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ATTI WORKSHOP “CODICI ETICI, CONFLITTUALITÁ: GESTIONE DEL RISCHIO D’IMPRESA” “La Prevenzione dei rischi legali e gestionali a carico delle imprese che non si dotano di corretti strumenti di gestione” 12 e 19 aprile 2007 CURIA MERCATORUM CENTRO DI MEDIAZIONE ED ARBITRATO Associazione Riconosciuta

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ATTI WORKSHOP

“CODICI ETICI, CONFLITTUALITÁ: GESTIONE DEL RISCHIO D’IMPRESA”

“La Prevenzione dei rischi legali e gestionali a carico delle imprese che non si dotano di corretti strumenti di gestione”

12 e 19 aprile 2007

CURIA MERCATORUM CENTRO DI MEDIAZIONE ED ARBITRATO

Associazione Riconosciuta

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È consentito l’utilizzo, anche parziale, del contenuto degli interventi riportati, purché venga fatto riferimento alla fonte

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INDICE

Giornata del 12 aprile 2007 Premessa Pag. 5

Introduzione ai lavori “Codici Etici, conflittualità: Gestione del rischio d’Impresa” Ing. Roberto Santolamazza Direttore dell’Azienda speciale Treviso Tecnologia

Pag. 9

Presentazione Dott. Franco Tagliente Responsabile scientifico Associazione Proetica

Pag. 11

Illustrazione dei principi fondamentali del D.Lgs. 231/2001 Dott. Carlo Nordio Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Venezia

Pag. 15

L’integrazione dei processi a rischio: protocolli per una corretta applicazione del D.Lgs 231/2001 Avv. Franco Tosello Studio Legale Tosello – Padova

Pag. 23

L’adozione dei Codici Etici Dott.ssa Irene Barbon Associazione Proetica – Treviso

Pag. 41

Testimonianza d’Impresa Sig. Ivan Cervellin CERFIM Spa (TV) – Vittorio Veneto

Pag. 55

Dibattito assembleare Pag. 67

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Giornata del 19 aprile 2007

Introduzione alla seconda giornata del workshop Dott.Franco Tagliente Responsabile scientifico Associazione Proetica

Pag. 79

Come prevenire le controversie aziendali e la loro gestione Avv. Ana Uzqueda Direttrice didattica Associazione Equilibrio – Bologna

Pag. 87

La Risoluzione alternativa delle controversie Dott. Adam Leopoldo Salama Esperto di Alternative Dispute Resolution Methods (ADR) Curia Mercatorum – Treviso

Pag. 123

Testimonianza d’Impresa Avv. Alfredo Fanton Mediatore accreditato Curia Mercatorum – Treviso

Pag. 127

Dibattito assembleare Pag. 137

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Premessa L'esigenza di una maggiore trasparenza nelle attività di tutte le imprese sia private che pubbliche è oggi una forte richiesta del mercato: la gestione dei rischi e dei costi connessi ai conflitti e ai contenziosi con tutti gli stakeholders dell'impresa è uno degli obiettivi di controllo degli organi societari (Corporate Governance) ed elemento di una corretta applicazione della Corporate Social Responsibility (CSR). Oggi le principali realtà imprenditoriali stanno, quindi, mostrando una crescente sensibilità verso l’adozione formale di codici di autoregolamentazione (codici di autodisciplina, etici o di comportamento). In Italia, attualmente questi codici sono costituiti sul dettato normativo previsto dal D.Lgs. n. 231/2001 “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica”. Il filo conduttore di queste due giornate di Workshop è stato, come evidenziato dal titolo stesso, la gestione del rischio d’impresa intesa sia come prevenzione “ex ante” che come risoluzione dei conflitti “ex post”. L’obiettivo del Workshop è stato quello di fornire alle imprese interessate conoscenze e strumenti che permettano di migliorare la trasparenza organizzativa, la chiarezza del sistema di gestione e le comunicazioni sociali, considerate al giorno d’oggi un valore premiante per l’immagine dell’impresa. Con questa pubblicazione si vogliono rendere maggiormente disponibili i contenuti sviluppati nelle due giornate dei lavori e nel contempo fornire un valido strumento interpretativo della normativa, anche alla luce delle più recenti disposizioni, introdotte, ad esempio, dalla legge n. 123 del 3.8.2007. L’art. 9 infatti estende la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società e associazioni (anche prive di personalità giuridica) agli illeciti connessi alla violazione di norme di sicurezza e antinfortunistiche. La responsabilità amministrativa degli enti si fa quindi sempre più stringente. Doveri, poteri ed obblighi sono le cerniere essenziali di un nuovo modello di “fare impresa” per raggiungere e realizzare la finalità classica dell’azienda, il profitto, riducendo quanto più possibile il rischio di potenziali ed onerose perdite economiche e di cause civili illimitate nel tempo.

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Giornata del 12 aprile 2007

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INTRODUZIONE AI LAVORI Ing. ROBERTO SANTOLAMAZZA Direttore dell’Azienda speciale Treviso Tecnologia Treviso Tecnologia è l’Azienda speciale della Camera di Commercio di Treviso per l’innovazione. Siamo il braccio operativo della Camera di Commercio per quanto riguarda l’organizzazione di eventi e la facilitazione della conoscenza di tematiche e approcci innovativi a 360 gradi, per l’impresa. Quindi, non deve stupire che Treviso Tecnologia sia presente e sia parte attiva nell’organizzazione di queste due giornate, proprio perché da sempre è impegnata su alcuni temi, quali la certificazione di sistema e di prodotto, la normativa tecnica (non solo di sistema), la ISO 9000 oltre a tematiche legate alla responsabilità sociale di impresa. Questo programma di incontri viene quindi organizzato sotto l’egida della Camera di Commercio e con il contributo, oltre che di Treviso Tecnologia, di un altro ente strumentale della Camera di Commercio di Treviso e di altre Camere di Commercio del Nord Est (non solo del Veneto) che è Curia Mercatorum, la Camera Arbitrale per la risoluzione e la gestione alternativa dei conflitti. Al programma di incontri, partecipa inoltre l’Associazione Proetica che poi si presenterà da sola, dal momento che a questo tavolo siede anche il dottor Tagliente, responsabile scientifico della stessa. Due brevissime considerazioni relative a questi due incontri per dare soprattutto testimonianza dell’importanza che la Camera di Commercio attribuisce, in generale, alla tematica della responsabilità sociale di impresa e, in particolare, all’aspetto importante della gestione del rischio d’impresa e degli strumenti che, ex post, vi possono essere a supporto. Alcuni di voi ricorderanno che lo scorso anno la Camera di Commercio di Treviso ha investito molto, oltre che nella comunicazione, nella definizione e nell’offerta di un ciclo di incontri seminariali formativi per le imprese proprio in tema di CSR che ha portato alla consegna di un kit operativo, riferito non tanto agli aspetti di norma tecnica SA 8000, quanto al cosiddetto “Social Assessment”. Quindi una sorta di strumento per l’autovalutazione che ha poi portato, in maniera semplificata ma significativa, diverse aziende, a maturare una certa consapevolezza sul ruolo sociale dell’impresa. Ed è questa tematica trasversale, che cerchiamo di coordinare tra gli enti sopraccitati, perché crediamo che la responsabilità sociale non sia l'ennesimo slogan, una leva di marketing impuro, ma sia una modalità diversa e consapevole di vivere il proprio ruolo nell’ambiente in cui si è inseriti. Quindi la giornata di oggi è dedicata al tema della consapevolezza e prevenzione del rischio di impresa, relativamente alla responsabilità degli

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amministratori attraverso una dotazione che non è semplicemente conoscere la norma, ma che è anche definire l’importanza dei codici etici, dei codici di autoregolamentazione che possano essere degli strumenti semplici ma anche spendibili in maniera operativa, poiché questo è il senso di tutte le azioni impostate ormai da più di un anno. D’altra parte, sarà affrontato anche il tema della risoluzione del conflitto attraverso modalità alternative alla classica procedura prevista dal Codice, che ovviamente non è in antitesi, ma è uno strumento importante su cui il sistema delle Camere di Commercio investe molto, come forse qualcuno di voi ricorderà, come nel corso dell’anno scorso è stata oggetto di una campagna sui mass media nazionali, proprio con la celebrazione di una “Settimana della conciliazione”. I relatori che interverranno oggi sono: - il dottor Franco Tagliente, coordinatore scientifico di Proetica; - il dottor Carlo Nordio, sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Venezia, che ci darà l’autorevole visione del Decreto Legislativo 231/2001, in riferimento al tema della responsabilità nella gestione dell’amministrazione dell’azienda e degli amministratori; - l’avvocato Franco Tosello approfondirà soprattutto l’applicazione degli aspetti normativi con alcuni casi specifici; - la dottoressa Irene Barbon (Proetica) darà una visione molto pratica di cosa significa adottare un codice etico e quindi, per un’azienda proporre un codice etico al proprio interno. Adottare un codice etico è un grosso sforzo che richiede un allineamento organizzativo piuttosto che di formazione del personale dell’azienda, ma che può portare a dei benefici importanti in termini di motivazione delle risorse umane, raggiungimento degli obiettivi classici, gestione efficace ed efficiente dell’azienda. A questo proposito, il signor Ivan Cervellin, che rappresenta l’azienda Cerfim, porterà un’interessante testimonianza. Questo è in sintesi il programma. Grazie per l’attenzione.

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PRESENTAZIONE Dott. FRANCO TAGLIENTE Responsabile scientifico Associazione Proetica Il marchio di Proetica evoca l’uomo di Leonardo ed è inserito al centro di tre colori che richiamano le tre partizioni del sociale: l’ambito culturale, l’ambito economico e l’ambito giuridico. Quest’uomo però, non è perfettamente armonico, non è come l’uomo di Leonardo in equilibrio perfetto: è “sghimbescio”. Seppure anch’esso abbia le braccia allargate ed assuma la posizione verticale, sembra quasi incedere con passo insicuro. Abbiamo scelto questo marchio perché l’associazione Proetica, che oggi qui rappresento, nasce come emanazione di Unindustria Treviso e gli Ordini dei Dottori e dei Ragionieri Commercialisti con l’intento di sostenere il processo di crescita di coloro che operano nel mondo economico verso un modo più etico di gestire le proprie aziende e di sviluppare le relazioni con le altre entità economiche e non solo. E' un cammino da un lato molto bello e molto profondo, dall’altro molto difficoltoso. Su un muro del museo di Vienna, dedicato al grande artista austriaco Hundertwasser, è scritta una sua frase: “L’orizzontale appartiene alla natura, il verticale all’uomo”. È la verticalità che il bambino ricerca nel momento in cui dal gattonare per terra decide di assumere la posizione verticale e si solleva sulle gambe compiendo un atto naturale che però non è consapevole. Nel momento in cui il bambino si mette in piedi, anziché camminare sui quattro arti come gli animali, incomincia per lui il cammino dell’uomo. In questo gesto apre le braccia e cerca l’aiuto di sua madre o comunque dei genitori o di coloro che sono a lui vicino. C’è un’altra ricerca della verticalità però che gli uomini intraprendono nel corso del tempo, ed è quella che passa attraverso la crescita della propria coscienza. E' una verticalità non più fisica, bensì “spirituale”. Quando sentiamo il bisogno di assumere una posizione eretta, quando sentiamo il bisogno di diventare uomini (e)retti, apriamo le braccia, e scopriamo che questo gesto è il gesto che ci riconduce all’incontro con altri uomini con i quali condividere il percorso che caratterizza l’umanità: il percorso della ricerca del senso, il senso dell’esistere come singoli e come parti di una comunità. La ricerca di senso e la coscienza del nostro agire sono elementi fondamentali per la verticalità e il senso del suo essere tale rispetto agli animali. La “ricerca di senso” sembrerebbe essere ostacolata, come diceva Schopenhauer, dal prevalere della volontà sull’intelletto. La volontà si manifesta nell’azione, in comportamenti scarsamente consapevoli mentre

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l’intelletto è l’elemento umano che permette di dare senso alle cose che facciamo; ma l’intelletto, quello che permette di fare, agire, modificare i comportamenti dando ad essi un senso, sembra addormentato. Ed ecco che in questa ricerca di senso (inteso come direzione, ma anche come significato) nell’incontrarci con gli altri uomini scopriamo il significato profondo della parola “etica” così come Aristotele l’aveva definita nell’Etica Nicomachea: “Ciò che è buono per sé è nel contempo buono per gli altri”. Sono passati 2500 anni e siamo ancora qui a discutere e domandarci che cosa significa essere etici nei nostri comportamenti. La risposta è molto semplice. Se il comportamento che stiamo tenendo nel momento in cui sviluppiamo una qualsiasi relazione, ad esempio di natura commerciale, acquistando o vendendo, oppure comunicando all’interno della propria azienda, rapportandoci alle istituzioni, considerando l’ambiente, pensando alle generazioni future persegue il bene proprio e nel contempo della collettività (degli altri) è etico, diversamente non lo è. Che cos’è un codice etico, e quando gli uomini si dotano di un codice? I codici nascono al formarsi di una comunità. Le comunità hanno bisogno di regole. Un codice etico è una legge, è la regola che si danno degli uomini che appartengono ad una comunità. Le regole che riguardano il modo di comportarsi non possono che nascere all’interno della stessa organizzazione/comunità. Il D.Lgs. 231/2001 evoca codici di comportamento, ma non tratta nello specifico il modo in cui crearli. Affida la loro formulazione alle associazioni rappresentative di Enti. La legge dunque nasce nel mondo giuridico, ma per la parte relativa ai codici di comportamento si espande in un altro mondo del sociale: la sfera culturale/spirituale come espressione di quella economia. Affinché questa legge possa funzionare non si deve dimenticare la salute di ogni organismo, che è data dal fatto che ogni organo sviluppa la sua funzione in maniera autonoma senza prevaricare su di un altro organo. Così come l’organismo umano funziona se gli organi che lo compongono riescono a funzionare in maniera autonoma, interagendo, ma non interferendo tra loro, allo stesso modo nella comunità sociale gli organi che la compongono, le sfere della cultura, dell’economia e del diritto devono collaborare, senza prevaricare. In questa legge la parte che è riservata al giurista è di sua peculiare competenza, ma per quanto riguarda il tema del codice etico, che ha a che fare con l’essere dell’uomo, non può nascere da una legge ma soltanto all’interno della comunità cui egli appartiene. Se così non fosse ci ritroveremmo a dover intraprendere un percorso costretti e non con la nostra volontà, con la nostra libertà e con la nostra consapevolezza. Non è dunque una legge che può dar vita ad un codice etico, ma la coscienza di coloro che fanno parte di una comunità e che decidono liberamente di dotarsi di comportamenti attenti ai singoli e nel contempo all’intero corpo sociale.

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Sotto questo profilo il legislatore ha rispettato un ambito che è peculiare dell’ambito economico/spirituale e che solo lì può trovare espressione.

I quattro elementi che differenziano lI quattro elementi che differenziano l’’uomo dalluomo dall’’animale: animale: la la verticalitverticalitàà,,il il sensosenso, , la la coscienzacoscienza, , il il linguaggio verbale.linguaggio verbale.

Il significato delle parole Il significato delle parole ““eticaetica”” e e ““codicecodice”” ..Nel Decreto Legislativo 231/2001 si incontranoNel Decreto Legislativo 231/2001 si incontrano le tre sfere le tre sfere

del socialedel sociale..

Franco TaglienteFranco Tagliente

“l’orizzontale appartiene alla natura, il verticale all’uomo”F. Hundertwasser

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ILLUSTRAZIONE DEI PRINCIPI FONDAMENTALI DEL D.LGS. 231/2001 Dott. CARLO NORDIO Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Venezia Il D.Lgs. 231 è così vasto che non si presterebbe ad una riduzione neanche sommaria nello spazio di 40 minuti. Tuttavia spero di darvi una lettura sostanziale di questa legge importantissima, non solo sotto l’aspetto tecnico, ma soprattutto sotto quello innovativo e quello pratico. Questa legge è nata nel 2001 (la data della promulgazione coincide con la fine della legislatura precedente a quella della “legislatura Berlusconi”) ed è stata estrapolata da un progetto più vasto di riforma del Codice Penale, redatto dalla una Commissione presieduta dal prof. Grosso, nominato dall’allora Governo. La legge 231 è stata approvata “frettolosamente” ma, se così non fosse stato, forse non sarebbe stata approvata nemmeno allora, violando le direttive vincolanti dell’Unione Europea. Il prezzo che si è pagato è stata un’insufficienza e una mancanza di coordinazione di questa legge con altre norme già esistenti. È comunque una legge rivoluzionaria perché ha scardinato il vecchio principio che esisteva da centinaia di anni che in latino recita "Societas delinquere non potest": la società/azienda non può commettere reati. Questo principio è antico quanto il diritto penale e trae origine dal fatto che la sanzione viene applicata a chi viola la norma penale, cioè a chi commette un reato. Una volta era la pena di morte o la pena corporale; oggi è essenzialmente la limitazione della libertà personale, cioè la detenzione. Si capisce quindi perchè una società o un’azienda non possa essere incatenata. Può finire in prigione soltanto la persona singola. Questo ostacolo di ordine pratico è simmetrico a quello di ordine teorico per il quale la sanzione penale, essendo essenzialmente afflittiva e avendo anche una sua connotazione etica, difficilmente si può applicare ad un’azienda che non ha anima, corpo e morale, nel senso che non ha una sua identità morale come l’ha invece l’individuo. Negli ultimi decenni, soprattutto in ossequio ad una tradizione che si è affermata nel diritto anglosassone, ci si è domandati se fosse giusto che per alcuni reati, che venivano commessi nell’interesse e a vantaggio delle imprese, le stesse rimanessero indenni da qualsiasi tipo di sanzione. Questo principio è emerso anche in Italia essenzialmente negli anni 1992 – 1994 quando si è scatenata Tangentopoli. Il legislatore si è domandato se per un’azienda che paga il Sindaco, il Ministro, il funzionario o chi per esso per avere un appalto, debba essere svincolata da ogni responsabilità, posto che l’imputazione penale grava solo

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sulle persone fisiche che hanno agito a suo vantaggio. La risposta è stata negativa: non è giusto che paghino solo le persone; devono pagare anche le aziende. Si è quindi fissato il primo concetto, all’art. 5: la Legge 231/2001 si applica ai reati che vengono commessi nell’interesse o a vantaggio dell’azienda. Il passo successivo è stato quello di domandarsi quali fossero questi reati. Inizialmente, si è pensato proprio a quelli che, nella tradizione, vengono commessi per favorire il profitto, ovvero il ricavo dell’azienda. Cioè quei reati contro la pubblica amministrazione, quali la concussione, la corruzione e la truffa che vengono commessi o possono essere commessi dai dirigenti, chiamati oggi “posizioni apicali dell’azienda” nell’interesse delle aziende. Da questo nocciolo duro, il catalogo dei reati è stato esteso ed oggi copre praticamente tutto il Codice Penale, oltre a numerose leggi speciali. Si può così affermare che, qualsiasi reato venga commesso nell’interesse o a vantaggio dell’azienda da chi riveste posizioni apicali (o anche da chi riveste altre posizioni) si riverbera negativamente a carico dell’azienda che può essere “incriminata”. Se tuttavia si consultano i repertori e le riviste di diritto penale di questi ultimi anni, dal 2001 al 2007, si troveranno pochissime sentenze che siano il frutto dell’applicazione di questa legge. Infatti sono stati aperti pochissimi processi contro le aziende perché la Legge 231 è stata applicata rare volte. Probabilmente per due ragioni, una teorica e una pratica. La ragione teorica è che questa legge, così innovativa, è estranea alla nostra tradizione giuridica e c’è quindi una certa difficoltà da parte della stessa magistratura ad applicarla. La ragione pratica è che la legge è così complicata (e introduce tutto un nuovo sistema procedurale parallelo a quello esistente) che pochissime Procure della Repubblica, hanno gli strumenti adeguati per poterla applicare. Tuttavia c’è un precedente che dovrebbe istruire e anche allarmare il mondo del commercio, dell’azienda e dell’industria: è il precedente del falso in bilancio. Il falso in bilancio è un delitto: ma è un delitto che non è inserito nel Codice Penale, bensì nell’art. 2621 e seguenti del Codice Civile. È un reato che peraltro esisteva già prima, nel vecchio codice di commercio. Se si vanno a vedere le sentenze in tema di falso in bilancio dal 1940 al 1990 si troverà poco o nulla. La legge sul falso in bilancio è stata applicata poco, per le stesse ragioni per le quali è stata applicata poco la 231: una scarsa sensibilità da parte delle Procure della Repubblica di fronte alle problematiche dei reati economici, scarsa dotazione strumentale e tecnica per perseguirli, ecc. Tuttavia se si leggono i repertori dal 1994 al 2004 sul falso in bilancio si troveranno numerose sentenze, così severe da indurre il legislatore a introdurre una norma (controversa e a lungo discussa) che ha cambiato la struttura del reato. Il precedente del falso in bilancio dovrebbe istruire tutti

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noi sul significato della legge 231. Il fatto che fino ad ora essa sia stata applicata raramente non significa che le Procure non si attivino, un domani, in tale direzione, come è accaduto con l’art. 2621. Nel momento in cui i Pubblici Ministeri decidessero di dedicarsi a questa legge scopriremmo di essere seduti (o di essere stati a lungo seduti) su un barile di polvere. Perché essa ha effettivamente un contenuto ed una serie di conseguenze “esplosive” per non dire “implosive”. È una legge di una gravità e di un’importanza assolutamente primarie perché coinvolge gli enti e, non solo le persone che commettono i reati, quando questi vengano commessi a vantaggio o nell’interesse di quelli. In termini pratici vuol dire che, se un amministratore (cioè chi riveste posizioni apicali) o anche un quadro intermedio (chi riveste posizioni subordinate) commette un reato tra quelli compresi in questa legge, nell’interesse o a vantaggio dell’azienda, il Pubblico Ministero, apre due processi, due fascicoli paralleli: uno a carico dell’amministratore ed un altro praticamente identico a carico dell’azienda per la responsabilità amministrativa che deriva dalla 231. “L’incipit” e il titolo di questa legge recitano "responsabilità amministrativa delle persone giuridiche". Questa espressione non deve trarre in inganno. L’attributo amministrativo deriva dal fatto che la nostra Costituzione prevede che la responsabilità penale sia personale. La Costituzione italiana, scritta 60 anni fa, non ipotizzava nemmeno che fosse capovolto il principio "societas delinquere non potest" e quindi vedeva la responsabilità penale solo ed essenzialmente personale: cioè quella gravante sulle persone che poi finiscono o possono finire in prigione. Il legislatore non potrebbe quindi permettersi di dire “responsabilità penale di un’azienda o di una persona giuridica” perché la Costituzione parrebbe vietarlo. Nondimeno il progetto di riforma Pisapia tende a superare questa interpretazione restrittiva. D’altra parte la legge non può neanche prevedere, come conseguenza della responsabilità penale, la sua sanzione tipica della reclusione, perché non si può mandare in prigione un’azienda. Le differenze tuttavia finiscono qua, poiché, per il resto si tratta di una vera e propria personalità penale mascherata. Le analogie sono due ed importantissime. La prima è che la procedura con la quale si accerta la responsabilità amministrativa dell’azienda e con la quale viene inflitta la sanzione amministrativa è identica a quella del processo penale. Identici sono i soggetti che intervengono, il Pubblico Ministero, il Giudice delle Indagini Preliminari, il Tribunale; identici sono i mezzi di impugnazione: l’appello e la Cassazione, anche se cambiano le sanzioni. C’è inoltre un’altra fortissima analogia perché, anche se l’azienda non si può mandare in prigione, si può però chiudere; e una delle sanzioni previste per i reati più gravi è l’interdizione dell’attività. Il Giudice penale, su richiesta del Pubblico Ministero può statuire che il reato commesso dai vertici aziendali (sempre

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nell’interesse o a vantaggio dell’azienda) è così grave da chiedere oltre alla condanna ad alcuni anni di reclusione per “tizio” amministratore, anche l’interdizione dell’attività aziendale. C’è di più. Analogamente al fatto che già durante il processo una persona può essere sottoposta a custodia cautelare preventiva (prima ancora di essere condannata), anche per le aziende può accadere la stessa cosa. Durante il processo, il Pubblico Ministero può infatti chiedere al Giudice delle Indagini Preliminari l’applicazione provvisoria di una di queste sanzioni, per esempio che l’azienda venga sospesa per alcuni mesi. Si intuisce già quanto sia grave una situazione del genere. Perché se “tizio” ha commesso un reato va in prigione e soffre soltanto lui; ma se l’azienda chiude pagano un po’ tutti: operai, impiegati, creditori, cioè l’economia nazionale. Si comincia quindi a profilare l’estrema importanza di questa legge che fonda appunto la responsabilità delle persone giuridiche in modo esattamente parallelo alla responsabilità penale delle persone fisiche che commettono il reato. Vi è cioè una doppia analogia: nella procedura, perché il processo nel quale viene irrogata la pena alla persona giuridica/azienda è identico a quello penale, e vi è un’analogia nella sanzione perché vi è tutto uno spettro di sanzioni, che va da quella pecuniaria alla sospensione e all’interdizione produttiva. Dall'art. 9 in poi della legge, si vede come le sanzioni possono essere di tipo pecuniario o interdittivo. Queste ultime sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività (la più grave) e, a seguire, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione all’agevolazione ai finanziamenti, il divieto di pubblicizzare beni e servizi. In conclusione: quando vengono commessi alcuni tipi di reato nell’interesse o a vantaggio della società, è la società stessa che viene chiamata a risponderne davanti al Pubblico Ministero o davanti al Tribunale penale. Essa subisce un processo identico e parallelo a quello che subisce il soggetto che ha commesso il reato; e rischia una condanna esattamente parallela e analoga a quella che rischia la persona fisica. Quali sono questi reati? Inizialmente erano soltanto due o tre: corruzione, concussione e truffa. Attualmente l’azienda risponde per i reati che vengono commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, anche in caso di reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Reati contro la “personalità” individuale come la violenza carnale e persino reati stranissimi come la mutilazione di organi genitali femminili. Ci si potrebbe domandare come sia possibile che un’azienda risponda per reati commessi nel suo interesse o vantaggio per reati come l’infibulazione o la pedofilia. Potrebbe essere il caso di una clinica o un’azienda ospedaliera privata che attui nel suo ambito operazioni di questo tipo. In tal caso non va processato soltanto il

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medico che ha praticato l’infibulazione, ma l’intera azienda ospedaliera al cui vantaggio sono state fatte queste operazioni. Così si può pensare anche per i casi riportati agli articoli 25 bis, ter e quater cioè reati come la pedofilia, la pedopornografia. Potrebbero riguardare un’industria cinematografica che faccia dei film con bambini. Anche in quel caso si instaurano quindi due processi: uno contro il regista e produttore che ha fatto quel film, e uno contro l’azienda che viene chiusa. I reati più importanti, quelli che ci riguardano più da vicino sono comunque i reati societari, dal falso in bilancio, al falso in prospetto, l’insider trading, l’usura, l’aggiotaggio, il riciclaggio. Praticamente tutti i reati economici oggi rientrano nella legge 231. Conclusione: ormai quasi tutti i reati previsti dal Codice Penale e i tutti i reati societari previsti nel Codice Civile, nonché gran parte dei reati previsti da leggi speciali, normativa sugli infortuni sul lavoro che è prevista da leggi speciali, rientrano nella legge 231. Si può quindi dire che non bisogna mai commettere reati, ma se si commette un reato nell’interesse o a vantaggio dell’azienda ne risponde anche quest’ultima. La responsabilità dell’azienda non è tuttavia automatica: occorre che il reato venga commesso da una persona che riveste posizioni apicali, cioè che sia ai vertici dell’azienda, o da una persona che rivesta posizioni subordinate. Questo è il secondo punto importante della legge. La “summa divisio” si trova all'art. 5: “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano anche di fatto la gestione e il controllo dello stesso”. Questo significa che l’ente è responsabile per quei reati che vengono commessi a suo vantaggio da chi riveste posizioni di vertice, cioè da chi riveste posizioni di amministrazione, rappresentanza, direzione e controllo. Se il reato è commesso da chi riveste posizioni di vertice la responsabilità dell’azienda può essere evitata ad alcune condizioni; se invece il reato è commesso da collaboratori subalterni le condizioni sono diverse. Il principio di fondo è che un’azienda risponde se viene commesso un reato nel proprio interesse o a proprio vantaggio; la stessa però può essere esonerata dalla responsabilità amministrativa per i reati commessi dai suoi dipendenti, vertici o meno della stessa, se ha adottato dei modelli idonei a evitare tali reati, e se essi sono efficaci. Questa è un’imperfezione logica della legge: se infatti l’azienda si è dotata di un modello che doveva essere idoneo ad impedire il verificarsi del reato, e quest’ultimo si è verificato, ciò significa che il modello non era idoneo. A questa inadeguatezza tecnica hanno parzialmente rimediato i Magistrati, i pochi in Italia che si occupano di questo settore, affermando che l’idoneità del modello non va valutata nel caso concreto, ma “ex ante”. Bisogna quindi

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vedere se l'azienda ha fatto il possibile per evitare che questi reati fossero commessi e se quindi il modello potesse andare bene, anche alla luce del buon senso. Un’ulteriore differenza risiede nel caso in cui il reato sia commesso da una persona che riveste posizioni apicali, e cioè da un amministratore che riveste posizione di amministrazione, controllo, gestione, direzione e rappresentanza. In questo caso l’adozione del modello non è sufficiente per esonerare la responsabilità dell’azienda. L’azienda deve infatti aver ottemperato ad altre condizioni, previste dall’art. 6: oltre all’adozione e all’efficace attuazione, prima della commissione del fatto, dei modelli di organizzazione idonei a prevenirlo, occorre anche dimostrare il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomia e potere di iniziativa e controllo. Deve esserci quindi un organo autonomo, dotato di reale autonomia e indipendenza che vigili sulla efficace gestione di questo modello. Ma queste due condizioni non bastano: occorre dimostrare che le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione; e da ultimo che non vi è stata omessa o prestata insufficiente vigilanza. Quest’ultima è una prova “diabolica” perché dimostrare una cosa che non c’è stata, cioè dare una prova negativa, è epistemologicamente impossibile; non occorre aver letto Popper per capire che non si può dare una prova negativa. Tutte le prove negative che noi diamo sono in realtà delle vere prove positive. Ad esempio se dico che ho la prova che in questa stanza non c’è un elefante, questa non è una prova negativa: io vedo che non c’è qui, ci siete soltanto voi. Ma non posso escludere che, in questo momento, in piazza dei Signori ci sia un elefante, è molto improbabile che ci sia, ma la prova negativa non la si può dare. Riassumendo: per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’azienda da chi riveste posizioni apicali, è necessario che sia stato adottato il modello, che sia stato istituito un organo di controllo autonomo e indipendente e che si dimostri che c’è stata fraudolenta violazione delle norme da parte degli amministratori. Se invece il reato è stato commesso da un dipendente che non riveste posizioni apicali, quindi da un quadro o anche da un dirigente che però non rientri in quei settori che appunto si chiamano apicali, soccorre la lettera 7, che dice: "Nel caso previsto dall’art. 5, comma 1, lett. b) - cioè i reati commessi dai subalterni - l’ente è responsabile se la commissione è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza, ma in ogni caso – dice il comma 2 – è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato ha

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adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Al di là della formula un po’ bizantina e complessa di questa norma il concetto è molto semplice: l’adozione di questo modello, è non solo necessaria, ma anche sufficiente per salvaguardare gli interessi dell’azienda quando i reati sono commessi da chi non riveste posizioni apicali. Quindi, la seconda conclusione è la seguente: una volta ammesso che siamo di fronte ad una nuova vera e propria responsabilità penale delle aziende, sia pure surrettiziamente chiamata “responsabilità amministrativa”, che viene accertata dal giudice penale nelle vere e proprie forme del processo penale e che le sanzioni sono analoghe e parallele a quelle che sono irrogate, o irrogabili alla persona fisica, va aggiunto che essa non è automatica. L’ente può “tirarsene fuori”, se dimostra di avere adottato prima di tutto il modello di gestione di controllo, e l’organismo autonomo e indipendente, con l’aggiunta che se il reato è stato commesso dalle posizioni apicali dovrà anche dimostrare che c’è stata la fraudolenta omissione. Se invece è stato commesso soltanto dai subalterni sarà sufficiente che dimostri di avere adottato il più volte citato modello di gestione. L’adozione del modello è dunque indispensabile. Essa è necessaria e sufficiente se i reati sono commessi dai subalterni, è necessaria, ancorché non sufficiente, per i reati commessi dalle posizioni apicali. Quindi il messaggio concreto è questo: se vogliamo salvaguardare l’azienda dalle conseguenze, occorre che questi modelli vengano adottati. Cosa siano, come funzionino, quali siano i limiti di questi modelli lo dirà adesso l’avvocato Tosello. Grazie per l’attenzione.

Ing. ROBERTO SANTOLAMAZZA Grazie al dottor Nordio perché ci ha trasmesso in maniera viva l’importanza e lo spessore di questa norma, soprattutto anche le ricadute pratiche nella vita aziendale. La parola va ora all’avvocato Tosello proprio perché si vedano quali sono i protocolli e che cosa significhi integrare i “processi a rischio” alla luce della normativa appena illustrata.

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L’INTEGRAZIONE DEI PROCESSI A RISCHIO: PROTOCOLLI PER UNA CORRETTA APPLICAZIONE DEL D.LGS. 231/2001 Avv. FRANCO TOSELLO Studio Legale Tosello - Padova Sono avvocato penalista; sono uno studioso di risk management e sono anni che seguo l’attività che concerne la problematica della responsabilità nelle persone giuridiche. Ho dovuto per forza di cose imparare i principi di questa normativa D.Lgs. 231/01 essendo impegnato come difensore in processi dove è applicata la norma. Ritengo sia stato uno degli eventi di particolare importanza sul tema della responsabilità perché ha permesso di creare l’applicazione di misure interdittive, che sono in realtà delle sanzioni, che però vengono utilizzate come misure cautelari, “micidiali come ha detto il Pubblico Ministero, a carico dell’Ente. Molto spesso la causa dei reati nasce e si sviluppa nelle imprese. Il Dott. Nordio ha detto che per questioni tecniche, la legge risulta essere formulata non molto bene, presentando quindi dei problemi. Ha detto che forse alcune Procure non si sono attivate per cercare di applicare questa norma, però Milano ha aperto molte pratiche sull’argomento. Esistono già delle sentenze definitive; ci sono una ventina di procedimenti in corso e c’è della giurisprudenza in materia di provvedimenti cautelari. Possiamo parlare di linee guida che noi abbiamo già utilizzato. È importante però avere un’idea sistemica per poter capire questa disciplina di derivazione americana, la "Common law", ripresa dalla Comunità Europea per determinate questioni di grande impegno. Il nuovo testo unico che sta per essere approvato sulla Sicurezza nell’Ambiente di Lavoro prevede espressamente la responsabilità della società, dell’impresa e così in tema di tutela dell’ambiente. Si tenga presente che non c’è nessun manager o padroncino di impresa che se deve pagare una mazzetta tira fuori i soldi dalla propria tasca; è ovvio che li tiri fuori dall’azienda, commettendo magari una serie di altri reati quali: false fatturazioni, falso in bilancio e via dicendo, abbiamo avuto molti casi, se ricordate, in “mani pulite”. Ecco perché la responsabilità non può essere soltanto della persona che commette il reato ma va anche a carico dell’impresa, soprattutto quando il reato venga commesso nell’interesse dell'impresa. Un esempio pratico: se pago una mazzetta per avere l’appalto dell’autostrada non sono io “persona” che ne ho il vantaggio, ne ha vantaggio tutta l’impresa perché è questa che lavora, è l’azienda che costruisce. Tanto è vero che l’art. 5 afferma che, se

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perseguissi l’interesse mio personale o di terzi estranei all’impresa questo sarebbe un elemento discriminante, di non responsabilità per l’impresa. Nonostante tutto quello che è già stato detto, nonostante le difficoltà della norma e la scarsa volontà di applicarla da parte degli imprenditori, ci sono degli aspetti positivi della norma. È necessario conoscerla. Non è un obbligo di legge; non è obbligatorio applicarla, ma il legislatore, nel caso in cui si verifichino le condizioni indicate dal dottor Nordio, può mettere sotto inchiesta nella stessa indagine penale che sta facendo per quel reato. In tal caso apre un altro fascicolo collegato ed iscrive a registro l’impresa. Se poi trova che questa aveva adottato un modello e questo possegga gli aspetti dell’idoneità per la prevenzione dalla commissione di quel reato, intanto non potrà applicare misure interdittive. Non è un obbligo, è un onere dal punto di vista giuridico. Prevede un vantaggio alla fine. Qual è il fondamento di questa norma? La norma non impone nessun obbligo normativo in più del tessuto normativo ordinario. Significa che se quelle norme in vigore sono delle norme obbligatorie, vuol dire che si è già obbligati ad applicare quelle discipline. Quindi la 231 non fa altro che indurre più dei cosiddetti codici etici e i temi della responsabilità sociale, ecc. che è giunta l’ora di portare realmente l’etica negli affari nella realtà dei fatti. Tale disciplina non vuol imporre delle nuove norme, ma applicare il principio di legalità, cioè applicare le norme già esistenti nel tessuto normativo vigente, in modo sistematico. La finalità della norma, come già detto dal dottor Nordio, è sostanzialmente una previsione di agevolazione di non responsabilità. Il nucleo della norma, ciò che è scritto all’art. 5 e all’art. 6 è: L’ente non risponde. Mi permetto di richiamare l’attenzione sui soggetti indicati nella norma, prima era l’Ente, ora è l’Organo Dirigente. Rendetevi conto che cosa vuol dire l’Organo Dirigente, cioè il Consiglio di amministrazione, l’amministratore unico, il soggetto cioè che prende le più importanti decisioni al vertice di un’azienda. Allora se l’organo dirigente ha preventivamente adottato ed efficacemente attuato i modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quelli previsti ed ha affidato il compito di vigilare sui “modelli” e di curarne il loro aggiornamento ad un proprio Organismo di Controllo, dotato di autonomia, (questo vi giuro è l’unico elemento di grande difficoltà da realizzare) riconosce all’Ente stesso la non responsabilità. Se si prova che le persone hanno commesso il reato unicamente perché sono riuscite ad eludere il controllo sul modello, non vi sarà responsabilità per l’Ente. La critica che viene fatta ai modelli è questa: anche se appronto un modello non ho la garanzia che non avrò la responsabilità perché il modello deve essere giudicato idoneo. E' vero, il giudizio di idoneità spetta al

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Magistrato. Nella fase delle indagini preliminari è il Pubblico Ministero ed eventualmente il G.I.P. che hanno facoltà di giudizio di idoneità. Ma nella fase in cui si andrà a dibattimento il loro giudizio sarà superato da una consulenza tecnica dove ci sarà la possibilità di provare se quel modello è o non è idoneo alle necessità di prevenzione dei reati. Infine non si deve dimenticare che in tutte le vicende di reato come anche in altre materie, il giudizio sulla legalità spetta sempre al Magistrato. Vedete questo è un punto essenziale: i reati presupposti. Sono il fattore determinante per il sorgere della responsabilità amministrativa della Società od Ente. Nei successivi aggiornamenti sono stati inseriti gli abusi di mercato, la manipolazione del mercato od altre tipologie di reati. C’è stato anche il raddoppio delle sanzioni pecuniarie previste per i reati societari. Il Modello, in sostanza, è un sistema coordinato di corretta amministrazione, che pone l’attenzione sull’importanza di mettersi a norma, seguire cioè le regole relative all’azienda, non commettere reati, non corrompere il mercato con forme di banditismo o con forme di concorrenza sleale. E’ necessario indicare le mansioni precise di ogni funzione, le procedure riguardanti le attività, effettuare un’informativa chiara e diffusa all’interno dell’azienda. In pratica il personale deve sapere cosa fa, chi è che comanda, a chi deve obbedire, cosa e come fare le proprie prestazioni. Quindi attuare prevenzione e cautele perché non vengano commessi reati, esercitare controlli efficienti. Guardate che in un’impresa media, organizzata benino, queste regole ci sono tutte ed in gran parte sono osservate. Non è possibile fare un modello valido per qualsiasi impresa perché ogni impresa ha delle caratteristiche diverse. In mancanza di linee guida nella stessa norma si deve fare riferimento soltanto all’art. 6 che offre i criteri generali. Sono sottolineate l’importanza nel porre attenzione all’attività svolta, al tipo di organizzazione, di gestione, e di controllo; devono essere disposti degli adattamenti in relazione alla dimensione dell’Ente e alla struttura. Il modello va quindi dimensionato alla realtà organizzativa dell’impresa. Il modello va calibrato anche sulla tipologia di organizzazione che ha quell’azienda. E’ necessario formalizzare delle misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge per quell’azienda, senza creare problemi o difficoltà in più. Per arrivare al tipo di modello si è discusso a lungo per capire come fare; poi si è scelta la tipologia e infine si sono stabilite le metodiche. Noi operiamo così: inizialmente si fa l’analisi della realtà attuale della struttura dell’impresa e dei comportamenti che vengono attuati. Questo al fine di evitare che ci sia discrasia tra la documentazione ed i comportamenti di fatto. Va analizzato il tipo di politica aziendale e l'organizzazione interna; si prendono in esame le procure che ci sono, le deleghe. Si analizzano

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organigramma e funzionigramma, e si accerta l’attività che viene svolta; si accerta l’esistenza della responsabilità per funzioni, dato che l’organizzazione prevista dal Codice Civile è per funzioni non per processi; “organizzazione operativa dell’azienda”, si ricercano le mansioni. Al termine della “fase analitica” otteniamo il quadro della situazione aziendale ad oggi, si procederà allora alla valutazione; si farà la mappa delle aree a rischio, si verificano le posizioni reali, i comportamenti adottati, i processi aziendali in rapporto ai reati presupposti. Noi, per facilitare le operazioni d’indagine abbiamo elaborato un metodo sofisticato, utilizzando un “foglione” dove si riporta l’organizzazione divisa per funzioni, si cercano le eventuali procedure; in particolare le procedure di qualità, ambiente e sicurezza, e si sono considerati i reati previsti dalla 231. Si individua l'organismo dirigente, si inseriscono tutte le “prescrizioni” che il Codice Civile prevede a riguardo, in più vanno aggiunte notizie che troviamo nel corso dell’esame aziendale, per raggiungere un quadro di base realistico.

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L’ADOZIONE DEI CODICI ETICI Dott.ssa IRENE BARBON Associazione Proetica - Treviso Andiamo ora a trattare l’altra sfera sociale, la cosiddetta sfera culturale; sfera che in un certo senso umanizza l’azienda, dandole quel valore morale ed etico di cui parlava prima il dottor Nordio. Un breve excursus storico di quella che è la storia dei codici etici nel mondo: la prima volta che si parlò di codici etici fu negli Stati Uniti fra gli anni '60 e '90, in un periodo in cui si mostrò un’eccezionale aggressività da parte delle aziende nella violazione delle norme. Le Corti ed il Congresso, di conseguenza, adottarono delle misure molto dure; alcune aziende risposero con l’emanazione dei codici etici. Le forti motivazioni che portavano avanti questi codici etici erano da un lato di natura protettiva nei confronti della legge, dall’altro di natura puramente “cosmetica”. L’obiettivo era soprattutto quello di migliorare la propria immagine agli occhi dei propri azionisti, tanto è vero che poi, comunemente, la cultura imprenditoriale americana si rifà alla cosiddetta “stakeholder theory”, cioè quella teoria che vede come unico interlocutore importante per l’azienda, l’azionista. Questa visione è in netta contrapposizione con la teoria portata avanti dalla stessa Proetica e che vede invece protagonisti dell’azienda tutti gli stakeholder, dove quindi l’azienda ha una responsabilità nei confronti di ciascuno di essi. Nel 1991, lo stesso Governo statunitense si accorse che questi codici etici non avevano un gran valore; introdusse quindi i cosiddetti “compliance programs", dei programmi di adesione, di conformità che in Italia sono sì stati introdotti ma con un’altra accezione: i modelli di gestione e controllo di cui si è appena parlato. L’aspetto interessante è che nell’adozione italiana è stata reintrodotta la figura dei codici etici. Si premette che il dibattito è ancora acceso poiché non si capisce che ruolo debbano avere questi codici dato che non riguardano tanto l’ambito giuridico quanto quello culturale. L’approccio corretto infatti è quello di vedere questi codici come dei veri e propri strumenti che permettono all’impresa di compiere quel passo importante e di valore che le permetta di essere non più solo impresa legale ma anche impresa etica. Divenire impresa etica non significa essere un’organizzazione perfetta, priva di rischio, di comportamenti non conformi, ma significa intraprendere un percorso di crescita ben rappresentato da questo grafico che, mostra come attraverso una prima fase iniziale di sperimentazione (fase pionieristica), si possa passare a una fase di consolidamento, e quindi avviare un processo virtuoso, verso un’evoluzione

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che ha impatti, sia sulla strategia dell’impresa che sull’organizzazione. Strategicamente, un’impresa che adotta comportamenti responsabili è un’impresa che riesce a coinvolgere tutte le aree di business a tutti i livelli e, a dare un’innovazione del modello di business e del prodotto. Lo schema che forse rappresenta meglio gli obiettivi che spingono all’adozione di un codice etico da parte di un’azienda è un continuum che vede questi due aspetti: da un lato l’utilità e dall’altro l’etica. Questi obiettivi sono stati posti in questo continuum proprio per rendere evidente che l’etica non esclude l’utile. Il buono non esclude l’utilità che esso comporta. Quindi un’azienda può scegliere, di iniziare un processo verso il codice etico semplicemente per proteggersi dalla legge, oppure per prevenire comportamenti irregolari, ma allo stesso tempo nessuno le vieta di portare avanti degli obiettivi, delle finalità che portano alla condivisione di valori profondi e interni che l’hanno comunque resa tale e che l’hanno sorretta fin dalle sue origini, condividendoli in primis con i suoi dipendenti. Molteplici sono le definizioni che possiamo dare ai codici etici. Si parla di “carte costituzionali d’azienda”, quindi un’enunciazione dell’insieme dei diritti e dei doveri che individuano la responsabilità e il discorso sociale del partecipante all’azienda oppure di “contratto sociale”. Una definizione mi è particolarmente cara perché in un certo senso va a toccare quello che è il senso profondo di un codice etico e va a toccare il bisogno che porta un’azienda all’adozione di questo codice: i codici etici sono più della semplice somma della molteplicità di etiche individuali presenti all’interno di un’organizzazione. Può sembrare strana come definizione, ma nasce dall’esperienza. Il più grande problema all’interno di qualsiasi organizzazione è quello di far coincidere l’etica personale e individuale con l’etica di un’organizzazione che è altro dall’individuo e che rischia spesso di diventare una sorta di moloc1 che opprime e si autodistrugge perché non è in grado di governare tutti i processi che esso porta avanti, poi governabili anche attraverso i modelli. Non è detto che i codici etici debbano essere applicati solo come conseguenza all’adozione dei modelli di gestione e controllo; se tuttavia un’azienda decide di intraprendere il percorso dei modelli è preferibile iniziare dai codici etici perché il codice etico è l’unico strumento che permette di andare a misurare la cultura dell’azienda e quindi di fare quella sorta di fotografia/radiografia che permette di vedere il complesso contesto

1 Antica divinità fenicia o cananea, venerata anche dagli Israeliti durante il periodo dell'idolatria, dal regno di Salomone (ca. 970-930 a. C.) a quello di Giosia (640-609 a. C.). A essa venivano offerte in sacrificio vittime umane, soprattutto i figli primogeniti. Il termine moloc, oggi, è sinonimo di voracità, ed è usato per definire una tirannia particolarmente crudele. Simboleggia anche istituzioni, organizzazioni o Stati oppressivi e disumani.

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aziendale, quali sono i punti di forza, e quelli di debolezza su cui poi poter lavorare anche nella costruzione dei modelli, ma non solo. Le condizioni fondamentali che permettono di elaborare un codice etico innanzitutto sono: deve essere scontata una chiara e manifesta volontà del vertice aziendale tesa a migliorare ciò che ha trovato lungo il processo costitutivo del codice etico. Il codice etico non è un semplice abbellimento, non è materia dell’area marketing. Un’altra condizione fondamentale è quella di avere/dare messaggi concreti e realistici; il codice etico non è un “copia e incolla” di principi come spesso accade. Non basta prendere i principi di un’altra azienda e cambiare qualche virgola e introiettarli all’interno della propria. Il codice etico nasce, come nel caso dei modelli, da una vera e propria analisi interna e deve tener conto della tipologia dell’azienda, della specificità dell’area geografica in cui essa è collocata poiché nello stesso Paese la situazione cambia da area ad area e cambiano con essa i problemi e gli atteggiamenti che poi i singoli individui possono avere all’interno dell’azienda. Bisogna tener conto della storia dell’azienda, non solo dell’azienda come organizzazione ma anche dei manager, della storia individuale di chi governa l’azienda, e quindi di quali criticità possa portare con sé questo individuo. Inoltre questo processo deve essere frutto della collaborazione da parte di tutti i protagonisti e deve poi essere comunicato. Un altro aspetto importante del codice, riguarda i protagonisti, cioè chi fa il codice e chi deve portare avanti questo processo che spesso è un processo che inizia oggi ma è in continuo divenire. In Italia vi sono anche grosse aziende che hanno adottato i codici etici e che hanno impiegato anni per farlo, perché si tratta di un processo di continuo cambiamento ed evoluzione che non finisce nel momento in cui si stendono i principi generali nell’azienda. Il codice viene fatto dai vertici e dagli “stakeholder”. Viene poi creato un gruppo di lavoro interno che deve essere comunque rappresentativo delle aree fondamentali dell’azienda. In questo gruppo dovrebbero essere presenti anche i professionisti in materia di etica e organizzazione aziendale perché riescono a seguire l’intero processo con una certa precisione rispetto ai vertici che invece sono impiegati dall’urgenza, e garantiscono una certa oggettività di analisi. Infatti molto spesso è necessario effettuare delle analisi interne per capire dove sono i problemi, e magari intervenire sulla sfera individuale dei dipendenti, degli appartenenti all’azienda. E’ fondamentale avere un organo esterno che riesca a interagire con i dipendenti. Uno dei soggetti, più importanti, nella formulazione del codice è il comitato etico che ha da un lato il ruolo delicato di diffondere poi ciò che emergerà dal codice etico di quella determinata azienda, dall’altro quello di recepire tutte le informazioni inerenti la segnalazione di violazioni in determinati ambiti aziendali, di saperle interpretare in relazione ai principi aziendali, e di capire se

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effettivamente si tratta di comportamento in disaccordo con i principi dell’azienda per segnalarlo ai vertici, o a chi di competenza, affinché vengano irrogate delle sanzioni naturalmente non di tipo legale, ma sanzioni che dicano in un certo senso alla persona che ha tenuto questo comportamento scorretto o di violazione al codice "no, non va bene, tu non appartieni al mio modo di fare impresa". La struttura tipica del codice etico, che naturalmente poi deve essere adattata alla realtà, è enucleabile in quattro punti: 1) i principi etici generali, 2) gli stakeholder che l’azienda in questione ritiene fondamentali, 3) i criteri di condotta nelle relazioni con i vari stakeholder, cioè i comportamenti da adottare con ciascuno degli stakeholder, 4) i meccanismi di attuazione e controllo, che sono materia del comitato etico. Anche le fasi sono quattro: 1) analisi iniziale della struttura aziendale, 2) discussione interna per individuare gli stakeholder, i punti di maggior criticità, e i principi individuali che guidano ciascun uomo appartenente al gruppo di lavoro e, se è possibile, estenderlo anche agli altri dipendenti, 3) consultazione degli stakeholder, 4) adeguamento dell’organizzazione aziendale ai principi trovati durante il processo. Si conclude poi con l’attività di formazione etica che è lasciata sempre al comitato etico e, a volte, ai professionisti. Ho portato il caso di un’azienda che appunto ha realizzato un codice etico e che ha iniziato proprio cercando di capire quali fossero le discrepanze tra i valori ideali di ciascun individuo, facendo poi una media di tutti i valori, e quelli effettivamente vissuti a livello aziendale. Si è visto ad esempio, per il punto relativo al benessere delle persone, che se i pesi attribuiti a valori ideali erano molto alti, poi andando a controllare i valori effettivamente vissuti all’interno dell’organizzazione si riscontrava un gap notevole perché i valori praticati in realtà erano molto bassi. Questo provocava una disaffezione dei dipendenti all’azienda, comunque una tendenza a non sentirsi parte di un ente, quindi neanche sentirsi parte dei valori che esso implicitamente portava con sé. A questo punto un’azienda può decidere o di procedere con il resto della metodologia di applicazione del codice etico, e quindi cominciare a interpellare i vari stakeholder e trascurando alcune problematiche, oppure affrontare le problematiche emergenti da questo primo “check-up”. Nell’esempio trattato l’azienda, consapevole del gap esistente nel benessere interno, ha deciso di cominciare ad utilizzare uno dei tanti strumenti esistenti per la misurazione per il miglioramento di questa condizione. Uno dei possibili strumenti è la misurazione del clima aziendale. Quindi a tutti i dipendenti sono stati sottoposti dei questionari e attraverso la risposta in forma anonima ad alcune domande specifiche riguardanti tutti i reparti dell’azienda, sono emersi dei risultati, rielaborati poi statisticamente, che hanno fatto emergere le criticità, ma soprattutto hanno fatto vedere ai vertici

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aziendali i settori dove erano emerse in particolar modo. Sarebbe in un certo senso inutile attuare delle procedure di gestione e controllo se si trascurano questi campanelli d’allarme, chiaro segnale di una non condivisione dei principi aziendali. Infatti l’azienda ha deciso di intraprendere un percorso di miglioramento di questi parametri. Per concludere, i benefici apportati da un processo intrapreso verso l’attuazione di un codice etico sono molteplici; è difficile elencarli tutti. Tuttavia i benefici vengono percepiti se questo processo viene fatto “con tutti i crismi”, altrimenti è un processo che diventa fine a se stesso, come i codici etici americani che erano semplicemente creati con un obiettivo di protezione da un lato, e puramente estetico dall’altro. I benefici fondamentali sono dati sicuramente dal miglioramento dell’organizzazione interna, dell’immagine dell’azienda perché comunque non è detto che l’utile sia in contrasto con l’etica. Sicuramente tale percorso assicura il rispetto degli adempimenti previsti dal decreto legislativo, o comunque previene determinate situazioni e migliora anche la capacità di attrarre risorse finanziarie, nonché la soddisfazione la fiducia e la fidelizzazione dei propri dipendenti e clienti.

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L’adozione dei codici etici

Dott.ssa Barbon Irene

Livello 5: ETICITÀ PERFETTAIntegrazione dell’etica nel marketingLivello 4: IMPRESA ETICARicerca di equilibrio tra etica e profitto;diffusione dei “veicoli etici”Livello 3: IMPRESA RESPONSABILESi riconosce che un comportamento responsabile è nel miglior interesse economico dell’aziendaLivello 2: IMPRESA LEGALE Si segue la lettera della legge;ciò che è legale è eticoLivello 1: IMPRESA AMORALEMassimo profitto a tutti i costi;gli azionisti sono gli stakeholder primari

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Un impatto organizzativo e strategico

Obiettivi che spingono all’adozione di un codice etico

UTILITA’ ETICA

PROTEZIONE EFFICIENZAORGANIZZATIVA

PREVENZIONE CONDIVISIONE

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E’ l'enunciazione dell'insieme dei diritti e dei doveri che individuano la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all’organizzazione imprenditoriale dell'impresa nei confronti di tutti i suoi stakeholder.

E’ il risultato della formalizzazione dei principi e delle regole che l’azienda decide debbano guidare i suoi comportamenti, quindi i comportamenti dei suoi membri.

E’ l’esplicitazione del “contratto sociale” che lega l’impresa ai vari gruppi e individui che interagiscono con essa e che hanno interessi e diritti in gioco nei suoi confronti

“I codici etici sono più della semplice somma della molteplicità di etiche individuali presenti all’interno di

un’organizzazione”

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Condizioni fondamentali

1. Chiara e manifesta volontà del vertice aziendale 2. Esistenza nel codice di messaggi concreti e

realistici3. Collaborazione da parte di tutti i protagonisti della

vita d’impresa4. Comunicazione e condivisione del codice con i

propri stakeholder5. Focalizzazione sui problemi etici rilevanti per

quella data impresa, in quel determinato periodo storico, in quel contesto geografico, tenendo conto delle passate criticità o situazioni a richio, sia dei singoli che dell’organizzazione

Chi fa il Codice?• I vertici aziendali in collaborazione con i

rappresentanti di tutti gli stakeholders e con dei professionisti in materia di etica e organizzazione aziendale .

• Viene creato un gruppo di lavororappresentativo delle aree e delle funzioni aziendali che seguirà tutte le fasi del processo.

• Comitato etico: aggiornamento, attuazione e controllo

• Approvato ufficialmente dal Consiglio di Amministrazione e volontariamente adottato dall'impresa

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Il comitato etico

L'attuazione dei principi contenuti nel Codice Etico è affidata di solito ad un Comitato Etico. Ad esso è affidato il compito di diffondere la conoscenza e la comprensione del Codice in azienda, monitorare l'effettiva attivazione dei principi contenuti nel documento, ricevere segnalazioni in merito alle violazioni, intraprendere indagini e comunicare sanzioni.

La struttura del Codice Etico

• I principi etici generali• Individuazione degli

stakeholder• I criteri di condotta nelle

relazioni con i vari stakeholder • Meccanismi di attuazione e

controllo

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Le fasi del processo prevedono:1. Un'analisi della struttura aziendale

2. La discussione interna per l'individuazione dei principi etici generali da perseguire, le norme etiche per le relazioni dell'impresa con i vari stakeholder, gli standard etici di comportamenti.

3. La consultazione degli stakeholder per la condivisone dei principi etici generali e particolari per ogni gruppo.

4. L'adeguamento dell'organizzazione aziendale, delle procedure, delle politiche imprenditoriali con riferimento ai principi etici del Codice.

5. L'attività di formazione etica finalizzata a mettere a conoscenza tutti i soggetti dell'impresa dell'esistenza del Codice e di assimilarne i contenuti.

n° I valori ideali I valori effettivi

1 2 3 4 5 I valori individuati 1 2 3 4

1 • La condivisione della “mission” aziendale e degli obiettivi da raggiungere2 • Il coinvolgimento e la motivazione dei collaboratori attraverso il dialogo3 • La capacità di sacrificarsi nel breve per raggiungere obiettivi nel medio-lungo termine 4 • L’adattabilità e la flessibilità5 • L’impulso al cambiamento per crescere nonché il rinnovamento6 • L’apertura verso l’esterno7 • La continuità nel tempo di tutti i processi di cambiamento8 • La capacità di rischiare attraverso gli investimenti9 • L’essere riconosciuti come azienda che è parte del contesto sociale d’appartenenza

10 • L’orientamento al cliente con spirito collaborativo11 • Il benessere delle persone12 • Le capacità gestionali nell’interesse generale dell’azienda emergenti rispetto a quello

particolare dei singoli gruppi familiari13 • Non avere preconcetti14 • L’unione come forza per competere15 • L’accettazione delle diversità come elemento di ricchezza16 • La chiarezza dei ruoli individuali come elemento di riconoscimento e di responsabilità

personale e professionale17 • La lealtà e la trasparenza nelle relazioni fra le persone18 • La professionalità che non è influenzata da legami affettivi

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differrenze

-26

-23

-19 -19 -18 -18

-17 -17 -17 -16 -16

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3

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0

5

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12 46 24 11 32 17 10 21 2 4 39 40 35 13 42 44 18 22 29 33 41 16 9 34 38 28 37 43 31 15 27 1 6 36 19 26 20 23 45 5 30 7 14 3 25 8

Concessione Studio Tagliente

1. Il clima aziendale Attraverso il monitoraggio di 35 variabili che descrivono gli aspetti più importanti che contribuiscono alla creazione di un clima favorevole allo sviluppo, si fornisce una rappresentazione numerica della situazione dell'intera azienda il cui grafico mette in luce tutti gli aspetti critici o ipercritici indagati, unitamente ad un commento analitico per ciascuna delle dimensioni analizzate;

5 aree di indagine funzionali al processo di costruzione di un

codice etico:

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05

1015202530354045505560657075808590

TOTALE

Concessione Studio Tagliente

2. La soddisfazioneTutti i dipendenti, segmentati secondo più variabili (età, anzianità, tipologia di lavoro, settore di appartenenza…), attraverso 9 parametri di analisi, manifestano il loro livello di soddisfazione per il ruolo ricoperto e mettono in luce le ragioni che lo rendono adeguato oinadeguato alle aspettative personali ed aziendali;

3. Il livello di conflittualitàAttraverso l'analisi di 100 items e 18 variabili di indagine, si esplorano le diverse cause dei conflitti presenti in ogni organizzazione, la natura dei conflitti nei gruppi e tra i gruppi e le modalità migliori per affrontarli e risolverli.

4. Le positività, le negatività, le opportunità e le minacceI responsabili delle diverse funzioni vengono coinvolti in modo riservato creando le condizioni di piena libertà che favorisce l'attendibilità dei diversi punti di vista. Solo così, perché non condizionati, possono essere utili ai fini dell'assunzione delledecisioni e la condivisione delle responsabilità.

5. La cultura organizzativaSi monitora la composizione della cultura organizzativa verificando, tra le quattro possibili, quale sia la più presente e quella più carente al fine di poter apportare i corretti aggiustamenti nelle competenze e negli obiettivi aziendali.

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I benefici• Migliora l'organizzazione interna

• Migliora l'immagine dell’azienda presso il mercato, gli investitori, la comunità, i fornitori, i clienti.

• Migliora il senso di appartenenza dei dipendenti.

• Aumenta la capacità di trattenere e attrarre risorse umane motivate e in linea con i principi dell’organizzazione aziendale.

• Aumenta la soddisfazione, la fiducia e la fidelizzazione dei clienti.

• Assicura il rispetto degli adempimenti previsti dal Decreto Legislativo 231/2001, ogni qualvolta ciò venga richiesto nell'ambito dei rapporti contrattuali.

• Tutela l’azienda nei confronti degli stakeholder esterni in caso di comportamenti non etici da parte dei propri dipendenti

• Migliora la capacità di attrarre risorse finanziarie.

Ing. ROBERTO SANTOLAMAZZA Il signor Cervellin ci permetterà di completare le tematiche che abbiamo visto con la sua testimonianza di vita vissuta.

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TESTIMONIANZA D’IMPRESA Sig. IVAN CERVELLIN CERFIM Spa – Vittorio Veneto(TV) Sono il Presidente del Consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Cerfim S.p.A. Sono convinto che il risultato positivo di un’introduzione di un codice etico all’interno di un’azienda debba partire dall’alto, dalle persone che principalmente hanno fondato l’azienda e la stanno portando avanti. Cerfim costruisce case e abitazioni residenziali ormai da venticinque anni nella zona del nord della provincia di Treviso, fa parte dell’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) della Provincia di Treviso da due anni. Per poter adottare un codice etico, prima di tutto bisogna essere sicuri di conoscere il significato di etica. Da quanto detto finora è chiaro che il significato di tale parola è vasto e non sempre comprensibile. All’interno della nostra azienda è stato sintetizzato come un “insieme di regole e comportamenti personali che si decide di seguire per raggiungere un obiettivo”. È quindi chiaro che con questo tipo di definizione si è sentito il bisogno di coinvolgere completamente tutta l’azienda, formata da circa trenta persone e che lavora molto anche con dei fornitori in subappalto. È utile ribadire che il codice etico non può prescindere da un modello organizzativo. Abbiamo iniziato questo percorso circa 3 anni fa; ma dal 1996 è stato portato in azienda un modello basato sull’ISO 9000. Un modello che è passato per le mani di parecchi consulenti fintanto che si è riusciti poi a ricrearcelo internamente e, finalmente è stato visto non più come un costo all’interno dell’azienda, ma proprio come uno scheletro di organizzazione aziendale senza il quale l’azienda non può esistere. Un modello ci deve quindi essere; ogni persona all’interno dell’azienda deve sapere precisamente che cosa deve fare ogni giorno, a chi deve rispondere e che risultati deve portare. Questo permette il raggiungimento di un obiettivo. Ciò che magari può stupire un po’ tutti è questo: siamo veramente sicuri che tutte le persone della nostra azienda sappiano che l’azienda ha un obiettivo, e che si vuole che quell’obiettivo sia condiviso da tutti? È fondamentale, prima di tutto, che all’interno di un’azienda vi siano degli accordi. È vero che esistono molti tipi di accordi che però possono differire dall’obiettivo e dalla mission aziendale. Ad esempio il fatto stesso che una persona vada a dire che è meglio la quantità rispetto alla qualità del bene prodotto è sicuramente un accordo, che però può essere diverso da quello che è il pensiero dell’azienda stessa che in quel momento è portata a pensare alla qualità da rivolgere verso il proprio

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cliente, piuttosto che alla quantità. Molte volte diamo per scontato tanti pensieri e tante idee e poi ci troviamo di fronte ad una realtà completamente diversa. Quindi nel momento in cui l’imprenditore non è in accordo con i propri dipendenti si trova sempre in emergenza; e fa delle cose che non gli spettano poiché non previste dai mansionari dall’organigramma, e che invece spettano a qualcun altro, ma proprio perché all’interno dell’azienda non ci sono tutti gli accordi necessari, si trova molto spesso a dare degli ordini ottenendo dei risultati diametralmente opposti. Il codice etico si inserisce in questo quadro come un punto: un momento di unione all’interno di tutte le figure aziendali a qualsiasi livello, per trovare gli accordi che servono esclusivamente per raggiungere l’obiettivo aziendale. Gli accordi servono anche a condividere il modo in cui si vuole raggiungere questi obiettivi aziendali. Un codice etico dà delle informazioni ben precise, dice in modo molto deciso, che deve essere anche condiviso come fare una vendita, come realizzare il prodotto, come eseguire la progettazione del prodotto stesso. Ed anche come tenere la contabilità dell’azienda perché, dal punto di vista legale, reati ce ne potrebbero essere in ogni momento. Credo che pochi imprenditori conoscano il tipo di problematiche e i rischi a cui è esposta l’azienda, soprattutto quello dibattuto oggi, cioè quello di avere problemi penali anche verso l’azienda. L’atteggiamento che ho quindi assunto era volto a cambiare esclusivamente il modo di vedere i miei collaboratori. Il ragionamento di fondo è questo: se per un cliente qualsiasi della nostra azienda siamo disposti a fare dei sacrifici, a fare comunque dei lavori, a perseguire degli impegni, a portare dei risultati che sono normalmente inimmaginabili, perché non vediamo ogni componente della nostra squadra e della nostra azienda come se fosse il cliente interno? Riuscire a vedere i nostri collaboratori interni come dei clienti e rivolgere a loro la stessa importanza che diamo ad un cliente esterno, ci fa cambiare completamente il modo di approcciare qualsiasi tipo di condivisione e di accordo all’interno dell’azienda. Nel momento in cui avessi un cliente importante che porta un certo fatturato all’anno, non mi permetterei di dirgli "no scusa, sono al campo di golf o a caccia", o qualcosa del genere se la domenica mi facesse un colpo di telefono per chiedermi un qualcosa per il lunedì mattina. Ecco che, per i miei collaboratori, il mio cellulare è acceso sempre 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Una ragazza ha problemi con il fidanzato? A volte capita anche questo; (non mi sento il salvatore della patria) una parola di conforto può sempre servire per cambiare l’atteggiamento e l’umore della giornata. Con un piccolo accorgimento ci si trova di fronte una persona che, anziché avere un viso tirato, e un problema da portare avanti tutto il giorno, trova una soluzione e affronta la giornata in maniera. In questi anni ho quindi cercato di parlare, anche assieme ai miei collaboratori più stretti, con ogni persona all’interno dell’azienda, e cercare

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di capire le “mete personali” di ogni singola persona. Il segreto è stato questo: riuscire ad unire i bisogni derivanti da queste mete personali con gli obiettivi aziendali. Quindi all’interno dell’azienda il codice etico è diventato un trade union tra quelli che sono gli obiettivi dell’azienda e i sogni, se non i bisogni di ogni singola persona. La condivisione di obiettivi e risultati ha cambiato radicalmente il punto di vista di ogni singola persona, poiché ci si è spostati dall’obiettivo finalizzato a percepire un proprio benessere, a stare bene perché oltre a guadagnare ci si porta a casa anche una soddisfazione personale. Significa non venire più a lavorare per forza, sottostare a un codice (ISO 9000) e ad un mansionario, a un regolamento, o a qualsiasi altro codice che ci sia all’interno dell’azienda, ma è un modo per lavorare e per stare tutti assieme e per portare alla soddisfazione di un qualcosa di personale prima di tutto, e poi anche aziendale. Cambiando il punto di vista, i risultati cambiano radicalmente; si passa da un qualcosa fatto per coercizione ad un qualcosa che invece viene fatto per la soddisfazione di avere un apprezzamento alla fine del lavoro, di avere comunque un risultato proprio e un risultato riconosciuto dal proprio superiore e/o dal proprio collega. In CERFIM ci troviamo tutti, mensilmente, per fare le premiazioni. In questo “meeting” portiamo le nostre statistiche, vediamo per ogni settore chi ha prodotto di più e chi ha prodotto di meno, d’altronde ci sono i meriti ma anche i demeriti; bisogna segnalare tutto, non siamo immortali e tanto meno senza errori. Prima di tutto però si guardano le cose che sono andate bene, si esaltano i meriti delle persone e si danno le motivazioni e gli obiettivi da poter portare a casa in maniera tale da avere sempre più persone motivate ogni giorno all’interno dell’azienda. È fondamentale quindi avere un obiettivo, ma lo è altrettanto dotarsi di un insieme di regole e comportamenti personali per raggiungerlo. Ogni azienda lo deve avere, lo deve scrivere, lo deve appendere su tutti i muri di ogni ufficio. Se questa cosa viene condivisa e viene accettata da ogni singolo componente dell’azienda, fare azienda diventa veramente un gioco a tutti gli effetti, un divertimento. Condividere le regole e i valori dell’imprenditore con i collaboratori porta al successo delle persone che stanno all’interno e, di conseguenza, porta al successo dell’azienda. In questo modo la vita aziendale diventa divertente, stimolante e fa realizzare i propri sogni. Ma per realizzare bisogni e sogni di tutti è necessario parlare con le persone. Ed è per questo motivo che, ad un certo punto ho dovuto prendere la mia agenda e decidere di dedicare almeno un terzo del tempo della mia agenda settimanale a parlare con tutte le persone del mio staff. E' una scelta forte al giorno d’oggi che sembra quasi un’utopia se si pensa che non abbiamo neanche quasi il tempo per respirare. Però se vogliamo cambiare le nostre imprese, fare qualcosa di diverso, dobbiamo prenderci certe responsabilità e

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certi doveri; ed è un dovere dell’imprenditore, con l’etica, creare una forza di lavoro motivata e responsabile. E' chiaro che la conseguenza della mancanza di etica all’interno di un’azienda nel medio termine, a conti fatti, riduce sia il fatturato che gli utili, se non direttamente, almeno in maniera indiretta: scarti di lavorazione, problemi giudiziari, qualsiasi problema possa venir fuori con un collega o con un collaboratore può creare all’interno dell’azienda una produzione inferiore, di quanto lo si può quantificare, ma comunque è inferiore. Ing. ROBERTO SANTOLAMAZZA Grazie al signor Cervellin per la sua testimonianza, un’esperienza concreta che ha dato una luce di grande opportunità dietro il testo, tutto sommato arido, della normativa da cui siamo partiti. Chiedo al dottor Franco Tagliente di fare la prima domanda perché credo ci possa servire anche come momento di sintesi di quello che abbiamo visto, per poi passare al pubblico la parola.

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Cerfim spa di Vittorio Veneto. Ci occupiamo principalmente di costruzioni edili residenziali da circa 25 anni.

Etica ed Azienda

Siamo sicuri di conoscere il significato di

Etica?

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“insieme di regole e comportamenti personali che si decide di seguire

per raggiungere un obiettivo”

Prima di tutto ci deve essere un accordo:Condividere un

obiettivo

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Siamo sicuri che tutte le persone della nostra azienda condividano gli

obiettivi aziendali?

Se non c’è accordo le persone prendono

accordi diversi ….

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L’imprenditore se non ha l’accordo con i suoi uomini

si troverà sempre in emergenza

Il codice ETICO serve per trovare gli accordi e chiarire le idee in Azienda su

come raggiungere gli obiettivi

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Il passaggio fondamentale è vedere i collaboratori come i

principali clienti dell’Azienda

Come al cliente esterno, ai nostri

collaboratori rivolgere considerazione,

rispetto e importanza

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Capire quali sono le mete personali per

unire i loro bisogni agli obiettivi dell’Azienda

Considerando i collaboratori importanti

come i clienti, diventano responsabili

e portano risultati migliori di quelli attesi

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Ricorda …. “insieme di regole e comportamenti personali che si decide di seguire per raggiungere un obiettivo”

Condividere le regole e i valori dell’imprenditore con tutti i collaboratori, porta al successo personale e aziendale

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In questo modo, la vita aziendale

diventa divertente, stimolante e fa

realizzare i propri SOGNI

E’ dovere dell’imprenditore, con

l’ETICA, creare una forza lavoro motivata e

responsabilela mancanza di etica nel

medio termine riduce fatturati e utili

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DIBATTITO ASSEMBLEARE DOMANDA Faccio una domanda al dottor Nordio preceduta da una brevissima osservazione. Mi pare che noi, forse inconsapevolmente, abbiamo assistito ad una situazione conflittuale; conflitto inteso come punti di vista e valori diversi, entrambi portati per sostenere un elemento, in questo caso la legge 231. Questa conflittualità si può sintetizzare in forma e sostanza, in quelli che sono i due elementi fondamentali di ogni rapporto: contenuto e relazione. Se un’organizzazione/azienda viene considerata, tra le altre definizioni, come un luogo dove si sviluppano rapporti, dobbiamo considerare che ognuno di questi rapporti ha in sé il contenuto, il che cosa e il come. Sono state sottolineate l’importanza del codice etico e il processo che porta alla costruzione di un codice etico, un processo che parte dall’interiorità delle persone e dal coinvolgimento delle stesse, quindi la relazione. E' stato sottolineato l’aspetto della metodologia, del metodo e delle procedure, che sono il contenuto. I due elementi hanno necessità di coesistere. Non credo si possa dire che ci sia uno che prevalga sull’altro, ciò non di meno mi viene spontanea questa domanda: quando un Giudice si trova di fronte a una situazione criminosa è portato di più a privilegiare la forma o la sostanza? In questo caso è più attento al metodo, all’applicazione della procedura o ai comportamenti che poi sono stati effettivamente mantenuti e agli elementi che hanno portato alla scrittura di quella metodologia? RISPOSTA Dott. NORDIO Premetto due cose: qualsiasi tipo di reato si distingue in due momenti: quello oggettivo e quello soggettivo, ossia quello materiale e quello psicologico. Un esempio pratico: si può investire con l’automobile una persona e commettere un omicidio; ma tutto dipende da come la si investe. Se prendo di mira il mio mortale nemico, aspetto che esca di casa e lo investo commetto un omicidio premeditato; se invece lo investo improvvisamente perché lo vedo per la strada e ho voglia di ucciderlo commetto un omicidio volontario. Se lo vedo improvvisamente e voglio rompergli le gambe investendolo e invece lo ammazzo commetto un omicidio preterintenzionale; e se lo ammazzo per sbaglio commetto un omicidio colposo. Nel primo caso prendo l’ergastolo, nel secondo caso vent’anni, nel terzo caso dieci e nel quarto caso sei mesi. Il fatto materiale è lo stesso, come anche la macchina che investe la persona; quello che cambia è l’atteggiamento psicologico, ed è quello che dà il connotato al reato. In questo esempio è già contenuta la risposta alla domanda. Cioè se si vede che l’imprenditore ha elaborato e adottato un modello, lo ha mandato al Ministero che l’ha trovato idoneo, però quel

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modello non ha funzionato, bisogna cercare di capire se lo ha fatto apposta, cioè se ha voluto costruire una sorta di alibi a se stesso e all’azienda per far finta di, o se invece non è stato capace di farlo. Poiché questi reati, sia quello commesso dalla persona che l’infrazione amministrativa hanno un forte connotato psicologico, cioè non si risponde per un mero errore, si tende a privilegiare la sostanza e non la forma. Si condanna o si assolve sulla sostanza e non sulla forma, salvo per quei reati formali che si commettono quando (soprattutto nelle contravvenzioni) si disubbidisce ad una legge formale. La forma è comunque indicativa: è una spia della sostanza e quindi può orientare i Magistrati a capire se si voleva o non si voleva seguire la legge. La natura umana è quella che è. È impensabile di voler fare dell’uomo un santo. Il primo atto che si legge nella Bibbia è l’omicidio di Caino nei confronti di Abele; che questa sia la conseguenza del peccato originale o del fatto che l’uomo discenda dalla scimmia dipende dalle nostre convinzioni. Comunque la nostra origine risulta essere sempre una caduta, che sia quella del peccato originale o che sia quella della scimmia. Cioè siamo imperfetti e siamo egoisti per natura. Concludendo: è abbastanza utopistico fare i discorsi di etica, di morale, del “vogliamoci bene”, di religione fine a se stesso, perché l’uomo è certamente sensibile alla morale e alla religione, ma è sensibile più di tutto all’utilità. Sono convinto che l’etica, intesa in senso generale come rispetto delle regole, non è soltanto conforme alla legge morale (a quella religiosa per chi ci crede) ma è utile per le ragioni esposte dal Signor Cervellin. Si produce di più, si fa più fatturato e si fa più profitto. Vorrei dire che il rispetto delle regole è utile. Insomma se tutti rispettassero le regole avremmo in cambio del nostro piccolo “sacrificio” in termini di rispetto delle regole, tutte le regole che rispettano gli altri. Cioè per il postino che fa bene il postino, quando va in ospedale trova l’infermiere che fa l’infermiere, il medico che fa il medico, quando viene in Tribunale il magistrato che fa il magistrato e via discorrendo. Cioè il rispetto delle regole, il rispetto dell’etica, il rispetto del prossimo non è soltanto conforme alla morale e alla religione, alla fine è utile. Se riuscissimo a convincere noi stessi e i nostri figli, i nostri amici e tutti quanti che alla fine il bilancio è positivo quando ci si comporta correttamente, avremmo fatto un grande passo avanti verso la convivenza civile. DOMANDA Ipotizzando di avere un’azienda, e di voler adottare un modello di gestione, organizzazione e controllo, ex 231; l’art. 6, comma 3 dice che il modello di organizzazione e gestione possono essere adottati sulla base di codici di comportamenti redatti dalle associazioni rappresentative, quelle di categorie, e che questi modelli devono essere sottoposti al vaglio del Ministero di

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Giustizia con gli altri Ministeri competenti che possono fare osservazioni entro 30 giorni. Che valore ha il vaglio del Ministero? E’ imperativo o è di indirizzo? RISPOSTA Avv. TOSELLO Il vaglio del Ministero ha soltanto la funzione di controllare che ci siano le caratteristiche minime perché si possa parlare di una tipologia di modello. Il legislatore non ha fornito delle tipologie o dei criteri proprio perché una tipologia generalizzata non è possibile dato che ogni impresa ha delle caratteristiche peculiari. Perciò i modelli del Ministero servono da traccia, in modo da fornire un aiuto nel momento in cui un’azienda deve dotarsi di un modello suo personale. DOMANDA Posso scegliere come imprenditore di farmi fare il modello con l’aiuto di Confindustria o anche da professionisti privati, autonomi rispetto a Confindustria o Unindustria. Secondo la sua valutazione qual è la scelta ottimale? RISPOSTA Avv. TOSELLO Lei mi fa una domanda alla quale io ho difficoltà a rispondere perché potrei sembrare interessato. In ogni caso, se lei prende le linee guida del modello 2004 di Confindustria, approvate dal Ministero, lei ha già, per esempio, una serie di dati approntati da Confindustria, ma non può pensare di avere un modello. Se poi lei invece prende una società che fa modelli o un professionista, meglio quest’ultimo, potrà commissionare la realizzazione del modello specifico, secondo i canoni interpretativi e le esperienze vissute. DOMANDA Vorrei sapere se esiste qualche caso nel mondo del no-profit di qualcuno che abbia applicato il modello 231/01 e qual è la vostra opinione sull’applicazione del modello nel mondo del no-profit. RISPOSTA Avv. TOSELLO L’applicazione alle Onlus è sostanzialmente non prevista, ma dei casi di cui mi sono interessato in Italia non ne ho avuto, per il momento, salvo di una Onlus particolare di Bergamo, che però ha un’attività collaterale di tipo economico, per la quale viene rapportata ad una società e quindi avrebbe l’onere (se vuole essere in regola) di avere il modello. In questo caso, poiché vi è l’aspetto di attività economica, potrebbe commettere uno dei tipi di reato elencati in precedenza, anche se, dal punto di vista della sola organizzazione,

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diventa difficile pensare che commetta un falso in bilancio essendo un ente no-profit. Insomma tutto è possibile, salvo che qualcuno non usi la figura diciamo così dell’Onlus per mascherare altre attività economiche a copertura per forme illecite. DOMANDA Qual è la distinzione tra enti di piccole dimensioni per i quali la normativa prevede che l’organismo di vigilanza possa essere svolto direttamente dall’organo dirigente e invece quando deve essere esterno? RISPOSTA Avv. TOSELLO L’ente di piccole dimensioni per il quale la norma prevede che l’O.d.v. (organismo di vigilanza) possa essere costituito dallo stesso organismo dirigente, si ha quando abbiamo un’impresa molto piccola e semplice, con meno di dieci persone e che abbia un fatturato, inferiore ad un certo valore previsto. L’organizzazione semplice sulla base di precise caratteristiche minimali permette di non avere un vero e indipendente O.d.V. In tal caso è giusta la scelta del legislatore di non gravare di costi la piccola impresa. Può sempre avere un organismo esterno qualora lo ritenga necessario. DOMANDA Riguardo all’effettiva applicazione dell’art. 4 della legge che parla di reati commessi all’estero: nei Paesi emergenti o in via di sviluppo che hanno un'ottima legislazione, però non viene effettivamente applicata. Parliamo, ad esempio, del caso del lavoro minorile in India. Esistono singoli casi specifici o c’è un’applicazione un po’ più diffusa e distribuita da parte della magistratura? RISPOSTA Avv. TOSELLO L’articolo 4 si applica in tutti i casi nei quali si ravvisano i presupposti descritti dalle norme. Un caso che conosco io è Eni Power-Siemens. È ancora nella fase istruttoria con richiesta di rinvio a giudizio. Comunque la misura interdittiva è stata applicata anche alla Società estera ed è poi stata modificata, nel senso che l’interdizione di vendere per un anno turbine e di fare servizi di manutenzione delle turbine su tutto il territorio nazionale è stata comminata esclusivamente ad Eni Power per le attività in Italia. Però la società è tedesca, ma non ha avuto provvedimenti a carico perché sostanzialmente è risultata estranea al fatto. Ove fosse implicata, la norma troverebbe applicazione.

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DOMANDA Dopo i casi clamorosi di Parmalat e Cirio nonché i nuovi reati contro l’ambiente, gestiti anche nel Triveneto, l’applicazione di questa legge o comunque la sua approvazione ha costituito un elemento aggiuntivo per le Procure per poter adottare anche degli strumenti innovativi rispetto a quello che era già previsto dal Codice Civile oppure sono rimaste delle piste separate? RISPOSTA Dott. NORDIO Quando è scoppiato il caso Parmalat o quello Cirio, (è bene ricordare che i Magistrati non possono parlare dei casi in corso, quindi evito di dare giudizi di merito su processi istruiti da altri colleghi), mi sono domandato se non iniziasse in Italia una fase analoga a quella di Tangentopoli (si chiamasse Bancapoli o Consobpoli) perché eravamo di fronte a due casi classici di mancata osservanza, da parte degli organi di vigilanza, sia della Banca d’Italia e sia della Consob, sull’utilizzazione e l’emissione di strumenti finanziari. È vero che ci sono controlli interni ed esterni. C’è il collegio sindacale, ci sono i revisori, c’è la Banca d’Italia o c’è la Consob. Ora, nella legge 231 è previsto il reato all’art. 2638 del Codice Civile, che riguarda le false comunicazioni agli organi di vigilanza. Per le banche posso dire che esiste una normativa che dà al governatore della Banca d’Italia il monopolio delle segnalazioni alla magistratura delle irregolarità che vengono trovate durante le ispezioni. Cioè se la Banca d’Italia fa un’ispezione e l’ispettore trova un reato, non lo riferisce a noi come fanno, ad esempio, i Carabinieri; riferisce al governatore che ha poi un margine di discrezionalità nel comunicarlo alle Procure della Repubblica. Questo però non toglie che se il procuratore vuole lui andare in banca a vedere, può andare. Alcune Procure sono organizzate meglio ed hanno più strumenti. È il caso di Milano, più volte citata, poiché riesce da sempre ad avere un pool di Magistrati che si occupano solo di reati economici, ma soprattutto gli assistenti, che le altre Procure non hanno. Alcune Procure non hanno nemmeno il registro cartaceo delle aziende da indagare con la 231. Quindi la risposta è: fino adesso non si è mosso nulla, ma che non si sia mosso nulla non significa che, anche per imitazione, qualcuno non si muova in futuro. Da ultimo, il processo non serve soltanto a irrogare una pena nel caso di condanna, è esso stesso una pena. Essere indagati e ricevere l’informazione di garanzia, andare da un avvocato più o meno costoso, subire il patema d’animo, la notizia divulgata sui giornali è già una forte sanzione. Per l’azienda lo è anche di più se si pensa che molte aziende vivono sulla credibilità. Se si pensa ad una banca (intesa come ente) che venga incriminata dal Pubblico Ministero perché nel suo interesse sono stati

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commessi certi tipi di reato, si vedrà come il credito vada a picco. Andranno a picco le sue azioni, magari qualcuno speculerà e farà aggiotaggio. Tutto questo va evitato. Quindi l’azione preventiva non serve soltanto ad evitare la condanna, ma ad evitare il processo che per ora è rimasto silente, ma che, da un giorno all’altro può scoppiare. DOMANDA A che punto è lo stato dell’arte di quel progetto di legge che costituiva delle sezioni specializzate in diritto societario presso le Procure? RISPOSTA Dott. NORDIO Nelle Procure non c’è una legge, esistono delle direttive del CSM, Consiglio Superiore della Magistratura, per cui dove è possibile si dovrebbero fare delle specializzazioni. La bellezza, il rischio, la sfida e anche la difficoltà del lavoro in Procura è che in una mattina un Magistrato si occupa di falso in bilancio, un’ora dopo di droga, poi di violenza carnale o dello squilibrato che uccide la mamma. Nel caso della 231 si sarebbe costretti a chiamare/consultare un perito chiedendogli di rispondere al quesito: questo modello era fatto bene o era fatto male? Questo però non andrebbe bene. Bisognerebbe avere il Magistrato che è in grado da solo, o con l’aiuto del perito (non facendosi sostituire dal perito) di rispondere alle domande. Anche perché l’ottica del perito, ammesso che se ne trovi uno di bravo, non è quella giuridica, è sempre settoriale. Se un Magistrato dovesse saper leggere una perizia di falso in bilancio, una perizia di gestione aziendale, la perizia psichiatrica, quella tossicologica, quella balistica, quella degli incidenti stradali, quella del palazzo che è crollato sarebbe un “tuttologo”, quindi alla fine non saprebbe leggerne nessuna. Ecco perché sarebbe bene specializzare i settori nei quali i Magistrati operano (quanto meno quelli inquirenti) come i Pubblici Ministeri. Questo è possibile dove ci sono molti sostituti come ad esempio Milano. Certo se sono in otto o dieci come la gran parte dei Tribunali in Italia questo diventa impossibile; e questa è una ragione per la quale poi si resta silenti. DOMANDA Se sono un imprenditore e voglio fare un modello che funzioni e che mi rassicuri, ma che sia efficiente, che mi dia un’utilità in termini di miglioramento delle mie procedure aziendali, ma che però anche mi consente una difesa, a quale professionalità mi rivolgo? Perché ho la sensazione che, e questo è un grosso problema per le nostre aziende, si stiano stratificando dei modelli di matrice diversa, peraltro anche in contrasto con alcuni principi del nostro ordinamento perché queste sono tutte leggi di importazione anglosassone. Però sono tutti modelli che vanno ognuno per

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conto proprio. Anche in materia di protezione dei dati personali dovremmo avere un modello gestionale e di prevenzione dei reati informatici. Per cui la mia domanda è anche questa per orientare un attimo perché il problema dell’imprenditore, come è accaduto per i sistemi informativi in cui le aziende hanno speso veramente una marea di soldi e si trovano adesso spesso a dover rifare tutto. Metodologicamente esistono delle tecniche di analisi dei processi, solo che sono appunto tutte di importazione anglosassone e non sono ancora state acquisite, toccate o conosciute nell’ambito della nostra cultura economica in Italia. RISPOSTA Dott. NORDIO Dividerei in due la sua domanda: la prima parte che cosa deve fare o a chi si deve rivolgere l’azienda per avere almeno la certezza che si fa un modello adeguato. La seconda, che mi riguarda più da vicino, a chi si rivolge il Giudice per sapere se quel modello era adeguato o meno. Allora alla prima domanda rispondo dicendo che il modello non esiste astrattamente nella legge proprio perché va cucito addosso, è proprio come un modello sartoriale, va cucito addosso all’azienda che lo richiede. Perché il rischio da reato, dipende dal reato che quell’azienda è più portata teoricamente a compiere. E' chiaro che, in una banca, difficilmente l’amministratore o il funzionario apicale commetterà il reato di infibulazione: è molto più facile che commetta il reato di falso in bilancio o di false comunicazioni alla Banca d’Italia. Allora se una banca ha un problema di un modello, questo le va cucito addosso affinché sia idoneo ad impedire quel tipo di reati finanziari. Se un’azienda produce abiti militari il reato al quale è potenzialmente più esposta potrebbe essere quello di corruzione, laddove, per avere l’appalto delle forniture militari, pagasse qualcosa a qualcuno della Difesa. Il modello va fatto secondo quelli che sono i coefficienti di rischio da reato dell’oggetto sociale. Stanno sorgendo delle apposite società atte alla realizzazione di detti modelli. In Italia, pochi capiscono qualcosa di questa materia, ma si vede subito se un’azienda ha voluto istituire un modello puramente fittizio. Certo che se un’azienda si rivolge a un incompetente, o ad un dipendente surrettizio, questa è già una spia indicativa molto negativa. Secondo. A chi si rivolge il Magistrato? Quando il Magistrato deve nominare un consulente, se è serio e saggio suda freddo, perché è il consulente poi che condiziona il processo. Questo vale anche per la responsabilità medica quando si nomina un collegio di medici; vale per l’ingegnere per ricostruire l’incidente stradale, per lo psichiatra per accertare la salute mentale dell’imputato eccetera.

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Per analogia con la responsabilità medica ho suggerito alle varie società (la società di chirurgia, la società di senologia, di radiologia…) di istituire degli albi di professionisti approvati dai vari Ordini: persone cioè disponibili a eseguire consulenze o perizie affidabili, i cui nomi vengano comunicati ai Magistrati sì da avere una maggiore garanzia di professionalità. Nel nostro caso si dovrebbe pensare ad una sorta di albo al quale i Magistrati si potrebbero rivolgere per capire se il modello (se esiste) era idoneo o meno. Questo può sembrare contraddittorio: perché chiedere se il modello era idoneo a impedire il reato, quando il reato è stato commesso, è superfluo. Se il reato è stato commesso vuol dire che il modello non era idoneo ad impedirlo. Bisogna vedere quindi se era idoneo astrattamente, nel giudizio “ex ante”. Ma poiché questa è una materia nuovissima, ad altissima specializzazione tecnica, è auspicabile che già si comincino ad individuare le persone, o società o organizzazioni in grado di rispondere a questa domanda. RISPOSTA Avv. TOSELLO Un’altra domanda da porsi sarebbe forse "a me interessa la perfezione del modello o mi interessa che i contenuti del modello e, quindi, i comportamenti delle persone corrispondano poi a ciò di cui stiamo parlando?" Noi abbiamo dell’esperienza da più di dieci anni, esiste un modello, ad esempio i modelli delle ISO 9000 sono stati adottati in maniera ineccepibile. Se si va ad indagare attraverso esperti in materia si scopre che i “processi” dei sistemi di gestione per la qualità sono stati applicati in maniera favolosa, tant’è che le certificazioni lo seguitano a dimostrare, ma in realtà la qualità nella gran parte delle aziende non c’è. In questo caso non c’è un Magistrato che ti rinvia a giudizio, però c’è un rinvio a giudizio dell’etica nei comportamenti. La ricerca andrebbe fatta indagando su cosa fare e quali dinamiche azionare perché i comportamenti siano effettivamente corrispondenti all’etico sentire, più che la perfezione del modello ancorché si individuasse la struttura professionale eccellente per descriverli nella maniera più idonea per poi dare una risposta adeguata al Magistrato che indaga. Il Magistrato prima ha detto che si guarda alla forma e poi alla sostanza; la sostanza si guarda nei comportamenti e questi sono difficili da modificare. Come dice il saggio: “è difficile rendere dritte le gambe ai cani”. E quindi è sui comportamenti all’interno delle organizzazioni che dobbiamo confrontarci. Oltre ad un supporto consulenziale che ha a che fare con gli aspetti legali e formali, occorre che siano inseriti anche dei sostegni che hanno a che fare con le competenze trasversali che riguardano le dinamiche relazionali. Solo allora si può dire che la legge 231 funziona per forma e sostanza.

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Ing. ROBERTO SANTOLAMAZZA Credo che dalla partecipazione che c’è stata, dalle domande e anche dalla vostra permanenza qui, di cui vi ringrazio, ci sia stato un gradimento, e di questo sono molto lieto. Vi invito nuovamente al prossimo incontro. Ringrazio infine, ma non perché meno importanti, la disponibilità, la competenza e l’estrema apertura con cui hanno illustrato gli argomenti tutti i relatori. Grazie.

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Giornata del 19 aprile 2007

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INTRODUZIONE AI LAVORI E PRESENTAZIONE Dott. FRANCO TAGLIENTE Responsabile scientifico Associazione Proetica Benvenuti, ben ritornati, mi pare che la gran parte di voi fosse qui giovedì scorso. È piacevole rivedere le stesse persone, perché in qualche modo è una dimostrazione di interesse per questo argomento. Il tema che abbiamo affrontato nel precedente incontro riguardava il D.Lgs. 231/2001. Abbiamo parlato dei vari aspetti di questa norma e anche dei codici etici. L’iniziativa della volta scorsa e quella di oggi rientrano nel più ampio tema della responsabilità sociale delle imprese; in questi due incontri c’è un aspetto che li accomuna e ha a che fare proprio con ciò che riferii la volta scorsa essere il concetto il più semplice, ma forse il più profondo, che definisce l’etico agire. Mi feci aiutare da Aristotele, ricordando quello che lui diceva già 2500 anni fa: “etico è tutto ciò che fa bene al singolo e, nel contempo, fa bene alla collettività”. Questa possiamo definirla come una chiave di misurazione, uno strumento per trovare la risposta in maniera semplice alla domanda se quello che stiamo facendo (mi limito nell’ambito economico) lo possiamo definire etico o meno. Un’azienda, un’organizzazione che agisce nell’interesse proprio, e nel contempo nell’interesse della comunità cui appartiene, indubbiamente agisce eticamente. Lascio a voi le molte considerazioni che è possibile fare sotto questo profilo. Abbiamo innumerevoli esempi di comportamenti che, a guardarli in profondità, tutto sono meno che etici, possono essere legali, ma non etici. La volta scorsa è stato messo in evidenza come nel procedere evolutivo di un’organizzazione si passi da una situazione di illegalità, di amoralità, per giungere ad una condizione di eticità, e quindi superando quella che è la condizione di illegalità. La volta scorsa, vi ricordo, emerse un aspetto che io giudico molto importante: il fatto che sembra incredibile come la considerazione che noi, come singoli uomini, facciamo del nostro agire, i valori ai quali noi ci rifacciamo, che, guarda caso, quando sono guardati attraverso le lenti di un’organizzazione, quindi un luogo dove più uomini si incontrano, sono trattati, affrontati, rispettati in maniera, ahimè, alquanto diversa. Questo non è un aspetto solo dei giorni nostri: nei tempi che furono, nei decenni e nei secoli passati si sono soffermati molti grandi uomini. Hanno tutti scoperto questa, ahimè, triste verità. Come singoli uomini vediamo le cose in un certo modo, inseriti all’interno di un’organizzazione quelle stesse cose le vediamo in modo diverso. Perfino le guerre sembra che siano percepite dal singolo soldato con una certa visione, mentre dal Paese per il quale combatte c’è una visione completamente diversa. Da ciò

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discende che anche gli efferati delitti commessi dai singoli uomini sono considerati dall’individuo come non biasimevoli, in nome di un ordine ricevuto. È questo un drammatico esempio di conflitto. Siamo in presenza di conflitti, quando una stessa situazione è vista con occhi diversi da due o più persone. Il termine conflitto è associato alla parola guerra: credo che se domandassimo a cento persone di definire con una parola il termine “conflitto”, credo che la gran parte direbbe immediatamente guerra, o nomi similari. In realtà il conflitto non ha questa accezione negativa: ha un’accezione nella migliore delle ipotesi neutrale. In realtà ha in sé una grande positività, e questi pochi minuti che posso concedermi vorrei dedicarli a mettere in evidenza questo aspetto. Noi siamo fortemente impregnati di una cultura che qualcuno ha definito in maniera molto semplice, ma anche molto efficace, la cultura del “o - o”. Siamo portati a ragionare in termini dicotomici, dualistici: è vero questo o non è vero questo? È bello – è brutto; è buono – è cattivo; è bene – è male. In realtà sta emergendo sempre di più, e questo ci deve rallegrare, una visione del mondo alquanto diversa, che non è più la visione dell’“o - o”, ma è la visione dell’“e - e”, cioè una visione che vuole che le cose siano queste, ma anche quelle, e che non necessariamente una questione debba essere affrontata in una logica dualistica, ma in una logica polare. Senza voler evocare nessun contenuto di tipo politico, il bipolarismo è una grande ricchezza, perché è il contributo di due punti di vista diversi, divergenti e inconciliabili. E molto semplicemente vorrei domandare a voi chi si sente di affermare che una divergenza di punti di vista sia una povertà anziché una ricchezza. Eppure sembra proprio che gran parte della gente non sia preparata a vivere un’esistenza nella complessità della conflittualità. È come dire che siamo abituati/educati a trovare delle rapide risposte nell’alternativa tra una cosa e l’altra, anziché vivere la complessità per quello che la complessità è: una situazione che non può essere risolta. A differenza della complicanza (le cose complicate si possono risolvere) le cose complesse non si possono risolvere, ma solo vivere. È un po’ come dire che la vita non è una cosa complicata, la vita è una cosa complessa, non c’è soluzione, la si può solo vivere, non risolvere.

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Il nodo di Gordio2 era una cosa complicata, per quanto difficile fosse sciogliere quel famoso nodo, alla fine Alessandro lo sciolse con un colpo di spada. Ci sono cose complicate, molto complicate, però in qualche modo se ne viene fuori. La conflittualità invece è una cosa complessa, e mi piace immaginarla, strettamente collegata alla biologia, alla vita; complessità e conflittualità sono parti integranti della nostra esistenza. È proprio attraverso il confronto, attraverso il contributo che ciascuno può dare alle problematiche in campo che ne risulta un arricchimento per i singoli e per la collettività alla quale appartengono. Purtroppo anche ai nostri giorni, questi atteggiamenti, questi modi di essere sono presenti in non pochi luoghi, e purtroppo anche nella nostra civilissima città, nella nostra civilissima Italia, nella nostra civilissima Europa. Nel mondo occidentale questo rifiuto dell’altro, questo rifiuto del diverso, è il modo, ahimè, più bestiale per trasformare un conflitto, per affrontarlo. Questo è un ulteriore elemento che voglio portare per un tema vastissimo, e che poi sarà esplorato anche per altri versi dai colleghi, giacché la conflittualità nel viverla ci offre più o meno, cinque soluzioni. C’è un modo a noi molto noto che è la prevaricazione. Dico che è molto noto perché nelle organizzazioni a cui apparteniamo è frequentissimo. La prevaricazione, ad esempio, del potere gerarchico. Nella gerarchia è sempre presente la prevaricazione. Con questo non voglio dire che la gerarchia non sia un elemento fondamentale per la vita di un’organizzazione. Non è questo l’elemento discriminante; l’elemento discriminante è il modo in cui si fa leva sulla gerarchia quando si manifesta in modo prevaricante nel conflitto che si pone tra “colui che è sopra”, rispetto a “colui che è sotto”. E la prevaricazione, quindi la condizione di coesistenza di un maggiore rispetto a un minore, è l’elemento fondamentale che ci permette di definire la violenza. Anche questa è una parola che, comunemente, viene intesa in modo distorto, perché nel nostro vissuto associamo alla violenza soprattutto quella 2 Gordio, re dei Frigi e padre del leggendario re Mida, fu un re contadino che, prima di cingere la corona, non disdegnava attaccare al suo aratro una coppia di buoi e arare il suo campo. Così stava facendo un bel giorno quando uno stormo di corvi iniziò a svolazzargli intorno. La cosa lo inquietò e raccontò l'accaduto a un'indovina che vi lesse il suo destino di sovrano. Salito al trono, Gordio donò il famoso aratro al tempio più importante della città. Un nodo complicatissimo teneva legato il timone al giogo, tanto che nessuno riuscì mai a scioglierlo. Una profezia diceva che chi fosse riuscito nell'impresa rompicapo sarebbe diventato potentissimo, il conquistatore di tutta l'Anatolia. Nell'anno 333 a.C., Alessandro il Macedone fu posto davanti al nodo da sbrogliare. Il giovane re provò; poi, spazientito, risolse la faccenda con un taglio netto della sua spada che tranciò in due il groviglio di cordame. Che avesse risolto il problema del nodo, sia pur distruggendolo, forse gli facilitò l'adempimento del vaticinio: infatti Alessandro diventò padrone, seppur per poco tempo, di gran parte dell'Asia.

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manifestazione di prevaricazione fisica. Per nostra fortuna stiamo crescendo e abbiamo anche compreso che la prevaricazione o la violenza, non è soltanto fisica. Ed è questo l’elemento importante: comprendere che non esiste una linea di demarcazione tra la violenza fisica e quella non fisica, perché comunque di violenza si tratta. Tutte le volte che c’è la prevaricazione di un “maggiore” rispetto a un “minore”, siamo in presenza di una violenza. E la violenza ha una caratteristica tremendamente drammatica: è un’energia che non si dissolve ma che si trasferisce. Questo passaggio può avvenire attraverso un processo di “escalation”, oppure attraverso quella che possiamo chiamare semplicisticamente la catena della violenza. In altri termini la violenza subita, fisica o non fisica, è nelle nostre case, nelle nostre organizzazioni, nelle nostre associazioni, per strada, e questa violenza poi noi la subiamo e la trasferiamo. Perché esiste una sorta di meccanismo in forza del quale il minore che ha subito la violenza si trasforma come il dottor Jekyll e mister Hyde, in un maggiore che, presa quella violenza subita, la fa propria e la trasferisce ad altri. In verticale quindi abbiamo, ad esempio, “l’escalation” della violenza per via gerarchica, oppure in via orizzontale si ha portandola in luoghi diversi rispetto a quelli in cui l’abbiamo subita. Ed ecco che la violenza subita in un’organizzazione, per esempio aziendale, si trasferisce nell’ambito della famiglia, e poi dalla famiglia per strada, con gli amici, o semplicemente facendo le corna all’automobilista che ti ha superato e che, guarda caso, tu credevi che non avesse il diritto di farlo. Non so per quali strade sono arrivato ad interessarmi ed occuparmi di questo aspetto importante e nel contempo affascinante che, un po’ alla volta, ti fa comprendere come le guerre per quanto siano da noi remote, ci appartengono non già come mero fatto culturale, ma perché le abbiamo causate. Sostanzialmente, se è vero che la violenza è energia che non si disperde, le manifestazioni più esecrabili di violenza che avvengono a migliaia di chilometri da qui, in qualche modo hanno un’origine, e all’interno di quella origine ci siamo anche noi, sia pure in maniera empatica. Di contro un altro modo per gestire un conflitto è quello di subirlo. Il terzo modo per vivere una situazione conflittuale, è quella “dell’evitamento”. In altri termini abbiamo una divergenza di punti di vista con un nostro amico, con il nostro coniuge, con un collaboratore, o con un superiore all’interno di un’organizzazione, sappiamo che lì c’è la materia del contendere, e anziché affrontarla nel modo che poi vedremo, preferiamo evitarla, e quindi ci allontaniamo dal conflitto. Ma il conflitto non è risolto, esiste ancora. Noi siamo costantemente immersi in una quantità notevole di conflitti irrisolti, conflitti evitati. Sono arrivato a credere che forse è ben più grave il conflitto evitato, che non il conflitto subìto oppure quello che si è trasformato attraverso prevaricazione. È chiaro che questa è un’iperbole, ma

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c’è una ragione che mi fa dire questo: comunque, anche gestendo il conflitto con la prevaricazione rimane un rapporto, ci sono due persone in una situazione di grande difficoltà, che però si riconoscono reciprocamente. Invece “nell’evitamento” c’è l’annullamento totale dell’altro, cioè l’ignorare l’altro; non c’è il rapporto. Voi comprendete bene, che un rapporto ha in sé due elementi fondamentali: il contenuto e la relazione. Un rapporto ha bisogno di contenuti, cioè il “perché” e il “che cosa”, e la relazione il “come”. Se vengono a mancare il contenuto e la relazione, non c’è rapporto. Chissà quante persone vivono per anni insieme e non hanno un rapporto. Una persona che mi è molto cara l’altro giorno mi ha detto: “Sai, mi sono separato da mia moglie”. “Mi dispiace, cosa è successo?” “Niente.”. Ha preso semplicemente atto che da dieci anni non avevano rapporti, ma non rapporti di quelli che aggradano alle membra, ma rapporti di quelli che aggradano allo spirito. In pratica si ignoravano, si evitavano. C’è una frase molto bella che ha detto Pagliarani nel 1993, uno dei padri della polemologia3: ci vuole più coraggio nell’affrontare la complessità e la conflittualità, che non nel fare la guerra. Vi lascio questo pensiero per quelle che possono essere le vostre riflessioni personali. Volevo mettere in evidenza un altro paio di questioni, una ha a che fare con la differenza tra conflitto e tolleranza. Sembrerebbe che sia più opportuno essere tolleranti che conflittuali; non è mica vero! È meglio un sano conflitto che una becera tolleranza, perché la tolleranza di per se stessa è una sorta di beneficenza. La tolleranza è la negazione dell’altro. Io credo che mi sentirei umiliato se fossi tollerato; preferisco un’accesa discussione, un dialogo serrato per affermare i diversi punti di vista, per poi non arrivare magari a nulla e per lasciare aperta la questione. Sono le domande senza risposta che fanno crescere, non le domande che hanno la risposta pronta. Una domanda aperta è stimolo alla ricerca, una domanda chiusa invece ha terminato il suo processo; quindi è più benefico un conflitto leale, senza retropensieri, rispetto ad una becera tolleranza. Il quarto modo per affrontare un conflitto è la negoziazione. Negoziare è una bella parola, ma è differente dalle altre; “negoziamo” ovvero “parliamone”, non significano proprio la stessa cosa. “Parliamone” è dialogo, (dialogos = la parola, il verbo tra di noi); la negoziazione invece ha a che fare con un qualcosa che porta, come si dice, ad un gioco a somma zero. In buona sostanza la negoziazione serve comunque a dare una conclusione ad una diatriba, rinunciando, ciascuno dei contendenti, a qualcosa; ecco perché a somma zero. Poi possono esserci delle negoziazioni 80 – 20, 90 – 10, nella 3 dal greco: pólemos , guerra e logos, studio è la disciplina che, da oltre duemila anni, cerca di identificare, attraverso l'analisi dei conflitti, i modelli strategici ed organizzativi che sono stati utilizzati per ridurre l'impatto dei fattori che rendono difficile, oggi come allora, l'attività di coloro che devono decidere.

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migliore delle ipotesi 50 – 50. Ma c’è una forma in cui i conflitti possono trovare una bella collocazione, è la collaborazione. La possiamo chiamare in molti modi, però è soltanto attraverso la quinta via, che è di fatto la trasformazione creativa del conflitto, che è possibile ottenere un risultato a somma positiva. Bateson definiva questo processo un processo di deuteroapprendimento, una parola difficilissima, che altro non vuol dire se non “apprendimento ad un livello superiore”. In altri termini, per venire fuori da una situazione conflittuale apparentemente irrisolvibile, occorre trovare una chiave di lettura diversa. C’è una metafora famosissima, la metafora dell’arancia, secondo la quale due sorelle hanno un’arancia in comune; entrambe la vogliono. La domanda è: “Se la vogliamo entrambe, cosa facciamo?”. L’uomo saggio può dire: “Tagliamola a metà, così ne godete a metà”, ecco la negoziazione. Ma a ben vedere alla prima sorella interessa il succo di quell’arancia, all’altra sorella interessa la buccia, perché vuole fare uno di quei monili che si realizzano mettendo ad essiccare le bucce delle arance. In realtà era possibile risolvere il conflitto nel modo più semplice dei modi creativi: attraverso il “parliamone”, non attraverso il “negoziamo”. E attraverso il parlare sarebbero emersi i due diversi punti di vista collegati strettamente alle due diverse esigenze personali. A questo punto, qualcuno che ascolta questa metafora, mi fa inevitabilmente la domanda: “Sì, però, se entrambe le sorelle volevano godere del succo dell’arancia, come la mettiamo?”. La risposta presuppone quel salto, quel livello superiore che vorrei tanto che voi poteste fare, non riconducendo tutto in termini temporali a risoluzioni da due minuti. Nella complessità si trova la soluzione: “seminare i semi di quell’arancia e far nascere un albero”. È chiaro che in un’epoca meccanicistica e orientata a bruciare il tempo, questa risposta è considerata una risposta filosofica (in realtà lo è), però se la vogliamo apprezzare fino in fondo dobbiamo comprendere che c’è l’elemento “tempo” in gioco. Questo elemento sostanzialmente, è quello che ci collega alla complessità, e questa, come dicevo prima, possiamo solo viverla. Se si vuole risolvere una questione in due minuti quando c’è bisogno di un tempo maggiore, vuol dire che si sta utilizzando il tempo come “Cronos”, ma per i greci oltre a Cronos c’era anche “Kairos”, e “Kairos” è un altro tempo, non è il tempo dell’orologio, è il tempo che, come dico io, ci vuole per far cuocere gli spaghetti. Alla domanda: “Ma per quanto tempo devono cuocere gli spaghetti?”, un bolzanino darà una risposta di un certo tipo, un napoletano di un altro. Tutti e due se sono dei bravi cuochi ti rispondono: “Ci vuole il tempo che ci vuole”, non ti rispondono “7 minuti”, perché la giusta cottura è una questione impercettibile. “Quanto tempo ci vuole? Quanto tempo ci vuole per evolverci? Quanto tempo ci vuole per capire una metafora? Quanto

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tempo ci vuole per comprendere il “Koan4”? I maestri zen hanno sempre formato i propri discepoli dando loro delle frasi molto enigmatiche, delle frasi che erano delle domande, non delle risposte. Qualcuno ci può arrivare in un giorno, altri in un anno, altri non ci arriveranno mai, questo è Kairos. E allora quanto tempo, che cosa occorre fare perché questa arancia soddisfi entrambe le sorelle? Ci vuole Kairos, ci vuole la ricerca di una soluzione di livello superiore. Cos’ha a che fare questo con Curia Mercatorum? Cos’ha a che fare questo con quelle situazioni che sono riposte nelle mani di altri, ad esempio di un giudice? Hanno molto a che fare, perchè ricorrere ad un Giudice sostanzialmente vuole dire non trasformare creativamente il conflitto. Quando ricorriamo ad un Giudice, infatti, entriamo nell’ambito del contrasto. E allora la questione è capire se siamo in una situazione di contrasto o di conflitto, se siamo nella situazione conflittuale c’è la vita, se siamo nel contrasto c’è la morte. Nel conflitto possiamo lavorare, mentre nel contrasto siamo già arrivati a dire, nella forma più civile, che, piuttosto che litigare, ci rimettiamo nelle mani di un Giudice. Che questo Giudice sia togato, o sia un arbitro, poco importa, comunque è un Giudice, che interviene per mediare, per negoziare, e comunque alla fine qualcuno dovrà fare una rinuncia. La questione profonda, quella vitalizzante, quella che ci permette di evolvere, viene prima: rimanere nell’ambito del conflitto. “Rimanere”, ovvero essere capaci di “sostare” nel conflitto. Rimanere nel conflitto vuol dire arricchirsi; risolvere la questione rapidamente andando alla negoziazione, vuol dire comunque uscire dal conflitto, per ragioni che evidentemente ognuno ha per se stesso. Oggi in parte saranno sviscerati ancora di più i temi della conflittualità nei suoi diversi aspetti, e questo sarà affidato all’avvocato Ana Uzqueda, un nome dolcissimo, Ana con una “n” solo, bellissimo. La signora Uzqueda ci 4 Kōan parola giapponese che viene dal cinese. Il senso originale della parola è "legge", "principio di governo", o secondo alcuni "documento pubblico". In senso generale è un esempio che vuole essere di guida per la vita. Nella filosofia Zen il kōan è una frase paradossale o una storia usata per aiutare la meditazione e risvegliare una natura più profonda, di solito narra l'incontro tra un maestro ed il suo discepolo nel quale viene rivelata la natura più profonda delle cose.

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parlerà di questi aspetti, e poi via via gli altri colleghi affronteranno le tematiche riconducibili più agli aspetti pragmatici, come cosa accade quando si avvia un processo di negoziazione.

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COME PREVENIRE LE CONTROVERSIE AZIENDALI E LA LORO GESTIONE Avv. ANA UZQUEDA Direttrice didattica dell’Associazione Equilibrio - Bologna Buongiorno, ringrazio per l’invito a condividere con voi la nostra esperienza degli ultimi anni nella ricerca, dei sistemi efficaci per affrontare e prevenire le conseguenze negative dei conflitti. I conflitti formano parte dei nostri rapporti e possono essere gestiti in maniera positiva per evitare che diventino dispute, perché conflitto e disputa non sono sinonimi. Il conflitto è il processo e lo stato di insoddisfazione, la disputa è il prodotto del conflitto non risolto. Io parlerò innanzitutto dei conflitti in ambito organizzativo, all’interno dell’azienda e i colleghi che parleranno dopo di me, affronteranno l’argomento dei conflitti esterni, quelli che avvengono tra imprese o tra imprese e clienti e fornitori. Il conflitto è inevitabile perché è fisiologico, laddove ci sono rapporti potenzialmente ci saranno conflitti, soprattutto in un’organizzazione. E il conflitto è neutro; può diventare negativo o positivo, ma questo dipende dall’atteggiamento e dalla modalità con la quale è gestito. Le organizzazioni tendono a mutare continuamente e anche questi cambiamenti possono generare conflitti. Le controversie aziendali interne possono essere affrontate nell’ambito di un sistema integrato nella cultura aziendale dell’organizzazione, o possano essere gestite “ad hoc”, e vedremo le caratteristiche di ognuno. Il conflitto non può essere evitato, ma può essere “gestito”. Possiamo parlare di conflitti disfunzionali e conflitti funzionali. Un conflitto disfunzionale è quello che può provocare una situazione di stallo/confusione, di assenza di collaborazione nell’organizzazione che, a sua volta, può generare una situazione di disagio tra le persone coinvolte. Il conflitto, invece, può essere funzionale quando aumenta la capacità di innovazione, aumenta l’autocritica e favorisce i cambiamenti all’interno dell’organizzazione. Il conflitto può anche, in apparenza, non esserci in un’organizzazione e bisogna chiederci se l’assenza totale di conflitti non possa essere un sinonimo di apatia, di mancanza di iniziative o di mancanza di motivazione. Il conflitto disfunzionale minaccia gli interessi e gli obiettivi dell’organizzazione, perché provoca dispendi di energia e di tempo, può costituire una barriera alla creazione di un buon clima di lavoro e ostacolare la performance organizzativa. Il conflitto funzionale, può invece promuovere l’interesse dell’organizzazione, essere fonte di motivazione e contribuire allo sviluppo della capacità individuale nella costruzione di soluzioni che possono portare

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a cambiamenti. Un conflitto non gestito o gestito in maniera inadeguata, come ad esempio la decisione di introdurre un cambiamento nei ruoli o nei compiti del personale all’interno dell’organizzazione, per tentare di attenuare le difficoltà riscontrate, può provocare altre conseguenze, come assenteismi, malattie, problemi di coordinamento nei gruppi e sabotaggi. Altre conseguenze possono sorgere come risposte a misure disciplinari, scioperi, misure di forze, o competizioni negative che avvengono tra i diversi dipartimenti di un’organizzazione e che possono provocare una situazione di stallo nell’azienda, o addirittura arrivare al sabotaggio intenzionale. I risultati positivi della gestione di un conflitto possono invece contribuire ad una maggior motivazione, ad incentivare le persone verso il dialogo costruttivo e il miglioramento del clima di lavoro. Alcuni studi sui conflitti hanno portato a queste conclusioni: i conflitti, all’interno dell’organizzazione, diminuiscono con l’aumento della difficoltà degli obiettivi e con la chiarezza con cui essi sono comunicati; alti livelli di conflitto tendono a minare la soddisfazione professionale e la motivazione intrinseca al lavoro; se si desidera raggiungere un miglioramento duraturo è necessario risalire alle origini del conflitto. Quando parliamo delle reali motivazioni, dobbiamo fare una prima distinzione tra elementi oggettivi ed elementi soggettivi. Gli elementi oggettivi sono facilmente identificabili; ad esempio: le questioni relative alla qualità o quantità dei beni oggetto di una fornitura. Ma non sempre i conflitti nascono per questioni oggettive, perché se le persone fossero perfettamente razionali, potrebbero decidere in che modo risolvere o gestire questo tipo di divergenze. La maggior parte dei conflitti nasce da elementi soggettivi, come la comunicazione inefficace, la diffidenza, le aspettative mancate, le percezioni, che in situazioni di tensione possono approfondire la visione selettiva delle parti, a partire dalla quale tutto acquisirà un’altra dimensione. La mancanza di comunicazione, sommata alla percezione selettiva, potrà produrre diffidenza, che a sua volta (diffidenza, mancanza di comunicazione e percezione selettiva) potranno generare questioni di principi. Se a tutto questo aggiungiamo le questioni emotive, veramente il conflitto comincia il suo percorso verso “l’escalation” irrazionale. Il conflitto non è statico, ma dinamico. Il conflitto può evolvere verso una sua soluzione, o potrà regredire verso forme poco pacifiche di gestione o a seconda della forma in cui sia stato gestito, dell’atteggiamento assunto dalle parti, dello spazio concesso dall’organizzazione per la sua gestione, del riconoscimento o del mancato riconoscimento tempestivo del conflitto. Molte volte si pensa che il conflitto sia negativo, allora molte aziende sostengono che nelle loro organizzazioni non ci sono conflitti. Questa affermazione non è sempre vera, i conflitti ci sono ovunque. Quindi, la negazione di questa realtà potrebbe fare presumere che le persone, in genere,

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temono il conflitto. Di fronte al conflitto c’è quasi sempre una negazione, un intento di evitarlo e questo è quello che addirittura potrebbe provocare una conseguenza ancor più negativa del conflitto. Se credo che il conflitto sia negativo, possibilmente adotterò uno stile negativo per la sua gestione e quindi tenterò di evitarlo, di assumere un atteggiamento altamente competitivo o, in altri contesti, concedevole. Quindi, l’opinione negativa sul conflitto fa sì che, di fronte ad un certo fatto, si dia una risposta coerente con la propria opinione e che queste conseguenze vadano ad alimentare un cerchio che mi fa convincere ulteriormente della negatività del conflitto. Il conflitto può produrre costi, che non sono soltanto quelli diretti come le spese legali, ma anche costi indiretti, che spesso sono molto più importanti. Tra i costi diretti ci sono quelli derivati da controversie legali e da prodotti e servizi difettosi che possono essere una conseguenza di assenteismi, di sabotaggi, di scarsa collaborazione fra i diversi settori o del mancato coordinamento del gruppo. Tra i costi indiretti, troviamo ad esempio la divulgazione delle problematiche aziendali tramite i media, la perdita di immagine dell’impresa, il calo nelle vendite. Ad esempio: un’impresa produttrice di vetri piani aveva ricevuto l’incarico da parte di un’impresa automotrice molto importante, per la fabbricazione dei parabrezza delle loro automobili. Il controllo di qualità era stato affidato all’impresa produttrice. Per un problema relazionale non risolto e non gestito adeguatamente in questa impresa, una certa quantità di automobili erano uscite con alcuni graffi nel parabrezza. Quando si avvertì il danno, l’impresa automotrice ha dovuto fare un “richiamo” attraverso i media affinché le macchine fabbricate durante quel periodo contattassero le officine convenzionate per la sostituzione del parabrezza. La divulgazione di tale problematica attraverso i media creò un danno all’immagine delle imprese coinvolte e provocò anche un calo nelle vendite. E questo aveva provocato che alcuni validi collaboratori abbandonassero l’impresa come conseguenza della perdita di immagine sul mercato, perché non volevano rimanere vincolati a questo tipo di organizzazione. Conseguentemente è stato necessario sostituire queste persone e formarne altre. Come si può quindi calcolare il costo dei conflitti nell’organizzazione? I costi dei conflitti riguardano fondamentalmente i seguenti aspetti: a) La perdita di tempo: va considerato l’importo orario dello stipendio del

personale coinvolto nel conflitto, comprendendo altresì i soggetti coinvolti in forma indiretta e moltiplicando il numero di ore mensili dedicate al conflitto. b) La perdita di immagine dell’impresa: in questo caso va considerato sia il danno immediato, sia quello indiretto come, ad esempio, la perdita e la sostituzione di personale qualificato e competente che si allontana come conseguenza della perdita di immagine dell’impresa.

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c) Sabotaggi, danni e furti: va calcolato il valore delle riparazioni, della sistemazione di attrezzature e delle eventuali conseguenze per la clientela.

d) Costi legali: nell’ipotesi di un conflitto che viene gestito con soluzioni, vanno considerati i costi diretti come il compenso degli avvocati, lo stipendio del personale che gestisce il caso in forma interna, i costi dei periti e così via.

e) Altri costi: non è facile quantificare le altre voci di danno, quali il danno morale e quello alla salute.

Un altro elemento importante per elaborare una mappa del conflitto aziendale riguarda il tipo di risposta che offrono l’organizzazione e gli individui di fronte al conflitto. Innanzitutto è importante partire dal concetto che le reazioni delle organizzazioni di fronte al conflitto non avvengono in maniera separata dalla cultura aziendale e dalle pratiche e credenze del sistema e dei suoi membri; il modo in cui “facciamo le cose qui” è quello che definisce la lente collettiva attraverso la quale l’organizzazione e i suoi attori principali percepiscono i disaccordi esterni e le minacce esterne. Se, ad esempio, un’azienda ha la fame di “giocare duro” quando si tratta di litigi, può decidere di lottare in maniera aggressiva contro qualsiasi reclamo, senza che le importi del danno potenziale sul mercato. Le risposte delle organizazioni al conflitto possono essere raggruppate in categorie generali di lotta o di fuga. Risposte di lotta: - Arroganza: la risposta al conflitto tende a svilire i reclami piuttosto che a identificare le cause reali. Le organizzazioni che assumono questo atteggiamento non prendono in considerazione il potere di chi presenta il reclamo che può manifestarsi attraverso differenti forme, tali come asseinteismo, malattia, scarsa collaborazione, ecc.; - Lotta: l’organizzazione assume una risposta di lotta quando pensa che comunque si deve affrontare la situazione come se fosse una guerra, ma non prende in considerazione qual è la “MAAN”. La “MAAN” è un concetto importante nella negoziazione, e corrisponde all’acronimo Migliore Alternativa all’accordo Negoziato, ossia a quello che potrebbe fare la controparte di fronte al conflitto qualora non fosse possibile raggiungere un accordo. Ognuno di noi ha una “MAAN”, quando negozia, che può essere negativa o può essere positiva a seconda del contesto. Quando ci si prepara per la negoziazione l’identificazione degli interessi propri e dell’altra parte, della “MAAN” propria e dell’altra parte, l’identificazione delle possibili opzioni negoziali e dei criteri oggettivi è fondamentale. In questo caso non sto parlando della negoziazione competitiva nella quale si va a negoziare dal punto di vista delle posizioni, ma della negoziazione cooperativa, che è nata come modello strutturato nella Scuola di negoziazione di Harvard e che si

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basa sugli interessi e le motivazioni delle parti e dove la dinamica non è quella dei giochi a somma zero, ma quella dei giochi cooperativi, perché le parti non devono dividere quello che c’è, ma devono creare valore, per poi decidere insieme come dividere. E, in questo tipo di negoziazione, le parti riescono effettivamente a soddisfare i loro interessi. L’altro tipo di risposta delle organizzazioni di fronte al conflitto è la negazione, ad esempio quando l’organizzazione afferma: “qui non ci sono conflitti, siamo una grande famiglia”. Questo crea un disorientamento nelle persone che appartengono all’organizzazione, perché loro percepiscono che le situazioni conflittuali ci sono, ma non vengono affrontate. Quindi c’è una negazione, ma anche una strategia per tentare di evitare il problema. Ad esempio quando si decide di trasferire la persona identificata come problematica da un settore all’altro. In realtà poi si verifica che con la persona si trasferisce il problema, non perché la persona sia problematica, perché ci sono altre situazioni che non sono state né affrontate né gestite. Un altro atteggiamento che può assumere l’organizzazione di fronte al conflitto è quello di concedere in silenzio: si concede affinché la persona problematica non crei maggiori inconvenienti, ma si fa una specie di patto per mantenere il silenzio su quanto accaduto. E’ chiaro che questo atteggiamento può diventare un’arma a doppio taglio. L’organizzazione può decidere di non considerare il segnale di una situazione conflittuale, ma in questo modo non eliminerà il conflitto. Allora cosa fare di fronte a questo? A livello internazionale le organizzazioni hanno cominciato ad adottare sistemi di gestione dei conflitti non avversariali; nei sistemi non avversariali la decisione è richiesta ad un terzo, ma è co-costruita dalle parti, che partecipano attivamente attraverso un processo strutturato di negoziazione cooperativa, che permette di scindere le persone dal problema, di affrontare tanto le questioni emotive come quelle razionali, di non fermarsi alle posizioni ma di individuare gli interessi, di generare opzioni di reciproco vantaggio, di allargare la base negoziale, di creare opzioni, di considerare la migliore alternativa che ognuna delle parti potrebbe avere nel caso di mancato accordo. Una negoziazione che, pur prendendo in considerazione gli aspetti emotivi, ha una sua logica e porta le parti ad una decisione di tipo razionale. Quindi, se alla fine decido di trovare una certa soluzione, so che cosa lascio; ma le persone dovrebbero identificare a priori la loro migliore alternativa all’accordo negoziato (MAAN), ovvero che cosa potrebbero fare nel caso in cui non arrivassero ad un accordo con l’altra parte, per poi essere in grado di decidere se la soluzione che si sta prospettando nella negoziazione può essere più o meno favorevole. La maggior parte dei conflitti si risolve attraverso l’applicazione del diritto, del ricorso ai sistemi avversariali, dove

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i contendenti sottopongono la controversia ad un terzo che, sulla base delle prove, applicherà il diritto. Non sempre questo tipo di soluzione è opportuna soprattutto nei conflitti policentrici e non sempre questo tipo di soluzione è la più adeguata per affrontare i conflitti organizzativi, dove molti elementi sono di tipo soggettivo. Allora, rovesciare la piramide del conflitto, significa non affrontare il conflitto esclusivamente dal punto di vista del diritto, ma affrontarlo anche dal punto di vista degli interessi. Il dottor Tagliente diceva prima una cosa molto interessante: normalmente pensiamo di dover trovarci sempre di fronte ad un bivio, “o questo” “o quello”. Anche quando parliamo di sistemi extra giudiziali, o dei sistemi alternativi di risoluzione delle dispute, stiamo parlando non di “o – o”, ma anche di sistemi che possono essere complementari. Così, come si sa che non tutte le dispute potranno essere risolte in forma soddisfacente in un sistema avversariale, ci possono essere anche alcune dispute che non potranno essere risolte in un sistema non giudicativo, ossia in un sistema con base negoziale. Ma è importante conoscere come funzionano questi sistemi, perchè quando si conoscono ci si rende conto che non ci sono praticamente controindicazioni per provare a gestire la controversia con un sistema di base negoziale, come la mediazione, che è una negoziazione guidata. Il mediatore è quindi un esperto negoziatore, che guida le negoziazioni tra le parti per aiutarle a non concentrarsi unicamente sulle loro posizioni/pretese, ma a identificare gli altri elementi del conflitto e a promuovere i loro interessi. Perché invece si gestiscono i conflitti ricorrendo fondamentalmente (e questa è la realtà italiana) a metodi basati sui diritti o sul potere, piuttosto che a metodi basati sugli interessi all’interno delle organizzazioni? Spesso per mancanza di procedimenti, perché molte organizzazioni (in Italia la maggior parte) non hanno adottato un sistema interno di gestione dei conflitti, o per mancanza di motivazione per utilizzare i metodi basati sugli interessi (quando non ci sono le risorse o quando ci sono ostacoli nell’organizzazione per il loro utilizzo). Nel primo caso, la mancanza di procedimenti: è possibile che non ci siano perché l’azienda non li conosce e quindi non li ha predisposti oppure l’azienda di fronte al conflitto, preferisce evitarli o tentare di sopprimerli, perchè teme i sistemi in cui non sente di avere il controllo oppure perché ci sono dei procedimenti che non permettono alle parti di esprimere gli aspetti più soggettivi dei conflitti, che quindi rimangono in un livello molto superficiale, o ancora perché non ci sono persone alle quali si possa ricorrere in caso di conflitto (ad esempio, i c.d. “ombudsman”; in Italia, la figura che più gli è vicina è quella del difensore civico, che si occupa di tutelare i diritti dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione). Ad esempio in alcune regioni il

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difensore civico ci ha chiesto una formazione per tutto il personale in tecniche di negoziazione e di mediazione dei conflitti allo scopo di migliorare le interazioni con la Pubblica Amministrazione, per tutelare i diritti dei cittadini in maniera più efficace. In questo momento a livello sanitario c’è molto interesse da parte di alcune Regioni, soprattutto Toscana ed Emilia Romagna, per adottare sistemi di gestione dei conflitti all’interno delle organizzazioni sanitarie. Questo interesse, che comincia ad essere molto più sentito da parte della Pubblica Amministrazione, secondo me dovrebbe contagiare anche il privato. Bisogna affrontare i conflitti quando nascono. È necessario che ci sia un sistema per affrontare anche i contrasti a livello organizzativo, che non si lascino degenerare e convertire in dispute, ma che i conflitti/contrasti possano essere affrontati, fin dal momento in cui si cominciano a generare. I vantaggi possono essere tra altri, un miglioramento dell’immagine aziendale, perché l’adozione di un sistema interno di gestione dei conflitti può essere vista e pubblicizzata proprio come una questione di politica aziendale. Ad esempio, la Shell negli Stati Uniti, ha adottato un sistema interno per la gestione dei conflitti, nella quale gli impiegati, nel momento in cui sono assunti, sottoscrivono un contratto nel quale è previsto che per la conflittualità nascente con l’impresa, i conflitti saranno affrontati in via interna, attraverso la negoziazione e la mediazione. Soltanto quando questi conflitti non possono essere gestiti con questa modalità e dopo aver tentato la mediazione, allora sì che potranno ricorrere ad un esterno o avviare una causa legale. I vantaggi dell’adozione di questo tipo di sistema sono: la diminuzione dei costi e dei tempi, l’identificazione di un risultato più soddisfacente; soprattutto il raggiungimento di risultati più durevoli, perché nella mediazione non c’è un’imposizione della soluzione, la soluzione viene creata su misura, risponde alle necessità delle parti. Quindi, essendo state le stesse parti quelle che hanno partecipato a tutto il procedimento e hanno generato quel tipo di soluzione, è molto più facile che l’accordo trovato sia mantenuto nel tempo. L’accordo deve essere il prodotto del consenso tra le parti e il mediatore non eserciterà mai nessun tipo di pressione affinché esse aderiscano ad un accordo. La gestione dei conflitti tramite il ricorso a sistemi non avversariali produce effetti positivi sul “medio”, perché permette di affrontare le questioni non solo a livello superficiale e produce anche soddisfazione sia dal punto di vista del risultato che del procedimento. Affrontiamo ora la modalità con la quale un’organizzazione potrebbe creare un sistema di gestione dei conflitti al suo interno. La prima fase è quella dell’ingresso e contatto, ovvero come i responsabili dell’organizzazione vengono a conoscenza di questi sistemi. È preferibile

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che i responsabili dell’organizzazione abbiano avuto la possibilità di conoscere previamente questi sistemi, che ad esempio siano stati pubblicati articoli in relazione a queste metodologie e che siano state organizzate conferenze e incontri sull’argomento. Le organizzazioni si devono autoconvincere e questo è molto importante. Quindi, vedendo quali possono essere i vantaggi di una gestione diversa dei conflitti, dovrebbe essere la stessa organizzazione ad intraprendere la decisione, almeno a livello di esperienza pilota, di avviare l’implementazione del sistema. Il primo passo a questo scopo è quello di analizzare l’organizzazione, per decidere come costruire il programma, per poi passare alla fase della formazione, l’implementazione e la valutazione, che ovviamente è strettamente vincolata all’identificazione degli obiettivi iniziali. Gli obiettivi della creazione di un sistema di gestione dei conflitti interni sono quelli di trattare in modo più consapevole il rischio legato al contenzioso (e a questo è dovuto ad esempio l’interesse dimostrato dalle organizzazioni di tipo sanitario), risolvere in modo più efficiente le situazioni conflittuali, al fine di recuperare efficienza, ridurre i costi e i rischi legati al contenzioso e prevenire gli effetti negativi dei conflitti. Innanzitutto bisognerà fare uno studio dell’organizzazione, perché non c’è una soluzione che possa essere implementata in tutti i contesti; questi tipi di sistemi interni devono essere adattati alle necessità della specifica organizzazione. Quindi, prima si deve fare un’analisi molto dettagliata del tipo di conflitto, dei protagonisti dei conflitti, delle cause, della modalità a cui l’organizzazione ricorre per la gestione dei conflitti. Per fare questo rilevamento si possono utilizzare alcune delle seguenti domande: quali sono le questioni che attualmente o di recente hanno generato una situazione di conflitto? Chi sono i protagonisti? Perché ci sono conflitti ricorrenti? Ci sono conflitti che rappresentano situazioni isolate, ci sono conflitti che possono essere gestiti ad hoc, o ci sono conflitti che coinvolgono più o meno sempre le stesse persone, o che riguardano sempre le stesse cause, e che possono offrire indicazioni di come adattare il sistema interno alle necessità di quella specifica organizzazione? Quante dispute nascono in un mese e per quali motivi? Come si gestiscono queste dispute? Che tipo di procedimenti si utilizzano per la soluzione dei conflitti? Questo sistema può essere applicato anche alla gestione dei reclami, quindi: come si comporta il personale quando riceve una lamentela? Con quale frequenza si negoziano i conflitti? Con quale frequenza falliscono le negoziazioni? Queste negoziazioni avvengono sulla base del diritto o sulla base degli interessi? Quali sono i costi e i benefici complessivi dei procedimenti seguiti dall’organizzazione? Queste domande servono a misurare il costo e l’efficacia dei sistemi di gestione dei conflitti utilizzati dall’organizzazione. I risultati della misurazione in termini di incidenza economica della conflittualità,

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portano spesso le aziende alla conclusione che l’adozione di un sistema preventivo di gestione dei conflitti non costituisce un costo ma un investimento. L’analisi si fa attraverso l’utilizzo di una serie di domande e riunioni con i diversi livelli dell’organizzazione, per tentare di capire qual è l’approccio, o quali sono le situazioni più eclatanti. Dopodiché si passa allo studio di fattibilità, per valutare la possibilità di implementare un sistema adeguato alle specifiche necessità dell’organizzazione. A questo scopo, è necessario analizzare le fasi per l’implementazione: la prima consiste nel verificare se i sistemi stragiudiziali interni ed esterni possono essere adeguati per i tipi di conflitti più ricorrenti in quella organizzazione. Se la risposta è positiva, bisognerà che l’organizzazione decida: a) se questi metodi saranno utilizzati a scopo preventivo (per ridurre le

possibilità di arrivare a procedure avversariali) o per la gestione di controversie già insorte;

b) se questi metodi saranno utilizzati per tutti o solo per una tipologia di conflitti;

c) se adotterà un sistema esterno (per la gestione dei conflitti insorti con i clienti, con altre aziende o con i fornitori, ad esempio), interno, o integrale di gestione dei conflitti. L’adozione di un sistema interno potrebbe costituire un primo passo per la promozione di una cultura aziendale di gestione negoziale dei conflitti, attraverso la formazione del personale, per procedere successivamente e dopo un’attenta valutazione, all’estensione del sistema anche ai conflitti esterni.

La seconda fase consisterà nell’adattare il sistema di gestione dei conflitti al contesto aziendale specifico; si dovrà quindi analizzare la tipologia e la natura dei conflitti più frequenti. Sarà molto più efficace la gestione dei conflitti quando si offra la possibilità di farlo nei livelli iniziali della sua dinamica evolutiva, prima che si approfondisca e possa coinvolgere altre persone e diventare multiparti. La terza fase riguarda la formazione. C’è un primo livello di formazione, che in realtà ha un carattere informativo ed è rivolto a tutto il personale dell’azienda e ai legali esterni. Si tratta di un intervento della durata di mezza giornata, con l’obiettivo di fare conoscere i sistemi stragiudiziali. Il secondo livello di formazione, che solitamente richiede l’impegno orario di una giornata, riguarda la conoscenza delle tecniche di gestione dei conflitti. Quando l’impresa decide di adottare un sistema interno, è sempre utile coinvolgere nella formazione anche le potenziali parti, quelle con le quali potrebbero nascere le controversie, come ad esempio i consumatori, i clienti e i fornitori per permetterli di capire come si potrebbero affrontare le controversie nell’ottica di un sistema di tipo negoziale. Il terzo livello consiste in una formazione teorico-pratica destinata alla preparazione dei soggetti imparziali per la gestione delle controversie

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interne, che potranno essere persone appartenenti all’impresa. Per le controversie esterne dovranno invece ricorrere necessariamente ad un ente esterno allo scopo di tutelare la terzietà e l’imparzialità della procedura. Sarebbe consigliabile che il mediatore interno non sia il responsabile delle risorse umane perché potrebbe generare problemi di incompatibilità con il ruolo, piuttosto il responsabile delle risorse umane potrebbe ricevere la formazione per utilizzare tecniche di mediazione che li permetta di intervenire in alcune situazioni a scopo preventivo e di conoscere i criteri e i principi dell’istituto per essere in grado di identificare gli enti o le persone più adatte alla gestione di una procedura stragiudiziale. Sarebbe consigliabile iniziare con un progetto pilota, che potrebbe permettere una prima analisi e consentirebbe alle persone che hanno un po’ diffidenza verso l’utilizzo di questi sistemi, di fare una valutazione approfondita per poi decidere come proseguire. Per avviare un’esperienza pilota è necessario identificare le persone all’interno dell’organizzazione che avranno il compito di coordinamento con l’esperto esterno e decidere la portata del programma (se sarà interno, esterno o misto). La differenza radica fondamentalmente nel fatto che per la gestione dei conflitti esterni bisognerà affidarsi ad un ente terzo, imparziale e che offra garanzie sia dal punto di vista deontologico, sia dal punto di vista della formazione dei loro conciliatori e arbitri, perché altrimenti non sarà percepito come affidabile agli occhi della parte con la quale si tenta di gestire la controversia. Per ultimo bisognerà occuparsi della promozione e conoscenza del sistema adottato affinché i potenziali utenti possano avere la massima libertà sulla scelta dei metodi ADR e siano in grado di conoscere i vantaggi e identificare le differenze tra una negoziazione diretta, una mediazione e una procedura arbitrale. La mediazione può essere definita come una procedura volontaria e riservata per la composizione stragiudiziale delle controversie. Il mediatore deve avere una preparazione ad hoc, che sarà descritta dai relatori che parleranno dopo di me, che gli permetterà di assistere le parti a gestire in maniera efficace la controversia, identificare le questioni sottostanti e raggiungere un accordo, ma senza imporre né suggerire i termini dello stesso. I vantaggi principali della mediazione sono: il controllo diretto sul risultato, la possibilità di conoscere con certezza i costi e i tempi della procedura, la possibilità di conservare le relazioni commerciali e soprattutto di raggiungere accordi efficaci. Inoltre la mediazione offre la possibilità di affrontare tutti gli elementi della controversia, quelli oggettivi e quelli soggettivi, questioni che rimangono escluse nei sistemi avversariali. Infine, è da sottolineare che la mediazione è particolarmente consigliata nei conflitti policentrici, quelli che hanno diversi punti di tensione

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interdipendenti e che in un sistema di tipo binario non potrebbero portare alla soddisfazione delle parti o della maggior quantità di interessi che le parti possono avere.

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Come prevenire e gestire le Come prevenire e gestire le controversie aziendalicontroversie aziendali

Ana UzquedaAss. Equilibrio & R.C. Bologna

CONFLITTO ORGANIZZATIVO:CONFLITTO ORGANIZZATIVO:

••InevitabileInevitabile

••NNèè positivo npositivo nèè negativonegativo

••Le organizzazioni, per la struttura posseduta, Le organizzazioni, per la struttura posseduta, tendono a mutare continuamente, non tendono a mutare continuamente, non raggiungendo mai un equilibrio permanenteraggiungendo mai un equilibrio permanente

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ControversieControversie aziendaliaziendali interne:interne:-Controversie orizzontali e verticali

Controversie societarie-I soci dell’azienda per motivi personali od organizzativi

Controversie esterne:

-L’azienda e i suoi clienti e consumatori-L’azienda e i suoi fornitori

-L’azienda e altre imprese/enti

LE CONTROVERSIE INTERNE

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FUNZIONALITAFUNZIONALITA’’ DEL CONFLITTODEL CONFLITTO

AltoAlto

BassoBasso

Ren

dim

ento

R

endi

men

to

dell

dell ’’ u

nit

unit àà

Nivel de CONFLITTONivel de CONFLITTOBassoBasso AltoAlto

A BC

Livello di conflitto

Autocritica, capacità di innovazioneFunzionale

Disorganizzazione, confusione, assenza di collaborazione, maggior conflittualità, disagio

Disfunzionale

Apatia, mancanza di iniziative e di motivazioneInesistente

•• MinacciaMinaccia gli interessi e gli interessi e gligli obiettiviobiettivi delldell’’organizzazioneorganizzazione

•• Comporta Comporta perditeperdite di tempo e di tempo e costicosti per per ll’’organizzazioneorganizzazione

•• PuòPuò deteriorare il clima nel gruppo di lavorodeteriorare il clima nel gruppo di lavoro

•• Ostacola la performance organizzativaOstacola la performance organizzativa

IL CONFLITTO IL CONFLITTO DISFUNZIONALE DISFUNZIONALE NELLE NELLE ORGANIZZAZIONI:ORGANIZZAZIONI:

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•• PromuovePromuove gli interessi dell'organizzazionegli interessi dell'organizzazione••AumentaAumenta la motivazione e lla motivazione e l’’impegnoimpegno•• SviluppaSviluppa la capacitla capacitàà di innovazione degli individui e del di innovazione degli individui e del sistemasistema•• PermettePermette alle persone di acquisire una maggiore alle persone di acquisire una maggiore comprensione delle loro prospettivecomprensione delle loro prospettive•• RafforzaRafforza le abilitle abilitàà di problem solvingdi problem solving

IL CONFLITTO IL CONFLITTO FUNZIONALEFUNZIONALEORGANIZZAZIONI:ORGANIZZAZIONI:

CONFLITTOCONFLITTO

Risultati positiviRisultati positivi

Risultati dellamancata gestione

Risultati dellamancata gestione

Cambiamento di ruoli e compiti del personale

Assenteismo

Mancato coordinamento del gruppo

Sabotaggi

Cambiamento di ruoli e compiti del personale

Assenteismo

Mancato coordinamento del gruppo

Sabotaggi

Conflitto come occasione di motivazione

Spinta al cambiamento

Incentiva le persone al dialogo costruttivo

Miglioramento del clima di lavoro

Conflitto come occasione di motivazione

Spinta al cambiamento

Incentiva le persone al dialogo costruttivo

Miglioramento del clima di lavoro

Risultati positivi della gestione

Risultati positivi della gestione

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LL’’individuazione del conflitto nelle individuazione del conflitto nelle organizzazioniorganizzazioni

•• Disputa Disputa (azioni disciplinari, lamentele,azioni, scioperi)(azioni disciplinari, lamentele,azioni, scioperi)

•• Competizione Competizione negativanegativa ((tratra dipartimenti o tra individui)dipartimenti o tra individui)

•• Inefficienza/ scarsa produttivitInefficienza/ scarsa produttivitàà (tempi lenti di lavoro, (tempi lenti di lavoro, calo nella produzione)a produzione)calo nella produzione)a produzione)

•• Scoraggiamento Scoraggiamento (dovuto a frustrazioni, tentativi di evitare (dovuto a frustrazioni, tentativi di evitare il conflitto, inerzia dellil conflitto, inerzia dell’’organizzazione, fattori esterni)organizzazione, fattori esterni)

•• Mancata condivisione delle informazioni Mancata condivisione delle informazioni (diffidenza, gerarchie)(diffidenza, gerarchie)

Alcuni studi sui conflitti hanno portato alle seguenti conclusioni:

• I conflitti, all’interno di un’organizzazione, diminuiscono con l’aumento della difficoltàdegli obiettivi

• Se si desidera raggiungere un miglioramento duraturo, è necessario risalire alle origini reali del conflitto

• Alti livelli di conflitto tendono a minare la soddisfazione e la motivazione personale

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(c) Ass. Equilibrio

ELEMENTI OGGETTIVIBeni, territorio

ELEMENTI SOGGETTIVIpercezioni selettive

conflitto di personalitàdiffidenze

comunicazione inefficaceemozioniprincipi

aspettative nascostetemi irrisolti nel passato

invischiamenti

L’ ICEBERG DEL CONFLITTO

COSTI DIRETTI

COSTI INDIRETTI

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Costi direttiCosti diretti

Problemi legali

Prodotti/servizi diffettosi

Errori nei processi/procedimenti

Problemi legali

Prodotti/servizi diffettosi

Errori nei processi/procedimenti

Costi indirettiCosti indiretti

Divulgazione delle problematiche dell’organizzazione per intervento dei mass media

Cattiva immagine dell’impresa

Calo nelle vendite

Abbandono del personale valido che opta per altre organizzazioni che presentano una migliore immagine

Svilimento delle azioni

Vantaggi per la concorrenza

Divulgazione delle problematiche dell’organizzazione per intervento dei mass media

Cattiva immagine dell’impresa

Calo nelle vendite

Abbandono del personale valido che opta per altre organizzazioni che presentano una migliore immagine

Svilimento delle azioni

Vantaggi per la concorrenza

1. Perdita di tempo

Va considerato l’importo dello stipendio del personale coinvolto nel conflitto, comprendendo altresì i soggetti coinvolti in forma indiretta Va calcolato il numero di ore mensili che si dedicano al conflitto e moltiplicato quindi per l’importo orario

1. Perdita di tempo

Va considerato l’importo dello stipendio del personale coinvolto nel conflitto, comprendendo altresì i soggetti coinvolti in forma indiretta Va calcolato il numero di ore mensili che si dedicano al conflitto e moltiplicato quindi per l’importo orario

COSTI DEI CONFLITTI NELLE ORGANIZZAZIONI

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2. Perdita di immagine dell’impresa

Va considerato sia il danno immediato che quello di immagine.Dovranno, ad esempio, essere evidenziate le seguenti conseguenze: divulgazione delle problematiche aziendali attraverso i mass media, calo delle vendite, abbandono del personale efficiente che opterà per altre organizzazioni con un immagine migliore (quindi costi per la formazione di nuove figure), conseguenze per il personale rimasto nell’organizzazione, svilimento delle azioni, vantaggi per la concorrenza

2. Perdita di immagine dell’impresa

Va considerato sia il danno immediato che quello di immagine.Dovranno, ad esempio, essere evidenziate le seguenti conseguenze: divulgazione delle problematiche aziendali attraverso i mass media, calo delle vendite, abbandono del personale efficiente che opterà per altre organizzazioni con un immagine migliore (quindi costi per la formazione di nuove figure), conseguenze per il personale rimasto nell’organizzazione, svilimento delle azioni, vantaggi per la concorrenza

COSTI DEI CONFLITTI NELLE ORGANIZZAZIONI

3. Perdita e sostituzione di personale qualificato e competente

Va calcolata l’indennità-liquidazione (buona uscita) della persona che si ritirerà a seguito del conflitto.A tale importo va aggiunta la quantificazione del tempo che servirà alla persona che lo sostituisce per essere operativa nelle stesse mansioni, oltre ai costi collegati alla ricerca e assunzione di un nuovo impiegato (costi per scrub)

3. Perdita e sostituzione di personale qualificato e competente

Va calcolata l’indennità-liquidazione (buona uscita) della persona che si ritirerà a seguito del conflitto.A tale importo va aggiunta la quantificazione del tempo che servirà alla persona che lo sostituisce per essere operativa nelle stesse mansioni, oltre ai costi collegati alla ricerca e assunzione di un nuovo impiegato (costi per scrub)

COSTI DEI CONFLITTI NELLE ORGANIZZAZIONI

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4. Sabotaggi, danni e furti Va calcolato il valore delle riparazioni, delle sistemazioni diattrezzature e delle eventuali conseguenze per la clientela

5. Costi legali Nell’ipotesi di un conflitto che viene gestito con soluzioni avversariali quali il processo giudiziale o l’ arbitrato vanno considerati i costi diretti come il compenso degli avvocati, lo stipendio del personale che gestisce il caso in forma interna, icosti dei periti e così via.

6. Altri costi Non è facile quantificare le altre voci di danno quali il danno morale e quello alla salute.

4. Sabotaggi, danni e furti Va calcolato il valore delle riparazioni, delle sistemazioni diattrezzature e delle eventuali conseguenze per la clientela

5. Costi legali Nell’ipotesi di un conflitto che viene gestito con soluzioni avversariali quali il processo giudiziale o l’ arbitrato vanno considerati i costi diretti come il compenso degli avvocati, lo stipendio del personale che gestisce il caso in forma interna, icosti dei periti e così via.

6. Altri costi Non è facile quantificare le altre voci di danno quali il danno morale e quello alla salute.

COSTI DEI CONFLITTI NELLE ORGANIZZAZIONI

Risposta di fronte al conflitto:Risposta di fronte al conflitto:

--dalldall’’ organizzazioneorganizzazione

--dagli individuidagli individui

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Risposta delle organizzazioni ai Risposta delle organizzazioni ai conflitticonflitti

Risposte di lotta:Risposte di lotta:

--SvilireSvilire

--Intraprendere una Intraprendere una ““lottalotta””

Risposta delle organizzazioni ai Risposta delle organizzazioni ai conflitticonflitti

Risposte di fuga:Risposte di fuga:

--Negare Negare --Evitare Evitare

--ConcedereConcedere

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LL’’organizzazione può decidere di organizzazione può decidere di non considerare i segnali di una non considerare i segnali di una situazione conflittuale, ma in tal situazione conflittuale, ma in tal

modo non si eliminermodo non si elimineràà il conflitto!il conflitto!

(c) Ass. Equilibrio

interessi

diritto

potere

interessi

diritto

potere

A B

interessi

diritto

potere

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PERCHE’ SI GESTISCONO I CONFLITTI RICORRENDO A METODI BASATI SUI DIRITTI O SUL POTERE PIUTTOSTO CHE UTILIZZANDO METODI BASATI SUGLI INTERESSI?

PERCHE’ SI GESTISCONO I CONFLITTI RICORRENDO A METODI BASATI SUI DIRITTI O SUL POTERE PIUTTOSTO CHE UTILIZZANDO METODI BASATI SUGLI INTERESSI?

-Per mancanza di procedimenti

-Per mancanza di motivazione nell’utilizzo dei metodi basati sugli interessi

- Per mancanza di risorse

-Per ostacoli nell’organizzazione, la relazione o l’ambiente

-Per mancanza di procedimenti

-Per mancanza di motivazione nell’utilizzo dei metodi basati sugli interessi

- Per mancanza di risorse

-Per ostacoli nell’organizzazione, la relazione o l’ambiente

IL PROCESSO DI UNA NEGOZIAZIONE EFFETTIVA

PLANEAMENTO SVILUPPO

SITU

AZI

ON

E A

NEG

OZI

AR

E

RISU

LTATI D

ELLA N

EGO

ZIAZIO

NE

VALUTAZIONEPROBABILI -

CONSEGUENZE

SCELTA DELLA

ESTRATEGIA

DEFINIZIONE DEGLI

OBIETTIVI

ESAME DEL PROBLEMA

AZIONI E STRATEGIE INTERPER-SONALI

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PROCESSO DI SVILUPPODEL “DSD” NELLE ORGANIZZAZIONI

FORMAZIONELO STUDIO DELLA ORGANIZZAZIONE ARCHITETTURA

DEL PROGRAMMAINGRESSO E CONTATTO

1 2 30

IMPLEMENTAZIONE

54

IL MIGLIOR MODO DI RISOLVERE I CONFLITTI

IL SISTEMA PRESENTATO E’ PiùECONOMICO, Più RAPIDO , Più

DUREVOLE E PiùSODDISFACENTEFASI

VALUTAZIONE

FASI

Obiettivi: -Gestire in modo più consapevole il rischio legato al

contenzioso

-Risolvere in modo più efficiente le situazioni di conflitto al fine di recuperare efficienza e ridurre i costi e i rischi legati al contenzioso

- Prevenire le situazioni di conflitto (sin dalla fase di redazione dei contratti)

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ARCHITETTURA DEL PROGRAMMA

Lo studio dell’organizzazioneVengono esaminati il quadro generale e le caratteristiche principali dell’organizzazione

Si occupa del:COSA

PERCHE’CHI

(del sistema attuale)

L’architettura di disegno Si basa sulle dispute sorte e sui metodi di soluzione proposti

Si occupa del:SE

QUANDO COME

(del sistema da implementare)

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L’architettura di disegno

QUANDO

-il sistema ADR può essere

-più economico

-più soddisfacente

-più veloce

rispetto al sistema

attuale?

-In quale fase del sistema attuale si ricevono le lamentele? -In tale fase del procedimento in essere, può essere introdotto un procedimentobasato sugli interessi?

-Tale procedimento sarebbe in grado di dare risposta alle lamentele?-Se si introducesse una fase ADR in quella fase, quale sarebbe l’effetto sulle fasi successive del sistema di risoluzione delle dispute attualmenteseguito?

-Le parti saranno in grado di gestire in forma efficace le dispute?

I SEI PRINCIPI

SEPrincipio n. 1: verificare se i sistemi ADR sono appropriati:

-per la cultura dell’organizzazione

-per i tipi di conflitti

Se si, quale tipo di ADR?:-preventivo-per tutti i tipi di conflitti-per i conflitti esterni-per i conflitti interni-per entrambi

Principio n. 2: adattare il procedimento ADR al contesto aziendale

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I SEI PRINCIPI

Principio n. 3: includere nella costruzione del sistema metodi ADR preventivi

QUANDO

Principio n. 4: assicurarsi che le parti abbiano le conoscenze e la capacità necessaria per scegliere e utilizzare la ADR

I SEI PRINCIPI

Principio n. 5: creare sistemi ADR di uso semplice e di facile acceso che risolva le dispute nei livelli più bassi dei conflitti e al livello più basso possibile dell’organizzazione con la minor burocrazia possibile

COME

Principio n. 6: permettere che le parti abbiano la massima libertà sulle scelta del metodo ADR e la scelta del terzo imparziale

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FORMAZIONE

I TIPI DI FORMAZIONE IN RAD:1- Informazione

Obiettivo: informare le persone sul significato dei sistemi ADR e la modalità con la quale si utilizzeranno nell’organizzazione

Temi: concetto di ADR, le diverse opzioni, come accedere ai sistemi ADR nell’organizzazione, esempi e interazione (non trasmette tecniche, solo informazione)

Tempo: mezza giornata

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I TIPI DI FORMAZIONE IN RAD:2- Formazione in gestione dei conflitti e tecniche di comunicazione

Obiettivo: introdurre le tecniche che si possono utilizzare nell’interazione quotidiana o che costituiscono la base di una formazione ulteriore in ADR come negoziazione e mediazione

Temi: tecniche di gestione dei conflitti, di negoziazione e di mediazione

Tempo: una giornata

I TIPI DI FORMAZIONE IN RAD:3- Informazioni rivolte ai consumatori e clienti

Obiettivo: capire come funzionano i metodi ADR per incentivare il loro utilizzo

Temi: concetto, caratteristiche, procedimenti, come prepararsi, come identificare interessi e sviluppare opzioni

Tempo: una giornata

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I TIPI DI FORMAZIONE IN RAD:4- Training rivolto ai terzi imparziali

Obiettivo: formare le persone che agiranno come mediatori e facilitatori

Temi: come funziona la RAD: concetto, caratteristiche, processo, tecniche, strategie, come identificare interessi e sviluppare opzioni(casi di role playing ed esempi basati sull’organizzazione)

Tempo: quattro giornate

IMPLEMENTAZIONE

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IMPLEMENTAZIONE

Aspetti da prendere in considerazione:-Comunicazione da parte della direzione dell’organizzazione riguardo la volontà di implementare un sistema RAD (e anche dei tempi)

-Informazione chiara sugli incentivi che possono motivare le persone a ricorrere al nuovo programma

-Assegnazione di persone agli aspetti operativi del programma RAD

-La decisione di introdurre la RAD in forma totale o o parziale, in forma definitiva o come progetto pilota

Vantaggi di un programma pilota:

-Determinare la volontà delle parti di cambiare i metodi di risoluzione dei conflitti esistenti-Permettere che gli individui che si resistono ad abbandonare il vecchio sistema possano esperimentare con maggiore sicurezza i nuovi servizi-Fare conoscere il sistema ADR con la possibilità di rivederlo, valutarlo, adattarlo a costi relativamente bassi e con rischi limitati

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Come iniziare?1-Individuare una o più persone (all’interno dell’organizzazione) che possano assumere la responsabilità del programma pilota

2-Identificare le parti possibilmente interessate al programma pilota (direttori, impiegati, legali)

3-Scegliere un programma pilota legato agli scopi dell’organizzazione

-

Come iniziare?Risolvere le dispute prima che scalino:

-ridurre i costi del litigio

-eliminare l’accumulo di conflitti-ridurre le azioni giudiziarie-aumentare la capacità di dare risposta ad una vasta gamma di dispute-aumentare la morale degli impiegati e la soddisfazione dei clienti

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Come iniziare?

Determinare come si copriranno i costi

Definire incentivi per usare la RAD

Scegliere un settore che possa garantire il successo dell’iniziativa

Conciliazione (mediation): definizione

Una procedura alternativa di risoluzione delle controversie, volontaria, non

vincolante e riservata nella quale un terzo neutrale (privo di poteri decisori) aiuta le

parti a gestire la controversia e a raggiungere un accordo

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Conciliazione: i vantaggi

• Controllo diretto sulla controversia• Controllo e contenimento dei costi• Controllo e contenimento dei tempi• Consente il mantenimento delle relazioni commerciali• Soluzioni condivise = accordi duraturi• Approccio ampio

La conciliazione amministrata

Vantaggi della conciliazione amministrata camerale:

-Conciliatori formati

-Codice deontologico e regolamento

-Costi predeterminati

-Assistenza per lo svolgimento della procedura

-Idonei locali all’interno della struttura

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Dott. FRANCO TAGLIENTE Grazie, avvocato. Prima di dare la parola al dottor Salama, che vi intratterrà sulle questioni conflittuali che riguardano gli aspetti extra aziendali, ci sono due cose dell’intervento dell’avvocato Uzqueda che mi pare meritino una sottolineatura. Mi riferisco all’iceberg dei conflitti, laddove sono stati messi in evidenza gli elementi oggettivi e gli elementi soggettivi. Richiamo la vostra attenzione sugli elementi soggettivi, che sono al di sotto del vertice della punta dell’iceberg, proprio perchè hanno a che fare con quella parte di noi che Manzoni definiva un “guazzabuglio”, ovvero quella parte dell’anima dove si vanno ad inserire elementi della nostra personalità che hanno a che fare con la nostra biografia. Il tema, di natura psicologica, non ha un’importanza marginale in tutto quello di cui stiamo parlando, direi anzi che l’importanza è preponderante. Quindi la questione è in questi termini: “Come si riesce a far prendere consapevolezza alle persone dei loro comportamenti quando intrattengono relazioni che poi danno vita, attraverso i conflitti, alle controversie?” Questo è un argomento che, a saperlo risolvere con una metodologia tecnica, ci farebbe diventare solutori dei problemi del mondo. La questione purtroppo è che, la presa di coscienza è un processo, quindi ha a che fare con quel tempo non definibile di cui dicevamo prima. C’è stato un passaggio dell’avvocato Uzqueda sul tema della formazione. Oggi i processi formativi adottati dalle organizzazioni sono assolutamente inadatti per affrontare questo tema. Lo dico senza il minimo dubbio. L’approccio formativo che caratterizza le nostre organizzazioni è un approccio pedagogico, sostanzialmente è informato del modo con il quale i professori insegnano agli allievi, agli studenti. Questo approccio pedagogico funziona sicuramente quando si tratta di insegnare qualcosa che abbia a che fare con la tecnica, o quando si tratta di trasferire delle cognizioni, delle informazioni; però non serve assolutamente a nulla quando si tratta del saper essere. Per questi ambiti del sapere l’approccio educativo corretto è quello andragogico, che ha a che fare con gli adulti, e la cultura dell’educazione andragogica, è ancora molto arretrata nelle nostre organizzazioni. Sostanzialmente, quando si parla di training, si parla di questo. Il training è infatti una proposta di auto-apprendimento che passa attraverso approcci diversi; non è una questione che si possa misurare in termini di: in quanto tempo? E dopo lei che cosa mi garantisce? Perché poi (questa è la domanda che ti viene rivolta) il tuo interlocutore è abituato a comperare un tanto al chilo, e pensa che si possa comperare l’educazione anch’essa un tanto al chilo. Quando abbiamo a che fare con l’inconscio dell’uomo, e lì si vanno ad annidare la gran parte delle pulsioni che poi portano alla conflittualità/contrasto, in gioco non ci sono più gli avvocati, non ci sono più

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i commercialisti o delle competenze di natura tecnica, ma ci sono quelle di natura umanistica. E quindi non è il consulente di cui c’è bisogno, ma del facilitatore di processo, che è un’altra cosa. Mi sembrava opportuno richiamare la vostra attenzione su questo aspetto, perché mentre c’è della tecnica quando si tratta di affrontare razionalmente una controversia, e l’abbiamo visto, cosa diversa è invece quando si tratta di affrontare il prima, la prevenzione. Questa ha a che fare con questi altri aspetti; la prevenzione ha a che fare con l’educazione, con la crescita delle persone. Il fatto che sia molto complesso non vuol dire che le organizzazioni non abbiano grandi benefici ad affrontare questo, che ha a che fare con la motivazione delle persone. Il dottor Salama ci parlerà invece di tutto ciò che riguarda lo stesso tema in una visione extra aziendale. Lui è un esperto di ADR di Curia Mercatorum di Treviso, e quindi vi parla per cognizione di causa.

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LA RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE Dott. ADAM LEOPOLDO SALAMA Esperto di Alternative Dispute Resolution Methods (ADR) di Curia Mercatorum - Treviso Prendendo le mosse dal tema affrontato dall’avvocato Uzqueda, inerente alla gestione dei conflitti all’interno dell’azienda, cercheremo di analizzare gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie offerti da Curia Mercatorum per la gestione di quei contenziosi, questa volta esterni all’azienda, che possono coinvolgere un’altra impresa o un consumatore. Curia Mercatorum è un’associazione di diritto privato, senza scopo di lucro, nata dall’iniziativa della Camera di Commercio di Treviso, ed alla quale hanno aderito le Camere di Belluno, Gorizia, Pordenone e Trieste, ma anche numerosi ordini professionali e associazioni di categoria. Nell’ambito della funzione di regolazione del mercato delle Camere di Commercio è ricompreso il compito di promuovere il ricorso agli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi al giudizio ordinario quali l’arbitrato e la conciliazione ed è principalmente a questo scopo che è stata costituita Curia Mercatorum. L’associazione offre, infatti, tutto il servizio di segreteria necessario per lo svolgimento delle procedure arbitrali e conciliative a favore di chi ne faccia richiesta. Cerchiamo di vedere innanzitutto in cosa consistono queste procedure. Quando tra due soggetti sorge un disaccordo nell’ambito delle reciproche relazioni economiche, è possibile, in alternativa al ricorso giudiziale, rivolgersi ad un centro di conciliazione e/o arbitrato, quale è appunto Curia, al fine di cercare di risolvere il problema per tal via. Posto che affronteremo in questa sede principalmente lo strumento della conciliazione, appare utile sin da subito distinguere nettamente i due strumenti di risoluzione alternativa dei quali stiamo parlando. Se da un lato, infatti, le due procedure possono essere accomunate dall’intervento di un terzo neutrale ed imparziale, dall’altro, il ruolo che questi è chiamato a svolgere differisce a seconda che si tratti di Mediazione o di Arbitrato. Il conciliatore, diversamente dall’arbitro, non è chiamato a decidere della controversia. Il suo ruolo è quello di coadiuvare le parti in lite nella negoziazione di una soluzione amichevole, avvalendosi di quelle tecniche poc’anzi illustrate dall’avvocato Uzqueda, quindi accompagnando i contendenti lungo un percorso di dialogo volto a condurle ad un accordo solutorio che realizzi la reciproca soddisfazione. La conciliazione di Curia Mercatorum è, dunque, un procedimento di ADR a carattere facilitativo, con

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ciò intendendo che il ruolo del terzo neutrale non si spinge a suggerire o imporre una propria decisione, per quanto imparziale. Ed è, altresì, volontario, ossia le parti sono libere di aderire o meno al procedimento, di lasciare in qualsiasi momento il tavolo delle trattative, e di addivenire o meno ad un accordo risolutivo della lite. Ben si capisce, allora, come nettamente contrapposto si presenti l’Arbitrato in quanto procedimento a carattere decisorio, col quale un Tribunale arbitrale è chiamato a decidere della controversia emanando un provvedimento, il lodo, che sarà vincolante per le parti proprio come una sentenza. Lo strumento conciliativo è, sostanzialmente, un procedimento volto ad organizzare un incontro fra i soggetti in lite che verranno coadiuvati da un terzo, il conciliatore, nella ricerca di una soluzione concordata al loro problema. Rivolgendomi, ora, specificamente alla procedura di conciliazione secondo il Regolamento di Curia, il momento di avvio è individuato dal deposito della domanda, da parte di chi voglia usufruire del servizio, presso la segreteria dell’associazione. Tale richiesta può esser presentata utilizzando gli appositi moduli predisposti, oppure in carta libera, purché sia precisata una serie di informazioni necessarie quali l’esposizione dei fatti, la specificazione delle proprie pretese, il valore di lite e così via. Alla domanda possono essere altresì allegati i documenti che parte richiedente riterrà utili ai fini della ricostruzione degli avvenimenti. Una volta ricevuta, la segreteria comunica alla controparte, nel più breve tempo possibile, l’avvenuto deposito della domanda di conciliazione, e provvede a trasmettere tutta la relativa documentazione invitando a comunicare se si intenda o meno aderire alla procedura. Sovente si apre, da questo momento, una fase che può esser definita di preconciliazione, condotta dal funzionario della segreteria, e consistente nella ricerca di un contatto, solitamente telefonico, con la controparte. Obiettivo del colloquio è, essenzialmente, quello di offrire una informazione chiara e più semplice possibile circa il ruolo dell’associazione e le caratteristiche dello strumento conciliativo. Non è raro, infatti, che controparte non conosca il servizio di conciliazione camerale, e arrivi a ritenere, erroneamente, che Curia Mercatorum rappresenti un supporto per la sola parte che si è rivolta all’associazione per l’organizzazione dell’incontro. E’ essenziale, dunque, premurarsi sempre di accertare che parte convenuta abbia contezza della natura della conciliazione, affinché sia messa in grado di valutare e decidere, con cognizione e consapevolezza, se aderire o meno a quanto proposto. Spesso accade, poi, che il solo intervento della segreteria in questa fase stimoli il raggiungimento di un accordo diretto fra le parti. In tal caso la procedura si conclude, senza quindi giungere all’incontro. Qualora ciò non accada, e la controparte accetti l’invito alla conciliazione, la segreteria proseguirà nella procedura impegnandosi per l’individuazione del conciliatore e per l’organizzazione dell’incontro. Quanto al primo, ciò

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avviene proponendo alle parti i curricula di tre conciliatori individuati dalla segreteria in relazione alla natura, al valore ed alla complessità della controversia. I nominativi vengono, comunque, scelti nell’ambito della propria lista di conciliatori accreditati, una lista, cioè, che accoglie solo persone qualificate (“accreditate”) dalla frequenza di appositi corsi in tecniche di negoziazione organizzati nel rispetto degli standard formativi definiti dall’Unione Nazionale delle Camere di Commercio. Nell’ottica di fornire un servizio di elevata qualità, ritenendo che i risultati dipendano da un’adeguata e specifica preparazione del conciliatore, Curia, sin dalla sua costituzione, ha curato con particolare attenzione la formazione dei propri conciliatori, professionisti esperti in varie discipline cui viene chiesto di aggiungere un’ulteriore competenza nell’utilizzo delle tecniche di mediazione - negoziazione. E’ sempre stato peculiare indirizzo di Curia, comunque, ricercare il nominativo di un conciliatore che sia condiviso da entrambe le parti, e solo qualora ciò non sia possibile sarà cura della stessa segreteria individuare il conciliatore ritenuto più idoneo (e ciò anche al di fuori della terna di nominativi inizialmente proposta). A questo punto, nominato il conciliatore, si procederà alla fissazione della data e del luogo dell’incontro, e da qui in poi un’analisi più dettagliata di ciò che avviene vi verrà data dall’avvocato Alfredo Fanton, conciliatore accreditato Curia Mercatorum, al lume della sua concreta esperienza. Per concludere, vorrei cercare di richiamare l’attenzione su quelli che possono essere considerati i vantaggi della conciliazione amministrata da Curia Mercatorum: tempi rapidi di procedura, costi contenuti e prevedibili della stessa, controllo delle parti sul risultato e riservatezza. Primo aspetto di rilevo è certamente rappresentato dai tempi: un procedimento di conciliazione dura mediamente quarantacinque/sessanta giorni dalla presentazione della domanda, ciò che ne fa già di per sé un merito di rilevante peso. Per quel che concerne i costi, la conciliazione si presenta indubbiamente come un’alternativa vantaggiosa da un punto di vista economico, rispetto alla procedura contenziosa, giudiziale o arbitrale che sia. E ciò, va detto, non solo considerando le spese “vive” cui si va incontro, vale a dire, essenzialmente, i diritti di segreteria, stabiliti in misura fissa, ed il compenso per il mediatore, predeterminato sulla base del valore di lite. Altro merito della soluzione amichevole raggiunta per via conciliativa sta, infatti, nella probabile prosecuzione dei rapporti tra i contendenti, ciò che non avviene, normalmente, ad esito di una procedura contenziosa. La conciliazione, poi, si è detto che è procedimento interamente volontario, ossia liberamente scelto dalle parti in tutte le sue fasi, anche quella finale dell’accordo, per cui si può affermare che, pur grazie al sostegno del mediatore, sono le stesse parti a risolvere la disputa concordando e sottoscrivendo, nella massima libertà di scelta, un’amichevole composizione dei rispettivi interessi. Infine, la riservatezza:

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tutte le informazioni fornite al terzo neutrale soggiacciono all’obbligo del mediatore di mantenerle riservate. Tale aspetto, per quanto possa restare in ombra rispetto allo svolgersi della procedura, è tuttavia una caratteristica tenuta in gran considerazione dalle parti, e certamente rappresenta una qualità essenziale dell’istituto. In definitiva, un tentativo di conciliazione appare sempre una scelta saggia, considerata l’opportunità che offre a fronte dei modesti oneri implicati. Probabilmente, al momento, l’ostacolo maggiore ad una diffusione degli strumenti di ADR è rappresentato dall’ancora scarsa conoscenza e informazione che se ne ha. Lascio la parola all’avvocato Alfredo Fanton.

Dott. FRANCO TAGLIENTE Grazie dottor Salama. L’avvocato Fanton adesso porta un elemento di concretezza. Come avviene e come si sviluppa un processo di mediazione. Questo è molto importante, perché possiamo poi renderci conto di che cosa ci possiamo aspettare nel momento in cui noi, le aziende o le organizzazioni nelle quali siamo coinvolti, dovessimo accedere ai servizi offerti da Curia Mercatorum di Treviso.

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TESTIMONIANZA D’IMPRESA Avv. ALFREDO FANTON Mediatore accreditato Curia Mercatorum – Treviso Spero di fornire qualche elemento utile alla comprensione di questo “meccanismo”, che ha aspetti di informalità e di velocità in parte già illustrati dagli altri relatori. La mediazione è il cuore e l’anima di quella che è stata chiamata sinteticamente la “Risoluzione Alternativa delle Controversie”. Si tratta di un insieme di procedure che ebbe origine negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘20 per trovare alternative al sistema legale tradizionale, considerato, in quel Paese, già a quei tempi, (e pur così diverso dal nostro) costoso, imprevedibile, rigido, eccessivamente tecnico e professionale, dannoso o controproducente per la prosecuzione dei rapporti d’affari tra le parti, limitato a controversie basate sulla contrapposizione dei diritti e non sulla soluzione innovativa e creativa dei problemi. Penso che chi ha un minimo di esperienza del nostro sistema giuridico e del modo in cui esso funziona, concordi con me sul fatto che molte di quelle ragioni di scontento, che già allora fecero dire “il sistema tradizionale è costoso, imprevedibile, rigido” ce le ritroviamo pari pari oggi in un’altra latitudine, in un altro contesto culturale, con altre coordinate giuridiche. La forza della mediazione sta nella sua flessibilità, velocità ed economicità, che risultano soprattutto laddove il sistema giuridico non è più in grado di fronteggiare il numero di casi pendenti, né di offrire procedure efficienti per risolvere le controversie attraverso le forme tradizionali. In Italia ci sono, al momento attuale, qualcosa come venticinque riti diversi, che vanno dalle controversie civili in senso stretto, a quelle societarie, fallimentari, locatizie, giuslavoristiche, di famiglia, e così via. Pochi giorni fa l’Ordine degli Avvocati di Treviso ha fatto omaggio ai suoi iscritti di due ponderosi volumi, che probabilmente ciascuno di noi leggerà soltanto nel momento in cui avrà un problema specifico da risolvere, dicendoci: “Questi sono i riti del processo italiano”. A differenza di altri colleghi non penso che le forme di risoluzione alternativa delle controversie rappresentino una riduzione della nostra professionalità di avvocati, perché sviluppano qualità umane, psicologiche, intuitive, che magari vengono accantonate o congelate in nome di un’accezione troppo tecnicistica della nostra professione. Ma non solo, anche in termini di convenienza professionale esse costituiscono un modo per fidelizzare il cliente, al quale comunque tu risolvi un problema in tempi ragionevolmente certi, affidandoti ad un’istituzione

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neutrale ed imparziale, anziché scrivergli: “la precisazione delle conclusioni della sua causa andrà al 2013”, od oltre, cioè prospettandogli qualcosa che, come nei film, evapora all’orizzonte. Mentre la lite in giudizio e l’arbitrato sono rivolte al passato e la decisione viene presa sulla base della storia precedente, che in qualche modo si è ormai consolidata ed assestata, nella mediazione l’ottica viene spostata in avanti e si concentra sulle necessità future e sugli interessi delle parti; interessi che non si limitano necessariamente alla controversia sotto il suo aspetto strettamente tecnico/giuridico. Lo diceva Ana Uzqueda poco fa, bisogna distinguere tra le posizioni, cioè quello che la parte dice di volere, che formalizza come propria linea ufficiale; gli interessi che è quello che la parte in realtà desidera, ma che magari ancora non esprime (ad esempio perché al momento non è sufficientemente lucida, o perché ideologizza la controversia), e le necessità, che è ciò di cui la parte ha effettivamente bisogno. Ebbene, l’abilità del mediatore, la sua “capacità rabdomantica” consistono, man mano che si procede, nel saper distinguere, nel capire (lui) e nel far capire (alla parte) qual’è il suo interesse (e quindi ciò che essa desidera veramente, ma di cui, magari, in una prima fase, non è compiutamente consapevole) e quali sono le sue necessità, ciò di cui ha veramente bisogno. È stato già detto che il mediatore non decide la controversia, ma perché lo ripetiamo? Perché quando si siedono al tavolo della trattativa le parti trasmettono una sensazione di diffidenza, quasi aspettandosi che il mediatore sia colui che poi dice: “Ho capito tutto e adesso vi dico io come dovete risolvere il vostro problema”. Sono le parti che trovano l’accordo, grazie alla capacità del mediatore di facilitare la comunicazione tra esse: non è mai il mediatore ad imporlo. E’ già stato detto che il procedimento di mediazione è volontario, perché così come le parti vi entrano, in qualsiasi momento possono alzarsi e andarsene via; esse, quindi, mantengono il controllo della direzione e del ritmo della mediazione. Uso questo termine musicale perché si viene a creare una situazione che ha i suoi tempi, le sue pause, i suoi silenzi, le sue riprese, il suo girare intorno al problema, il suo entrare ed uscirvi, il tentare un approccio da un punto di vista, e poi un altro, ed un altro ancora. Non è vincolante, perché fino a quando non si raggiunge un accordo sottoscritto ci si può alzare e riaggiornarsi o interrompere definitivamente. È riservato, e anche questo è stato detto, sia verso l’esterno che verso l’interno del procedimento stesso. All’interno, perché il mediatore può riferire soltanto le informazioni che la parte che gliele ha date gli permette di trasferire all’avversario.

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Quindi la gestione del flusso informativo, la gestione della comunicazione, alla fine ha sempre come controllore la parte stessa, e il mediatore, se fa bene il suo lavoro, alla fine di ogni sessione chiede alla parte: “ho capito bene, è questo quello che sono autorizzato a riferire o a proporre?” Le parti non devono necessariamente “mostrare tutto”. Il livello di informazione divulgata non sarà mai maggiore e, probabilmente, molto minore di quanto richiesto in un procedimento formalizzato, tra produzione di documenti, deposizioni di testi e consulenze tecniche. C’è poi una forma di riservatezza verso l’esterno, e per questo aspetto vi rimando all’articolo 6.1 del regolamento di Curia Mercatorum, dove si legge che: “Qualsiasi informazione o documento fornito dalle parti nel corso della procedura ha carattere riservato e non può essere divulgato senza il consenso espresso della parte che lo ha fornito salvo che per l’esercizio dei rimedi previsti dalla legge”. Il mediatore gestisce e conduce il procedimento lasciando però il problema e la sua soluzione nelle mani delle parti. Egli non impone alcuna decisione ma mette le parti in condizioni di riassumere il problema e di darvi soluzione. Il mediatore è un catalizzatore, un facilitatore della comunicazione, che deve avere la capacità, in parte (questa è l’opinione che io mi sono fatto) frutto di una formazione continua, accurata e rigorosa, ed in parte derivante dalle sue qualità e capacità empatiche di entrare in comunicazione con gli altri, di trasmettere all’altro la sensazione che lo stai ascoltando come se fossi lui: certo non sei lui, mantieni sempre un certo distacco, hai una tua cultura ed una tua personalità, ma sei capace di percepire e di entrare nei suoi panni e di vivere la situazione come lui la sta vivendo. Il mediatore è un facilitatore della comunicazione perchè aiuta a superare impasse e blocchi emotivi, che sono una componente essenziale di questo lavoro. Ciascuna parte ha la sua percezione di sé, il suo senso dell’orgoglio, non vuole perdere la faccia (per esempio) nei confronti di altri componenti del suo gruppo, o del Consiglio di amministrazione, o del titolare della ditta che l’ha mandata, di un familiare, o di un socio al quale sente di dover rispondere: ebbene il mediatore focalizza l’attenzione sui problemi reali e sulle necessità e, facilitando la comunicazione, fornisce uno specchio alle parti, le aiuta a vedersi e a misurare il grado di realismo della loro posizione, cioè di quello che si chiede alla controparte, aumentando in tal modo le opzioni della possibile transazione. Le cose cominciano a muoversi quando la parte inizia ad uscire dalla propria trincea, si toglie l’elmetto, ed inizia a vedere nell’altro non un competitore, ma un collaboratore al fine di raggiungere una soluzione dove non c’è un vincente e uno sconfitto.

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Tutte e due guadagnano qualcosa, perché hanno dato un approccio diverso al problema. E, quindi, comincia a cambiare qualcosa quando, da mediatore, riesci a convincere la parte a vedere nell’altro non il nemico da schiantare e da abbattere, ma, in qualche modo, un altro te stesso, che ha delle reazioni che tu comprendi, e col quale cerchi un terreno di mutuo vantaggio, in cui si transano interessi opposti, cioè quelli non conciliabili, e si lavora su una fascia di interessi che invece mano a mano si scopre - e questa magari è una delle abilità del mediatore - di avere in comune, perché fino a quel momento le parti si erano invece focalizzate e concentrate su un aspetto specifico, che ai loro occhi riassumeva il cuore del problema. Prima di dirvi come funziona la mediazione, vi dico che cosa non è: la mediazione non è qualcosa “senza denti” (si pensa che sia una cosa un po’ all’acqua di rose, un po’ troppo inconsistente, un po’ troppo liquida). I “denti” ci sono, se con ciò intendiamo dire che viene aggredito un problema e non una persona. Scopo della mediazione non è punire o penalizzare la parte A o quella B, ma è risolvere un problema che non mette in discussione l’identità, o la qualità, o la personalità di questa o quella parte. Cioè non si esce con l’umiliazione, o con la vittoria ostentata, si esce avendo risolto il problema. Non è un compromesso al 50%, perché allora sarebbe in fondo molto facile dire: “va bene, la materia del contendere è di diecimila euro, allora tu rinunci a cinquemila, io rinuncio a cinquemila, ci troviamo a mezza strada e con questo il problema è bello che risolto”, perché spesso la mediazione si basa su altri interessi e necessità delle parti, sviluppa soluzioni creative per la prosecuzione di rapporti futuri. Non è una perdita di tempo perché in ogni caso, anche se l’accordo non viene raggiunto in ambito di mediazione, molto spesso, statisticamente, si raggiunge poco dopo. E qui vi porto due mie esperienze personali come mediatore. Nella prima, le parti sono venute ciascuna con un proprio staff di assistenti, consulenti, avvocati, eccetera, quindi in modo alquanto strutturato e velatamente aggressivo l’una nei confronti dell’altra. Anche se apparentemente la volontà di comunicare non c’era, tuttavia continuavano in qualche modo a stimarsi dal punto di vista professionale, perché avevano già lavorato insieme, e quindi partivano quasi dall’incredulità per il fatto che l’altro potesse avergli giocato un tiro del genere (così ciascuno dei due lo percepiva). Si era arrivati ad una fase pre-contenziosa, o che loro percepivano come tale, perché non erano affatto convinti che la mediazione potesse avere un esito positivo. La seduta è stata molto intensa, si sono riaperti i canali di comunicazione, dopodiché, io come mediatore, e la segreteria, abbiamo detto “Va bene, ora

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volete sospendere, ma ci volete dire che cosa avete intenzione di fare? Dobbiamo formalizzare il fallimento, dobbiamo rivederci, avete ancora bisogno di noi?” La risposta fu molto semplice, quasi disarmante: “No, no, è servito per ri-parlarci, per ri-capirci, adesso facciamo noi”, e in effetti raggiunsero direttamente un accordo, senza bisogno di un ulteriore intervento di “Curia Mercatorum”. Avendo riscoperto, grazie a “Curia”, la capacità e la volontà di parlarsi e di fidarsi di nuovo, trovarono poi rapidamente e semplicemente la loro soluzione. Una seconda mediazione, apparentemente non riuscita, fu anch’essa molto intensa, si sviluppò in varie sedute ed alla fine fu steso un possibile accordo in 7 punti. Sei erano già pronti per la firma, mentre per il settimo, in quella fase, non fu raggiunto l’accordo per una questione tutto sommato minima, e cioè: “posto che ti devo dare mille euro, te li devo dare subito, o fra un mese?” Voi capite bene che dopo aver fatto un lavoro, vi assicuro, obiettivamente di notevole rilievo, la prospettiva di far cadere la mediazione sul “quando”, sapendo che una cifra può venire evidentemente pagata in molti tempi e modi, era qualche cosa di apparentemente inspiegabile. Ma in quella fase, all’evidenza, non erano maturate le condizioni per l’accordo. Una delle parti disse: “Benissimo, allora andiamo all’arbitrato”. Orbene, nel momento in cui si trattava di aprire quest’ultima procedura, la stessa parte che aveva affermato: “Non accetterò nulla di diverso da quello che ho detto in chiusura di mediazione”, disse: “Ma non potremmo riprendere la mediazione?”. Quindi qualcosa sotto traccia, in forma carsica, aveva continuato a lavorare. Che cosa, ancora, non è la mediazione? Non è per gente che ha paura di misurarsi e di confrontarsi, non è uno sfoggio di oratoria, non è una procedura di tipo agonistico o muscolare, ma vi assicuro, se farete questa esperienza come parte, o come assistenti o difensori delle parti, o come mediatori, che è un lavoro intenso, che richiede flessibilità, prontezza di riflessi, immaginazione ed impegno fisico. E’ una strada utile per la soddisfazione del Cliente, apre la possibilità di nuovi affari, fornisce una prospettiva temporale certa (questo è molto importante per le aziende) aumenta la gamma di servizi e di abilità dei professionisti coinvolti. Come funziona la mediazione? Come vi ha detto il dottor Salama, inizia con il deposito di una domanda, cui segue una risposta, entro 15 giorni, da parte del soggetto nei cui confronti la richiesta di mediazione è stata fatta; poi inizia la procedura vera e propria. Ci si trova tutti attorno ad un tavolo in una sede prestabilita e i lavori si aprono con l’introduzione del mediatore, il quale deve avere la capacità di stabilire il tono e l’atmosfera, in modo da incoraggiare la comunicazione e la partecipazione, la interazione produttiva tra le parti. Presentandosi egli afferma le proprie caratteristiche di soggetto

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indipendente, imparziale e neutrale e spiega che la mediazione prevede e si articolerà, dal punto di vista operativo, in sessioni plenarie, colloqui privati e riunione conclusiva. La sessione plenaria iniziale è il momento di avvio vero e proprio della procedura di mediazione, alla presenza delle parti e dei difensori, degli assistenti, ovviamente del mediatore, e serve per dare ed ascoltare le dichiarazioni introduttive. Le sessioni plenarie successive serviranno invece per i negoziati diretti tra le parti. I colloqui privati, che avvengono invece tra ciascuna parte ed il mediatore, in assoluta privacy e riservatezza, sono utili per vincere le resistenze psicologiche, per individuare elementi di avvicinamento, per approfondire la situazione nei suoi vari aspetti, per prospettare soluzioni. E’ la fase del continuo rimandare alla parte ciò che essa dice, invitandola ad un bagno di sano realismo e di verifica se ciò che afferma ha una percorribilità, una credibilità, in primo luogo ai suoi stessi occhi; è la fase in cui mano a mano si entra nel merito, nel cuore della controversia. Alla fine di questo succedersi di situazioni ed alternarsi di sessioni plenarie e colloqui privati avremo una riunione conclusiva con due possibili esiti: l’esplicitazione e sottoscrizione dell’accordo, oppure la constatazione che in quel momento non è possibile arrivare alla sua conclusione. Il mediatore deve essere onesto e trasparente nel dire che egli si riserva di vedere le parti, e/o i loro legali, e/o i loro esperti, separatamente o insieme, in qualunque combinazione riterrà appropriata, invitando regolarmente le parti ad intervenire, a dire che cosa non le convince, o che cosa non hanno capito, in base al principio fondamentale della chiarezza e della comprensione. La dichiarazione introduttiva che, come vi dicevo, è quella che si ha all’apertura della procedura di mediazione, cioè nella prima sessione plenaria, ha lo scopo, per ciascuna delle parti, di esprimere la propria ricostruzione e valutazione dei fatti. Di solito si assiste a dichiarazioni molto estreme, molto trincerate, molto identitarie, senza alcuna indicazione di flessibilità, e senza alcuna offerta di voler risolvere il problema. È con le sessioni private, che cominciano da quel momento in poi e la cui durata può variare a seconda delle circostanze, che emerge il ruolo neutrale del mediatore, il quale costruisce un rapporto di fiducia, lascia spazio all’espressione di emozioni e sentimenti, che chiarisce qual è la natura delle questioni, identifica necessità e bisogni, scopre le intenzioni nascoste delle parti, individua possibili elementi di avvicinamento e strategie di accordo basate sull’interesse reciproco delle parti. Malgrado vi abbia detto tutte queste cose, il mediatore ascolta molto e parla poco, proprio perché non è lui che individua la soluzione; il mediatore può essere personalmente convinto, grazie al fatto di avere una mente sgombra da pregiudizi, che la soluzione preferibile potrebbe essere quella di un certo tipo, e che in fondo è

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così facile vederla, ma il punto è che non deve essere facile per lui, deve esserlo per le parti, cioè ci devono arrivare loro. Quindi egli ascolta molto e le aiuta ad acquisire man mano la consapevolezza di cui vi dicevo, ma non le “forza”. L’accordo che riesce e dura è quello di cui esse sono convinte e che difenderanno in futuro perché lo sentono come cosa propria, perché ci sono man mano arrivate direttamente e personalmente. Nelle sessioni private, coperte da assoluta riservatezza interna ed esterna alla procedura, le parti sanno che possono parlare apertamente e sinceramente, esponendo i propri punti di forza ma anche quelli di debolezza, senza alcun timore che quello che dicono possa venire divulgato alla controparte e, quindi, se vogliono, possono mostrarsi ed aprirsi senza timore di venire attaccate. Man mano si svelano e rivelano, man mano parlano anche di aspetti che, all’apparenza, non c’entrano immediatamente e direttamente con la materia del contendere, ma servono a creare un rapporto di comunicazione e di fiducia con il mediatore e costituiscono un modo per vedere fin dove e quanto ci si può fidare di lui. Alla fine della sessione privata il mediatore riassume quanto è stato detto, verifica che cosa può riferire alla controparte e, eventualmente, “assegna un compito”, un approfondimento alla parte stessa, o al suo legale, o al tecnico di fiducia, in modo che il tempo che la parte passa da sola (perché il mediatore ha una sessione privata con l’altra parte) non venga percepito come un’assenza, un vuoto che innesca meccanismi di preoccupazione, se non addirittura di destabilizzazione o di persecuzione. Che cosa accade in ogni mediazione? Anche questo è meglio saperlo: arriva il momento in cui le posizioni sembrano inconciliabili e bloccate, quello che il mediatore sa che arriverà, e che spera che non arrivi, quello che gli fa dire “e adesso cosa succede?”. E’ il momento della stanchezza, o della ripresa delle esigenze di identità, o della prova di fermezza agli occhi di coloro che hanno accompagnato la parte, o, ancora, si corre con il pensiero a coloro che aspettano in azienda, o a casa, e così via. C’è l’irrigidimento, dal quale si esce certo con alcune delle cose che posso suggerire, ma in cui l’allenamento e la formazione del mediatore giocano un ruolo importante. Se ne esce semplicemente facendo una pausa ed invitando le parti a rivalutare la situazione e il percorso che è stato fatto evidenziando i progressi e i problemi che sono stati risolti fino a quel momento. Lo si fa suddividendo la questione in vari segmenti e trattando per primi quelli minori, uno alla volta, portando a casa dei risultati che, al di là della loro oggettiva importanza, fanno dire alle parti che non è vero che non sia successo nulla e che degli obiettivi non siano stati raggiunti: tutto sommato, anche se

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l’orizzonte non è ancora sereno, non vale la pena di interrompere perché qualcosa è stato fatto. Si può introdurre una nuova prospettiva, una nuova informazione, una nuova ottica, passando a lato di quanto già evidenziato, sopra o sotto a ciò che in quel momento rappresenta l’ostacolo all’apparenza invalicabile; scoprendo, magari, che una parte è disponibile ad una concessione che per lei è poco costosa in termini non solo economici, ma anche soggettivi, di immagine, e che invece per la controparte è preziosa e significativa perché coglie quella concessione come un gesto effettivo e sincero di avvicinamento. Attraverso questo meccanismo si può poi tornare nuovamente ad una sessione plenaria, in cui si faranno magari degli altri passi avanti: è il momento in cui il mediatore si sente sufficientemente sicuro del fatto che tra le parti, pur permanendo elementi di disaccordo, si è comunque venuta a creare una rete di contatto e di comunicazione che non si strapperà quando esse si guarderanno negli occhi. Ma la capacità di dosare il ritmo e il contenuto è affidata al mediatore, è lui il gestore del processo. Gestire i tempi e le scansioni è una tecnica che deriva dalla capacità del mediatore di percepire la psicologia di chi ha di fronte e di percepire nell’aria il grado di reciproca disponibilità a fidarsi che le parti hanno maturato fino a quel momento. Alla fine di questa serie di sessioni private e plenarie, a cosa si arriva? Si giunge (I° ipotesi) alla transazione, alla formalizzazione per iscritto di un accordo, che in quel momento diventa effettivamente vincolante ed al quale le parti sono arrivate da sole; è il risultato di un loro percorso, sono convinte del suo valore, e questo rappresenta la garanzia maggiore del fatto che quell’accordo terrà. Magari non si è previsto tutto, nonostante la diligenza, ma sono rimasti un metodo e una volontà di comunicare, per cui anche ciò che in ipotesi non fosse stato previsto non costituirà un ostacolo quando effettivamente l’imprevisto dovesse presentarsi. La transazione corretta è quella che soddisfa le parti, che tratta tutti i punti della controversia con un linguaggio chiaro e preciso, che è attuabile, pratica, e che minimizza la possibilità di controversie future. Se non si raggiunge la transazione (2° ipotesi), (anche se normalmente è più una pausa che non un addio definitivo) il mediatore può suggerire alcune opzioni: ad esempio di prendere contatto dopo una settimana con ciascuna delle parti, per vedere se sono maturati aggiornamenti, o nuove riflessioni; può proporre un’ulteriore giornata, o mezza giornata, di mediazione con entrambe le parti, o un suo incontro separato con ciascuna di esse; può proporre un riesame delle questioni già risolte ed elencare quelle che sono ancora aperte, ma facendo riflettere le parti sul cammino già fatto, ricordando loro che le soluzioni emergono riconoscendo i bisogni dell’altro, cioè riconoscendo qualcosa di sé nell’altro, ed accettando di darvi soddisfazione in un modo

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che sia vantaggioso per sé e per l’altro. Questo convegno parla di codici etici, e con questo argomento concludo sinteticamente il mio intervento. Ci sono delle norme di comportamento e di deontologia alle quali il mediatore si deve attenere? Certo, alcune sono facilmente intuibili e comprensibili: il mediatore non deve mentire, non deve fuorviare deliberatamente una parte, non deve avere alcun interesse personale, professionale, o finanziario, e non deve pensare che il suo compito è quello di raggiungere sempre e comunque un accordo perché il mediatore non è tanto più bravo quante più sono le controversie che “risolve”. Non deve consigliare le parti in merito alla loro situazione (ad esempio sotto il profilo legale o commerciale) e non deve suggerire il modo per gestire al meglio la propria posizione, anche se personalmente può ritenere che una parte non valorizzi in modo adeguato la propria tesi, o non sia assistita nel modo migliore. Non è compito suo consigliare le parti, perché facendolo non sarebbe più neutrale. Se una parte dicesse di voler partecipare alla procedura senza l’assistenza o la consulenza professionale di cui potrebbe effettivamente avere bisogno (per esempio a causa di una certa tecnicità della problematica) e dice di voler fare da sola, il mediatore può invitarla a riflettere ma, se la parte insiste, allora egli dovrà spostare il fuoco della sua attenzione e del suo scrupolo professionale su un altro aspetto, un po’ più a valle, cioè dovrà essere attento che i termini di qualsiasi accordo che si vada a raggiungere siano sostenibili, cioè rispondano a quei requisiti di durata per il prevedibile futuro che costituiscono la vera cifra di conferma di un lavoro ben svolto. Vi ringrazio per l’attenzione. Dott. FRANCO TAGLIENTE L’avvocato Fanton ci ha parlato della professione del mediatore, ma mi verrebbe spontaneo dire che ci ha parlato dell’arte maieutica, l’arte della levatrice: quell’antichissima arte che non si può insegnare, che si può solo imparare. Quell’arte che permette di far nascere qualcosa senza violare la libertà delle (in questo caso) persone. C’è un altro aspetto del suo dire che, secondo me, merita di essere sottolineato, quando fa riferimento a un qualcosa che ciascuno di noi cerca e trova nell’altro, che è in parte la proiezione di noi nell’altro; e questo è un aspetto non da poco, che ha a che fare con i conflitti sicuramente, ma anche con se stessi. L’altro è un po’ lo specchio di noi. Degli esperimenti fatti dagli antropologi, mostrano come le scimmie poste davanti ad uno specchio, dopo poco tempo si annoiano e si disinteressano dell’immagine riflessa. E invece i bambini fin dalle prime settimane, quindi privi di coscienza, quanto meno di coscienza di secondo livello, ma ricchi solo di quella di primo livello, quindi quella della mera

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sopravvivenza, si avvicinano allo specchio. C’è questa naturale e profonda tensione verso l’altro, che non riconoscono, ma che attrae. È questo che fa la differenza rispetto all’animale: la scimmia fugge e non è interessata, l’uomo è interessato. Credo che tutto ciò che ha a che fare con la conflittualità sia un meraviglioso disegno del Creatore per farci scoprire la nostra umanità. È dal modo come ne veniamo fuori, che possiamo definirci uomini, piuttosto che animali vestiti da uomini. Poche settimane fa a Ca’ dei Carraresi c’è stato un bellissimo lavoro fatto dal “Liceo scientifico da Vinci”. Un seminario molto bello dove questi ragazzi hanno esplorato la differenza tra uomo con la u minuscola e uomo con la U maiuscola. Potremmo forse dire che l’uomo con la U maiuscola è l’uomo che vive nel conflitto, sa stare nel conflitto, mentre quello con la u minuscola è colui che fugge dal conflitto e lo trasforma in contrasto, perché dà sfogo alle pulsioni, alle passioni, all’animalità che poi è l’anima, quel guazzabuglio appunto di sentimenti di cui parlava il Manzoni. I nostri relatori sono stati bravissimi, perché sono stati all’interno dei tempi, cosa inusuale, e quindi c’è il rispetto per quella parte di dialogo che potrebbe essere feconda, ed è sempre striminzita, per la verità, nei convegni. Penso che nel futuro bisognerà rivoluzionare la tecnica convegnistica, incominciando dalla demolizione di questo tavolo che separa i relatori dal pubblico, magari portando i relatori in mezzo all’assemblea, perché credo che da questa parte non ci sia la scienza, o nulla che si debba trasferire, se non con un approccio maieutico: per accendere fuochi e non riempire secchi, come diceva Platone.

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DIBATTITO ASSEMBLEARE DOMANDA Mi sono occupata per parecchi anni di risorse umane; ora mi occupo di servizi all’infanzia, nel senso che ero veramente stanca e nauseata dalla conflittualità che c’è all’interno delle aziende, e quindi ho fatto un cambiamento radicale, perché sono convintissima che i bambini, soprattutto nella primissima fascia di età, acquisiscano la stragrande maggioranza dei valori e che se li portino poi per il resto della vita. Volevo ringraziare molto per la modalità con cui è stato condotto questo convegno. Mi trovo d’accordo sul fatto che la parte di dibattito debba essere implementata, perché io partecipo spesso a seminari, ad incontri di questa natura e manca molto spesso quella che è la conoscenza delle buone prassi tra le persone. Dal mio punto di vista, sarebbe importante, in futuri incontri, parlare di quella che è la flessibilità di chi è preposto all’interno di organizzazioni a gestire determinate situazioni. Cioè se il titolare, il direttore generale, il responsabile delle risorse umane, o chi, a monte, intuisce determinate soluzioni più elastiche, meno rigide, e quindi comprende quelle che possono essere anche le attitudini delle persone, le aspettative della clientela, chiunque possa essere la controparte di conflittualità, molti contrasti vengono ridotti, non evitati, ma c’è maggiore fluidità all’interno dell’organizzazione e, quindi, la stessa conflittualità è virtuosa e non viziosa. RISPOSTA Avv. FANTON Sono d’accordo con lei; senza che definiamo che cos’è l’empatia, la simpatia, eccetera, mi accontenterei che nelle organizzazioni complesse, quelle aziendali o di altro tipo, si capisse una cosa e cioè che la comunicazione, il dibattito, l’esporsi, il dirsi e il darsi, non è una perdita di tempo. Siamo proprio sicuri, lo diceva già Ana nella sua relazione introduttiva, che la procedura standard per raggiungere sempre e comunque la vittoria, e risparmiare i tempi, sia quella di tipo bellico, dire “a questo gli diamo una mazzata in testa”, il fornitore “lo seghiamo”, e così via? Ormai viviamo in società mature, con livelli, rispetto ad altre parti del mondo, certamente più sofisticati di reddito, di accesso all’informazione, di consapevolezza di sé e della realtà sociale; di qui l’importanza di capire che la comunicazione all’interno delle aziende non venga misurata col cronometro, che si tratta di processi che hanno i loro tempi, ma che sono più efficaci. Le ripeto, mi accontenterei di questa consapevolezza, secondo cui ad ogni cosa va dato il suo tempo, e che non va più bene il tempo “fordista”, cioè

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quello della ripetizione sequenziale di cose identiche o di risposte identiche, e sempre le stesse, a problemi che hanno invece ciascuno una sua particolarità. È una questione di approccio e di consapevolezza, è un processo culturale. RISPOSTA Avv. UZQUEDA Ha detto che lei è passata dal settore delle risorse umane al settore dei servizi per l’infanzia. È importante stimolare già nei bimbi e nelle scuole, e l’associazione Equilibrio si occupa anche di questo, l’acquisizione di abilità sociali e anche di tecniche di negoziazione e di mediazione per i bimbi nelle scuole, perché come diceva l’avvocato Fanton è anche una questione culturale. Nella nostra cultura occidentale siamo abituati a gestire un conflitto sulla base delle dinamiche di giochi a somma zero, uno vince e uno perde. Invece certe abilità si possono già acquisire fin da piccoli, e l’età migliore è quella della scuola elementare. Quindi anche tecniche di mediazione vengono insegnate con l’approccio della “peer mediation” nella scuola elementare, nella scuola media, e nella scuola superiore. RISPOSTA Dott. TAGLIENTE Certo che se noi consideriamo l’età, la 0 – 3 è l’età drammatica, è là che si commettono gli scempi educativi, e questo per ignoranza, non certamente per cattiveria, io credo che proprio quello che lei si accinge a fare è di un’importanza enorme, sugli adulti ormai i giochi sono fatti, si possono attenuare i contrasti, si può fare qualcosa, però è sui bambini, da 0 a 3 soprattutto, e qui si ha a che fare con l’educazione dei genitori. DOMANDA Approfitto per fare una domanda anch’io, volevo sapere che diffusione hanno codici etici nelle aziende? Se si ha una percezione e soprattutto se all’interno dei codici etici aziendali sia considerata la conciliazione, queste tecniche di cui abbiamo sentito parlare, questo principalmente al dottor Tagliente, perché credo che possano essere formule innovative proprio collegate ad una diversa eticità in azienda. Se c’è una consapevolezza da parte di chi gestisce le aziende di questo. Grazie. RISPOSTA Dott. TAGLIENTE Indubbiamente dare una risposta assolutista credo che sia difficile. Che ci siano dei comportamenti definibili etici, sicuramente ce ne sono. Così come una quantità non marginale di comportamenti non etici, determinati da mancanza di conoscenza, quindi consapevoli o inconsapevoli. E questo va detto. Quindi, c’è una sorta di eticità naturale, un po’ come le comunità ai

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primordi non hanno delle leggi scritte, ma hanno delle leggi orali, possiamo dire, se volete, mutuando questo concetto, esiste un comportamento, esistono delle norme etiche naturali, orali, e non scritte. La formula scritta non è assolutamente diffusa; quando queste cose accadono, però sono modeste; il caso che qualcuno si metta a scrivere un codice etico. Ancora più raro è la formulazione, è l’arrivare alla scrittura, se così possiamo dire, di un codice etico attraverso un processo di coinvolgimento delle persone, perché poi sono le persone che manifestano, attraverso i comportamenti, la loro etica. Purtroppo è così. Il fatto che se ne parli in questi ultimi 2–3 anni è un fatto molto importante, perché questa è l’era della consapevolezza, e questo è il fatto positivo. Ma questa consapevolezza non è arrivata a un punto tale da potersi esprimere attraverso processi che abbiano un valore in sé, e quindi ancora una volta per esempio per la legge 231, quand’anche si dovesse decidere di fare un codice etico, il rischio è che questo codice venga elaborato da figure esterne all’azienda, anziché farlo nascere in approccio maieutico dall’interno, il rischio è che arrivi un consulente e che lo propini, e in questi processi la figura del consulente è tremenda. Questa è la mia professione, ma in queste attività il consulente non può entrare, è il facilitatore del processo, che non è un consulente, il consulente dice: “Si fa così perché è un fatto tecnico”. Per la legge 231 va benissimo il consulente legale, perché ci sono problematiche legali di cui bisogna conoscerne la portata. Ma quella parte della 231 che ha a che fare con il codice etico non riguarda la tecnica, ma riguarda l’approccio empatico. Questo approccio, parlo, se devo usare il mio osservatorio come elemento statistico, dico 1 su 10 mila, o forse 1 su 5 mila, comunque sempre numeri di questa natura. Faccio io una domanda a voi: che ve ne pare? DOMANDA Mi interessano questi argomenti, soprattutto quello della conciliazione, per la verità, e questo è il motivo per cui sono qui. Volevo fare una domanda tecnica, nel senso che so che Curia Mercatorum ha organizzato dei corsi specifici per mediatori, per conciliatori, un paio di anni fa, mi pare, e mi sembrava che fossero in programma anche questa primavera, però non ne ho più sentito parlare, non so se mi può dare qualche notizia. Per quanto riguarda invece il discorso generale, per quanto riguarda la mia esperienza professionale, dalla quale sono uscito da 4 – 5 anni, perché adesso faccio qualcos’altro in una struttura complessa, come si dice, il discorso della formazione delle risorse umane indirizzate alla risoluzione dei conflitti, tra l’altro anche esterni, quindi anche con la clientela, non solo interni, è un’attività che si è sviluppata molto nella metà degli anni '80, però la morale è quella che dice lei, cioè riconfermo quello che dice, questi

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diventano dei modi per portare avanti un programma, per dire che si è fatto, cioè con una rilevanza diciamo quasi di pregio delle strutture, si dice “noi facciamo anche questo”, tra l’altro ci sono degli accordi anche sindacali che lo richiedono, però poi quando si rientra in azienda, al lavoro quotidiano, c’è la struttura che non li ha recepiti, nel senso che si continua con un discorso verticistico, un discorso di norme, di regole, non di soluzione di problemi. Questo credo sia difficile, perché il messaggio dovrebbe arrivare al vertice, cioè far capire che è utile, perché sennò si ha la sensazione che si è andati a perdere tempo, e quindi c’è una frustrazione e tutto continua come prima. Anzi mi risulta che negli ultimi anni è peggio di prima, cioè le direzioni generali, chiamiamole strutture di staff, sono meno sensibili rispetto a qualche anno fa, quando si era diffusa un po’ questa cultura. Certo che è un problema, posso capire, per esempio c’è il problema a livello di codici etici dei comitati etici, è una cosa bellissima se ci si pensa, perché è un’autorità indipendente che deve controllare tutte le fasi del processo. Però quanto c’è di pubblicitario in questa cosa? Basta leggere i nomi di chi viene chiamato, si ha la sensazione che siano più specchietti. Comunque concordo che il fatto che se ne parli, che ci sia, è comunque un enorme vantaggio. Però c’è sempre un po’ una sensazione, una poesia, più che la prosa della vita dopo. RISPOSTA Dott. SALAMA Per quanto concerne l’attività formativa di Curia Mercatorum sono in fase di organizzazione 4 corsi avanzati di conciliazione gestiti in collaborazione con l’Associazione Equilibrio di Bologna e stiamo considerando la possibilità di organizzare fra ottobre e novembre un corso base. RISPOSTA Dott. TAGLIENTE L’altra questione la metterei in questi termini: la cartina di tornasole non è ciò che si fa o si è fatto, ma è ciò che ti risponde e ti dice il destinatario dell’azione, quello che tecnicamente si chiama “stakeholder”. La questione degli “stakeholder” invece è più complessa, perché sostanzialmente se lei prende un qualsiasi documento che attesta i comportamenti responsabili sotto il profilo sociale delle aziende, lei ha un modo molto semplice per verificare se stiamo parlando di aria fritta o da sostanza. Tralasciando il formato, il modo con il quale si scrivono queste cose, a seconda che sia in brossura piuttosto che con i colori o meno, quando andiamo a leggere, se troviamo la documentazione della risposta allora vuole dire che siamo in presenza di un’azione seria, cioè in altri termini la sua azienda ha erogato 1500 ore di formazione, ha parlato di leadership, ha parlato di questo, ha parlato di quello, dopodiché deve avere elaborato, anzi prima di che deve avere elaborato un approccio per misurare l’efficienza, quindi è un

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misuratore. Se tu non ti crei un misuratore, è un po’ come non fare nulla, perché poi non puoi fare “benchmarking” con te stesso e con nessuno. Ora, l’individuazione del misuratore è un atto di intelligenza e anche di onestà. Ecco, nel modo come i dipendenti parlano, i clienti parlano, i fornitori parlano, le istituzioni parlano, ecc., puoi dire “io ho fatto bene”, cioè mi sono azionato. Anche se non ho ottenuto risultati, questo comunque è una dimostrazione di un comportamento etico, perché quanto meno c’è un impulso, un anelito. Se tu invece mistifichi e fai delle attività, ti autoelogi, quindi è autoreferenziale, e dici le belle cose che hai fatto e non ti metti in discussione, andando a domandare agli altri, perché il rischio è un rischio: “cosa ti pare di me?” puoi ricevere una risposta dolorosa, ma ti aiuta. Se ricevi una risposta, io recentemente ho fatto un’indagine di "clima" in un’azienda meravigliosa, stupenda, una curva che è al di sopra della media nazionale, però c’è un punto doloroso, è la mosca nel latte, e questo fa soffrire chi sperava che lì non ci fosse un ritorno critico, però è lì che cresce, non altrove. Se non l’avesse scoperto avrebbe seguitato a vivere nell’illusione di essere bravo, bello e buono. Di questi bilanci, di questa documentazione concepita così, in Italia ne abbiamo pochissimi. DOMANDA Per quanto riguarda la riforma del diritto societario, c’è stato un inserimento obbligatorio della clausola arbitrale all’interno degli statuti delle società. Invece per quanto riguarda la contrattualistica d’uso normale, contratti commerciali che ci sono oggi, ecc., sicuramente è sempre citato il Foro competente. Si possono introdurre delle clausole anche sulla mediazione e conciliazione prima di addivenire alla causa giudiziaria vera e propria, del tipo di quelle arbitrali, anche per questo aspetto, oppure non sono proprio previste a livello legislativo? Vorrei fare anche una seconda domanda. Siccome è un procedimento, quello della conciliazione, su base volontaria, se una delle due parti, anche se sollecitata più volte non si presenta, quali scenari si aprono? Cioè c’è solo la via di una causa giudiziaria, oppure ci sono altre vie? RISPOSTA Dott. SALAMA Partiamo dal secondo quesito: la clausola mediazione/arbitrato di Curia Mercatorum prevede un procedimento ibrido, ossia il preliminare esperimento di un procedimento di mediazione ed una successiva fase, per l’ipotesi in cui la conciliazione non sortisca gli effetti sperati, nella quale le parti devolveranno la risoluzione della questione ad arbitri. Qualora peraltro la clausola sia di sola conciliazione e non preveda il ricorso ad altri rimedi per la risoluzione della lite, in caso di esito negativo della conciliazione alle parti non rimarrà altro che il ricorso ad un Giudice dello Stato od in

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alternativa convenire, con un compromesso, atto successivo all’insorgere della lite, di devolvere la decisone ad un giudice privato. Dott. TAGLIENTE Vi ringraziamo per la vostra partecipazione, a nome della Camera di Commercio, di Curia Mercatorum, di Proetica, di Treviso Tecnologia, vi auguro una buona serata, e qualunque cosa vogliate domandare in futuro, scrivete, telefonate, mandate delle e-mail, e noi risponderemo a tutti. Grazie e arrivederci alla prossima volta.

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INDIRIZZI UTILI

CCIAA di Treviso Sportello CSR E AMBIENTE Piazza Borsa, 3/b 31100 Treviso Tel. 0422.595288 Fax 0422.412625 e-mail: [email protected] www.tv.camcom.it TREVISO TECNOLOGIA Centro Cristallo Via Roma, 4 31020 Lancenigo di Villorba (TV) Tel. 0422.608858 Fax 0422.608866 e-mail: [email protected] www.tvtecnologia.it CURIA MERCATORUM Centro Cristallo Via Roma, 4 31020 Lancenigo di Villorba (TV)

Tel. 0422. 917891 Fax 0422. 917893 e-mail: [email protected] www.curiamercatorum.com ASSOCIAZIONE PROETICA Palazzo Giacomelli Piazza Garibaldi, 13 31100 Treviso Tel. 0422.294248/246 e-mail: [email protected] www.proetica.org

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Questa pubblicazione è edita nella collana: Profili economici della Camera di Commercio di Treviso. Le precedenti pubblicazioni sono: 1- I problemi finanziari delle PMI trevigiane: aspetti critici e strategie di

intervento (1997)

2- Riforma fiscale e ricapitalizzazione delle imprese (1998 3- Le nuove sfide per i distretti industriali: sistemi cognitivi e reti

transnazionali (1998) 4- La “rivoluzione” Euro: quali implicazioni per il finanziamento delle

P.M.I.? (1998) 5- Un progetto di marketing territoriale per il distretto di Montebelluna

— Offerta del territorio, contesti competitivi e possibili strategie di rilancio — (1998)

6- Immigrati: problema o risorsa? - L’immigrazione di extracomunitari nei territori evoluti con particolare riguardo alla provincia di Treviso — (1999)

7- Le opportunità dell’Euro Nouveau Marchè per le imprese ad alto potenziale di crescita (1999)

8- Guida “Crea la tua impresa a Treviso” (2000). 9- Convegno “E– commerce frontiera del nuovo sviluppo”

Tavola rotonda “Marketplace comunità e distretti virtuali. E-uforia o reali opportunità strategiche di sviluppo”(2000).

10- IL PROGRAMMA “JEV” - Agevolazioni alle imprese che intendono investire in Europa (2001).

11- Le politiche commerciali e di Marketing nel settore dell’arredamento – Ricerca sui distretti industriali del Livenza e del Quartier del Piave

12- Problematiche di internazionalizzazione dei distretti industriali della provincia di Treviso

13- La qualità nella Pubblica Amministrazione – Alcune esperienze negli enti locali

14- Analisi dell’organizzazione logistica del distretto industriale di Montebelluna

15- L’UEM, l’Euro e l’Ampliamento dell’Unione Europea 16- I Servizi integrati a tutela della Proprietà Industriale 17- Qualità e certificazione nella Pubblica Amministrazione esperienze a

confronto 18- Guida “Crea la tua impresa a Treviso”. (2004)

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19- Atti “Giornata dell’economia” (17 Novembre 2003) 20- Premio Tesi di Laurea sull’Economia Trevigiana (6^ edizione – 2003) 21- Nuove opportunità di finanziamento per le PMI – Dalla finanza

innovativa al mercato expandi – (2 Aprile 2004) 22- Atti del ciclo di incontri informativi - “La normativa sulla sicurezza e

conformità dei prodotti” – Gennaio Dicembre 2003 23- Studio preliminare sui potenziali nuovi Mercati di sbocco per lo Sport

System Montebellunese – Settembre 2004 24- Atti del convegno “Lean Organization per lo sviluppo dell’eccellenza

e della competitività 25- “Progettiamo il nostro futuro” Il Piano di Marketing territoriale per

lo sviluppo di Roncade – Relazioni del Convegno (30 ottobre 2004) 26- Atti convegno – “Le performance economiche delle imprese trevigiane

attraverso l’analisi aggregata dei bilanci” – 15 Novembre 2004 27- Convegno – “Il circolo virtuoso dell’innovazione: Qualità delle

risorse umane, servizi e finanza” – 20 gennaio 2005 28- Collaborazione industriale e opportunita’ di mercato nelle regioni

della nuova europa 29- Il mercato delle calzature sportive della nuova Europa 30- Analisi del Mercato dell’Abbigliamento Americano 31- Il mercato del mobile - Medio Oriente, Turchia e Nord Africa 32- L’esperienza del Progetto Lisp (Local Initiatives and Social

Partnership art. 65 FSE azioni innovative)

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Redazione e Impaginazione a cura della Camera di Commercio di Treviso. Settembre 2007. Stampato su carta riciclata