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Aspetti generali della conservazione in archeologia Premessa La conservazione dei manufatti antichi costituisce uno degli aspetti di maggiore importanza nella pianificazione delle azioni necessarie per il recupero dei reperti di un sito archeologico ed è responsabilità dell’archeologo che conduce lo scavo assicurarsi che il materiale recuperato venga sempre adeguatamente conservato. La fase di conservazione può richiedere tempi anche molto lunghi e può avere un costo superiore a quello dello scavo stesso. Tuttavia, senza un adeguato trattamento di conservazione buona parte dei reperti si deteriorano rapidamente con perdita di importanti informazioni storiche. Ovviamente, tale inconveniente non coinvolge unicamente l’archeologo che ha condotto lo scavo, ma riguarda tutti gli studiosi che avrebbero potuto esaminare successivamente il materiale privo di alterazioni. I manufatti recuperati da un ambiente umido, ad esempio quello marino, risultano spesso ben conservati, ma di natura estremamente friabile. Tali manufatti se non prontamente trattati sono suscettibili di un rapidissimo

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Aspetti generali della conservazione in archeologia

Premessa

La conservazione dei manufatti antichi costituisce uno degli aspetti di maggiore

importanza nella pianificazione delle azioni necessarie per il recupero dei reperti

di un sito archeologico ed è responsabilità dell’archeologo che conduce lo scavo

assicurarsi che il materiale recuperato venga sempre adeguatamente conservato.

La fase di conservazione può richiedere tempi anche molto lunghi e può avere

un costo superiore a quello dello scavo stesso. Tuttavia, senza un adeguato

trattamento di conservazione buona parte dei reperti si deteriorano rapidamente

con perdita di importanti informazioni storiche. Ovviamente, tale inconveniente

non coinvolge unicamente l’archeologo che ha condotto lo scavo, ma riguarda

tutti gli studiosi che avrebbero potuto esaminare successivamente il materiale

privo di alterazioni.

I manufatti recuperati da un ambiente umido, ad esempio quello marino,

risultano spesso ben conservati, ma di natura estremamente friabile. Tali

manufatti se non prontamente trattati sono suscettibili di un rapidissimo

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deterioramento, risultando successivamente inutilizzabili sia per fini diagnostici

che per l’esposizione in un museo. Materiali organici come pelle, legno, tessuti,

funi, resti vegetali, ecc. se lasciati essiccare senza alcun trattamento di

conservazione possono in poche ore sgretolarsi e diventare praticamente un

ammasso di polvere e detriti. Manufatti in ferro possono resistere per giorni o

mesi in funzione della dimensione e della consistenza compatta o porosa del

manufatto, ma di sicuro si deteriorano suddividendosi in pezzi e divenendo

praticamente inutilizzabile sia per l’esposizione che la diagnostica. Ossa, vetro,

ceramica e materiali simili, se non adeguatamente conservati devetrificano e in

qualche caso degenerano, divenendo un inutile ammasso di detriti. Per tutte

queste ragioni la fase di conservazione dei reperti deve avere un ruolo

predominante nella programmazione di uno scavo di un sito archeologico.

La stima dei costi di uno scavo archeologico risulta una operazione abbastanza

difficile. Le risorse che si rendono necessarie per ciascun trattamento di

conservazione dipendono strettamente dalla dimensione del reperto da trattare.

Se per esempio un oggetto va lavato con una soluzione di carbonato di sodio, è

ovvio che occorrerà: carbonato di sodio, acqua e una vasca per l’immersione

dell’oggetto e se soluzione ed oggetto vanno riscaldati nel corso del trattamento

ci vorrà pure una sorgente di calore che potrà essere una semplice piastra on un

forno a seconda della dimensione dell’oggetto. Il costo dell’intero trattamento

risulterà strettamente connesso con la dimensione del manufatto ed il tempo

richiesto per il trattamento che possono essere difficilmente stimati in anticipo.

Qualsiasi considerazione su trattamenti di conservazione a breve e a lungo

termine risulta assolutamente priva di senso. Un trattamento di conservazione

non può distinguersi in trattamento a medio-termine e trattamento a lungo-

termine, la sola possibilità etica è quella di trattare il manufatto in modo che

risulti stabile nel ambiente in cui viene ad essere conservato ed esposto. A tale

proposito seguono alcune regole etiche per la conservazione dei manufatti

antichi.

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Codice di etica del restauratore

Seguono alcune considerazioni sull’etica della conservazione, adottate come

guida dall’Istituto Internazionale per la Conservazione. La conoscenza di queste

informazioni etiche aiuta a scegliere il trattamento più adeguato per la

conservazione di un manufatto. Pertanto questi criteri devono essere rispettati il

più possibile nella conservazione archeologica.

A. Rispetto dell’integrità del reperto

Il criterio fondamentale nella conservazione è che tutti gli interventi del

restauratore devono assolutamente rispettare l’integrità storica, estetica e fisica

dei reperti che devono essere preservati il più possibile, a prescindere dalle

condizioni e dal valore. Dopo il trattamento di conservazione un reperto

dovrebbe aver mantenuto il più possibile inalterate le informazioni diagnostiche.

B. Tecniche e attrezzature

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E' responsabilità del restauratore procedere nello studio e nel trattamento di

un’opera artistica o storica esclusivamente entro i limiti delle proprie

competenze professionali e delle attrezzature a lui possibili.

C. Unico standard

Il restauratore si impegna a conservare qualsiasi opera artistica o storica il

meglio possibile indipendentemente dalla sua opinione o dal valore e dalla

qualità del reperto. Il restauratore dovrebbe sempre attenersi allo standard di

trattamento migliore. La sua qualità non dovrebbe mai essere influenzata dal

valore del reperto. Tuttavia, se si tratta di conservare grosse quantità di reperti,

come ad esempio materiali d’archivio, potrebbero essere richieste tecniche

speciali che comunque rispettino l’integrità dei manufatti.

D Adattabilità di trattamento

Il restauratore non dovrebbe effettuare o consigliare alcun trattamento che non

sia conforme alla conservazione o al rispetto dell’opera artistica o storica.

L’onorario del restauratore non deve condizionare la qualità del trattamento o la

sua prestazione lavorativa. Vale a dire che non si deve utilizzare alcuna

procedura che non sia la migliore. Qualsiasi tipo di trattamento sebbene

economico e durevole dovrebbe essere evitato qualora vi fosse la possibilità di

danneggiare il manufatto.

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E. Principio di reversibilità del trattamento

Il restauratore dovrebbe cercare di applicare sempre il principio di reversibilità

del trattamento, cioè evitare l’utilizzo di materiali per la cui natura può rendersi

difficoltosa la successiva rimozione, mettendo in pericolo l’integrità fisica dei

reperti. Si dovrebbe anche evitare l’uso di tecniche i cui risultati non siano

reversibili, se occorre. Quindi, non si deve utilizzare alcun procedimento che

risulti dannoso per i reperti, qualora si richieda un ulteriore procedura di

conservazione. Tutti i trattamenti devono essere reversibili. Infatti una procedura

di conservazione non può durare all’infinito, né rimanere superiore, né la

migliore per sempre. Se il trattamento è reversibile, c’è sempre la possibilità di

tornare indietro, assicurando così la migliore conservazione di un manufatto.

F. Limitata reintegrazione estetica

Il restauratore può applicare una o più o meno estesa reintegrazione, se intende

far fronte a un danno o a una perdita di qualche frammento del manufatto. E’

evidente che , dal punto di vista etico, non si deve intervenire su un reperto fino

al punto di modificarne significativamente le caratteristiche originarie.

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G. Formazione continua

E’ responsabilità del restauratore tenersi costantemente aggiornato per

continuare a migliorare le proprie tecniche, affinché intervenga sempre nel

modo migliore, qualora le circostanze lo permettano.

H. Gestione del personale ausiliario

Il restauratore ha l’obbligo di proteggere e conservare le opere artistiche e

storiche sotto la propria responsabilità, sorvegliando e coordinando il lavoro di

tutti i suoi collaboratori. E’ consigliabile che il restauratore non venga coinvolto

in prima persona nella gestione dei rapporti con gli enti responsabili . L’unica

eccezione può essere fatta nel momento in cui venga nominato supervisore di

personale che sia insufficientemente preparato. La conservazione non consiste

soltanto in un insieme di procedure e trattamenti. Spesso il restauratore è il

primo, in qualche caso (campioni molto fragili), la sola persona a vedere il

manufatto originario. Le responsabilità del restauratore sono simili a quelle

dell’archeologo: riparare, custodire, catalogare i manufatti che sono sotto la sua

responsabilità. La conservazione è una forma mentis caratterizzata dal profondo

rispetto per l’integrità dei reperti e per quello che rappresentano storicamente.

Procedure di conservazione

La conservazione deve essere parte di qualunque progetto archeologico e questo

risulta particolarmente vero per i siti archeologici umidi, vale a dire quei siti

collocati in prossimità di acquitrini, fiumi ed oceani. Tra i siti umidi, quelli

ritrovati in acqua i mare rappresentano i più difficoltosi per il conservatore. I

manufatti provenienti da ambienti marini sono saturi di sali che vanno

accuratamente rimossi quando il manufatto viene recuperato. Inoltre, l’acqua di

mare accelera i processi di corrosione di numerosi manufatti metallici. Se il sale

non viene rimosso ed il manufatto prontamente trattato, esso si deteriora col

tempo divenendo inutilizzabile sia come campione diagnostico che da

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esposizione in un museo. Occorre inoltre che chi dirige uno scavo tenga ben

presente che un progetto archeologico non termina sul campo, ma continua in

laboratorio. Una grossa mole di dati viene infatti recuperata in laboratorio come

sul campo. Informazioni registrate sia sul campo che nel laboratorio di

conservazione devono essere utilizzate in maniera congiunta al fine di pervenire

ad una corretta interpretazione.

Conservazione in laboratorio

Le operazioni che vengono condotte in laboratorio dal momento in cui il

campione viene consegnato fino alla sua collocazione finale nel posto di

conservazione ed esposizione possono essere raggruppate nelle seguenti fasi:

1. Conservazione prima del trattamento;

2. Valutazione del processo di conservazione;

3. Ripulitura meccanica;

4. Trattamento di stabilizzazione;

5. Restauro (opzionale);

6. Conservazione ed esposizione dopo pulitura.

Sono di seguito brevemente analizzate le sole fasi da 1 a 4.

Conservazione prima del trattamento. In termini generali, qualsiasi oggetto

metallico deve essere tenuto immerso in acqua di rubinetto a cui sia stato

aggiunto un inibitore di corrosione. Per la conservazione a lungo termine, sono

stati ottenuti risultati eccellenti utilizzando una soluzione all’1% di dicromato di

potassio a cui era aggiunta una quantità sufficiente di idrossido di sodio per

ottenere un pH di 9-9,5. Soluzioni inibenti alcaline come la soluzione al 5% di

sodio carbonato o quella al 2% di idrossido di sodio possono anche essere

utilizzate, ma non risultano soddisfacenti per la conservazione a lungo termine.

Come sopra menzionato, qualsiasi incrostazione superficiale o strato di

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corrosione deve essere lasciato intatto finché l’oggetto non viene trattato giacché

questo strato costituisce un rivestimento protettivo che ritarda la corrosione.

Valutazione del processo di conservazione. Prima di trattare qualsiasi

manufatto, specialmente quando incrostato con carbonati, occorre stabilirne la

natura, il tipo di incrostazioni e l’eventuale presenza di materiali organici. Solo

dopo che il manufatto è stato opportunamente analizzato e tutte le

considerazioni del caso sono state effettuate può essere deciso il tipo di

intervento da dover eseguire.

Ripulitura meccanica. I raggi X sono indispensabili per determinare la quantità

delle incrostazioni e le condizioni di ciascun oggetto. Inoltre, servono come

guida nell’operazione di estrazione del manufatto dalla incrostazione. L’utilizzo

di reattivi chimici per rimuovere l’incrostazione risulta in genere una procedura

lentissima ed inefficace che può anche danneggiare il materiale. L’impiego di

martello e scalpello di varie dimensioni costituisce l’approccio più utilizzato ed

efficace. Tuttavia per molti oggetti specialmente quelli fragili e ceramici, piccoli

attrezzi pneumatici risultano spesso indispensabili. Questi risultano per il

momento i più efficaci e meno invadenti di qualunque altro strumento. Scalpelli

pneumatici più grossi sono particolarmente utili per il trattamento di estese aree

incrostate. Punte più piccole e precise insieme a scalpelli più delicati risultano

invece ideali per rimuovere le incrostazioni da manufatti piccoli e fragili e per

accedere all’interno di strette fenditure. La combinazione dei due strumenti è

spesso consigliabile ed abbastanza efficace nella ripulitura delle parti del

manufatto libere di muoversi. L’utilizzo di dispositivi a getto di sabbia viene in

genere sconsigliato.

Trattamento di stabilizzazione. Va anzitutto osservato che la conservazione

non è una scienza esatta e pertanto due diversi conservatori possono trattare lo

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stesso oggetto con tecniche completamente differenti. L’obiettivo è quello di

trattare qualunque oggetto in maniera tale da renderlo stabile evitando che perda

attributi diagnostici. Pertanto ci sono scelte in qualunque procedura di

conservazione che portano ad un manufatto ben conservato.

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Uso dei polimeri in conservazione

Polimeri e resine sintetiche sono materiali ampiamente utilizzati dai restauratori

come consolidanti, adesivi, ricoprenti, ecc. Queste sostanze plastiche sono

costituite dalla ripetizione periodica di una certa unità strutturale in maniera

lineare o tridimensionale. L’unità strutturale si origina a partire da molecole

piccole dette monomero. Le resine possono essere distinte in: termoplastiche e

termoindurenti. Le resine termoplastiche sono polimeri nei quali i monomeri si

uniscono per formare catene lineari che rimangono costantemente fusibili e

solubili. Tuttavia, dopo una prolungata lunga esposizione alla luce o al calore

molte resine termoplastiche originano materiali non più fusibili. Invece, le resine

termoindurenti, vengono indurite per azione del calore, da cui il nome. Queste

sono caratterizzate da monomeri polifunzionali, che legandosi tra loro originano

un reticolo tridimensionale, che non può ne fondere ne disciogliersi in alcun

solvente. Il reticolo tridimensionale non permette al solventi di penetrare tra le

catene e così le resine termoindurenti rimangono costantemente insolubili.

Comunque alcuni solventi possono essere assorbiti da queste resine, aumentando

di volume fino a costituire un gel. Alcune composizioni possono dare origine a

legami chimici trasversali chiamati, che sono collocati tra le catene lineari per

formare strutture tridimensionali. Attualmente vi sono molte resine che non

hanno bisogno di essere riscaldate ad alta temperatura per polimerizzare. Ci

riferiamo ad esempio alle resine epossidiche, poliuretaniche, ecc. Esse possono

polimerizzare a temperatura ambiente per semplice aggiunta di un catalizzatore.

Numerosi sono le resine utilizzate nel restauro come adesivi e consolidanti e

nuovi prodotti vengono continuamente sperimentati. I polimeri più

comunemente usati in conservazione sono: il polivinile acetato (PVAc) (ottenuto

per emulsione), la cellulosa nitrata, le resina polivinilica di Butyral e vari

polimetacrilati in solvente organico.

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Il polivinile acetato

Il polivinile acetato (PVAc) è il polimero termoplastico più frequentemente

utilizzato nelle operazioni di recupero di reperti organici provenienti da scavi

archeologici. Il polivinile acetato viene usato sia come consolidante che come

adesivo. Questo polimero presenta in genere valori di viscosità che variano tra

1.5 e 60. La viscosità del polimero è in relazione col suo peso molecolare,

minore è la viscosità, più è basso il peso molecolare e di conseguenza maggiore

è la capacità del materiale di penetrare e quindi di consolidare il manufatto

antico.

Il PVAc a bassa viscosità, presenta caratteristiche adesive inferiori ai prodotti a

più elevata viscosità e porta alla formazione di rivestimenti che hanno la

caratteristica di attirare la polvere. Un rivestimento in PVAc con una viscosità

intorno ai 25, appare lucido ed è spesso fragile se usato allo stato puro (cioè

senza adeguati additivi).

Il polivinil acetato con viscosità pari a 7, 15 e 25 costituiscono i prodotti che

vengono più frequentemente utilizzati in conservazione. Il PVAc a viscosità 7,

costituito da macromolecole di piccola dimensione, è utilizzato con reperti in

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materiale compatto (ad esempio per preservare ossa e avorio). Il PVAc a

viscosità 15, è generalmente usato come resina, invece, a viscosità 25, è usato

come colla. Questo polimero ha una buona stabilità all’aria e non ingiallisce.

Anche a distanza di anni il materiale rimane solubile e non presenta fenomeni di

reticolazione. Il PVAc a concentrazione elevata (specialmente il tipo a viscosità

25) può essere usato come consolidante di superficie o come colla. Molti

restauratori, utilizzano con grande successo il PVAc a viscosità 25 come

adesivo, specialmente per l’incollaggio della ceramica.

Va osservato però che occasionalmente parti di vasi ceramici, incollati col PVAc

a concentrazione 25, hanno ceduto a causa dell'eccessivo scorrimento della

resina quando collocata in ambienti molto umidi. Il PVAc può essere usato con

qualunque reperto non metallico, come ad esempio: ossa, avorio, conchiglie,

corno, denti, legno, resti vegetali, tessuto, pietra, etc. Il PVAc a bassa viscosità

(7 o 15) viene usato per preparare soluzioni consolidanti da applicare a spruzzo

su reperti fragili. Talvolta il trattamento di consolidamento riesce meglio se il

reperto viene immerso più volte in soluzioni diluite di PVAc. Spesso il film di

PVAc depositato sul reperto appare eccessivamente lucente, questo effetto può

essere completamente eliminato lasciando che il reperto si asciughi, tenendolo

sospeso sul solvente usato per sciogliere il PVAc. In alternativa, la lucentezza

può essere eliminata pulendo la superficie con un panno imbevuto con uno dei

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solventi. Il materiale essiccando subisce un ritiro in grado di esercitare una certa

pressione sul reperto trattato.

Questo fenomeno può aumentare la fragilità dei pezzi più piccoli e sottili, i

materiali tessili, le superfici verniciate e situazioni analoghe. Il PVAc, inoltre,

può essere usato come sigillante per applicazione di calore calore. Il PVAc è

solubile in una varietà di solventi organici e la sua solubilità risulta

proporzionale alla volatilità del solvente. Maggiore è la solubilità del PVAc,

migliore risulta la penetrazione dell'adesivo nel reperto trattato. vengono di

seguito elencati alcuni dei solventi più comuni andando da quello più volatile a

quello di meno:

- Cloroformio

- Etere etilico (molto volatile)

- Benzene (molto tossico, cancerogeno)

- Dicloroetano

- Metil-etil-chetone (tossico)

- Toluene (lievemente tossico)

- Acetato di amile (caratteristiche simili all'etere etilico)

Vengono in genere preferiti i solventi miscibili con acqua in quanto meno

tossici. L'acetato di amile può essere aggiunto agli altri al fine di ridurne la

volatilità, ma aggiunto ad etanolo ha l’effetto di aumentarla . Il PVAc può essere

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anche acquistato in forma di emulsione. Le emulsioni sono particelle di resina

disperse in acqua. La resina è in sospensione nell'acqua, ma non disciolta. Le

emulsioni del PVA possono essere usate anche sul materiale bagnato senza

doverlo prima essiccare. Nel restauro del materiale ceramico, si è scoperto che le

emulsioni di PVAc formano dei piccoli ponti ottici tra i pezzi che il solvente

incolla., Per impregnare un materiale con PVAc, occorre prima diluito. Il PVAc

a viscosità 25 e quello a viscosità 15, sono i prodotti generalmente utilizzati

come colle. Quando impiegato come colla, il polimero viene applicato a strati.

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La resina acrilica: Acryloid-B72

Il prodotto Acryloid B72 è molto diffuso nell’ambito della conservazione e

corrisponde in Europa al materiale Paraloid B72. Si tratta di una resina acrilica

termoplastica, che viene in molti casi preferita dai restauratori al PVAc. Il

materiale consiste in un particolare copolimero metacrilico con eccellenti

caratteristiche adesive. Le soluzioni di Acryloid si asciugano formando

rivestimenti meno lucidi del PVAc. Le Soluzioni si asciugano formando una

pellicola trasparente completamente incolore e inalterabile finanche alle elevate

temperature. La resina Acryloid possiede proprietà fisiche decisamente durevoli

nel tempo ed inoltre resiste bene a acqua, alcoli, alcali e acidi. Il materiale ha

anche una eccezionale resistenza a grassi di vario tipo e oli minerali e vegetali,

senza mai perdere le caratteristiche ottiche e di flessibilità.

I rivestimenti di Acryloid possono ottenersi con vari metodi, ma si preferisce

applicarlo a spruzzo. Il materiale non altera i pigmenti e non ingiallisce mai.

L’acryloid può essere anche usato in combinazione col PVA ed il nitrato di

cellulosa. Queste particolari formulazioni forniscono dei rivestimenti più stabili

e trasparenti di quelli ottenuti con i singoli componenti e a concentrazioni

elevate possono essere anche utilizzati come colle. Acryloid è l’unico materiale

che resiste molto bene all’etanolo, quando depositato da soluzioni in acetone o

toluene. E’ stato constatato che alcuni reperti dalla superficie friabile e porosa

contaminata da sali possono essere convenientemente stabilizzati per

ricoprimento con Acryloid B72 senza riscontrare gli inconvenienti che invece si

osserverebbero col nylon a contatto con sali.

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Le emulsioni di polivinilacetato

Un tipo di materiale ben conosciuto nel settore è la cosiddetta colla di Elmer

(ELMERS’ GLUE ALL). Si ritiene che la ELMERS’ GLUE ALL sia

semplicemente una emulsione del PVAc, tuttavia le prime formulazioni

consistevano in colla di caseina. L’impiego di una emulsione comporta il

vantaggio rispetto alle soluzioni di PVAc di non richiedere solventi diversi

dall’acqua. L’aggiunta di altri solventi avrebbe il solo effetto di consolidare

meglio la colla. Il materiale trova un uso limitato in conservazione, tuttavia

risulta eccellente come colla per manufatti in legno (non destinati

all’esposizione agli agenti atmosferici) e in osso. Come colla si richiede la

diluizione con acqua per meglio impregnare e rafforzare le superfici coinvolte

nell’incollaggio.

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Il nitrato di cellulosa

Questo polimero è da tempo utilizzato in conservazione, ma recentemente è

stato quasi completamente sostituito con altre resine sintetiche. Il nitrato di

cellulosa è ancora utilizzato specialmente come adesivo. Il materiale ha

caratteristiche simili al PVA, ma non è gommoso come il PVA.

Va osservato che il nitrato di cellulosa ha una certa tendenza a diventare fragile

e quindi a frantumarsi rispetto al PVA. Il materiale è solubile in acetone, metil-

etil-chetone e esteri come l’acetato di amile.

Dal momento che non è solubile in alcol (etanolo e metanolo), il nitrato di

cellulosa può essere depositato su reperti già trattati con soluzioni alcoliche di

altre resine . Molti prodotti a base di nitrato di cellulosa sono disponibili sul

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mercato, in questi per risolvere il problema della fragilità, al polimero viene

solitamente aggiunto un plasticizzante. Ad esempio, il cemento di DUCO è un

prodotto ben noto negli USA. Si tratta di una soluzione di nitrato di cellulosa in

acetone/butilacetato con aggiunta di olio di senape come plasticizzante. Il

cemento di DUCO, viene ampiamente utilizzato con grande successo nella

ricostruzione di reperti in materiale ceramico e nei restauri in generale. Questo

materiale è facile da usare e risulta efficace per trattamenti di breve periodo.

Infatti, nel corso degli anni, la colla ingiallisce e diviene anche fragile con

conseguente disfacimento della regione di incollaggio. Spesso l’utilizzo di

questo cemento non è raccomandabile in conservazione. In alcuni casi si rende

necessario l’utilizzo di più resine con solventi adatti per consolidare alcuni

reperti complessi.

Il suo uso in questo caso dovrebbe essere solo provvisorio e quindi dovrebbe

essere rimosso e sostituito con una resina più durevole. Il nitrato di cellulosa non

dovrebbe essere usato come colla mentre in forma opportunamente diluita può

essere utilizzato come stabilizzante per reperti in materiale osseo.

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Il polimetilmetacrilato

Risultano commercialmente disponibili un ampia varietà di resine a base di

polimerilmetacrilato denominate in vari modi tra cui il prodotto più comune è il

Plexiglass. Vi sono varie differenti formulazioni. In passato, buoni risultati sono

stati ottenuti con il prodotto EVACLITE 20/30. Colle a base di

polimetilmetacrilato vengono in genere preparate utilizzando un prodotto noto

come Lucite. Tuttavia, la tossicità dei solventi utilizzati per disciogliere la resina

ne limita fortemente l’impiego. Per la preparazione della colla il plexiglas va

prima ridotto in polvere o granuli più o meno piccoli per macinazione, taglio o

perforazione di lastre di Lucite e a questo materiale va aggiunto

approssimativamente un uguale volume di solvente. Il solvente è costituito da

parti uguali di cloroformio e toluene, a cui si aggiunge acetone per diluirlo e

realizzare la viscosità richiesta. Le resine polimetilmetacrilate sono più durevoli,

ma possiedono un minor numero di solventi.

Cloroformio ed acetato di etile risultano ottimi come solventi per resine

polimetilmetacrilate. Però in genere non basta un unico solvente, ma se ne

richiede una miscela, costituita ad esempio da parti uguali di toluene e metanolo

o da una opportuna miscela di cloroformio e dicloroetano. In forma di soluzione

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diluita, i polimetilmetacrilati permeano velocemente materiali anche molto

densi. Questo tipo di consolidante, risulta particolarmente utilizzato quando è

richiesta l’applicazione successiva di vari consolidanti sulla superficie di uno

stesso reperto o gruppi di reperti. Come per il PVA, i polimetilmetacrilati, sono

disponibili sia in forma di resina che di emulsione (il prodotto Bedacryl è ad

esempio una emulsione a base di polimetilmetacrilato).

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L’alcool polivinilico

Il polivinil alcol è una resina utilizzata soltanto in casi particolari in quanto

l’acqua è l’unico solvente adatto. Le resine ottenute dal polivinile alcolico sono

usate come consolidanti e come adesivi. Essi si presentano in forma di polvere

bianca con un grado di acidità basso, medio o alto e con una viscosità che varia

tra 1.3 e 60. In conservazione, è maggiormente diffuso l’impiego di resine con

un grado d’acidità basso o medio e con una viscosità che varia tra 2 e 6. Resine

con concentrazioni dal 10% al 25 % in peso, sono usate a seconda della viscosità

e del grado di penetrazione richiesto. In genere, strati di alcool polivinilico

risultano più trasparenti del PVAc.

Il materiale risulta più flessibile e si contrae meno rispetto ad altre tipologie di

resine. Inoltre, la contrazione trasmessa al substrato quando si asciuga è

decisamente inferiore a quella del PVAc e per questa ragione, il prodotto viene

ampiamente utilizzato nella conservazione di materiale tessile. Può essere usato

sia sui reperti umidi che asciutti. Il polivinile alcol è stato spesso usato per il

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trattamento di ossa umide, materiale tessile fragile e per l’incollaggio di

manufatti tessili ai supporti. E’ stato utilizzato nella conservazione della carta e

di materiali tessili, tuttavia il polivinil alcool non è consigliabile per il

trattamento del legno.

Poiché il polivinile alcool può essere disciolto solamente in acqua, le soluzioni

richiedono l’aggiunta di un fungicida che ha la funzione di prevenire la

formazione di muffa. Il materiale ha una certa tendenza a reticolare se esposto

per lunghi periodi (3-5 anni) a luce intensa, ambienti secchi e sorgenti di calore

(temperature dell’ordine di 100°C). La solubilità della resina in questo caso si

riduce, ma il materiale non diviene mai completamente insolubile e quindi può

essere sempre rimosso. Dopo un periodo di 3-5anni è consigliabile sostituire il

trattamento con polivinilalcol dai reperti al fine di eliminare il materiale

eventualmente reticolato. Il polivinilaclol si ottiene per idrolisi del

polivinilacetato pertanto del acetato rimane sempre nella struttura del polimero.

Il polivinil alcol a basso contenuto di acetato risulta solubile anche in acqua

fredda, ma i prodotti a contenuto medio alto di acetato, vanno disciolti

necessariamente in acqua calda (40-50°C). L’utilizzo di questo materiale come

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consolidante è diffuso soprattutto quando è richiesto più di un consolidante per

lo stesso reperto. Il polivinil alcool è molto resistente agli oli, ai grassi, ai

solventi organici, ma aderisce male alle superfici lisce.

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Le resine epossidiche

Sono commercialmente disponibili una ampia varietà di resine epossidiche con

caratteristiche molto diverse. Pertanto ogni restauratore, sceglie il prodotto

giusto a seconda del tipo di applicazione. Le resine epossiliche, sono eccellenti

sia come adesivi, che consolidanti e ricoprenti per frammenti di varia natura. Ci

sono resine termoindurenti che solidificano per aggiunta di un indurente. La loro

principale caratteristica è quella di non subire un considerevole ritiro quando

solidificano. Mentre tutte le resine termoplastiche vengono applicate mediante

un solvente e pertanto si ritirano sensibilmente quando il solvente evapora.

Lo svantaggio principale derivante dall’uso delle resine epossidiche è

l’irreversibilità del trattamento ed il fatto che ingialliscono col tempo. In genere,

il loro utilizzo andrebbe evitato ma ci sono molte situazioni in conservazione per

cui risultano insostituibili. In genere, sono richieste le epossiliche ogni volta che

si richiede una elevata resistenza che altre resine non sono in grado di fornire.

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Questo tipo di materiale risulta eccellente quando si devono realizzare incollaggi

meccanicamente stabili e permanenti. Le resine epossidiche sono utilizzate

principalmente per la ricostruzione di manufatti in legno o vetro e sono usate in

genere per colata. Numerose Aralditi a base epossilica, vengono usate spesso per

la conservazione di parti in vetro e per i fossili o altri materiali che richiedono

un adesivo perfettamente trasparente.