ma la loro stretta embricazione (l’anima come forma del corpo) definiscono l’essere umano, la cui natura è completa e in sé positiva. La difficol-tà di conciliare la nozione agostiniana e quella biblica con quella aristotelica di essere umano ha prodotto una tensione messa dettagliatamente in luce negli studi interpretativi recenti (penso in special modo a La personne humaine di E. Wé-ber): e sicuramente, nonostante la costante opposizione dei teologi, è la nozione di animal rationale (mortale) quella che risulta ben presto determinante per defi-nire l’essere umano e aprire la strada alla concezione scolastica (nonché ai suc-cessivi sviluppi) di ‘persona umana’. Accogliere l’antropologia aristotelica in tutte le sue conseguenze rende ben presto necessario porre in termini propriamente aristotelici la questione dell’etica nella sua complessità, considerando cioè come obiettivo della vita morale non solo l’esercizio delle virtù in vista della futura beatitudine, ma anche il raggiun-gimento della felicità, intesa da Aristotele come fine naturale dell’uomo: pertan-to, se la ragione è ciò che definisce la natura umana, la felicità non potrà consi-stere che nella totale esplicazione della razionalità e dunque nella pienezza della conoscenza. Del resto anche la volontà, che orienta l’azione del singolo nei con-fronti degli altri esseri umani e del mondo, non può – come già si è accennato – non essere intimamente indirizzata dalla tensione verso la felicità: ecco perché in un’ottica aristotelica l’etica risulta non solo accostabile, ma inscindibile dalla gnoseologia, come già molte delle recenti ricerche sul tema della felicità nel pen-siero medievale segnalano. Risulta allora indispensabile analizzare anche in relazione a una piena com-prensione dell’orientamento etico cosa propriamente definisca la conoscenza umana: è necessario cioè indagare il tema dell’intelletto agente e, più in generale, le modalità e il significato della conoscenza per il filosofo cristiano che legge A-ristotele. Se per Aristotele il sommo bene consiste nell’esercizio del pensiero, e del pensiero applicato all’oggetto più alto, questo, per i suoi lettori cristiani, non può significare altro dall’affermazione che la conoscenza conduce alla fonte stes-sa della salvezza, a Dio, per quanto quest’affermazione risulti dissonante rispetto

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alla concezione, precedentemente costituita, in cui l’accoglienza della fede e la volontà buona erano considerate mezzo necessario e sufficiente di salvezza. E ancora: la considerazione dell’agire umano nella finitezza, sia nella forma cognitiva della conoscenza sensibile che nella forma morale dell’esercizio delle virtù, porta a sottolinearne la separazione, e anzi la (peraltro sempre relativa) in-dipendenza, in quanto l’esercizio delle virtù è, appunto, esercizio, ovvero un agi-re intenzionale, guidato dalla volontà, cui è sufficiente essere indirizzato verso l’orientamento giusto, ottenuto per via della fede prima e con maggior sicurezza che per via della ragione (per quanto già Abelardo, nel secolo precedente, avesse spezzato una lancia a proposito della morale razionale dei filosofi pre-cristiani). Ma se spostiamo lo sguardo oltre il campo del finito, incontriamo una facoltà no-etica che non è (o non è soltanto) strumento di interazione col mondo: è la facies dell’anima rivolta verso l’alto, nella lettura avicenniana adottata da alcuni com-mentatori di Aristotele appartenenti al cosiddetto “primo averroismo”: l’intelletto agente inteso non come ‘motore’ dell’astrazione e produttore delle species intel-legibili ma come ciò che nell’uomo ha affinità con le menti angeliche, il cui stato di beatitudine è modello anche della sua felicità. Nella condizione mediana dell’essere umano, posto tra finito e infinito, co-gliamo allora una duplice possibilità di intendere il rapporto fra etica e conoscen-za: o come un rapporto non necessario fra campi separati dell’agire, o come il convergere di due vie separate alla partenza verso l’unica meta, la contemplazio-ne che rende ‘beati’. È possibile ipotizzare, peraltro, che una più piena comprensione del rapporto fra etica e conoscenza guadagnerebbe qualcosa dalla complicazione posta da due ulteriori domande: la contemplazione, in cui consiste la felicità e dunque il com-pimento ultimo della vita etica, è un risultato della conoscenza o la sua matrice? E ancora, quello che chiamiamo conoscenza è la stessa cosa quando la otteniamo in relazione alle realtà finite e quando la rivolgiamo invece all’oggetto supremo, al Sommo Bene? La salvezza cristiana, che è beatitudine, è visione di Dio faccia a faccia: «Il poter vedere della mente supera il poter comprendere. Perciò la visione della mente non è la visione che comprende, ma quella che si eleva dalla visione com-prensiva al vedere incomprensibile … Questa è la felicità che sola può soddisfare il desiderio supremo della mente», scriverà Nicola Cusano nel De apice theoriae: è a partire da questa conclusione che possiamo gettare uno sguardo penetrante sulla fase iniziale del confronto fra etica e conoscenza, sul cui sfondo si profila allora il tema della visione beatifica ampiamente analizzato anni fa da Christian Trottmann e, prima ancora, quello del superamento delle virtù – non della rinun-cia all’etica, ma della sua differente fondazione – nella mistica speculativa. For-se, allora, postulare un nesso fra etica e conoscenza nel Duecento è come indovi-nare, nel seme della pianta, il fiore che ne costituirà il pieno compimento.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 presso la Stampa Editoriale srl

STRADA STATALE 7/BIS – ZONA INDUSTRIALE DI AVELLINO 83030 – MANOCALZATI (AV)

Tel. 0825 626966 – Fax 0825 610888

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