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Associazione ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento della Sardegna

Sito web: sardegna.exparlamentari.it

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Col Patrocinio del Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna

PUBBLICAZIONE A CURA DI:

Sito web: www.taulara.com

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ISTRUZIONE

SVILUPPO

CRISI DELLE RAPPRESENTANZE

ATTI CONVEGNO

CAGLIARI

22 OTTOBRE 2016

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INDICE DEGLI AUTORI

• On. Giorgio Carta, Coordinatore della Sezione sardadell'Associazione degli ex parlamentari della Repubblica

• Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario di Diritto Costituzionale• Prof.ssa Maria del Zompo, Rettore dell'Università di Cagliari• Dr. Francesco Feliziani, Dirigente Ufficio scolastico regionale• Prof. Gaetano Quagliariello, Senatore• Prof. Raffaele Paci, Vice Presidente della Regione Autonoma

della Sardegna• Francesco Pitirra, componente Consiglio nazionale degli studenti

universitari• Dott.ssa Francesca Ticca, Segretario generale UIL Sardegna• Dr. Michele Carrus, Segretario regionale CGIL• Dr. Alberto Scanu, Presidente Confindustria Sardegna• Dr. Mirko Murgia,Confapi Sardegna• Dr. Giorgio Delpiano, Confapi Aniem• Dott. Franco Siddi, CDA Rai• Prof.ssa Maria Antonietta Mongiu, Presidente FAI Sardegna• On. Angelo Rojch• Sen. Ariuccio Carta• Don Ettore Cannavera• On. Gianfranco Anedda• Sen. Ignazio Angioi• On Giacomo Mameli• On. Giovanni Nonne• Sen. Mario Pinna• On. Michele Cossa• On. Pietro Soddu• On. Pietro Maurandi• On. Benedetto Bàrranu

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GIORGIO CARTA ................................................................................. 09 PIETRO CIARLO ................................................................................... 11 MARIA DEL ZOMPO .......................................................................... 19 FRANCESCO FELIZIANI .................................................................. 27 GAETANO QUAGLIARIELLO ....................................................... 69 RAFFAELE PACI ................................................................................... 75 FRANCESCO PITTIRRA .................................................................... 85 MARIA FRANCESCA TICCA .......................................................... 89 MICHELE CARRUS .......................................................................... 101 ALBERTO SCANU............................................................................. 109 GIORGIO DELPIANO ...................................................................... 119 FRANCO SIDDI .................................................................................. 125 GIANFRANCO ANEDDA .............................................................. 131 IGNAZIO ANGIONI......................................................................... 137 MICHELE COSSA .............................................................................. 143 ARIUCCIO CARTA ........................................................................... 147 BENEDETTO BÀRRANU................................................................ 151 ETTORE CANNAVERA .................................................................. 161 MARIA ANTONIETTA MONGIU .............................................. 173 ANGELO ROJCH ............................................................................... 177 GIACOMO MAMELI ........................................................................ 185 PIETRO MAURANDI ....................................................................... 191 PIETRO SODDU ................................................................................. 197 MIRKO MURGIA ............................................................................... 217 TONINO LODDO .............................................................................. 223 MARIO PINNA ................................................................................... 237 RINGRAZIAMENTI (Giorgio Carta) ......................................... 243

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Introduzione

GIORGIO CARTA

Nel ciclo dei convegni che l’Associazione degli ex Parlamentari organizza con lo scopo di tutelare le assemblee legislative, sottoposte oggi più che mai ad attacchi che tentano di indebolirle, modificandone sia la composizione sia le prerogative, con il rischio che non rappresentino più il principale presidio della sovranità popolare. Sempre più acuta si avverte la lontananza della politica il comune sentire dei cittadini. La politica viene spesso considerato orpello inutile per il governo del paese, che necessiterebbe, oggi, secondo alcuni di decisioni rapide, senza lungaggini delle procedure parlamentari. La profonda crisi morale, sociale e culturale, induce a molti a considerare la politica, come luogo di interessi torbidi e di malaffare, che viene utilizzata solo a fini di interessi personali di pochi e non della collettività. Di qui la disaffezione e un sempre maggiore disinteresse da parte dei cittadini, che non si accorgono che la perdita del primato della politica a vantaggio di un’economia sempre più finanziarizzata è la causa prima della crisi devastante che investe il mondo moderno. L’avvento della globalizzazione, con una comunicazione che attraverso la rete diffonde i più disparati modelli di una società, apparentemente priva di quei principi di eticità che sono alla base della convivenza civile ordinata, l’esplosione di radicalismi religiosi e nazionalismi, che nascondono interessi di ben altra natura, alimentano flussi migratori incontenibili di masse sempre più grandi e più povere, mentre minoranze sempre più voraci aumentano i profitti.

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In questo quadro di base desolante, emergono solo quelle parti di società che sono in grado di coltivare i saperi, presupposto indispensabile per la creazione di uno sviluppo ordinato, che non mina l’esistenza dello stesso pianeta, ma che salvaguardando il bene primario, l’ambiente, contribuisca ad una crescita moderna e sicura. Per fare ciò bisogna che una seria riflessione venga fatta da parte delle rappresentanze a tutti i livelli. Rappresentanza politica, sindacale e datoriale devono ridiscutere la loro funzione e fare in modo di essere all’altezza della sfida in atto. Anche il sistema informativo in tutte le sue varie espressioni, ivi compresa la rete, devono prendere coscienza della loro funzione indispensabile di informazione, strumento necessario per ogni iniziativa politica e sociale. La politica nel nostro paese è in forte debito verso l’istruzione di ogni ordine e grado, compreso la formazione professionale. L’istruzione specie in questa società competitiva è il presupposto indispensabile per creare uno sviluppo coerente, e nel contempo far crescere rappresentanze adeguate di cittadini che vogliano concorrere consapevolmente a rafforzare una democrazia moderna ed efficiente. Per questi motivi l’Associazione ha voluto organizzare questa giornata di dibattito chiamando i diversi rappresentanti delle varie istituzioni ad un confronto per poi divulgare gli atti nel mondo della scuola e nelle altre istanze della società, nella speranza che le risultanze di questi lavori non restino lettera morta ma fungano da stimolo ad agire, ognuno per la parte che gli compete, con iniziative politiche partecipative, per riavvicinare i cittadini alla politica con la P maiuscola, unico mediatore sociale di questa società disuguale.

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Dispersione e concentrazione della rappresentanza PIETRO CIARLO La cosiddetta crisi della rappresentanza è un’espressione, invero, usata ed abusata, sulla quale tuttavia è necessario riflettere. Le suggestioni sono tante, ma occorre in primo luogo trovare un minimo comun denominatore, ovvero un punto di partenza incontrovertibile. Questo ancoraggio è ravvisabile in uno dei principi fondamentali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, nello snodo organizzativo di partenza: una testa, un voto, un cittadino, un voto. Certo, può sembrare una semplificazione eccessiva, ma io non credo che lo sia. Se nell’anno in corso si celebra il settantesimo del voto alle donne, significa che l’affermazione del principio succitato non risale alla preistoria, ma a una storia tutto sommato recente. Quella del suffragio universale è stata un’affermazione progressiva e lenta, che ha visto contestualmente emergere la figura delle associazioni specializzate nella raccolta dei voti: i partiti. Quella di associazione specializzata nella raccolta dei voti è solo una delle possibili definizioni di partito politico, ma a me pare efficace e sicuramente la più utile nel nostro contesto discorsivo. Solo i partiti politici si presentano alle elezioni, nessun’altro. È opinione consolidata che i partiti stiano attraversando una fase di profonda crisi. C’è chi, addirittura, ne ha prefigurato l’estinzione. In realtà, a me pare che non vi sia nessun segnale che conduca in questa direzione. Ritengo che non possa esistere un sistema democratico che si fondi sul principio una testa un voto senza partiti politici. Questi ultimi sono connaturati e indispensabili alla democrazia. Non credo si

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possa fare a meno di essi come attori della rappresentanza e della rappresentazione politica, della raccolta dei voti. È irrefutabile, tuttavia, che i partiti abbiano subito radicali mutamenti nel corso degli anni. Sono i loro network , ovvero le reti dei rapporti dei partiti ad aver subito una profonda trasformazione. La nostra esistenza, è noto, si fonda su rapporti e reti di rapporti di tutti i tipi: familiari, lavorativi, privati e, naturalmente, anche politici. Ebbene, se si riflette sul modo in cui era strutturata la rete dei rapporti dei partiti fino a vent’anni fa, il risultato è un quadro totalmente diverso rispetto a quello attuale. Si pensi alla sinistra e ai suoi costanti rapporti con il mondo del lavoro, ai partiti di ispirazione cristiana esplicitata fin dal logo, ai partiti del centro e della destra, mentre oggi non a caso prevalgono denominazioni senza un particolare significato politico. Insomma, il pluripartitismo estremo era mitigato dalla sua intellegibilità e caratterizzato dalla presenza di numerosi piccoli partiti, ma al contempo stabili ed effettivamente capaci di concorrere alla determinazione della politica nazionale. Riportandoci all’attualità, le domande a cui non possiamo sfuggire riguardano l’ odierna rete dei rapporti dei partiti e degli altri più importanti soggetti del pluralismo. Si tratta di quesiti la cui risposta non è affatto semplice. I partiti ci sono e continuano, come un tempo, a raccogliere i voti, ma quale sono i rapporti tra partiti e candidati, e tra elettori ed eletti? In effetti, la selezione delle candidature e le investiture degli eletti sono ammantati di una coltre opaca e i recenti interessanti esperimenti di democrazia digitale non hanno contribuita a dissiparla, anzi. Altre importanti associazioni rappresentative della democrazia del Novecento, cresciute in maniera complanare, ai partiti hanno mutato la loro rete di relazioni. Prime fra queste il sindacato dei lavoratori e la Confindustria. Oggi, il

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sindacato ha visto modificarsi totalmente la sua struttura: il 50% degli iscritti sono pensionati, il 30% dipendenti pubblici, e il 20% dipendenti privati. La maggior parte degli iscritti al sindacato, dunque, sono persone i cui interessi sono definiti solo in parte decisamente minoritaria nella contrattazione tradizionale, ma invece in larga misura con scelte di finanza pubblica, ovvero pensioni e stipendi. Anche la Confindustria è completamente cambiata. Non è marginale, in questo processo, la scelta della Fiat di uscire dalla stessa e di seguire una propria linea contrattuale. Tra Confindustria e Fiat, infatti, vi era un rapporto diretto, tanto che la più grande impresa nazionale aveva un “naturale” ruolo determinante negli assetti rappresentativi dell’associazione. Tutto ciò ora è cambiato e tra multinazionali pure ancora aderenti a Confindustria ma che seguono itinerari loro propri, si pensi soltanto all’ ENI, e abbandoni la nostra associazione datoriale ha mutato radicalmente la propria rete di relazioni e la sua natura politico-rappresentativa. In tale contesto, contrassegnato da grandi trasformazioni strutturali che investono tutti i soggetti della rappresentanza, emerge una sorta di “rappresentanza incerta”. Il problema delle determinanti di voto si pone in modo del tutto nuovo. Come in forma inedita si pone la questione dell’ organizzazione della rappresentanza in molte altre sedi in cui essa si esprime. Peraltro, accanto agli elementi in senso lato strutturali cui abbiamo fatto cenno se ne innestano degli altri come determinanti al voto. Mi riferisco, più precisamente, alla comunicazione politica. La televisione, ormai, è un mezzo tradizionale che, secondo alcuni, sarebbe stata sostituita dalla rete, da internet, nella determinazione delle preferenze di voto. In realtà, le cose non stanno del tutto così. Infatti, ancora oggi l’80% degli elettori dichiara di individuare le proprie preferenze politiche prevalentemente sulla base di quanto la

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televisione comunica. Certo, la democrazia digitale è un aspetto dell’oggi e sarà sempre più importante nel domani, ciò non toglie che la televisione rivesta tuttora e rivestirà anche in futuro un ruolo fondamentale nella determinazione delle preferenze di voto. La campagna elettorale per le elezioni presidenziali statunitensi lo sta ampiamente dimostrando. Anche il Movimento cinque stelle, che inizialmente rifiutava il circuito televisivo preferendo la sola comunicazione politica digitale, è dovuto tornare sui suoi passi. Sottrarsi alla televisione equivale, infatti, a ridurre il proprio campo di visibilità, con il rischio che coloro che determinano le proprie preferenze politiche in base alla televisione non vengano intercettati. Ciò non significa, tuttavia, che la politica digitale non si sia guadagnata uno spazio importante. È il caso, ad esempio, dei sistemi di selezione delle candidature. Selezione che, a mio avviso, assume un ruolo determinante, perché in molti casi, più che nel passato, l’elezione è precostituita dalla selezione delle candidature. Ma se così stanno le cose, bisogna necessariamente interrogarsi sulle modalità, gli effetti e le insidie che può nascondere un meccanismo di selezione delle candidature per il tramite della politica digitale. Da tutto ciò deriva una condizione – acutamente definita da Ilvo Diamanti – di democrazia ibrida, nella quale sono molteplici i metodi e i fattori che concorrono alla determinazione delle dinamiche politiche del momento. Insomma, siamo in una condizione nella quale il network dei partiti, cioè il sistema delle relazioni dei partiti, non è chiaramente leggibile. Esistono nuovi strumenti di svolgimento dell’attività politica, come la politica digitale, la cui portata non è ancora chiara e oltretutto non è diffusa presso tutti i cittadini nello stesso modo. Dunque, negli ultimi decenni la stratificazione sociale è radicalmente cambiata,

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restando di incerta caratterizzazione, allo stesso tempo mutano gli strumenti della comunicazione politica, tutto questo influisce fortemente sul legame rappresentati-rappresentanti in ambito politico, ma non solo. Infatti, vi è un’altra questione ormai ineludibile, quella che riguarda il sistema delle rappresentanze in seno alle pubbliche amministrazioni, che nate a partire dagli anni settanta riflettono il modo di essere del sistema dei partiti di quel tempo. Mi riferisco, precipuamente, a settori di pubblica amministrazione di primaria importanza quali la sanità o l’istruzione che incidono profondamente sui diritti fondamentali del cittadino. In questi settori esiste un “sistema delle rappresentanze” ormai difforme dall’ attuale “sistema dei rappresentati”. Infatti, come si è già detto, quando tali rappresentanze nacquero era possibile delineare con precisione il sistema delle relazioni dei partiti, dei sindacati e delle organizzazioni datoriali, in definitiva dei rappresentati. Ebbene, questo sistema delle rappresentanze, pur ampiamente modificato e aggiornato, ma nato comunque circa cinquanta anni fa, è ancora dentro le pubbliche amministrazioni. Alcune indagini, condotte per la verità in modo assai discutibile, mostrano come negli organi collegiali rappresentativi della pubblica istruzione, soprattutto negli organi di base, il 50% degli eletti partecipa esclusivamente alla prima riunione dell’organismo in cui sono stati eletti. Ciò significa, in altri termini, che neppure l’eletto ritiene la propria elezione un obiettivo allettante al quale pervenire, o che comunque questa, seppur raggiunta, non rivesta alcuna significativa rilevanza. Si può ipotizzare che un sistema delle rappresentanze costruito su parametri rappresentativi che non sono più attuali generi un sostanziale disinteresse finanche in una parte consistente degli eletti. Sulla base delle considerazioni finora svolte è possibile

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rispondere, almeno parzialmente, all’interrogativo su quale sia il problema che affligge la rappresentanza politica oggi. Si è detto, al riguardo, di come il sistema delle relazioni politiche sia totalmente mutato rispetto al passato e di come, quest’ultimo, sia in uno stato poco leggibile. Da tale indecifrabilità emerge un’evidente “dispersione della rappresentanza” politica e, più in generale, di quasi tutte le forme della rappresentanza presenti nelle pubbliche amministrazioni e nel mondo del lavoro. Per dispersione della rappresentanza intendo il fenomeno per cui la rappresentanza stessa è molto diffusa ma al contempo poco efficace, poco praticata, poco rappresentativa, in quanto non è chiaro quali siano gli interessi sottostanti e quale sia la rete di relazioni che i rappresentanti dovrebbero esprimere nell’organo rappresentativo. Non sempre, ma spesso, si ha dunque una sorta di rappresentanza d’immagine, di posizione. E l’uso di quest’ultima espressione non è casuale, perché richiama il concetto di rendita, ovvero un sistema rappresentativo che conferisce rappresentanza anche a soggetti che o non sono in grado o non intendono effettivamente svolgere il ruolo di rappresentanti, e forse in qualche caso vogliono solo trarre una qualche utilità dalla propria posizione. Essere un rappresentante ha sempre un profilo auto promozionale. Sono aspettative del tutto legittime, anzi senza di esse sarebbe difficile anche ipotizzare la “costruzione” dei rappresentanti. Tuttavia, incentivi a ricoprire il ruolo di rappresentante ed effettiva capacità di rappresentare devono avere un loro punto di equilibrio. Se il legame rappresentati-rappresentanti si mostra inadeguato gli interessi autopromozionali dei rappresentanti finiscono con il prevalere e inevitabilmente delegittimare il sistema della rappresentanza in se stessa considerata. Il rimedio a questa “dispersione della rappresentanza” non

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può che rinvenirsi nel processo inverso, vale a dire la “concentrazione della rappresentanza” medesima. A ben riflettere, infatti, se si vuole scongiurare il rischio dell’estinzione della rappresentanza è necessaria che la stessa sia vera e reale non dispersiva. Non si tratta, com’è ovvio, di un’operazione facile, perché incide sull’esistente, su posizioni di rendita, su incrostazioni dalle quali scaturiscono situazioni di notevole vantaggio. E, come si sa, levare le croste è un atto doloroso, che comporta sofferenza. Ma è questa, a mio avviso, la sola via per salvare la rappresentanza. Non credo, peraltro, che la scorciatoia della democrazia diretta sia proficuamente praticabile, soprattutto in riferimento alle scelte di più elevata portata politica. Non penso sia saggio rinunziare al filtro degli organi rappresentativi, anche se le suggestioni della democrazia digitale spingono verso impostazioni antirappresentative. Del resto dall’ approfondimento del caso Brexit si possono trarre molti utili insegnamenti. Dunque, nel rifiuto di qualsiasi scriteriata esaltazione degli strumenti di democrazia diretta, appare tuttavia necessario avviare un processo di concentrazione della rappresentanza, su tutti i piani. A livello amministrativo, anche tramite la modifica di statuti e regolamenti, e a livello centrale, con innovazioni e semplificazioni legislative e costituzionali che si mostrano non più procrastinabili. Certo, il rischio di sbagliare esiste, anche perché la concentrazione della rappresentanza, soprattutto ai livelli più alti dell’ordinamento, può generare delle mostruosità. È doveroso procedere con attenzione, ma procedere, per restituire alla rappresentanza efficacia ed effettività rappresentativa. Il nostro avvenire, infatti, affidato a una rappresentanza dispersa, non è un avvenire.

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Università e sviluppo: luci ed ombre MARIA DEL ZOMPO I dati contenuti nell’ultimo Rapporto OCSE (2016) mostrano che l’educazione è la voce di spesa più penalizzata nel nostro Paese: tra il 2008 e il 2013, infatti, la spesa pubblica per l’istruzione in Italia è scesa del 14%. Si tratta di una caduta che non riflette solo una riduzione nella spesa pubblica totale in termini reali, ma anche una variazione nella distribuzione su diverse priorità: la diminuzione della spesa per altri servizi pubblici infatti è risultata inferiore del 2%. In altre parole, si è scelto di distribuire le risorse pubbliche partendo da priorità diverse rispetto al passato: le politiche statali hanno smesso di investire sulla cultura e di conseguenza hanno nettamente penalizzato l’investimento sulla persona. Questo disimpegno dello Stato che dura da almeno un decennio, con scelte adottate dai governi di colore diverso che si sono succeduti alla guida del Paese è davvero sconcertante. Infatti, è noto a tutti come i premi Nobel per l’Economia degli ultimi anni hanno insistito pesantemente su un concetto: per uscire dalla crisi senza farsi troppo male bisogna investire in Istruzione. Bene, è quello che il nostro Paese non ha fatto: il finanziamento al sistema universitario si è ridotto del 22,5% dal 2008, mentre la Germania lo aumentava del 23%! Queste scelte risultano estremamente difficili da comprendere e da giustificare se davvero si vuole dare una svolta positiva allo sviluppo. Viene da pensare che alla base non ci sia una decisione di ordine politico, ma un disegno complessivo o una grande carenza di analisi politica e economica. Entrambe queste ipotesi sono purtroppo foriere

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di un aggravamento del problema se non si decide un cambio deciso di rotta.

Un altro tassello di questa strategia – che rischia di condannare il nostro Paese ad un futuro senza sviluppo, perché senza istruzione non può esserci sviluppo – è rappresentato dall’età media del corpo docente, risultato il più anziano tra tutti i paesi OCSE: sei o sette insegnanti su 10 hanno più di 50 anni. La spiegazione è legata ad una politica che dal 2010 ha imposto il blocco del turnover del personale delle Università, ora leggermente mitigato al 30%. Questa politica porterà sicuramente ad una diminuzione dell’offerta formativa pubblica, soprattutto nelle regioni economicamente più deboli come la Sardegna, con un ulteriore rallentamento della possibilità di uscire dalla crisi economica che dura da troppo tempo.

Certo non contribuisce a migliorare il quadro complessivo il poco invidiabile primato sulla proporzione di giovani tra i 20 e i 24 anni che non lavora, né studia, né fa apprendistato (i cosiddetti NEET): in Italia è aumentata di 10 punti percentuali negli ultimi dieci anni, molto più che in tutti gli altri paesi dell’OCSE. Si tratta di una percentuale di giovani che negli anni non accenna a rientrare nel mondo del lavoro né nel mondo dell’istruzione: è necessario chiedersi qualcosa di più al riguardo. A questo proposito è importante sottolineare che altri Paesi, come Grecia e Spagna, hanno avuto negli ultimi 10 anni un crollo del tasso di occupazione simile (o anche maggiore) a quello italiano, senza però osservare un uguale aumento nella percentuale dei NEET. In questi Paesi, la maggior parte dei giovani che non hanno trovato lavoro sono tornati a frequentare le università o altri tipi di istituti di istruzione terziaria. In Grecia, la percentuale di giovani tra i

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20 e i 24 anni che frequentano l’istruzione terziaria è aumentata del 14%, in Spagna del 12%, mentre in Italia è aumentata solo del 5%. Il fatto che tanti giovani senza lavoro abbiano deciso di non continuare gli studi suggerisce che il sistema educativo terziario italiano ha bisogno di essere potenziato e reso meno rigido, con politiche mirate alla creazione di opportunità di crescita culturale maggiormente legate alle esigenze del territorio. Infatti, i programmi di istruzione terziaria a ciclo breve orientati sulle professioni, e i programmi di tipo part-time, sono ancora troppo pochi e poco incentivati. Aumentare la disponibilità di questo tipo di studi, senza diminuire l’offerta formativa complessiva, potrebbe attirare in particolare i NEET verso l’istruzione terziaria e dare nuove opportunità a loro e al mondo produttivo. Su questo quadro occorre lavorare, e insistere – per quanto riguarda l’Università di Cagliari – sulla direzione intrapresa, dalla revisione dei corsi di laurea all’aumento quantitativo e qualitativo di tirocini per studenti e di Master per neo-laureati, per offrire una formazione aggiornata e al passo con i tempi e con le mutate esigenze della società, senza dimenticare la missione principale dell’esperienza universitaria: educare la persona al senso critico, generare cittadini consapevoli capaci di affrontare le rinnovate sfide sociali, rese ancora più urgenti dai veloci cambiamenti in atto. Non semplicemente dunque formare figure professionali, ma sempre più educare – con la cultura e con l’apertura mentale che essa genera fin dai primi anni di vita – al senso critico. Con ogni evidenza, un’impostazione di questo genere è una critica al sistema che per lunghi anni ha fatto in modo che le

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scelte dei nostri giovani si orientassero sempre più alla ricerca del corso di laurea in grado di garantire maggiori e più veloci sbocchi occupazionali, a discapito della motivazione e della passione nell’affrontare l’esaltante esperienza della costruzione del proprio senso critico, passo dopo passo. Educare al senso critico significa anche contribuire alla crescita umana e professionale di persone capaci di affrontare le mutate condizioni di contesto sociale ed economico, e di impostare le scelte del nostro sistema educativo guidando il cambiamento e non subendolo.

Quelle appena svolte sono considerazioni che partono dalla constatazione della scarsa attrattività del sistema di istruzione universitaria in Italia per i NEET, come dimostrato dal basso tasso di iscrizioni e dall’elevata percentuale nel gruppo di età corrispondente all’istruzione terziaria. Il tasso di iscrizioni al primo anno di università in Italia è del 37%, molto più basso che nella maggior parte dei paesi dell’OCSE. É un problema, dunque, che riguarda tutto il Paese, e non solo la Sardegna e Cagliari, dove – anzi, al contrario – da due anni è in atto un trend in controtendenza nel numero di immatricolazioni all’Ateneo del capoluogo.

Qualcosa dunque è stato percepito, in particolare dalle famiglie sarde che scelgono sempre più consapevolmente la formazione universitaria per i propri figli, e l’iscrizione alle nostre università. Si tratta di un atto di fiducia – con ogni evidenza – che deve spingerci a fare sempre meglio.

Uno dei problemi con cui il sistema universitario si confronta ogni anno è il basso di livello di preparazione iniziale degli studenti iscritti al primo anno. Si tratta di un problema dalle radici profonde e molto diversificate, con inevitabili riflessi

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sugli abbandoni degli studi e l’alto numero di ragazzi che va ad ingrossare le fila dei NEET. Per questo con un progetto strutturato il nostro Ateneo organizza ogni anno speciali corsi di riallineamento e di recupero delle conoscenze. L’esperienza di questi anni ha dimostrato una volta di più che sui risultati conseguiti incide in modo consistente la mancanza di motivazione. Come detto, la scelta di un corso di laurea effettuata solo in base alla maggiore o minore possibilità di trovare al termine un impiego, e non in forza di una solida e strutturata passione per le discipline che si apprenderanno durante il corso di studi, ha inevitabili riflessi sul rendimento. Per rendere adeguata ai livelli richiesti all’ingresso all’università la formazione dei nostri studenti è necessario investire ingenti risorse sulla scuola, puntando ad incentivare con stipendi adeguati la classe docente. Quello in atto è un progressivo definanziamento del mondo dell’istruzione italiana: numerosi studi mostrano che – proprio nei momenti di crisi – dovrebbe al contrario registrarsi un trend di segno opposto, che anzi potenzi il sistema, senza intaccarlo nei suoi gangli vitali. Un discorso molto simile riguarda gli immigrati, che sempre più numerosi cominciano ad affacciarsi al mondo dell’università, in una prospettiva che dovrà essere sempre più ordinaria e sempre meno eccezionale per la nostra società, in un contesto che sappiamo bene essere segnato – per molti nostri paesi – dal progressivo, lento ma all’apparenza inesorabile, spopolamento.

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Spetta alla nostra società farsi carico di fornire agli immigrati non un lavoro, ma prima e soprattutto un’istruzione adeguata alle nuove sfide del nostro mondo. Senza formazione, gli immigrati non potranno contribuire alla crescita del nostro Paese. Se l’attuale contrazione dei finanziamenti al mondo della scuola e dell’università non dovesse arrestarsi, a risentirne inevitabilmente sarà anche la piena integrazione degli immigrati nella nostra società. Per questo l’Università degli Studi di Cagliari ha deciso di mettersi in gioco, ma è il sistema che deve farsi carico di azioni sinergiche e integrate che coinvolgano tutto il sistema, attraverso la predisposizione e la condivisione di precisi progetti di insieme. Sarebbe un errore parlare di scuola e di università senza fare un cenno al terzo tassello, il sistema dell’istruzione professionale: allo stato attuale manca una proposta organizzata e sistematizzata di apprendimento professionale cui accedere subito dopo il diploma. Si tratta evidentemente di un settore in cui anche l’Università può svolgere un ruolo importante, ma è la Regione che deve stare in primo piano: serve un inizio certo dei corsi offerti e la sicurezza di percorsi di studio in grado di costruire profili formativi definiti su professioni che non hanno bisogno dell’Università per essere certificate. L’altro versante su cui diventa ogni giorno più urgente la responsabilità dell’Università per lo sviluppo del Paese è la creazione della consapevolezza, nei ragazzi e nello loro famiglie, che la laurea è necessaria anche per lo svolgimento di professioni che in passato potevano essere affidate all’apprendimento di un mestiere attraverso la trasmissione

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orale. É sufficiente pensare alle professioni legate alla Terra e al Mare, settori nei quali sempre più decisivo diventa – accanto alla tradizionale trasformazione delle materie prime – l’investimento su un’importante nicchia di specificità, tutta sarda, di valorizzazione dei prodotti attraverso le più alte tecnologie disponibili. O a quelle legate ad un turismo sempre più di nicchia e altamente specializzato dove le conoscenze e le competenze universitarie sono imprescindibili se si vuole creare uno sviluppo davvero competitivo. La sfida, oggi, è saper integrare i saperi antichi della nostra tradizione con la più moderna tecnologia: per dirlo con la frase che ha accompagnato questi primi anni di mandato, si tratta di coniugare con intelligenza cultura e innovazione, perché senza la prima non può esserci la seconda. Entrambe hanno necessità della ricerca per stare al passo con i tempi di un mondo che cambia con velocità sempre più elevate.

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FRANCESCO FELIZIANI

1. Democrazia formale e democrazia sostanziale

Nel concetto di democrazia entrano in gioco due elementi l’uno indipendente dall’altro e si prestano, qualora si accentui uno a danno dell’altro, a dare al termine democrazia significati diversi. Questi elementi sono il principio di uguaglianza, secondo cui è democratico quel regime che tende alla eliminazione del maggior numero di disuguaglianze sociale e la procedura, o insieme di procedure, per la partecipazione dei cittadini al potere statale tali da permettere al maggior numero di essi di influire direttamente o indirettamente alle decisioni d’interesse pubblico. Nel corso della storia non sono mancate realtà in cui regimi politici tendevano ad instaurare una società egalitaria senza mettere in atto procedure tali da permettere una maggiore partecipazione dei cittadini al potere e, di contro, realtà che hanno attuato la gran parte di tali procedure senza essere egalitarie. Per cui si chiamavano democratici sia regimi liberal-democratici che i regimi social-democratici. Per evitare la confusione tra due significati così diversi dello stesso termine è invalso l’uso di specificare il concetto generico di democrazia con un attributo qualificante: democrazia formale e democrazia sostanziale. La democrazia sostanziale fa riferimento prevalentemente a contenuti ispirati da ideali caratteristici della tradizione di pensiero democratico, in primis l’egualitarismo (1) e attiene principalmente al riconoscimento e la tutela dei diritti sociali cioè, quei diritti che il cittadino, a differenza dei diritti di libertà garantiti dalle costituzioni liberali, non si limita a

1 P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 242, 243

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chiedere allo stato la protezione di un ampia sfera di autonomia personale ma pretende un intervento dei pubblici poteri volti a limitare se non annullare le differenze economiche. Per esempio i principali diritti sociali previsti dalla Costituzione italiana al titolo III parte I sono: il diritto all’istruzione obbligatoria, alla tutela del lavoro dipendente, all’assistenza sociale. Ulteriore esempio di “democrazia sociale” è la tassazione progressiva sui redditi e sul patrimonio. La democrazia formale attiene principalmente alla cosiddette regole del gioco. Tra queste le più importanti, che permettono di avere pochi ma essenziali indicatori che discriminano i paesi democratici da quelli non democratici, sono per esempio: - suffragio universale maschile e femminile senza distinzioni di sesso, di etnia, di lingua, di religione e di opinioni politiche; - esistenza di elezioni libere, periodiche; - pluralismo associativo: possibilità di costituire partiti, gruppi di interesse e associazioni varie; - eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge; - principio delle deliberazioni prese a maggioranza con rispetto dei diritti delle minoranze; - pluralismo delle fonti di informazione. In quanto insieme di regole di procedura, un regime di democrazia formale indica come si debba arrivare alla decisione politica, non che cosa la decisione debba contenere altrimenti si renderebbe vana l’una o l’altra delle sopracitate regole. La democrazia, pur ammettendo l’incertezza dei contenuti decisionali, non potrà mai prescindere da alcuni valori fondamentali come le libertà civili e politiche, il pluralismo delle istituzioni e dei gruppi, la separazione dei poteri e la risoluzione pacifica dei conflitti. Nel corso della storia si sono realizzate, in verità, forme più o meno effimere di democrazia diretta (l’antica ecclesìa

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ateniese, i comitia romani, gli arenghi medievali, i soviet della rivoluzione russa), ma, il modello di rappresentanza popolare più duraturo nel tempo si è dimostrato quello indiretto, codificato nei sistemi parlamentari dei principali stati liberali moderni. Molti studiosi di sociologia (come Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Robert Michels) hanno messo, però, in dubbio che la forma indiretta di partecipazione popolare alla gestione del potere possa essere considerata effettivamente democratica, ritenendo piuttosto che essa rientri in una tipologia politica oligarchica, in cui la sovranità sostanziale appartiene ad una élite legittimata dal voto popolare. L’esperienza ha mostrato che la democrazia formale è condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché ci sia democrazia di fatto. Infatti i tentativi di violare la democrazia formale (Lenin, Castro, Mao ecc.) in nome della democrazia di fatto, hanno lasciato dietro di sé qualcosa che di democratico non ha nulla. Taluni, come Mosca, hanno disgiunto i sistemi politici nei quali, dopo l’iniziale “investitura” popolare, si perde ogni minima forma di controllo dal basso, da quelli in cui, al contrario, il popolo continua ad esercitare un’azione di verifica sui governanti prescelti. Tale distinzione tende a contrapporre i regimi plebiscitari, populisti o totalitari, che in alcuni frangenti ricevono anche vaste legittimazioni popolari, come nel caso del bonapartismo o del nazismo, ai regimi propriamente liberali, in cui si ricorre periodicamente all’esercizio del diritto di voto, e in cui i cittadini hanno possibilità di operare una selezione fra gruppi politici distinti e avversi.

2. La democrazia nel nostro tempo

La democrazia dei moderni è rappresentativa e presuppone

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la controllabilità del potere (2). Uno strumento principe per la piena attuazione sono senza dubbio i Partiti politici. Nello stesso saggio Sartori al cap. 6 sostiene che “senza l’intermediazione dei partiti gli elettori si esprimerebbero a vuoto, creando un caos con una miriade di frammenti di gruppuscoli che si propongono al voto” . Già nel 1920 Kelsen asseriva “Solo l’illusione o l’ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici” Sartori sostiene che la democrazia rappresentativa non può essere che di élite e non può che funzionare in questo modo (3). Non è sbagliato sostenere che la democrazia rappresentativa è in crisi. La presa di coscienza della crisi è la precondizione per affrontarla. La fase storica attuale sembra caratterizzata da una cronica crisi della partecipazione popolare alla vita politica, che si manifesta in nella bassa affluenza alle elezioni, oppure nel distacco dai partiti tradizionali e nel “voto di protesta” che ha favorito la nascita di nuovi movimenti politici che spesso hanno deluso a loro volta le attese di un elettorato ormai disilluso. Al riguardo Luciano Canfora nel libro “La democrazia. Storia di un’ideologia”, esaminando la realtà politica del nostro tempo, pone l’accento su una situazione che gli appare intrisa d’ipocrisia e di falsità. Il rafforzamento del potere esecutivo su quello legislativo, lo stravolgimento del sistema elettorale proporzionale e l’accentuarsi del dominio dei ceti più abbienti hanno, di fatto, svuotato le conquiste democratiche realizzate, in passato, in Occidente. E l’influenza dei mass-media è

2 G. Sartori Democrazia Enciclopedia della scienze sociali 1992

3 G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori, Milano 2008, pag. 100

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diventata così forte da condizionare profondamente non solo gli orientamenti politici della gente, ma anche i gusti personali e le scelte esistenziali. Dice Canfora: “Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell’informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione […] Tutto il resto dell’immensa produzione – senza più differenza tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime – è ormai un colossale veicolo dell’ideologia, o per meglio dire del culto della ricchezza. Non ha molta importanza, in sostanza, quale gruppo politico sia al potere, giacché tra le masse si è affermato stabilmente un modello prevalente di pensiero, in cui «il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza” (4). Nell’ Epilogo del libro l’autore afferma, inoltre, che “quella che invece, alla fine, o meglio allo stato attuale delle cose, ha avuto la meglio è la “libertà” […] beninteso non di tutti, ma quella di coloro che, nella gara, riescono più “forti” (nazioni, regioni, individui)” (5). Questo tipo di libertà, riservata a pochi, “sta sconfiggendo la democrazia”. La società democratica, intesa quale associazione di uomini liberi ed eguali, ancora oggi si prospetta come un ideale da realizzare. Si dovrebbe, in effetti, puntualizzare un fattore semantico troppo spesso volutamente frainteso: le parole "democrazia" e "libertà" non sono sinonimi. Ogni sistema politico può essere democratico o non democratico. In ogni

4 G. Licandro, Democrazia occidentale: fragile e imperfetta, www.scriptamanent.net, anno III, n. 20, aprile-maggio

2005

5 Ivi

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sistema politico può esserci libertà oppure non esserci. Ma queste due parole non necessariamente vanno di pari passo. In un sistema può esserci democrazia senza libertà, e può esserci libertà senza democrazia. La democrazia, perciò, potrebbe essere rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Sembra in ogni caso necessario distinguere, come fa Mosca, tra le forme politiche, pur imperfette, che consentono un minimo di partecipazione e di controllo popolare e i sistemi apertamente autoritari, in cui si violano sistematicamente i diritti civili. Occorre adoperarsi affinché la “sovranità popolare” non si risolva solo nella mera scelta elettorale, ma si realizzi in forme più sostanziali, per esempio attraverso un maggiore ricorso allo strumento referendario e la creazione di forti movimenti d’opinione, in grado di esercitare, anche tramite le nuove tecnologie informatiche, forme di pressione più efficaci sul ceto politico. Le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione potrebbero essere sfruttate per nuove forme di democrazia diretta e-democracy (per esempio oggi è concepibile, almeno in Occidente, un referendum elettronico). É importante consolidare e non sconvolgere le pur fragili “regole” della democrazia che in ogni caso, come sostiene Bobbio in un passo tratto dal suo libro Quale socialismo?, “consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia in forma diretta sia in forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano tutta la collettività”(6). La degenerazione della situazione politica italiana, in termini di distacco tra la democrazia formale e quella sostanziale, è ben evidente. Mentre si è obbligati ad accettare la democrazia formale in atto - non farlo sarebbe eversivo e disastroso per la democrazia stessa - sul piano

6 Ivi

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politico occorre agire per arrestare l'involuzione in atto della democrazia sostanziale nel nostro Paese. Occorre rispettare la legittimità, ma fare di tutto per cambiare la realtà.

3. La teoria delle élites

“La teoria delle élites si propone di spiegare scientificamente una delle tendenze indiscutibili della storia umana: il fatto che, in ogni società e in ogni epoca, una frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie mani la maggior quantità di risorse esistenti - ricchezza, potere e onori - e s'impone alla quasi totalità della popolazione”(7). Giorgio Sola introduce l’argomento sulla “teoria delle élite” evidenziando che è sempre esistita una sorta di disparità fra il gruppo di coloro i quali detengono un qualche tipo di potere e il gruppo più numeroso di soggetti che si trovano in condizioni di subalternità. Pone l’attenzione alle èlite politiche affermando che “la teoria delle élites può anche essere definita come quella teoria secondo cui il potere politico appartiene sempre e comunque ad una ristretta cerchia di persone”. Tale affermazione sintetizza quello che per anni i vari studiosi delle èlites hanno cercato di spiegare su base scientifica ossia, il fatto che, in ogni epoca e in ogni società, una frazione numericamente ristretta di persone tende a concentrare nelle proprie mani un’elevata quantità di risorse e ad imporsi sulla quasi totalità della popolazione che ne è priva. L’ineguale distribuzione del possesso o del controllo di queste risorse si traduce abitualmente in una

7 Giorgio Sola La Teoria delle Elite - Enciclopedia delle scienze sociali

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diseguale distribuzione del potere sia esso politico, militare che economico. La teoria delle élite può essere espressa sia da un punto di vista sociologico che politologico: dal punto di vista sociologico, lo studio della minoranza che possiede una qualche capacità, reale o presunta, ma riconosciuta dal resto della popolazione tale che la minoranza riesce a condizionare il comportamento della maggioranza, rientra nella generale teoria della stratificazione sociale e ha come oggetto l'eterogeneità e la differenziazione sociale congiunte ai processi di selezione sociale e al concetto di capacità naturali (8). La miglior formulazione sociologica della teoria, è da attribuire a Wilfredo Pareto secondo il quale le élites si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale: "La conquista della ricchezza presso i popoli commercianti e industriali, il successo militare presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere presso le aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel popolo cinese, l'acquisizione di dignità ecclesiastiche nel medioevo [...] sono altrettanti modi coi quali si effettua la selezione degli uomini" (9) ; dal punto di vista politologico, lo studio è focalizzato sulla distribuzione del potere politico definito come “possibilità di prendere e imporre, anche ricorrendo alla forza, decisioni valevoli per tutti i membri di una collettività”(10). La miglior formulazione politologica della teoria è da attribuire a

8 ivi

9 v. Pareto, 1902; tr. it., p. 163

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Gaetano Mosca negli elementi di scienza politica: "Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n'è la cui evidenza può essere a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate appena ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l'altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che all'utilità dell'organismo politico sono necessari" (11) Sola classifica gli studi sulle élites in cinque fasi: il periodo fino al 1880 dei cd precursori, in cui gli studi più importanti si devono a Alexis de Tocqueville, Auguste Comte e Henri de Saint-Simon; il periodo fino al 1925 dei cd classici, Gaetano Mosca, Roberto Michels, Vilfredo Pareto e Max Weber; una terza fase compresa nel periodo fra le due guerre mondiali che sola definisce neoclassica, caratterizzata dagli studi di Joseph Schumpeter, José Ortega y Gasset, Harold Lasswell e Karl Mannheim; una quarta fase dopo la seconda guerra mondiale definita post-classica caratterizzata dagli studi di Raymond Aron, Ralph Dahrendorf e David Riesman; ed infine l’ultimo periodo caratterizzato dalla contrapposizione tra gli studi elitisti, e pluralisti. Gli studi elitisti sono caratterizzati dal predominio di una classe sociale, appunto l’élite, che esercita il potere sulla base di una struttura gerarchica e piramidale, mentre negli studi pluralisti non vi è

11 Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquini, Il dizionario di Politica, cit. p. 304

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una sola élite, ma diverse, tante quante sono i gruppi e gli interessi in competizione. Ciascuno di questi autori ha dato un contributo notevole allo sviluppo della teoria delle élites. Di seguito si evidenziano solo alcuni spunti per alcuni di essi risultando impossibile un adeguato approfondimento all’interno di questo lavoro: Henri de Saint-Simon fu un filosofo e sociologo francese, teorico del socialismo utopistico e scientifico. Teorizzava il ruolo dell’organizzazione industriale quale centro propulsore del processo di trasformazione della società, per tale ragione vedeva gli scienziati quali detentori del potere spirituale e gli industriali quali detentori del potere temporale. Dopo il periodo rivoluzionario e napoleonico S. Simon vedeva la società composta da due classi la borghesia e gli industriali, la prima detentrice del monopolio degli incarichi pubblici e dell’apparato dello stato, la seconda espressione di nuove forze, energie e capacità produttrici. La nuova classe politica dovrà essere costituita dai capi naturali degli industriali, cioè da coloro che hanno un rapporto organico con il mondo del lavoro e della produzione, in buona sostanza formata dalle persone che partecipano direttamente con la loro attività intellettuale e lavorativa al sistema produttivo. Henri de Saint Simon formulò una nuova concezione della politica, nei termini di una scienza positiva della società; Auguste Comte anch’egli francese continuò sulla scia tracciata da Saint Simon ma a differenza di Saint Simon riteneva che l’auspicato passaggio alla costruenda società industriale richiedesse una riorganizzazione culturale e scientifica che ponesse fine al conflitto di classe attraverso una moralizzazione collettiva. Dal punto di vista politico era critico verso i regimi democratici e immaginava una società governata da una élite di scienziati che avrebbero applicato

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metodi scientifici per risolvere i problemi dell’umanità e migliorarne le condizioni sociali; José Ortega y Gasset, sociologo spagnolo, considera le élite intellettuali, e la loro azione creativa, come fonte propulsiva del progresso sociale. Le definisce “minoria selecta” capace di guidare la massa che esiste unicamente “per essere diretta, influenzata, rappresentata, organizzata”; Harold D. Lasswell considera“l’insieme delle persone che si trovano alle posizioni più alte della gerarchia dei valori”, intendendo valori rappresentativi la sicurezza, il reddito e la deferenza, definendo l’élite “i pochi che ottengono la maggior parte dei valori” gli altri costituiscono la massa; James Burnham, considera l’importanza economico e tecnico nella formazione delle élites atteso che la società moderna si evolve verso una società tecno-burocratica contraddistinta dall’affermazione dei manager concludendo che, “il controllo e non la proprietà degli strumenti di produzione assicura l'accesso al potere, e che la classe dominante del futuro sarà costituita da una minoranza di managers tecnicamente indispensabili”(12); Karl Mannheim, sociologo ungherese, ha sostenuto che la democrazia non esclude la presenza di élites, ma implica uno specifico principio di formazione e di reclutamento di queste ultime, si è occupato, in particolare, dell’affermazione dei leader morali, religiosi quali élites intellettuali in subordine al declino delle élite tradizionali; A. Schumpeter, economista austriaco, teorizza la complementarietà della democrazia liberale e la teoria delle élites per giungere al cd “governo approvato dal popolo” in luogo del “governo del popolo”.

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Gli elitisti hanno utilizzato i termini élite, classe politica e classe dirigente, alcune volte in maniera alternativa altre in maniera complementare ma ciò che emerge è che, ad ogni termine, corrispondono schemi concettuali e profili teorici diversi.

4. Classe politica ed élites.

La teoria delle élites parte dall’assunto che la società è composta da due classi di individui: i governanti, sempre meno numerosi rispetto agli altri, e i governati, la maggioranza della popolazione. Uno dei problemi che sorge nella trattazione della suddetta teoria è come, e in che misura, definire questa minoranza. Già dalle brevi considerazioni su esposte emerge che ogni studioso ha derubricato un proprio termine e, lo stesso Gaetano Mosca, che è stato uno dei primi a definirla “classe politica”, nelle sue opere ha usato diverse terminologie per indicare la stessa categoria: ceto governante, classe dirigente, ceto politico, classi politiche, classe governante, classe superiore, minoranza governante, minoranza governante, minoranza organizzata, classe politicamente dirigente. Vilfredo Pareto l’ha definita élite. R. Michels adopera indifferentemente sia la terminologia di Mosca sia quella di Pareto. I termini espressi da Mosca e Pareto, pur identificando la stessa categoria, hanno significati sostanzialmente differenti: il termine “classe politica” ha una connotazione oggettiva ed indica “l’esistenza di un gruppo di persone che all’interno della società monopolizza il potere di governo” (13) – il termine élite “sembra implicare un giudizio in qualche

13 ibidem

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modo positivo sulla qualità dei membri di questo gruppo” (14) e verrà comunemente utilizzato dagli studiosi di tutto il mondo già a partire dagli anni Venti, privato della sua caratteristica qualitativa. Nel corso degli anni i termini sopra esposti, sono stati oggetto di studio di vari pensatori, tra cui Antonio Gramsci e Guido Dorso, ai quali hanno cercato di dare una spiegazione scientifica, in particolare, Gramsci evidenzia la differenza tra “classe dirigente” e “classe dominante”. Con il primo termine individua il gruppo dirigente che si impone attraverso il consenso e grazie al quale esercita un potere sul resto della popolazione. Con il termine “classe dominante” si riferisce invece a quel gruppo sociale che si impone tramite la forza e la coercizione e che si serve di essa per sottomettere il resto della popolazione. Dalla combinazione dei due concetti scaturisce la classe politica. La classe politica è quindi in grado di “instaurare un corretto equilibrio fra ricorso alla forza e impiego dell’egemonia” (15). Guido Dorso ripropone la teoria di Mosca della classe politica non solo come indirizzo politologico-storiografico, ma anche come strumento di intervento sulla politica pratica. Ritiene che i due termini “classe dirigente” e “classe politica” debbano essere distinti, dal momento che, il primo deve essere inteso in senso sociale e il secondo in senso strettamente politico. Il termine “classe dirigente” può essere impiegato o per indicare coloro che pur non appartenendo alla classe governata, non fanno nemmeno parte della classe politica oppure, per indicare “il potere organizzato che ha la direzione politica, intellettuale e materiale della società, e

14 ibidem

15 ibidem

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comprende anche la classe politica propriamente detta”(16) Mentre, il termine “classe politica” si riferisce invece, a quella “parte della classe dirigente che ha funzioni strettamente politiche, di cui costituisce una specie di comitato direttivo” (17)e si distingue tra chi governa e chi sta all’opposizione (di chi, cioè, ha accesso al potere ma non al governo). In questo caso Dorso individua la prima, “classe politica di governo” e ritiene, che essa, si appoggi alla “classe dirigente di governo” intesa quale raggruppamento sociale interessato alla realizzazione di un determinato programma politico, mentre con il termine “classe politica di opposizione” indica invece, quella frazione della classe politica che esprime gli interessi e le aspettative dei rimanenti sottogruppi sociali che hanno accesso al potere ma non al governo. Per spiegare cosa si intende con il termine élite si possono seguire due percorsi, l’uno, seguendo l’etimologia della parola, l’altro, seguendo le diverse accezioni che di esso se ne fa. Seguendo il primo percorso la parola élite “deriva dall'etimo eligere e trova riscontro in quegli studiosi che adoperano la parola élite come sinonimo di eminenza di valore o di capacità. È questo l'uso che ne propone Pareto che utilizza il termine come sinonimo di 'aristocrazia', intesa nel senso letterale dei 'migliori'”(18) (sola teoria delle élite) Pareto ha tradotto in italiano questo termine in classe eletta, accostandolo alle capacità e alle qualità in possesso dei componenti di questa stessa classe, tali per cui hanno

16 G. Dorso, Dittatura, classe politica e classe dirigente

17 Giorgio Sola La Teoria delle Elite - Enciclopedia delle scienze sociali

18 ibidem

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raggiunto i vertici nel loro ambito d’azione. Lo stesso Sartori considera l’élite un gruppo di riferimento di valore dotato di capacità ed eccellenza. Diametralmente opposto è il pensiero di Mosca che rifiuta il termine élite in quanto sembra "implicare un elogio che le classi dirigenti sono in molti casi ben lungi dal meritare" preferendogli l’espressione “classe politica”. Altri autori come, Ortega e Mannheim, hanno inteso il termine élite in senso apprezzativo postulandone l’esistenza come una necessità normativa. In tale accezione il termine è stato utile a coloro i quali affermano che “le società contengono sempre e inevitabilmente dei gruppi che sono migliori di altri e, di conseguenza, sostengono che questi gruppi piuttosto che altri abbiano uno speciale diritto a governare”(19) Seguendo l’altro percorso il termine élite designa, in genere, l’insieme di quanti occupano le posizioni preminenti al vertice delle organizzazioni che detengono il potere politico, economico e militare, e hanno quindi la possibilità di influenzare in misura rilevante, attraverso le loro decisioni, l’orientamento generale della vita sociale. Proprio in tal senso il sociologo francese Raymond Aron utilizza la parola élite per comprendere tutti coloro che in differenti rami di attività occupano i posti più alti e le posizioni più importanti. Lo stesso sociologo usa i termini élite, classe politica e classe dominante, in maniera distinta in base ai diversi problemi. Detto per l’élite, riserva l’espressione “classe politica” viene alla minoranza di coloro che esercitano funzioni di governo. Tra l’élite e la classe politica colloca la “classe dominante” e “comprende quelle persone privilegiate che, pur senza esercitare vere e proprie

19 ibidem

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funzioni politiche, hanno influenza su coloro che governano e su coloro che ubbidiscono, per la propria autorità morale, o per il potere economico e finanziario che detengono”(20). 5. Gaetano Mosca e la teoria della classe politica. Gaetano Mosca è stato un teorico e storico della politica ed è l’autore che, forse, più di ogni altro, può essere considerato l’iniziatore della Scienza Politica moderna nel senso dello studio della politica dal punto di vista della realtà sociale e storica avulsa dalle astrattezze e teorizzazioni ideali o ideologiche (21). I suoi canoni metodologici si basano sulla raccolta del maggior numero di fatti della storia delle più diverse civiltà evitando deduzioni da principi aprioristici ciò in quanto, il compito della scienza politica è non giustificare i singoli Stati esistenti, ma spiegare la loro nascita, organizzazione e decadenza. A tal fine è necessario effettuare una separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore (22). Quindi, secondo il pensiero di Mosca, da un lato, bisogna sgombrare il campo dalle dottrine erronee sulla società e sullo stato che costituivano l’antico sistema metafisico di indagine storica e dall’altro è necessario formulare dottrine scientifiche ossia basate sui fatti. I sistemi metafisici erano per Mosca il socialismo e la democrazia. Riguardo il socialismo non dubitava della validità degli ideali socialisti di giustizia e egualità, ma li riteneva utopici di fronte all’egoismo umano. Riguardo la democrazia, riteneva che un governo della maggioranza non

20 ibidem

21 Bobbio – Scienza politica Dizionario di politica Milano tea 1990

22 Bobbio – Mosca e la scienza politica – Bari Laterza 1996

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fosse mai esistito né che fosse possibile, per tal motivo criticò l’ampliamento del suffragio universale del 1882 e del 1912. Mosca riteneva che la mancanza di una vera scienza politica, cosi come egli la riteneva, era stata determinata dal fatto che le verità scientifiche risultano meno affascinanti dei miti, delle ideologie, delle pseudo-verità che sanno suscitare nelle masse l’entusiasmo e il consenso di cui i politici hanno bisogno per governare. In effetti, i governanti legittimano il loro potere con formule politiche, con principi extra-scientifici che stimolano l’azione degli uomini. Al riguardo Mosca scrive: “É certo che tutte le dottrine religiose e politiche che hanno cambiato la storia del mondo e sono stati fattori potenti di coesione o di disgregazione sociale, che hanno contribuito al progresso o alla decadenza di tanti organismi sociali, non sono state fondate sulla verità scientifica. La causa vera del loro trionfo o della loro rapida diffusione bisogna piuttosto cercarla nell’attitudine che hanno avuto a soddisfare certe tendenze intellettuali e morali delle masse”(23). Da qui l’esigenza di formare una valida classe politica, capace di riconoscere l’intelligenza, la capacità ed il merito. Uno dei mali della società era il poco conto in cui negli organismi politici era tenuta la competenza. Fra le due classi dei ricchi e dei poveri in antagonismo, Mosca voleva affermare la classe intellettuale il cui compito era quello di scansare gli urti violenti e favorire, viceversa, “quei lenti e graduali miglioramenti dell'organismo sociale, che sono finora quasi i soli che abbiano saputo durare, e che ordinariamente non si risolvono nell’orgia di un giorno, in effimere apparenze o in

23 Mosca – Ciò che la storia potrebbe insegnare. Milano Giuffre 1958

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bolle di sapone” (24) . “La politica scientifica sarebbe stata l’effetto naturale di una trasformazione sociale, in seguito alla quale la classe dirigente si sarebbe rinnovata arricchendosi di individui meno proni ai miti politici, più disposti a seguire la disciplina della ragione. A classe politica nuova, politica nuova” (25). Alla teoria della classe politica Mosca dedicò tutta la sua vita. Diversamente da Pareto, preferisce tale dizione in luogo di élite in quanto il termine non implica un giudizio positivo sulle qualità di coloro che appartengono a questa classe (26). I principali aspetti concernenti lo studio della classe politica sono: la composizione e formazione, l’estensione, il rinnovamento o ricambio e l’organizzazione ed i modi di esercizio del potere. Riguardo la composizione e formazione Mosca sosteneva che la classe politica doveva avere una superiorità intellettuale o morale, tali da distinguersi dalla massa governata per certe qualità, in altre parole, devono avere qualche requisito, vero o apparente, che sia riconosciuto ed apprezzato da tutti. In subordine, tra le qualità caratteristiche di una classe politica, considera anche l’intelligenza e la cultura ma a condizione che ci si trovi in uno stadio avanzato di civiltà e che “le applicazioni pratiche che se ne possono trarre siano a vantaggio del pubblico” (27). Alla classe politica si può appartenere anche per nascita o eredità, in questo caso Mosca pur escludendo la possibilità che, chi

24 Bobbio Mosca e la scienza politica – bari laterza 1996 pag 175

25 ibidem pag. 176

26 N. Bobbio – Mosca e la teoria della classe politica in saggi sulla scienza politica in Italia

27 Pastori Paolo “Da Atene a Napoli, via Marburgo-Treviri” – Trepuzzi – Lecce - 2002

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nasce nella classe dominante possieda solo per questo qualità superiori, ammette che i membri di un’aristocrazia possiedano in maggior misura certe qualità proprie delle classi dominanti. In ogni caso Mosca non privilegia affatto l’aristocrazia ereditaria atteso che al privilegio della nascita oppone quello del merito. Riguardo l’estensione, Mosca ha un concetto minoritario della classe politica tant’è che la definisce minoranza governante. L’estensione di tale minoranza dipende da vari fattori per esempio l’esistenza di più classi politiche in concorrenza. Ma ciò che Mosca rilevò è che lo sviluppo sociale e l’allargamento della macchina di governo, aveva reso insufficiente le dimensioni ristrette della classe politica per cui si era affermata una classe ausiliaria della classe politica, definibile come secondo strato della classe dirigente, ossia la classe media definita anche “la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche. Nei regimi autocratici primitivi questo secondo strato è formato dai sacerdoti e dai guerrieri, nei regimi autocratici organizzati è costituito dalla burocrazia e nei regimi rappresentativi questa classe media si identifica nel corpo elettorale” (28). Sulla questione del ricambio emerge l’animo conservatore nel senso che, pur non rifiutando il ricambio, non amava le scosse troppo violente, lo voleva graduale e con precisi limiti sia all’avvento del regime di massa che all’estensione dei diritti politici alla plebe. Proprio l’estensione del suffragio universale avrebbe comportato lo scadimento della classe politica visto che Mosca considerava la plebe credulona ignorante e corruttibile. Al riguardo, scrive “Ogni classe politica vive nel tempo, per una durata più o meno lunga. I

28 ibidem

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procedimenti normali attraverso cui si perpetua e si rinnova (si può perpetuare senza rinnovarsi, perpetuarsi rinnovandosi, rinnovarsi puramente e semplicemente) sono l’eredità, l’elezione e la cooptazione” (29). Con riferimento all’eredità Mosca rileva due tendenze che la caratterizzano: - tutte le classi hanno la tendenza a diventare di fatto ereditarie tanto che, quando si afferma un certo stato di diritto, si è precedentemente verificato uno stato di fatto. - che ci sono sempre forza nuove che tendono a sostituire le vecchie. Al prevalere della prima tendenza, si ha chiusura la cristallizzazione della classe politica mentre, al prevalere della seconda tendenza si ha il rinnovamento della classe politica. La prima tendenza è aristocratica la seconda è democratica (30). Per Mosca la migliore soluzione è quella in cui si ha un certo equilibrio fra la tendenza aristocratica e quella democratica in quanto, da un lato, considera la necessità che la classe dirigente abbia una certa stabilità e dall’altro ritiene utile una penetrazione di elementi provenienti dalle classi inferiori “purché non avvenisse in forma troppo rapida ed in misura troppo estesa” (31). Per quanto concerne l’organizzazione Mosca intende la “somma dei procedimenti adoperati dagli appartenenti alla classe superiore per mantenere la propria coesione ed esercitare il proprio potere”. Ciò permetteva di distinguere le

29 Gaetano Mosca – Elementi di Scienza politica I pag. 96

30 Gaetano Mosca – Elementi di Scienza politica II

31 Ibidem

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varie forme di stato in base a come le classi politiche esercitavano il potere e, a tal fine, critica la tripartizione aristotelica in quanto trattasi, a suo dire, di una classificazione meramente numerica uno, pochi, molti. Invece considera le quattro forme storiche di governo (stato città, stato burocratico, stato feudale e stato rappresentativo) e li combina con i criteri di ricambio della classe politica ossia, il principio autocratico, in cui l’autorità veniva trasmessa dall’alto, e il principio liberale, in cui viceversa l’autorità veniva delegata dal basso a coloro che stavano in alto. Da questa combinazione enuclea quattro tipi ideali di organizzazione dei sistemi politici: - autocratico - aristocratico, quando la stabilità del potere politico è associata ad un organizzazione che pone l’autorità al culmine della gerarchia; - aristocratico - liberale, quando tale stabilità è unita ad una qualche forma di partecipazione politica; - autocratico - democratico, allorché la tendenza al rinnovamento della classe politica si compie nel quadro di una forte organizzazione gerarchica; - liberale - democratico, nel momento in cui la caduta degli ostacoli che si oppongono all’inclusione degli individui nell’area della classe politica permette forme effettive di partecipazione dei governati alla vita politica. Per Mosca il miglior governo è quello in cui non predomina né un solo principio di organizzazione né una sola tendenza rispetto alla formazione della classe politica, ma quello in cui i due principi (autocratico e liberale) e le due tendenze (aristocratica e liberale) sono, sia pure in diversa misura, presenti e interattive. È appunto il caso del governo misto definito come “luogo di incontro di una pluralità di forze sociali”. Nella trattazione del governo misto Mosca si sofferma sulla separazione strutturale del potere intesa quale

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dottrina che fa riferimento, non ai poteri dello stato strettamente intesi, ma a tutte le specie di poteri operanti in una società organizzata, quali il potere religioso, economico e politico, sostenendo quattro tesi: la prima, la separazione del potere laico da quello ecclesiastico per cui l’autorità temporale non deve avere nulla di sacro e di immutabile; la seconda, separazione del potere politico da quello economico, scrivendo al riguardo: “Non vi è invero chi non sappia che una delle cause più importanti della decadenza del Parlamentarismo sia la grande quantità di impieghi, di appalti di lavori pubblici e di altri favori d’indole economica che i governanti possono distribuire o ad individui o a collettività di persone” (32); la terza, la subordinazione del potere militare a quello politico; la quarta, l’apertura dell’ascesa sociale al merito e alla capacità comprovate. I motivi per cui Mosca preferisce il governo misto si riscontrano nel contemperamento delle forze sociali che in questa forma si controllano a vicenda, si ritrovano in un equilibrio tale da garantire un principio generale di giustizia ed infine la garanzia di una maggiore stabilità e durata rispetto alle altre forme di governo. In sintesi, per Mosca la classe politica coincide con quella ristretta cerchia di persone cui spetta, in ogni società, il potere politico, cioè il potere di imporre decisioni vincolanti per tutti i membri del gruppo. Con la sua teoria ha cercato di spiegare il fenomeno indicando l’insieme dei principi astratti che garantiscono il potere alla classe politica ed individuando nella ideologia l’elemento cardine per giustificare il potere

32 G. Mosca Elementi di scienza politica I pag. 188

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dei governanti e che garantisce la coesione sociale. Inoltre, pone l’accento sulla circostanza che la minoranza dirigente trae la propria forza, e si impone alla maggioranza diretta, in virtù della sua organizzazione; “intendendo per organizzazione sia l’insieme dei rapporti d’interesse che inducono i membri della classe politica a coalizzarsi tra loro e a costituirsi in gruppo omogeneo e solidale contro la più numerosa ma divisa, inarticolata, dispersa, disgregata, classe diretta, sia l’apparato e la macchina statale di cui la classe politica si serve come strumento per la realizzazione dei propri fini” (33)

5. Robert Michels e la legge ferrea dell’oligarchia.

Con Robert Michels si giunge a trattare la teoria delle élites con un approccio di tipo organizzativo nel senso che postula l’esistenza di una élite e la sua posizione dominante basata sulla propria capacità organizzativa. I suoi studi si concentrano soprattutto sui partiti politici e sulla loro organizzazione, in particolare quello del partito socialdemocratico tedesco. Nell’opera “Sociologia del partito politico”, espone la sua “legge ferrea dell’oligarchia” intesa quale legge dell’autoriproduzione del dominio da parte di poche persone in un gruppo più ampio. Anche nei partiti politici, che teoricamente sarebbe la massa degli iscritti a dover controllare la leadership e le dinamiche di reclutamento, il potere reale viene esercitato da una minoranza. Nella formulazione completa della legge ferrea dell’oligarchia si legge "chi dice democrazia dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi

33 Bobbio Pasquino – Teoria delle élite – Dizionario di politica pag. 350

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dice democrazia dice oligarchia". Da ciò si può estrapolare il nesso del pensiero di Michels nel senso che da un lato sostiene la possibile degenerazione di ogni organizzazione o partito politico in oligarchia, dall’altro che all’interno di ogni democrazia c’è un’organizzazione che presuppone un ordine gerarchico e quindi una leadership o gruppo dirigente che fa sì che ogni democrazia abbia una intrinseca tendenza all’oligarchia. Egli tende a dimostrare che la stessa organizzazione finisce per consolidare il gruppo dirigente e può diventare la causa principale della sua trasformazione da leadership in oligarchia. Michels individua tre livelli di azione dei dirigenti: la sociologia della leadership, la leadership di partito e l’oligarchia. In particolare, sulla sociologia della leadership di partito, sostiene che il partito è un organo di rappresentanza politica all’interno del quale i membri sono considerati uguali, ma che, al tempo stesso, presenta una organizzazione gerarchica, e ogni organizzazione presenta un élite che influenza i comportamenti dei propri associati. La formazione di un’élite è perciò, secondo Michels, un presupposto che ogni organizzazione deve affrontare. Per confermare le sue tesi, Michels studiò le dinamiche interne al Partito socialdemocratico tedesco di inizio novecento giungendo a quattro tipi di prove empiriche. Prima prova: la democrazia presuppone un qualche tipo di organizzazione. Seconda prova: la consistenza numerica delle organizzazioni politiche porta necessariamente ad una “struttura di potere”, formata da governanti (minoranza) e governati (maggioranza). Terza prova: l’organizzazione necessita di “burocratizzazione e centralizzazione”, a cui consegue la formazione di una leadership “professionale e stabile” staccata dai “governati”. Quarta prova: la trova nei

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fattori psicologici, sia collettivi che individuali. Per i primi la popolazione necessita di essere comandata e tende generalmente a venerare i capi, mentre i fattori individuali si riferiscono a chi concorre per il potere: per riuscire a detenerlo, costoro mettono in gioco la loro astuzia e la loro intelligenza. All’interno degli stessi partiti, Michels, individua due soggetti, gli eletti, che godono della fiducia dell’elettorato, e i burocrati. “Con l’andar del tempo, questi soggetti acquistano uno status, derivante dal valore delle loro competenze acquisite, che li rende indispensabili al partito, un’indispensabilità che spesso e volentieri si traduce in vera e propria inamovibilità, principio anch’esso in aperta contraddizione con le linee fondamentali della dottrina democratica. I capi, di fatto, sono del tutto inaccessibili alla massa da un punto di vista sia intellettuale che tecnico, e dalla loro inaccessibilità ne deriva una sostanziale incontrollabilità da parte di quelle stesse masse di cui ognuno di essi si dichiara “l’esponente teorico”. Qualora le masse decidessero di rivoltarsi si troverebbero senza “capo”, impreparate a fronteggiare i compiti richiesti dalla complessa vita politica moderna. “Il più forte diritto dei duci consiste nel fatto che essi sono indispensabili” (34). L’indispensabilità dei rappresentanti di partito, al tempo stesso, farà sì che essi si trasformino in padroni ovvero, in oligarchi che perseguiranno due generi di obiettivi: o la ricerca degli interessi dell’organizzazione col fine però di prolungare il proprio potere – (élite lungimirante), oppure di quelli prettamente personali (formazione della casta). Il partito, avendo al suo interno un’oligarchia coesa in ragione del potere ottenuto, non avrà più la configurazione di un

34 Estratto da “Rileggendo Michels dall’oligarghia alla casta” - http://www.politicamagazine.info/

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mezzo attraverso il quale raggiungere obiettivi sociali riguardanti l’elettorato, ma diverrà semplicemente fine a sé stesso, col traguardo primario di «accrescimento e perpetuazione del potere dei dirigenti» (Sola). Questi ultimi – secondo Michels – formeranno una vera oligarchia anche in ragione della modalità di elezione dei nuovi dirigenti in sostituzione dei vecchi: la tendenza generale è quella a ricorrere alla cooptazione di nuovi gruppi senza specifica identità - dando ai loro dirigenti posti onorifici ma senza effettivo potere - piuttosto che all’elezione diretta da parte del popolo. Se per altri autori elitisti, dunque, può parlarsi di “circolazione” delle élites, in Michels si verifica una “fusione” delle stesse. Questo porta a due conseguenze sostanziali: da una parte si avrà un distacco tra i leaders cooptati e la loro base; dall’altra essi parteciperanno ai lavori decisionali con quelli che un tempo erano i loro avversarsi politici. Ma il rapporto del partito con le masse rimane comunque di cruciale importanza, soprattutto nel contesto delle democrazie di massa, in cui l’organizzazione politica deve tener conto degli interessi e delle richieste della popolazione per ottenere appoggio, finanziamenti e, soprattutto, voti per vincere le elezioni. Ad orientare il partito saranno allora i dirigenti i quali, rispetto alla massa, hanno il vantaggio di essere maggiormente competenti e di non avere quell’apatia per gli affari politici propria invece della maggioranza della popolazione. Questa condizione, pressoché costante, porterà le masse ad assoggettarsi ai leaders di partito, i quali, come visto, assumeranno e tenteranno di detenere sempre maggior potere. Al riguardo Michels scrive: “..quanto più si estende e si ramifica l’apparato ufficiale del partito, cioè quanto maggiore è il numero dei membri, quanto più si riempiono le sue casse,

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quanto più aumenta la stampa di partito, tanto più si riduce il potere popolare sostituito dall’onnipotenza dei comitati e delle commissioni (..) Gli ex lavoratori si appropriano di una routine che li fa ascendere sempre più al di sopra dei loro mandanti, così che infine perdono il senso di comunità con la classe che li ha espressi; ne deriva una vera differenza di classe tra i capi ex proletari e i gregari proletari (..) Con una sostituzione dei fini originari l’organizzazione diventa da mezzo scopo e infine scopo assoluto”.

6. Politica e partiti politici

Per illustrare la nozione del termine “Politica” ripercorriamo brevemente gli studi di Giovanni Sartori servendoci tanto della nomenclatura di origine greca quanto quella di origine latina, tra le parole che derivano da “Polis” e le parole che derivano da “Civitas”(35). Nella derivazione greca del termine, politica ed umanità coincidevano, secondo Aristotele, l’uomo è un animale politico, uno zoon politikòn, nel senso che l’uomo si realizza compiutamente perché vive nella polis e perché, viceversa, la polis vive in lui. “Dicendo animale politico” Aristotele esprimeva la concezione greca della vita. Una concezione che faceva della polis l’unità costitutiva e la dimensione compiuta dell’esistenza. Pertanto nel vivere “politico”, e nella politicità, i greci vedevano il tutto e l’essenza della vita umana. Per converso, l’ “uomo non politico” era un essere difettivo, un “idion”, un essere carente la cui insufficienza stava, appunto, nell’aver perduto, o nel non aver acquisito, la dimensione e la pienezza

35 G. Sartori - La Scienza politica in Dizionario di politica diretto da N. Bobbio

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della simbiosi con la propria polis (36). Nel passaggio dalla dizione greca di politica - polis, alla traduzione latina ed al suo ulteriore sviluppo medievale, la nozione di “civitas” include qualcosa di verticale, di sovraordinato come, l’ordinamento giuridico, la società, lo Stato, che non c’era nella nozione di polis, essenzialmente orizzontale, là dove i rapporti sono sempre tra individui e gruppi sociali, e mai tra questi ed entità istituzionali. Sartori sottolinea come il termine “politica” ha subito nel tempo una dilatazione e diversificazione di significati. Si passa dalla politica di Platone e Aristotele intesa in maniera congiunta e indissolubile all’etica, alla connotazione giuridica della Civitas romana, caratterizzata dalla trasformazione di etica in morale. Al riguardo, Sartori, pone l’accento sulla duplice realtà della “civitas”, la “civilis societas” e la “iuris societas”. Nella “civilis societas”, l’elemento primario è riferibile al rapporto sociale fra categorie di cittadini differenziate per composizione cetuale e per funzioni, mentre, nella “iuris societas” predomina ora il fattore privatistico delle distinzioni incentrate su un sistema di diritti e doveri fra individui presi come singole persone, i cui interessi e doveri sono contrapposti più che accomunati nei doveri verso la città, ora un fattore pubblicistico, che considera le istituzioni e non gli individui ed i gruppi, garantendo la generalità e non le individualità concrete (37). Solo a partire da Machiavelli la politica si pone come diversa dalla morale e dalla religione. “Machiavelli non dichiara soltanto la diversità della politica dalla morale, approda anche ad una vigorosa affermazione di autonomia: la politica

36 Ibidem pag 739

37 G. Sartori Elementi di teoria politica – Bologna Il mulino 1987

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ha le sue leggi, leggi che il politico deve applicare” (38). Il suo pensiero sull’onnipotenza del legislatore non lo porta comunque ad una dottrina generale sull’assolutismo politico come fece più tardi Hobbes. Machiavelli distingue due tipi di stato, La Repubblica in cui assume rilievo l’autorità del popolo e il Principato caratterizzato dall’unità di comando nelle mani di un solo individuo, “Il Principe”. Nella sua opera, “Il Principe”, cerca di individuare le qualità che questi deve avere per non essere disprezzato dai sudditi individuando le cd virtù machiavelliche; egli deve essere un uomo superiore, dotato di intuito, intelligenza, risolutezza, coraggio, spregiudicatezza, deve avere l’astuzia della volpe e la forza del leone, deve essere buono ma anche cattivo poiché deve badare ad essere temuto più che amato, per non cedere alle passioni. Per Hobbes la politica presuppone un iniziale riferimento al diritto o alla legge di natura la quale vieta all’uomo di fare ciò che è contrario alla conservazione della vita e gli ingiunge di compiere, invece, quelle azioni che la garantiscono. Gli uomini, secondo Hobbes, perseguono istintivamente la propria conservazione e per sottrarsi alla violenza senza limite che regna nello stato di natura, essi stipulano un accordo, il cd contratto sociale, grazie al quale tutti i diritti individuali vengono trasferiti allo Stato, definito un corpo artificiale e simboleggiato dal Leviatano. In seguito a questa cessione totale, che rappresenta la condizione necessaria della convivenza civile, la pace diviene fine ultimo della convivenza politica e il potere sovrano è assoluto per garantire la conservazione dello Stato e per mantenere la pace. Nel Leviatano Thomas Hobbes deduceva il “more geometrico” come regole arbitrarie e convenzionali, le verità

38 Sartori – La scienza politica

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della politica create arbitrariamente dal politico. Se il Principe di Machiavelli governava accettando le regole della politica, il Leviatano di Hobbes governava creandole, stabilendo che cosa la politica sia. Se Machiavelli vedeva nella religione un sostegno alla politica, Hobbes affidava al suo sovrano il controllo della religione (39). Come si può evincere non è semplice inquadrare in modo soddisfacente e completo il termine politica, ma risulta comprensibile sia la dimensione orizzontale del concetto, il “bene comune”, sia quella verticale, “la strutturazione gerarchica dei rapporti di potere”. Oggi per politica intendiamo sia l’insieme delle attività che hanno in qualche modo la polis, cioè lo stato, come loro fine o loro oggetto, che le attività che, più specificamente, sono in qualche modo connesse con la conquista o l’esercizio del potere che, essendo proprio di coloro che hanno o lottano per avere il dominio sull’apparato statale, si chiama politico. In ogni società c’è un potere ultimo, cioè un potere in cui tutti gli altri poteri sono sottoposti, in quanto si avvale, esso solo, della forza, se pure come estrema ratio per ottenere ubbidienza: questo è il potere politico. Per politica, quindi, si può intendere ogni forma di attività che abbia per fine la conquista o l’esercizio del potere politico. Soggetti di questa attività possono essere tanto gli organi dello Stato, quanto gli Stati stessi. Tanto individui investiti di autorità nello Stato quanto gruppi o associazioni impegnati nella lotta per il potere. Il partito politico è considerato dalla dottrina ufficiale come la struttura organizzativa che incarna gli interessi della maggioranza numerica della popolazione e costituisce un’avanguardia delle masse che guida verso precisi

39 ibidem

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traguardi. Come avanguardia il partito è necessariamente formato da una élite. Per Max Weber, il partito è una “associazione fondata su una adesione libera, costituita al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale e ai propri militanti attivi possibilità per il perseguimento di fini oggettivi, vantaggi personali o tutti e due gli scopi”. Per Giovanni Sartori, il partito è «qualsiasi gruppo organizzato che si presenta alle elezioni ed è in grado di collocare candidati alle cariche pubbliche» Dal combinato disposto delle succitate definizione si può trarre che la funzione del partito è in primo luogo la conquista del potere attraverso una organizzazione collettiva su base volontaria, organizzata formalmente e strutturata gerarchicamente, costituita al fine di determinare le politiche pubbliche e competere appunto per il potere. Storicamente, la natura associativa del partito politico moderno si è modificata a seconda del tipo di suffragio vigente. Così, in condizione di suffragio fondato su censo o sull’istruzione, il partito in generale sorge e si sviluppa soprattutto nel parlamento (partito parlamentare), mentre in una situazione di suffragio universale il partito tenderà a sorgere e a radicarsi soprattutto nella società civile (partito di massa). Il suffragio universale pose problemi di sopravvivenza ai partiti parlamentari, espressione di minoranze più o meno ristrette, i quali dovettero cercare di collegarsi con il “paese reale” o di trovare un modus vivendi con le maggioranze non parlamentari. Esso pose anche problemi di parlamentarizzazione alle maggioranze che, fino ad allora, erano state escluse dalla possibilità di incidere sui processi politici se non mediante il ricorso alla mobilitazione della piazza e l’espressione più o meno violenta del dissenso sociale e politico.

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Quindi, a partire dall’introduzione del suffragio universale i partiti sono stati caratterizzati, per la maggior parte, da una vocazione maggioritaria, cioè hanno mirato a diventare, in modi diversi, partiti di massa. E da questo punto di vista sono avuti almeno tre tipi di partiti di massa, che possono essere chiamati il “partito d’elezione”, il “partito d’organizzazione” e il “partito di mobilitazione”. Esempi classici del “partito d’elezione” sono stati nel secolo scorso il Partito Liberale inglese e il Partito Conservatore o, nel nostro secolo, il Partito Repubblicano e il Partito Democratico degli Stati Uniti. La struttura organizzativa in questo tipo di partito si basa soprattutto sull’apporto dei volontari e il finanziamento del partito è finalizzato più alla campagna elettorale che al funzionamento quotidiano dell’organizzazione. Un tempo, negli Stati Uniti, il partito che vinceva le elezioni occupava, con gli incarichi politici, anche una parte delle posizioni di vertice nell’amministrazione pubblica ma, in seguito, questa consuetudine venne ridimensionata a causa della discontinuità che generava nella conduzione amministrativa e a causa della corruzione cui poteva dar luogo poiché collegava le cariche ai vari livelli al potere personale del capopartito. Il “partito d’organizzazione” ha trovato il suo modello nella socialdemocrazia tedesca e in generale nei partiti operai di orientamento socialdemocratico precedenti il partito di tipo leninista. Questo genere di partito si fonda su un organizzazione capillare insediata nella popolazione attraverso strutture che, direttamente o indirettamente, amministrano gli interessi di una mole ingente di iscritti, in massima parte appartenenti alla classe operaia e a quella medio bassa. In questi partiti l’elemento associativo di base finiva spesso con l’essere assorbito dalla pratica amministrativa quotidiana, mentre prendeva corpo un

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apparato burocratico che tendeva a ridurre a pura formalità la delega assembleare e il rinnovamento dei quadri dirigenti, data la loro inamovibilità di fatto. Da qui il fenomeno della rigidezza della gerarchia organizzativa e della perpetuazione di un gruppo ristretto in posizioni di potere. I caratteri distintivi del “partito di mobilitazione” sono stati teorizzati da Lenin e da Gramsci. Si tratta di un partito che, a differenza da quello d’organizzazione, non tende a realizzare il maggior numero di iscritti, ma si tratta di un partito relativamente ristretto di quadri, diretto per la maggior parte da intellettuali e destinato a portare all’esterno, secondo la concezione di Lenin, la coscienza politica socialista tra le masse. Diversamente dai su esposti tipi di partito, i partiti fascisti che conquistarono il potere in Europa negli anni venti e trenta combinarono gli elementi della massa, della mobilitazione e della direzione, in questa concezione e in una prassi paramilitare si ricordano le squadre d’azione in Italia e le SS in Germania. Certo è che l'attività del partito politico è da considerarsi quale strumento per la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche per mezzo delle elezioni politiche. Da ciò ne discerne che una democrazia può definirsi compiuta se è formata da cittadini forti, titolari di diritti che esercitano attraverso la partecipazione politica. Uno dei problemi più grandi dei partiti è quello della democrazia interna, ovverossia la rappresentanza degli iscritti all'interno del partito stesso. Questa caratteristica è spesso sacrificata a favore di un maggiore potere dei vertici del partito. Con le ultime due riforme della legge elettorale si è assistito da un lato ad un ridimensionamento del potere dei cittadini di incidere sulla politica nazionale e, dall’altro, ad una classe politica che, secondo una percezione sempre più diffusa

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nell’opinione pubblica, ha perso di vista il concetto originario e nobile della politica, riducendola ormai a strumento di autoperpetuazione di un ceto oligarchico che utilizza le risorse pubbliche principalmente per mantenere se stesso. In tale contesto i partiti politici, da strumenti generati spontaneamente dalla volontà dei cittadini che intendono servirsene per contribuire a determinare la politica nazionale, ex art. 49 della Costituzione, sono ormai percepiti come centri di potere guidati da oligarchie leaderistiche che spesso assumono un ruolo determinante nelle decisioni politiche. Le ultime elezioni politiche italiane hanno evidenziato alcuni chiari segnali di crisi dei partiti politici. I cittadini hanno confermato la propria insoddisfazione per la politica, non riconoscendo più i partiti politici quali autorevoli e credibili portatori di ideali, istanze ed interessi. A riprova della crisi ormai cronica che stanno vivendo i partiti, si rileva l'emorragia di milioni di voti che sono andati a nuovi soggetti politici e a nuovi movimenti che si propongono all’opinione pubblica con strutture e valori in antitesi rispetto alla classica forma di partito. L’inizio della crisi si può far risalire agli anni 90’ quando una serie di eventi sconvolsero il panorama politico del tempo dando inizio ad uno storico e repentino processo di disgregazione di quel sistema di partiti che aveva garantito lo sviluppo democratico nell’età repubblicana e che sarebbe qui troppo lungo ripercorrere. Il sistema nato dopo tale crisi, giornalisticamente definita “Seconda Repubblica”, non solo ha riproposto i medesimi problemi, ma li ha persino aggravati. La classe politica si è dimostrata incapace di far fronte alle aspettative della collettività, compiendo scelte nell’interesse dei singoli e non dell’interesse comune. La percezione dell’opinione pubblica è che la prima preoccupazione di chi entra nel circuito degli

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eletti non è quella di affrontare i problemi della comunità ma di restare dove si trova. La diffusa illegalità, le continue ruberie, l’utilizzo allegro delle risorse pubbliche hanno determinato pesanti ripercussioni sul consenso e sull'interesse dei cittadini per la politica. La perdita di credibilità sul piano dell’etica pubblica dei partiti tradizionali e la scomparsa delle forze politiche che avevano assicurato per decenni il governo del Paese, hanno favorito il consolidarsi di partiti, coalizioni e leader nuovi che per molti versi erano portatori di valori alternativi rispetto agli schemi consueti con cui si concepivano la politica e le modalità di formazione del consenso democratico. (40) In tale contesto nacquero nuovi soggetti politici attorno ad un leader e non, come di consueto, leader riconosciuti come tali da una comunità politica già esistente ed incardinata attorno alle grandi direttrici ideologiche come era stato per i partiti tradizionali. Inoltre si è assistito all’avanzamento di partiti a marcata impronta regionale che, forti di un cospicuo consenso solo in una determinata area geografica del Paese, si proposero come protagonisti determinanti del governo dell’intera nazione. (41) Le elezioni politiche del 2013 vengono ricordate soprattutto per l’ingresso in Parlamento di un nuovo soggetto politico, il Movimento 5 Stelle. Il M5S è un’esperienza sostanzialmente nuova nel sistema politico e partitico italiano, basata principalmente su internet e sulla possibilità, per gli attivisti, di concordare temi, programmi e candidature tramite la rete. È un movimento portatore di una radicale carica di protesta contro le inadempienze della classe politica che, pur

40 MARTINELLI C. - DPCE, n 3/2015 pp. 903-920 Società editrice Il Mulino

41 ibidem

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rifiutando sdegnosamente la qualifica di “partito”, ha cominciato ad entrare nelle istituzioni per modificarle e controllarle dall’interno, cioè ponendo in atto un’azione che la Costituzione affida proprio al soggetto politico “partito”. È caratterizzato dalla dichiarata volontà di utilizzare strumenti di democrazia diretta, dai programmi che abbandonano qualsiasi tipo di ideologia e che hanno come idea principale l’anti-partitocrazia, con l’obiettivo di portare “semplici cittadini” all’interno delle istituzioni. L’avanzamento delle forze politiche definibili antisistema e populiste, non può essere considerato del tutto casuale o indipendente dal decadimento della classe politica e dallo scadimento del ruolo dei partiti politici non più capaci di guidare l’opinione pubblica. Al riguardo, si rileva che, nel passato, forze sociali che non si riconoscevano negli ideali fondamentali e costituzionali, assunsero la forma di soggetto politico per offrire un’alternativa alle forze integrate nel sistema. Ma la forza delle ideologie dei partiti politici che avevano disegnato l’architettura delle istituzioni delle nostra Repubblica, la capacità della classe politica a dare risposte agli interessi generali in opposizione alle spinte corporative, avevano frenato le forme di protesta riuscendo ad incanalare il consenso politico verso i partiti stessi. In tale contesto il partito politico era considerato lo strumento indispensabile con cui offrire rappresentanza e mediare gli interessi contrapposti nello scontro politico. E lo stesso termine “partito” era rivendicato con orgoglio sia da parte di chi intendeva proporsi come “parte per il tutto”, secondo l’insegnamento di Mortati, sia da chi aveva il più circoscritto obiettivo di rappresentare solo le legittime aspirazioni di una porzione limitata e ben definita della società che altrimenti

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sarebbe stata esclusa dalle tribune parlamentari. (42) “Il problema più evidente di cui oggi soffre il sistema politico italiano non è tanto quello di fronteggiare partiti che si propongono di svilire e snaturare i valori della democrazia costituzionale, quanto quello di ritrovare in capo ai partiti una funzione sociale di rappresentanza, mediazione, e composizione degli interessi e degli ideali, oltre a una funzione istituzionale di razionalizzazione delle decisioni legislative; ovvero ritrovare una capacità di leadership rispetto a ciò che si agita nella società, rinunciando ai facili vantaggi di chi si pone come megafono di istinti e rancori che si muovono nel corpo profondo del Paese” (43).

7. Istruzione e Sviluppo

Un recente rapporto del Censis presentava una situazione sociale nazionale ormai in frantumi e definiva l’Italia "sciapa e malcontenta", come una nazione che non ha più aspirazioni e che si trascina tra "furbizia generalizzata" e "immoralismo diffuso". Negli anni della crisi, che in Italia dura ormai da più di un decennio, abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. Sempre secondo il Censis (44), in Italia "circola troppa accidia, disabitudine al lavoro, crescente evasione fiscale, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa". Ciò causa diseguaglianze sociali, che a loro volta provocano "uno

42 ibidem

43 ibidem

44 47° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2013

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scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti". Nel rapporto si evince come "tre siano le tematiche che spiegano la situazione del Paese. La prima è che l'Italia è sull'orlo dell'abisso, la seconda è che i pericoli maggiori derivano dal grave stato di instabilità e la terza è che non abbiamo una classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro" (45). Senza volere analizzare, in questa sede, ulteriori e purtroppo non positivi dati, bisogna cercare di analizzare quale può essere il ruolo dell’istruzione nel cercare, da una parte, di riattivare lo sviluppo economico e, dall’altra, ricreare forme di partecipazione alla vita politica in grado di garantire un positivo ricambio generazionale e qualitativo nella vita politica. Nel 2015 è stata approvata la legge 107 c.d. “Buona Scuola” che si propone di affrontare alla radice i problemi strutturali della scuola italiana che, a loro volta, si ripercuotono: sulla capacità del sistema paese di competere nello scenario internazionale al livello al quale l’Italia era ormai abituata a competere a partire dall’ultimo dopoguerra; sulla capacità di creare cittadini consapevoli e responsabili delle scelte che il sistema democratico chiede ad ogni singola persona. Sul primo piano vanno sottolineati gli interventi rivolti all’introduzione della formazione obbligatoria per gli insegnanti ed il Piano Nazionale Scuola Digitale con il quale, attraverso massicci investimenti, si cercherà di rendere sempre più aderente la didattica alle nuove esigenze delle giovani generazioni ed ai loro linguaggi e modalità di

45 ibidem

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apprendimento. Va evidenziata altresì l’introduzione dell’alternanza scuola – lavoro in tutti i trienni delle scuole secondarie di secondo grado con l’obiettivo di ridurre la drammatica separazione del mondo dell’istruzione da quello del lavoro e che ha portato l’Italia ad avere dei livelli record nella disoccupazione, soprattutto giovanile. Di particolare rilevanza è l’introduzione, nelle scuole superiori, dell’insegnamento CLIL (Content and Language Integrated Learning) di almeno una disciplina al fine di creare le condizioni per una conoscenza più approfondita delle lingue straniere, strumento indispensabile per riuscire a competere in un mercato del lavoro sempre più esigente e globalizzato e per essere cittadini consapevoli all’interno dell’Unione Europea . Sul secondo piano, oltre che il rafforzamento delle linee di attività tendenti specificamente alla crescita dei valori di cittadinanza attiva, di educazione alla legalità ed a sani stili di vita, la creazione di un sistema scuola più integrato nella società già di per sé è un presidio importantissimo per il mantenimento di un efficiente sistema democratico. Il devastante impatto delle nuove tecnologie dell’informazione, lo strapotere dei c.d. “social network” e la loro pericolosità sociale, basti pensare al fenomeno dell’indottrinamento e della conversione ad estremismi religiosi che teorizzano addirittura la distruzione di intere popolazioni e Stati, di cui sono vittime ormai migliaia e migliaia di giovani, fanno comprendere come azioni per fornire alle nuove generazioni le “difese immunitarie” contro la propagazione del virus dell’ignoranza e dell’intolleranza siano di fondamentale importanza per il mantenimento dei valori fondamentali della nostra società. Ancora oggi riecheggiano come attuali le parola di Gaetano

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Mosca: “In ogni società c’è un numero ristretto di persone che, coalizzate in base a rapporti di interesse, sono omogenee e solidali, traggono la loro forza dal fatto di essere organizzate, contro la più numerosa ma divisa, inarticolata, dispersa, disgregata classe dominata. La macchina statale è lo strumento di cui si serve l’élite politica per realizzare i propri fini” (46). A giudicare da quello che vediamo intorno a noi sembrerebbe che ci siano ben poche speranze per il futuro. Ma è veramente così? É veramente irreversibile il fallimento ed il declino della nostra società? Se si vuole aprire una sfida per il cambiamento reale ed efficace, non si può non comprendere che l’Italia ha bisogno, oggi più che mai, di un profondo ricambio della classe dirigente: è necessario attingere al potenziale, ancora inespresso, dei giovani, senza diritti di prelazione, eredità, parentele, amicizie per un rinnovamento culturale e generazionale su cui fondare l’indispensabile processo di modernizzazione del Paese. Al riguardo Pareto ci ricorda che “quando l’élite non è più in grado di produrre elementi validi per la società decade” (47). Se si vuole che l’Italia recuperi il proprio ruolo sul piano della competizione internazionale occorre creare e aggregare nuove idee, nuove leadership, sia nelle attività economico-imprenditoriali, che in quelle politico-amministrative, nella speranza che si comprenda ed applichi il sempre moderno pensiero del presidente della repubblica francese George Pompidou: “Un uomo di Stato è un politico che dona sé stesso al servizio della nazione. Un politico è un uomo di Stato che

46 N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, cit., p. 340-342

47 G. Sola La teoria delle èlite

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pone la nazione al suo servizio”. É di palese evidenza che questo cambiamento non può fare a meno dell’essenziale apporto di una scuola in grado di essere all’altezza delle sfide della moderna società ed è su questo piano che siamo tutti chiamati a fare la nostra parte affinché il rinnovato interesse che si respira attorno ai temi dell’istruzione possa dare i suoi sperati frutti.

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GAETANO QUAGLIARIELLO Cari amici e colleghi, anzitutto lasciatemi rivolgere un sincero ringraziamento all’on. Giorgio Carta per il gradito invito. È sempre prezioso, e più che mai in questo periodo nel quale i tempi della politica seguono la velocità di un tweet o lo scorrere di una slide, dedicare qualche ora a una riflessione più ampia in merito al quadro politico del nostro Paese. Leggendo il titolo del convegno “Istruzione, sviluppo, crisi delle rappresentanze” mi è parso chiaro in controluce un fil rouge che collega i tre ambiti e che sta alla base della democrazia: la comunità. Comunità, come definita dalla dottrina cristiano-democratica, come elemento centrale che integra e nutre la democrazia e che si contrappone da un lato alla nozione di classe tipica del pensiero socialista e dall’altro a quella di individuo di derivazione illuminista. Per citare un esempio emblematico, ci si può riferire al Tocqueville de “La democrazia in America”, laddove la comunità – sia quella territoriale sia quella che, come associazione, nasce dalla libera unione di più persone –, è intesa come antidoto “liberale” ai processi egualitari, inevitabilmente messi in atto dal processo democratico. Al punto che il pensatore francese scriveva: “Fra le leggi che reggono le società umane, ve n’è una che appare più chiara e precisa di tutte le altre: perché gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che l’arte di associarsi si sviluppi e si perfezioni presso di loro nello stesso rapporto con cui si accresce l’eguaglianza delle condizioni.”

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Per Tocqueville questa è la sola possibilità che l’inevitabile e inarrestabile processo democratico trovi un bilanciamento, evitando di sfociare in dispotismo. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova agenda politica – quella determinata dai problemi inediti che il Terzo Millennio ha portato con sé – e a una profonda, e sempre più pericolosa, crisi di sistema, che ripropone in termini d’urgenza una riflessione sulla società e sul suo (ri)organizzarsi in politica. Oggi ci troviamo non solo in un contesto nel quale sono saltati tutti i lacci che tenevano in equilibrio il nostro sistema istituzionale e, fra loro, i poteri dello Stato, ma ci troviamo anche davanti al tentativo di “neutralizzazione” di tutti gli organi di collegamento e intermediazione tra lo Stato, i cittadini e gli operatori economici. Oggi i corpi intermedi possono esistere, e sperare di perseguire la loro attività di rappresentanza di istanze settoriali, soltanto nella misura in cui si facciano parte attiva nel sostegno alla causa del potere, che in questo momento coincide con la causa del sostegno a una modifica non condivisa delle regole fondamentali della convivenza civile che in quanto tali dovrebbero invece essere sottratte a ogni logica di potere contingente. L'unica comunità riconosciuta dal potere rischia di essere una comunità di plaudenti Avatar. Assistiamo a una chiara strategia di accentramento del potere che si sta perseguendo con pervicacia e spregiudicatezza in ogni ambito, a partire dai tre che voi avete identificato come pilastri di discussone di questa giornata: istruzione, sviluppo e rappresentanza.

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Nell’ambito dell’istruzione, per citare solo l’ultimo degli accadimenti, stiamo assistendo a una operazione che non ha equivalenti nel mondo democratico. Mi riferisco alla vicenda delle cosiddette "cattedre Natta", sostanzialmente il reclutamento di cinquecento professori universitari in deroga alla legge, mediante selezione da parte di commissioni i cui presidenti vengono scelti da Palazzo Chigi. L’ingerenza diretta del potere esecutivo sul reclutamento dei docenti è già di per sé un atto preoccupante, che non casualmente ha suscitato una sollevazione trasversale nel mondo accademico e scientifico. Sotto il profilo della nostra riflessione è tuttavia necessario rilevare anche come, oltre a rappresentare una chiara minaccia per la libertà e l’indipendenza delle istituzioni deputate alla alta formazione dei nostri giovani, una iniziativa del genere rischi di esercitare un effetto distruttivo rispetto alla comunità universitaria, certamente non esente da difetti e limiti, ma tuttavia parte importante del tessuto connettivo del Paese. Rispetto al secondo dei pilastri di discussione, lo sviluppo, non posso esimermi dal soffermarmi brevemente sulla politica economica - e quindi di sviluppo - messa in campo nell’ultimo biennio. Proprio questi sono i giorni in cui la legge di stabilità - oggi più correttamente dovremmo chiamarla legge di bilancio - dovrebbe essere trasmessa al Parlamento. La legge di stabilità, per dirlo con le parole di un grande economista di scuola liberale come Nicola Rossi, è "l'atto più importante per il governo. É la rivelazione, comma dopo comma, della sua identità e della sua visione. É un messaggio, scritto nelle poste di un bilancio, ai partner nel mondo. Un comunicato ai mercati. Un biglietto da visita per gli investitori”.

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Si tratta insomma di un atto fondamentale, che impatta fortemente sulla comunità nazionale e che contribuisce in maniera significativa a qualificare chi lo promuove. Risulta dunque piuttosto avvilente assistere alla proiezione di slides in luogo della produzione di testi normativi; a riunioni dei consigli dei ministri che durano qualche decina di minuti e che terminano con decisioni “gassose” in luogo dei confronti approfonditi e anche serrati che l’importanza della materia e la complessità del momento storico imporrebbero; a misure (per ora solo annunciate) dal chiaro sapore elettoralistico, incerte nei loro contorni e ancora una volta programmate in deficit. Eppure, la necessità di uscire da una crisi che sta durando più di una guerra mondiale dello scorso secolo e che ha inciso in profondità nel nostro tessuto economico e sociale, necessiterebbe di rigore e al contempo di capacità di visione, nell’ottica di quel comunitarismo vitale che ha consentito al nostro Paese di resistere e di rialzarsi nei momenti più difficili della propria storia. Ci sarebbe bisogno di una politica economica solvibile, di una riduzione progressiva e strutturale della pressione fiscale, di un vero taglio della spesa improduttiva e di iniezioni di liquidità nei settori produttivi maggiormente profittevoli e in cui il nostro Paese può tenere testa, in termini di competitività ed eccellenza, alla concorrenza sempre più globale. Da ultimo, rispetto alla crisi della rappresentanza e della politica nel suo complesso, è con rammarico che occorre constatare come una importante occasione sia stata persa. La paralisi che aveva segnato l’avvio di questa tormentata legislatura, la necessità di dare risposta al sentimento di

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disaffezione dei cittadini, una nuova consapevolezza da parte dei partiti, sembravano aver creato i presupposti per un nuovo patto costituente sul quale rinsaldare la coesione nazionale e fondare il terzo tempo della Repubblica. Forze tra loro avversarie avrebbero dovuto riscrivere insieme le regole del gioco, rinnovare al contempo la propria offerta politica aggiornandola alla luce delle sfide inedite del nuovo millennio, per poi tornare a confrontare i rispettivi princìpi fra loro alternativi in un quadro di legittimazione reciproca. Non è questa la sede per ripercorrere le vicissitudini che hanno portato la storia di questa legislatura a “cambiare verso”. Nel quadro di una riflessione sulla comunità, declinata in chiave di formazione, in chiave economica e in chiave politico-istituzionale, non ci si può tuttavia esimere dal rilevare come il percorso che avrebbe dovuto riunire il Paese e rafforzarne la coesione ha finito con il lacerarlo profondamente, al punto tale che si vorrebbe imporre la riscrittura delle regole comuni che disciplinano la convivenza civile in nome della paura e dunque in una prospettiva di assenza di legittimazione. Regole siffatte, sbagliate nel merito e nel metodo in quanto definite in assenza di ascolto, di confronto e di una capacità di visione che vada oltre la necessità di legittimare un potere contingente, non possono che far compiere un passo indietro al nostro Paese e certamente al grado di coesione della comunità nazionale in cui viviamo. Ancor più se, parallelamente a questo, i diversi princìpi vengono espulsi da un agone politico ridotto a mera lotta per la conquista del potere. Insomma: i tre ambiti nei quali si estrinseca la riflessione alla quale oggi siamo stati sollecitati segnalano in maniera esemplare la tendenza sempre più evidente a un processo di

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verticalizzazione estrema delle relazioni e delle strutture poitico-istituzionali e sociali. Laddove invece la crisi che il nostro Paese ancora fatica a lasciarsi alle spalle, e la più ampia crisi dell’Occidente in un quadro geopolitico mondiale in pieno sommovimento, imporrebbero una ritessitura della nostra comunità a partire dalla sua base. Per questo occorrerebbe oggi la capacità di perimetrare tutti insieme un campo, di dare nuova anima alla convivenza civile e anche al confronto fra diversi, di fissare alcune regole comuni e non di archiviarle frettolosamente attraverso qualche spot o decisionismi apparenti che nascondono soltanto arroganza e superficialità. Per questo le parole di Tocqueville appaiono oggi più attuali che mai.

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RAFFAELE PACI Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. (Gramsci, 1919) La crescita e lo sviluppo di sistemi economici e sociali avanzati si basano sempre più sull’accumulazione dei cosiddetti fattori immateriali di produzione: capitale umano, capitale sociale, capitale istituzionale. É questo l’approccio che ci deve guidare se vogliamo favorire lo sviluppo: l’istruzione e le istituzioni rappresentano i due fattori centrali per raggiungere l’obiettivo finale che deve essere la creazione di nuova ricchezza e occupazione e quindi lo sviluppo economico e sociali. Istruzione L’istruzione è il pilastro fondamentale e il motore dello sviluppo per ciascun individuo e per la società nel suo complesso. Gli economisti parlano di capitale umano, inteso non solamente come istruzione e acquisizione di un titolo di studio, ma anche e soprattutto come l’insieme del patrimonio di conoscenze, competenze e abilità che rappresenta il fattore più importante per la crescita dell’economia nel suo complesso. Le diverse componenti del capitale umano contribuiscono ad aumentare lo sviluppo di un territorio perché generano ricadute positive dirette sul mercato del lavoro e favoriscono la mobilità sociale. Inoltre, l’accumulazione del capitale umano contribuisce in modo indiretto allo sviluppo perché favorisce l’innovazione tecnologica, le scoperte, la produzione dei brevetti: sono le persone, le intelligenze, le

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competenze non solo di ricercatori e scienziati, ma anche degli artigiani, dei contadini, dei giovani imprenditori, che, se opportunamente formati, con competenze elevate e adeguate al processo produttivo, creano innovazione tecnologica e contribuiscono in tal modo allo sviluppo. La strategia Europa 2020, la strategia decennale dell'Unione europea per la crescita e l’occupazione, mira al raggiungimento di cinque obiettivi quantitativi da realizzare entro la fine del 2020 che riguardano l’occupazione, la ricerca e lo sviluppo, il clima e l'energia, l'istruzione, l'integrazione sociale e la riduzione della povertà. In tema di istruzione, l’obiettivo è quello della crescita intelligente, attraverso investimenti più efficaci in istruzione, ricerca e innovazione. Su questo fronte la Sardegna fa registrare gravi ritardi, all’interno di un contesto nazionale altrettanto difficile che sottolinea evidenti criticità dell’intero sistema Paese. Se si osservano i dati Eurostat del numero di laureati nella fascia di età tra i 30-34 anni, rispetto all’obiettivo posto dalla Strategia Europa 2020 secondo cui almeno il 40% dei 30-40enni deve avere una istruzione universitaria (o equivalente), si rileva come solo 17 Paesi UE abbiamo raggiunto tale obiettivo nel 2014. La media europea si attesta al 38%. L’Italia è il fanalino di coda (24%) seguita solo dalla Romania. La Sardegna, a sua volta, si colloca in coda alla classifica delle regioni italiane con un indicatore pari al 17% (di cui 22% donne e 13% uomini). Fanno peggio solo Sicilia, Campania e Basilicata. Sempre in riferimento all’anno 2014, se andiamo a vedere i laureati in discipline tecnico scientifiche, anche in questo caso il dato italiano è al di sotto della media europea attestandosi al 19%, molto al di sotto della media europea (39%). La

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Sardegna, con un incremento del valore di questo indicatore rispetto al 2010 di poco più dell’1%, fa registrare una quota di laureati nelle discipline scientifiche di appena il 16%. Un livello così basso di questo indicatore può causare perdita di competitività nel campo dell’alta tecnologia, poiché rende difficile il reclutamento di ricercatori e tecnici di alta qualificazione scientifica da parte delle imprese. In questo ultimo anno la Sardegna sta diventando però molto attrattiva per imprese di alto livello nel settore dell’ICT che vogliono localizzarsi e cercano sempre di più giovani laureati con alte professionalità tecnico scientifiche adeguate alle loro esigenze. Il sistema dell’istruzione superiore e universitaria deve poter garantire la formazione di tali professionalità. Lo sviluppo di un sistema economico e sociale passa anche da qui. Altro fenomeno preoccupante, anch’esso strutturale, è il tasso di abbandono scolastico dei giovani in età 18-24 anni, ovvero che abbandonano gli studi avendo conseguito la sola la licenza media. L’obiettivo fissato dalla Strategia Europa 2020 prevede la riduzione di questo indicatore sotto la soglia del 10%. Questo obiettivo è stato recepito da tutti gli Stati membri dell’UE che hanno definito specifici obiettivi nazionali che variano dal 4% della Croazia al 16% dell’Italia. La Sardegna è ben lontana dal raggiungere l’obiettivo, sia europeo che italiano. L’indicatore regionale si attesta infatti al 24%, il peggiore a livello italiano, secondo solo a quello della Sicilia. A livello europeo siamo al 245° posto su 254 regioni europee. Si tratta di numeri drammatici. Conseguire un titolo di studio non significa solo aver ottenuto un pezzo di carta, rappresenta senza dubbio un traguardo più importante in termini di acquisizione di competenze nei più svariati settori. Avere un ritardo strutturale così forte, rispetto alle altre

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regioni, sia italiane che europee, genera difficoltà enormi nel trovare un posto di lavoro in un contesto che cambia molto velocemente, che richiede competenze sempre più diversificate, a diversi livelli di specializzazione, dove la concorrenza è sempre più elevata. Con la consapevolezza che quelle appena descritte sono emergenze strutturali della Sardegna e dell’Italia, l’impegno da parte delle istituzioni per affrontare e risolvere questo drammatico problema deve diventare una priorità. Nel programma di governo della Giunta Pigliaru l’analisi delle criticità, gli obiettivi e azioni di governo sono contenute nella strategia che fin da subito ha rappresentato una assoluta priorità: Investire sulle Persone: scuola, università, ricerca e innovazione. Risolvere il problema dell’acquisizione delle competenze di base, combattere gli elevati tassi di abbandono scolastico, le forti diseguaglianze territoriali e le profonde disparità sociali ponendo al centro della soluzione lo sviluppo individuale e il riconoscimento del merito è ciò che stiamo facendo. L’uguaglianza delle opportunità è raggiunta con un’istruzione di qualità senza condizionamenti legati al luogo in cui si è nati, al reddito o al tipo di scuola che si frequenta. Equità ed eccellenza sono intese come inscindibili, come accade nelle regioni italiane che hanno un numero maggiore di studenti nella fascia di eccellenza che, non a caso, coincidono con quelle che si impegnano a non lasciare indietro gli studenti in difficoltà, riuscendo a ridurre il numero di giovani sotto la soglia minima di conoscenze-competenze. Una società è perdente se non affronta il problema delle pari opportunità e dell’acquisizione delle competenze di base, le esigenze di riqualificazione continua della propria forza lavoro e non attua interventi efficaci che

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aiutino le persone a far fronte a cambiamenti rapidi, riducano i periodi di disoccupazione e agevolino la transizione verso nuovi posti di lavoro. Progetto Iscol@ È con l’ambizioso Progetto Iscol@ che la Regione Sardegna intende garantire a tutti una istruzione di qualità senza condizionamenti legati al luogo in cui si è nati e al reddito della famiglia, ridurre la dispersione scolastica, incrementare il grado di istruzione della popolazione. L’obiettivo è partire tutti dalle stesse condizioni, ridurre o azzerare il gap prima di tutto territoriale tra le aree centrali e periferiche della nostra regione, cancellare tutte le discriminazioni che non garantiscono il diritto allo studio alla popolazione in età scolare. Il progetto Iscol@ propone dei modelli di innovazione tecnologica nella scuola per garantire scuole di qualità. Dal punto di vista della politica regionale avviare un programma di innovazione digitale nella scuola significa creare le condizioni perché l’innovazione sia accessibile, questo non solo con riferimento alle dotazioni infrastrutturali, ma anche attraverso la formazione dei docenti, la creazioni di reti per la diffusione delle pratiche, l’avvio di attività laboratoriali. Significa, cioè consegnare al mondo della scuola, e in particolare ai docenti, un insieme di strumenti per una didattica innovativa. Il programma Iscol@ è complesso e articolato in diversi interventi: connettività delle scuole: dotazione di infrastrutture interne (cablaggio e dispositivi di accesso alla rete wifi); installazione di kit di lavagne interattive multimediali (LIM) corredati da apparati di collegamento wireless (access point); connessioni internet adeguate con una rete a banda larga e ultralarga;

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scuole aperte: miglioramento della qualità dell’offerta formativa extracurricolare attraverso forme innovative di didattica di tipo laboratoriale; elaborazione di un catalogo di laboratori extracurriculari innovativi (realtà aumentata, stampa 3D, IoT, georeferenziazione, coding, apps) e apertura delle scuole in orario pomeridiano; formazione dei docenti: progetto Master Teacher formazione su tecnologia e approcci metodologici innovativi; sperimentazione didattica e creazione di contenuti digitali: innovazione dei metodi di insegnamento attraverso la produzione di contenuti digitali e la costruzione di nuovi ambienti di apprendimento basati sull’uso dell’ICT; acquisto di notebook e tablet: con voucher a favore degli studenti a basso reddito; edilizia scolastica: interventi di manutenzione straordinaria su oltre l’80% delle scuole sarde con 848 cantieri aperti. Ci vorranno anni per raggiungere i risultati prefissati, ma fin da subito è importante invertire una tendenza e lavorare innanzi tutto per i luoghi dell’istruzione. Come avviene nel resto del mondo le scuole devono diventare un luogo dove i ragazzi trascorrono gran parte della loro giornata, non solo per l’attività didattica ma anche per le attività extrascolari (sport, musica, attività creative in genere, attività laboratoriale). Devono essere luoghi dove possono utilizzare infrastrutture digitali innovative, sperimentare, interagire con i propri insegnanti opportunamente formati all’utilizzo delle nuove tecnologie. Per queste nuove generazioni che vengono definite digital natives e always connected deve cambiare il modello di istruzione perché l’accesso alle informazioni è ormai pressoché illimitato ed è importante che venga insegnato loro un metodo di utilizzo adeguato. Istituzioni Un secondo fattore essenziale per lo sviluppo è la presenza di

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istituzioni di qualità che siano efficienti, rapide, semplici nella attuazione delle politiche, nella regolamentazione delle attività di cittadini e imprese. Una burocrazia scarsamente orientata ai bisogni dei cittadini e delle imprese aumenta i rischi e aggrava i costi di qualsiasi iniziativa economica rappresentando un freno alla crescita e alla coesione sociale. Per questo il tema della qualità istituzionale è strettamente correlato alla competitività e alla capacità del sistema di garantire il benessere e la coesione sociale di una comunità. Ed è per questo che le istituzioni devono essere adeguate ai cambiamenti della società. Bisogna avere il coraggio, dopo decenni, di cambiare le istituzioni, compresa la carta costituzionale, per rendere anche il processo legislativo più rapido ed efficiente. Una buona regolazione, non inutilmente invasiva, procedimenti amministrativi semplici e rapidi, un’amministrazione capace di assicurare il rispetto delle regole e la qualità dei servizi pubblici, senza eccesso di oneri per i cittadini e le imprese, costituiscono un fattore decisivo per lo sviluppo. Senza un’elevata qualità istituzionale le politiche pubbliche non funzionano: non si risolvono i problemi infrastrutturali e il potenziale delle imprese non si esprime pienamente a causa degli oneri regolamentari e delle procedure burocratiche superflue ed inefficienti. Le istituzioni sono importanti ed è essenziale che siano efficienti per poter garantire sviluppo. Se questo non avviene, le risorse pubbliche si sprecano perché vengono usate per colmare le inefficienze a discapito delle politiche attive per il lavoro, per l’istruzione, per le imprese, ecc. Se la pubblica amministrazione non sa definire le priorità, spreca risorse, ha costi unitari troppo alti, sta togliendo risorse ai cittadini a causa di un conseguente incremento della tassazione, non garantendo al contempo servizi di qualità. Un esempio per

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tutti è rappresentato dal disavanzo del sistema sanitario regionale: per colmare 350 mln di disavanzo ci si trova costretti ad impiegare risorse che altrimenti sarebbero destinate alle politiche di sviluppo. Cambiare le istituzioni, renderle più efficienti non è facile ma è essenziale per poter avere sviluppo. Dobbiamo avere istituzioni di qualità che siano in grado di gestire le politiche in modo equo e semplice. Anche la trasparenza e la valutazione delle politiche sono strumenti indispensabili per garantire la qualità istituzionale, con la consapevolezza che non devono essere né un mero adempimento, né un esercizio di facciata, ma lo strumento attraverso cui realizzare una reale “rendicontazione sociale” sull’operato delle istituzioni in carica, per assicurare ai cittadini un quadro aggiornato su quanto si spende, come si spende e quali risultati producono i fondi stanziati. In questa ottica la Giunta Pigliaru ha promosso una legge sulla qualità della regolazione e di semplificazione dei procedimenti amministrativi sulla semplificazione, approvata di recente dal Consiglio Regionale della Sardegna, che persegue obiettivi di semplificazione normativa ed amministrativa in favore dei cittadini e del tessuto imprenditoriale sardo. Il provvedimento agisce lungo 5 assi fondamentali: introduce un sistema aperto di programmazione delle attività di semplificazione (aggiornamento annuale della legge di semplificazione con l’obiettivo di ridurre i costi e gli oneri amministrativi su cittadini e imprese); individua gli strumenti per il miglioramento della qualità della regolazione (strumento taglia leggi con l’abrogazione di 340 leggi risalenti agli anni 1949/1969); stabilisce norme sul procedimento amministrativo in modo da ridurre i tempi di conclusione dei procedimenti;

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istituisce, tra le prime regioni in Italia, lo Sportello unico per le attività produttive e per l'attività edilizia (SUAPE), in modo da attribuire ad un ufficio unico sia le competenze esercitate dallo Sportello unico per le attività produttive (SUAP), sia le competenze relative all'edilizia privata; introduce un primo pacchetto di misure di semplificazione delle procedure amministrative in diversi settori. Sviluppo Dicevo all’inizio del mio intervento che senza una popolazione istruita e senza istituzioni di alta qualità non ci può essere sviluppo e che lo sviluppo deve essere l’obiettivo ultimo di tutte le nostre azioni. Per attuare le politiche di sviluppo le risorse finanziarie ci sono e sono tante. Quasi tre miliardi di fondi europei della programmazione 2014-2020; i tre miliardi del Patto per la Sardegna, firmato nei mesi scorsi con il Presidente Renzi, i 700 milioni del mutuo regionale per le infrastrutture, oltre ai fondi regionali che ogni anno stanziano risorse importanti per la scuola, l’università, la ricerca. La questione centrale è che queste risorse vengano spese al meglio, in tempi rapidi, commisurati alle reali esigenze dei diversi portatori di interesse. Se questo avviene è possibile garantire uno sviluppo equilibrato e inclusivo, che dia le stesse opportunità a tutti, nelle aree centrali e periferiche, costiere e interne, indipendentemente dal reddito e dalla condizione sociale di partenza di ciascun individuo. Lo sviluppo deve essere sostenibile e rispettoso dell’ambiente, una delle nostre ricchezze più preziose, un patrimonio da utilizzare e al contempo da salvaguardare per noi stessi e per le generazioni future, che dia pari opportunità a tutti, che non lasci nessuno indietro. Ci vuole l’unione delle diverse istituzioni, da quelle europee

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e nazionali, a quelle regionali e locali, in collaborazione con la comunità e la società civile. Lo sviluppo basato sul capitale umano e la qualità delle istituzioni richiede lo sforzo di tutti. Su questi temi non devono prevalere gli schieramenti politici, pur nel rispetto delle posizioni reciproche. Questi sono gli obiettivi comuni, che come comunità e classe dirigente dobbiamo darci per lo sviluppo economico e sociale della nostra Isola.

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FRANCESCO PITTIRRA Quando discutiamo del tema oggetto del convegno, non possiamo non iniziare constatando quella che è la situazione delle nostre università nel territorio, i suoi problemi e i suoi limiti di collegamento con lo sviluppo economico e sociale della nostra terra. I dati parlano chiaro: il numero degli iscritti negli ultimi dieci anni è calato a picco, la crisi delle immatricolazioni a livello nazionale ha ridotto significativamente il bacino di utenza degli Atenei, compreso i nostri. La percentuale di laureati è calata drasticamente tra la popolazione giovanile e l'offerta formativa , ha subito anch'essa un taglio significativo. Il diritto allo studio è garantito a singhiozzo, a seconda del colore politico della giunta di turno, e all'atto pratico mai nella sua totalità. Soffriamo parametri scellerati , imposti dai vari Governi nazionali, nella distribuzione statale delle risorse, sia per il funzionamento delle università, che per l'assistenzialismo studentesco, per cui regioni come la nostra, e in generale quelle del sud, sono costrette a competere con altre ben più attrezzate, con notevoli differenze di partenza. Oltretutto manca da fare, per quanto concerne la nostra parte, per garantire in tutto il territorio regionale la piena applicazione del diritto allo studio, così da assicurare a ogni studente la borsa di cui ha diritto, l'alloggio di cui ha diritto, i pasti, l'assistenza sanitaria e i trasporti gratuiti. Recentemente la nostra regione ha finalmente garantito per l'Ateneo Cagliaritano il 100% di studenti idonei e beneficiari di borsa di studio: vorrei sottolineare che questo è un dato positivo per molteplici aspetti, così come per anni ha sostenuto la compagine studentesca: infatti più borse regionali significa,

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l'anno successivo, più soldi dal Miur, dallo Stato, così da garantire anno dopo anno la copertura totale degli studenti “ capaci e meritevoli, ma privi di mezzi”; significa soprattutto evitare, come è successo negli ultimi anni, che 500 matricole, risultate nella graduatoria Ersu idonee ma non beneficiarie, non confermino l'iscrizione all'università, in quanto senza quel contributo economico le famiglie non possono permettersi di pagare gli studi ai propri figli. E da qui che occorre partire per inserire l'università nel territorio, per capire quali vantaggi, quali prospettive possa assicurare al tessuto economico e sociale della nostra terra. Al di là delle problematiche sopra esposte, la sopravvivenza dei nostri Atenei dipenderà in gran parte dalle capacità che essi stessi avranno di innovarsi coerentemente con il contesto territoriale in cui sono iscritti, a partire dall'offerta formativa e dagli insegnamenti dei loro corsi, fino agli indirizzi di ricerca. Questa innovazione di cui parlo non può prescindere dalle peculiarità del territorio. La nostra terra ha delle qualità proprie, conosciute nel mondo: si pensi alle caratteristiche della popolazione in termini di salute e longevità, al patrimonio culturale, a quello ambientale e sopratutto a quello industriale e minerario dismesso, che se oggetto di studi e approfondimenti può garantire al nostro sistema universitario delle specificità tali da potersi distinguere dagli altri, attraendo anche studenti e risorse. É importante che gli Atenei mantengano un'offerta generalista a 360°, ma è altresì fondamentale che in un territorio in crisi sotto molteplici aspetti come il nostro, l'università sia in grado di indirizzare gli studenti verso il mondo del lavoro, capendo, tramite gli studi, tramite la

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ricerca, quali indirizzi potenziare e valorizzare per creare impresa nel nostro territorio, per attrarre investimenti in modo da condurre non solo le università ma l'intera isola verso lo sviluppo sociale, economico, tecnologico di cui ha bisogno. In un sistema in crisi come quello italiano, in relazione al mondo del lavoro, non si può che porre al centro dell'attenzione tali tematiche, non dimenticandosi tuttavia ciò che, relativamente al campo dell'istruzione, e di primaria importanza: abbattere la percentuale di dispersione scolastica a livello nazionale e nella nostra isola, garantendo un percorso di formazione qualificante per il mondo giovanile. Occorre guardare con preoccupazione il dato di questi ultimi anni, non è significativa unicamente la percentuale di popolazione che non studia o che non lavora ma anche e soprattutto quella che non fa nell’uno nell’altro. Dobbiamo saperci porre degli interrogativi e costruire una strada per diminuire i così detti “neet” persone soprattutto di giovane età che non cercano un impiego e non frequentano una scuola né un corso di formazione professionale. Il rapporto dell’OCSE, sulla società ci dice che in Italia son due milioni e mezzo in età compresa fra i 15 e i 29 anni, cioè il 27% della popolazione giovanile. Un dato scioccante, peggio di noi solo la Turchia. Oltre questo il 32% dei neet italiani si trova in questa condizione più si allunga il tempo passato fuori dal sistema formativo o del mercato del lavoro e più complicato risulta il reinserimento di questi giovani. Sempre secondo l’OCSE, questo fenomeno rappresenta per l’Italia una mancata crescita del 1,4% del prodotto interno lordo. Ecco anche perché occorre incrementare le politiche attive sull’istruzione di ogni ordine e grado, in quanto tutti gli studi dimostrano che il fenomeno dei neet è nettamente più diffuso

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tra i giovani con un basso livello di istruzione. Lampanti anche i dati sulla percentuale di prodotto interno lordo che l’Italia spende in istruzione rispetto agli altri paesi europei e non solo. Stando ai dati Eurostat, l’Italia con una spesa pari al 4,4% del PIL, si situa al 21° posto tra i paesi UE, subito dopo la Bulgaria(4,5%). Non può esistere e mai esisterà all’interno di un territorio come il nostro un collegamento efficace tra istruzione e sviluppo se non si parte dall’abbattimento di queste terribili percentuali, tramite politiche che capiscano la priorità per uno stato come l’Italia e per una Regione come la Sardegna di garantire, incentivare e tutelare il diritto allo studio in tutte le sue forme, partendo dalla garanzia di attuare il prima possibile i livelli essenziali delle prestazioni fondamentali per tutto il territorio nazionale, fino alla piena applicazione dell’assistenzialismo studentesco in tutte le regioni, anche con le dovute differenze. In questi tempi tanto si dibatte sulla riforma costituzionale. Certo non è questa l’occasione per discuterne, ma lasciatemelo dire, se nel nostro paese, anziché cambiare continuamente le leggi sulle materie specifiche ( il DSU ne è un esempio puntuale) si facessero funzionare quelle che già abbiamo, compresi i diritti sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, probabilmente le percentuali sopra esposte non le avremo, e saremo sicuramente un paese più al passo con i tempi rispetto a ciò che siamo ora.

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MARIA FRANCESCA TICCA L’intento è quello di esplorare, attraverso il concetto di “bene comune”, che sta al rispetto della persona umana, le contraddizioni e i conflitti della nostra società contemporanea, ed in particolar modo di quella sarda. Perché partire dal “bene comune”? Perché l’obiettivo strategico è la difesa dei diritti fondamentali e quindi irrinunciabili per il processo di trasmissione di conoscenze della persona e dello sviluppo. Ecco perché tra gli obiettivi del XX° secolo quello di elevare al massimo il livello di scolarizzazione “una scuola per tutti” e del XXI° secolo quello di garantire “una scuola di qualità per tutti”. Le risorse umane e il Capitale sociale al centro del progresso socio-economico. L’istruzione, trasmissione di conoscenze che educa alla vita, mette a nudo tutto il grande tema dell’autonomia della persona e della qualità delle relazioni in cui essa è inserita. Tutto ciò tradotto in un sistema di norme, in una intelaiatura concreta di diritti esigibili, significativi, dentro la dialettica sociale. L’attualità del problema sta nel fatto che si è aperto un grande dibattito, etico e politico a ciò che ruota intorno alla persona, tornano ad affiorare antiche contraddizioni che toccano i principi e i valori di fondo su cui regolare la nostra vita, individuale e collettiva, in breve la tradizione come regola di vita, o l’apertura verso nuove possibili forme di vita e di pensiero; tutto è perso dentro questo conflitto diversamente declinato e interpretato. Mi viene spontaneo dire che tutto ciò lo troviamo già scritto nella nostra Costituzione, che ha rappresentato un punto

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fondamentale di sintesi tra le diverse culture politiche, la persona prima di tutto, prima della legge, prima dello Stato, riconosciuto dall’ordinamento giuridico, la Costituzione considera la persona inseparabile dalle sue relazioni sociali. Rispetto a questo c’è oggi un dibattito aperto, una novità nelle posizioni, perché al primato della persona sembrerebbe subentrare il primato delle leggi, forse con l’obiettivo strategico di far prevalere per via politica e statuale, un sistema di norme condizionanti. A questo possibile esito occorre riprendere il filo concettuale della nostra Costituzione, tornare cioè a considerare la persona come un soggetto attivo, dotato di autonomia e responsabilità e una sussidiarietà fondamentale. Il nostro Paese ha ormai intrapreso la strada delle riforme: istituzionali, elettorali, amministrative; un difficile lavoro di ricerca, di confronto, di scontro e di mediazione. I risultati fin qui raggiunti non sono entusiastici nel sistema dell’istruzione e della formazione, certo richiedono aggiustamenti e approfondimenti. È naturale che, un processo non solo italiano, invita a ripensare l’istruzione, riformare i sistemi educativi, nella qualità, accessibilità, finanziamenti, con un processo di riforme, per migliorare i livelli delle competenze in continua evoluzione e i sistemi di istruzione devono evolvere, ma non sembra che i sistemi d’istruzione in Italia e in modo particolare in Sardegna riescano ancora a rispondere alle sfide in atto, nonostante gli investimenti. Fino ad oggi rispetto alle misure dell’Unione Europea di “Ripensare l’Istruzione” la politica fondata su prove concrete, non è riuscita a promuovere l’equità, la coesione sociale la cittadinanza attiva, ma neanche a incoraggiare la creatività e l’innovazione, compreso lo spirito imprenditoriale. E tuttavia il tempo delle riforme è iniziato, difficile, per tutti,

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tornare indietro. Tutti “i sistemi paese”, la collocazione del sistema di competizione, economica e politica da una parte, l’orizzonte Europeo e mondiale dall’altra, impongono riflessioni sull’istruzione e formazione, ma soprattutto sul modello di Stato. È vero che la stabilità di questo è una delle condizioni essenziali per rispondere ai nuovi compiti che presentano complessità e criticità. Rispetto al Progetto di riforme -sull’art. 117 – la individuazione delle competenze dello Stato e quello delle Regioni su alcune novità non si è esitato ad esprimere la nostra preoccupazione, per esempio il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di SCUOLA, SANITÀ, e POLIZIA LOCALE, TRASPORTI. È evidente, che l’idea di produrre dettati su questioni fondamentali come l’istruzione, la cultura e la crescita sociale a livello Regionale è una scelta difficile, a fronte di un processo di integrazione visto, negli anni, a un rafforzarsi giusto e necessario, non abdicando mai come Stato, al valore, all’opportunità di crescita sociale che la scuola, deve rappresentare. Discorso simile per la sanità, si è detto e scritto… che non si potevano delegare le forti competenze politiche di cura e assistenza alla regione… ma questo è stato l’orientamento che ha prevalso. L’Italia per diventare davvero un Paese moderno ha bisogno di una profonda riforma dello Stato Centrale, che deve essere alleggerito di tutti i poteri trasferibili alle Regioni, anche esse riformate, e alle Comunità locali, reso snello e efficiente attraverso la riforma della Pubblica Amministrazione e di un moderno federalismo solidale, dove i cittadini, quale che sia la Regione di residenza, vanno garantiti nei diritti fondamentali di cittadinanza basati sulla consapevolezza che

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la solidarietà verso le Regioni più deboli, non significa solidarietà a senso unico. È necessario che si attenui il dislivello, oggi evidente, fra Regioni più ricche con quelle più povere. L’Italia ha necessità tutta di avere un ruolo stabile in Europa, quindi occorre realizzare, tutti assieme, politiche di sviluppo, di interventi sociali, di sostegno all’istruzione e all’occupazione. In questo momento, la società Sarda ha bisogno di dare voce a quel che sta sperimentando al suo interno, per dare prospettiva di integrazione e sviluppo ad una società oggi disorientata dalla politica e dalla comunicazione. Questo porta: A rimuovere la dinamica sociale, ingabbiandola nell’attualità, nell’affanno a breve, nel pettegolezzo di retroscena, nella grossolanità di rendere tutto spettacolare; a distorcerla ed orientarla attraverso il sondaggio, il dibattito giornalistico per catturare solo l’opinione, che è comunque funzionale più alle vampate emotive che alla conoscenza delle cose. Di fronte a questa parallela rimozione e distorsione della realtà c’è la necessità di sviluppare un’azione politica coerente che recuperi una chiara lettura del presente e della prospettiva e di un impegno chiaro di indirizzo politico e di rappresentanza sociale. È evidente che questo ci divide fra chi si sente autoreferenziale e da chi è impegnato quotidianamente nella società nel diffondere e promuovere il bene comune. Un’idea complessiva di società sembra dignitosamente assente dalla dialettica politica odierna, non si riesce più a fare neppure rappresentazione. Una scelta sociale quindi rimossa, distorta, non interpretata, neppure descritta in termini di rappresentazione collettiva. E non può allora sorprendere che una tale realtà lentamente

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finisca per mettere in moto una duplice, progressiva autonomia: da un lato l’autonomia nei confronti dei caratteri autoreferenziali e spettacolari del dibattito sociopolitico; dall’altro l’autonomia nei confronti anche dei temi che più seriamente attraversano il dibattito sociopolitico, i temi cioè della potenziale ripresa, del potenziale rilancio dello sviluppo. È questa seconda spinta di autonomia che comincia a dimostrarsi prioritaria nell’ultimo periodo, quasi la cultura collettiva avvertisse un bisogno di non farsi imprigionare dalla depressione del potenziale declino. Il Sindacato Confederale, mette in campo la consapevolezza che parlare di autentico sviluppo significa poter misurare nel concreto il miglioramento integrale nella qualità della vita delle persone e dei territori. Per questo, la società si fa sempre più attenta a tematiche come la domanda di sicurezza ambientale, e come la maturazione di una nuova identità Nazionale e Regionale. Di qui la maturazione verso un’etica della responsabilità sempre più relazionale, verso un’etica della responsabilità verso gli altri: i lavoratori, i disoccupati, i diversamente abili, gli stranieri, i componenti la comunità, ed anche verso il funzionamento delle istituzioni e verso la qualità dell’ambiente circostante. Certo una furbizia atavica ci grava ancora addosso, non ci sarebbero ancora tanti abusivismi, tante evasioni fiscali… tanti imbroglioni in giro. Ma le falde della coscienza etica sembrano alimentate più che nel passato. La si sente nella pur emotiva partecipazione alle varie forme di movimenti, e non solo politici, la si sente nella crescita di consapevolezza delle rappresentanze dei consumatori, degli

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stranieri, degli ambientalisti. Anche la nostra evoluzione economica, di ripresa o di sviluppo che possa risultare è legata oggi a una dimensione sempre meno condizionata dai soggetti che hanno caratterizzato gli ultimi anni. Le novità di questo periodo possono determinare una società sarda che vive un suo rilancio più che società destinata a inevitabile declino. Noi sindacato siamo osservatori delle cose per non sapere che molti saranno di opinione diversa, sottolineando quali pericoli di declino ci siano oggi nel fare riforme strutturali, a fare ricerca, innovazione e alta formazione, ad accettare come Sardegna le sfide della globalizzazione e dell’integrazione, a tenere in ordine i conti pubblici e razionalizzando le risorse disponibili. Evidenziamo e rivendichiamo una diversa efficacia dell’azione e dei processi ed un coerente sviluppo dei concreti comportamenti innovativi, senza negare le difficoltà. Il problema non sta in chi ha ragione o torto, ma sta nel fatto che si deve superare la divaricazione di posizioni che porta all’immobilismo nell’azione e produce ritardi inaccettabili rispetto ai bisogni evidenti. Il sindacato risponde ad una esigenza di impegno sui valori delle Riforme e della democrazia nel sociale, nell’istruzione e formazione, nel mondo del lavoro, considera in tutti i suoi aspetti la trasformazione politica e sociale della Sardegna , non semplice. Proprio per questo, è importante che riapra una discussione per riaffermare i valori, della tolleranza, della solidarietà, del rispetto del pensiero altrui, della democrazia partecipata. La storia della Sardegna s’intreccia con speranze, travagli, errori, ma anche con il forte impulso di progresso e le generose lotte per la difesa e l’affermazione della democrazia

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in ogni sua dimensione, la libertà e la giustizia. Lo sviluppo della democrazia e la modernizzazione economica della Sardegna devono essere visti come elemento, fondamentale della sua autonomia. In Sardegna oggi, manca l’idea che smuova le coscienze, che riavvii il dibattito. Bisogna ricominciare ad affrontare i temi che riguardano le persone iniziando da quello della rappresentanza politica e sociale, che abbia i connotati della piena partecipazione, del pluralismo del pensiero e del diritto alla costruzione di una società Sarda più giusta e più rappresentativa di tutte le realtà. Con spazi di partecipazione, per dire ai Sardi che, la politica, è mediazione fra interessi e non il prevalere di una fazione sull’altra. La competizione nella dialettica è essenziale, se si vuole ricominciare a cercare condizioni in cui tutti si sentono rappresentati e possano esternare la loro volontà. La nostra società, oggi, avverte la drammatica mancanza di un’autorità morale, etica, che dia valori di riferimento; la crisi determina l’attenuazione di un confronto concreto e la definizione di percorsi nei quali i cittadini possano leggere chiaramente gli obiettivi non di parte ma generali che portino valori e riferimenti di innovazione e di difesa dei diritti universali. Si riaprano sedi di discussione, dove confrontarsi su un progetto di politica complessiva. Non bisogna aver paura di proporre una società diversa, magari con qualche luce in meno, ma più vera, dove la competizione esiste con regole definite, dove ci si prefigge di tutelare il più debole, evitando l’ esclusione sociale, puntando nello stesso tempo a premiare anche il valore e le capacità del singolo.

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Se il valore di riferimento e il progresso sociale collettivo, prevale un modello solidale che aiuta ad esprimersi creativamente. Le aspettative generate da un nuovo equilibrio politico non giustificano sempre e comunque i tempi e modi di far politica delle forze che in un sono portatrici di idee. La frammentazione Sociale tanto diffusa è il reversibile nella nostra realtà, è mortificata dall'incomprensione e dalle rigidità spesso convergenti del sistema istituzionale, del sistema politico, e del sistema anche delle relazioni sindacali. A capo i diritti civili, le questioni ambientali, le problematiche dei consumatori, le politiche dei prezzi e delle tariffe, le politiche energetiche, le politiche industriali, la ricerca e la formazione sono spesso portati avanti da nuovi movimenti, nuovi soggetti. I diversi interessi anche più piccoli è particolareggiati, vorrebbero avere una forma di rappresentanza e protagonismo proprio. Tutto deve diventare la politica di assieme, per evitare il rischio di frammentare ancora di più le differenze sociali. Un tessuto di rappresentanza collettiva che produca interessi soggettivi in forma unitaria va ricostruito. Ricreati presupposti per parlare alle persone, smuovere apatie, far diventare SOGNI realtà, altrimenti il rischio è quello di chiudersi in se stessi e non partecipare, non rappresentare la società e le sue articolazioni. Alcune considerazioni sul governo regionale, noi organizzazioni sindacali UIL CGIL e CISL, abbiamo chiesto al Governo Regionale di realizzare una politica economica in grado di scommettere sullo sviluppo della Sardegna, solo così è possibile creare occupazione. In Sardegna ci sono meno strade, ferrovie, risorse idriche, industrie di quante invece ce ne sarebbe bisogno.

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Come si può allora parlare di sviluppo, innovazione tecnologica, di competitività se non affrontano e risolvono questi problemi che costituiscono il vero freno alla crescita. Va data vita a una politica economica che sia in grado di ottenere risultati al di là della possibile futura ripresa Italiana e Europea, altrimenti rischiamo di essere emarginati. Il dotarsi di strumenti come: il piano sanitario, il piano urbanistico, progetto Iscola… a poco servono, se la Sardegna è in ginocchio e i giovani riprendono la strada dell'emigrazione. Molte cose si sono fatte, tante altre rimangono aperte; partendo dall'idea che siamo in grado di reggere la nuova sfida e ridisegnare rapporti economici, in grado di ottenere risultati, non perdendo mai di vista però che ci sono in Sardegna sempre più persone che diventano povere sempre più persone che non pagano le tasse e questa realtà non è più accettabile. Tre diversi problemi frenano lo sviluppo, quello che, porta la maggior responsabilità e il bassissimo livello di infrastrutturazione, che non ha eguali in altre parti d'Italia. Senza efficienti reti energetiche, di trasporto, l'attività di impresa è condannata a scontare un divario di produttività, che nessuna politica di incentivi e nessuna riforma del mercato del lavoro e in grado di contrastare. L'inadeguatezza della dotazione infrastrutturale della Sardegna, tanto al suo interno quanto verso l'Italia e l'Europa. Questo dato, decisamente negativo, e tuttavia ancora più impressionante, per il degrado di molte delle infrastrutture esistenti. Si prema l’acceleratore, l'allargamento dell'Unione Europea che sta portando allo spostamento del “baricentro” Europeo a EST, da subito penalizza fortemente la Sardegna che rischia di essere tagliata fuori dalle principali reti europee di

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comunicazione e trasporto. Nell’affrontare il programma di investimenti prioritari integrati e coordinati per ripianare il deficit pregresso di quantità e qualità delle infrastrutture fisiche nel settore idrico e smaltimento dei rifiuti, energetiche e nelle reti di trasporto, ma anche su rapido sviluppo delle infrastrutture immateriali. Gli impegni assunti su alcune infrastrutture, sono importanti, come importante è stato quello sulle entrate. Passi avanti si sono fatti, altri in programma: intervenire sulle situazione idrogeologica della Sardegna che ha bisogno di interventi strutturati a difesa del territorio La situazione disastrata nella gestione di rifiuti, le bonifiche dei siti inquinati, le politiche ambientali. La politica fatica a muoversi all'interno di un panorama Sardo, in cui il tema della disoccupazione, della dispersione scolastica, della povertà si presenta drammatico, con differenti livelli di visibilità nelle zone interne. E proprio la straordinarietà del problema immediato, ad essere ancora largamente sottovalutata Lavoro (piano per il lavoro) Salvaguardia del tessuto industriale esistente Interventi straordinari per le aree depresse. che non registrano avanzamenti decisivi. Solo piccoli interventi tutti ancora caratterizzati da sapori assistenziali. Certo il sindacato è costretto ad accettarli, ma non possiamo confonderli con una politica di sviluppo. In realtà esistono ancora molti squilibri territoriali, sociali ed economici, si vive ancora in molte realtà, una situazione di povertà e di ingiustizia, ed emarginazione sociale. Il sindacato ha attraversato e sta tutt’ora attraversando ricorrenti momenti di crisi. Di identità forse, ma anche di crescita.

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Infatti la società si evolve, il sindacato o trova la forza di adeguare il passo a quello dei tempi in cui viviamo oppure è destinato a perdere terreno, la cultura media si evolve verso visioni più ampie degli orizzonti socio-economici. Idee di democrazia partecipativa riemergono richiedendo più ampia giustizia sociale. È naturale che il sindacato prenda atto dell’evolversi dei tempi e si ponga quale parte attiva, nel tradurre in concreti progetti le reali istanze della propria base che deve condurre un’ azione, all’interno della dialettica sociale, rispettosa degli equilibri indispensabili al progredire di una intera società, con la necessaria attenzione alle continue novità che provengono dal modificarsi delle realtà, dalle influenze che vengono dal resto del mondo. In una visione, economica, politica e sociale di respiro internazionale e sovranazionale, la necessità di adeguare anche in Sardegna un’offerta formativa dei giovani e delle nuove generazioni alle richieste che vengono dalle aspirazioni sociali, dal mondo del lavoro, deve disporre di un sindacato più elastico nell’affrontare velocemente i problemi di adeguamento alle mutevoli necessità poste dalla realtà sociale di cui la scuola deve essere servizio indispensabile e motore di continuo rinnovamento sociale. La scuola in Sardegna ha bisogno di un profondo intervento che ridia nuova energia al corpo insegnante, nuove idee alla dirigenza, nuova organizzazione ai servizi, nuovo peso alle istanze sociali, per dare una più completa ed adeguata preparazione ai giovani, per garantire a tutti il diritto allo studio. Bisogna fare un grande sforzo e costruire negli investimenti in cultura un vero patto sociale. La classe politica capace di ricostruire uno stato sociale, con i diritti minimi garantiti che favoriscono processi atti ad

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ampliare gli investimenti in saperi e conoscenze, favorendo tutte le politiche che siano indirizzate allo sviluppo e creino lavoro, così si possono riscostruire le basi affinché la politica ritorni ad appassionare le coscienze e ridiventi insieme al sindacato, strumento di partecipazione ed emancipazione civile, democratica e sociale.

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MICHELE CARRUS La riflessione sui dati della crescita economica e sulle politiche per l'istruzione, il diritto allo studio e la formazione permanente, che anche oggi viene stimolata dagli interventi dei relatori, ci porta inesorabilmente a considerare lo stretto legame che intercorre tra di essi e gli investimenti pubblici e privati sui fattori essenziali per il nostro sviluppo, investimenti che rappresentano un punto centrale, la chiave fondamentale, direi, per un progresso desiderabile, che miri al benessere diffuso, alla piena realizzazione personale degli individui e alla stessa pacifica e cooperativa affermazione dell’identità collettiva delle nazioni. E ciò risulta verissimo soprattutto per un sistema debole e periferico come quello della nostra regione. Per noi, infatti, questa idea di sviluppo non può che poggiare su due basi: sulla qualità, innanzitutto, la ricerca dell'eccellenza nelle produzioni e negli scambi di beni e servizi e nei processi con cui si fanno, perché se sei in ritardo nel cammino, devi agganciare il treno in corsa dalla parte della locomotiva, altrimenti non farai altro che aggiungere un vagone di coda, malamente connesso al resto del convoglio, nella speranza che non si distacchi del tutto, allontanandosene ancora; e poi deve poggiare sulle sinergie e sull'integrazione tra sistemi locali, che possono realizzarsi attraverso una programmazione unitaria, che vi ricomprenda anche le loro specializzazioni, conseguendo per questa via quella scala competitiva adeguata che ci manca. Riconoscere l'importanza dell'istruzione e della ricerca, dell'innovazione, in questo quadro, va da sé: la cultura e la conoscenza scientifica e tecnologica sono un fattore fondamentale di sviluppo economico e di coesione sociale e

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territoriale.

Invece anche oggi, qui, è emersa la grave contraddizione tra questa consapevolezza, che traspare, purtroppo, dalle sole parole delle nostre autorità di governo, e le scelte effettive che si mettono in campo: continuiamo a investire in R&S meno della metà della media europea, un terzo rispetto ai grandi Paesi Ocse più avanzati (Germania, USA, Giappone), poco più di un solo punto di PIL e quasi per intero composto di risorse pubbliche; lasciamo la nostra scuola in uno stato di sostanziale abbandono a se stessa, esponendola a continui interventi controriformatori - mutevoli e incoerenti come le diverse maggioranze politiche che si susseguono al potere - annichilendone così il prestigio sociale e riducendo notevolmente la stessa capacità formativa del nostro sistema complessivo dell'istruzione: questa, infatti, abbisogna anche di tempi adeguati per esplicare i suoi effetti (poi comunque valutabili), che sono inconciliabili con la precarietà istituzionale cui la scuola è sottoposta, così come nuoce alla qualità formativa il precariato e l'umiliazione del corpo docente. E poi il nostro Governo continua a mantenere o mettere in campo decisioni che non esito a definire discriminatorie e ispirate ad un'idea elitaria del sapere, come appannaggio soltanto di chi possa permetterselo: il dimensionamento della rete scolastica nella nostra Isola, grande, a tratti impervia e sottopopolata, viene effettuato, piuttosto che con la volontà di perseguire obiettivi qualitativi e di coesione, con criteri ragionieristici tarati su contesti territoriali completamente differenti, diversi soprattutto dal punto di vista delle risorse che hanno a disposizione, con ciò discriminando ulteriormente le realtà più deboli anziché sostenerle - e lo dico da persona tendenzialmente favorevole a razionalizzazioni efficaci; oppure con con criteri di assegnazione delle minori

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risorse stanziate per l'istruzione universitaria che, come ci ha ben ricordato oggi il Magnifico Rettore di Cagliari, Prof.ssa Maria del Zompo, premiano le poche sedi storiche più prestigiose e di richiamo, nelle nostre grandi città del centro-nord (anziché magari trovarne di aggiuntive per stimolarle a costruire reti integrate con le sedi minori in campo nazionale) a totale discapito delle Università del Mezzogiorno - e di quelle sarde in particolare - e dei loro studenti residenti che non possano pagarsi costosi soggiorni fuori, costretti perciò ad accontentarsi del poco, sempre meno, che passa il Convento, quando non a rinunciare del tutto allo studio (e infatti abbiamo ancora un bassissima percentuale di laureati under 35, che, ahinoi!, mostra una tendenza a diminuire...). Cos'altro significa infatti istituire un'Agenzia governativa - che in Europa non è riconosciuta in quanto non indipendente (l'ANVUR) - con il compito di attribuirti tanti più punti, e quindi tanti più fondi, quanti più studenti tu attrai dalle altre regioni; quanto più elevato è il tuo grado di internazionalizzazione e quanto più alte sono le tue tasse interne; quanti più corsi tu istituisca (e magari con quanti più visiting prof tu riesca a reclutare) e con quanti più studenti in media per ciascuno di essi; e poi anche quanti meno studenti fuori corso tu abbia iscritti? Cos'altro significa tutto questo, se non istituzionalizzare un dualismo tra Università di serie A e di serie B che è contemporaneamente classista e nordista, un apartheid fondato sul censo e sul territorio?

Come si vede, il nostro non è un Paese che investe sul suo futuro, sui suoi giovani, che invece costringe a fuggire via: con una miopia autolesionistica senza pari crediamo che sia vincente un modello di crescita fondato, da un lato, sulla riduzione del perimetro degli investimenti pubblici e, dall'altro, su una competizione al ribasso che il nostro sistema imprenditoriale insiste a perseguire, illudendosi di

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compensare così i limiti della propria capacità d'innovazione e d'investimento, attraverso la compressione continua di quel che esso considera soltanto un costo anziché un fattore essenziale di successo competitivo, come il lavoro, la sua retribuzione, la sua qualità professionale, i diritti delle persone e i servizi sociali e previdenziali che il sistema organizza.

Ma istruzione e cultura sono anche il più solido presidio della democrazia. Il Dr. Feliziani nel suo intervento ha scomodato il grande Gaetano Mosca e il Presidente francese Georges Pompidou per ricordarci come stia dietro l'angolo più prossimo il degrado dell'etica pubblica e della politica, quando essa perde la capacità di guardare al futuro. Più modestamente io credo che l'incapacità di visione, di narrazione della realtà possibile, l’inettitudine della politica a rivestire fino in fondo l'abito istitutore e la funzione guida che le appartiene, sia il connotato principale del pensiero debole tipico della nostra attualità e della modalità comunicativa e relazionale della classe dirigente, che ha la vista corta, al massimo fino alle prossime elezioni, e che incarna plasticamente la crisi della rappresentanza. Il pensiero debole ha corto anche il linguaggio, detesta ogni approfondimento che mal si concilia con l'uso e l'abuso del messaggio mediatico costruito come uno spot pubblicitario, facendo leva sulla solleticazione degli appetiti e delle impressioni dell'Es dell'uditorio; derubrica il ragionamento e la complessità dei problemi ad affare riservato a pochi e preferisce parlare la lingua degli short messages della rete, dei social come Twitter, per accorciare le distanze tra il leader, carismatico come un divo dello spettacolo, e la massa popolare acquiescente... E tutto il resto è solo un noioso fastidio!

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Dietro tutto ciò si cela un progressivo aumento del tasso di autoritarismo complessivo del sistema, che tende in modo reazionario ad anteporre l’io al noi, il vir all’homo, il signore al servitore, la fedeltà al capo e alle sue ricompense alla fatica della libera e consapevole condivisione di scelte e responsabilità; oppure tende, scimmiottando la Repubblica di Platone, ad imporre la preminenza della techné, la tecnocrazia che espropria ai cittadini la capacità di scegliere, rimessa nelle mani dei sapienti che conoscono la cosa buona e giusta per tutti... In entrambi i casi c’è poco spazio per la mediazione sociale, per il dialogo con i corpi intermedi, che si preferisce cercare di rottamare demagogicamente e saltare a piè pari. E questo è un grave errore, perché senza di essi, se non ti confronti con loro, poi ti restano i forconi, i leghismi, l’altra faccia del populismo, quella che ragiona con la pancia e non con la testa, che sente con la pelle e non con il cuore; oppure ti restano le lobbies, i gruppi di pressione, gli scontri interni di potere, l’opacità della commistione tra politica e affari.

Forse, contando fino a dieci, potremmo trovare molti esempi sia in campo nazionale sia in ambito regionale di questo corto circuito tra potere politico e rappresentanza organizzata dei cittadini in aggregazioni tematiche o d'interessi legittimi e costitutivi del paese reale. Sottovalutare il ruolo delle forze sociali, fino ad escluderle nei fatti dalla effettiva partecipazione alla formazione delle scelte d'indirizzo e di governo non soltanto lede il tessuto reale della democrazia – che un clic telematico su una piattaforma digitale non basta a sostituire: è un'emerita presa per i fondelli ritenere svolta in questo modo “un’ampia e indispensabile” consultazione popolare! -, questa ostilità esplicita alle forme di aggregazione con cui si concreta un pensiero autonomo e una volontà collettiva dei gruppi sociali rischia, a conti fatti, di vanificare

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le stesse riforme pur necessarie e apprezzabili che si mettono in cantiere, che risultano frenate proprio dalla scarsa informazione e condivisione; oppure finisce per produrre pessime norme, regressive e fallimentari come il famigerato Jobs Act, che non fa che proporre nuove forme e modi di sfruttamento antico, che noi abbiamo contrastato e continueremo a contrastare con determinazione, opponendogli la nostra ben più moderna e civile Carta dei Diritti Universali del Lavoro.

É per queste ragioni che io ritengo non condivisibile la brutta riforma costituzionale d'iniziativa governativa (sic!) che il Parlamento ha da poco approvato, proprio perché realizza un’ulteriore riduzione della sovranità popolare e degli spazi di democrazia partecipativa, rimandando a futura memoria nuove forme di coinvolgimento dei corpi sociali, e non produce altro se non un genuino accentramento del potere nelle mani dell'Esecutivo, complicando ancora, e non semplificando, il processo legislativo e i conflitti di competenze, senza realizzare veri risparmi dei costi della politica. La riforma, inoltre, lede pesantemente i principi autonomistici e di sussidiarietà su cui si fonda tanta parte del nostro ordinamento e questo risulta particolarmente indigesto per noi sardi - che siamo dunque direttamente chiamati a difenderli -, con buona pace di chi s'ingegna a sostenere il contrario: è sufficiente leggere il testo della nuova Carta per capire la portata dello stravolgimento unilaterale del Titolo V e della cosiddetta clausola di supremazia statale, tanto generica nella sua formulazione quanto ampia nella sua possibile applicazione; le conseguenze delle nuove e invasive limitazioni poste dal novellato art. 119 alla compartecipazione erariale delle istituzioni territoriali; le implicazioni delle norme transitorie, che nella loro genesi tradiscono un'esplicita indicazione all'adeguamento degli

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Statuti speciali a queste nuove disposizioni centralistiche, che riducono i compiti delle Regioni a mere funzioni amministrative quasi fossero poco più che delle macro-province, indicazione che non appare efficacemente corretta nel testo finale approvato, alla quale fa sponda, d'altronde, un orientamento diffuso tra le forze politiche e nelle stesse altre istituzioni locali che spinge verso la eliminazione delle specialità residue e che sarà arduo contrastare.

A noi non piace e non serve una politica fatta così, e pensiamo debba essere cambiata.

Il sindacato dei lavoratori – qui mi permetto di correggere, almeno per quanto riguarda la mia Organizzazione, i numeri riferiti dal prof. Ciarlo e la loro evoluzione temporale, ma, insomma, la sostanza di quanto sostengo non cambia e il discorso ci porterebbe fuori tema - una grande confederazione sindacale se ne può e se ne deve interessare perché non declina la propria autonomia con i suffissi dell'indifferenza rispetto alle proposte e alle scelte che si mettono nel campo di gioco di tutti e sulle quali sono, naturalmente, le forze politiche a contendersi consenso e potere. Ma è invece sulla base di una propria autonoma capacità di analisi, elaborazione e proposta che un'organizzazione di forze del lavoro - che resta il fondamento della civiltà democratica - può confrontarsi autorevolmente sui temi che investono direttamente o indirettamente l’ambito della rappresentanza sindacale, diventato molto ampio nella società moderna: si può sostenere, ad esempio, che ci sia estranea la questione della pressione fiscale sui redditi da lavoro o sui consumi di massa, solo perché sta fuori dall’oggetto dei contratti collettivi? Oppure che un aumento contrattuale non produca effetti su grandezze macroeconomiche “esterne” come il prodotto interno lordo,

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l’inflazione o la domanda aggregata? Si comprende bene, così, sia l’importanza ineludibile del sindacato nella composizione dell’equilibrio complessivo del sistema economico e sociale, sia l'infantilismo politico di una visione che pensa di poter racchiudere la rappresentanza del lavoro dentro il solo perimetro della contrattazione aziendale. Ma è, invece, proprio perché il dialogo è diventato più difficile che non dobbiamo stancarci di coltivarlo, per ricostruire paradigmi e contesti di relazioni che si devono ammodernare. E certo non possiamo dirci disposti a farlo senza rimettere in discussione noi stessi: anche il sindacato oggi ha bisogno di interpretare meglio i processi di cambiamento in corso e i nuovi bisogni che ne scaturiscono, e fondare qui la propria capacità di anticipare i tempi, di indicare vie nuove o di ottenere deviazioni sul percorso da altri tracciato. Per questo abbiamo bisogno di estendere, oggi, l’ambito della nostra rappresentanza a quei soggetti che ne stanno ancora fuori perché sono troppo deboli e muti, sviluppando la nostra capacità di offrir loro uno spazio comune e una voce più forte che sappia parlare, oggi, di diritti e solidarietà. E questi soggetti sono anzitutto i giovani, quei giovani che vogliamo siano istruiti e consapevoli, perché spetta a loro, forse più ancora che a noi, il compito di cambiare questa politica e, attraverso di essa, “agire per trasformare il mondo”.

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ALBERTO SCANU Istruzione: Confindustria da molti anni dedica un’attenzione e un impegno costanti all’education e alla formazione delle nuove generazioni. Nel nostro Paese e nella nostra Regione, che affronta molteplici criticità, sono molti gli imprenditori protagonisti della vita di scuole e università, che traducono il loro ruolo sociale in una vera e propria responsabilità educativa. Molte nostre imprese, grandi e piccole, sono impegnate nell’aiutare studenti, docenti, dirigenti scolastici e rettori a realizzare una formazione più innovativa, aperta, costruita sulle competenze, in grado di rappresentare un vero fattore di sviluppo per il Paese. Una formazione innovativa in cui non si ha paura di riconoscere il valore del know-how delle imprese e che permette ai giovani di avvicinarsi più velocemente e più consapevolmente al lavoro. Una formazione aperta e costruita sulle competenze che possa contribuire all’occupabilità dei giovani, alla produttività delle imprese, alla rinascita dell’economia e della società italiana. L’affermazione di un’economia fondata sulla conoscenza e l’informazione ha ridefinito il contributo del sapere come fattore di produzione economica e opportunità di crescita sociale. Abbiamo assistito a una straordinaria metamorfosi che fa del sapere il più importante elemento di innovazione della produzione industriale, del rafforzamento della coesione sociale, del miglioramento delle condizioni di vita personali e professionali degli individui. Chi non avrà conoscenza e competenze avrà un lavoro meno riconosciuto, stabile, libero, sarà un cittadino meno

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consapevole. Chi, al contrario, disporrà di conoscenza e competenze avrà un lavoro apprezzato e mobile, sarà egli stesso a creare lavoro per gli altri, sarà un cittadino consapevole, libero di trasformare in concretezza il proprio talento e le proprie potenzialità. Più alti livelli di scolarizzazione significano non solo crescita del Pil, ma anche maggiore inclusione sociale e fiducia reciproca. È sotto i nostri occhi un’evidenza empirica: nei territori dove più è elevata la scolarizzazione abbiamo una maggiore industrializzazione, un significativo contenimento dell’illegalità e una maggiore partecipazione dei giovani alla vita pubblica. In un’economia sempre più complessa, competitiva, fatta di innovazioni e continue sfide, il compito di formare nuove generazioni di lavoratori, imprenditori, decisori pubblici e privati, non può pesare soltanto sul nostro sistema educativo ma deve diventare riconosciuto impegno di tutti. In una società sempre più frammentata, scuola e università devono tornare a rappresentare un punto di riferimento per le comunità, le città e i territori. Non impenetrabili torri d’avorio chiuse al mondo industriale come alla società civile, ma piazze aperte e capaci di contenere le istanze di un’Italia che ha bisogno di riscoprire la propria vocazione produttiva e formativa per ripartire. Come Confindustria siamo convinti che o si investe in formazione o non riusciremo a restare competitivi. Ma per investire in formazione occorre un forte consenso sociale e una solida alleanza tra coloro che hanno a cuore il futuro dei giovani, il merito, la cultura e la competitività. Oggi è la burocrazia che costituisce un freno allo sviluppo del nostro Paese. Domanda delle imprese, alternanza scuola-lavoro, valutazione, merito, autonomia e innovazione didattica, sono

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temi tra loro profondamente legati. Puntare su questi obiettivi significa puntare al miglioramento dell’organizzazione e delle performance del nostro sistema educativo. Siamo convinti che le parole chiavi oggi siano Autonomia, concorrenza e riforma organizzativa. È necessario ripensare il modello organizzativo del sistema educativo italiano ispirandosi al principio di sussidiarietà per attribuire competenze e responsabilità ai livelli di governo che meglio e più direttamente possono gestire i problemi che si pongono e rispondere dei risultati (accountability). La programmazione che decide la localizzazione degli indirizzi, le priorità di investimento, le strategie di orientamento si realizza necessariamente a livello regionale, sulla base di indirizzi e vincoli stabiliti a livello nazionale e in costante dialogo con i Poli Tecnico-Professionali e i Comitati Tecnico Scientifici d’Indirizzo che devono rappresentare il territorio e la sua domanda. Le singole istituzioni sono invece responsabili di ricercare la migliore combinazione delle risorse a disposizione per evitare sprechi e inefficienze e determinare una parte variabile del curriculum, nell’ambito degli indirizzi preassegnati. Siamo convinti che il lavoro e l’impresa devono tornare centrali all’interno dei processi formativi. L’idea che “prima si studia, poi si lavora”, ha fatto il suo tempo, e oggi si riconosce l’importanza di consentire anche ai ragazzi italiani di incontrare lavoro e impresa nel vivo del loro processo di formazione offrendo loro il diritto (largamente esercitato dai giovani europei) di “imparare lavorando”. Occorre promuovere lo sviluppo di percorsi formativi che valorizzino l’esperienza di applicazione delle conoscenze in contesti produttivi reali, non solo nella formazione professionale, ma con alternanza, stage, tirocini obbligatori

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pre-laurea, apprendistato, rendendo il rientro formativo dopo un periodo di lavoro una modalità usuale nel percorso di sviluppo professionale individuale e riconoscendo competenze e qualificazioni acquisite sul lavoro, in Italia o all’estero, come crediti formativi. Il lavoro deve essere inteso come un’occasione per sperimentare metodologie di apprendimento attive e interdisciplinari che coinvolgano direttamente gli studenti, permettendo loro di applicare le nozioni teoriche. In quest’ottica l’apprendimento non termina con il percorso di studi, ma prosegue lungo tutto l’arco della vita integrando esperienze lavorative e professionali per contrastare la rapida obsolescenza delle competenze. Libertà e autonomia delle scelte, possibilità di partecipazione civile e produttiva, dei cittadini e dei lavoratori, sono e saranno sempre più la diretta conseguenza del loro portafoglio di competenze e saperi, esercitati o potenziali che siano. Sono molteplici i riferimenti, le indagini e le statistiche in cui benessere, salute e crescita, le aspettative di vita stesse, stanno in stretta correlazione con i livelli d’istruzione della popolazione. L’alleanza tra sapere, crescita economica, benessere ed equità assume valori più sfidanti di quelli che l’Italia affrontò nella seconda metà del Novecento, in un Paese da ricostruire materialmente e da far uscire con decisione dalla morsa dell’analfabetismo, per entrare nel novero delle civiltà industriali occidentali più dinamiche. Oggi questa sfida non è meno complessa e necessaria, ed è quella di garantire più qualità a tutti. Come allora è fondamentale per guidare il Paese fuori dall’arcaismo in cui si è rifugiato. Certo ci sono ostacoli insidiosi che solo una forte determinazione politica e un concorso di forze possono superare.

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Sviluppo: Confindustria incentiva da tempo la collaborazione tra il sistema delle imprese e il mondo della ricerca, sancita da tante iniziative avviate nel tempo, sostenute al fine di lanciare un segnale sull’ urgenza di prendersi un impegno comune concreto per porre Ricerca e Innovazione al servizio della ripresa economica e al centro dell’azione di tutti, Governo, istituzioni, sistema della ricerca, imprese. É indispensabile favorire lo sviluppo e la diffusione di progetti capaci di coniugare conoscenze scientifiche, tecnologiche ed economiche a favore di uno sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo di tutto il territorio regionale e nazionale. È l’Europa che ci invita ad adottare dei cambiamenti nelle strategie Paese e a dotarci di una chiara azione di sviluppo basato sull’industria e l’innovazione. Queste iniziative sono destinate a centrare gli sforzi sulle grandi sfide innovative di oggi: energia, sicurezza alimentare, cambiamenti climatici e invecchiamento della popolazione. L’innovazione è una condizione prima di tutto culturale. Essa è essenziale per la crescita economica nel lungo periodo e rappresenta un fattore chiave per affrontare le grandi sfide con cui la società dovrà confrontarsi nel prossimo futuro. L’Italia è, da sempre, un luogo ricco di qualità intellettuale e creativa in tutti i campi: dalla scienza, alla tecnologia, all’arte, all’impresa. Ma è un luogo complicato e per certi versi incomprensibile nella sua quasi naturale, perversa tendenza a complicare le cose e a dividersi. Qui rendiamo complesso ciò che altrove è semplice. Qui ci dividiamo su ogni singola decisione, mentre altrove ci si salda l’un l’altro per competere meglio.

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Dovremmo riflettere sul fatto che l’Italia è stata un fantastico caso di successo industriale del ventesimo secolo: povera di materie prime, ha saputo sviluppare produzioni importanti in tutti i settori industriali, da quelli più avanzati, a quelli tradizionali, competendo e spesso vincendo con i paesi più ricchi. Con la sola forza delle nostre braccia e del nostro cervello abbiamo costruito un modello straordinario in cui le grandi società private si facevano forti e crescevano a fianco dell’impresa pubblica. Queste virtù e questi valori molti ce li invidiano e tanti cercano di copiarli. È vero, lo sappiamo tutti, il nostro slancio è frenato da un enorme debito pubblico. Eppure io mi ostino a riportare sempre l’attenzione di tutti sulla crescita. Questo sviluppo futuro si raggiungerà solo puntando sugli individui, sul capitale umano, sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle competenze e del merito. Come agli inizi del miracolo italiano del secondo dopoguerra ricerca, innovazione e progresso della tecnologia possono darci una nuova stagione di crescita, soprattutto se combinati con le nostre qualità intellettuali. Settore pubblico e settore privato devono collaborare, a partire dal superamento di quegli ostacoli che impediscono alle idee di arrivare sul mercato: mancanza di finanziamenti, frammentazione dei sistemi di ricerca e dei mercati, uso insufficiente della domanda pubblica per promuovere l'innovazione e ritardo nella definizione di standard comuni. Per sintetizzare, abbiamo bisogno di una burocrazia diversa. Il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 rappresenta una leva importante di sostegno concreto alle imprese innovative e ne favorirà la competitività. Bisogna favorire le start up che stimolano la crescita. La crisi

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attuale può essere un’opportunità per i giovani per realizzare idee in Italia. Le start up rappresentano un luogo di opportunità, di voglia di futuro e di ottimismo dove il talento dei giovani meritevoli si esprime al meglio. Le start up hanno un impatto diretto sulla crescita economica contribuendo a generare Pil e occupazione. La presenza di una crescita di nuove imprese e un tessuto imprenditoriale capace di trasformare le idee in business di successo è una delle condizioni necessarie per lo sviluppo di un mercato competitivo. Crisi delle rappresentanze: L'economia italiana è in continua trasformazione, così come è mutato lo scenario in cui il sistema produttivo si trova ad operare: dalla trasformazione del sistema politico all'internazionalizzazione dei mercati e alla globalizzazione, dalle liberalizzazioni al mutamento delle filiere produttive. Come risponde Confindustria alle domanda di una maggiore rappresentanza, più adeguata alle nuove esigenze delle imprese? L'economia mondiale sta attraversando un periodo di forte crisi finanziaria, una specie di tsunami epocale. L'Europa, le organizzazioni internazionali, i singoli Stati stanno cercando di usare tutti gli strumenti a disposizione per contrastare questa congiuntura. La crisi finanziaria internazionale ha posto di fronte agli occhi di tutti l'esigenza di una riforma del sistema mondiale di "governance" e anche l'Italia sarà chiamata a svolgere il suo ruolo in uno scenario che diventa sempre più complesso per le sfide globali e per la proliferazione degli attori. Occorrerà un piano coordinato e coerente per rilanciare e sostenere la crescita del Paese, nell'interesse delle famiglie, minacciate da una sensibile contrazione del loro reddito

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disponibile e soprattutto delle imprese, chiamate a confrontarsi con la crescente complessità dei mercati globalizzati . Globalizzazione vuol dire "comunità allargata", non più regionale o nazionale e ovunque nella comunità globale la crisi finanziaria ha mostrato, in tutta la sua forza, che la ricchezza la fanno le imprese che sapranno se adeguatamente supportate- tramutare questo "rischio" in "opportunità". Qui il ruolo dell'associazionismo imprenditoriale, che si sta trasformando per rispondere ai mutamenti di contesto, e che sempre con maggiore forza farà sentire la propria voce in ambito economico e politico. Il contesto sta cambiando e sempre più in futuro la rappresentanza sarà percepita come un bisogno generale di democrazia di tutte le imprese, soprattutto per quelle di piccole dimensioni che non si sentono direttamente coinvolte nei meccanismi decisionali. Per Confindustria lo sviluppo passa non solo attraverso l'impresa, ma anche attraverso un ambiente più competitivo e presto nascerà il bisogno di una rappresentanza a tutto campo del mondo imprenditoriale. Tutto il sistema delle imprese deve esprimere una cultura di collaborazione che non elimini la concorrenza, ma aiuti a costruire valori comuni spendibili anche sul mercato. Si va consolidando sempre più in tutti i Paesi moderni l'idea che la tutela degli interessi generali - quelli che identificano i sentieri di crescita, di valorizzazione del merito, della qualità dei comportamenti - debbano essere definiti e tutelati dalle organizzazioni che rappresentano le imprese in stretta sintonia con gli interessi specifici delle imprese. Se è vero che questi bisogni ed interessi sono tutelati ancora di più se inquadrati in un contesto generale, appare difficile poter artificiosamente dividere le aziende agricole da quelle

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produttrici di beni o da quelle produttrici di servizi, così come non esistono differenze, se non di metodo, nella difesa delle imprese artigiane da quelle di capitale. D'altra parte in tutti i Paesi moderni i modelli organizzativi dei sistemi di rappresentanza vedono grandi organizzazioni - uno per tutti il Medef in Francia- nelle quali coesistono le industrie manifatturiere, le banche, le assicurazioni, le aziende produttrici di servizi e qualunque altra attività che sia svolta sotto forma d'impresa. Questo fenomeno ormai consolidato in Francia, Germania, Inghilterra e Spagna si va delineando progressivamente anche nel nostro Paese. Basti pensare che la base associativa di Confindustria è passata dal 1995 ad oggi dall'84% al 63% di imprese manifatturiere, mentre le imprese di servizi sono passate dal 3.7% all'8% e solo per fare un esempio in questo momento nel sistema associativo esistono già 10 di sezioni dedicate alla finanza e al credito nelle quali aderiscono circa 400 imprese del settore. É evidente, quindi, che tra un ragionevole lasso di tempo (10 anni) il modello organizzativo della rappresentanza italiana sarà notevolmente diverso rispetto all'attuale e vedrà una forte organizzazione orientata alla progettualità generale, quella che mira alla crescita del Paese, con un servizio di lobby che tutelerà gli interessi dei diversi tipi d’impresa.

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GIORGIO DELPIANO Buongiorno a tutti, intanto ringrazio gli organizzatori per avermi invitato a questo dibattito il cui tema è assolutamente centrale per i cambiamenti che stanno avvenendo nella nostra società. Si tratta di un tema, oltre che centrale, sicuramente complesso, più di quello che può apparire sulla base della semplice evidenza. La rappresentanza, del resto, è una relazione fra una società e la sua classe politica, in senso ampio, che agisce in nome di e al posto dei rappresentati, allora è indispensabile capire anche cosa succede nella nostra società, nella sua capacità di dare vita a una molteplicità di gruppi e ad una classe dirigente. Soltanto in questo modo appariranno evidenti gli eventuali problemi della rappresentanza nelle democrazie contemporanee. Probabilmente, il fenomeno nuovo più visibile è quello del declino, oltre che dei partiti, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di vario tipo, economiche, sociali, culturali, religiose. Non soltanto, infatti, non esistono più classi sociali strutturate e consapevoli, ma all’interno di ciascuna associazione emergono differenziazioni significative che impediscono l’affermarsi di realtà di carattere generale e più ampio, cosa di cui io stesso sono stato testimone, viste le vicende che negli ultimi mesi hanno riguardato la nostra associazione. É evidente come la perdita di capitale sociale influisca anche sulla possibilità di garantire rappresentanze politiche stabili, capaci di non frammentarsi in interessi particolaristici. Purtroppo, mi si consenta la citazione, come dice Zygmunt Bauman (2000) siamo arrivati ad una società ‘liquida’, di cui si coglie la destrutturazione e le enormi difficoltà di

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un’eventuale ricomposizione. Effettivamente, si sono prodotte notevoli e numerose differenziazioni sulla scia dello sviluppo socioeconomico, le società occidentali sembrano avere perso ancoraggi associativi relativamente duraturi e consistenti cosicché rappresentarne esigenze, preferenze e interessi, presuppone prima un’operazione culturale prima ancora che politica. Il tema della società liquida, purtroppo, perché interessantissimo, non può certo essere discusso per la sua complessità e vastità in questa sede. Certo è, allo stesso tempo, che anche i cosiddetti rappresentanti, non hanno fatto nulla per impedire il lento e progressivo disgregarsi della società. Proprio ai vari tipi di rappresentanza che qui sono presenti (rappresentanza politica, sindacale, culturale, ecc.), sono sempre stati attribuiti particolari valori etici, valori che il comune sentire, invece, attualmente non gli riconosce più. Negli ultimi vent'anni, nelle democrazie occidentali, il ruolo dei corpi intermedi non è stato più in grado di rappresentare gli interessi della società perché più forte si è fatta la presenza nelle istituzioni di gruppi d’interesse (lobby), presenti all'interno degli stessi partiti, dei sindacati e in altre forme organizzative, oltre che all'esterno. La pressione di questi gruppi d'interesse è cresciuta enormemente negli ultimi anni (es: energia, armamenti, gestione del web, finanza, ecc.) facendo sì che gli interessi di natura economica prendessero il sopravvento su quelli di natura sociale (lavoro, lotta alla povertà, diritti delle categorie sociali più svantaggiate, diritti umani, diritti dei consumatori, ecc.), allontanandoci sempre di più da una delle nostre funzioni fondamentali, quella di risolvere o quanto meno dare risposte ai conflitti sociali. É inevitabile che questi aspetti producano uno scollamento

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profondo tra rappresentati e rappresentanti. Pertanto, queste tendenze servono anche a spiegare, almeno in parte, l’insoddisfazione, per la mancata rappresentanza degli interessi e delle esigenze, che i cittadini esprimono nei confronti dei loro rappresentanti, i quali sembrano interessarsi soltanto alla loro piccola porzione di potere facendoli sentire abbandonati a se stessi. Non a caso, questo scollamento tra società e rappresentanti, si traduce nel deprimente e molto basso livello dello scontro politico che si basa fondamentalmente su attacchi personali per scopi personali. Questo in precedenza non avveniva, quello di cui si dibatteva erano le idee e le posizioni delle forze politiche e degli uomini politici o delle forze sociali. Quello che sta avvenendo, inoltre, è che le persone che nelle diverse compagini sociali e politiche vengono investiti di ruoli di rappresentanza, interpretano in maniera sbagliata il ruolo, nel senso che invece che rappresentare effettivamente gli interessi delle persone che gli hanno demandato il ruolo, ritengono di doversi sganciare dalla base che rappresentano e portano avanti delle posizioni individuali. Si cerca cioè di rispondere al male (la crisi di rappresentanza e la sfiducia) con la medicina sbagliata (un ulteriore distacco dei poteri di vertice dalle effettive esigenze del popolo). E qui mi permetto una considerazione finale. Nel distacco forte, crescente tra società politica e popolo, tra istituzioni e soggetti sociali credo siano insiti dei pericoli da non sottovalutare. Perché è qui che maturano le avventure politiche e si scompaginano in modo pericoloso gli assetti di potere. Nessuna democrazia resiste, può resistere, a forme di rappresentanza che scelgono di ‘maneggiarla’ dal solo vertice, aiutandosi magari con il marketing e la comunicazione. La piramide non tiene se la s’impugna

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soltanto dalla punta centrale, e non si può fare leva sul vertice, semmai sulla base, che è più ampia e più consistente. Proprio per questo, venendo a parlare del mondo che io rappresento, abbiamo tentato in questi anni, di affermare e sostenere un modello nuovo di rappresentanza e di associazionismo, partendo da una condizione oggettiva: la crisi e l’agonia di un sistema che si è disinteressato progressivamente dei problemi e delle aspettative reali delle imprese. L’imprenditore deve essere al centro dell’Associazione, con le sue idee, i suoi problemi, i suoi progetti. Un’Associazione imprenditoriale non può e non deve inseguire altri modelli che non siano gli interessi di tutti gli imprenditori che rappresenta. La nostra associazione deve cogliere questa esigenza, ponendosi come un’opportunità per i propri associati e come un interlocutore stimolante per le istituzioni. Per imprese micro, piccole e medie, che costituiscono il fondamento economico di questo Paese, l’associazione deve tornare a essere un luogo di confronto, di proposta, una casa dove si trovano le soluzioni ai problemi che le imprese incontrano nella vita di tutti i giorni, l’associazione deve tornare a essere vissuta come valore aggiunto e strategico, e non come trampolino di lancio per poltrone o poltroncine. Questo deve essere lo spirito associativo, per recuperare fiducia e vera rappresentanza. Io nel mio piccolo ci sto provando. Mi permetto di chiudere con una considerazione che sta alla base di tutti i punti da me affrontati e che giustamente costituisce anche il tema completo di questo convegno. La base per ripartire, per ricostruire la fiducia, per promuovere lo sviluppo, per consentire a tutti i cittadini di avere gli strumenti per interpretare la complessità della realtà, non può che essere la cultura e quindi l’istruzione.

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Solo investendo nell’istruzione e nella cultura una democrazia può garantire a se stessa la sopravvivenza e la crescita, garantire capacità di scelte consapevoli nei cittadini e la formazione di classi dirigenti non solo professionalmente, ma soprattutto eticamente preparate.

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FRANCO SIDDI Se non conosci non puoi elaborare una opinione autonoma. Conoscere per deliberare. Sono principi basilari del liberalismo che ha alimentato due secoli di cultura politica, di una cultura arricchita da un pluralismo politico che ha saputo dare splendore e significato alle istituzioni democratiche fondate sulla rappresentanza popolare liberamente scelta. Per quarant’anni dopo seconda guerra mondiale, nella cosiddetta area occidentale transatlantica, politica, informazione, agenzie educative hanno agito, prosperato e, infine, imboccato un destino sempre meno ottimistico in termini di sviluppo progressivo, entro un paradigma chiaro e definito. Prima ancora dell’avvento della Rete, che ormai attraversa, condiziona e incide su comportamenti individuali e collettivi; prima ancora della crisi delle ideologie e della crisi etica della politica, un fenomeno non immediatamente compreso ha cambiato gli assi “storici” della formazione e della vita delle rappresentanze: l’esplosione dei media come pseudo sostituto della rappresentanza e la rappresentanza politica sempre più declinata e soprattutto percepita come espressione di interessi sempre più ristretti se non privati. Media e Tv hanno dominato l’indirizzo degli orientamenti collettivi, poi, nel tempo, la Rete ha cominciato a farla da padrona, liberando conoscenze e allargando orizzonti con nuove opportunità alla portata tutti. Ma rapidamente si sono affermati anche nuovi padroni del vapore. E nella Rete si celano, si sviluppano nuovi poteri, molti dei quali non solo sono utilizzatori o sviluppatori della Rete e di una nuova democrazia della conoscenza, ma manipolatori senza scrupoli di Internet. Il Grande fratello c’è, occorre saperlo riconoscere per poterlo fronteggiare. Indietro non si torna,

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beninteso, ma per le istituzioni democratiche mondiali diventa urgente definire nuovi paradigmi di diritto e di libertà, nuovi principi universali per la libertà e la democrazia dei media di oggi, quelli del tempo della convergenza multimediale. Istituzioni rappresentative, scuola, formazioni sociali siamo chiamate a un rinnovato impegno negli investimenti per una diffusa cultura della conoscenza, quale condizione di sviluppo e di garanzia della vita comunitaria. Non sbagliare le analisi è fondamentale per non fallire nella ricerca soluzioni più appropriate. Qualche ricercatore aveva avvisato i naviganti – i suoi lettori e sostenitori – con largo anticipo. Agli albori degli anni ’80 un saggista americano, il massmediologo e futurologo Alvin Toffler, arrivò a profetizzare un’imminente sostituzione della democrazia rappresentativa da parte dei media nelle società avanzate dell’Occidente. Quella specie di distopia di sapore orwelliano, in realtà – come già accennato - sembra oggi meno romanzesca di quanto non potesse apparire qualche decennio fa. Entriamo nel concreto del nostro vissuto. Anche da noi spazio lasciato vuoto dalla politica politicienne sembra colmarsi con la “comunicazione politica”. É lo spazio aperto dal combinato disposto tra leggi elettorali che riducono o tolgono al cittadino il diritto di scegliere i propri rappresentanti e dall’implosione della forma-partito novecentesca. E qui che si afferma l’aggressività sempre più forte e pervasiva dei nuovi media, che Toffler chiamava la “terza ondata”, quella dei self media. Val la pena di soffermarsi un pochino sulla declinazione di “comunicazione politica”, in modo differente rispetto alla convenzione nota per gli effetti della legislazione sulla cosiddetta par condicio, che regola informazione e

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comunicazione televisiva i occasione delle consultazioni elettorali e referendarie. Il concetto di comunicazione in politica è diverso da quello di informazione: nel primo si deposita un “di più” rispetto al puro attingimento della notizia, che è proprio, invece, della seconda. Nel “comunicare politica” c’è un passaggio ulteriore rispetto all’informare, ed è un passaggio che contiene una forma di “trattamento” della notizia. Per renderla più accettabile o più esecrabile, suscettibile di creare una suggestione favorevole a chi divulga la notizia e sfavorevole nei confronti degli avversari. Ma, attenzione: ogni volta che il fluire delle notizie si trasforma in comunicazione si compie un vulnus alla informazione. E dunque alla democrazia. Se domandassimo in giro qual è secondo l’opinione di ognuno l’ideale di democrazia credo che la maggior parte degli intervistati risponderebbe “la democrazia ateniese”, dove ogni cittadino poteva decidere direttamente degli affari pubblici dialogando e confrontandosi con gli altri cittadini nell’agorà. Qual era, dunque, l’elemento caratterizzante dell’agorà? La circolazione diretta delle informazioni, senza alcuna mediazione. La mia scelta è libera e la democrazia può dirsi vicina alla sua compiutezza, se ho le informazioni necessarie per decidere, attingendole in modo da consentirmi una opzione consapevole. Questa fondamentale funzione di offerta dell’informazione politica fino a che in Italia sono esistiti i partiti storici veniva affidata alle sezioni, ai circoli, ai centri di informazione delle formazioni politiche e dei movimenti. Oggi, dopo il tramonto dei partiti, l’attingimento dell’informazione è affidata ai media. Ecco, dunque, perché appare fondamentale (coinvolgendo il cittadino nei processi che conducono alla costruzione della rappresentanza nelle istituzioni), poter contare su un’informazione libera e non

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subalterna ad interessi economici o a lobby di potere, in grado di orientare, in mancanza di “controinformazione” flussi elettorali verso obiettivi particolari. Perché oggi l’opinione pubblica, in mezzo all’overdose cognitiva cui viene costretta dai nuovi media, si nutre di un rumore di fondo, ma non riesce ad approfondire i temi in modo significativo. L'antico sentimento che ha attraversato la storia dell'Italia unita fin da suoi albori, con la polemica antiparlamentare della Destra storica e, più tardi, del Partito comunista di Amedeo Bordiga, e più avanti ancora con il celebre discorso mussoliniano sul "bivacco di manipoli" nell'aula "sorda e grigia" pare quasi riflettersi nel nuovo millennio, alimentato dalla tecnologia. Che si fa autostrada di sola comunicazione. Ecco allora il ruolo attivo nel campo informativo che si delinea per le istituzioni, tutte. Potrebbero restituire il senso di quella pedagogia civile che manca nel paradigma del nostro tumultuoso tempo presente. Se non conosci non puoi elaborare una opinione autonoma. Le istituzioni come 'fonte primaria' debbono perciò recuperare compiutamente tra i loro principali obiettivi quale quello di rendere fruibile alla platea più vasta ciò che al loro interno avviene con completezza, trasparenza e tempestività. In assenza, sarà difficile immaginare un ruolo attivo e legittimante nella 'società dell'informazionÉ. E i media dovranno essere sfidati e sfidanti sulle buone pratiche, perché offrano ai cittadini un’informazione chiara sui dati di fatto e punti cruciali del dibattito pubblico, per alimentare spirito pubblico. In Sardegna si legge più che in quasi tutte le altre regioni d’Italia, c’è un altissimo “consumo” dei media. Ma la crisi economica e sociale si fa sentire forte e siamo tutti più deboli. Alla scuola si chiede uno sforzo supplementare per accrescere i livelli di istruzione media dei cittadini. Ma servono più risorse e fiducia. E serve saper e poter fare rete con le famiglie

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e con i mondi vitali della società, che il tecnopotere della Rete avvicina e allontana allo stesso tempo. Per le Istituzioni rappresentative, per la loro credibilità, c’è bisogno di un popolo di eletti che faccia più politica nel senso autentico del termine. C’è bisogno – come ha ammonito di recente il Capo dello Stato Sergio Mattarella – di “Una politica capace di pensare e di progettare al di fuori di calcoli contingenti e di umori superficiali, di esaminare con serietà fenomeni complessi e di governare con chiarezza e coraggio”.

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GIANFRANCO ANEDDA La società italiana è in crisi. Più esattamente sono in crisi i valori, che ne costituiscono le radici, cui si è ispirata la società occidentale, senza trovarne altri con cui sostituirli. É in crisi la famiglia intesa quale primo nucleo di convivenza e di affetti. É in crisi l’economia, intesa quale sistema e quale complesso di regole da seguire per distribuire la ricchezza prodotta e, quindi, il benessere collettivo. Il welfare. É in crisi la produzione della ricchezza collettiva. Sono in crisi persino i termini e le parole della comunicazione. Pochi osano parlare di socialismo o, in contrapposizione, di principi liberali. Sopravvive nelle parole, “democrazia”, con i termini e i concetti che ne conseguono; ma sono in crisi gli strumenti della democrazia: le assemblee parlamentari. Persino i referendum, il massimo della partecipazione popolare, sono in crisi come rivela la scarsa partecipazione al voto. É in crisi l’organizzazione del sistema per risolvere le controversie tra i cittadini e per perseguire e reprimere i comportamenti che ledono la convivenza e la sicurezza. Sono in crisi le rappresentanze; cioè gli istituti e le istituzioni della democrazia. Tali constatazioni non sono frutto di pessimismo, bensì, purtroppo, di realismo. Se ne occuparono diffusamente Oswald Splenger (Il Tramonto dell’Occidente: edizione integrale in Italia nel 1957) e, nel 1994, Piero Ottone (Il tramonto della nostra civiltà). Sono processi già in atto, molto lenti. Tanto lenti che, forse coloro che li vivranno nemmeno si renderanno conto del radicale mutamento. Un giudizio di valore è quasi impossibile, ciascuno apprezzerà maggiormente (non mi riferisco agli assetti politici) gli anni nei quali ha vissuto. Tutti diventeremo come disse Orazio, laudatores temporis acti. Avranno contemporaneamente

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torto e ragione. La società è migliorata, è più attenta agli indigenti, ha creato una rete di protezione (che in parte si sta disfacendo) per tutti. Sono aumentate le ore e le giornate di riposo. Il progresso tecnologico ha compiuto in pochi anni passi da gigante e non si fermerà. Eppure aumentano anche le grida e le manifestazioni di protesta che talvolta degenerano nella violenza e nelle distruzioni. Le guerre non diminuiscono, anzi, aumentano le cause dei contrasti. É stato coniato l’istituto dell’abuso del diritto. Anche le distorsioni della società sono una conseguenza dell’abuso. Non si tratta di un paradosso. L’abuso dell’assemblearismo, il rifiuto delle regole, la libertà confusa con l’anarchia, la scuola e l’educazione interpretati come strumenti di coercizione. Così come non è un paradosso che in questo quadro una parte non minima sia da attribuire ai mezzi di comunicazione di massa; linfa vitale del vivere sociale. Sui quali non si può (non si deve) interferire perché sono l’essenza delle più importanti, inalienabili, intangibili libertà. Eppure proprio la televisione e i giornali hanno diffuso il discredito sulle assemblee di rappresentanza (parlamento, senato). Non hanno con sufficienza distinto tra i componenti (sempre più spesso non meritevoli del ruolo) e l’istituzione della quale fanno parte. La perdita del prestigio si accompagna e con la perdita della fiducia. Ogni iniziativa per ridurne il numero ha successo; l’attività dei parlamentari, dei senatori, dei consiglieri regionali non è in alcun modo apprezzate se non addirittura denigrata. Non il singolo parlamentare o consigliere, bensì l’assemblea. Talché i compensi per l’attività politica sono comunque giudicati e ritenuti eccessivi od immeritati. É in crisi la rappresentanza senza che si sia trovato (forse nemmeno cercato) come sostituirla. É ben vero molti parlamentari, molti consiglieri delle istituzioni, molti dirigenti degli enti pubblici non hanno meritato fiducia e

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rispetto. La ricerca spasmodica della ricchezza è travolgente. Sono i primi e più appariscenti effetti della crisi, del tramonto della civiltà. É stata disgregata la famiglia, nucleo primigenio della società. Per combattere gli eccessi di alcuni capi-famiglia è stata demolita l’autorità del padre. La conseguenza nella quale oggi si vive è l’inesistenza in molte famiglie (fortunatamente ancora una minoranza) della figura paterna e con questa della famiglia. Con un paradosso si potrebbe affermare che una delle cause sia l’eccesso: troppi padri e talvolta, non spesso, troppe madri. Le cause sono molte. Non facile enumerarle tutte. Tutte, con differente intensità, hanno contribuito al risultato finale. La famiglia oggi non è più quella patriarcale. Non rimane di essa alcun ricordo dei tempi lontanissimi. Pochi conoscono la definizione di Modestino, o quella (molto) relativamente più recente di Cicerone “’principium urbis et quasi seminarium rei publicae””. Eppure la famiglia è ancora (nel bene e nel male) il primo e più naturale ambiente nel quale si forma moralmente e psichicamente la personalità dei figli. Giuseppe Mazzini affermò che la missione della famiglia “”è quella di “”educare i cittadini.”” La famiglia è il nucleo primario, la cellula elementare della società. Tutelata dall’articolo 29 della Costituzione che andrebbe oggi riletto perché definisce (art.29) la famiglia una società naturale. Proprio la Costituzione insegna quale danno sia stato consumato con la disgregazione della famiglia. Se ci si convince del valore sociale della famiglia e la si confronta con la situazione odierna si comprende perché proprio la società nel suo complesso e i Governi (nazionali e regionali) dovrebbero adoperarsi al massimo delle loro possibilità per rispettare ed applicare gli articoli della Costituzione che trattano della famiglia. Non si tratta soltanto i aiuti economici

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a pioggia, che possono aiutare a vincere una tornata elettorale ma non giovano nel complesso alla società. Sono venute meno le regole dell’economia. Sono state sostituite con norme eterogenee, talvolta contradditorie, spesso poco comprensibili tanto da apparire punitive e non vessatorie. Il traguardo dell’equa ripartizione collettiva pareva raggiunto. Poi ci si rese conto che si trattava di un miraggio, come la fata Morgana. I paesi più poveri continuavano ad impoverirsi; gli uomini e i paesi ricchi ad arricchirsi. Il sentimento dell’invidia, causa prima dei dissidi e dei contrasti, è aumentato. Forse solo gli studenti ricordano che fu Adam Smith ad organizzare l’economia in dottrina. Citato non tanto perché siano ancora validi, benché superati, i suoi insegnamenti, quanto, per affermare con forza che l’economia ha regole e principi che vanno rispettati. É importante però rammentare che, soprattutto oggi, l’uomo e le società ch’egli forma, sono o dovrebbe essere al centro d’ogni decisione. Che le norme debbono essere generali e non approvate per regolare casi particolari. Proprio il caso particolare è fonte di ingiustizie, di privilegi, di interpretazioni difformi perché giova alcuni e danneggia altri. Ma talvolta proprio questo è l’obiettivo. Se così fosse non ci si può lamentare delle disaffezioni nei confronti di coloro che hanno approvato o che approvano le norme. L’istruzione è oggetto dell’attenzione di ogni Governo. I risultati non sono incoraggianti. I cambiamenti, le riforme, hanno avuto come oggetto i docenti piuttosto che gli allievi o le materie dell’insegnamento. Per perseguire l’aumento della popolazione scolastica, cioè la diffusione dell’istruzione, è stata praticamente soppressa la valutazione di merito. Tutti promossi. Ad iniziare dai primi anni e, ciò che è più grave,

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anche nelle scuole superiori e, fatto ancora più grave nelle università nelle quali l’entità dei finanziamenti è stata misurata col numero dei laureati. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e facilmente ravvisabili. Solo pochi atenei italiani possono essere considerati eccellenti. Per la qualità dell’insegnamento, per i risultati ottenuti e per le strade professionali che prospettano e aprono. Le conseguenze sono la fuga degli studenti verso le università straniere: inglesi, tedesche, statunitensi, francesi. Studenti che poi non rientrano in Italia. Si tratta di intelligenze di grande livello che, successivamente, completano la preparazione con studi ed esperienze fuori dall’Italia. Dare regole per l’istruzione non è facile. Occorre tener in conto ciò che attendono gli studenti, delle attitudini, dei desideri e delle speranze. Occorre non abbandonare le materie di studio definibili classiche e inserire quelle richieste dalla società (informatica, nuova matematica, tutela dell’ambiente). Occorre trovare il metodo per valutare i docenti. Con maggiore severità di quella dedicata agli allievi. L’insegnamento non può essere considerato il secondo lavoro del nucleo familiare; qualunque materia, inserita in un programma organico è importante. Concetti e osservazioni banali e risaputi eppure tanto spesso disattesi. La scuola (intendo docenti ed allievi) non può essere intesa solo come il “titolo” da inserire nel curriculum, è bensì la base per la formazione di quella che sarà, qualunque attività venga scelta, la società di domani. Ben vengano convegni come questo che impone un ringraziamento vivo, sentito, sincero e non manieristico per gli organizzatori. Mi sorge però il fondato dubbio che abbiano pochi ascoltatori e vengano interpretati come una desolata vetrina per pochi epigoni.

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IGNAZIO ANGIONI Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per l'invito e per avere l'occasione di poter dare un modesto contributo a riflettere sui temi da voi proposti. Si tratta di tre temi solo apparentemente diversi ma in realtà così legati tra loro da potersi definire, per molti versi, aspetti di uno stesso argomento. Che cosa lega l'istruzione, lo sviluppo e la crisi delle rappresentanze? A mio parere, è innanzitutto la lettura di futuro, o meglio ancora, la proiezione nel futuro che si vuole dare alla nostra società moderna. Società intesa, nell'elementare significato etimologico, come insieme di individui che collaborano tra loro per gli interessi generali che accomunano ciascuno di essi. Da questo punto di vista gli argomenti da voi posti sono elementi necessari per riprogrammare un futuro di crescita dell'intera società. In Sardegna, ma in tutto il Paese, si riscontra la mancanza di una tensione collettiva di tutte la classi dirigenti rivolta a guidare i processi e si resta troppo spesso fermi nel più comodo ruolo di osservatori un po' fatalisti dei fenomeni che anticipano il futuro. La crisi di rappresentanza ha riguardato, almeno negli ultimi due decenni, tutto il mondo associativo ed organizzato : certamente i partiti politici ma anche i sindacati dei lavoratori, le associazioni di categoria e quelle economiche. Per troppi anni gli osservatori del nostro Paese hanno ritenuto, a volte con un certo compiacimento, che il fenomeno riguardasse "solo" la politica e le stesse istituzioni democratiche. Per certi versi si trattava della rivincita effimera del mondo

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associativo nei confronti del primato della politica. Solo negli ultimi anni si è presa pienamente consapevolezza, in una dimensione europea e forse in generale occidentale, che invece l'indebolimento ha riguardato un po' tutti gli strumenti che per diversi decenni avevano garantito, nel bene o nel male, la rappresentazione di interessi collettivi ed il bisogno di tutela sociale nei quali il singolo cittadino sentiva in qualche modo ricompresa la propria condizione. Da un certo punto di vista il cittadino sta deliberatamente fuggendo dalle tradizionali "formazioni sociali ove si svolge la sua personalità" , cioè dagli strumenti di partecipazione democratica, conquiste nel '900 di diverse generazioni. Sono diverse le cause di questo fenomeno e tuttora è in corso un'intensa attività di riflessione da parte di intellettuali di diversi Paesi. Io ne vorrei mettere in luce una che mi sembra preliminare alle altre: la difficoltà di ricomprendere in unico progetto, di utilizzare un unico linguaggio, un unico percorso per categorie che al proprio interno sono composte da soggetti che rivendicano più che una propria peculiarità, una vera e propria diversità non catalogabile con altre condizioni. Sono, in altre parole, differenze che cercano sempre di più una protezione "su misura". È sbagliato, però, considerare sempre i particolarismi come manifestazione di meri egoismi di categoria o individuali. Sono invece, spesso, lo specchio di una società molto più articolata rispetto a poche decine di anni fa. A nuovi bisogni dovrebbe corrispondere una ricerca di attenzione e protezione diversa rispetto al passato ma anche nuove ed originali forme di rappresentanza. Tra i tanti sconvolgimenti che il mondo del lavoro ha avuto in particolare negli ultimi quarant'anni, cito il solo caso del lavoro autonomo che, a mio parere, è particolarmente

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sintomatico della crisi di rappresentanza della politica e delle organizzazioni sindacali. Negli anni '70/'80 del secolo scorso il lavoratore che universalmente veniva considerato bisognoso di maggiori tutele era senza dubbio quello dipendente. Infatti, nel lavoro dipendente è manifesta la sproporzione di forze/mezzi economici nel rapporto tra datore e prestatore d'opera. L'autonomo è sempre stato considerato quello libero dai vincoli imposti dal datore, il lavoro dei liberi professionisti e quindi delle classi agiate. Un lavoro, insomma, che non deve avere bisogno di particolari tutele. Per quasi tutto il secolo scorso è stato così. Oggi, di fatto, la richiesta di nuove figure professionali del mercato accompagnato dall'introduzione nel nostro ordinamento di norme che hanno introdotto nuove forme di contratti di collaborazione, hanno fatto della maggior parte di questi lavoratori la categoria professionale più fragile e meno protetta. La spaventosa crisi economica degli ultimi anni si è abbattuta soprattutto su di essi e ha accelerato il loro riconoscimento come categoria di lavoratori bisognosi di attenzioni e di tutele in particolare per la debolezza se non l'assenza di strumenti associativi identificabili come credibili sostenitori delle loro rivendicazioni. Parliamo di milioni di cittadini. Solo più recentemente la politica ed il mondo sindacale hanno preso coscienza del fatto che si tratta di una parte del mondo del lavoro che ha bisogno di affermare, nell'attuale momento storico forse ancor di più del mondo subordinato, i propri diritti. Il sindacato, in particolare, è posto oggi davanti alla sfida di dare voce ad un mondo del lavoro da concepire sempre più come articolato in dipendenti ed autonomi. La riuscita di questo passaggio è uno tra i fattori necessari per rilanciare la sua capacità di rappresentanza. Non è sufficiente una legge sulla rappresentanza, tra l'altro necessaria, per

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questo rilancio, è, invece, indispensabile un salto culturale. Ritengo che la rivitalizzazione della capacità di rappresentanza delle istituzioni, della politica, del mondo economico e del lavoro sia la condizione necessaria per riconcepire lo sviluppo della Sardegna e di tutto il nostro Paese. Perché si riprenda la crescita in termini più decisi rispetto a quei dati che l'ISTAT mensilmente ci propone, occorre ancora una volta avere un'idea di prospettiva e di largo respiro. Occorre riprendere dal passato quella lungimiranza che le classi dirigenti, in particolare dal secondo dopoguerra , hanno avuto nell'affrontare i problemi non solo guardando al contingente ma proiettandosi nel futuro e creando le condizioni per favorire una crescita che non riguardasse un singolo settore ma fosse rivolta a diversi motori economici. Ne in passato, ne in prospettiva le istituzioni sono sufficienti da sole a fare questo. Per superare l'attuale stagnazione del nostro sistema economico/produttivo, nessun soggetto può pensare di essere efficace con azioni solitarie e scoordinate. È necessaria invece una stagione di dialogo con tutte le forze sociali ed economiche. Non sono convincenti, tra l'altro, le ricette che in questi anni hanno eletto dei settori produttivi come i soli in grado di dare risposte alla richiesta di sviluppo e di nuovi posti di lavoro. Il turismo, l'artigianato, l'agricoltura, vanno potenziati e possono costituire l'ossatura produttiva del nostro Paese e della Sardegna in particolare ma a mio parere non ci può essere crescita solida se non si reinveste altresì in industria, in edilizia, in grandi infrastrutture pubbliche, solo per citarne alcune. In Sardegna bisogna rivalutare tra l'altro in termini di sviluppo economico la stessa presenza delle forze armate. Ancora, diventano centrali la semplificazione

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amministrativa, la sburocratizzazione della macchina regionale e la riduzione dei tempi di decisone. Occorre potenziare e per molti versi ricostruire un sistema economico datato ed indebolito nei suoi pilastri fondamentali. Solo un "sistema produttivo articolato" può essere in grado di favorire sviluppo ed intercettare investimenti pubblici e privati dei quali come Sardegna ma direi come Sistema Paese abbiamo drammaticamente bisogno. Sapere, tecnologia applicata e sviluppo non possono che viaggiare insieme. Non è ovviamente un caso che i paesi e le regioni con un più alto tasso di istruzione, con investimenti pubblici e privati rilevanti in ricerca scientifica abbiano dei tassi di crescita economica decisamente più consistenti dei nostri. In Sardegna, in particolare, la dispersione scolastica, la crisi delle immatricolazioni universitarie, l'emigrazione dei giovani ricercatori costretti alla fuga all'estero, un'università ancora forse troppo slegata dal mondo produttivo, sono le zavorre più pesanti per creare condizioni più favorevoli al nostro sviluppo. Il "sistema" si costruisce anche potenziando le competenze professionali di chi vuole entrare nel mondo del lavoro. Avere di fatto smantellato, per esempio, il sistema di formazione professionale sardo, pur bisognoso di essere riformato, rischia ancora di impedire a migliaia di lavoratori la possibilità di perdere occasioni di lavoro nell'oggi e soprattutto in futuro. Già con le attuali leggi nazionali in Sardegna si può potenziare la sperimentazione dell'alternanza scuola-lavoro dando gambe ad un sistema regionale che aiuti l'inserimento al lavoro delle giovani generazioni. Mi piacerebbe che a partire dai temi che oggi voi proponete

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al dibattito, in Sardegna si possano finalmente creare le condizione per aprire un vero cantiere. Su noi tutti grava la responsabilità di creare un destino diverso per i nostri cittadini, vecchi e giovani. E sia chiaro, nessuno può pensare di migliorare l'attuale situazione muovendosi da solo.

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MICHELE COSSA Il focus del convegno odierno è, ovviamente la rappresentanza politica, anche se non occorre un particolare acume sociologico per scorgere che il problema non investe solo le rappresentanze politiche e sindacali ma praticamente tutte le strutture organizzative. Dalla famiglia alla scuola. Persino il rapporto medico-paziente è cambiato profondamente. Quella che viene definita “frammentazione dei bisogni”, nella sua azione combinata con il progressivo impoverimento di milioni di persone, ha scatenato un mutamento che ha molte facce, alcune delle quali marcatamente nefaste e conflittuali. Le ricadute negative si vedono sul piano della coesione sociale e in termini di sviluppo economico: si abbassa il rendimento, si mette in discussione quel rapporto di fiducia che è alla base di qualsiasi struttura organizzativa, si rende estremamente difficoltoso il perseguimento di obiettivi comuni. O meglio: gli obiettivi non vengono più percepiti come “comuni”, ma come imposti da qualcuno che muove da una posizione di forza, e perciò non condivisi. Questo fenomeno, emerso in maniera prepotente con gli scandali che hanno travolto la politica negli ultimi venticinque anni, si accentua enormemente a causa della crisi economica più lunga del dopoguerra. Essa ha annichilito quel “ceto medio” che in Italia è sempre stato elemento di equilibrio e di crescita, sia sul piano politico che su quello economico. E che ha saputo essere protagonista di una lunga fasce di crescita individuale e collettiva, tesa verso l’emancipazione nella scala sociale. Oggi intere fasce di popolazione sono passate da una

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situazione di relativo benessere a una vita di ristrettezze, quando non di povertà. E mentre in precedenza il sistema del welfare offriva una qualche rete di protezione, adesso questa rete si va vieppiù dissolvendo. La politica ha pensato in certi momenti di affrontare la situazione ricorrendo alla mistica della “società civile”: una sorta di benefico serbatoio esterno alla politica, in grado di produrre un effetto catartico su di essa. Forse qualcuno ricorda l’immissione degli “esterni” negli organi della Democrazia cristiana degli anni ’80. Alla stessa logica si ispirano i più recenti “governi dei professori”. Uomini e donne della “società civile” che all’atto pratico hanno dimostrato di non essere granché più capaci e spesso nemmeno più onesti di quella realtà politica che avrebbero dovuto concorrere a migliorare. Qualcuno pare ancora credere nel mito della politica che corrompe e della società civile che redime: il risultato sono nuove forme di arrivismo e ipocrisia, alimentate dall’invidia sociale, con una forte propensione a giustificare atti ingiustificabili volgendo alla propria convenienza del momento le regole etiche che si ritengono valide per tutti gli altri. Il nostro Paese non è ancora uscito dalla tempesta. Ma non credo che la risposta siano un leaderismo che vuole far leva più sull’autoritarismo e sulla costruzione di soggetti politici a propria immagine che non sulla propria autorevolezza e sulla propria capacità. Da questo punto di vista, non ha certo aiutato una legge elettorale nazionale - parlo di quella vigente - che ha sostanzialmente reciso il rapporto tra eletti ed elettori, lasciando a un manipolo di persone la decisione circa la composizione delle camere e rendendo inutile il rapporto dei parlamentari col territorio.

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Il Dr. Feliziani e il Rettore hanno esposto in modo molto efficace quella che a mio avviso è la premessa di qualsiasi ragionamento. Il livello culturale di un popolo è di per se stesso un essenziale fattore di miglioramento individuale e collettivo. Non si tratta solo di avere più laureati (cosa peraltro importante, come ha sottolineato poc’anzi la Prof.ssa Del Zompo), ma soprattutto di avere più persone dotate degli strumenti necessari per essere soggetti attivi del miglioramento della comunità nella quale vivono e operano. Insisto sul concetto di “azione collettiva” perché credo che il primo valore da recuperare sia proprio quello della politica come fenomeno collettivo. Una politica in grado di individuare e condividere obiettivi comuni con una collettività composta da individui consapevoli; di lavorare per realizzare un sogno comune, capace di andare oltre i particolarismi; dotata dell’autorevolezza e della credibilità necessarie per trasmettere il messaggio che la crescita collettiva è condizione e anche effetto della crescita individuale. Questo non può che passare attraverso un radicale mutamento di rotta del modo di fare abituale di noi uomini politici. Dico noi non per caso, ma perché nessuno si può sentire esente da vizi: abbiamo sempre respirato l’aria del favore e della raccomandazione, per piccole e grandi cose. E d’altra parte è noto a tutti che le medesime persone che trascorrono ore nei bar o su Facebook a sbraitare contro il marcio della politica spesso sono le medesime che affollano le nostre anticamere per chiedere favori e raccomandazioni di ogni sorta. Forse i giornalisti non ci crederanno, ma è quello che succede anche oggi, quando i posti di lavoro sono merce rarissima e nel codice penale è stato introdotto il reato di “traffico di influenze”. Insomma, vale sempre la considerazione di cui sopra, che l’etica si applica sempre agli

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altri. Eppure se non riusciremo a cancellare questa mentalità non c’è alcuna speranza di riaccendere la scintilla. Si potranno forse introdurre dei palliativi, ma non trasmettere il messaggio preciso che l’impegno politico e istituzionale sono un qualcosa di nobile e non occasioni di malaffare. Vedo un unico modo perché questo accada: introdurre finalmente meccanismi di competizione e di valorizzazione della meritocrazia, in grado di spingere verso l’alto l’intero sistema e, con esso, settori sempre più ampi della popolazione. Se ne parla da sempre, ma mi pare che stavolta siamo al redde rationem: sia perché lo impone il contesto europeo e internazionale, sia perché non c’è scelta se si sottrarre il Paese ad un inarrestabile declino. Certo, la politica può fare la scelta suicida di cercare di rallentare il processo. Oppure può diventarne protagonista. Nel primo caso la società continuerà a navigare su rotte diverse da quelle della politica; due mondi, il mondo reale, abitato dalla gente, e il mondo surreale della politica. Quale prospettiva avrebbe una situazione di questo genere, di rinuncia della politica a esercitare un ruolo guida anche dei grandi corsi sociali? Quella di una società in cui si continua a giocare (per dirla con De Rita) infinite partite individuali, prive di direzione di marcia, in un campo di calcio senza porte. Se la politica sceglie invece un’altra strada, quella di non rinunciare a sognare, di riappropriarsi dei grandi obiettivi, di non schiacciarsi nella gestione quotidiana forse c’è la possibilità di arginare quel sentimento di repulsione che alberga nell’animo della gente. E di dare nuova linfa al sistema democratico, che resta comunque il peggiore se si eccettuano tutti gli altri (W. Churchill).

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ARIUCCIO CARTA La drammatica situazione politica ed economica del Pianeta preclude le valutazioni obiettive sulla possibilità di trovare appaganti soluzioni. Non si dica che erano prevedibili, ma si precisa che gli eventi tragici, se non previsti, erano quanto meno probabili. Illustri politici del nostro Paese in esilio – in particolare a Ventotene – avevano ideato la realizzazione di un organismo politico di carattere internazionale, capace di risolvere i drammatici problemi e di prevenire i conflitti politici ed economici dopo l’ultima guerra. Ancora oggi pensiamo a questi uomini per le eredità profetiche delle loro magnifiche intuizioni e, soprattutto, per la volontà di risolverli con un lungo rapporto di pace. Adenauer, Schuman, Pertini, De Gasperi, compagni di esilio ed espressione, la più elevata, della Resistenza, avevano concepito l’idea dell’Europa come presidio sicuramente di un lungo periodo di sviluppo democratico e di pace economica. Portavano con sé la tragica esperienza di due conflitti, uno più sanguinoso dell’altro per ferocia e persecuzioni. Sapevamo perfettamente che la distribuzione delle ricchezze nel mondo era ingiusta e causa di guerre. Sapevamo pure che l’origine dei contrasti era una visione ideologica largamente superata dalla storia, non accettata dai cittadini, ma subita dalle tirannie. Purtroppo, molte speranze svanirono per l’arroganza di dittature a est e a ovest e per – diciamolo pure – soddisfare ricerche sempre di maggiori ricchezze. La sottoscrizione della Carta dei Diritti dell’Uomo

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rappresentò il momento più alto destinato ad essere, purtroppo, travolto dagli egoismi delle cosiddette “grandi potenze” e da concessioni politiche di stampo marxista, che assoggettavano popoli e Stati. L’Europa stessa apparve debole e indifesa: saggi e illuminati governanti tentarono, con iniziative e trattati, di conseguire un equilibrio giusto e umano, ma la fame di potere e di denaro, comunque camuffati, finirono per prevalere ed i conflitti est-ovest erano la forma efficace per dimostrare una insanabile divisione che avrebbe presto o tardi dato luogo a scontri. La saggezza di uomini di governo, la pressione stessa di partiti che desideravano la pace, allontanò nel tempo la terribile situazione di cui oggi siamo testimoni. Il più recente episodio del vecchio parroco di una chiesa francese, sgozzato da un sicario del cosiddetto “califfato”, rivela il limite nel quale è difficile trovare una soluzione che non sia la guerra. Gli europei e, soprattutto, gli europei occidentali non debbono discutere lasciando l’arbitrio alla criminalità. Anche chi, come noi, preferisce la pace alla guerra, il dialogo al conflitto, non può ignorare che solo scelte di natura decisiva possono risolvere i problemi della convivenza civile. Non si tratta di discutere sulla distribuzione delle risorse, anche se dalle risorse scaturisce questa ingordigia di popoli soggetti alla schiavitù. Ecco, ci sembra che i nostri colleghi, pur autorevoli, discutano con saggezza sulla strategia, mostrando di ignorare la radice stessa di una lotta che pare inesauribile e che nel conflitto sono stabiliti modi, tempi e luoghi degli attentati che compromettono il bene più alto che sta a cuore all’uomo: nessuna rinuncia può essere ignorata di fronte al bene che ispira tutti gli uomini, come la storia ha dimostrato, con

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politiche più avvenute e consapevoli. Esecrazioni e improperi non risolvono il necessario dialogo tra i popoli quale sia la loro fede, ispirata ai principi della civile convivenza. Si può aprire, quindi, un discorso sulla Comunità Economica Europea e sull’ONU esigendo il rispetto dei grandi ideali che ispirarono lungimiranti scelte. Questa è una prima riflessione con la quale intenderemo dispiegare un più organico intervento. Il Papa addolorato ha detto con chiarezza che non c’è guerra di religione. Tempestiva ed efficace ci è sembrata l’interpretazione dei fatti del nostro Padre Salvatore Morittu che, forte della sua esperienza, ha definito la strategia per attuare, contro un pericolo che avanza, una linea di difesa aperta, continua e tenace. Scaturisce dalla conoscenza diretta di fenomeni di violenza che Padre Morittu ha vissuto nel suo ruolo primario per la tutela, soprattutto, dei più deboli. Ancora una volta la sua voce chiara e forte ha raggiunto quanti, come noi, conoscono il valore, ma, particolarmente, seguono ammirati la sua intensa attività apostolica.

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BENEDETTO BÀRRANU Il tema della riflessione odierna può essere affrontato con approcci diversi , pur mantenendo la consequenzialità delle parole contenute nel titolo. La sequenza degli argomenti può essere assunta anche come la conclusione di un ragionamento sulle tre questioni poste, nel senso che l’istruzione, cioè il livello della formazione condiziona e prefigura la qualità dei processi di sviluppo e la adeguatezza della rappresentanza degli interessi sociali. Voglio partire da un’affermazione sempre attuale di Gramsci, pur se temporalmente collegata alla sua avversione nei confronti della riforma Gentile, non solo perché definita classista e con una visione naturalmente datata rispetto alla situazione odierna, ma per la sua conclusione più generale e più profonda e, appunto, molto attuale. Scrive Gramsci: “ …nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle… Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo … di scuola preparatoria … che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere, o di controllare chi dirige”. Prima di sviluppare le valutazioni che intendo fare sul rapporto fra formazione e crisi delle rappresentanze, cioè governo dei processi

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economici e sociali, voglio ricordare un’ esperienza di tanti anni fa durante una visita ufficiale negli USA, in California. Ero rimasto colpito dal fatto che mentre ci recavamo ad un incontro a Palo Alto , la persona che ci accompagnava ci indicava i vari plessi dei campus universitari dicendoci: qui lavorano sei premi Nobel, nell’edificio successivo tre premi Nobel e così via. Il giorno dopo dovevamo essere ricevuti dal Ministro dell’agricoltura del governo della California, uno Stato con 40 milioni di abitanti, quindi un incontro di notevole rilievo per una delegazione regionale e la stessa persona ci avvertì: “ vi chiedo la cortesia durante l’incontro di formulare delle domande e di affrontare argomenti strettamente legati alla competenza del Ministro, perché altrimenti potreste metterlo in difficoltà”. Due premesse che in modi diversi pongono l’attenzione su due esigenze formative da coniugare , specializzazione da un lato e capacità di analisi, di sintesi e di visione generale dall’altro lato. La relazione fra i due aspetti incide sulla capacità di affrontare in modo adeguato il governo politico dei processi economici e sociali a tutti i livelli, incluso quello regionale. Secondo l’ultimo Rapporto del Fondo Monetario nel 2016 l’Italia crescerà dello 0,8%, al di sotto della media dell’UE (+1,7%) e ultimo fra i Paesi più industrializzati. Scomponendo il dato regionale viene fuori ancora una volta un’Italia divisa in due, con un Nord che ha tassi di crescita doppi rispetto al Mezzogiorno e con la Sardegna che si colloca assieme alla Calabria all’ultimo posto con un misero + 0,3%. Anche il dato europeo nel suo insieme indica previsioni di crescita molto basse, confermando problemi strutturali nella capacità di comprendere e di governare processi di sviluppo da parte dei governi nazionali e delle istituzioni sovranazionali. Si tratta di difficoltà che non riguardano solo l’Europa, se pensiamo ai problemi del Giappone e della Russia e alle difficoltà dei Paesi che negli

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anni scorsi si erano affacciati prepotentemente fra quelli con crescite più rapide e consistenti come la Cina e il Brasile. I dati negativi della Sardegna non sorprendono, perché sono la fotografia di quanto accaduto nell’ultimo decennio, cioè della vera e propria cancellazione di intere aree industriali e di interi comparti produttivi (dall’alluminio e dal minero-metallurgico in generale, alla chimica e al tessile), in parte rilevante come conseguenza della scomparsa di questi comparti dal tessuto industriale nazionale e con un impatto devastante sul piano economico e sociale dei territori interessati al Sud, al Centro e al Nord della Sardegna, cioè nell’intera isola. La crisi delle strutture produttive regionali fondamentali ha messo in evidenza, più ancora che l’incapacità (che in qualche modo esprime un limite soggettivo di chi governa al momento, trascurando limiti più strutturali), la difficoltà delle istituzioni esistenti di prospettare risposte adeguate alla qualità della crisi e delle soluzioni per farvi fronte. A cadenza ciclica, praticamente in ogni legislatura regionale, si è pensato che la riforma dello Statuto speciale attraverso l’incremento delle attribuzioni fosse la soluzione, nel senso che avrebbe rafforzato la capacità di governare la crisi e lo sviluppo. In realtà da tempo sappiamo che le maggiori competenze, comprese quelle di una Regione a Statuto speciale, sono fortemente depotenziate, anche nelle attribuzioni statutariamente esclusive, dalla progressiva centralizzazione delle decisioni su base nazionale e sovranazionale. Chi può continuare davvero a pensare che in materia di agricoltura o di artigianato o di trasporti sia la Regione sarda ad avere competenza decisiva? La forza delle competenze e delle funzioni non deriva più, se mai lo è stato in passato, da ciò che è scritto nello Statuto speciale del 1948, ma dai poteri che si hanno per esercitarle o, meglio, dalla presenza nelle sedi in cui tali poteri vengono esercitati. La

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crisi della rappresentanza ( crisi degli organi istituzionali regionali, nazionali e anche comunali e crisi dei partiti come “associazioni che concorrono a determinare le scelte di governo”, come afferma la Costituzione repubblicana) a livello regionale, a livello nazionale e in parte a livello comunale emerge in modo dirompente nel momento in cui il giovane laureato, il dipendente di un’industria che chiude, la famiglia che spesso con enormi difficoltà è riuscita a far studiare i propri figli che ora sono disoccupati o con lavori precari, non trovano risposte di governo in grado di offrire possibilità di soluzione ai loro problemi e aspettative. Rispondere che abbiamo risorse scarse, più scarse che in passato e che il livello del debito italiano non consente spazi di manovra sufficienti, può essere un’affermazione che fotografa la realtà, ma un corretto dato contabile non è una risposta di governo. Nel senso che a chi governa, a qualunque livello, si chiede non l’elenco dei problemi, ma le soluzioni più adeguate. La ripresa dei flussi migratori dalla nostra isola verso il Nord italiano ed europeo, flussi sempre più spesso qualificati e di cui si parla in queste settimane, è forse l’indicatore più drammatico per una regione come la Sardegna. Anche gli sforzi importanti che a vari livelli vengono fatti dagli organi istituzionali ( la BCE a livello europeo, il governo nazionale e la giunta regionale nella nostra Regione) in termini di maggiore liquidità per favorire la ripresa , di sostegno ai consumi e agli investimenti, di riqualificazione della spesa non producono gli effetti sperati. La globalizzazione avrebbe dovuto (e potuto)aumentare la ricchezza e, invece, ha aumentato le diseguaglianze. L’immigrazione, come insegnano secoli di storia, è il risultato più evidente di questa ingiustizia epocale. I movimenti delle persone sono determinati dalle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza fra gli individui e fra i territori.

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Cresce così la sfiducia, che è ancor più pericolosa quando deriva dalla percezione di mancanza di alternative credibili, se non quelle che accumulano insoddisfazioni. Le risposte a questi problemi economici e sociali complessi sono manifestamente insufficienti. Risposte emotive, non risposte pensate e tanto meno legate a prospettive di respiro, seppure da attuare con la gradualità necessaria. Nel migliore dei casi la tentazione che si ha è, invece, la chiusura emotiva nel proprio recinto e quella di riproporre ricette e programmi del passato. Oppure, come accade nelle varie forme che oggi chiamiamo in modo riduttivo populismo, nel dire NO: no agli immigrati, no all’Euro, no allo straniero tout court, come indicano le recenti posizioni assunte dal governo britannico e non solo da movimenti e gruppi nazionalistici che stanno crescendo un po’ dovunque. In realtà ciò che emerge è mancanza di un progetto, di una visione per il futuro cui ancorare concreti obiettivi di sviluppo nella fase attuale. La quarta rivoluzione industriale, di cui si parla sempre più frequentemente, dovuta all’espansione della robotica, anche in campo sanitario, delle nanotecnologie, di internet, se introduce possibilità crescenti per un’offerta di lavoro qualificata sul piano scientifico e tecnico avrà un impatto negativo, in molti casi devastante, sulle professioni tradizionali di tipo impiegatizio, amministrativo e, in genere, di basso livello formativo. Già oggi, anche da noi, sono evidenti le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro (pensiamo alla localizzazione nell’isola di molti call center di grandi multinazionali), come pure le esigenze di una formazione continua. Le rappresentanze istituzionali devono avere l’ambizione di analizzare questi processi, non limitarsi a prenderne atto passivamente. Occorre utilizzare tutti i margini di spesa pubblica disponibili per favorire un impatto positivo dei processi in corso sulle nostre strutture

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economiche e sociali, con il sostegno alla promozione della qualità a tutti i livelli: dalla formazione e dalla ricerca alla organizzazione produttiva e amministrativa, dalle competenze del personale politico all’efficienza delle istituzioni. Un governo credibile non è solo buona amministrazione, se i beni e le risorse da amministrare sono decrescenti, anche perché manifestamente maldistribuiti. Governo è una visione del futuro che parta dalla analisi corretta delle condizioni reali nelle quali viviamo. Il confronto e, se necessario lo scontro, è parte della politica, ma dovrebbe essere scontro su progetti e visioni. Capacità di pensare, studiare, dirigere e controllare chi dirige, come diceva appunto Gramsci. Rinnovare le classi dirigenti è certamente necessario, non solo per il naturale logoramento di chi ha amministrato per anni, ma soprattutto per l’esigenza di avere governanti e amministratori in grado di percepire le novità dei tempi che cambiano. I partiti che non discutono, ma ratificano decisioni già assunte da chi li dirige entrano in crisi. E se per proporsi come alternativa non basta dire che si è contro, è ancor meno una soluzione accettabile sul piano democratico ciò che ormai accade da tempo, cioè la formazione di gruppi e movimenti proprietari, legati al fondatore che decide su tutto e che, spesso, legano la propria durata politica alla vita politica del leader proprietario. La Sardegna, nella sua ormai lunga esperienza autonomistica, è stata spesso laboratorio istituzionale e politico. Ad esempio la questione della riforma Statutaria non è mai stata vista, neppure da parte dalle formazioni autonomiste e sovraniste, come semplice ampliamento di attribuzioni e di funzioni, ma come possibilità di esercizio delle stesse nelle sedi nazionali e sovranazionali (europee) nelle quali vengono assunte le decisioni fondamentali che le riguardano. Da qui anche la contemporanea rivendicazione di un maggiore

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coinvolgimento e di una chiara responsabilizzazione delle Regioni nelle deliberazioni degli organi centrali dello Stato, con l’obiettivo di passare dalle Autonomie regionali intese come poteri separati e a se stanti a uno Stato regionalista vero, in periferia e al centro. Superando il limite presente nella nostra organizzazione istituzionale che definisce una sorta di Stato bifronte: regionalista nelle periferie e centralista negli organi centrali, cioè Governo e Parlamento. Una organizzazione istituzionale che ha deresponsabilizzato i livelli territoriali attribuendo loro notevoli poteri nella gestione della spesa pubblica e tralasciando di responsabilizzarli in materia di copertura tributaria delle spese. Il risultato è che non si è riusciti a realizzare un nuovo livello di unità dello Stato, cioè uno Stato più democratico perché capace di coinvolgere e responsabilizzare i diversi livelli istituzionali, a cominciare da quelli con potere legislativo, nelle decisioni economiche e sociali fondamentali. L’ammodernamento e l’adeguamento dell’organizzazione istituzionale è, quindi, una condizione importante per superare la crisi della rappresentanza politica, ma non ha efficacia se non è accompagnata da un progetto di sviluppo che si proponga di utilizzare al meglio le risorse materiali e umane che abbiamo. La storia autonomistica quasi settantennale della Sardegna dimostra che ciò è possibile e che nei momenti di maggiore difficoltà si è riusciti a invertire le tendenze negative quando l’utilizzo della spesa pubblica regionale, statale e poi anche europea è avvenuto nel quadro di un progetto, di un’idea di sviluppo e di progresso. Il primo piano di rinascita, nato dopo le emigrazioni di massa degli anni ‘50 di un terzo della popolazione sarda, programmò e sostenne l’avvio di un processo industriale in una regione che ne era priva, se non nelle aree minerarie. Il secondo piano di rinascita, elaborato in contemporanea con una crisi sociale

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profonda delle aree interne, si propose l’obiettivo di sostenere processi di sviluppo territorialmente diffusi, di creare sulle ceneri delle attività minerarie tradizionali una moderna base metallurgica-manifatturiera, di ammodernare le strutture produttive del settore primario. Negli anni ’90, in parte anche in anticipo rispetto agli stessi organi centrali dello Stato e con rilevantissimi stanziamenti nei bilanci regionali, ancor più se rapportati a quelli statali per l’intero Paese, si percepì l’importanza dell’innovazione, del sostegno alla ricerca di base e applicata, con importanti interventi a favore delle Università sarde e con la creazione di una piccola rete di parchi tecnologici. Nella prima parte dell’ultimo decennio si è investito molto nella salvaguardia ambientale e nella valorizzazione del territorio come risorsa, nella innovazione e nella formazione del nostro capitale umano. Naturalmente, sia nei due piani di rinascita del 1962 e del 1974, sia nei piani per la formazione e l’innovazione degli anni ’90 e in quelli avviati dal 2004 in poi, sono emersi limiti ( talvolta evidenziati anche dai risultati elettorali non positivi di chi ha avuto responsabilità di governo) nei progetti e nella concreta attuazione delle idee che ne erano alla base. Tuttavia tali progetti riuscirono a creare consenso e sostegno, spesso trasversale fra partiti e movimenti alternativi, attorno a obiettivi percepibili nella loro globalità e non solo come singoli interventi. Non entro nel merito di ciò che sta facendo l’esecutivo regionale ora in carica, limitandomi ad affermare che vedo lo sforzo di affrontare problemi complessi con serietà e impegno. Il problema che abbiamo dinanzi, a livello regionale come a livello nazionale e sovranazionale, è quale Sardegna vogliamo nell’ambiente che ci circonda e in cui dobbiamo vivere e valorizzare le nostre risorse umane e materiali: globalizzazione, diseguaglianze, immigrazione, ambiente, innovazione, formazione, ricerca di base e

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applicata. La necessità di inserire le politiche di governo in un progetto complessivo e percepibile è una questione che dovrebbe riguardare prima di tutto i partiti e la loro capacità di elaborazione, ma anche gli intellettuali e il mondo della cultura, oltre che le associazioni e i movimenti sociali. La polemica fra i partiti, il confronto duro e lo scontro fanno parte della politica e hanno una funzione positiva se avvengono definendo e contrapponendo programmi e obiettivi di sviluppo rispetto alla crisi. Chi davvero può dire che il dibattito politico in Sardegna avvenga su differenti visioni di crescita dell’isola e su modelli di riforma dell’autonomia speciale più efficienti rispetto al dramma economico e sociale nel quale viviamo? Non dico che il dibattito e gli sforzi di elaborazione e di proposta siano totalmente assenti, certo non sembrano adeguati alla complessità dei problemi che abbiamo davanti per il nostro futuro. Non tutto può dipendere da noi, ma molto dipende dalle idee e dalle scelte che possiamo fare noi. Partendo dalle nostre risorse: quelle locali e quelle che sono maturate e cresciute nei processi economici e sociali che si sono sviluppati negli ultimi 50 anni. Processi che hanno consentito di acquisire capacità imprenditoriali, di capire l’importanza delle relazioni industriali, di avere un approccio prima sconosciuto con la gestione delle risorse finanziarie, di far propri i tempi di produzione e di vita che prima erano tipici di una società rurale. Sono tutti aspetti importanti che non rientrano nel calcolo del PIL e della ricchezza prodotta, ma che costituiscono invece una condizione decisiva per produrla. Si parla di ridurre i costi della politica e di semplificare i livelli istituzionali, entrambi obiettivi condivisibili se tendono da un lato ad evitare sprechi e dall’altro lato a ridurre le inefficienze e la dispersione nelle decisioni. Ciò che non si deve ridurre è, invece, l’impegno

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politico, cioè la partecipazione consapevole alle scelte di chi ci deve rappresentare. Un’istruzione e una formazione che specializzi, ma non isoli e fornisca gli strumenti per rendersi autonomi e capaci di pensare, di affrontare e di controllare in modo consapevole le soluzioni di chi riceve il mandato di governare. Partiti e movimenti che tornino ad essere “associazioni che concorrono a determinare le scelte di governo”, come afferma la Costituzione, non solo nella designazione dei rappresentanti nelle istituzioni ai vari livelli, ma prima ancora nella definizione di programmi e direttrici di crescita in grado di creare fiducia nella capacità delle istituzioni di favorire il riavvio di processi di sviluppo economico e sociale.

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Istruzione e sviluppo: strumenti efficaci per detenuti e migranti ETTORE CANNAVERA Perché ero forestiero e mi avete ospitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (Mt 25, 35-6) Come un nativo del paese sarà per voi lo straniero che dimora con voi; tu l’amerai come te stesso, poiché foste stranieri in terra d’Egitto. (Levitico 19,34) L’istruzione è bisogno e diritto fondamentale di ogni persona. È in quella comprensione di sé e del mondo in cui viviamo, sviluppata da ognuno di noi attraverso l’istruzione, che assumiamo la nostra piena umanità e consapevolezza fin dai primi anni della nostra esistenza. È la conoscenza, attraverso l’istruzione, il fondamento di un’educazione che sviluppi le nostre potenzialità intellettive, affettive e relazionali e dia significato a un’esistenza pienamente umana. La conoscenza di se stessi, dei propri bisogni, diritti e doveri, che fin dalla prima infanzia si apprendono nell’ambito familiare, sociale e scolastico, rende la vita pienamente tale. Lo sviluppo delle proprie potenzialità avviene con la guida dell’educatore: i genitori in primis, e insieme a loro gli insegnanti nella scuola, il mondo dell’informazione e la società tutta. È in ciascuno di noi la propensione, soprattutto nei momenti di difficoltà, a battersi per salvaguardare i propri diritti e tener fermo quanto conquistato. È della politica rivolgere lo sguardo allo sviluppo della società in tutte le sue articolazioni, attuando i diritti e richiamando all’osservanza dei doveri. Ma è ancor più

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necessario che la politica rivolga uno sguardo privilegiato a chi tra noi è più esposto al rischio di soccombere nei momenti di crisi morale, sociale o culturale. È della politica, dei rappresentanti di noi tutti nelle diverse istituzioni, salvaguardare il diritto a una esistenza degna per tutte le persone, a cominciare dai più deboli, da quanti sono meno tutelati e abili a difendersi per mancanza di rappresentanza politica e soprattutto per povertà culturale. Nell’ormai lungo cammino della Comunità che ho fondato e di cui sono responsabile, abbiamo esercitato il nostro impegno soprattutto nei confronti di due categorie di “deboli” per me evangelicamente significative: i detenuti e i migranti. In queste due categorie di persone, istruzione e sviluppo si chiamano a confronto quotidianamente perché sia superata la loro debolezza. E chi tra i deboli è più fragile dei giovani rinchiusi in carcere? Chi più emarginato dei migranti? Categorie a loro volta emarginate perché manca in loro la consapevolezza dei diritti che esistono a loro tutela e degli strumenti culturali che li mettano in condizione di difendere quei diritti. Una decina di anni fa lo psichiatra Vittorino Andreoli, intervenendo in un convegno, dichiarava che le carceri per adulti sono «una costosa inutilità». Venticinque anni di esperienza come cappellano di un carcere minorile mi consentono di aggiungere che soprattutto per i minori, così come per la gran parte degli adulti, il carcere non è soltanto inutile e costoso, ma fonte di danni ancora più gravi di quelli che pretende di curare. Dobbiamo dunque chiederci se il carcere, in particolare quello minorile, risponda alle finalità di rieducazione e reinserimento che l’articolo 27 della nostra Costituzione assegna alla pena. Ma più radicalmente dobbiamo

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domandarci se il carcere non debba diventare un istituto sempre più residuale nel nostro sistema di Giustizia, da superare tramite misure alternative che permettano di praticare quella progettualità educativa che è impossibile esercitare nel chiuso dei penitenziari, nonostante la buona volontà e la professionalità degli educatori e della polizia penitenziaria. Le scienze psico-socio-pedagogiche testimoniano con sempre maggior chiarezza che la devianza è espressione di una mancata progettualità e metodologia educativa a livello familiare, scolastico e sociale. Queste scienze confermano insomma che devianti si diventa, non si nasce, e documentano che il comportamento deviante si consolida proprio nell’esperienza della detenzione. Ecco perché il carcere non può essere la risposta giusta per i giovani che hanno commesso illeciti. Ed ecco perché la giustizia penale non deve mai essere disgiunta dall’impegno a offrire solide risposte educative alla trasgressione.48 Questo deve essere l’impegno di quanti operano attorno ai temi della colpa, della pena, della riconciliazione. Nelle nostre carceri, invece, le risposte pedagogiche latitano: tutto, o quasi, è subordinato alle esigenze di custodia e di sicurezza. Innumerevoli volte ho visto il Dipartimento della Giustizia Minorile trasferire ragazzi da una prigione all’altra per motivi disciplinari e non per un progetto educativo, che invece richiederebbe la permanenza del ragazzo nell’istituto di pena nonostante il comportamento “aggressivo” o similari. Il mondo della Giustizia è dominato dal pensiero secondo cui il comportamento “aggressivo” e illegale dei ragazzi può essere positivamente modificato trattandoli come pacchi da

48 Su questo punto si veda Gabrio Forti, Presentazione a I. Marchetti e C. Mazzucato, La pena «in castigo» – Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, Vita e pensiero, 2006, p. X.

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spostare da una collocazione contenitiva a un’altra. Così facendo però ci si sottrae allo sforzo di comprendere le motivazioni più profonde di quei comportamenti, e soprattutto non si fa affiorare alla coscienza che, se i nostri ragazzi si sono comportati in modo illecito, la prima responsabilità è nostra come genitori, come educatori, come amministratori. Nostra. A tutto tondo. Educare: è questo il punto. Non possiamo essere complici di una pedagogia carceraria che è carente proprio riguardo all’obiettivo che la nostra Costituzione assegna alla pena: rieducare le persone. La scuola più spesso istruisce, piuttosto che educare. Ma educare e istruire sono compiti molto diversi, per quanto siano legati in modo indissolubile. Educare è anzitutto una pratica di libertà, una esperienza di liberazione, come ricorda il pedagogista brasiliano Paulo Freire.49 Difficile dunque parlare di educazione dentro un carcere, ambiente destinato unicamente alla contenzione, anche se vi si portano avanti delle attività. Nel carcere è estremamente arduo instaurare con i giovani una relazione educativa che sia esperienza di liberazione, che sia “cura”. Negli istituti di cui ho esperienza, le esigenze del “trattamento” e della sicurezza prevalgono su uno “spazio pedagogico penitenziario”, con l’effetto di piegare il tempo a ritmi di attività periodiche e occasionali lontane da quella pedagogia che si fonda principalmente sulla relazione costante e quotidiana con gli educatori. Le preziose potenzialità pedagogiche di questi ultimi si riducono a un ruolo sostanzialmente da “impiegati” cui spetta il compito di riferire all’autorità giudiziaria. Un ruolo quindi privo di una progettualità educativa che si eserciti nella condivisione del

49 Paulo Freire, L’educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori, 1973.

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vissuto quotidiano dei ragazzi nelle ore di servizio e in tutto il tempo della settimana. Educare è rompere ogni resistenza alla relazione di fiducia con l’altro, e questo può avvenire solo se l’adulto che vuol dirsi educatore condivide con il ragazzo gli spazi e il tempo in cui il ragazzo è più autenticamente se stesso: l’intera quotidianità, i luoghi e i momenti di convivialità e di lavoro… Formalismo nelle relazioni con gli adulti e scarso tempo dedicato ad esse allontanano invece dal ragazzo consapevolezza e responsabilizzazione, unici agenti efficaci di cambiamento di sé. Com’è possibile allora “riscattare” ciò che è imprigionato nel ragazzo, nell’angoscia e nell’illusione? Che strumenti offriamo al giovane per aiutarlo a mutare l’immagine negativa di sé, se non gli diamo la possibilità di sperimentare relazioni d’affetto significative e senso della vita in un’età così ricca di potenzialità progettuali? Chi ha commesso un reato ha in sé la possibilità di una vita diversa. Ma questa, soprattutto per i minorenni e i giovani, non può darsi in un ambiente costrittivo com’è il carcere, che com’è concepito nel nostro Paese non è che uno strumento di segregazione e di vendetta anziché di riconciliazione e di recupero. La risposta più efficace che possiamo offrire ai giovani e alla società non può dunque essere il privarli della libertà, ma metterli in condizione di recuperare quello che in loro c’è di positivo. E se proprio non riusciamo a liberarci della convinzione che il carcere sia per quei giovani la risposta giusta, consentiamo almeno che in carcere ci stiano il tempo minimo; il tempo necessario cioè perché siano accolti in apposite comunità, cioè in strutture che, pur non lasciando totale libertà al ragazzo, gli offrano comunque spazi di autonomia, di libertà, di progettualità e di crescita culturale. Comunità in cui i ragazzi vivano in relazione con operatori

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che li aiutino a sviluppare la positività che c’è in loro, facilitando la ripresa dei rapporti affettivi con i familiari, e in cui abbiano la possibilità di studiare o di lavorare. Dobbiamo dunque superare il concetto di carcere minorile. Tanti paesi del mondo l’hanno superato, anche molti di quelli considerati meno evoluti del nostro. E anche noi dobbiamo mobilitarci perché si arrivi quanto prima alla carcerazione solo per gli adulti. Ma un giorno il carcere andrà superato anche per loro, o dovrà esistere tutt’al più come misura residuale. Il nostro compito è passare dall’alternativa al carcere all’alternativa alla pena, da una pena concepita come strumento di vendetta e sofferenza a una pena come occasione di recupero, occasione per ripensare se stessi, per ritrovare quelle parti di sé mai conosciute, in un percorso pedagogico di istruzione e relazioni significative. Sarà mai possibile passare da una giustizia «vendicativa» a una giustizia «educativa»? Sarà possibile Abolire il carcere, come recita il titolo di un bel libro da poco uscito?50 E se pensiamo che abolire il carcere per gli adulti sia un’utopia, una proposta irragionevole per la sicurezza dei cittadini, perché non cominciare allora dal carcere dei minori? Constato però con amarezza che le problematiche delle carceri minorili – ed ancor più di quelle degli adulti – non figurano nell’agenda dei nostri governanti.

C’è un’altra categoria di “deboli”, oltre ai giovani carcerati, di cui la Comunità che presiedo si fa carico: i migranti. Da dieci anni infatti gestiamo a Cagliari e in alcuni centri vicini uno 50 L. Manconi, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, Abolire il Carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Milano, Chiarelettere, 2016.

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Sprar51 destinato ad accogliere e includere richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale e umanitaria. Dei migranti che approdano sulle rive del nostro Paese, avidi di una vita più dignitosa di quella da cui fuggono, sappiamo poco o niente. Né ci interessa saperne di più. Confuso con sentimenti di pietà, in molti di noi si agita il pensiero che sono troppi, e che ci fanno paura. Ma paura di cosa? Paura di cose che riguardano la nostra vita di tutti i giorni, anzitutto: che ci tolgano posti di lavoro, che ci scavalchino nelle graduatorie per gli alloggi popolari o per gli asili nido, paura che le istituzioni riservino loro, solo perché vengono da un’altra terra, qualche attenzione in più di quelle sempre più scarse che riservano a noi che siamo in Italia da più tempo. Ma più in profondità si agita forse il timore della perdita di noi stessi, la paura di vedere la nostra identità sopraffatta da chi porta con sé un bagaglio di valori, di cultura e di fede diversi dalle nostre. I migranti lasciano terre divenute invivibili a causa di guerre, di fame, di devastazioni ambientali. E noi che riserviamo loro ostilità e diffidenza, dimentichiamo che di quegli orrori siamo in gran parte responsabili noi europei, sazi e egoisti. E allora quegli esseri che, speranzosi e atterriti, si stipano nei barconi per cercare asilo nei nostri Paesi non ci chiedono solo salvezza: ci chiedono conto dello sfruttamento con cui li abbiamo resi poveri. Non tendono la mano per chiedere elemosina: ci guardano in volto per reclamare giustizia. E quella giustizia noi gliela dobbiamo. Non pietà: giustizia. Allora come passare da un assistenzialismo pietoso al riconoscimento e all’attuazione dei diritti? Come passare dall’integrazione all’interazione, a una vera accoglienza? Dobbiamo lavorare a un’Europa che sappia guardare al di là

51 Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.

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di burocratici e ottusi “patti di stabilità” e formuli al loro posto un nuovo “patto di umanità”, un nuovo umanitarismo. Dovrà essere questo il valore fondativo dell’Unione Europea, o l’Europa cesserà di essere terra di libertà e di diritti. La nostra sensibilità è offesa dalle crescenti distese di filo spinato che si innalzano tra paesi che si dicono cristiani: Serbia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Grecia, Macedonia, Bulgaria. La Polonia ha annunciato di non volere ospitare nuovi arrivati, il governo slovacco ha dichiarato di non accettare profughi musulmani. L’Austria minaccia di alzare un muro sul Brennero. Tutti paesi cristiani, a parole. Ma non può dirsi cristiana quell’Europa che tratta i migranti come animali e li fa sorvegliare da militari schierati in assetto di guerra per impedirne l’accesso, come fossero delinquenti da cui proteggerci. Vogliamo difenderci dalle cosiddette invasioni. Vogliamo che le nostre frontiere diventino muri, presìdi che impediscano a fanatici o possibili terroristi di infiltrarsi tra noi. Ma come ha detto Papa Francesco rivolgendosi ai giovani, «Dove c’è un muro c’è chiusura di cuore: servono ponti, non muri». Ed è ammonimento, questo del Papa, non solo saggio ma improntato a realismo, perché i flussi migratori comunque non si fermano, sono come l’acqua. Possiamo innalzare muri, ergere dighe, ma prima o poi l’acqua troverà lo spiraglio per correre nuovi tratti di strada. È inevitabile. Ed è anche un bene, perché l’incontro con l’altro è il presupposto per far nascere un mondo nuovo: un mondo di contaminazioni, più consapevole, più ricco. Non solo la storia, ma le scienze, riconoscono infatti che la nostra identità, sia come singoli uomini che come comunità, non è un dato iscritto immutabilmente nel nostro codice genetico ma un flusso che segue il corso delle vicende storiche e si modifica nell’incontro con l’altro, nella relazione che quotidianamente

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intessiamo con le persone e con gli avvenimenti. È solo nel rapporto con l’altro che possiamo riconoscere chi siamo, ed è perciò profondamente vero che noi «siamo» l’altro, che «siamo» il nostro prossimo, per quanto in superficie ci separino diversità di fede, di opinioni, di cultura. Chiuderci in noi stessi nella speranza di conservare la nostra identità non è, dunque, proteggerci: è assecondare la paura di scoprire chi siamo davvero, è essere ciechi al compito di riconoscere quali sono i valori che ispirano realmente la nostra vita. Innalzare muraglie reali o metaforiche che oppongano un «noi» a un «loro» è insensato non solo perché impedisce a quei nostri fratelli di entrare da noi, ma a noi di entrare in noi stessi. Come scrive Michel de Certeau, «lo straniero è a un tempo l’irriducibile, è colui senza il quale vivere non è più vivere». Lo straniero, come il recluso, è un’occasione per interrogarci sulla nostra stessa “stranierità”, sulla nostra cultura, sulle nostre presunte verità; è uno strumento principe di riflessione sulle forme attuali della convivenza civile. L’esperienza della nostra Comunità con i migranti è stata ed è ancora un’occasione continua di interazione più che di integrazione. Un incontro di persone e di storie, di migranti e di operatori, che ogni giorno attingono alla propria capacità di elaborare identità in un processo incessante di mediazione che ci ha permesso di vivere in relazione con altre diversità. Un processo di assimilazione e accomodamento che permette una vera maturazione umana senza essere per questo lineare o indolore, ma anzi comporta un carico di sofferenza e disorientamento sia per il migrante che per gli operatori che si prendono cura delle sue sofferenze. L’esperienza della condivisione quotidiana ci ha insegnato l’urgenza di costruire un futuro diverso, multiculturale, multietnico e multireligioso; ci ha mostrato la necessità di

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tessere nuove “trame identitarie”, sia individuali che collettive, per una rigenerazione sociale e culturale. Perché l’accoglienza non può essere solo materiale, ma è soprattutto fare spazio in noi per accogliere l’altro. Parole come queste di Barbara Spinelli, interprete tre le più acute del senso degli eventi che segnano la convivenza civile in Europa, hanno sempre orientato la nostra accoglienza: «Dello straniero, alterità assoluta ma incarnata, abbiamo bisogno per compiere la difficile scelta tra convivenza e rivalità, tra guerra e pace civile, tra diritti e doveri dell’uomo. Ne abbiamo bisogno per capire la diversità e restare tuttavia noi stessi».52 A queste parole, come alla profonda sapienza antropologica incarnata nella Bibbia, continuiamo a rivolgerci come a un faro. Vorrei chiudere queste righe con un cenno alla Chiesa, dove affonda il mio cuore di sacerdote. Dopo tante peripezie sono tornato “nell’ovile” con papa Bergoglio perché in lui ho visto praticare il messaggio cristiano. Appena eletto, Francesco è andato in carcere a offrire conforto ai reclusi, e questo Egli continua a fare in ogni sua visita fuori dal Vaticano, come segno privilegiato della sua missione pastorale. Ma il Papa non ha fatto solo questo. Con gesti senza precedenti si è anche recato nelle isole di Lampedusa e di Lesbo, terre di approdo di un flusso incessante di profughi, e in quei luoghi dispersi nel mare ha espresso la sua solidarietà e vicinanza ai profughi, agli abitanti di Lampedusa e di Lesbo, a tutto il popolo greco e italiano, così generosi nell’accoglienza. In Messico ha reso omaggio ai migranti morti nel tentativo di attraversare a nuoto il Rio Grande, il fiume che segna il confine con gli Usa.

52 Da B. Spinelli, Ricordati che eri straniero, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2005.

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Ecco, è questo per me il distintivo del Cristiano, questa la scelta umana e politica che mi fa essere seguace di quel Gesù di Nazareth messo a morte dal potere religioso e politico. Oggi i cristiani o sono con i deboli – i detenuti, i migranti – o non sono. E tanto meno possono ritenersi seguaci di quel Cristo che è stato messo a morte per queste sue posizioni. Se qualcuno, leggendo queste parole, si ritenesse cristiano, ci rifletta dunque, e si chieda: da che parte sto? Non a parole, ma con le mie scelte politiche e la mia pratica di vita.

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Maggiore istruzione e maggiore competenza agiscono maggiore democrazia MARIA ANTONIETTA MONGIU Il tema della rappresentanza e della democrazia agite come referenza della sovranità del popolo così come è prevista dalla Costituzione ci interroga profondamente e non solo in questo momento. Ci interpella fin dalla sua nascita soprattutto sulle pratiche attraverso cui si attua con pienezza e con consapevolezza. Ecco perché mentre sembrano prevalere le tifoserie referendarie ed una sorta di sospensione della vita repubblica, in attesa del 4 dicembre, bisogna tornare a riflettere sui fondamenti posti dai nostri padri costituenti imperniati sull’istruzione pubblica e sulla ricerca, precondizione di un’autocoscienza che riconosca pari opportunità. Ecco perché le posizioni al limite del millenarismo e dell’intolleranza non consentono di analizzare con lucidità il tema che questo Convegno propone. Chiediamoci tuttavia quante persone in questo paese siano in grado di comprendere nel dettaglio non tanto e solo lo specifico dei quesiti che compaiono sulle schede quanto le variazioni sostanziali nell’esercizio della rappresentanza e del proprio vissuto. Se stiamo alle diverse categorie e generazioni dei Rapporti OCSE relativi all’istruzione, ci dobbiamo preoccupare non solo perché l’Italia, contrariamente alle affermazioni, sta disinvestendo nell’istruzione e nella ricerca; registra un’aumentata disparità nelle competenze tra i quindicenni italiani e quelli dei paesi più evoluti e tra le regioni del nord e del sud dell’Italia. Se tra le competenze di base è compresa una diminuita capacità di lettura e di decodifica va da se che non abbiamo

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solo un problema culturale ma anche un altro legato alla competitività e, quel che è peggio, un pericolo per la democrazia. Notizie preoccupanti per l’Italia dunque perché i parametri di competenza di base sono inferiori a quelli dei paesi sviluppati ma anche perché il numero dei nostri diplomati e laureati è inferiore e non di poco. Non rassicura affermare che negli ultimi decenni ci sono stati miglioramenti nel numero dei diplomati italiani. La differenza ad esempio tra Germania ed Italia dei diplomi di istruzione secondaria superiore ammonta all’11% in nostro sfavore. Il differenziale aumenta ove si tratti di diplomi d'istruzione terziaria in Italia il 20,2% mentre la media OCSE è del 37,1%. Dati di tale fatta ineriscono nella capacità di comprensione di testi complessi. Ciò è stato evidenziato persino nella fascia dei laureati e, segnatamente, tra quelli in possesso di lauree “deboli. L’indebolimento ha inerito in altri primati negativi quali gli stipendi più bassi per insegnanti che aumenta ancor di più oggi con il blocco degli scatti di anzianità e le continue variazioni nelle carriere. Il che significa una capacità diminuita nell’aggiornamento, nell’acquisto di libri, nel fruire di prodotti culturali. In altri termini nella capacità di aumentare la propria competenza. La diminuita capacità stipendiale tra i laureati che hanno altresì meno possibilità di essere assunti e più facilità di essere licenziati inerisce ulteriormente nel minore esercizio di rappresentanza. É paradossale l’aumento della fuga dal voto con l’aumentare della scolarizzazione che non significa, come si è visto, un’aumentata competenza. Quest’ultima è frutto di un contesto e di conseguenza di una

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società educante che abbia un progetto pedagogico condiviso. Così non pare. L’attivismo culturale a cui si assiste è più industria culturale che cultura formante competenze diffuse. I dépliant promozionali del Mise che di recente hanno suscitato polemiche hanno evidenziato che gli ingegneri italiani sono tra i meno pagati d’Europa e che persistono nelle fasce salariali discriminazione di genere. L’arretratezza dell’accesso alla formazione di lavoratori e lavoratrici non è che un’ulteriore diminutio nella possibilità di aumentare il livello di comprensione dei processi e di conseguenza dei livelli di espressione di rappresentatività. Il depauperamento e depotenziamento culturale evidenziato dalla diminuzione della quantità di lettori appena sopperita dall’aumento dell’ingresso ai Musei nella prima domenica del mese per la gratuità, sono facce della stessa medaglia. L’investimento nella spesa per singolo studente delle superiori e dell’Università pur aumentata non raggiunge d’altra parte gli stessi livelli europei. Non essendo ai primi posti nella classifica OCSE - PISA (Programme for International Student Assessment) dobbiamo prendere atto che dobbiamo accorciare la distanza il prima possibile con le democrazie nordiche. Quei livelli di competenza e di istruzione consentono di esercitare un’altissima capacità di comprensione testuale e di conseguenza risultati importanti nell’esercizio dei diritti-doveri all’interno della propria comunità. Non è solo un problema di essere studenti brillanti ma soprattutto cittadini attivi nell’esercizio appunto della cittadinanza e quindi della democrazia.

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Istruzione e Sviluppo: un binomio inscindibile ANGELO ROJCH Il tema del convegno proposto dal presidente dell’ associazione “Ex- Parlamentari”, Giorgio Carta, abbraccia in un “unicum” istruzione e sviluppo nella interrelazione con le rappresentanze istituzionali. Un tema di grande attualità, quanto complesso. Per la prima volta, le rappresentanze assembleari, titolari dei valori fondanti la democrazia, sono messe in discussione dalla spinta della globalizzazione. Un aspetto che investe l'Italia non sulle strategie per far uscire il paese dalla crisi e da una economia stagnante, ma sul federalismo. La dura logica della globalizzazione impone la competizione tra sistemi, Europa-Asia Centrale, Europa-Usa, e spinge a rafforzare la governabilità, nel segno dei sistemi economici e produttivi, a scapito delle Assemblee e della democrazia. Questa linea a livello europeo, con l'egemonia politica ed economica della Germania, sta ponendo in crisi, con la rigidità dei parametri economici europei, con il fenomeno del terrorismo, anche i sistemi istituzionali, in particolare le maggioranze al governo, per cui i grandi partiti storici sono accerchiati da estremismi di destra e sinistra. Tale situazione genera sommovimenti sociali, non solo in Inghilterra con la Brexit, ma in quasi tutti i paesi, in particolare in Francia, Spagna, Austria e nei paesi dell'est europeo. L'Unione Europea vive il momento più difficile della sua storia e questo non può non avere ripercussioni in Italia e in Sardegna. Alla base della crisi nei paesi occidentali c'è una sorta di impotenza di fronte al dramma del mondo giovanile. È una crisi economica, sociale e morale. L'Italia sente forte il peso della crisi che investe non solo i governi di centro - destra e centro-

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sinistra ma anche le istituzioni assembleari, il Parlamento, i consigli regionali, sotto tiro per i costi eccessivi. C'è in questa denuncia un po' di vero ed un po' di populismo. Un comune denominatore sembra unire le assemblea ad ogni livello, parlamento o consiglio regionale, quando affrontano il tema della auto- riforma. A livello nazionale, alcuni tentativi riformisti si sono arenati, altri si sono conclusi con riforme approvate a maggioranza, quando la costruzione della casa comune impone la partecipazione di tutte le forze politiche. Come avvenne per la Costituzione italiana e lo statuto sardo. A livello regionale non si riesce neppure ad avviare un procedimento di riforme. L'Italia oggi è alle prese col superamento del sistema bicamerale paritario, che, approvato a maggioranza, dovrà passare attraverso le “forche caudine” del referendum, dall'esito incerto. Una riforma con aspetti positivi, ma con una linea che, tendenzialmente, riduce spazi alla democrazia sull'altare della governabilità imposta dalla globalizzazione. Una linea neo-centralistica che in nome dell'efficienza e del risparmio tende a ridimensionare il ruolo delle Regioni. Istruzione e sviluppo, un binomio inscindibile che, tuttavia nelle aree deboli del paese, non garantisce automaticamente lo sviluppo anche se, in uno scenario economico internazionalizzato, fondamentali sono i giovani che si sono formati nelle varie scuole. Quale la formazione delle nuove generazioni che dovranno rigenerare la società e creare lo sviluppo futuro? La qualità della scuola sarda, che sul piano tecnico-nozionistico non è inferiore al resto del paese, contiene aspetti positivi e critici. Dove sta la differenza? Quando in Sardegna un giovane si laurea o si diploma e cerca di inserirsi nel mondo del lavoro, c'è un solco, un salto abissale rispetto ad un laureato-diplomato del centro nord, che resta privilegiato

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anche se meno preparato. La scuola non gli ha trasmesso la cultura moderna ed imprenditoriale e dinamica, la cultura del rischio, della sfida della globalizzazione, quella spinta a crearsi un’attività economica propria, a varcare se necessario anche i confini dell'isola per realizzare partenariati e collocare propri prodotti. Il giovane laureato o diplomato dell'Italia continentale non avverte la necessità di una scuola che gli dia una cultura moderna ed imprenditoriale, perché questa la respira, la vive in famiglia e nella comunità. La nostra cultura insulare ed identitaria, ricca di alti valori umani, rischia di rimanere ancorata a “su connottu”, questa alta cultura non va dispersa, ma illuminata dall'anima del coraggio della intraprendenza per affrontare le sfide del futuro. Spetta allo Stato un nuovo progetto di scuola, non egualitaria, ma che tenga conto delle diversità delle disuguaglianze, così come spetta alla Regione un progetto per integrare ed adeguare quella dello Stato. Il progetto sardo “scuola e sviluppo” ha una finalità precisa: orientare tutti gli organismi preposti all’ istruzione, all'obiettivo dello sviluppo e all'intraprendenza nella sua dimensione globale. In questa logica rientra il “Consorzio CRS4”, vanto della Sardegna, centro di ricerca della Regione, il quale nonostante la spinta iniziale del premio Nobel prof. Rubbia, inventore di tanti brevetti nei settori innovativi non ha realizzato in Sardegna adeguate ricadute. Sarebbe interessante conoscere quante di queste ricerche si sono trasformate in iniziative industriali in Sardegna e quante fuori dall'isola. Non per attribuire responsabilità ai Presidenti di turno del Consorzio, ma per sottolineare la necessità di una politica organica della Regione. La formazione professionale è un altro settore, certamente più modesto, ma non meno importante sul piano socio-economico, deve si è creato un

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vuoto: pur gestita in modo disorganico da una miriade di enti professionali, è riuscita a formare una rete di artigiani qualificati ( muratori, meccanici, elettricisti etc) che nei paesi andava a creare il tessuto di una classe media tradizionale. Questa è scomparsa con la soppressione degli Enti di formazione, per cui saremo costretti a ricorrere agli stranieri, la nuova classe media del futuro. La crisi economica ha paradossalmente rinviato l'attuazione di questo processo negativo. Dunque l'istruzione di ogni ordine e grado non determina un nuovo processo di sviluppo per cui non è capace di diventare motore di una crescita dell'economia. Questa condizione culturale investe anche la classe politica e, prima ancora, quella imprenditoriale. Il sistema imprenditoriale sardo, scomparsa la grande industria legata alle partecipazioni statali, attraversa un momento di grande debolezza, talvolta anche per responsabilità dello Stato: perché non accertare quante imprese sono fallite o si trovano sull'orlo del fallimento perché gli enti pubblici non hanno pagato i lavori eseguiti? Purtroppo, il sistema economico dell'isola non ha avuto il sostegno pieno della Regione, forse perché condizionata anche dalla normativa europea. Vero è che a molte imprese è mancato il coraggio delle scelte, il senso del rischio imprenditoriale. Con una politica più aperta della regione, molte imprese e molte fabbriche potevano essere salvate. Un esempio: l'Algeria è il paese più vicino alla Sardegna: questo paese negli ultimi 15-20 anni è stato al centro di uno dei più grandi investimenti sulle infrastrutture nel mondo ( case, strade, ferrovie, edifici pubblici etc). Imprese di tutto il mondo si sono riversate in questo Paese realizzando imponenti lavori. La Sardegna ne è rimasta fuori: gli imprenditori sardi da soli non erano in condizione di partecipare. É mancata una politica della Regione. Durante la

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mia presidenza della giunta erano 2000 i sardi che lavoravano in Algeria. Anche nel settore industriale la Keller, ad esempio, poteva forse essere rilanciata con una politica di vicinanza della Sardegna all'Algeria, impegnata a realizzare un grande programma ferroviario. La politica deve uscire fuori dal recinto, e pensare che dentro i confini dell'isola non si può creare un futuro. La legislazione regionale non ha ancora sposato la linea della internazionalizzazione. La Sardegna si trova davanti ad un bivio: dovrà elaborare un nuovo progetto di sviluppo, attraverso nuove aperture, utilizzando anche gli strumenti esistenti, creandone altri nel settore economico, le stesse norme costituzionali del suo statuto radicalizzando il programma, diversamente si avvia ad un declino irreversibile. Il convegno dovrebbe concludere i lavori non con appelli generici, nel rispetto dello spirito del tema, ma con alcune proposte, anche provocatorie, per spingere la politica ad un confronto-scontro sui temi dello sviluppo con governo ed Unione Europea. 1) PROGETTO ISTRUZIONE-SCUOLA: proposta al Ministro della pubblica istruzione perché nel Mezzogiorno la scuola prepari una coscienza moderna imprenditoriale dello sviluppo, con l'apertura delle scuole alla realtà del territorio regionale in una visione internazionale. 2) PROPOSTA DA PRESENTARE ALLA REGIONE: per un progetto culturale di stampo autonomistico-globalitario, per orientare l'istruzione in ogni scuola di ordine e grado nella formazione di una coscienza aperta al mondo in cui i valori identitari e della insularità vadano visti come elemento fecondo per collegare sul piano culturale sociale ed

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economico l'isola all'Europa ed al Mediterraneo. In questa prospettiva l'Università potrebbe esercitare un grande ruolo e diventare strumento di progresso, centro di propulsione e sviluppo. Si potrebbe istituire una Università Mediterranea, una fondazione con la partecipazione dei paesi del Mediterraneo. L'Università di Nuoro, ad esempio, collegata alle altre Università sarde, potrebbe rappresentare un primo modello da sperimentare con l'Unione Europea. 1) 3) RIFORMA DELLO STATUTO ATTRAVERSO UN’ ASSEMBLEA COSTITUENTE: spetta la Consiglio Regionale porre alcuni punti fermi: difesa assoluta del valore costituzionale dello statuto del '48, conservando in toto i punti più qualificanti; integrazione con tutti gli aspetti per inserire la Sardegna, come nazione mancata, nel quadro europeo e mediterraneo, rivendicando competenze particolari sul terreno economico. 4) RILANCIO DELLA “RINASCITA” E DELLA GLOBALIZZAZIONE: operazione indispensabile, certamente complessa ma possibile. L'Europa ed in particolare l'Italia sono immerse in una economia stagnate, ferma, con un PIL che oscilla dallo 0,3 all'1% come segno massimo. In questa situazione, non esistono per la Sardegna le condizioni per uscire dalla crisi, imboccare la via dello sviluppo e bloccare la fuga dei giovani. Esiste una sola possibilità: rilanciare attraverso una nuova iniziativa politica il processo di sviluppo ricorrendo ad alcune norme dello statuto speciale: - L'istituzione dei punti franchi; - L'attuazione dell'art 13 sul “piano di rinascita”, -confronto-scontro con l'Unione Europea sulla “continuità territoriale”; Per i punti franchi esistono condizioni favorevoli, vediamole:

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-Lo Stato è obbligato a rispettare la norma costituzionale dello Statuto; sanare un debito storico dello Stato italiano, per aver la Sardegna generosamente rinunciato alla sua statualità di nazione per creare il Regno d'Italia; -per essere l'unica vera isola del Mediterraneo, crocevia tra Europa ed Africa; un interesse non solo dell'Italia, ma dell'Europa per la posizione geocentrica della Sardegna. I punti franchi costituirebbero punti di attrazione di capitali per investimenti del mondo arabo, russo, asiatico, nonché della possibilità concreta di bloccare la fuga di imprenditori italiani all'estero, ricreando nell'isola le stesse condizioni fiscali dei paesi stranieri. Una linea vincente: un progetto non impossibile che impone alla Regione la presentazione di un progetto promozionale internazionale, accompagnato da una grande determinazione politica. Quanto all'articolo 13 dello statuto, sul “Piano di Rinascita”, esso conserva una sua autorità, le motivazioni sono forti: -fondamentale è il richiamo della norma costituzionale dello Statuto, un processo che si è arenato nel 1992 quando la legge di rinascita fu approvata alla Camera dei Deputati e trasmessa al Senato ma non approvata per ragioni tecniche di fine legislatura. -la particolare condizione delle zone interne oggetto di una Commissione d'inchiesta del Parlamento italiano e di una commissione d'indagine del Consiglio Regionale. Il nuovo “Piano di Rinascita” deve partire dalle zone interne, dalle aree del malessere, destinate ad un processo di desertificazione antropologica ed economica, con rischio di tornare area ad alta pericolosità sociale. Infine, la “Continuità Territoriale”: -la Sardegna, unica vera isola del Mediterraneo, equidistante dall'Europa e dal Nord Africa, affinché non diventi area da “terzo mondo” è assolutamente

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indispensabile che il principio della “continuità territoriale” venga fatto proprio dalla Unione Europea, “costi quel che costi”! A tal fine, occorre costituire una “task force” non solo sarda ma comprendente tutte le isole del mediterraneo, le nazioni senza stato, per aprire un confronto con l'Europa. La proposta deve essere accompagnata e sostenuta da una linea dura, durissima. In assenza di una riposta positiva (e soddisfacente) occorre una comune decisione al fine di indire un referendum, secondo le modalità della Brexit. La debolezza dell'Unione Europea, la preoccupazione di una implosione del malessere esistente in tutte le Nazioni, rappresenterebbero un deterrente che potrebbe portare ad una risposta positiva.

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Una volta c'erano i maestri di strada (e di ovile) GIACOMO MAMELI Quando la Sardegna era molto più povera di oggi, un insegnante di Jerzu diventato maestro sul campo negli stazzi fra Baronia e Gallura, ogni mattina inforcava la moto Guzzi e – con libri e quaderni in una bisaccia – andava nei cussogghj di Tanaunella, Malamurì e Birgalavò a far lezione a chi non poteva frequentare la scuola nei paesi. Agli scolari portava sussidiario, penna calamaio e matita. Erano anni difficili, la seconda guerra mondiale archiviata col suo calvario di milioni di morti e di distruzione, la Sardegna alle prese con i problemi dei Paesi sottosviluppati, malaria, analfabetismo, assenza di opere pubbliche, i centri abitati senz'acqua corrente e senza fognature devastati dall'epatite virale (a Galtellì, ancora negli anni sessanta, ne erano starti accertati 79 casi). In quel periodo certamente nero lo Stato – e la Regione autonoma della Sardegna - aveva messo l'istruzione fra le sue priorità. Scuola nei singoli paesi, ma non solo. In ogni regione, isolata o meno, era lo Stato che andava a bocca d'ovile o di orto per garantire quel diritto chiamato “pubblica istruzione”. Il maestro di Jerzu, che si chiamava Luigino Salis e veniva da una famiglia di viticoltori di cannonau, era felice di portare l'insegnamento negli stazzi, passava anche sei ore al giorno con gli alunni e con i loro genitori. “Vivevo per i miei allievi e con i miei allievi”, diceva con orgoglio. Era un bel gesto, non solo simbolico. Perché era lo Stato, era l'istituzione pubblica ad andare da chi aveva bisogno - e diritto – di essere istruito. Per chi era isolato in campagna non era l'alunno ad andare a scuola, no, era lo Stato a recarsi a casa dell'alunno. Che civiltà!

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Qualche altro Maestro, in Barbagia e Mandrolisai, si trasformava in insegnante transumante in bicicletta (bisognerebbe rileggere il libro “Storie di gente comune” di Tonino Mameli da Aritzo e di Albino Bernardini da Siniscola e Pietralata: erano due maestri modello, due missionari dell'istruzione, insegnavano l'abc e a far di conto ma soprattutto davano lezioni di civiltà). Succedeva lo stesso anche nei furriadroxius del Sulcis. Molti di quei “maestri di strada” erano diventati un mito, stavano a pranzo anche nella pinnetta pur di insegnare a leggere, scrivere e vivere a chi – diversamente - sarebbe rimasto “senza scuola”. Maestri eroici. E una Repubblica che, anziché tagliare e dimensionare, investiva in conoscenza. Quegli “alunni di campagna” avevano imparato ad amare la scuola. Più di uno era arrivato alla laurea. Angelo Carta di Dorgali passa dalla campagna alla fabbrica, dalla vigna di Marreri alla catena di montaggio di Mirafiori. Si laurea. Diventa scrittore. Il suo libro “Anzelinu” viene pubblicato da Einaudi su segnalazione di Italo Calvino e Giovanni Consolo. Erano i primi segnali della Rinascita.

Oggi le cose, in uno Stato diventato più ricco e tecnologico con Twitter e Facebook, sono cambiate. Ci sono stati anche anni di dissipazione, di spese folli in una formazione professionale che nulla formava, di presidenti di Regione che dicevano in tivù: “che cosa ce ne facciamo di tanti laureati se devono fare i camerieri?”. A ognuno il suo, allora. Ma c'è da riflettere.

Gli ultimi dati che la Banca d'Italia ha messo nero su bianco e reso noti nel salone dei Partecipanti nel Largo Felice a Cagliari sono devastanti e confermano quanto già avevano accertato

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l'Istat, il Censis e altri istituti di ricerca. I numeri peggiori degli ultimi dieci anni. La Sardegna mai era stata così mal messa. I giovani non sono più attratti dalla calamita laurea. E neanche dal diploma. Lasciano i banchi prima di conseguire un qualunque titolo, anche quello di scuola media. La dispersione scolastica è la più alta in Italia. Nel Sulcis supera punte del 45 per cento. Una débacle soprattutto negli istituti superiori, tecnici, industriali e professionali in testa. Tra il 2007 e il 2014 (tra viale Trento e Villa Devoto si sono alternate sinistra e destra) i giovani fra i 18 e i 20 anni immatricolati all'università sono diminuiti del 21.2 per cento (contro il meno 8 della media nazionale e il meno 16.2 del Mezzogiorno). Sardegna in zona Cesarini. Nel frattempo continuano a salire (+ 17 per cento) le iscrizioni Oltretirreno con scelta scientifica degli atenei giudicati migliori in Italia. Nel frattempo – giusto per vedere qualche semaforo verde - si impongono all'estero molti giovani diventati dottori fra Cagliari e Sassari. E sono sempre più apprezzati oltralpe e oltreoceano, i docenti sardi. La dispersione scolastica, il rapporto tra i più bassi in Italia fra popolazione, diplomati e laureati, unito al calo delle immatricolazioni (a Cagliari viene segnalato un modesto incremento) non è stato affrontato, come sarebbe stato necessario, dalla politica di casa nostra. Si sono inventati un nome sardo – Iscòla – trasformando la a nella @ chiocciolina delle mail, ma sotto la chiocciola non c'è nulla. C'è il peggio. Perché mettono i lucchetti alle scuole senza rendersi conto che chiudere anche un'aula – in qualunque villaggio e non solo a Goni – significa continuare a mortificare la Sardegna e a spopolarla. Un paese senza scuola che cos'è? Togliere l'autonomia a un istituto superiore, a un liceo, per accentrarlo nel capoluogo di provincia o nel paese-feudo di un assessore pro tempore, significa soltanto aggravare le spese delle

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famiglie e far morire scuole che brillavano in iniziative didattiche e sociali. Che senso ha limitare il dinamismo di Ghilarza o di Santa Teresa di Gallura? Nelle scuole diventate, loro malgrado, “accentratrici”, non c'è né il tempo né la voglia di andare al di fuori dell'ordinaria amministrazione. E così la scuola muore. Così le luci di molte scuole – nel programmare corsi musicali, di teatro, di informatica, di relazioni sociali - si sono spente. Dopo i Maestri in moto Guzzi o in bicicletta, c'era stato un amministratore regionale, Paolo Dettori, gallurese di Tempio, che da assessore all'Istruzione era riuscito a farsi approvare dall'intero Consiglio una legge chiamata diritto allo studio. Avveniva negli anni della Grande Crisi. Quella sarda era stata la prima legge in Italia sul diritto allo studio. Fra mille difficoltà, furono radicalmente abbattuti i tassi di analfabetismo. C'era voglia di avere il figlio ragioniere, maestro o dottore. Oggi – slogan anglofoni o sardofoni a parte – i giovani tendono a snobbare lauree e diplomi. Eppure la Sardegna è governata da un presidente professore ordinario e da altri sei assessori, pure loro docenti ordinari negli atenei dell'isola. È stato messo il diritto allo studio al vertice delle azioni di governo? BankItalia ha detto no. Ultimi in classifica ci ripetono gli altri istituti di ricerca. Con i numeri del 2016 non era mai successo. Oggi, in viale Trento e dintorni, non ha cattedra universitaria chi guida la Cultura: un assessore che – col consenso della giunta – ha coniato il devastante binomio di “dimensionamento scolastico” nella regione che più di altre aveva invece bisogno di potenziamento scolastico. Un taglio qui e un altro là, col messaggio-harakiri di “dimensionare le

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scuole”. Per risparmiare che cosa? Con quale progetto didattico? Con quale piano pedagogico? Non sarebbe stato meglio dimensionare qualche ente inutile? Gli assessori-ordinari potrebbero rileggere Paolo Dettori, Tonino Mameli e Albino Bernardini. Potrebbero attualizzare la didattica dei Maestri di strada com'era Luigino Salis. Semmai andando a parlare (senza auto blu) con i ragazzi che fuggono dalla scuola. Dovrebbero andare anche negli ovili e negli stazzi che in Sardegna ci sono ancora. E sono pure collegati a Internet. Ma potrebbero andare a fare il porta a porta e chiedere se i sardi – alunni e genitori, insegnanti compresi - sono soddisfatti dell'istruzione che viene impartita. Capirebbero che tutt'attorno – sotto il Gennargentu e il Limbara, dal Golfo degli Angeli alle Bocche di Bonifacio – la scuola è peggiorata. Iscol@ non ce n'è.

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PIETRO MAURANDI Il rapporto fra istruzione e lavoro ha sempre caratterizzato e pervaso le condizioni sociali dei singoli e delle classi e ha definito il profilo delle classi deboli di ogni società. Fino a quando il lavoro di massa aveva come oggetto mansioni elementari e non richiedeva competenze specifiche e particolari, la scolarizzazione era ridotta al minimo per le classi povere, praticamente al saper leggere e scrivere. I livelli intermedi e dirigenti delle attività lavorative erano riservati alle classi medio-alte, che si servivano di precettori o di scuole particolari, generalmente private, per la loro formazione. A quella situazione corrispondevano processi di sviluppo lenti e localizzati in particolari aree, quelle dell’Occidente, che sono diventate le più ricche del mondo. Quando il lavoro è diventato più complesso e quando si è diffuso l’uso delle macchine, il livello di scolarizzazione per il lavoro si è reso indispensabile per i singoli lavoratori, e l’occupazione era condizionata dal livello di istruzione, nel senso che per trovare un posto di lavoro era sempre necessario aver acquisito un certo livello di scolarizzazione. Con l’evolversi della tecnologia il livello di istruzione necessario è diventato più complesso e articolato. Esisteva insomma un legame tecnico-funzionale fra scolarizzazione e lavoro, e valeva sia per le classi subalterne che per le classi egemoni: le prime ricevevano una formazione orientata al lavoro, le seconde ricevevano una formazione orientata alla copertura di ruoli dirigenti o comunque medio-alti nel mondo del lavoro. Il ritmo di sviluppo nelle attività produttive ha subito importanti accelerazioni, ma ha comportato a lungo un processo sostanzialmente governabile di adeguamento e di

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diffusione, anche attraverso la nascita delle rappresentanze del mondo del lavoro e la contrattazione fra organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, relativa al salario, alla quantità e alla qualità del lavoro. Con gli stati democratici, il legame tecnico-funzionale fra istruzione e lavoro si è spezzato, perché l’istruzione è diventata, come il lavoro, un diritto, con la possibilità offerta ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” adeguati, di raggiungere i più alti livelli di istruzione. Così l’articolo 34 della Costituzione italiana stabilisce che “la scuola è aperta a tutti”. Nell’articolo 3 la Costituzione stabilisce che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…” Questi sviluppi sono chiaramente scanditi dalle vicende della scolarizzazione in Italia, che ha visto un primo allargamento con la riforma Gentile degli anni venti quando, in prosecuzione dell’istruzione elementare (il saper leggere, scrivere e far di conto), venne istituito l’Avviamento al Lavoro, che inizialmente si chiamava Scuola Complementare, con l’obiettivo di fornire alle classi deboli un canale di formazione tecnico-operativo, che garantisse l’idoneità al lavoro nelle nuove condizioni economiche e sociali e all’impiego di nuove tecnologie; mentre alle classi medio-alte restavano riservati gli studi classici che fornivano una formazione superiore e davano accesso all’istruzione universitaria. Quest’ultima naturalmente era riservata alla borghesia. Questa linea subì un processo di evoluzione e di trasformazione con la diffusione degli Istituti Tecnici, che fornivano una preparazione settoriale specifica, orientata allo sbocco nel mercato del lavoro. Restava tuttavia forte una

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connotazione di classe della scolarizzazione, con gli Istituti Tecnici rivolti a sbocchi professionali riservati alle classi deboli e Ginnasi e Licei rivolti alla prosecuzione degli studi a livello superiore e riservati alla borghesia. Una prima rottura di questo meccanismo, che era fortemente intriso di differenziazioni di classe, avvenne con la riforma della scuola media degli anni Sessanta, allorché fu eliminato l’Avviamento al Lavoro e fu istituita la Scuola Media Unica che apriva a tutti la strada della prosecuzione del percorso, o verso gli Istituti Tecnici, con sbocchi sul mercato del lavoro, oppure verso i Licei con la prospettiva di prosecuzione degli studi nell’Università. La differenziazione del percorso fra borghesia e classi subalterne si spostava da 10/11 anni a 13/14 anni. Si allargava così lo spettro di azione della scolarizzazione, e contemporaneamente si attuava ciò che stabiliva la Costituzione sull’istruzione obbligatoria: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita” (art. 34). Avvenne infatti che ogni comune, fino ad allora dotato della scuola elementare, fu dotato anche della scuola media, che divenne così il nuovo livello di scolarizzazione di massa. Naturalmente il processo non poteva fermarsi alla scuola media inferiore e superiore. Accadde infatti che negli anni Sessanta e Settanta, i giovani che avevano usufruito del nuovo livello di scolarizzazione giunsero in buona parte all’Università e diedero luogo all’Università di massa, non più riservata ai figli della borghesia ma aperta anche alle altre classi, anche ai figli degli operai e dei contadini. Questa circostanza ha dato luogo a un mutamento radicale negli atteggiamenti e nelle iniziative politiche degli studenti universitari. Le domande di istruzione e di cultura erano in un certo senso più elementari, più semplici ma anche più esigenti, nel senso che provenivano da figli di categorie che

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avevano alle spalle scarsi livelli culturali ed erano spinti dall’idea diffusa che il “pezzo di carta” fosse lo strumento necessario per accedere al mondo del lavoro in condizioni dignitose. Mutava anche l’atteggiamento politico della popolazione studentesca, più incline a idee e movimenti radicali e anche eversivi nel contestare l’assetto sociale esistente e nel rivendicare iniziative culturali e politiche di radicale trasformazione. Nel mondo di oggi il problema che abbiamo di fronte non riguarda più l’allargamento degli accessi a tutti i gradi dell’istruzione ma è relativo ai contenuti di cui la scuola è portatrice e che è in grado di trasmettere. Questo problema non è nuovo, è sempre esistito, ma oggi si presenta in termini inediti perché i processi di innovazione tecnologica che emergono sono radicalmente diversi da quelli che si sono verificati in passato. Almeno da due punti di vista: -per il tipo di innovazione, che riguarda la nuova qualità di beni e servizi e la loro modalità di produzione; -per la natura globalizzata dei processi di innovazione, per cui ciò che è determinante non è solo la natura dei prodotti e dei processi ma anche i luoghi in cui si manifesta e si genera. In ragione di questa situazione, i processi di sviluppo sono più rapidi che in passato e sono collocati in diverse aree del mondo; non più esclusivamente, e nemmeno principalmente, nelle aree più sviluppate. Inoltre, la possibilità di cogliere e di rappresentare univocamente le condizioni e le aspirazioni del mondo del lavoro diventa più problematica, e genera difficoltà nuove nelle tradizionali organizzazioni di rappresentanza, come i sindacati e i partiti che si chiamavano operai. C’è poi la finanziarizzazione delle economie occidentali, che complica la situazione e le imprime connotati nuovi. É infatti

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accaduto che i normali canali di trasmissione fra il capitale finanziario e il capitale industriale, si sono ostruiti. I meccanismi che assicuravano il passaggio dal risparmio all’investimento sono stati sconvolti dai meccanismi della speculazione finanziaria. Senza la rimozione di questi ultimi, le economie occidentali sono destinate a perdere il carattere manifatturiero che hanno avuto a partire dalla rivoluzione industriale dell’inizio dell’Ottocento, a restare il teatro privilegiato della speculazione finanziaria, mentre l’attività manifatturiera va a dislocarsi in aree del mondo in via di sviluppo. In queste condizioni, i paesi più sviluppati sono aperti a crisi ricorrenti e lunghe, dipendenti dalle attività di pura speculazione finanziaria, che d’altra parte sono ineliminabili a causa dei poteri di condizionamento acquisiti dal mondo della finanza; mentre i più importanti processi di sviluppo andranno a collocarsi nei paesi emergenti, che certo conosceranno periodi di crisi e di difficoltà ma anche processi di innovazione e di selezione delle attività più moderne e più efficienti.

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PIETRO SODDU «Il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere» (Gramsci). 1) Premetto che ciò che dirò andrà oltre i tre temi del convegno perché istruzione, rappresentanza e sviluppo sono intrecciati tra loro ma anche con tematiche più generali. Rientrano nel quadro più ampio che chiamiamo crisi della politica. Questa non riuscendo più a rispondere alle domande che vengono dalla società contemporanea, diventa la causa principale anche dell’indebolimento progressivo delle istituzioni democratiche, educative ed economico-sociali. E quindi della politica che bisogna parlare anche per capire meglio le ragioni della crisi settoriale oggetto del convegno. Bisogna capire innanzitutto che la politica si è indebolita, ma che la debolezza non nasce dalle mancate risposte sui singoli aspetti della realtà economica, culturale, istituzionale e sociale, ma piuttosto dall’inesistenza di una sintesi adeguata, dall’assenza di un valido progetto globale per il tempo di oggi, dall’incapacità di cogliere l’importanza della svolta epocale che sta vivendo l’umanità, segnata, come ha detto Gramsci parlando della crisi del suo tempo, dal fatto che: “il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere”. Questo è infatti oggi il quadro poco confortante, ma allo stesso tempo molto stimolante, che si presenta davanti ai nostri occhi nella vita pubblica e in quella privata, nelle forme di vita individuali e in quelle sociali. Vediamo ogni giorno che conquiste, istituzioni, norme, strumenti dello Stato sociale che rispondevano alle domande del tempo moderno e che sembravano stabili e al sicuro, perché sostenuti da una costante crescita economica, sono oggi in crisi. La crisi colpisce il sistema nel suo complesso. La prima vittima della crisi è la rappresentanza politica, che appare

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sempre più incerta e disorientata tra il vecchio e il nuovo, tra l’esperienza dei partiti fondati sulle grandi ideologie – chiamate anche grandi narrazioni – e partiti personali fondati su capi carismatici e populisti. Sarebbe però sbagliato parlare solo di crisi della rappresentanza. È infatti tutto il patrimonio culturale e politico che stenta a trovare un nuovo equilibrio tra e i nuovi valori espressi della società post-moderna globalizzata, individualista e mercatista e i vecchi valori che giustificavano interventi correttivi del mercato in senso democratico e di giustizia sociale. 2) La crisi della scuola va vista in questo quadro più generale. Da sempre essa è stata considerata la base non solo della formazione professionale, della preparazione tecnica dei giovani al futuro impegno di lavoro. Ma è stata soprattutto lo strumento più importante dello Stato per formare la cultura di un popolo, di una Nazione, costruire un patrimonio comune fondato sulle grandi lotte patriottiche, sulle guerre, sui caduti per la patria, sui poeti, sui santi, sugli artisti, sui capi politici e su tutte le componenti immateriali e le attività economiche, cioè sull’intero universo della vita nazionale. Oggi questo sistema continua a tenere il campo ma è investito dalla crisi e si è indebolito fino al punto da non sembrare più in grado di formare al meglio la classe dirigente chiamata a “governare” le trasformazioni sociali, economiche, comunicative e culturali nate dal crescente dominio della tecnica che invade tutti i settori dell’attività umana. Il sistema educativo fondato sulla scuola pubblica che dal secolo dei lumi in poi era diventato guida e maestra della vita individuale e sociale, quasi la pietra d’angolo dello Stato nazionale, oggi non sembra più in grado di svolgere questo ruolo in maniera soddisfacente come invece è avvenuto nella prima modernità. Nonostante questa evidenza la crisi del sistema educativo è stata affrontata fino ad ora con un

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approccio settoriale che ha risolto solo parzialmente e per breve tempo i problemi. Questo fatto è abbastanza sorprendente perché la grande trasformazione ha evidenziato da tempo le carenze tecniche e più ancora quelle relative al campo della formazione civica, per la quale non basta conservare le conoscenze antiche e i vecchi valori ma è necessario aggiornare il patrimonio culturale e politico secondo i nuovi principi e le nuove esigenze. Non basta ascoltare le denunce che sentiamo ripetere dal corpo insegnante, dalle famiglie e dai giovani studenti per capire fino in fondo la misura e la qualità della crisi. Essa non tocca infatti solo il funzionamento pratico del sistema, non riguarda solo le difficoltà che incontrano i giovani diplomati e laureati a inserirsi nel lavoro in tutti i campi, sia in quelli tradizionali della produzione primaria materiale sia in quelli della ricerca e delle produzioni immateriali. La crisi della scuola è più profonda e più ampia, investe la sua funzione primaria, quella cioè di trasmettere alle nuove generazioni la giusta visione del mondo e della persona umana, i valori e i bisogni dei singoli individui, delle società considerati secondo i principi democratici e liberali. Un esempio eloquente dei cambiamenti valoriali è presente nell’idea di patria, considerata nel passato il bene più alto da servire fino all’estremo sacrificio della vita. Oggi quest’idea è in crisi profonda ma nell’insegnamento mantiene l’importanza e il significato del passato nonostante sia evidente la sua incoerenza con la cultura più nuova del tempo presente che privilegia il valore della convivenza pacifica e rifiuta l’uso della forza e della violenza. Molte cose nel patrimonio comune sono cambiate ma nella scuola si continuano a studiare i vecchi programmi di storia: le guerre, gli eroi, i martiri e tutto ciò che un tempo alimentava l’amor di patria. E questo avviene nonostante la

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riemersione come antidoto alla crisi dei sentimenti nazionalisti sia condannata dalla cultura democratica, perché contrappongono l’una all’altra le nazioni e non sono ispirati ai valori della pace e della collaborazione tra i popoli e gli stati. Questo rende più urgente e indispensabile parlarne e confrontarsi senza ambiguità, senza demagogie per il nuovo e senza rimpianti per il vecchio, ma cercando di trovare il giusto equilibrio. Se il sistema formativo nel suo complesso deve concorrere a formare la base della coscienza civica dei cittadini, oltre che a fornire la competenza specifica ai professionisti, agli imprenditori, ai lavoratori, se si vuole che la scuola torni ad essere uno degli elementi fondamentali per il progresso e la promozione delle persone singole e delle comunità, prima di ogni altra cosa occorre cambiare i programmi e spiegare alle giovani generazioni i nuovi significati delle parole singolari collettive che usiamo normalmente: in particolare Stato, libertà, eguaglianza, convivenza, sviluppo, progresso, per citare le più note. Se la scuola deve continuare a essere il soggetto che prepara i cittadini ad affrontare il nuovo tempo deve farlo secondo i principi e le categorie valoriali della società post-moderna, anche se ciò comporta qualche sofferenza derivante dall’abbandono dei vecchi paradigmi. A ben guardare, i nuovi metodi d’insegnamento non sono mai stati attuati senza traumi e senza contrasti. In ogni cambiamento ci sono stati e sempre ci saranno i favorevoli e i contrari. Consentitemi a questo proposito una breve digressione. Un mio amico, professore di storia e filosofia del liceo ed ex sindaco della città di Tempio, Tomaso Panu, ha scritto di recente un libro pregevole – che vi consiglierei di leggere –

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sulla storia della scuola degli Scolopi nella sua città. La vicenda si snoda per circa due secoli tra elogi e gradimento, ma anche contrasti e lamentele per le conseguenze che il lavoro di formazione dei giovani andava provocando nell’assetto di potere esistente, sia nella società civile sia nella struttura gerarchica della Chiesa. La presenza degli Scolopi a Tempio e in altre cittadine della Sardegna e forse ancor di più la presenza delle Scuole dei Gesuiti a Cagliari e Sassari è stato molto importante. Ha conosciuto sostegno e ostilità, ma ha segnato positivamente la società sarda di quel tempo – nella misura allora possibile – dando inizio a un cambiamento e contribuendo a migliorare le condizioni sociali ed economiche oltre a rafforzare i ruoli delle città ospitanti. È sempre stato così nel tempo moderno. Non lo pensano solo gli insegnanti e i politici. Lo pensa la generalità dei cittadini come dimostra la reazione popolare alle proposte di ridurre la presenza delle strutture scolastiche soprattutto nei piccoli centri. La coscienza collettiva reagisce spontaneamente a ogni indebolimento, che viene vissuto come una ferita, come un’ingiustizia, come condizione di diseguaglianza nella vita dei singoli e delle comunità. Non tocca certo alla popolazione colpita ma alla classe dirigente capire che la conservazione delle strutture non basta e rischia di essere sterile e inutile se non viene integrata da una valutazione più ampia e generale sul nuovo ruolo che la scuola deve svolgere nel diffondere i valori del tempo che viviamo e nel preparare i cittadini non solo a conoscere e difendere i propri diritti ma anche ad assumersi la piena responsabilità di una cittadinanza attiva, coerente con i valori che sono venuti emergendo in tutto il mondo in questo tempo, nel processo che molti definiscono “seconda modernizzazione”. Per quanto riguarda la grande discussione in ordine alle

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riforme dei metodi e degli strumenti d’insegnamento, della selezione e preparazione del personale docente, dei rapporti tra scuola e famiglia e così via, penso che tutto vada esaminato tenendo conto della rivoluzione tecnologica, della presenza di internet e dei nuovi social media, che hanno creato altri problemi e altre esigenze da affrontare e risolvere nel modo tecnicamente migliore tenendo conto di tutte le osservazioni e critiche. Si tratta di questioni molto serie, ma io non credo sia questo il problema più difficile e importante. Credo sia più importante la scelta dei contenuti dei programmi. Una scelta sbagliata di questi ultimi provoca una carenza formativa globale che si riflette sui comportamenti sociali e su quelli politici, oltreché sulle scelte personali di vita, sul ruolo della famiglia, delle istituzioni locali fino a toccare la cittadinanza, la qualità dello sviluppo economico, i rapporti tra le nazioni, i popoli e gli stati, cioè tutto ciò che costituisce il campo cui deve provvedere la politica, la cui salute a sua volta dipende molto dalla qualità della formazione scolastica e culturale. C’è da considerare innanzitutto che le grandi trasformazioni sociali indotte dalla tecnica, dai media e da tutto ciò che includiamo a intuito nel termine “globalizzazione” porteranno, se non l’hanno già fatto, a rendere obsolete molte delle vecchie certezze che la scuola continua a trasmettere alle più giovani generazioni. A questo va aggiunto che la crisi indotta dalla tecnologia dei media è diventata più grave perché si è sommata alla caduta delle ideologie, alle crisi ecologiche-ambientali, alla concentrazione del capitale nelle multinazionali, allo sviluppo costante e inarrestabile della tecnica, allo stabilirsi della popolazione in grandi agglomerati urbani, alla crescente dipendenza dei popoli e dei governi da poteri extranazionali, all’egemonia inarrestabile del nuovo capitalismo e alla

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crescita delle disuguaglianze in ogni parte del mondo. Finora tutti abbiamo sbagliato a concentrarci sulle strutture e a ignorare o sottovalutare l’impatto di questi fenomeni sulle istituzioni politiche, sui partiti, sulla sovranità, sulle libertà, sulla democrazia. Non abbiamo valutato bene le cause per le quali le rappresentanze politiche appaiono così spesso impotenti e incapaci a dare una risposta alle attese dell’opinione pubblica. Questa rivendica l’urgenza di una riforma dell’intero sistema ma non sempre coglie il cuore del problema. Invoca genericamente cambiamenti ma non arriva fino al punto di chiedere di abbandonare i vecchi paradigmi e i vecchi strumenti per adottarne di nuovi più in linea con lo spirito e le esigenze del tempo perché questo è un compito che spetta alla rappresentanza politica. Ma questa sembra incapace a rispondere. Dopo la scomparsa delle “grandi narrazioni” fondate sulle ideologie che hanno dominato la politica moderna, diviso in grandi blocchi gli elettori, definito l’orientamento dei programmi, fornito la guida all’evoluzione della società, le rappresentanze politiche sono divenute silenti, non sanno rispondere alle nuove domande e temono di perdere il consenso degli elettori. Tutto questo colpisce soprattutto la sinistra perché la destra si rifugia nel vecchio nazionalismo convinta che sia questo il sistema politico e culturale più efficace. E questo avviene nonostante la quasi generalità dei sociologi, dei filosofi e dei politologi consideri lo Stato-nazione una forma inadeguata ad assicurare una governance complessiva istituzionale, sociale e politica della società post-moderna diventata, anche a causa della crisi della sinistra, liquida e individualista, incapace di elaborare un nuovo paradigma all’altezza della funzione di guida autorevole della parte più numerosa e più debole della società che è ancora chiamata a

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svolgere. 3) Istruzione, sviluppo, crisi della rappresentanza dei soggetti politici e culturali sono allo stesso tempo causa ed effetto della crisi più generale delle strutture valoriali nate con l’avvento della Nazione-Stato, figlia della Rivoluzione francese, che ha dominato ovunque in Europa e nel mondo per più di due secoli. La Nazione-Stato fu costruita su una forte cultura identitaria, su una storia, una terra, una lingua, un patrimonio artistico, una mitologia comune e persino una Chiesa nazionale che restano importanti ma non appaiono più sufficienti a definire le nuove funzioni. La cosa più sorprendente è che nonostante tutto lo Stato nazionale viene da molti considerato ancora l’unico strumento idoneo a difendere gli interessi nazionali e porre un freno e un rimedio alla crisi generale della cultura e delle istituzioni della prima modernità. Accade sempre più spesso che mentre molti vedono con grande preoccupazione la rinascita della Nazione-Stato, altri invece la sostengono convintamente con il risultato che la crisi si aggrava e il conflitto – in atto o latente – tra locale e globale, tra mercato e Stato, tra poteri democratici e poteri extrapolitici cresce e allo stesso tempo fa aumentare in maniera mai vista prima le diseguaglianze sociali e la sfiducia nelle istituzioni politiche. L’opinione pubblica stenta a capire che la rinascita dei nazionalismi può provocare conseguenze nefaste. Alcune simili a quelle già conosciute e sperimentate tragicamente nelle varie guerre e altre nuove, legate a conflitti (non sempre ben conosciuti e quindi meno controllabili), espressi in varie forme e sempre più spesso in forme terroristiche. Questo spiega anche perché finora non si è riusciti a bloccare la rinascita dei nazionalismi e di tutti gli altri fenomeni in corso nel mondo, che crescono ogni giorno aiutati dal fatto che per la prima volta nella storia gli abitanti del pianeta Terra sono

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in grado di conoscere gli avvenimenti in tempo reale ovunque essi avvengano e questa conoscenza fa emergere le differenze esistenti nelle condizioni di vita, scopre le ingiustizie, le diseguaglianze, le dipendenze, crea invidia, rancore, qualche volta odio, che alimentano la competizione per il dominio, suscitano desideri di rivincita, accendono passioni e sentimenti ostili, provocano anche lo sviluppo del terrorismo diffuso e altri fenomeni meno pericolosi, ma pur sempre negativi, come i localismi all’interno della stessa nazione e della stessa regione. Anche qui in Sardegna, pur appartenendo questa nostra Isola al “primo mondo”, registriamo fenomeni che stanno progressivamente indebolendo non solo il legame con l’Italia ma stanno mettendo in contrasto tra loro i territori e le singole città dell’Isola. La governance regionale è scomparsa e tutti si confrontano animosamente per avere più opportunità, più servizi degli altri, per assicurarsi la presenza delle strutture considerate determinanti sia per lo sviluppo, sia nel campo istituzionale-politico, sia in quello dell’istruzione. È l’assenza di una governance condivisa a tutti i livelli che sta erodendo la fiducia nella rappresentanza politica e facendo crescere nell’opinione pubblica l’influenza della cosiddetta “antipolitica”, del populismo e della demagogia. Il ceto politico più responsabile reagisce secondo i vecchi paradigmi senza rendersi conto che questi non sono più in grado di fermare la crisi. La sfiducia popolare verso le strutture istituzionali e le rappresentanze aumenta e fa crescere movimenti d’opinione che delegittimano tutto e tutti, alimentando un processo genericamente definito “antipolitica”. Termine che ritengo improprio, frutto di una valutazione superficiale delle forze politiche tradizionali che rifiutano di vedere nell’atteggiamento della società una nuova e non banale

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domanda politica. Questa domanda è spesso confusa, oscura, irrazionale e rabbiosa, ma rimane pur sempre politica e colpisce in primo luogo proprio la rappresentanza che non sa o non vuole rispondere perché non ne ha la capacità o ha paura delle conseguenze della scelta. Forse neppure capisce del tutto che è comunque la politica e i suoi rappresentanti, prima di qualsiasi altra istituzione che deve rispondere alle domande pressanti della società in crisi. La politica invece è inerte oppure chiusa in un processo autoreferenziale carico di presunzione e per niente consapevole che senza l’apporto generoso e intelligente di tutti coloro che sono impegnati nel mondo dell’istruzione, della ricerca, dell’informazione, dell’arte, della cultura e in tutte le altre strutture delegate alla formazione delle nuove generazioni, a cominciare dalla famiglia, dalle associazioni e da tutto il vasto mondo intellettuale, religioso la sua azione è destinata al fallimento. La sfiducia nella rappresentanza va aldilà dei singoli, indebolisce la democrazia, delegittima i governi e i parlamenti, suscita vecchi e nuovi fantasmi che agitano la mente e il cuore dei cittadini più sensibili, che sentono i pericoli che incombono sulla sovranità popolare, sull’eguaglianza e sulle conquiste più importanti del welfare messe in crisi oltreché dall’ antipolitca, dal rinascente nazionalismo, dal capitalismo finanziario internazionale e dalla nuova cultura politica di stampo populista e demagogico. 4) Tutto ciò che vediamo ci impone di guardare con molta più attenzione alle nuove strutture concettuali e ai nuovi significati delle parole usate dalla politica. Il dibattito della sociologia, della scienza politica, dell’antropologia e della storiografia sociale e concettuale ha già chiarito che non tutto ciò che compare nel nuovo orizzonte di aspettative è compatibile con i principi democratici perché

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esso non è nato a caso ma è figlio di esperienze molteplici e a volte opposte che generano nuove strutture valoriali, domande e attese di cambiamento della vita personale e della vita sociale a volte in linea con i valori della democrazia e altre volte ad essa contrapposti. Ciò impone alla politica una scelta tra quali domande accettare e quali escludere. Se si vuole la pace e la collaborazione tra i popoli bisogna condannare tutte le guerre e prima ancora tutto ciò che esalta la forza e la violenza, anche quando sono al servizio delle nazioni. Ciò non vuol dire dimenticare le proprie radici e cancellare tutto ma vuol dire che bisogna usare i vecchi valori con più cautela. Per farmi capire faccio un esempio. Nelle scuole elementari della Sardegna ai bambini viene insegnato e fatto cantare l’inno della Brigata Sassari, senza nessuna avvertenza o precauzione. L’inno della Brigata non è un inno alla pace. Esso esalta le qualità “guerresche” dei fanti, chiamati “Dimonios”, termine che non richiama i valori della pace ma della guerra e può far male. La stessa cosa vele per i programmi di storia, ancora imperniati sulle guerre, sulle vittorie, sugli eroismi, sulla potenza, sul coraggio contro i nemici piuttosto che sui valori del nuovo paradigma della convivenza pacifica e della fraternità di tutto il genere umano. 5) Da questi esempi emerge l’importanza dei programmi e dei concetti che però è troppo sottovalutata e non senza conseguenze. Già Immanuel Kant aveva dimostrato che non esiste esperienza senza concetti e non esistono concetti senza esperienza. Le parole esprimono un universo concettuale complesso che cambia con il cambiare dell’esperienza. Parole singolari complesse come Stato, potere, sovranità, civiltà, fede, pace, guerra, progresso, libertà, eguaglianza, democrazia, rappresentanza, legge, storia, giustizia, parità, solidarietà, cultura, politica, matrimonio, famiglia, classe,

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impresa, mercato, istruzione, sviluppo, lavoro, sicurezza e tante altre non contengono solo i significati e i concetti generati dall’esperienza del passato, di quello più lontano e della moderna democrazia parlamentare rappresentativa, ma ne contengono di nuovi a volte persino opposti. Il nuovo significato delle parole e il contenuto delle aspettative del nuovo orizzonte generate dall’esperienza della modernità va spiegato nelle scuole per capire meglio il senso del tempo, delle esperienze e delle attese popolari. Il mondo ha vissuto negli ultimi decenni del secolo scorso e all’inizio del terzo millennio esperienze complesse e spesso drammatiche che hanno messo in crisi gran parte del vecchio universo concettuale, sia in campo politico sia in quello scientifico, tecnico, dei costumi, dell’economia e della vita individuale e collettiva e persino delle fedi religiose. Questo non viene trattato come meriterebbe e a volte viene persino ignorato in tutti i livelli scolastici. La trasformazione dei significati va presa invece molto più sul serio soprattutto da chi crede ancora nei valori della democrazia e nei principi espressi dall’illuminismo che conosciamo condensati nella triade “Liberté, égalité, fraternité”, triade che ha ispirato la politica degli Stati-Nazione nati dopo la Rivoluzione francese e posti alla base dello Stato sociale nel Novecento, che ha però sviluppato soprattutto i primi due lasciando la “fraternité” interamente inattuata. L’esperienza più recente ha però dimostrato che liberté ed égalité non sono sufficienti a coprire le domande contenute nel nuovo orizzonte di aspettative e ha riportato in primo piano come fattore-valore essenziale per governare i grandi cambiamenti in corso nel mondo proprio la fraternité. Gli strumenti, le normative e gli interventi dello Stato sociale oggi in crisi si dimostreranno, senza la fraternità, ancora più

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inadeguati a soddisfare le aspettative delle popolazioni escluse dalla prima modernizzazione che premono per non essere escluse dalla seconda e chiedono solidarietà dal mondo più ricco, diventato tale anche attraverso lo sfruttamento secolare dei più deboli operato dal colonialismo degli stati nazionali più forti ed evoluti. L’esperienza del secolo scorso comprende – per citare i fatti più rilevanti – le due guerre mondiali, la fine del colonialismo, lo sviluppo impetuoso della tecnica, le scoperte scientifiche più numerose e più importanti di quelle dei secoli precedenti, ha visto la nascita di nuove potenze, la crescita e il crollo del sistema sovietico e del comunismo che sembrava l’alternativa più seria al sistema capitalista. Molte parole hanno cambiato significato e nel vuoto lasciato dal comunismo e dalle altre ideologie si sono inseriti altri sistemi concettuali e politici. Tra questi il fondamentalismo islamico, il modello del capitalismo di Stato cinese e i nuovi nazionalismi di difficile classificazione e interpretazione, l’evoluzione del sistema democratico occidentale in senso populista. Questo spiega la crisi delle classi dirigenti che non riescono a dare risposte alle aspettative popolari non perché queste sono confuse e contraddittorie, ma perché lo Stato sociale, le sue istituzioni, i suoi strumenti e le sue azioni appartengono alle esperienze di un altro tempo e rispondono alle aspettative di un'altra società. I principi della triade “Liberté, égalité, fraternité” sono ancora validi ma la loro applicazione non può essere uguale a quella del passato sia nei contenuti sia nelle procedure. Ci vogliono azioni e strumenti nuovi, estesi possibilmente a tutto il genere umano, soprattutto alla parte più povera, che preme per avere gli stessi diritti e le stesse condizioni di vita del mondo più ricco e evoluto. Ma questo senza l’attuazione del principio di fraternità non sarà possibile.

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6) L’opinione pubblica occidentale vive male questaprospettiva perché teme un peggioramento delle suecondizioni di reddito, di benessere e di sicurezza sociale. Hapaura per quello che intravede nel futuro e non ha ancoratrovato le risposte giuste alla spinta sempre più forte dellacultura progressista verso un sistema mondo più solidale epiù fraterno e per questo chiamato “Nuovo umanesimo”. Ilcompito di fermare la crisi ecologica-ambientale, contrastarele epidemie, gestire le grandi migrazioni, combattere ilterrorismo, superare le crisi alimentari, bloccare le guerreetniche e i conflitti per il controllo dei mari e dei fiumi,governare tanti altri aspetti fondamentali della convivenzadella società umana unificata dalla tecnica non è possibilesenza una nuova visione politica globale che abbiamochiamato Nuovo umanesimo.Gli obiettivi dei sostenitori del nuovo umanesimo vanno forsealdilà del tempo breve. Ma le aspettative della società globalenon possono essere ignorate o eluse e rinviate sine die.Devono trovare risposte non solo dai movimenti religiosi,culturali e umanitari in genere, ma dalla politica degli stati edalle loro strutture istituzionali, economiche e educative.Le risposte espresse dalla politica e dalle istituzioni finora nonsono state confortanti. Solo la Chiesa cattolica e in parte leistituzioni internazionali si sono dimostrate consapevoli epreoccupate dei pericoli che incombono sulla pacificaconvivenza e premono perché si affermi una nuova visionepolitica e si colmi il ritardo con il quale le grandi crisi vengonoaffrontate.Il mondo politico invece, seppure non indifferente apparedisorientato e comunque lontano dal cogliere l’urgenza diuna risposta dalla quale dipende in gran parte il futuro nonsolo dell’istruzione, dello sviluppo, della rappresentanza mapiù in generale della pace e della democrazia nel mondo e

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quindi anche in Italia e in Sardegna. Il processo non sarà lineare né facile né senza intralci, interruzioni e contrasti. I soggetti coinvolti sono molti e non sempre sono d’accordo sulla direzione da prendere. Le iniziative politiche devono essere convinte, costanti, autorevoli, devono essere rivolte a mettere d’accordo tutti i soggetti evitando che prevalga la tendenza più forte che non va nella direzione dell’accoglimento delle domande dei più deboli, la cui esperienza li porta a rifiutare il vecchio modello di sviluppo che abbiamo per tanti anni chiamato “progresso” e a chiedere un cambio molto profondo del vecchio paradigma delle democrazie occidentali. Il nuovo modello deve essere diverso e ciò è possibile se si fa in modo che ogni soggetto, anche il più piccolo, vi sia coinvolto, abbia ascolto non per la forza che esprime ma perché come i più forti ha diritto a partecipare alla governance globale. La nuova governance deve avviare un processo circolare cumulativo che unisca e includa tutti in un lavoro comune rivolto a realizzare un mondo più equo, più giusto e più solidale, cioè più fraterno. Questo oggi è il compito più urgente e più importante della politica, delle rappresentanze democratiche e prima ancora della scuola e di tutte le istituzioni, le forze politiche e i sistemi culturali soprattutto di quelle che si richiamano ai valori del cristianesimo, del socialismo, del liberalismo democratico e di tutti i movimenti che hanno al centro la persona umana. Le materie sulle quali lavorare per costruire un futuro più in linea con questi valori sono conosciute da tutti quelli che dovrebbero partecipare all’impresa. Esse nascono direttamente dall’esperienza più recente. Si definiscono con parole già usate nel passato che hanno lo stesso suono di prima ma contengono le domande emerse dalle nuove esperienze, esprimono aspettative e speranze che prevedono

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un futuro diverso per tutti, soprattutto per le popolazioni che sono state per lungo tempo oppresse e che non vogliono essere più vittime ma fruitrici alla pari degli occidentali dei vantaggi e delle chances di vita offerti dalla seconda modernità non per benevolenza dei potenti ma in quanto popoli e persone che hanno gli stessi diritti dei popoli e delle persone degli stati più ricchi. Il problema per la politica non è più quello di star dietro agli interessi e agli egoismi, alle proteste e ai rancori, ai sentimenti di appartenenza ad una o ad un’altra regione, città o paese, ma piuttosto quello di dare risposte urgenti e indilazionabili anche in termini morali e umani alle domande di libertà, eguaglianza e fraternità oggi in campo che non possono essere più ignorate e tantomeno respinte. Le domande sono molte e complesse e ci vorrà tempo per elaborare soluzioni che le soddisfino tutte, ma è importante rispondere subito a quelle più urgenti che hanno acquisito un grande rilievo sull’intera vita del pianeta. Ne indico solo alcune: la proliferazione di conflitti in alcune parti del mondo, la questione ecologica e ambientale, la questione delle migrazioni di massa dalle aree più povere del pianeta verso quelle più ricche, i conflitti tra le diverse culture religiose e politiche, il ritardo in molte aree del pianeta della piena parità uomo-donna, la mancata costruzione di un sistema economico meno avido di risorse naturali, l’adozione di un sistema politico capace di garantire a tutti l’esercizio della sovranità popolare in un mondo pacificato e pienamente rispettoso dei diritti della persona umana. Tutti questi temi dovrebbero essere al centro della politica estera e di quella interna, dei programmi d’istruzione e dei modelli di sviluppo. La scuola ha la funzione di preparare la rappresentanza politica e la nuova classe dirigente ad assolvere al meglio il

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grande compito di dare le giuste risposte alle attese dei cittadini. Da tutto questo dipende la sorte della democrazia, la qualità della vita nell’intero pianeta, la convivenza pacifica tra le varie nazioni del mondo, la dignità della persona umana senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di cultura o di orientamento politico. 6) Dopo il crollo del comunismo qualcuno aveva parlato di fine della storia ma questo per fortuna non è avvenuto. La storia non è finita e la politica mondiale è chiamata a misurarsi su scelte alternative rispetto ai modelli di vita e di sviluppo promossi dal sistema capitalistico globale, fondati sul dominio della finanza internazionale, della potenza militare, della forza e della violenza in tutti i campi e sulla contrapposizione tra blocchi religiosi e politici, sul dominio del paradigma maschile su quello femminile, sulla crescita economica ininterrotta e la distruzione dell’habitat naturale, sulla supremazia assoluta dell’essere umano su tutto il resto del creato (animali, piante, paesaggio, elementi naturali in genere) e sullo sfruttamento delle aree più povere a favore delle più ricche. L’esperienza ha dimostrato che i vecchi paradigmi hanno avuto il merito di aver migliorato la condizione umana e non devono essere abbandonati del tutto ma profondamente modificati. Devono cambiare gli indirizzi e i contenuti dell’azione politica e le azioni degli altri soggetti collettivi espressi dalla società e dallo Stato, a cominciare dalla scuola e da tutti gli altri soggetti educativi. Essi devono fornire le ragioni e le motivazioni per un cambiamento rivolto a superare le crisi causate dalle ultime esperienze e devono dare risposte alle nuove domande del nuovo orizzonte di aspettative definite ancora con parole antiche ma dotate di nuovi contenuti, che richiedono per essere realizzati molto

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coraggio, volontà, lungimiranza e saggezza politica simili a quelle di Papa Francesco, impegnato a cambiare le modalità e gli strumenti del magistero della Chiesa cattolica, orientandolo a sanare le vecchie ferite, a ricomporre l’unità della Chiesa non nel potere temporale ma sui grandi principi. La sua prossima partecipazione alle celebrazioni del cinquecentesimo anniversario della Riforma luterana è un gesto senza precedenti, impensabile fino al momento del suo annuncio, straordinario per il suo significato storico che mostra anche alla politica che è urgente e possibile cancellare secoli di lotte, di guerre, di conflitti e di contrapposizioni che fino al giorno prima sembravano insanabili. Gesti come questo possono mettere in moto il grande processo di unificazione del mondo, perché impegnano la politica a lavorare per creare un sistema capace di superare le grandi divisioni del passato, il dominio dell’uomo sugli altri uomini, lo sfruttamento e la rapina delle risorse, le vecchie e nuove diseguaglianze, la disparità uomo-donna, la forza e il dominio per sostituirle con la giustizia e l’equità, la solidarietà e la fraternità, contenuti nel nuovo orizzonte di aspettative nato dalle sofferenze del vecchio mondo. Non si tratta di dar vita a nuove ideologie e neppure a nuove utopie che promettono il Paradiso in terra, ma a programmi politici realizzabili non da un potere assoluto, da governi che impongono la volontà di una parte su tutte le altre secondo lo strano “principio di maggioranza” che oggi sembra dominare anche la politica delle democrazie cosiddette mature, che lo usano senza esitazioni per garantire una stabilità senza adottare nuovi contenuti facendo correre gravi rischi alla democrazia. Bisogna convincersi che la stabilità del potere, senza una politica capace di dar vita a una convivenza che privilegi i valori umani, rispetti tutte le persone, tutte le fedi, tutti gli

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orientamenti politici, tutte le culture, tutti i generi e tutti gli orientamenti sessuali, i diritti dei viventi, di coloro che devono nascere e tutte le forme di vita presenti nel creato, senza un programma che avvii il cammino verso una civiltà che vada oltre il dominio della tecnica e la crescita economica e riconosca il primato dei beni immateriali su quelli materiali che hanno dominato il tempo del “progresso” dalla prima modernità, la stabilità non fermerà la crisi, anzi potrebbe renderla più grave.

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MIRKO MURGIA Cari amici, ringraziando gli organizzatori per l’invito, colgo l’occasione per complimentarmi sul titolo del convegno e in particolare sugli argomenti che questo incontro vuole trattare, che sono oggi più che mai attuali e d’interesse comune. Parlare di istruzione e di sviluppo dimostra quanto la coscienza di tutti noi sia orientata verso il voler accostare questi due elementi, con la consapevolezza che la complementarietà dell’istruzione con lo sviluppo e viceversa sia la vera ragione di sfida in un’era moderna che vede la conoscenza e la competenza come unici elementi capaci di affrontare la globale corsa allo sviluppo. Il concetto di sviluppo ha subito nel corso del tempo diversi mutamenti nel significato e nell'approccio culturale. Si tratta in ogni caso di un concetto relativo e non assoluto, che dipende dal contesto storico e dalla società in cui viene analizzato. Studiare lo sviluppo significa cercare di conoscere come e perchÉ le società crescono e si modificano nel corso della storia. Per poter completare un ragionamento sul concetto di sviluppo non possiamo perciò non approfondire il concetto di istruzione. Il dilemma che travolge l’Italia del XXI secolo è trovare un giusto equilibrio tra il concetto di istruzione e quello di educazione. Sembrerebbe, che oggi, educare sia esibire valori e istruire trasmettere tecniche, vanificando così la completezza dell’idea di istruzione così come quella di formazione. Gli inglesi non hanno questi problemi, perché “education” significa istruzione. Istruire o formare significa costruire e far costruire un futuro culturale, sociale ed economico della società e non semplicemente trasmettere informazioni. Il primato dell’istruzione deriva da un modello

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concettuale secondo cui la formazione dell’uomo avviene attraverso l’acquisizione e l’elaborazione di stimoli o informazioni che provengono dall’esterno. Vi è quindi in gioco ben altro che la contrapposizione dei valori a quello delle abilità e delle competenze. Qui gioca un ruolo importante il mondo della scuola e dell’università che probabilmente nel ricercare nuovi modelli, senza però risolvere alcune questioni storiche cruciali, si è ritrovato a combattere contro la dispersione scolastica l’una e contro gli standard europei di formazione l’altra. Resta il fatto che la scuola rimane l’unico vero ambito di condivisione e compartecipazione di valori e che l’istruzione, anche occupandosi solo di elementi tecnici, è la vera missione della scuola stessa. Insomma, la scuola deve educare perché l’individuo si deve sviluppare secondo un’idea di perfezione morale, per fare questo, per dare una simile forma all’individuo, bisogna istruire. È attraverso l’istruzione, la comunicazione didattica nella scuola, la trasmissione in essa di contenuti culturali organizzati e formalizzati, che si può realizzare un compito educativo configurato, nel senso di un processo di formazione di tipo “intellettuale”. La confusione e gli equivoci concettuali sono troppi e il bisogno di emancipazione oggi più che mai è esaltato da un confronto che va oltre i confini regionali e nazionali, serve perciò oltre a una più attenta sensibilità, anche una più concreta politica scolastica. Il pensiero che ha rallentato a mio parere il percorso di crescita e di competitività è stata la teoria che l’educazione fosse di destra e l’istruzione di sinistra, o viceversa, quando entrambe si sono indebolite, sostituite a vicenda, senza riuscire a rimettere in discussione la forma “scuola tradizionale” ma limitandosi ad accusarsi l’un l’altra di volerla sminuire e svuotare di senso. La scuola e la formazione e quindi la conoscenza, hanno segnato la storia e

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lo sviluppo sociale, tutto questo sullo sfondo di scenari storici diversi, dalla rivoluzione francese, con lo stato napoleonico e le prime codificazioni delle leggi, al risorgimento italiano, al movimento socialista, al Partito comunista, al ventennio fascista fino alla questione cattolica e ai giorni nostri. Certo si tratta di importanti momenti della nostra storia, che nulla hanno a che vedere rispetto alla nostra esperienza di crisi della scuola e di tramonto dell’educazione, in un mondo oramai globalizzato dove il confronto e la comunicazione non hanno più confini e dove la forma incide più della sostanza. E in questo quadro moderno e forse per certi versi astratto si consuma un altro dramma che è la crisi delle rappresentanze. La “crisi della rappresentanza” sta trovando la propria soluzione storica nella scomparsa di ogni sua forma concreta. Oggi tale dinamica ha subìto un’accelerazione notevole, sovrapponendo la discussione sulla rappresentanza politica a quella sindacale. Ambiti diversi, quello politico e quello sindacale, ma con un’unica direzione, cioè, la rappresentanza degli interessi di classe, siano essi politici o sindacali. L’articolo 1 della Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». L’espressione «Repubblica democratica» indica una forma di governo in cui, a differenza della monarchia, tutte le cariche pubbliche, compresa quella del Capo dello Stato, sono espressione — diretta o indiretta — del consenso del popolo. Questa ricerca del consenso tramite procedure politiche decisionali è parte di un’evoluzione delle modalità di governare le società moderne. Questa evoluzione ha visto lo spostamento costante della formazione del consenso dal centro parlamentare verso l’amministrazione, mentre quest’ultima diveniva il vero fulcro delle decisioni. La ricerca ossessiva di nuovi sistemi di gestione della società ha

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inciso su tre assi funzionali delle democrazie moderne, la trasformazione della pubblica amministrazione stessa, la trasformazione delle strutture del governo rappresentativo e la trasformazione dell’organizzazione degli interessi nella società civile. La trasformazione dell’amministrazione pubblica emerge da una crescente specializzazione dei suoi vari campi di competenza e di azione, e da una altrettanto crescente dispersione delle decisioni. Allo stesso tempo, nelle strutture del governo rappresentativo, i membri del parlamento tendono a rappresentare meno l’interesse generale e sempre più gli interessi particolari. Contemporaneamente, i gruppi di interesse privato della società civile sono divenuti sempre più forti e numerosi, fino a diventare – per quanto riguarda la trasmissione delle richieste dei privati – più efficienti degli stessi partiti politici, che dovrebbero essere i canali tradizionali della rappresentanza politica. Alla crisi della rappresentanza si è risposto con una drastica riduzione della stessa, in ogni ambito della vita sociale organizzata. Oggi ci ritroviamo tutti con meno potere di incidere sulle dinamiche di potere, proprio perché nessuna organizzazione politica ha la forza di rappresentare gli interessi di classe nei vari luoghi in cui questi vengono discussi. Per farla breve, invece di operare una critica sul modo di organizzare la rappresentanza di talune organizzazioni politiche e non, si è proceduto teorizzando una crisi della stessa. E se organizzazione significa rappresentanza, attaccare la rappresentanza significa demolire il concetto di organizzazione. Tra i vari tipi di rappresentanza (politica, legale, organica, diretta, indiretta, sindacale ecc.), quella politica si distingue per avere un particolare valore etico. Negli ultimi vent'anni, le difficoltà della politica nel mediare i conflitti sociali hanno ridotto il ruolo del Parlamento nel farsi carico della mediazione tra i

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soggetti sociali. Si è avuta, dunque, una riduzione del ruolo del rappresentante alla quale si è aggiunta una crescente indeterminatezza del ruolo del rappresentato dovuta alla volatilità dei ruoli sociali e alla perdita di identità collettive. La rappresentanza nella nostra società ha avuto anche nei periodi più bui il suo ruolo. Addirittura durante i regimi fascisti, l’autorità del potere aveva dovuto condividere un’architettura istituzionale che garantisse almeno una parvenza di rappresentanza ai vari interessi sociali di cui si componeva la società. Mussolini, infatti, nonostante la sua ovvia tendenza accentratrice, non riuscì né a sopprimere il parlamento, né a impedire la prolificazione di determinate camere d’interessi, volte tutte a rappresentare le molte facce del regime. La crisi delle rappresentanze dunque non è il risultato di un mondo che sta cambiando, ma una vera e propria scelta, fatta negli anni, per cui è più facile nascondersi dietro le difficolta a rappresentare che impegnarsi concretamente a rappresentare. Il ruolo che io oggi ricopro come presidente della Confapi Sardegna mi impone l’obbligo di condividere e fare mie le battaglie della piccola e media industria della Sardegna. Se si pensa che la piccola industria rappresenta oggi il 90% del tessuto economico sardo, si può ben capire che interpretare e sostenere il sentimento di una così numerosa platea sarebbe impossibile. Ritengo invece che nel rispetto del ruolo che mi è stato conferito, la parola d’ordine sia “rappresentare” in tutti le sedi e i luoghi le istanze e gli attori del settore che rappresento. L’enorme conflitto tra il concetto di educazione e di istruzione già citati si possono confrontare con la netta contrapposizione del concetto di rappresentanza con il concetto di rappresentatività. Ritengo, per concludere, che fino a quando la ricerca delle soluzioni ai problemi si confonde con i problemi stessi, non saremo in grado di cambiare le cose.

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Continueremo ad avere una scuola che combatte in modo sterile una battaglia per garantire un futuro migliore a se stessa dimenticandosi degli studenti e continueremo a vedere la politica e le organizzazioni combattere una guerra sul tema della rappresentanza tenendo fuori dal discorso i “rappresentati” e continuando a giocare su “chi” o “cosa” si vuole rappresentare.

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Scuola e democrazia nel tempo di Snapchat TONINO LODDO È passato praticamente un anno, da quando il ministro Stefania Giannini ha annunciato lo stanziamento di ben un miliardo di euro (da spendere entro il 2020) per portare l’innovazione a scuola, nel quadro del Piano Nazionale Scuola Digitale. Fibra e banda ultra-larga alla porta di ogni scuola, cablaggio degli spazi interni, risorse per pagare il canone di connettività, un responsabile per il digitale in ogni istituto, formazione in ser- vizio per tutto il personale, una strategia nazionale per l’apprendimento pratico e i laboratori, un quadro comune per le competenze digitali degli studenti: sono fra le 35 azioni previste dal documento che è immediatamente operativo e stanzia 600 milioni sulle infrastrutture e 400 sulle nuove competenze, la formazione del personale, il monitoraggio e le misure di accompagnamento. Questo consistente passo avanti sull’informatizzazione della scuola italiana fa venire in mente un celebre (e pluriripetuto) detto cinese: «Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita». Solo, non si capisce quale parte del proverbio stia per avverarsi! Fuor di metafora, va verificato con attenzione se e come in «classi con connessioni ultra-veloci, studenti interattivi, tablet e smartphone sui banchi, edifici scolastici innovativi», come recita il Piano, davvero si costruisca «una visione di educazione nell’era digitale». Certo, la scuola italiana cincischia da anni con il progresso, e proprio per questo, forse, si è pensato a un Piano ambizioso che rompesse gli indugi; il problema, però, è quello di capirne la direzione! In particolare, e come ci invita a riflettere questo Convegno,

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la crisi delle rappresentanze politiche (che è, poi e più in generale, anche crisi delle istituzioni repubblicane) la risolviamo semplicemente avanzando nella direzione di «più tecnologie»? Quanto, perché e come «studenti più interattivi» e dotati di più gadget elettronici sempre più sofisticati, saranno anche cittadini responsabili e consapevoli? E, più in generale, davvero possiamo considerare il web come il toccasana delle tante criticità che oggi stanno investendo il mondo e non solo l’universo adolescenziale e giovanile? Partiamo da due dati. Il primo. Bambini e ragazzi sono già molto interattivi. I tre quinti di loro a sette anni possiede un telefono cellulare, che di norma è uno smartphone, cioè un vero e proprio terminale internet, che opera come un pc (1). L’interattività è certamente un progresso, ma chiunque abbia a che fare con i ragazzi constata come l’odierno eccesso di stimoli spesso induca più distrazione che arricchimento. «Tablet e lavagne elettroniche rischiano di essere supporti ambigui se manca una strategia educativa» (2). Il Piano genericamente la prevede, a cominciare dagli insegnanti, ma occorre capire bene quali siano gli indirizzi da assumere. Ragazzi che usano continuamente il web e che s’informano sul mondo soltanto tramite Facebook e altri social network, che non leggo- no alcun giornale (nemmeno digitale), come accade oggi alla stragrande maggioranza di loro, saranno pure interattivamente evoluti, ma sono davvero dei potenziali cittadini in- tegrati? (3) Il secondo. Se è vero, come è vero, che internet rappresenta la più importante delle infrastrutture del mondo intero, non v’è alcun dubbio che il suo uso apre importanti questioni politiche. Costituendo, infatti, la rete su cui transitano notizie, comunicazioni personali, transazioni economiche, intrattenimento, educazione, associazionismo, movimenti politici e molto altro ancora, non solo ha la capacità di

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influenzare quello che pensano e provano miliardi di persone, ma anche quella di permettere l’accesso alla conoscenza, a prodotti e a servizi, e perfino quella di monitorare lo stato del mondo. Ebbene, chi ne detiene il potere? Chi possiede i cavi su cui viaggiano i bit o chi progetta e vende gli smartphone? Chi produce software o chi gestisce le grandi piattaforme come Facebook e YouTube? Domande complesse, anche perché la situazione è in costante mutamento. E dello straordinario potere che internet detiene, sono prova sia le battaglie legali miliardarie che le grandi company combattono tra loro (come quelle tra Apple e Samsung); sia il fatto che un numero crescente di governi si interroga sull’opportunità di controllare dove fisicamente passano e vengono immagazzinati i bit; e sia ancora la circostanza che alcuni parlamenti tentano di legiferare su temi apparentemente tecnici co- me la neutralità della rete e delle piattaforme, puntualmente non riuscendoci se non in termini di mera repressione o di generiche rivendicazioni dei diritti degli utenti. Come si vede, le due suddette questioni sono dirimenti al fine di stabilire come la scuola possa contribuire a formare cittadini attivi, integrati e responsabili e, conseguentemente, a garantire mature rappresentanze politiche Non è, cioè, questione di mero possesso/utilizzo di tablet o smartphone, o di più o meno diffuso utilizzo di lavagne multimediali, e neppure questione di veicolare su piattaforme d’istituto i dati delle assenze, i compiti da assegnare piuttosto che i voti..., perché così operando ci siamo solo limitati ad un mero utilizzo fisico della rete. Bensì, e più profondamente, è in primo luogo questione di avere una maggiore consapevolezza di come funzionano i filtri e di come siano costituiti gli algoritmi che assegnano «un peso numerico ad ogni elemento di un insieme di documenti ipertestuali, con lo

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scopo di misurare la sua importanza relativa all’interno della serie» (4): una definizione complessa per dire sostanzialmente che quando cerchi qualcosa su Google - per capirci - trovi quello che Google vuol farti trovare e solo quel- lo. Ma anche il semplice conoscere gli algoritmi (che pure rappresenterebbe già una gran cosa, perché almeno consentirebbe di prendere le misure al metodo utilizzato dai grandi social), a ben pensarci, è cosa del tutto insufficiente, perché fino a quando non saranno resi davvero democratici (cioè modificabili in funzione esclusiva del bene comune) gli algoritmi con cui Facebook o Google eseguono ricerche, non saranno mai i cittadini a fare/pensare ciò che meglio ritengono opportuno, ma essi saranno soltanto gregari al comando di scelte operate da altri. E così, finalmente, entriamo davvero nel cuore del problema. Chi ha il potere di fare le scelte strategiche relative a internet? In democrazia la risposta non può che essere una: il popolo sovrano, l’unica legittima fonte di autorità. E infatti le leggi valgono in internet come in qualsiasi altro ambito. Ma poiché internet non è fenomeno che riguarda un singolo Stato, ma fenomeno globale, ci scontriamo con il problema dei problemi: poiché in questo momento non c’è un popolo globale che possa democraticamente fare le scelte strategiche che riguardano internet (5), significa che le scelte le fa qualcuno altro sulla testa del popolo sovrano, alla faccia della democraticità sventolata come un mantra da troppi e ad ogni piè sospinto. Una via per assicurarsi che il potere di internet sia allineato con i valori democratici è quella dei diritti umani ed è quello che ha provato a fare qualche tempo fa la Camera dei Deputati approvando una mozione a favore di una Dichiarazione dei diritti in Internet (6). Anche questa Carta, tuttavia, non centra precisamente il problema, limitandosi a tutela- re i diritti e le garanzie delle persone come il diritto

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all’oblio (art. 11), alla protezione dell’anonimato (art. 10), all’inviolabilità dei sistemi, dei dispositivi e domicili informatici (art. 7), all’autodeterminazione informativa (art. 6), etc. Alla questione della pubblicità e del controllo degli algoritmi, infatti e nonostante il titolo di un articolo lasci pensare di più (7), nessun passaggio è stato dedicato, quasi paradossalmente a sancirne l’irrilevanza, mentre - come si è accennato -, costituisce il problema dei problemi. Quindi, questo significa che né il Parlamento né il popolo abbiamo consapevolezza reale dei rischi che corriamo e che l’allarme lanciato da Eli Parisier su come gli algoritmi che regolano le nostre esperienze quotidiane di navigazione riuscendo a fare previsioni su chi siamo, cosa faremo e cosa vorremo, costringendoci a un cammino in cui ci auto- convinciamo di non aver bisogno di niente che non ci venga già dato, non è stato raccolto, giacché o siamo consapevoli dei pericoli che corriamo o rischiamo un default della democrazia, per giunta convinti di vivere in piena democrazia! E poiché i nostri processi cognitivi si basano sul delicato equilibrio tra l’imparare troppo dal passato e l’assorbire troppe nuove informazioni dal presente (8), è del tutto evidente che se un filtro forza i nostri schemi, viene compromesso ogni nostro processo cognitivo perché ci costringe alle informazioni che gli algoritmi (sulla base dei profili che essi hanno tracciato di noi) associano alla nostra idea del mondo, nascondendoci quelle con una visione del mondo diversa dalla nostra (9). In questo modo non siamo più nelle condizioni di vedere che qualcosa ci viene nascosto e, quindi, non siamo più in grado di avere curiosità: il nostro processo cognitivo viene viziato e, di conseguenza, viene compro- messa la nostra crescita cognitiva e la nostra creatività. Google (piuttosto che Yahoo o Bing) diventa, così, per tutti noi un sistema di ricerca perfetto per aiutarci a

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trovare quel- lo che già sappiamo di volere, ma non a trovare quello che non sappiamo di volere, poiché la bolla dei filtri ci taglia tutto ciò che non sappiamo di volere. Ed è invece proprio su ciò che non sappiamo di volere che si basa la creatività e l’innovazione (10). In questo contesto social di costante profilazione (11) in cui quasi tutti ci siamo ormai rinchiusi, ci viene insomma mostrato solo quello che già conosciamo o quello che secondo l’algoritmo vogliamo sapere. Viene così meno quel processo di contaminazione cultura- le per cui il web sembrava essere nato e che avverrebbe se le nostre scelte fossero interamente personali o consapevoli. E dunque, se torniamo alla prima delle domande che ci siamo posti (la crisi delle rappresentanze politiche la risolviamo semplicemente avanzando nella direzione di «più tecnologie»?), la risposta non può che essere totalmente negativa. Una più capillare e massiccia diffusione della rete non solo non crea maggiore rappresentanza politica (12) ma, restando queste le precondizioni, rischia persino di impedire al popolo sovrano il pieno esercizio del controllo dell’attività di coloro che ha scelto per attualizzare la volontà del- la collettività. Riempire le scuole di tablet, smartphone o LIM, per sé stesso, non solo non fa necessariamente crescere la democrazia rappresentativa ma rischia anche di costituire zone d’ombra e spazi di ambiguità nello sviluppo dei fondamentale processi conoscitivi degli alunni. La tecnologia pervasiva, infatti, può gravemente danneggiare o, comunque, modificare il locus of control dell’apprendimento e delle pratiche formati- ve (13). E dunque, che fare? Eliminare dalla scuola la rete e tutto il sistema delle nuove tecnologie? No, di certo! Sarebbe un errore terribile. Occorre, piuttosto, educare ad un utilizzo critico delle tecnologie. Cosa complessa e difficilissima, di certo più

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complessa e difficile che non riempire i ragazzi di tablet e smartphone o le aule di LIM e di reti wireless ultraveloci. Se si spendesse una decima parte della dotazione del Piano Nazionale Scuola Digitale per formare gli insegnanti ad un utilizzo critico delle tecnologie, forse si potrebbero evitare non pochi rischi (e molti danni). Ma anche in questo versante occorre fare subito una precisazione. Finora l’educazione ad un utilizzo consapevole del web ha avuto come principale campo d’azione la prevenzione e il contrasto di fenomeni (peraltro sempre più diffusi e deva- stanti) come il bullismo e il cyberbullismo (14), cosa sicuramente buona e giusta ma del tutto insufficiente per la semplice ragione che - seguendo un diffuso costume nazionale - si è andati (e si va) dietro alla cronaca senza affrontare mai cause e perché. Di ugual tenore è la strategia formativa che ha come proprio paradigma una premessa di tipo latamente moralistico, che educa a non rispondere a messaggi ambigui, a non utilizzare un linguaggio volgare od offensivo nei confronti degli altri, a non inviare foto o richiedere foto personali ... Cose tutte degne del massimo rispetto. Ma siamo ancora alla fase della limitazione dei danni. Occorre piuttosto educare ai limiti costitutivi della rete e ad utilizzare criticamente i motori di ricerca. Se per lungo tempo l’approccio è stato quello di considerare la rete come un nuovo e poderoso strumento di conoscenza e di libertà per tutti, e ci si è preoccupati soprattutto di declinarne i diritti di libertà (15); oggi, l’approccio deve sempre più diventare quello di educare all’utilizzo critico della rete, sviluppando un’alfabetizzazione mediatica di tipo nuovo, non lasciandosi irretire né dal cyber-ottimismo alla Shirky (16), né dal cyber-pessimismo alla Keen (17). In non poche parti del mondo, la rete è strumentalmente utilizzata da governi che la piegano ai propri fini. In paesi come Russia e Cina è noto che gli spazi di

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intrattenimento on line sono studiati apposta per spostare l’attenzione dei giovani dall’impegno e dalla partecipazione civile e la rete è abitata da migliaia di blogger e hacker pagati per lanciare e propagandare informazioni e messaggi con contenuti favorevoli all’azione del governo. In altri paesi (si veda lo scandalo NSA negli Stati Uniti) gli stessi strumenti sono sfruttati per entrare in possesso di dati sensibili e personali (18). Insomma, e per concludere, bisogna certo educare ragazzi, genitori e insegnanti ad un uso consapevole del web finalizzato a limitare i danni possibili con il furto di dati per- sonali, con il cyberbullismo, etc. Ma contestualmente bisogna anche lavorare molto per insegnare che la rete non è inequivocabilmente buona; che Twitter, Facebook, Snapchat e via dicendo, non possono sostituire gli ambiti relazionali interpersonali; e, soprattutto, che pensare alla rete come a un propagatore naturale di democrazia è fuorviante e pericoloso: per garantire forme efficaci di cambiamento sociale è necessario rimanere calati solidamente nella realtà. Il danno più significativo che rete può compiere - e che, per certi versi sta già compiendo e di cui meno si è coscienti -, è quello dell’omologazione che le è indispensabile per garantire la sua propria esistenza. «Essa produce omologa- zione culturale, perdita di identità, tradizioni, costumi, memoria. E perché ciò non venga percepito come una coercizione è necessaria l’ideologia del pensiero unico che ci fa percepire il mondo in cui viviamo come il migliore dei mondi possibili. La mediatizza- zione globale, attraverso complessi e sofisticati sistemi pervasivi e persuasivi, stravolge la realtà e la mostra edulcorata, induce sogni, aspettative, fa apparire la realtà come la migliore possibile, addormenta le coscienze, induce conformismo... Alimenta il bisogno ossessivo di comprare e consumare, lo spreco, il bisogno di lavorare fino

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all’istupidimento, anche quando ciò non è più necessario» (19). Insomma, ci mette dinanzi ad una libertà apparente, mentre le scelte sono state già fatte da altri. Con buona pace della democrazia e della partecipazione politica. Note: 1:http://www.slideshare.net/wearesocialsg/digital-in-2016. Un’altra indagine promossa nei mesi scorsi da Telefono Azzurro dà atto del fatto che gli adolescenti sono perennemente connessi e, perfino, comunicano tramite chat con i genitori, che, spesso, non sono consapevoli dei rischi corsi dai propri figli in rete (vedere l’indagine “Tempo del web. Adolescenti e genitori online”, realizzata in collaborazione con Doxakids, in occasione del Safer Internet Day (SID) 2016). La ricerca, che si basa sulle risposte di 600 ragazzi dai 12 ai 18 anni e 600 genitori dai 25 ai 64 anni, rivela - tra l’altro - che il 17% dei ragazzi intervistati dichiara di non riuscire a staccarsi da smartphone e social, 1 su 4 (25%) è sempre online, quasi 1 su 2 (45%) si connette più volte al giorno, 1 su 5 (21%) è afflitto da vamping (si sveglia durante la notte per controllare i messaggi arrivati sul proprio cellulare) e quasi 4 su 5 (78%) chat- tano continuamente su WhatsApp. Altro allarme lanciato dalla ricerca è quello dell’età in cui gli adolescenti italiani accedono alla rete. Uno su 2 (48%) dichiara di essersi iscritto a Facebook prima dei 13 anni (età minima consentita per poterlo fare!), mentre il 71% riceve in dote uno smartphone mediamente a 11 anni (ancor prima delle chiavi di casa, che arrivano a 12!). E ancora: 4 ragazzi intervistati su 5 (73%) di- chiarano di frequentare costantemente siti pornografici e il 28% di essi teme di diventarne dipendente, mentre 1 su 10 (11%) conosce qualcuno che ha fatto sexting (invio di messaggi sessualmente espliciti o immagini inerenti al sesso). Tra le esperienze peggiori vissute dai ragazzi in rete, poi, quella che ha più seguito è il timore di essere derisi da amici o conoscenti: più di 1 su 10 (12%) dichiara di essere stato vittima di cyberbullismo, il 32% ha paura di subirlo, mentre il 30% teme il contrario: postare

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qualcosa che offenda qualcuno senza accorgersene (vedi questi dati in http://www.azzurro.it/it/content/safer-internet- day-206-da-milano-telefono-azzurro-lancia-lallarme) 2 G. ROMANO, Studenti interattivi, ma per cosa?, in “Avvenire”, 31 ottobre 2015, pag. 22. Dei rischi di alterazione della coscienza e della problematicità educativa legata all’uso improprio del web è ricca la letteratura specialistica; vedere, tra gli altri, R. PERRELLA, G. CAVIGLIA, Dipendenze da internet. Adolescenti e adulti, Sant’Arcangelo di Romagna 2014; T. TRUA, Dipendenza da Internet. Analisi di un fenomeno in crescita, Bologna 2016; F. TONIONI, Psicopatologia web-mediata. Dipendenza da internet e nuovi fenomeni dissociativi, Roma 2013. 3 «La comunicazione in internet, si dice, è democratica in quanto policentrica, fatta dal basso, basata su rapporti orizzontali. Anche supponendo che ciò sia vero (ma a nostro giudizio ci si deve guardare anche dalle retoriche tese a celebrare acriticamente i fasti della rete), un uso privilegiato di internet innesca nuovi bisogni formativi. La rete è affetta da un eccesso di informazioni, con il rischio di sovraccaricare l’utente. Pertanto, è necessario imparare a selezionare, a valutare l’attendibilità dei siti, a cercare riscontri incrociati, e così via. Nasce, cioè, l’esigenza di formare nuovi tipi di competenze e abiti mentali» (M. BALDACCI, Per un’idea di scuola. Istruzione, lavoro e democrazia, Milano 2014, pag. 97) 4 Per un’analisi aggiornata dell’algoritmo di Google, vedere http//:www.seomoz.org/google-algorithm- change. C’è da aggiungere che nessuno conosce l’algoritmo di Google, che è l’ingrediente segreto del suo successo ma anche del suo potere su miliardi di persone. Vedere A. KEEN, Digital vertigo, New York 2012 (Vertigine digitale. Fragilità e disorientamento da social media, trad. it. di Bernardo Parrella, Mila- no 2013) e ID., The Internet Is Not the Answer , New York 2916 (Internet non è la risposta, trad. it. di Bernardo Parrella, Milano 2015). 5 Vedere, intorno a questi temi, il lucido saggio di E. PARISER, The Filter Bubble, New York 2011 (Il fil- tro. Quello che internet ci nasconde, trad. it. di Bruna Tortorella, Milano 2012) e i vari saggi del giovane studioso bielorusso Evgeny Morozov che non si limita a svelare gli inganni della rete, ma anche capar- biamente sostiene

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la tesi che non dobbiamo assolutamente credere alla tesi di chi pensa che la rete possa risolvere ogni problema (vedere E. MOROZOV, Internet non salverà il mondo, trad. it. di Gianni Pannofi- no, Milano 2014; ID., Silicon Valley. I signori del silicio, trad. it. di Fabio Chiusi, Milano 2016). 6 La mozione Quintarelli ed altri, n. 1-01031è stata approvata dalla Camera dei Deputati il 3 novembre 2015. Vedila in http//:www.camera.it/.../projects/...internet/dichiarazione_dei_diritti_internet_pubblica- ta.pdf. 7 Si tratta dell’art. 14 denominato “Governo della rete”. 8 È il «processo di fusione» dell’orizzonte del presente e dell’orizzonte del passato di cui parla Gadamer, che costituisce il nucleo ermeneutico di ogni conoscenza (vedere H. G. GADAMER, Verità e metodo, trad. it. di Gianni Vattimo, Milano 1983, pagg. 356-357). 9 Vedi E. PARISER, Il filtro... � op. cit., pagg. 92ss. 10 La nostra conoscenza è frutto del faticoso ma gratificante lavoro di capire problemi complessi, di trova- re soluzioni inattese. Ma se ci accontentiamo sempre e solo di ciò che vogliamo sapere dimenticando il resto, la conoscenza rischia di incepparsi e lo stesso progresso scientifico rischia di declinare. «La bolla dei filtri - scrive Parisier - tende invece e proprio a fare il contrario: dato che a cliccare è il nostro io presente, l’insieme delle preferenze che esprime riflette necessariamente più quello che vogliamo che quello che dovremmo» (ib., pag. 96). 11 Per profilazione dell’utente si intende correntemente l’insieme di attività di raccolta ed elaborazione dei dati inerenti agli utenti di servizi (pubblici o privati, richiesti o forzosi) per suddividere l’utenza in gruppi di comportamento (vedi la voce Profilazione, in Grande Dizionario di Italiano, http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=profilazione). Della questione si è recentemente occupato anche il Garante per la privacy nelle Linee guida in materia di trattamento di dati personali per profilazione on line del 19 marzo 2015 (pubblicate sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 103, del 6 maggio 2015). 12 Nel celebre Dizionazio di politica della Utet (voce Rappresentanza politica), Torino 19832, il proprium della

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rappresentanza politica è identificato nella «possibilità di controllare il potere politico attribuita a chi il potere non può esercitare di persona» (pag. 955). Vedere un’ampia discussione sul merito in G. DUSO, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano 2003 e il più recente E. COLARULLO, La rappresentanza politica e le forme di governo, Torino 2012. 13 Così P. CALIDONI, Formazione, professione universitaria e professioni educative nella società della conoscenza e nella stagione della riforme, in G. ALESSANDRINI (ed.), Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Milano 2005, pagg. 94ss. 14 Si veda l’articolato percorso posto in essere dal MIUR a partire dalla Direttiva Ministeriale n. 16 del 5 febbraio 2007 (Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo) fino alle più recenti Linee di orientamento per azioni di prevenzione e contrasto al bullismo e al cyberbullismo del 13 aprile 2015 (vedere i testi in http://www.istruzione.it/urp/bullismo.shtml). 15 Si veda, rimanendo in campo italiano, l’opera innovativa di Stefano Rodotà con la sua nota produzione sul merito. Tra gli altri, S. RODOTÀ, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunica- zione, Bari 2004; ID., Una Costituzione per Internet?, in “Politica del diritto”, 3 (2010), pagg. 337-352; ID., Perché internet ha bisogno di nuove regole, in “La Repubblica”, 27 novembre 2014, pag. 32. Vedere anche G. CASSANO, Diritto dell’Internet. Il sistema di tutela della persona, Milano 2005 e F. PIZZETTI (ed.), I diritti nella «rete» della rete, Torino 2011. Più in generale, è a questa visione che tuttora si infor- ma in modo particolare la filosofia di fondo e l’attività dell’Internet Governance Forum, fin da quando, prima con il rapporto del Working Group on Internet Governance e poi con il World Summit of the Information svoltosi a Tunisi nel 2005, diede vita ad una grande attività internazionale su questo tema (vedi F. PIZZETTI (ed.), I diritti ..., op. cit., pagg. 15-16). 16 Le tesi di Clay Shirky conducono verso una glorificazione assoluta della rete, enfatizzando le attese liberatorie in essa riposte. «La rete ci usa, ci sfrutta, ci fagocita e spesso ci cambia. Ma in meglio», questa è la sintesi del suo pensiero (A. ABBURRA, Shirky:

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La Rete ci cambia in meglio, in “La Stampa”, 13 aprile 2011). Naturalmente, non si può non evidenziare il fatto che questo atteggiamento offusca la problematicità di tutti i nodi che sottostanno al suo funzionamento e impedisce di cogliere il lato più oscuro di internet. «Il modello cui il saggista statunitense fa riferimento - riflette Morozov - , benché riguardi formalmente la rete, contrabbanda una certa teoria della politica secondo la quale i cittadini rispondono a incentivi e uniscono le proprie forze se ricevono i giusti segnali e hanno a disposizione gli strumenti giusti, il che è spaventosamente semplicistico se si vuole dar conto degli sviluppi politici in gran parte del mondo» (E. MOROZOV, Internet non salverà il mondo..., op. cit., pag. 52). 17 «All’entusiasmo dei tecno ottimisti, Keen frappone il dubbio di coloro che si domandano se, grazie al cyberspazio, si sia davvero in presenza di autentiche iniezioni di democrazia diretta in grado di rinvigorire le istituzioni democratiche, se si sia definitivamente aperta un’era in cui la realizzazione del sogno di un sistema politico partecipativo ed egualitario è diventata finalmente possibile o se, al contrario, siamo in presenza di un’illusione. La risposta sembra andare in questa seconda direzione. Più che aprire la strada al superamento della rappresentanza politica e all’affermazione della democrazia diretta, la rivoluzione digi- tale presenta più rischi che opportunità. Da un lato le autostrade dell’informazione rischiano di innalzare tra la libertà di formazione e il cittadino, ostacoli più alti di quelli eretti dalle dittature. Dall’altro, l’uso intensivo del web, e in particolare dei social media, comprometterebbe l’empatia o l’agire sociale che richiedono, per potersi sviluppare pienamente, attività sociali off-line» (G. VAGNARELLI, Uno sguardo prospettico su linguaggio e comunicazione politica, in ID. (ed), Forme della comunicazione politica, Ascoli Piceno 2014, pag. 6). 18 Vedi C. MAZZUCCHELLI, Nei labirinti della tecnologia, Milano 2014, pag. 325. 19 P. DI GIORGI, Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa, Milano 2004, pag. 31.

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MARIO PINNA Il titolo del convegno contiene tre divaricazioni che sono alla base delle attuali difficoltà della Sardegna, ma non solo. Tre ingranaggi che, in una società ben organizzata, dovrebbero girare col minor attrito possibile, supportandosi e alimentandosi a vicenda. L’istruzione. La prima divaricazione è l’istruzione. Questa, in senso stretto, attiene all’organizzazione - al sistema scolastico - teso ad assicurare un buon livello di conoscenza. Oggi, nelle condizioni della nostra società, appare più pertinente e pregnante la parola “formazione” che contiene tutto ciò che attiene all’istruzione, ma ha una valenza assai più ampia. L’attuale crisi affonda una sua radice nel diffuso senso di smarrimento, nel venir meno di punti di orientamento credibili, nella perdita di senso di appartenenza, nella crescente difficoltà a riconoscersi in una cornice generale di valori locali, regionali, nazionali, ed europei. Nell’odierna società sembra prevalere l’idea che non si possa venire a capo delle attuali angustie sociali ed economiche attraverso sforzi consapevoli e convergenti, ma solo per abilità o destrezza individuale, di gruppi chiusi o di movimenti che agitano i problemi più che proporre soluzioni fattibili. Tali stati d’animo e approcci nel fronteggiare le difficoltà sono sicuramente alimentati dalla profonda crisi della politica, sia sul versante dei partiti che delle istituzioni, ma anche dalla difficoltà, per larghissima parte della società, a decodificare, interpretare gli eventi, a identificare chi e dove si assumono le decisioni in un mondo globalizzato.

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In questo contesto di disorientamento, la scuola oltre che istruire, dovrebbe essere la principale agenzia formativa in grado di educare ad essere cittadini, secondo il dettato costituzionale. Ossia quello di formare persone capaci di spirito critico e di autonomia di giudizio in ogni contesto e circostanza della vita. Riformare la scuola, dunque non è solo questione di modernità degli edifici e di impiego di nuove tecnologie, ma anche di formazione di personale docente e dirigente in grado di promuovere negli studenti senso di appartenenza, approccio costruttivo alla soluzione dei problemi collettivi, consapevolezza di appartenere ad uno dei paesi più belli e ricchi di storia e di cultura. E sopratutto l’idea che si può risorgere solo attraverso un sforzo collettivo, tenace, fatto da cittadini consapevoli di sé e delle opportunità che hanno davanti. Dunque, una scuola rinnovata nelle sue finalità profonde, in grado di contribuire a liberare il Paese da quella sorta di male oscuro che lo rende scettico, sfiduciato impedendogli di rilanciarsi sul terreno dell’equità, della modernità e del benessere. Tutto ciò, a maggior ragione, vale per la Sardegna. É noto che la nostra regione occupa le posizioni di coda nel contesto nazionale per numero di diplomati e di laureati. Il raffronto, poi, con i paesi europei più avanzati è deprimente e da la misura della disastrosa arretratezza della scuola nella nostra regione. La percentuale di abbandoni e di insuccessi ne sono la conferma. Ma su che cosa può puntare una regione insulare, in rapida decadenza e spopolamento, con una popolazione numericamente modesta, se non sulla qualità della cultura e dell’istruzione dei propri cittadini? Non si tratta solo di recuperare sul piano dei numeri, pure importantissimi, ma di crescere nella qualità: in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento storico i piccoli popoli come il nostro

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hanno potuto sopravvivere e prosperare solo puntando sulla qualità. Investire in educazione, formazione, istruzione è per noi vitale se vogliamo cogliere e profittare delle nostre opportunità di sviluppo che sono notevolissime. Oggi più che mai il futuro si gioca sul sapere e sul saper fare. A tali proposte si può opporre una facile obiezione: ma se le rappresentanze politiche sono in crisi, chi mai porrà mano ad una riforma della scuola sul terreno della qualità, quantità, formazione del personale, disponibilità di strutture e infrastrutture moderne? I circoli viziosi in un punto vanno spezzati! Il senso e l’obiettivo delle iniziative di questa Associazione è anche questo: contribuire a individuare le azioni che possono generare una svolta. A ben vedere, ogni altro nodo del nostro sviluppo futuro può essere sciolto se la qualità della scuola - dalla materna all’università - diventa di eccellenza. Nessuno degli altri nodi può essere sciolto se non cresce la qualità e la competenza dei cittadini sardi, in un mondo divenuto così complicato e competitivo. Per farlo è necessario un progetto preciso che coinvolga in profondità l’opinione pubblica, che stimoli le rappresentanze politiche, nazionali e regionali a pensare, su un piano di concretezza, un disegno di grande respiro per il futuro della Sardegna. Lo sviluppo. In un mondo globalizzato e sempre più specialistico senza cittadini sempre più colti e competenti non può esserci sviluppo. Perciò, oltre a formare cittadini consapevoli ed effettivamente liberi, la scuola nei suoi gradi superiori deve assicurare una formazione specialistica, flessibile, centrata

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sulle risorse presenti e sulle nostre concrete potenzialità, connessa strettamente al mondo del lavoro, ai saperi e alle professionalità già disponibili. La nostra terra è bella e delicata e noi siamo un piccolo popolo che ha la fortuna di disporre di tanto spazio: perché sciuparla? Possiamo viverci bene e senza dover andar via, come da tanto tempo accade. Nei passati tentativi di sviluppo abbiamo anche fatto errori che hanno compromesso alcune aree: sono ferite da rimuovere ed errori da non ripetere. Oggi uno sviluppo di qualità può venire da una filiera agroalimentare di qualità riconosciuta, da un turismo di destagionalizzato, diffuso e articolato per opzioni e interessi dei visitatori, da un valore ambientale riconosciuto, da un’industria priva di impatto ambientale, dalla diffusione delle reti telematiche e delle tecnologie Ict per comunicare, scambiare, vendere e comprare col resto del mondo, dalla ricerca avanzata e finalizzata alla valorizzazione delle nostre potenzialità, dalla cultura e dall’archeologia: siamo una delle più suggestive e misteriose civiltà del Mediterraneo che abbiamo appena iniziato a far conoscere e a valorizzare per noi stessi e per trarne ricchezza attraverso i visitatori. Non si tratta di partire da zero: negli ultimi decenni è cresciuta in Sardegna la propensione a fare impresa, un numero crescente di giovani vuole essere fautore del proprio futuro. Si tratta di supportare questa nuova cultura, aiutarla a fare sistema, a raggiungere la forza e la dimensione per varcare il Tirreno, altri mari e altri continenti. La politica e le istituzioni. Negli ultimi decenni un complesso di vicende ben note che

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sarebbe superfluo qui ricostruire hanno provocato un mutamento profondo negli assetti e nella configurazione delle forze politiche, del modo stesso di intendere l’impegno politico, dando luogo ad una incerta transizione verso non prevedibili orizzonti e un conseguente decadimento delle Istituzioni e della loro credibilità agli occhi dei cittadini. Tali processi, senza generalizzazioni e giudizi sommari, sono conseguenza di profondi mutamenti internazionali che hanno generato un passaggio di fase rispetto al lungo periodo post bellico, caratterizzato da forze politiche strutturate, aventi precisi profili di rappresentanza sociale, valoriali e programmatici. Al tracollo di quel sistema, dopo ormai alcuni decenni, non sono seguiti nuovi equilibri, non si è consolidato un nuovo sistema sufficientemente stabile di forze politiche, di rappresentanze sociali, in grado di competere per l’esercizio del potere, avendo tuttavia come denominatore comune la tutele degli interessi fondamentali del Paese. Oggi le tendenze per andare oltre lo stato attuale appaiono fondamentalmente due: le spinte populiste, alimentate dalla distruzione dei ceti medi e dal precipitare verso la povertà di fasce sempre più ampie di popolazione, conseguenti a inediti e oscuri meccanismi di accumulazione nazionale e mondiale di ricchezza. Non estranei e disgiunti da tali meccanismi appaiono i molti conflitti armati in corso e i conseguenti sconvolgimenti: terrorismo, carestie, incontenibili flussi migratori. Il complesso e il rapido evolvere di tali fenomeni trova i governi e le società occidentali impreparate e ciò facilita la conquista del consenso da parte dei movimenti populisti che ambiscono pericolosamente a farsi forze di governo, pur se privi di programmi adeguati al governo di società complesse. la seconda tendenza è quella di surrogare l’affievolirsi

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dell’etica pubblica, dello spirito solidaristico e dell’equità, su cui dovrebbe fondarsi uno Stato democratico e moderno, attraverso strumenti giuridici e regolamentari. La turbinosa produzione legislativa, la riscrittura continua delle regole, anche sotto l’impulso burocraticistico dell’Europa, la pretesa di regolamentare minuziosamente, codificare, sanzionare molti aspetti del vivere quotidiano, nel tentativo di prevenire e contrastare fenomeni corruttivi e devianti, si traduce spesso in un restringimento delle libertà individuali. Peraltro, l’aggrovigliarsi delle disposizioni producono spesso il risultato inverso a quello desiderato: incertezza per i cittadini, difficoltà interpretative, procedure farraginose. Non si nega la necessità di riforme e di nuove regole quando quelle vigenti non corrispondono più ai mutamenti sociali, culturali, economici, ecc.. Tuttavia, è illusorio credere che si possa acquisire o ripristinare un diffuso senso dello Stato e dell’etica pubblica per via legislativa. Le leggi non bastano a generare un moderno senso di cittadinanza, ad alimentare un comune sentire e rinnovati valori di integrità morale e di equità. Questo rinnovamento può derivare solo dall’avvento di un nuovo clima culturale, da una rinnovata passione civile e politica che attraversi il corpo del Paese. Perché questo avvenga non esistono facili ricette. Non c’è dubbio però che il rinnovamento non potrà venire da un Paese rassegnato, ripiegato in se stesso o che si ferma al mugugno e alla protesta; è più probabile che possa venire da un Paese e da una Regione dove la gente dibatte, partecipa, si confronta, si organizza, in modo instancabile, incalzante, fino a farsi forza che travolge resistenze e impone scelte condivise e utili alla propria esistenza.

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RINGRAZIAMENTI (Giorgio Carta)

Cortesi partecipanti,

A conclusione di questa giornata di lavoro, sento il dovere di ringraziare tutti i partecipanti per l’apporto dato con gli interventi e con gli scritti che ci sono stati consegnati. Il contributo dei relatori, puntuale nella analisi e nella proposta, ci consentirà dopo la pubblicazione degli atti di poter approfondire i temi trattati e divulgare le conclusioni dei lavori del convegno nell’ambito della scuola e delle altre istanze della società. Consentitemi di ringraziare la Fondazione di Sardegna e la Presidenza del Consiglio Regionale per la sensibilità sempre dimostrata in forma diversa, a sostegno delle iniziative dell’Associazione degli Ex Parlamentari della Repubblica. Il loro contributo essenziale per la organizzazione dei nostri lavori, ci consente annualmente di continuare nel nostro lavoro di tutela delle Istituzioni Elettive, e nello sforzo di ridare alla politica quel ruolo indispensabile per una crescita ordinata della società, sempre più disorientata, una crescita tumultuosa e disordinata dove egoismi e radicalismi tendono a prevalere sugli interessi della collettività.

Grazie a tutti.

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Associazione ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento della Sardegna

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