Auld Reekie

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Stefania Auci AULD REEKIE Prima parte: Alla luce del giorno 1

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Strettamente legata alla saga Moray Place è Auld Reekie. Ambientato nel 1846 a Edimburgo, narra il passato del clan, quando ancora Moray Place era una piazza isolata e semideserta alla periferia della New Town. Samuel e Oliver vivono tra gli esseri umani, si mescolano ad essi… e di essi si nutrono. Ma cosa accade quando i cacciatori divengono prede? I Fratelli della Luce, spietata setta di cacciatori di vampiri, sono sulle loro tracce. E a quel punto, per il lettore sarà difficile comprendere chi sono davvero “i buoni”.

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Stefania Auci

AULD REEKIEPrima parte: Alla luce del giorno

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Prologo

Londra, agosto 1846

C’era stato un incendio quella notte. Volute di fumo scuro velavano il cielo di un’alba appena accennata. Il puzzo di bruciato impregnava l’aria più del tanfo di carbone e fango che avvolgeva la capitale come una coltre.

Una palazzina tranquilla, in una stradina solitaria del quartiere di Kensigton era andata a fuoco e nulla aveva potuto salvare i suoi abitanti.

Erano morti, tutti.Poliziotti e curiosi erano andati via in fretta. Non

c’era più nulla da vedere, niente da prendere. Ormai la casa era uno scheletro abbandonato, le macerie dell’edificio erano simili a ossa annerite, coperte di fuliggine.

Eppure…Alcuni uomini in abiti scuri si aggiravano tra le

rovine senza parlare, scostando pezzi di legno, frugando alla ricerca di qualcosa che il fuoco aveva risparmiato. Non erano razziatori, si capiva dal modo in cui si muovevano: attento, gli occhi fissi a terra, le mani inguantate che sollevavano le assi risparmiate dal fuoco con cura.

Uno di loro, un uomo leggermente claudicante, vestito con uno spesso mantello scuro, teneva un cappello calato sugli occhi e dirigeva i suoi compagni con gesti secchi, mentre il suo sguardo scivolava tra cenere e rovine.

Sì, stavano cercando qualcosa.A un tratto, un uomo ebbe un piccolo grido di

trionfo: c’era una piccola cassaforte incastrata in un muro pericolante. L’incendio non sembrava averla danneggiata. Era salda, al suo posto.

L’uomo zoppo si avvicinò e represse un gesto di esultanza.

«Staccatela da muro e portatela alla sede della Fratellanza. Che non vi veda nessuno» ordinò a bassa voce.

L’uomo che aveva trovato la cassaforte sorrise.

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«Me ne occuperò io», mormorò, lasciando scorrere la mano lungo il pannello di metallo. «Ci saranno gioielli dentro?» chiese poi, con la voce incrinata.

Lo zoppo sospirò, piano. «Oh, può darsi… ma non è questo ciò che ci interessa. Giusto?».

L’altro annuì, con una smorfia. «No», considerò, guardandosi attorno. Dai suoi occhi affiorò un disagio improvviso e si allontanò di qualche passo.

«Ne abbiamo eliminati parecchi, ieri sera. E’ stato impressionante vederli morire così, accartocciarsi e ridursi in cenere… Non lo dimenticherò tanto facilmente», ammise in un soffio.

«Non li abbiamo uccisi, Richard», lo interruppe l’uomo. «Non abbiamo ammazzato nessuno: erano già morti da decenni o ancor di più. Sono senza anima, corpi senza sangue, parassiti schifosi che devono essere distrutti senza tentennamenti. Essi sovvertono l’ordine della vita con la loro sola presenza. Noi siamo I Fratelli della Luce, non siamo ne assassini, né ladri o torturatori. È nostro compito quello di rimettere ordine nel mondo. Ricordalo. Sempre».

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Edimburgo, settembre 1846

Strana mattina, quella. Il cielo di un azzurro tanto intenso da sembrare irreale, era coperto da nuvole simili a fiori di cotone sporchi, trascinate da un vento tagliente. Il sole che fino a pochi istanti prima aveva ricoperto il selciato e le facciate di pietra di Grassmarket era sparito e adesso si era trasformato un disco bianco e opaco, celato da una cortina di nubi.

Da lì a poco sarebbe piovuto.Ma questo alla folla non interessava. Centinaia di

teste ondeggiavano, senza un ritmo coerente, invadendo ogni angolo della piazza del vecchio mercato. C’era puzza: un tanfo nauseante e malsano, che il vento non riusciva a scacciare via del tutto. Arrivava a folate, disgustoso: odore di uomini e animali, sudore, escrementi, vomito, paglia e foglie marce, cavoli andati a male e carne putrefatta.

Era una mattina piena di traffico, voci e persone. Ragazzini arrampicati sui lampioni, sugli alberi; un mucchio di gente che si sporgeva dalle finestre, gesticolando. E carrozze. Molte carrozze tirate a lucido, ferme tra il limitare della piazza e Castle Wynd north.

Sotto la volta annerita dei closes, gli strilloni vendevano lo Scotsman e l’Evening post. Poco distante, una venditrice di pannocchie, vecchia, con un gran fazzoletto in testa; più in là, dei monelli che si rincorrevano tra la folla. Ancor più lontano, un gruppo di uomini ben vestiti, mercanti forse, che discutevano con un occhio alla strada e un altro alle signore non troppo coperte, affacciate al secondo piano di un vecchio edificio, su un angolo della piazza.

Tra un po’, sarebbe iniziato lo spettacolo. Era quello il motivo per cui tutta quella gente era riunita lì: il palcoscenico era già pronto e uno degli attori principali stava tranquillo ai piedi della scala, con le braccia conserte, in attesa.

Il vento dell’ovest si fece più freddo, insistente. La pioggia sarebbe arrivata prima di quanto si pensasse.

All’improvviso, il mormorio che animava la piazza

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crebbe d’intensità divenendo quasi un grido. Braccia, mani, teste, tutti si voltarono verso un piccolo carretto trascinato da un cavallo troppo stanco, guidato da un carrettiere di mezza età. Tre uomini, su quel carretto. Due in uniforme rossa, armati. Uno in catene.

Altri soldati iniziarono a spingere indietro la folla con i fucili, per aprire un varco al carro. La folla rumoreggiò, protestò, ondeggiò e infine si aprì, districandosi come una matassa mentre gli insulti si mescolavano con le grida dei militari.

Lentamente, il conducente portò il carretto al centro della piazza. Un palco di legno annerito dall’umidità sorgeva proprio laggiù. Certo, sarebbe stato più corretto definirla impalcatura: quel palo piantato nel mezzo non andava molto d’accordo con il concetto di teatro. Ancor meno quella corda che ondeggiava leggera al vento, o l’uomo con uno spesso cappuccio sul viso ai piedi della scala.

A Edimburgo, le impiccagioni erano state sempre un evento, per tutti: ricchi e poveri, giovani e vecchi. Un vero spettacolo.

C’era un insano piacere nel vedere un uomo che muore, per alcuni; per altri c’era il sollievo: quella volta non era toccata a loro. Per altri ancora, era la conferma che l’ordine sociale esisteva e che aveva la forma di una robusta corda di canapa e di un nodo scorsoio.

L’uomo nel carretto iniziò a tremare. Era poco più di un ragazzo, in verità, con addosso solo un paio di pantaloni e una camicia bianca. Le gambe gli cedettero, di schianto e i soldati di guardia furono costretti a sollevarlo di peso. Si riscosse e faticosamente si rimise in piedi, stringendo i pugni. Guardò a terra. Non voleva far vedere che stava piangendo.

Iniziò a salire i gradini, arrancando. Dalla folla, si alzarono urla: c’era bisogno di silenzio, in quel momento. Era il contegno del condannato a rendere memorabile un’impiccagione.

Lo spettacolo stava per iniziare.

«Non capisco perché tu sia voluto venire qui, Samuel. C’è un fetore orribile». La giovane donna scosse la testa e il cappello ondeggiò, amplificando il disappunto

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della sua proprietaria.L’uomo cui si era rivolta le prese la mano,

appoggiandola sul suo braccio e si limitò a sorriderle. «Osservazione scientifica, Joanne. Trovo le impiccagioni uno dei momenti migliori per valutare la tempra della natura umana».

La loro carrozza si era fermata al termine di Candlemaker Row, in un punto da cui si aveva una perfetta visuale del patibolo. Di colpo, il cielo si era fatto plumbeo, la luce uniforme e opaca. Un impalpabile velo di grigio si era steso sulla piazza, cancellando tutti i colori.

Dalla vettura scese un’altra figura, un uomo massiccio. Spalle larghe, muscolose, una lunga barba rossa, occhi nocciola, scrutatori, folti capelli biondo rossicci legati in un codino. Si mise accanto a Samuel, fissando con interesse la scena che si svolgeva sotto i loro occhi.

«Era innocente, secondo voi?», domandò, mentre un sacerdote si avvicinava al condannato.

L’altro uomo non rispose subito. Lasciò scorrere lo sguardo sulla folla sotto di lui, pigramente, per soffermarsi infine sul boia.

«Colpevole? Innocente? E’ solo una questione di punti di vista: per alcuni, rubare per fame è un crimine, per altri è una necessità. Non ha molta importanza a questo punto, Will. Quel ragazzo è stato solo sfortunato a farsi beccare. Tutto qui».

Dalla folla, in quell’istante, si alzò un grido. Un pianto disperato.

«Cielo, che lagna insensata!».A parlare era stata la donna. Una smorfia arricciò il

suo viso diafano. Aveva occhi allungati, di un azzurro chiarissimo e capelli biondo oro. Molto graziosa, non c’era nulla da dire. Bel corpo, bel portamento, alta al punto giusto, morbida dove doveva esserlo.

Will emise un sospiro. «Fa parte dello spettacolo, Joanne. I parenti in lacrime, le invettive e tutto il resto. È molto, molto umano».

Lei rispose con un curioso suono di scherno.Al centro, Samuel fece un cenno con il dito,

infastidito. I due tacquero immediatamente.

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Qualcuno, un giudice forse, stava leggendo la sentenza di morte. Altre urla, più forti, lo costrinsero a interrompere la lettura più volte. A gridare non era solo una donna anziana: c’era anche una ragazza.

Giovane, giovanissima. Capelli scuri scarmigliati, un abito marrone, le braccia tese verso la forca. Scalciava, mordeva e graffiava chiunque cercasse di trattenerla. Voleva salire lassù. Era un piccolo concentrato di paura, rabbia e dolore. Ma non era disperata, quello si capiva: era scatenata, una piccola furia che voleva liberare… chi? Suo marito? Fratello? Amante?

Samuel strinse gli occhi, studiandola incuriosito.«Will», mormorò, inclinando appena il capo verso

la spalla, con gli occhi fissi sulla scena. «Chi è quella ragazza?».

L’altro alzò la testa per guardare meglio. Alla richiesta dell’ufficiale che aveva letto la sentenza, il ragazzo aveva scosso la testa: no, non aveva nulla da dire, poi aveva iniziato a piangere forte. Il boia lo aveva fatto salire su una piccola panchetta.

Numerose urla di scherno si alzarono dalla folla: una chiazza umida si era allargata nei pantaloni, all’altezza del basso ventre. Il corpo stava pagando già il suo pegno alla paura.

«Quella che strepita, accanto alla vecchia?».«Sì».«Credo sia la sorella di Joseph Tibbs, il

condannato».Samuel sorrise, sollevando un angolo della bocca e

socchiuse gli occhi. Il boia aveva sistemato il nodo scorsoio e adesso si trovava vicino alla leva per sganciare la caditoia.

«Cerca notizie su di lei, Will. Come si chiama, dov’è il buco che chiama casa, cosa fa. Tutto».

L’altro annuì senza un commento. Si allontanò, mescolandosi alla folla e sparì, mentre minuscole gocce di pioggia precipitavano al suolo, trascinate giù da un vento insistente.

Joanne inclinò il capo, guardando il suo compagno in tralice. «Interessante creatura, non è vero? Sembra una gatta selvatica», mormorò.

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Samuel le rispose con lo stesso sguardo, poi tornò a fissare la ragazza. Annuì e sorrise con lentezza. Un sorriso freddo, accompagnato da una luce strana, quasi famelica negli occhi.

«Mi piace. La voglio».Il boia sganciò la botola.

Dopo l’impiccagione, la folla si disperse con lentezza. C’era sempre qualcuno da salutare, o un altro con cui commentare gli ultimi avvenimenti. I mercanti si diressero verso la palazzina dove le signore poco vestite abitavano; altri restarono a ciondolare sotto la forca, osservando il cadavere che dondolava, bagnato dalla pioggia leggera.

Samuel e Joanne erano rientrati nella carrozza. Attendevano il ritorno del loro compagno, Will, senza parlare, scrutando la folla che sciamava, un insieme confuso di persone che urtava la vettura, facendola sobbalzare sul selciato di pietra.

All’improvviso, la donna ridacchiò e si voltò verso il suo compagno. Negli occhi aveva una luce brillante, in cui danzavano impazienza e divertimento. «Oh, Samuel! Sono così felice che questi anni a Edimburgo stiano per terminare! Sono stati lunghi come un’eternità. Mi sono sentita come un animale in gabbia, qui. Non vedo l’ora di tornare nelle Trossachs».

«Dunque non ti è piaciuto essere la signora Griffin». L’uomo rispose senza guardarla, a voce bassa. Continuò a fissare i volti, fuori dal finestrino.

L’altra rise divertita come una bambina. «Non ho molte alternative per vivere con te e con i nostri fratelli sotto gli occhi di tutti: posso essere solo tua moglie o tua sorella».

Samuel si voltò, con una luce maliziosa nello sguardo.

«Dici? Potresti fingere di essere la moglie di Will».Lei alzò i palmi delle mani, in segno di difesa. «Ho

già fatto questa prova, se ben ricordi, e mi è bastata. No, grazie».

Samuel alzò le sopracciglia con un cenno di assenso; poi, in tralice scrutò la sua compagna, nascosta

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dalla penombra dell’abitacolo. Joanne dimostrava non più di venticinque anni e, ufficialmente, era sua moglie. Una donna bella ed elegante, come si addiceva a una ricca esponente della middle class scozzese. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare chi fosse.

Cosa fosse.Quanto a lui… anche lui era stanco di quella recita.

Andava avanti da quasi un decennio e in una città come Edimburgo era difficile mantenere dei segreti.

Case strette, addossate le une alle altre, abbarbicate allo sperone di roccia su cui sorgeva Castle Rock. Pareti sottili, o marce; miglia e miglia di cunicoli sotto terra, abitati da chi non poteva permettersi una casa in superficie, e che mettevano in comunicazione tutta la città.

I segreti erano la vera ricchezza, ad Auld Reekie. I loro valevano molto, molto di più.

Anche Joanne lo stava studiando, osservando il riflesso sbiadito dell’uomo sul vetro del finestrino. Avere un marito come Samuel sarebbe stato la felicità di ogni donna. Alto, spalle larghe. Capelli biondi scuri, con piccole ciocche disordinate che gli cascavano sulla fronte; occhi di un azzurro profondo, intenso. Viso pallido e affilato, liscio. Mani eleganti. La prima volta che lo aveva visto, aveva pensato che somigliasse più a un angelo che a un essere umano.

Tutto in lui era di una bellezza angelica. Tutto tranne il suo sguardo.

Vuoto. Raggelante. Indifferente. Gli aggettivi per descriverlo si sprecavano ma nessuno sarebbe stato in grado di definirlo davvero.

Avevano una sintonia perfetta, tale da ingannare chiunque: agli occhi dell’intera città, erano una coppia splendida e questo la divertiva, parecchio. Com’era facile ingannare gli uomini, mostrare loro ciò che vogliono vedere…

Lei… tutti “loro” avevano un cinismo che nessun essere umano avrebbe potuto mai avere. Per lei osservare i ridicoli tentativi degli esseri umani di cambiare il corso della propria esistenza era causa di divertimento. Talvolta di disprezzo. Raramente di ammirazione.

Ma anche questo, ormai le era venuto a noia: non

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c’era più nulla che potesse stupirla.Odiava attendere. Odiava quei mesi che la

separavano dal ritorno nella loro tenuta nelle Trossachs e odiava aspettare, come in quel momento, chiusa nella carrozza. Will ci stava mettendo troppo tempo.

Quasi evocato dal suo pensiero, l’uomo spalancò lo sportello. Entrò nella carrozza e l’ambiente sembrò restringersi, riempito dal suo fisico massiccio. Samuel diede un paio di colpi sul tetto della vettura, che partì immediatamente.

«Allora?» chiese aggiustando il plastron della cravatta.

«Si chiama Bridget Tibbs. Ha quindici anni, vive con sua madre e altri cinque fratelli dalle parti di Lawnmarket».

«Sopra o sotto?».«Sottoterra, nei vicoli: hanno una stanza sotto la

strada. A quanto pare, Joseph era l’unico che riusciva a raccattare qualcosa con i borseggi. Sua madre ha fatto la lavandaia fino a due anni fa, quando una pentola di lisciva le è finita in faccia e l’ha accecata. Sono degli autentici relitti».

«E lei?».L’uomo accarezzò la folta barba rossiccia. «Ha

aiutato sua madre per un po’, poi è andata a servizio ma l’hanno licenziata non appena si è saputo che suo fratello era stato arrestato per furto. Ha sempre trovato il modo di arrotondare, comunque».

Con lo sguardo, Samuel lo invitò a continuare.«Un amico di suo fratello mi ha detto che non è

molto brava a sfilare portafogli ma lo è sicuramente di più ad aprire le gambe».

Aveva iniziato a piovere. Una pioggia violenta, arrabbiata, che staffilava il tetto della vettura e filtrava attraverso la porta della carrozza. Sotto l’acqua, le facciate di pietra della città vecchia scintillavano come argento brunito; i segni delle ruote delle carrozze erano simili a frustate sulle strade fangose, ingombre di carri e passanti che correvano per cercare un riparo.

La pioggia riempì con il suo odore i vicoli, i cortili, le scalinate. Sembrava voler lavare via tutta la sporcizia che incrostava Edimburgo e che ne avvelenava l’aria,

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pensò Samuel. Peccato che questo non fosse possibile: sarebbe dovuta cadere una pioggia tanto forte da scorticare i suoi abitanti per eliminare l’odore di tutto quel lerciume.

C’era una gran differenza con la New Town, la città nuova che stava prendendo forma ai piedi di quella vecchia, verso nord. Aveva comprato un’intera costruzione laggiù, in una piazza tranquilla, poco abitata. Aria pulita. Strade larghe, viali alberati, persino l’acqua corrente. Era un lusso un po’ costoso ma tutto sommato, poteva permetterselo: possedeva un’impresa di export, che trafficava con le colonie indiane e cinesi. Un’attività redditizia che adesso stava liquidando, in prospettiva alla sua futura partenza.

Viveva a Edimburgo per troppo tempo, dieci anni. Era arrivato il momento di sparire.

Di tornare nelle Trossachs, nella sua vera casa.Quel pensiero gli procurò un brivido di piacere. Le

immagini di Loch Ard e della foresta nella sua tenuta lo staccarono dalla realtà, per qualche istante. Il suono della pioggia sulle foglie. Il ticchettio della rugiada, lo scorrere del vento tra le querce dinanzi alla casa, il leggero crepitio della ghiaia sotto gli zoccoli dei cavalli, la luce delle stelle di notte che si riflettevano nelle acque gelide ed immobili del lago…

Una frenata leggera e il tintinnio delle briglie lo strapparono dalle sue riflessioni. Una parete in pietra, bagnata di pioggia comparve dinanzi ai suoi occhi. Erano arrivati a casa.

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Samuel Griffin era ricco abbastanza da potersi permettere un intero edificio nel cuore di Edimburgo al numero quindici di Canongate. Era la sua casa, arredata con eleganza, grazie a Joanne e al suo gusto impeccabile. L’ingresso era stretto ma accogliente, con il pavimento di legno e la carta da parati color ambra; in esso si apriva un corridoio; a destra, una scala di legno portava al piano superiore e alle camere da letto

Al suo arrivo, una cameriera fece capolino dal sottoscala: indossava una cuffia e un piccolo grembiule bianco su una gonna a righe; teneva gli occhi bassi, quasi intimorita dai suoi padroni.

«Signora Joanne» annunciò con una riverenza, «nel salottino vi attendono le vostre cugine, le signorine Hates. E’ giunto anche il vostro avvocato, signor Griffin», disse poi, rivolgendosi verso Samuel, il padrone di casa.

Questi scambiò una rapida occhiata di sorpresa con Will. «Il signor Burnes? Dov’è?».

«Vi attende nel vostro studio».Una scala immersa nella penombra li portò alle

stanze sotto il livello della strada; i due raggiunsero in fretta una stanza dal soffitto basso che si affacciava su un cortile ingombro di merci; tutte le pareti, dal soffitto al pavimento di pietra, erano ricoperte di libri. Solo una finestra chiusa da inferriate gettava una luce sbiadita sulla scrivania di quercia, stretta contro un angolo.

Nell’aria ristagnava l’aroma di cuoio, colla e legno misto a un altro odore più opprimente: umidità, o forse il tanfo che ammorbava la città vecchia di Edimburgo, dove non vi era differenza tra strade e fogna.

C’erano dei banchi per la contabilità al centro della stanza, ingombri di registri e scartoffie, graffiati dal tempo, macchiati d’inchiostro. Alcuni volumi erano spalancati. Qualcuno li stava consultando.

Un uomo.«Solerte come sempre, il nostro avvocato»,

constatò Will, sarcastico.Quello alzò la testa, mentre la porta si chiudeva

con uno scatto sordo. Alto, vestito di scuro, fissò i due

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uomini per qualche istante, rimanendo impassibile. Lasciò che Samuel si accomodasse dietro la scrivania; poi si avvicinò a passi lenti, sedendosi di fronte a Will.

«Brutte notizie», si limitò ad annunciare con voce profonda, priva di inflessione. Gettò sul tavolo una sottile busta di carta ambrata. Il sigillo in ceralacca pendeva spezzato da un lembo, come una goccia di sangue.

«Ci avrei giurato dopo aver visto la tua faccia. Te l’ha mai detto nessuno che ti vesti come un becchino?». Le spalle potenti di Will furono scosse da una risata. «Marsina scura, gilet grigio, pantaloni neri… Un po’ di colore non guasterebbe, Oliver».

«Si chiama abbigliamento professionale, Will. Non pretendo che tu capisca ma è ciò che gli avvocati indossano».

Oliver Burnes aveva risposto senza enfasi, accompagnando le parole con un’occhiata di sufficienza e il tono di chi è abituato a sentire sciocchezze: conosceva Will Munro e le sue battute da troppo tempo per offendersi. Lui e Samuel Griffin erano i suoi migliori clienti.

E anche qualcosa di più.Oliver era un uomo dai tratti eleganti. Capelli neri,

appena spruzzati di bianco, fisico asciutto, mani lunghe e curate, il viso, regolare, quasi altero. Infine, i suoi occhi. Sconvolgenti: erano di un curioso grigio argento, tanto chiari da essere trasparenti. Inespressivi. Non si poteva fissarlo senza sentirsi costretti ad abbassare i propri occhi: sembrava poter trapassare la mente di chiunque lo fissasse troppo a lungo.

Samuel lesse in fretta e imprecò, accartocciando il foglio. Chiuse gli occhi per un istante.

«Quando è arrivata?».«Stamane, al mio studio, con il corriere diretto da

Londra».Un silenzio pesante cadde nella stanza. Will prese

la lettera, lisciandola con le mani. La scorse, poi inveì a sua volta.

«Dannazione!» esclamò, sollevando gli occhi verso Oliver.

Quello rispose con uno sguardo tagliente. «Hanno ricominciato la caccia. Si stanno muovendo verso nord».

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L’avvocato si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse le dita a piramide, lanciando una lunga, seria occhiata all’altro. «Verso di noi».

Samuel si alzò di scatto e prese a camminare a capo chino, pensieroso. Il suono dei suoi tacchi riempì il silenzio che era caduto nella stanza. Stava con le braccia conserte, gli occhi socchiusi. Il viso, indifferente sino a poco prima, era contratto, teso. Qualcosa, rabbia forse, affiorò per un istante dai suoi occhi azzurri.

«Si sono riorganizzati e rimessi in forze, dopo quello che è accaduto vent’anni fa con Lady Rostwood» considerò Will, meditabondo.

«Hanno imparato dai loro errori: nessun contatto personale, indagini rigorose e attacco a sorpresa, a quanto riferiscono i nostri amici del sud. Hanno osservato, colpito e eliminato». Oliver accavallò le gambe e sollevò lo sguardo dalle sue mani. «É incredibile che riescano a trovare ancora degli accoliti. Devono essere molto convincenti», commentò, pungente.

Samuel strinse le labbra. Sul suo viso si alternavano collera, ira e tensione. Alla fine, fu quest’ultima a prevalere. Aprì la porta e chiamò la governante.

«Margaret! Dica a mia moglie di raggiungermi subito nello studio».

Quando Joanne giunse nella stanza, Oliver si alzò per farla accomodare ma lei lo bloccò con un gesto. Sollevò le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazioni.

Samuel le porse la lettera. «Leggi».Il colorito di Joanne divenne diafano, mentre le

labbra rosse si stringevano fino a divenire una linea sottile.

«Che possano essere maledetti…» bisbigliò, in tono appena udibile. Alzò gli occhi sui tre uomini che la fissavano. «Hanno attaccato York e Londra nel giro di una settimana; adesso si stanno spostando verso Newcastle, dopo di che giungeranno qui. Dobbiamo anticipare la partenza, Samuel».

La ragazza stava in piedi, le mani incrociate sul ventre. Gli occhi avevano una durezza adamantina, stridente su quel viso così delicato.

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Samuel tornò a sedersi.Non avrebbe lasciato Edimburgo senza lottare. I

Fratelli della Luce non lo avrebbero scacciato dalla sua terra. Né lui… né i suoi.

Un piano rischioso, folle si stava delineando nella sua mente.

«Conosco il loro osservatore in città. Lo metterò sotto sorveglianza: dobbiamo capire se sospetta già di noi e, per farlo, dobbiamo attirarlo qui. Posso contare sulla tua collaborazione, Joanne?».

La ragazza annuì, poi sorrise divertita socchiudendo le labbra. Denti bianchissimi scintillarono nella penombra.

Samuel la fissò per un istante, chiedendole con gli occhi socchiusi il perché di quella risata.

«Nulla…», rispose lei, mentre il suo sorriso diventava largo. E inquietante. «Pensavo cosa direbbero i nostri vicini se sapessero della nostra… natura. E’ una cosa che mi diverte».

Samuel scosse la testa irritato, mentre sul viso di Will passava una fugace espressione di disappunto. In quel momento, nessuno era dell’umore adatto per gli scherzi, neanche lui.

«Sono lieto che tu riesca a cogliere il lato comico della situazione, Joanne ma stavolta la faccenda è seria. Rischiamo l’esistenza»

La ragazza cambiò espressione, colpita da quel rimprovero, mentre i suoi occhi chiari si riempivano di una luce arrogante. Alzò la veste di mussola beige fino all’anca, scoprendo la lunga gamba bianca e dei calzoncini aderenti di cotone, ben diversi dai goffi mutandoni che le altre donne portavano.

I tre sussultarono a quel gesto.«Pensi che non sappia come affrontarli?» chiese

diretta, guardandoli in faccia.Una spada, corta e affilata, era legata alla coscia;

l’impugnatura di cuoio arrivava quasi al bacino. Lasciò cadere la gonna con un sorriso di sfida: la linea morbida della veste celava completamente l’arma e la rendeva uguale a qualunque giovane signora della ricca borghesia di Edimburgo. Una giovane e bella donna, sposata a un ricco esportatore di merci. Un matrimonio felice, cui era

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mancata la gioia di un figlio.Ma lei non era come le altre donne.Nessuno era come lei.

Nulla da fare. Nonostante i profumi e le candele di vera cera, l’odore di letame e sporcizia che proveniva dalla strada arrivava fino al salotto di casa Mc Coy appestando l’aria.

Un pianoforte e un’arpa erano posti al centro della stanza, in attesa che l’esibizione della figlia dei Mc Coy avesse inizio. Gli ospiti arrivavano a piccoli gruppi nel salone, tappezzato in color oro e verde acceso, con candelabri dorati grossi come rami d’albero. Impressionanti stucchi ornavano il soffitto; le sedie erano massicce, rivestite di un cinz color marrone che strideva con il verde della carta da parati.

Pacchiani, considerò Joanne. Tutto era appariscente, ai confini della volgarità in quella stanza. Cosa ci si poteva aspettare dalla figlia di una sarta che aveva sposato un piccolo armatore, si chiese Joanne? Era una piccola donna troppo ingioiellata, che aveva un dubbio gusto nell’arredare e un gusto ancora peggiore nello scegliere i vestiti.

Ma non era lì per divertirsi a osservare gli altri. Guardò la pendola in fondo alla sala, poi scosse la testa e con una leggera pressione sul braccio fece voltare Samuel.

«Temo che il nostro segugio non verrà» bisbigliò dietro il ventaglio di seta.

Samuel rise, come se lei avesse detto qualcosa di molto spiritoso e rispose in un soffio. «Verrà, invece. Zach l’ha seguito tutto il giorno e l’ha udito dire che sarebbe venuto qui con sua moglie. Se non verrà, troveremo un altro modo per farlo venire nella nostra abitazione e… Oh, dottor Dyce. Che piacere vederla!».

Samuel cambiò tono ed espressione con una rapidità sconcertante e si diresse verso un gentiluomo fermo sulla soglia. Quello lo squadrò strizzando gli occhi, sospettoso. Non aveva ancora raggiunto la mezza età: portava minuscoli occhiali d’oro che velavano due stretti occhi verdi, scrutatori. I capelli, biondi e folti, erano

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pettinati all’indietro; l’abito era di ottimo taglio. Non era molto alto ma si muoveva con sicurezza, quasi sapesse di essere un gradino sopra il resto del mondo. Strinse la mano che Samuel gli porgeva con una stretta forte, sebbene un velo di esitazione, di perplessità forse, gli avesse velato lo sguardo.

«Signor Griffin. È piacere mio vedere lei e la sua incantevole signora».

Joanne fece un grazioso cenno con il capo e represse un sospiro. Detestava comportarsi da bambolina.

«È un onore per noi. Perdoni l’invadenza ma… posso chiedervi un breve colloquio in privato?».

George Dyce ebbe un cenno di assenso. Nei suoi occhi brillava curiosità mista a diffidenza. Dyce era un medico conosciuto a Edimburgo: i suoi pareri erano cercati ovunque tra la borghesia e la nobiltà. Aveva acquistato una bella casa a Charlotte Square, nella New Town e l’aveva arredata con ogni cura; lì, ogni giovedì sera, sua moglie teneva salotto con intellettuali e musicisti della città.

Joanne e Samuel si scambiarono un’occhiata complice. Si spostarono presso una finestra per parlare con maggiore riservatezza e si fermarono presso una pesante tenda di broccato.

«Sarò breve per non tediarvi, dottore… Come di certo saprete, io e mia moglie siamo sposati da alcuni anni, ma purtroppo la nostra unione non è stata allietata da alcuna nascita. Mia moglie non è mai riuscita a concepire, per essere ancora più precisi. A questo punto ho ritenuto opportuno capire le cause di tale mancanza».

Samuel aveva parlato mescolando nella voce reticenza e disappunto, con un tono dimesso. Opportunamente, Joanne chinò la testa e si stampò in viso l’espressione rammaricata che il momento richiedeva.

«Oh, bene… ma questa non è la sede adatta. Non avete consultato una levatrice?». Il medico si guardò attorno, in imbarazzo. Non si aspettava una simile richiesta.

«Sì, ma non è stata in grado di dire alcunché, e per questo motivo, abbiamo deciso di rivolgerci a voi che siete un luminare. Capisco e condivido il vostro disagio.

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Mia moglie è orfana e non ha altre parenti, se non le signorine Hates. Certamente, non potrebbe chiedere a due fanciulle innocenti di parlare con voi, dunque è il mio compito di marito assisterla e curarla».

«Capisco». Il medico assentì, pieno di comprensione. Si trovava bene nella parte del benefattore dell’umanità: era facile esserlo, se si ricevevano onorari pesanti come i suoi. L’uomo continuò accarezzandosi il mento con la mano.

«Potrei venire presso la vostra abitazione per una visita accurata».

«Nessun incomodo. Il benessere della mia adorata Joanne viene prima di tutto».

«Le farò sapere la data, allora».«Grazie. E’ un vero sollievo per me sapere che mia

moglie sarà affidata alle vostre cure».Appena Dyce si allontanò, Samuel prese la mano

di Joanne, portandosela alle labbra con uno sguardo premuroso. «Visto? Ha accettato senza problemi», considerò, trionfante.

«Ci sta guardando ancora», sussurrò lei, voltandosi verso la finestra aperta. Entrava un vento freddo, mescolato al fetore di sterco. Numerose carrozze erano ferme all’ingresso e l’odore dei cavalli giungeva fino a loro. Sollevò un angolo delle labbra in un fugace sorriso ironico.

«Sei stato maledettamente convincente. Un altro po’ e avrei creduto anch’io di essere una povera mogliettina sterile che si strugge assieme al marito innamorato».

«E tu? Occhi bassi, in silenzio, contegnosa... sei persino arrossita!», mormorò lui, accompagnandola verso la sedia.

«È solo un praticone borioso. Non sarà difficile metterlo nel sacco», concluse lei con disprezzo. Si scambiarono uno sguardo scintillante, mentre il pianista prendeva posto dinanzi allo strumento. Solo Joanne percepì il sottile divertimento celato negli occhi socchiusi di Samuel, simili a quelli di un gatto. Lo conosceva da tempo.

Moltissimo tempo.

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Il sole morente filtrava attraverso le tende di velluto azzurro che schermavano le finestre al numero 15 di Canongate. Una stretta lama di luce illuminava la credenza di legno scuro su cui troneggiavano liquori e una caraffa d’acqua.

Nessun membro della servitù era presente.Seduto a capotavola, Samuel teneva tra le dita un

bicchiere pieno per metà di whiskey. Faceva roteare il liquore senza berlo: aveva un profumo antico, di mare e di torba, e gli riportava alla mente sensazioni perdute. Osservava il liquido ambrato in silenzio, quasi potesse leggervi il futuro.

Quel pensiero gli strappò una smorfia simile a un sorriso amaro. Lui non aveva un futuro: il suo destino era già scritto.

Oggi come ieri, domani come oggi.Come un serpente che cambia pelle ma che rimane

sempre uguale a se stesso.Scrutò il proprio riflesso deformato dal bicchiere

panciuto. Non c’era poi molto che potesse cambiare nella sua vita: nulla e nessuno poteva modificare il passato, così come non poteva mutare quello di coloro che lo circondavano.

E nessuno avrebbe potuto cambiare il suo futuro.O sì?La risposta non venne e lui non si affannò a

cercarla. Era così e basta. Aveva combattuto con tutte le forze contro il suo destino, lo aveva piegato a proprio favore. Non provava rimpianto per ciò che aveva perduto: sarebbe stato insensato, oltre che stupido.

Aveva forza e potere, invece, ben più di quanto avrebbe mai immaginato anni prima, quando era solo un montanaro che badava alle greggi. Aveva lottato per difendere ciò che possedeva. E così sarebbe stato per sempre…

Forse, si corresse con stizza, se coloro che li minacciavano non li avessero trovati e distrutti prima.

No. Non lo avrebbe mai permesso. Mai.Poggiò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco e

sollevò gli occhi verso gli altri uomini presenti nella

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stanza.«Dyce verrà qui. Joanne proverà a scoprire se la

Fratellanza sta già facendo delle ricerche, e soprattutto, se sospettano già di noi».

Will corrugò la fronte, fissando i bicchieri sul tavolo, pieni di liquore che nessuno di loro aveva bevuto. «Avranno dei membri attivi in città?» considerò, sollevando gli occhi.

Samuel alzò lo sguardo verso uno dei due uomini seduti in fondo al tavolo, in penombra. «Sicuramente. Cercheremo di conoscere i loro nomi». Si rivolse a uno dei due uomini seduti all’altro capo del tavolo. «Zach?».

Due occhi verdi di muschio e legno lo fissarono intensamente. «Dimmi, Padre».

«Va’ a casa Dyce. Il dottore avrà un elenco dei confratelli: trovalo e scopri i loro nomi. Inoltre, rintraccia qualunque comunicazione della Fratellanza che provenga da Londra o da Cardiff».

L’uomo annuì. Mostrava all’incirca trent’anni; portava un piccolo pizzetto scuro, che sfiorò con due dita, meditabondo. Capelli castani legati dietro, viso allungato, fisico smilzo. Era vestito come un popolano: abiti lisi ma puliti. Sedeva dritto senza guardarsi attorno e parlava con tono basso, privo di accento.

«George Dyce è uno scienziato. Stento a credere che si sia fatto coinvolgere dai Fratelli della Luce in una loro crociata in un’epoca avanzata come questa».

«Il dottore non è solo un osservatore, Zach: è un ex cacciatore. Sa cogliere segni che gli altri umani non noterebbero nemmeno. Inoltre… conosce sin dall’università Burgess e Corbridge».

Nel sentire quei nomi, sguardi tesi corsero da una parte all’altra del tavolo.

Un silenzio irreale cadde nella stanza. Nessun suono. Nessun respiro.

«Sapranno già della nostra esistenza qui a Edimburgo?»

Fu Oliver a porre quella domanda, sollevando gli occhi glaciali dal bicchiere.

Samuel rispose dopo alcuni istanti, con lentezza.«A mio avviso lo ritengono possibile: Edimburgo è

la capitale della Scozia, ed è una città popolosa. Se hanno

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anche solo un sospetto, ci staranno alle costole finché non avranno la certezza assoluta e, a quel punto, colpiranno immediatamente. Se non riusciremo a batterli sul tempo, dovremo affrontarli» mormorò, alzando gli occhi simili a lapislazzuli. «E non ci sarà concesso alcun errore»

Accidenti al mondo intero! Bridget Tibbs scalciò via un topo che era sgusciato tra i piedi, lungo le scale che portavano al tugurio dove viveva. Lasciò alle spalle il sole morente che bagnava le facciate dei palazzi e iniziò a scendere nell’oscurità.

Era di pessimo umore, spaventata e avvilita.Niente. Non aveva trovato un lavoro. Era riuscita a

tirare su un piatto di stufato in una taverna lasciandosi mettere le mani addosso dal cuoco, ma nulla più: nessuno voleva dare lavoro alla sorella di un ladro impiccato.

«Maledizione a te, Joseph», imprecò. Suo fratello era stato un idiota a farsi arrestare e adesso che era morto, aveva lasciato lei a trascinare la carretta.

Una zaffata di fetore nauseante l’accolse appena giunse sottoterra: quello era il ventre di Edimburgo, di Auld Reekie, la vecchia puzzolente. Quei vicoli sotterranei erano il suo intestino molle e malato. Lei stessa era come un verme, un parassita che la infestava, come tutti i pezzenti che galleggiavano nelle fogne ai piedi del Castello.

L’umidità, laggiù, era la cosa peggiore. L’umidità e il freddo che entravano nelle ossa. E poi ancora la puzza, i topi, la sporcizia...

Si sfilò lo scialle e una massa sporca di riccioli scuri le scivolò sulle spalle. Rabbrividì, sentendo dei colpi di tosse stizzosi: era Mary, una vecchia mendicante. Prima o poi, anche quella avrebbe tirato le cuoia e finalmente avrebbe potuto dormire una notte in pace.

Trascinando i passi, arrivò fino a un arco scavato nella pietra, coperto da una tenda. Il vicolo che aveva percorso era stretto, buio, illuminato da torce che scoppiettavano, diffondendo una luce rossastra, metallica.

Sospirando, Bridget entrò nella stanza e strizzò i grandi occhi scuri per vedere dove metteva i piedi. Filtrava a malapena un po’ di luce dalla tenda e dal

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braciere che scaldava la stanza. Meglio così, pensò: almeno evitava di vedere il letamaio in cui viveva. Quattro pagliericci gettati lungo le pareti, delle ceste in cui tenevano i loro stracci, una madia sbrecciata che non conservava cibo da tempo.

Sua madre era rannicchiata a sonnecchiare in un angolo: stava così da due giorni, da quando aveva visto impiccare Joseph. Dei suoi fratelli, neanche l’ombra. Che andassero al diavolo anche loro, imprecò fra sé. Che spariscano, ingoiati dall’inferno e non si facciano più vedere.

Si lasciò cadere davanti al fuoco abbracciandosi le gambe. Era stanca.

«Hai portato qualcosa da mangiare, Brid?», chiese una vocetta acuta, alla sua destra.

La ragazza si voltò con lentezza. Due occhietti vispi, scuri come i suoi, la fissavano nel buio: era David, il più piccolo di tutti i suoi fratelli, raggomitolato in mezzo alla paglia.

Bridget annuì: qualcosa aveva, sì. Quel porco del cuoco si era voltato per mettere lo stufato nella ciotola e lei aveva afferrato un pezzo di pagnotta nascondendolo sotto il vestito. Mise la mano sotto la camicia e tirò fuori un pezzo di pane, spezzandolo con le mani sudice. Il bambino l’afferrò, arretrando contro il muro. Era vorace, ansioso di finire presto: temeva che i fratelli maggiori tornassero da lì a poco. Allora gliel’avrebbero rubato.

Bridget distolse lo sguardo, tornando a fissare la fiamma nel bacile di rame. Per quella sera, lei non avrebbe avuto fame, ma domani? E dopo? Avrebbe dovuto farsi di nuovo mettere le mani addosso? Non voleva. Piuttosto, sarebbe andata a rubare: persino il rischio di finire sulla forca era preferibile a quella miseria infame.

D’un tratto, la madre si voltò verso di lei e la fissò con occhi velati.

«Bridget, sei tu? E’ tornato Joseph?».La ragazza aprì la bocca per rispondere, poi la

richiuse con uno scatto. A sua madre era definitivamente andato di volta il cervello da quando avevano tirato giù Joseph dalla forca. Si limitò ad allungarle un pezzo di pane.

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«Sì, ma’. È già uscito. Ti ha lasciato del pane».La donna, con il viso simile a una corteccia

d’albero sbiancata dal sole, allungò la mano fino a trovare il pane: lo tastò, incerta, e poi lo ficcò in bocca mugolando.

Bridget deglutì a vuoto, mentre il sapore acre della rabbia le avvelenava la gola. Avrebbe avuto voglia di urlare: era arrabbiata con suo fratello che si era fatto arrestare e impiccare come un babbeo, con la madre che si era buttata addosso un secchio di lisciva, con un padre che neanche aveva conosciuto, con i suoi fratelli, dannati accattoni.

Con sé stessa.A dirla tutta, avrebbe voluto esserci lei al posto di

Joseph. A quest’ora, lui non stava a preoccuparsi di cosa mettere sotto i denti visto che i vermi stavano mettendo sotto i denti lui.

Dietro la tenda si mosse qualcuno, un’ombra leggera. La ragazza trasalì per un istante, poi tornò a guardare il fuoco; David si era allungato vicino a lei e si era rannicchiato contro le sue ginocchia per cercare un po’ di calore. Senza parlare, Bridget prese una coperta e lo coprì; poi lo spostò sul pagliericcio accanto alla madre, affinché lo tenesse caldo con il suo corpo. David protestò debolmente nel sonno e socchiuse gli occhi, stringendosi alla madre. La donna guardò il bambino con aria assente: da tempo non riconosceva più i figli più piccoli.

Carica d’insofferenza, Bridget decise di uscire. Se doveva andare all’inferno, tanto valeva iniziare subito a camminare.

David sollevò la testa. «Dove vai?» chiese con la vocina impastata dal sonno.

La sorella non rispose: si limitò a guardarlo per un istante, con la mano sulla tenda, il viso immerso nella penombra dorata di una torcia. Scosse la testa in silenzio.

Poi sparì.

Era ormai notte fonda. La casa immersa era nel silenzio; il crepitio delle fiamme era l’unica cosa che si udiva nella stanza buia. Le tende rosa carico erano tirate sulle finestre, le lenzuola ripiegate con le coperte.

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Tutti gli altri erano fuori.A caccia.In casa c’era solo lei, e Samuel.Joanne scostò dalla fronte i capelli sciolti e tornò a

fissare la fiamma nel camino. Aveva freddo, un freddo gelido che non voleva andarsene e che giungeva sino all’anima. Si sedette a terra davanti al fuoco, abbracciandosi le ginocchia, guardando le fiamme senza vederle. Subito la pelle del suo viso perfetto divenne calda, i piedi e le braccia acquistarono un tepore piacevole.

Eppure, continuava a sentire freddo.Un gelo che non sarebbe andato mai via, che

partiva dal cuore e che arrivava fino al cervello.Chiuse gli occhi. Il letto dietro di lei era pronto per

la notte, con lo scaldino tra le coperte. Poteva coricarsi, ma non sarebbe servito a nulla. Non avrebbe dormito.

Non poteva.Il freddo e l’amarezza non sarebbero andati via,

mai. Non aveva senso rinviare oltre. Chiuse gli occhi e affrontò il suo buio.

Tutto era scaturito da qualcosa che lei non aveva mai voluto. Era semplicemente… accaduto. Aveva spezzato la sua vita, regalandole un’esistenza diversa, aveva dovuto affrontare tutto ciò che era successo, dopo.

Aprì di nuovo gli occhi, tornando a fissare le fiamme. Quel movimento continuo, mai uguale a se stesso la tranquillizzava, togliendole un po’ dell’amarezza che l’avvelenava. Strinse più forte le braccia attorno alle gambe.

Diamine! Si rimproverò, aspra. L’unica cosa certa che possedeva era la sua esistenza. Ciò che aveva subito era terribile, ma erano ormai trascorsi molti, moltissimi anni, e non poteva far altro che conservare i frammenti della sua anima.

Custodire gelosamente il ricordo di colei che era stata.

E proprio perché era tale, il passato non poteva essere cambiato.

«I tuoi soliti fantasmi, Joanne?».La ragazza non si voltò nell’udire quella voce.

Sentì il tonfo leggero della porta che si chiudeva e passi

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che si avvicinavano. Sorrise mesta, stringendosi nelle spalle.

«Fantasmi… Già».Samuel scivolò accanto a lei con un movimento

fluido. Si sedette e lasciò che Joanne gli appoggiasse la testa sulla spalla.

«Non pensi mai al passato, Samuel? A quello che siamo stati costretti ad abbandonare?»

L’uomo non rispose subito. Sistemò un ceppo con l’attizzatoio, tenendo gli occhi fissi sulla fiamma.

«Cambierebbe qualcosa, Jo?».La donna sorrise: era il suo modo di chiamarla,

quando erano stati giovani e inesperti. «Probabilmente no. Né io né tu abbiamo avuto possibilità di scelta. Lui… ci ha preso e basta».

«Nessuno di noi… né Zach, o Ester, o Lizzie ha avuto la possibilità di rifiutare. Siamo stati cambiati, soffrendo per ciò che abbiamo perduto. Per lungo tempo l’ho odiato per ciò che mi aveva fatto… Poi ho capito che non poteva essere altrimenti, che l’unico modo per sopravvivere era rinunciare a me stesso… e che questo era il mio destino».

Joanne scosse la testa, incerta. Colui che aveva distrutto le loro vite era ormai polvere da un secolo, eppure non riusciva a dimenticare la rabbia, la paura e l’angoscia che aveva provato. Non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome o chiamarlo con il titolo che gli spettava: Padre. Quell’essere li aveva strappati alle loro vite, li aveva catapultati in un’esistenza fatta di buio che non conoscevano, cui avevano dovuto aggrapparsi per sopravvivere.

O la morte… o “quella” esistenza.Samuel, no. Da quando era divenuto il loro Padre,

aveva agito in maniera opposta. Sapeva qual era la cosa più importante che possiede un uomo: la libertà di scegliere il proprio destino.

«Tu hai chiesto a Will e John. E anche Oliver, a suo modo, ha scelto di seguirti. Non hai agito come… lui».

Samuel scosse la testa. «Hai detto bene: loro hanno scelto. Hanno cambiato la loro natura e, per questo, non hanno ripensamenti o dubbi».

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«Grazie a te».Lui sorrise, quasi una smorfia. «Sentivo che era

giusto».Si scambiarono uno sguardo fugace: un’occhiata

fatta di complicità, di ironia e amarezza, che non aveva nulla a che fare con il sesso o l’amicizia. Era affinità. Come guardarsi in uno specchio.

Joanne tornò ad appoggiare il capo sulla spalla di Samuel parlando con voce sommessa.

«A volte, mi piace essere ciò che sono: sento la forza del mio ruolo e ne sono fiera. So di cosa sono capace. Altre volte invece, non riesco a credere di essere diventata… questo. In certi momenti, mi sento stanca di dover affrontare una vita fatta di segreti e di buio. Vorrei tornare a essere solo Joanne Moore di Galashiel. Joanne… e basta».

Samuel chinò il capo, scrutandola per alcuni istanti. Sul viso, un’ombra di compatimento.

«Non è possibile. Non lo sarà mai più, per nessuno di noi» mormorò atono, lo sguardo perso nelle fiamme. «A noi è stato concesso più di quanto gli altri esseri umani possano immaginare. Siamo riusciti a resistere senza impazzire, senza lasciarci morire di dolore. Siamo sopravvissuti perché abbiamo la forza e la volontà per essere ciò che siamo».

E si voltò. I suoi occhi, all’improvviso, avevano una luce selvaggia, quasi compiaciuta.

«Caccia via i tuoi fantasmi, Joanne. Non permettere loro di schiacciarti o ti indeboliranno fino a distruggerti. Non voglio che accada: tu sei troppo importante per me e per tutti noi». Sorrise, sfiorandole il viso con il suo. «Sei la mia sorella prediletta: godi del potere che hai e vivi la tua condizione senza nostalgie inutili».

Joanne si raddrizzò, coprendosi il viso con le mani, come per lavare via i dubbi che la stavano corrodendo. Le parole di Samuel le entrarono nella testa lentamente, disperdendo rabbia e rimpianti. Lui aveva ragione: non poteva permettere al passato di interferire con il presente e con il futuro. Quello era ancora da scrivere e poteva essere cambiato.

«In questo momento è il mio capo a parlare o mio

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fratello?», chiese, con un’occhiata in tralice.«Tuo fratello», rispose lui, e si volse a fissarla. La

luce di compiacimento era stata sostituita nei suoi occhi da qualcos’altro: si erano fatti duri come zaffiri freddi e un’ombra di arroganza nuotava nel suo sguardo blu. Con uno scatto si alzò in piedi e le tese la mano.

«Vieni con me».«Adesso?» chiese lei, spalancando gli occhi per la

sorpresa, indicando la sua vestaglia.«Subito».Aprì la bocca per rifiutare ma non riuscì a farlo:

l’invito era troppo eccitante. Era notte fonda e non usciva a caccia da più di tre sere.

Un brivido le percorse la schiena, ben più gelido del freddo che aveva provato poco prima. Samuel le venne dietro: sciolse il nastro che teneva legata la veste da camera e la sfilò giù lungo le braccia nude, delicato come un amante. Le prese la mano, tirandola verso la finestra. «Passeremo dai tetti: non voglio rischiare una doccia puzzolente».

Joanne rise. Una risata liberatoria, vitale. «Ci prenderanno per fantasmi!».

Samuel aprì la finestra, guardandosi attorno. «Meglio, non credi? Edimburgo è piena di fantasmi!». Si affacciò su un piccolo cortile, lo stesso su cui si dava il suo studio privato. «E poi, siamo più simili ai fantasmi che agli umani» considerò con un’alzata di sopracciglia sarcastica. Scivolò fuori con un solo movimento e sparì.

Joanne spense la candela accanto al letto, poi corse alla finestra e scavalcò con le lunghe gambe agili il davanzale. L’angoscia si era dissolta come vapore, assumendo i contorni sfumati di un pensiero fastidioso. Samuel l’attendeva, aggrappato alle pietre sporgenti sulla parete.

Una scarica di energia simile a una frustata le corse sottopelle. Fu un brivido sconvolgente che le causò una vertigine: era lì, su un muro a numerosi piedi d’altezza, e stava sfidando qualunque legge della natura. Era viva mentre tutto ciò che apparteneva al suo passato era morto.

Cenere.«Allora? Dove mi porterai?» domandò a Samuel

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seguendolo su per il tetto. La camicia da notte si sollevò attorno alle gambe e il vento gelido, con una folata improvvisa, le scompigliò i capelli che mulinarono attorno al viso.

Samuel le indirizzò un sorriso malizioso, scintillante nel buio. «Voglio dare un’occhiata a una ragazzina».

«Avrei dovuto immaginarlo» commentò Joanne sarcastica.Samuel ridacchiò. «Sai che amo il sangue giovane».

E infine arrivarono sul tetto.Eccola lì Edimburgo, ai loro piedi. Tutto il Royal

Mile, dal castello a Holyrood, dai Salisbury crags fino alle nuove case al nord. Bellissima e sporca, sovraffollata fino all’eccesso, buia, puzzolente, eppure splendida. Regale.

I tetti di ardesia risplendevano come piombo lucido sotto le stelle. Alcune nuvole invadevano il cielo da nord con una promessa di pioggia per il mattino seguente. Le lanterne delle ronde notturne spezzavano l’oscurità, dondolando al ritmo dei passi; il vento che spazzava la strada, produceva un suono lamentoso, fischiando tra i vicoli. E poi ancora voci, suoni, vita che si mescolava sotto di loro, trasformavano in sussurri udibili a malapena.

«Non è splendida?», sussurrò Samuel a Joanne, con tono reverenziale, in equilibrio sul tetto, con l’orgoglio negli occhi.

Lei sapeva quanto amasse Edimburgo. La sua espressione compiaciuta le strappò un sorriso, mentre ricambiava la stretta. «Sì. Ed è tua».

Le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé. Il volto dell’uomo divenne serio di colpo. «Sì. Mia, e tua, e dei tuoi fratelli. E’ nostra».

Socchiuse gli occhi, guardando verso il basso, mentre il vento gli scostava i capelli dalla fronte.

Un intero mondo ai suoi piedi, fatto di vita, morte, miseria, fame, dolore, ricchezza, potere. Di segreti e sangue.

Era la sua città, quella, da quasi centosessanta anni. Il suo dominio.

Il loro territorio di caccia.

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«È nostra, Joanne», ripeté, duro. «È la mia casa… e non permetterò a nessuno di portarmela via».

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Al tramonto, Edimburgo era coperta d’oro e cenere: l’oro del sole agonizzante che si rifletteva sull’ardesia e la cenere della pietra, grigia di sporco e fumo.

Samuel lasciava che il vento gli scompigliasse i capelli, immobile dinanzi a una finestra dell’ultimo piano di Canongate. Lassù, il puzzo di fogna non era così forte; a folate, invece, giungeva l’odore della legna bruciata nei camini.

Dietro di lui, Lizzie Hates, seduta su una poltrona, ricamava un sampler. Erano nella sua stanza: piccola, con il soffitto basso, un letto a baldacchino, un comò. Le cortine del letto, la coperta, le tende erano in giallo, con piccole foglie e delicate rose ricamate.

«Sei preoccupato».Lentamente Samuel annuì.Di una bellezza lussureggiante, Elizabeth Hates

aveva fatto girare più di una testa a Edimburgo. Capelli rossi, bocca sontuosa, occhi nocciola, seno prosperoso. In molti avevano tentato di corteggiarla, anche in modo insistente ma tutti erano stati scoraggiati con fermezza. Un uomo ci aveva rimesso il collo. Letteralmente.

Lizzie parlò senza sollevare gli occhi dal ricamo. «Pensi ai roghi di Londra e York, vero?», continuò, fermando il punto sotto la trama. Prese dal cestino da lavoro un rocchetto blu e staccò con i denti il filo, sistemandolo nell’ago.

«Perché non ci nascondiamo?», chiese, placida.«Non è così semplice. Sparire tutti insieme sarebbe

una tacita ammissione di colpa: se alcuni di noi non sono sospettati, lo sarebbero immediatamente una volta svaniti.».

Samuel progettava da tempo di lasciare Edimburgo assieme a Joanne, ma questo riguardava solo loro due: erano in città da molti anni e prima o poi qualcuno avrebbe notato che non invecchiavano o che non uscivano alla luce del sole.

Vivere sotto gli occhi degli umani era tutt’altro che semplice.

Dovevano organizzare la fuga con cura, senza dare

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nell’occhio. Tuttavia, prima di compiere passi precipitosi, bisognava capire cosa sospettavano i loro cacciatori. Per questo motivo aveva invitato George Dyce: Joanne avrebbe scoperto cosa sapeva il buon dottore, un ex cacciatore divenuto osservatore.

Samuel ringhiò.I Fratelli della Luce, custodi dell’umanità.I puri, gli illuminati.Si nascondevano al buio come vermi, pronti a

colpire a tradimento, eppure si proclamavano tutori dell’ordine naturale delle cose. Tutto ciò che gli uomini riuscivano a capire e catalogare era considerato normale. Ciò che non lo era, che sfuggiva alla loro comprensione o semplicemente era diverso, era ingiusto e mostruoso.

Quel pensiero fece fremere Samuel di rabbia.Ordine naturale delle cose?Non esisteva un ordine naturale, non esisteva alcun

ordine. Punto.Era una sicurezza che Samuel e quelli come lui

avevano raggiunto e superato ormai da secoli: non esisteva alcuna certezza, nessuna fede incrollabile.

Niente è per sempre.L’infinito era la menzogna cui gli uomini si

aggrappavano per non impazzire, pur senza riuscire a sopportarne il vero significato. Se gli esseri umani avessero mai capito che non esisteva alcuna sicurezza, che tutto ciò che li circondava era un’illusione, sarebbero crollati a terra schiantati dal nulla che riempiva le loro vite. Samuel, invece, conosceva bene l’infinito.

E sapeva che in esso non vi era alcuna speranza.Lizzie si alzò venendogli accanto e gli sfiorò la

spalla. «Qualunque cosa accadrà, la affronteremo» sussurrò con dolcezza.

«No. Io dovrò affrontarla, Lizzie: tutti voi siete sotto la mia responsabilità. Ho chiesto a Will di andare a Inverness per trovare una sistemazione per te, Ester e John. Io con Joanne e Oliver andremo nelle Trossachs».

Lizzie corrugò la fronte. «Perché separarci? Non capisco…».

«Stiamo organizzando un piano di fuga, ma molto dipende da ciò che scopriremo nei prossimi giorni. Will vi precederà; tu ed Ester non potete partire da sole, quindi

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viaggerete con John. Ufficialmente, vi recherete nella vostra casa ad Aberdeen».

«E tu?» Lizzie balbettò. «Joanne? Oliver?».«Noi partiremo dopo un mese. Oliver non può

sparire: sarà il nostro osservatore e continuerà a lavorare in città».

«Zach?».«Rimarrà in città a far ciò che sa fare meglio: la

spia». Samuel la fissò in tralice. «Lui sarà l’ombra del dottor Dyce».

«Ester sa di questi nuovi piani?».«Non ancora. Gliene parlerà Joanne, stasera.

Uscirete a caccia?».Un lampo di luce fredda brillò negli occhi nocciola

della ragazza, rendendoli simili a quelli di una volpe che puntava una preda. «Sì. Vuoi unirti a noi?».

Samuel sorrise lentamente. Lasciò scorrere lo sguardo sui tetti, per soffermarsi su un punto preciso, un mucchio di tetti di legno fatiscenti, a poca distanza dal Castello. Anche i suoi occhi avevano acquistato uno spaventoso, freddo scintillio.

«No. Non stasera», mormorò roco, sfiorandosi le labbra con i denti.

Lizzie gli lanciò uno sguardo e rise forte.

Bridget tornò a casa mentre una notte umida calava sulla città. Alle sue spalle, soffocato dalle nuvole, il sole stava morendo. Lanciò un’occhiata rabbiosa verso il cielo, poi scese sottoterra alla luce delle torce.

Iniziò a sentire le grida dei suoi fratelli già a distanza di alcuni metri.

«Sei tu che me lo hai preso! Ridammelo!». Sembrava Dick, un fratellastro in realtà: solo lei e Joseph avevano avuto lo stesso padre. Gli altri marmocchi che sua madre aveva sfornato erano figli di uomini diversi. Entrò nella stanza in tempo per vedere due ragazzini che si picchiavano; in un angolo sua madre gemeva chiamando Joseph.

Bridget afferrò i due per i capelli. Erano Dick e Charlie.

«Se volete scannarvi andate fuori, maledizione!»

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gridò, dopo averli separati a forza.«Mi ha rubato il coltello! Quello di Joseph, con il

manico di legno». Dick si avventò contro il fratello minore, cercando di colpirlo con un calcio.

Bridget che si era messa nel mezzo, si prese il colpo sulla gamba. «Ehi! Sta’ fermo, accidenti!».Si voltò verso Charlie. «Lo hai preso tu?».

«Sì! E allora?». Il ragazzino aveva una faccia insolente che ricordò a Bridget l’uomo che l’aveva messo al mondo, un carrettiere senza arte né parte, sparito dopo aver scoperto che aveva un’altra bocca da sfamare.

«Ridaglielo!», ordinò scrollandolo. Per tutta risposta, Charlie la spinse via.

«Chi ti credi di essere per darmi ordini, puttanella?».

Bridget sbarrò gli occhi e un fiotto di rabbia le salì in gola. Senza pensarci, mollò un manrovescio al ragazzino, tanto forte da farlo cadere indietro. Con un rumore simile a uno squittio, il coltello scivolò fuori dalla sua tasca.

Dick fu lesto a prenderlo. Ebbe un sorriso di trionfo più simile a un ghigno, poi scappò.

Charlie rimase a terra, la mano immobile sulla mascella, gli occhi stretti, carichi di lacrime di umiliazione. «È quello che sei! Una battona da pochi penny», biascicò con disprezzo, rimettendosi in piedi.

Bridget non rispose. Arretrò e lasciò che anche lui scappasse via. Cadde in ginocchio ma non pianse. Non piangeva mai, lei.

Charlie aveva ragione: era una puttana. Anche oggi aveva mangiato perché era tornata dal solito cuoco che stavolta, non si era limitato a mettergli le mani addosso: l’aveva portata nel magazzino sul retro e le aveva alzato le sottane. Il tutto era finito in dieci minuti scarsi.

Chiuse gli occhi: voleva scappare via, dimenticare il suo nome, la sua vita.

Nell’angolo, sua madre intonò una strana ninna nanna. Poco lontano, David la scrutò con aria perplessa, indeciso se parlarle o meno. Bridget allungò la mano per fargli una carezza ma lui arretrò, spaventato. La ragazza distolse lo sguardo con una scrollata di spalle. Da una tasca della veste tirò fuori due pezzi di pane e una mela, il

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ricavato del suo lavoro. Quanto a lei, aveva spuntato un piatto di pasticcio.

«La vuoi?», chiese porgendogli il frutto. David annuì: l’afferrò e la morse.

«Tu dove mangi, Brid?», chiese, a bocca piena.La ragazza abbozzò un sorriso amaro e gli lisciò i

capelli scuri. «Fuori. Tu mangia in fretta, su».Bridget…Una sottile corrente d’aria fredda le sfiorò la nuca,

uno spiffero gelido, dolce come una carezza. Bridget si voltò di scatto, guardandosi attorno. Ebbe la sensazione che qualcuno la chiamasse…

Nessuno.Diede un pezzo di pane a sua madre, che teneva

stretta una bambola di pezza. Chissà dove aveva raccattato quel pupazzo: erano giorni ormai che non metteva il naso fuori dal tugurio.

Bridget.Un istante dopo, di nuovo quello spiffero. Freddo,

gentile, quasi il tocco di due dita che le sfioravano la nuca; la faceva fremere di meraviglia dalle caviglie fino alla testa. Subito dopo, Bridget sentì le proprie mani tremare.

Vieni da me.Una smania pressante e inspiegabile, iniziò a

risalirle dal ventre fino al petto, alla gola, alle labbra. Le braccia e le gambe divennero pesanti, si sentì soffocare. Non poteva restare lì un minuto di più.

Vieni, Bridget…«Devo andare» balbettò rimettendosi in piedi sotto

gli occhi stupiti del fratellino.David la fissò da sotto in su con la bocca piena di

pane, senza capire che stava succedendo.Bridget si mise in piedi, gli occhi fissi a terra, le

mani impazienti. Raccolse lo scialle e uscì quasi correndo. Non poteva fare altrimenti.

Qualcuno la stava chiamando.

Fuori. Era andata fuori, aveva dovuto farlo.Edimburgo, adesso, era fatta di buio. Il mondo che

conosceva, composto di vicoli e di mura di pietra, era

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abbracciato da una sottile bruma perlacea. La città aveva perso di colpo i colori che il sole morente le aveva regalato: la notte li aveva rapinati, sostituendoli con un opaco, denso velo che copriva ogni cosa.

Respirando piano, Bridget guardò a destra e a sinistra. Sentì una frenesia oscura di allontanarsi da tutto e tutti, un’agitazione che la stava possedendo. Non poté far altro che obbedire, quasi senza rendersene conto. Il bisogno di correre galleggiava nei suoi pensieri, inspiegabile, e la costringeva ad andare avanti, la guidava tra i vicoli e le strette scalinate, fino alle pendici del Castello.

Come se una voce misteriosa e sconosciuta nella mente la guidasse.

Poi si arrestò di colpo, ansimando. La voce che l’aveva condotta sin lì era sparita dalla mente, lasciandola vuota.

Dove diavolo era finita?Si guardò attorno a occhi sgranati: stranamente,

non sapeva riconoscere il vicolo dov’era finita. I contorni degli edifici erano sfumati, spruzzati di nebbia. Vedeva a destra una luce, e poco più in basso, le rocce della parete est del Castello… ma non era mai stata lì.

Impossibile, si disse scuotendo la testa, stringendo i lembi dello scialle sul petto: conosceva ogni anfratto della città.

Sentì il panico invaderle la mente e toglierle lucidità. L’umidità densa le penetrò nelle ossa, facendola rabbrividire e non solo per il freddo. Si guardò attorno, cercando dei punti di riferimento ma non riuscì a trovarne.

Era Edimburgo, ma non la riconosceva. Incerta, arretrò di alcuni passi, fino a che non trovò alle sue spalle la fredda, scivolosa pietra di un muro. Il cuore iniziò a pulsarle forte, di angoscia e paura: lo sentì sbattere contro le costole, imprigionato nel petto.

Con l’istinto di chi vive per strada, Bridget percepì un pericolo, qualcosa di sconosciuto e spaventoso. Il panico aumentò: non sapeva come fuggire. Perché doveva fuggire, questo era certo, lo sentiva.

Un rumore di tacchi sul selciato.Istintivamente, Bridget arretrò, nascondendosi

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nell’ombra di un vicolo. Se avesse potuto, avrebbe cercato di sparire nella pietra: aveva paura, una paura stramaledetta.

Infine, scorse un’ombra muoversi nel buio, in fondo al vicolo. Un uomo con un soprabito scuro, senza cappello. Camminava con calma. E si dirigeva verso di lei.

Giunto a pochi passi dal punto in cui Bridget si era nascosta, le si fermò davanti, la guardò negli occhi. La ragazza si sentì intrappolata da quello sguardo, quasi inchiodata al muro: non riusciva più a pensare, poteva solo respirare a fatica.

«Sei stata svelta. Brava».L’accento era privo di inflessioni, l’andatura

elegante. Doveva essere un ricco, uno sfaccendato. Ma che ci faceva lì, a quell’ora? Come aveva potuto vederla nel buio? E soprattutto, cosa voleva dire con sei stata svelta?

Bridget rimase in silenzio, con gli occhi allacciati a quelli dell’uomo. Quel tizio aveva occhi strani… non sapeva come definirli: scintillavano nell’oscurità, come quelli dei gatti. Era l’unica cosa che riusciva a percepire del suo viso, celato dal buio.

«Hai paura, piccola Bridget?».La ragazza annaspò verso la parete in cerca di un

appiglio, una via di fuga. «Come sapete il mio nome? Che volete?».

Sentì un terrore improvviso risalire dalla schiena, fino a mozzarle il respiro. Arretrò ancora verso il fondo del vicolo e il sudore si mescolò con l’umidità della notte. Il freddo era dentro e fuori di lei.

L’uomo la seguì, tenendosi a distanza. Era alto, forte. Le faceva una fottutissima paura.

Bridget indietreggiò ancora, pensando come scappare. Scattò di lato, verso l’ingresso del vicolo. Subito, un braccio freddo e solido la bloccò e si trovò schiacciata contro la parete, sbattendo la testa sul muro.

Subito dopo, una mano le coprì la bocca. Presa dal panico, la ragazza cercò di morderla. Era cresciuta per strada, non era la prima volta che qualcuno cercasse di aggredirla e non sarebbe stata neanche l’ultima. Scalciò, si dibatté, lottò con pugni, poi raccolse le sue forze e

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sferrò una ginocchiata verso l’inguine dell’assalitore. Lo colpì con la forza della disperazione, pronta a respingerlo e a scappare via non appena si fosse piegato in due dal dolore.

Non accadde nulla del genere.Si udì soltanto una risatina soffocata, poi la presa

sul suo corpo divenne ferrea. Terrorizzata, Bridget si afflosciò a occhi sbarrati, sconvolta: non gli aveva fatto nulla. Eppure, l’aveva colpito forte! Lui, invece, rideva. Quel bastardo schifoso stava ridacchiando.

La voce dell’uomo fu un mormorio divertito. «Brava, piccola Bridget. Mi piacciono le ragazze che sanno difendersi».

La ragazza avvertì un soffio freddo che le sfiorò l’orecchio. Tentò di divincolarsi di nuovo, alzò un braccio per graffiargli la faccia e costringerlo a mollare la presa, ma lui la tenne stretta tra la parete e il proprio corpo. L’avvolse tra le sue braccia, impedendole qualsiasi fuga.

Era in trappola.Bridget capì di aver ceduto quando sentì un sapore

salmastro sulle proprie labbra: lacrime che rotolavano giù dal viso. Chiuse gli occhi, incapace di fermare i singhiozzi. In quell’istante, il suo corpo smise di obbedirle e si abbandonò contro parete, appoggiandosi quasi all’uomo.

Che facesse pure quello che voleva: era stanca, non ce la faceva più a lottare. Sarebbe stato solo un altro episodio schifoso della sua altrettanto miserabile vita, un’ennesima violenza. Doveva rassegnarsi e sperare che si sbrigasse presto, senza farle troppo male.

L’uomo non allentò la presa; Bridget alzò la testa e lo fissò attraverso il buio: era a pochi pollici, eppure non riusciva a vederlo in viso. Anche lui la stava guardando: con interesse, quasi con curiosità.

«Povera piccola Bridget…».Stava parlando con lei. Con la mano libera, le

sfiorò il viso, dagli zigomi fino al mento, poi scostò via i capelli ricci dal collo.

«Ti hanno tolto tutto. I tuoi sogni, i desideri, persino la speranza… Tua madre è pazza, la tua famiglia distrutta… tuo fratello è morto e tu… tu devi venderti per mangiare. O forse, non hai mai avuto qualcosa che

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potessero strapparti. È così, non è vero? Tu non hai perso nulla perché non hai mai avuto niente, neanche te stessa. Sei solo una povera disperata».

Come faceva a sapere così tante cose di lei? Bridget sussultò, sconvolta. Non c’era scherno in quelle parole: solo pura, cruda commiserazione.

Eppure, aveva una voce… bella. Calda, carezzevole. Nessuno le aveva mai parlato con tanta dolcezza, causandole una sofferenza bruciante. Il dolore che sentiva dentro le corrodeva l’anima come acido, ma non poteva, non riusciva a essere infuriata. Nessuno le aveva mai sfiorato il viso a quel modo: con riverenza, come se fosse stata preziosa. Cercò di nuovo il volto dell’uomo, ma non riuscì a trovarlo nel buio. Scorse soltanto gli occhi, luminosi e freddi come pietre preziose.

Intuì che l’uomo stava sorridendo. «Chi sei?» balbettò, pur sapendo che non avrebbe avuto risposta.

«Ti importa davvero? No… Ormai non hai più nulla da perdere. Piccola ragazzina senza speranza… La tua è una vita inutile».

Era vero.Bridget chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un

singhiozzo: era tutto maledettamente vero. Lei era solo una spina nell’infinito roveto del mondo, non una rosa. Non si era mai fermata a pensare tanto in tutta la vita come in quegli istanti, in quella notte: non aveva mai avuto coscienza di sé, della propria inutilità e del dolore che aveva dentro.

La solitudine l’assalì alle spalle, così come aveva fatto poco prima la paura. E fu mille volte più devastante.

«Cosa vuoi da me?», riuscì a balbettare. Una strana sensazione le dilagava nell’animo, invadendola a grandi onde: una calma innaturale, che sommergeva ogni pensiero cosciente, guidandola per mano nel buio. Lontana da se stessa e dal mondo, lontano da tutto.

«Tu vuoi smettere di soffrire. Lasciati andare Bridget, lascia andar via il dolore. Permetti che io ti dia la pace».

Sì… la pace.Il nulla, il buio, il vuoto, lontano dal dolore. Non

aveva voglia di pensare: pensare faceva troppo male e lei non voleva più soffrire. Cullata da quella voce, sentì il

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corpo farsi morbido, cedevole. Sì, cullata, come se fosse stata di nuovo una bambina molto piccola, senza pensieri, senza preoccupazioni se non quella di trovare il seno di sua madre.

Sentì il terrore scivolare via, l’angoscia sciogliersi.La presa dell’uomo si trasformò in una stretta più

simile a un abbraccio. Era avvolgente e, insieme, cauta. Per la prima volta nella sua vita, la ragazza si sentì al sicuro: chiuse gli occhi, lasciandosi andare contro il petto dell’uomo e due braccia forti si richiusero su di lei, in una vertigine oscura.

Cadde in una spirale di buio e silenzio. Si sentiva leggera, vuota. Il suo pensiero cosciente era trascinato alla deriva dalla corrente dell’oblio, come una barca senza ancora verso un banco di nebbia sospeso sul lago della coscienza. Un frammento della sua mente urlò: doveva reagire, tutto ciò era assurdo.... Bridget, con un sussulto di volontà, respinse quella voce: stava bene. Non sapeva quanto sarebbe durato quello stato di grazia e voleva approfittarne.

Era così bello sentirsi svuotata da ogni angoscia, dall’astio, dalla rabbia. Solo il silenzio.

Non percepì il puzzo di quel vicolo fetido. Non avvertì il freddo sempre più forte che le impregnava la pelle, non sentì le dita dell’uomo abbassarle il colletto della camiciola, sfiorandole il collo con labbra gelide, né il suo scialle che finiva a terra.

Non percepì il suo corpo farsi debole, o il battito del suo cuore sincopato. Il dolore alla gola che diventava bruciante.

Non vide quei due occhi vispi, spaventati che la sbirciavano dal fondo del vicolo.

Sentì la pace, il silenzio, il corpo che perdeva consistenza fino a sparire. Si sentì pulita, per la prima volta nella sua vita.

Per la prima e ultima volta in tutta la vita.

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Dopo aver ricevuto le lettere da Londra, Newcastle e York, George Dyce intuì di aver commesso un’imprudenza che poteva costargli cara: i sospetti che nutriva erano gravi, gli indizi numerosi. Tanti piccoli frammenti, notizie che la rete dei Fratelli della Luce gli aveva trasmesso e che lui aveva messo insieme fino ad abbozzare un puzzle in cui ancora mancavano molti pezzi.

Così, in un momento di follia, aveva pensato di andare alla ricerca degli elementi mancanti: doveva avvicinare i Griffin, entrare nella loro casa… ma se la sua teoria era fondata, rischiava di non uscire vivo dal numero 15 di Canongate.

Squadrò con sospetto il massiccio portone nascosto dall'ombra di un arco di pietra che apparteneva a un edificio anonimo, simile a quelli che lo circondavano. Alle sue spalle, la città vibrava, carica di vita e di energia; scoccò un’occhiata invidiosa ai passanti che correvano, inseguiti da scrosci di pioggia. Afferrò il battente, incerto: la tentazione di fuggire era invitante. Poi strinse le dita attorno al cerchio d’ottone e lo lasciò ricadere con un tonfo sonoro.

La governante, una donna di mezza età, aprì la porta e lo introdusse in una sala da pranzo arredata con un gusto sobrio. La cura dei dettagli dava una sensazione di benessere ed eleganza: pareti decorate a piccoli gigli di Francia bianchi su fondo azzurro, mobili di legno antichi, arazzi fiamminghi alle pareti, tende di velluto blu scuro. I Griffin erano benestanti, non c’era nulla da dire.

Ma erano solo questo?Lo avrebbe scoperto da lì a pochi minuti: Samuel

Griffin con la moglie e un’altra giovane donna lo attendevano in piedi, vicino al camino.

Dyce deglutì.

Alle undici, Margaret, la governante di casa Griffin, annunciò il dottor Dyce. Samuel ebbe un cenno di assenso, poi si rivolse a Joanne ed Ester che attendevano con lui nella sala da pranzo.

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«Deve restare vivo. Mi raccomando: non dovete lasciare alcuna traccia».

Ester sollevò i suoi immensi occhi castani su di lui. «Come ordini». Un sorriso sensuale, ferino, apparve sul suo volto così soave e lo distorse completamente. Joanne annuì rapida e fece un cenno con la mano.

«Sssh! E’ qui!».Un istante dopo, la porta si aprì e George Dyce

entrò nella stanza. Aveva le scarpe umide e il bavero della giacca spruzzato di pioggia, gli occhiali bagnati. Pioveva.

«Benvenuto nella nostra casa, dottor Dyce».L’uomo accennò un sorriso di circostanza.

Sembrava in imbarazzo, persino a disagio.«Conoscete già la cugina di mia moglie, Ester

Hates?» chiese Samuel, indicandogli una sedia.Il medico lanciò uno sguardo fugace alla ragazza

che ricambiò con un cenno del capo. Un’occhiata troppo fugace, quasi allarmata. «Solo di vista. È un piacere conoscerla, Miss Hates».

Joanne cercò gli occhi di Samuel, li trovò, e per un istante rimasero legati; poi distolsero lo sguardo all’unisono.

Dyce continuò a sorridere, impacciato. Parlò delle novità politiche e del tempo: l’autunno era arrivato all’improvviso e la temperatura si era abbassata in maniera repentina, causando un gran numero di malanni.

Samuel Griffin lanciò un lungo sguardo alla moglie: in esso si mescolarono apprensione e disagio, come un vero marito innamorato.

«Bene. Credo… sia venuto il momento di lasciarvi soli. Io attenderò qui».

Dyce tolse gli occhiali per massaggiarsi le palpebre. «Giusto. Se vostra moglie volesse accomodarsi nella sua camera…»

Joanne ne approfittò e sollevò lo sguardo verso Samuel. «Potreste accompagnarmi voi, mio caro?» chiese, con voce esitante. Lui annuì, precedendo il medico lungo il corridoio.

«Sospetta qualcosa, ne sono certa» mormorò Joanne, seguita da Ester. «Ci sta osservando con troppa attenzione» continuò quando Samuel si chinò a sfiorarle la mano con un bacio e annuì con gli occhi.

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Giunti nella stanza da letto, le due donne si sedettero sulla sponda del letto tenendosi per mano, come se Joanne cercasse conforto nella stretta della cugina. Dyce le pose quesiti che esigevano una risposta immediata. La interrogò rapidamente, incalzandola, come se si aspettasse di coglierla in fallo.

D’istinto, Joanne si concentrò sulla voce dell’uomo, senza far troppo caso alle parole. Suoni, vibrazioni, sfumature, tutto ciò che potesse rivelare incertezza o nervosismo.

La sua voce era piena di tensione.«Mangiate di buon appetito?». Molta tensione.

Anomala.«Sì. Faccio una vita tranquilla».«Il vostro ciclo è regolare? Quando è stato

l’ultimo?». Curiosità. Tanta.«Sì, è molto preciso. L’ultimo è stato tre settimane

fa».L’uomo sospirò. «Adesso dovrò chiedere qualcosa

di molto riservato».Joanne capì. Si stampò sul viso un’aria contrita e

imbarazzata, mentre Ester usciva dalla stanza.Dyce si mise davanti a lei, gambe piantate a terra e

mani chiuse, quasi in preghiera. «Perdonerete la mia intrusione nella vostra intimità ma credo possiate capire che queste informazioni sono indispensabili per comprendere le cause della vostra sterilità. Vostro marito… ha difficoltà di alcun genere nell’atto coniugale? Riesce a portarlo a termine?».

Joanne abbassò gli occhi sulle mani che teneva incrociate sul grembo, meditabonda: per un istante si chiese come potesse essere Samuel come amante. Dovette costringersi a soffocare un risolino nervoso.

«Nessuna difficoltà». L’idea di un altro corpo si affacciò alla sua mente. Un altro viso, un uomo che amava. La scacciò, irritata con se stessa e si costrinse a rimanere concentrata.

«Ogni quante volte vostro marito vi chiede di compiere il vostro dovere di sposa?».

Quante volte cosa? Facevano sesso? Che razza di domanda era quella?

Sperò che nessuno di loro stesse origliando o

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l’avrebbero presa in giro per giorni. Strinse le labbra per non ridere. «Circa due volte la settimana».

«E vostro marito emette seme durante l’atto?».Questa poi! I maschi della sua specie non

emettevano seme.«Sì».«Adesso signora Griffin, devo chiedervi di

stendervi a letto e di lasciarvi visitare. Prima vi ausculterò il petto e verificherò la vostra complessione, per capire se il vostro fisico sia adatto o meno a sostenere una gravidanza, poi procederò a una visita personale».

Joanne alzò la testa guardandolo fisso negli occhi. Non permettergli di toccarla e sentire che era fredda, molto più fredda di qualunque essere umano. Che non c’era alcun suono in lei. Che il suo cuore non batteva più.

Che il suo era un corpo morto.

Dyce era nervoso. Si sentiva soffocare, aveva la nausea, il corpo era scosso da brividi freddi quasi come il giorno in cui aveva eseguito la sua prima dissezione in un’aula gremita di studenti e professori. Lì, però c’era solo una giovane signora timida che non riusciva ad avere un figlio.

O no?Quella donna, adesso, lo stava guardando

intensamente negli occhi, in silenzio.Perché mi sta fissando così?D’improvviso, quello che era un sospetto, divenne

certezza.Erano lì. Era lei.Erano “loro”.La mente di George Dyce si aprì, squarciata da una

lama di consapevolezza: Griffin, sua moglie, forse sua cugina… e chi altro?

Quanti altri?Il cuore iniziò a battere violentemente contro lo

sterno, mozzandogli il respiro. Percepì la tensione innalzarsi dentro di lui, le mani gli tremavano e un rivolo di sudore gli scivolò lungo la fronte. Cercò di sottrarsi allo sguardo della donna, affaccendandosi a cercare gli strumenti nella borsa.

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Dio mio, aveva ragione, allora! Erano anche a Edimburgo! Erano in tre o quattro, almeno… e chissà da quanto tempo!

Ebbe un capogiro. Si appoggiò con la mano alla spalliera della sedia, poi si voltò, abbozzando un sorriso storto, più simile a una smorfia sghemba.

Sobbalzò: Joanne Griffin era a pochi passi da lui e lo stava fissando, placida, bellissima e inquietante.

«State male, dottore? Siete impallidito».«Non è nulla» mormorò, allontanandosi di alcuni

passi, a disagio.La donna lo seguì con un sorriso appena accennato

sulle labbra rosse socchiuse. Gli poggiò una mano sul braccio, premurosa. «Sembrate accaldato. Sedetevi, vi farò portare un bicchiere d’acqua».

Dyce scosse la testa, respingendola con una mano. «No. Non vi avvicinate». Cercò di bloccarla, mentre una paura strisciante saliva dal petto a stringergli la gola.

Ma Joanne avanzò di un altro passo tendendogli la mano: i suoi occhi erano fissi in quelli del medico. Dyce sentì il panico dilagargli nella mente, intuì che stava per perdere il controllo.

Di che colore erano i suoi occhi? Azzurri. No…Non riusciva a capirlo. Fu sopraffatto da una

sensazione di stupore ovattato che soppiantò l’orrore; subito dopo, sentì il corpo cedere di schianto. Scivolò a terra senza un lamento, mentre la coscienza di sé veniva annullata da quello sguardo intenso, profondo, sconvolgente.

Nella sua mente, una nebbia nera e vischiosa ricoprì ogni pensiero, paralizzando le sue reazioni: gli mancò l’aria, non riusciva più a respirare.

Vide Joanne chinarsi su di lui. Un istante dopo, anche quel viso divenne nebbia.

Sentì qualcosa entrare nella sua mente, simile a una mano fredda che gli rovistava dentro il cranio.

L’ultimo pensiero cosciente fu il colore degli occhi di quella donna.

Azzurri. Gli occhi di Joanne Griffin erano azzurri.«Samuel!»Joanne non ebbe bisogno di gridare di nuovo:

Samuel ed Ester erano nel corridoio davanti a lei ed

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entrarono di corsa. L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso nel vedere Dyce a terra in una strana posa scomposta, con gli occhi rovesciati e la bocca aperta.

Joanne percorse la stanza a passi veloci, la mano poggiata sulle labbra con un gesto nervoso «Sa di noi!».

«Ne sei certa?». Samuel la raggiunse e le mise le mani sulle spalle bloccandola.

«Aveva paura. Appena ha intuito chi ero, si è spaventato a morte. Dopo averlo condizionato, non ho nemmeno dovuto scavare a fondo nella sua mente».

«Lo hai privato della coscienza», considerò Ester, chinandosi sull’uomo. Tastò con delicatezza la gola del medico e controllò gli occhi. «Si riprenderà tra un po’. Per allora, faremmo bene a trovare una storia convincente».

«Ha accettato di venire perché aveva già dei sospetti?» chiese Samuel, fissando con una smorfia carica di disprezzo il medico riverso a terra. Era patetico in maniera imbarazzante.

«Purtroppo, sì».Samuel scosse la testa, il viso angelico segnato da

una ruga di preoccupazione. «Sì, Fratelli della Luce sapevano che gli attacchi a Londra e York avrebbero messo in allarme le altre comunità. Hanno attivato gli osservatori in tutta la nazione, sperando in un passo falso, così come noi abbiamo tentato di anticipare le loro mosse.... E dannazione, ci hanno trovato!» esclamò con rabbia.

Si avvicinò alla finestra. Fuori, il cielo era coperto da nubi scure, gravide di pioggia.

Ancora pochi giorni e sarebbero stati braccati.Samuel si voltò di scatto, avvicinandosi al medico.

«C’è solo una cosa da fare: interverrò sulla memoria di Dyce, cancellerò via i sospetti e guadagneremo il tempo necessario per organizzare la nostra scomparsa».

Joanne lo guardò in tralice per un istante, poi annuì. «È meglio che ci pensi io: i suoi ricordi dovranno essere realistici. Dubito che tu sappia come si svolge una visita medica su una donna».

Samuel assentì con un sorriso abbozzato, poi si avvicinò, baciandola sulla fronte. «Sei stata eccezionale. In poche avrebbero avuto la freddezza di condizionare un

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uomo senza poi saltargli alla gola».Joanne si strinse nelle spalle. « Non è stato

difficile. È solo un umano, stolto e pieno di sé. ».«Cancella tutto ciò che riguarda i suoi sospetti.

Non deve ricordare nulla».Joanne annuì senza parlare. Poi, rimasta sola,

sollevò gli occhi verso il soffitto e scosse la testa con un sospiro pesante.

Era molto, molto peggio di quanto avesse immaginato.

George Dyce si trovò seduto al tavolino da toilette della camera da letto della signora Griffin. Davanti a lui, carta e un calamaio. Teneva in mano una penna.

Perché? Cosa doveva fare?Sentì la testa confusa, come se dentro vi si fosse

rifugiato un intero sciame d’api. Dietro di sé, Joanne Griffin stava terminando di rassettarsi. Le lanciò un sorriso imbarazzato attraverso lo specchio e tornò a concentrarsi sul foglio, guardando la penna.

Era disorientato.La visita… sì. Ecco di cosa doveva scrivere!La donna non presentava alcun problema: battito

regolare, respirazione libera, il fisico sottile ma forte abbastanza da poter sopportare una gravidanza. Anche l’apparato riproduttore era sano, prima facie. Se non concepiva, il problema doveva essere nel suo ventre: forse il sangue non era abbastanza forte o forse era sterile ab origine. O ancora, era il marito a esserlo.

Le sue riflessioni furono interrotte da un tocco discreto.

«Avete terminato?». Ester Hates si affacciò dalla porta. Un ricciolo di capelli castani scivolò sul viso, accarezzandole le labbra.

«Sì».La ragazza, quasi fluttuando, entrò nella stanza e si

avvicinò alla cugina, prendendole la mano.Era possibile che fossero…? No, si disse il medico.

Scosse la testa, continuando a scrivere: in quella donna non vi era nulla che non andasse, nulla che potesse far pensare a lei come a un…

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Ester si avvicinò al medico senza far rumore. Sorrise, timida, a occhi bassi; poi, alzò di colpo lo sguardo: profondo, intenso, tanto da causargli un capogiro. All’uomo mancò il fiato sembrò quasi di annegare in quegli occhi così simili a gemme di venturina

«Il signor Griffin la aspetta in sala da pranzo. Posso accompagnarla io mentre mia cugina termina di rivestirsi?» proseguì, in tono flautato.

Certo. Poteva accompagnarlo in capo al mondo se voleva.

Rimasta sola, Joanne si lasciò cadere su letto. Confondere i ricordi di quell’uomo era stato semplice: era intelligente ma non aveva una mente complessa. Sovrapporre idee e immagini per manipolarne la memoria era stato semplice.

Più doloroso era stato ricreare le sensazioni, i suoni, il calore di un corpo umano e vivo. Aveva dovuto ricordarli lei per prima. Farlo, però, le aveva causato un rimpianto amaro che le mordeva il petto.

Il contatto di mani calde sul corpo, in punti intimi, il tepore del respiro soffiato fuori dalle labbra, il suono del suo cuore, cupo, profondo e regolare, fino a che aveva funzionato… Ricordare la sensazione della vita che scorreva nelle vene era stato penoso.

Si sentì malinconica, vuota.Sola.

Il sole era riuscito a sconfiggere l’assedio delle nuvole e adesso illuminava i mobili lucidi della sala da pranzo di Canongate; la finestra era chiusa e i rumori del traffico giungevano attutiti.

Un angolo della stanza era immerso nell’oscurità creata dalla tenda che schermava la finestra. Quasi celato da quell’ombra, Samuel sollevò lo sguardo su George Dyce seduto al lato opposto del tavolo, in piena luce.

«Dunque mia moglie non ha problemi, almeno all’apparenza».

«Già… Ritengo probabile che la vostra signora possa avere un ostacolo nelle profondità del ventre, qualcosa che le impedisca persino di iniziare una gravidanza. Sarebbe utile una visita approfondita di una

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donna, una levatrice».Il medico si mosse a disagio sulla sedia, poi chinò

gli occhi sul bicchiere pieno di liquore che teneva tra le dita. Appena giunto nella stanza, Griffin gli aveva offerto un bicchiere di Porto che ora scintillava davanti a lui, producendo riflessi simili a rubini liquidi. Non c‘era nulla da dire, era un vino squisito. Allora, come mai non ne stava bevendo neanche una goccia?

Di nuovo, un sospetto incerto, nebuloso, si affacciò alla sua mente. Se aveva ragione, si trovava dinanzi a… qualcuno molto forte. Molto potente.

Dyce sollevò gli occhi. «Vostra moglie avrebbe bisogno di sole e di vita all’aria aperta per rafforzare un po’ il fisico» aggiunse, prendendo tra le dita lo stelo del bicchiere.

«L’ho trovata pallida».«Joanne ha avuto sempre un colorito alabastrino. È

una delle cose che apprezzo di più in lei». Sulle labbra di Samuel aleggiò un sorriso leggero che non arrivò agli occhi. Era rilassato, il braccio appoggiato al tavolo, la mano che sorreggeva il viso.

«Il Porto è di vostro gradimento?»Il medico avvertì una strana sensazione nell’aria,

simile a quella che avvertiva all’approssimarsi di una tempesta. Sorrise, impacciato, ma la risata suonò innaturale alle sue stesse orecchie.

«Sì, è ottimo. E voi, non bevete? ».«Le notizie che mi avete appena dato non

giustificano certo un brindisi, ma vi terrò compagnia per dovere di ospitalità».

E Griffin bevve. Un sorso, uno soltanto, accompagnato da un sorriso pigro.

«Se lo gradite, potrei inviarvene due bottiglie» disse poi in tono formale.

«Oh, vi prego… non disturbatevi», esclamò Dyce, in imbarazzo.

«Nessun disturbo. So quanto possano essere importanti certi piaceri della vita e nulla è più piacevole di un bicchiere bevuto dinanzi al fuoco in perfetta solitudine. Ne convenite, dottore?», mormorò con voce roca.

Samuel sollevò lo sguardo: azzurro, duro come

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lapislazzuli. Era antico e freddo, e nello stesso tempo, quasi annoiato e vigile.

George Dyce sentì un brivido lungo la schiena. «Credo che sia l’ora di congedarmi» mormorò, cercando nel panciotto l’orologio. L’ora che lesse lo fece sussultare: l’una. Era rimasto per due ore in quella casa! Com’era possibile? Non si fermava mai tanto a lungo per un controllo.

«Qualcosa non va?» chiese Samuel Griffin, accompagnandolo alla porta.

Il medico tornò a guardare l’orologio, perplesso. «Non… non pensavo di aver fatto così tardi» rispose confuso. Non poteva aver perso tanto tempo, era assurdo, era…

Dyce alzò gli occhi verso il padrone di casa. Aprì la bocca per parlare ma non riuscì a trovare delle parole adatte a spiegare ciò che sentiva. Confusione? No, era ben altro. Una sensazione di freddo si impossessò di lui, repentina, come una malattia.

Qualcosa, qualcuno… cosa era successo, cosa?«Credo di stare poco bene», biascicò, con gli occhi

sgranati.Griffin non replicò. Rimase fermo sulla porta a

guardarlo, celato nella penombra, prima di chiudere la porta alle sue spalle.

Per un istante, Dyce rimase fermo a fissare l’uscio ormai chiuso del numero 15. Era senza parole, senza fiato. Il battito del cuore rimbalzò tra cervello e orecchie, assordandolo.

Cosa era accaduto davvero?

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George Dyce camminò a lungo. La sua mente non era in grado di ricordare la strada di casa: si lasciò spintonare dai passanti, mettendo i piedi in mezzo ai liquami, gli occhi fissi nel vuoto, mentre i passanti gli scoccavano sguardi pieni di commiserazione.

Solo quando raggiunse Calton Road riuscì a recuperare un po’ di lucidità. Si fermò appoggiandosi al muro e si costrinse a respirare profondamente per calmarsi; poi guardò attorno a sé, accorgendosi per la prima volta di dove si trovasse. Arrivato ad Albany street, aveva recuperato il completo controllo.

Salì in fretta i gradini della bella palazzina georgiana, come se volesse fuggire dalla strada. Le voci petulanti delle sue figlie di sedici e diciotto anni lo raggiunsero, rassicurandolo, quasi confortandolo: discutevano per qualcosa che aveva a che fare con dei cappellini. Era bello essere a casa, pensò avviandosi verso il piano superiore.

«Dottore?». La voce ansiosa della governante lo raggiunse a metà delle scale.

«Dica, Emmeline», sospirò esasperato, sfilandosi i guanti.

«Siete atteso, signore».«Visite?», grugnì. Era contrariato, stanco e

desiderava solo riposare per tutto il pomeriggio.«Sì, signore. Due gentiluomini da Londra». Gli

porse due biglietti da visita.Dyce sobbalzò. Burgess e Corbridge? Qui?«Dove sono?» chiese, scendendo a precipizio i

gradini.«Nel salottino con vostra moglie».Entrò nel salone a passi rapidi. Sua moglie lo

squadrò con i grandi occhi castani spalancati e uno sguardo equamente diviso tra perplessità e spavento. Matronale e dignitosa, era rimasta senza parole dinanzi all’irruzione improvvisa, senza capire perché suo marito fosse tanto pallido. Muriel Dyce, donnetta prosaica e priva di immaginazione, non poteva immaginare chi fossero davvero quegli amici di suo marito.

Perché Michael Burgess e Spencer Corbridge non

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erano solo compagni di vecchia data di George Dyce. Erano i capi della Fratellanza della Luce.

Il medico congedò la moglie con un sorriso di circostanza e invitò i due amici a sedersi con lui al tavolo. Compagni di bagordi nell’età dell’università, avevano cementato la loro amicizia circa vent’anni addietro, quando si erano scontrati con l’impossibile.

«Quando siete arrivati?».A rispondere fu Corbridge. Alto e sottile, viso

allungato di un pallore quasi grigiastro, occhi scuri, piccoli baffetti; non sembrava essere molto forte, anzi. Tra i quaranta e cinquant’anni, medico come Dyce, esercitava a Londra e godeva di ottima fama. Era una delle persone verso cui George nutriva maggior stima… e timore. Bastava fissare quegli occhi di ghiaietto per capire che era un uomo da non prendere sottogamba.

«Ieri sera tardi. Siamo stati a Newcastle, poi abbiamo pensato di venire a dare un’occhiata fin quassù».

«Bene. Perché… pensavo di scrivervi. Credo di aver trovato… degli indizi che riportano a ciò che avete trovato a Londra». George si versò un bicchiere generoso di brandy e lo bevve a larghi sorsi. Di solito, non beveva tanto, ma quel giorno tutto il mondo sembrava aver deciso di andare per conto suo senza chiedere il permesso.

«Ti riferisci alla mia lettera?» domandò Michael Burgess, appollaiandosi sul bracciolo della poltrona occupata da Dyce. Capelli color sabbia, muscoloso quanto poteva esserlo un ex campione di canottaggio di Cambridge, occhi verdi pungenti, carnagione chiara, aveva la stessa età di George Dyce. Con lui il tempo era stato indulgente: fascinoso, scapolo impenitente e notaio presso St. Albans, aveva un’espressione indolente che dissimulava una capacità di osservazione fuori dal comune. Aveva anche una leggera zoppia, conseguenza di una fuga precipitosa sui tetti di Londra, mentre era in caccia di uno dei suoi nemici.

«Esatto. Ho trovato una coincidenza tra ciò che tu mi avevi scritto e le notizie che mi ha comunicato James Faber da York. Si tratta di una lettera». Dyce parlò in fretta, sottovoce, lo sguardo che saettava dall’uno all’altro.

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Burgess strinse gli occhi, curioso «Faber? Il nostro Fratello osservatore di York? E cosa è accaduto?».

«Pochi giorni fa, i Fratelli dello Yorkshire hanno trovato uno di quei mostri, l’hanno catturato ed eliminato. Portava con sé della corrispondenza: sembra fosse un corriere o qualcosa del genere. Non ne avete saputo nulla?».

«No. Siamo lontani da Londra da parecchio e non abbiamo avuto comunicazioni recenti da York», rispose Burgess, disorientato. Corbridge ebbe una smorfia perplessa.

D’improvviso, Dyce si rilassò nella poltrona con un sospiro pesante. «Allora credo che ci aspetti un lungo pomeriggio. Ho molte notizie da darvi».

Corbridge si accomodò su una panca di fronte agli altri due. «Procediamo con ordine, George. Faber ti ha scritto che quell’essere immondo portava delle lettere. Per chi?».

«Si tratta di una missiva indirizzata al Master delle Highlands. L’indirizzo è Edimburgo, Canongate, 15».

George fece una pausa per riprendere fiato. Sfilò gli occhiali, mentre le ipotesi nebulose che gli affollavano il cervello assumevano contorni nitidi. E lo spaventavano, sempre più.

«Ieri è arrivata una lettera da Richard Tellman, il vostro sostituto a Londra. Mi ha scritto che nella cassaforte che avete trovato il mese scorso nel covo distrutto, c’erano delle lettere tra il capo della comunità londinese e altri Masters. Due di queste provenivano da Edimburgo».

Burgess alzò le sopracciglia, stupefatto «Davvero? Siamo partiti dopo aver distrutto il rifugio di Londra e non abbiamo avuto il tempo di visionare i documenti».

George mosse le mani per bloccarlo. «Ascolta: le lettere provenienti da Edimburgo sono datate 1782, dunque hanno più di cinquant’anni. Una di queste è la comunicazione dell’acquisizione di una quota di proprietà una società di commercio. La transazione era stata curata da un avvocato, tale O. W. G. L’altra, una missiva privata, è a firma di un tale S. Per entrambe l’indirizzo era Canongate 15».

Con un sospiro spezzato, Spencer Corbridge si

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appoggiò con la schiena contro il muro. «Coincidenza a dir poco sospetta», commentò asciutto.

Dyce lanciò un lungo sguardo ai due: la frizzante sensazione di trionfo che avvertiva si mescolò a una paura latente che gli serpeggiava nell’anima, ai margini della coscienza. Continuò a raccontare.

«Non è ancora finita: alcuni giorni fa un uomo ha chiesto un consulto per sua moglie, poiché teme sia sterile. Si chiama Griffin, si è trasferito in città dal nord della Scozia circa dieci anni fa. Da quello stesso periodo, abitano con loro dei cugini della moglie: due donne e un uomo per l’esattezza. Non ho fatto caso subito all’indirizzo ma quando ieri ho ricevuto la lettera di Richard Tellman, ho fatto un salto sulla sedia».

«Fammi indovinare: il numero 15 di Canongate?». Burgess tirò fuori dalla tasca della giacca un astuccio portasigari e iniziò a fumare. George annuì in silenzio, poi si coprì il volto con le mani. Non sapeva come spiegare quello stato di malessere che l’aveva sconvolto, sin da quando era andato via dalla casa dei Griffin.

Proseguì, stanco, con gli occhi fissi sul pavimento. Le parole erano diventate difficili da pronunciare «Così ho pensato di approfittare della richiesta per dare un’occhiata, tentare di capire se potessero essere davvero… loro. ».

Dyce bevve un altro sorso di liquore e riprese a parlare. «Pensavo di scrivere un resoconto stasera, per chiedervi di venire qui… Perché di dubbi ne ho parecchi. Stamane ho visitato la moglie di Griffin e…».

Stavolta furono Burgess e Corbridge a sussultare. «Tu hai fatto che cosa?», guaì Corbridge.

Burgess afferrò George per il braccio, costringendolo a voltarsi. «Era viva?».

Un rivolo di angoscia scivolò lungo la schiena del medico. La risposta che la sua mente gli diede fu sì; tuttavia un’altra sensazione, più profonda, viscerale, lo aggredì impedendogli di rispondere subito. Un malessere difficile da spiegare, un brivido freddo di panico di cui non riusciva a liberarsi in alcun modo.

«Sì», sussurrò incerto.Spencer Corbridge lo fissò, studiandolo in silenzio.

I suoi occhi brillavano come pietre bagnate in fondo a

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una scodella. «Potrebbe essere una schiava umana: a Cardiff ne abbiamo trovate due». Poi tornò a studiare il volto di George: pareva invecchiato di colpo. «Sei assolutamente sicuro che fosse viva?».

«Credo di sì», ammise George infine. Sospirò pesantemente. «Con questa visita non ho fatto altro che complicarmi la vita… ho così tanti dubbi!».

«Perché?», lo incalzò Michael.«Le due donne che io ho conosciuto non sono

diverse da mia moglie o dalle figlie. Vestono allo stesso modo, parlano come loro. Non hanno nulla di diverso, a parte il pallore e la bellezza»

«Le loro femmine sono sempre molto belle: si tratta di strategia di caccia, dovresti saperlo», interloquì Michael, soffiando una nuvola di fumo che si dissolse con lentezza. Poi sorrise, indolente. «Ti trovo un po’ arrugginito, George: una volta non avresti avuto tutte queste incertezze».

«Li hai visti mai mangiare? Fare qualcosa di umano?», lo incalzò Spencer.

Dyce si fermò a riflettere. Scosse la testa, dubbioso. «Non sono il tipo di persone che Muriel vuole frequentare, se capite cosa intendo. Tuttavia, stamane Griffin ha bevuto davanti a me. In realtà, l’ho quasi sfidato a bere il suo Porto: non ne aveva toccato una goccia».

«La servitù?», proseguì Corbridge.«Hanno una governante, una cuoca, una cameriera

e una sguattera di cucina, che non dormono in casa; possiedono una carrozza e dei cavalli. Il fatto che abbiano della servitù per la cucina è uno dei dati che mi ha lasciato più perplesso», considerò Dyce con una smorfia.

«Potrebbero fingere di mangiare: a Londra, il loro capo aveva uno stuolo di servitori umani che non hanno mai sospettato nulla. E poi, qui a Edimburgo non è così difficile liberarsi del cibo: ho visto gettare di tutto dalle finestre», commentò Michael, sarcastico. «Dovremmo saperne di più. C’è modo di investigare su di loro senza destare sospetti?».

George fece una smorfia, dubbioso. «Sarà difficile. Notoriamente, Samuel Griffin è molto riservato e…».

Le parole gli morirono in gola, ghiacciandosi. Si

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portò la mano alla bocca. Samuel Griffin.Samuel.S., Edimburgo Canongate 15Burgess lo fissò con occhi spalancati. «S….»,

bisbigliò, attonito. «S è l’iniziale di Samuel». Corbridge lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, gelido. «Mutano il cognome, spariscono per anni, ma non rinunciano mai al loro vero nome».

George Dyce si passò la mano davanti agli occhi, quasi tentando di svegliarsi da quel sogno strampalato. Non era possibile. Era folle. Di più: irreale.

Eppure, era perfettamente logico. Tutto andava al suo posto in quel puzzle così assurdo.

Erano lì, per davvero.Avevano trovato i vampiri di Edimburgo.

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«Buongiorno, Margareth.»La voce quieta di Joanne risuonò nella sala da

pranzo piena di una luce mattutina pigra. Entrò e chiuse la porta alle spalle della domestica, lanciando uno sguardo penetrante ai suoi fratelli.

«Finalmente sei arrivata! Quella dannata vecchia non la smetteva di ronzare qui attorno». Ester respinse il piatto di pancetta che si trovava dinanzi. «Cielo, questa roba mi nausea! Ma è proprio necessario fingere di mangiare?»

Joanne le rispose con pazienza, prendendo un piatto con delle uova dal servo muto. «Non piace a nessuno di noi, Ester, ma non abbiamo alternative. La Fratellanza è alle nostre calcagna e non possiamo permettere che la servitù inizi a sospettare qualcosa.»

Mise il piatto dinanzi a sé e rimestò il cibo con le posate; poi sollevò lo sguardo su Samuel, che leggeva il giornale.

«Che cosa pensi di fare?» domandò, a voce bassa.Nella stanza cadde il silenzio.Samuel le rispose senza guardarla, continuando a

leggere lo Scotsman. Dinanzi a lui, un piatto di salsicce giaceva intonso, assieme ad una tazza di thé. «Sto portando a termine la cessione dell’impresa con Oliver. Le ragazze, Will e John partiranno entro questa settimana; io e te, la prossima. Annunceremo la nostra intenzione di fare un viaggio in Europa, per climi più caldi. Oliver rimarrà qui, assieme a Zach.» La scrutò, gli occhi piantati nei suoi, fissandola senza battere ciglio. «Spero per te non sia un problema.»

Joanne abbassò lo sguardo sul piatto. Per un momento ebbe voglia di urlare che sì, era un dannato problema. Ma non poteva: Samuel era il suo capo, prima ancora di essere suo fratello di sangue. Lei, Ester, Lizzie, Zach e Samuel avevano avuto lo stesso padre: lo stesso vampiro li aveva trasformati. Samuel era il più anziano tra tutti loro e aveva preso il comando quando Robert, il loro Padre, aveva cessato di esistere molti decenni prima.

Will, John, Oliver, invece, erano stati creati da

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Samuel. A differenza di Robert, lui aveva offerto la possibilità di scegliere: aveva dato loro la libertà di accettare o meno la via del sangue, cosa che Joanne reputava sacrosanta.

Quanto a lei, aveva un compito specifico: era la Guardiana. Le era stata affidata la tutela dei suoi fratelli; sarebbe stata lei a sostituire Samuel, nel caso in cui fosse perito.

Lui le lanciò un’occhiata obliqua; poi tornò a immergersi nella lettura. «Zach verrà stasera: sta tenendo d’occhio la casa di Dyce. Will gli darà il cambio stanotte.»

«Ha trovato qualcosa?», chiese Joanne, allontanando il piatto con un gesto secco: Ester aveva ragione, l’odore del cibo era nauseante.

«Poco: lettere di Corbridge e di Faber, nulla che già non sapessimo. Purtroppo, non vi era nessun elenco riguardo ad altri contatti qui in città.» Samuel richiuse il giornale con un gesto secco, persino nervoso. «Stanno progettando un’offensiva contro di noi. È questione di tempo.»

«Quanto pensi che sappiano?», domandò Lizzie, inquieta.

«Molto, temo. Tellman, il responsabile della Fratellanza di Londra ha una missiva di Oliver e una mia lettera indirizzata a Sirius: entrambe sono dirette a quest’indirizzo: Zach ha letto gli appunti di Dyce.»

Joanne sgranò gli occhi. «Ma… sono lettere di sessantanni fa!»

Samuel aprì le braccia, stizzito. «Già! Le hanno conservate, accidenti a loro! Appena realizzeranno il collegamento tra gli autori delle missive e noi, ci avranno scoperti. L’unica cosa da fare è anticipare la partenza.»

Joanne picchettò con le dita sul tavolo, poi annuì con energia. «Dobbiamo agire tenendo un comportamento il più possibile usuale. Per fortuna, è nuvoloso e non avremo problemi con il sole. Preleveremo delle somme di denaro per ogni esigenza. Limiteremo le uscite notturne; saremo sempre in coppia o più, mai da soli. Resteremo solo io e te; Zach rimarrà in incognito e Oliver dovrebbe essere al riparo dai sospetti, visto che è ricomparso da meno di tre anni e che non vive con noi.»

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«Molto bene. Comunica queste disposizioni agli altri e…».

Samuel spalancò gli occhi, lanciando uno sguardo alla porta. Un istante dopo, qualcuno bussò e di colpo, tutti finsero di mangiare. Persino Ester arricciò il naso e accostò la tazza di thè alle labbra.

«Il vostro segretario, padrone», annunciò la governante.

Will entrò, chiudendo la porta alle spalle. Il suo sorriso aveva un che di furbo e di malizioso, quella mattina. «Buongiorno signori. Sappiate che da qui a tre minuti diluvierà, quindi è il momento adatto per uscire. Sarà nuvoloso per tutto il giorno.»

«Volete una tazza di caffè, signor Munro?». Joanne aveva parlato con voce rilassata, ma con gli occhi fissi alla porta. Quell’impicciona della governante stava origliando di nuovo.

Will si voltò a fissare la porta chiusa e ridacchiò. «Sì, grazie, signora Griffin. Sapete, stanotte abbiamo fatto tardi con il signor Hates.»

Passi furtivi, umani, si allontanarono lungo il corridoio. Piatti e bicchieri tornarono sul tavolo.

Ester rise: John era rientrato alle cinque del mattino, con addosso l’odore di una femmina umana. Lizzie si limitò a scuotere il capo, contrariata. «Non dovreste passare la notte in giro da soli, con tutto quello che sta succedendo», considerò la ragazza a bassa voce, tenendo gli occhi fissi sulla porta. «Potrebbero attaccarvi.»

Will prese una tazza, la riempì di caffè e si sedette a tavola. Il suo buonumore non era stato scalfito dalla tensione che si sentiva nella stanza. Si strinse nelle spalle. «I Fratelli della luce? Che possano farsi fottere all’inferno!».

Samuel alzò gli occhi. Erano glaciali.«Ci sono delle signore in questa stanza, Will. Non gradisco che tu ti esprima in questo modo.»

Nella stanza calò un silenzio imbarazzato. Samuel si alzò in piedi e li fissò, uno a uno. «Non stiamo scherzando. Lo ripeto: la nostra salvezza dipende da quanto riusciremo a essere credibili. Stiamo rischiando tutto ciò che abbiamo, il nostro mondo può andare in

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pezzi da un momento all’altro e noi con lui. Se i Fratelli della Luce ci scoprono, non avremo possibilità di salvarci. Avete capito? Nessuno scampo. Moriremo tutti.»

Il nostro mondo è in pericolo, pensò Samuel con gli occhi fissi sul selciato sporco di fango. Tutto ciò che ho costruito, i miei figli, i miei fratelli… potrei perdere ogni cosa.

Per secoli, lui e i suoi simili si erano mescolati agli umani, vivendo con loro, prendendone le abitudini, generazione in generazione. Questo era potuto accadere perché molte delle leggende sulla loro natura erano false e gli uomini ignoravano quale fosse la loro vera essenza.

Erano corpi morti. Non respiravano: l’aria non era più necessaria, simulavano solo per mimetizzarsi meglio. Il loro fisico non aveva più le caratteristiche umane: non sentivano più fatica o dolore. Non avevano più un cuore che batteva. Non potevano neanche essere uccisi da un paletto, né urlavano dinanzi a un crocifisso o all’acqua santa.

Non potevano stare alla luce del sole, era vero, ma questo non significava che non potessero uscire di giorno. L’importante era che i raggi del sole non li colpissero direttamente, altrimenti la loro pelle si sarebbe ustionata, accartocciandosi come un mucchio di foglie secche. Il fuoco li indeboliva ma non li uccideva.

C’era solo un modo per eliminarli, e su questo il mito aveva ragione: tagliare loro la testa. Purtroppo, i Fratelli della Luce lo conoscevano bene.

Avevano bisogno di sangue umano per nutrirsi. Tuttavia, disciplina e rigore avevano dato i loro frutti e adesso il numero delle loro vittime era divenuto molto basso.

Quasi, si corresse poi, con un sorriso soddisfatto. Il ricordo della notte precedente riempì la sua bocca di un sapore dolce e caldo. Si leccò le labbra e tornò a concentrarsi sul carteggio che aveva davanti: un mucchio di ricevute che dovevano essere controllate prima di liquidare la sua impresa. Gli piaceva quel lavoro: aveva posseduto attività commerciali sin dal secolo precedente e aveva scoperto di possedere talento per gli affari. In questo lo aiutava Oliver, che si occupava della gestione degli affari legali: era un avvocato molto preparato.

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E non solo: era una creatura di una freddezza e di una determinazione fuori dal comune.

Mentre Will aveva mantenuto alcuni brandelli di umanità, Oliver invece, li aveva sradicati con metodica precisione. In un tempo brevissimo, aveva ottenuto quel distacco dall’umanità che gli esseri come loro ottenevano con anni di buio, di massacri e assassinii.

Era lo scotto da pagare per la loro condizione. E tuttavia, da prezzo, si trasformava in vantaggio: niente pene, niente rimpianti, niente sofferenza. Il disprezzo di tutto ciò che era umano diventava liberatorio, aiutando a vedere la vita per ciò che è: un tempo più o meno breve, affannato, pieno di illusioni in cui non esisteva uno scopo, né sicurezze se non quella della morte.

Sapeva guardare oltre la condizione umana. Sentiva il bisogno… la fame di vita e non si tirava indietro dinanzi a niente per proteggere ciò che aveva di più prezioso: l’immortalità.

Molti esseri umani non si rendevano nemmeno conto di essere al mondo: consideravano la propria vita senza fine, mentre il tempo fluiva addosso loro, senza accorgersi di invecchiare fino a morire. Non sapevano che sarebbe bastato uno schiocco di dita del destino per spezzare quell’illusione.

Samuel, invece, lo sapeva: per primo era stato vittima di quello schioccar di dita; a sua volta, il destino si era servito di lui per porre fine a delle esistenze inutili.

Senza rimorso alcuno.

Nascosto nell’ombra di un portone, Zach osservò l’entrata del numero 17 di Albany street. Sopra di lui, un cielo grigio, basso, che sembrava dovesse dissolversi in una tempesta da lì a pochi istanti.

George Dyce aveva avuto visite: tre gentiluomini. Senza dubbio, qualcosa di strano si stava preparando: era rimasto sveglio tutta la notte, inquieto, a passeggiare nel suo studio. Zach lo aveva spiato, nascosto nel buio della sala d’ingresso, ed era scivolato via poco prima dell’alba, quando la sguattera di cucina si era alzata per accendere il fuoco. Sorvegliava quella residenza da giorni, la conosceva bene e ormai entrava ed usciva a suo

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piacimento.Zach Shaw sapeva forzare le serrature, sbloccare

fermi e chiavistelli; era silenzioso e leggero, un soffio di vento. Lui era la spia nel loro gruppo, ombra tra le ombre. Era colui che non esisteva.

Iniziò a piovere. Zach sentì delle gocce bagnargli il collo sotto la falda del cappello. In pochi istanti, la pioggia aumentò d’intensità, e lui capì che quello era il momento adatto per avvicinarsi alla casa per sbirciare all’interno.

Mescolandosi ai passanti che correvano per trovare riparo, si avvicinò all’abitazione di Dyce e si nascose dietro un anfratto dinanzi all’ingresso. Da lì, attraverso il velo spesso della pioggia battente, riuscì a vedere i tre uomini che parlavano con il medico. In quel momento qualcun tirò via le tende dalla finestra, forse per ottenere più luce e Zach si accorse che non erano soli: altri uomini erano nella stanza assieme a loro.

Chi accidenti erano quei due?Con una mano sul cappello, Zach allungò il collo.

Tutti gli uomini erano chini su un tavolo, coperto di carte e mappe della città. Uno di loro gesticolava, gli altri annuivano. Dyce, un po’ più distante, seguiva con lo sguardo la discussione. Aveva l’aria angosciata e scuoteva il capo.

D’improvviso, uno di loro alzò la testa di scatto e si voltò verso il padrone di casa che annuì, con energia. L’altro rise e un secondo uomo si alzò per bere un bicchiere di vino, dopo aver indicato dei punti su un foglio.

Per la prima volta dopo più di un secolo, Zach sentì un brivido. Non era di eccitazione o di desiderio. Con fatica, quasi con stupore si rese conto che era un’emozione stridente, improvvisa, che lo sconvolse fino a fargli spalancare gli occhi. Perché aveva avuto paura.

Aveva riconosciuto quegli uomini, ne aveva visto i ritratti molte volte.

Michael Burgess e Spencer Corbridge.I capi della Fratellanza della Luce.

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