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Assaggi di Filosofia Platone

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Assaggi di Filosofia

La capacità di stupirsi delle cose comuni

Platone

Classe I sez. E

a.s. 2014/15

prof. Leopoldo Cicala

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Assaggi di Filosofia Platone

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Introduzione

Era una giornata di pioggia e sfortunatamente per noi era sabato. Era stata una settimana faticosa e

stressante e ovviamente non si erano mai viste giornate così limpide e un cielo così azzurro, ma

ovviamente il caso vuole che il sabato sera si scateni il diluvio Universale. I mie compagni ed io

avevamo organizzato una serata intima tra soli amici, giusto per stare insieme e discutere del più e del

meno; si voleva andare a mangiare fuori e prendere qualcosa da bere, così per distrarsi un po’. Aspettai

un mezzoretta che spiovesse, ma il tempo peggiorava e le nove si avvicinavano, così scrissi sul nostro

gruppo whatsapp “ ragazzi per sta sera non è cosa “. Stavo già per arrendermi e accendere la tv su un

qualche programma o documentario soporifero , quando quasi come se si fossero messi d’accordo

dissero “ma andiamocene a casa di Massimo, ha una casa enorme, ed è libera stasera : ordiniamo una

pizza e beviamo qualcosa “, fui subito contento dell’idea , presi le chiavi e scesi. Per fortuna la casa era

ben collegata, vicina alla metro , e non ci volle nulla ad arrivare . Appena entrato non credevo ai miei

occhi eravamo tutti presenti , non era mai successo , c’era sempre quello che si ammalava o che

disdiceva all’ultimo, invece stasera c’eravamo proprio tutti. Era una atmosfera tranquilla, stavamo

sparpagliati per tutto il salone, chi intorno al tavolo, chi sul divano, chi a terra sul tappeto . Mentre

aspettavamo le pizze, iniziammo solo a bere qualcosa e parlando del più e del meno uscirono fuori i

primi argomenti . Stavamo semplicemente discutendo di attualità , quando uno dei nostri, da sempre

fissato con la politica, volle per forza sapere che idea ne avevamo a proposito . Si aprì un acceso

dibattito su Platone e ciò non fu un caso ovviamente,poiché era fin dai primi anni di liceo che ci

battevamo su questi argomenti e piccole discussioni filosofiche, ciononostante era sempre un piacere

confrontarsi con loro .

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Così iniziammo …

La visione politica di Platone

di Andrea Pascale

Oggetto di questo saggio è la concezione politica di Platone: come sappiamo Platone dedica una buona

parte della sua riflessione filosofica al problema della giustizia e di come debba essere organizzato lo Stato per

adeguarsi alla sua concezione del bene comune.

L’interesse per questo tema è presente in lui fin dalla più giovane età sia perché, appartenendo alla classe

degli aristocratici, considerava suo compito primario assumersi delle responsabilità in ambito pubblico, sia

perché i drammatici eventi che accompagnarono il processo e la condanna a morte del suo amato maestro

Socrate nella Atene democratica della sua epoca, lo segnarono al punto da spingerlo sempre, anche nei momenti

del suo più alto “volare” filosofico, a non perdere di vista il mondo che lo circondava con i suoi problemi

concreti di convivenza civile e di gestione della cosa pubblica.

Più specificamente l’attenzione sarà posta sulla questione: Platone, dietro la fascinazione delle sue

utopie, era davvero il sostenitore di una concezione di società chiusa e rigida nelle sue articolazioni di classe e

nella distribuzione del potere, o proponeva un percorso “educativo”, “dialettico”, agli uomini del suo tempo nella

direzione di una gestione della res publica condivisa?

Dopo aver analizzato le diverse forme di governo succedutesi nel mondo fino alla sua epoca: la

timocrazia, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide, sia nelle loro forme migliori che nelle loro degenerazioni,

Platone giunge a proporre una forma di governo della società che, basandosi sul modello della tripartizione

dell’anima, si presenta come una specie di oligarchia “illuminata”, una noocrazia o governo dei saggi.

Secondo la dottrina della tripartizione dell’anima, l’uomo dispone di tre anime: una concupiscibile, sede

dei bisogni biologici e delle passioni, una irascibile, la cui virtù di riferimento è il coraggio e il cui ruolo è quello

di tenere a bada l’anima concupiscibile, e l’anima razionale, la più nobile, sede della ragione, che può aspirare

alla saggezza, può essere educata, deve orientare l’azione delle altre due anime al fine di un funzionamento

equilibrato, giusto, dell’agire umano.

Il mito del Carro Alato, tratto dal Fedro, rappresenta in maniera efficace tale interazione fra la tre anime:

un auriga, che rappresenta l’anima razionale, deve condurre una biga i cui due cavalli sono uno forte, ma

collaborante, come l’anima irascibile, l’altro ribelle e incontrollabile come la parte concupiscibile dell’anima. Il

procedere della biga dipende dalla capacità del cavallo bianco (anima irascibile) di collaborare efficacemente

con l’auriga nel controllo del cavallo nero (anima concupiscibile).

Platone trasferisce tale modello di tripartizione nel mondo sociale: l’anima concupiscibile trova il suo

corrispettivo nella classe dei produttori, artigiani, contadini e commercianti, mossi dai loro forti bisogni a “fare”,

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l’anima irascibile nella classe dei guardiani, la casta militare, che deve occuparsi, con coraggio, di mantenere

l’ordine e di difendere lo stato dalle aggressioni esterne, l’anima razionale si identifica con la classe dei filosofi-

governanti, gli unici predisposti alla guida dello stato.

Per far fronte alle degenerazioni causate dal fatto che il potere, a seconda delle forme di stato, finisce

talvolta nelle mani di pochi, ricchi e interessati solo alla loro ricchezza o votati solo all’affermazione del proprio

potere, o nelle mani di tutti, come nelle forme deteriori di democrazia, in cui tutti, competenti e incompetenti,

possono tentare di imporre interessi tanto in contrasto fra di loro da portare alla distruzione della comunità stessa

e indurre alla tirannide, Platone propone allora un governo degli unici che secondo lui possono veramente avere

a cuore gli interessi di tutti: i filosofi. Questi, per il fatto di essere soprattutto volti al raggiungimento della

conoscenza, non metteranno mai in primo luogo i propri desideri, ma anzi, tutti i loro sforzi saranno volti, in

nome della giustizia, al buon funzionamento dello stato, da cui tutti trarranno vantaggio.

I filosofi, già per loro natura predisposti al perseguimento del bene, somma virtù, saranno sottoposti,

nella Repubblica platonica, a un regime che li metta al riparo da ogni rischio di cedimento alle passioni: essi, e

con loro le loro compagne di vita, che godono degli stessi loro diritti, secondo il filosofo, vivranno in comunione

di beni e di donne, i loro figli non saranno riconosciuti come figli dell’uno o dell’altro, la loro comunità sarà

modello per tutta la società, sono bandite le passioni incontrollate e ogni smania di potere.

Per sostenere la sua proposta, Platone ricorre al mito delle stirpi, di origini fenicie, che lo aiuta, grazie

alla sua natura mitologica (la “grande bugia” a detta dello stesso) a fondare la sua teoria su di una concezione

antropologica capace di spiegare le differenze di predisposizione fra gli uomini. Secondo questo mito gli uomini

sono di tre sostanze: aurea, argentea e bronzea. A seconda della propria natura si è più predisposti verso un tipo

di vita o un altro.

Quelli di natura aurea saranno orientati verso la ricerca filosofica, quelli di natura argentea saranno dei

bravi guerrieri e quelli di natura bronzea degli ottimi produttori.

Per Platone queste sostanze differenti di cui siamo fatti non sono direttamente riconducibile alla classe

sociale di appartenenza: i filosofi non sono per forza figli di aristocratici, né i contadini figli di contadini, anche

se, egli riconosce, è più probabile che da aristocratici nascano persone più predisposte alla filosofia e quindi alla

gestione della cosa pubblica, dai guerrieri gente più abile nel combattimento e dai produttori vengano fuori

produttori.

Uno Stato così concepito sarebbe l’unico, secondo Platone, a poter funzionare adeguatamente: essere in

grado di promuovere la giustizia, indirizzare i suoi cittadini al bene, mantenere la coesione sociale, difendere

dalle aggressioni esterne, moderare gli appetiti dei più “vogliosi”, accrescere la ricchezza collettiva e il benessere

di tutti, creare gli anticorpi contro il rischio di degenerazioni sia di tipo tirannico che di tipo anarcoide.

La concezione dello stato di Platone è stata oggetto di appropriazione intellettuale da parte di movimenti

politici, ma anche di forti critiche da parte di intellettuali e filosofi.

Vediamone i motivi.

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La visione politica di Platone, con il suo modo di concepire la convivenza come un perfetto meccanismo

socio-antropologico, regolato da norme di comportamento precise e improntate al rispetto assoluto degli ideali di

“giustizia”, “bene”, “verità”, ha attratto, nel corso dei secoli, tutti coloro che aspiravano a vivere in condizioni di

stabilità sociale e aborrivano la complessità che il vivere “insieme”, soprattutto nell’età moderna, comporta. Non

ci stupirà dunque scoprire che “influenti intellettuali nazisti, come H. A. Grunsky, H. Guenther e Theodor von

derPfordten abbiano visto in Platone la sorgente delle loro nefaste idee sulla razza e sullo Stato onnipotente”(1)

o che “a Mosca, sulla stele in cui vengono elencati i più grandi pensatori comunisti, Platone sia al primo

posto”(2)

.

La visione apparentemente statica della società e il centralismo del potere “burocratizzato” potevano

certamente aver affascinato chi cercasse una fondazione teorica per le proprie mire di potere assoluto. Certe

affermazioni di Platone possono certamente essere interpretate in tal senso: creazione di una razza pura di super-

saggi per garantire la purezza e la continuità dell’ideologia al potere, comunione-comunismo dei beni per

favorire la nascita di una ideologia totalitaria basata sull’interesse collettivo e contro l’interesse individuale e

così via. Queste idee, prese nella loro assolutezza e avulse dai loro contesti, hanno sicuramente offerto a chi lo

desiderasse la base per ogni assurda concezione della politica.

Vero è che, pur non negando una possibile mobilità sociale, Platone sembra incastrare le classi sociali in

ruoli rigidi, rifiutando in blocco quella dinamica competitiva cui oggi noi siamo abituati a riconoscere un ruolo

importante nello sviluppo sociale. Da questo punto di vista la “politeia” platonica appare come un corpo unico,

compatto, solidale, ma anche ingessato, con pochi spazi per l’innovazione, insomma un meccanismo perfetto

chiuso nella sua utopistica contemplazione di sé stesso, in cui lo spazio per l’individuo, per la sua libera

iniziativa, per la sua creatività, è ridotto al minimo.

E’ proprio contro questa staticità simil-totalitaria, contro questa rigidità strutturale che lanciano i loro

strali due intellettuali di altissimo livello che, insieme ad altri nel corso dei secoli, hanno accusato Platone di

essere stato il padre dei totalitarismi moderni: Karl Popper e HannahArendt.

Per Popper, famoso per la sua teoria della falsificabilità come unico criterio di “verità” in campo

scientifico, Platone, per i motivi che abbiamo poco avanti elencato, è il teorico della società chiusa contro la

società aperta costituita dalla democrazia ateniese e da Popper considerata come l’unica che garantisca una

maggiore equità, è il sostenitore di quello stato ideale che implica necessariamente il blocco di qualsiasi

mutamento socio-politico, uno stato pietrificato, strutturato su una rigida divisione delle classi e sul dominio

esclusivo dei filosofi-re. Questi, educati istituzionalmente dallo stato, lo tutelano dalla decadenza, impedendo la

nascita dei movimenti politici, dal momento che, per Platone, i movimenti politici non possono non portare che

alla degenerazione, ciò in base alla legge di sviluppo storico, che per Platone è legge di decadenza. Il destino di

un tale stato si identifica con quello delle classi dominanti, è lo stato del privilegio, della censura, del razzismo e

del terrore. Per dirla con Th. Gomperz:” Alla classe dei dominatori Platone accorda una potenza senza

limiti”(3)

.

Popper arriva a definire il programma politico di Platone come tribale e totalitario; per Popper lo stato

platonico è un insieme di tribalismo, totalitarismo e utopismo fusi nella fede storicistica, che esita in una legge di

decadenza. Per Platone, secondo Popper, c’è solo un gruppo che deve comandare, perché fatto di uomini che

conoscono la verità e la giustizia e che, pertanto sono legittimati a ricondurre gli altri sul “retto sentiero”. Anche

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Hans Kelsen, uno dei massimi teorici del diritto del novecento, riteneva che la mistica di Platone costituisse la

giustificazione della sua politica antidemocratica.

La critica a Platone si estende in Popper alla critica ad ogni storicismo, inteso come disciplina che

intende far credere di aver capito le leggi che regolano lo svolgersi dei fatti storici; questo in Platone, al contrario

che in altri rappresentanti di questo approccio, come Hegel e Marx, non porta verso il futuro, ma verso il passato,

agli archetipi, alle “idee”. Da questo punto di vista, Platone tenderebbe a fermare ogni movimento al fine di

recuperare il passato piuttosto che guadagnare il futuro. E’ per opporsi a questa decadenza che Platone è

costretto a formulare la sua teoria dello stato ideale, alla realizzazione del quale tutti devono assogettarsi, perché,

nonostante tutto, è possibile fermare il degrado, ma, per fare questo, bisogna realizzare quello Stato, che solo può

rendere possibile il raggiungimento di quel sommo fine.

Per la Arendt, con Platone giungerebbe a compimento la disgregazione di quella concezione unitaria del

logos, per il quale non era possibile distinguere nell’uomo l’animale razionale e l’animale politico. Sulla scia di

Parmenide, che dell’Essere, del Pensiero e della Verità fa un’unica cosa, con conseguente svuotamento di senso

di tutto ciò che da questa identità resta escluso, Platone inaugura la storia della metafisica. Da questo momento

in poi questo Essere-Pensiero-Verità può rivelarsi solo ad un organo in grado di cogliere l’invisibile: l’occhio

della mente che rende presente ciò che è assente. Per essere fedele all’occhio della mente (al nous) l’uomo deve

abbandonare la fiducia nei sensi e soprattutto allontanarsi dagli altri uomini. Se si rimane legati al mondo dei

sensi e degli uomini, si possono vedere uomini e fatti giusti, ma non la giustizia, uomini felici, ma non la felicità.

Con la nascita della metafisica non solo pensiero ed azione si separano, ma carattere distintivo del

pensiero diventa la mera recezione, attraverso il nous, di una visione immobile, che sottrae al mondo delle

apparenze le sue verità particolari e ai diversi uomini i loro singoli logoi.

Con Platone il pensiero diventa sistema metafisico del mondo; molteplicità e mutamento vengono presi

in considerazione solo una volta, riconosciuto che il loro fondamento e la loro verità stanno altrove.

Il mondo delle idee immette uno iato tra idea e realtà e stabilisce il primato dell’idea sulla realtà; ne

consegue una separazione gerarchica tra universale e particolare, tra eterno e traseunte, una contrapposizione tra

episteme e doxa e fra mente e corpo. Si evidenzia infine una scissione tra discorso filosofico e discorso politico.

Per la Arendt l’atto di nascita della filosofia è iscritto nell’impossibilità per il pensiero di sopportare la

maledizione del finito, nell’incapacità di accettare il mondo segnato dal lutto della contingenza. Derealizzazione

del mondo nel pensiero, rifiuto del molteplice a favore dell’Uno, negazione della singolarità nell’universale,

questi fondamenti della metafisica non sono altro che la manifestazione di un desiderio di “durare”, che rimuove

la morte e il tempo. Il filosofo, nella sua ansia di immortalità, esiste al singolare, nella misura in cui si occupa

dell’uomo, si occupa dell’uomo “al singolare”, mentre il politico si occupa degli uomini “al plurale”. Platone,

secondo la Arendt, cercherebbe di instaurare la tirannia della ragione sulla praxis, la tirannia della verità. Nel

mito della caverna il mondo degli affari umani viene descritto come un mondo di tenebre, confusione,

disinganno. Se si vuole cogliere la verità bisogna allontanarsene.

Anche la sostituzione dell’idea di bello con l’idea di bene, che avviene nel VI libro della Repubblica,

rappresenterebbe, secondo la Arendt, il sacrificio dell’ideale sommamente contemplativo del Bello all’idea di

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Agathon, che significa letteralmente, più che “buono”, “buono per”, “idoneo”. Le idee si trasformano da

derivazione della bellezza in criteri, unità di misura, applicabili per definizione. La sostituzione del bello col

bene inaugurerebbe, per la Arendt, la filosofia politica, quella disciplina che da quel momento in poi sarà

deputata a risolvere il problema dell’ordine, a garantire che la prassi si modelli su criteri ad essa trascendenti e

messi a punto in un ambito ad essa esterno. Il filosofo ritiene di poter dominare gli altri come è riuscito a

dominare se stesso, ottenendo che l’anima avesse la meglio sul corpo e le passioni. Se nella solitudine della

filosofia e nell’illusoria sensazione di onnipotenza che da essa deriva, si radica la volontà di dominio dell’uomo

su se stesso, sulle proprie contraddizioni e differenze, il filosofo-Re sarà colui che tenderà a fare altrettanto nei

confronti della città: comandare i molti che abitano la polis come se fossero uno solo. Il rischio è che, una volta

intrapresa questa strada, non ci sia spazio per interventi di altri e l’Archon sia l’unico a decidere per tutti. La

Politeia platonica diventa allora la costruzione dello spazio pubblico secondo il modello fornito dall’idea: la

politica viene ridotta a poiesis e a techne, anche gli uomini diventano materia plasmabile ai fini della suprema

realizzazione.

Questo è ciò che si è manifestato, secondo la Arendt, in ogni dottrina filosofico-politica da Platone in

poi, capovolgendo l’originario fare politico, inteso come “agire” dialettico dell’uno verso-contro l’altro

nell’agorà-vita, per trasformalo in un‘imposizione-adeguamento all’ideologia del demiurgo del momento.

Prendiamo adesso in considerazione alcune posizioni di filosofi e studiosi di Platone che non concordano

con le critiche appena espresse

Le posizioni prese in considerazione prima nell’antitesi sono state discusse e contestate da eminenti

studiosi di Platone che hanno accusato i suoi detrattori soprattutto di aver estrapolato alcuni contenuti dai

contesti di riferimento e di averli manipolati in modo tale da travisarne il senso. Per Gadamer questo è ciò che è

capitato a Popper, che, a suo giudizio ne ‘La società aperta e i suoi nemici’ ha scritto “… ciò che di più brutto si

poteva scrivere su Platone nel Novecento”.

Un’altra accusa è stata quella di parzialità nei giudizi. D’altro canto gli scritti lasciati da Platone sono per

la forma, dialogica, e per la complessità, spaziano sull’arco di tutta una vita, difficili da inquadrare in un sistema

chiuso, dal momento che Platone ebbe modo, sulla base delle sue esperienze, di modificare il suo approccio ai

problemi giungendo in fasi diverse della sua vita a conclusioni differenti, sebbene coerenti con la sua

impostazione di fondo. Se non si tiene conto di questa evoluzione del suo pensiero, si rischia di non capire molte

cose del suo discorso filosofico, peraltro poco sistematico.

La Isnardi Parente, dopo aver individuato il nucleo essenziale della Repubblica in un progetto

pedagogico a favore della classe dirigente e non nell’elaborazione di un modello di stato utopico, dichiara che

quello di Platone non è né uno Stato fondato sull’immobilismo delle caste e sul privilegio del censo, dal

momento che l’aristocrazia di Platone non riguarda la nobiltà per nascita, ma la nobiltà intellettuale, né un

comunismo sociale, perché dei governati Platone non se ne occupa, ma si preoccupa piuttosto di un comunismo

etico che abolisca l’egoismo dei governanti nell’esercizio del potere. A questo proposito la Isnardi Parente cita

un passo del IX libro della Repubblica, in cui il filosofo dice:” … se ne occuperà (il filosofo) e molto, in quello

che sia lo stato suo vero, non certo nella patria sua, a meno che a questo non lo aiuti una divina fortuna.

Capisco, -soggiunse- tu parli di quello stato che noi abbiamo fondato e discusso e che non ha realtà se non nei

nostri discorsi, che io non credo, qua sulla terra, si trovi in qualche luogo, ma in cielo forse ve ne è l’esempio, -

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conclusi-, per chi voglia vederlo e ad esso conformarsi nel governare se stesso. E poi poco importa che questo

stato esista o debba essere ancora attuato, chè soltanto di questa città, e di nessun’altra, egli –cioè il filosofo-

potrebbe occuparsi”.

Per quanto concerne l’evoluzione del pensiero politico di Platone la Isnardi Parente invita a riflettere sul

fatto che, se nella Repubblica il filosofo-re si trova a governare uno stato immobile, dove le leggi non dovranno

mai essere cambiate, cioè non si misurano con la realtà che cambia, questo è dovuto al fatto che l’interesse del

filosofo, in questo dialogo, è quello di criticare gli stati esistenti, piuttosto che di riprodurre questo modello

ideale nella realtà.

Difatti nel Politico l’atteggiamento di Platone nei confronti della realtà che cambia è diverso. L’uomo

politico o basylikòs, l’uomo degno di essere re nel Politico, è sempre il filosofo, ma ha a che fare con una realtà

che gli propone delle situazioni mutate, quindi con la realtà sensibile. Di fronte a questa realtà Platone cambia il

suo modo di pensare la legge.

Quelle che erano le leggi immobili della Repubblica, leggi ideali, diventano invece delle leggi che

devono di volta in volta, a seconda dell’intelligenza filosofica che le governa, adattarsi ad una situazione

concreta che cambia.

Nel dialogo Leggi la figura del filosofo quasi svanisce perché egli lascia come eredità intellettuale le

leggi scritte. Il suo ruolo però sarà necessario di nuovo quando si tratterà di formulare i proemi alle leggi. I

proemi sono per Platone strumenti di persuasione nei confronti di chi deve obbedire alle leggi stesse, perché le

leggi di per se stesse non sono abbastanza persuasive. Servono a dare forza di convinzione alle leggi e a togliere

loro quel carattere tirannico che avrebbero se fossero lasciate nude e crude senza nessun avviamento

propedeutico. Leggi dunque intese non solo come strumento normativo, ma anche come strumento pedagogico.

In questo dialogo i filosofi non devono più governare direttamente, semmai consigliare e se non

governano direttamente, allora devono cercare di far diventare filosofi i governanti.

Per Platone non è importante il potere in se stesso, ma che chi governa lo faccia con saggezza. Pensare di

poter attribuire a Platone la paternità dell’irrazionalismo moderno venuto al potere con il nazismo è

assolutamente improbabile ed inesatto, dal momento che al centro dell’interesse di Platone c’è la ricerca della

verità attraverso la ragione, non la ricerca del potere attraverso la forza.

A questo proposito Giovanni Reale, grande studioso di Platone, ricorda come “nei libri VIII e IX della

Repubblica Platone presenti una delle più belle e approfondite analisi dell’assolutismo nelle sue implicazioni e

nelle sue conseguenze e in particolare una dettagliata descrizione e interpretazione della figura del tiranno nei

suoi vari aspetti, con una condanna categorica: il tiranno e la tirannia rappresentano il peggiore dei mali per

l’uomo”(4)

.

A chi accusa Platone di imporre un modello ideale cui doversi adattare, Reale risponde che la visione di

Platone è lontana da ogni imposizione perché la città giusta non deve nascere da una pressione esterna, ma prima

di tutto da una trasmutazione interiore dell’anima rivolta al bene e non più incatenata alle “ombre della caverna”.

Questa trasmutazione, secondo Reale, è il più importante contributo “politico” che si possa dare per

l’edificazione di una buona comunità.

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Questa conversione al Bene non significa che il filosofo possieda, e poi imponga o voglia imporre, il

Bene, la Giustizia, la Verità perché il filosofo platonico “non è colui che possiede, ma colui che indaga, che ama

e ricerca la verità”(5)

. Se il Bene in Platone, secondo Reale, è l’Aformale esente da qualsivoglia limitazione,

esso è apertura alla Realtà totale, non possesso.

La metafisica di Platone sarebbe, in questa visione, antidogmatica nei suoi fondamenti. Tra i limiti della

democrazia del suo tempo e il rifiuto della tirannide, Platone cerca una terza via, incentrata sul ruolo salvifico

della saggezza, che per sua natura non impone, ma attira con la sua luce e con la forza dell’esempio. Una via

necessariamente di tipo pluralistico come confermato anche da alcune altre caratteristiche dell’opera platonica:

a) nei dialoghi Platone non parla in prima persona, ma affida i messaggi importanti a vari

autorevoli personaggi, i quali espongono punti di vista non sempre convergenti, talvolta

conflittuali nei dettagli, non sempre facilmente armonizzabili;

b) i dialoghi raramente giungono a conclusioni monolitiche, spesso impostano l’esame di

problematiche altamente significative, proponendo alcuni orientamenti di fondo, che per il resto

lasciano campo libero al prosieguo della riflessione;

c) il più famoso dei miti platonici, quello della “caverna”, ha il compito di esporre un’ontologia

sostanzialmente plurale, nella misura in cui riconosce che si danno diversi piani di realtà (e

correlativamente diversi piani di conoscenza), quello che qualifica poi ogni grado di

conoscenza è il grado maggiore o minore di apertura alla complessità della Realtà, che è

stratificata su più livelli (culminanti nel Sole, simbolo del Bene aformale); ogni livello di

Realtà e di conoscenza non esclude gli altri (come fanno invece le filosofie contrappositive,

dualistiche), non riduce a sé, o comunque ad un solo elemento, la ricchezza del reale (come

fanno le filosofie monistiche), insomma quella di Platone può essere definita in maniera

efficace una “metafisica della non-dualità”.

d) infine c’è da aggiungere che Platone volutamente non rinchiude la dottrina in rigide

formulazioni concettuali, ma si affida spesso e volentieri alla fluidità delle immagini mitico-

simboliche, cariche di un enorme potenziale allusivo, in grado di approssimarsi all’infinitudine

del vero, senza mai pretendere di esaurirla.

Hans Kramer osserva che, nella filosofia platonica “… il progetto era mantenuto piuttosto elastico e

flessibile ed era fondamentalmente aperto ad ampliamenti sia nel suo insieme sia nei particolari. Si può pertanto

parlare di una istanza non dogmatica ma euristica, rimasta in alcuni particolari addirittura a livello di abbozzo,

e quindi di un sistema aperto”(6)

.

Anche Aldo Lo Schiavo in ‘Platone e le misure della sapienza’ sostiene:” La sua ricerca filosofica

rimane in ogni momento aperta. Ridurre pertanto sotto un’etichetta unica la sua complessa esperienza

intellettuale sarebbe oltremodo sbagliato. In Platone non si trovano dogmatismi o chiusure ideologiche di alcun

genere”(7)

.

Non è possibile trarre conclusioni definitive sulla filosofia di un personaggio cosi ricco e complesso

come Platone senza correre il rischio di schematizzare e quindi impoverire il suo messaggio. Il “Bene” che

Platone ci ha lasciato è soprattutto lo stimolo a pensare e a continuare a confrontarci su quello che ci vuole

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suggerire la sua opera. Finchè ci farà discutere, anche aspramente, continuerà a nutrirci. Penso che egli

desiderasse soprattutto questo.

NOTE

(1) D. Antiseri : “Platone è totalitario, va corretto” , Corriere della Sera, Milano, 12/08/2010

(2) ib.

(3) Th. Gomperz : “Pensatori greci”, Bompiani, Milano, 2013

(4) G. Reale : L’utopia del governo perfetto. Platone e l’idea del Bene assoluto”, Corriere della Sera,

Milano, 23/08/2010

(5) ib.

(6) H. Kramer : “Platone e i fondamenti della metafisica”, Vita e Pensiero, Milano, 1987, pp. 177-178

(7) A. Lo Schiavo: “Platone e le misure della sapienza”, Bibliopolis, Napoli, 2008, pag. 481

BIBLIOGRAFIA

Arendt H. “Le origini del totalitarismo”, Einaudi, Torino, 1951

GomperzTh. “Pensatori greci”, Bompiani, Milano, 2013

Isnardi Parente M: “Il pensiero politico di Platone”, Laterza, Roma-Bari, 1996

Lo Schiavo A. “Platone e le misure della sapienza”, Bibliopolis, Napoli, 2008

Popper K. “La società aperta e i suoi nemici”, Armando Editore, Roma, 1973

Reale G. “Per una nuova interpretazione di Platone”, Vita e Pensiero, Milano, 1997

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Platone: la giustizia per uno Stato ideale

Antonio Lucerino

Nello studio della filosofia, soprattutto quella platonica, un campo di importanza decisiva è costituito

dalla giustizia, al fine di realizzare uno Stato ideale. Platone infatti incominciò a considerare la giustizia

un’idea-valore dopo che Socrate, il suo maestro, fu accusato e condannato a morte ingiustamente da tre

democratici oltranzisti- Meleto, Anito e Licone-, nello stesso tempo in cui la sua influenza si era già

esercitata in Atene su di un’intera generazione.

Un supporto bibliografico fondamentale è costituito dalla Repubblica di Platone, una delle sue opere

più famose, in cui il filosofo ordina e connette tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei

dialoghi intorno al motivo centrale di una comunità giusta. Inoltre, un altro supporto bibliografico è

ricavabile dal libro di filosofia La ricerca del pensiero, Vol. 1a, di Nicola Abbagnano e di Giovanni

Fornero.

Anzitutto, è assolutamente necessario spiegare che cos’è la giustizia, com’era organizzata la comunità e

parlare dell’importanza dell’educazione per custodire i governanti.

La morte di Socrate rappresentò un evento decisivo per Platone. Infatti quest’ultimo incominciò a

dedicarsi alla vita politica, ma la fine di Socrate lo colpì come un’ ingiustizia imperdonabile e lo spinse

a considerare molto negativamente le condizioni politiche di quel tempo: Platone si rese conto che

queste condizioni dovevano essere cambiate e che la risoluzione del problema politico doveva essere il

nuovo compito della filosofia. Quindi, da allora, la filosofia gli apparve come la sola via che potesse

condurre il singolo individuo e la comunità verso la giustizia: «Io vidi che il genere umano non sarebbe

mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i reggitori di Stato

non fossero, per divina sorte, diventati veramente filosofi»1.

Per Platone c’era bisogno di una comunità perfetta, nella quale il singolo trovava la sua perfetta

formazione. Il progetto di tale comunità era fondato sul principio che costituisce la direttiva di tutta la

filosofia platonica, come dice Platone stesso nella Repubblica: «Se i filosofi non governano le città o se

quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il

potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che

ora si applicano esclusivamente all’uno all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è

impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano»2.

Per Platone il fondamento di tale comunità è senza dubbio la giustizia. Nessuna comunità può

funzionare bene senza la giustizia,poiché quest’ultima è condizione fondamentale della nascita e della

vita armoniosa dello Stato.

Tuttavia lo Stato deve essere costituito da tre classi sociali:

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Assaggi di Filosofia Platone

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1- Governanti: la cui virtù caratteristica è la saggezza, poiché basta che i governanti siano saggi

affinché lo Stato sia saggio.

2- Guerrieri: la cui virtù caratteristica è il coraggio, poiché decidevano di compiere imprese molto

pericolose.

3- Lavoratori: la cui virtù è la temperanza, intesa come accordo sul principio secondo cui

l’inferiore deve essere subordinato al superiore.

In realtà, la temperanza, che è comune a tutte le classi, riguarda particolarmente i lavoratori poiché

questi, non avendo una virtù propria, devono condividere quella di tutta la società.

La giustizia è relativa a tutt’e tre le classi e si realizza soltanto quando il cittadino compie il lavoro

che gli spetta: siccome i compiti dello Stato sono tanti, ogni individuo deve scegliere quello per cui

è più adatto e dedicarsi esclusivamente ad esso. Quindi, in questo modo si può ottenere l’unità del

cittadino e, di conseguenza, l’unità dello Stato.Inoltre, la giustizia garantisce non solo l’unità dello

Stato, ma anche l’efficienza dell’individuo. In particolare, nell’anima di quest’ultimo, Platone

distingue tre parti:

1- Parte razionale: ha sede nel cervello ed è quella per cui l’anima ragiona e domina gli impulsi.

2- Parte concupiscibile: ha sede nel ventre ed è il principio di tutti gli impulsi corporei.

3- Parte irascibile: ha sede nel petto, è l’ausiliario della parte razionale e lotta per ciò che la

ragione ritiene giusto.

Da queste tre parti dell’anima vengono prodotte le virtù di tutte le classi sociali, di cui si è

parlato precedentemente: dalla parte razionale la saggezza, dalla parte concupiscibile la

temperanza, dalla parte irascibile il coraggio. Quindi, anche nel singolo individuo la giustizia si

realizzerà quando ogni parte dell’anima svolgerà la propria funzione.

“Chi custodirà i governanti dello Stato?”

Una volta aver parlato di com’è costituito lo Stato e in quante parti l’anima dell’individuo è

divisa, è bene concentrare l’interesse sull’importanza dell’educazione. Dunque, Platone postula

che i governanti, prima di custodire gli altri, devono essere capaci di custodire se stessi. Infatti,

per il nostro filosofo, lo Stato è come una grande Accademia, che ha come scopo la formazione

educativa di ineccepibili governanti.

Indubbiamente, l’educazione al sapere ed alla virtù di cui parla Platone non riguarda tutti gli

individui della società, ma soltanto quelli delle prime due classi. Tant’è vero che Platone non fa

alcun accenno dell’educazione della massa di cittadini, oppure, della classe dei lavoratori.

Bensì, egli è convinto che il sapere sia una prerogativa delle classi superiori, in quanto è

«impossibile che la massa filosoficamente rifletta»3.

L’educazione al sapere e alla virtù coincide con l’educazione alla filosofia, che è la

conoscenza: all’essere corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non essere

corrisponde l’ignoranza; al divenire, che è una via di mezzo tra l’essere e il non essere,

corrisponde l’opinione, che è a metà strada tra la conoscenza e l’ignoranza. In particolare

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Assaggi di Filosofia Platone

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abbiamo quattro gradi della conoscenza, e quindi dell’educazione, cui corrispondono quattro

gradi della realtà. Della conoscenza sensibile, che rispecchia il mondo mutevole, i due gradi

sono:

1- Congettura: ha come oggetto le ombre o le immagini delle cose.

2- Credenza: ha come oggetto le cose sensibili nei loro rapporti scambievoli.

Invece, della conoscenza razionale, che rispecchia il mondo immutabile, i due gradi sono:

1- Ragione matematica: ha come oggetto le idee matematiche.

2- Intelligenza filosofica: ha come oggetto le idee-valori.

Comunque, Platone è ben consapevole che un simile Stato non esiste “in alcun luogo sulla

terra”4. Infatti, correggendo l’idea che in una società perfetta ogni individuo segua la propria

disposizione naturale, il filosofo afferma piuttosto che l’edificazione dello Stato rende

necessario un agire contrario alla natura umana e volto a dominarne gli aspetti deteriori.

Nonostante ciò, Platone è convinto che lo Stato da lui descritto rappresenti un modello ideale, in

riferimento al quale è possibile migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le alterazioni possibili.

Infatti, le degenerazioni dello Stato sono varie:

1- Timocrazia: governo fondato sull’onore, che nasce quando un governante si impossessa di

case e di terre; ad essa corrisponde un uomo ambizioso e amante dell’onore, ma diffidente

verso i sapienti.

2- Oligarchia: governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi, quindi parsimoniosi e

laboriosi.

3- Democrazia: governo in cui i cittadini sono liberi e possono fare ciò che vogliono.

4- Tirannide: nata dall’eccessiva libertà della democrazia. Questo è il governo più spregevole,

perché il tiranno deve circondarsi degli individui peggiori. Il tiranno è schiavo delle passioni

ed è il più infelice degli uomini.

Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l’eliminazione

della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori, in modo che esse

attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I governanti devono avere cibo e

case semplici, vivere come militari; hanno soltanto i mezzi necessari per vivere. Siccome lo

scopo della città è il bene di tutti ma non la felicità di una classe, sia l’oro che l’argento sono

proibiti, come dice Platone: «Il nostro scopo nel fondare lo Stato non è di rendere felice un

unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità […].

Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma

vogliamo la felicità di tutti»5.

Quindi, quello prospettato da Platone si presenta come una sorta di comunismo, che non

riguarda l’intera società, dal momento che la terza classe non viene esclusa dalla proprietà

privata dei mezzi di produzione. In particolare, la classe al potere non avrà famiglia perché

Platone ritiene che i governanti debbano avere in comune anche le donne, questo spiega perché

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le donne devono essere in completa uguaglianza rispetto agli uomini anche per quanto riguarda

la partecipazione alla vita dello Stato. Inoltre, i matrimoni, dato che Platone è contrario al libero

amore, sono temporanei e sono stabiliti dallo Stato e, sin dal primo giorno della propria

esistenza, i figli sono tolti ai genitori, avendo cura che questi ultimi non sappiano quali sono i

loro figli e viceversa, così da creare un’unica e solidale famiglia: «e così saranno di tutti anche i

figli, né i padri conosceranno i propri figli, né i figli i propri padri»6.

“Platone può essere filosoficamente compreso, in modo adeguato, solo in antitesi ai sofisti?”

La posizione dei sofisti è dunque una forma di “relativismo”. Con questo termine si indica la

teoria secondo cui non esiste una verità “assoluta”, cioè “sciolta” dai vari punti di vista, ma ogni

verità, o ideale, o modello di comportamento, è “relativa” a chi giudica nell’ambito di una certa

situazione. Sulla base di questo relativismo, che distrugge il concetto di una verità unica, o di un

unico sistema di ideali validi per tutti e per sempre, i sofisti amavano insistere sulla diversità ed

eterogeneità dei valori, o ideali, che reggono la convivenza umana.

Ad esempio, per Protagora, la conoscenza è sempre condizionata dal singolo soggetto che

percepisce e pensa, e non esistono criteri universali che consentano di discriminare la verità e la

falsità delle conoscenze soggettive, non una giustizia assoluta, che possa valere da norma

definitiva per i comportamenti etici nello Stato. La misura del giusto non è l’individuo singolo,

ma l’intera comunità a cui appartiene. Giusto sarà ciò che appare tale alla maggioranza, ciò che

giova alla città (secondo il criterio dell’utile) ed ottiene il consenso più ampio possibile dei

cittadini. Così il consenso del pubblico diviene la riconosciuta misura della verità di un

discorso. Come si vede, in Protagora c’è in ogni caso un modo di discriminare fra due opzioni,

che non sono equivalenti per il solo fatto di non potere essere nettamente divise in “vere” e

“false”, “giuste” e “sbagliate”.

Invece, per Gorgia, tutte le possibilità si equivalgono, perché non sono conoscibili e comunque

non sono comunicabili. Ne consegue che con l’arte oratoria si può dimostrare che “tutto è il

contrario di tutto”.

Anche il progetto platonico di una riforma complessiva della comunità umana nasce in antitesi

alla degenerazione della democrazia ateniese. Tant’è che Platone critica sia i sofisti (i teorici

della nuova pòlis) sia gli uomini politici che avevano attuato riforme della città in senso

democratico: Temistocle, Cimone, Aristide e Pericle. Nel Gorgia: «Io sento dire che Pericle ha

reso gli Ateniesi pigri, vili e avidi di denaro, istituendo per primo uno stipendio per gli uffici

pubblici.[…] Pericle, allora non era un buon politico.»7

Questo severo giudizio sulla democrazia ateniese e sui suoi leader nasceva indubbiamente, nel

Platone aristocratico, dal desiderio di ritrovare un modello aristocratico di coesistenza sociale.

Oppure, la proposta politica di Platone va collocata nel contesto sociale della sua epoca, segnata

dallo scontro tra gli àristoi (i nobili) e il démos (il popolo). Tale scontro non implica soltanto

una contrapposizione di interessi, ma anche l’antitesi tra due opposte concezioni della giustizia.

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Nel Gorgia: «Io sento dire che Pericle ha reso gli Ateniesi pigri, vili e avidi di denaro,

istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici.[…] Pericle, allora non era un buon

politico.»8

In questo saggio, tutto dedicato alla teoria platonica della giustizia e dello Stato ideale, si è

parlato, inizialmente, del fondamento del progetto di tale comunità governata da filosofi, cioè la

giustizia, delle classi sociali dello Stato e delle virtù di quest’ultime. Successivamente, si è

parlato, più nel particolare, delle diverse parti dell’anima dell’individuo, che fa parte di una

delle classi della comunità, e dell’importanza dell’educazione, affinché lo Stato sia governato da

filosofi e non da governanti che pensano soltanto al proprio interesse e desiderano il male della

società. Infine, è stato necessario spiegare sia le degenerazioni dello Stato, poiché non c’era

un’unica comunità, quindi, si andarono a creare diverse riforme, sia del “comunismo” platonico,

poiché era fondamentale per la realizzazione della giustizia e per la buona funzionalità dello

Stato.

NOTE

1PLATONE, Lettera VII, 324b – 326b

2 PLATONE, Repubblica, V, 437d

3IVI, 494a

4IVI, IX, 588b - 589b

5IVI, IV, 420b-c

6IVI, IV, 457c-d

7 PLATONE, Gorgia, 515e-516c

BIBLIOGRAFIA

N. ABBAGNANO e G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia. Vol.1a,

Dalle origini ad Aristotele,Milano – Torino, 2012.

PLATONE, Repubblica.

PLATONE, Lettera VII.

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Assaggi di Filosofia Platone

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PLATONE, Gorgia.

Lo stato ideale di Platone è veramente perfetto Di Edoardo Quarantelli

Nonostante i tentativi compiuti negli ultimi decenni da numerosi studiosi di interpretare in senso

liberal-democratico la filosofia politica di Platone, la tesi del filosofo austriaco Karl Popper secondo la

quale Platone fu un pensatore totalitario, che avversò in maniera radicale la società aperta e la

democrazia, appare difficilmente contestabile. L'avversione platonica nei confronti della democrazia è

di natura profonda e investe importanti aspetti del suo pensiero filosofico, sia sul versante

antropologico sia su quello etico e morale. Per Platone la democrazia assume in maniera del tutto

ingiustificata l'uguaglianza degli uomini e rinuncia programmaticamente al principio di competenza.

Inoltre essa è destinata inevitabilmente a degenerare nella più terribile delle forme di governo: la

tirannide.

La riflessione filosofica del V-IV secolo a.C. fu generalmente ostile alla democrazia. Forse la prassi

democratica non aveva bisogno di venire legittimata sul piano teorico dal momento che era, almeno ad

Atene, diffusa e accettata. Quando la filosofia, con Socrate, Platone e, sia pure in misura meno radicale,

con Aristotele, iniziò a riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un

atteggiamento critico e polemico. Non mancarono tuttavia, soprattutto in ambiente sofistico, tentativi di

legittimare teoreticamente la prassi democratica. Il più interessante di questi tentativi fu probabilmente

compiuto da Protagora di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri attivi ad Atene nella

seconda metà del V secolo.

Platone, proprio nel dialogo dedicato a questo sofista, fa esporre a Protagora il celebre mito sull'origine

della civiltà. In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus

affidò al poco preveggente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza,

velocità, robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte alla

soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la

sapienza tecnica, cioè la competenza artigianale (demiourgikètechne) sotto forma di fuoco. Per

Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a

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garantire la sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla

base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di

collaborazione e a nuclei associativi. Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la

tecnica politica (politikètechne), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una

forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike). A differenza delle dotazioni naturali e

delle singole competenze artigianali, la tecnica politica venne distribuita a tutti gli uomini, i quali

risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità (Protagora, 320

D-323 C).

Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’ dell'ideologia democratica perché in esso trova

giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente,

in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la

città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre

parole, Protagora sembra fondare l'assunto fondamentale dell'ideologia democratica, il quale stabilisce

che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono

liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.

Sul piano della riflessione filosofica la polemica antidemocratica di Platone si indirizza proprio contro

la validità di questo insieme di assunti. Alla tesi dell'uguaglianza degli uomini egli contrappone un

celebre argomento di natura antropologica, che si fonda su una spregiudicata analisi della struttura

dell'anima.

Quest'ultima presenta tre differenti centri motivazionali, dalla prevalenza di uno dei quali dipende

l'orientamento generale della vita psichica dell'individuo. Solo il primo di questi centri motivazionali è

razionale, e si identifica con la capacità calcolativa della ragione (logismòs). La sua prevalenza

nell'anima dell'individuo garantisce l'orientamento dello stesso alla conoscenza e soprattutto la capacità

di universalizzazione. Viceversa le altre due ‘parti’ sono irrazionali: l'una rappresenta le istanze

dell'impulsività e della reattività collerica, l'altra dei desideri collegati alla corporeità.

Secondo Platone solo in un numero molto limitato di individui il centro razionale esercita il dominio e

assoggetta le altre due parti; le anime della maggioranza dei cittadini sono invece dominate dalle parti

irrazionali. Ciò significa che in questi individui gli interessi privati, i desideri, la pretesa di

autoaffermazione prendono il sopravvento nei confronti dell'orientamento al bene generale. Si tratta di

uomini che risultano ‘schiavi’ dei desideri e che perciò non sono in grado di esercitare in maniera libera

e veramente autonoma il loro ruolo di cittadini. Solo coloro nei quali prevale l'istanza calcolativa e

razionale, cioè i filosofi, possono assumere legittimamente il governo della città, perché solo loro sono

in grado di universalizzare le proprie decisioni, cioè di agire nell'interesse collettivo. Inoltre i filosofi

conoscono il mondo delle idee, cioè l'ambito eterno e invariabile dei valori normativi (la giustizia, il

bene, ecc.) ai quali deve uniformarsi ogni comportamento politico razionale. La conoscenza delle idee

consente di fissare dei criteri universali e assoluti in riferimento ai quali l'uomo politico può stabilire se

una certa legge o un determinato comportamento sia conforme alla ragione e al bene.

E' evidente che, secondo Platone, la democrazia viola le due norme fondamentali del buon governo: la

naturale disuguaglianza degli uomini e il principio di competenza, cioè il possesso del sapere. Platone

affianca alla riflessione filosofica sui fondamenti etici e antropologici della politica un'approfondita

analisi storico-fenomenologica delle varie forme di governo. Come la città democratica è dominata

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dall'uguaglianza (isonomìa) dei cittadini, così l'uomo democratico è un individuo ‘isonomico’, nel

quale è assente ogni principio gerarchico tra i desideri.

Nell'uomo democratico non esiste un orientamento psichico prevalente, dal momento che ogni

desiderio (perfino quello di sapere) si colloca sullo stesso piano degli altri: la sua anima è dominata dal

principio di libertà, la quale sconfina inevitabilmente nella licenza. Dal punto di vista storico la

democrazia è destinata a trasformarsi nella tirannide che rappresenta la forma più nefasta di governo.

L'eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale

sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare ‘democraticamente’ il potere,

trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia. Platone fu il primo pensatore

a formulare il cosiddetto paradosso della libertà o della democrazia: si tratta dell'incapacità della

democrazia di autofondarsi, cioè della circostanza che una democrazia può decidere in forma

democratica di annullarsi.

Come si vede, la filosofia politica di Platone fu profondamente antidemocratica; essa appare del tutto

inconciliabile con principi liberali della modernità. Tuttavia la riflessione platonica ha il merito di

aiutarci a collocare in prospettiva, e forse a relativizzare, una serie di assunzioni che appaiono naturali.

In particolare essa invita a considerare l'uguaglianza tra gli uomini non come il presunto dato di

partenza, ma come il fine dell'azione politica. Inoltre l'orientamento universalizzante e comunitario del

pensiero platonico può rappresentare un eccellente antidoto contro l'individualismo e l'eccesso di

privatezza che deformano di fatto la prassi democratica moderna.

Perché lo stato ideale di Platone è inconciliabile con l’idea moderna di stato perfetto.

Per prima cosa dobbiamo dire generalmente cosa si intende per stato ideale. Oggi si tende a pensare che

una società senza criminalità e con pari opportunità per tutti sia una società pressoché perfetta, ma per

Platone non era così infatti secondo la sua idea l’obiettivo ultimo dello stato perfetto era quello di

garantire la vera giustizia intesa da lui come l’adempimento di ogni Parte dell’anima, quindi della

società, al proprio compito. Quindi mi chiedo: in uno stato come quello idealizzato da Platone vi sono

pari opportunità per tutti?

Per dare una risposta a questa domanda credo che sia doveroso definire l’idea di stato perfetto di

Platone.

Come detto prima, Platone credeva che il fine ultimo dello stato fosse quello di garantire la giustizia ad

ogni singolo individuo. Per raggiungerla vi doveva essere equilibrio tra le parti dell’anima, tra le virtù e

tra le classi sociali. Per questo Platone credeva che la società perfetta dovesse essere così strutturata e

ce ne parla nella “Repubblica”.

Ne “La Repubblica”, Platone connette i risultati dei dialoghi precedenti intorno al motivo di una

comunità perfetta. Il fondamento di tale comunità è la giustizia, che si realizza quando ciascun cittadino

attende al suo compito proprio ed ha ciò che gli spetta. Lo Stato deve essere costituito da tre classi:

governanti, guerrieri e cittadini. Ai primi deve appartenere la saggezza, ai secondi

coraggio. La temperanza è virtù comune, ma la giustizia comprende tutte queste virtù.

Come nello Stato, nell’anima individuale Platone distingue tre parti: la parte razionale, che è quella per

cui l’anima ragiona e domina gli impulsi, la parte irascibile che lotta per ciò che la ragione ritiene

giusto, la parte concupiscibile che è il principio degli impulsi corporei.

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Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce anche l’eliminazione

della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori. Ancora, le donne dovranno

godere di una completa uguaglianza con gli uomini e parteciperanno parimenti alla vita dello Stato.

Le degenerazioni dello Stato sono varie. La timocrazia è il governo fondato sull’onore, ad esso

corrisponde l’uomo timocratico, ambizioso e amante del comando e degli onori. Un’altra forma è

l’oligarchia, governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi. Ulteriore forma è la democrazia, in

cui i cittadini sono liberi, ad essa corrisponde l’uomo democratico che tende ad abbandonarsi a desideri

smodati. Infine la tirannide, che spesso nasce dall’eccessiva libertà della democrazia.

Secondo la concezione aristocratica a reggere le sorti della cosa pubblica devono essere i migliori.

Invece, secondo quella democratica, il governo della polis deve essere appannaggio di tutti, ossia un

affare del popolo. Di queste due concezioni la più vicina a Platone è senz’altro la prima.

La giustizia platonica comporta, in concreto, una situazione nella quale i governanti sono tenuti a

governare e i lavoratori a lavorare, senza interferenze. Uno Stato è sano quando ciò avviene; malato

quando le classi non sono al loro posto. Per Platone, i governanti non devono adattarsi al punto di vista

dei governati; egli arriva persino a teorizzare la bugia e l’omicidio di Stato.

Pur non essendo democratico, lo Stato Platonico non deve confondersi con quello aristocratico

tradizionale. Tale stato è sì aristocratico in quanto governano i migliori, ma questi non sono tali per

casato o ricchezza, ma per il possesso del sapere.

Di fronte alla domanda “Chi custodirà i custodi?”, Platone osserva che i custodi, prima di saper

custodire gli altri devono essere in grado di custodire se medesimi. Da ciò l’importanza fondamentale

che riveste il sistema educativo per Platone, nella parte centrale della Repubblica.

All’essere, e quindi alle idee, corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-essere,

l’ignoranza; e al divenire, che sta in mezzo tra l’essere e il non-essere, corrisponde l’opinione, a metà

strada tra conoscenza e ignoranza. In particolare, Platone paragona la conoscenza ad una linea divisa in

due segmenti (sensibile e razionale), a loro volta divisi in altri due. Abbiamo così quattro gradi del

sapere cui corrispondono quattro gradi della realtà.

La conoscenza sensibile (doxa) comprende: a) la congettura o immaginazione che per oggetto le

ombre; b) la credenza che ha come oggetto le cose sensibili. La conoscenza razionale (episteme)

comprende a) la ragione matematica che ha per oggetto le idee matematiche; b) l’intelligenza filosofica

o poetica che ha per oggetto le idee-valori. La superiorità della filosofia consiste nell’occuparsi dei

problemi dell’uomo e della città.

Platone enumera nella Repubblica cinque discipline matematiche: l’aritmetica, cioè l’arte del calcolo,

la geometria come scienza degli enti immutabili; l’astronomia come scienza del movimento dei cieli; la

musica come scienza dell’armonia. Queste discipline costituiscono la propedeutica della filosofia: esse

preparano il filosofo alla scienza suprema, la dialettica, la scienza delle idee.

La teoria della conoscenza e dell’educazione trova un’esemplificazione allegorica nel mito della

caverna. Immaginiamo che vi siano schiavi incatenati in una caverna sotterranea e costretti a guardare

solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che sporgono al di sopra di

un muro, dietro cui si muovono i portatori di statuette. Più in là brilla un fuoco che rende possibile il

proiettarsi delle immagini sul fondo.

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Se uno di essi si liberasse dalle catene, voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse

sono la realtà. Se riuscisse poi a risalire all’apertura della caverna scoprirebbe che la vera realtà non

sono nemmeno le statuette, poiché queste sono a loro volta imitazione di cose reali.

Dapprima abbagliato da tanta luce non riuscirà a distinguere bene gli oggetti, incapace poi di volgere

gli occhi verso il sole, guarderà le costellazioni e il firmamento di notte. Lo schiavo vorrebbe restare là,

ma se egli tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non saprebbero più

discernere le ombre: perciò sarebbe deriso dai compagni che, accusandolo di avere gli occhi guasti,

continuerebbero ad attribuire i massimi onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre.

Infine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli, lo ucciderebbero.

Notevole è la simbologia filosofica di questo mito: la caverna oscura = il nostro mondo, gli schiavi

incatenati = gli uomini, le catene = l’ignoranza e le passioni, le ombre delle statuette = l’immagine

superficiale delle cose, le statuette = le cose del mondo sensibile corrispondenti al grado della credenza,

la liberazione dello schiavo

= l’azione della conoscenza

e della filosofia, il mondo

fuori dalla caverna = le

idee, lo schiavo che

vorrebbe starsene là = la

tentazione del filosofo di

chiudersi in una torre

d’avorio, lo schiavo deriso

= la sorte dell’uomo di

pensiero scambiato per

pazzo.

Platone ritiene che l’arte sia imitazione di una imitazione, di tre gradi lontana dal vero, in quanto essa si

limita a riprodurre l’immagine di cose. Anziché pungolare l’anima verso le idee, l’arte la rinserra nel

mondo. Inoltre l’arte, nutrendosi di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso; per il suo potere

corruttore degli animi, essa è psicologicamente e pedagogicamente negativa.

Per Platone queste tre classi sono fortemente gerarchizzate e la sottomissione delle altre classi a quella

dei governanti è la base del suo stato perfetto. Ma chi decide a che classe appartengono gli individui?

Platone risponde a questa domanda dicendo che si nasce già appartenenti a una classe sociale, ma a

questo punto un dubbio sorge spontaneo: chi controlla l’operato dei governanti? Platone ci dice che

sono i governanti stessi a controllarsi da soli.

Questa società ha la sua corrispondente più vicina nella tirannia oligarchica che era proprio la forma di

stato da cui Platone si voleva allontanare. Quindi la società descritta da Platone non dà pari opportunità

a tutti; infatti l’appartenenza ad una classe era data per nascita e non per merito.

CONCLUSIONE

In conclusine possiamo dire che lo stato ideale di Platone non può essere accettato dall’ etica moderna

e che la sua idea di stato è in forte contrasto anche con quello che era il suo pensiero sulla politica.

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Assaggi di Filosofia Platone

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Bibliografia

Enciclopedia online Treccani: la concezione politica di Platone: la critica alla democrazia.

Tesionline: la repubblica e lo stato nella filosofia di Platone

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Platone: teorico dello Stato totalitario?

Il rapporto del filosofo con gli studiosi del Novecento

di Matteo Biccari

Può sembrare strano agli occhi di noi uomini del terzo millennio, figli di un genitore un po’

rivoluzionario come il Novecento, che un filosofo così lontano storicamente, Platone di Atene, e la sua

Teoria dello Stato,siano stati oggetto di discussione da parte dei maggiori studiosi del secolo scorso.

Il filosofo ateniese ipotizzò la formazione di uno Stato ideale, basato sulla tripartizione della società,

governata dai filosofi, unici a conoscere, tramite la loro attività, la vera idea di Giustizia. Tale società,

così gerarchicamente divisa, si fonda anche sul principio di organicismo politico: Platone infatti

stimava lo Stato come un organismo, che, per funzionare, aveva bisogno della regolare attività dei vari

organi (le varie parti delle società), in modo che non interferissero fra di loro.

Questa visione di una società chiusa e fissa nelle sue disparità portò i filosofi del Novecento, tra i quali

certamente va citato il tedesco Karl Popper, a criticare negativamente l’utopiaplatonica.

Egli, sulla scia del suo connazionale Karl Marx, nel suo saggio La società aperta e i suoi nemici,

accusa il filosofo greco di totalitarismo e di essere un nemico della democrazia, assumendo quindi una

posizione che analizzeremo dettagliatamente più avanti.

Non è un caso, inoltre, che anche su di una rilettura strumentalizzata de La Repubblica(l’opera in cui

Platone espone la sua teoria politica) i regimi totalitari, da quello nazista hitleriano a quello

comunista della Russia di Stalin, abbiano fondato la loro ideologia politica.

Ma siamo sicuri che Platone abbia ipotizzato la necessità di uno stato totalitario che neghi le

libertà dell’individuo e che queste accuse non trascendano dagli schemi radicali della politica

contemporanea?

Prima di apprestarci alla critica del rapporto fra il Novecento e lo Stato immaginato da Platone, può

ritenersi opportuna una breve analisi della sua utopia1.

Platone, figlio di un’epoca in cui si assiste al fallimento del sistema politico democratico, immagina

la formazione di uno Stato ideale, la cui società basa la sua vita su tre principali concetti: giustizia,

tripartizione e organicismo politico.

La giustizia nello stato platonico è definita come armonia tra le classi sociali ed è il concetto alla base

della nascita e della vita della società, che è ripartita in tre ordini: quello dei cavalieri, dediti al

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servizio militare, quello dei produttori, che si occupano solo delle attività necessarie alla vita della

società, e quello deigovernanti, che appunto regolano e dirigono la vita pubblica.

Per usare una metafora ciceroniana, la navis rei publicae ha come timonieri i filosofi, che, alla continua

ricerca del Bene, sono considerati dall’ateniese i più idonei per l’attività politica.

Inoltre, i filosofi, essendo disinteressati al potere, sono quelli che meglio possono gestirlo, perché non

sono attratti dai benefici, quasi sempre illegali, che si presentano davanti a coloro che occupano

posizioni di autorità.

Quindi, non sarebbe nemmeno necessaria una verifica della correttezza del loro operato da parte

degli altri membri della società, che invece devono occuparsi e dedicarsi solo al lavoro che spetta al

loro ruolo sociale, in rispetto a un concetto detto di organicismo politico, cioè vedendo lo Stato come

un organismo, che, per funzionare, ha bisogno del regolare svolgimento delle attività assegnate ai vari

organi (le varie parti delle società), in modo che non interferiscano fra di loro.

Questa costituzione politica, che possiamo chiamare aristocrazia dei filosofi, è quindi per Platone una

forma ideale di costituzione statale, la quale può degenerare in governi come la timocrazia, cioè un

governo basato sull’onore, quindi sul vanto dato dal possesso di beni materiali, l’oligarchia, nella

quale governano gli esponenti più ricchi della società, la democrazia, nella quale, spodestati gli

oligarchi, ogni individuo ha la libertà di fare tutto ciò che asseconda la propria volontà, cedendo quindi

al libertinaggio, e infine la tirannide, in cui un singolo prende il potere con la forza e con questa lo

esercita, suscitando l’odio degli assoggettati.

Popper critica Platone, accusandolo di aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare e

controllare ogni aspetto della vita dei singoli, che non contano nulla di per sé, se non in funzione

dello stato. Si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri della Repubblica: l'

eugenetica, ovvero è lo stato a scegliere gli individui da far “accoppiare” in modo tale da avere una

discendenza perfetta. Popper, con le sue posizioni liberali, critica la società di Platone, perfetta e

totalitaria, ed è in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare,

inferiore a quella totalitaria platonica, ma che abbia conoscenza della propria inferiorità e sappia

correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta, secondo il filosofo tedesco, non ha

motivo di fare questo2.

Un’altra accusa mossa a Platone dagli studiosi del Novecento, specialmente dal contemporaneo Dario

Antiseri, è che il filosofo-re è il solo a conoscere la giustizia e a perseguire l’idea del Bene, e che la

imponga con ogni mezzo ed ad ogni costo, con la soppressione del libero pensiero e

l’intromissione della politica negli angoli più remoti dell’attività privata3.

Secondo questi studiosi “antiplatonisti” ci troveremmo quindi di fronte ad uno scenario molto simile a

quello descritto da George Orwell nel libro 1984: il Grande Fratello e i membri del Partito, che

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detengono il potere assoluto, attuando un feroce controllo della sfera privata degli individui e

conducendo operazioni di stravolgimento della realtà storica. A questo potere incontrastato,

controllato da un organo di sorveglianza e di repressione dei ribelli chiamato psicopolizia, sono

soggetti i prolet, uomini senza diritti politici che sono relegati in una parte periferica delle città e che

svolgono unicamente attività produttive, utili alla sopravvivenza della macchina statale4.

Questa descrizione sembra una trasfigurazione letteraria (e di fatto lo è) dei regimi totalitari del

Novecento e al tempo stesso un’attuazione del pensiero politico platonico: possiamo infatti distinguere

la tripartizione della società, l’organicismo politico e il potere destinato a un’élite della società.

Eppure, nonostante sia apparentemente inconfutabile la posizione assunta da questi studiosi, l’edificio

accusatorio contro Platone si basa su indebite estrapolazioni attuate sul testo fondamentale per

conoscere la sua utopia, La Repubblica. Se si collocano nel quadro generale dell’opera e si

attribuisce loro il giusto peso, la tesi accusatoria non regge affatto.

Procederemo quindi, confutando tutte le argomentazioni sopra menzionate riguardo al totalitarismo

dello Stato platonico.

Popper ha commesso un errore, tralasciando, nella foga, che Platone parla di un'idea statale e un'idea,

per definizione, non è mai realizzabile. E' solo un punto verso cui muovere. Nelle Leggi, opera

incompiuta, Platone delinea lo stato secondo: dal momento che quello ipotizzato nella Repubblica è

puramente ideale, Platone ne tratteggia uno realizzabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni

governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in

seguito ed è considerata il punto di partenza dello stato misto). Il ragionamento di Popper è dunque in

parte non adatto al contesto di cui si parla: se ipotizzassimo la società perfetta, perché mai dovremmo

cambiarla? Perché cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio.

Lo stato delineato nella Repubblica è un'utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi

che ne derivano; utopistico è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna

non lo è: utopisticoè il Comunismo ideale. Utopico è un concetto tipicamente progressista che induce a

vedere il mondo, che molti credono buono così com'è, imperfetto e migliorabile: il progressista ha un

atteggiamento sempre volto al cambiare. Si può dire che il concetto di utopistico si avvicini molto a

Platone che nelle Leggi fa notare che lo stato così com'è non va bene e ne propone uno misto, dal

momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper quindi ha semplicemente preso l'idea

utopica di Platone per utopistica.

Come detto prima, le accuse rivolte a Platone nascono da una strumentalizzazione parziale del suo

pensiero: ciò è dimostrato nei libri VII e IX della Repubblica, in cui il filosofo ateniese si fa aspro

critico dell’assolutismo, in particolare attraverso un’analisi della figura tirannica, simbolo per Platone

del totalitarismo, che definisce come “uno dei peggiori mali per l’uomo”5, smontando di fatto la tesi

popperiana.

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Contraddizione che noi possiamo ritrovare anche nell’asserzione di Antiseri: come evidenzia il filosofo

Giovanni Reale, “ il filosofo-re di Platone non impone alcuna idea del Bene, per il semplice fatto che

la città giusta non nasce da una pressione esterna, ma prima di tutto da una trasmutazione interiore

dell’anima rivolta al Bene, e non più incatenata alle “ombre della caverna” [… ] Senza considerare

tale conversione al Bene, non si può capire l’orientamento di fondo della politica platonica”6

[e questa

incomprensione, aggiungerei, riguarda molti autori citati in precedenza].

Basterebbe questo per intuire come il messaggio della Repubblica di Platone trascenda radicalmente gli

schemi riduttivi della politica moderna. La conversione al Bene non comporta che il filosofo possieda

(e poi imponga) il Bene, la Giustizia, la Verità ecc., come sostengono troppi detrattori: Reale, in

chiusura della sua riflessione, ricorda opportunamente che “ il filosofo platonico non è colui che

possiede, ma colui che indaga, che ama e ricerca la verità “7. Si può sintetizzare anche così: non si

tratta di possedere la verità, ma di praticare la costante apertura ad essa.

Abbiamo visto come, in realtà, le accuse rivolte a Platone (di essere un totalitario antidemocratico ecc.)

sembrino essere infondate, dal momento che abbiamo valuto le posizioni nell’ottica dell’intera

Repubblica.

Sulla sponda opposta, però, è giusto ricordare che ci sono stati estremi tentativi di difendere Platone da

Popper, fino a fare del filosofo greco una “caricatura perbenista”8, come asserisce il professore di

filosofia Mario Vegetti.

Sarebbe opportuno quindi per par condicio riconoscere che la critica di Popper e, sulla sua scia, degli

altri studiosi di filosofia del secolo scorso e del periodo attuale serve capire meglio Platone e forse

LaRepubblica può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-democratico.

Essa è un dialogo politico, in cui Platone espone le sue posizioni in fatto di filosofia politica. Si

possono condividere o rifiutare queste idee, e soprattutto si deve tentare di comprenderle. Ma negarne

l'esistenza e la forza, per tentare di proteggere Platone da se stesso prima ancora che dai suoi critici,

non è una buona strategia storiografica e risulta improduttivo sul piano della riflessione critica. Meglio

fare a meno della Repubblica, se la si considera inaccettabile, che offrirne un' immagine edificante,

depotenziata, insomma normalizzata dal punto di vista del senso comune dei nostri tempi.

Note

1. Per un’analisi più specifica e dettagliata della Teoria dello Stato in Platone, è consigliata la

consultazione di: N. Abbagnano, La ricerca del pensiero, ed. Paravia, vol.1A, pgg. 220-232

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2. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Vol. 1: Platone totalitario, Armando Editore

3. D. Antiseri, Platone è totalitario, va corretto., Corriere della Sera, 12/08/2010

4. G. Orwell, 1984, ed. Mondadori

5. Platone, Repubblica, trad. e comm. a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, VIII, 579 C-D

6. G. Reale, L’utopia del governo perfetto. Platone e l’idea del Bene assoluto, Corriere della Sera,

29/08/2010

7. Idem

8. M. Vegetti, Per favore, non correggete Platone, Corriere della Sera, 01/08/2010

Bibliografia

• Platone, Repubblica, trad. e comm. a cura di M. Vegetti, Bibliopolis

• N. Abbagnano, La ricerca del pensiero, ed. Paravia, vol.1A

• K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Vol. 1: Platone totalitario, Armando Editore

• G. Orwell, 1984, ed. Mondadori

• C. Sini, I filosofi e le opere, Principato Editore Milano

• Platone totalitario o libertario? Breve rassegna degli studi e delle diverse posizioni, a cura della

Redazione AEF – Associazione Eco-Filosofica

• Corriere della Sera, 01 - 12 - 29 /08/2010

Sitografia

• http://www.filosofiatv.org/news_files2/112_PLATONE%20TOTALITARIO%20O%20LIBERTARI

O.pdf

• https://giuseppecapograssi.wordpress.com/2013/01/21/la-figura-del-tiranno-nei-libri-viii-e-ix-della-

repubblica-di-platone/#_ftn41

• http://www.filosofico.net/popper5.htm

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Utopia: illusione o modello a cui aspirare?

Di Maria Teresa Casiello

Il filosofo dell’antica Grecia Platone fu allievo di Socrate. La figura del suo maestro influenzò in gran

parte il suo pensiero filosofico e gli permise di arrivare ad una piena consapevolezza del grado di

corruzione della società ateniese. Infatti questa società aveva mandato a morte un “uomo giusto”

(Socrate), il cui scopo era far elaborare ai singoli un pensiero proprio. Per questo motivo Platone

giunge a tale conclusione: una società che manda a morte un uomo giusto è una società corrotta.

Le degenerazioni dello stato

Platone riscontra in ogni forma di governo fino ad allora applicata, svariati difetti, che la portano ad

una degenerazione e, per questo motivo, non si avrà mai il governo perfetto inteso dal filosofo. In

particolare egli afferma che:

La timocrazia è la forma di governo fondata sull’onore, alla quale corrisponde l’uomo amante

del comando e ambizioso, ma che diffida dei sapienti.

Nell’oligarchia il potere è detenuto dai ricchi, vi sono uomini avidi e interessati esclusivamente

alle ricchezze.

Nella democrazia ogni uomo è libero di fare ciò che vuole: ad essa corrisponde l’uomo che ha

la tendenza ad abbandonarsi ai desideri più smodati.

Per ultima c’è la tirannide, la forma di Stato più spregevole, che spesso ha origine dall’eccesiva

libertà che nasce dalla democrazia.

Le divisioni dello stato

Poiché Platone ritiene imperfette queste forme di governo, crea l’immagine di quello che, secondo il

suo pensiero, è lo Stato ideale. Secondo questa visione, lo Stato deve essere diviso in tre classi: quella

dei governanti, di cui fanno parte i sapienti contraddistinti dalla saggezza; quella dei guerrieri, i cui

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componenti sono caratterizzati dal coraggio; infine quella dei lavoratori (o produttori), i quali sono

contraddistinti dalla temperanza (caratteristica che in parte è propria di ogni classe).

Il “comunismo” platonico

Inoltre, il filosofo greco è convinto che per stabilire la giustizia all’interno dello Stato siano necessarie

l’eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori.

I custodi di tali beni devono vivere in maniera modesta, come in un accampamento, e non hanno alcun

compenso per il loro ruolo di guardiani. Si capisce, quindi, che nello Stato ideale non ci deve essere

povertà, e perché questa non esista non deve esistere neanche la ricchezza. Si giunge perciò a parlare di

“comunismo” platonico, il quale in seguito verrà esteso anche alla sfera affettiva, stabilendo che la

classe al potere non deve avere famiglia; si decide inoltre che i governanti debbano avere le donne in

comune: ciò implica che i figli che nascono da esse saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, per

essere poi cresciuti in ambito comunitario, senza che siano a conoscenza dell’identità dei loro parenti.

Con questa visione Platone non intendeva ridimensionare il ruolo già marginale della donna nella

società, ma anzi darle maggior voce in merito a ciò che riguarda lo Stato, rendendola pari al ruolo che

l’uomo aveva avuto fino ad allora.

L’utopia

La visione platonica dello Stato può essere considerata utopica, e proprio per questo tale visione è stata

criticata da commediografi e filosofi sia contemporanei, che successivi allo stesso filosofo. Prendiamo

ad esempio la polemica che nacque tra Platone e Aristofane: il commediografo, infatti, nella sua

commedia “Ecclesiazuse” (Le donne in assemblea) attaccò Platone e il suo Stato ideale. In quest’opera

Aristofane prende di mira, in particolare, la parificazione della condizione delle donne a quella degli

uomini che, in una società fortemente misogina, qual era la società greca, appariva come una

pericolosissima utopia.

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Scrive infatti Platone nella Repubblica: “Non c’è nessuna attività di coloro che amministrano la città

che sia della donna in quanto donna o dell’uomo in quanto uomo, ma le nature sono disseminate in

entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le attività e alla pari, l’uomo di

tutte”9. Nella commedia aristofanea sono protagoniste le donne che, non potendo partecipare alle

assemblee cittadine, travestite da uomini, si radunano all’alba per impadronirsi del governo della città.

È loro intenzione avviare una riforma che farà passare il potere, finora detenuto dagli uomini, alle

donne.

Difatti la loro leader, Prassagora, proclama davanti agli uomini sbigottiti e ignari del tranello:

“Dichiaro che occorre che tutti mettano i propri beni in comune, che tutti dispongano di una parte di

tali beni e che vivano in modo che non ci sia più il ricco e il povero, che uno coltivi un grande

appezzamento di terreno e l’altro non ne abbia a sufficienza neppure per farsi seppellire”10

.

Nel nuovo governo che le donne delineano, nessuno potrà avere il possesso esclusivo di qualcosa o di

qualcuno, neppure in materia sessuale. Le donne potranno fare figli con chiunque vogliano. Così coloro

che fino al giorno prima si occupavano dei mariti, della casa e dei figli, si trasformano in una sorta di

militanti “comuniste”.

Inoltre nell’ “Ecclesiazuse” Aristofane deride la comunanza dei figli, che per Platone avrebbe permesso

di costituire una società armonica, priva di gelosie e contrapposizioni. Ridicolizza poi la comunanza

delle ricchezze e delle relazioni sessuali, critica la cancellazione della proprietà e della famiglia.

Tutto ciò perché l’idea di Platone appariva utopica, irrealizzabile. Ma è sbagliato credere in un utopia?

L’utopia è qualcosa da esorcizzare o da incoraggiare per far si che l’uomo, tendendo a quell’ideale

irrealizzabile di perfezione, migliori se stesso?

Luciano Canfora, storico del mondo antico e docente italiano di filologia latina e greca, profondo

conoscitore della cultura classica, autore anche di importanti studi sulla storia antica, afferma che è

proprio la forza dell’utopia che noi dobbiamo recuperare.

Lo storico sostiene che, a distanza di secoli, il dilemma Platone o Aristofane ci pone davanti a

innumerevoli domande: l’utopia può essere considerata semplicemente un “non luogo” o una

condizione felice possibile ?

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L’utopia è “il rifiuto di rassegnarsi alla rassicurante e paralizzante saggezza dell’immutabilità della

natura umana”11

?

E, come dice l’autore, “i fallimenti liquidano l’utopia? L’utopia resta un bisogno morale al di là del

naufragio? E la sua demonizzazione non diviene un alibi per blindare in eterno la conservazione e

l’ingiustizia?”12

.

Per Canfora la nostra società ha più che mai bisogno di un’utopia. In un periodo povero di ideali e di

utopie, con l’assistere ad un ritorno di contrapposizioni che pensavamo appartenessero al passato, con

razzismo e povertà in aumento, con lavoratori “schiavi concordati”, forse, sostiene l’autore, occorre un

cambiamento radicale, una mutazione profonda nell’uomo. Platone l’aveva già intuito quando si fece

promotore dell’impegno etico - politico nella disperata ricerca dell’individuo migliore atto a governare.

In un’intervista che Canfora ha rilasciato al Manifesto nel marzo 2014, alla domanda: “Quali saranno

gli esiti della dialettica storica tra ragione utopistica (Platone) e ragione beffarda (Aristofane)”13

, lo

storico risponde: “La vittoria del realismo beffardo nei confronti di ogni genere di proposta innovativa,

bollata come utopistica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripetersi

sistematicamente tale scenario. Il realismo beffardo fa capo al senso comune, che talvolta viene voglia

di definire il sesto senso degli idioti”14

.

Fino ad ora si è dibattuto sul concetto di utopia platonica: ma il termine “utopia” che significato ha?

Da dove ha origine?

Innanzitutto, va detto che tale termine fu coniato in epoca rinascimentale da Tommaso Moro che nulla

poteva fare di fronte ad una società ingiusta come quella inglese, nella quale ogni giorno cresceva la

massa dei nullatenenti, grazie a quei brutali atti di violenza con cui i terreni comuni venivano

espropriati e passavano nelle mani dei signorotti locali.

Tale terminepuò derivare tanto dal greco “ou – tópos” (luogo che non c’è), quanto da “eu (bene) +

tópos” (luogo felice). I due significati sono compresenti nell’accezione in cui Moro intendeva la sua

.

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isola fantastica, visto che essa era sì un luogo inesistente nella realtà, ma anche un luogo felice, in cui

regnava la concordia e la pace tra gli uomini.

Ma, tornando indietro nei secoli, è anche il caso di Platone che, dopo aver per qualche tempo nutrito la

speranza di far diventare filosofo il tiranno di Siracusa, venne poi smentito e da lì nacque il suo

disincanto: uno stato perfetto, in questo mondo, mai c’è stato, né mai ci sarà, l’unica cosa saggia che si

possa fare è provare a tratteggiarne uno, che serva da modello e, contemporaneamente, da critica a

quello reale.

Ed è su questi presupposti che ha avuto origine la “Repubblica”, lo scritto in cui Platone traccia

l’immagine dello Stato perfetto, destinato ad essere preso a modello per interi secoli anche da coloro

che ne hanno tratto le basi per quelle che diventarono ideologie totalitariste. Il filosofo moderno Karl

Popper critica questa visione cogliendo in essa una forma di “società chiusa”, che, in quanto già

perfetta, non ha alcun bisogno di “aprirsi” al confronto con altre società: è questo, secondo il pensatore

viennese, un carattere in qualche misura comune a tutte le utopie, in quanto tutte avanzano la pretesa di

essere modelli perfetti; dal canto suo, invece, la “società aperta” non è perfetta, ma ha coscienza della

propria imperfezione ed è perciò stimolata al confronto con le altre società, per potersi così

perfezionare incessantemente. Può però sembrare che Popper finisca per dimenticare che si tratta di

utopie, ossia di società che sono sì perfette, ma inesistenti e quindi irrealizzabili, sicché non è corretto

criticarle come se già si fossero concretizzate. Lo stesso Platone era cosciente dell’inattuabilità del suo

progetto: è per questo che successivamente lo accantonò e passò a delineare, nel suo scritto “Le leggi”,

uno “stato secondo”, ossia un’altra società, meno perfetta, ma, a differenza dello “stato ideale”, non

incompatibile con la realtà.

Precedentemente abbiamo preso atto dell’impossibilità che l’utopico diventi il reale, non nel senso che

un’utopia non possa realizzarsi, ma nel senso che, realizzandosi, si snatura, diventa qualcosa di diverso

dal modello originario, come se il contatto con la realtà la depotenziasse, uccidendola. L’utopia, in

quest’accezione, è incredibilmente vicina al concetto greco di “adúnaton”, con il quale si designa

l’impossibile. Perdere del tutto la fede nell’utopia significherebbe, in fin dei conti, sentirsi appagati

dalla realtà presente, che pure è sconvolta da così tante imperfezioni e difetti, e dunque smarrire un

ideale da cui trarre ispirazione per indirizzarsi verso un continuo perfezionamento.

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In conclusione cambiare il mondo è forse impossibile, eppure, non dobbiamo smettere di provarci;

allora l’Utopia non sarà solo un sogno, ma un impegno per ciascuno di noi, per migliorare noi stessi e

per tendere a quell’ideale di perfezione che l’utopia rappresenta.

Note

1PLATONE, Repubblica. 1ARISTOFANE, Ecclesiazuse. 1CANFORA, L. , La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Editori Laterza. 1IBIDEM.

1CANFORA, L. , In nome del principio di realtà, neIl Manifesto,URL= <http://ilmanifesto.info/in-nome-

del-principio-di-realta/>. 1IBIDEM.

Bibliografia

PLATONE, Repubblica.

ARISTOFANE, Ecclesiazuse.

CANFORA, L. , La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Editori Laterza.

CANFORA, L. , In nome del principio di realtà, neIl Manifesto,URL= <http://ilmanifesto.info/in-nome-

del-principio-di-realta/>.

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Utopia di una società perfettamente tripartita

Di Laura Campanella

E’ giusto che una società sia perfettamente tripartita in modo tale da non creare confusione e che le

classi sociali non si mischino tra di loro? E’ una domanda alla quale molti sociologi e filosofi hanno

cercato di trovare risposta, affermando che era più che naturale che ci fossero delle diversità.

Infatti, Platone è stato capace di progettare una società nella quale i filosofi fossero governatori, in

quanto erano gli unici a non essere travolti dalle prospettive di ricchezza e potere. Ma il progetto di

una comunità politica governata dai filosofi presenta a Platone due quesiti fondamentali: “Qual è lo

scopo e il fondamento di questa comunità?” e “Chi sono propriamente i filosofi all’interno di questa

comunità?”. Alla prima domanda la risposta è ‘’la giustizia’’, condizione fondamentale nello Stato. A

tal proposito, il filosofo tripartì la società in:

- Governanti

- Guerrieri

- Lavoratori

Soltanto se nello Stato la comunità era perfettamente tripartita era giusta. Anche l’anima era tripartita

in:

- Parte razionale: ha sede nel cervello ed è quella per cui l’anima ragiona e domina gli impulsi.

- Parte concupiscibile: è il principio di tutti gli impulsi corporei, che ha sede nel ventre.

- Parte irascibile: è l’ausiliario del principio razionale, che ha come sede il petto e che si sdegna e

lotta per ciò che la ragione ritiene giusto.

In particolare, la virtù del principio razionale è la saggezza; del principio irascibile , il coraggio; infine,

l’accordo di tutt’ e tre le parti nel lasciare il comando all’anima razionale è la temperanza. Anche

nell’uomo singolo si avrà la giustizia, solo quando ogni parte dell’anima svolgerà la propria funzione.

Rispondendo alla seconda domanda, Platone, rifacendosi alla ripartizione psicologica dell’ anima,

afferma che la diversità tra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono dalla

preponderanza di una parte dell’anima sulle altre. Si hanno gli individui razionali, che sono i filosofi;

gli individui impulsivi, cioè i guerrieri; infine, quelli soggetti al corpo e ai propri desideri, dediti al

lavoro manuale.

A favore di questa tesi, saranno introdotte teorie di scienziati, di sociologi e di filosofi più moderne

sulla stratificazione sociale. Dunque, quest’ultima è la condizione degli strati sociali, composti da

individui o da gruppi di questi, collocati vicini o sovrapposti in una scala di superiorità o inferiorità

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relativa a seconda della ricchezza, del potere, del prestigio o di ciò che la società in cui vivono ritiene

rilevante ai fini della distinzione sociale. Secondo i sociologi in tutte le società vi

sono disuguaglianze tra un individuo e un altro (universalità della stratificazione), invece, secondo

gli antropologi, possono esistere società a carattere egualitario, in cui tutti i gruppi sociali hanno più o

meno lo stesso diritto di accedere ai gradini superiori della scala sociale per godere di determinati

privilegi.

Altresì, esistono anche le teorie scientifiche, che spiegano il motivo per il quale si creano le

stratificazioni sociali, come:

- La teoria evolutiva:anche nelle società più semplici, esistono disuguaglianze strutturate basate

ad esempio sul sesso o sull’età. Tuttavia, vi sono delle differenze sostanziali messe in luce dallo

studioso Gerhard Lenski, il quale ha individuato le condizioni che favoriscono le

disuguaglianze sociali. La disuguaglianza, nella distribuzione della ricchezza, risulta assai bassa

nelle società di caccia e raccolta, crescendo nelle orticole, raggiungendo il punto massimo in

quelle agricole e diminuendo successivamente. Lenski sostiene che quando le società di caccia e

raccolta si trasformano in quelle orticole, in quelle pastorali e in quelle agricole ne deriva un

“surplus” di beni, che un gruppo dominante pretende di sfruttare dando luogo

alle differenziazioni sociali stratificate. Con l'avvento dell'industrializzazione,le differenze tra

ricchi e poveri sono notevoli ma con il progredire dell'industria, aumenta la classe media per le

possibilità, sebbene non per tutti allo stesso modo, di godere della maggiore produzione. Di

conseguenza, anche il potere politico si espande in forme democratiche limitanti l'eccesso delle

diseguaglianze con le istituzioni dell'assistenza pubblica e della tassazione progressiva.

- La teoria funzionalista: questa fu definita nel 1945 con la pubblicazione dell'articolo “Some

principles of stratification”, di Kingsley Davis e Wilbert Moore, i quali sostenevano che:«la

principale necessità funzionale che spiega la presenza universale della stratificazione è

precisamente l'esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella

struttura sociale».http://it.wikipedia.org/wiki/Stratificazione_sociale - cite_note-4 La

stratificazione, quindi, è essenziale per la vita della società. Premesso che in ogni società non

tutte le posizioni hanno la stessa importanza (si pensi agli sciamani o ai medici) e che il numero

di persone disponibili per ricoprire quelle posizioni è limitato, affinché un sistema sociale ben

funzioni, occorre che alcuni individui, particolarmente dotati o proprietari di una preparazione

raggiunta con sacrifici personali, si assumano, in cambio di un maggior reddito o

di prestigio sociale, il compito di esercitare quelle mansioni di maggiore «importanza

funzionale», che, più di altre, contribuiscano ad un buon funzionamento del sistema sociale.

Ma, questa gerarchizzazione ha sempre favorito diversi conflitti tra una casta e un’altra. Si può

spiegarne il motivo attraverso le teorie di alcuni filosofi e studiosi:

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- Karl Marx:la teoria del conflitto, ispirata alla dottrina marxista, afferma che la stratificazione

con le diseguaglianze connesse è una naturale misura adottata dai ceti dominanti. Questi,

coscienti come classe per séhttp://it.wikipedia.org/wiki/Stratificazione_sociale - cite_note-

6 della loro posizione condivisa, cercano di mantenerla inalterata tramite un continuo conflitto,

con il quale difendono la propria condizione sociale, privilegiata dai gruppi inferiori che ,

come classe in sé, non hanno coscienza della propria condizione di classe oppressa e, dunque,

non dispongono di un'organizzazione adeguata, che, accompagnata da una politica d'azione,

consentirebbe loro di superare la diseguaglianza sociale.

I teorici del conflitto considerano

l'immagine funzionalista di un consenso generale sui valori una “pura finzione”: in realtà,

accade che chi ha il potere costringe il resto della popolazione all'acquiescenza e alla

conformità. In altre parole, l'ordine sociale viene mantenuto non con il consenso popolare ma

con la forza o con la minaccia dell'uso della forza.I teorici del conflitto non ritengono che il

conflitto sia una forza necessariamente distruttiva, dato che ha spesso dei risultati positivi, in

quanto può portare a cambiamenti sociali che altrimenti non si sarebbero realizzati. Quindi, i

cambiamenti sociali impediscono che la società ristagni.

- Max Weber: quest’ultimo non si soffermò sull’ importanza delle classi sociali, ma elaborò una

teoria della stratificazione a più dimensioni. I principi fondamentali di aggregazione di classi

erano: l’economia, la cultura e la politica.Gli individui si aggregavano non solo per interessi

economici condivisi, formando le classi sociali, ma anche per aspetti,culturali, ideali,

originando i ceti, e politici, unendosi in partiti per gestire il loro potere. Quindi, nella

stratificazione sociale, è rilevante sia la classe sia il ceto, quest’ultimo inteso come elemento

aggregante in base allo stile di vita che riflette un prestigio sociale, che non dipende solo dalla

ricchezza ma anche da fattori psicologici e derivanti dalla considerazione sociale.

- Lewis Coser: la teoria del conflitto di Weber è stata ulteriormente sviluppata da Mills e Coser.

Soprattutto quest'ultimo non concentra la propria attenzione, come fece Marx, sulla lotta di

classe, ma considera come un fatto strutturale, che troviamo nella vita di ogni società, il

conflitto tra molti gruppi e interessi, per esempio: i vecchi contro i giovani, i produttori contro i

consumatori, gli abitanti del centro contro quelli della periferia e così via.Iconflittualisti

weberiani erano convinti che la scienza sociale e l'azione politica dovessero restare separate.

Quindi, essi negavano la formulazione di giudizi di valore sugli argomenti indagati, limitandosi,

sulla base del criterio di avalutatività, sviluppato da Max Weber, a descriverli. In particolare, il

pensiero di Coser è molto influenzato dalla visione del sociologo tedesco Georg Simmel, il

quale identificava la società come l'insieme delle relazioni di interazione che collegavano gli

individui. A tal proposito, Coserparla di una "rete del conflitto", sottolineando come il conflitto

sia una delle facce della vita sociale, di per sé, non più rilevante del consenso. In realtà, il suo

interesse è focalizzato sulle conseguenze del conflitto, affermando che il conflitto sociale, come

anche il cambiamento, non è necessariamente disgregante, ma è in grado di generare stabilità.

Infatti, conflitto non significa solo violenza aperta, ma anche tensione, ostilità, competizione e

dissenso sui fini e sui valori. Questo non è un evento occasionale, che interrompe il

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funzionamento generalmente armonioso della società, ma è una parte costante e necessaria della

vita sociale. Inoltre, Coser mostra interesse per le caratteristiche psicologiche degli attori

sociali, osservando l'esistenza di impulsi ostili nelle persone e la compresenza di sentimenti di

amore e odio nelle relazioni interpersonali. Nello stesso tempo, egli considerava le cause

sociologiche del conflitto. Quest’ultimo ha sì la capacità di innescare un cambiamento, positivo

o negativo, ma anche - ed è questo l'aspetto che interessa di più aCoser - la capacità e il

compito di mantenere la coesione all'interno del gruppo.

In conclusione, dopo aver analizzato queste teorie, si può dimostrare con certezza che la

stratificazione sociale è un fenomeno fondamentale per l’ordine dello Stato in quanto ogni

individuo, con le proprie capacità, aiuta la sua comunità a svilupparsi, avendo bisogno anche delle

competenze altrui. Proprio per questo si ricorre alla gerarchizzazione delle classi sociali, affinché

nessuno possa occuparsi di qualcosa che non gli compete, onde evitare gravi disordini di tipo

collettivo.

Bibliografia

-‘’La ricerca del pensiero’’ di N. Abbagnano e G. Fornero

- Enciclopedia ‘’Treccani’’

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Lo Stato utopistico o utopico di Platone?

di Raffaella Cardellicchio

La Repubblica rappresenta il cuore del pensiero platonico una sintesi grandiosa in cui giustizia, sapienza e verità

si identificano nella compagine statale governata dal filosofare. Una visione utopica che ha suscitato le più

contrastanti reazioni: dal consenso entusiastico alla sorpresa, al disappunto e al rifiuto.

A suo parere uno Stato per funzionare deve avere tre classi sociali: i governanti, i difensori, i produttori. Ogni

classe deve svolgere le sue funzioni, che non sono però di ugual livello, sebbene siano tutte fondamentali. E’ una

chiara prospettiva aristocratica. In realtà la classe dei governanti si costituisce tramite la selezione di difensori

che maturando diventano governanti, la forza fisica cede il passo a quella intellettuale e morale. Questa

tripartizione ebbe enorme successo nella storia, nel Medioevo, per esempio, la società era suddivisa in oratores,

bellatores e laboratores.

La città ideale di Platone è aristocratica, cioè governata da coloro che risultano essere i migliori ed i più idonei a

svolgere tale compito. I migliori vengono selezionati in base al loro talento e non al fatto che i loro genitori

potessero essere governanti. Tuttavia egli ammette che ci sia una sorta di ereditarietà. Ciò non significa che i

giovani venissero selezionati per la loro discendenza, ma è un dato di fatto che coloro che mostrano maggiori

attitudini per il governo sono proprio i figli dei governanti. Per selezionare occorre effettuare due lavori, la

selezione vera e propria, e sviluppare le propensioni dei selezionati. In realtà lo Stato delineato da Platone è lo

Stato spartano idealizzato. Difatti, a quei tempi presso gli aristocratici era visto come la migliore organizzazione.

Ma Platone tratteggia anche le possibili degenerazioni statali e proprio tra queste ci sarà lo Stato spartano che era

in realtà dominato non da aristocratici, ma da militari e proprietari terrieri.

Secondo Platone ad ogni classe sociale spetta una virtù poi ce n'è una comune a tutti e tre i gruppi in tutto sono

quattro le virtù (anche nel Cristianesimo ci sono le virtù, quattro cardinali e tre teologali le quattro cardinali

l'uomo le possiede per natura, le tre teologali deriverebbero dalla divinità e sono fede, carità e speranza) e si

suddividono così: sapere, coraggio, temperanza e giustizia.

I governanti devono essere filosofi e quindi la loro virtù è il sapere. Quella dei difensori è il coraggio che serve

loro per difendere strenuamente lo Stato. I produttori devono invece essere dotati della temperanza, devono cioè

sapere che vi è chi governa e chi lavora. E’ una virtù che in realtà appartiene un pò a tutti, ma soprattutto a

coloro che devono obbedire.

Nei primi dialoghi (Gorgia, Menone) del secondo periodo platonico (periodo della maturità che segna il distacco

da Socrate), vengono fatti accenni per lo più negativi alla politica, considerata in modo assai pessimistico, data la

vicenda socratica alle spalle. La politica però viene definita eticamente, e cioè proprio come la pratica

consapevole del bene da parte di chi vuole estendere la virtù a tutta quanta la città, a tutti i cittadini e al loro

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comportamento complessivo, cosa a cui finora si sono sottratti tutti i (falsi) politici, e della quale solo Socrate si

è seriamente occupato.

La teoria politica di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il filosofo viene descritto

come il perfetto politico, e cioè come colui che sa cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Il dialogo

comincia con la domanda che cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra la giustizia

nell’uomo e la giustizia nello Stato. Da questo punto in poi viene ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di

carattere economico, fondata cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della comunità.

D’altra parte lo Stato si fa "gonfio di lusso" e cioè aumentando la popolazione, aumentano e si complicano quei

bisogni che si distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un allargamento, che provoca guerre, ma

soprattutto disequilibri interni.

La giustizia viene allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e di ciascuna classe

presente nello Stato - di svolgere bene il proprio compito. Ma per fare questo è necessaria la massima

consapevolezza dell’identità fra l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo

Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il comando supremo. In questo senso si può parlare in Platone di

uno Stato e di rapporti politici fra le classi (filosofi-governanti, guerrieri-soldati e artigiani-agricoltori) in cui

viga la noocrazia, e cioè l’egemonia e il potere di chi sa. Come si vede, qui dove non ce lo aspettavamo, si

impone il concetto e il termine nous, mente, conoscenza e consapevolezza filosofica, la quale solamente può

identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello Stato, in altri termini, presuppone la

perfezione filosofico-etica di esso, incarnata dalla classe dei filosofi al potere.

Finché i governanti disporranno di patrimoni e di affetti familiari privati, finché potranno cioè dire “questo è

mio” di beni, di mogli, di figli, non sarà possibile che il loro potere sia davvero disinteressato e rivolto al bene

comune. Sempre di nuovo essi saranno esposti alla tentazione e al sospetto di usare il potere per fini privati, cioè

per aumentare le loro ricchezze e per avvantaggiare la loro famiglia. E dunque necessario estirpare la dimensione

privata dalla vita della polis, o almeno di quella parte della polis che è destinata a guidarla e a custodirla. A

questa parte non sarà consentito possedere beni privati né una famiglia. Al suo sostentamento provvederà la

comunità compensando i governanti con un salario per il servizio pubblico che essi rendono. Maschi e femmine

si uniranno ogni anno, accoppiandosi secondo un sorteggio, per generare i figli. Ma nessuno potrà riconoscere i

figli come propri: essi verranno immediata mente sottratti alle madri e allevati a cura dello Stato. Ogni adulto

considererà come propri figli tutti i giovani della generazione nata durante il suo periodo fecondo, e ognuno dei

giovani di questa generazione considererà padri e madri tutti gli adulti della generazione precedente.

L’essenza del “comunismo” platonico consiste dunque nell’eliminazione simultanea - almeno per il ceto dei

governanti - della proprietà privata e della famiglia. E questa tesi - rigorosamente motivata, del resto, dalla

necessità del disinteresse del gruppo al potere, di una sua completa dedizione al bene comune - era destinata a

suscitare le più dure critiche, a partire da Aristotele e fino ai giorni nostri.

Aristotele considerava che il prezzo che Platone aveva pagato in nome dell’unità della città - per evitare che

essa fosse spaccata fra ricchi e poveri, e poi divisa in una molteplicità di gruppi di interesse tanti quanti erano i

nuclei patrimoniali e familiari - fosse eccessivo e comunque psicologicamente inaccettabile. Ogni uomo, diceva

Aristotele, costruisce la propria identità sulla base di ciò che costituisce la sua sfera privata, di ciò - beni ed

affetti - di cui può appunto dire: «questo è mio». L’interesse collettivo è solo secondario e mediato; nessuno

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dedica ai beni comuni, oppure ai figli comuni, neppure un millesimo delle energie e delle cure che è pronto a

dedicare ai beni e ai congiunti propri.

A partire da Aristotele, e fino al nostro secolo, la tradizione del pensiero liberale ha su queste basi radicalmente

respinto il progetto platonico. In una celebre opera del 1944, Karl Popper ha considerato Platone (insieme a

Marx) uno dei principali nemici della società liberale, e perciò uno dei padri dei totalitarismi tipici del nostro

secolo. Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo e, all’interno dello Stato stesso, la

consegna di un potere assoluto ad una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui

metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva

Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche dei dirigenti di partiti quali quello

giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta ad ogni controllo democratico?

Popper, inoltre, era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perché l'uomo stesso è imperfetto

per natura. La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e

sa correggersi cambiando in continuazione, una società perfetta non ha motivo di fare questo. Platone insiste

invece sull'immutabilità, la società per lui è perfetta così com'è e non deve assolutamente cambiare. Popper ha

però commesso un errore dimenticandosi nella foga che Platone parla di un'idea statale un'idea, per definizione,

non è mai realizzabile è solo un punto verso cui muovere. Nelle "Leggi", opera incompiuta, Platone delineerà lo

"Stato secondo" dal momento che quello delineato nella "Repubblica" è puramente ideale,

Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il

miglior Stato tra quelli attuabili.

Questa soluzione piacque molto in seguito ed è considerata il punto di partenza dello Stato "misto". Il

ragionamento di Popper è, dunque, in parte fuori luogo se ipotizzassimo la società perfetta, perché mai

dovremmo cambiarla? Perché cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio. Abbiamo detto

che lo Stato delineato nella "Repubblica" è un'utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi che

ne derivano "utopistico" è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna non lo è,

"Utopico" è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo, che molti credono buono così

com'è, imperfetto e migliorabile. Popper ha preso l'idea di Platone utopica di Stato per utopistica.

I difensori di Platone si sono divisi, di fronte a queste critiche, in due gruppi. I simpatizzanti delle posizioni

liberal-democratiche hanno sostenuto che l’utopia proposta nella Repubblica non deve venir presa alla lettera. Si

tratterebbe, come sostiene ad esempio Hans Georg Gadamer, di una provocazione puramente intellettuale, che ha

una funzione critica rispetto allo stato di cose esistente ai tempi di Platone (cioè l’esercizio del potere in funzione

di interessi privati di gruppi e di famiglie), ma che non pretende in alcun modo che i suoi contenuti siano

possibili e desiderabili. Un gioco intellettuale, in sostanza, senza alcun aspetto progettuale.

All’estremo opposto, i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone

uno dei precursori di questa tradizione, anche se si sono scontrati con il problema della limitazione del

“comunismo” platonico. Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in

senso fascista e nazista. Essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai

cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano (Platone scrive ad esempio che non è

giusto che la medicina prolunghi la vita di coloro la cui capacità di prestazioni utili agli interessi collettivi sia

irrimediabilmente compromessa).

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Ognuna di queste interpretazioni polemiche coglie, in misura diversa, una parte della verità, ma nessuna rende

pienamente giustizia allo spirito di Platone, nel quale la dimensione politica deve sempre esser vista come

strettamente connessa al problema dell’anima, da una parte, e a quello della scienza dall’altra.

Prima di entrare in queste considerazioni è, tuttavia, necessario escludere che le proposte della Repubblica

abbiano il carattere di una mera “utopia”, cioè di un sogno, di un “castello sulle nuvole”. Platone ritiene - e lo

ribadisce a più riprese - che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non

impossibile. Si tratta dunque di un “mondo possibile” che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanze

sono favorevoli, costruito. Di un dovere etico-politico, dunque, per chi voglia davvero che la comunità umana sia

messa nella condizione di vivere una vita buona e giusta. Non è possibile, infatti, che questa vita sia raggiunta in

modo solitario da nessun individuo. Il miglioramento di ciascuno è, infatti, l’esito di un’impresa educativa che

può venire svolta con successo soltanto dalla comunità politica. Se è vero che non può esistere una comunità

giusta se non è composta di uomini giusti è anche vero che non possono esistere uomini giusti se non vengono

formati da una comunità giusta. Può trattarsi di un circolo vizioso a meno che una minoranza di giusti, formatasi

in modo autonomo - quella dei filosofi - riesca a prendere il potere e con esso a fare della polis una comunità

educativa al servizio di tutti gli altri uomini che, alla fine di questo processo, potranno anche rendersi autonomi

da quel potere, come i ragazzi cresciuti possono rendersi autonomi dall’autorità del maestro e del padre.

Hegel ha sostenuto in vario modo che lo Stato platonico fosse una “utopia reale” e cioè certamente un prodotto

di pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto di Stato che meglio di tutti coglieva la natura stessa

dell’eticità greca. D’altra parte la Repubblica di Platone ha riscontri oggettivi nell’esperienza da lui vissuta con

la vicenda di Socrate, dalla quale risultò l’esigenza di una profonda riforma politica che riportasse l’equilibrio

all’interno della democrazia e comunque prospettasse la concreta possibilità di fondare lo Stato non su interessi

particolari e privati ma universali e generali.

La "Repubblica" può anche essere vista in chiave di trattato pedagogico-educativo volto all'istruzione dei futuri

governanti. Platone ci indica qui i diversi livelli di conoscenza e contrappone la filosofia ad altri metodi di

educazione, primo tra tutti quello della retorica capeggiato da Isocrate. Per Platone la vera retorica è quella che si

fonda sulla piena conoscenza della verità e delle persone cui ci si rivolge, non come la intendevano tutti i suoi

contemporanei. Per Isocrate e tutti gli altri essa consisteva invece nel formulare discorsi eleganti ma privi di

verità.

Il progetto della Repubblica va dunque preso sul serio. Ma, come si diceva, esso può venire compreso solo sullo

sfondo del rapporto della dimensione politica, con quella scientifica e con quella psicologica.

L’anima di ogni uomo, dice Platone, è divisa in tre parti (noi diremmo in tre istanze psichiche o centri

motivazionali).

Quella superiore è la ragione (logos), capace di comprendere il ragionamento teorico e, in ambito etico-

politico, i valori legati al bene universale. I desideri propri di questa parte dell’anima sono la verità e la giustizia.

Ma dal punto di vista delle energie psichiche, la ragione è debole, rappresenta una minoranza dell’anima.

Ci sono poi due parti irrazionali. La prima di esse è quella emotiva (thymòs). Gli impulsi e i desideri di questa

parte sono di ordine sociale. Essa mira ad affermare il prestigio, il potere, la gloria dell’io nell’ambito della

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comunità e rappresenta il desiderio collerico di vendetta nel caso in cui l’io si ritenga in giustamente offeso.

Questa seconda parte, benché irrazionale, nutre aspirazioni nobili, di tipo guerriero e con essa la ragione può

stringere un’alleanza per mettere al proprio servizio le sue energie.

La terza parte dell’anima è la più pericolosa. I suoi desideri non sono sociali ma privati e legati alla corporeità e

consistono nella brama dei piaceri alimentari e sessuali, nonché della ricchezza che può soddisfare gli uni e gli

altri. Questa terza parte, secondo la Repubblica, deve venire sottomessa e tenuta a bada dalle prime due se si

vuole salvaguardare l’armonia e l’equilibrio psichico della personalità (ma Platone scrive altrove che anche

l’impulso erotico, in cui consiste la maggiore riserva di energie psichiche, può venire rieducato in modo da venir

messo al servizio della ragione, secondo un processo che anticipa da lontano la sublimazione di cui ha parlato

Sigmund Freud).

La Repubblica non ha mai mancato di svolgere il suo compito principale; quello di invitare a pensare sul destino

della vita individuale e sociale degli uomini un destino, secondo Platone, non prescritto e ìmmutabile, ma da

immaginare, argomentare, costruire.

Bibliografia:

Platone la Repubblica- a cura di Giuseppe Lozza

Platone la Repubblica-a cura di Francesco Adorino

Platone la Repubblica-introduzione di Mario Vegetti

Sitografia:

Enciclopedia Treccani online

Filosofico.net

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I filosofi non devono governare

Di Myriam Buonfino

Nella Repubblica di Platone ci è ben illustrato il suo pensiero di uno Stato strutturato in maniera del

tutto ideale, e che potrebbe funzionare solo nel suo amato mondo delle idee (Iperuranio). Platone si

affretta ad enunciare lo scopo che deve avere lo Stato: il benessere condiviso e alla portata di tutti. Ma

non tutti sono uguali.

Essendo aristocratico, egli vive un forte senso di appartenenza alle classi e divide la popolazione della

sua città in tre parti:

La classe governante, formata da filosofi e sapienti che conoscono bene le idee dell’iperuranio e

conoscono le cose terrene in maniera più profonda di chiunque altro

La classe dei guerrieri, dotati di forte coraggio e grande virtù

La classe dei produttori o lavoratori, non aventi il diritto di prendere parte alle decisioni dei

governanti, destinati ad essere governati in quanto dediti alla parte concupiscibile della propria

anima

Si può ben vedere come questa tripartizione rifletta in maniera piuttosto diretta quanto Socrate dice nel

Fedone riguardo l’anima, servendosi (come è solito fare Platone) del mito della biga.

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L’anima è innanzitutto immortale per Platone e composita di tre parti, che hanno ciascuna una

rappresentanza nel mito: c’è una parte concupiscibile, il cavallo nero, che tende a far cadere la biga

sulla terra, attirato dalle passioni e dai beni materiali; c’è una parte irascibile, il cavallo bianco, che

tende a salire verso il cielo e a seguire gli ordini dettati dall’auriga che rappresenta appunto la parte

razionale, quella che ha come scopo il condurre l’anima così tripartita nel mondo delle idee per rendere

visibili quante più conoscenze possibili. A ciò si riconduce anche la tematica di Platone secondo cui

conoscere è ricordare, cioè recuperare la conoscenza delle cose viste nell’iperuranio e quante più cose

si sono viste, grazie al lavoro dell’auriga, la parte razionale, tante più cose si potranno capire una volta

incarnati nel corpo visto come prigione dell’anima alla maniera di Pitagora e dei suoi seguaci. Perciò

colui che ha visto

più cose ha un

auriga che ha

svolto

eccellentemente il

suo lavoro e grazie

a ciò è capace di

riconoscere le cose

che sappiamo

essere mera

imitazione delle

idee

dell’iperuranio.

Dopo questo excursus esplicativo riguardo il microcosmo dell’anima che si riflette nel macrocosmo

dello Stato mi accingo a presentare la mia tesi: è sicuro che i filosofi sarebbero abili governanti?

Secondo la Repubblica, la virtù comune a tutte le classi, la giustizia, deve essere la temperanza; in più i

guerrieri devono avere il coraggio e i governanti la saggezza. Da qui Platone ci spiega che la vera

saggezza è conoscere le cose non come si presentano nella realtà, giacché copie, ma come sono

nell’originale, cioè conoscere le idee. Chi se non i filosofi conoscono le idee?

La scienza, la virtù da cui si generano tutte le altre virtù, quindi la definizione stessa (come appreso dal

tanto ammirato maestro Socrate), si distingue in due parti:

La doxa, cioè l’opinione, la conoscenza sensibile

L’episteme, cioè la conoscenza esatta e razionale

La prima va ricondotta a tutti coloro che conoscono le cose per come si presentano nel mondo reale, e

si distingue in immaginazione, che ha per oggetto le ombre, e credenza, che ha per oggetto le cose

sensibili.

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Assaggi di Filosofia Platone

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La seconda va ricondotta invece a coloro che si distaccano dal mondo reale cercando risposte al di fuori

e si distingue in ragione matematica, che ha per oggetto le idee matematiche, e l’intelligenza filosofica

che ha per oggetto le idee-valori.

Per poter spiegare meglio queste distinzioni Platone fa uso del mito della caverna. Gli uomini sono tutti

imprigionati come schiavi in catene, costretti a vedere delle ombre che si muovono sulla parete di una

caverna buia; uno di loro riesce a sciogliere le catene e a guardare dietro di sé, scorgendo le statuette

che muovendosi gettano ombre sulla parete; è questa la credenza. Successivamente si alza e riesce a

vedere che le ombre sono causate dalle fiamme del fuoco che illumina debolmente le statuette. Lo

schiavo liberato esce dalla caverna e si ritrova in un mondo meraviglioso e lucente, quello delle idee,

tanto che i suoi occhi non abituati a tanto splendore faticano a riconoscere le cose e si concentrano sul

riflesso che esse creano nell’acqua, le idee matematiche. Abituatosi a tanta magnificenza lo schiavo

riesce poi a guardare le cose direttamente, e soprattutto il sole che rappresenta l’idea massima, l’idea

del Bene. Vorrebbe rimanere lì per sempre, come i filosofi vogliono rimanere rinchiusi per l’eternità in

una torre d’avorio, ma si rende

subito conto che il bene di cui

è venuto a conoscenza sarebbe

moltiplicato se condiviso

anche con gli altri uomini.

Tornato nella caverna non

riesce più a distinguere le

ombre che si muovono sulla

parete e perciò viene deriso da

tutti gli altri schiavi,

felicemente imprigionati nelle

loro catene fatte di passioni per le cose terrene. Soprattutto lodano coloro i quali meglio degli altri

riescono a distinguere le ombre, cioè coloro che si vantano di avere una falsa conoscenza delle cose e

stufi dell’insistenza di quell’unico uomo che ha conosciuto il mondo esterno, lo uccidono.

È ben chiaro che l’unico uomo che è uscito dalla caverna è Socrate e la sorte che gli è toccata è proprio

la stessa, morire e vedere come sono lodati coloro che non sanno ma credono di sapere.

L’idea di Platone sarebbe dunque quella di valorizzare i filosofi rendendoli custodi della giustizia e

“sottomettere” il resto della popolazione rendendoli produttori o lavoratori senza diritto di contestare

l’operato dei governanti. In che modo dunque scegliere coloro che sono degli di essere governanti?

Grande importanza assume dunque un altro mito in Platone, che si rifà direttamente ai Fenici. L’anima

può avere tre nature: aurea, argentea e bronzea. Egli vi associa le sue classi sociali così che i governanti

sono contraddistinti da un’anima aurea, i guerrieri da quella argentea e i lavoratori da quella bronzea.

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Interessante elemento, quasi di meritocrazia, è quello dovuto all’ispezione di ogni bambino nato nello

stato ideale giacché, seppure è vero che i figli tendono a imitare i genitori nelle passioni o nella

saggezza, talvolta capita che qualcuno se ne discosti e compito dei filosofi è scorgere le anime auree

nate in contesti bronzei o viceversa.

Questo è importante ai fini dell’educazione, riservata ai soli esponenti della classe aurea. Sarebbe

infatti inutile preservare educazione per coloro che avendo visto poco nell’iperuranio mai potranno

conoscere (in quanto attività affine al ricordare) le cose che li circondano.

Questo è lo stato secondo Platone più giusto che possa esserci e per questo è e rimarrà un ideale, spesso

oggetto di rivisitazione in quanto costituisce un modello unico e perfetto da cui prendere spunto.

Mi sorge spontanea una domanda: in base a cosa i filosofi riescono a intuire una natura aurea, argentea

o bronzea nei bambini? Semplice, i filosofi hanno la conoscenza delle idee dell’iperuranio e dunque

sanno riconoscere, avendola vista nella sua forma originale, una natura aurea.

Ma chi può riconoscere ciascuna anima? Colui che le ha viste già tutte, com’è chiaro.

In definitiva, chi può arrogarsi il diritto di dire di aver visto ogni idea dell’iperuranio?

Con questa semplice domanda, mi auguro di condurre il lettore agevolmente nelle prossime

argomentazioni, consequenziali a questa e indispensabili a confutare la teoria dello stato governato da

filosofi di Platone.

Poiché conoscere è ricordare, non è possibile ricordare ciò che non si è conosciuto, dunque non sarà

mai possibile sapere se si riconosce ogni cosa. Ma d’altronde, sarebbe difficile aver visto ogni idea

dell’iperuranio con attenzione giacché il tempo che vi si trascorre è minimo in quanto il cavallo nero

sfugge alle redini dell’auriga facendo precipitare e incarnare l’anima in un corpo che è la sua prigione.

Dunque, nessuno può dire di sé essere grande conoscitore di tutte le idee.

Se quindi non conosce tutte le idee, non può ricordare nemmeno tutte le sfaccettature che presenta

un’anima aurea e non può dunque riconoscere quelle che non ricorda in un’anima da lui decretata

“bronzea”.

Dunque alcune anime bronzee sarebbero ingiustamente private dell’educazione che le spetta in quanto

anime auree e necessarie allo sviluppo del benessere dello Stato.

Ma non è tutto. Le anime dei filosofi hanno sì visto le idee, ma possono averne alterato l’essenza

originale così che pari buona a loro una cosa che in realtà deriva dall’interpretazione sbagliata, dunque

cattiva, di una idea che in quanto tale è buona.

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Così che avremo dei governanti che, convinti di fare il bene, farebbero invece il male e nessuno,

impostato in questo modo lo Stato di Platone, potrebbe obbiettare le loro decisioni, essendo classi

sociali sottomesse e inferiori.

Essendo dunque i filosofi dei cattivi governanti, essendo saggi solo di determinate cose e in un

determinato modo, il governo, che si prefissa di essere il più giusto di ogni altro, diventerebbe una delle

forme degenerate dell’aristocrazia tanto decantata da Platone.

Per il Platone “logico” esistono quattro forme degeneri dello Stato: timocrazia, oligarchia, democrazia

e tirannide. La prima è contrassegnata dal prevalere dell’ambizione, della ricerca degli onori (da timé:

considerazione, onore).

Nella seconda hanno il sopravvento uomini avidi di ricchezza (prevale il censo). Nell’oligarchia “si

plaude e si ammira il ricco”.

All’opposto la costituzione democratica è dominata dai poveri “che massacrano parte dei ricchi e

parte esiliano mentre si dividono con quelli che restano l’amministrazione e le magistrature, il più

delle volte spartendole a sorte”.

Infine, la tirannide prende le mosse dalla democrazia ed è lo sbocco conseguente di una tendenza ad

assolutizzare il principio interno di quella forma politica.

Come l’eccesso di ricerca della ricchezza manda in rovina l’oligarchia aprendo la strada alla

democrazia così dall’esasperazione della libertà si compie il trapasso dallo Stato democratico alla

tirannide.

“E’ naturale dunque che la tirannia da non altro governo può prendere le mosse se non dalla

democrazia: dalla estrema libertà nasce cioè la schiavitù più piena e più atroce.”

Dunque non esiste la giusta aristocrazia che rivendica Platone, si trasformerebbe inevitabilmente in una

delle forme degenerate perché alla base non c’è la giustizia e non potrà mai esserci perché il problema

qui affrontato sta alla base di tutta la teoria platonica.

C’è da dire però che lo stesso Platone si accorge in età senile che quanto da lui teorizzato è un’utopia

irreale e irrealizzabile e dev’essere presa solo come modello per poi adattarla alle diverse situazioni di

governo di ogni Stato reale.

Al giorno d’oggi, dunque, se non i filosofi, i saggi, chi è più idoneo a governare?

Non c’è risposta unica a questa domanda, giacché tutti potrebbero governare perché ugualmente esposti

alle cose presentateci dalla vita, e nessuno potrebbe farlo perché ciascuno è potenzialmente esposto

all’errore o, peggio, alla corruzione. Questi due ultimi aspetti sono insiti nell’animo umano, in

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qualunque persona ed è proprio ciò che non permette mai di avere uno Stato pienamente giusto o di

raggiungere le forme di governo ideali che pertanto appariranno sempre lontane e irraggiungibili.

Note Bibliografiche

1. Domenico Valenza. Principali autori e temi dell'indagine filosofica (riassunto)

2. N. Abbagnano e G. Fornero, La Ricerca del Pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.1 A, ed. Paravia

3. Platone, frammento

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L’uomo può realizzare un buon governo ?

Di Giovanna Olivieri

La politica ,dal greco polis che significa città , è l’arte , scienza del governo e amministrazione dello

Stato. Il filosofo greco Platone si è soffermato a lungo sull’importanza della politica ,su chi dovesse

governare e come dovesse farlo, sull’importanza delle leggi e sul ruolo del filosofo nella società. La sua

riflessione parte in un momento cruciale della sua vita ovvero la morte del suo maestro , Socrate , da

qui la fatilica domanda : “si può condannare a morte un uomo giusto ?”. Platone da questo momento in

poi dedica gran parte della sua vita , come testimoniano i suoi scritti :La Repubblica , Il politico e le

leggi nella ricerca di uno stato ideale. Nel corso della sua vita cambia diverse volte opinioni , sia perché

viene deluso dalle sue aspettative ,come con il tiranno di Siracusa , sia perché perde fiducia nell’essere

umano e nella sua volontà di realizzare un buon governo. Così Platone , un po’ per il suo stato sociale ,

un po’ per ciò che gli è successo , concepisce il governo in modo gerarchico , governato in un primo

momento dai filosofi , poi da re filosofi e infine dalle leggi .

La tesi è : l’uomo è capace di realizzare un buon governo?

Per capire la concezione politica di Platone è necessario capire cosa intendesse per uomo , ovvero come

secondo questo filosofo era l’animo umano

Il Carro Alato

“Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che

dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe

fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piúbreve.Questo sia dunque il

modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un

auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi [b] sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri

esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini,l’auriga conduce la pariglia; poi dei due

corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta.

Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso.”[1]

Alla tesi dell'uguaglianza degli uomini egli contrappone un celebre argomento di natura antropologica,

che si fonda su una spregiudicata analisi della struttura dell'anima. Quest'ultima presenta tre differenti

centri motivazionali, dalla prevalenza di uno dei quali dipende l'orientamento generale della vita

psichica dell'individuo. Solo il primo di questi centri motivazionali è razionale, e si identifica con la

capacità calcolativa della ragione (logismòs). La sua prevalenza nell'anima dell'individuo garantisce

l'orientamento dello stesso alla conoscenza e soprattutto la capacità di universalizzazione. Viceversa le

altre due ‘parti’ sono irrazionali: l'una rappresenta le istanze dell'impulsività e della reattività collerica,

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l'altra dei desideri collegati alla corporeità.

Secondo Platone solo in un numero molto limitato di individui il centro razionale esercita il dominio e

assoggetta le altre due parti; le anime della maggioranza dei cittadini sono invece dominate dalle parti

irrazionali. Ciò significa che in questi individui gli interessi privati, i desideri, la pretesa di

autoaffermazione prendono il sopravvento nei confronti dell'orientamento al bene generale. Si tratta di

uomini che risultano ‘schiavi’ dei desideri e che perciò non sono in grado di esercitare in maniera libera

e veramente autonoma il loro ruolo di cittadini .

Inoltre un altro famosissimo mito parla dell’anima e di come l’uomo sia predestinato; in senso lato

questo mito ci fa comprendere come per Platone ogni cittadino è importante per lo Stato ma ognuno

entro i suoi limiti e le sue possibilità così che il comando venga affidato solo a chi è realmente

competente . Il mito in particolare è quello di Er dove dopo la morte , all’inizio di una nuova vita ,

l’uomo sceglie il suo destino e sconterà in vita la sua buona o cattiva scelta . In senso lato il mito vuole

“giustificare” la condizione dell’essere umano sulla vita e del perché è destinato a quel ruolo nella

società .

“ la virtù è libera a tutti ;ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia.Ognuno

è responsabile del proprio destino ,la divinità non ne è responsabile.”[2]

Lo Stato per Platone

Lo stato deve essere costituito da tre classi sociali , che non a caso , corrispondono alla tripartizione

dell’anima : quella dei governanti , quella dei guerrieri e quella dei lavoratori o produttori .La saggezza

è la virtù caratteristica della prima di queste classi , poiché basta che i governanti siano saggi perché

tutto lo Stato sia saggio .Il coraggio è la virtù della classe dei guerrieri e la temperanza intesa come

governo della ragione dove l’inferiore viene subordinato al superiore ,è una virtù caratteristica dei

produttori .Uno stato per poter funzionare deve comprendere tutte e tre queste classi sociali e non solo

, anche ogni essere umano deve stare in equilibrio con le tre parti della sua anima . Ovviamente questa

tripartizione non dipende da un diritto di nascita ma da attitudini naturali, come viene spiegato nel

“mito delle stirpi”

“Il dio ordina ai magistrati di sorvegliare attentamente i bambini, di stare bene attenti al metallo che si

trova nella loro anima,e se i loro figli hanno qualche parte di bronzo, di essere per loro senza pietà e di

assegnare ad essi il tipo di onore dovuto alla loro natura, relegandoli nella classe degli artigiani e degli

agricoltori; ma se da questi nasce un bambino la cui anima contiene dell’oro o dell’argento, il dio vuole

che sia onorato elevandolo sia al rango di custode, sia a quello di difensore…” [3]

. Il metallo di cui si

parla è sempre riconducibile alla tripartizione dell’anima, i governatori hanno un metallo aureo , i

guerrieri d’argento e i produttori di bronzo.

Ma chi sono questi “ governatori “?

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A Platone sta a cuore la formazione della classe diligente , di quella piccola “èlite”a cui deve essere

affidato il compito supremo di stabilire l’unità interiore dello Stato mediante il dominio assoluto e

impersonale della ragione .Dopo la morte del maestro inizia a pensare ad uno stato governato da

filosofi perché sono gli unici che riescono a guardare oltre ;infatti,secondo il filosofo, sono gli unici che

posseggono la “ragione”:sanno cosa è giusto , cosa è bello e sono disinteressati dal potere .

Non si potrà dunque approssimare ad uno Stato ideale,conclude Platone ,se non a condizione che o

governino i filosofi o i governanti filosofeggino .

“. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse

migliorare il governo della città, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine

m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza

una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta

filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo

essa. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere

politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non

fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi ...”[4]

E se il potere fosse nelle mani di tutti ?

Una concezione di stato totalmente diversa ce la propone il sofista Protagora.

“Così l'uomo divenne partecipe di un destino divino (theia moira). In quanto imparentato con la

divinità, fu l'unico essere vivente a riconoscere gli dei e a praticare il culto. Grazie alla sua

techne imparò ad articolare la voce in parole e inventò case, sandali, letti, vesti, nonché l'agricoltura.

Ma gli uomini continuavano a vivere separati, e non riuscivano a unirsi neppure per difendersi dagli

animali feroci perché non avevano la techne politica, di cui è parte anche quella bellica Allora Zeus,

per salvarli dalla rovina, inviò Hermes a portar loro aidos(vergogna) e dike (giustizia) perché

costituissero ordinamenti delle città e vincoli di philia che li tenessero insieme. Hermes chiese se

doveva distribuire aidos e dike soltanto ad alcuni, come avviene per le technai come la medicina,

oppure a tutti .Zeus gli rispose di darle a tutti, perché senza aidos e dike non potrebbe esistere la

comunità politica: «istituisci dunque in mio nome una legge per la quale chi non è capace di

condividere aidos e dike sia soppresso come una malattia della città» “[5]

In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco

preveggente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità,

robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte ai pericoli del mondo

esterno e degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza

tecnica, cioè la competenza artigianale (demiourgikètechne) sotto forma di fuoco. Per Protagora,

tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la

sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla base della

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sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di

collaborazione e a nuclei associativi. Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la

tecnica politica (politikètechne), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una

forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dike). A differenza delle dotazioni naturali e

delle singole competenze artigianali, la tecnica politica venne distribuita a tutti gli uomini, i quali

risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità

Il mito di Protagora viene considerato il ‘manifesto’ dell'ideologia democratica perché in esso trova

giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente,

in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la

città, sia di un'autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre

parole, Protagora sembra fondare l'assunto fondamentale dell'ideologia democratica, il quale stabilisce

che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono

liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.

Platone al contrario considera la democrazia in tutt’altro modo .Il concetto di Democrazia implica la

partecipazione di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica e presenta ,fin dall’antichità,uno

stretto legame con le nozioni di uguaglianza di diritti e di libertà. Il filosofo , provenendo da una forte

affinità con il regime aristocratico, sostiene questa forma di governo come una “licenza”,definendola

come una situazione dove ognuno può fare il proprio comodo , essendo libero da ogni vincolo .

“incantevole governo,a quanto pare,sciolto dal peso di ogni disciplina ,variopinto e che concede

uguaglianza di diritti ai giusti come agli ingiusti”.[6]

Platone inoltre definisce la democrazia una degenerazione dello Stato e si può dire che questo suo

progetto di riforma dello Stato nasca proprio in antitesi con il regime del suo tempo . infatti critica

anche i fautori della Democrazia Ateniese.

“Dimmi soltanto se è voce corrente che gli Ateniesi siano stati i migliori da Pericle o ,al contrario,ne

siano stati corrotti ,Io sento dire che Pericle ha reso gli Ateniesi pigri ,vili,chiacchieroni e avidi di

denaro,istituendo per primo uno stipendio per gli uffici pubblici .”[7]

Come testimoniano Le leggi ,Platone perde completamente fiducia nel genere umano , non crede che

l’uomo sia capace di governare .Viene deluso sia da un governo di filosofi perché disinteressati e

incompetenti a questo compito , sia da re filosofi perché deluso dal tiranno di Siracusa .Mentre nella

produzione precedente il politico era sopra le leggi ora diventa il custode delle norme e

dell’ordinamento giudiziario. Come ultima analisi inizia a concepire che lo Stato debba essere

governato dalle sole leggi e che il compito del filosofo sia quello di portare l’uomo sulla via della

giustizia. Quindi contrariamente alla visione Protagorea o in generale Democratica , non crede e non

incentiva l’uguaglianza di diritti perché non considera tutti gli uomini dotati della capacità di

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governare. Probabilmente questa sua sfiducia nel genere umano è condizionata dal periodo storico in

cui vive , e indubbiamente dalla morte ingiusta di Socrate .Il suo Stato però resterà per sempre ideale e

lui stesso si renderà conto di tutto in seguito a varie delusioni ;così affiderà lo Stato alle leggi , create

dagli stessi uomini.

Bibliografia

1 Da Treccani,di Franco Ferrari,Platone. Contro la democrazia, BUR 2008.

2 N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1A, ed.

Paravia, 2012

Opere citate

[1] Platone,Fedro, 246 a-249d

[2] Platone,Repubblica,X

[3]Platone,Repubblica,III,415b-c

[4] Platone, Lettera VII,324b-326b,trad di A.Maddalena,Laerza,Roma-Bari1971

[5]Platone,Protagora320c-322d

[6]Platone,Repubblica,557b-558c

[7]Platone Gorgia,515e

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Oramai era passata un’oretta e mezza e delle pizze nemmeno l’ombra , chiamammo per chiedere

quanto ci volesse ma era ben chiaro che stasera non le avremo mangiate . Così i soliti cuochi della

situazione entrarono in cucina e iniziarono a preparare, ovviamente era una cosa molto arrangiata , ma

fu divertente vederli all’opera. Iniziammo con degli spaghetti molto ma molto al dente , diciamo

immangiabili ,ma tant’era la fame che mangiammo addirittura con gusto. Intanto il discorso era

degenerato , e iniziammo a parlare dell’uomo .

Uomo si nasce o si diventa?

Innatismo e ambientalismo dalla filosofia platonica alla psicologia del ‘900

di Federica D’Alterio

L’uomo, in quanto tale, ha caratteristiche e capacità che differiscono da individuo a individuo.

L’aspetto che incuriosisce di questi singoli e individuali attributi umani è il come questi stessi si

presentino negli individui e quali fattori influiscano sulla loro apparizione, cioè se il processo di

formazione dell’ individualità dell’uomo sia legato ad un fattore innato (l’ uomo nasce con determinate

caratteristiche) oppure è plasmato dall’ esperienze dell’ individuo nell’ ambiente in cui vive

(ambientalismo) .

Per secoli ciò è stato argomento di innumerevoli dibattiti tra le più grandi menti appartenenti ad ogni

campo scientifico, medico e anche filosofico, che hanno sostenuto l’ innatismo o l’ influenza dei fattori

ambientali come causa unica che contribuisce alla formazione dell’ individualità umana. Tuttavia c’è

una terza opzione, la quale è la più determinante causa di questo processo, e cioè che l’ uomo possa

sviluppare singole caratteristiche sia perché esse sono innate, sia perché queste vengono determinate

dall’ ambiente circostante. Dunque, l’unione tra innatismo e ambientalismo è l’ unica che influisce

sulla natura umana.

Il filosofo dell’ antica Grecia Platone aveva intuito il peso di questi due fattori sull’ uomo, formulando

la sua “teoria dello stato”, contenuta nella sua opera “Repubblica”.

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La “Repubblica” è l’opera più vasta e ampia realizzata dal filosofo greco, in cui tutti i temi e i risultati

elaborati dal filosofo stesso nei precedenti dialoghi, sono ordinati e connessi intorno al motivo centrale

di una comunità perfetta, cioè lo stato platonico ,nel quale il singolo trova la sua perfetta formazione.

Lo stato dovrà essere diviso in tre classi, quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella dei

lavoratori. La saggezza è la virtù caratteristica della prima classe e il coraggio appartiene ai guerrieri ,

la temperanza è comune a tutte le classi. La finalità di questo stato “ideale” è il raggiungimento della

Giustizia, valore supremo che si realizza quando ciascun cittadino attende al proprio compito e fa ciò

che gli spetta.

A questo punto una domanda sorge spontanea: “Che cosa fa si che un uomo appartenga o meno ad una

determinata classe per potersi occupare del proprio specifico compito?”

Per rispondere a ciò è necessario ricollegarci al concetto di anima analizzato da Platone nella sua opera

“Il Fedro” attraverso il mito della biga alata . L’ anima individuale è paragonata ad una biga guidata da

due cavalli alati. Uno dei due cavalli è bianco e perfetto e spinge la biga verso l’ Iperuranio (il mondo

delle idee), l ‘altro cavallo, invece, è nero e ingovernabile e dirige la biga verso il mondo terreno. Da

ciò è evidente che il filosofo non concepisce l’anima come un qualcosa di unitario, ma anzi come

un’entità tripartita .

Essa, dunque, è composta da:

una parte razionale che domina gli impulsi e grazie alla quale l’ anima ragiona (essa

corrisponde all’ auriga nel mito della biga alata che governa i due cavalli).

una parte concupiscibile (il cavallo nero), principio di tutti gli impulsi corporei.

una parte irascibile (il cavallo bianco), ausiliario del principio razionale.

La diversità degli individui e la loro differente destinazione sociale dipendono, secondo il pensiero

platonico, dalla preponderanza di una parte dell’ anima rispetto alle altre. Abbiamo così gli individui

prevalentemente razionali, quelli prevalentemente impulsivi e ancora quelli più soggetti ai beni terreni.

L’ appartenenza degli individui in una specifica classe, quindi, non dipende dal perché “si è nati” in

quella classe, ma è soggetta ad un fattore antropologico e psicologico o, in parole povere, da come l’

individuo è in quanto dotato di anima. Dunque le sue caratteristiche sono soggette a innatismo.

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Assaggi di Filosofia Platone

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Tuttavia Platone si rende conto che solitamente gli individui tendono a modificare le caratteristiche

della propria anima perché influenzati da un dato contesto in cui vivono e crescono, quindi, solitamente

i figli assomigliano ai padri.

“Ordinariamente, voi generate figli simili a voi stessi”

Platone è il primo filosofo che introduce argomenti riguardo la singolarità della natura umana,

favorendo come causa principale di ciò l’ innatismo e svalutando il contesto vitale poiché costringe l’

uomo a non sviluppare i suoi attributi innati, ma lo plasma rendendolo simile agli altri uomini.

Negativo o meno però l’ ambientalismo, insieme all’ innatismo, secondo il pensiero di Platone,

concorre alla formazione individuale.

Naturalmente Platone, essendo nato molti secoli prima della scoperta dell’ ereditarietà e quindi della

genetica, non era in condizioni di interpretare adeguatamente il funzionamento della mente e della

coscienza umana, cioè ciò a cui egli stesso attribuisce il nome di anima. Dunque, solo verso la fine del

XIX sec. e in tutto il XX gli studi sulla mente umana potettero progredire.

Al centro del dibattito tra innatisti e ambientalisti riguardo la singolare formazione individuale ci sono

sempre stati gli studi sulla natura dell’ intelligenza, se questa sia “naturale”, ossia miscela di varie

capacità (giudizio, saggezza ecc,) che sembrano prescindere da un eventuale insegnamento

proveniente dall’ esterno, oppure se questa può essere intesa come una forma di adattamento dell’

individuo con il suo ambiente.

A tale proposito sono stati condotti vari esperimenti volti a stabilire quanto, sull’intelligenza, incida il

fattore genetico ed il fattore ambientale. In primo luogo recentemente sono stati svolti studi sui gemelli

monozigoti. Queste ricerche si propongono di individuare ed eventualmente separare all’interno del

concetto di mente e di coscienza umana ciò che è dovuto ai geni e quindi innato, da ciò che è dovuto

alle esperienze post nascita e quindi ambientale. Ad esempio due gemelli monozigoti vengono separati

alla nascita e fatti vivere in contesti assi diversi tra loro. Il limite di queste ricerche è che troppo scarsa

è la disponibilità di casi e quindi di dati per cui le moderne interpretazioni del binomio innatismo

ambientalismo sono ancora oscure ed incomplete. Ciò che si è potuto ricavare è che in alcuni casi i

gemelli monozigoti presentano un forte grado di somiglianza.

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Secondo Jean Piaget, psicologo, biologo e pedagogista (considerato il fondatore dello studio dei

processi cognitivi legati alla costruzione della conoscenza nel corso dello sviluppo) l’ intelligenza

intesa come capacità di interazione verbale si fonda su un tipo di intelligenza pratica o motoria, la

quale si basa su abitudini e associazioni acquisite dall’ individuo in tenera età nel momento in cui

incomincia ad entrare in relazione con l’ ambiente che lo circonda. Dunque l’intelligenza del bambino

si sviluppa parallelamente alle stimolazioni ed alle percezioni a cui è gradualmente sottoposto.

“La conoscenza è un processo di costruzione continua”

.Dunque, dato che la conoscenza nell’uomo ha origine nell’azione, è indiscutibile che l’interazione con

l’ambiente sia determinante per un corretto sviluppo intellettivo.

Però, per un ampio e giusto sviluppo cognitivo nei bambini, questa interazione fisica non basta. Infatti

vari concetti (come quello della "permanenza" cioè la capacità di avere presente oggetti rimossi dalla

percezione) sono presenti in uno stadio molto precoce che non risente quindi della esperienza vissuta

ed inoltre, bambini nati con handicap motori possono avere uno sviluppo simile a quello raggiunto da

bambini in grado di interagire normalmente con l’ambiente esterno.

Ciò verrà dimostrato dallo psicologo francese GouinDecarie, il quale sostenne che nei bambini affetti

da focomelia (nati senza braccia o senza gambe), lo sviluppo intellettivo seguiva la sequenza

piagetiana. Infatti la maggior parte dei bambini sviluppò conoscenza, pensiero e linguaggio normali,

nonostante gli handicap motori li privassero di quelle esperienze sensoriali, ritenute fondamentali per lo

sviluppo intellettuale, secondo Piaget. Infatti i programmi basati su meccanismi di percezioni visive,

uditive e di tatto generano solo una conoscenza intesa come graduale consapevolezza delle proprie

capacità e non un’ intelligenza globale.

G. Decarie fu sostenuto del formulare le sue tesi dallo psicologo statunitense James Gibson, il quale

basandosi sui meccanismi di percezione (cioè il processo psichico che opera la sintesi dei dati

sensoriali in forme dotate di significato) e attenzione spaziale del neonato attribuì all’intelligenza tali

caratteristiche presenti fin dalla nascita.

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Pertanto da queste considerazioni è logico pensare che l’ intelligenza abbia radici legate a meccanismi

di percezione e attenzione innati, che rielaborano in dati utili e significativi ciò che del nostro ambiente

captiamo attraverso i sensi. Dunque possiamo affermare che la conoscenza di un determinato individuo

è conseguenza dell’ unione tra capacità innate e dati che percepiamo dall’ esterno. Tuttavia i termini su

come avviene questa unione sono ancora ignoti o potranno essere oggetto di scoperte che si

svilupperanno nell’ immediato futuro.

La mente e le caratteristiche dell’ uomo sono ancora al centro di molti studi in campo genetico,

psicologico e filosofico, pochi dei quali sono giunti a conclusione. L’ uomo rimane per l’ uomo stesso

un mistero ai giorni nostri. Tuttavia è certo ormai che alla formazione individuale concorrono sia fattori

innati che provenienti dall’ esterno, anche se non si conoscono i termini di questa unione.

Note bibliografiche

“Ambientalismo”: contrario di “innatismo”.

Platone: da “L’origine del pensiero” di Nicola Abbagnano ; Frammento Rep. III,41.

Ricerche sui gemelli omozigoti : da” Il gene egoista” di Stephen Dawkins.

“Epistemologia genetica” di J, Pigeat

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Su cosa di fonda la conoscenza: Innatismo ed empirismo

Di Alessandra Buonaiuto

Chi è migliore, un pianista che nasce con una predisposizione innata alla musica ma che si esercita

poco, o invece un altro che non ha una predisposizione naturale per la musica, ma che si esercita

moltissimo?

Ma soprattutto, su cosa si fonda la conoscenza?

Innatismo ed empirismo sono correnti di pensiero in netta contrapposizione fra loro, di cui ancora oggi

si dibatte moltissimo. Da una parte c’è Platone, che ha elaborato la teoria della reminiscenza, dando

vita ad una forma di innatismo, dall’altra Lock che l’ha confutata ritenendo che la conoscenza viene

acquisita dalla coscienza tramite sensazioni interne o esterne attraverso il mondo sensibile. Si vuole

dimostrare come entrambi le parti da sole si rivelino insufficienti.

A cavallo tra il Seicento e il Settecento nasce l’empirismo il cui fondatore è Jhon Locke.

Filosoficamente parlando, l’empirismo risulta caratterizzato dalla teoria della ragione come insieme dei

poteri limitati dall’esperienza, intesa come origine della conoscenza e come criterio di verità.

In paricolare Locke riteneva che non esiste principio a tal punto valido da sfuggire ad ogni controllo

dell’esperienza.

“ Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza

alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la

fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si

procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola:

dall’ESPERIENZA”.

L’empirismo nasce proprio in contrapposizione con l’innatismo platonico e la teoria della reminiscenza

di Platone. In particolare Locke nega l’esistenza di “ idee innate”. Tutto ciò che caratterizza l’uomo è

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solo frutto dell’esperienza attraverso il mondo sensibile. Infatti anche se si volesse ridurre l’innatismo

a poche idee universali che hanno un “ consenso universale” per il quale:

«i principi ammessi da tutto il genere umano come veri, sono innati; quei principi che ammettono gli

uomini di retta ragione sono proprio i principi ammessi dall’intero genere umano; noi, e coloro che

hanno la nostra stessa opinione, siamo uomini di retta ragione; dunque, poiché noi siamo d’accordo, i

nostri principi sono innati.»

In ogni caso non si riuscirebbe a trovare un principio universale condivisibile anche dai bambini e dagli

ignoranti. Affermando ad esempio che l’idea di Dio è comune a tutte le civiltà, e confrontando le

diverse caratterizzazioni di Dio si constaterebbe che in comune c’è solo il nome, in quanto la

caratterizzazione del Dio dipende solo dalle particolari esperienze delle civiltà stesse.

«Ma, ed è la cosa peggiore, questa argomentazione del consenso universale, che viene impiegata per

provare l'esistenza di princípi innati, mi sembra una dimostrazione che non c'è nessun principio al quale

tutta l'umanità dia il proprio universale consenso. È evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la

minima apprensione o il minimo pensiero di quei princípi. E la mancanza di ciò è sufficiente a

distruggere quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare tutte le verità innate.»

L’innatismo platonico nasce dalla teoria dell’anamnesi anche detta “ la teoria della reminiscenza”.

Secondo questa teoria la conoscenza non deriva dal primo contatto con il mondo sensibile bensì da idee

e modelli preesistenti, formulate in un un’altra zona d’essere chiamata poeticamente e metaforicamente

“iperuranio” ovvero “ al di là del cielo”.

Nell’iperuranio, un mondo perfetto e immutabile, tutte le idee come “ La bellezza ”, “L’intelligenza”,

si configurano con le “ cose ” del mondo sensibile, secondo un rapporto “modello-copia”.

Dunque se nel mondo sensibile si idealizzerà una “ bellezza perfetta” questa sarà soltanto il ricordo di

ciò che l’anima ha “ conosciuto”, prima della nascita, nell’iperuranio. Per spiegare meglio questo

concetto Platone nel Fedro elabora il mito della biga alata:

“La natura dell’anima, nella quale Platone distingue tre parti, una razionale, una irascibile o

impulsiva , una concupiscibile o desiderante si può esprimere con un mito. L’anima secondo Platone, è

simile a una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: uno dei cavalli ( quello bianco) è eccellente,

l’altro ( quello nero) è pessimo, sicché l’opera dell’auriga è difficile e penosa. L’auriga cerca di

indirizzare verso il cielo i cavalli, al seguito degli dei, verso quella regione sopraceleste (iperuranio)

che è la sede dell’essere autentico. In questa regione sta la “ vera sostanza”, priva di colore e di

forma, impalpabile, che può essere contemplata solo da quella guida dell’anima che è la ragione.

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Questa sostanza è la totalità delle idee ( giustizia in sé, temperanza in sé ecc.). Ma l’anima può

contemplarla solo per poco, poiché il cavallo nero ( simbolo dei desideri e degli impulsi corporei) la

tira verso il basso. Ogni anima, perciò, contempla la sostanza dell’essere di più o di meno. Tuttavia,

quando per oblio o per colpa, si appesantisce, perde le ali e si incarna, va a vivificare il corpo di un

uomo che sarà tale quale essa lo rende. Allora l’anima che ha visto di più vivificherà il corpo di un

uomo che si consacrerà al culto della sapienza o dell’amore, mentre le anime che hanno visto di meno

s’incarneranno in uomini che saranno via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza”.

Secondo Platone il ricordo avviene in forma intuitiva, stimolato dal contatto col mondo sensibile che

serve solo come spunto per avviare la reminiscenza. In particolare nel “Menone” spiega proprio come

Socrate riesca ad aiutare uno schiavo privo di cultura a comprendere il “ teorema di pitagora”.

L’innatismo sta proprio nel fatto che sebbene lo schiavo non avesse acquisito una forma di conoscenza

nel mondo sensibile, era riuscito a capire i processi logici di quel teorema poiché probabilmente quei

processi erano già in forma latente dentro di lui.

Per confutare le convinzioni dell’empirismo, Bertrand Russel ( 1872-1970) racconta la storia del

“tacchino induttivista ” :

“ Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva

dato il cibo alle nove del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle

sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei

giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno

il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza

induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “ Mi danno il cibo alle

nove del mattino.” Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di

Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato”

La domanda che pone Russel con questo divertente aneddoto è : “ l’induzione da sola può essere uno

strumento efficace per le leggi universali della natura ?”

In altre parole, se una persona ha visto solo cani neri, è mai possibile che tutti i cani siano neri?

Dall’altra parte c’è la critica al metodo della deduzione, prevalentemente innatista, che sembra

anch’esso insufficiente per garantire il processo della conoscenza. Ad esempio il classico sillogismo:

“Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale” è certamente un ragionamento

valido ma che, avendo una premessa implicita, diventa superfluo e si riduce a diventare un’ovvietà.

Tirando le somme da una parte il ragionamento empirista è “ prigionerio” dei dati empirici e quindi

non dà garanzie di validità universale, dall’altro il ragionamento innatista, muovendosi entro sé stesso

e non avendo alcun rapporto con la realtà, non sembra in grado di ampliare il nostro sapere sulle cose.

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In conclusione a mio parere la conoscenza, si fonda sulla “ collaborazione” tra ragione ed esperienza,

entrambe indispensabili ed entrambe insufficienti se utilizzate da sole.

Bibliografia:

1. Da N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia,

vol. 2A, ed. Paravia

2. J. Locke Op. cit., I, III, §20

3. J. Locke Op. cit., I, cap. I

4. N. Abbagnano, e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia,

vol. 1A, ed. Paravia

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L’INNATISMO PLATONICO.

Di Valeria Speranza

Un quesito che ha sempre crucciato l'uomo è quello di come si fa a sapere, a conoscere. I sofisti

sostenevano che non si può imparare perché o già una cosa la si conosce o non la si conosce: nel

secondo caso è impossibile trovare una cosa che non si sa cosa sia, come sia fatta. Socrate stesso aveva

detto che non si poteva insegnare, ma solo imparare tramite la maieutica, la tecnica con la quale faceva

“partorire” le anime. Questo tema Platone lo affronta soprattutto nel "Menone". Ancora una volta

Platone assume una posizione intermedia, servendosi in parte delle affermazioni dei sofisti: se è vero

quel che dicono i sofisti e in particolare uno dei loro più grandi esponenti, Gorgia, (cioè che non si può

imparare e quindi neanche insegnare), si può solo ricordare: una cosa che ci siamo dimenticati e ci

torna in mente, non possiamo dire di conoscerla ma neanche di non conoscerla. Dunque per Platone il

processo attraverso il quale si impara e si conosce è puramente di rammemorazione (in greco

“anamnesis”). L'unico modo di considerare il sapere come "ricordare" è quello di fare una ipotesi

piuttosto strana (ragionare per ipotesi significa vedere quale è la condizione che bisogna ammettere

perché si verifichi un determinato fatto): l'unica ipotesi per Platone valida è quella della preesistenza

dell'anima. Il “Fedone” è un dialogo giovanile di Platone, ed è un'opera che si può in qualche misura

affiancare al “Menone” perché Platone anche qui si sofferma a lungo sull'”anamnesis” , la

reminiscenza. Anche nel "Fedone" , dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua

morte , Socrate parla con due Pitagorici ( Fedone e Echecrate ) a riguardo della preesistenza dell'anima:

egli li porta a capire la questione servendosi di esempi. Infatti tira in ballo la scienza dell'uomo e quella

della lira, che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate afferma che agli innamorati, nel momento

in cui vedono una lira o un vestito che il loro amato è solito usare, succede quanto segue, ovvero

riconoscono la lira e nel pensiero colgono l'idea del ragazzo a cui appartiene la lira. La reminiscenza

consiste proprio in questo, riuscire a ricordarsi cose tramite vari "agganci", aspetti che stimolano il

ricordo. Nel "Menone" Socrate parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande

mirate e legate al teorema di Pitagora; chiaramente lo schiavo non lo conosce, ma Socrate ponendogli

solo domande specifiche lo porta alla soluzione. Questo è un tipico caso di maieutica. L'unica

spiegazione possibile è che lo schiavo si ricordi di un qualcosa che già conosceva, ma aveva

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dimenticato; dato che non l'ha conosciuto nell'attuale vita significa che l'ha conosciuto in un'altra

dimensione ( l'altopiano dell'iperuranio). Tale dimenticanza è legata al momento dell'incarnazione:

nella sua vita terrena l'uomo può avere momenti in cui ricorda. L'apprendimento è quindi interpretato

come il recupero di conoscenze acquisite dall'anima prima di incarnarsi in un corpo, ma dimenticate al

momento della nascita e rimaste latenti in essa. Si definisce giustamente Platone "INNATISTA",

perché sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni elementi di conoscenza. Lo

schiavo il teorema ce l'aveva già nella sua mente, si trattava solo di ricordarglielo. Quali sono dunque le

vie per ricordare? Un modo, come nel “Menone”, è avere qualcuno che ci aiuti (Socrate), un altro (più

impegnativo) è usare bene la propria esperienza (come nel caso di Pitagora , che per primo si ricordò

con la sua esperienza del teorema che gli viene attribuito: in realtà lui non l'ha inventato, se l’è solo

ricordato per primo).

“«Beh, è proprio possibile». «Quindi, in base a tutto questo, non consegue forse che c’è reminiscenza

in certi casi a partire da simili, in altri da dissimili?» «Ne consegue». «Ma, ecco, quando qualcuno si

rammenta di qualcosa a partire da simili, non è forse necessario che patisca appresso anche questo:

che rifletta se questo difetti di qualcosa in somiglianza con ciò di cui si è rammentato oppure no?» «Di

necessità», disse. «Esamina dunque», disse poi lui, «se queste cose stanno così. Diciamo qui che

l’eguale è? Parlo non di legno a legno né di pietra a pietra né di alcuno di tali enti, ma di altro rispetto

a tutti loro: dell’eguale in sé. Dobbiamo dire che è qualcosa o niente?» «Toh, a sorpresa dobbiamo

dire che è qualcosa sì, per Giove!», disse Simmia. «Conosciamo anche stabilmente che cosa esso è?»

«Assolutamente sì», disse poi lui. «Donde assumendo conoscenza stabile di esso? Non forse da ciò che

or ora dicevamo, vedendo legni o pietre o altri enti che sono eguali, a partire dai quali abbiamo

riflettuto su quel che è altro da loro? O ti pare non sia altro? Esamina dunque anche questo punto:

legni e pietre eguali talvolta non paiono forse eguali a uno e a un altro no, pur essendo gli stessi?»

«Assolutamente». «E dunque? Ti è talvolta parso che gli eguali in sé siano ineguali o che

l’eguaglianza sia ineguaglianza?» «Giammai, Socrate». «Allora non sono lo stesso», disse poi lui,

«questi enti: gli enti eguali e l’uguale in sé». «In nessun modo, mi pare, Socrate». «Peraltro, a partire

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da questi eguali», disse, «che pur sono altri da quell’eguale, hai insieme riflettuto e hai colto la

conoscenza stabile di esso» «Dici cose verissime», disse. «Che quindi è simile o dissimile da essi, no?»

«Assolutamente sì». «Ma non fa proprio nessuna differenza», disse poi lui, «fintantoché, veduto

qualcosa, a partire da questa visione rifletti su altro, sia poi simile o dissimile è lo stesso, è

necessario», disse, «che si generi reminiscenza». «Assolutamente». «E dunque?», disse poi lui,

«patiamo forse qualcosa di tale e quale rispetto agli eguali nei legni e in ciò di cui or ora parlavamo?

Ci pare forse siano eguali così come lo è l’eguale in sé o sono indigenti in qualcosa di esso, nell’essere

tali e quali all’eguale? O non sono indigenti in nulla?» «Eh sì, sono piuttosto indigenti», disse.

«Quindi non concordiamo forse? Quando qualcuno che vede qualcosa riflette così: “Questo che ora io

guardo vuole essere quale un altro degli enti, però è indigente e non può essere tale e quale a quello

ma è inferiore”, è necessario forse che a chi riflette su questo sia accaduto di aver visto primo quello a

cui dice che esso rassomiglia pur avendo indigenza rispetto a quello?» «È così». «Ma anche su questo

concordiamo: non viene da altro questo stesso riflettere né è possibile che ci sia questo riflettere se

non dal vedere o dal toccare o da qualche altra tra le sensazioni; dico dunque che tutte loro son lo

stesso» «Sono lo stesso, Socrate, relativamente a ciò che vuol chiarire l’argomento». «Ma, or dunque,

a partire dalle sensazioni si deve riflettere sul fatto che tutto ciò che è nelle sensazioni si dirige verso

quello che è l’eguale, anche se sono indigenti rispetto ad esso; oppure come possiamo argomentare?»

«Così». «Allora, prima che iniziassimo a vedere e ad udire e ad avere le altre sensazioni bisogna che

ci fosse accaduto di già di cogliere la conoscenza stabile di ciò che è l’eguale in sé, se in futuro vi

avremmo riferito gli eguali derivati dalle sensazioni, perché tutte aspirano ad essere tali e quali a

quello, benché gli siano inferiori». «Segue di necessità da ciò che si è detto prima, Socrate». «Ebbene,

appena nati, forse non vedevamo e udivamo e avevamo le altre sensazioni?» «Assolutamente sì».

«Bisognava dunque, diciamo, che già prima di esse avessimo colto la conoscenza stabile dell’eguale,

sì?» «Sì». «Prima di nascere allora, come si vede, è necessario che noi l’avessimo colta». «Si vede di

sì».

(Fedone, 74a- 75c).

Tesi:

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Come già ampiamente spiegato nell’introduzione, Platone sostiene che la conoscenza è data dalla

reminiscenza. Quindi, per Platone, i nostri comportamenti sono dettati dall’innatismo, nel senso che

l’uomo (intendendo per «uomo» l’essere umano maschile, perché l’incarnazione in una donna è

considerata una punizione dell’anima; cfr. “Timeo” 42 b) dispone già di tutti i concetti prima

dell’esperienza terrena. «Poiché l’anima – si legge nel “Menone” (81 c) – è immortale ed è nata molte

volte e ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente che essa non abbia appreso: sicché non

fa meraviglia che possa ricordare, sia intorno alla virtù, sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva».

Le idee, quindi, non derivano dall’esperienza, ma costituiscono l’oggetto di una pura “visione della

mente”. L’esperienza sensibile è invece una “visione del corpo”, che delle idee offre una “copia”

imperfetta e sbiadita, fungendo solo da occasione e da stimolo perché l’uomo possa ricordare, ovvero

attingere nell’interiorità della propria anima i “paradigmi” delle cose, vale a dire le loro forme

immateriali. Un esempio pratico è che quando guardiamo con “gli occhi del corpo” osserviamo degli

altri uomini, ad esempio, il loro aspetto fisico, la loro pluralità e mutevolezza; quando invece

osserviamo con “gli occhi della mente”, cogliamo il loro essere tutti uomini in quanto tali, la loro

comune essenza unica. Ecco perché la verità, per Platone, non è attestata dai sensi, ma consiste nella

visione dell’essere intelligibile e incorporeo, che si coglie solo con la ragione (lògos) e nella misura in

cui essa è capace di liberarsi dai sensi:

“-[…]E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la

verità?-Sì.

-E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di tali

sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa

dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso,

intende[leggi:tende] con ogni suo sforzo alla verità. -E’ cos.

-[…] orbene, di codeste cose[le idee] ne hai tu veduta mai alcuna con gli occhi?- Affatto, rispose.

– E con altro senso del corpo sei riuscito mai a percepirle? Bada, io intendo dire di tutte le cose, per

esempio, della grandezza, della sanità, della forza e, in una parola, di tutte quante nella loro realtà

ultima, cioè, che cosa sia realmente ciascuna di esse; e domando: si scopre in esse coi sensi del corpo

la verità assoluta, o invece è così, che solo chi di noi più intensamente e più acutamente si appresti a

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penetrare col pensiero ogni oggetto di cui faccia ricerca nella sua intima realtà, solo costui andrà più

vicino di ogni altro alla conoscenza di codesto oggetto? – Precisamente.

– Potrà dunque far questo con purità perfetta chi massimamente si adopri di avvicinarsi a ciascun

oggetto col suo solo pensiero, senza né aiutarsi, nel suo meditare, della vista, né trarsi dietro alcun

altro senso insieme col suo raziocinio; bensì cerchi, valendosi esclusivamente del suo pensiero in se

stesso, mondo da ogni impurità, di rintracciare esclusivamente in se stesso, mondo da ogni impurità,

ogni oggetto, astraendo, per quanto può, e da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo, come

quello che perturba l’anima e non le permette di acquistare verità e intelligenza quando abbia

comunanza con esso.” (Fedone, 65c-66a).

Antitesi:

La tesi platonica riguardo l’innatismo, però, è da alcuni considerata errata; primo fra tutti da Aristotele.

Infatti la concezione secondo la quale la conoscenza deriva e non può prescindere dall’esperienza

sensibile trova la sua prima formulazione filosofica nell’empirismo di Aristotele, il quale ritiene che,

prima dell’esperienza, la nostra mente sia “tabula rasa”. Le idee, quindi, non sono innate e non

esistono separatamente dalle cose, ma sono prodotte dall’intelletto a partire dai dati empirici e mediante

un procedimento di astrazione. Per Aristotele, in realtà, sono innate solo le facoltà conoscitive, come ad

esempio la vista. La vista, infatti, è una capacità innata del nostro corpo: oggetti visibili (in potenza)

diventano visti (in atto, cioè effettivamente presenti al nostro organo di senso) solo in presenza di

determinate condizioni di luce, quindi il fatto che “possiamo vederli” non significa che preesistono

nella nostra mente. Solo, quindi, tramite le facoltà conoscitive e l’intelligenza( l’”intelletto”),cioè la

capacità di conoscere le pure forme intellegibili delle cose, le quali “possono” essere pensate, ma non

sono ancora effettivamente presenti nella nostra mente, possiamo sapere e conoscere, e non più

limitarci a “riconoscere”.

“Quella parte dell’anima che chiamiamo intelletto (e dico intelletto ciò per cui l’anima pensa e

concepisce) non è in atto nessuna delle cose prima di pensarle. […] Hanno ragione quindi quelli [cioè

Platone e i platonici] che sostengono che l’anima è il luogo delle forme, solo che […] non si tratta di

forme in atto, ma in potenza […: in qualche modo, infatti, l’intelletto è in potenza gli intellegibili, ma

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in atto nessuno prima di pensarli. Deve essere di esso come di una tavoletta in cui non c’è scritto

niente attualmente […]. (Sull’anima, III, 429a 25, 429b 30).

Smentita dell’antitesi:

Per smentire l’antitesi, è utile riproporre un passo del “Fedone”:

“-[…] Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri sensi,

bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa

realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, riportarli a quello, e

pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di

sotto.

-Da quello che s’è detto, o Socrate, bisogna concludere così.” (Fedone, 75b).

Platone, quindi, evidenzia i limiti della concezione empiristica della conoscenza sulla base di

un’efficace argomentazione: gli empiristi sostengono che la nozione generale di “uguaglianza” si

costruisce per via induttiva o astrattiva a partire dall’osservazione di più oggetti che i nostri sensi

percepiscono come uguali; in realtà, obietta Platone, in natura non esistono due cose perfettamente

uguali, né l’uguaglianza una “cosa” che percepiamo; pertanto l’” uguale in sé”, ovvero l’idea

dell’uguaglianza quale criterio di valutazione, deve essere innata, cioè anteriore all’esperienza. Rispetto

al percorso del processo conoscitivo tracciato dagli empiristi, quello delineato da Platone segue dunque

la direzione opposta: solo dal momento che possediamo, prima di ogni esperienza possibile, la nozione

di “uguaglianza”, possiamo giudicare le cose come uguali.

BIBLIOGRAFIA:

-Platone: “Il Menone” a cura di Francesco Adorno- Laterza.

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-Platone: "Il Fedone" a cura di Gaetano Capone Braga - La Nuova Italia.

-Platone: “Timeo” a cura di Michele Sciacca- Mondadori.

-Aristotele: “Sull’anima” a cura di Giancarlo Movia- Bompiani.

-Nicola Abbagnano/ Giovanni Fornero :"Protagonisti e testi della filosofia" vol. 1° - Paravia.

-Enciclopedia Treccani.

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Come condizionano la conoscenza le idee innate?

Di Sara La Torraca

Già Socrate riteneva che la filosofia fosse una continua ricerca della verità (alétheia) e che, per

raggiungere quest’ultima, l’uomo aveva bisogno della virtù (areté, secondo i Greci la maniera ottimale

di essere uomini), intesa come scienza; dunque, secondo Socrate, la virtù era conoscenza, una forma di

sapere, il fine ultimo della vita dell’uomo. Solo dopo aver ottenuto faticosamente tale scienza si poteva

accedere infine alla verità. Successivamente anche il suo allievo Platone concepirà un’idea di filosofia

come «ricerca inesauribile e mai conclusa, ossia un infinito sforzo verso una verità che l’uomo non

possiede mai totalmente»15

.

Ma quale sarà per quest’ultimo l’oggetto della conoscenza che porterà poi alla verità assoluta?

Platone infatti si dedicherà ad approfondire il concetto di scienza (epistéme, sophía) chiedendosi quale

sia l’oggetto proprio di quest’ultima: «qual è la realtà fotografata dal sapere?»16

. È proprio a partire da

questa domanda che egli inizia a sviluppare la teoria che segnerà il definitivo distacco dalla dottrina

socratica, la cosiddetta teoria delle idee.

Le idee, secondo il filosofo, rappresentano «entità immutabili e perfette»17

e si trovano in una zona

d’essere chiamata iperuranio, che significa “al di là del cielo”. Invece le cose, presenti nel nostro

mondo, non sono altro che copie delle idee originali, quindi semplici imitazioni imperfette. «L’idea

platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo»18

.

Dunque le cose rappresentano la conoscenza sensibile, l’opinione (dóxa), dato che sono mutevoli e

imperfette, al contrario le idee costituiscono la conoscenza razionale, essendo immutabili e perfette. Si

vanno a creare dunque due gradi di conoscenza, l’opinione e la scienza (dualismo gnoseologico), e due

tipi d’essere, le cose e le idee (dualismo ontologico); si può dire in conclusione che la filosofia

platonica può essere considerata come un tentativo di sintesi fra l’eraclitismo e l’eleatismo. «Da

Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno della mutevolezza, mentre da

Parmenide trae il concetto secondo cui l’essere è autentico ed immutabile»19

, l’idea platonica infatti

rispecchia in pieno i caratteri dell’essere parmenideo.

Dopo aver compreso il concetto di idea, dobbiamo adesso soffermarci sulle tipologie secondo cui

Platone le ha classificate, le categorie fondamentali sono:

- idee-valori, che corrispondono ai supremi principi etici, estetici e politici. Per esempio il Bene,

la Bellezza, la Giustizia ecc..

- idee-matematiche, corrispondenti alle entità dell’aritmetica e della geometria, poiché, per

esempio, nella realtà non possiamo ritrovare il quadrato perfetto.

- idee di cose naturali (es. l’umanità), idee di cose artificiali (es. il letto).

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Assaggi di Filosofia Platone

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Le idee, inoltre, sono caratterizzate da una gerarchia piramidale al cui vertice vi è l’idea del Bene,

seguita dalle idee-valori. Il Bene infatti è il supremo valore e la perfezione massima di cui le idee sono

partecipi.

Come si è già detto a proposito del dualismo ontologico, fra le idee e le cose vi è un legame: l’idea può

essere considerata infatti come “modello” delle cose presenti nella realtà e verranno in seguito definite

da Platone “essenze archetipe” delle cose. Il termine “archetipo” deriva dal greco archétypon, cioè

“primo tipo” e designa ciò che per Platone era il “paradigma”, «ossia l’idea in quanto modello

primordiale delle cose»20

. In ultima analisi le cose imitano le idee (mimesi), le cose partecipano

dell’essenza delle idee (metessi), le idee sono presenti nelle cose (parusia); tuttavia per il filosofo la

questione del rapporto idee-cose ha sempre costituito un problema almeno fino alla sua vecchiaia. Solo

quando il filosofo introdurrà una terza figura, quella del Demiurgo, si riuscirà a delineare, pur sempre

in maniera incerta, il rapporto idee-cose. Il Demiurgo (dal gr. demiourgós, “artefice”, “artigiano”) non

è altro che una sorta di divino artefice, che plasma il mondo a somiglianza delle idee.

Come si è detto precedentemente il compito del filosofo, secondo Platone, è quello di ricercare la verità

e quindi di aspirare al raggiungimento della stessa; per fare ciò, però, è necessario innanzi tutto

distaccarsi il più possibile dal mondo sensibile (costituito dalle cose e dunque mera opinione) per

giungere gradualmente al grado massimo della conoscenza (le idee e cioè la perfezione che non si

conquisterà mai pienamente).

Ma in che modo si possono conoscere le idee? In che modo l’uomo può accedere ad esse?

Proprio per risolvere questo problema il filosofo ricorre alla dottrina-mito dell’anamnesi o

reminescenza (più semplicemente “ricordo”): l’anima prima di incarnarsi nel nostro corpo, sarebbe

vissuta nel mondo delle idee, dove avrebbe potuto contemplare e assimilare gli esemplari perfetti delle

cose. Quando l’anima entra in contatto con il nostro mondo, conserva dentro di sé solo un ricordo di

quello che ha veduto nell’iperuranio, come dice Platone «conoscere è ricordare». Bisogna pertanto

«scoprire una realtà che si possedeva già», poiché «la teoria della reminescenza [...] è una teoria

stimolante; è per questa che “noi dobbiamo essere coraggiosi e dobbiamo sforzarci di ritrovare la

memoria di ciò di cui abbiamo perso il ricordo” [...] La reminescenza è il primo segno di autonomia

dello spirito nella ricerca»21

. L’uomo possiede un ricordo della verità, non possiede una verità

completa, né si trova in una situazione di ignoranza totale, ma parte da una condizione di “pre-

conoscenza”, un’ «ignoranza gravida di sapere»22

, da cui bisogna ricavare la vera conoscenza. Alla

reminescenza delle idee si collega molto strettamente,nelMenone, la possibilità di possedere delle

opinioni giuste senza essere capaci di giustificarle, sarebbe a dire, senza avere la scienza23

. La

gnoseologia platonica può essere considerata una forma di innatismo, in quanto la conoscenza non

deriva dall’esperienza sensibile (empirismo), ma da quella razionale (razionalismo), ma di questo

parleremo in seguito.

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Inoltre la teoria della reminescenza implica l’affermazione dell’immortalità dell’anima (che diviene

così una condizione della scienza), di cui Platone aveva già parlato nei precedenti dialoghi, ma solo

successivamente, nel Fedro, il filosofo parlerà del modo in cui «l’anima ha acquisito, prima di entrare

nel corpo, la conoscenza delle realtà di cui ritroverà il ricordo durante la vita terrestre»24

.

Per ritornare all’argomento principale, la conoscenza, bisogna prima chiarire il pensiero platonico

riguardante l’educazione. Innanzi tutto secondo Platone l’educazione al sapere e alla virtù consiste

nell’educazione alla filosofia, ma solo pochi individui, forse predestinati, possono accedere a tale

sapere.

Platone infatti divide la società in tre classi: quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella dei

lavoratori; ad ognuna di queste corrisponde una virtù: la saggezza per la prima, il coraggio per la

seconda e la temperanza per la terza. Ma l’educazione alla filosofia non riguarda tutti questi individui,

ma solo quelli delle prime due classi, infatti «il sapere è una prerogativa delle classi superiori»25

. La

figura del filosofo ha il compito di educare non solo le prime due classi, ma anche sé stesso, egli è

«colui che ama la conoscenza nella sua totalità»26

e solo tramite la ricerca può scalare i gradini della

conoscenza e cercare di raggiungere la somma verità.

Ma allora quali sono i gradi della conoscenza?

Vi sono quattro gradi della conoscenza, a cui corrispondono quattro gradi della realtà.

La conoscenza sensibile (dóxa, opinione), racchiude in se il nostro mondo mutevole e imperfetto e

comprende a sua volta:

- la congettura: ombre o immagini delle cose.

- la credenza: cose sensibili e percepibili chiaramente.

La conoscenza razionale (epistéme, scienza), racchiude in se il mondo immutabile e perfetto delle idee

e comprende a sua volta:

- la ragione matematica: idee matematiche (conoscenza dianoetica)

- l’intelligenza filosofica: idee-valori (conoscenza noetica)

Platone espose la sua teoria della conoscenza e dell’educazione attraverso uno dei suoi miti più famosi:

il Mito della Caverna (cfr. Repubblica, VII, 514-518). Tale mito narra di alcuni schiavi incatenati in

una caverna, costretti a guardare solo davanti a sé. Alle loro spalle vi è un muro dietro al quale degli

uomini muovono delle statuette, le cui ombre vengono proiettate sul fondo della caverna grazie

all’ausilio di un fuoco. I prigionieri vivono nell’illusione, poiché scambiano tali ombre per la realtà.

Solo uno di essi riuscirà a liberarsi e a capire che la vera realtà è costituita dalle statuette. Tuttavia, una

volta uscito dalla caverna, egli scopre che la realtà non è costituita dalle statuette, poiché sono

anch’esse imitazioni di cose reali. L’uomo, mentre è all’esterno della caverna, cercherà dapprima di

guardare gli oggetti attraverso il loro riflesso in uno specchio d’acqua (poiché la luce del sole lo

abbaglierebbe), in seguito riuscirà ad osservare direttamente le cose e solo il giorno dopo sarà in grado

di scrutare direttamente il sole. Egli, però, vuole rendere anche i suoi compagni partecipi della

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straordinaria scoperta, ma una volta tornato nella caverna, non essendo più abituato all’oscurità e non

essendo più in grado di distinguere le ombre, viene deriso. Infine l’uomo tenta di convincere gli altri

schiavi ad uscire dalla caverna e questi ultimi, infastiditi, lo uccidono.

Questo mito è ricco di simbologia e in esso è racchiuso il concetto del dualismo gnoseologico e

ontologico di cui si parla nella teoria delle idee. La caverna oscura = il nostro mondo, le ombre delle

statuette = la congettura, le statuette = la credenza, la liberazione dello schiavo = l’azione della

conoscenza e della filosofia, il mondo esterno = le idee, il riflesso nell’acqua = le idee matematiche, il

sole = l’idea del Bene, lo schiavo che ritorna nella caverna = il compito del filosofo di educare gli altri,

l’uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate, prima deriso dalla società troppo vincolata ai

pregiudizi.

Adesso, una volta chiarito il concetto di conoscenza secondo la filosofia platonica, bisogna ritornare a

quello di innatismo, poiché tutto ciò che l’uomo “riconosce” nel mondo sensibile è dovuto a tale stato,

a tale condizione anteriore all’esperienza. Nella concezione platonica le idee sono una “visione della

mente”, contrariamente le cose sensibili sono una “visione del corpo”, fungono da stimolo affinché

l’uomo possa ricordare le idee archetipe delle cose. Per esempio quando noi vediamo un cane, di

qualsiasi razza esso sia, tramite una “visione del corpo” noi ci ricordiamo del suo archetipo, cioè del

suo “vero essere”, che appartiene all’insieme dei “cani”. La verità per Platone non è data dai sensi,

pertanto «consiste nella visione dell’essere intellegibile e incorporeo, che si coglie solo con la ragione

(lógos)»27

.

In opposizione a questa dottrina filosofica abbiamo la corrente di pensiero empirica. Uno dei primi

empiristi è stato il filosofo greco Aristotele (Stagira, Macedonia, 384 – Calcide, Eubea, 322 a.C).

Secondo la sua concezione solo le nostre facoltà conoscitive sono innate. Prima dell’esperienza

l’individuo è tabula rasa, per esempio ha la facoltà di vedere oggetti visibili (potenza), ma tali oggetti

diventano visti (atto) solo grazie al dato sensibile: essi non preesistono nella nostra anima. Un archetipo

di una cosa non è già presente dentro di noi al momento della nascita, ma si acquisisce con

l’esperienza, vale a dire con un processo induttivo. Aristotele non reputa le idee enti “trascendenti” o

“separati”, in quanto «forme indissolubilmente legate alla materia, esse sono piuttosto immanenti alle

cose e contenute “in potenza” nelle sensazioni»28

, esse sono separabili dall’intelletto che le ricava dai

dati empirici. Il filosofo definisce questo processo come “immaginazione”, l’individuo evoca

l’immagine (phantasma) delle cose percepite sensibilmente, per poi eliminare le caratteristiche della

cosa che non ritiene “essenziali” (riprendendo l’esempio del cane, il colore del pelo, la grandezza, etc.),

per poi arrivare ad un’unica forma intellegibile.

Un altro famoso empirista dell’antichità è Epicuro (Samo, 341 – 270 a.c), egli essendo un filosofo

materialista, riprende in parte la dottrina di Democrito: crede che la realtà sia formata da atomi in

movimento e questi ultimi, combinandosi fra loro, formano le cose del mondo. La sua convinzione

infatti è che la realtà è solo materia e non necessita di alcun intervento divino. A differenza di Platone,

per Epicuro la stessa anima è materiale e immortale, poiché costituita da atomi sottili: «se l’anima fosse

incorporea non potrebbe essere né attiva né passiva, ciò che contrasta con l’esperienza; infine

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l’anima, pur essendo dotata di ragione e di libertà, non può superare l’ambito empirico»29

. Ma anche

epicuro si è espresso riguardo alla questione della “ricerca della verità”: «La logica epicurea riconosce

tre mezzi per arrivare non tanto alla verità, quanto alla saggezza: le sensazioni, l’anticipazione e i

sentimenti; fondamentale è la sensibilità, con cui si può arrivare all’evidenza; gli éidola o immagini

(materiali) si staccano dalle cose e sono causa delle sensazioni»30

.

Tuttavia il conflitto tra innatismo ed empirismo ha caratterizzato il pensiero di molti filosofi dei secoli a

venire.

Tra gli esponenti dell’innatismo successivi a Platone abbiamo il filosofo pagano Plotino (Licopoli,

203/205 – Minturno, 270 d.C) e il cristiano Sant’Agostino (Tagaste, 354 – Ippona, 430), i quali

ripresero le sue teorie senza modificarle ulteriormente. Nel diciassettesimo secolo ricordiamo Gottfried

Wilhelm von Leibniz (1646-1716) che , nei NouveauxEssaissur l’Entendementhumain, corresse

l’empirista Locke, aggiungendo alla massima «nihil est in intellectuquodprius non fuerit in sensu»31

(«Nulla è nell’intelletto che non fu già nei sensi») «excipe: nisiintellectus ipse» («fatta eccezione per

l’intelletto stesso»).32

Ciò sta a significare che non vi è nulla nella mente prima della nascita, e quindi

dell’esperienza sensibile, se non la mente stessa, con le sue strutture e categorie, che includono vari

concetti molto generali, formali, quali spazio, tempo, oggetto, ecc. Leibniz affermò che nella mente

sono presenti tutte le idee, sia intelligibili che sensibili (“innatismo totale”), ma non tutte in modo

cosciente, chiaro e distinto (“innatismo virtuale”). Come in un blocco di marmo, nel quale delle

venature già predispongono il disegno della futura statua che sarà scolpita, così le idee presenti nella

mente fin dalla nascita, a contatto con il mondo esterno, vengono portate alla coscienza del soggetto.

Infine al giorno d’oggi il linguista e filosofo Noam Chomsky (Filadelfia, 1928), grazie ad alcune analisi

linguistiche ha teorizzato la probabile esistenza di strutture grammaticali innate, presenti nel cervello

già alla nascita (e.g. nell’area di Broca), grazie alle quali i bambini acquisiscono una (o più) lingue con

maggiore rapidità di quanto sarebbe possibile senza queste strutture innate.

Invece fra gli avversari dell’innatismo abbiamo il già citato John Locke (Wrington, 1632 – Oates,

1704), il quale, nel suo Saggio sull’intelletto umano si è schierato a favore della polemica anti

innatistica e contro le idee innate del filosofo francese razionalista Cartesio (La Haye, 1596 –

Stoccolma 1650), esponendo tali tesi: «l’intelletto umano prima dell’esperienza è una tabula rasa,

anche se questo non significa che esso non sia dotato di attitudini particolari e di specifiche

potenzialità; tutte le conoscenze umane derivano dall’esperienza, esterna (sensazione) e interna

(riflessione)»33

. In seguito la posizione di Locke sarà radicalizzata da David Hume, filosofo scozzese

(Edimburgo 1711-1776) che porterà l’empirismo alle sue estreme conseguenze.

La soluzione all’annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà in modo definitivo

Immanuel Kant, filosofo tedesco del diciottesimo secolo: la materia della conoscenza deriva

dall’esperienza, ma la forma della conoscenza è a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l’istanza

innatistica, pur depurandola. Dunque dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi

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deriviamo invece i contenuti. Si ha così una “sintesi a priori”, espressione che per Kant designa

l’attività dell’intelletto, il quale sulla base delle sue leggi (categorie), unifica il molteplice fornito

dall’esperienza entro le forme pure della sensibilità (funzioni conoscitive dello spazio e tempo).

In conclusione si può dire che per Platone la conoscenza consiste nelle idee, per gli empiristi la

conoscenza sta nei dati sensibili, o più semplicemente nelle cose. Allora, come porre fine a questo

immenso conflitto? Nell’interpretazione kantiana le idee non sono altro che strutture mentali attraverso

le quali il nostro intelletto è in grado di riorganizzare e di interpretare i dati forniteci dalla conoscenza

sensibile, dunque i due concetti potrebbero essere legati fra di loro. L’esperienza da sola non basta,

poiché senza l’innatismo, che avvicina l’uomo alla conoscenza, non servirebbe a nulla; viceversa, se

l’individuo non è stimolato dalle esperienze, a cosa servirebbe allora questa potenzialità innata che

porta al sapere? Pertanto queste due correnti di pensiero si dovrebbero conciliare definitivamente,

essendo entrambe indispensabili per delineare aspetti distinti della gnoseologia.

BIBLIOGRAFIA

ABBAGNANO, N. – FORNERO, G., La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol.

1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014.

BRÉHIER, ÉMILE, Histoire de la philosophie, Paris, 2004.

Dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti, le opere, Milano, BUR, 1985.

NOTE

1ABBAGNANO, N. – FORNERO, G., La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,

vol.1°, Dalle origini ad Aristotele, Milano – Torino, 2014; p. 191. 1 IVI, p. 205.

1 IVI.

1IVI.

1IVI, p. 206.

1IVI, p. 218.

1BRÉHIER, ÉMILE, Histoire de la philosophie, Paris, 2004; p. 106.

1ABBAGNANO, p. 210.

1BRÉHIER, p. 106.

1IVI.

1ABBAGNANO, p. 228.

1IVI.

1ABBAGNANO, p. 410.

1ABBAGNANO, p. 411.

1Dizionario di filosofia. Gli autori, le correnti, i concetti, le opere, Milano, BUR, 1985; p. 138.

1IVI, p. 139.

1 J. LOCKE, An Essay concerning Human Understanding, lib. II, cap. 1, § 5.

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1 G. W. VON LEIBNIZ, Nouveaux Essaissurl’Entendementhumain, lib. II, cap. 1, § 6.

1Dizionario…, p. 262.

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Platone e la seconda navigazione

diDaniil D’Alessio

Platone, di origine aristocratica, fu allievo di Socrate; inizialmente si dedicò alla vita politica, che

decise poi di abbandonare a causa di diversi avvenimenti, tra cui la condanna a morte di Socrate.

Come il proprio maestro, Platone sostiene che la scrittura debba avere solo funzione ipomnematica,

ovvero di far ricordare delle nozioni o un dialogo già avvenuto e poi trascritto. La scrittura è infatti

condannata, perché non è una "ricetta" per la memoria, ma serve solo per richiamare alla mente, non dà

la vera sapienza, ma solo la presunzione di sapere, inoltre ha sempre bisogno di un padre per spiegare

ciò che è scritto, se si pone una domanda lo scritto manifesta sempre la stessa risposta ed infine può

giungere nella mani di chiunque. L'oralità, invece, è l' unico mezzo per raggiungere la verità, che viene

estrapolata attraverso i dialoghi: i dialoghi trascritti sono ideali e costituiscono l' unico mezzo per

descrivere al pubblico il senso della filosofia.

Nonostante la filosofia sia nata con l' avvento del razionale ed il rifiuto del mito, Platone fa uso del

mito anche per meglio spiegare concetti incomprensibili alle persone, per poter parlare di realtà che

superano la dimensione razionale e che non possono essere spiegate oggettivamente.

Il motivo più importante per cui Platone viene ricordato è l' introduzione della metafisica, il termine,

coniato successivamente da Andronico da Rodi, deriva dal greco metà tàfusicà e significa "oltre le cose

sensibili", coglibili con i sensi; altri sinonimi della parola sono ultrasensibile, ultraterreno, soprafisico,

soprasensibile ed intelligibile. Si ebbero numerosi vantaggi grazie all' introduzione della metafisica e

tutti i filosofi posteriori a Platone si confrontarono con lui, chiedendosi se esistesse veramente la realtà

soprasensibile. Platone opera un paragone: come in passato i marinai avevano usato soltanto le vele ed

il vento per navigare, così i filosofi a lui antecedenti avevano considerato solo il mondo sensibile, non

potendo, così, andare troppo lontano. Con la metafisica, invece, egli aveva intraprende la seconda

navigazione, quella più sicura, che gli avrebbe permesso di fare maggiori scoperte e di andare più

lontano, esattamente come i marinai che usufruivano oltre che del vento, anche dei remi.

Il soprasensibile nella filosofia platonica può essere innanzitutto individuato nella causa del mondo

sensibile. Platone, infatti, sostiene che il principio del mondo, l'archè, debba essere trascendente e non

immanente al mondo stesso, non deve cioè fare parte del mondo sensibile. Il mondo in cui viviamo è

mutevole e sensibile, quindi la causa di esso ha caratteristiche opposte, è immutabile e non percepibile

con i sensi, ma unicamente per mezzo della conoscenza. Il mondo sensibile è una riproduzione del

mondo ideale compiuta da Demiurgo, una figura mitica, il quale vuole mettervi ordine imprimendovi la

forma del mondo ideale. Ma la copia è mal riuscita, poiché, come già affermato, ha caratteristiche

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opposte al mondo ultrasensibile. Il mondo ideale è quindi la causa di quello sensibile ed i rapporti che

intercorrono sono mimesi34

, metessi35

e parusia36

.

Il mondo soprasensibile, il quale è perfetto, intelligibile e immutabile, è composto da idee; il termine

non ha il valore odierno, che acquisì solo nel 1630 con Cartesio; non indica un concetto, ma deriva dal

termine greco eidos, che significa forma, modello, paradigma e causa del mondo sensibile. Le idee

sono presenti nell' iperuranio, "luogo non fisico", "al di là del cielo", sono in sé e per sé, ovvero sono

assolute, cioè oggettive, non relative a nulla e non soggette ad alcun cambiamento. Le idee sono inoltre

invisibili, non possono essere colte dai sensi ma dal solo ragionamento, e molteplici, ovvero vi è un'

idea per ogni cosa. Nonostante nella realtà vi sia una struttura gerarchica in cui al primo posto si

colloca l'idea di Bene ed i valori, al secondo le idee matematiche e al terzo le cose sensibili, non esiste

una differenza qualitativa tra le idee, altrimenti ciò implicherebbe che queste non siano assolute. Le

idee sono ingenerate, contemporanee e derivano dall' idea di Bene, o Uno, che rende conoscibili le

altre, perché le determina. L' idea Uno, inoltre, agisce sull'idea Diade, che è naturalmente a sua volta

illimitata ed indeterminata, tendendo all' infinita grandezza e insieme all’infinita piccolezza: l' Uno le

dà ordine e la determina e il risultato di questo processo sono le idee, ciascuna delle quali, quindi,

contiene sia l' Uno che la Diade, in quanto principi originari.

Ne deriva un dualismo ontologico: esistono due tipi di essere, quello sensibile, il mondo in cui viviamo,

e quello ultrasensibile, il mondo delle idee. Grazie all' introduzione della realtà metafisica, Platone, pur

non definendo il divenire, propone un nuovo modo di conciliare il pensiero eracliteo, secondo cui tutto

muta incessantemente con quello parmenideo, che negava tassativamente il divenire37

. A differenza dei

pluralisti che rimangono nella sfera del sensibile, Platone si sposta su due realtà completamente

opposte: i pluralisti, infatti, sostengono che, partendo da elementi fissi, si possano formare oggetti

diversi, mantenendo, così, la presenza del divenire, senza però implicare il passaggio dall' essere al

non- essere e viceversa, ma l' unione e la separazione di più elementi. Per Platone, invece, all'essere

sensibile corrisponde l'essere concepito da Eraclito, continuamente soggetto a mutamenti e percepibile

attraverso i sensi; all'essere intelligibile corrisponde quello parmenideo, che è ingenerato, incorruttibile,

eterno, immobile, finito, necessario e uno, proprio come le idee.

Poiché esistono due realtà, esistono anche due forme di conoscenza: quella sensibile e quella

soprasensibile. Della conoscenza sensibile o opinione fanno parte l' immaginazione o eikasia, prima

forma di conoscenza che permette di cogliere l'ombra delle cose sensibili e la credenza o pistis, che ne

consente l’elaborazione. Della scienza, la conoscenza del mondo ideale, fanno parte la conoscenza

matematica o dianoia e la conoscenza scientifica o noesis. La conoscenza dianoetica è la via di mezzo

tra la conoscenza sensibile e quella ideale, senza la quale non si può giungere a conoscere il mondo

ultrasensibile; essa ha caratteristiche sia sensibili, poiché può essere rappresentata e quindi è

percepibile con i sensi, sia caratteristiche ideali, perché è immutabile. La noesis consiste nell'

intellezione delle idee: è, cioè, la capacità di cogliere le idee e il mondo soprasensibile con il puro

34 .

35.

36.

37.

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intelletto. Il processo conoscitivo da compiere è quello ascensivo, ovvero si parte dall' opinione per

arrivare alla scienza, perché solo ripercorrendo la via da basso all' alto, si può conoscere meglio il

mondo ideale. Come per Parmenide, esistono la via dell' assoluta verità, raggiunta con la ragione,

quella della verosomiglianza e quella della falsità attestata dai sensi; per Platone vi sono, quindi,

la doxa, conoscenza opinabile, soggettiva, soggetta a mutamento perché appunto percepita dai sensi, e

l' episteme, conoscenza oggettiva, certa e assoluta, perché raggiunta con la conoscenza ed il

ragionamento.

Quando una persona osserva un oggetto, ne coglie un'idea, la quale ne ha una corrispondente nell'

iperuranio; la vera conoscenza non è quella sensibile, ma quella acquisita quando si coglie la causa dell'

idea, percepita guardando l' oggetto. Ad esempio, osservando un fiore, si sollecitano i sensi e si può

cogliere l' idea di bellezza; solo quando l' anima si ricorda di aver contemplato l' idea di bellezza nell'

iperuranio, si acquisisce la vera conoscenza, poiché si ricorda il mondo delle idee; il fiore, dunque,

partecipa ed incarna l' idea di bellezza presente nell' iperuranio. Il mondo sensibile è, quindi, la

possibilità che si offre all' anima di ricordare il mondo soprasensibile: infatti, quando il corpo muore, l'

anima si disincarna e si reca nell' iperuranio per contemplare le idee. Esiste, quindi, un nesso tra

escatologia, la scienza che studia la vita dell' anima dopo la morte, e la gneosologia: l' anima conosce le

idee quando è disincarnata. Si possono anche ravvisare, a questo proposito, suggestioni di ascendenza

pitagorica38

.

In relazione alla prospettiva metafisica e al dualismo ontologico, Platone elabora pure un dualismo

antropologico: l' uomo è formato da corpo e anima, il primo è sensibile, la seconda invece è spirito,

essere soprasensibile, intrappolata nel corpo a causa di una colpa originaria. Bisogna vivere il più

possibile in funzione dell' anima; così facendo, quando il corpo muore e l' anima si reca nell'

iperuranio, essa potrà stare il più a lungo possibile a contemplare le idee: più il periodo sarà lungo, più,

al momento della scelta, l' anima sceglierà un corpo migliore in cui reincarnarsi; migliore è il corpo,

migliore sarà la vita terrena. Con questo processo l' anima, quando la vita terrena sarà giunta alla

perfezione, potrà disincarnarsi per l' eternità e dimorare nell' iperuranio a contemplare per sempre le

idee. L'etica è quindi collegata alla metafisica, al dualismo antropologico, alla gneosologia e all'

escatologia: migliore è la vita terrena, raggiunta con la conoscenza, migliore la vita dell' anima nell'

iperuranio. A differenza che per Socrate, il primo a definire l' etica concentrandosi sul comportamento

umano, a prescindere dalla religione, e identificando l' anima con la razionalità, per Platone essa è

spirito, essere soprasensibile.

Per vivere una vita in funzione dell' anima bisogna vivere secondo i valori morali ed operare una fuga

dal corpo, non intesa come suicidio, ma come vita lontana dalla mondanità e dalla materialità. Vivere

in funzione dell' anima è per Platone virtù; con la stessa parola, invece, Socrate indicava la conoscenza.

Inoltre, il vero compimento della vita etica va di pari passo con la conoscenza, più si vive per l' anima,

più ci si eleva alla noesis e viceversa, più si è virtuosi, più si progredisce conoscitivamente. La

conoscenza viene definita da Platone dialettica, con lo stesso termine usato da Socrate per indicare il

metodo di insegnamento e la capacità di far emergere la verità39

. Esiste un altro nesso, quindi, tra

38.

39.

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escatologia, antropologia e gneosologia: più l'uomo progredisce conoscitivamente durante la vita, più l'

anima potrà trattenersi nell' iperuranio. Il nesso tra escatologia e metafisica consiste nel fatto che l'

anima, quando è disincarnata, si reca nell' iperuranio, luogo metafisico. Esiste anche un nesso tra

escatologia ed antropologia: poiché l' anima è essere soprasensibile, ha una vita disincarnata rispetto al

corpo ed è quindi immortale. Platone ha elaborato tre prove dell' immortalità dell'anima: la prima

sostiene che, siccome la conoscenza è anamnesi, l' anima non può non essere immortale, visto che ha

vissuto nell' iperuranio, la seconda che, essendo il mondo sensibile calato nei contrari ed essendo il

corpo mortale, l' anima deve essere immortale, la terza viene infine esposta attraverso "Il mito della

biga alata" e "Il mito di Er". "Il mito della biga alata" narra dell' anima, simile a una coppia di cavalli

alati guidati da un auriga, vi è un cavallo bianco eccellente ed uno nero pessimo. L' auriga cerca di

indirizzare i cavalli verso l' iperuranio nel quale ha sede la "vera sostanza", ovvero la totalità delle idee,

che può essere contemplata solo dalla guida dell' anima, ovvero dalla ragione. Ogni anima rimane a

contemplare le idee fino a quando il cavallo nero non la porta verso il basso, fino a reincarnarsi in un

nuovo corpo. L'anima perde le ali, si appesantisce e cade nel corpo a causa della dimenticanza e della

colpa di non aver contemplato sufficientemente le idee. Tra tutte le idee "...la più evidente e la più

amabile" è la bellezza, essa è quella che più colpisce l' uomo, più si desidera la bellezza sensibile, più

ci si eleva, bisogna infatti essere educati al gusto. "Il mito di Er" narra di un guerriero morto e

resuscitato dopo dodici giorni, in grado dunque di raccontare agli uomini il destino che li attende dopo

la morte. Le anime risiedono per un massimo di mille anni nell' iperuranio a contemplare le idee, poi,

quando giunge il momento, si recano nella "pianura della verità", dove le attendono le tre parche: Cloto

fila i destini degli uomini, Lachesi sancisce il momento della scelta del bussolotto e Atropo taglia il filo

della vita umana. Lì le anime scelgono il proprio destino ed il corpo in cui reincarnarsi, le tre parche

lanciano il bussolotto in cui è presente il corpo in cui reincarnarsi. Degno di nota è il fatto che il destino

non dipenda dagli dei ma dalla responsabilità di ognuno.

In relazione con l' etica, Platone elabora anche un pensiero politico. Per Platone sono i filosofi coloro

che devono governare, è impossibile che i mali delle città smettano di esistere, se il potere politico e la

filosofia non coincidono. I governanti vivono tutti nello stesso luogo, non possiedono nessun tipo di

bene se non l' essenziale per sopravvivere, addirittura i figli vengono da loro allontanati e poi allevati in

comune, per evitare distinzioni e preferenze. I guardiani sono felici in primo luogo perché in loro

risiede la giustizia, inoltre sono già di per sé felici; non vi è bisogno di custodirli, perché prima di saper

custodire gli altri sanno custodire se stessi. Lo scopo della comunità è la giustizia, che si attua quando

tutte le persone svolgono il proprio compito: è grazie alla giustizia che uno stato è forte ed unito, è

inoltre l' accordo tra l' individuo e la comunità. Platone suddivide la popolazione in tre classi: vi sono,

come già detto, la classe dei governanti, la quale ha il compito di governare, essi sono saggi ed hanno

un' anima razionale, la classe dei guerrieri, essi difendono la città, sono coraggiosi e hanno un' anima

irascibile, infine vi sono i produttori di cui la principale caratteristica è la temperanza e la loro anima è

concupiscibile. Questa distinzione non dipende dalla provenienza della famiglia ma dalle doti naturali,

un bambino nato ad esempio da produttori o da guerrieri può progredire alla classe superiore, ma ciò è

difficile che si verifichi e solitamente i figli sono della stessa classe dei genitori. Platone abbatte la

democrazia perché sostiene che se un lavoratore dovesse assumere il compito di un governante, non ne

sarebbe in grado, quindi ognuno deve svolgere il proprio compito. Non si può però definire, secondo

alcuni studiosi, la politica di Platone come aristocratica, poiché vige il governo di pochi, non però dei

più ricchi, ma dei più dotati.

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Per meglio descrivere l'ontologia, la dottrina delle idee, la gneosologia, e in generale tutto il suo

pensiero filosofico, Platone introduce nella trattazione un altro mito, "Il mito della caverna". In una

caverna oscura, che rappresenta il mondo sensibile, vi sono degli schiavi, gli uomini, legati da catene

che sono il simbolo dell' ignoranza e della arrendevolezza alle passioni. Alle spalle degli schiavi vi è un

muro, al di sopra di questo vi sono delle statuette, simbolo del grado gneosologico della credenza,

tenute da uomini, le quali riflettono la propria ombra sulla parete verso la quale gli schiavi stanno

guardando, grazie a un fuoco, il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono la realtà. Gli schiavi

scambiano per realtà le ombre, che corrispondono al grado gneosologico dell' immaginazione. Uno

degli schiavi riesce a liberarsi dalle catene: egli rappresenta l' azione della conoscenza e della filosofia,

ed esce dalla caverna, il mondo di fuori visto dallo schiavo è la realtà, quindi le idee. Lo schiavo vede

delle cose riflesse nell' acqua, sono il simbolo dalla conoscenza matematica che prepara alla filosofia,

vede poi il sole, l' idea di Bene, e lo contempla, azione simbolo dei massimi livelli della filosofia. Lo

schiavo vorrebbe stare per sempre a contemplare il sole, ma ritorna indietro per avvisare i compagni,

simbolo dell' impegno sociale del filosofo. Quando entra di nuovo nella caverna, lo schiavo non riesce

più a vedere le ombre, perché si è abituato a contemplare le idee: viene così deriso, a simboleggiare la

società attaccata ai pregiudizi e a modi di vita volgare; gli altri schiavi che, invece, attribuiscono grandi

onori a coloro che riescono a vedere le ombre, nella realtà rappresentano i premi della società offerti ai

falsi sapienti. Infine, lo schiavo che si era liberato viene ucciso esattamente come toccò a Socrate.

Questo mito rappresenta l'intera filosofia di Platone, si descrivono, infatti, il mondo fisico e metafisico,

ne derivano, poi, i diversi gradi della conoscenza e infine il comportamento etico ed il ruolo del

filosofo nella società.

1Il mondo sensibile partecipa di quello soprasensibile.

2Il mondo sensibile imita, anche se male, quello soprasensibile.

3 Il mondo intelligibile è presente in quello sensibile.

4 Per Parmenide il divenire avrebbe costituito una legittimazione del non essere, palese e assurda contraddizione.

5 Riguardo alla teoria della metempsicosi, ovvero della reincarnazione dell'anima.

6 Per i sofisti, invece, il termine indicava l’abilità nel parlare.

Bibliografia:

Platone, Opere complete, a cura Manara Valgimigli, Bari, Laterza, 1974-

Giovanni Reale, Platone, in Storia della filosofia antica, Milano, Vita & Pensiero, 1975

Francesco Adorno, Introduzione a Platone, Roma-Bari, Laterza, 2005

Sitografia:

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www.filosofico.net

www.sapere.it

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Platone tra eros e retorica.

Il rapporto tra corpo e conoscenza

Di Lorenza Pesacane

Introduzione Processo di integrazione di istanze pulsionali ed emotive in grado di stabilire legami intersoggettivi che

possono anche travalicare il rapporto binario. Se dal punto di vista della biologia evolutiva l’amore si

configura come un sistema innato, la cui espressione è influenzata da segnali di natura sociale, i diversi

approcci delle scienze umane insistono sul suo carattere di “emozione primaria” che non può essere

spiegata come conseguenza di altri sentimenti o motivazioni. Variamente connotato come éros

(trasporto, passione che coinvolge la totalità della persona), come philìa (benevolenza e

reciprocità) o come aghápe (altruismo, fratellanza), l’amore è un tema ricorrente nella storia della

filosofia occidentale, oggetto volta a volta di speculazioni cosmologico-metafisiche e teologiche,

riflessioni etiche, teorizzazioni psicologiche e sociologiche. Il concetto antico di eros (tradotto in latino

con Cupido, Amor) è spesso associato all'attrazione sessuale ma anche, inteso come forza che tiene

uniti elementi diversi e talora contrastanti senza arrivare ad annullarli, all'amicizia e, con la finalità di

unire in un unico corpo sociale una moltitudine di cittadini, alla politica.1

Nel suo specifico significato filosofico eros è stato primariamente inteso come la forza vitale che

muove il pensiero e la filosofia stessa, fungendo da tramite fra la dimensione terrena e quella

sovrasensibile. In questo saggio si illustrerà come il rapporto tra il corpo e la conoscenza abbia

avuto una considerevole importanza nel corso della storia della filosofia occidentale.

1. Eros nella filosofia greca antica “Amore, fra gli dei l'amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all'antica condizione.

Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l'umana natura”.2

I Greci videro nell’amore una forza unificatrice e armonizzante, e la intesero come il fondamento

dell’amore sessuale, della concordia politica e dell’amicizia. Su questo concetto di philìa (“attrazione,

amicizia”) vertono le analisi platoniche giovanili del Liside, da cui nasce la concezione dell’eros, in

seguito largamente svolta nel Simposio e nel Fedro. Nel primo l’attenzione è focalizzata sull’oggetto

dell’amore, ossia la bellezza, di cui vengono stabiliti gradi gerarchici, laddove il Fedro considera

l’amore nella dimensione soggettiva, ossia come aspirazione verso la bellezza e come elevazione

progressiva dell’anima al mondo dell’essere cui la bellezza pertiene. Nel dialogo Liside Platone tratta

l'argomento dell'éros inteso come quello che intercorre tra due amici: chi è l'amico, colui che ama o

colui che riceve amore? Platone propende per il secondo caso ma non ignora le difficoltà connesse al

problema. Nel Fedro egli spiega questo concetto ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre

tra gli occhi: “E come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene

rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell'amato

attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all'anima, come vi è giunto e l'ha eccitata al

volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d'amore l'anima, a sua volta,

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dell'amato.”3Secondo il filosofo può venirsi a creare una situazione di “specchio”: in realtà l'amato

vede negli occhi di chi lo ama se stesso perché vede riflessa la propria bellezza;è una concezione mitica

che rievoca i celeberrimi versi di Dante “Amor, (...)ch'a nullo amato amar perdona”4. È come se chi è

amato si innamorasse del sentimento stesso. L'eros, inteso come amicizia, sfugge infatti sia al

principio empedocleo per il quale il simile ama il simile sia a quello eracliteo per cui il contrario è

amico del contrario. L'eros allora esprime una situazione intermedia che trova spiegazione nel

Simposio. Eros è descritto, per bocca di Diotima di Mantinea, non come un dio ma come un dèmone,5

un essere che si pone a metà strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di

intermediare tra queste due dimensioni: un essere, sempre inquieto e scontento, identificato con la

filosofia, intesa letteralmente come “amore del sapere”.6 Prendendo le mosse dal mito degli androgini,

esseri primitivi composti di uomo e donna divisi dagli dei per punizione di due metà di cui l’una va

incessantemente in cerca dell’altra per ricostituire l’unità primitiva, Platone arriva a individuare uno dei

caratteri fondamentali dell’a.: esso è in primo luogo mancanza, bisogno, aspirazione dell’imperfetto

verso il perfetto.La peculiarità di éros è infatti essenzialmente la sua ambiguità, ovvero l'impossibilità

di approdare a un sapere certo e definitivo, e tuttavia l'incapacità di rassegnarsi all'ignoranza.

“ Anche fra sapienza e ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dei è

filosofo, o desidera veramente diventare sapiente (che lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla

filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi,

proprio per questo l’ignoranza è terribile (…) chi non avverte d’esser in difetto non aspira a ciò di cui

non crede d’aver bisogno .” 7

Secondo Platone infatti Eros è figlio di Pòros (Abbandonza, ricchezza,

risorsa) e Penìa (Povertà): la filosofia intesa come éros è dunque essenzialmente amore ascensivo, che

aspira alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo è costretta a

vagare nelle tenebre di una sempre mai risolta ignoranza (la sua povertà). “ Dunque, come figlio di

Pòrose di Penìa, ad Amore è capitato questo destino:innanzi tutto è sempre povero, ed è molto lontano

dall’essere delicato e bello, come pensano molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo, pergrino(…) perché

conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa. Ma da parte del padre è insidiatore

dei belli e dei nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore tremendo(…) ricco di trappole, intento

tutta la vita a filosofare .”8Concetti questi già presenti nel socratico “sapere di non sapere”, come pure

in altri miti di Platone, ad esempio in quello della caverna dove gli uomini sono condannati a vedere

solamente le ombre del vero. Il dualismo e la contrapposizione tra verità e ignoranza era quindi così

vissuta da Platone, ma anche già dal suo maestro Socrate,9come una profonda lacerazione, fonte di

continua irrequietezza e insoddisfazione. Come può allora l’anima umana raggiungere la bellezza

suprema? È questo il problema del Fedro, il quale perciò parte dalla considerazione dell’anima, nella

quale Platone distingue tre parti, una razionale, una irascibile o impulsiva, una concupiscibile o

desiderabile. Tale natura tripartita si può esprimere con un mito. L’anima secondo Platone è simile a

una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: uno dei cavalli, bianco, è eccellente, l’altro, nero, è

pessimo; di conseguenza l’opera dell’auriga è difficile e penosa. Egli cerca di indirizzare i cavalli verso

il cielo, verso quella regione sopraceleste (iperuranio) che è la sede dell’essere autentico. “L'anima se

ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non

trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che

possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono

i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il

momento almeno, questo soavissimo piacere. (...) Perché, oltre a venerare colui che possiede la

bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio

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bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore”10

.Ogni anima perciò contempla la

sostanza dell’essere di più o di meno. Tuttavia quando essa si incarna, va a dare vita il corpo di un

uomo che sarà tale quale essa lo renderà. Se l’anima ha visto di più, allora, ne consegue che darà vita al

corpo di un uomo che si consacrerà al culto della sapienza o dell’amore. È proprio la bellezza a

risvegliare nell’anima incarnata il ricordo delle sostanze ideali. La bellezza dunque fa da mediatrice

tra l’uomo caduto e il mondo delle idee e ad essa l’uomo risponde con l’amore. L’éros diventa

perciò procedimento razionale, dialettica. La dialettica è nello stesso tempo ricerca dell’essere in sé e

unione amorosa delle anime nell’apprendere e nell’insegnare. È quindi “psicagogia”, guida dell’anima,

con la mediazione della bellezza, verso il suo autentico destino.

2. Eros nella teologia cristiana

“dilige, et quod vis fac” “Ama e fa ciò che vuoi” 11

La concezione dell’amore elaborata dalla filosofia e dalla teologia cristiane riprendono,

opportunamente modificati e adattati, vari elementi della speculazione platonica e aristotelica, ma vi

inseriscono anche motivi nuovi. La principale innovazione apportata dal cristianesimo è costituita

dall’interpretazione dell’amore in termini di caritas(aghápe), quale realizzazione del fondamentale

precetto dell’etica cristiana “ama il prossimo tuo come te stesso”. L’amore diventa un attributo

fondamentale della divinità, che ama gli uomini, si fa uomo, soffre e muore per essi. Nel concetto

cristiano dell’amore oggetto primario e formale dell’amore è Dio, e in ragione di Dio, oggetto

secondario l’uomo stesso, il prossimo, tutto il genere umano, persino i nemici in quanto ci sono fratelli

nella umana natura. L’amore nell’accezione di caritas acquista con ciò importanza grandissima

nell’etica cristiana. La riflessione sull’amore acquista un ruolo di importanza primaria anche nel

pensiero di Sant’ Agostino. Egli parte dall’ipotesi che ciò che porta l’uomo a compiere l’itinerario dal

mondo esterno all’interiorità dell’anima alla verità trascendente è il desiderio di essere felice (beate

vivere), che si realizza nella conoscenza del vero bene. Per conoscere qualcosa, però, occorre volerlo,

e si vuole ciò che si ama, si cerca per trovare ciò che si ama. Così come il corpo tende con il suo

peso al luogo che gli è proprio, allo stesso modo l’amore fa gravitare irresistibilmente l’animo verso

l’oggetto voluto e ritenuto buono: “pondusmeum amor meus: eoferorquocumque feror”12

. Senza amore

non vi è movimento, non vi è conoscenza, senza amore buono, cioè rivolto verso un fine che è il bene,

non può esservi felicità. Nel De TrinitateAgostino introduce l’amore nella stessa essenza divina,

identificandolo con lo Spirito Santo: Dio padre, nel pensare, genera interiormente la propria sapienza o

Verbo; una relazione d’amore lega la mente pensante al suo lògos; allo stesso modo nell’uomo il

pensiero (mens), la conoscenza (notitia) e l’amore (amor) sono tre funzioni distinte ma strette

nell’unità di uno stesso spirito e pensabili solo in relazione reciproca: non si può infatti conoscersi

senza amarsi, né amarsi senza conoscersi; né conoscersi e amarsi fuori dal pensiero. La nozione di

amore assume una peculiare centralità anche nella teologia della storia delineata da Agostino nel De

civitate Dei (La città di Dio). Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al

disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città

celeste. Come per il singolo, anche per l’uomo in generale vale la possibilità di determinarsi attraverso

la scelta dell’oggetto d’amore: di perdersi nell’amore inordinatus o di elevarsi nell’amore

consapevole dell’ordine del mondo. Un rilievo centrale assume il tema dell’amore nella speculazione

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dei mistici, soprattutto dei maestri “vittorini” (specialmente Riccardo) e San Bernardo. Entrambi

considerano come a. perfetto quello di benevolenza e di amicizia, sicché l’amore basta a sé stesso

anche senza il possesso; inoltre descrivono (Riccardo attraverso i quattro gradi: invincibile,

torturante, esclusivo, insaziabile) l’amore di Dio che spinge l’amante a “uscire di sé” e diventa

violento e “forte come la morte” (Bernardo). La scolastica aristotelica dal canto suo riprenderà,

adattandole, le considerazioni di Aristotele sull’amicizia per caratterizzare l’amore nell’accezione

cristiana della caritas. Così San Tommaso identifica quest’ultima con l’amore intellettuale, e lo

definisce come “amicizia dell’uomo verso Dio”, intendendo l’amicizia in senso aristotelico come

amore associato alla benevolenza e alla reciprocità.

3. Eros nella filosofia moderna

“ Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di Amore e di

consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli ch’Egli possiede e fa loro sentire

interiormente la loro miseria e la Sua misericordia infinita.”13

Nei filosofi rinascimentaliéros e aghápe si fondono in un unico concetto. Il tema dell'éros acquista

una centralità particolare soprattutto nella filosofia di Marsilio Ficino: l'amore viene da lui inteso come

il dilatarsi stesso di Dio nell'universo: Dio “si riversa” nel mondo e produce negli uomini il desiderio di

ritornare a Lui. Si tratta di un processo circolare che si riflette nell'uomo, il quale a sua volta è chiamato

ad essere copula mundi, immagine dell'Essere dal quale proviene tutta la realtà e che tiene legati in sé

gli estremi opposti dell'universo.14

Nella Metafisicadi Tommaso Campanella, l'eros è una delle tre

essenze primarie che strutturano l'essere sul modello trinitario: potenza (Padre), sapienza (Spirito),

amore (Figlio). Afferma Campanella: “Ogni ente, potendo essere, ha la potenza di essere. Ciò che può

essere sa di essere. Se non avvertisse di essere non amerebbe sé stesso e non sfuggirebbe il nemico che

lo distrugge e non seguirebbe l'ente che lo conserva come fanno tutti gli enti. Il sapere emana dal

potere, noi non sappiamo infatti quel che non possiamo sapere e molto possiamo sapere che prima non

sappiamo. L'amore profluisce dalla sapienza e dalla potenza”. 15

In Giordano Bruno, l'éros diventa

“eroico furore”,16

esaltazione dei sensi e della memoria, elevazione della ragione invasata

dall'amore per la verità tale che l'intellettuale si “india”, raggiunge Dio, l'Uno-Tutto-Infinito,

contemplando la sua presenza in tutti gli esseri. Per Cartesio l'amore è inteso naturalisticamente come

una passione dell'anima17

che si caratterizza in relazione agli oggetti amati e all'intensità del

sentimento provato: se proviamo per l'oggetto d'amore un sentimento di grado inferiore all'amore per

noi stessi, si tratta di affetto, se di grado uguale è amicizia, se superiore è devozione e, in questo caso,

rientra Dio tra gli oggetti amati. Leibnizrileverà la contraddizione in cui fa cadere l'amore per cui noi

non possiamo volere che il nostro bene e nello stesso tempo desideriamo il bene di un oggetto

amato: “ Quando si ama sinceramente una persona non si cerca il proprio profitto né un piacere

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staccato da quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell'appagamento e nella

felicità di questa persona”. 18

Per Spinoza bisogna distinguere due specie di amore: quello che, come

tutte le emozioni, deriva da una mutazione dell'anima, e questo tipo di amore non può riguardare la

perfezione divina che non ama nessuno, e quell'amore intellettuale di Dio che è la visione del Dio che

s'identifica con la mirabile perfezione dell'universo ordinato. Dio non può che amare se stesso e

“Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per conseguenza che l'amore di Dio verso gli uomini e

l’amore intellettuale della mente verso Dio, sono la medesima cosa”. 19

Per gli autori settecenteschi la costituzione dell'amore è di natura sensibile e tra questi Kant che

distingue l'amore sensibile o “patologico”, passionale, e quello “pratico”, morale che è imposto dal

comando cristiano.20

4. Eros nella filosofia contemporanea

Il pensiero romantico riprende ed esalta la concezione spinoziana dell'unità di Dio e Natura, di

infinito e finito, riferendola all'eros, coincidente con il sentimento e la poesia, come strumenti per

cogliere l'Assoluto nelle creature contingenti: “ La sorgente e l'anima di tutte le emozioni è l'amore; e lo

spirito dell'amore deve nella poesia romantica esser presente ovunque, invisibile e visibile.” 21 Nelle sue opere giovanili

22Hegelconsidera l'amore al di là di ogni opposizione anche se ha in se stesso

la mortalità dei corpi e la distinzione dei due amanti. Infatti il sentimento supera la corporeità mortale

con la generazione, principio d'immortalità. La stessa essenza del cristianesimo si fonda sull'amore

reciproco tra Dio e il suo fedele realizzando così la perfetta sintesi degli opposti, se non fosse però che

la tendenza del cristianesimo a mondanizzarsi, facendosi religione positiva, lo riporterà alla mortalità

terrena: da qui la necessità di una nuova religione. Nella

Fenomenologia dello spirito l'amore viene sostituito dalla ragione dialettica con il desiderio di

conoscere che sottintende ancora l'eros. Si vuole conoscere infatti l' “altro da sé” per poter

pienamente realizzare il “proprio sé”, da ciò si rientra in quella condizione di inappagamento che

caratterizza così l'amore come desiderio di sapere. Nelle opere successive Hegel ribadisce questa sua

concezione dell'amore: “L'amore esprime in generale la coscienza della mia unità con un altro.”23,

“ La vera essenza dell’amore consiste nell’abbandonare la coscienza di sé nell'obliarsi in un altro se stesso

e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest'oblio.” 24 Nelle Lezioni

sulla filosofia della religioneHegel riprende il tema pagano e cristiano dell'eros come unione di amore

e morte: Dio nella realtà della Croce è l'amore-morte e l'amore come sintesi degli opposti vita-morte,

finito-infinito, umano-divino.25

Schopenhauer riprende l'antico concetto di eros mettendone in rilievo

la caratteristica più comunemente nota quella cioè di amore sessuale di cui si serve irrazionalmente la

volontà di vivereper perpetuarsi ed accrescersi. Diverso da questo è l'amore puro che si manifesta nella

compassione, intesa come il comune soffrire per il dolore universale, una via questa, parzialmente

inutile, per tentare di sfuggire alla volontà di vivere.

Feuerbach riprende la concezione romantica del sentimento amoroso come unità di finito e infinito,

incarnandola nello stesso uomo finito da dove l'amore sessuale si sublima moralmente fino ad includere

tutta l'umanità come oggetto di vero amore. La visione feuerbachiana di un amore che si allarghi dal

singolo alla universalità viene criticata radicalmente da MaxScheler che ritiene invece che quanto più

l'amore si restringa tanto più esso s'intensifichi e si realizzi. Scheler respinge altresì la visione

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romantica dell'amore come assoluta unità avanzando il concetto di simpatia, un atteggiamento che si

basa sulla diversità essenziale degli individui: “ l'amore vero consiste nel comprendere sufficientemente

un'altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la

considero altra da me e differente da me e pur mentre affermo, con calore emozionale e senza riserva, la

sua propria realtà e il suo proprio modo d'essere.”26Scheler non crede in un generico e astratto amore per

l'umanità che in realtà è semplicemente l'espressione dell'amore come lo concepisce l'uomo medio di

una certa epoca e di una determinata morale.

Il superamento dell'amore, romanticamente inteso, è invece in Bertrand Russell che ne dà una

descrizione del tutto empirica mettendone in rilievo le sue conseguenze sociali, morali e politiche.27

Una sintesi del concetto nella storia della filosofia è in Nicola Abbagnano secondo il quale per alcuni

autori come Platone, Aristotele, Tommaso, Cartesio, Leibniz, Scheler, Russell, l’amore, come unione e

non come unità, realizza un rapporto reciproco, concreto, umano, finito che consolida e non nega

le soggettività individuali tra cui avviene. Per altri invece come in Spinoza e negli autori romantici,

in Hegel e Feuerbach, l'amore è una pretesa fallimentare di esseri umani finiti e contingenti di

conseguire l'unità assoluta o infinita.

5. L’analisi sociologica e psicologica: la teoria freudiana

“sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte (...). A questo punto

sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver

pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti

altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a

nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato

se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni”28

.

Significativi contributi allo studio dell’amore come forma specifica di interazione e come istanza

affettiva-pulsionale saranno offerti dalla sociologia e in misura maggiore dalla psicologia,

progressivamente sviluppatesi e specializzatesi a partire dalla seconda metà del XX secolo come

discipline autonome. Nell’ambito della psicologia che viene sviluppata la riflessione sull’amore quale

emozione o sentimento primario che si manifesta nella forma di bisogno immediato o di pulsione.

Fondamentale importanza hanno in questo campo le teorie di Freud, variamente riprese e declinate

dalle diverse scuole psicanalitiche. Nel pensiero freudiano l’amore è interpretato come specificazione e

sublimazione di una forza o pulsione istintuale originaria, la libido, che può essere libera come nel

processo primario, dove fluttua disancorata da vincoli da rappresentazione a rappresentazione, oppure

legata o controllata come nel processo secondario, in cui viene riversata in forme più o meno

permanenti verso determinati oggetti. Può inoltre investire un oggetto esterno all’individuo (libido

oggettuale) o l’individuo stesso (libido dell’Io o narcisistica). Dalla libido, secondo Freud, si

sviluppano le forme superiori dell’amore attraverso i due meccanismi dell’inibizione, che ha la

funzione di contenere e immobilizzare le manifestazioni della libido nei limiti compatibili con la

conservazione della specie, e da cui derivano le emozioni morali (vergogna, pudore, ecc.), e della

sublimazione, un processo che devia l’energia della pulsione verso mete non sessuali diverse da quelle

originarie, usualmente valorizzate dalla società. Postulando tale processo, Freud dimostra il sussistere

di una relazione tra la dimensione sessuale e tutte le attività umane, in particolare l’attività artistica,

intellettuale e religiosa. Tutte le forme superiori dell’amore non sono, secondo Freud, che sublimazioni

della libido inibita. Nell’elaborazione più matura della sua metapsicologia, in particolare in

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JenseitsdesLustprinzips (Al di là del principio di piacere), Freud arriva a una concettualizzazione

dell’amore come principio speculativo-cosmogonico (Eros), che comprende tanto le pulsioni sessuali

quanto le pulsioni di autoconservazione, finalizzate all’instaurazione e alla conservazione della “unità

del vivente”. Coesistenti e in perenne conflitto con tale principio sono le “pulsioni di morte”, in cui

sono ricomprese le pulsioni di aggressione e quelle di distruzione che rappresentano la tendenza di ogni

vivente a tornare al proprio stadio originario inorganico e a ripristinare lo stato di inerzia e di

annullamento delle tensioni. Richiamandosi al mito platonico dell’androgino narrato da Aristofane nel

Simposio, Freud arriva a concludere che anche le pulsioni dell’Eros sono pulsioni regressive: la loro

spinta a unire ciò che è diviso e a formare nuovi esseri viventi si identifica con la spinta a

ripristinare un’unità primordiale perduta.

6. Bilancio conclusivo

Alla luce di quanto si è detto, si assiste qui a una vera e propria rivoluzione del rapporto tra corpo e

conoscenza, in cui risulta quanto l’eros e la retorica siano strettamente legati tra loro.

Non fa filosofia infatti chi è sapiente e neppure chi è del tutto ignorante e chiuso nella sua presunzione

di sapere tutto, ma al contrario soltanto chi si sente in uno stato di povertà, di bisogno, riguardo al

sapere, e nello stesso tempo è tutto preso dal desiderio del suo oggetto, che lo attrae e lo alletta. Questa

condizione di tensione, generata insieme da abbondanza e da povertà, questa situazione intermedia tra

sapienza e ignoranza è precisamente l’eros, come aspirazione alla bellezza, in quanto ordine e armonia.

La retorica rende “capaci di parlare e di pensare” è attenta ai contenuti, pur riconoscendo di poterli

abbellire con una forma adeguata. Tuttavia solo la filosofia può accedere alla verità, mentre la retorica

si limita a ciò che è plausibile. Di conseguenza, la retorica non ha una

propria autonomia, ma è soltanto lo strumento della dialettica, che è il vero metodo della filosofia.

Note

1. Nicola Ubaldo, Atlante illustrato di filosofia, p. 40: Eros, Firenze, Giunti Editore, 2000.

2. Platone, Simposio, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971.

3. Platone, Fedro, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari,2014.

4. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, V, vv. 102-104, a cura di N.Sapegno, La Nuova

Italia, Firenze, 1982.

5. Dal greco anticodaìmon. In Omero col significato di “potenza divina” che non può o non si

vuole nominare, da cui il senso di divinità e d'altra parte di destino.

6. Giovanni Reale, Eros demone mediatore, Milano, Rizzoli, 1997.

7. Platone, Simposio, op.cit.

8. Idem.

9. Per Leon Robin (in La teoria platonica dell'amore, ed. Celuc libri, 1973) il tema dell'eros è

definito compiutamente nel dialogo Fedro dal personaggio Socrate.

10. Platone, Fedro, op.cit.

11. Agostino d'Ippona, Epist. Joan., VII, 8; PL XXXV, 2033.

12. Agostino d’Ippona, Confessioni, XIII, 9, 10

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13. Blaise Pascal, Pensieri 556.

14. Ioan P. Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press, 1987.

15. Tommaso Campanella, Metafisica VI.

16. La radice del termine eroico in Bruno è propriamente “eros”, (cfr. I nomi dell'amore: Bruno e

Nietzsche. Eroico furore e volontà di potenza, p. 2, Biblioteca Tiraboschi).

17. Descartes, Pass. de l'âme, II 79-83.

18. Leibniz, Op. Phil., ed. Erdmann, pp. 789-90.

19. Baruch Spinoza, Ethica, V 17 corol.

20. Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, I cap. 3.

21. Friedrich Schlegel, ProsaischenJugendschriften, ediz. Minor, II, p. 371.

22. Hegel, Scritti teologici (1793-1800): Religione popolare e cristianesimo, Sull'amore,

Frammento sistematico.

23. Hegel, Filosofia del diritto, par. 158.

24. Hegel, Lezioni di estetica, edit. Glockner, II, p. 149, pp. 178-79.

25. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, edit. Glockner, II, p. 304.

26. Scheler, Essenza e forme della simpatia, Milano, Franco Angeli, 2010

27. Bertrand Russell: Principi di ricostruzione sociale, p. 192; La conquista della felicità, p. 42;

Matrimonio e morale IX, p. 118.

28. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, pp. 248-9,1920.

Bibliografia

F.Adorno, T.Gregory, V. Verra, Storia della filosofia, vol. I, Laterza, 1982. N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. 1A, Paravia, 2012.

G.Limone, Dal mito platonico della biga alata alla colomba di Kant: per una rivoluzione del

rapporto tra corpo e conoscenza, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012.

Platone, Simposio, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971.

Platone, Fedro, trad. it. a cura di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari,2014.

D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N.Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, 1982.

G. Reale, Eros demone mediatore. Una lettura del Simposio di Platone, Milano, Rizzoli, 1997.

L. Robin, La teoria platonica dell'amore, Celuc Libri, 1973.

G. Bataille, LesLarmes d'Éros (1961), trad. it. a curadi A. Salsano, Le lacrime di Eros, Bollati

Boringhieri, 1995 e 2004.

I. P. Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press, 1987.

I. Kant, Critica della Ragion Pratica, Laterza, Roma-Bari, 2012.

F. Schlegel, ProsaischenJugendschriften, ediz. Minor.

Scheler, Essenza e forme della simpatia, Milano, Franco Angeli, 2010

Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, pp. 248-9,1920.

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Sitografia

http://it.wikipedia.org/wiki/Eros_(filosofia)

http://www.treccani.it/enciclopedia/amore_(Dizionario-di-filosofia)/

http://www.filosofico.net/amor32.html

https://www.youtube.com/watch?v=Z5ZdMRAlWGw

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IL CONTRASTO TRA ORALITÀ E SCRITTURA!

Di Marino Bianco

La vita di Platone e la figura di Socrate

Platone nacque ad Atene verso il 428-427 a. C., da famiglia nobile e ricca. Iniziato alla filosofia di

Cratilo, discepolo di Eraclito, passò poi nel circolo di Socrate e lì rimase fino alla morte del maestro[1]

.

Dal punto di vista politico, il tempo di Platone fu caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro della Grecia

periclea[2]

. Essendo un democratico avvertì più di altri la crisi imperante ed essendo un filosofo fu

indotto a radicalizzare la situazione problematica e a viverla come crisi dell’uomo nella sua totalità.

Per queste cose, cominciò a idealizzare la figura di Socrate, che per Platone divenne un simbolo della

crisi e al tempo stesso della speranza di superarla. Egli affermava che, se si era giunti a uccidere l’uomo

più giusto di tutti, “il malessere della società è pervenuto al suo punto-limite”[3]

.

Prima della morte del maestro Platone avrebbe voluto dedicarsi alla politica, ma la fine di Socrate fu

un’ingiustizia imperdonabile che lo spinse a condannare la politica del tempo. Il filosofo capì che lo

scopo della filosofia doveva essere quello di cambiare le condizioni della vita associata. Da qui egli

intese che questa dottrina era “l’unica via che potesse condurre l’uomo e la comunità verso la

giustizia”[4]

.

Dopo la morte di Socrate, Platone viaggiò molto recandosi prima a Megara, presso Euclide, poi in

Egitto e a Cirene. Nei suoi scritti non parlò di questi viaggi, ma di quello che fece in Italia meridionale,

presso Siracusa, dove entrò in buoni rapporti con il tiranno Dione, cognato di Dionigi il Vecchio.

Ad Atene Platone fondò la sua scuola, l’ Accademia, che costituì per molti secoli uno dei massimi

centri culturali dell’antichità, fino a quando venne chiusa da Giustiniano nel 529 d. C..

La fedeltà all’insegnamento e alla persona di Socrate domina l’intera attività filosofica di Platone, ma

non tutte le dottrine sono dedicate a Socrate: basti pensare che la sua teoria più grande, quella che si

pone alla base del platonismo (il rapporto fra idee e cose), è una sua innovazione poiché il maestro non

ha mai toccato un simile argomento. Lo sforzo di Platone, tuttavia, è quello di rintracciare alla fine di

ogni opera la figura del maestro, infatti “la ricerca platonica tende a configurarsi come uno sforzo di

interpretazione della personalità filosofica”[5]

.

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Il primo periodo dell’attività filosofica di Platone è dedicato all’illustrazione e alla difesa dell’

insegnamento di Socrate. L’ Apologia di Socrate chiarisce l’atteggiamento di quest’ultimo di fronte

all’accusa, al processo e alla condanna da parte del tribunale ateniese, e il suo rifiuto a ogni proposta di

fuga, fatta per evitare la morte. Nell’Apologia viene esaltato il compito del maestro che dedica la sua

vita alla ricerca filosofica, come evidenziato nel passo seguente, che può essere considerato come uno

dei più significativi dell’opera: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo”[6]

.

Il dialogo e il mito di Theuth

Platone riprende da Socrate il sistema filosofico del dialogo; questo rappresenta un atto di fedeltà

dell’allievo nei confronti del silenzio letterario del maestro. Entrambi i filosofi concepiscono la

filosofia come sapere aperto[7]

e il dialogo è inteso come il solo mezzo attraverso il quale si possa

comunicare la modalità dell’indagine filosofica agli altri, in quanto è ciò che più si avvicina al discorso

a voce.

Nel Fedro, dialogo tra quest’ultimo e Socrate, Platone espone il contrasto tra scrittura e oralità

attraverso il mito di Theuth, criticando la prima:

SOCRATE: Ho sentito narrare che a Naucrati d'Egitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a

cui è sacro l'uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l'inventore dei numeri, del calcolo,

della geometria e dell'astronomia per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle

lettere dell'alfabeto. Re dell'intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città

dell'Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re,

gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna

gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli

sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus

aveva molti argomenti da dire a Theuth, sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli.

Quando giunsero all'alfabeto: «Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e

arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». E il

re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è

giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu,

per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto.

Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria

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perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal

di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per

richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza perché essi,

grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi,

mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di

opinioni invece che sapienti».

FEDRO: Fai bene a darmi addosso; anch'io son del parere che riguardo l'alfabeto le cose stiano come

dice il Tebano.

SOCRATE: Dunque chi crede di poter tramandare un'arte affidandola all'alfabeto e chi a sua volta

l'accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve

essere pieno d'una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se

s'immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui

tratta lo scritto.

FEDRO: È giustissimo.

SOCRATE: Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella

della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi,

tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che

potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro

qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia

messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha

nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso

ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi.

FEDRO: Ancora hai perfettamente ragione[8]

.

Anche nella Lettera VII Platone ribadisce la sua critica alla scrittura, affermando, nel passo 341c, che

“tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui mi occupo per averlo

sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla, a mio

giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto[9]

. Il filosofo sembra sostenere

che ci sono dottrine che non possono essere comunicate per iscritto a motivo della debolezza di questo

mezzo”[10]

.

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Perché è più importante l’oralità?

Nel mito appena analizzato, Platone fa dire a Socrate che “la scrittura è disumana, poiché finge di

ricreare al di fuori della mente ciò che in realtà può esistere solo al suo interno”. Si può dire che per

Socrate, ovvero per Platone, la scrittura è un prodotto manufatto, così come oggi si dice soprattutto

riguardo ai computer.

Altra accusa, molto più grave, mossa alla scrittura da parte del Socrate di Platone è quella che “la

scrittura distrugge la memoria e indebolisce la mente”; infatti, chi si serve della scrittura avrà più

difficoltà a ricordare. Nell’affermare che la scrittura è disumana, inanimata e distrugge la memoria,

come sopra riportato, Platone finisce per associarla alla morte.

Platone, in effetti, riconosce all’oralità un ruolo dominante e infatti, egli afferma che “il dialogo è il

solo mezzo attraverso il quale si possa esprimere e comunicare agli altri la modalità dell’indagine

filosofica”[11]

.

Per altri studiosi e critici del pensiero platonivo, poi, il fatto che l’oralità si presenti come dimensione

più disomogenea rispetto alla scrittura non costituisce un suo punto debole, ma di forza. Infatti,

l’esposizione orale si arricchisce di una contestualità e viene accompagnata da gesti e posizioni del

corpo, oltre che dall’intonazione, che aiutano ad interpretare il significato che si vuole trasmettere,

nonché a superare l’ambiguità delle espressioni. Inoltre, l’oralità non è ingabbiata dalla rigidità della

sintassi e/o del lessico e, pertanto, rende la comprensione di un messaggio non certo più difficile di uno

scritto, ma indubbiamente più viva (cosa quasi impossibile per un testo scritto in cui le parole sono

prive di forza e non hanno alcuna intonazione) [12]

.

Oggi si è convinti che su eventi passati le registrazioni scritte forniscano più elementi rispetto al

parlato. Le culture antiche, però, pur conoscendo la scrittura, affermavano il contrario. La ragione era

che le testimonianze orali erano più credibili di quelle scritte, poiché potevano essere messe in

discussione, e chi le forniva doveva difenderle, cosa che non poteva avvenire per i testi scritti[13]

.

Anche sulla base di tali considerazioni agli inizi del ‘900 vi è stata una rivalutazione del primato

dell’oralità sulla scrittura.

Ci sono, però, anche altre varie ragioni per affermare ciò: prima di tutto la comunicazione orale è

anteriore di millenni a quella scritta; inoltre, contrariamente a quanto accade per la scrittura, la parola

risponde alle esigenze comunicative di tutti i popoli; infine, un esempio può essere fatto prendendo

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come riferimenti i bambini, i quali sviluppano da soli la capacità di parlare, mentre la scrittura la

apprendono in modo faticoso attraverso insegnamenti altrui.

A tal proposito il linguista Leonard Bloomfield afferma che “la scrittura non è un linguaggio, ma

semplicemente un modo di registrare il linguaggio per mezzo di segni visibili”. Quest’affermazione a

favore dell’oralità tende a relegare la scrittura in secondo piano poiché questa si dimostrerebbe utile

soltanto in contesti scientifici e letterari[14]

.

Perché il primato spetta alla scrittura?

Nonostante quanto sostenuto da Platone e da altri, è innegabile che la scrittura ha modificato

profondamente il pensiero umano, conferendogli un’articolazione e un’organizzazione che

l’espressione orale non conosceva. Senza la scrittura, un individuo alfabetizzato non saprebbe e non

potrebbe pensare nel modo in cui lo fa, non solo quando scrive, ma anche quando si esprime in forma

orale. La scrittura, infatti, ha trasformato la mente umana più di qualsiasi altra invenzione[15]

.

Essa si è subito imposta come codice più unitario e omogeneo nella sua struttura, il pensiero è più

organizzato, senza frammentazioni. La comunicazione orale, invece, quando non è pianificata, è duttile,

permeabile e variamente adattabile, non riesce a nascondere le correzioni e le rettifiche apportate di

volta in volta da colui che parla. Inoltre la lingua scritta fissa modelli e regole cui la tradizione orale fa

riferimento[16]

.

Al contrario del linguaggio orale, la scrittura è artificiale: infatti non vi è modo di scrivere in modo

naturale, al contrario dell’esposizione orale.

Dire che la scrittura è artificiale non deve essere, però, inteso come un limite, anzi è il contrario: essa,

più di ogni altra creazione artificiale, ha un valore inestimabile, poiché è essenziale allo sviluppo più

pieno dei potenziali umani interiori[17]

. Infatti, la scrittura non si limita ad essere un aiuto esterno, ma

trasforma la struttura mentale di chi scrive e legge, consentendo di trasmettere il proprio pensiero e di

apprendere il pensiero altrui, al di là degli specifici contesti temporali e spaziali.

A partire dal XIX secolo alla scrittura è stato riconosciuto un ruolo dominante perché ha dotato il

linguaggio di permanenza e autorità. La parola parlata era “madre” di quella scritta, ma data la sua

carenza nell’organizzare il discorso, doveva necessariamente essere subordinata a quest’ultima e quindi

aveva un ruolo di secondo piano[18]

.

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La scrittura ha portato una tradizione nuova e ha comportato un nuovo modo di trasmissione e

creazione. Essa ha liberato l’uomo dal dovere di memorizzare tutto ed ha consentito sviluppo e

progresso dell’umanità[19]

.

Per alcuni studiosi, poi, la critica di Platone nei confronti della scrittura non è una condanna nei

confronti dello scritto, ma l’ammonimento che “la verità non si apprende banalmente dai libri o dai

testi scritti in generale, bensì dall’indagine interiore e dal dialogo continuo”.

La ricerca della filosofia deve essere continuata al di là dello scritto e d’altra parte la stessa

incomunicabilità di alcune dottrine porterebbe a far pensare che non solo la scrittura, ma anche l’oralità

non sia in grado di trasmetterle[20]

.

Chi prevale?

Da quanto evidenziato nei due paragrafi precedenti è difficile decidere quale tra fonte orale e quella

scritta sia la più importante. Infatti, se da un lato la parola è nata prima della scrittura ed è stato l’unico

mezzo che per millenni ha permesso la comunicazione tra i popoli, da un altro la scrittura è stata la

principale fonte di conoscenza del passato. E’ indubbio anche che la scrittura non può né riesce a

sostituirsi alla comunicazione orale, né l’oralità può sostituirsi alla scrittura.

Il predominio della scrittura rispetto all’oralità, però, la si può evincere proprio dai riportati passi di

Platone.

Infatti, la critica alla scrittura di Platone presenta un punto debole, in quanto il filosofo per dare

efficacia alle sue obiezioni si serve proprio dello scritto; anche l’ulteriore critica espressa dal filosofo

nella Lettera VII presta il fianco al riconoscimento della superiorità della scrittura.

Se invece si volesse ritenere, come sostenuto da alcuni studiosi, che esista una dottrina segreta che

Platone ha preferito comunicare solo oralmente e solo ai propri allievi, di questa parte della filosofia

platonica non è rimasta memoria.

È, poi, un dato oggettivo che il pensiero di Socrate è pervenuto ai posteri proprio grazie agli scritti del

suo allievo e che lo stesso pensiero filosofico platonico è giunto alle generazioni future attraverso i suoi

scritti.

Va, quindi, condivisa l’affermazione di Havelock che “inconsciamentetutta l’epistemologia platonica

si fondava proprio sul rifiuto del mondo della cultura orale… – pur difeso strenuamente dal Socrate

del Fedro – e sull’accettazione della prevalenza della vista sull’udito derivata dalla scrittura…”[21]

.

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Note

1 L. GEYMONAT, Storia della filosofia, vol. I, Garzanti, Milano, 1980, pag. 67

2 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia,

Paravia, Milano-Torino, 2012, pag. 187

3 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 187

4 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 189

5 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191

6 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 193

7 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191

8PLATONE, Fedro, 274c-276a, trad. it. di P. Pucci, Laterza, Roma-Bari, 1971

9PLATONE, Lettera VII, trad. it. di A. Maddalena, Roma-Bari, 1966

10 G. REALE, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, BUR Biblioteca Università Rizzoli, Milano,

1998, pp. 115-120

11 N. ABBAGNANO – G. FORNERO, op. cit., pag. 191

12 S. RAFFAELE, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari, 2004, 15°ed.

13W.J. ONG,Oralità e scrittura: le tecnologie della parola,Il Mulino, Bologna, 1986

14 E.A. HAVELOCK in https://comunicazionetestuale.wordpress.com/intro/havelock

15 W.J. ONG,op. cit.

16S. RAFFAELE, op. cit.

17 W.J. ONG, op. cit.

18E.A. HAVELOCK, op. cit.

19 J. R. GOODY in it.wikipedia.org/wiki/Jack_Goody

20 PLATONE, Lettera VII, init.wikipedia.org/wiki/Lettera_VII

21E.A. HAVELOCK, Preface to Plato, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, trad. it.

Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1973

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Oltre i sentieri interrotti

Di Matteo Russo

Introduzione

Ad ogni azione corrisponde una reazione

Il terzo principio della dinamica dice che: “se un corpo A agisce con una forza su un corpo B, il

corpo B reagisce sul corpo A con una forza che ha la stessa intensità e direzione, ma il verso

opposto”(1)

.Cioè, secondo Newton: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

Questa legge fisica si può adattare alla filosofia, infatti l’enunciato focalizza a pieno Platone: egli è

spinto dal degrado morale della società a dare una risposta, una scossa, esponendo le sue dottrine

tramite il mezzo più semplice che potesse trovare, quello che coinvolge tutti, il mito.

Dal punto di vista politico, il tempo di Platone è caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro della Grecia

periclea. La sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, il fallimentare esperimento aristocratico

dei Trenta tiranni e il deludente ritorno di una democrazia ben diversa da quella precedente e presto

bagnata dal sangue di Socrate: sono tutti avvenimenti che concorrono a delineare un vistoso quadro di

decadenza. Analogo scadimento troviamo nell’ambito culturale, segnato dall’esasperazione della

sofistica e dalla dissoluzione del socratismo nelle varie scuole minori.

Platone, essendo un aristocratico, è portato ad avvertire più di altri la crisi imperante e a desiderare

rinnovate ‘stabilità’, soprattutto politiche. Essendo un filosofo, invece, è indotto a radicalizzare

intellettualmente la situazione problematica e a viverla come crisi dell’uomo nella sua totalità, e non

solo della politica in senso stretto.

Per questi motivi, egli comincia a idealizzare la figura di Socrate, che ai suoi occhi diviene un simbolo

della crisi e al tempo stesso della speranza di superarla. Infatti, se si è giunti a uccidere l’uomo più

giusti di tutti, vuol dire, secondo Platone, che il malessere della società è pervenuto al suo punto-limite.

Egli ritiene infatti che la crisi etico- politica derivi in primo luogo da una crisi di tipo intellettuale : si

convince sempre di più dell’insufficienza di un semplice mutamento di forme governative e

dell’improrogabile necessità di una riforma globale dell’esistenza umana.

Tesi

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Assaggi di Filosofia Platone

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Mito: mezzo per superare il limite

In linea generale si può dire che il mito in Platone rivesta due significati fondamentali.

In un primo senso, il mito è uno strumento di cui il filosofo si serve per comunicare in maniera più

accessibile e intuitiva le proprie dottrine all’interlocutore. Da questo punto di vista il mito è

un’escogitazione didattico- espositiva, concepita ai fini della comunicazione intellettuale.

In un secondo senso, più profondo, il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per poter parlare di

realtà che vanno al di là dei limiti entro i quali l ‘indagine rigorosamente razionale deve contenersi. In

altre parole, la filosofia, avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente si trova spesso

a doversi muovere ai confini del pensabile, cioè di fronte a ‘sentieri interrotti’ ( per usare

un’espressione del filosofo novecentesco Martin Heidegger), che la costringono a tornare indietro,

oppure a procedere per un’altra via, che Platone individua nell’allusione mitica. Da questo punto di

vista il mito è qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca filosofica, permettendole in alcuni casi

di formulare una teoria verosimile che, come tale, non è né una semplice favola, né un’argomentazione

pienamente dimostrativa, bensì qualcosa che, pur essendo indimostrato e indimostrabile, si può

ragionevolmente ritenere vero.

Si noti come il mito platonico abbia senso solo se visto in stretta connessione con il discorso filosofico,

in rapporto al quale riveste un valore persuasivo e complementare. Ciò non esclude, tuttavia, che il

mito possieda una profondità e una ricchezza di rimandi proprie, che nessuna lettura razionale di esso

potrebbe esaurire. Inoltre, l’uso dei miti, se da un lato rende più difficile l’interpretazione della filosofia

platonica, poiché in qualche caso non si capisce bene dove finisca il mito e cominci la filosofia, e

viceversa, dall’altro lato conferisce al platonismo un aspetto inconfondibilmente suggestivo, che ha

contribuito, nel tempo, alla sua fortuna presso un pubblico più vasto.

In alcuni casi il mito ha una funzione ausiliaria: esso traduce i concetti in immagini, facilitandone così

la comprensione. E’ questo il caso del mito della caverna narrato da Platone nel settimo libro della

Repubblica. In esso si ritrova – espressa nel linguaggio accessibile del mito – tutta la teoria platonica

della conoscenza, ma anche si ribadisce il rapporto tra filosofia e impegno di vita: conoscere il Bene

significa anche praticarlo; il filosofo che ha contemplato la Verità del Mondo delle Idee non può

chiudersi nella sua torre d’avorio: deve tornare – a rischio della propria vita – fra gli uomini, per

liberarli dalle catene della conoscenza illusoria del mondo sensibile:

“«Osserva ora» io dissi «che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dai loro legami e la

guarigione dalla loro follia, se per natura accadesse loro qualcosa di questo genere. Quando uno fosse

sciolto e improvvisamente costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare, ad alzare lo sguardo

verso la luce, tutto questo facendo soffrirebbe e a causa del riverbero non potrebbe fissare gli occhi

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sugli oggetti di cui prima vedeva le ombre; che cosa credi risponderebbe, se qualcuno gli dicesse che

prima vedeva semplici illusioni, e che ora, più vicino all’essere e rivolto verso oggetti dotati di

maggiore esistenza, vede in modo più corretto, e se inoltre, mostrandogli ognuno degli oggetti che

sfilano, gli chiedesse che cosa è, e lo costringesse a rispondere? non credi che sarebbe in difficoltà e

riterrebbe che ciò che vedeva prima era più vero di quel che adesso gli si mostra?»”(2)

Il mito del Demiurgo, nel Timeo, ha una funzione diversa; esso costituisce infatti il “discorso

verosimile” del quale ci si deve accontentare per l’impossibilità di pervenire, sulla questione

dell’origine dell’universo, a un “ discorso vero”, cioè dimostrabile mediante concetti ben fondati:

“Timeo – Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo. Egli era

buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle

che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini

prudenti come la principale cagione della generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente.

Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese

dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente,

e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è

lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella.”(3)

Certe volte Platone, invece, si serve del mito come “scorciatoia” rispetto alla via lunga e ardua della

spiegazione razionale, come il mito del carro alato nel quale divide l’anima in tre parti, una razionale,

una irascibile e una concupiscibile:

“Tale è la legge di Adrastea. Che qualunque anima, divenuta seguace di un dio, abbia scorto qualcosa

della realtà vera, fino all’orbita successiva sia sana e salva, e, qualora abbia sempre la capacità di

fare ciò, sia incolume per sempre; qualora invece, non essendo riuscita a farsi guidare, non abbia

visto, e, colpita da qualche accidente, riempita di oblio e di cattiveria, sia divenuta pesante, e, una

volta appesantita, perda le penne e cada verso la terra, allora c’è una legge che questa non si impianti

in nessuna natura ferina nella prima generazione, ma che quella che ha visto di più si impianti nel

seme di un uomo che diventerà filosofo o amico della bellezza.”(4)

Può presentare anche punti di vista che esprimono solo parzialmente la verità intorno all’argomento

discusso, come il mito dell’androgino:

“Durante il simposio, prende la parola anche il commediografo Aristofane e dà la sua opinione

sull’amore narrando un mito. Un tempo – egli dice – gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano

di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li divide in

due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà e trovando questa torna

all’antica perfezione.”(5)

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Vi sono poi miti che conferiscono a una tesi filosofica l’autorità di una sapienza antica e illustre, come

il mito di Theuth, nel Fedro:

“E così ora tu, per benevolenza verso l'alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo

vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi

la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se

stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la

memoria ma per richiamare alla mente.”(6)

Infine, ve ne sono altri che hanno soprattutto un valore di esortazione morale, come il mito di Er, nella

Repubblica:

“Tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era una pianura priva

d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda

del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a

berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva di piú della misura. Via via

che uno beveva, si scordava di tutto.”(7)

Gli usi diversi che Platone fa del mito nascono comunque tutti dalla consapevolezza che si pensa per

immagini, non solo per concetti, sicché l’alternanza di concetti e immagini rappresenta la forma più

completa e incisiva di comunicazione filosofica.

Antitesi

Mito: sogno della realtà

Per i presocratici il mito ha una funzione totalmente diversa.

La parola mito deriva dal greco mythos che significa parola, discorso, racconto, mentre la

parola mitologia designa l'insieme dei miti tramandati da un popolo ma anche gli studi scientifici sul

mito stesso.

Il mito, propriamente parlando, non è altro che la parola, la più ricca fonte di informazioni della storia

umana, esso può essere considerato un racconto sacro che svela dei misteri e che dà la risposta a molti

interrogativi degli uomini, come sono nati l'universo e l'umanità, come hanno avuto origine gli astri e la

terra, le piante e gli animali e spiega come si sono formate le società civili con l'aiuto degli eroi.

Di fronte all'uomo la natura, la vita, la storia e tutto ciò che lo circonda, appare come un turbinio di

immagini senza senso e il mito diventa quindi un modo per ordinare e conoscere la propria realtà.

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L’uomo non conosce le leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte, del bene e del

male, non comprende i motivi storici che hanno determinato la condizione del suo popolo e davanti a

questo universo di immagini incomposte, che la natura e la vita gli propongono ogni giorno, rischia di

perdersi, di cadere preda dell'ansia e della paura e, solo attraverso i miti, egli trova il senso della realtà,

costruisce l'ordine di quelle immagini, altrimenti incomprensibili.

I miti rivelano l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e

l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.

Il mito è il bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura, è

spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde ad esigenze dell’uomo.

Dunque questi erano creati per superare le paure ma non si avvicinavano neanche a sfiorare la verità,

erano un limite: l’uomo sogna la realtà. Da qui egli sente il bisogno di ottenere una conoscenza piena,

in grado di dare significato ed orientamento alla vita, capace di condurre verso la via della perfezione,

senza mai raggiungerla. Nasce la filosofia. Nasce grande.

Sintesi

Mito: forza attiva nel tempo

Nelle società demolite dalla corruzione, infettate da una profonda crisi morale, nasce un bisogno di

ripartire da zero. L’ istinto porta l’uomo ad aggrapparsi alle cose più semplici, ai mezzi più accessibili,

alle favole, come quelle che vengono raccontate ai bambini prima di andare a dormire. Proprio perché

queste sono considerate inutili, quasi banali, troppo lontane dalla realtà, coinvolgono l’uomo, lo fanno

sentire partecipe. I miti non cambiano la società, bensì servono a dare un pizzicotto, una scossa

all’animo dell’uomo, esortandolo a porsi delle domande: “chi sono? qual è il mio rapporto con gli altri?

Che funzione ho nella società?”

Il mito è dunque un ingrediente vitale della civiltà umana, non favola vana, ma forza attiva costruita

nel tempo.

Note

1. Da I. Newton, PhilosophiaeNaturalis Principia Mathematica, 1687.

2. Da Platone, Repubblica, VII, 370 a.C.

3. Da Platone, Timeo, 360 a.C.

4. Da Platone, Fedro, 370 a.C.

5. Da Platone, Simposio, 375 a.C

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6. Da Platone, Fedro, 370 a.C.

7. Da Platone, Repubblica, X, 370 a.C

Bibliografia

N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 1°, ed.

Paravia, 2012

M. Imbimbo, L. Parasporo, M. Salucci, Viaggio nella filosofia, epoche, autori, opere, temi, vol 1°, ed.

E.G.Palumbo, 2004

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Platone e l’immortalità dell’anima -

Di Massimo Di Genua.

Per fare riferimento all'immortalità dell'anima, dobbiamo citare necessariamente Il Fedone, ovvero il dialogo

relativo all'immortalità dell'anima, che ha come sfondo temporale le ultime ore vissute da Socrate prima di

morire. Allo stato d'animo dei discepoli, tristi per il destino ingiusto del loro maestro, si contrappone la serenità

estrema del filosofo. Egli rassicura i presenti trattando l'argomento fondamentale del Fedone: l'immortalità

dell'anima. Socrate osserva come deve essere aspirazione più alta del vero filosofo la morte: e per questo,

arrivato il momento della morte, il filosofo non si deve affliggere di ciò che ha per lungo tempo desiderato. La

tesi di Socrate è dimostrata con un richiamo alle dottrine orfico-pitagoriche secondo cui il destino dell'uomo è

regolato da Dei ottimi, quelli che il filosofo spera di trovare nell'oltretomba. La vera dimostrazione segue la

credenza enunciata: la morte - dice Socrate - è separazione dell'anima dal corpo; il filosofo non fa del godimento

dei piaceri corporei lo scopo della sua vita, e cerca di liberare, durante la vita, la propria anima dal corpo,

separazione che avviene con la morte; il filosofo, inoltre, aspira alla sapienza, che si raggiunge con l'attività del

pensiero puro, slegata completamente dall'esercizio dei sensi corporei; l'oggetto di tale attività, le idee, infatti

sono intelligibili e non sensibili perciò per la loro conoscenza il corpo è inutile, la morte rappresenta il termine

naturale della vita del filosofo, che con essa vede realizzata la sua maggiore aspirazione. L'attività del pensiero

puro è la sapienza, che è la vera virtù: essa dà valore alle azioni umane e ogni altro valore non è che il riflesso

della sapienza. Virtù non è rinuncia ad un piacere maggiore, ma rinuncia dei piaceri in vista della purificazione

spirituale dal corpo. Queste premesse sono valide se si è certi dell'immortalità dell'anima: argomento da

dimostrare.

Tesi:

Il filosofo Platone parte dalla definizione dell' uomo data da Socrate , e la porta alle estreme conseguenze , a tutti

i livelli . La definizione che Socrate ha dato dell' uomo è stata rivoluzionaria : l' uomo è la sua anima ; il corpo è

lo strumento di cui essa si avvale . Prima di Socrate l' anima aveva differenti significati . In Omero è la larva

inconsapevole che resta dell' uomo che va agli inferi . Negli Orfici è un dèmone , che per un' originaria colpa

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commessa cade in un corpo , da cui , sia attraverso le trasmigrazioni , sia mediante le purificazioni , tornerà a

liberarsi . Ma essa non coincide con la razionalità dell' uomo . Nei Presocratici è stata in vario modo connessa

col principio , ma in modo ancora generico . Con Socrate l' anima diventa ciò per cui l' uomo conosce e

determina la sua vita morale . E da Socrate in poi è questo il senso che la parola anima ha assunto . Ma Socrate

ha lasciato ancora aperto un problema : quello dell' immortalità . Dal punto di vista della credenza , egli

propendeva nettamente per l' immortalità dell' anima ; ma , dal punto di vista teoretico , non aveva ancora

guadagnato quei fondamenti metafisici , in base ai quali questa credenza poteva venir dimostrata razionalmente .

E' appunto questo il problema che Platone si è assunto , con tutte le conseguenze che ne derivano . L' opera in

cui per la prima volta questo problema viene posto in modo radicale è " Il Gorgia " . E proprio sull' impostazione

che Platone dà al problema in questo dialogo bisogna concentrarsi per ben comprenderlo . Socrate il giusto è

stato ucciso , e l' ingiusto sembra invece trionfare . Il virtuoso e il giusto sono in balìa dell' ingiusto e ne soffrono

i soprusi . I viziosi e gli ingiusti sembrano invece felici e soddisfatti delle loro prepotenze . Il politico giusto

soccombe , mentre quello senza scrupoli si impone . Dovrebbe trionfare il bene , e invece sembra che trionfi il

male . Da che parte sta allora il vero ? Callicle , uno dei protagonisti del " Gorgia " , che dà voce alle tendenze

estremistiche che erano maturate in quei tempi con gli epigoni dei sofisti , non esita a proclamare , con sfrontata

impudenza , che la verità è dalla parte del più forte , cioè di colui che sa farsi beffa di tutto e di tutti , sa godersi

ogni piacere , sa soddisfare tutte le sue passioni e sa saziare qualsiasi suo desiderio . La giustizia è una

invenzione , a suo avviso , dei deboli , la virtù é una sciocchezza e la temperanza una assurdità . Chi si astiene

dai piaceri e si modera é uno stolto , perché la vita che costui vive , in realtà , è uguale alla morte . Proprio in

risposta a questa concezione estrema Platone recupera le verità orfico - pitagoriche , le fonda sulle basi della sua

metafisica , spingendo molto oltre Socrate , anche se sulla scia da lui tracciata . Callicle e tutti coloro di cui

Callicle è simbolo dicono che la vita del virtuoso , che mortifica gli istinti , è vita senza senso , e quindi morte .

Ma che cosa è la vita e che cosa la morte ? Non potrebbe aver ragione chi dice : " Chi può sapere se vivere non

sia morire e morire non sia vivere ? " . E' chiaro allora che per Platone diventa risolutiva proprio la risposta a

quel problema che Socrate aveva volutamente lasciato insoluto , ossia il problema dell' immortalità e delle sorti

escatologiche dell' anima . Infatti , se l' anima fosse mortale e se , con la morte del corpo , anche lo spirito dell'

uomo si dissolvesse , allora la dottrina di Socrate , da sola , non basterebbe a confutare quella di Callicle . Per

conseguenza , la dottrina dell' immortalità emerge in primo piano e conferisce una nuova dimensione all' etica e

alla politica . Vivere per il corpo , come fanno molti uomini , significa vivere per ciò che è destinato a morire ;

vivere , invece , per l' anima significa vivere per ciò che è destinato ad essere sempre . L' uomo giusto che in

questa vita viene ucciso , perde il corpo , ossia ciò che é mortale , ma salva l' anima , che è , invece , immortale .

E' evidente dunque che le prove dell' immortalità dell' anima rivestono una grandissima importanza nel pensiero

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di Platone , perché devono portare questa problematica dal piano della semplice credenza a un piano filosofico di

dimostrazione razionale coerente e consistente . Platone si concentra su questo problema nel " Fedone " . Delle

tre e molto complesse e articolate prove dell' immortalità , qui ricordiamo il nocciolo della seconda ,

particolarmente significativo . L' anima umana è capace di conoscere cose " immutabili ed eterne " . Ma la

condizione necessaria e indispensabile per cui essa possa conoscere queste cose , è che essa abbia una natura

loro affine , altrimenti queste rimarrebbero al di fuori delle sue capacità . Ebbene , come quelle cose sono

immutabili ed eterne , così anche l' anima deve essere ontologicamente immutabile ed immortale . E' questa una

prova che porta alle estreme conseguenze il principio , già ben radicato nel pensiero greco , che solo il simile

conosce il proprio simile , ma riguadagnato sul piano metafisico , sulla base della scoperta del mondo

intelligibile delle idee . Un' altra prova dell' immortalità dell' anima è che essa , per dirla proprio alla Platone ,

partecipa più di ogni altra cosa all' idea di vita e , di conseguenza , come potrebbe partecipare anche a quella di

morte ? Ulteriori prove Platone le fornisce nella " Repubblica " e nel " Fedro " . Nella " Repubblica " mostra che

i mali del corpo distruggono il corpo , quelli dell' anima , anche portati alle estreme conseguenze , non la

distruggono ; il che significa appunto che è incorruttibile . Nel " Fedro " , infine , la prova viene concentrata

intorno al concetto di automovimento . Ma la questione decisiva per risolvere in modo razionale il problema

posto nel " Gorgia " , è quella strettamente connessa all' immortalità , ossia il problema della sorte dell' anima

dopo la morte dell' uomo . La soluzione di questo problema Platone l' ha affidata ai grandi miti del " Gorgia " ,

del " Fedone " e della " Repubblica " . Il nucleo concettuale che permane identico nelle complesse variazioni e

differenziazioni immaginifiche che vengono presentate in questi miti è il seguente . I buoni riceveranno un

premio per le loro virtù . Quelli che vissero una vita media , e quindi commettendo colpe sanabili , sconteranno

una pena che li purificherà dall' ingiustizia commessa , mediante la sofferenza , perché dall' ingiustizia , afferma

Platone " non ci si può liberare in modo diverso " . Quelli che commisero ingiustizie insanabili saranno

condannati nell' Ade a soffrire i patimenti più grandi . Fra le molte affermazioni che Platone fa sulle sorti delle

anime nell' al di là , ne ricordiamo due del " Gorgia " , particolarmente rilevanti . Il supremo giudizio viene fatto

sull' anima spoglia del corpo e di tutto ciò che sulla terra è legato alla dimensione del corporeo . E nell' anima di

colui che viene giudicato " resta tutto ben visibile quando si sia spogliata del corpo e le sue caratteristiche

costituzionali e le affezioni che l' uomo le ha procurato , mediante il modo di comportarsi in ciascuna circostanza

" . Inoltre , Platone afferma che Zeus costituì come giudici nell' al di là tre suoi figli . In questa affermazione fa

veramente impressione l' analogia con l' affermazione evangelica " Il Padre non giudica nessuno , ma affida il

giudizio al figlio " . Questa concezione dell' al di là si intreccia con la dottrina orfico-HYPERLINK

"http://www.geocities.com/diego_fusaro_2000/pitago.html" pitagorica della metempsicosi , che può portare le

anime vissute in modo malvagio a reincarnarsi in corpi di animali , con cicli complessi , che nel " Fedro

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"vengono presentati come concludentisi , in ogni caso , con un ritorno alle origini divine dopo 10000 anni , e

3000 per i filosofi che hanno saputo vivere la loro vita per tre volte consecutive in dimensione dell' amore

filosofico . Ma lasciando questo quadro dell' immaginario che Platone stesso ci ha detto di intendere non già vero

nei particolari , ma solo nel " suo significato di fondo " , traiamo le conclusioni su questo punto . Il pensiero

essenziale dell' etica così come nella politica di Platone sta in questo . Ciascuno deve cercare di fare ordine nel

disordine delle passioni del proprio animo , così come deve cercare di portare ordine nel disordine che si trova

nella società e nello Stato . Fare questo significa " portare unità nella molteplicità e mediare le varie scissioni con

la giusta misura in tutti i sensi " . Questo Platone ci dice in varie maniere sia nella " Repubblica " , sia anche

nelle " Leggi " . E fare questo significa operare come il Demiurgo quando ha prodotto il mondo , trasformando l'

originario caos nel cosmo , legando i molti con l' uno e l' uno coi molti . La " imitazione di dio " , che Platone a

più riprese indica come fine supremo dell' etica così come della politica , consiste appunto nell' agire come ha

agito dio , producendo il mondo , il quale altro non é che cosmo e ordine.

Antitesi:

Nel 1869 Friedrich Nietzsche fu chiamato a insegnare filologia all’Università di Basilea. Negli anni 1871-1872,

1873-1874 e 1876 tenne corsi su Platone. Nietzsche aveva l’abitudine di preparare le proprie lezioni

tracciandone lo schema o scrivendole per intero: la pagina che segue proviene dagli appunti per il corso del

1876, e ci sembra una sintesi molto chiara ed efficace della dottrina platonica dell’anima. Naturalmente

Nietzsche non è un espositore neutrale del pensiero platonico: egli ha grande ammirazione per la filosofia di

Platone e ancora di più per l’uomo Platone (nella Introduzione delle lezioni all’università di Basilea egli scrive:

“La teoria delle Idee è qualcosa di stupefacente [...]. L’uomo è ancora più interessante dei suoi libri”); ma non

può fare a meno di mettere in evidenza come nel platonismo la realtà delle Idee e l’affermazione

dell’immortalità dell’anima tolgano ogni valore al “mondo empirico” in cui viviamo, e portino a considerare il

corpo come “prigione” (a questo proposito si veda, ad esempio, Cratilo, 400 c, dove il corpo è definito séma –

“tomba” – dell’anima). Le parole greche usate da Nietzsche significano: “le cose che sono”, “enti” (ónta);

“identico” (íson); “bene” (agathón); “conoscenza”, “scienza” (epistéme); “ricordo”, “reminiscenza” (anámnesis).

Maya nell’antico peniero indiano rappresenta l’illusione, la manifestazione illusoria che copre come un velo la

realtà. La testimonianza di Filolao (filosofo pitagorico contemporaneo di Platone) richiamata da Nietzsche è

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riportata nei Frammenti dei presocratici di Diels e Kranz (ffr.44 B 14-15, 22), dove fra l’altro si legge: “Il

pitagorico [Filolao] dice così: “Anche gli antichi teologi e gli antichi vati testimoniano che per espiare qualche

colpa l’anima è unita al corpo e in questo sepolta””; “Euxiteo pitagorico [...] diceva [...] che tutte le anime sono

legate al corpo e alla vita di quaggiù per espiare” (fr. 14).

L'anima quindi, secondo Nietzsche, è solo un'immagine metaforica e semplicistica della ricchissima varietà di

desideri, inclinazioni e sensazioni che attraversano il corpo in ogni istante: questa rivendicazione della natura

terrestre dell'uomo è implicita nell'accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco e

dell'immagine dell'oltreuomo. La Terra non è più l'esilio e il deserto dell'uomo, ma la sua dimora gioiosa.

Smentita dell’antitesi:

Ma il primo argomento a favore dell'immortalità dell'anima è quello dei contrari: il divenire avviene sempre

come passaggio da un termine al suo opposto; ma per questo stesso principio dal termine raggiunto si deve

tornare al primo e quindi il processo dev'essere ciclico. Noi vediamo, per esempio che dalla veglia si passa al

sonno e viceversa: se infatti dal sonno non si tornasse alla veglia, tutti gli esseri assumerebbero uno stato

uniforme di sonno. Ora possiamo applicare lo stesso ragionamento ai contrari vita e morte: oltre al passaggio

dalla vita alla morte ci dev'essere anche il passaggio inverso, secondo la legge generale. Al contrario, la natura

assumerebbe uno stato uniforme di morte. Così i vivi, rinascendo, si generano dai morti: dunque è necessario che

le anime, dopo la morte dei corpi, non cessino di vivere, ma continuino, pronte per una nuova vita. Un secondo

argomento è quello della reminiscenza: conoscere, per Platone è ricordare le idee intuite in un'esistenza anteriore

e da ciò deriva che l'anima vive numerose vite, ovvero che è immortale. La tesi di Platone è fondata su due

prove:

1) Se si interroga abilmente qualcuno su questioni d'una disciplina da lui non studiata, egli saprà dare risposte

giuste e risolvere quelle questioni (cfr. “Menone”); ciò dimostra che egli sapeva già ciò su cui sa dare risposte.

2) Noi, nel vedere gli oggetti sensibili, corriamo con la mente al loro modello ideale; questo vuol dire che noi

abbiamo già una conoscenza dei modelli ideali, poiché altrimenti, non potremo pensarli. Quest'ultima prova è

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fondata su una delle leggi dell'associazione delle idee: quella della somiglianza, secondo cui una

rappresentazione o un fatto psichico in genere tende a far risorgere nel nostro spirito i fatti psichici simili, di cui

nel passato abbiamo avuto esperienza. Egli vuol dimostrare che, siccome noi, percependo gli oggetti sensibili,

somiglianti alle idee (cioè sono loro" imitazioni"), corriamo con la mente alle idee stesse, dobbiamo aver già

conosciuto tali idee, e ora non facciamo che ricordarle, in seguito alla percezione degli oggetti sensibili, che ce le

rievocano, appunto in forza della legge di associazione per somiglianza. D'altra parte con questo argomento si è

dimostrato solo che l'anima vive già prima del nostro corpo: se noi leghiamo il primo e il secondo argomento,

però, riusciamo a persuaderci dell'immortalità dell'anima. Infatti se l'anima esiste prima della nostra nascita, e,

alla nostra nascita, entra nel corpo, e poi, alla nostra morte, si separa dal corpo, è necessario che continui ad

esistere, affinché possa rigenerarsi. Un terzo argomento è quello della somiglianza che mira a dimostrare la

somiglianza dell'anima alle idee. Queste sono immutabili mentre le cose sensibili sono mutabili: le prime sono

invisibili, in quanto si possono apprendere solo con l'aiuto del pensiero, le ultime visibili: il rapporto fra l'anima

e il corpo è di comandante con il comandante con il comandato. La somiglianza dell'anima alle idee immutabili

ed eterne, fa dell'anima un qualcosa di immortale, invisibile, puro e divino (dal momento che il comandare è

proprio del dio).

BIBLIOGRAFIA

-Platone: "Il Fedone" a cura di Gaetano Capone Braga - La Nuova Italia.

-Platone: "Fedone (o sull'anima)" traduzione a cura di Andrea Tagliapietra - Universale Economica Feltrinelli - I

Classici.

-Nicola Abbagnano/ Giovanni Fornero :"Protagonisti e testi della filosofia" vol. 1° - Paravia.

-Augusto Camera/Renato Fabietti :" Oriente e Grecia" vol. 1° Zanichelli.

-Raffaele Cantarella :" Letteratura Greca - Società Editrice Dante Alighieri.

-E.P. Lamanna : "Nuovo sommario di filosofia" vol. 1° F. Le Monnier - Firenze.

-Ludovico Geymonat : "Storia del pensiero filosofico e scientifico" vol. 1° (L'antichità e il Medioevo) - Garzanti.

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Ma quei miseri spaghetti non ci bastavano , così dovemmo inventarci qualcos’altro. Svuotammo il

congelatore di tutti i suoi prodotti surgelati , ovvero patatine, crocchette, filetti di pesce, e tutto ciò che

trovavamo , li mettemmo nel forno e appena cotti,riprendemmo a mangiare .Il discorso non si sapeva più

che piega avesse preso , oramai parlare di tutto ci veniva così naturale che non riuscivamo a smettere .E tra le

tante cose da dire , non potevamo non parlare dell’amore.

Alla ricerca dell'essere compiuto

Di Aristidea Cavaliere

INTRODUZIONE

Platone nacque ad Atene nel 427 a.C da famiglia aristocratica, discepolo di Socrate e fedele ai suoi insegnamenti

nel pieno della sua vita elebora una propria dottrina, detta anche "teoria delle idee", nella quale affronta tra i vari

temi anche quello dell'amore.

Il mito degli androgini: l'incompletezza dell'essere.

"Dunque al desiderio e alla ricerca dell'intero si dà nome amore"1.

Secondo Platone l'amore è insufficienza, figlio di Penia (Povertà)e Poros (Abbondanza) ci viene descritto come

un demone, dalla natura intermedia tra quella umana e quella divina che aspira a possedere la sapienza (solo gli

dei a tutti gli effetti sono sapienti) e dunque è anche filosofo. La conclusione di amore come mancanza si evince

però dal mito degli "androgini", detto anche "mito di Aristofane" in quanto Platone si da voce attraverso lo stesso

nello spiegare la sua concezione di amore. Gli esseri umani delle origini appartenevano a tre generi: il maschio,

la femmina e l'androgino, provvisto di entrambi gli organi riproduttivi e infatti "i sessi erano tre, in quanto il

maschio ebbe origine dal sole, la femmina dalla terra, e il terzo sesso, che aveva elementi in comune con gli

altri due, dalla luna, che partecipa appunto della natura del sole e della terra..". Gli uomini, desiderosi di salire

alla sede degli dei fecero arrabbiare Zeus, invidioso della perfezione, della forza e della felicità che li

caratterizzava e cosi decise di dividerli in due, cosi come spiega Gramellini : "Zeus ebbe un'idea-"Io credo-

disse- che abbiamo un mezzo per far si che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla

propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso li taglierò in due e in questo modo il loro numero sarà

più grande e ciascuna delle due parti sarà più debole..ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno

stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due.."

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Assaggi di Filosofia Platone

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Da allora l'androgino vaga in cerca della sua metà del sesso opposto, e la stessa cosa fanno il maschio e la

femmina "dimezzati" che trovano pace solo nel riunirsi alla metà mancante e identica a loro. "L'energia divina

che muove la danza di tutte queste metà si chiama amore ed è uguale per tutti, etero e omosessuali" dice

Gramellini in Buongiorno, La Stampa, 26 giugno 2011. Platone afferma anche che l'amore è bisogno, desiderio

di acquistare e conservare ciò che non si ha2 ed è, come dimostra l'istinto della procreazione, desiderio di vincere

la morte lasciando dopo di noi esseri che ci assomigliano3. L'androgino è proprio questo: un essere con quattro

mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Con quattro

orecchie, due organi per la generazione, si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che

volevano e come spiega Gramellini: "Quando si mettevano a correre, facevano un pò come gli acrobati che

gettano in aria le gambe e fan le capriole; avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la

ruota".

La separazione era ancora più dolorosa del fatto in sè in quanto Zeus dopo aver tagliato uno, chiedeva ad Apollo

di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli

occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto.

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Gramellini afferma che: " Quando gli uomini primitivi furono tagliati, ciascuna delle due parti desiderava

ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un

solo essere. E cosi morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E

quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva

addosso- sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna,

sia che ne incontrasse una di genere maschile. E cosi la specie si stava estinguendo".

Zeus, mosso da pietà, spostò gli organi della generazione sul davanti, mentre fino ad allora gli uomini li avevano

sulla parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Cosi se

un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe cosi riprodotta; ma

se un maschio avesse incontrato un altro maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si

sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo cosi ai bisogni della loro esistenza.

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Non si tratta dunque solo di "gioie" d'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia l'unica

ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. La loro anima evidentemente

cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Dice Platone: " Se, mentre

sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse "che cosa volete

l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere

una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte?

Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che

uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete

più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A

queste parole nessuno di loro dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa

semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con

l'altra anima".

Epicuro: la completezza dell'essere

Il filosofo Epicuro, nato a Samo da genitori ateniesi nel 341 a.C, nella sua dottrina trattò il tema del piacere e

dell'autosufficienza dell'uomo. Egli, a differenza di Platone, afferma che l'amore fisico è connaturale all'uomo,

mentre l'eros va abolito: è passionale e crea nell'uomo un male interiore e siccome il piacere coincide con

l'assenza di dolori identifica in questo sentimento assenza di piacere e dunque di felicità. L'amicizia rimane il

migliore dei sentimenti perchè è distante dalla politica e dall'amore; quest'utimo non garantisce serenità in

quanto non si può conservare libero da sentimenti che procurano dolore come gelosia o il dolore del distacco o la

paura di non essere riamati. L'uomo deve essere libero nel perseguimento del piacere e della felicità in cui esso si

riflette; questo è possibile perchè, secondo Epicuro, l'uomo può trovare serenità ma ha bisogno di se stesso,

dunque non necessita di città, istituzioni, ricchezze e dei, quest'ultimi infatti secondo il filosofo non si occupano

del mondo e delle cose umane. Se si attribuisce alle divinità il governo del mondo questi vengono privati della

beatitudine in quanto nel mondo è presente il male, ma questa è una condizione propriamente divina. L'uomo è

dunque perfettamente autarchico, basta a se stesso: "E riteniamo un grande bene anche l'autarchia, non con lo

scopo di fare uso del poco in tutti i casi, ma con lo scopo di accontentarci del poco nel caso in cui non abbiamo

il molto, convinti autenticamente che con il massimo piacere godono del lusso quelli che minimamente ne hanno

bisogno, e che tutto ciò che è naturale è facile da procurare, ciò che invece è vano è difficile da procurare.[...]

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l'abituarsi nei modi di vivere semplici e non dispendiosi rende l'uomo deciso di fronte ai bisogni necessari della

vita[...] e ci rende impavidi di fronte alla sorte" 4 . Un'autosufficienza legata necessariamente al piacere che va

perseguito, poiché esso è sempre bene, da ricercare in ogni situazione e circostanza, ma che deve essere

controllato e non deve divenire da posseduto possessore.

L'amore è la completezza dell'essere

Evidentemente sin da quei tempi lontani è innato in noi uomini il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per

riformare l'unità persa e facendo di due esseri un'unico: solo cosi potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque

ciascuno di noi è frazione dell'essere originario completo, ogni persona ha un suo essere complementare, perché

tagliato in due "come le sogliole". La continua ricerca è proprio per questa ragione: non due ma un'anima sola.

Platone afferma che: " Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore" 5.

Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera del 21 agosto 2009 scrive: " La sacerdotessa Diotima dice che

quello che non possediamo vogliamo possederlo per sempre. Un accento sulla morte. L'uomo rifiuta la morte.

Vuole il Bene, e la Bellezza, per sempre. Come è possibile? è possibile rientrando nel tutto che ci ha

generati[...]perché producendo un altro essere si produce immortalità. Essa è necessario che si desideri assieme

al bene, se è vero che eros è rivolto al bene, a possederlo per sempre". Da questo discorso deriva

necessariamente che eros sia eros anche di immortalità.

La mia tesi è quindi che l'uomo non può bastare a se stesso, ma ha bisogno di qualcun altro che lo completi, la

ricerca di questo completamento è identificabile nella vita stessa e "l'altro" nell'anima gemella.

Note

1. Platone, Simposio,192e-193a, trad. it. Franco Ferrari

2. Platone,Simposio, 200a ss

3. Platone,Simposio, 208a-b

4. Epicuro, Lettera a Meneceo, 130-131

5. Platone, Simposio

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Bibliografia

Platone, Simposio

Gramellini, Platone, Il mito degli androgini, Buongiorno, La Stampa, 26 giugno 2011

Epicuro, L'autarchia

G. Montefoschi, L'amore è tutto ciò che ci manca. Parola di Platone, Corriere della Sera del 21 agosto

2009

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Platone cristiano:

Reinterpretazione medievale dell’amore

di Francesca De Falco

I cristiani nell’impero romano dovettero confrontarsi con la filosofia platonica in un ambiente pieno di

pregiudizi e pronto a misure repressive nei loro confronti. Essi potevano ottenere diritto di cittadinanza

solo con un’ ottima condotta, dimostrando lealtà politica e la consapevolezza delle loro convinzioni.

Era perciò vitale misurarsi col mondo romano sul terreno della cultura; dunque adottare il linguaggio,

le dottrine e i metodi del platonismo contemporaneo. Infatti quando, a partire dalla metà del II secolo, i

cristiani iniziarono il confronto esplicito con la cultura greco-romana, il platonismo costituiva

l’orizzonte teorico entro il quale si strutturava gran parte dell’attività filosofica, letteraria e scientifica

degli intellettuali.

Da qui la cultura, fortemente influenzata dal Cristianesimo, attraversando il lungo corso del medioevo è

passata da un’interpretazione allegorica, che all’epoca si applicava sia ai testi sacri che non, ad un

completo travisamento di concetti.

In questo saggio ci occuperemo, infatti, di sottolineare gli errori giunti fino a noi, rispolverando le idee

originali di Platone.

Amore platonico

Amore platonico è un modo usuale di definire una forma di amore sublimata, che tuttavia non esclude

la dimensione sessuale e passionale. Infatti Platone considera l'attrazione fra i corpi il primo dei vari

livelli di "amore platonico", benché egli aggiunga che questo livello vada abbandonato per giungere a

quelli superiori (A. per l'anima,per le leggi e le istituzioni, per le scienze, assoluto). Questa formula in

realtà scaturisce da un contesto filosofico in cui l'amore, inteso come moto dell'animo e non come

forma di relazione, viene interpretato come impulso al trascendimento della realtà sensibile, del mondo

delle apparenze, capace di muovere la conoscenza verso l'assoluto, attuando cioè un processo di

indiamento, come illustrato ad esempio nel pensiero di Giordano Bruno.

La principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d'oggi abbiamo

in mente un amore biunivoco, dove i due amanti si amano reciprocamente. Ai tempi di Platone era

univoco: uno amava e l'altro si faceva amare. Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco, che

Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi secondo cui poteva

venirsi a creare una situazione di "specchio": In realtà l'amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso

perchè vede riflessa la propria bellezza.

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Platone ci parla dell'amore(in Greco "eros",che designa l'amore passionale ed irrazionale,diverso da

"agapè",l'amore per il dio) nel “FEDRO” nel quale, in realtà, gli argomenti trattati sono due: l’ eros e

la retorica. Quella di Platone,oltre ad essere un'epoca di passaggio tra oralità e scrittura, è anche

un'epoca in cui ci si chiede come si fanno ad educare i cittadini e Platone ritiene che sia necessario

insegnare la filosofia. Il protagonista è Socrate ,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di

Platone sebbene man mano che l'autore matura tenda a sfumare, il quale si imbatte in Fedro, un suo

discepolo, che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole e

Fedro mostra a Socrate un'orazione di Lisia, uno dei più grandi oratori greci. E’ un'orazione riguardante

l'amore a carattere "sofistico", si cercano cioè di dimostrare cose paradossali con l’uso della retorica:

Lisia cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama partendo dal presupposto che

l'amore sia una "follia" e che concedersi a chi ama è una stoltezza poiché si avrebbe un amore troppo

intenso che, se mai dovesse sciogliersi, farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante e poi,

passato l'ardore iniziale, si torna in sè e ci si rimprovera delle cose fatte continuando a soffrire. Con una

persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt'altro modo: più che altro si penserebbe ad

essere felici. Socrate a sua volta conferma la tesi di Lisia e poi parla dell’amore come "demone"(1). Ora

capire se l’argomento del “Fedro”sia l’amore o la retorica è superfluo, fatto sta che nel "SIMPOSIO"

esamina meglio il ruolo dell’amore.

Durante i simposi veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di scegliere un argomento

di cui trattare al banchetto. Si sceglie di parlare dell'amore e fra chi dice che Eros è la divinità più

giovane e più bella,chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto,chi sostiene che sia

una forza cosmica che domina la natura,chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti

di eternarsi procreando, c'è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare

perfino la guerra (facendo riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della

guerra,sarebbe innamorato di Afrodite) e Aristofane che narra una storia semiseria: si tratta di un mito,

quello degli androgini, secondo il quale gli uomini un tempo erano sferici e doppi.

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Questi esseri si sentivano forti e perfetti così peccarono di tracotanza e gli dei per punirli li tagliarono a

metà e per ricucirli fecero loro un nodo (l'ombelico) sulla schiena e lo posizionarono sulla pancia

perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso. Da quel momento

questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la

trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare morendo così di fame. Perciò

gli dei crearono l'atto sessuale che consentiva loro di trovare un appagamento da questa unione.

Socrate conclude citando un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite: tra le

varie divinità ci sono anche Poros (astuzia,ricchezza) e Penia (povertà) che, ormai ubriachi per

l'eccessivo bere, si uniscono concependo Eros,che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: è

ignorante,povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non è bello, ma sa

andare a caccia della bellezza, svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato ed è privo anche di

bontà poiché chi è non è bello fuori non è buono dentro.

Tutto ciò è un riferimento alla filosofia, infatti, per Platone vi è un livello intermedio tra il sapere e

l'essere ignoranti. La posizione intermedia non è un male perchè è uno stimolo per arrivare in cima alla

vetta della sua scala gerarchica del sapere e della bellezza: chi si trova nella posizione più bassa sa di

non potersi elevare e neanche ci prova, chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è

già nella posizione ottimale. Così chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i

filosofi,che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere)

Inoltre la sacerdotessa afferma che Eros non è un dio ma piuttosto una semi-divinità: non è un dio ma

neanche un mortale, nasce e muore di continuo volendo dimostrare che non si può mai possedere

totalmente l'amore, quindi la sapienza.

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Nel medioevo, tuttavia, questo viene perso e la bellezza e il sommo bene non sono che sinonimi di

Dio.

(2)

Nel periodo della Scolastica, detta anche scuola aristotelico-tomistica, il pensiero di Platone viene

travisato passando prima tra le mani dei padri della chiesa come sant Agostino.

Questi non avevano come fine ultimo il conoscere le opere e gli autori classici, bensì quello di

avvicinarsi a Dio per assicurarsi una salvezza.

Ovviamente però la chiesa si nutriva di alcuni preconcetti e basi (come ad esempio preservare la

verginità fino al matrimonio) per le quali ancor oggi parlare di amore platonico non significa parlare di

ciò che si è detto prima ma bensì di una forma d'amore che non si manifesta con il contatto carnale e

fisico, ma è spirituale, fatto di gesti, emozioni. Questa forma d'amore, abbastanza bizzarra oggi,

considerando il modo in cui il corpo viene esibito e mercificato a discapito della mente, è stata a lungo

celebrata dai poeti e considerato come un amore puro e perfetto. Basti pensare ad autori come Dante.

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(3)

Per questi infatti l’amore è un mezzo per raggiungere il divino ma che però allo stesso tempo va tenuto

a distanza in quanto si potrebbe cadere nell’errore di Petrarca: lodare eccessivamente l’oggetto d’amore

distraendosi dal fine ultimo (Dio). Ci spieghiamo così l’omissione dell’amore carnale visto come

distrazione.

«Il primo bacio non viene baciato dalle labbra bensì dagli occhi», sono le parole di Sarah Bernhardt,

una delle più grandi attrici del XIX secolo, in merito all’amore platonico. Rappresenta bene l’idea

ormai comune di questo tipo di amore, sentito come un amore lontano dai nostri giorni e volto solo ad

un’ elevazione spirituale, un amore puro e perfetto.

Si nota, infatti, come sia diventata una vera e propria convinzione questo tipo di definizione anche in

base ad alcuni aforismi di grandi autori:

<<Dulcinea non sa né leggere né scrivere, e in tutta la sua vita non ha mai visto la mia scrittura, né

alcuna lettera mia, perché il mio ed il suo amore on sempre stati platonici, senza mai andar oltre degli

onesti sguardi. E anche questi, cosí di tanto in tanto, che potrei veracemente giurare che in dodici anni

che son trascorsi dacché l’amo piú della luce di questi occhi, che la terra consumerà, non l’avrò vista in

tutto quattro volte, e di queste quattro può darsi che lei non se ne sia accorta nemmeno una che la

guardavo>>

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15

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<<Il vantato amor platonico (sì sublimemente espresso nel Fedro) non è che pederastia. Tutti i

sentimenti nobili che l'amore inspirava ai greci, tutto il sentimentale loro in amore, sia nel fatto sia

negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia.>>

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1817/32 (postumo 1898/1900)

<<L'amore platonico è il più travagliato.>>

Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo, 1840

<<L'amore platonico è il sentimento che unisce un uomo e una donna, che pur desiderandosi,

rinunziano volontariamente all'intreccio dei corpi, maritando le anime. Fin dove arrivi quest'amore, fino

a quando possa vivere, io non so.>>Paolo Mantegazza, Le estasi umane, 1887.

Quindi possiamo dedurre che noi moderni, per effetto dei secoli precedenti, cadiamo nell’errore di

considerare questo tipo di amore come un amore irraggiungibile, lontano dal corpo, ma come vediamo

non è così, anzi, prima di arrivare alla mente e alle sue facoltà superiori , per così dire, è necessario

farlo passare per il corpo. Infatti l’eros, inteso come amore fisico e carnale è uno stimolo per Platone

ma un divieto per la Chiesa e il Medioevo.

NOTE

1) Spirito interposto fra il mondo del divino e quello dell'esperienza sensibile, partecipe e dispensatore

di facoltà soprannaturali o ispiratore di passioni imperiture.

2) L’origine della Y è individuabile nella lettera semitica waw. La Y (ypsilon) rappresentava l’ultima

lettera dell’alfabeto greco arcaico. In alcuni casi, veniva anche chiamata: «la lettera pitagorica»

(litteraPythagorica). Secondo la leggenda, sarebbe stato infatti lo stesso filosofo a integrarla nella

cultura greca.

Ciò che più conta, però, è il significato che i pitagorici attribuirono alla nuova lettera. Isidoro di

Siviglia, Dottore della Chiesa vissuto del VII secolo, ci dice che la gamba della Y rappresenta la prima

fase incerta della vita di una persona, non ancora dedita né a vizio né a virtù:

Y litteram PythagorasSamius ad exemplum vitae humanaeprimusformavit;

cuiusvirgulasubteriorprimamaetatemsignificat, incertamquippe et quaeadhuc se

necvitiisnecvirtutibusdedit.

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La biforcazione simboleggia invece la fase adolescenziale. A questo punto la persona si trova davanti

due strade diverse. Può scegliere la più difficile, quella della virtù, rappresentata dalla ramificazione

destra. Oppure la più facile, rappresentata da quella sinistra.

Biviumautem, quodsuperest, ab adolescentia incipit: cuiusdextra pars ardua est, sed ad

beatamvitamtendens: sinistra facilior, sed ad labeminteritumquededucens.

La strada della virtù, pur essendo la più ardua, saprà infine ricompensare l’individuo, accogliendolo in

una quieta sede excipiuntur, o sede di pace. Quella sinistra del vizio, invece, condurrà la persona alla

sciagura. La scelta è fra conoscenza e ignoranza, controllo di se stessi ed eccesso, Vita

Contemplativa e Vita Activa.

Ancora oggi è possibile identificare questo significato nella rappresentazione grafica della Y. Il trattino

destro è più stretto di quello sinistro, a dimostrazione del presupposto che la via della virtù è sempre

più difficile da intraprendere di quella del vizio.

3) Quadro datato 1884, “Dante e Beatrice”, Henry Holiday.

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IL SANT’AGOSTINO PLATONICO

DALLA “TEORIA DELLE IDEE” ALLE “CONFESSIONI”

Di Diletta Bergamo

1.La Chiesa e Platone

Il filosofo greco Platone ha influenzato in modo determinante la cultura occidentale. Anche il

cristianesimo trova le sue radici nelle dottrine filosofiche platoniche.

Alcuni teologi hanno manipolato e plasmato concetti platonici per costruire i fondamenti del

cristianesimo. Un ruolo fondamentale in questa operazione hanno avuto i padri della chiesa.

I padri della Chiesa sono teologi che vogliono approfondire i temi del cristianesimo e approfondirli in

modo più sistematico, utilizzando anche concetti tratti dalla filosofia. C'è una Patristica latina: massimo

esponente Sant'Agostino e una Patristica orientale.

Dal IV secolo fino alla fine del XII tutti i maggiori teologi e filosofi cristiani hanno articolato le loro

idee utilizzando come sfondo il platonismo: si parla quindi di platonismo cristiano. Nel periodo tra il

XII e il XIV secolo, invece, il cristianesimo è pensato su un'intelaiatura filosofica aristotelica.

2.Agostino: mediatore tra fede e ragione

Agostino fu il più grande pensatore cristiano ad attuare una matura sintesi tra fede, filosofia e vita,

ritenendo che la fede avrebbe tratto luce e ricchezza dalla ragione e che la ragione a sua volta sarebbe

stata stimolata maggiormente dalla fede. In questa ricerca accanita della fede, l’intelligenza dischiude

gli orizzonti del pensiero e si accoglie questa luce che viene da Dio. Non appena si arriva a conoscere

la verità di Dio si resterà allibiti: il sapere che parte dalla fede. Insomma nacque così il filosofare nella

fede o la filosofia cristiana. Non è una forma di fideismo cieco, per Agostino la fede non sostituisce

l’intelligenza e non la elimina, ma la stimola e la promuove e da canto suo l’intelligenza non elimina la

fede ma la rafforza e la chiarifica “Credo ut intelligam, intelligo ut credam”, (credo per pensare, penso

per credere).

Il conoscere quindi tende alla verità e la verità s’identifica con Dio, ciò fa capire che la maggior parte

delle dimostrazioni d’Agostino sull’esistenza di Dio sono dimostrazioni dell’esistenza di una verità

somma e suprema. Egli non accetta del tutto la gnoseologia platonica, ne rifiuta la reminiscenza e la

sostituisce con l’illuminazione: Dio come nella creazione ci fa partecipi dell’essere, così ci fa partecipi

della verità; essendo Lui stesso la fonte della verità. Agostino diceva che nel momento stesso in cui si

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pretende di negare la verità la si afferma “si fallor, sum” (se dubito, proprio per poter dubitare, esisto, e

se esisto sono certo di pensare). Per lui la sensazione non è un’affezione che l’anima subisce, poiché gli

oggetti sensoriali agiscono sui sensi e ciò non sfugge all’anima, che agisce traendo non dall’esterno ma

dall’interno la rappresentazione di quel oggetto che è la sensazione. Quindi nella sensazione il corpo è

passivo mentre l’anima è attiva. Tutto ciò è solo il primo grado della conoscenza. L’anima grazie alla

ragione le giudica sulla base di criteri che contengono un “plus” rispetto agli oggetti corporei: mutevoli

e imperfetti per il corpo, immutabili e perfetti per l’anima. Tutti questi criteri di conoscenza derivano

da qualcosa che è al di sopra della nostra mente: la Verità. L’intelletto quindi giudica grazie alla verità

da cui è giudicato.

La verità è la misura di tutte le cose e lo stesso intelletto è misurato in base ad essa. La verità può

essere colta col puro intelletto ed è costituita dalla fede, la suprema realtà intelligibile.

Dunque, Sant’Agostino in merito alla conoscenza della verità respinge la dottrina della reminiscenza

sostituendola o meglio ripensandola e trasformandola in quella dell’illuminazione: la verità di Dio è la

luce che illumina la mente umana nell’atto della conoscenza permettendole di cogliere le Idee intere

come verità eterne e intelligibili presenti nella stessa mente divina.

3.Teoria dell’illuminazione

Illuminazione, (teoria della illuminazione), la dottrina per cui la conoscenza è possibile solo in quanto

l'intelletto divino illumina quello umano. Di origine platonica (Fedro 74b, 75; Menone 81 sgg.)

l'illuminazione e connessa alla dottrina dell'anamnesi, secondo la quale apprendere è ricordare ciò che

l'anima ha conosciuto in un periodo anteriore alla vita terrena, venne pienamente sviluppata da

sant'Agostino. Come Platone, Agostino sostiene che la conoscenza è possibile perché l'uomo è in

possesso di criteri assoluti che, non potendo derivare dai dati relativi e mutevoli della sensibilità, sono

indotti nello spirito da un'illuminazione divina; ma, a differenza di Platone, egli afferma che

l'illuminazione non rende presenti all'intelletto le idee (per cui conoscere sarebbe ricordare tali idee, che

unificano il molteplice dell'esperienza), bensì i criteri (le verità astratte, come i numeri, e le regole di

condotta morale assolute) che guidano il procedere della conoscenza (De libero arbitrio, II). Tali verità

però non sono note soltanto a chi è illuminato dalla grazia, ma sono comuni a tutti gli uomini dotati di

intelletto: esse concernono infatti le conoscenze naturali, non le verità di fede, alle quali si giunge

invece solo per il tramite della grazia. Questa concezione sarà ripresa da tutta la tradizione

platonicoagostiniana medievale.

4.Miti e parabole

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Assaggi di Filosofia Platone

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4.1. Mito della caverna e teoria dell’illuminazione

Affinché non sembri forzato e fuorviante un breve raffronto tra Agostino e Platone, è bene sottolineare

che è lo stesso Padre della chiesa ad indicarci di guardare al pensatore greco, il cui mito della caverna

Agostino ha sinteticamente rielaborato all'interno dei “Soliloquia”.

Pur essendo consapevoli del discrimine che separa i due filosofi (la rivelazione), tuttavia non ci sembra

azzardato affermare che l'elemento che li accomuna è la trascendentalità del sole intelligibile spiegata

attraverso l'analogia con il meccanismo della vista. In entrambi la sorgente luminosa è luce per

l'intelletto dell'uomo, è colei che dà l'intelligentia. In entrambi la frontalità dello sguardo è segno di

insufficienza rispetto alla potenzialità di cui è capace. I prigionieri della caverna riescono solo a

guardare dinnanzi a sé, dal momento che le catene impediscono di girare la testa. Lo stesso sguardo

frontale caratterizza, in Agostino, quanti non operano unaconversio interiore dello sguardo. Finché non

si gira la testa e lo sguardo non è in grado di vedere se stesso (il che significa, non è in grado di

pensarsi), l'unica vita concessa all'uomo è l'esteriorità. Non a caso uno dei primi atti che compie il

prigioniero appena le catene sono sciolte è quello di periágein ton auxéna, di girare la testa. Lo sguardo

a trecentosessanta gradi in Platone e lo sguardo interiore di Agostino sono la prima tappa nella ricerca

della fonte della massima visibilità. L'occhio che si libera dalla frontalità è l'occhio della mente che

opera una epistrophé, un cambiamento direzionale verso quella luce di cui partecipano gli stessi

prigionieri nella caverna. Essi infatti vivono nella luce pur non sapendolo. Che altro significano infatti

quell'ingresso aperto alla luce e quel fuoco che brilla nel carcere, se non una fondazione dell'uomo

platonico nella luce? Proprio come l'uomo di Agostino che vive, si muove ed è nella luce, anche l'uomo

di Platone si trova in rapporto con la luce. Una luce che è presente, in qualche modo, anche nella

caverna. Certo, dietro i prigionieri. Ma per quante siano le tenebre e le catene che li sprofondano

nell'ignoranza «l'ingresso» della caverna non verrà mai precluso alla luce. Come in Agostino: l'uomo

può avere lo sguardo guasto, frontale, esteriore, e tuttavia rimane comunque toccato dalla luce. E

l'ingresso di cui parla l'Ateniese pare simboleggiare la condizione della natura umana. D'altra parte, se

non si fosse fondati nella luce e se non si partecipasse di qualche raggio luminoso, come ci si potrebbe

girare per intraprendere il cammino di ricerca verso la condizione che permette di vedere tutto?

Qui però incominciano alcune difficoltà. Chi orienta nel cammino verso la fonte della massima

intelligibilità? Come abbiamo analizzato, per Agostino è un precettore interiore, anche se nel testo della

rielaborazione del mito fa riferimento, contraddicendosi, a maestri in carne ed ossa. Per Platone si

tratta di un maestro esterno che ridiscende nella caverna per liberare gli altri, ma non è escluso che

ognuno di noi possa essere maestro a se stesso. Non che questo implichi la non necessità di un sapiente

che ci orienti in ogni caso nella salita, ma potrebbe affiancare all'interpretazione che prevede qualcuno

che ci liberi dalle catene, quella secondo cui chi libera potrebbe essere lo stesso sguardo dell'uomo in

qualche modo costretto da se stesso. In questo caso il movimento partirebbe dall'uomo stesso.

L'elemento fondamentale però presente in entrambi è che nessun maestro esterno può immettere

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nell'uomo la vista. Essa c'è già come possibilità di rivolgersi alla fonte della luce. Platone lo dice senza

fraintendimenti:

«proprio di questo dunque, vi sarebbe un'arte, di questa conversione dell'anima, in che modo possa

essere più facilmente ed efficacemente rivoltata, non già dell'infondervi il vedere, ma del procacciare

questo come con chi abbia sì tale facoltà ma non sia voltato dalla parte giusta, né veda là dove

dovrebbe».

Nessun maestro pertanto può arrogarsi il diritto di infondere lo sguardo intelligibile che

potenzialmente è già presente nell'uomo.

4.2. L’analogia tra la Trinità e l’anima umana

Il problema della Trinità è uno dei più complessi, ma anche uno dei più affascinanti tra quelli che

Agostino ha affrontato. La ragione umana, avendo dei limiti, non potrà mai comprendere perfettamente

come Dio possa essere, allo stesso tempo, Uno e Trino. Tuttavia, è possibile intuire, in parte, la

soluzione di questo problema. Agostino affronta la questione, in particolare, nelle Confessioni e nel

trattato La Trinità. Per cercare di spiegare, in modo intuitivo, il mistero dell’esistenza di Dio come Uno

e Trino, Agostino individua un’analogia tra la Trinità e l’anima umana tripartita di Platone.

Nell’anima umana, infatti, o per meglio dire nella mens, riluce l’immagine stessa della Trinità divina,

perché è suddivisa in tre facoltà:

Memoria: essa in primo luogo ricorda in modo attuale tutte le realtà temporali – passate, presenti,

future –. In tal modo, l’anima conserva in sé un’immagine dell’eternità, in cui non esiste un passato ed

un futuro, ma solo un indivisibile presente che abbraccia tutti i tempi. Essa, poi, conserva in sé i

principi semplici, quali il punto, l’unità, l’istante, senza i quali non è possibile pensare, né ricordare le

nozioni più complesse che hanno origine da essi. In forza della sua seconda operazione, appare chiaro

che la memoria non è informata solo dalla realtà esterna per mezzo di immagini sensibili, ma possiede

anche dei principi semplici che un principio ad essa superiore ha infuso in lei. Inoltre conserva in sé,

come eternamente validi e indimenticabili, anche gli assiomi delle scienze, tanto è vero che, appena ne

sente parlare, subito li approva e dà il proprio assenso, come se percepisse qualcosa di innato. Ciò

appare chiaro quando sottoponiamo a qualcuno affermazioni del tipo «di ogni cosa si deve o affermare

o negare che esista» o «il tutto è maggiore della sua parte». In tal modo, le operazioni della memoria

manifestano che l’anima è immagine e similitudine di Dio in quanto dimostrano che l’anima condivide

con Dio la sua eternità.

Intelletto: esso ha il compito di comprendere il significato dei termini, delle proposizioni e delle

deduzioni. Comprendere un termine significa comprenderne innanzitutto la definizione, ma una

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definizione si dà facendo riferimento a termini più generali i quali, a loro volta, vengono definiti

ricorrendo a termini ancora più generali fino a giungere a quei concetti supremi senza i quali è

impossibile comprendere ciò che deriva da essi e che sono, per questo motivo, innati. Ad ogni termine

corrisponde un ente e, più il termine è generale, più l’ente è generale e si avvicina a quell’ente in sé,

ente totalmente puro, senza il quale non si può conoscere alcuna sostanza particolare. Ma l’intelletto ha

innata la nozione di ente in sé, perfetto e immutabile e, tramite l’esperienza, conosce che un

determinato ente è manchevole e imperfetto proprio perché ha in sé la nozione di ente perfetto.

L’intelletto, inoltre, comprende il significato delle proposizioni quando sa con certezza che sono vere

ed esprimono una realtà immutabile. Ma, essendo soggetto al mutamento, esso non è in grado di

ricavare da sé questa certezza, che è frutto perciò dell’immutabile luce divina che lo illumina.

Infine, l’intelletto afferra il significato di una deduzione quando vede che la conclusione deriva

necessariamente dalle premesse. L’intelletto afferra sempre la necessità di questo rapporto: se

consideriamo ad esempio la frase «Se un uomo corre, allora si muove», tale frase resta sempre vera sia

che l’uomo corra veramente, sia che si tratti di un’immagine creata dalla mente. Infatti non è

importante che esista un uomo che corra veramente; l’importante è che, se esiste un uomo che corre, è

necessario che se corre deve muoversi. La realtà di questa deduzione esiste, dunque, a prescindere dal

suo verificarsi, perché la necessità della sua realtà deriva da Dio stesso, il quale ha voluto le cose in un

certo modo. Appare evidente, dunque, che il nostro intelletto è congiunto con la stessa Verità eterna.

Volontà: il suo operare si esplica nella valutazione, nel giudizio e nel desiderio. La valutazione consiste

nel ricercare che cosa sia meglio tra una cosa e un’altra. Il meglio non può essere definito se non in

riferimento all’ottimo, ma non posso dire che una cosa sia migliore di un’altra perché assomiglia di più

all’ottimo se non so che cosa sia ottimo. In tutti coloro che compiono una valutazione è quindi impressa

la nozione di Sommo Bene.

A sua volta, un giudizio sicuro circa le cose soggette a valutazione si ha grazie ad una legge. D’altra

parte, nessuno giudica con certezza basandosi su una legge se non è certo che quella legge sia giusta e

non debba essere a sua volta giudicata. Per cui l’anima che giudica con certezza attinge a leggi

ingiudicabili ad essa superiori. Esse le sono superiori perché create da Dio e, quindi, l’anima giudica

attraverso le stesse leggi divine.

Si ha ,poi, il desiderio soprattutto di ciò che attira; ma ciò che più attira è ciò che maggiormente

amiamo, ossia lo stato di felicità perfetta. Ora, non si possiede questo stato di felicità se non si perviene

al Sommo Bene. Dunque il desiderio dell’uomo non appetisce nulla se non il Sommo Bene, ciò che

conduce ad esso o ciò che ha somiglianza con esso.

Si può notare, dunque, quanto l’anima sia vicina a Dio dato che la memoria, con il suo operare, ci

conduce alla Eternità del Padre, l’intelletto alla Verità del Figlio e la volontà alla Somma Bontà dello

Spirito Santo. Infatti, come il Padre Eterno genera il Figlio, il Verbo incarnato disceso sulla terra per

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rivelare la Verità del Padre per opera dello Spirito Santo che rappresenta la volontà di realizzare ciò che

il Padre ha pensato (ciò che è Sommo Bene), così la memoria che è eterna genera l’intelletto che rivela

e rende comprensibili le immagini della memoria, ed entrambe, attraverso la volontà, sono dirette verso

il Sommo Bene. Inoltre, come le facoltà dell’anima sono tre, sebbene l’anima sia unica dal punto di

vista dell’essenza, così le persone divine sono tre, sebbene sia unica l’essenza di Dio.

5.Bibliografia

Merlan Philip, Dal platonismo al neoplatonismo, Vita e Pensiero, Milano 1994

Etienne Gilson, Le metamorfosi della "Città di Dio" , Siena, Catagalli, 2010.

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Platone

Filosofo o sofista?

“La caratterizzazione più sicura della tradizione filosofica europea è che essa consiste in una serie di note a

margine su Platone”.

E’ così che ricorda Platone il grande filosofo del XX secolo Alfred North Whitehead e probabilmente è così che

tutti dovremmo ricordarlo dal momento che non possiamo non tenere conto del fatto che il platonismo abbia

influenzato tutta la filosofia dei secoli successivi; “Tutta la filosofia dopo Platone, e sino ai giorni nostri, anche

quando è contraria alle posizioni di Platone, vi fa, sia pure indirettamente, riferimento.” [1]

In effetti è

impossibile non notare che le domande platoniche saranno motivo ricorrente nella filosofia, in particolare quella

occidentale. Tutti insomma conosciamo, in modo più diretto o almeno per sentito dire, Platone eppure è

innegabile che tutti, comunque, ce ne siamo fatti un’idea diversa e non solo in termini di approvazione o meno

per quanto riguarda le sue dottrine, ma anche riguardo la tipologia di queste e l’ambito in cui è opportuno

collocarle. Platone, con il suo pensiero, segna certamente una svolta nel mondo della filosofia, ma come

potremmo definire il suo pensiero? Soprattutto, quali sono i fini del pensiero platonico? Cosa lo differenzia, con

le sue dottrine e il modo in cui le afferma, da un sofista?

Gli interrogativi che ci si potrebbe porre sulla figura di Platone sono decisamente molti, non a caso è stato, nel

corso della storia e tutt’oggi, uno dei personaggi maggiormente discussi, analizzati e criticati. Proprio per questo

ci troviamo di fronte a molteplici interpretazioni non solo della sua stessa figura, ma anche delle sue dottrine e,

di conseguenza, del suo pensiero.

C’è chi vede in Platone l’incarnazione della figura del filosofo più diffusa ai giorni d’oggi: l’uomo saggio e

cogitabondo che osserva dettagliatamente la realtà non tanto per comprendere tutto quello che accade intorno a

lui, ma per riuscire a guardare oltre, i massimi sistemi, ciò che muove il mondo che lo circonda e che,

successivamente, insegni alla comunità ciò che ha appreso e come lo ha appreso.

Per capire meglio come la figura di Platone corrisponda perfettamente a quella del filosofo sopra descritta, sarà

certamente necessario analizzare le sue dottrine in luce di una più chiara idea di chi sia propriamente un filosofo;

proviamo a darne una definizione. Generalmente si intende per filosofo colui che “si dedica alla filosofia, la

studia, la insegna”[2]

oppure anche “chi guarda all’esistenza con un certo distacco”[3]

, quindi da un altro punto

di vista, che gli consenta di avere una visione più realistica ed ampia dell’esistenza stessa.

Ora veniamo alle dottrine; le più note, nonché le più importanti di tutta la tradizione filosofica platonica sono:

La teoria delle idee e del sommo bene visto come “l’idea delle idee”

Lo stato ideale

Le dottrine riguardo la comunicazione (scrittura e oralità)

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L’ amore e la bellezza

Ciò che dimostra l’essere propriamente filosofo di Platone sta, oltre che nel contenuto delle sue dottrine,

nell’approccio con cui si dedica a queste. Nell’esposizione e nell’argomentazione delle sue dottrine, per quanto

profondamente differenti da un punto di vista tematico, c’è una costante che si identifica proprio nell’approccio

alla loro trattazione. Tutte infatti rappresentano il raggiungimento di qualcosa destinata a rimanere, con ogni

probabilità, un’idea, o, per meglio dire, un’utopia. E’

proprio questo il fine primario del platonismo e, se vogliamo, ciò che più lo avvicina al maestro Socrate: partire

da una domanda che spinga a una costante ricerca tesa verso l’assoluto per avvicinarsi alla verità, con una “dotta

ignoranza”, ovvero rimanendo pur sempre nella consapevolezza che questa non potrà mai essere posseduta fino

in fondo. Questo si identifica perfettamente con la filosofia.

Il filosofo tuttavia, come abbiamo precedentemente affermato, non è solo colui che si dedica alle problematiche

e alle loro risoluzioni con un determinato approccio, ma anche, o soprattutto, colui che sa come trasmettere ciò

che impara e il modo in cui riesce ad impararle, capace quindi di insegnare propriamente la filosofia. Per fare

questo è necessaria la comunicazione e, indubbiamente, che questa sia efficace.

Ebbene, Platone è filosofo anche riguardo questo aspetto; infatti, oltre all’elaborazione di vere e proprie dottrine

riguardo la comunicazione che lo hanno portato alla conclusione che l’oralità sia l’unica forma comunicativa

effettivamente efficace in quanto qualcosa può essere pienamente compreso solo se se ne discute direttamente

con un interlocutore, capace di rispondere a delle domande e di fornire chiarimenti, cose che non sono possibili

se si apprende da un testo scritto. Non si può, tuttavia, sfuggire alla necessità della scrittura per trasmettere e

lasciare in eredità alla comunità il proprio pensiero: è così che Platone arriva alla scelta di scrivere in forma

dialogica, che è la forma scritta più vicina all’oralità. Platone dà quindi primaria importanza alla comunicazione

ritenendola uno dei principali doveri del filosofo ( ne è una dimostrazione il mito della caverna).

Dunque possiamo affermare che la descrizione dei tratti essenziali della figura di Platone e di conseguenza del

suo pensiero sia in linea con quella del filosofo.

Infatti “La prima lezione di Platone è che la filosofia, a differenza di ogni altra forma di credenza rivelata, la si

fa dialogando e confrontando le idee: Platone non è un sofista, nel senso che ritenga che la verità sia relativa

alla situazione e ai problemi di chi cerca di convincere gli altri, e il suo dialogo mira a trarre dall’animo

dell’interlocutore quello che forse non aveva capito ma che doveva sapere fin dall’inizio.” [4]

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Non manca, tuttavia, chi la pensa in modo diametralmente opposto e identifica Platone come un vero e proprio

sofista che vuole far prevalere la propria opinione contrapponendola a quella di altri. C’è da dire infatti che lo

stesso Platone a volte ponga l’accento sul desiderio di fare valere la propria opinione, per esempio quando

utilizza il mito.

Come può Platone dimostrare tutto quello che afferma nei suoi miti? Non è forse un modo di voler affermare

un’opinione personale su quelle altrui quello di utilizzare spesso il mito come forma comunicativa, in quanto per

scrivere un mito è necessario relativizzare alcune verità che potrebbero essere considerate oggettive? Dopotutto

anche Platone pensa che la verità non possa essere raggiunta. E nella forma dialogica? Non è forse anche il

dialogo una contrapposizione tra due o più differenti opinioni? Non può anche il dialogo diventare un mero

esercizio di dialettica e retorica? Non è proprio il dialogo che mette in discussione teorie che molti potevano

considerare verità assolute?

Infatti la sofistica è caratterizzata “dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere

raggiunta”. Infondo questo non è distante da ciò che afferma Platone e potrebbe esserne una testimonianza il

mito della biga alata: per quanto ci si sforzi, alla fine non si riuscirà mai a raggiungere la verità a cui tanto si

aspira proprio in quanto ogni uomo è in possesso di un animo concupiscibile; ci sarà sempre il cavallo nero,

ovvero qualcosa, un desiderio, comodità, abitudine, che allontanerà l’uomo dalla verità assoluta.

C’è dell’altro: secondo alcuni, tra cui anche Aristotele, il dualismo platonico non fa altro addirittura che

allontanare ulteriormente dalla verità e dalla realtà. “Insomma, per Aristotele, la metafisica di Platone non

sarebbe null’altro che un “raddoppiamento” della realtà (anzi più che un raddoppiamento perché “le forme

sono ancor più numerose degli individui sensibili”), inutile e pericoloso per il fatto che induce a sottovalutare la

realtà e la possibilità stessa di conoscerla”[5]

, e ancora, “I Platonici, afferma Aristotele, non si rendono conto di

agire sulla falsariga dei matematici, in quanto rendono astratti gli enti fisici che peraltro sono meno suscettibili

di astrazione dei dati matematici”.[6]

Questa visione della figura di Platone, tuttavia, può essere facilmente confutata; basta prendere attentamente in

analisi le sue dottrine.

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Come precedentemente affermato, la costante nelle dottrine platoniche è l’ideale di ricerca intrinseco in esse, lo

stesso ideale che si trova alla base della ricerca filosofica. Le dottrine platoniche potrebbero essere definite

metafora della filosofia, in quanto in ognuna di esse è previsto un percorso perfettamente articolato, suddiviso in

tappe e scandito da obiettivi da raggiungere. Un percorso che tenda al sommo bene, all’idea delle idee, verità

assoluta. Per Platone l’esistenza stessa potrebbe essere interpretata come metafora della filosofia.

L’utopia platonica e il raggiungimento della perfezione ideale non allontanano affatto l’uomo dalla realtà, anzi,

lo spronano a cercarne una più vicina possibile alla verità assoluta e allo stesso tempo ad essere consapevole che

può soltanto avvicinarsi a questa senza mai raggiungerla; questo fa sì che ogni uomo sia pienamente consapevole

di sé stesso e anche dei suoi limiti, perché solo nella consapevolezza di questi l’uomo può accingersi a superarli

impegnandosi nella ricerca della virtù.

Per quanto riguarda la trattazione e l’affermazione delle proprie opinioni e teorie va fatto un chiarimento su un

punto certamente fondamentale che segna un’altra differenza sostanziale tra Platone e i sofisti: il metodo di

confutazione. Platone infatti, al contrario dei sofisti, confuta le opinioni altrui non contrapponendo un’altra

opinione, ma dimostrando l’autocontraddittorietà dell’opinione che ha intenzione di confutare; tra l’altro è

proprio con il metodo della dimostrazione dell’autocontraddittorietà che Platone stesso smonta proprio la

sofistica: “Come si fa a dimostrare la falsità dell’opinione di un altro? Il modo più banale è quello di

contrapporgli un’altra opinione, invece il metodo di Socrate e di Platone è quello di dimostrare

l’autocontraddittorietà di ciò che afferma l’avversario (sofista), perché se enuncio semplicemente un’altra

affermazione mi metto già dalla sua parte, cioè riconosco implicitamente che ci sono tante opinioni. Platone

smonta la sofistica non col contrapporre all’errore della sofistica una sua verità; egli analizza le affermazioni

dei sofisti e mostra che sono autocontraddittorie, cioè si distruggono da sé: questo è il metodo giusto per

confutare.”[7]

E’ bene, infine, prendere in considerazione tra critiche di origine platonica alla sofistica. Platone ne critica le tesi

fondamentali- trattando di conseguenza la filosofia in maniera praticamente opposta- che sono: lo scetticismo, il

relativismo e il soggettivismo.

I sofisti ritengono che nessuno sappia niente e quest’affermazione può essere facilmente smentita: se qualcuno è

in grado di dire che nessuno sa niente significa che sa che c’è il non sapere, allora di conseguenza è falso che ci

sia ignoranza assoluta; c’è dunque qualcosa che si sa e questo basta per “sconfiggere” lo scetticismo.

Platone ragiona in modo simile per il relativismo: se qualcuno sostiene che tutto sia relativo, allora anche

l’affermazione che tutto è relativo è relativa. Anche il relativismo, come lo scetticismo, è autocontraddittorio.

Platone riesce a dimostrare che anche il soggettivismo è, in realtà, falso: “Protagora, Gorgia e tutti i sofisti

conversavano di continuo e cercavano di convincere con le loro argomentazioni, quindi, mentre sostenevano il

soggettivismo, cioè l’individualismo, facevano però ricorso alla comunicazione e quindi ammettevano

l’intersoggettività” [8]

; per quanto riguarda la comunicazione abbiamo precedentemente dimostrato

l’impostazione filosofica (e non sofistica) del modo di comunicare platonico.

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Alla luce dell’analisi appena conclusa e delle conclusioni tratte possiamo quindi affermare che la figura di

Platone non è affine a quella dei sofisti, ma le sue caratteristiche fanno indubbiamente di lui un filosofo.

Possiamo concludere dicendo che “Platone è figura di porata storica mondiale, e la sua filosofia è una di quelle

creazioni [….] che dal primo loro sorgere hanno avuto la più significativa influenza su tutte le età successive,

sull’educazione e sullo svolgimento dello spirito. Infatti ciò che vi è di caratteristico nella filosofia platonica è la

sua direzione verso il mondo intellettuale, l’elevazione della coscienza al regno dello spirito [….] per lui, infatti,

l’assoluto è nel pensiero, e ogni realtà è nel pensiero”.[9]

Note:

[1] U. Eco; Storia della filososfia 1. Dall’antichità al medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz. 2014, editori

Laterza, pag. 98

[2]Diozionario italiano online

[3] Treccani online

[4]U. Eco; Storia della filosofia 1. Dall’antichità al medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz 2014, editori

Laterza, pag. 98

[5]Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo, pag.138

[6]Idem

[7]A. Gargano, I sofisti, Socrate, Platone, pag. 8

[8]Idem

[9]G. W. F. Hegel; Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo, pag 137

Bibliografia:

1. Storia della filososfia 1. Dall’antichità a medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ediz. 2014,

editori Laterza

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2. Dizionario italiano online, www.dizionario-italiano.it

3. Treccani online, www.treccani.it

4. Platone vol. 1, a cura di R. Radice, grandangolo

5. I sofisti, Socrate, Platone, A. Gargano

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Platone: filosofo irrilevante o grande pensatore?

Di Federica Santoro

Chi almeno una volta non ha sentito anche solo nominare il filosofo Platone? Quasi nessuno.

Evidentemente questo non è un caso, evidentemente quest'uomo deve aver detto o fatto qualcosa di

grande nella sua vita per essere così conosciuto. Eppure c'è chi è pronto a mettere in dubbio la sua

importanza di filosofo, la sua rilevanza come tale. Noi, quindi, siamo qui per difenderla e ribadirla.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che spesso si sente dire che Platone è privo di originalità o che

egli non è un filosofo a se stante. Ovviamente tutto ciò è detto a proposito del suo rapporto con il

maestro Socrate. Molti, infatti, credono che Platone abbia solamente ripreso e rielaborato le dottrine del

maestro, e riservando, dunque, alla propria carriera filosofica nulla che si possa definire una sua teoria.

Sicuramente non possiamo negare che per Platone, Socrate sia stato un punto di riferimento

indispensabile, ma da questo a dire che Platone sia una cosa unica con Socrate o che parlare di Platone

sarebbe come fare lo stesso di Socrate ce ne passa.

Possiamo già trovare una prima differenza nel metodo di insegnamento. Sappiamo che Socrate

intendeva la filosofia come il compiere un esame incessante, una ricerca di se stessi e della verità e

riteneva che l'unico modo per ottenere ciò fosse il ragionamento espresso con l'oralità.

Socrate non ha mai scritto niente appunto perché, secondo la sua concezione, lo scritto comunicasse

semplicemente una dottrina e non stimolasse quindi la ricerca. Platone, pur dimostrando la sua

approvazione al concetto socratico a proposito dell’ importanza dell’ oralità, alla fine non lo rispetta

perché prende comunque la decisione di mettere per iscritto i suoi pensieri utilizzando la forma del

dialogo, avendo,in questo modo, la sicurezza che i suoi scritti sarebbero stati perfettamente tramandati.

Una differenza molto più profonda e importante riguarda il concetto di verità. Socrate, infatti,

s'interessava a stimolare nell'uomo la ricerca della verità, soprattutto a chi, superbamente, ritenesse di

essere già sapiente in ogni ambito. E proprio con i saccenti, Socrate adottava la tecnica dell' ironia,

ponendo una serie di domande all'interlocutore, mettendolo in difficoltà nel dare le risposte, fino a

renderlo cosciente della propria ignoranza al punto da stimolare in lui quella voglia di ricercare

incessantemente se stessi e la propria verità.

La ricerca della verità, secondo Socrate, consiste essenzialmente in un lavoro che l'uomo deve fare con

se stesso mentre Platone le conferisce un valore più trascendente.

Egli crede che la verità risieda nell'Iperuranio cioè nel mondo delle idee. La teoria delle idee

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Assaggi di Filosofia Platone

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rappresenta la fase più importante della carriera filosofica di Platone, con essa il filosofo si distacca

definitivamente dal maestro elaborando un pensiero originale, appartenente esclusivamente a lui.

Ma andiamo per gradi. Che cosa sono le idee nella concezione platonica?

Platone, avendo dato una sua definizione di scienza, cioè di una realtà perfetta, eterna e immutabile,

afferma che l'oggetto di queste sono le idee anch'esse perfette e immutabili. Inoltre, il filosofo distingue

due tipi di idee:

- idee valori, cioè quelle che fanno riferimento ai principi etici, estetici e politici (Bene, Bellezza,

Giustizia ecc...)

- idee matematiche, corrispondenti alle entità della geometria e dell'aritmetica.

C'è da dire poi che Platone gerarchizza le idee. Le idee valori sono le più importanti, e al vertice

persiste l'idea del Bene che è il sommo valore e l'idea in cui si immedesimano tutte le altre.

Le idee di Platone trovano varie analogie con l'essere perfetto ed eterno di Parmenide, anche se vi sono

due differenze fra le teorie dei due filosofi:

- Platone ammette la molteplicità, infatti, dice che le idee sono varie, mentre per Parmenide l'essere è

unico

- Al contrario di Parmenide, Platone sostiene lo stretto legame tra le idee (perfette) e le cose (mutabili).

Platone afferma che le idee sono sia criterio di giudizio e sia di causa delle cose (ad esempio, noi

consideriamo qualcosa bello secondo l'idea di Bellezza).

Ultimo punto: come accede l'uomo alle idee? Platone elabora il seguente pensiero: l'anima umana ha in

realtà vissuto in precedenza nell'Iperuranio, prima di incarnarsi in un corpo, trovandosi così a stretto

contatto con le idee. Una volta lasciato il mondo delle idee, l’ anima conserva sfocati ricordi della sua

esperienza nell’ Iperuranio . Per questo motivo Platone afferma che conoscere è " ricordare ".

Dobbiamo, infine, aggiungere che esponendo la teoria delle idee, Platone si è mostrato coerente a un

altro suo pensiero: l'opposizione al relativismo sofistico. Platone era fermamente convinto che per

assicurare tranquillità e ordine nella società ci fosse bisogno di una realtà universale sulla quale nessun

uomo potesse dibattere o mostrarsi contrariato. Questo era un pensiero totalmente avverso a quello dei

sofisti, i quali ritenevano che dovesse essere l'uomo a misurare la realtà e non il contrario. In questo

modo, però, ottenevano soltanto una società piena di caos poichè ogni uomo esprimeva la propria

opinione e la stessa verità era molteplice.

Superata la questione Socrate, affrontiamo adesso un'altra pesante critica, questa volta da parte del

filosofo Nietzsche. Questo era un ammiratore della cultura greca secondo la quale esisteva un

equilibrio tra "spirito apollineo" (razionalità, logica, ordine ecc...) e " spirito dionisiaco" (esuberanza,

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libertà da vincoli, accettazione dell'insensatezza della vita ecc...). Secondo il filosofo ,con Socrate c'è

stata una deviazione verso una forma esasperata dello spirito apollineo con la pretesa di conoscere tutto

tramite la logica e la razionalità, la condanna del corpo e la volontà di dare a tutti i costi un senso alla

vita, la quale, secondo Nietzsche, invece, non ne ha. Platone è condannato ancora aspramente, in

quanto egli ha concepito il mondo delle idee, ha sovrapposto al mondo sensibile un mondo ideale,

svalutando così il primo.

Nietzsche respinge soprattutto l'affermazione platonica per cui il corpo è il carcere dell'anima. Il fatto

che il mondo ideale è superiore al mondo sensibile implica che l'anima è superiore al corpo, che

l'aspirazione dell'uomo deve essere quella di liberarsi del corpo per entrare più direttamente in contatto

con l'idea. Nietzsche critica duramente la poca importanza del corpo a favore dell'anima e sostiene che

il rifiuto di esso, la priorità assegnata all’anima, all'ideale, al trascendente, a ciò che sta al di là del

sensibile, è un fattore che dal platonismo ritroviamo nel cristianesimo. Il cristianesimo è, secondo

Nietzsche, una sorta di manifestazione del platonismo: la svalutazione del mondo sensibile in Platone

ha generato una filiazione molto più concreta, che è il cristianesimo.

Come Platone aveva affermato che il corpo è il carcere dell'anima, così il cristianesimo predica con

molta più energia che bisogna vivere di rinunce, evitare i piaceri corporei, puntare alla salvezza

dell'anima. Nietzsche, quindi, giudica la morale della società cristiana da lui considerata inventata e

contro la natura dell'uomo.

A questo punto, la domanda è una sola: a prescindere dalle credenze religiose e non, riteniamo possa

essere condivisibile dai più che non ci sia nulla di più angoscioso che vivere una vita pensando che

questa non abbia un senso. Infatti, se noi perseverassimo nel pessimismo e non sperassimo in un futuro

ultraterreno, che motivo c'è di vivere? Dunque, in ogni caso, Platone ne esce vincente!

Bibliografia

- "Alla ricerca della filosofia" di Nicola Abbagnano

- Antonio Gargano: “saggio su Friedrich Nietzsche” ( 1844-1900)

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L’utilità dell’inutile sapere

Di Clara Fabricatore

Introduzione

Ai giorni nostri, la filosofia, insieme ai saperi umanistici nella loro totalità, è spesso messa in discussione ed è

ritenuta inutile sotto ogni aspetto, semplicemente perché non produce profitto e benefici pratici. Ma, non ci si

rende conto che l’attuale crisi, prima di essere economica e finanziaria, è culturale, poiché si sopravvaluta una

società, che considera la cultura, l’educazione, le discipline umanistiche superflue e di cui si può fare a meno, in

quanto subordinate alla logica del profitto. Molto probabilmente, tutto ciò dipende da un semplice errore di

valutazione, dal momento che si ignora che “il ruolo della filosofia è proprio quello di rilevare agli uomini

l’utilità dell’inutile o, se si vuole, di insegnare loro a distinguere tra i due sensi della parola utile”40

. Tale

errore, però, è inevitabile alla luce di una società, soggiogata dal superfluo, che compie moltissime azioni inutili

e possiede un’idea completamente deformata dell’ utilità. Spesso, quindi, al giorno d’oggi si tralascia o, più che

altro, non si vuole proprio accettare che “esistono saperifine a se stessi che- proprio per la loro natura gratuita e

disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale- possono avere un ruolo fondamentale nella

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coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno di questo contesto,

considero utile tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori” 41

, come sostiene Nuccio Ordine.

Può sembrare strano, ma questa questione così attuale dell’utilità del sapere filosofico, in un certo qual modo, era

già aperta nell’antichità tra Platone e Aristotele: da una parte si riteneva che la filosofia fosse fondamentalmente

utile per la vita associata, servendo a coloro che detenevano il potere per ben governare, dall’altra, invece,

veniva considerava inutile, in quanto conoscenza pura e disinteressata. Ed essendo tale argomento così attuale e

all’ordine del giorno, si è cercato di comprendere le diverse interpretazione sull’in-utilità della filosofia,

analizzando in primis Platone e Aristotele.

Può davvero la filosofia essere utile per la politica?

Platone sostiene che la filosofia abbia sostanzialmente un’utilità a livello socio - politico, dal momento che,

resosi conto con la morte del suo amato maestro della degradata società nella quale viveva, ritenne che la

filosofia fosse la sola via che potesse condurre l’uomo singolo e la comunità verso la giustizia . Dunque, il suo

principale interesse fu politico- formativo, come si evince dai suoi scritti, nei quali non si riscontra, come

spesso si pensa, un esame delle istituzioni statali o una ricerca di determinate leggi, bensì si ritrova il tema

dell’educazione alla vita politica e, quindi, alla filosofia. Fin da subito si comprende quanto all’interno del

pensiero platonico sia fondamentale la politica, con la quale la filosofia è molto legata, basti pensare che sia

stata proprio la ricerca di una comunità in cui l’uomo potesse vivere in pace e giustizia con i suoi simili che l’ha

spinto a filosofare. Platone, come si evince dal “Politico”, sostiene che essa sia “quella tecnica regia la quale,

assumendo il comportamento degli uomini valorosi e quello degli uomini equilibrati, li conduce a una vita

comune, in concordia e in amicizia e, realizzando il più sontuoso e il migliore di tutti i tessuti, avvolge tutti gli

altri, schiavi e liberi, che vivono negli stati, li tiene insieme in questo intreccio, e governa e dirige, senza

trascurare assolutamente nulla di quanto occorre perché la città sia, per quanto possibile, felice”42

. Bisogna,

inoltre, tenere in considerazione che egli la ritenesse “capace di far trionfare ciò che è giusto attraverso il

coordinamento e il governo di tutte le attività che si svolgono nella città"43

, poiché era “principio ordinatore” e

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“misura della misura”. Questo inscindibile e forte legame, che si delinea tra politica e filosofia, dipende dal

fatto che la politica viene ritenuta essere la scienza del Bene, che è “quella conoscenza suprema in riferimento

alla quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli”44

, ed è la filosofia ad essere l’unico sapere in

grado di “sciogliersi dalle catene” dell’ignoranza e di cogliere il Supremo Valore. In tal modo, il filosofo

diviene il politico per eccellenza, unico in grado di governare la città, di conoscere pienamente la legge, il Bene

e di comprendere adeguatamente l’essenza della comunità, ossia il fatto che essa “nasce perché ciascuno di noi

non basta a se stesso, ma ha molti bisogni”45

. Ma, ciò che rende veramente capace di governare il filosofo è il

suo amore disinteressato per il sapere e per la ragione nella sua totalità, tanto da essere capace di determinare

la verità senza essere minimamente influenzato. Di qui la tesi che :“Se i filosofi non governano le città o se quelli

che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la

filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente

all’uno e all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e

anche quelli del genere umano”46

. Però, Nuccio Ordine in uno dei suoi molteplici interventi ha sostenuto che in

Platone sussista una forte contraddizione proprio nella sua concezione di filosofo, cioè“tra il filosofo

interessato alla pura teoresi e il filosofo impegnato nella vita politica” . Tale contraddizione è possibile

comprenderla solo analizzando e mettendo a confronto alcuni passi del “Teeteto”, opera composta durante la sua

vecchiaia, con altri della “Repubblica”, scritta tra l’età giovanile e la maturità. Infatti, si nota che nel primo

Socrate traccia una distinzione ben delineata tra “schiavi” e “uomini liberi” , cioè tra “quelli che fin da giovani

si aggirano nei tribunali nei luoghi simili, in confronto con coloro che sono stati allevati nella filosofia e in

questo tipo di studio, rischiano di apparire come degli schiavi in confronto con uomini liberi”47

, che non si

riscontra più in opere successive, come appunto la “Repubblica”, nella quale vengono, invece, delineate

solamente le varie figure di governanti- filosofi. La riflessione di Ordine può e deve essere tenuta in

considerazione, ma è molto discutibile e non può essere considerata del tutto fondata.

Comunque, la rifondazione della politica alla luce del sapere di Platone si basa sulla convinzione, espressa in

particolare nella “VII Lettera”, che “solo la retta filosofia consente di distinguere ciò che è giusto sia nella vita

pubblica che in quella privata”48

. Egli arrivò a queste riflessioni solo dopo aver osservato la critica situazione

politica dell’Atene del suo tempo, rispetto alla quale si pose in antitesi. Fin dal primo momento si mostrò molto

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ostile nei confronti della democrazia e di tutti quei uomini politici, che avevano attuato delle riforme in senso

democratico e che secondo lui avevano favorito la crisi. Si deve, però, tener conto che questo suo severo giudizio

sulla forma di governo ateniese e stesso la sua riforma politica sono il frutto di un complesso periodo

caratterizzato da un clima di instabilità e dal forte scontro tra gli aristoie il demos. Inoltre, riteneva che proprio

questa crisi etico- politica, di cui ne risentiva costantemente, dipendesse in primo luogo da una crisi di tipo

intellettuale e che ci fosse l’improrogabile necessità di una riforma globale. Quest’ultima sarebbe stata

efficace solo attraverso i filosofi e non solo con il semplice cambiamento delle forme governative. Anche in tal

caso si nota quanto la filosofia platonica fosse finalizzata alla politica e a questa fosse estremamente

collegata. Tutto ciò così come viene postulato con grande maestria da Platone, viene in seguito smontato da

Aristotele, il quale fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza disinteressata del reale e vede il filosofo

come un sapiente o per certi versi uno scienziato-professore, tutto dedito alla ricerca e all’insegnamento.

I due capisaldi della riflessione filosofica occidentale, prima ancora di distinguersi per le dottrine specifiche, si

differenziano, quindi, tra loro per la diversa concezione generale degli scopi e della struttura del sapere, in

quanto, come si è potuto notare da questa prima analisi, Platone a differenza di Aristotele crede fermamente

nella finalità politica della conoscenza e vede la figura del filosofo come il miglior reggitore e legislatore, che

la città possa avere. Queste differenze, che si fanno a creare tra i due, dipendono da molteplici fattori, in primis

dal venir meno dell’interesse verso la materia politica del filosofo di Stagira. Quest’ultimo, vivendo in un

particolare periodo per polis, la quale era devastata da una profonda crisi, che ormai aveva raggiunto il culmine,

si sentiva pienamente cittadino greco e non era più coinvolto nelle questione del governo, ma era inglobato in un

più vasto organismo sociale. Così, fu inevitabile che egli andasse a ridefinire il ruolo della conoscenza filosofica,

che non era più orientata e subordinataalla dimensione politica, ma veniva identificata con la conoscenza

disinteressata della realtà in tutti i suoi multiformi aspetti. Aristotele chiarisce tutte queste questioni, che, al di là

di tutto, sono fondamentali per la piena comprensione del suo pensiero, in alcune tra le più celebri e importanti

pagine della “Metafisica”. Egli comincia questa straordinaria opera così: “ Infatti gli uomini hanno iniziato a

filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte

alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori:

per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti

la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere;

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ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un

insieme di cose che destano meraviglia.”49

Ciò significa che la “meraviglia” è la causa prima del filosofare e che gli uomini hanno cominciato a fare

filosofia per liberarsi dall'ignoranza. Il loro scopo era quello di conoscere la verità su se stessi e sulla natura,

senza aver di mira una precisa utilità pratica, ma, ponendosi domande rigorose e cercando di elaborare teorie in

grado di rispondervi, agivano esclusivamente per soddisfare la loro sete di sapere. Proprio lo stupore per quei

“fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto”50

li ha spinti ad intraprendere

l’incessante ricerca. Inoltre, pensa che “se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire

all'ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche bisogno

pratico.”51

Dunque, la sua concezione filosofica è puramente fine a sé stessa e tende a risolversi nella vita

di pura contemplazione, in opposizione agli interessi connessi al vivere quotidiano e materiale. La filosofia è

l’unica scienza libera “perché essa sola ha il fine in sé stessa”52

ed è definita da Aristotele “divina”, perché

“l’uomo non vive di quella vita come uomo, ma in quanto un certo che di divino è presente in lui.”53

Da questa

“divinitas”degli esseri umani dipende in parte il carattere libero della filosofia aristotelica, che così rifiuta di

essere schiava dell’utile. Infatti, “è chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun

bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro,

così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé.”54

Dunque, la dedizione alla filosofia è sintomo di una vita libera, che è caratterizzata dall’agire indipendente dai

bisogni o dalla realizzazione di fini materiali. In tal modo, la ricerca filosofica si configura come l’attività per

eccellenza dell’uomo libero, il quale non può e non deve rinunciare ad essa, come Aristotele sottolineò nella

sua opera giovanile, il “Protreptico”: ”Se si deve filosofare, si deve filosofare, e se non si deve filosofare, si

deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a

filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come

mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della

filosofia.”55

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Platone e Aristotele hanno, quindi, presentato, due riflessioni estremamente differenti, ma, delle quali non è

possibile stabilire quale sia la più “giusta”, dal momento che tutte e due sono perfettamente condividibili e

inseribili all’interno di determinate situazioni politico-culturali. La seguente riflessione potrebbe risultare banale

o, comunque, marginale all’interno di due filosofie così complesse, ma non è affatto così. Solo, tenendole

entrambe in considerazione, si potrà comprendere quanto il sapere filosofico sia allo stesso tempo utile ed

inutile. Ma, in tal caso, il ritenere la filosofia inutile non è una spetto negativo o, comunque, l’errore di una

società deformata dal superfluo, ma significa che si è giunti a comprendere che soltanto ciò che è inutile e senza

scopo, soltanto ciò che è assurdo può renderci liberi e spezzare le catene che ci imprigionano, proprio come

sosteneva Albert Camus.

Note

1. da Pierre Hadot, Exerciesspirituels et philosophie antique

2. da Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, Manifesto, pag. 7-8, ed. Bompiani, 2013

3. da Platone, Politico,311 b-c,a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005

4. da Platone, Politico, 304 a, a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005

5. da Platone, Repubblica, VI, 505 a, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990

6. da Platone, Repubblica, II, 369 b, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990

7. da Platone, Repubblica, V, 473 d, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990

8. da Platone, Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971

9. da Platone, VII Lettera, 326 a,

10. da Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, 12, trad. di Antonio Russo, ed. Laterza, 1992

11. Ibidem

12. Ibidem

13. Ibidem

14. Ibidem

15. Ibidem

16. Aristotele, Propetico,

Bibliografia

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N. Abbagnano e G. Fornero, La ricerca del pensiero, Storia, testi e problemi della filosofia, vol.

1A, ed. Paravia, 2012

Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, Manifesto, ed. Bompiani, 2013

Platone, Politico,a cura di G. Giorgini, ed. Bur, 2005

Platone, Repubblica, a cura di G. Lozza, ed. Mondadori, 1990

Platone, Teeteto, trad. di M. Valgimigli, ed. Laterza, 1971

Aristotele, Metafisica, trad. di Antonio Russo, ed. Laterza, 1992

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Ovviamente c’era chi pensava proprio a tutto, ci trovammo davanti ad una deliziosa torta . Così per

chiudere in bellezza questa splendida serata passata a mangiare , bere, ridere e scherzare. Il tempo volò,

si fece quasi l’una ed era ora di andare . Ci salutammo calorosamente con la promessa di ritrovarci a

chiacchierare una di queste sere. Paradossalmente fu quasi una fortuna non uscire quel fatidico sabato

sera

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Indice

Introduzione 2

La visione politica di Platone, 3

di Andrea Pascale

Platone: la giustizia per uno Stato ideale, 11

di Antonio Lucerino

Lo stato ideale di Platone è veramente perfetto, 16

di Edoardo Quarantelli

Platone: teorico dello Stato totalitario? Il rapporto del

filosofo con gli studiosi Novecento, 22

di Matteo Biccari

Utopia: illusione o modello a cui aspirare?, 27

di Maria Teresa Casiello

Utopia di una società perfettamente tripartita, 33

di Laura Campanella

Lo Stato utopistico o utopico di Platone?, 37

di Raffaella Cardellicchio

I filosofi non devono governare, 42

di Myriam Buonfino

L’uomo può realizzare un buon governo ?, 48

di Giovanna Olivieri

Uomo si nasce o si diventa? Innatismo e ambientalismo

dalla filosofia platonica alla psicologia del ‘900, 53

di Federica D’Alterio

Su cosa di fonda la conoscenza: Innatismo ed empirismo, 58

di Alessandra Buonaiuto

L’innatismo Platonico, 62

di Valeria Speranza

Come condizionano la conoscenza le idee innate? , 69

di Sara La Torraca

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Platone e la seconda navigazione, 76

di Daniil D’Alessio

Platone tra eros e retorica. Il rapporto tra corpo

econoscenza , 82

di Lorenza Pesacane

Il contrasto tra oralità e scrittura!, 91

di Marino Bianco

Oltre i sentieri interrotti, 98

di Matteo Russo

Platone e l’immortalità dell’anima, 104

di Massimo Di Genua

Alla ricerca dell'essere compiuto, 110

di Aristidea Cavaliere

Platone cristiano: Reinterpretazione medievale

dell’amore, 116

di Francesca De Falco

Il Sant’Agostino Platonico. Dalla “Teoria della Idee” alle

“Confessioni”, 123

di Diletta Bergamo

Platone. Filosofo o sofista?, 129

di Francesca Frangipani

Platone: filosofo irrilevante o grande pensatore?, 135

di Federica Santoro

L’utilità dell’inutile sapere, 138

di Clara Fabricatore