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— 1 — Augusta 2015 Sommario IRENE ALBY LUDA DI CORTEMIGLIA e RENATO ALBY Il capitano Pierre-Christophe Christille 2 MICHELE MUSSO Il testamento del Capitano Christille 8 FRANCESCA FILIPPI Il cantiere di Castel Savoia a Gressoney-Saint-Jean: ruoli e contributi delle maestranze locali 17 MARIAGIOVANNA CASAGRANDE, PIERMAURO REBOULAZ, ELEONORA ABATE, NATALIA BACCICHETTO Il restauro della cappella di Ecko 22 LAURA e GIORGIO ALIPRANDI Pont Trentaz 34 ROBERTO COMPAGNONI La 10 a Conferenza Eclogitica Internazionale svoltasi a Courmayeur nel settembre del 2013 e l’escursione geologica nella valle del Lys 38 FRANCESCO SPINELLO Il ponte naturale di Biel (Selbsteg) 46 TSEI DE LA MODA DOU GOBI Il patois di Gaby 49 JOLANDA STEVENIN, GUIDO CAVALLI La cappella di Lihla e i suoi santi 51 IMELDA RONCO HANTSCH Im Tschachtelljer 55 AGOSTINO BUSSO Ricostruzione della casera di Beauregard 56 ALESSANDRO ZUCCA Vendere il bestiame, e andar via 58 PAOLO CROSA LENZ I Walser di Agaro nella resistenza 62 IN MEMORIAM Willy Monterin, il guardiano dei ghiacciai 64 COMITATO DI REDAZIONE Direttore responsabile Domenico Albiero Coordinatore di redazione Michele Musso Membri Michele Musso Luigi Busso Barbara Ronco Foto di copertina Il ritratto del Capitano Christille. Dipinto nel 1855 dal pittore Marabotti ritrattista della corte sabauda. Olio su tela 85x110. Proprietà di Renato Alby (Torino). (Studio fotografico Gonella, Torino) Foto della quarta di copertina Un antico granaio nel Vallone di San Grato in località Vlüeckhji, oggi non più esistente. Foto del dr. Giovanni Goyet, anno 1889. Altre foto: Studio fotografico Gonella, Michelangelo Filippi, Michele Musso, Natalia Baccichetto, Piermauro Reboulaz, Roberto Compagnoni, Francesco Spinello, Sara Ronco, Alessandro Zucca, Davide Camisasca. Tutti i diritti sono riservati per ciò che concerne gli articoli e le foto. Rivista disponibile online: www.augustaissime.it Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007 AUGUSTA: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina Proprietario ed editore: Associazione Augusta Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao) Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta

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Augusta 2015 Sommario

IRENE ALBY LUDA DI CORTEMIGLIA e RENATO ALBYIl capitano Pierre-Christophe Christille 2

MICHELE MUSSOIl testamento del Capitano Christille 8

FRANCESCA FILIPPIIl cantiere di Castel Savoia a Gressoney-Saint-Jean: ruoli e contributi delle maestranze locali 17

MARIAGIOVANNA CASAGRANDE, PIERMAURO REBOULAZ, ELEONORA ABATE, NATALIA BACCICHETTOIl restauro della cappella di Ecko 22

LAURA e GIORGIO ALIPRANDIPont Trentaz 34

ROBERTO COMPAGNONILa 10a Conferenza Eclogitica Internazionale svoltasi a Courmayeur nel settembre del 2013 e l’escursione geologica nella valle del Lys 38

FRANCESCO SPINELLOIl ponte naturale di Biel (Selbsteg) 46

TSEI DE LA MODA DOU GOBIIl patois di Gaby 49

JOLANDA STEVENIN, GUIDO CAVALLILa cappella di Lihla e i suoi santi 51

IMELDA RONCO HANTSCHIm Tschachtelljer 55

AGOSTINO BUSSORicostruzione della casera di Beauregard 56

ALESSANDRO ZUCCAVendere il bestiame, e andar via 58

PAOLO CROSA LENZI Walser di Agaro nella resistenza 62

IN MEMORIAMWilly Monterin, il guardiano dei ghiacciai 64

COMITATO DI REDAZIONE

Direttore responsabileDomenico Albiero

Coordinatore di redazioneMichele Musso

MembriMichele MussoLuigi BussoBarbara Ronco

Foto di copertinaIl ritratto del Capitano Christille. Dipinto nel 1855 dal pittore Marabotti ritrattista della corte sabauda. Olio su tela 85x110. Proprietà di Renato Alby (Torino). (Studio fotografico Gonella, Torino)

Foto della quarta di copertinaUn antico granaio nel Vallone di San Grato in località Vlüeckhji, oggi non più esistente.Foto del dr. Giovanni Goyet, anno 1889.

Altre foto: Studio fotografico Gonella, Michelangelo Filippi, Michele Musso, Natalia Baccichetto, Piermauro Reboulaz, Roberto Compagnoni, Francesco Spinello, Sara Ronco, Alessandro Zucca, Davide Camisasca.

Tutti i diritti sono riservati per ciò che concerne gli articoli e le foto.

Rivista disponibile online: www.augustaissime.it

Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007

AUGUSTA: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina

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Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)

Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta

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memorie storiche dello stesso, quasi che il Capitano volesse ri-tornare alla sua terra e che a tramandare la sua storia fossero dei suoi affini.Quali furono i rapporti che avevano legato il Capitano Christille con la famiglia Monneret de Villard, che aveva dato alla Francia il famoso Maresciallo Generale e Pari di Francia, Claude-Louis-Hector (Morto a Torino nel 1734), al punto che Antoine Monne-ret rifugiato nel Regno Sardo stante la Rivoluzione Francese, lo scelse come padrino del proprio figlio Achille nato il 27 luglio del 1826 non sono al momento ancora chiariti. Logica vorrebbe che il Capitano Christille abbia intrattenuto rapporti con la Francia e/o con gli esuli della stessa in quel drammatico divenire della storia.Ricostruendo, dai documenti e dai ricordi personali della figlia di Achille Monneret, Delfina (n. a Torino nel 1855), che a sua volta li narrava al nipotino Renato Alby (n. a Torino nel 1918), ri-sulta che il Christille ebbe un fisico molto robusto, un carattere generoso, forte e volitivo, sempre rispettoso del proprio dovere, anche nei più tumultuosi rivolgimenti storici.Al compimento dei vent’anni, nel 1807, fu arruolato nell’eserci-to Francese, perché in quel tempo, a seguito della battaglia di Marengo, il Piemonte e la valle d’Aosta, appartenevano ad ogni effetto allo stato d’Oltralpe.Rapidamente addestrato e istruito all’uso delle armi e al maneg-gio dei cavalli, fu destinato nello stesso anno 1807, alla quinta compagnia del 16° reggimento dei Cacciatori a cavallo dell’e-sercito Napoleonico, quantunque la sua statura fosse un po’ superiore alla media del tempo -1,69 metri- ciò fa dedurre che fosse di fisico asciutto e snello e quindi atto a montare a cavallo.ll suo reggimento partecipò alla campagna di Prussia del 1807/ 1808, dove il Christille fu ferito, per la prima volta a Wagram, con un colpo di sciabola alla mano sinistra e da un proiettile di arma da fuoco alla gamba sinistra. Venne sommariamente cura-to, secondo i mezzi dell’epoca e reagì con eccezionale prontezza dimostrando una natura fortemente resistente alle infezioni che a quel tempo spesso portavano alla morte.Guarito partì per la campagna d’Austria del 1809 e d’Olanda 1810/1811, da cui uscì indenne e partì, con il suo reggimento nel 1812 per la disastrosa campagna napoleonica di Russia. La campagna di Russia gli lasciò anche un’altra delle 8 ferite un colpo di lancia sotto il braccio destro e un colpo di sciabola alla coscia destra il 25 luglio a Viteps2, nella azione di salvataggio del

“Mais celui qui mérite nos plus grands éloges, c’est assurément M. Christille Pierre Christophe feu Christophe et Jacquemine Christille” scriveva Louis Christillin alla pagina 309 del suo libro

‘La Vallée du Lys’ del 1897 nel capitolo dedicato alle persone illustri di Issime. Quando Michele Musso mi chiese la disponi-bilità di fotografare il grande quadro che lo ritrae, in posa mae-stosa, ne fui sorpresa e certamente felice. Mi sembrava ridargli onore e considerazione e renderlo ancora partecipe e vivo nei nostri ricordi. Come si può osservare dalla fotografia del qua-dro, il pittore, ce lo restituisce in alta uniforme, come in uso all’epoca con tutti gli elementi relativi alla suo grado di Capitano del Regno di Sardegna con in lontananza il Castello della Ve-naria dove svolse il suo ultimo incarico di Vice-Direttore della Scuola Reale Militare d’Equitazione fino al 1852.Orbene questo personaggio, valoroso figlio della stirpe walser, nacque a Issime il 5 o il 7 gennaio del 1787 ed era lontanamente imparentato, come succedeva quasi sempre nei paesi alla sua epoca, con la famiglia Alby1 alla quale io appartengo. Tuttavia il legame del Capitano Christille con la mia famiglia è assai più curioso che una semplice e lontana parentela. È infatti dettato, direi quasi dal Fato, che ha portato il Capitano a rapporti stret-tissimi con un nostro ascendente di tutt’altra provenienza. Da sempre nella casa di famiglia chiunque passasse davanti a questo quadro imponente che dominava gli altri dipinti sulle pareti di casa, rimaneva colpito e domandava chi fosse questo ufficiale e se fosse un antenato. Gli veniva risposto che era il va-lorosissimo e pluridecorato Capitano Christille, sopravvissuto a tutte le campagne napoleoniche e la cui storia si era intrecciata con la famiglia Alby che conservava di Lui i ricordi civili e mili-tari e ne tramandava la memoria.I documenti che permettevano di ricostruire molti particolari della sua lunga e valorosa vita erano giunti alla famiglia trami-te il suo figlioccio Le Chevalier Achille Monneret de Villard la cui nipote Maria aveva sposato Vittorio Alby nel 1917. Oltre ai documenti sono giunti in possesso alla famiglia le medaglie, le armi e altri oggetti personali e il dipinto.Strana e curiosa circostanza ha dunque fatto sì che custode delle memorie personali del Capitano sia nuovamente divenuta una famiglia originaria di Issime, molto legata al territorio e alle

Il capitano Pierre-Christophe Christille

Irene Alby ludA dI CortemIglIA e renAto Alby

1 Marie-Elisabeth Christille (1782-1859) figlia di Jean-Christophe, cugino primo del padre del Capitano, proveniente dal villaggio di Rickurt di mezzo, sposa nel 1803 Jean-Joseph Alby (1773-1844) notaio e giudice di pace, che viveva nella casa di famiglia al Letz Duarf (casa oggi Bastrenta). Il loro primogenito Joseph-Aimé Alby (Issime, 26 settembre 1803 – Venaria, 17 gennaio 1853) svolse il ruolo di segretario particolare del Capi-tano, si interessò di apicoltura introducendo l’arnia a favo mobile chiamata poi Arnia Alby rivoluzionando in questo modo l’allevamento delle api a livello internazionale, arnia che elaborò proprio presso la tenuta della Mandria della Venaria. Una copia di quest’arnia è oggi conservata dal Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Torino.

2 Vitebsk (in bielorusso Vicebsk) è una città della Bielorussia, vicino al confine con la Russia e con la Lettonia.

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suo colonello Olivero che era stato fatto prigioniero. Questo episodio denota ancora una volta il coraggio e la generosità del Christille unito ad un senso del dovere sino all’estreme conseguenze.Dopo l’incendio di Mosca cambiando le sorti dell’e-sercito imperiale, i francesi furono costretti alla tra-gica e dolorosa ritirata che si completò con la bat-taglia della Beresina, nel gelido inverno russo dove uomini e cavalli cadevano assiderati. Il Christille ebbe di questa tragica ritirata un ricordo imperituro che riportò negli ultimi anni della sua vita alla picco-la Delfina, figlia di Achille Monneret, suo figlioccio, con descrizioni delle durissime e lunghissime mar-ce a piedi nella steppa russa e dei patimenti subiti come pure il cibarsi della carne dei cavalli morti solo irrorata di polvere da sparo. Il Christille forte della sua prestanza fisica e della giovinezza, oltre alla caparbietà che contraddistingueva il suo carat-tere riuscì a rientrare in Francia tra i pochi reduci della terribile campagna.Nel 1813 combatté in Sassonia e all’inizio del 1814 in Francia. A Montmères ricevette ancora una pallotto-la alla mano destra e diede prova di grande valore, facendo prigioniero, il 10 febbraio 1814 a Champau-bert3, al centro della sua armata il generale russo Olsufiev con il suo cavallo e scortandolo personal-mente sino alla presenza dell’Imperatore Napoleo-ne. Per ricompensa di tale azione valorosa, l’impera-tore, d’impeto gli appuntò, sul campo con le proprie mani, la Legione d’Onore ed ebbe 50 napoleoni d’o-ro per la cattura del Generale e 30 per il cavallo. A cui seguì il riconoscimento con documento ufficiale.Sempre nel 1814 Napoleone fu costretto all’esilio dell’Elba, il 4 maggio sbarcò nell’isola, e il Christille si trovò a far parte dell’esercito reale Francese sotto la guida di Luigi XVIII. Anche in questa circostanza, per il suo comportamento valoroso ricevette il 12 luglio 1814, su richiesta diretta del Duca di Berry, la decorazione del “Fleur du Lys”4.Ma non era finita, Napoleone tornato dall’esilio sbarcato in Francia dall’Isola d’Elba ritrovò la sua vecchia guardia tra cui il Christille che faceva parte della “Compagnie des Elites”.Nei cento giorni che porteranno alla definitiva di-sfatta dell’Imperatore Napoleone, egli fece parte della Vecchia Guardia a Cavallo con il grado di Bri-gadiere passando nel primo Reggimento Cacciato-ri5, il 20 maggio 1815.

Il Capitano Christille. Fotografia del Marchese Edoardo Di Chanaz, che era il fotografo di casa Savoia. Fotografo professionista, su alcuni retri è denominato De Chanaz anziché Di Chanaz. Nel 1858 è premiato con una medaglia d’argento alla IV Esposizione Nazionale di prodotti per l’industria a Torino. Nel testo redatto dalla commissione dell’Esposizione, di Chanaz risulta fotografo dilettante di straordinario talento. In quella occasione ha presentato alcune vedute di Torino e molte riproduzioni di opere d’arte. In un articolo sulla “Gazzetta Piemontese” il fotografo viene nuovamente citato in qualità di dilettante. Nel 1869 di Chanaz è diventato fotografo pro-fessionista, come conferma l’annuncio sulla Guida Galvagno. Negli anni cinquanta del XIX secolo ha aperto il suo studio in via San Francesco da Paola 16 e 18 e si specializza in ritratti. La fotografia del Capitano Christille è stata scattata nello studio di Di Chanaz in via San Francesco intorno al 1860. (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Gonella, Torino)

3 La battaglia di Champaubert fu combattuta il 10 febbraio 1814 e vide la vittoria delle truppe di Napoleone comandate dal maresciallo Auguste Marmont sulle forze russo-prussiane (in grande maggioranza russi) guidate dal generale russo Zakhar Dmitrievich Olsufiev (nato il 10 settem-bre 1773 , è morto il 20 marzo 1835 a San Pietroburgo). Un totale di 3.000 uomini dell’armata russo-prussiana vengono uccisi o catturati, mentre i francesi subiscono una perdita di 650 uomini fra uccisi o feriti, tra cui il generale Lagrange gravemente ferito alla testa.

4 La decorazione fu istituita da Carlo Filippo di Borbone-Francia, conte di Artois, il quale fu luogotenente generale del Regno di Francia sino al ritorno al potere di Luigi XVIII dopo la cacciata di Napoleone. Essa fu fondata il 26 aprile 1814 ed era destinata a ricompensare i membri della Guardia Nazionale di Parigi per il loro «coraggio nella difesa di Parigi» oltre che per i «servizi come guardia provvisoria del Re e della Famiglia Reale», riconoscendo dunque a questo organo di polizia il fondamentale ruolo di difesa in periodi bui e confusi.

5 Il 1º reggimento dei cacciatori a cavallo ‘1er Regiment de Chasseurs-a-Cheval de la Garde Imperiale’, era il reggimento che più spesso fungeva da scorta personale per l’Imperatore, e questi spesso indossava l’uniforme del reggimento in riconoscimento del servizio reso.

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Christille ne era così fiero da farla ritrarre nel suo quadro.Dopo il congresso di Vienna, che ridisegnò la mappa dell’Euro-pa, il Christille con i suoi commilitoni di tante battaglie, piemon-tesi e valdostani, fu aggregato all’esercito del restaurato Regno di Savoia e integrato il 22 dicembre 1815 nel 6° squadrone dei dragoni del Re, promosso caporale il 1 febbraio 1817, sergente il 1 maggio del 1820, divenne ufficiale col grado di sottotenente “sous-lieutenent” nel 1829, con l’incarico nel 1830 di aiutante maggiore in seconda della scuola militare di equitazione della Venaria, nel 1833 tenente di cavalleria, fu nominato Vice-Diret-

Si giunse così alla battaglia di Waterloo, il 18 giugno 1815, in cui Napoleone desiderava risparmiare la sua gloriosa “vecchia guardia”, ma fu costretto a farla scendere in campo nel dispe-rato tentativo di una illusoria vittoria e lanciarla nel fango in un ultima inutile carica!In tale circostanza il Christille ricevette la sua ultima e ottava ferita di guerra, fu infatti colpito da un proiettile nella spalla de-stra.La sciabola istoriata con cui affrontò questa terribile battaglia fa parte dei ricordi tramandati alla famiglia del suo figlioccio ed il

L’attestato della Legione d’Onore (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Gonella, Torino)

La medaglia della Legione d’Onore (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Gonella, Torino)

La medaglia di Sant’Elena (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Gonella, Torino)

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La sciabola del 1814 del Capitano Christille (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Gonella, Torino)

Incisione con i dati sulla fabbrica e la data di fattura della sciabola del Capitano Christille(Studio fotografico Gonella, Torino)

tore della Regia Mandria della Venaria. Fu promosso Capitano di Cavalleria il primo gennaio del 1852 e collocato a riposo nello stesso giorno, mentre andò in pensione da Vice-Direttore della Regia Mandria dei Cavalli il 1 marzo 1853.Nel 1857 ricevette la medaglia di Sant’Elena6, in qualità di “ere-de” legatario di Napoleone. Infatti lo stesso imperatore lasciò ai suoi soldati il legato di lire 400 con la medaglia di Sant’Elena.Louis Christillin deve aver certamente consultato in qualche modo la documentazione in possesso del Chevalier Achille Monneret de Villard quando tratteggia la biografia del Capita-

no anche se non sempre sembra essere così preciso. Ora tutte le Sue onorificenze e i documenti sono conservate dalla fami-glia Alby.La piccola Delfina ricordava che il Capitano dopo il congedo per limiti d’età tornò a risiedere a Torino dove prese alloggio in piazza della Vittoria ora Piazza della Repubblica 3, già piazza Emanuele Filiberto aiutato da una fantesca, dove la morte lo colse d’improvviso il 1° agosto 1865 all’età di 78 anni. Suo padre Achille, divenuto Direttore della Stamperia Reale, quasi quoti-dianamente passava a trovarlo essendogli legato da profondo

6 Il 15 aprile 1821 , durante il suo esilio a Sant’Elena , Napoleone dettò un testamento in tre parti . Il terzo è un atto di gratitudine verso coloro che, fra il 1792 e il 1815 , han combattuto “pour la gloire et l’indépendance de la France”. A tal fine , lasciò in eredità metà della sua ricchezza privata, si stimò si aggirasse sui 200 milioni di franchi . Louis-Napoléon Bonaparte «voulant honorer par une disposition spéciale les militaires qui ont combattu sous les drapeaux de la France dans les grandes guerres de 1792 à 1815», istituì una medaglia commemorativa che fu consegnata a tutti i sopravvissuti. Egli chiamò questa nuova decorazione “Médaille de Sainte-Hélène”. La medaglia è stata istituita con Decreto del 12 agosto 1857, e lo scultore Albert-Désiré Barre la disegnò e realizzò. Sul dritto è il profilo di Napoleone, sul rovescio : “Campagnes de 1792 à 1815. À ses compagnons de gloire, sa dernière pensée, S.te Hélène 5 mai 1821”. È stata presentata in una scatola di cartone rivestito in carta bianca lucida con coperchio che riporta l’Aquila imperiale e la scritta “Aux compagnons de gloire de Napoléon 1er- Décret du 12 août 1857”. Questa medaglia di bronzo viene indossata sul bavero, sospesa da un nastro verde e rosso con linee molto strette . A causa della patina di bronzo è soprannominata “la médaille en chocolat”.

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Patente del 1829 del Capitano Christille (coll. Renato Alby) (Studio fotografico Go-nella, Torino) [Patente 1829]Onore alla Patria ed al Re Carlo Fe-liceCristille PietroFiglio di Cristoforo e di Giacomina d’Issime Provincia di Aosta di levata del cessato Governo Francese li 15 Gennaio 1807 nella quinta compa-gnia del 16° Reggimento Cacciatori a Cavallo, passato nella Compagnia d’elite il 1° Gennaio 1814 promosso Brigadiere, li 18 luglio 1814 passato nella Compagnia d’elite nel 2° Reggi-mento Cacciatori a Cavallo; li 20 mag-gio 1815 passato nel 1° Reggimento Cacciatori nella Vecchia Guardia a Ca-vallo [1er Regiment de Chasseurs-a-Cheval de la Garde Imperiale];Congedato il 31 ottobre 1815.Assentato al Servizio di S.M. Sarda li 22 dicembre 1815 nel 6° Squadrone

dei Dragoni del Re; promosso Caporale il 1° febbraio 1817, Sergente il 1° maggio 1820. Passato come tale nel 3° Squadrone del Reggimento Dragoni del Genovese; promosso forriere il 1° settembre 1822 nel 5° Squadrone. Indi Sottotenente il 1° marzo 1829 in Savigliano.Fossano li 1° maggio 1829Nommé le 27 Xbre 1830 adjudant Major A l’École militaire d’Équitation à la Vénérie Royale. Le 18 mai 1833 Lieut. Capit.ne de Caval.ie et V.ce Directeur de la dite R.le École milit.re et du dit Haras Royal.Par pat.es Roy.es 18 mai 1833. Lieut, de Caval.e dispensé de la charge d’adjud. Major en 2d de l’école d’équi-tation milit.ePar pat.es Roy.es 25 juin 1833 V. Directeur du haras de la race Roy.le des cheveaux à la Vénérie, avec traitement annuel de L. 2. M. et de la paye milit.e de Lieut. de cavalerie, comme en service militaire actif.V.to trovasi conforme le attestazioni stateci presentate. Savigliano il 1° settembre 1829[Nominato il 27 dicembre 1830 Aiutante Maggiore alla scuola militare di equitazione alla Venaria Reale. Il 18 maggio 1833 Luo-gotenente Capitano di Cavalleria e Vice Direttore della suddetta Reale Scuola militare e della detta Stazione di monta Reale. Per Patenti Reali 18 maggio1833 Luogotenente di Cavalleria dispensato dalla carica di Aiutante Maggiore in seconda della scuola di equitazione militare. Per Patenti Reali 25 giugno 1833 Vice Direttore della Stazione di monta per la razza Reale di cavalli alla Ve-naria con trattamento annuale di L. 2. M. (Lire 2.000) e la paga militare di luogotenente di cavalleria in servizio militare attivo]Il Col.lo Comand.te il Reg.to dei Dragoni del GenoveseCarlo Maffei Conte di Boglio[Conte Carlo Giuseppe Maria Maffei di Boglio, nato a Torino il 14 novembre 1772 e morto a Torino il 28 aprile 1856. Comandò il Reggimento dei Dragoni del Genovese dal 1824 al 1830]Adieu Français, voilà les armes que vous m’avez confié et je vais prendre celles de ma patrie.[‘L’epitaffio’ al centro dell’attestato ricorda che il Capitano Christille fu dell’esercito francese ma che ora serve l’esercito patrio]CAMPAGNENel 1807-1808 in Prussia - Nel 1809 in Austria - Nel 1810-1811 in Olanda - Nel 1812 in Russia - Nel 1813 in Sassonia - Nel 1814 a Champaubert (Francia), li 11 febbraio fece prigioniere il Generale Alsuffief Russo nel centro di sua Armata, avendolo condotto dal Maresciallo Marmont, indi con un suo Aiutante di Campo dall’Im-peratore; sull’istante fu nominato Cav.re della Legione d’Onore oltre a Cinquanta Marenghi, e trenta d’altri pel cavallo del prigioniere. - Li 12 luglio con ordine di S.A. il Duca di Berry decorato del Fior de Lis.Nel 1815 quello di Fiandra.FERITENel 1809 li 6 Luglio a Vagram un colpo di sciabola nella mano sinistra, ed una palla nella gamba destra. *Li 27 Luglio 1812 in Russia nella foresta avanti Viteps un colpo di lancia sotto il braccio destro e duo altri alla coscia sinistra; in occasione d’aver salvato il suo Colonnello** essendo preso prigioniere: li 18 febbraio1814 a Montmerel (Francia) una palla nella mano destra. Li 18 luglio 1815 a Vaterloo, nelle Fiandre, una palla nella spalla destra.*Li 25 luglio nella foresta avanti Viteps un colpo di sciabola nella coscia sinistra.** OllieriGatti Siro Cap. Forriere Fecit[Il disegno fu realizzato da “Gatti Siro, militare al servigio Sardo e figlio di un medico dell’Oltrepò” tratto da “Annali Universali di Medicina compilati da Annibale Omodei, Volume XLIX, fascicolo 145, Milano anno 1829, pag. 29”]

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Patente del 1858 del Capitano Christille (coll. Michel Christille) [Patente 1858]Cristille Pietro CristoforoFiglio di Cristoforo e di Giacomina Cristille, d’Issime, provincia di Aosta, nato il 7 genna-io 1787, di levata nel cessato Governo Fran-cese il 18 gennaio 1807 nella 5° Comp.a del 16° reggimento Cacciatori a Cavallo. Pas-sato nella Comp.a des Elites il 1° gennaio 1813; il 7 giugno 1814 passato Brigadiere; il 18 luglio passato nella Compagnia des Elites nel 2° reggimento Cacciatori a Ca-vallo; il 20 marzo 1815 nel 1° reggimento Cacciatori nella Vecchia Guardia a Cavallo; congedato il 31 ottobre 1815.Assentato al Servizio di S.M. Sarda il 22 di-cembre 1815 nel 6° squadrone dei Dragoni del Re; promosso Caporale il 1° febbraio 1817, Sergente il 1° maggio 1820, passato come tale nel 3° squadrone del reggimento Dragoni del Genovese; promosso Furrie-re il 1° settembre 1822 nel 5° squadrone; promosso Sottotenente il 1° marzo 1829;

promosso Aiutante Maggiore in 2° alla Regia Scuola Militare d’Equitazione il 27 dicembre 1830; promosso Luogotenente di Cavalleria il 18 maggio 1833; nominato Vice-Direttore della Regia Mandria della Venaria Reale con Regie Patenti del 1° giugno 1833; promosso Capitano di Cavalleria il 1° gennaio 1852 e collocato a riposo nello stesso giorno; collocato a riposo da Vide-Direttore della R. Mandria dei Cavalli il 1° marzo 1853. Ricevuto lire 400 come legatario di Napoleone 1° il 17 settembre 1857. Ricevuta la medaglia di Sant’Elena al n 553 il 15 gennaio 1858.CAMPAGNENel 1807-1808 in Prussia - Nel 1809 in Austria - Nel 1810-1811 in Olanda - Nel 1812 in Russia - Nel 1813 in Sassonia - Nel 1814 in Francia; l’11 febbraio a Champaubert fece prigioniere il Generale Russo Alsufief nel centro della sua armata, avendolo condotto dal Maresciallo Marmont, quindi con un suo Aiutante di Campo, dall’Imperatore Napoleone I; fu nominato sull’istante Caval-liere della Legione d’Onore al N. 45949 [in realtà 45349] di matricola, e ricevette anche 50 Napoleoni d’oro per ricompensa, ed altri 30 per cavallo del prigioniero. Il 10 luglio con ordine di S.A. il Duca di Berry fu decorato del Fior de Lis, nel 1815 in Fiandra. Fu poscia decorato dell’Ordine di Savoia, ove trovasi al N. 521 di matricola.FERITENel 1809 il 6 luglio a Wagram un colpo di sciabola nella mano sinistra ed una palla nella gamba destra. Il 25 luglio 1812 in Rus-sia, in una foresta dinanzi a Viteps, un colpo di sciabola nella coscia sinistra. Il 27 luglio avanti Viteps un colpo di lancia sotto il braccio destro e due altri alla coscia sinistra, in occasione di aver salvato il suo Colonnello che era stato preso prigioniero. Il 18 febbraio1814 a Montmères (Francia) una palla nella mano destra. Il 18 luglio 1815 a Vaterloo, nelle Fiandre, una palla nella spalla destra.[Da notare le differenze fra questa patente e quella del 1829, in quest’ultima lo stemma Sabaudo campeggia rispetto all’aquila di Napoleone, in questa del 1858 è data pari dignità ai due stemmi, aspetto certamente da mettere in relazione alla concomitante alleanza (1858-59) del Regno sardo con l’imperatore Napoleone III. In più in questa non compare più l’epitaffio alle armi dei francesi con la scritta ‘Adieu Français, voilà les armes que vous m’avez confié et je vais prendre celles de ma patrie’]

so, che con lui s’intratteneva molto, gliene abbia fatto omaggio come segno di profonda ammirazione e stima per il suo non comune valore di soldato. Se posso dire qualcosa di personale in tutto quanto ho ricor-dato, è ciò che ho provato quando con attenzione ho guardato l’unica fotografia del Capitano che ci è giunta: lo sguardo malin-conico di una persona che è passato nella storia vivendo pagi-ne di una tragedia senza limiti. Nessuno passa attraverso certe drammatiche esperienze senza esserne profondamente e per sempre segnato e anche Lui non l’avrà potuto fare. Ringrazio ancora Michele Musso che, con la sua caccia ai docu-menti, ha ulteriormente aggiunto, come racconterà, molti altri tasselli della vita dell’ intrepido Capitano. Si dice che i documen-ti vadano incontro a coloro che li cercano, e in questo caso, la massima ha profondamente ragione.

affetto. La figlia Delfina raccontava anche che il Re Vittorio Emanuele II, molto legato alla Venaria, andasse a incontrarlo spesso bevendo con lui una tazza di cioccolata. Il Christille con-servò la tazza che mostrava alla piccola Delfina quando ormai anziano era in congedo. Tale magnifica tazza è pervenuta alla famiglia insieme ai documenti e alle armi fino ai giorni nostri.Resta ancora una domanda insoluta a cui purtroppo i ricordi di famiglia non hanno dato una risposta. Il Capitano Christil-le viveva certamente in modo agiato ma non così lussuoso da giustificare un quadro così importante, dipinto nel 1855 dal pit-tore Marabotti ritrattista della corte sabauda dell’epoca, molto quotato. In un primo momento verrebbe da pensare che il suo figlioccio Achille gliene avesse fatto dono ma ciò sarebbe stato in profondo contrasto col suo carattere ricordato estremamente semplice. Non sembra molto fantasiosa l’ipotesi che il Re stes-

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dopo la Restaurazione nel 1814, in precedenza era Piazza Vitto-ria, oggi Piazza della Repubblica. Facile pensare che i torinesi ‘bogia nen’ abbiano ancora per molto tempo chiamato quella piazza Vittoria, poi dimenticata e confusa con la più nota Piazza Vittorio.In Piazza Emanuele Filiberto il capitano si era trasferito dopo il primo marzo del 1853 dalla Mandria della Venaria Reale, quan-do andò in pensione come Direttore della Stazione di monta equina per la Razza Reale dei Cavalli. A gennaio dello stesso anno era morto, lì alla Mandria di Venaria, il suo segretario particolare Joseph-Aimé Alby all’età di 50 anni - figlio di Marie-Elisabeth Christille (1782-1859) cugina in terzo grado del capi-tano e di Jean-Joseph Alby (1773-1844) - colui che rivoluzionò l’apicoltura a livello internazionale introducendo l’arnia a favo mobile, detta appunto ‘Arnia Alby’.A questo punto della ricerca era utile conoscere le origini del capitano e quindi consultai l’archivio parrocchiale di Issime e l’Archivio Storico di Aosta.Pierre-Christophe Christille nacque nel Duarf (Capoluogo) di Issime in una casa2 che sorgeva ai margini della piana alluviona-le su cui si è sviluppato il Capoluogo, al riparo dalle esondazioni del Lys, in quella parte chiamata nel Catasto Sardo del 1772 “au Village au-delà de l’Eau’. Fino alla metà del XX secolo scorreva un canale irriguo, un ‘ru’, che divideva il capoluogo in due centri, quello principale in cui sorge la parrocchiale e l’altro ‘oltre l’ac-qua’, del canale appunto, dove nacque il Capitano, costituito da una serie di case allineate lungo un camminamento pedonale3.Pierre-Christophe Christille vide la luce nei primi giorni di gen-naio del 1787 ed il 7 dello stesso mese fu battezzato nella chiesa parrocchiale di San Giacomo. Dall’atto di battesimo sappiamo che era figlio di Jean-Christophe e di Jacobee, nata Jean-Ber-nard Christille; padrino di battesimo era un certo Pierre-Joseph ‘filius Joannis advocati Albert’ e la madrina la zia materna Jean-ne-Marie figlia di Jean-Bernard Christille. Era l’ultimo di tre fra-telli e due sorelle: Jean-Pantaleon (1773-1838), Marie-Jacobée (1775), Mathieu-Christophe (1777-1856), Jean-Jacques (1780), Marie-Margueritte (1783).Il padre, Jean-Christophe Christille capomastro, nacque ad Is-sime il 21 gennaio 1726, figlio di Christophe e di Jacobee, era del villaggio di Crose ed apparteneva a quel ramo dei Christille

Era il 1897 quando l’avvocato Lin-Louis Christillin Loeisch-Mattisch (1814-1904) pubblicò il libro La Vallée du Lys. Études historiques. Per la prima volta venivano raccontate le gesta e gli onori del capita-no Christille.

In un articolo comparso sul Messager Valdôtain del 1916 allo scoppio del primo conflitto mondiale, articolo in cui, attraverso la figura del capitano, si esaltava e valorizzava la lunga tradizio-ne militare valdostana, ricaviamo qualche notizia biografica in più, fra le quali la data di morte del capitano.Altri autori hanno scritto della figura del Capitano Christille, senza nulla aggiungere di quanto già detto da Christillin. Sen-nonché qualche anno fa in casa dell’ingegnere Renato Alby di Torino, originario di Issime, ebbi modo di ammirare il ritratto del ‘Capitano Christille’. Era in bella mostra nella ampia entrata del signor Alby, in corso Duca degli Abruzzi. Il Capitano era ritratto in una stanza con finestra aperta sulla Venaria Reale, Reggia Sabauda ben conosciuta dai torinesi. L’ingegner Alby mi riferì che il ritratto era arrivato in casa Alby non per linea pater-na, come uno può immaginare, ma attraverso il suo bisnonno materno Achille Monneret de Villard, nato a Torino nel 1826, figlioccio del Capitano Christille, e aggiunse che il Capitano visse alla Mandria della Venaria Reale e che morì a Torino in piazza Vittorio. Mi incuriosì questa figura austera. Iniziai così la ricerca, pri-ma nella parrocchia più vicina a Piazza Vittorio, ma l’esito fu negativo. Mi soccorse l’anagrafe di Torino, in cui ricavai che il signor Pietro Cristille era morto all’improvviso di ‘apoplessia fulminante’ nella sua abitazione in Piazza Emanuele Filiberto, il 1 agosto del 1865 alle 12.30. Abitava in quella parte della piazza, al n. 3 (3° piano) di casa Cavalli, realizzata su progetto di Filip-po Juvarra fra il 1729 e il 1733, a due passi da Palazzo Reale. Il funerale si svolse il 3 agosto nella parrocchia di Sant’Agostino già di San Giacomo e San Filippo in via Santa Chiara, e lo stesso giorno fu sepolto in terra nel cimitero monumentale. L’atto di morte n. 100 nella parrocchia è a firma del vicecurato Modesto Perotti e dei dichiaranti Cav. Achille Monneret de Villard di 39 anni e Gioanni Sotteri di 47anni.Perché la tradizione orale della famiglia Alby fa risalire la morte in piazza Vittorio? Piazza Emanuele Filiberto fu così chiamata

Il testamento del Capitano Christille

mIChele musso1

1 Ringrazio per il prezioso aiuto nella lunga ricerca sul Capitano Christille: il parroco di Issime, Giuseppe Anfossi (vescovo emerito), Michel Chri-stille (di Saint-Marcel, discendente del Capitano Christille), Roger Artaz, Omar Borettaz, Adriana Meynet, don Saverio Vallochera, Renato Alby, Irene Alby Luda di Cortemiglia, Giovanna Nicco, Donatella Martinet, Claudine Remacle, Gian Maria Soudaz notaio, Luigi Busso, Nicola Linty, don Rinaldo Venturini (parroco di Saint-Marcel), Alessandro Celi, Laura Serdoz anche per la gentilezza e sensibilità (Archivio Vescovile di Aosta), Luisella Ronc, Guido Pession, Barbara Ronco.

2 La casa in cui nacque sorgeva lungo la mulattiera che dal capoluogo sale ai villaggi della costa e quindi al Vallone di San Grato. L’edificio restò a lungo in stato di abbandono, fu quindi ridotto a rudere nel 1995.

3 Oggi i due centri sono separati dalla strada provinciale.

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I Christille erano divisi a quel tempo in diversi rami, come si legge in uno scritto5 del 1850 dell’avvocato Louis Christillin Loeisch-Mattisch (1776-1859), padre del già citato Lin-Louis. Il brano fa riferimento a Marie-Elisabeth Christille (1782-1859) cugina in terzo grado del capitano e moglie di Jean-Joseph Alby (1773-1844), notaio, cancelliere, segretario comunale, giudice di pace: ‘La detta vedova Alby nata Christille, del terzo ramo dei Christille o Ricourt è considerata cugina […] in quarto grado del notaio cancelliere Jean-Joseph Christille6 del primo

chiamato nel dialetto di Issime Pöizersch. Si sposò una prima volta con Jeanne figlia di Jean-Jacques Linty del villaggio di Vettschus, il 15 marzo 1765, dalla quale ebbe un figlio Jean-Jo-seph nato a Brusson il 15 dicembre 1765.Il padre del Capitano rimasto vedovo, si risposò il 21 novembre 1772 con Marie-Jacobee, madre del Capitano, nata ad Issime nel villaggio di Rickurt di mezzo il 13 novembre 1746, figlia di Jean-Bernard Christille4 et Marie Magdalena nata Jean-Pierre Querra (del villaggio di Chröiz, Vallone di San Grato).

Il Capoluogo di Issime (fine anni ’20 del ‘900). Nella parte alta della foto il gruppo di case in cui la famiglia Christille abitava. (Coll. Imelda Ronco)

4 Jean-Bernard Christille possedeva anche un’abitazione, prati e campi nel villaggio di Rickurt, Valbona, Karrutzu. Jean-Bernard era di quel ramo dei Christille che in seguito prese il nome di Karrutzu. Il toponimo Karrutzu, di probabile derivazione dal francese ‘carrière’ cioè cava, indica un luogo lungo le pendici del monte Huare sotto il villaggio di Valbona nelle vicinanze di una cava per l’estrazione delle pietre da calce. Tale toponimo ha dato il soprannome ad un ramo della famiglia Christille che in quel luogo si era stabilita. Dal catasto Sardo del 1772 sappiamo che un certo Jean-Pierre (morto fra il 1785 e il 1787, cugino primo del nonno materno, Jean-Bernard, del capitano Pierre-Christophe Christille) figlio di Joseph, possiede 756 tese a Karrutzu, e cioè 2.650 metri quadri di campi, prati, pascoli e casa, ma possiede anche domicilio e cortile a Valbona di 31 tese (108 metri qua-dri), e un domicilio e prato nel piano, nel villaggio di Rickurt di 464 tese (1625 metri quadri). Jean-Pierre ebbe una numerosa discendenza, fra questi Joseph nato nel 1744, che sposa nel 1777 Marie-Antoniette figlia di Pierre Consol. Questi ultimi ebbero sei figli, Joseph 1779, Marie-Marguerite 1780, Jean-Domenique 1782, Jean-Jacques 1785, Pierre-Joseph 1787, Jean-Domenique 1796. Quest’ultimo sposa nel 1823 Marie-Christine figlia di Jean-Antoine figlio a sua volta di Jean-Antoine Stévenin (1716-1786) famoso impresario. La famiglia dell’impresario Stévenin gestì proprio la cava di calce di Valbona (vedi Augusta 2013 articolo di Claudine Remacle). Jean-Domenique e Marie-Christine Stévenin ebbero due figli, Pierre-François (Issime 1836 - Gap 1907) che ricostruirà la casa di Karrutzu nel 1869, come da millesimo sulla trave maestra, e Jacques-Joseph chiamato Régis (1840-1922). Secondo il racconto orale questi due fratelli scesero da Karrutzu sotto Valbona dove abitavano per stabilirsi nel piano di Issime; e così Pierre-François edificò la propria casa nel 1884 nei pressi del villaggio della Riva, mentre Régis (Jacques-Joseph) si stabilì nel villaggio di Seingles superiore dove costruì nello stesso anno del fratello la propria abitazione. In questo caso fu il soprannome di famiglia a dare il nome al villaggio di Karrutzu (Riva) nel piano di Issime, villaggio ancora oggi abitato dalla discendenza di Pierre-François, proprio nella casa che questi edificò.

5 Manoscritto di istruzioni genealogiche della famiglia Alby eseguite dall’avvocato Louis Christillin Loeisch-Mattisch (1776-1859). L’originale non è più rintracciabile, ma esistono due copie, una a Parigi (non completa), l’altra a Torino nell’archivio di famiglia di Emmanuel e Giulio Alby. Il testo è stato riportato e tradotto dal francese da Renato Alby di Torino nel volume inedito ‘La famiglia Alby : notizie storiche genealogiche e biografiche della casata raccolte e narrate da Renato Alby’ dattiloscritto del 1982.

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nel 1805, e Pierre-Christophe nato nel 1809. Il terzo Mathieu-Christophe sposò Maria Agnese Rogeri figlia di Andrea origi-nario di Sedrina (provincia di Bergamo) e di Marie-Antoinette Freppa di Issime, i quali ebbero sette figli, Jean-Mathieu (1810-1812), Jean-Mathieu (1813), Marie-Jacobee (1814), Marie-Chri-stine (1818), Jacques-Germain (1821), Marie-Catherine (1824) ed infine Ludovica Veronica (1830).Di tutte le persone sopraindicate non trovai più traccia nei re-gistri parrocchiali di Issime, comprese le sorelle del Capitano, ad eccezione, come già detto, degli atti di morte di Marie-Mar-gueritte e Marie-Christine Christille, nipoti del Capitano. Molto probabilmente i Christille erano emigrati. Ad Issime, come in tutte le Alpi, i movimenti migratori non hanno mai smesso di animarne la vita. La scarsità di lavoro spingeva molti, in special modo gli uomini, ad emigrare. Un’emigrazione che spesso era temporanea, ma che per molte famiglie diventava definitiva.Ma dove erano emigrati? Ancora una volta mi soccorse l’artico-lo comparso sul Messager Valdôtain del 1916, in cui si afferma-va che il Capitano Christille, ormai in pensione, spesso faceva ritorno in Valle d’Aosta per recarsi a Sarre, dove aveva delle proprietà. Pensai che avrei ancora potuto rintracciare qualche suo discendente. Cercai sull’elenco telefonico e uscirono una quindicina di Christille, due ad Aosta, uno a Brusson, uno a Sarre e molti a Saint-Pierre. Scartai i Christille di Brusson, che sapevo essere di quel ramo chiamato ad Issime Picksch ‘recen-temente’ emigrati in quel paese. Per farla breve, per pura fortu-na, o forse per altre vie!? il primo che contattai, un certo Michel Christille, mi disse alla domanda se fosse per caso il discenden-te di un certo Capitano Christille: «Sì, siamo originari di Issime, so che in famiglia avevamo un militare di gran valore, forse un carabiniere. Possediamo una patente sulle sue imprese». Il Ca-pitano Pierre-Christophe Christille, l’eroe di Champaubert che il 10 febbraio 1814 catturò al centro della sua armata il generale russo Olsufiev, per questo insignito sul campo della Legione d’Onore dall’Imperatore medesimo, di tutto ciò cosa era rima-sto? Sic transit gloria mundi! Ed è giusto che sia così! Ciò che conta è la ‘traccia’ che si lascia, non l’essere ricordati.Michel è proprio il discendente diretto di un fratello del Capita-no, Mathieu-Christophe. Quest’ultimo era emigrato con l’intera famiglia da Issime a Saint-Marcel all’inizio degli anni ’30 dell’800. Mathieu-Christophle Christille compare in un documento7 del 1836 in qualità di ‘chef-maçon’, in cui risulta già domiciliato a Saint-Marcel. D’altronde la figlia Ludovica Veronica di sei anni morirà nel 1837 a Saint-Marcel; Jean-Mathieu nato ad Issime nel 1813 sposerà nel 1837 Marie-Magdalene Theodule e morirà a Diemoz nel 1891; Jacques-Germain nato ad Issime nel 1821 chiamato a Saint-Marcel Zachén sposerà nel 1858 Marie-Teoti-ste Denchasaz; Marie-Catherine nata ad Issime nel 1824, avrà un figlio illegittimo nato a Sarre nel 1846, Jean che però morirà un’ora dopo la nascita. La famiglia abitava nella casa a fianco della chiesa parrocchiale di Saint-Marcel in località Cretaz, dove Mathieu-Christophe morì il 3 marzo del 1854 e dove morì anche la moglie, cognata del Capitano, Maria Agnese Rogeri, il 19 febbraio 1864, che aveva 79 anni ed era nata a Montalto,

ramo del capoluogo, gran letterato, morto nel 1789; cugina in terzo o quarto grado di Pierre-Christophe Christille del secon-do ramo del capoluogo decorato del Giglio di Francia, Legio-nario di Francia, capitano titolare di Cavalleria e vice direttore della tenuta reale della Mandria; cugina in terzo grado del Sig. Jean-Joseph Christille, dapprima prete secolare, poi regolare dei Padri della Carità e come tale missionario in Francia e parti-colarmente in Savoia, nuovamente passato secolare e divenuto vicario a St. Vincent, a Torgnon, a Issime, rettore a Excenex, oggi maestro di scuola comunale di grammatica latina a Issime, del terzo ramo dei Christille des Croses.’Torniamo alla famiglia del Capitano; tre dei fratelli si sposarono ad Issime, il primo, il fratellastro, Jean-Joseph, sposò nel 1803 Jeanne-Marie Christille, figlia di Jean-Jacques-Hieronime, dalla quale ebbe due figlie nate e vissute ad Issime nel Capoluogo, le quali morirono nubili, entrambe lo stesso anno, Marie-Margue-ritte (1809-1876) e Marie-Christine (1816-1876). Il secondo, Je-an-Pantaleon sposò nel 1805 Anne-Marie Chamonal del fu Jac-ques, ebbero due figli nati ad Issime, Marie-Margueritte nata

Issime, Capoluogo. La casa in cui nacque il Capitano Chri-stille è quella con la ringhiera in legno ad assi orizzontali. La casa del nipote Jacques-Germain (1821-1889) è quella più a destra, a metà fra le due è la casa che appartenne al cugino del Capitano, il notaio Jean-Joseph Christille (1754-1789). (Coll. Elis Colombini – Modena)

6 Jean-Joseph Christille notaio, figlio di Jean-Joseph e di Marie Cervier, nato ad Issime il 1 febbraio 1754, e morto nel 1789. Sposa il 15 ottobre 1778 Françoise Christillin di Jean-Pierre, vivevano nella casa di famiglia nel capoluogo di Issime, oggi di proprietà di Alda Busso Héntsche ved. Chamonal, già Storto. Gli attuali Christille del capoluogo discendono dal notaio Jean-Joseph.

7 Ringrazio Roger Artaz di Saint-Marcel per avermi fornito copia del documento e Claudine Remacle per avermelo segnalato.

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muore Anne-Marie Chamonal moglie di Jean-Pantaleon, aveva 43 anni. L’anno seguente, il 21 febbraio del 1817, Jean-Pantaleon si risposa a Sarre con Jeanne Christillin di Christophe origina-ria di Issime ma dimorante a Sarre. Dal secondo matrimonio nasce nel 1819 Pierre-Joseph.Di tutti i figli di Jean-Pantaleon l’unico che ebbe discendenza fu Jean-Jacques, nato nel 1813, di professione maçon, che sposò Marie-Elisabeth Pallais di Sarre. Ebbero quattro figli, Jean-Jo-seph-Romain (1839), Marie-Caroline (1842) e Joseph-Alexandre (1840) e Louise. Da Joseph-Alexandre discendono gli ultimi Christille di Sarre. Abitavano a Sarre nei pressi della chiesa par-rocchiale di San Maurizio, in quella parte del paese denominata ‘Ma de Sainte Helène’, in una casa oggi non più di proprietà dei Christille, che reca in facciata un piccolo affresco in cui è ritratto San Maurizio.Il Capitano Christille fu un personaggio pubblico, Vice-Diret-tore della Scuola Reale Militare d’Equitazione e Direttore della Stazione di monta equina per la Razza Reale dei Cavalli, valeva quindi la pena fare ricerca sugli organi di stampa di allora. Pro-vai a cercare nell’archivio storico disponibile online de La Stam-pa, trovai nella Gazzetta Piemontese del 13 aprile 1880, nelle ‘Deliberazioni della deputazione provinciale di Torino nell’adu-nanza di martedì 30 marzo 1880’ alla voce “Tutela delle ope-re pie”, la n. 27: “Issime – Congregazione di carità – Autorizzo l’accettazione di un’annualità di L. 20 per vent’anni consecutivi dal fu signor Capitano Pietro Cristoforo Cristille, e l’esazione di crediti da convertirsi in certificato nominativo sul Debito pub-blico dello Stato”.Questa scoperta apriva nuovi orizzonti di ricerca e nuovi si-gnificati. Un lascito simile comportava una precisa volontà te-

come indicato nell’atto di morte della parrocchia di Saint-Mar-cel. Ancora oggi Michel possiede parte della casa Christille a Saint-Marcel.Rimaneva da capire il perché il Capitano si recasse a Sarre. Le ricerche presso l’Archivio vescovile di Aosta e l’aiuto di Adria-na Meynet di Sarre mi portarono diritto agli altri discenden-ti. Jean-Pantaleon, il fratello del Capitano nato nel 1773, si era trasferito con la moglie Anne-Marie Chamonal e i primi due figli a Sarre fra il 1813 e il 1816. Il 16 gennaio del 1816 nasce-va a Sarre Jean-Baptiste, che fu battezzato a casa sotto condi-zione perché rischiava di morire. Il padrino era un certo Labaz, abitante a Villeneuve, e madrina Marie-Chatherine moglie di Jean-Baptiste Laba abitante a Saint-Pierre, entrambi originari di Issime.Nell’atto di morte di Jean-Pantaleon, decesso avvenuto alle 3 del mattino del 9 aprile 1838 nella ‘maison Sainte Helène’ a Sarre, è dichiarato di professione maçon, nativo di Issime, dimorante a Sarre e vedovo di Anne Chamonal, sposato con Jeanne Christil-lin, figlio del fu Christophe Christille e di fu Jacobee Christille. Chi firma l’atto di morte è il figlio, Jean-Jacques di 25 anni e Pierre Christillin di 51 ‘demeurant à Sarre par intervalle’. Jean-Jacques è un quarto figlio di Jean-Pantaleon nato nel 1813, non conosciamo però il luogo della nascita. Da questi due ultimi atti, di nascita il primo, e di morte il secondo, esce un’imma-gine dell’emigrazione legata alla ricerca del lavoro che portava le famiglie a spostarsi sul territorio, ma è anche molto evidente quella fitta rete di rapporti sociali fra compaesani che garantiva-no appoggio e sicurezza, così come d’altronde succede oggi per chi è costretto ad emigrare.Ma torniamo ai Christille di Sarre, il 21 dicembre del 1816

La famiglia del capitano Pierre-Christophe Christille

1 Marie-Jacobée 1764 < Jean-Pantaleon (1732 -1790)2 Jean-Joseph 29 aprile 1770 sposa Marie-Anne Chouquer (1733-1800)3 Marie-Antoinette 30 settembre 1771 abitano nel villaggio di Crose

Joseph-Mathieu (1810-1878)< 4 Jean-Pantaleon (1774 -1831)5 Marie-Jacobée 6 gennaio 1778 < 1 Christophe 1700

sposa Jacobée6 Pierre-Joseph 18195 bambina muore subito 18184 Jean-Baptiste 18163 Jean-Jacques 1813 sposa in 1. nozze nel 1765 Jeanne Linty2 Pierre-Christophe 1809 1* Jean-Joseph (1765 - 1820) < Jean-Christophe (1726-1805?)1 Marie-Marguerite 1805 < 2 Jean-Pantaleon (1773-1838) sposa in 2. nel 1772 Marie-Jacobée Christille (1746 -1813)

3 Marie-Jacobée 6 settembre 1775 di Jean-Bernard (1711 -1777) Christophe Christille1 Jean-Mathieu 1810-1812 < 4 Mathieu-Christophe (1777 -1856) e di Marie-Magdalene (muore 1781) di Jean-Pierre Querra, di Jacques, sposa Antonia2 Jean-Mathieu 1813-1891 5 Jean-Jacques 1780 abitano nel capoluogo di Issime - Duarf †1703-04 non ad Issime3 Marie-Jacobée 1814 6 Marie-Margueritte 1783

4 Marie-Christine 1818 7 Pierre-Christophe (1787-1865) 2 Jeanne-Baptistine 17015 Jacques-Germain 1821-18896 Marie-Catherine 1824 1 Jean-Pantaleon (1736 -1803)7 Ludovica Veronica Issime (1830 -1837) 2 Jean-Joseph (1739 -1788)

3 Marie-Margueritte 1744 3 Jean-Joseph 17044 Marie-Margueritte 1747 sposa nel 17355 Marie-Margueritte 1748 Marie-Elisabeth Troc (muore 1765) di Jean

1 Jean-Joseph 8 novembre 1778 < 6 Jean-Christophe 1755 abitano nel villaggio di Ricourt di mezzo2 Jean-Pantaleon-Christohpe (1780 -1781) sposa nel 1776 Marie-Françoise Freppa

Joseph-Aimè Alby < 3 Marie-Elisabeth 1782 - 1859 di Jacques[tailleur].* Issime, 26 settembre 1803 sposa nel 1803 Jean-Joseph Alby [greffier] 7 Jean 1759† Venaria, 17 gennaio 1853 4 Antoinette-Françoise (1785 -1794)

5 Marc-Christophe (1787 -1789)6 Jacques-Christophe 1794 (morto subito)

*avrà due figlie Marie-Margueritte (1809-1876) e Marie-Christine (1816-1876)

L’Albero genealogico del Capitano Christille.

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tario di Napoleone. Denaro che ricordava morte e sofferenza.Ma la vera sorpresa è stato il ritratto del Capitano Christille. Dipinto nel 1855 dal pittore Marabotti, ritrattista della corte sa-bauda dell’epoca, probabile dono del Re Vittorio Emanuele II, con il quale il Capitano si intratteneva spesso, come segno di profonda ammirazione e stima per i servizi prestati alla corte sabauda per molti anni. Per il suo ritratto dispose quanto segue:«Lego ancora al detto mio cugino il mio ritratto, le de-corazioni ed i brevetti di servizio, colle carte di famiglia, quali gli saranno rimesse dal mio esecutore testamentario pregandolo di conservare i titoli di famiglia per l’uso dei parenti tutti, e di rimettere al Comune di Issime il detto mio ritratto quando gliene fosse fatta regolare domanda».Il cugino Joseph-Mathieu Christille (1810-1878), non scese mai a Torino per ritirare il ritratto, le decorazioni e i brevetti di ser-vizio. Non era un viaggio facile allora. Tutto rimase nella casa di Achille Monneret de Villard, come l’abbiamo oggi ritrovato.Perché donare il ritratto al Comune. Avere partecipato a una campagna di guerra e avere combattuto in battaglia costituì, nella Valle d’Aosta dei secoli passati, un importante titolo di merito e una fonte di indiscusso prestigio sociale, indipenden-temente dal ceto di appartenenza del reduce. Testimoniano questa realtà le numerose epigrafi nei cimiteri valdostani che ricordano tra i meriti dei defunti l’avere combattuto in Crimea, per l’Indipendenza d’Italia o, ancora, in Libia. Analoga rilevan-za dell’esperienza bellica è riscontrabile sui giornali locali, che fino alla seconda guerra mondiale ricordano sempre lo status di reduce nei necrologi. Tale rilievo deriva dall’importanza che l’attività militare ebbe nel passato della Valle d’Aosta e della conseguente necessità per i Valdostani di praticare il mestiere delle armi, ben esem-plificate dalla istituzione della compagnia degli arcieri nel 1206 e dei battaglioni della milizia locale, la prima degli Stati sabau-di, nel 1536. Da questa situazione deriva il prestigio sociale del combattente, prestigio ulteriormente accresciuto dopo il ven-tennio napoleonico. L’esperienza sotto le aquile dell’Empereur diede origine a un vero e proprio mito, sostenuto dai ricordi e dall’attività politica dei reduci, nonché dall’associazionismo sostenuto in particola-re da Napoleone III, che creò nel 1857 la Medaglia di Sant’E-lena, un riconoscimento destinato agli oltre 400.000 reduci na-poleonici all’epoca ancora vivi. Testimoniano della persistenza del mito napoleonico in Valle le poesie del canonico Gérard per i reduci di La Salle, le memorie dell’abbé Cerlogne relative al padre, veterano di Napoleone, nonché la diffusione dei canti propri dell’epopea del Grande Corso.Destinare il proprio ritratto al Comune, così come elencare le proprie decorazioni nel testamento, costituiva quindi una prati-ca perfettamente inserita nelle pratiche sociali e nel sistema di valori proprio della Valle d’Aosta del XIX secolo8.

Con la scoperta del testamento il nodo si è sciolto, il ritratto in qualche modo è arrivato ad Issime come da sua volontà.Riemerge così la figura del Capitano Christille, a 150 anni dalla morte, come esempio di tenacia, generosità, sensibilità, altru-ismo e alto senso del dovere, tracce da seguire coi tempi che corrono!

stamentaria, inoltre il legame con Issime, domanda che sia il sottoscritto sia la famiglia Alby di Torino ci facemmo fin dall’i-nizio della ricerca, si era mantenuto nonostante gli interessi del Capitano e dei suoi familiari fossero ormai altrove.Mi recai quindi in Archivio di Stato di Torino, alla ricerca del testamento del Capitano, lo trovai, era lì depositato da 153 anni. Testamento dettato dal testatore al notaio Giuseppe Tuvano il 12 giugno del 1862 alle ore 17.30, nello studio del notaio in via Santa Teresa 12, ed insinuato il 27 giugno del 1862 col n. 311, repertorio 317. L’ho trascritto per intero con il prezioso aiuto del notaio Gian Maria Soudaz che qui ringrazio per la professio-nalità, la disponibilità e l’accoglienza che mi ha riservato.Ritrovai, con stupore e meraviglia, leggendo il testamento tutti i personaggi che avevo incontrato nella lunga e faticosa ricerca, le due sorelle Christille, Marie-Margueritte e Marie-Christine, figlie di Jean-Joseph, morto a Saint-Pierre il 19 giugno 1820 a 55 anni, capomastro ed anche capace, se si era guadagnato il titolo di ‘architectus’, come indicato nell’atto di morte. I cugi-ni di Issime del villaggio di Crose, Joseph-Mathieu Christille (1810-1878), figlio di Jean-Pantaleon (1774-1831), cugino primo del Capitano. I parenti di Sarre, a cui il Capitano estinse il debito di 6.600 lire. Denaro che probabilmente aveva prestato al fra-tello, Jean-Pantaleon, per acquistare casa e terreni nel comune di Sarre. I parenti di Saint-Marcel, a cui lasciò gli ‘stabili da lui posseduti’ nel detto comune, che già utilizzavano. Achille Mon-neret de Villard, il figlioccio del Capitano, il bisnonno di Renato Alby, che ritrovai come esecutore testamentario. E quelle 400 lire, di cui sulla Gazzetta Piemontese del 1880, che lasciò ai Po-veri della Parrocchia di Issime, la stessa cifra che ricevette nel 1857, con la medaglia di Sant’Elena, in qualità di “erede” lega-

Piazza Emanuele Filiberto, estratto da una pianta di Torino: “Piano generale della città di Torino. Litografia f.lli Doyen e Compagnia, 1852” . Il cerchio indica il palazzo in cui abitava il Capitano Christille (Coll. Francesca Filippi)

8 Ringrazio il dr. Alessandro Celi per avermi suggerito questa lettura sulle volontà testamentarie del Capitano Christille.

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di Gio Giuseppe Cristille deceduto ab intestato7 in Francia verso l’anno mille ottocento cinquantadue e pel caso che detta casa venisse ad essere rivendicata contro il mio possesso già da vent’anni circa e così facendosi luogo al pagamento del capitale mio avere di lire mille, in tal caso lego alle stesse mie nipoti e collo stesso diritto di accrescimento e riversibilità dall’una all’al-tra gli interessi del detto capitale loro vita natural durante.Lego alle stesse mie nipoti e sempre col diritto d’accrescimento lor vita durante la goldita del giardino e di parte di una pezza prato con boschi denominata la Riva questa sino alla linea ter-minante con la attigua casa8 insieme recentemente venduta dal mio nipote Giacomo Cristille a certo Jaccon9 e così in linea retta della facciata di detta casa da levante a cadente.Lego pure alle medesime l’usufrutto della piccola pezza prato denominata Richermino10, e recentemente da me acquistata dai miei nipoti Cristille, e ciò oltre li assegni di cui infra col peso però che a partire dal principio dal secondo anno del decesso di me testatore esse legatarie facciano seguire nella Parrocchia di San Giacomo in Issime annualmente e durante la goldita d’usu-frutto un servizio funebre pel riposo dell’anima mia.TERZO Lego a Giuseppe Matteo Cristille11 del fu Giovanni Pantaleone12, mio cugino, e nel caso che non voglia o non pos-sa accettare questo legato, ai suoi figli maschi nati e nascituri, la proprietà delli stabili tutti il di cui usufrutto e come sovra nel precedente articolo legato alle mie nipoti, e così compresa anche la proprietà della casa, ed ove d’uopo, nel caso di rivendi-cazione, del capitale mio avere, avvertendolo ad ogni buon fine che dovrà mantenere viva la mia ipoteca inscritta.Questo legato è fatto colla condizione che il legatario faccia a proprie spese seguire in Issime nel giorno del mio decesso li funerali d’uso secondo il mio grado con messa cantata e quindi cessato l’usufrutto delle sorelle Cristille farà seguire annual-mente un servizio funebre in Issime a suffraggio dell’anima mia con messe e ciò per la concorrente di lire dieci annue, ed inoltre pagherà annualmente alla Cassa dei Poveri di quella Parrocchia d’Issime sotto il titolo di S. Giacomo lire venti e ciò per il corso d’anni venti13, e farà egualmente le occorrenti spese funebri al decesso delle usufruttuarie.

TESTAMENTO PuBBLICO DELL’ILLuSTRISSIMO SIGNOR CAPITANO DI CAVALLERIA IN RITIRO PIETRO CRISTOFORO CRISTILLE

Repertorio N. 17Insinuato li 27 giugno 1862

N. 31112 giugno 1862

L’anno mille otto cento sessanta due alli dodici del mese di giugno, circa le ore cinque e mezzo pomeridiane in Torino nel mio studio allo terzo piano della casa Giroldi

via Santa Teresa n. 12Avanti di me Cav.re Giuseppe Tuvano Regio Notaio Certifica-tore alla residenza di Torino ed alla presenza delli Signori Not Salvatore Pelizza nato a Valenza esercente e dimorante in Ni-cellino1, Alessandro Cattocchio nativo di Viù, Felice Sibille vo-lontario al demanio nato a Chiomonte e Francesco Zanetti ex fondachiere2 nato a Torino ove tutti e tre dimorano, testimoni richiesti cogniti idonei, e col testatore meco sottoscritti.Personalmente comparso il Signor Capitano di Cavalleria in ritiro Pietro Cristoforo Cristille del fu Giovanni Cristoforo de-corato della croce della Legion d’Onore e di quella di Savoia e della Medaglia di Sant Ellena nato in Issime Circondario di Aosta domiciliato in questa Città, persona a me cognita, sano di mente e di tutti gli altri suoi sensi, il quale volendo fare il suo testamento Pubblico ha dichiarato a me notaio alla presenza dei testimoni la sua volontà nel modo e tenore seguente, la quale ridussi in iscritto esso stesso testatore dettante3.PRIMO Revoco ed annullo ogni mio precedente testamento volendo che questo solo sorta il pieno suo effetto.SECONDO Lego alle mie nipoti Maria Margarita e Maria Cristina figlie di Giovanni Cristille4 l’usufrutto e goldita5 loro vita natural durante con diritto d’accrescimento6 della casa si-tuata nel luogo di Issime che io tengo in possesso in dipendenza di mio credito di lire mille circa verso l’eredità di Gio Battista

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1 Nicellino così letteralmente nel testo, verosimilmente Nichelino.2 Venditore a ritaglio di panni e drappi.3 Il testamento fu dettato dal testatore al notaio.4 Jean-Joseph Christille (Brusson 1865 – Saint-Pierre 1820) fratellastro del Capitano Christille. Sposò nel 1803 Jeanne-Marie Christille figlia di

Jean-Jacques-Hieronime. Ebbero due figlie: Marie-Margueritte (1809-1876) e Marie-Christine (1816-1876). 5 Corrisponde al piemontese ‘godia’, ed indica il godimento del bene.6 Con ‘diritto di accrescimento’ si intende che il venir meno di un coerede farà accrescere la sua quota a quella dell’altro.7 Senza testamento.8 La casa ristrutturata da Jean-Jacques Jaccond nel 1862 si trova nel Capoluogo di Issime all’attuale n. 39 ed è oggi di proprietà di Lea Consol ved.

Lazier, già di Filippo Consol e Lugina Yon. 9 Jean-Jacques Jaccond (1811-1873) di Jean-Jacques del fu Joseph-Pantaleon e di Jeanne-Marie Pra, muratore sposò nel 1834 Marie-Christine Tou-

sco di Jean-Barthelemy; ristrutturò nel 1862 la casa acquistata da Giacomo Christille nel Capoluogo di Issime, come da iniziali e data sul colmo del tetto; costruì le strutture d’alpeggio di Boalma Lundja nel Vallone di Bourinnes nel 1871, muore in Francia a Montrond ‘Hautes Alpes’.

10 D’Ritscharmuru è una porzione del territorio di Issime compresa fra il villaggio di Gran Tschamp e quello della Cugna, in parte un tempo coltiva-to. La porzione di cui nel testamento fu in seguito acquistata dalla famiglia Stévenin Amédesch originaria di Gaby, ed è chiamata ‘La Cartounò de Marguereiti’ cioè la Quartenata di Margherita (la quartenata è un’unità di misura agraria che ad Issime corrisponde a 609 metri quadri).

11 Joseph-Mathieu Christille (Issime, 14 aprile 1810 – 11 dicembre 1878), figlio di Jean-Pantaleon (1774-1831), cugino primo del Capitano, e di Marie-Barbre Christille (1770-1829).

12 Jean-Pantaleon Christille (28 agosto 1774 - 6 maggio 1831), figlio a sua volta di Jean-Pantaleon (1732-1790) fratello del padre del Capitano, che sposò il 1. febbraio 1803 Maria-Barbre Christille (1770-1829).

13 Il legato fu eseguito nel 1880 come da pubblicazione sulla ‘Gazzetta piemontese’del 13 aprile. “Per la Provincia – Deliberazioni della deputazio-ne provinciale di Torino nell’adunanza di martedì 30 marzo 1880. Tutela delle opere pie: 27. Issime – Congregazione di carità – Autorizzo l’ac-

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La prima pagina del testamento del Capitano (Archivio di Stato di Torino)

gli interessi alle sudette mie nipoti vita loro durante a semestri maturati.Lego ancora al detto mio cugino il mio ritratto, le decora-zioni ed i brevetti di servizio, colle carte di famiglia, quali gli saranno rimesse dal mio esecutore testamentario pre-gandolo di conservare i titoli di famiglia per l’uso dei pa-renti tutti, e di rimettere al Comune di Issime il detto mio ritratto quando gliene fosse fatta regolare domanda.Lego inoltre allo stesso mio cugino la cedola della rendita di lire dieci sul debito italiano che si troverà nella mia eredità con in-carico di corrispondere annualmente alla mia pronipote Maria Giuseppa Cristille del vivo Gian Giacomo tale somma di lire die-ci durante il di lei stato nubile e di pagare alla stessa pronipote in caso di suo matrimonio, ossia rimetterle la cedola stessa per essere costituita in dote.Non seguendo tale collocamento resterà tale cedola in proprie-tà dello stesso mio cugino il quale per altro dovrà provvedere a sue spese pei funerali di detta mia nipote Maria Giuseppa se-condo gli usi del paese.QuARTO Essendo io creditore di due Capitali uno di lire duemila e cinquecento, e l’altro di lire quattro mila cento sette sull’eredità e verso gli eredi di mio fratello Giovanni Panta-leone15deceduto a Sarre come dalle inscrizioni ipotecarie del diciannove febbraio 1838 rinnovate il 4 agosto 1853 quanto al primo capitale e del 25 ottobre 1854 quanto al secondo;dispongo circa tali crediti come segue cioèA) Lascio alla mia buona cognata Gioanna Christillin16 con-giuntamente alla Lisabetta Pallais17 mia nipote durante la loro viduità col diritto d’accrescimento fra di loro, e così di river-sibilità in caso di decesso di una a favore della superstite, lo usufrutto delli stessi due crediti colla condizione e col carico di convivere cogli altri membri della famiglia del mio fratello e del mio nipote loro rispettivi mariti, fra questi membri non si comprende il Giuseppe Cristille, il quale è assente da più anni senza che se ne siano avute notizie.B) Qualora però lo stesso Gio18 Giuseppe Cristille sia per ripa-triarsi, e per vivere separatamente dal restante della famiglia, in tal caso, cessato che sia l’usufrutto sopra legato alla di lui madre Gioanna Cristillin egli riceverà l’annua somma di lire cinquanta dal legatario infra nominando della proprietà dei det-ti due crediti.

cettazione di un’annualità di L. 20 per vent’anni consecutivi dal fu signor Capitano Pietro Cristoforo Cristille, e l’esazione di crediti da convertirsi in certificato nominativo sul Debito pubblico dello Stato”.

La possibilità di accettare una donazione era, un tempo, infatti subordinata alla preventiva autorizzazione da parte dell’autorità competente.14 Jean-Pantaleon-Joseph Christille (Issime, 22 agosto 1805 – Issime, 7 aprile 1870) prete, figlio di Jean-Pantaleon (1774-1831) e di Marie-Barbre

Christille (1770-1829). Suddiacono ad Aosta il 26 febbraio 1836. Fu dapprima prete secolare, poi regolare dei Padri della Carità - Rosminiani e come tale missionario in Francia e particolarmente in Savoia (novizio rosminiano 3 aprile 1836 a Tamiers, a Domodossola 1 agosto 1836, poco dopo a Stresa), serve i Collerici a Milano 27 agosto - 17 settembre 1836; parroco a Susa 20 maggio 1837, ancora a Tamiers 29 ottobre 1837-38. Lasciò l’Istituto Rosminiano nel luglio del 1838, nuovamente passato secolare, fu vice cappellano militare alla Mandria, vicario ad Issime-Saint-Jacques 24 luglio-dicembre 1838, Torgnon 5 dicembre 1838-40, Hône 10 luglio 1840-41, Introd 1 agosto 1841-43, Excenex 11 marzo 1843, Issime-Saint-Jacques 21 aprile 1843 – gennaio 1847, maestro di scuola comunale di grammatica latina ad issime 1843-63, rettore alla Trina 14 aprile 1852 – 8 settembre 1866, servente a Gaby 24 maggio – 31 agosto 1866, morto ad Issime il 7 aprile 1870.

15 Jean-Pantaleon Christille (Issime? 1773 – Sarre ‘ma de Sainte-Helene’ 9 aprile 1838).16 Jeanne Christillin figlia di Christophe, originaria di Issime, sposò a Sarre il 21 febbraio 1817 Jean-Pantaleon Christille (1773-1838) già vedovo di

Anne-Marie Chamonal morta a Sarre il 21 dicembre del 1816 a 43 anni.17 Marie-Elisabeth Pallais di Sarre sposò Jean-Jacques Christille nato nel 1813, figlio di Jean-Pantaleon e di Anne-Marie Chamonal, già deceduto nel

momento in cui il Capitano detta il proprio testamento.18 In realtà Pietro, come poco sotto indicato. Pierre-Joseph Christille nacque a Sarre il 2 dicembre 1819, figlio di Jean-Pantaleon e di Jeanne Chri-

stillin.

Trovandomi creditore del capitale di lire quattro-cento verso il sacerdote Giovanni Pantaleone Cristille14 in forza di due scrittu-re d’obbligo del mille ottocento quaranta sette, lego egualmen-te detto capitale allo stesso Giuseppe Matteo, ovvero ai suoi fi-gli maschi come sopra coll’espresso incarico di corrisponderne

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tello Matteo Cristoforo21, e poscia dalla costui vedova, lego l’usufrutto alla diletta mia cognata predetta Maria Agnese22 ve-dova del detto mio fratello Matteo Cristoforo autorizzandola a liberamente quelli godere sua vita durante dispensandola dalla cauzione e dal fare inventario.NONO Delli stessi beni su descritti lego la nuda proprietà al mio nipote Giacomo Germano23 figlio della predetta usufrut-tuaria, coll’obbligo, cessato l’usufrutto della madre su tali beni, di pagare al suo fratello Giovanni Matteo24 la somma di lire cento per una sol volta e fra due mesi da detta cessazione; e lire cinquanta annue all’altro fratello Cristoforo sua vita du-rante, oggi assente, nel solo caso che sia per rimpatriare, ed a ciascuna delle sue sorelle germane Maria Cristina e Maria Catterina la somma di lire cinquecento pagabili un anno dopo cessato l’usufrutto della loro comune madre, e mediante valido impiego, od altra cautela25, in caso contrario corrisponderà loro solo l’interesse legale.DECIMO In vista dei varii carichi imposti al detto mio nipote Giacomo Cristille lego al medesimo una obbligazione sul debito pubblico italiano di lire quaranta di rendita creazione del 1850 che si troverà nel mio patrimonio.uNDICESIMO Lego pure allo stesso mio nipote Giacomo Ger-mano un’altra cedola della rendita di lire sessanta che si troverà nel mio patrimonio coll’obbligo di pagare annualmente a sua madre lire venti e lire quaranta alle due sorelle Maria Margarita e Maria Cristina mie nipoti loro vita natural durante col diritto di accrescimento rispetto solo a queste ultime, e cessato il sud-detto legato dell’annua rendita di lire venti fatto alla madre, di pagare alla primogenita26 figlia di mio nipote Gio Matteo già ma-ritata la somma di lire duecento fra mesi sei e senza interessi.Voglio inoltre che cessato il legato vitalizio a favore delle pre-dette Maria Margarita e Maria Cristina sorelle Cristille, paghi la somma di lire settecento una volta tanti alla famiglia di mio nipote Gio Matteo Cristille, distribuendola secondo il grado di parentela loro e giusta la legge delle successioni intestate, paga-bile detta somma fra un anno e senza interessi.Nel caso che li detti legatari non possano o non vogliano accet-tare il rispettivo legato il medesimo s’intende fatto ai loro eredi legittimi colli stessi benefizii e pesi.Il mio nipote Giacomo Germano resta espressamente incarica-to di far seguire nella Chiesa Parrocchiale di S. Marcello e per anni venti un servizio funebre con messe mediante la spesa di lire sei pel riposo della anima mia e dei parenti defunti.DuODECIMO Trovandomi creditore di lire cinquecento cin-quanta verso certo Giosuè Bordet cessionario dei beni di mio nipote Gio Battista Stevenin dimorante in Challand lego a

C) In occasione e pel caso solo di matrimonio delle Luigia e Carolina Cristille mie pronipoti incarico il legatario delli stessi crediti Alessandro Cristille19 di costituire a caduna di esse una dote di lire duecento pagandone immediatamente lire cin-quanta, ed il rimanente in lire cento cinquanta un anno dopo il decesso di detta loro avola Giovanna Maria Cristillin senza inte-resse sin che questa resterà in vita, e così colla loro decorrenza dal costei decesso.QuINTO Oltre all’usufrutto sovra lasciato alle due vedove mie cognata e nipote lego ancora col diritto di acrescere l’usufrutto della restante porzione di cui non ho come avanti disposto della pezza detta la Riva sita in Issime già sovra indicata.SESTO Lego ancora alle nominate mie nipoti Maria Marga-rita e Maria Cristina loro vita durante e col diritto d’accresci-mento l’usufrutto di due Gabinetti con Galleria e Cantina fatti da me costruire in Issime nella casa di mio fratello Pantaleone col consenso di tutti gli interessati, e con riserva a mio favore della proprietà. In caso che li eredi di detto mio fratello alienassero la detta casa od anche solo li suddetti membri20 di mia spettanza voglio che in compenso dell’usufrutto che cesserebbe corri-spondano alle predette nipoti l’annua somma di lire venticinque anticipatamente dal giorno dell’alienazione.SETTIMO Lego la nuda proprietà d’ogni mio avere ipotecario precitato nonchè della restante pezza detta La Riva - di cui non ho altrimenti disposto - e delli gabinetti, Galleria e Cantina fatti costruire ove sopra al mio pronipote Alessandro Cristille di Sarre. Oltre ciò lego al medesimo la proprietà di una obbliga-zione del debito pubblico italiano creazione del mille ottocento cinquanta e della rendita di lire quaranta che si troverà nella mia casa all’epoca di mio decesso, colla condizione di provvede-re nel miglior modo possibile all’alimento ed indumento di suo fratello Ambroggio e sue sorelle Luigia e Carolina durante la loro nubilità e della zia Elena.Voglio ancora che al decesso della genitrice di esso legatario questo paghi fra tre mesi la somma di lire cento al suo zio Pietro Giuseppe predetto, oggi assente, ove sia ripatriato, o per ripa-triare; e lire duecento caduna delle due sorelle Luigia e Caro-lina, a titolo d’aumento di dote loro da pagarsi un anno dopo il decesso della detta sua genitrice cogli interessi legali.Incarico di più il detto mio pronipote Alessandro Cristille di far seguire nella chiesa Parrocchiale di Sarre un servizio funebre con messe pel riposo dell’anima mia e dei parenti defunti me-diante la spesa di lire sei per il corso di anni venti.OTTAVO Di tutti li stabili da me posseduti in territorio di San Marcello, circondario di Aosta, acquistati dal geometra Vittorio Champion, e tenuti in affitto prima, dallo ora defunto mio fra-

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19 Joseph-Alexandre Christille nato a Sarre il 6 giugno del 1840, figlio di Jean-Jacques e di Marie-Elisabeth Pallais.20 Con il termine ‘membri’ (piem. member) si intende porzione di un fabbricato.21 Mathieu-Christophe Christille (Issime, 21 settembre 1777 – Saint-Marcel, 3 marzo 1856).22 Maria Agnese Rogeri figlia di Andrea del fu Lazzaro Rogeri della parrocchia Sedrina (provincia di Bergamo) e di Maria Antonia Freppa (di Issime-

Saint-Michel attuale Gaby) sposa il 1. febbraio 1810 Mathieu-Christophe Christille. Maria Agnese Rogeri ved. Christille muore a Saint-Marcel il 19 febbraio 1864 a 79 anni, era nata a Montalto (come indicato nell’atto di morte).

23 Jacques-Germain Christille detto Zachén (Issime, 20 novembre 1821- Saint-Marcel, 18 gennaio 1889), figlio di Mathieu-Christophe e di Maria Agnese Rogeri.

24 Jean-Mathieu Christille figlio di Mathieu-Christophe e di Maria Agnese Rogeri, nato ad Issime nel 1813, sposa l’11 settembre 1837 Marie-Magda-lene Theodule, muore a Diemoz nel luglio 1891.

25 Con ‘valido impiego e cautela’ si intende investire al meglio il capitale. 26 Cecile-Modeste Christille nata a Saint-Marcel il 7 febbraio 1841.

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col fondo esistente si faccia fronte in primo luogo alle spese mie funeralizie secondo il mio grado personale; per il che mi rimetto intieramente alla nota pietà dei miei cari amici Monneret ed Avv.to Gio Battista Fre-scot, e quindi s’estinguano le altre piccole passività che possano esistere massime per causa dell’ultima mia malattia.Gli restanti effetti col restante danaro, credito residuo delle mie pensioni verranno rimessi a quelle persone che saranno indicate in note testamentarie di cui mi riserbo la facoltà di fare, autorizzando espressamente il mio esecutore testamentario di esigere dette residue pensioni e crediti, darne quittanza e disporne secondo l’espresse mie volontà.DECIMOSETTIMO Lego all’Ospedale Mauriziano in Aosta la somma di lire trecento dolente che le mie facoltà non mi permettano maggiore largizione racco-mandando specialmente a tale pia opera li miei parenti.DECIMOTTAVO Nomino in mio esecutore testamen-tario il mio figlioccio Achille Monneret de Villard28 impiegato alla Stamperia Reale di Torino pregandolo di provvedere all’esecuzione delle suddette mie volon-tà, e di quelle che sarò per spiegare in note testamen-

tarie, volendo che le medesime facciano parte del presente mio testamento purchè da me datate e sottoscritte = Spero che egli vorrà accettare tale incarico, e che vorrà in ogni circostanza gio-varsi dei lumi del Sig. Avv.to Gio Battista Frescot, mio ottimo amico e confidente pienamente informato delle mie volontà, cui prego di tale favore.In contrasegno della mia affezione, e come tenue ricompensa del disturbo che gli darà tale qualità lego allo stesso Sig. Mon-neret Capitano nelle milizie Cittadine tutte le mie armi da fuoco e da taglio, gli spallini ed altri effetti da militare.Interrogato ed esortato a fare altri legati alli ospedali dei Santi Maurizio e Lazzaro, di Carità ed altri di questa città e Provincia rispose nulla voler aggiungere o variare a quanto ha sopra di-sposto.Richiesto io Regio Notaio Certificatore Coll.o ho il presente ri-cevuto, letto e pronunciato ad alta, chiara ed intelleggibile voce al Signor Testatore spiegandone il contenuto alla presenza dei sunnominati testimoni li quali tutti suonsi meco notaio sotto-scritti. E per li diritti di Registro lire 6.60In originale sottoscritti Cristille Pietro = Sibille Felice teste = Salvatore Pellizza teste = Cattocchio Alessandro teste = France-sco Zanetti teste=

Scritta questa minuta dal Sign. Vincenzo Milone persona fida, in pagine quindici e su di quattro fogli = In fede e sottoscritto manualmente29 Giuseppe Tuvano Notaio

La presente di carattere del Sign. Vincenzo Milone con-corda colla minuta

Torino 26 giugno 1862Giuseppe Tuvano notaio

quest’ultimo tale mio credito coll’obbligo al mio esecutore te-stamentario di rimettergli li relativi titoli.DECIMOTERZO Qualora si trovassero nella mia eredità tito-li o carte di credito verso i figli di mia sorella Maria moglie Mathery, o verso mio nipote Valentino Labaz voglio che tali crediti si abbiano per estinti e se ne distruggano i titoli.DECIMOQuARTO Lego alla Margarita Gallino attuale mia serva e nel solo caso che si trovi ancora al mio servizio all’epoca del mio decesso, in considerazione dei lunghi e fedeli servizi prestatimi una cedola della rendita di lire cinquanta sul debito pubblico italiano portante il n. 34440 che si troverà nel mio pa-trimonio.Lego inoltre alla medesima il suo letto compiuto con quattro lenzuola e coperte d’estate e d’inverno e voglio che le siano ri-messi tutti li mobili, lingerie ed altri oggetti di sua spettanza descritti in nota da me riconosciuta e firmata.DECIMOQuINTO Lego al Sig.r Avv.to Gioanni Battista Fre-scot una cassetta in legno a chiave con guernitura in ottone contenente mezza dozzina posate d’argento, con altra mezza dozzina di pahfon27, due cucchiai uno da zuppa, l’altro da salza ambi d’argento, una dozzina di coltelli da tavola, altri da frutta, tutti guerniti in argento, più mezza dozzina sotto bottiglie ed una dozzina di sotto bicchieri in pahfon, oltre a mezza dozzina di cucchiaini d’argento da caffè e relativa pinzetta ed altra mez-za dozzina di pahfon, pregandolo di voler gradire questa tenue offerta in attestato della mia sincera riconoscenza per i servizi da esso gentilmente prestatimi.DECIMOSESTO Incarico il mio esecutore testamentario di far procedere dopo il mio decesso ad una esatta descrizione delle cose di mia spettanza ed esistenti nel mio alloggio, volendo che

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27 Alpacca, una lega di rame-zinco e nichel, anche chiamata packfong termine proveniente dalla Cina.28 Achille Monneret de Villard nacque a Torino il 27 luglio del 1826.29 Di proprio pugno.

Il biglietto da visita che il Capitano lasciò al notaio di Issime Blaise-Aimé Linty z’Avokatsch (1809-1882). Da questo biglietto si evince che abitasse al secondo piano di Casa Cavalli e non al terzo come indicato nell’atto di morte. (coll. Guido Pession)

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Il cantiere di Castel Savoia a Gressoney-Saint-Jean: ruoli e contributi delle maestranze locali

FrAnCesCA FIlIppI

Dalla cerimonia per la posa della prima pietra ce-lebrata il 24 agosto 1899 fino ad oggi, Castel Sa-voia ha subito soltanto due passaggi di proprietà: il primo nel 1937, da Casa Savoia all’industriale milanese Ettore Moretti; il secondo nel 1981,

quando fu acquistato dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta. In quest’ultimi anni l’Amministrazione regionale ha promosso una approfondita campagna conoscitiva sul monumento, finalizza-ta alla valorizzazione del percorso espositivo e ad un eventuale futuro progetto di riallestimento museale. Il lavoro di ricerca storico-architettonica e la ricognizione sulle fonti e sugli ar-chivi svolti in quest’occasione hanno permesso di individuare una notevole mole di documentazione relativa alla costruzione

della palazzina, di cui si è reso già in parte conto nel Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali, n. 10 e n. 111.I materiali emersi nella ricerca si prestano ora a va-lorizzare la qualità architettonica degli spazi e la ricchezza dei suoi apparati decorativi, tra l’altro per-fettamente conservati. Risultano fondamentali per ricostruire il cantiere decorativo e di arredo che coinvolge la produzione artistica e artigianale della valle di Gressoney, di Torino e Firenze, prime capitali d’Italia, e la cultura delle grandi Esposizioni interna-zionali; inoltre forniscono elementi utili per illustrare gli ambienti con riferimento alle funzioni originarie e rievocare per suggestioni alcuni momenti di vita stori-ca nel castello. In particolare attraverso le ricevute dei pagamenti e le fatture commerciali conservate con puntigliosa cura dall’Ufficio competente della Real Casa (ora presso l’Archivio di Stato di Torino), è stato possibile ricostruire dettagliatamente lo sviluppo del cantiere e l’albo di tutte le figure professionali che, a vari livelli e a vario titolo, hanno contribuito con pas-

sione alla realizzazione del progetto2. Tra il 1895, anno del primo sopralluogo per la scelta del sito e le trattative per l’acquisto dei terreni, e il 1907, anno in cui si registrano gli ultimi pagamenti per lavori e provviste com-plementari, risultano coinvolti più di ottanta professionisti, tra artisti, ditte, manifatture e fornitori al servizio del castello. Il totale delle spese ammonta a circa 1.508.000 lire, una cifra con-siderevole per l’epoca3. Progettista dell’opera e direttore dei lavori è Emilio Stramucci, architetto dalla formazione ed estro eclettici e capo dell’Ufficio Tecnico della Real Casa. Le sue capacità erano già note alla regi-na Margherita, perché sperimentate a partire dal 1873 a Roma, nelle Regie Scuderie e negli appartamenti del Quirinale, e poi

1 Alessandra Vallet, Cristiana Crea, Francesca Filippi, Primi risultati per una nuova valorizzazione di Castel Savoia: un progetto specifico di gruppo e una ricerca storica in corso, BSBAC, 10/2013, 2014, pp. 164-169; Alessandra Vallet, Francesca Filippi, Castel Savoia a Gressoney-Sain-Jean. Storia, architettura e decorazione, BSBAC, 11/2014, 2015, in corso di stampa.

2 Riferimenti archivistici in ASTo, Casa di Sua Maestà, mazzi 1640, 11371, 11639A, 11639B. Per il repertorio completo di tutte le figure professionali coinvolte nella costruzione e nell’allestimento di Castel Savoia, si rimanda a Francesca Filippi, Castel Savoia: Artisti, ditte, manifatture e fornitori, luglio 2014, relazione consegnata presso la Regione Autonoma Valle d’Aosta, Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali, Cata-logo, beni storico artistici e architettonici.

3 Per avere un confronto si possono elencare alcuni esempi di buste paga: un lavorante era pagato £ 3 a giornata, un disegnatore £ 5, mentre l’ar-chitetto Stramucci durante le trasferte poteva contare su un indennizzo di £ 10 a giornata, oltre alle spese di viaggio e di pernottamento.

Veduta di Castel Savoia immerso nel bosco circostante. (Foto M. Filippi)

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palazzina Peccoz a Gressoney-Saint-Jean, datato 25 aprile 1895, schizzato rapidamente in uno dei taccuini di viaggio in giro per l’Italia e l’Alta Savoia, recente-mente rintracciati a Firenze nell’archivio degli eredi dell’architetto5. Questi taccuini rappresentano una nuova fonte ricchissima di informazioni e di grande suggestione, e lasciano emergere la sensibilità arti-stica di Emilio Stramucci, lontana da quell’immagine di puro tecnico burocrate e funzionario ministeriale, a cui l’architetto è stato sovente relegato. Le trasferte in Valle d’Aosta divennero infatti un’occasione per co-noscere i castelli medievali con i loro spalti e torrioni, e assimilare da autodidatta i particolari costruttivi, i dettagli tecnici di porte, finestre e serrature; studiare gli arredi, le suppellettili e le oreficerie sacre conser-vate nelle cattedrali e parrocchiali, fino ad attingere all’architettura spontanea degli impianti insediativi della valle di Gressoney e ai caratteri tipizzanti dei suoi manufatti artigianali. Si tratta di idee chiave, che si rifletteranno sull’archi-tettura di Castel Savoia e sulle sue estroverse soluzio-ni, comunque attente al contesto paesaggistico, alla storia e alla tradizione locale.Per realizzare il suo progetto, Stramucci si avvalse di alcune delle più rinomate maestranze torinesi, già collaudate a Palazzo Reale e al castello di Racconigi. Tra queste spiccano i nomi di Carlo Cussetti, pittore e restauratore; Michele Dellera, scultore in legno, spe-cializzato in “mobili d’arte di stile e moderni”; Cesare Reduzzi, interprete della scultura liberty; Giuseppe Pichetto, alla guida della nota officina per la lavorazio-ne del ferro e Giuseppe Pasquina, premiata ditta per i tessuti alla moda. Un ruolo altrettanto fondamentale venne tuttavia svol-to dalle maestranze locali, impresari e artigiani, custo-di delle ricche tradizioni culturali walser. In primo luogo va ricordato che tutto il cantiere ar-chitettonico fu assegnato a un’impresa edile di Gres-soney-Saint-Jean, la billotti & busca, costituita dal capomastro Antonio Billotti e Romualdo Busca, pro-

prietario dell’Hotel Lyskamm, edificato nel 1887 nel centro del paese6. A partire dal 1898 l’impresa fu impegnata nelle cosiddette “ope-re preliminari”, ossia la costruzione di un’ampia strada carroz-zabile, che permettesse di accedere comodamente in automo-bile dalla strada provinciale fino al piazzale d’accesso al castello; la recinzione dell’intera proprietà con un alto muro in pietra lo-cale a spacco; e la conduttura dell’acqua potabile al castello, pro-veniente dalle sorgenti di “Holtz superiore e inferiore”, situate circa 600 metri più in alto. I lavori di fondazione presero avvio nel luglio del 1899 e contemporaneamente fu iniziato lo scavo per la galleria sotterranea lunga più di trenta metri, di collega-mento tra la palazzina e il fabbricato delle cucine.

dal 1883 a Firenze, in servizio negli uffici tecnici della Real Casa. Trasferito a Torino nel 1886, i suoi incarichi si erano concentrati soprattutto su Palazzo Reale, per il riallestimento di alcune sale di rappresentanza al piano nobile e per la costruzione della co-siddetta “Manica Nuova”, sede degli uffici amministrativi della Real Casa, avviata nel 1894 e innalzata sul luogo del demolito Palazzo di San Giovanni4.L’architetto Stramucci fu coinvolto fin dalle prime fasi della genesi del progetto per la nuova residenza estiva della regina Margherita a Gressoney-Saint-Jean, quando nella primavera del 1895 fu affiancato al senatore Costantino Perazzi, alpinista e socio fondatore del Club Apino Italiano, per la localizzazione topografica del sito. Lo dimostra un disegno che riproduce la

Carlo Cussetti, foto di gruppo a Gressoney: al centro con il cappello si riconosce Emilio Stramucci, alla sua destra gli scultori in legno Michele Dellera e Floriano Lateltin, alla sinistra lo scultore Cesare Reduzzi e in basso lo scrittore Efisio Giglio Tos; stampa fotografica, 1907.(Archivio Eredi Stramucci)

4 Cfr. Fabrizio Corrado e Paolo San Martino, Emilio Stramucci architetto romano, arbiter elegantiarum nei palazzi dei reali d’Italia, in “Strenna dei Romanisti”, 74, 2013, pp. 213-228, con bibliografia precedente.

5 Ringrazio Carlo Ortolani e famiglia per la cortesia e disponibilità dimostrata.6 Alberto Maiocco, Ville e dimore a Gressoney tra Ottocento e Novecento. Trasformazione del volto urbano e territoriale, Gressoney 2001, pp. 70-71.

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con lastre di pietra provenienti dalla cava del Gaby, grossolana-mente regolarizzate e fissate alla travatura sottostante. Gli acconti alla ditta si registrano a intervalli irregolari, in parte dovuti all’impossibilità di lavorare nei rigidi mesi invernali, fino al saldo del 21 novembre 1903. Il fatturato raggiunse una cifra complessiva di circa £ 520.000, compresi gli stipendi a più di centoventi operai attivi nel cantiere. Al termine dei lavori l’im-presa fu liquidata, anche se con molte controversie7. Per le travature dei soffitti, l’orditura del tetto del corpo centrale e delle cuspidi delle torri, inclusi abbaini, mensole e l’elabora-to frontone della foresteria sud, ebbe un ruolo da protagoni-sta un’altra maestranza locale, floriano lateltin, rinomato falegname di Gressoney a cui fu riconosciuto il fatturato di £

In tre anni e mezzo furono innalzate tutte le murature del castel-lo, dal piano sotterraneo fino all’imposta dei tetti, utilizzando sca-poli di pietra provenienti da una vicina cava detta del Chiappey e da quella di Gaby, legati con malta di Casale e sabbia ricavata utilizzando materiale di scavo. A partite dal 1902 si aggiunse allo gneiss del Gaby la pietra da taglio estratta dalla cava del Vert presso Donnas e alcuni marmi più pregiati, da utilizzare per le parti decorative. In linea con le esperienze edilizie più innova-tive, si fece anche largo impiego di “pietra artificiale”, ossia un impasto di cemento battuto in appositi stampi, impiegato soprat-tutto nelle parti più alte dell’edificio e nelle zone meno in vista. Nel primo trimestre del 1903 l’impresa Billotti & Busca poteva già avviare la copertura del tetto del corpo centrale, conclusa

Stato di avanzamento del cantiere di Castel Savoia, basamen-to in pietra della veranda, stampa fotografica, circa 1901. (Archivio Eredi Stramucci)

Stato di avanzamento del cantiere di Castel Savoia, travatura e orditura dei tetti, veduta da ovest; stampa fotografica, 1° trimestre 1903. (Archivio Eredi Stramucci)

7 Ancora tra il 1904 e il 1907 risultano saldati al capomastro Antonio Billotti alcuni lavori complementari, tra i quali la sistemazione della nicchia nello spigolo a sud-ovest su cui venne collocato il putto in marmo scolpito dallo scultore Cesare Reduzzi.

Floriano Lateltin, soffitto ligneo della “Torre bisettagonale” al secondo piano di Castel Savoia, 1903-1904.(Foto M. Filippi)

Floriano Lateltin, modello in legno per la carpenteria lignea di una delle torri di Castel Savoia, III trimentre 1902. (Gressoney-Saint-Jean, Collezione privata)

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L’abilità di Lateltin si manifesta soprattutto al secondo piano, dove fu libero di speri-mentare differenti soluzioni per rivestire in legno i soffitti delle tre stanze ricavate all’interno delle torri, di forma ottagonale, rotonda e “bisettagonale”. Contemporane-amente ai soffitti Lateltin lavorò anche ai palchetti, realizzati in travetti di larice sem-plice o a spina di pesce, e alla fine del 1904 eseguì il rivestimento in legno di larice del-la scala all’ultimo livello della Gran Torre. I suoi ultimi incarichi riguardano la realiz-zazione di numerosi arredi fissi e mobili in legno di larice, perlopiù di uso quotidiano (guardarobe, armadi, tavoli, scaffali. ecc.), distribuiti nelle diverse stanze di servizio. Tra questi vale la pena di segnalarne alcu-ni, come l’armadio per il riscaldamento dei piatti provenienti dalla galleria di collega-mento con le cucine, con inserita all’inter-no una “cassetta in ferro per contenere il carbone atto al riscaldamento”, oppure il buffet a due corpi e cinque cassetti per il servizio del parrucchiere o la lunga tavola per le stiratrici.Il lavoro di Lateltin fu molto apprezzato dal-la regina madre Margherita di Savoia, che

a lavori ultimati volle concedergli la facoltà di “fregiare dello stemma della Sua Real Casa l’insegna del proprio negozio”, un riconoscimento pubblico molto ambito da tutti gli artigiani e negozianti. Questo privilegio fu consegnato ufficialmente il 15 gennaio 1908, data riportata sul brevetto registrato a Roma, ora conservato presso gli eredi a Gressoney-Saint-Jean.Per alcuni lavori di falegnameria complementari, fu contatta-ta un’altra bottega di Gressoney-Sain-Jean, quella di giovanni ferrero e figli. A riguardo non sono state rintracciate notizie biografiche, ma tra i manufatti prodotti e messi in opera tra il 1903 e il 1904 si riconoscono, all’esterno, la copertura a capriate lignee collocata al di sopra della porta d’ingresso della torre ot-tagonale, la cosiddetta Torre degli Staffieri; all’interno, la scala in legno di larice che collega il primo con il secondo piano, com-preso il rivestimento del soffitto e delle pareti a “strisce investi-te maschio e femmina”; infine la fodera in legno di alcuni locali del secondo piano e le porte in larice con rispettive chiambrane al primo e al secondo piano. Il loro fatturato raggiunse £ 3.581, una buona parcella per quei tempi, nonostante decisamente in-feriore a quella raggiunta da Lateltin e dagli altri scultori in le-gno torinesi, tra i quali Michele Dellera e Giovanni de Gasperi.Terminato l’involucro esterno e le parti strutturali, a partire dal 1903 si registra la presenza in cantiere di diverse maestranze con ruoli minori, impegnate nell’ordinaria posa di porte, finestre, serramenti, inferriate e balaustre e ringhiere, mentre all’interno il campo è libero per le imprese dei decoratori e degli arredatori. In particolare, tra gli artigiani locali sono chiamati in causa:

106.770, il più alto ad esclusione dei titolari dell’impresa edile.Come segnalato in tutte le guide turistiche di inizio secolo, il suo laboratorio si trovava nel borgo di Champsil e lo scrittore Giglio-Tos non mancava di segnalare che “quivi fiorisce un’in-dustria di scoltura in legno e di ebanisteria, particolare fatica del volenteroso ed attivo signor Floriano Lateltin”8. Nello spazio pubblicitario inserito al fondo della guida redatta nel 1928 da Valentino Curta, si trovano due pagine interamente dedicate a questo artigiano: la prima sponsorizza “mobili e serramenta d’o-gni genere. Costruzioni Chalet, Verande, Chioschi, Capanne, Rifugi Alpini. Altalene in diversi modelli”; l’altra la vendita della “costruzione Lateltin”, ossia lo “Chalet nuovo di rara costru-zione, in legno massiccio e parte in muratura, mobiglia nuova, acqua, bagno e garage”, edificato in frazione Greschmattò, “sot-tostante al Real Castello” 9.A Castel Savoia i lavori di sua competenza presero avvio nel gennaio del 1902, quando effettuò la prima provvista dei mate-riali necessari alla costruzione delle coperture. Presso gli eredi di Floriano Lateltin a Gressoney sono custoditi due piccoli mo-delli in legno eseguiti per lo studio dell’impalcato strutturale delle cuspidi delle torri10. Alcune stampe fotografiche in colle-zione privata registrano invece lo stato di avanzamento del can-tiere architettonico e mostrano i lavori di carpenteria del tetto in corso d’opera. All’interno del castello Lateltin mise in opera tutti i solai in le-gno delle sale, esclusi gli inserti d’intaglio decorativo negli am-bienti più aulici, affidati allo scultore torinese Michele Dellera.

Brevetto consegnato da Margherita di Savoia a Floriano Lateltin, con la concessio-ne di “fregiare dello stemma della Sua Real Casa l’insegna del proprio negozio”, Roma, 15 gennaio 1908. (Gressoney-Saint-Jean, Collezione privata)

8 Efisio Giglio-Tos, La Valle del Lys e delle leggende. Il Monte Rosa. Gli eroi delle nostre Alpi, Torino 1934, p. 25.9 Valentino Curta, La valle di Gressoney, Guida da Ivrea alle Vette del Monte Rosa, Ivrea 1928.10 Ringrazio l’architetto Anna Maria Linty per la segnalazione e la disponibilità a mettere a disposizione i ricordi di famiglia.

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to al secondo piano e una speciale “Dècauville” per il trasporto delle vivande, col-locato nella lunga galleria sotterranea di comunicazio-ne tra il castello e il fabbrica-to delle cucine.

I lavori per la fornitura di energia elettrica furono eseguiti dall’ingegnere amato (aimé fridolin) christillin, nato ad Issime nel 1868. Dopo la laurea in Scienze Fisiche e Matema-tiche conseguita presso l’Università degli Studi di Torino nell’anno accademi-co 1894-95, aprì uno Studio tecnico a Ivrea e una filiale a Biella12. La ditta era an-che rappresentante della Società Anonima italiana Schuckert e C., una delle maggiori case elettromec-

caniche tedesche, attiva sul mercato italiano a partire dal 1895.La convenzione tra l’ingegnere Amato e l’amministrazione della Real Casa fu stipulata a Torino il 30 novembre 1902 e il 6 di-cembre veniva registrato il contratto, per la durata di sei anni. Il contratto stabiliva l’acquisto a forfait di un quantitativo di energia elettrica di 30 cavalli elettrici l’anno (equivalenti a 22,05 KiloWatt), fornita sotto forma di corrente alternata trifase (con frequenza di circa 50 Hz ed una tensione di circa 2.900 Volt); inoltre la ditta assumeva a proprie spese soltanto l’impianto del-la linea aerea fino al trasformatore. Il contratto precisava che l’energia elettrica sarebbe stata fornita “tutti i giorni dell’anno, da un’ora prima del tramonto ed un’ora dopo il levar del sole, conforme all’orario in vigore nell’officina”; soltanto nel periodo estivo, durante la permanenza a Gressoney della Regina Mar-gherita e della famiglia reale, erano previste “interruzioni gior-naliere di due ore, per la pulizia delle macchine, da stabilirsi di comune accordo”.Per produrre energia, Christellin si servì di una piccola centra-le idroelettrica, costruita nel 1901 in frazione Castell inferiore, sfruttando una derivazione delle acque del Lys. A novembre del 1903 il cantiere di Castel Savoia poteva già contare su impianto provvisorio di illuminazione. I lavori furono saldati il 20 agosto 1904 e il fatturato complessivo raggiunse £ 35.300.La presenza di corrente elettrica nella residenza della Regina Margherita fece da esempio e già all’inizio del 1905 anche il Comune di Gressoney-Saint-Jean stipulò un contratto con la ditta Christellin per illuminazione pubblica nelle vie e piazze del paese13.

giuseppe thédy, vetraio di Gressoney-Saint-Jean, presumibil-mente membro della nota famiglia Thédy di Gressoney-La-Tri-nité, che intorno al 1880 costruì sul luogo della vecchia Cantine des Alpes, l’Hôtel & Pension Thedy, poi riplasmato e ingrandito nell’attuale “Grand Hotel Thedy”11. Il suo nome va ricordato per la provvista e messa in opera dei vetri alla maggior parte dei serramenti della palazzina.

antonio de fabiani, titolare di un’officina a Gressoney Saint-Jean, fornì materiali da ferramenta ed eseguì piccoli lavori da fabbro, come l’inserimento di serrature e cerniere alle finestre e alle porte dei sotterranei e della Gran Torre. L’incarico più oneroso è relativo al collocamento nell’autunno del 1905 di due parapetti in ferro all’esterno del prospetto ovest: uno sulla scala principale che immette direttamente all’atrio-scalone; l’altro sul-la scaletta esterna alla Gran Torre.

melchiorre pedroni, decoratore e pittore di Gressoney-Saint-Jean, eseguì alcuni lavori da “verniciatore”, tra i quali la pittura ad olio e mani di biacca alla veranda e alla terrazza sovrastante. Un capitolo a parte va infine dedicato a tutti gli impianti e alle at-trezzature tecniche, decisamente d’avanguardia per quei tempi, progettati affinché la regina Margherita potesse contare su tutti i comfort possibili. Castel Savoia era infatti dotato di un impianto di riscaldamento ad acqua calda, sanitari con acqua corrente calda e fredda in ognuno dei numerosi “Gabinetti di Toeletta”, l’illuminazione elettrica e un sistema di campanelli elettrici in tutti gli ambienti, oltre a un monta-bauli dal piano seminterra-

Castel Savoia, piano seminterrato, locale interruttori impianto elettrico. (foto M. Filippi).

11 Cfr. Francesco Dal Negro, A Lady’s Tour round Monte Rosa… Viaggiatori, turisti e primi alberghi nella valle del Lys, in “Augusta”, 2006.12 Ringrazio Michele Musso per le notizie biografiche.13 A partire dal 1 maggio 1905 la società dell’ing. Amato fu trasformata in “Società d’Elettricità Valle Lys”, con sede a Pont Saint Martin e ammi-

nistratore delegato Luigi Solari. Questa società, concessionaria dell’illuminazione elettrica nei comuni di Carema, Pont Saint Martin, Donnaz, Gressoney-Saint-Jean e La Trinité, fu liquidata in tempo di guerra.

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che riceve le stigmate. Il secondo presen-ta, sopra la porta di ingresso originale in legno di larice, una nicchia con affrescata La Vergine con il Bambino datata 1727 con da un lato probabilmente Santa Caterina da Siena e San Domenico e dall’ altro il Batte-simo di Gesù e San Giovanni Nepomuceno con ai piedi una meridiana mutilata dello gnomone.Una seconda meridiana, anch’essa senza lo gnomone la cui ombra indicava l’ora, è pre-sente sul prospetto est della cappella ben visibile dalla corte e dalle abitazioni che vi si affacciano.

La signora Tina Lisco, nella pubblicazione I Litschgi-Lisco Voci dal passato quat-trocento anni di ricordi , così scrive: “Questa Cappella fu voluta da Jean Luscoz nel suo testamento del 17 settembre 1657 e fatta costruire da Johannes Litschgi, in se-gno di ringraziamento per essere scampato

da un pericolo mortale in Germania. Nella sua richiesta al Vesco-vo di Aosta (1698), Johannes Litschgi chiedeva non il permesso di costruire una cappella nuova, bensì di sostituire una Cappella eretta da un suo antenato in “posizione non buona”, con una nuo-va costruzione in un “luogo migliore”.Si ignora dove fosse situata la prima Cappella in “posizione non buona”. Secondo alcuni si trovava vicino al torrente Lys, tra No-versch ed Ecko, soggetta a frequenti inondazioni.Secondo altri era all’interno della “casa grande” di Eckko.

Se la “prima Cappella” realmente si trovava all’ interno della casa - effettivamente doveva essere considerata in “posizione non buona” secondo i dettami del Concilio di Trento (1543-1563). Il quale, inoltre, proibiva ai vescovi di concedere permessi di cele-brare Messe in oratori e cappelle private “nonostante i privilegi, le esenzioni, i titoli e le consuetudini di qualsiasi genere”.La “nuova” Cappella, quella ora esistente, venne terminata nel 1700 e dedicata a San Giovanni Nepomuceno (Giovanni di Ne-pomuck), ebbe poi una seconda dedicazione a Nostra Signora della Pietà nel 1727.Nell’atto di fondazione è stabilito che si celebrino tre Messe all’an-no e che ogni volta venga offerto il pranzo al prete; il compenso

La cappella di Ecko rivaleggia con due importanti edifici Walser ed un pozzo, intorno ad una corte, nel comune di Gressoney Saint Jean, in località Ondro Ecko, a quota 1607.Nel 1928 un incendio distrusse un quarto edificio

a valle dei primi tre, come testimoniato da una foto dello storico fotografo locale Ernesto Curta. La cappella, ora intitolata a San Giovanni Nepomuceno, si pre-senta a pianta rettangolare la cui aula di oltre sei metri di al-tezza è coperta da una volta a botte costolata e lunettata con arco trionfale di passaggio alla zona presbiteriale di altezza e dimensioni inferiori, che presenta una interessante volta ad om-brello. Un cornicione in aggetto, sorretto da lesene sulle pareti laterali, da cui spiccano le due volte corre continuo lungo tutto il perimetro dalla cappella. Il prospetto principale a sud è protet-to dall’avanzata del tetto a due falde con travatura a vista, sulla cui trave di colmo è inciso il simbolo mercantile walser con le iniziali I L e la data 1700 anno di posa del tetto. La facciata è divisa da una semplice cornice, in due registri: quello superiore e quello inferiore. Il primo con una finestra a trifora sopra cui è affrescata l’Annunciazione dell’ Angelo a Maria con più in bas-so a destra Sant’ Antonio da Padova e a sinistra San Francesco

Il restauro della cappella di Ecko

mArIAgIovAnnA CAsAgrAnde, pIermAuro reboulAz, eleonorA AbAte, nAtAlIA bACCIChetto1

Il Villaggio di Ecko (foto Musso)

1 Mariagiovanna Casagrande ha scritto la parte introduttiva, Il paliotto in cuoio, antependium all’altare e la simbologia floristica. Piermauro Reboulaz ha scritto dell’altare e del restauro del pavimento ligneo. Eleonora Abate, Natalia Baccichetto hanno trattato ‘Il paliotto in cuoio: stato di conservazione e intervento di restauro’.

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documento dell’accaduto. Il popolo subito lo considera un martire e lo venera come santo. Presto si dice che il re lo torturò perché voleva che gli rivelasse quanto la moglie gli aveva detto nel segre-to della confessione. Il Nepomuceno subito diventa per il popolo un simbolo che resiste nei secoli, e il suo culto dalla Boemia presto si diffonde anche nell’Europa Centrale. La Chiesa proclama la sua beatificazione nel 1721 e nel 1729 lo dichiara santo quale martire della confessione. Alcuni storici reputano che comunque l’affare Kladrau non fu la sola ragione per l’assassinio di Gio-vanni, ritengono che il re fosse già adirato contro di lui perché si era rifiutato di violare il segreto della confessione della regina - o perché lo aveva contestato in altre occasioni - e che con l’affare Kladrau colse l’opportunità di vendicarsi. Del resto non è affatto chiaro che cosa Venceslao abbia cercato di estorcere a Giovanni con la tortura, se si fosse trattato soltanto della sua opposizione all’affare Kladrau. E dire che ha voluto soltanto sfogare la sua ira, non è una spiegazione convincente. Per questi storici Gio-vanni Nepomuceno fu anche il martire del segreto confessionale. Giovanni Nepomuceno divenne il Santo protettore della Boemia e viene invocato protettore dei ponti e dai pericoli delle acque, per questo la sua statua era sovente posta in vicinanza dei ponti, per proteggere dai pericoli causati dalle acque e dagli straripamenti. Queste prerogative hanno diffuso il suo culto in Europa fino a farlo divenire “di fatto” uno dei santi protettori dell’unità Europea (come San Benedetto, Santa Caterina, Tommaso Moro o San Francesco).”

per queste Messe era garantito da un lascito del testatore. La de-dicazione a San Giovanni Nepomuceno, un santo ora pressoché sconosciuto da noi, può sembrare strana. In realtà il culto di que-sto santo era molto vivo nella Mitteleuropa, ancor prima che egli fosse canonizzato, e da noi giunse tramite i contatti con i paesi di lingua germanica. I Lusco/Litschgi lo conobbero nella Germania Meridionale, dove come molti gressonari si recavano per lavoro, e tanta fu la loro venerazione per lui che gli dedicarono una Cap-pella qui ad Ecko ed un’altra a Krozingen, e “Giovanni Nepomu-ceno” divenne un nome di battesimo per i loro figli.San Giovanni Nepomuceno fu un uomo colto, coscienzioso, voli-tivo, giusto e timorato di Dio. La sua vita e in particolare la sua morte violenta, cui partecipò personalmente anche il re, doveva-no venir cancellate dalla storia, ma il popolo ne fece subito un simbolo che, malgrado i tentativi del potere, resistette nei secoli.Nel 1393 Giovanni Nepomuceno, vicario generale dell’Arcive-scovo di Praga, difende la libertà ed i diritti della Chiesa contro l’arroganza ed i soprusi di Venceslao IV re di Boemia che, volendo fondare una diocesi nuova per uno dei suoi favoriti, aveva ordi-nato che alla morte dell’anziano abate di Kladrau nessun nuovo abate fosse eletto, e che la chiesa dell’abbazia fosse trasformata in una sede vescovile. Il rifiuto di accettare le imposizioni reali scatena l’ira del re che si accanisce contro Giovanni. Questi viene imprigionato e torturato a morte dallo stesso Venceslao, che lo fa poi gettare nelle acque della Moldava nei pressi del Ponte Carlo a Praga. L’Arcivescovo di Praga invia a Roma una denuncia/

La cappella di ECKO (foto Musso) Quadro della Madonna di Einsiedeln (inizio XVIII sec.) del-la cappella di Ecko, ora in restauro (foto Musso)

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lone discendenti di Jean Luscoz che volle la costruzione della cappella. La creazione di un’ intercapedine ventilata sotto pavi-mento ha permesso il risanamento e una maggiore circolazione d’ aria al piede delle murature e sotto la pavimentazione che, dopo un meticoloso restauro, è stata ricollocata nella sua posi-zione originaria.Dopo la verifica della travatura in legno, la quale nella parte di copertura della volta ad ombrello si presentava molto deterio-rata e in seguito alla ricucitura di alcune crepe nelle volte, il tet-to in lose è stato rifatto con l’aggiunta di una lamiera sottolosa là dove non in vista. È stata quindi restaurata la piccola torre campanaria con il riposizionamento della sua croce originaria in ferro che negli anni si era piegata ma non divelta. La campana è datata 1701.È stato ripristinato l’intonaco, interno ed esterno, con malta di calce dove era stato danneggiato dall’ umidità e reintegrata la cornice con stucchi in gesso poiché presentava alcuni distacchi e lacune. La pulizia della stessa ha permesso il ritrovamento della data 1701 che era stata incisa a fresco durante i lavori dal decoratore all’epoca della sua realizzazione. Purtroppo, la man-canza di finanziamenti non ha permesso il restauro degli affre-schi sulla facciata, che ci ha comunque riservato una sorpresa.La messa in opera dei ponteggi lungo tutto il perimetro esterno dei prospetti, per garantire la sicurezza delle maestranze occu-pate nei lavori, ha permesso, infatti, non di restaurare ma di osservare da vicino i dipinti, soprattutto quelli del registro supe-riore troppo alti da terra. Questi ultimi, anche se non di pregiata fattura, ci hanno incuriosito e fatto scoprire alcune sigle trac-ciate sul muro un poco più in alto. Si tratta di una W e una I-F MOOS che potrebbe essere la firma dell’ esecutore dell’ opera ma, per ora, non abbiamo notizie certe in proposito.

L’ALTAREIn molte cappelle della valle di Gressoney, come nel resto del-la Valle d’Aosta, troviamo un’impostazione strutturale molto simile, ma l’altare della cappella di Ecko ha una caratteristica pressoché unica: non è mai stato interessato da finiture di alcun tipo. La materia lignea si presenta infatti in tutta la sua semplici-tà e primigenia espressione grezza, rappresentata da venature, nodi e riflessi naturali che emergono con disarmante immedia-tezza. Possiamo così apprezzare gli elementi portanti in abete: la predella a due gradini, i plinti laterali alla mensa, che sono solo di figura, le lesene posteriori alle colonne che sorreggeva-no idealmente la trabeazione, le nicchie laterali e quella di coro-namento. Su di essi, l’apparato decorativo realizzato in legno di cirmolo: colonne e capitelli (purtroppo ora mancanti), i fregi a bassorilievo applicati, le statue all’interno delle nicchie.Le condizioni ambientali in cui è collocata l’opera non possono essere definite ottimali: presenza di forte umidità di risalita dal pavimento, infiltrazioni d’acqua dal tetto, formazioni di muffe sulle pareti della cappella. Ciononostante, la conservazione del supporto ligneo dell’opera si mantiene entro limiti discreti, al-meno da non pregiudicarne la conservazione dal punto di vista

La sensibilità verso i beni culturali della parrocchia e la determi-nazione di Don Ugo Casalegno Parroco di Gressoney St. Jean, con il contributo dell’ Assessorato all’Istruzione e Cultura della Valle d’ Aosta, attraverso il Dipartimento soprintendenza per i beni e le attività culturali2 e della comunità parrocchiale di Gres-soney, hanno permesso di realizzare il progetto e le opere di restauro della cappella che, non essendo servita da una strada carrabile, ha assorbito notevoli risorse economiche.Dal rilievo fotografico si può desumere come la prolungata mancanza di manutenzione abbia causato danni notevoli alle murature, soprattutto nella parte rivolta a nord, alle volte, agli intonaci e agli stucchi in gesso della cornice interna.Prima di ogni cosa si è resa necessaria la rimozione del palo di sostegno dei fili elettrici sul lato nord-ovest dell’ edificio che, ancorato alla muratura, aveva causato evidenti infiltrazioni d’ac-qua danneggiando gravemente l’intonaco circostante interno ed esterno.Gli arredi mobili, l’altare ligneo con il suo paliotto e il pavimento originale, coevi alla costruzione dell’ edificio, sono stati rimossi con cautela dai restauratori specializzati e ricoverati nell’abita-zione vicina, per la generosa disponibilità della sorelle Vercel-

Interno della cappella di Ecko dopo il restauro (foto PmReb)

2 Un supporto in tal senso è giunto dall’Amministrazione regionale che, in base alla legge regionale 10 maggio 1993, n. 27 che consente la “con-cessione di contributi per il restauro e conservazione del patrimonio edilizio artistico, storico ed ambientale”, ha potuto sostenere parte dei costi relativi agli interventi di tipo architettonico effettuati sulla cappella per un ammontare di 79.494,34 euro, corrispondente all’80% della spesa com-plessiva, oneri fiscali inclusi.

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L’interno della cappella ripreso dal presbiterio (foto PmReb)

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Altare della cappella di Ecko (foto Natalia Baccichetto)

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IL RESTAuRO DEL PAVIMENTO LIGNEOPotrebbe forse ingenerare qualche perplessità considerare un pavimento ad assito grezzo nelle categoria di opera d’arte, so-prattutto se rapportato ad elementi decorativi quali sculture o di-pinti. Ma se un bene culturale può evidenziarsi anche con la par-ticolarità degli elementi costitutivi, la realizzazione esperta, la conservazione degna di nota, la rarità ormai di tali manufatti (si pensi al caso simile nella chiesa del Borgo antico di Montjovet: il bellissimo pavimento originale è stato sciaguratamente rimosso, distrutto ovvero trafugato, sostituito con anonime assi nuove in larice levigate e verniciate a specchio) allora ci troviamo senza dubbio in presenza di artigianato “allo stato dell’arte”.La tipologia costruttiva è molto semplice: una trave addossata alla contro-parete della facciata, una collocata prima dello sca-lino del presbiterio, quella intermedia posizionata trasversal-mente a 2/3 circa dell’aula a dividere l’area in tre sezioni; esse non hanno appoggi propri ma sono inglobate direttamente nel suolo, tenute in posizione da terra e ghiaia che arrivano a lam-bire ed in parte sorreggere il piano di calpestio; dette travi non sono lavorate nella zona inferiore, che presenta ancora il tondo del tronco e diversi residui di corteccia non asportata. L’assito è quindi costituito da tavole in larice spesse da 4 a 6 cm, lavorate a grezzo per la parte superiore con il solo taglio a sega, mentre al di sotto si trovano anche segni di assottigliamento ad ascia. Quasi tutte le tavole hanno i bordi maschiati, e sono solidali alle travi grazie alla combinazione di due accorgimenti: la battuta longitudinale a coda di rondine ed i perni in legno inseriti alla testa delle assi per impedirne lo scorrimento trasversale. La disposizione delle tavole si può definire eterogenea: la scelta di non organizzare il pavimento con una trave a metà ha compor-tato la frammentazione del piano di calpestio con la formazione di settori distinti nella composizione. La parte verso l’altare si presenta compatta, con tutte le assi regolari a coprire l’intera distanza tra le travi e con lunghezza che aumenta visibilmente da destra verso sinistra: accorgimento necessario per poterle inserire nell’incastro negativo della battuta; solo sul lato sinistro è stato inserito un rinforzo appoggiato sulla terra, forse perché qui alcune assi sono più sottili. La zona dopo l’ingresso ha inve-ce altra struttura, resa necessaria dalla maggiore distanza tra gli elementi di sostegno: soltanto la fascia centrale di sei tavole copre tutta la lunghezza - tavole ottenute da un unico tronco e posizionate dunque con la venatura “a specchio” - mentre ai lati le assi sono più corte, giuntate con chiodi in ferro su supporti incastrati nel terreno. Opportunamente, l’artigiano ha usato le assi migliori ove più visibili, riservandone altre per le zone mar-ginali, e non è un caso che quelle più corte e sottili si trovino sulla destra, semi-nascoste dal battente del portoncino quando aperto. Contro il muro da questo lato troviamo un’ultima tavola su tutta la distanza, elemento utile a raccordare le parti e bloc-carle in presenza del pilastro più sporgente dalla parete.L’unicità e la valenza storica del manufatto, con la robustezza intrinseca del materiale impiegato e la costruzione di pregio, unita allo stato di conservazione degli elementi ne hanno con-sentito il recupero affatto completo: si è così mantenuta anche all’interno della cappella l’atmosfera settecentesca che permea tutto il complesso nel quale è inserita.Per l’intervento di restauro il pavimento è stato considerato a tutti gli effetti come un’opera d’arte, con tutte le procedure che si applicano nel caso.

materico. Sulle aree a vista si notano macchie e residui di car-bonatazione, conseguente al dilavamento di acqua, ma la super-ficie lignea si presenta comunque alla vista integra e completa.Se consideriamo la situazione critica della Cappella, il dipinto centrale rivela una sorprendente resistenza al degrado e, nei limiti delle condizioni di conservazione prima evidenziate, una situazione complessiva discreta. Non si rilevano infatti allo stato attuale seri cedimenti del supporto-tela, e sono pertanto assenti rilasci o lacerazioni gravi. Tuttavia, è presente una lacuna del tessuto sull’angolo destro in alto, dovuto probabilmente ad una bruciatura accidentale di candela. Sulla superficie, oltre a spor-co e polvere, è presente un protettivo ossidato e sbiancato che altera in modo significativo la percezione di colori e profondità della scena raffigurata.L’intervento basilare sull’Altare si è reso necessario per salva-guardare l’opera e consentire le operazioni all’interno dell’edifi-cio. In sintesi, si è proceduto con:- smontaggio degli elementi strutturali e ricovero in deposito;- spolveratura sommaria di tutte le superfici- ricollocazione degli elementi componenti l’Opera con ancorag-gio alla parete.In futuro saranno da attuare operazioni di pulizia più accurata delle parti a vista, anche con uso di solventi, per uniformare le tonalità dell’essenza legnosa, una più accurata unione delle parti ed un serio intervento di valorizzazione dell’interessante dipinto centrale.

Cappella di Ecko, interno prima del restauro(foto Casagrande)

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nuta affiancando inserti di supporto alle travi, e per garantire la solidità del piano le distanze sono state frazionate con traverse poste in verticale.Tutte le assi sono state ovviamente inserite nella loro posizione originale (oltre alle fotografie dall’alto, molto utile la numera-zione applicata durante lo smontaggio!) rispettando anche i ca-vicchi in legno che sono rimasti infissi nei tronchi. Il bloccaggio delle parti non era però ottimale per via degli inevitabili movi-menti igroscopici della materia nel corso degli anni, del degra-do in alcune zone e di una certa approssimazione nell’esecuzio-ne ad ascia degli incastri originali: ogni singola tavola dell’assito è stata quindi livellata al piano delle travi con la rettifica degli incastri o con spessori, e fissata da sotto con viti in acciaio che hanno permesso anche il recupero delle leggere deformazioni avvenute nel tempo.Si è infine deciso di non applicare nessuna finitura sulla su-perficie del pavimento: qualsiasi prodotto ne avrebbe alterato la tonalità senza apportare nessuna utile protezione, cosa che il legno ha dimostrato comunque di non necessitare se dopo oltre 300 anni assolve ancora perfettamente il compito assegna-togli. Così, quando in altre circostanze manufatti simili sono stati distrutti con insipienza, nella Cappella di Ecko ne possia-mo ammirare uno perfettamente conservato, nel quale gli unici elementi a vista rifatti sono tre cavicchi che nel tempo si erano degradati.

Dopo le fotografie per documentare lo stato di conservazione e la disposizione delle parti, la rimozione dell’assito ha reso evi-dente il previsto degrado del legno a contatto con la terra umi-da: la decomposizione della materia era limitata nelle tavole ma piuttosto importante per quanto riguarda le travi portanti, ridot-te a tratti nello spessore ed in diversi punti prive della battuta che doveva sorreggere l’assito. Questo non ne ha ovviamente impedito il recupero, nonostante i dubbi espressi da alcuni testi-moni presenti durante lo smontaggio.Per la pulitura di tutte le parti a legno si è proceduto con lavag-gio a detergente basico e acqua, e spazzolatura non abrasiva della superficie; si è rimossa anche la sabbia incrostata nella maschiatura e nelle battute, mentre si è lasciato in loco il legno sotto degrado anche se fragile.Necessaria per lavorare sul legno, la rimozione del pavimento era indispensabile anche per intervenire agevolmente nell’aula della cappella: è stato così possibile abbassare il livello del suolo e creare una struttura sospesa di supporto che permette l’aera-zione dal basso ed assicura condizioni accettabili per il legno e per il resto dell’edifico. Su questa orditura longitudinale di magatelli posano ora le travi portanti originali: in linea di massi-ma con un leggero incastro che ha raggiunto il cuore del legno ben conservato, e dove questo è mancante grazie a spessori per ottenere un livello uniforme. Per posizionare le assi era neces-sario ricostruire la battuta di sostegno ove mancante, cosa avve-

Particolari del pavimento: sezione degli elementi costruttivi; la struttura portante sotto le tavole; un settore d’angolo prima e dopo l’intervento. (foto PmReb)

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cibile ad un primo intervento, presumibilmente precedente alla costituzione del paliotto, ne era stata poi affiancata una in filo nero, eseguita per unire altre pezze o le zone in cui la cucitura precedente era saltata o indebolita. La cucitura in filo nero sem-bra dunque essere stata eseguita nel momento in cui si è deciso di ornare l’altare della cappella con questo genere di manufatto. Non è possibile stabilire esattamente quando questo sia avvenu-to, forse nel momento di fondazione della cappella, ma dalle in-formazioni ricavate in fase di restauro sembra essere altamente probabile che le pezze in cuoio abbiano avuto in origine un uti-lizzo differente, seppur comune, e si può ipotizzare che faces-sero parte di un rivestimento parietale più ampio. L’inserimento della Madonna del Rosario nella zona centrale è stato eseguito presumibilmente nel momento in cui le pezze sono state assem-blate ed utilizzate come paliotto d’altare. Lo stato conservativo del paliotto era nel complesso discreto: se da un lato si notavano evidenti deformazioni, cedimenti delle cuciture, depositi di polveri, strappi, e le evidenti lacune nel-la parte inferiore causate da roditori, da un lato lo stato di de-grado del cuoio non era tale da richiedere interventi massicci di consolidamento, e nel tempo non aveva per fortuna subito trattamenti altamente degradanti. Lo stato reticolare (carne) era in ottime condizioni, mentre lo strato capillare (fiore) pre-sentava aree fortemente degradate dal punto di vista chimico e meccanico. Risultava maggiormente degradato soprattutto il cuoio della parte centrale, oggetto presumibilmente di abrasio-ne, in cui i decori floreali sono stati rimossi ed è stata dipinta la Madonna con Bambino incorniciata da nastro rosso; a luce radente restano infatti ben evidenti le impressioni eseguite con la medesima matrice lignea utilizzata per i due pannelli a destra e sinistra.Osservando il verso è stato possibile notare alcuni interventi ori-

IL PALIOTTO IN CuOIO: STATO DI CONSERVAZIONE E INTERVENTO DI RESTAuROTra i circa quaranta cuoi artistici sinora censiti in Valle d’Ao-sta, il paliotto della cappella di Ecko spicca per qualità, prege-volezza e preziosità di esecuzione. Attraverso i competenti uffici della Soprintendenza regionale per i beni e le attività culturali, l’Amministrazione regionale, ha contribuito in maniera fattiva al recupero di questo manufatto che versava in precarie condizio-ni di conservazione, promuovendone il restauro e sostenendone interamente i costi, pari a 8.344,80 Euro.Il Paliotto in cuoio misura indicativamente cm 80,5 x 154. È composto da 10 pezze in cuoio impresso, dorato e dipinto, cu-cite tra loro e presumibilmente adattate per essere posizionate sul fronte della mensa. Il montaggio su telaio è stato eseguito inchiodando direttamente l’opera al legno, in molti punti diretta-mente al recto, mentre ove possibile il cuoio è stato rigirato sul telaio; completava il montaggio una cornice in abete naturale con leggera modanatura.Il suo aspetto originale era completamente differente da quello che vediamo oggi. Come testimoniano le parti marginali, nel tempo protette dalla cornice, il paliotto era interamente mecca-to: sulla sua superficie, sul lato fiore del cuoio, era stata appli-cata una sottile lamina d’argento poi colorata con una vernice, detta appunto mecca, in grado di donare all’argento in foglia varie tonalità di colore oro, con un effetto estetico finale molto simile ad una superficie dorata.Le parti a sbalzo, principalmente fiori e foglie, sono state poi di-pinte con tempera grassa, lacche di vario colore, in particolare verdi e rosse.Osservando il verso del paliotto, si sono notate cuciture e fili differenti, e dopo un attento esame si è giunti alla conclusione che ad una prima cucitura, realizzata con filo chiaro e ricondu-

Il paliotto della cappella di Ecko (foto Natalia Baccichetto)

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localmente ove necessario: sono stati quindi allentati o scuciti solo alcuni punti, funzionali all’attenuazione delle deformazioni o al consolidamento di zone infragilite o lacerate. Essendo il cuoio un materiale estremamente sensibile alle va-riazioni termo-igrometriche, è stata sfruttata questa sua carat-teristica per recuperare la planarità del paliotto: è stata apposi-tamente costruita una camera di umidificazione, in cui le due parti del paliotto sono state inserite e mantenute per il tempo necessario a raggiungere un ammorbidimento tale da ottenere uno spianamento leggero ma efficace. Tale operazione è stata molto delicata, in quanto ogni pezza tendeva a reagire in modo diverso dalle altre: trattandosi di parti differenti dell’animale, al-cune zone tendevano ad ammorbidirsi più velocemente ed altre risultavano più rigide, ed è stato quindi necessario controllare costantemente il livello raggiunto e mediare le esigenze delle varie parti. Una volta raggiunta un’umidificazione nel comples-so sufficiente, il cuoio è stato posto sotto peso tra tessuti non tessuti e feltri morbidi in cotone, in modo da ottenere l’attenua-zione di spanciamenti e deformazioni senza alterare le decora-zioni in rilievo presenti su tutta la superficie.Dopo questo intervento, si è stabilito di agire anche localmente in alcune zone, ponendo sotto peso determinate aree dopo aver-le umidificate con gore-tex. La fase successiva è stata quella del consolidamento del cuoio: dal verso si è operato rinforzando con beva film e tessuto di po-liestere tutti i punti indeboliti, gli strappi, i margini delle pezze; ove questo non fosse sufficiente si è intervenuti anche con il cuoio. Lo stesso tipo di intervento è stato effettuato anche tutto intorno alle lacune, preparando i margini delle stesse al risarci-mento. Le integrazioni in cuoio potevano essere realizzate in-collando gli inserti direttamente sull’originale, precedentemen-te scarnito per ottenere un migliore effetto estetico, ma questo tipo di integrazione risulta meno reversibile. Con la DDLL si è stabilito invece di inserire il cuoio senza farlo aderire sull’ori-ginale, ma isolandolo con il beva film ed il tessuto non tessuto.Il consolidamento del recto è stato invece eseguito dove ave-vamo notato indebolimenti del cuoio e crettature del fiore, uti-lizzando piccole dosi di Tylose MH300P al 4% oppure occasio-nalmente adesivo misto Tylose-Evacon R in presenza di scaglie più rigide. Laddove il cuoio al recto presentava creste o tagli, spesso coincidenti con le parti molli dell’animale, e con relati-va perdita di superficie pittorica o estese crettature, sono state eseguite delle minime stuccature con polvere di carniccio, in modo da ridare compattezza alla superficie e poter poi interve-nire ove necessario con il ritocco pittorico. Lo stesso impasto è stato utilizzato per chiudere piccole mancanze come quelle dei chiodi, mentre tutte le altre mancanze sono state integrate con il cuoio e l’adesivo misto Tylose MH300P al 4% ed Evacon R in proporzione 3:2. Si è stabilito di non integrare in cuoio le parti perimetrali che in origine erano state tagliate, e che sarebbero diventate visibili con la sostituzione del nuovo telaio, realizzato di dimensione maggiore per permettere il più possibile la visio-ne dei margini che conservano la meccatura originale.Ci si è occupati dunque delle cuciture: quelle che sono state mantenute in quanto ancora funzionali, sono state rinforzate ripassando negli stessi buchi con filo singolo3; dove invece la cucitura era completamente saltata, è stata eseguita una nuova

ginali effettuati sul cuoio: sono state infatti integrate, sempre in cuoio, le parti vicine a spalle e zampe, come comunemente veni-va fatto per dare alle pezze una forma regolare, ed anche lo stato conservativo di queste aggiunte era fortunatamente buono.Molto marcate risultavano invece le deformazioni del cuoio, in particolare dove la cucitura aveva ceduto, provocando anche qualche lacerazione. Ricordiamo che il paliotto si presentava praticamente diviso in due, essendo saltata la cucitura verticale a destra del pannello con la Madonna, e che le deformazioni soprattutto lungo questo asse risultavano importanti. Altre on-dulazioni e spanciamenti erano evidenti nella parte inferiore, in buona parte libera, e nella zona centrale superiore. Il fissaggio al telaio era infatti venuto meno in numerosi punti, a causa delle tensioni, deformazioni e del peso stesso del cuoio.La superficie presentava diverse abrasioni, qualche graffio e lo-calmente anche delle crettature del fiore e/o separazione del fiore dal carniccio. Dal lato carne risultava inoltre evidente la presenza di alcune gore piuttosto estese.Le condizioni della pellicola pittorica erano nel complesso di-screte: si notavano numerose crettature, derivanti dai movi-menti del cuoio nel suo continuo mettersi in relazione con l’am-biente, ma non distacchi tali da richiedere pesanti interventi di consolidamento.È stato inoltre possibile osservare che i bordi delle pezze, girati all’interno della cucitura, presentavano la lamina d’argento e la meccatura, a conferma del fatto che il paliotto fosse in origine interamente “dorato”, ed ammirando ancora una volta le cromie originali.Il paliotto non presentava grossi interventi precedenti: abbia-mo notato un probabile locale consolidamento delle cuciture, la chiusura di una lacerazione con filo, e in piccole zone alcuni residui di fibre (forse vecchi rinforzi in tessuto).L’intervento di restauro è stato impostato in modo estremamen-te rispettoso, trattandosi di un materiale estremamente sensibi-le e mobile. Dopo la documentazione fotografica, la prima fase dell’inter-vento è stata un’accurata pulitura a secco mediante microaspira-zione, insistendo nei punti in cui maggiormente si erano depo-sitate le polveri (in particolare gli spanciamenti). L’opera è stata quindi smontata dal telaio, estraendo delicatamente i chiodi ap-plicati in molti punti direttamente al recto, sul fronte del telaio. La pulitura della superficie è stata poi effettuata con una solu-zione di metilcellulosa Tylose MH300P e tensioattivo Tween 20, tenuta costantemente sotto agitazione ed utilizzando solo la parte schiumosa della soluzione, in modo da apportare la mi-nore umidità possibile. L’applicazione, e relativa rimozione, è stata eseguita con piccoli tamponcini in cotone, sempre poco per volta in modo graduale, su aree molto limitate. Si è lavorato in particolare laddove i depositi di polvere erano maggiormen-te consistenti e non completamente removibili a secco, e sulle superfici pittoriche, sulle quali è stato possibile eliminare o at-tenuare molto alcune discromie; in alcune aree maggiormente degradate si è invece stabilito di intervenire il meno possibile, per non rischiare che l’apporto di umidità, seppur minimo, po-tesse arrecare qualche danno.Nell’ottica di rispettare il più possibile l’oggetto e la sua storia, si è stabilito di mantenere tutte le cuciture, e di intervenire solo

3 Filo in marrone (Orso)

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con pannelli di reimpiego, adattati alle dimensioni dell’ “ante-pendium” per la mensa dell’ altare della cappella. Si riconosco-no quattro diverse matrici floreali prima impresse nel cuoio e poi dipinte, in cui compaiono riproduzioni di composizioni di fiori, alcuni dei quali ritratti molto realisticamente, altri un po’ più naif. Il pannello posto al centro, in origine impresso e de-corato come i due laterali, è stato, nella parte centrale, ripulito dal colore per potervi raffigurare l’immagine della Madonna del rosario. Due mezzi narcisi, che ricordano due colombe in volo, incorniciano in alto la Vergine con ai piedi volute di fogliami con viole del precedente decoro, appositamente lasciati per continu-ità con i pannelli adiacenti.La pittura floreale ha il suo massimo sviluppo intorno al XVII secolo, dalle Fiandre si diffuse in tutta l’Europa come genere internazionale. Essa acquistò un carattere metaforico e divenne “un esercizio virtuoso, un messaggio cifrato di devozione e d’amo-re, una preghiera allegorizzata nei fiori” che poteva sottendere il messaggio biblico del Libro dei Salmi “L’uomo: come l’ erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo così egli fiorisce.” La riproduzione sul paliotto di alcuni fiori, di specie extraeuropee arrivate dalla Turchia nel XVI secolo, quali i tulipani, la fritillaria ed altri largamente presenti nei quadri dei “fioranti” del Seicen-to, ci hanno incuriosito e stimolato a cercarne la simbologia, le cui radici affondano nella mitologia greca, che il cristiane-simo ha assorbito e cristianizzato. Vi troviamo rappresentati, non sempre nei colori tipici della specie, un florilegio che conta diciotto” Tulipa” che potrebbero essere della varietà “Semper Augustus”, quattro “Fritillaria imperialis”, otto” Narcissus pseu-donarcissus”, sei “Aquilegiea vulgaris”, otto tra “Anemone He-patica” e “Nemorosa”, otto “Trollius europaeus” sei “Centaurea Cianus”, sei “Viola odorata”, tre “Paeonia officinalis”.

SIMBOLOGIA FLORISTICA DEL PALIOTTOLa “Fritillaria imperialis”, o “corona imperiale”, conosciuta anche come “giglio orientale”, appartiene alla famiglia delle liliacee ed è originaria della Turchia e delle zone montuose dell’Asia centro-occidentale. Arrivò in Europa dalla Turchia con i Tulipani. La leggenda narra che, mentre Gesù saliva al Golgo-tha per essere crocifisso, tutti i fiori che incontrò lungo il cam-mino in segno di devozione piegarono il capo. L’unico che non si inchinò al Suo passaggio fu l’altezzosa e superba Fritillaria imperialis, ma, quando Gesù guardò nella sua direzione, essa arrossì di vergogna e i suoi fiori abbassarono il capo. Le gocce di nettare luccicante, chiamate “Lacrime di Maria”, che produ-cono le sue corolle, sono le lacrime che la pianta da quel giorno continua a versare. Essa è simbolo di regalità e maestosità. Nel Seicento ha goduto di grande notorietà ed è stata da un lato largamente ritratta dai “fioranti” olandesi e dall’ altro riproposta su tessuti preziosi. Anche il “Tulipa”, tulipano, dal turco «tullband», che signifi-ca copricapo, turbante, appartiene alla famiglia delle liliacee. Il “Tulipa silvestris” o “lancetta” cresceva spontaneamente in Italia e fu dipinto da Leonardo nell’ “Annunciazione” del 1474. Nella seconda metà del XVI secolo, arrivarono dalla Turchia in Olanda i primi bulbi di tulipano, che durante il regno di Solima-no il Magnifico popolavano i giardini reali in molteplici varietà. Il botanico Carolus Clusius, responsabile dei giardini reali olan-desi ne sviluppò la coltivazione moltiplicandone ulteriormente le varietà.

cucitura con filo doppio, passando sempre nella sede originale in modo da non indebolire ulteriormente il supporto. Per ultima è stata eseguita la cucitura con la quale sono state ricucite le due parti in cui si era diviso il paliotto.Sono state quindi applicate le fasce perimetrali in tessuto polie-stere, da utilizzare per il montaggio su telaio, ed è stata eseguita l’integrazione cromatica. Si è stabilito di non tingere le grandi integrazioni presenti nelle parti inferiori, in modo che fossero chiaramente riconoscibili.Il paliotto è stato quindi ancorato al nuovo telaio, costruito con estensori e molle a tazza in modo da poter seguire i movimenti del cuoio, e le parti marginali già in origine rifilate sono state compensate con una carta giapponese, tinta con tono neutro tale da accordarsi ai vari colori presenti sull’originale.Il paliotto è stato quindi riportato nella cappella, ed inserito nella nuova cornice, le cui misure sono state determinate seguendo la duplice esigenza di lasciare il più possibile visibili i margini originali e di integrarsi adeguatamente con la mensa e l’altare.

IL PALIOTTO IN CuOIO, ANTEPENDIuM DELL’ALTAREIl paliotto, dal latino “pallium” è il rivestimento liturgico, fisso o mobile, dell’altare che adorna la parte anteriore della men-sa. Ne troviamo svariati esemplari caratteristici dei vari perio-di storici che potevano essere realizzati con metalli preziosi e abilmente cesellati, in tessuti ricamati in seta, oro e argento, in marmi policromi, in legno scolpiti dorati e/o argentati ed in al-cuni casi in cuoio. Come affermato da M.T.Mistri parente: “I pa-liotti in cuoio corami d’oro”, dorati e dipinti in vivace policromia, decorati da fiori, frutti, ma anche da paesaggi, venivano usati durante i riti che si svolgevano nei giorni feriali, per sostituire quelli in tessuto prezioso più delicati e facilmente deperibili.”Dal sito dell’Istituto superiore per la conservazione ed il restauro dei manufatti in pelle e cuoio leggiamo che “Per secoli il cuoio ha svolto, nella storia delle civiltà, importanti funzioni cui oggi prov-vedono i materiali sintetici. La scoperta dei processi di concia, in epoche molto remote, ha consentito all’uomo di produrre un mate-riale plastico e resistente, dotato all’occorrenza di caratteristiche di flessibilità, impermeabilità e isolamento termico che per molto tempo lo hanno reso insostituibile. In Italia vi fu una diffusione di manufatti in cuoio dorato e dipinto, principalmente tappezzerie e paliotti d’altare tra il XVI ed il XVIII secolo”.Daria Jorioz e Gianfranco Zidda, nello scritto Cuoi artistici in Valle D’ Aosta, riportano: agli “oggetti d’ uso comune e di interesse prevalentemente etnografico, quali borse, calzature e selle se ne affiancano altri di uso particolare, spesso pertinenti all’ arredo li-turgico , quali paliotti, rivestimenti di mobili, cucini” ecc. “ Se per i cuoi etnografici è possibile supporre una produzione prevalente-mente locale, per alcuni paliotti in cuoio sbalzato, argentato, do-rato e dipinto, occorre attestare una provenienza extraregionale.”È ipotizzabile che il paliotto della cappella di Ecko, che appartie-ne ai cosiddetti “corami d’oro”, arrivi da altre regioni, in quanto i Litschgi erano una importante famiglia di mercanti di Gresso-ney che intratteneva stretti rapporti commerciali in Europa e la vallata era a quei tempi conosciuta come “Kremertal”, valle di mercanti. Esso è formato da 10 pannelli di varie misure assemblati in modo tale da offrire, a prima vista, un’ immagine composita-mente equilibrata. Ad un’ osservazione più attenta, come pro-vato dalle restauratrici, appare evidente che è stato assemblato

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gli altri. Nella simbologia cristia-na diventò il fiore delle celebra-zioni Pasquali per sottolineare che la Resurrezione di Cristo, dopo l’ineluttabilità della morte in croce, fa sperare nel trionfo dell’amore di Dio e della vita eterna sull’egoismo e sul pec-cato.L’“Aquilegia vulgaris”, aquilegia, ha fiori che vanno dal viola all’ azzurro, al rosa, al bianco. Nel-la “Storia delle piante” di Luigi Figuier (scrittore e divulgatore scientifico, 1819-1894) edito in Italia dai Fratelli Treves Editori Milano del 1887 leggiamo: “ La gente di campagna colpita dalla forma e dall’ eleganza dell’ Aqui-legia diede a suoi fiori il nome di Amor perfetto, Fior cappuccio, Amor cornuto, od anche di Guan-ti di Nostra Donna. I loro petali sono confermati a foggia di cor-netti cavi, ricurvi alla loro estre-mità libera ed acuta.” Il suo nome potrebbe derivare sia dalla forma dei suoi petali,

che sono simili al becco o agli artigli di un’aquila, sia dal ter-mine latino “aquilegium”, raccoglitore d’acqua. Sempre la for-ma dei suoi petali viene anche associata alla colomba, da cui il nome di “columbine” nei paesi nordici, per cui la simbologia cristiana ne fa l’emblema dello Spirito Santo. Dal nome francese ancholie, simile a melancholie, essa viene anche associata con il dolore della Vergine per la morte del Fi-glio Gesù. Dal punto di vista iconografico la stessa può rappre-sentare sia lo Spirito Santo che la sofferenza e la tristezza per la morte di Cristo.L’“Anemone Hepatica, nemorosa” o anemone dei boschi appar-tiene alla famiglia delle Ranuncolacee, i suoi fiori sono molto fragili e di breve durata e comunemente chiamati “fiori del vento”. Il termine anemone deriva infatti dal greco anemos, che significa vento. Nella mitologia Greca e Latina esso nasce dal sangue di Adone, amato da Venere ma ucciso da un cinghiale mandato da Ares geloso della Dea.Nella simbologia classica rappresenta la caducità della bellezza e della vita e la fugacità del sentimento amoroso, quale fu quello di Venere e Adone.Nell’iconografia cristiana, l’anemone venne spesso rappresen-tato ai piedi della croce poiché si riteneva nato dalle gocce del sangue di Cristo.Il “Trollius europaeus”, ranuncolo di montagna o “botton d’oro” per i suoi fiori giallo-oro lucido, appartiene alla famiglia delle Ranunculacee. Il suo nome latino, mutuato dal greco, significa “piccola rana”. Questa specie, infatti, predilige prati e pascoli umidi, ossia l’habitat naturale degli anfibi.La tradizione cristiana indica questi fiori giallo-oro come i bot-toni della veste della Madonna. Si racconta anche che lo stesso Gesù trasformò le stelle in ranuncoli in omaggio a sua Madre,

All’inizio del XVII secolo in Olanda il tulipano era coltivato e considerato una merce di lusso e uno status symbol, che i bota-nici di tutta Europa acclamarono come “ il nuovo re del giardi-no”. Nel 1636, i bulbi di tulipano coltivati erano di 300 varietà e divennero, dopo gin, aringhe, e formaggio il quarto principale prodotto di esportazione dei Paesi Bassi e venivano scambia-ti con immobili e terreni. La domanda di bulbi aumentava e il prezzo delle varietà più ricercate cominciò a salire vertiginosa-mente, in quegli anni il rarissimo bulbo del “Semper Augustus”, di colore bianco fiammato di rosso fu pagato 5500 fiorini, una tonnellata di burro ne costava 100. La prima bolla speculativa della storia scoppiò nel 1637 con il crollo in borsa dei prezzi dei bulbi del fiore che fece “impazzire gli uomini”. Il termine Borsa sembra derivare proprio dal co-gnome di un mercante Jacob van der Buerse, nella cui casa, all’ inizio, si erano tenute le contrattazioni per la vendita dei bulbi di tulipano.Secondo un antica leggenda persiana il tulipano nasce dalle lacrime e dal sangue di una ragazza innamorata che si ferì e morì andando alla ricerca dell’ uomo che amava. Questo fiore in oriente è il simbolo dell’ amore eterno e perfetto che, nella simbologia cristiana è il segno della Grazia e dell’amore di Dio. Il “Narcissus pseudonarcissus” o narciso silvestre o trombo-ne appartiene alla famiglia delle Amarillidacee ed è anch’esso originario della Persia. Nella mitologia classica Narciso, inna-morato della propria immagine riflessa nell’ acqua muore sulla sponda del fiume, trasformandosi in un fiore a cui dà il proprio nome. In greco Narciso deriva da narkao che significa “intorpi-dire”, “irrigidire” da cui la parola narcotico.Dal punto di vista simbolico, esso può rappresentare, in posi-tivo, l’autostima e, in negativo, la vanità e l’incapacità di amare

Fritillaria imperialis Tulipa Semper Augustus

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mi con il mondo della natura. Fiori e piante, animali domesti-ci e selvatici, accompagnano spesso i loro ritratti in dipinti e statue, mosaici e affreschi. Le descrizioni che seguono non sono che un pallido esempio di una casistica più ampia, http://www.piemonteparchi.it

per questo motivo, durante la settimana Santa, vengono portati sugli altari della Vergine, in ricordo del dono che Le offrì Suo Figlio. Simboleggiano una bellezza malinconica.La “Centaurea Cyanus”, Fiordaliso o Centaura appartiene alla famiglia delle composite e, secondo la tradizione classica, pren-de il nome dal centauro Chitone che, ferito per errore da Ercole con una freccia avvelenata, si guarì con una pozione a base di fiordaliso. Il cristianesimo associa il fiore a Gesù poiché esso cresce spontaneo in mezzo al grano, simbolo dell’Eucarestia, ed il colore azzurro richiama il cielo e, più in grande, il Paradiso e la vita Eterna.La presunta capacità del fiordaliso di guarire dai morsi del ser-pente veniva associata con la capacità di Gesù di sconfiggere il demonio, spesso rappresentato da un serpente.La “Viola odorata”, o viola mammola appartiene alla famiglia delle Violaceae ed è molto presente nella mitologia classica. Si narra che Zeus, innamorato della ninfa Io, la trasformò in una giovenca bianca per proteggerla dall’ira di sua moglie Hera. La povera ninfa versò copiose lacrime, sull’ erba di cui era costret-ta a nutrirsi. Lo stesso Zeus tramutò quelle lacrime in violette profumate che solo Lei poteva brucare.I Persiani e i Greci (come anche nella tradizione popolare val-dostana) usavano le violette come sonnifero. I Romani, invece, credevano che potessero contrastare l’ubriachezza. Nel cristia-nesimo simboleggiano l’umiltà della Vergine Maria nell’accet-tare l’Annuncio dell’angelo Gabriele ed anche la purezza, l’in-nocenza, la saggezza spirituale e la fedeltà tutti attributi della Madonna .La “Paeonia officinalis” è l’unico genere della famiglia delle Pae-oniaceae e comprende specie erbacee perenni e arbusti a foglie caduche, con coloratissime e profumate fioriture. È conosciuta anche come “rosa senza spine” e le sono state attribuite molte virtù terapeutiche. È diffusa in Italia ed in Europa principalmen-te in forma erbacea. In Oriente, è uno dei fiori tra i più venerati da migliaia di anni, come portatore di fortuna e di un matrimo-nio felice.“Secondo Plinio il Vecchio, si lega alla figura di Peone, figlio ed allievo del dio della medicina Asclepio (Esculapio), che fu mutato in fiore dopo aver liberato Latona dai dolori del par-to. Secondo un’altra versione del mito, fu invece Ade, guarito da una ferita procuratagli da Eracle, a trasformarlo in peonia per donargli l’immortalità e sottrarlo all’invidia dello stesso Asclepio”.In Occidente la peonia è simbolo di pudore e timidezza. Insieme alla rosa, è per eccellenza il fiore donato dagli innamorati alle loro amate. Nell’iconografia cristiana, per la sua bellezza e somi-glianza con la rosa, ma con il privilegio di essere senza le spine, può rappresentare il simbolo della Madonna. Anche la melagrana, “Punica Granatum”, con il suo noto signi-ficato allegorico, si riconosce nelle composizioni floreali della parte superiore del paliotto, così come pensiamo ci siano anche rappresentate l’“Astrantia Major” e alcune “Campanule”. Una mezza rosa, che potrebbe essere la notissima “Rosa Mundi” o rosa gallica “Versicolor”, si trova nella parte bassa del paliotto. Alcune delle sue foglie e un bocciolo, visibilmente tagliati, parti di un disegno difficile da ricostruire, sono uno degli indicatori del suo probabile assemblaggio con pezzi di una tappezzeria d’apparato che poteva essere molto più articolata nella decora-zione, colorata e brillantemente dorata “meccata”.

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questo probabilmente per evitare i pedaggi. Il percorso che de-scriviamo in questo nostro lavoro è tipicamente medievale.Nel basso medioevo esisteva un diffuso contrabbando che se-guiva i percorsi più impensabili e disagiati per sfuggire ai dazi doganali. Gli “sfrosatori” (così erano chiamati i contrabbandieri nel Milanese) chiedevano licenza per commerciare il grano nel-lo Stato di Milano. Invece tramite i passi del Vallese lo esporta-vano in Svizzera sfruttando le vie alternative meno battute.È probabile che in questo contesto fosse utilizzata, per andare dal Milanese al Vallese, una “scorciatoia” che, superati i colli del Biellese, raggiungeva la valle di Gressoney e da qui la val d’Ayas passando per Pont Trentaz e il colle di Frudière. Dalla val d’Ayas si andava al colle del Teodulo tramite il vallone delle Cime Bianche.Va ricordato che nel 1443 Caterina di Challant, allora Signora del territorio, aveva concesso ai valligiani di Ayas l’affranca-mento dei pedaggi per le merci importate e consumate nel Du-cato d’Aosta.È probabile che il grano portato dagli “sfrosatori” dal Milanese ad Ayas fosse venduto in loco e poi esportato senza pedaggi verso la Svizzera. Questo si spiega perché all’epoca di Caterina, il colle del Teodulo era nel territorio degli Challant e le merci potevano essere esportate, come si è detto, senza pagare pe-daggio. Tale situazione creò molti abusi e favorì in particolare il contrabbando dal Ducato di Milano.Nella descrizione del percorso dal Milanese alla valle di Gresso-ney e successivamente alla valle d’Ayas, punto chiave per il pas-saggio delle merci era il piccolo villaggio di Pont Trentaz posto a pochi chilometri da Gressoney, che comunicava direttamente con la valle d’ Ayas e con Graines tramite il colle di Frudière. La scelta di Pont Trentaz e del vallone di Frudière, così impervio, come punto di passaggio per la val d’Ayas, è giustificato dal fat-to che i mercanti con le loro mercanzie potevano passare inos-servati in una valle dove non vi erano controlli doganali. Per i contrabbandieri sarebbe stato più facile raggiungere il colle del-la Ranzola che si presentava senz’altro più agevole del colle di Frudière ma più pericoloso perchè più visibile alle autorità do-ganali. Ricordiamo che a Brusson, allora sede di pedaggio, esi-steva un’abitazione, che esiste tuttora, chiamata Maison du sel dove avveniva il controllo doganale. Abbiamo sopra detto che i contrabbandieri privilegiavano per ovvi motivi i percorsi più disagiati. Il colle di Frudière era una scelta opportuna in quan-to presentava un sentiero veramente aspro: infatti nella Guida della Valle d’Ayas di Badini- Confalonieri e Varale del 1902 viene così descritto: dal passo di Frudiera si può scendere sul versante di Gressoney toccando l’alpe Forca posta sotto il valico, lungo lo scabroso e selvaggio vallone di Trento che ha l’aspetto di forra e roccioso canalone che sbocca presso la borgata omonima sulla

Pont Trentaz è stato un importante punto di passag-gio nella viabilità da Ayas a Gressoney verso il mi-lanese in epoca walser. La famosa citazione di Se-bastian Munster, contenuta nella Cosmographia Universalis del 1550, dice che ...a Vespa extenditur

iter per montem Saser et ab alio latere per montem Matter ad oppida quendam Mediolanensis ditionis, item ad vallem Kremer-thal ..(da Visp il viaggio può continuare sia per il colle di Saas (colle d’Antrona) sia dall’altra parte per il Mons Matter (colle del Teodulo) verso certe città del Milanese e così pure nella Krämerthal che è soggetta al conte di Challant.Questa frase è significativa in quanto Munster sembra identi-ficare la Krämerthal con la Valle d’Ayas, ma soprattutto ci ha incuriosito il fatto che dalla Krämerthal ci fosse una viabilità verso le città del Milanese. Da qui la domanda: quali percorsi utilizzavano i mercanti per raggiungere il Ducato di Milano e viceversa?Nel basso medioevo il carrefour dei vari percorsi dalla Val d’A-yas verso Gressoney o la Svizzera era Graines, dal cui castello si potevano dominare i vari passaggi da e verso la Svizzera.Secondo Frangioni 1 esisteva la “ via regia” di Lombardia che univa Milano alle Gallie e ai paesi del nord Europa tramite le valli dell’Ossola e il Vallese. Questo percorso aveva un punto di riferimento importante a Biandrate, i cui Conti, possedendo vari castelli verso la Valsesia e le valli dell’Ossola, controllavano il traffico esigendo pedaggi e curando le infrastrutture viarie.Nell’ accurato studio di G. Donna d’Oldenico2 viene fatta una disamina dei valichi che portavano nel Vallese, controllati dai conti di Biandrate nel secoli XII e XIII e cioè Monte Moro, Sem-pione, San Giacomo e Gries. Tra i valichi principali non è nomi-nato il Teodulo però l’autore segnala che vi era anche una via di comunicazione interna dal Novarese verso la Valsesia e succes-sivamente verso la Valle di Gressoney e la Valle d’Ayas. (fig.1) Questo era un itinerario alternativo utilizzato dai mercanti pro-venienti dal Milanese che si recavano nel Vallese e lo utilizzava-no probabilmente per evitare i dazi.Se cerchiamo di puntualizzare su una carta geografica questo percorso, vediamo che la via più diretta per raggiungere il Mi-lanese da Ayas o Gressoney partiva da Brusson cioè Graines, raggiungeva il colle di Frudière da cui si arrivava nella valle del Lys a Pont Trentaz tramite il vallone della Forca. Da qui si passava nel Biellese per il colle della Mologna o per il colle della Vecchia, indi a Piedicavallo per poi arrivare a Milano passando per Biandrate e Novara.Come è noto la caratteristica della viabilità del medioevo, a diffe-renza delle vie romane, era quella di essere articolata e flessibi-le, cioè non esisteva una sola via maestra tipica dell’epoca roma-na, ma numerose strade alternative al percorso principale. Tutto

Pont TrentazlAurA e gIorgIo AlIprAndI

1 Frangioni Luciana -Milano e le sue strade, Cappelli editore, 19832 Donna d’Oldenico Giovanni – Oldenico ed altre terre vercellesi tra il Cervo e il Sesia, Falciola Ind.Grafica, Torino 1967

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T Fig. 1. Schema dell’antico collegamento stradale con Biandrate (da noi modificato) tratto dal testo di Giovanni Donna d’Oldeni-co. Si vede come il percorso dalla valle d’Ayas passi, tramite il colle di Frudière, nella Valle di Gressoney a Pont Trentaz. Successivamente il Biellese è raggiunto dal colle della Vecchia per poi pervenire a Biella, a Biandrate e indi a Milano.

y Fig. 2. Cartolina databile ai primi anni del ‘900. Si vede il villaggio di Pont Trentaz con sullo sfondo, verso sinistra, il vallone della Forca che conduce al colle di Frudière e poi a Brusson in val d’Ayas.

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dal fondo valle, cioè da Pont Saint-Martin, si divideva prima di raggiungere Gressoney, per andare, verso ovest, a Graines e a Brusson passando per il colle di Frudière mentre sull’altro versante, verso est, si dirigeva verso il Biellese e la pianura lom-barda attraverso i colli della Mologna grande e piccola e il colle della Vecchia.Va sottolineato che l’interpretazione dei percorsi dell’ epoca medievale sfugge alla logica moderna che vuole una strada per-corribile senza problemi, come fiumi da attraversare e asperità rocciose da superare. Nel medioevo i viandanti dovevano inol-tre tenere conto di una variabile negativa, quella dei controlli doganali e i relativi pedaggi. Ricordiamo che i Savoia erano stati definiti “portieri delle Alpi” in quanto le riscossioni dei pedag-gi erano una risorsa economica importante nel bilancio statale. Dunque Pont Trentaz era il luogo ideale per portare le merci dalla valle di Gressoney alla valle d’Ayas dove, senza pagare dazio, si poteva trasferirle in Svizzera. Oggi questo piccolo vil-laggio è poco noto e trascurato dal turismo: chi passa frettolosa-mente in auto per andare a Gressoney non immagina la storia vissuta dal suo ponte e dalle sue poche case.

carrozzabile della Valle del Lys, a 7 ch. da Gressoney St.-Jean. Indubbiamente la scelta dei contrabbandieri era appropriata poiché in questo canalone era difficile incontrare i doganieri. Basta guardare il canalone sopra il villaggio di Pont Trentaz per rendersi conto dell’asperità del percorso.(fig. 2)Pont Trentaz, che sino alla metà del secolo scorso si chiamava Trento, secondo quanto riportato sulle carte geografiche (fig.3 e fig.4) e sulle prime guide della Valle d’Aosta, è un piccolo villaggio che si trova nel comune di Gaby (già Issime-Saint-Mi-chel) alla quota di 1080 m. La cupa valle del torrente Frudière che si trova alle sue spalle dicono sia uno dei punti più pittore-schi della valle di Gressoney. Il suo nome deriva probabilmente dal cognome della famiglia Trentaz che ricevette in feudo, tra il 1458 e il 1479, la zona oggi denominata Pont de Trentaz 3. Un’altra possibile etimologia del toponimo si ricondurrebbe al fatto che il luogo si trova su un carrefour di tre strade.4 ed è caratterizzato da un ponte di pietra ad aspetto medievale che si dice risalga al 1540 5.

Non va dimenticato che il paese era il punto di congiunzione di diverse vie commerciali dove la mulattiera che proveniva

Fig. 3. Particolare della Carta Sarda foglio XXXI Biella, 1852. È ben visibile la valle del Lys con la località Trento, il colle di Frudière con il suo lago e il sentiero verso Graine, nell’angolo superiore sinistro della carta.

3 Comunicazione personale rilasciata da Michele Musso nel 19934 Alpago-Novello Adriano e coll., Gressoney architettura spontanea e costume, Gorlich ed. Novara, 1979,pag.1905 Stevenin Jolanda, La Femmelette Malingre, Lo Flambeau n° 3, Aosta 2007

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Fig. 4. Carte de la Vallée de Challand tratta dal testo omonimo dell’Abbé L. Bonin, edito a Mondovì nel 1928. È evidente il percorso da Pont Trentaz a Graines e a Brusson.

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dettagliati dell’intera escursione si rimanda alla Guida Geologica in inglese (Syn-conference excursion) scaricabile dal sito http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/periodici-tecnici/geological-field-trips/valle-daosta-section-of-the-sesia-zone.I due affioramenti visitati (Stop 3a e 3b di Fig. 2) sono stati scelti dagli organizzatori del Convegno per l’ottima esposizione e la ricchezza delle informazioni geologiche preservate. Nella se-guente descrizione verranno mantenute le numerazioni degli Stop nella Guida del Congresso, in modo da poter utilizzare le figure già preparate, cioè le figure 1 e 2.Per meglio comprendere quanto si dirà nelle descrizioni succes-sive è necessario un breve inquadramento geologico dell’area, utilizzando la Fig.1, che rappresenta una carta geologico-strut-turale della Zona Sesia e delle zone adiacenti. I due affioranti della valle del Lys sono entrambi compresi nella Zona Sesia-Lanzo (o più semplicemente Zona Sesia), un’importante unità tettonica della Alpi Occidentali interne, così chiamata perché si estende dalla Val Sesia (a NE) fino alle Valli di Lanzo (a SO). A sua volta la Zona Sesia può essere suddivisa in ulteriori tre Complessi, di cui il più interessante per i congressisti è quel-lo interno denominato Complesso dei Micascisti Eclogitici (CME) per l’abbondanza di eclogiti. Questo complesso è costi-tuito da rocce di crosta continentale subdotte a una profondi-tà di circa 80 km durante il complesso processo di subduzione (avvenuto tra 80 e 60 Ma fa, secondo i dati geocronologici più recenti della scuola di Scienze della Terra di Berna, CH) che ha preceduto la collisione continentale, la formazione dell’edificio della Catena Alpina e la risalita delle rocce verso la superficie ove oggi le osserviamo. L’eccezionalità del Complesso dei Mi-cascisti Eclogitici è che si tratta di rocce di crosta continentale che dopo essere subdotte in profondità sono risalite in superfi-cie così rapidamente, da impedire la trasformazione dei minera-li eclogitici di alta pressione nelle fasi equivalenti di bassa pres-sione. Questo rapido processo di esumazione del Complesso dei Micascisti Eclogitici durato pochi milioni di anni, quindi, ha permesso la preservazione di minerali (e strutture) che in altre

Se a tutti sono note le bellezze naturali e monu-mentali della Valle d’Aosta, solo gli specialisti sanno che la Valle è anche famosa per la sua va-ria e complessa geologia, che da sempre ha at-tirato l’attenzione dei geologi di tutto il mondo.

Per questo motivo, lo scorso settembre si è svolta a Courma-yeur la 10a Conferenza Eclogitica Internazionale (X Inter-national Eclogite Conference: www.IEC2013.unito.it), alla quale hanno partecipato circa 150 studiosi provenienti da 20 paesi di tutti i continenti.La scelta di svolgere la conferenza in Valle d’Aosta fu presa nel 2009 a Xining nella Provincia di Qinghai, Cina centrosettentrio-nale, durante la VIII International Eclogite Conference, da un co-mitato internazionale di coordinamento, che preferì la proposta italiana, illustrata dagli specialisti di eclogiti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, presenti alle pre-cedenti edizioni della conferenza, che dal 1982 si svolge ogni due anni in una differente nazione.La roccia da cui il convegno prende nome, l’eclogite, è una roc-cia non solo molto bella esteticamente perché costituita da un granato rosso e un pirosseno verde (Fig.3), ma anche molto interessante dal punto di vista scientifico. Infatti, l’eclogite, pur avendo una composizione chimica analoga a quella delle lave basaltiche, è una roccia metamorfica che si è formata ad alta pressione, cioè a grande profondità, nelle cosiddette zone di subduzione.L’escursione, che si è svolta durante la Conferenza ed alla quale hanno preso parte tutti i 150 congressisti, è stata organizzata con lo scopo di illustrare ai partecipanti i risultati scientifici più interessanti e aggiornati delle ricerche sul metamorfismo alpi-no di alta pressione nella crosta continentale delle Alpi Occi-dentali.La complessa organizzazione ha visitato gli affioramenti più rap-presentativi delle seguenti località: Quincinetto, Strada Roma-na, Montestrutto e finalmente la Valle del Lys (vedi Figg.1 e 2).Per chi fosse interessato a conoscere gli aspetti scientifici più

La 10a Conferenza Eclogitica Internazionale svoltasi a Courmayeur nel settembre del 2013 e l’escursione geologica nella valle del Lys.

roberto CompAgnonI1

1 Docente presso il Dipartimento di scienze mineralogiche e petrologiche dell’Università di Torino.

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deggianti di eclogiti, in risalto sulla superficie per la maggior re-sistenza all’erosione. La presenza di questa roccia anche dentro l’originario granito viene spiegato con le caratteristiche chimi-che della roccia basica che è molto più resistente dello scisto al processo di assimilazione da parte del magma granitico. Per tale motivo nella roccia magmatica sono oggi riconoscibili solo i boudin delle rocce basiche più refrattarie, mentre le rocce scistose che li contenevano sono scomparse perché “digerite” dal magma granitico.Durante la fase di subduzione dell’Orogenesi Alpina le roc-ce basiche sono state trasformate in eclogiti. Noi oggi vediamo queste rocce, che sono andate durante la subduzione ad una profondità di circa 90 km, perché nelle fasi parossistiche e finali dell’orogenesi alpina i movimenti tettonici, il sollevamento iso-statico e l’erosione le ha riportate in superficie.Il livello a grana molto fine e colore grigio è, invece, un filone magmatico tardivo di composizione andesitica analogo a quelli che verranno descritti nello Stop 3b.

PONTE SuL TORRENTE LyS A QuOTA 730 M S.L.M. (Stop 3b)

Le rocce affioranti sotto il ponte sul greto del torrente Lys sono molto ben esposte e interessanti perché conservano una serie di strutture dei protoliti originari, che la deformazione alpina non ha completamente cancellato.

COSA SI VEDEL’affioramento è costituito prevalentemente da una roccia chiara omogenea, con locali macchie marroni derivate dall’al-terazione dei solfuri di ferro (pirite). Questa roccia (Litoti-po 1) è caratterizzata dalla presenza di aggregati millimetri-ci bianchi di quarzo e da cristalli verdi di onfacite distribuiti omogeneamente. In questa roccia sono localmente presenti porzioni più scure di dimensioni da cm a dm, che hanno una forma discoidale e sono allungati secondo la foliazione meta-morfica (Litotipo 2) poco sviluppata. Queste porzioni scure, che hanno una distribuzione molto irregolare, sono tagliate da bande sub-rettilinee molto chiare (Litotipo 3), che ad un esa-me superficiale appaiono poco deformate. Tutte le rocce sopra descritte sono infine tagliate da rocce di colore verde scuro, che formano bande con andamento irregolare e non sono de-formate (Litotipo 4).

COME SI INTERPRETAIl Litotipo 1 può essere riferito ad un protolite magmatico di composizione granitica s.l. (Fig. 7 e 8) . Infatti, si tratta di una roccia omogenea a grande e piccola scala, che conserva ag-gregati plurimillimetrici bianchi di quarzo a grana fine derivati dalla ricristallizzazione metamorfica dei cristalli magmatici di quarzo. Questa roccia può, quindi, essere definita come un gra-nito metamorfico o meta-granito.Il Litotipo 2, che forma corpi di differenti dimensioni fino a pluridecimetrici ma sempre con la stessa composizione mine-ralogica e, quindi, anche chimica, ha la stessa mineralogia del meta-granito, ma se ne distingue per il più elevato contenuto in minerali scuri (femici). Questi corpi pluridecimetrici, tutti del-la stessa composizione indipendentemente dalle dimensioni,

catene orogeniche sono state parzialmente o completamente trasformate durante le fasi finali delle orogenesi. Ma il motivo principale per cui il CME è divenuto famoso tra gli specialisti di tutto il mondo consiste nella natura continentale delle sue rocce, che secondo la teoria della Tettonica delle Placche, non avrebbero dovuto andare in subduzione essendo meno dense (e, quindi, più leggere) delle rocce del mantello nel quale spro-fondano.Lo scopo delle escursioni, quindi, è stato quello di mostrare ai congressisti gli affioramenti più interessanti della Zona Sesia, che fossero contemporaneamente di facile accesso e ricchi di informazioni geologiche.Limitandosi alla Valle del Lys per questioni editoriali, due sono state le fermate (Stop 3a e 3b in Fig. 2) effettuate, rispetti-vamente a nord e a sud del Comune di Fontainemore lungo la Strada Regionale (SR 44) della Valle di Gressoney: la prima in corrispondenza all’orrido di Guillemore, e la seconda sul greto del Lys sotto il ponte che attraversa il torrente a quota ca. 730 m s.l.m.

L’ORRIDO DI GuILLEMORE (Stop 3a, Fig. 2)

L’Orrido di Guillemore fa parte della Riserva Naturale Re-gionale del Monte Mars. L’orrido è stato formato dall’erosione del torrente Lys che ha inciso profondamente il piatto fondo-valle glaciale, è molto interessante anche dal punto di vista ge-ologico.

COSA SI VEDEL’aspetto più caratteristico dell’affioramento è la presenza di corpi tondeggianti di rocce scure incluse in una massa chiara relativamente omogenea, con locali chiazze bruno-rossastre dovute all’ossidazione superficiale dei solfuri di ferro contenuti (pirite, pirrotite). Le rocce scure sono boudin di eclogiti di di-mensioni e distribuzione molto variabile incluse in uno gneiss compatto privo di foliazione metamorfica. Al contrario, nella parte alta dell’affioramento, cioè verso la strada statale, le rocce mostrano, invece, un’evidente foliazione e contengono gli stessi boudin di eclogiti (Fig. 5) che abbondano nello gneiss chiaro omogeneo (Fig. 4). Alla base del muro che sostiene la strada, poi, si osserva un livello a grana fine spesso una 20 di centi-metri di colore grigio omogeneo, che taglia tutte le rocce della parte alta dell’affioramento (Fig.5).

COME SI INTERPRETAL’interpretazione geologica di quanto si osserva nell’intero affioramento è la seguente. Nel sito è esposto un contatto in-trusivo tra una roccia plutonica di composizione granitica di età verosimilmente Permiana (ca. 280 Ma) e un basamento più vecchio costituito da rocce metamorfiche scistose contenenti boudin di rocce basiche di composizione chimica basaltica.La roccia intrusiva affiora prevalentemente in corrispondenza all’orrido ed ai suoi bordi, ed è riconoscibile per l’omogeneità e l’assenza di scistosità, mentre la roccia metamorfica incas-sante con una evidente foliazione ripiegata si riconosce in cor-rispondenza alla Strada Regionale SR 44. La roccia incassante e la roccia magmatica sono zeppe di corpi pluridecimetrici ton-

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GLOSSARIO

Per facilitare la comprensione della complessa, quanto indi-spensabile, terminologia geologica utilizzata si è ritenuto utile aggiungere questo glossario.

acido e basico: termini con significato chimico, utilizzati in geologia per indicare rocce rispettivamente ad alto e basso con-tenuto in silice (SiO2). Ad esempio, il granito è una roccia acida perché ha un contenuto in SiO2 > 63 % in peso, mentre il basalto è una tipica roccia basica perché ha SiO2 < 52 % in peso.

andesite: roccia vulcanica (o filoniana) di composizione chimi-ca intermedia, il cui magma si genera nelle zone di subduzione. Il nome deriva dalle Ande, dove i vulcani che eruttano questo tipo di magma sono caratteristici.

aplite: roccia magmatica filoniana di colore bianco costituita prevalentemente da minerali sialici

assimilazione magmatica: processo per il quale il magma re-agisce in modo selettivo alla composizione chimica delle rocce con cui è venuto a contatto, digerendo (assimilando) quelle che fondono più facilmente (come gli scisti) e lasciando immutate quelle di composizione basica (nel nostro caso i boudin poi di-venuti eclogiti).

basalto: roccia vulcanica (o filoniana) di composizione chimica basica di origine profonda, che costituisce la crosta oceanica o i grandi espandimenti basaltici continentali, per es. del Karroo in Sud-Africa, del Deccan in India e del Columbia River in U.S.A.

bordi raffreddati: sono le parti marginali di un filone (=salban-de), che a contatto con le rocce incassanti, che si sono raffred-dati per primi e hanno acquisito una grana più fine.

boudin: corpo geologico di dimensioni molto variabili prodotto dalla spezzettatura di un livello più rigido (con comportamento prevalentemente fragile) incluso in un materiale meno duttile che si deforma duttilmente. Il nome deriva dalla loro somiglian-za con i sanguinacci, boudin in francese!

catena orogenica: sinonimo di catena montuosa.

datazione radiometrica: determinazione dell’età di una roc-cia mediante l’utilizzo degli elementi radioattivi in essa conte-nuti. Questa datazione viene spesso indicata come “assoluta” in confronto alle datazioni stratigrafiche (basate sulla presenza dei fossili), che forniscono una datazione “relativa” delle rocce, cioè più o meno giovane di un altra.

differenziazione magmatica: processo geologico che si veri-fica durante il raffreddamento e la cristallizzazione dei magmi, che produce magmi differenti da quello iniziale più ricchi in minerali sialici e fluidi. La apliti sono tipici prodotti della diffe-renziazione magmatica.

eclogite: tipica roccia metamorfica costituita da un pirosseno verde (onfacite) e da un granato rosso. L’eclogite si forma du-rante il processo di subduzione a grande profondità, cioè ad ele-

erano in origine di forma sferoidale, ma oggi sono discoidali a causa della deformazione alpina. Essi derivano dai cosiddetti “inclusi femici microgranulari” o “autoliti” (Fig. 8) che sono sistematicamente presenti nei granitoidi e hanno una composi-zione magmatica simile, ma sono più ricchi di minerali femici, da cui il nome.

Il Litotipo 3 rappresenta il prodotto metamorfico alpino di ori-ginari filoni aplitici. La porzione del filone di Fig.8 (APL) non sembra deformata perché mantiene approssimativamente il suo andamento rettilineo. Tuttavia, un attento esame mostra che il filone è interessato da ondulazioni (originariamente as-senti) e ha sviluppato una foliazione interna. Si tratta, quindi, di una aplite metamorfica o meta-aplite, che, a causa della partico-lare orientazione spaziale, si è assottigliata. Infatti, in altri setto-ri dell’area si osservano altri filoni aplitici coevi, vistosamente ripiegati Le apliti, che si formano dalla differenziazione del magma gra-nitico, si mettono in posto nei plutoni e nelle rocce incassanti nelle fasi finali del raffreddamento dei plutoni, quando la roccia magmatica è ormai solida. Per questo motivo i filoni aplitici ta-gliano sia il meta granito che gli inclusi femici microgranulari deformati.

Il Litotipo 4 è costituito da filoni andesitici (Foto 7) che hanno un andamento molto più irregolare delle apliti per la maggior fluidità del magma, che si inietta in corrispondenza ai sistemi di frattura presenti nella roccia incassante. Questi filoni, che tagliano in discordanza tutte le strutture precedenti e non sono deformati, indicano di essersi messi in posto dopo l’oroge-nesi alpina. Le datazioni radiometriche hanno, infatti, indica-to un’età di circa 30 Ma, cioè Oligocenica.

CONCLuSIONISulla base delle osservazioni geologiche effettuate sulle rocce del Complesso dei Micascisti Eclogitici della Zona Sesia nei due affioranti descritti e tenendo conto dei dati geologici noti a gran-de e piccola scala è possibile ricostruire la seguente evoluzione:1. intrusione del granitoide con i suoi inclusi femici ca. 280

Ma fa, cioè durante il Permiano2. intrusione quasi contemporanea dei filoni aplitici, che deri-

vano dall’evoluzione del magma granitico3. subduzione e metamorfismo eclogitico e deformazione di

tutte le rocce della Zona Sesia durante il processo di subdu-zione precoce dell’orogenesi alpina, tra ca. 80 e 60 Ma fa. Tutte le rocce pre-esistenti (granitoidi, inclusi femici, apliti) sono state deformate e trasformate in rocce metamorfiche, nelle quali le originarie strutture sono ancora in parte ricono-scibili. I minerali più caratteristici di questo metamorfismo sono il granato e l’onfacite, che costituiscono la tipica mine-ralogia delle eclogiti.

4. collisione alpina e risalita delle rocce verso la superficie con parziale retrocessione delle paragenesi eclogitiche.

5. Intorno a 30 Ma fa, si sono intrusi i filoni andesitici, i cui bordi raffreddati indicano che le rocce metamorfiche incas-santi erano già relativamente fredde.

6. L’ultima fase della storia geologica corrisponde alla venuta a giorno, in seguito ai processi di erosione, di tutte le rocce come noi oggi le osserviamo negli affioranti esaminati.

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disposizione orientata dei minerali, che produce una fissilità, nota come foliazione (o scistosità).

minerali femici: termine utilizzato per indicare i minerali di colore scuro delle rocce magmatiche perché costituiti da ferro (Fe) e magnesio (Mg). I più comuni femici sono olivina, piros-seni e anfiboli.

minerali sialici: termine utilizzato per indicare i minerali di co-lore chiaro delle rocce magmatiche costituiti prevalentemente da silicio (Si) e alluminio (Al). I più comuni minerali sialici sono il quarzo e i feldspati.

oligocene: epoca della scala dei tempi geologici compresa tra 35 e 23 Ma fa.

orogenesi: insieme dei processi (deformativi e metamorfici) che accompagnano la formazione di una catena montuosa nelle sue due fasi principali, subduzione prima e esumazione poi.

permiano: periodo della scala dei tempi geologici compreso tra 290 e 245 Ma fa.

protolite: termine utilizzato per indicare la natura della roccia originaria da cui è derivata una roccia metamorfica. Ad esem-pio, il protolite di una eclogite (di natura metamorfica) è una roccia basaltica (di natura vulcanica basica).

roccia filoniana: roccia magmatica che è raffreddata a velocità intermedia tra quella delle plutoniti e quella delle vulcaniti.

roccia plutonica (o plutonite): roccia magmatica che si for-ma in profondità per il lento raffreddamento del magma da cui deriva e cristallizzazione a grana relativamente grossa dei mine-rali costituenti. La più diffusa plutonite è il granito.

roccia vulcanica (o vulcanite): roccia che si forma per il ra-pido raffreddamento (in ambiente subaereo o subacqueo) del magma. La più diffusa vulcanite è il basalto.

scistosità o foliazione: fissilità di una roccia metamorfica re-gionale prodotta dall’orientazione preferenziale dei minerali la-mellari (vedi metamorfismo).

salbande: parti marginali di un filone a contatto con le rocce in-cassanti, dove il raffreddamento del magma è più rapido, produ-cendo un “bordo raffreddato”, caratterizzato da una grana più fine dei minerali. Se il filone è sottile e le rocce incassanti sono molto più fredde del magma si può sviluppare del vetro, indice di raffreddamento molto rapido.

subduzione: quando le placche litosferiche sprofondano nel mantello, si parla di subduzione, un processo geologico anche attuale cui sono associati i terremoti profondi.

Tettonica delle Placche (o delle Zolle): teoria geologica glo-bale che spiega come la superficie terrestre sia formata da una dozzina di placche litosferiche più rigide, che possono include-re sia Crosta Continentale sia Crosta Oceanica, che si muovono come zattere su un mantello terrestre più caldo dal comporta-mento duttile, detto mantello astenosferico.

vata pressione. La composizione chimica dell’eclogite è analoga a quella di un basalto, ma la sua densità (δ) è più elevata (δB=3,0 rispetto a δE=3,5) perché i suoi minerali si sono formati a mag-giore profondità cioè a pressione più elevata.

filone magmatico: corpo geologico essenzialmente bidimen-sionale (cioè esteso in due direzioni e poco nella terza), che è stato prodotto dall’iniezione di un magma in una frattura o in un sistema di fratture, che vengono aperte e allargate a causa della elevata pressione di intrusione.

foliazione (o scistosità): divisibilità della roccia metamorfica secondo piani paralleli, che simulano una stratificazione sedi-mentaria. È dovuta alla crescita iso-orientata dei minerali lamel-lari, quali le miche, che producono una fissilità della roccia. Si usa preferenzialmente il termine scistosità quando questa ani-sotropia è più marcata.

gneiss: roccia metamorfica massiccia con una foliazione poco sviluppata perché povera in minerali micacei lamellari.

granito: è la roccia plutonica più diffusa nella crosta continen-tale.

inclusi femici microgranulari (o autoliti): corpi di diametro fino a metrico, a forma di sfera o elissoide, presenti nella mag-gior parte delle rocce intrusive, in particolare graniti, ai quali sono geneticamente legati. Hanno in genere la stessa mineralo-gia del granito incassante ma un maggiore contenuto in mine-rali femici, che li fa apparire più scuri.

intermedio: termine utilizzato per indicare la composizione chimica di una roccia con contenuto in SiO2 (silice) compreso tra 63 e 52 % in peso. Tipica roccia intermedia è l’andesite.

intrusione: meccanismo di messa in posto forzata (in pressio-ne) di un magma, che si è formato a maggiore profondità, nelle rocce sovrastanti.

litosfera: parte più superficiale della Terra, che comprende la crosta e la parte sottostante del mantello terrestre più rigida. La litosfera costituisce le placche che si muovono sul sottostante mantello più plastico, detto astenosfera.

litotipo: sinonimo di tipo di roccia.

Ma: simbolo internazionale che indica milioni (M=mega=106) di anni (a=annus/i), l’unità di misura dei tempi geologici.

meta-: prefisso aggiunto al nome di una roccia metamorfica il cui protolite è ancora riconoscibile. Es.: meta-granito, meta-aplite.

metamorfismo: insieme delle trasformazioni mineralogiche e strutturali che avvengono in profondità come conseguenza di un cambiamento nelle condizioni di temperatura (T) e pres-sione (P) delle rocce. Il metamorfismo più comune è quello regionale, che si origina nelle catene orogeniche, non solo per una variazione di P e T, ma anche per effetto della defor-mazione. Di norma, quindi, una roccia metamorfica regionale sviluppa una mineralogia differente da quella originaria e una

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Fig. 1. Carta geologico-strutturale della Zona Sesia e delle Unità tettoniche adiacenti [da COMPAGNONI R., ENGI M., REGIS D. (2014): Val d’Aosta section of the Sesia Zone: multi-stage HP metamorphism and assembly of a rifted continen-tal margin. 10th Int. Eclogite Conference, Syn-Conference Excursion, 5 September 2013, GFT – Geological Field Trips, 1-44. ISSN: 2038-4947] http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/periodici-tecnici/geological-field-trips/valle-daosta-section-of-the-sesia-zone. Nel riquadro la porzione ingrandita in Fig. 2.

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Fig. 2. Porzione ingrandita di Fig. 1. Nella sezione della Valle d’Aosta il Complesso dei Micascisti Eclogitici della Zona Se-sia, di colore beige più scuro, si estende dalla linea Insubrica (IL) fino a poco oltre P. S. Martin (Stop 4). Le fermate geologiche della Valle del Lys descritte in questo articolo sono Stop 3a e 3b.

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Fig. 3. Eclogite del Complesso dei Micascisti Eclogitici in cui si rico-noscono un granato (rosso) e un pirosseno allungato di colo-re verde (onfacite). (Foto D. Regis).

Fig. 4. Tipico aspetto dell’affioramento dell’Orrido di Guillermore, caratterizzato da boudin di eclogiti (in blu nel disegno, E) incluse in una massa omogenea di meta-granito (in rosa, GM).

Fig. 5. Dettaglio di un boudin di eclogite, incluso nello gneiss (in grigio, Gneiss) incassante il granito. Si noti la foliazione ri-piegata dello gneiss che avvolge il boudin eclogitico. La non concordanza delle due foliazioni indica che quella nel boudin è più antica (prob. pre-alpina) di quella nello gneiss (prob. alpina). Le macchie marroni dello gneiss sono alterazioni superficiali dei solfuri in esso contenuti. La moneta sull’eclogite indica la scala.

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Fig. 7. Nell’affioramento si osservano nel meta-granito permiano (in rosa, G) alcuni inclusi femici microgranulari (in verde, IFM) ta-gliati da un meta-filone aplitico permiano(bianco, APL) e da due filoni andesitici oligocenici (beige, AND). Il martello indica la scala.

Fig. 6. Sottile filone andesitico di età oligocenica (AND) che taglia il meta-granito (in rosa, MG). In alto a sinistra il muro di soste-gno della SP 44 della Valle del Lys.

Fig. 8. Meta-granito (in rosa, MG) che include diversi inclusi femici microgranulari (in verde, IFM) tagliati da un meta-filone aplitico (bianco, APL). Tutte queste rocce sono state metamorfosate e deformate durante l’orogenesi alpina.

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za come detta forra si presenti all’interno di una valle ad U, ti-picamente glaciale, a dimostrazione che il taglio si sia creato posteriormente all’occupazione del ghiacciaio, nel periodo post dauniano: “È evidente che queste forre, larghe talora solo pochi metri come ad esempio quella di Cortlys, di Bielia, e di Guil-lemore, ma profonde più di 50 metri, sono infossamenti poste-riori nel fondo dell’U glaciale, per cui dobbiamo ritenerle come dovute unicamente all’azione erosiva delle acque fluviali post-glaciali”. Per periodo Dauniano (Daun) si intende l’ultima parte delle fluttuazioni tardiglaciali che si sono sviluppate al termine dell’ultimo grande evento glaciale (Wurm), 11700 anni fa (Smi-raglia, 1992), per esaurirsi intorno ai 5000 anni fa (Sacco, 1920), in epoca preistorica. Questi complessi rocciosi si presentano con un lato esposto ed un altro sottovento: “quello esposto o superiore è inclinato verso monte, levigato dall’azione del ghiaccio e dell’acqua, mentre il lato verso valle è rimasto ripido e scabro” a formare un gradino, rialzo, soglia o sbarra rocciosa. Detti gradini “compaiono con maggior frequenza nell’alta valle che si apre attraverso le pietre verdi, perché quivi si verifica una maggiore successione di tipi litologici dif ferenti. Oltre a ciò i gradini dell’alta valle sono me-glio individualizzati, ossia sono ancora giovani, perché le regio-ni superiori essendo rimaste occupate più a lungo dalla massa glaciale, conservano meglio intatte le forme tipiche di modella-

mento glaciale” rispetto a quelle più matu-re della bassa valle, modificate dall’azione del dilavamento, dell’erosione fluviale e della disgregazione meteorica (Monterin, 1923). Inoltre non si presentano sempre nella porzione mediana del gradino, lungo l’asse vallivo, come nel caso di Ching von Guillemore o di Lys-Balmen, ma possono essere spostate nel fianco destro (Cortlys e Bielia) o sinistro (Biel e Castell).Lungo questi gradini le lingue glaciali si frantumavano, crepacciandosi per il dislivel-lo. Le acque di fusione superficiali si spinge-vano dunque all’interno dei crepacci fino a raggiungere la massa rocciosa sottostante e a scalfirla con moti turbinosi. Si creò così un complesso di marmitte dei giganti che venne approfondito dalle acque fluviali più tardi, durante la regressione delle lingue glaciali. Il risultato è quindi una “successione di vari invasamenti circolari, elicoidali o im-butiformi divisi da rialzi smussati e che van-no sempre aumentando di ampiezza verso le pareti inferiori” (Monterin, 1924).

RÉSuMÉ Le pont naturel de Biel, appelé Selbsteg par les habitants de la vallée, a été formé par glissement du bloc rocheux, qui n’avait pas d’ancrage à sa gauche, sur les couches inclinées vers le centre de la gorge.

LE FORRE DELLA VALLE DI GRESSONEy“La valle di Gressoney è una tipica valle trasversale rispetto alla catena alpina, e diretta da nord a sud. Taglia quasi perpen-dicolarmente la direzione degli strati, corrispondendo questi in generale sui due fianchi; e poiché é naturale ch’essi siano di du-rezza diversa perché di natura litologica differente, ne consegue che quelli costituiti da roccia più dura, in modo particolare, ricompaiano di quando in quando formando delle scogliere at-traverso la valle.”Così Umberto Monterin fa cominciare il suo studio sulle forre della Valle del Lys, ponendo particolare attenzione a quella sin-golarità geologica a cui è stato dato il nome di Selbsteg (Selbst-Steg), ponte da sé stesso, nella località di Biel (Gressoney-La-Trinité).La forra è un orrido, una gola scavata dalle acque in tumulto tra alte rupi rocciose; un taglio generato dalle acque nella dura roccia scampata, in questo caso, all’erosione glaciale, grazie proprio alla sua durezza. In effetti Monterin mette in eviden-

Il ponte naturale di Biel (Selbsteg)

FrAnCesCo spInello, nAturAlIstA

Il moto tumultuoso delle acque del Lys nella forra di Biel (foto Spinello)

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IL PONTE NATuRALELa caratteristica della forra di Biel, che la rende un sito geolo-gico di particolare interesse, è che essa termina a valle con un ponte naturale, da cui il nome Selbsteg. Si tratta di un ponte cre-ato dal movimento di un blocco roccioso che è scivolato verso il centro della gola e, non avendo appoggi alla base, si è inclinato di circa 10° andando ad appoggiarsi sulla parete opposta (Mon-terin, 1923).Il motivo di questo slittamento è dovuto al concorrere di più elementi.Innanzitutto alla disposizione degli strati della roccia di cui è formato. In effetti l’intero complesso è formato da tre tipi lito-logici: uno superficiale prasinitico, uno di media profondità di calcescisti e micascisti (nella porzione destra) e una base di serpentinoscisti (Monterin, 1923), rocce scistose (a strati) della famiglia delle pietre verdi (Spinello, 2014).Il blocco in movimento poggia su strati che convergono verso l’esterno, cioè verso il solco della forra (franapoggio); quando

una massa rocciosa presenta una tale in-clinazione degli strati, il movimento gra-vitativo viene agevolato, contrariamente a quanto avviene in masse i cui strati sono diretti verso l’interno della montagna (reggipoggio).In secondo luogo, il blocco in movimen-to si pone all’interno di una porzione di serpentinoscisti che presentano fratture (litoclasi) perpendicolari agli strati di sci-stosità (Monterin, 1923). Si può quindi notare che nella sua porzione sinistra (nel margine destro della foto 4), il blocco non presenta continuità con la restante mas-sa, ma un solco che evidenzia la frattura interna alla massa stessa, approfondito dall’erosione da parte delle acque mete-oriche, benché ricoperto dalla vegetazio-ne.Il centro della forra, infine, è la risultante di una successione di marmitte dei gigan-ti che, dalla sommità del gradino roccioso alla sua base, si allargano sempre di più, rendendo le pareti sempre più lontane tra loro e quindi strapiombanti. Questo feno-meno accentua la precarietà del blocco in movimento.Se accanto a questi aspetti aggiungiamo l’erosione provocata dal gelo e disgelo dell’acqua all’interno delle piccole frat-ture della roccia (crioclastismo) e una possibile sismicità della zona (si ricordi il terremoto del settembre del 1600 e l’atti-vità sismica nell’agosto del 1895) ne esce un quadro generale assai prossimo allo svolgimento reale dei fatti.

uN GEOSITO DA VALORIZZARELa formazione geologica e geomorfologi-ca della forra e, in particolare, del ponte naturale, sono il risultato quindi dell’in-Piani di scistosità nelle rocce formanti il ponte naturale (foto Spinello)

Vestigia di una marmitta dei giganti sul fondo della forra di Biel (foto Spinello)

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fologia. Estr. dal Bollettino della Flore Valdotaine, 17, 1924. In: Raccolta di scritti di Umberto Monterin (1986), vol I, Dal Monte Rosa al Tibesti, pp. 91-126.

- MUSEE REGIONAL DE SCIENCES NATURELLES DE SAINT PIERRE (2008), A la découverte des plus beaux pay-sages du Pays du Mont Blanc, tome 1 (Le Pays du Mont Blanc).

- SACCO F. (1920), Il glacialismo antico e moderno nelle alte valli di Ayas (Evançon) e di Gressoney (Lys), Tipografia Ditta Ludovico Cecchini, Roma, pp. 198-199, 207,

- SACCO F. (1920), Le oscillazioni glaciali, Atti della Reale Ac-cademia delle Scienze di Torino, pp. 146-148.

- SMIRAGLIA C. (1992), Guida ai ghiacciai e alla glaciologia – Forme, fluttuazioni, ambienti, Zanichelli.

- SPINELLO F. (2012), L’Alta Valle del Lys: un’area ricca di siti di interesse geomorfologico, Augusta, 2012, pp. 27-30.

- SPINELLO F. (2014), Il contatto oceano-continente sul Colle Salza (Soalzecoll), Augusta, 2014, pp. 56-58.

tervento di molteplici fattori concomitanti che rendono tale sito un oggetto molto interessante anche dal punto di vista didattico ed estetico. Per questo motivo, la forra di Biel presenta tutte le caratteristiche per essere ascritta a geosito (Spinello, 2012) ed essere quindi posta a tutela e valorizzata come meta turistica.

BIBLIOGRAFIA

- DE AMICIS M., SPINELLO F. (2013), Le morene del Ghiac-ciaio del Lys, evidenze delle variazioni climatiche, Augusta, 2013, pp.25-28.

- MONTERIN U. (1923), La formazione dei terrazzi fluvio-gla-ciali di d’Ejolo in rapporto all’origine della forra e del ponte naturale di Biel (Alta Valle di Gressoney), Estr. da Natura, vol. XIV, 1923. In: Raccolta di scritti di Umberto Monterin (1986), vol I, Dal Monte Rosa al Tibesti, pp. 43-60.

- MONTERIN U. (1924), La valle di Gressoney e la sua geomor-

Il ponte naturale di Biel (foto Spinello)

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Un’altra opportunità offerta dal progetto è stata quella di foto-grafare attrezzi di lavoro e manufatti, registrare interviste, rea-lizzare video di savoir-faire e ottenere informazioni relative alla cultura locale, rispolverando antiche tradizioni, abitudini, usan-ze e preziosi ricordi di vita vissuta. Tutte queste attività potran-no costituire un archivio documentaristico che, se pur amato-riale, servirà come testimonianza e come materiale espositivo.Infine, e non meno importante, il risultato della ricerca offrirà un’occasione di studio sulla particolare situazione linguistica di quest’area, scaturita dal contatto con altre parlate, quali i dialet-ti di matrice germanica, il piemontese, il francese e l’italiano. Osservando la tabella proposta si nota che alcuni termini sono identici o quasi sia a Gaby sia a Issime, mentre altri esistono solamente nella parlata di Niel o nella parlata di Gaby e talvolta anche in töitschu. Il quadro che ne emerge potrebbe rivelarsi un vero rompicapo per i linguisti che vogliano rivolgere la loro attenzione allo studio di quest’area linguistica così complessa, ma allo stesso tempo così interessante. In quest’ottica si ripor-tano qui di seguito degli esempi come spunto per una prima riflessione.

A gennaio 2015 si è formato un gruppo di lavoro per la salvaguardia e la promozione del patois di Gaby. Il progetto, sostenuto dall’Amministra-zione comunale, prevede la raccolta di vocaboli – sia tradizionali, sia di nuova coniazione – e di

espressioni idiomatiche del dialetto locale. Questa raccolta ha il fine di realizzare una banca dati digitale dalla quale ottenere in seguito la pubblicazione di un dizionario cartaceo.Il gruppo si è avvalso della consulenza del Dott. Andrea Ro-lando che, oltre ad occuparsi di ricerca nell’ambito dei dialetti francoprovenzali, ha messo a punto un apposito software. Il pro-gramma permette di gestire unitamente e di comparare le pa-role della varietà francoprovenzale di Gaby provenienti da fonti orali e scritte (testimonianze dirette, pubblicazioni e ricerche). Per ciascuna parola, sarà possibile risalire alla fonte e ciascuna contribuirà alla formazione dei lemmi, o entrate, del dizionario a cui si uniranno i vari significati ed etimologie.Nei primi mesi di lavoro sono stati raccolti più di 2000 termini su argomenti di vario genere tra i quali la musica, i lavori femminili (ricamo, uncinetto, maglia, sock, sartoria), i mestieri (edilizia, falegnameria, macelleria, cesteria, allevamento, agricoltura), la casa (mobilio, biancheria, vestiario) e il tempo atmosferico. I vocaboli provengono da varie fonti, ma nella maggior parte dei casi sono estratti dalle interviste effettuate con il contribu-to della popolazione locale, che si è dimostrata fin da subito molto interessata e collaborativa verso l’iniziativa proposta. In più i lemmi pervengono anche dalla consultazione dei dossier elaborati dagli alunni della scuola dell’infanzia e primaria delle varie edizioni delle feste del patois del Concours Cerlogne e dal materiale fornito da chi, precedentemente, si era appassionato alla salvaguardia del patois di Gaby.Questo lavoro consentirà, quindi, di recuperare l’uso di termini desueti come ad esempio lou parviill o la marviilla che sono stati sostituiti da termini più vicini all’italiano: lou nonno e la nonna o ancora fout vià che significa ‘butta via’ sostituito da espressioni quali trèi vià o jdjémba. Inoltre, in questa prima fase, si sono individuati alcuni termini o espressioni esistenti unicamente nella variante di Niel, per citare qualche esempio la parola foulquie che designa il cuscino portaspilli, laoufie il cam-pione in stoffa ricavato dal modello in carta per la realizzazione dei sock, le tipiche pantofole in panno o ancora il termine tahétié per indicare dei cocci. A tal proposito si può ipotizzare che alcu-ni di essi appartengano proprio all’antico idioma walser parlato fino alla fine del XIX secolo nella frazione.

Il patois di Gaby 1un gruppo di lavoro per la salvaguardia del patois di Gaby. un contributo importante per comporre l’intricato mosaico linguistico dell’alta Valle del Lys.

1 Il gruppo del patois “Tsei de la móda dou Gòbi” ringrazia il Dott. Andrea Rolando e l’Associazione culturale Augusta per la collaborazione.

Gaby (foto Cavalli)

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RIPORTIAMO ALCuNI ESEMPI DI VOCABOLI. In sequenza: patois di Gaby / variante di Niel / töitschu - italiano

I termInI rIportAtI nel dIAletto dI gAby sono trAsCrIttI seCondo Il sIstemA dI trAsCrIzIone del brel

• ahcrella o ahcrèllou / ahcrella / chrelle – straccio, panno

• ahtégner / ahtégner /artrénghien - annegare, soffocare

• arnetta / arnetta / hannetu – polentina molle condita con burro e toma

• artsaffi / artsaffe / oarzapf – pigne del pino cembro

• - / bàtsie / batzji – pentolino

• bèba / béabe / beebu – pigna

• boc / boc / bockh – caprone becco

• bréttòr / bréttoar / bretten – impunturare le suole delle pantofole di panno

• brohquyi / bróhquiété / brochitji – zuppa di pane e latte, o pane, brodo e formaggio

• cotta / cotta / kottu – vestito

• courtil /- / kurtil – orto

• chop / chop / chopf – boccale

• crousi / hoousie ; croousie / chlousi – boccale col coperchio

• cus / cus / küsch – bufera di neve

• cussunet de lli euilli / foulquie – cuscino porta spilli / fulk (dim. fulkji) – cuscino

• djèra / djéara / dscheeru – ghiaia

• étterli o étterlie / étterlie / étterllji – scapolo

• fiourià / veimo / veim – pellicina sui liquidi o semiliquidi

• gan / gan / ganh – ingresso

• gnuf / - / njüf – carota

• gròbou / groabo / groabe – canale di raccolta del letame nelle stalle

• guépsa / guépsa / gébsu – mastello, tinozza

• guért / guért / gértu – bastoncino di nocciolo per confezionare gerle

• - / hoalt / hoalt – scompartimenti all’interno della cassapanca / khoalt – scomparto di un mobile, di un cassetto, di una borsa.

• hórbéta (a Niel) – una moltitudine, un carico (spesso alzando una gerla molto pesante le donne dicevano: “Oh que hórbéta!”: Oh che grosso carico! / chorbetu (töitschu) – contenuto di una gerla

• leuschta / lùachéta / lljüeschetu – sacca di tela dove si riponeva l’erba olinna appena falciata tra i dirupi

• Ouàsser leura / Ouàsser luara: – creatura mitica di cui si ignorano le parvenze, sorta di mostro acquatico. Un tempo si raccontava ai bambini che fosse presente nei torrenti per evitare che questi si avvicinassero troppo ai corsi d’acqua / lüaru – lontra

• reura / ruara / rüaru – tarassaco

• schtìffétòr – fare dei lavoretti di poco conto, frugare per trovare qualcosa; “una schtìfféta”: una bricola; “Que te schtìff éti?”: che cosa combini?/ stipfen – frugare, istigare; d’stipfetu – lavoretto, ritocco; was tuscht stipfe = cosa combini

• stèga / stèaga / steegu – scala in legno

• tchéivra / tchéivra – capra, ma i più anziani riferiscono anche geits / geiss

• tròpa / troapa / troapu – botola

• troussa / troussa / trussu – fascio di fieno che si portava sul capo legato solitamente con tre corde

• tunna / tuana / tüanu – botton d’oro

Il gruppo del pAtoIs “tseI de lA módA dou gòbI”

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della cappella di Lihla? Era il famoso Antoine Le Grand, il padre degli Eremiti, il fondatore della vita ascetica. Il più narrato nelle leggende e il più dipinto dai pittori. Il protettore degli animali domestici e perciò molto venerato nella nostra società contadi-na che aveva nell’allevamento la sua risorsa primaria. Ancora ai nostri giorni, sant’Antonio è molto popolare: la sua memo-ria si celebra il 17 gennaio, secondo il Nuovo Calendario della Chiesa. A Gaby il nostro santo è titolare della cappella di Pont-de-Trentaz: ma, in questo caso, si tratta di un transfert. Infatti, in origine la cappella era sotto la protezione de sant’Antonio di Padova. Soltanto nel secolo scorso, per un complesso di ragioni, venne cambiata la titolarità di questa cappella. In Valle d’Aosta sant’Antonio Abate, oltre alle numerose cappelle di cui è titola-

Continuando la rassegna di Santi di tradizione locale, o regionale, ci sof-fermiamo stavolta su tre figure molto venerate nelle nostre contrade. Nei tempi in cui il territorio d’Issime era

suddiviso amministrativamente in tre zone distin-te (La Plaine, La Montagne e il Tiers Dessus), uno dei villaggi più frequentemente citati nelle antiche carte era quello di L’isla, che si trovava appunto nel Tiers Dessus.Questo nucleo abitato sorgeva su un cono di deie-zione formato da materiali depositati, nel tempo, da tre torrenti: Lys, Iavantchir (la valanga) e Nòss. Era un villaggio fervente di attività; gli atti ci infor-mano che aveva degli artifices d’eau, cioè dei muli-ni, dei follatoi per la fabbricazione dei famosi drap du pays e una segheria, (La Ressia). Le sue rusti-che case sembrava volessero cercare protezione all’ombra di una massiccia torre feudale mentre, poco più a valle, si apriva la cappella di sant’An-tonio Abate, il protettore degli abitanti di L’isla e dei loro animali. L’edificio sacro, pur di modeste dimensioni, è spesso citato negli atti d’archivio perché oggetto di numerosi lasciti.Così, ad esempio, leggiamo: “1545, 17 juillet. Trois messes annuelles et perpétuelles à dire dans la chapelle de Lisla, chaque mois, soit de 36 mes-ses, éloignée de l’Eglise Mère d’Issime Saint Jac-ques d’une lieue et demie, Et un flambeau annuel et perpétuel à quatre mèches à brûler lors de la consécration de chaque messe y célébrée”(1) In data posteriore la cappella è oggetto di lasciti, specie a decorrere del 1630, anno fatidico della peste bubbonica. Più oltre, nel verbale della visi-ta pastorale del 1693, 14 agosto, sta scritto che la cappella di Lihla, “en l’honneur de saint Antoine Abbé est bien bâtie et bien ornée, avec ses parements, sans clocher, sans pierre sacrée, sans missels”. Mentre, nel verbale del 14 mag-gio 1700, si legge: “il est ordonné à ceux du village de pourvoir d’un calice , dans l’année, à la chapelle, soubs peine d’interdic-tion”.(2)Altri verbali ci informano sulle processioni; a questo proposi-to leggiamo: “La Communauté a en coutume de faire, annuel-lement, une procession à l’oratoire de Saint Anthoine Abbé, éloigné d’une demi lieu de l’Eglise (Issime 26 mai 1786)”; e ancora troviamo: “L’Evêque ordonne de faire un nouveau pavé à la chapelle de Saint Antoine à Lihla et d’y faire un coffre pour les ornements ”(3). Ma chi era sant’Antonio Abate, il titolare

La cappella di Lihla e i suoi santi

JolAndA stévenIn, guIdo CAvAllI

Benedizione di S. Antonio abate. Litografia acquerellata della manifattura Carlo Verdoni di Torino. Intorno al 1870

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poi edificata, nel 1498, la parrocchiale di Fontainemore. (4) Nella nostra regione, sant’Antonio Abate è stato anche il patrono di alcune cappelle annesse agli ospizi, disse-minati sulla Via Francigena, precisamente quello di Villefranche di Quart e quello di La Balme di Pré-Saint-Didier. Essi avevano come distintivo il simbolo TAU che richia-ma il segno della croce, detta anche tauma-ta o commissa. Tale segno implicava l’idea della salvezza nella simbologia cristiana. I fedeli inoltre ricorrevano a sant’Antonio per guarire dal “feu sacré”, detto anche volgar-mente “fuoco di sant’Antonio”(5).Nel museo della cattedrale di Aosta, am-bientato nel deambulatorio, si trovano pa-recchie raffigurazioni del nostro santo. In un bassorilievo ligneo (cm 131x57), del 1469-1470, autori Jean Vion di Samoëns e Jean de Chetro, si vede sant’Antonio col capo coperto da un largo cappuccio che gli ricade sulle spalle, mentre la TAU è di-segnata sul mantello. Ai piedi del santo c’è una campanella e nella mano sinistra un libro. Troviamo inoltre una statua (misure 98x28) della seconda metà del secolo XV, in-tagliata e dipinta nel legno: essa raffigura un bel sant’Antonio, proveniente dalla Chiesa di san Giovanni di Chevrot, Gressan. Un’al-tra statua, proveniente dalla parrocchiale di Valgrisenche, anch’essa della seconda metà del XV secolo, opera di Arte Borgognona, raffigura il santo (cm 27x13) con un copri-capo privo di tesa, in abito monastico con lo scapolare molto stretto, mentre tiene un libro con la sinistra e con la destra regge un bastone a forma di TAU.Il santo è inoltre raffigurato su un dossale di stallo, autori Jean Vion de Samöens e Jean de Chétro, 1469-1470, misura cm 131,5x57. Si tratta di un bassorilievo ligneo in cui l’A-bate appare col capo coperto da un largo

cappuccio che gli ricade sulle spalle a guisa di manto. La TAU è disegnata sul mantello stesso, la campanella che di solito, è appesa al bastone o al collo dell’animale che accompagna il san-to, qui è tenuta nella mano destra, mentre la sinistra regge un libro.

ICONOGRAFIA DI S. ANTONIO ABATEIl santo è raffigurato in due situazioni diverse: mentre benedice gli animali, oppure quando resiste alle tentazioni del demonio. Entrambe le litografie sono della manifattura Verdoni di Torino. S. Antonio Abate è sempre raffigurato con un maiale. Il moti-vo di questa singolare iconografia è nella funzione dell’ordine Antoniniano nell’Europa medievale. Il così detto fuoco di S. Antonio non era dovuto all’Herpes Zooster, bensì ad un fungo (Claviceps Purpurea) parassita della segale che era all’epoca il principale cereale in uso per panificare. Il fungo contiene svaria-ti alcaloidi, fra cui l’acido lisergico, che causano, se ingeriti con

re, è anche il patrono di Arvier, Valtournenche e Fontainemore. A Valtournenche, una cappella dedicata a sant’Antonio Abate esisteva già nel 1412: essa sorgeva nel villaggio di Pâquier, l’attuale capoluogo. Quella cappella divenne nel 1420 la prima chiesa parrocchiale, posta sotto la protezione dei Santi Grato e Antonio. A Fontainemore, la devozione a sant’Antonio sarebbe ancora più antica, essa viene fatta risalire al 543 DC. La tradizio-ne riferisce che in quell’anno sarebbe passato di lì san Mauro, discepolo di san Benedetto; provenendo dalla valle dell’Oropa e diretto alle Gallie, e precisamente a Glanfeuil sulla Loira. Ecco quanto tramanda l’Abbé Joseph Marie Henry nella sua Histoi-re:“… franchissant le col qui mène à la Valleise, il (san Mauro) prêcha a Fontainemore qui lui doit son nom: en latin Fontana Maura. Là il engagea les habitants à bâtir une chapelle en l’hon-neur de saint Antoine Abbé, le père de la vie monastique, patron immémorial de ce lieu”.Sul luogo dove sorse la prima cappella di sant’Antonio, venne

Tentazione di S. Antonio Abate. Litografia acquerellata della manifattura Angelo Verdoni di Torino. Intorno al 1850

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dodicesimo secolo e situato in provincia di Torino alle porte della valle di Susa.Tornando alla minuscola cappella di Lihla, troviamo, oltre a sant’Antonio, altri due santi protettori, santa Lucia e san Giovanni Evangelista. Questi santi sono raffigurati su tre tavole dipinte nel 1950, data dell’ultimo restauro, dal pittore torinese Carlo Morgari, già autore degli affreschi nella parrocchiale di Gaby. Santa Lucia, vale a dire la portatri-ce di luce, secondo un’etimologia popolare. La Chiesa ne fa memoria il 13 dicembre. La santa è invocata contro le affezioni della vista, infatti gli artisti la raffigurano in atto di presentare, su un bacile d’argento, gli oc-chi divelti. In Valle d’Aosta le sono dedicate alcune cappelle e, in particolare, è patrona di Diémoz, antica mansio romana, ad deci-mum lapidem ab Augusta Prætoria, parroc-chia fondata nel 1180.Il conte, canonico Georges de Challant (1440-1509), divenuto nel 1468 Priore della Collegiata di Sant’Orso, si rivelò un munifi-centissimo committente di opere grandiose e fondò, nella chiesa dei Santi Pietro e Orso di Aosta, un altare a santa Lucia. Anche nel-la chiesa cattedrale di Aosta troviamo un al-tare che ricorda santa Lucia, decorato da un affresco, risalente all’inizio del secolo XVI. Al centro è raffigurata la Vergine Maria con Gesù Bambino e Giovanni Battista Bambi-no, mentre a lato si vedono san Pietro, san Giovanni Evangelista e santa Lucia.

ICONOGRAFIA DI S. LuCIALa santa è sempre rappresentata con la pal-ma del martirio, un piatto o un calice con due occhi e a volte la spada con cui fu de-capitata. Nelle vite dei santi in realtà, non risulta che alla santa fossero stati estratti gli occhi, ma sia stata semplicemente decapita-ta dopo vari tentativi di supplizio non andati

a buon fine. La presenza degli occhi è legata piuttosto alla pa-rola latina lux, luce, radice del nome pagano Lucinia, poi Lucia, quindi portatrice di luce e di conseguenza protettrice della vi-sta. La litografia acquerellata di S. Lucia che proponiamo è della manifattura di Carlo Verdoni di Torino prodotta intorno al 1875.

Il terzo santo, raffigurato dal pittore Morgari nella minuscola cappella di Lihla, è San Giovanni Evangelista. Egli fu il discepolo prediletto di Gesù, il primo, con Andrea, a seguirlo. La Scrittura ce lo presenta giovinetto, ma sappiamo che morì vecchissimo, quasi centenario. A lui Gesù, quando fu tragicamente elevato sulla croce, affidò sua Madre. Giovanni Evangelista è l’autore del quarto Vangelo e dell’Apocalisse. In Valle d’Aosta questo santo è con-titolare di parecchie cappelle. La Chiesa lo celebra il 27 dicembre. Nella Cattedrale c’era, un tempo, un altare de-dicato a san Giovanni Evangelista. Ne fa menzione il vescovo storico J.A. Duc nella sua Histoire de l’Eglise d’Aoste: “….le 4

la farina, fenomeni allucinatori e importanti necrosi degli arti inferiori. La malattia venne in seguito chiamata “ergotismo” dal francese ergot (sperone) perché la segale contaminata presen-tava uno o più rostri (da qui il nome di segale cornuta) che non erano altro che i corpi fruttiferi del fungo. Sorsero in tutta Eu-ropa “hospitali”, gestiti dai monaci Antoniniani di Vienne, per curare questi malati, che venivano trattati sulle aree necrotiche, con lardo di suino con evidenti benefici. Il motivo del migliora-mento non era tuttavia il lardo, bensì il cambio di alimentazione e quindi la mancata assunzione di nuovi alcaloidi. Sorsero ovun-que nei pressi dei monasteri allevamenti di maiali allo scopo di ottenere il lardo a scopo terapeutico, con un importate ri-torno economico per offerte e donazioni dei beneficiati, talora anche ricchi e potenti. I monasteri erano diffusi in tutta Europa e anche in Africa e su alcune isole come Rodi. Molte di queste strutture erano sulla via francigena. Ricordiamo, in Piemonte, il complesso ospedaliero di S. Antonio di Ranverso, costruito nel

S. Lucia V.M. Litografia acquerellata della manifattura Carlo Verdoni di Torino. Intorno al 1875

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Il Santo è rappresentato in atteggiamento di dolente attenzione e venerazione verso un oggetto che sembra indicare con una mano (7).

ICONOGRAFIA DI GIOVANNI EVANGELISTARiportiamo due immagini di Giovanni Evangelista, la prima di Cordey di Torino dove al centro è raffigurato il redentore e ai quatto lati i quattro evangelisti, ciascuno con il proprio simbolo d’accompagnamento; il leone alato per S. Marco, l’angelo per Matteo, il vitello alato per Luca e l’aquila per Giovanni, oltre naturalmente il libro per tutti quanti. La seconda litografia, rea-lizzata da Molina di Torino, ritrae Giovanni intento a scrivere il suo vangelo al cui fianco è l’aquila che simboleggia il volare alto e quindi la maggiore vicinanza a Dio. le litografie sono realizza-te intorno al 1870 e sono acquerellate a mano.

BIBLIOGRAFIA(1) Source: A.C.E, Etats des Paroisses, D5. Vol.5.(2) A.Cu.E., Visites Pastorales 1699-1712.(3) A Cu.E. Visites Pastorales C5 vol,12.(4) Abbé HENRY, Histoire de la Vallée d’Aoste, Imprimerie Mar-guerettaz, 1967 pag.47.(5) STEVENIN, J., Hospitia, editore Musumeci, 1999.pp. 90-92.(6) DUC, J.A., Histoire de l’Eglise d’Aoste, Tome 4, 1988 p. 521. (7) Museo del Tesoro, Cattedrale di Aosta, Musumeci,.[1985?], pp 52, 70,74,76,128.

janvier 1464 Antoine de Préz fit son testament. …il disposa que son corps soit enseveli à la Cathédrale dans la chapelle de Saint Jean L’Evangéliste, fondée par Oger Moriset…”(6). Inoltre, molte raffigurazioni di questo santo si trovano nel Museo del-la Cattedrale. Notiamo, ad esempio, un bassorilievo in marmo del secolo XV, (78x107), con la figura del Cristo che emerge dal sepolcro, mentre ai lati ci sono la Madonna e san Giovanni Evangelista.Una cassa per le reliquie (35x126x52) di san Grato, a trafori gotici. Opera di Guglielmo di Locana e Jean de Malines (1415-1458). Sul lato anteriore si vedono le statuine dei Santi Andrea, Giovanni Battista, la Madonna col Bambino, Giovanni Evangeli-sta e Maria Maddalena, sul lato posteriore, sant’Antonio Abate. C’è, inoltre, un bassorilievo con scene della vita di Cristo. Nel registro superiore si vede l’Ultima Cena, la rivelazione del tra-dimento e l’atteggiamento consolatore di san Giovanni Evan-gelista. Opera dei secoli XIII/XIV, in legno intagliato (189x50).C’è inoltre un messale (45x33) di Giacomo Jacquerio e scuola (1420-1422), dove san Giovanni Evangelista è raffigurato con Maria ai piedi della croce. Notiamo poi una cassetta per reliquie di arte limosina. Inizio del secolo XIII. (25x27x10,5) di smalto su rame dorato. Sul coperchio, al centro, si vede il Redentore, con attorno i simboli dei quattro Evangelisti. Troviamo anche una bella statua di san Giovanni Evangelista, della metà del XV secolo (116x46). Essa proviene dall’Ermitage de Saint Grat ed è di proprietà della Mensa Vescovile. In legno dipinto e dorato.

Il Redentore e gli Evangelisti. Litografia acquerellata della manifattura Cordey di Torino. Intorno al 1870

S. Giovanni Evangelista. Litografia acquerellata della mani-fattura Calimeri di Torino. Intorno al 1870

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beckschut un bunnen d’grétzi un gma-chut birhen beesmera um wüschen da hof.

All zseeme bschtattuntsch da witt um bachen, chochun, chiedŝchun, arweer-men, machun hurtig vachliti… bar lanzi, spretzliti, vlunghi un falbrichtschi…

AL TSCHACHTELLJER

Al Tschachtelljer tutti in fila, un frassino, un noce, un abete e una betulla. Il frassino piega ma non rompe facilmen-te, per questo motivo è con il suo legno che si facevano manici per arnesi, slitte, carriole, barelle portasassi, scale a pioli ed altri utensili; le foglie date da man-giare alle mucche, si diceva, facevano produrre molto burro, in molti mayen, vicino alla casa, c’è un frassino al quale,

alternando, venivano tolte un anno solo le foglie e l’anno suc-cessivo le fronde, da usare come foraggio.

Il noce, dopo averci dato i frutti per fare l’olio, pane e grissini, torte e molte altre preparazioni, ci fornisce un legname eccel-lente, uno dei migliori, sempre ricercato per lavori al tornio come coppe, piatti, cornici… e mobili di pregio.

L’abete regala ombra e riparo in ogni stagione, per uccelli e animali selvatici che fra i suoi rami possono passare pure l’in-verno senza problemi, anche l’uomo cerca la sua ombra per ripararsi dal gran caldo. Le assi di abete sono ottime per la cantina dei formaggi, per sistemarvi appunto le forme come pure per fare ponteggi o altro. A Natale, in casa e in piazza, l’abete, ornato di luci e addobbi multicolori, festeggia con noi.

La betulla col suo tronco bianco, come una damigella, spicca in lontananza, è la più bella del bosco, la sua bella corteccia ispira gli artigiani che la usano per preparare giochi e piccoli lavori per la fiera di Sant’Orso. In inverno gli uomini lavorava-no le frasche di betulla ripulendo l’impugnatura col coltellino e legandole per farne delle ramazze.

Tutti quanti questi alberi forniscono legna per panificare, cuci-nare, lavorare il latte, riscaldare e fare allegri falò… tutti fiam-me, scoppiettii, scintille e resti spenti trasportati dal vento…

Im Tschachtelljer all z’réndŝchu, an ésch, an nuss-baum, an tannu un an birhu.Dan ésch boeikht un nöit sua tell breche, ant-weegen desch ischt mit dŝchéim holz das mu het gmachut stilla, schlljitti, steinbeeri, leitri un endri

trüeli; z’éschen laub um geen da chüne hentsch gseit séji bar-ren anghe, in vill beerga béi d’gmach ischt an ésch das mu het as joar gschneite un as joar abiotturut um heen z’laub.

Da nussbaum, noa heen keen d’nuss um machun üeli, bruat un stekhjini, turti un vill endri gchochi, git noch as roatschigs holz, eis dar béschtu, génh gsuchts um driejen un machun chopfa, piatti, korniss… un féinz mobilia.

Di tannu tut schatmun un scheermun z’ganz joar… voggla un wilti tschemmini mian passrun da winter oan nuat unner dŝchéin grampi un im summer auch d’lljöit mian goan in dŝchéin schatt um dŝchi wérren van dar gruassu hitz. Di tannen loadi dinun in d’chieschkruatu, vür steegu un vür endri weerhji. Am Wittag, zam hous un ouf in d’piatzu, di tannu gloadni gsichtjini un hen-gellji aller voarwunu machut virtag mit ündŝchen andre.

D’birhu mit dŝchéir wéissun billju, wi as vrauli, schéinit van wéit, ischt d’hübschta im woald, dŝchéin schienun peelutu git d’idée deene das beckschun vür d’feiru z’Sent’Ours um ma-chun dŝchöcki un chleini weerhji, un im winter d’manna hen

Im TschachtelljerImeldA ronCo hAntsCh

(foto S. Ronco)

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La ricostruzione della casera si fece nell’anno 1955, con il contributo in base alla Legge 25-07-52 n.991 (come indicato

sull’architrave in pietra dell’entrata della baita). Della baita precedente ricostruita nel 1859 da LLJ (Linty Louis Joseph *1822†1904) cedette il muro a monte e si dovette procedere a ripararla.I lavori per la ricostruzione durarono da maggio ai primi di settembre del 1955.Si fece una rudda (corvée), all’inizio del mese di maggio del 1955, per il trasporto del trave principale della casera. La pianta fu tagliata al di là del valloncello verso Valniro. Alla corvè parteciparono 15 uomini fra i quali, Domenico Murer, Aldo Ronco (Runchet), Joake Luei (Luigi Christillin), Linty Leone, Bruno Christille, Bruno Linty, Ottavio Ronco (Taje), Güstinhsch Joseph (Giuseppe Busso il proprietario), Joseph Girod (marito di Elvira Stévenin che era la proprietaria per 1/4 dell’alpeggio), Filippo Consol. Gli uomini erano ospitati nella baita a Muntuschütz.La lista della spesa, per dare da mangiare agli operai, stilata da Giuseppe Busso era costituita da: carne, acquistata il 29 maggio, il 9, 14, 19, 22 giugno e il 3 luglio, il resto era ossa per il brodo, pasta, riso, farina, uova, formaggio, parmigiano, mortadella, pancetta, latte, vino, pane, patate. Il resto era del carbone: per scaldare il ferro delle punte e limarle, e polvere nera: per minare. Le donne che hanno aiutato indicate nella lista erano Stella Yon e Linty Dina (moglie di Fortunato Linty Moata).Per l’occasione del trasporto del trave maestro mangiarono a Muntuschütz nella baita affittata da Luigina Yon e Filippo. Le donne presenti erano Stella Yon (moglie di Giuseppe Busso e zia di Luigina Yon), Elvira Stévenin (proprietaria di 1/4 dell’alpeggio), Luigina Yon, Lixandrisch Vituari (Vittoria Busso). Si fece di domenica quindi le donne al tempo della messa dissero un rosario e un pater. Per il pranzo si preparò bollito con patate e vino in abbondanza.Mentre si procedeva al trasporto del trave, sul versante opposto

del vallone all’alpeggio di Mühnu si trovavano quattro uomini di Gaby che sostituivano le costane del tetto della baita, erano Galefri, lou Djoallji, Armando Bul e un altro. Tre di questi uomini visto che a Beauregard erano in difficoltà decisero di andare ad aiutare.L’alpeggio in quel periodo era condotto da Beniamino Linty che pagava l’affitto per l’equivalente di 150 kg di burro la stagione. La caldaia per lavorare il latte era di proprietà della famiglia di Giuseppe Busso e Elvira Stévenin. Il conduttore pagava per l’affitto di quest’ultima un kg di burro che consegnava il giorno di San Giacomo.Beniamino inoltre nel periodo dei lavori di ricostruzione della baita fornì polenta, latte e burro che scalava dall’affitto.In una data imprecisa il muro a monte della baita di Beauregard cedette, Mario Busso (figlio di Giuseppe) e Joseph Girod (marito di Elvira Stévenin) disfarono il tetto della casera accatastando le lose del tetto a fianco vicino alla letamaia.

Dall’elenco di Giuseppe Busso:ossa: servivano per il brodo.carbone: per scaldare il ferro delle punte e limarle.polvere nera: per minare.

Ricostruzione della casera di Beauregard (1918 m.)(vallone di Bourinnes)

AgostIno busso

Beauregard oggi (foto Musso)

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Burro di Beniamino kg. 4,800 [1/2 anni ’50 anni il burro era 1.100 lire al kg.] Latte Beniamino litri 5 x 70 [350]

Vedi giornaliero paghe orarioMaggio Busso Giuseppe h. 118 x 200 23.600 Murer h. 118 x 215 25.370 Linty Beniamino h. 49 x 175 8.575 Busso Onorato h. 76 x 215 16.340 Linty Marco di Beniamino h. 10 x 160 1.600 Nicco Giovanni h. 37 x 200 7.400 Praz Arduino h. 48 x 175 8.400 __________ Riportare 208.934 [corretto] 199.134 Riportato 208.934Giugno Busso Giuseppe h. 251 x 200 50.200 Roffin Giuseppe 42.750 pagato Pagati 9/7/55 Murer h. 32 da pagare [cancellato] 6298 Trenta Lugi pagato il 27/6 h. 3 Linty Beniamino h. 2,5 x 175 438 Consol Filippo h. 2.5 x 175 438 Praz Mario h. 45 x 180 Compreso servitore 8.100 Praz Mario (l’asino solo) ?? Girod h. 20 x 180 3.600 Linty Dina h. 10 x 120 1.200 Stella Yon h. 10 x 120 1.200 Chamonal Mario già pagato 9/7 [cancellato] 1.750Luglio Busso Giuseppe h. 207 x 200 41.400 Roffin Giuseppe (pagato) Chamonal Mario già pagato 9/7 [cancellato] 1.750 Busso Mario h. 8 x 175 1.400Agosto Busso Giuseppe h. 167 x 200 33.400 Busso Mario h. 29 x 175 5.075 Busso Augusto h. 28 x 175 4.900Settembre Busso Giuseppe h. 26 x 200 5.200 Busso Mario h. 10 x 175 1.75021/8 Spesa viveri ultima corvè 1.260 Busso Giuseppe, Augusto, Mario e Girod. _________________ [cancellato] 378.293 : 4 = 94.573 17/8 Rotondamenti 362.195 : 4 = 90.458,75 1.750 - 1.750 - 358.695

Ricevuti da Stevenin Luigi £ 40.0001 . conto Murer 38.236 = £ 78.236 Avere 16.337 = 94.573 [cancellati]13.887 = 92.123 [sostituiti]Rimane da pagare asino Praz.Ridurre burro e latte sull’affitto alpe con B. LintyDa pagare Murer h. 32. – Da pagare progetto spese viaggio Aosta e ChatillonSul conto Stevenin Fornito una serratura per la porta di Chastelestein £ 1.200

1955 - RICOSTRuZIONE BOREGARDSpesa per approvvigionare gli operai

29 maggio carne kg. 5,500 x 1000 £ 5.500nota Consol ossa kg. 2 x 100 100nota Christille parmigiano – fontina 3.610nota panettiere kg. 12 (pane consumato) 1.560 carbone da forgia kg. 16=900 1.440 vino litri consumati (Ruda) litri 50 x 105 5.2505/6 spesa da Christille 1.265 Polvere nera kg. 1 375 Rottoli miccia n. 1 2006/6 Cucina Montuchuz Pasta kg. 2 320 Riso kg. 3 420 Latte litri 22 x 70 1.540 Sale kg. 1 15 Farina kg. 15 1.125 Uova da Chamonal 1 dozz. 2509/6 polvere kg. 1 375 carne, pane 60012/6 pane, prosciutto 40014/6 carne, pasta, pane 75019/6 carne 400 pane 130 Formaggio da Beniamino kg. 3,500 1.18820/6 Formaggio da Goyet kg. 3,900 1.285 Mortadella, pane e pancetta 41522/6 Carne 730 Farina, pane, patate, pancetta 68523/6 Pasta e pane 225 _______ Riportare 30.153 ________ Riportato 30.15326/6 pane, pasta, riso e carne 1.28027/6 Pagato Trenta Luigi h. 3 30029/6 pane, pasta , carne 810 Formaggio 9903/7 Carne 650 Pane, sale e fiammiferi 185 Farina kg. 5 3756/7 Pane, pancetta 330 Pagato vino da Christille l. 60 6.0009/7 Ruffino (vedi giornaliero) h. 305 x 190 58.000 Chamonal M. (vedi giornaliero) h. 20 x 175 3.500 A ½ Mario punte da costine kg. 10 1.300 A ½ proprio punte 17/70 – 20/100 kg. 7,5 1.025 Gancio ferro kg. 1,200 x 120 14427/7 Lamiera zingata (spezzone kg. 7,300 x 90) 6577/8 Carbolineum kg. 3 210 Calce kg. 100 1.200 Ferramenta per porte 380 Viti n. 60 per porte 360

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Paul Zinsli, che all’epoca aveva passato i cinquant’anni, era pro-fessore ordinario all’Università di Berna. La cattedra di Lingua, Letteratura e Tradizioni Popolari della Svizzera Tedesca, a tutti gli effetti tre in una, gli permetteva un approccio interdiscipli-nare che poteva spaziare a trecentosessanta gradi dalla topono-mastica al folklore, dalle leggende ai canti popolari. Originario della valle walser di Safen, lo Zinsli avrebbe dedicato tutta la vita allo studio della cultura della propria gente. Tanto che, anco-ra oggi, a più di quarant’anni dalla pubblicazione, il suo Walser Volkstum3 rimane un’opera insuperata.Paul Scheuermeier era stato invece, per oltre quindici anni, un ricercatore dell’AIS, l’Atlante Linguistico ed Etnografico dell’I-talia e della Svizzera meridionale.Intellettuale curioso ed attento, lo Scheuermeier non si era li-mitato nelle sue ricerche alla raccolta del dato linguistico, ma si era sempre premurato di documentare, con disegni e fotogra-fie, la vita dei contadini e la loro cultura materiale.Ormai avanti negli anni, l’anziano professore accompagnava

Suona la pendola e, tutt’attorno, è silenzio .. il silen-zio della stube, nella quiete del

primo pomeriggio, dopo pranzo, quando l’alpeggio pare quasi as-sopirsi ed il capofamiglia è sedu-to al tavolo, a parlare, un po’ stu-pito ed impacciato, ai suoi ospiti venuti da lontano.Ospiti importanti, di quelli per cui si scende in cantina e si tira fuori, dall’urna di pietra in cui viene conservato da decenni, il formaggio marchiato con il gior-no della propria nascita.1

I professori, due, uno anziano ed uno più giovane, sono venuti da via, dalla Svizzera Tedesca, e sono saliti apposta dal fondovalle per parlare con lui e per intervi-starlo ed annotare, sui loro taccu-ini, i nomi dei luoghi e le parole d’uso quotidiano.L’apparecchio è in funzione, posato sul tavolo della stube, davan-ti a lui, ma il suono della pendola sovrasta la voce .. uno, due, tre rintocchi .. la registrazione si intende a mala pena: troppi rumori di fondo, troppo basse e distanti le voci.. ma non si può andare tanto per il sottile. Gli intervistati parlano in modo molto vago, annoteranno suc-cessivamente a voce i ricercatori, le registrazioni sono state fat-te in condizioni difficili, ma vi era così poca e breve possibilità, continuano, quasi scusandosi della qualità dell’audio: il dialetto non è più intatto e sta per morire.2

Si avverte l’urgenza, nelle note dei ricercatori, e davvero non c’è più tempo da perdere: mentre l’Italia vive gli anni della rina-scita e del boom economico Salecchio vive infatti quelli del suo abbandono.È l’estate del 1961 e lo Zinsli, assieme allo Scheuermeier, è sa-lito fino a Frankuhuis, Case Francoli, una piccola frazione di Premia abitata, da tempo immemore da famiglie di Salecchio di lingua e cultura tedesco vallesane.

Vendere il bestiame e andare viaLa vita a Salecchio negli anni ’60 nelle interviste di Paul Zinsli e Paul Scheuermeier agli ultimi abitanti di Case Francoli.

AlessAndro zuCCA

1 Cfr.: Giovanni Brocca, Un caso interessante di spopolamento della montagna. in: Rivista mensile del Club Alpino Italiano, Febbraio 1931.2 Institut für Germanistik, Forschungsstelle für Namenkunde, Ortsnamenbuch des Kantons Bern, Zinsli DAT4 , in: Universitat Zurich, Phono-

grammarchiv, tt11053 Paul Zinsli, Walser Volkstum in der Schweiz, in Vorarlberg, Liechtenstein und Piemont, Frauenfeld und Stuttgart, Verlag Huber, 1968.

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sulla vallata sottostante, il paese era da sempre un luogo isolato. A dividerlo dalla piana di Premia non era solo quell’ora e più di cammino su un sentiero appena adatto alle gerle e agli animali da soma, ma anche la diversità, etnica e culturale, con i centri del fondovalle romanzo. Salecchio era sempre stata infatti un isola linguistica tedesco-vallesana in cui si parlava un dialetto arcaico e singolare.Quando Edouard Desor nel 1844, durante la sua traversata da Devero a Formazza, provato da pioggia, nebbia e grandine cer-ca rifugio in una baita, il pastore che apre ai viaggiatori li sente parlare in tedesco, nella sua lingua, e li accoglie affabile. Dal suo aspetto non si sarebbe detto che fosse un tedesco. Aveva il colorito scuro, folte sopracciglia nere, lo sguardo vivace ed un espressione sul viso del tutto meridionale.6

spesso lo Zinsli nei suoi viaggi sul versante italiano delle alpi. Lo Scheuermeier, che nelle sue ricerche per l’AIS aveva avu-to modo di battere a tappeto tutta l’Italia Settentrionale, aveva acquisito sia una buona conoscenza dei vari dialetti che una discreta abilità nello stabilire relazioni di fiducia con i vari in-formatori.Queste qualità erano tenute in gran conto dallo Zinsli: ancora all’inizio dei suoi ottant’anni ricorda con affetto nel suo Grund und Grat, Pianori e Creste, Paul Scheuermeier non badava alla fatica di raggiungere per ardue vie gli informatori e di carpire intelligentemente con la tecnica convalidata da lunga esperienza e con udito raffinato, i nomi dell’ambiente locale.4

E ardua era la via per raggiungere Salecchio5: situato in alta Valle Antigorio, su una serie di brevi ripiani posti a strapiombo

4 Il dott. Scheuermeier seppe sempre stabilire relazioni di fiducia con quegli agricoltori montani, e la sua conoscenza dei dialetti lombardi fece sì che gli indigeni non volevano credere che egli non fosse oriundo delle vicinanze.

Paul Zinsli, Grund und Grat, Pianori e Creste, Comune di Macugnaga, 2006.5 Sulla vita ed il tramonto della comunità walser di Salecchio confronta: Renzo Mortarotti, I Walser nella Val d’Ossola, Le colonie tedesco vallesane

di Macugnaga, Formazza, Agaro, Salecchio, Ornavasso e Migiandone, Libreria Giovannacci, Domodossola 1979. Paolo Crosa Lenz, (a cura di) I Walser del Silenzio, Grossi, Domodossola, 2002 Alessandro Zucca, San Nicola nella Stalla dei Capretti, in: Almanacco Storico Ossolano 2014, Grossi, Domodossola, 2013.6 Edouard Desor, Da Devero a Formazza, in: Marino Ferraris (a cura di), Alla scoperta dell’Ossola: testimonianze di scrittori stranieri del Settecento

e dell’Ottocento sulle valli Ossolane e sul Sempione, Domodossola, 1975.

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seguenze: l’anno dopo, nel 1962, Gertrud Frei sale per la prima volta a Salecchio.Allieva dello Zinsli, la Frei trascorse sul campo, a Salecchio ed a Passo, ben ventisette settimane distribuite nell’arco di tre anni tra l’autunno del 1962 e l’autunno del 1965. Le ricerche per la tesi di laurea sarebbero poi confluite nel suo Walserdeutsch in Saley 11, un’opera fondamentale nello studio delle colonie vallesane dell’alta vallata della Toce, grazie alla quale vennero fissati i tratti del dialetto di Salecchio proprio nei giorni del suo declino.In appendice, estratto dell’intervista fatta da Paul Zinsli e Paul Scheuermeier (I) ad Antonio Della Maddalena (A).Il gravoso lavoro di trascrizione e traduzione è stato portato avanti da Anna Maria Bacher, del Walserverein Pomatt, senza il cui aiuto questo scritto non sarebbe stato possibile.Le fotografie di Casa Francoli, sotto la grande nevicata del 2009, sono della famiglia Della Maddalena.

[…]

I Götä morgä, wéfél litter heidär kmachtA Ja étz hewär nit fél mee, hewär äbä mee fértzk, étz éscht in-

kheis chruit, z hew éscht allts ferbrants,I ÄhäA Chruit hewär nit mee, z fee mös émmer hunger machu, un ..un

frässä.. z chruit éscht scho dérsI Ähä.. wéfél mil.. wéfél milch.. tödär wartä bés än är töt

chääsä.. wéfél milch bruchädär zum chääsäA Jo äso äs fuftzk- sächtzk litter jétzäI ähä ja, da wa mu t millch énna tötA Ja das hewär wol, z chessiI Hä?A Wér sägämu z chessiI Z chessi, jaA Da rértmus, järbäs, bés de ör gewallt ..dena getmus ab uf z fiir

un de tötmus de no arbeitu, no réräI Mét wasA Ja, wér sägämä t brächaI AhaA Wen getmus uis tötmus ladä.. t sérta älli uischomi, un latmus

das dékchs chomä un saltzä I Un ankchä machä tötmu ouA Ja, ankchä machuwär de nit félI Wéfél sén doA Ja étz ankchä machäwär gantz wenig, darum millch éscht we-

nig Z Pumatt sénsch walser.. walsertitsch, walserdoitsch.. ŝchi sén

cho fa Wallis da chu kulunidzérä

Ma, nonostante nelle scuole ed in chiesa si parli italiano, la par-lata è di una purezza notevole. In casa si parla ancora la lingua dei padri ed il tedesco è conservato con cura dalle famiglie: i due figli del pastore, un bambino e una bambina, capivano per-fettamente e prendevano parte alla conversazione senza alcuna difficoltà. 7

Ancora Hotzenköcherle e Gysling, nel 1929, rilevano come il dialetto di Salecchio, al pari di quello di Agaro, conservi forme arcaiche e desuete come l’uso del preterito, un tempo verbale da tempo abbandonato nella lingua corrente8. Già nel secondo dopoguerra, tuttavia, al tempo delle escursioni dello Zinsli e dello Scheuermeier il paese era entrato in quella fase inarrestabile del suo declino che l’avrebbe visto spopolarsi nel breve volgere di pochi anni. Il dialetto era morente: scesi al piano, separati tra loro, immersi in un contesto linguistico diffe-rente, i più avrebbero presto smesso del tutto di parlare la loro lingua. Le registrazioni delle interviste con gli ultimi abitanti, di cui presentiamo qui un inedito stralcio, costituiscono pertan-to un prezioso documento storico. I nastri, conservati per anni presso l’Istituto di Germanistica dell’Università di Berna, tra le carte del Prof. Zinsli, sono stati poi digitalizzati di recente dal Phonogrammarchiv dell’Università di Zurigo, dove è ora possi-bile ascoltarli.Dopo un primo sopralluogo nel 1959, i due ricercatori ritorna-no ancora a Salecchio nell’estate del 1961 e si spingono sino al limitare delle terre della piccola comunità, a Case Francoli, Frankuhuis, là, dove il vallone di Vova interrompe la sequenza di brevi ripiani posti a strapiombo sull’alto corso della Toce. È in quell’occasione che viene intervistato l’ottantaquattrenne Antonio, di quel ramo della famiglia Della Maddalena detto Pa-tarett. 9

Qui è difficile vivere, racconta l’anziano capofamiglia in quella che è una lucida riflessione sulla propria vita e sull’inesorabile abbandono del paese: perché qui non c’è altra industria, non si può guadagnare un franco da nessuna parte, per questo parto-no tutti, perché qui non guadagnano più, la gioventù se ne va, molto in basso a lavorare nelle fabbriche.10

Cambiano i tempi, per la prima volta c’è benessere anche in valle e c’è un alternativa che è diversa dal fare fagotto ed andare oltremare, in America, a tentar la fortuna.In quella comunità isolata ed ancora aggrappata alle antiche consuetudini la presa di coscienza delle proprie condizioni e del divario che ormai li separa dal mondo esterno, dall’Italia del boom economico, ha un effetto devastante. L’abbandono di-venta irreversibile e a farne le spese, in primo luogo, è l’antico idioma vallesano che, quasi senza eccezioni, viene soppiantato nell’uso dal dialetto antigoriano.Il sopralluogo dei due studiosi non rimane tuttavia privo di con-

7 Ibidem.8 Cfr.Fritz Gysling,, Rudolf Hotzenköcherle, Wlaser Dialekte in Oberitelien in Text und Ton, Frauenfeld, Verlag Huber, 1952.9 Sui diversi rami della famiglia Della Maddalena confronta: Alessandro Zucca, La somministranza del fieno da farsi alle truppe austriache in: Paolo

Crosa Lenz (a cura di), I Walser del Silenzio, cit.10 Äs éscht hiä bes läbä, darum hiä éscht de kheini induschtri different, chanmu nénä ä frank ferdénu darum gänŝch alli fort, fägä hiä kferdénänŝch

nimmä, z jungtmu get, gar nétschi in fabbrikä ga arbeitu wa ŝch fénnän, Institut für Germanistik, cit.11 Gertrud Frei, Walserdeutsch in Saley. Wortinhaltliche Untersuchung zu Mundart und Weltsicht der altertümlichen Siedlung Salecchio/Saley (Antigo-

riotal), Haupt P., Bern-Stuttgart, 1970. L’opera è rimasta a lungo inedita in Italia e solo di recente è stata parzialmente tradotta e pubblicata grazie all’iniziativa del Comune di Premia e dello Sportello Walser ed all’impegno di Monica Valenti e di Federica Antonietti.

Il libro contiene inoltre le trascrizioni e le registrazioni, in un CD allegato, delle interviste fatte a Secondo d’Andrea, l’ultimo rimasto a parlare il dialetto di Salecchio. Confronta: M.Valenti, (a cura di), Tracce walser. La parlata walser di Salecchio ieri e oggi, Edizioni Mercurio,Vercelli, 2011.

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satztä schnee zum balkä hetmu nit mee ksee, wér he de miéssä.. wér sägämu schléttä, ufladä uf dä schléttä un denaa tös fort.. zéé, zéé.. de hetmu nit mee chunnä ufschépfu

I Un wasser.. heid ér émmer wasser im winterA Im wénter bés jétzä hewär allgu z wasser khäbä, aber i fértä

fascht hir wen s nit chun chu rängnu wér blibä de oni wasserI Ja.. was machädär dem?A Ja de muössuwär de ou fljé, t chéé laa, alls un z fee ferchoufä,

un de wäg gaa, ani wasser chanmu nit läbäI Ja.. heidär nit uf .. uf habä.. da wa techträ sinA Joch, appus wa fénntmu de huis, techträ da.. uis in Premia, di

tén im tal kheiratä.. heiratä.. äs éscht im wénter wen s äso fél schnee éscht chanmu nit mee néder gaa

I Ä, chanmu nit néder gaa?A Ja, méttum fee chanmu nit gaa, jétzä t lit ol mét schki, ol.. der

böb get de schér all .. all wuchä z brot ga gee, un was necessari éscht z läbä, ma t schtrass éscht de nit mee, mee gedär de mét dä schkinu; a, im wénter és let! z Saley da gäwär de féli maal uis, de lögäwär z machä t schtras, ja, was wéllt machu, schnee schepfu un dem fee tuö

I Un zwei maal mälchä, all tagA Ja, zwei maal: morgä un abä

I Cosa fate voi in inverno?A Che vuoi.. in inverno? Assai poco, accudire al bestiame e spalar via sempre la neve,

(SORRIDE) quelli sono i nostri lavori in inverno, sempre la-vorare per niente

I (RIDE) .. e dormireA Sì.. un anno, quando la neve cadde alta si passava lì attra-

verso quel camino.. in quei finestrini a guardare giù più di quattro metri di neve assestata dalla finestra non si vedeva più, noi dovevamo poi.. noi gli diciamo slitta, caricare sulla slitta e poi portarla via.. tirare, tirare.. allora non si poteva più spalarla su

I E acqua.. avete sempre l’acqua in invernoA Finora in inverno abbiamo sempre avuto l’acqua, ma temo

quasi che quest’anno se non viene a piovere allora noi rimar-remo senza acqua

I Ma.. allora cosa fareteA Allora dovremo andarcene anche noi, lasciare le mucche,

tutto e vendere il bestiame, e andare via, senza acqua non si può vivere

I Sì.. non avete .. intrattenere.. lì dove sono le figlieA Ma, da qualche parte si troverà casa, le figlie lì.. fuori a Pre-

mia, quelle si sono sposate.. sposate.. il fatto è in inverno quando c’è così tanta neve non si può più scendere

I Ah, non si può scendere?A Sì, con il bestiame non si può andare, adesso le persone o

con gli sci, o.. il figlio va quasi tutte.. tutte le settimane a pren-dere il pane, e ciò che è necessario per vivere, ma la strada non c’è più, spesso va con gli sci; ah, in inverno è brutto! Lì a Salecchio andiamo fuori molte volte, allora cerchiamo di fare la strada, ma che vuoi fare, spalare neve ed accudire al bestiame

I E mungere due volte, tutti i giorniA Sì, due volte: mattino e sera

I Aber ér red.. ér wen töt zellu wé .. wé in PumattA Un de äso sén kriwät, un sén chu allts kultiwérä un chu

adatérä… t schprach éscht scho mee mét titsch , ŝchi sén proppi älli scho ksucht.. fa titschi

I Aber äs éscht fascht glich tra hiä in Salei un in PumattA Ja, schér glich.. schér glichI Schér glichA Im altä tag sén älli titsch ksé, wältsch hensch gantz wenig

chunnä schprächä

I Buona mattinata, quanti litri avete fatto?A Ma adesso non ne abbiamo più molto, ne abbiamo solo più

quaranta, adesso non c’è erba, il fieno è tutto bruciatoI AhaA Erba non ne abbiamo più, il bestiame deve sempre patire la

fame, e.. mangiare… l’erba è già seccaI Aha.. quanto latte.. aspettate di avere finchè fate il formag-

gio.. quanto latte avete bisogno per fare il formaggio?A Circa un cinquanta-sessanta litri adessoI Aha sì, lì dove vi si versa il latte…A Sì, quello lo abbiamo certo, il paioloI Come?A Noi lo chiamiamo paioloI Il paiolo, sìA Lì lo si gira, lo si mescola col Järb, finchè sale.. poi lo si toglie

dal fuoco poi lo si lavora ancora, ancora girareI Con che cosaA Sì, noi lo chiamiamo mestoloI AhaA Quando lo si prende fuori (dal paiolo) lo si carica.. affinchè

esca tutto il siero, e lo si lascia che si raddensi e si salaI E si fa anche burroA Sì, ma burro non ne facciamo moltoI Quanti ve ne sono lì ( panetti di burro)A Ma adesso di burro ne facciamo molto poco, perché c’è poco

latte. A Formazza sono walser… tedesco dei walser , tedesco wal-

ser… essi giunsero lì dal Vallese per colonizzare I Ma voi par.. voi quando parlate lo fate come.. come a Formaz-

za?A E così sono arrivati, e sono venuti a coltivare tutto e ad adat-

tare… la lingua è già più vicina al tedesco, loro sono proprio tutti con l’aria … di tedeschi

I Ma è quasi uguale (la parlata) tra qui a Salecchio e a Formaz-za?

A Sì, certamente, uguale.. quasi ugualeI Quasi ugualeA In tempi antichi erano tutti tedeschi, l’italiano lo sapevano

parlare assai poco

[…]

I Was machät ér.. ér im winter?A Ja was.. im wénter? gantz wenig, zum fee tö un der schnee al-

lgu fortschepfu, (SORRIDE)das sén indschi wärchi im wénter, allgu arbeitu fer nit

I ( RIDE ) .. un schlafuA Ja..eis jaarsch, wen s het heier kschnit éschtmu da in dem che-

mi , getmu dér.. in di balkjé néder z lögä mee de fér metter ks-

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compensi d’esproprio. Poi il podestà di Baceno aveva imposto il possesso della tessera del PNF per poter svolgere il lavoro di guardiano alla diga, ma i guardiani nascosero partigiani e renitenti alla leva. Inizialmente, nell’autunno 1943, l’atteggiamento degli agaresi nei confronti dell’occupazione tedesca fu di indifferenza. Un’in-differenza che apparentemente sconfinava in una complice con-fidenza grazie alla comprensione reciproca dovuta al fatto che gli agaresi conoscevano e parlavano correntemente la lingua tedesca, grazie all’uso della lingua walser e alla frequentazione del Vallese per il contrabbando. (“Poi sono arrivati i tedeschi. La gente diceva che se aiutavi i partigiani ti radevano i capelli e che io un giorno mi sarei trovata calva. Io invece non avevo paura, parlavo con tutti, con i soldati, con i tedeschi e nessuno ci ha mai fatto male. Anche mio padre e i miei zii parlavano con i tedeschi perché loro il tedesco lo parlavano” [Lidia]). L’evoluzione e l’accelerazione degli eventi, la coscrizione obbli-gatoria (maggio 1944), le ripetute violenze nazifasciste porta-rono ad un radicale mutamento di atteggiamenti. (“I miei fra-telli erano andati con i partigiani. Uno è stato ferito, portato in ospedale, ma è riuscito a scappare. L’altro era su in montagna e c’erano in giro i tedeschi. Lassù d’inverno avevano freddo e fame. Allora io andavo su, passando per i boschi, con il brentino del lat-te, ma invece del latte portavo vestiti e cibo e sono sempre riuscita a passare”. [Velia]).

Tra il settembre 1943 e l’a-prile 1945 i monti della Val d’Ossola vissero pagi-ne importanti nella storia della Resistenza italiana.

La vicinanza con la Svizzera, terra di rifugio per perseguitati politici e raz-ziali, il rilievo economico delle centrali idroelettriche e la presenza di industrie belliche “sfollate” fecero di questa ter-ra di confine un luogo strategico nello scacchiere dell’occupazione tedesca e della Lotta di Liberazione. Subito dopo l’8 settembre 1943 si costituirono an-che in Valle Antigorio bande partigiane formatesi con differenti motivazioni, ma accomunate dalla lotta al fascismo e all’occupazione nazista. I “Quaranta giorni di libertà” della Re-pubblica dell’Ossola (10 settembre - 14 ottobre 1944) rappresentarono una pri-ma esperienza di governo democratico in un territorio liberato. Il ruolo della comunità di Agaro nella Resistenza ossolana (e, più in generale, dei Walser) è poco conosciuto e studiato: scarsi o nulli sono i documenti, frammentaria è la memoria. Nell’autunno 1943, quando iniziò la Resistenza in Ossola, il villaggio di Agaro non esisteva più da cinque anni, sommerso dalle acque dell’invaso idroelettrico; la comunità walser aveva consolidato una diaspora dolorosa che aveva disperso le fami-glie; rimaneva soltanto il villaggio estivo di Ausone e la “casa dei guardiani” sul muraglione della diga; rimaneva l’alto alpeggio di Pojala, fertile di pascoli percorsi da partigiani e perseguitati in cerca di una via per la Svizzera. I singoli episodi, apparentemente minuti e insignificanti nel più vasto contesto della Resistenza ossolana, sono tuttavia simbolici di un atteggiamento prima di indifferenza e poi di aperta oppo-sizione della sparsa comunità agarese verso uno Stato lontano che prima si era presentato con il “progresso” della diga e poi con la ferocia gratuita delle camicie nere di Salò e con i cannoni tedeschi. È una memoria che pervade tutte le testimonianze degli aga-resi rimasti. Gli ultimi anni del regime fascista furono vissuti dagli agaresi come oppressivi. Già nel 1928 l’accorpamento dei piccoli comuni montani voluto da Mussolini aveva comportato la perdita dell’autonomia comunale e l’aggregazione a Premia. Nel 1938 le acque del lago avevano sommerso e cancellato il villaggio; la comunità era dilaniata dalla quantificazione dei

I Walser di Agaro nella Resistenza

pAolo CrosA lenz

Uomini di Agaro

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le ultime stalle e baite di Agaro, costruite a margine degli esi-gui pascoli rimasti sulle rive del lago. (“I tedeschi erano con un camion e sono andati oltre la galleria, ma non hanno trovato i partigiani. Hanno dato fuoco alle stalle piene di fieno. In quelle stalle i partigiani avevano dormito prima di andare per l’alpe Nava. Di sera bruciavano ancora e i tetti erano crollati.” [Dio-vuole Proletti]). Quel poco che era stato risparmiato dalle acque della diga, non fu risparmiato dalla repressione nazifascista. Di Agaro non ri-maneva più nulla! In quei giorni tremendi, quei sentieri antichi, percorsi da sem-pre da mercanti, pastori e contrabbandieri, divennero “vie di libertà”. I monti di Devero (il Passo della Rossa, la Bocchetta d’Arbola), gli alti pascoli di Pojala, le praterie di Formazza vide-ro la ritirata dei partigiani (non di tutti, perché singoli e gruppi decisero di rimanere!). Fu una ritirata breve. Dopo un inverno feroce di freddo e rappresaglie, la primavera 1945 vide il ritorno e la Liberazione. Alfredo Deini, il grande narratore delle memorie di Agaro of-ferte a Renzo Mortarotti, raccontava sempre di quando, per la fine della guerra, la chiesa di Baceno aveva suonato le campane a festa e sui prati di Ausone quel suono lontano e liberatorio aveva indotto i contadini, intenti nei primi lavori dopo lo sciogli-mento delle nevi, ad inginocchiarsi tutti. E avevano pregato per ringraziare il Signore.Consapevolmente o meno, nel dolore e nella disperazione, an-che gli ultimi della comunità walser di Agaro diedero il loro contributo. Un sacrificio come un riscatto. Lo diedero con una formaggella ad un partigiano affamato, una pezza di lana ad un profugo morente per il freddo, un’ospitalità silenziosa, un sorri-so di promessa ad un disperato. Ma, nella nuova Italia, per loro non c’era più posto.

Nei venti mesi della Resistenza si coagularono e divennero ni-tidamente percepiti sentimenti prima confusi e indistinti. Un sentire avverso al potere centrale, da sempre avvertito come lontano e ostile dalle sperdute comunità alpine, che in un breve volgere di tempo divenne comportamento aperto e concreto di sostegno ai partigiani. Un sentire tuttavia contraddittorio in cui si mescolavano, spes-so indistinti, minuto interesse privato, necessità primaria di so-pravvivenza e timida coscienza civile. In tempo di guerra, le donne erano solite andare “alla raf”, scen-dere nella pianura novarese ad effettuare clandestini scambi in natura: patate contro riso. Una parte del riso veniva consumata dalle famiglie e un surplus veniva caricato sulle “bricolle” (il carico di un contrabbandiere) e portato in Svizzera per essere scambiato con zucchero e caffè. La guerra fece tornare nelle alte valli di montagna un’articolata economia mercantile basata sul baratto. I Walser di Agaro (Ausone negli anni ’40) e di Salecchio aveva-no due mercati svizzeri per il contrabbando: la piazza di Binn in Vallese e quella di Campo Valmaggia in Ticino. In particolare era frequentata quella di Campo, ai piedi della Val Cravariola dove nel 1944 operava un reparto autonomo di partigiani co-mandato da Pietro Carlo Viglio, che diventerà poi l’8a Brigata “Matteotti”.Nel settembre 1944, i partigiani scendono da Esigo e dal solita-rio vallone di Agaro (il cui accesso era costituito dal tunnel del-la condotta idrica e quindi facilmente difendibile); con facilità arrestano due soldati tedeschi all’albergo “Italia” di Baceno e i pochi militi del fortino. Liberano Formazza e Antigorio; scendo-no a Domodossola liberata. Nell’ottobre 1944, durante la rioccupazione dell’Ossola dopo i “Quaranta giorni di libertà”, i nazifascisti salgono a bruciare

Il villaggio di Agaro

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sti dati inviandoli all’Ufficio centrale di Ecologia agraria a Roma, alla Società Meteorologica Italiana di Torino e più recentemente al servizio meteorologico della Regio-ne Valle d’Aosta. Per oltre quindici anni ha curato sulla nostra rivista la rubrica “Gressoney-La-Trinité: osserva-torio meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)”, dando particolare attenzione al monitoraggio dei ghiacciai del Lys, di Indren e del Piode. Era anche un ottimo alpinista, e apprezzata guida alpina, scrisse di lui un cliente: “Ho l’impressione di essere accolto da un vero signore della montagna a casa sua”.Nel 1988 in collaborazione con la nostra associazione e con il Centro Culturale Walser di Gressoney, Willy, in-sieme ad altre guide gressonare, ci ha accompagnato da Gressoney a Zermatt attraverso il Colle del Lys, per ricordare le imprese dei nostri alpinisti su questa mon-tagna che non fu mai barriera o invalicabile confine, ma palestra di uomini forti e crocevia di antichi sentieri.L’associazione Augusta lo ringrazia per non aver mai fatto mancare la sua presenza alle nostre assemblee, per il suo contributo alla rivista e per la partecipazione attiva alla salvaguardia del paesaggio del Monte Rosa.

Il 16 febbraio 2015 si è spento Willy Monterin all’età di 89 anni, guida alpina, decano degli operatori glaciologici delle Alpi italiane, e responsabile dell’osservatorio meteorologi-co di Gressoney-La-Trinité. Sulle orme del

padre Umberto, glaciologo di fama internazionale, fin dal 1941 effettuava le misurazioni sul movimento stagionale dei ghiacciai del Monte Rosa, oltre a rilevare le precipi-tazioni giornaliere, i dati di pressione, di temperatura e di umidità presso la stazione metereologica di d’Eyola, alle falde del Monte Rosa, dove abitava. Per la pressio-ne, temperatura e umidità il monitoraggio avveniva alle otto, alle quattordici e alle diciannove ora solare, di tutti i giorni dell’anno, mentre i ghiacciai che monitorava erano quelli di Verra, Lys, Indren, Belvedere, Piode, Netscho, Bors e Skerpie. Per più di settant’anni ha raccolto que-

Willy Monterin, il guardiano dei ghiacciai

IN MEMORIAM

6 agosto 1905, dans le plateau du Lys (Cortlys). Monterin Humbert, fotografo dilettante.

Willy Monterin (foto Camisasca)

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