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La presenza del fascismo 405 siga, con l’eccezione del toscano Gronchi e del napoletano Leone) nacquero li e non al- trove, e addirittura tutti i segretari del parti- to comunista italiano (Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto, con la sola eccezione del napoletano Bordiga) furo- no originari delle stesse aree. Lo studio geo- grafico-quantitativo del fascismo può rive- larsi, da questo punto di vista, un vettore di una periodizzazione ben più lunga e di am- pio respiro, richiamando questioni e proble- matiche importanti della storia dell’Italia moderna e contemporanea: che simili sugge- rimenti di ricerca e ipotesi interpretative sia- no stimolati dalla storia locale non può che confortare a continuare a praticarla. Marco Palla Aspetti economici e territoriali del rapporto centro/periferia di Pier Paolo D’Attorre Periferia o provincia? Forse è meglio parlare di periferia, termine più neutro, meno carico di im- plicazioni valutative. Ma anche l’apparente neu- tralità del termine ‘periferia’ non è privo di tra- bocchetti. È stato un geografo a scrivere, a pro- posito dell’opposizione paradigmatica centro-pe- riferia, che quest’ultimo termine va inteso come “un’allegoria nello stesso tempo spaziale e politi- ca” (Yves Lacoste). Ma qual è il peso rispettivo di questi elementi? In quale sistema si inseriscono di volta in volta le coppie piuttosto complementa- ri che antitetiche centro-periferia?1. Le riflessioni di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg introducono molte delle considerazioni preliminari, indispensabili anche in questo più modesto contesto. Il rapporto centro-periferia è paradigma scien- tificamente produttivo se non è grimaldello di semplicistiche contrapposizioni, ma evi- denziatore di nessi ancora sottovalutati. In secondo luogo, si intende rimarcare la pre- senza costante di circuiti a doppio senso, dal centro alla periferia, ma anche dalla perife- ria al centro, che mutano nel tempo. Alla lu- ce di questi rapporti, possono essere riprese e confrontate acquisizioni e ipotesi di ricerca formulate in ambiti diversi e talora poco co- municanti. Il panorama di analisi disponibi- le oggi, rispetto agli anni settanta, da questo punto di vista è assai ampliato. Studi di sto- ria economica e del territorio di grande inte- resse sono stati sviluppati negli annali mo- nografici e nei volumi regionali della Storia d ’Italia Einaudi, su riviste che con maggior determinazione si sono mosse in questa dire- zione, da “Storia urbana” a “Meridiana”. Gli stessi istituti regionali e provinciali della Resistenza hanno contribuito con sondaggi tutt’altro che frammentari. Dall’istituto lombardo a quello campano, dall’istituto astigiano a quello calabrese, l’elenco è a tut- ti ben presente. Vorrei ricordare in partico- lare lo scavo in questo contesto operato in Emilia Romagna, dall’istituto regionale, con La ricerca di cui si delinea qui il percorso essenziale rientra nel progetto “11 fattore locale nell’Italia del Novecento” (finanziamenti 40 per cento), coordinato da Guido D’Agostino e Massimo Legnani. 1 Enrico Castelnuovo - Carlo Ginzburg, Centro e periferia, in Giulio Bollati - Paolo Fossati (a cura), Storia dell’ar- te italiana, l.ì. Questioni e metodi, Torino, Einaudi, 1979, p. 285. Il riferimento è Yves Lacoste, Geografia del sot- tosviluppo, Milano, 11 Saggiatore, 1980.

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siga, con l’eccezione del toscano Gronchi e del napoletano Leone) nacquero li e non al­trove, e addirittura tutti i segretari del parti­to comunista italiano (Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto, con la sola eccezione del napoletano Bordiga) furo­no originari delle stesse aree. Lo studio geo- grafico-quantitativo del fascismo può rive­larsi, da questo punto di vista, un vettore di

una periodizzazione ben più lunga e di am­pio respiro, richiamando questioni e proble­matiche importanti della storia dell’Italia moderna e contemporanea: che simili sugge­rimenti di ricerca e ipotesi interpretative sia­no stimolati dalla storia locale non può che confortare a continuare a praticarla.

Marco Palla

Aspetti economici e territoriali del rapporto centro/periferiadi Pier Paolo D’Attorre

Periferia o provincia? Forse è meglio parlare di periferia, termine più neutro, meno carico di im­plicazioni valutative. Ma anche l’apparente neu­tralità del termine ‘periferia’ non è privo di tra­bocchetti. È stato un geografo a scrivere, a pro­posito dell’opposizione paradigmatica centro-pe­riferia, che quest’ultimo termine va inteso come “un’allegoria nello stesso tempo spaziale e politi­ca” (Yves Lacoste). Ma qual è il peso rispettivo di questi elementi? In quale sistema si inseriscono di volta in volta le coppie piuttosto complementa­ri che antitetiche centro-periferia?1.

Le riflessioni di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg introducono molte delle considerazioni preliminari, indispensabili anche in questo più modesto contesto. Il rapporto centro-periferia è paradigma scien­tificamente produttivo se non è grimaldello di semplicistiche contrapposizioni, ma evi­denziatore di nessi ancora sottovalutati. In secondo luogo, si intende rimarcare la pre­senza costante di circuiti a doppio senso, dal

centro alla periferia, ma anche dalla perife­ria al centro, che mutano nel tempo. Alla lu­ce di questi rapporti, possono essere riprese e confrontate acquisizioni e ipotesi di ricerca formulate in ambiti diversi e talora poco co­municanti. Il panorama di analisi disponibi­le oggi, rispetto agli anni settanta, da questo punto di vista è assai ampliato. Studi di sto­ria economica e del territorio di grande inte­resse sono stati sviluppati negli annali mo­nografici e nei volumi regionali della Storia d ’Italia Einaudi, su riviste che con maggior determinazione si sono mosse in questa dire­zione, da “Storia urbana” a “Meridiana”. Gli stessi istituti regionali e provinciali della Resistenza hanno contribuito con sondaggi tutt’altro che frammentari. Dall’istituto lombardo a quello campano, dall’istituto astigiano a quello calabrese, l’elenco è a tut­ti ben presente. Vorrei ricordare in partico­lare lo scavo in questo contesto operato in Emilia Romagna, dall’istituto regionale, con

La ricerca di cui si delinea qui il percorso essenziale rientra nel progetto “11 fattore locale nell’Italia del Novecento” (finanziamenti 40 per cento), coordinato da Guido D’Agostino e Massimo Legnani.1 Enrico Castelnuovo - Carlo Ginzburg, Centro e periferia, in Giulio Bollati - Paolo Fossati (a cura), Storia dell’ar­te italiana, l . ì . Questioni e metodi, Torino, Einaudi, 1979, p. 285. Il riferimento è Yves Lacoste, Geografia del sot­tosviluppo, Milano, 11 Saggiatore, 1980.

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i suoi “Annali” dedicati al bracciantato, alla battaglia del grano, alla scuola, al partito, all’industrializzazione, e da alcuni istituti provinciali, come quelli di Ravenna, Forlì e Reggio Emilia. A taluni di questi studi farò riferimento diretto nel seguito del testo.

Vi è poi da aggiungere un’attenzione cre­scente a questa dimensione territoriale dello sviluppo tra le due guerre nel campo degli studi di storia dell’industria e dell’agricoltu­ra — si pensi su quest’ultimo versante ai saggi raccolti da Piero Bevilacqua nella Sto­ria dell’agricoltura italiana nell’età contem­poranea — e dell’economia nazionale nel suo insieme, evidente nella recentissima sin­tesi di Vera Zamagni, Dalla periferia al cen­trò1. I processi di gerarchizzazione territo­riale tra le due guerre, si connettono da un lato all’industrializzazione, per vie tutt’altro che lineari, dall’altro aH’implementazione e diffusione della trama istituzionale propria dello stato amministrativo. Interessa in par­ticolare l’interferenza di questi processi con la formazione di nuove economie locali. Se­guendo queste due direttrici si respinge ogni immagine di periferia come sinonimo di di­pendenza. Non sembra reggere più, neppure per il Mezzogiorno più profondo, l’idea di una passività della periferia contrapposta ad un onnipotente centralismo burocratico. Al contrario, l’ipotesi è quella di rintracciare, tra le due guerre, quanto meno, le origini di un modello di sviluppo nazionale misto e

multiregionale, cioè fondato sulla sinergia tra una forte presenza dello Stato e dinami­che locali differenziate. Aggiungiamo che qui il concetto di regione è adottato non co­me sinonimo di unità amministrativa o spa­zio vissuto, ma come sistema territoriale di­stinto da altri, polarizzato, flessibile e spe­cializzato economicamente2 3.

L’adozione di questa nozione è essenziale per passare da un’indistinta ‘periferia’ alla realtà di molteplici periferie, non coincidenti con le ‘cento città’ italiane ed il relativo con­tado. Con i termini “periferie” o “regioni” si vuole superare un limite cronico negli stu­di locali: l’adozione di ambiti amministrativi tradizionali — il Comune, il Circondario, la Provincia — che prelude alla miniaturizza­zione di trend e dialettiche nazionali, per lo più ordinate secondo scansioni proprie della storia politica. Sia detto per inciso, tali limi­ti non sembrano superati da un approccio più sensibile all’antropologia sociale, pro­penso a delineare storie di ‘comunità’, so­prattutto nel Mezzogiorno, scandite da una cronologia propria. Troppo spesso, accanto a risultati straordinari (Fortunata Piselli, Gabriella Gribaudi, eccetera) prevalgono immagini di ‘comunità’ e “società senza sta­to” (Guido Melis), microstorie avulse dalla macrostoria4.

Dunque, periferie, al plurale. E il centro? Può nel caso italiano, ridursi a Roma, allo Stato? È evidente che “centro”, per la storia

2 Piero Bevilacqua (a cura), Storia dell’agricoltura italiana nell’età contemporanea, Venezia, Marsilio, 1989-1991,3 voli.; Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-198!, Bologna, 11 Mulino, 1990. Ma v. anche Gianni Tomolo, L ’economia dell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1980; Pierluigi Ciocca - G. Toniolo, L ’economia italiana neI periodo fascista, Bologna, Il Mulino, 1976.3 Maurice Roncayolo, Regione, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, vol. 11, pp. 772-797; Aa.Vv., Il concet­to storico spaziale di regione: un’identificazione controversa, in “Passato e presente”, 1985, n. 9; E. Juillard - H. Nonn (a cura), Espaces et régions en Europe occidentale. Structures et dimensions des régions en Europe occiden­tale, Paris, CNRS, 1976; Charles S. Sabel, La riscoperta delle economie regionali, in “Meridiana”, 1988, n. 3.4 Raffaele Romanelli, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, e Guido Melis, Società sen­za Stato? Per uno studio delle amministrazioni periferiche tra età liberale e periodo fascista, entrambi in “Meridia­na”, 1988, n. 4. Cfr. anche Paolo Pezzino, Mezzogiorno e potere locale, Analisi classiche e revisioni storiografiche, in “Rivista di storia contemporanea”, 1987, n. 4; Fortunata Piselli - Giovanni Arrighi, Parentela, clientela, comu­nità, in Piero Bevilacqua - Augusto Placanica (a cura), La Calabria, Torino, Einaudi, 1985.

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economica nazionale è ben altro: il ‘triango­lo industriale’ non coincide con lo Stato. Si tratta di ‘centri’ territoriali nettamente di­stinti e, talora, contrapposti. Vi sono poi al­tri centri. Nella storia delle istituzioni credi­tizie meridionali tra le due guerre, la dialetti­ca centro/periferia riconduce al rapporto tra Napoli e le sue province preunitarie... Que­sta pluralità del ‘centro’ è una peculiarità della storia, non solo economica, italiana ri­spetto a quella francese e inglese (ma non spagnola e tedesca) che è da tener presente continuamente. Dunque, centri al plurale, come si danno periferie al plurale: i Sud, le montagne, le aree differenziate dell’attuale ‘sistema’ Nord Est Centro, eccetera. Centri non tutti gerarchicamente sullo stesso piano, perché sedimentazioni ed emittenti di poteri diversi. Ora, se la caratteristica distintiva del periodo tra le due guerre è la formazione dello stato amministrativo, e la sua articola­zione territoriale, è evidente che un centro, tra gli altri, si afferma e va privilegiato nel­l’analisi. Non è il caso di motivare in questa sede la sottolineatura del processo di forma­zione di questo stato amministrativo. La bi­bliografia, da Sabino Cassese in avanti, è ampia. Interessa qui la legislazione, ma so­prattutto la prassi istituzionale, la creazione di poli economici — produttivi, finanziari, di servizio e coordinamento — decisivi come Tiri e Fimi o la riqualificazione di strutture preesistenti, dall’Ina all’Inps. Non tutte queste amministrazioni autonome e parallele sono state studiate, né di tutte è stata ap­prezzata la capillare articolazione nel terri­torio. Eppure il Crediop o l’Anas, gli enti preposti alla bonifica e alla colonizzazione

hanno un impatto specifico sulle periferie, meritevole di attenzioni paragonabili a quel­le dedicate al vertice di queste istituzioni. Sono storie di insediamenti burocratici, ra­mificazioni clientelari, circuiti di potere, ca­nalizzazione di risorse importanti per questo o quel capoluogo5.

La domanda che viene immediata è se, co­me sostenuto da alcuni, lo stato amministra­tivo produca una più salda unificazione e omologazione del territorio. Secondo i teori­ci del regime — non solo giuristi — la fine dei ‘regionalismi’, primo fra tutti la ‘que­stione meridionale’, è proprio il risultato di questa nuova presenza statuale. La storio­grafia sembra accettare questa conclusione, sia pure per altre vie. Delineando una ma­glia periferica dello Stato nel ventennio sem­pre più pervasiva, Roberto Ruffilli ha scritto di una “prospettiva di coordinamento auto­ritario, da parte dei poteri statuali, dell’atti­vità del paese ad ogni livello”. E Valerio Ca­stronovo, riflettendo sul trasferimento di competenze e poteri dal privatismo padro­nale a nuove istanze burocratiche statali e parastatali, ha delineato più volte la dimen­sione sociale di tale unificazione del territo­rio, operata dallo stato amministrativo6.

Si tratta di valutazioni condivisibili, a pat­to che siano integrate da un’analisi minuta di processi concreti. Esemplificare, a questo punto, è opportuno. Secondo le disposizioni del 1926, il prefetto è il tramite di questo ruolo pervasivo dello Stato nella periferia, sul versante economico. Quelle disposizioni, come noto, ampliano sulla carta le compe­tenze del funzionario: si pensi alla responsa­bilità nei consigli provinciali dell’economia,

5 Sabino Cassese, La formazione dello stato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1974; dello stesso, Prospettive degli studi di storia locale, in M. Bigaran (a cura), Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1986; Guido Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo, Bologna, Il Mulino, 1988; Paolo Calan­dra, Storia dell’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978.6 Roberto Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano, Giuffrè, 1971, p. 386; Valerio Castronovo, Fascismo e classi sociali, in Nicola Tranfaglia (a cura), Fascismo e capitalismo, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 125-126.

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che non sono certo superfetazioni formali nelle città italiane. I sondaggi locali tuttavia tendono a dirci che il prefetto negli anni trenta, molto controlla, ma poco dirige; di fatto a lui molto sfugge e altrettanto è dele­gato ad altri. Passiamo alla struttura corpo­rativa periferica: mercato del lavoro, indu­stria, terziario sono sempre più irregimentati entro uffici e comitati, orizzontali e vertica­li. Il caso dell’agricoltura è di straordinario interesse e si coglie qui tutta la complessità (pervasività e pesantezza) dell’organizzazio­ne che muta la collocazione dell’intero com­parto, a settore assistito, se non già sostan­zialmente parastatale7. L’agricoltura illumi­na, come pochi altri comparti, il processo di decentramento burocratico del ministero in provincia. Ma recenti ricerche tendono a de­lineare un’articolazione analoga per i Lavori pubblici, “grande ministero tecnico, punto di raccordo tra interessi meridionali e cultu­ra della gestione”, con i provveditorati, gli uffici del Genio civile, i circuiti delle gare d’appalto, delle commissioni corporative or­dinarie e straordinarie. Gli esempi potrebbe­ro continuare, sulla base di ricerche svilup­pate su scala regionale e nazionale, ma an­che di lacune persistenti (il ministero delle Poste, ad esempio). Hanno una dimensione periferica capillare i circuiti finanziari sem­pre più centralizzati delle casse di risparmio, del credito fondiario, delle banche popolari, ma ha una dilatazione periferica anche il si­stema della previdenza sociale8. Ora, questa maglia sempre più estesa, delinea uno Stato

più forte — come proponeva Ruffilli — o più permeabile? E, in secondo luogo, questo Stato, comunque più pervasivo, è vincolo o volano per lo sviluppo economico delle peri­ferie?

Allo stato attuale delle conoscenze ogni ri­sposta univoca è prematura. Conviene evi­denziare semmai ulteriori ipotesi di ricerca. Unilaterale a me sembra una risposta che tenda a contrapporre Nord e Sud. Lo stato amministrativo sarebbe più forte nel Setten­trione, ove la società civile è più aggregata, e più permeabile nel Mezzogiorno, volano qui e vincolo là. Gli studi di storia dell’agricol­tura, della bonifica, dei lavori pubblici non sembrano però suggerire l’idea di uno Stato fascista che si è fermato a Eboli. Vi è un’al­tra risposta univoca ai quesiti che si ricorda­vano. Consiste nel delineare esclusivamente esiti di maggior subalternità della periferia al centro. Dal punto di vista istituzionale, una maggior subalternità di questa allo stato è indiscutibile. Le autonomie locali — per sottolineare una dimensione del problema, studiata negli anni settanta, ma relativamen­te trascurata nei sondaggi locali del decennio successivo — sono più deboli, già prima del­l’emanazione della nuova legge comunale e provinciale del 19349. Ciò comporta, tra l’altro, una rappresentanza degli interessi lo­cali più disgregata e ininfluente, una mag­gior privatizzazione dei circuiti politici, con una più accentuata commistione tra interessi pubblici e privati. Tutto questo ha senz’altro come corollario un’estensione dei margini di

7 Mario Casalini, Le istituzioni create dallo Stato per l ’agricoltura, Roma, lemia, 1937; Carlo Desideri, L ’ammini­strazione dell’agricoltura, 1910-1980, Roma, E/O, 1981, Sul prefetto v. Sabino Cassese, // prefetto nella storia am­ministrativa, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1983, n. 2.8 Sottolinea l’importanza del ministero dei Lavori pubblici, G. Melis, Società, cit., p. 93; cfr. anche Giuseppe Ba­rone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino, Einau­di, 1986. Per l’articolazione del sistema creditizio v. Associazione bancaria italiana, Repertorio storico-documenta­rio delle aziende di credito, Roma, Abi, 1987; per la previdenza sociale cfr. Domenico Preti, La modernizzazione corporativa, 1922-1940, Milano, Angeli, 1987.9 Sandro Fontana (a cura), Il fascismo e le autonomie locali, Bologna, 11 Mulino, 1973; Philip Morgan, I primi po­destà fascisti: 1926-1932, in “Storia contemporanea”, 1978, n. 3. Per un sondaggio esemplare v. Vittorio Cappelli, Potere politico e società locale. Podestà e municipi in Calabria durante il fascismo, in “Meridiana”, 1988, n. 2. Per

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manovra del centro rispetto a periferie sem­pre più espropriate di competenze. Il qua­dro è particolarmente evidente in realtà che vantavano un’ambizione autonomistica lun­ga e solida: penso a città come Bologna, o a regioni come la Sardegna, sulle quali ab­biamo studi assai attenti. Ma da qui a pro­porre la conclusione di istituzioni locali ri­dotte a semplici terminali dello stato cen­trale, ne corre. Agiscono tendenze in que­sto senso, ma anche robuste controtenden­ze che conviene approfondire. Non sempre si tratta di controtendenze positive: le fi­brillazioni continue tra municipi possono essere lette come diversivi veri e propri di una tensione dalla periferia verso il centro, che si esaurisce in scontri localistici. Esse confermano una subalternità pesante. Tut­tavia, spesso, la periferia reagisce con suc­cesso al centro; ne condiziona passo passo l’azione. Se è vitale l’accesso alle risorse pubbliche, quel condizionamento mira pro­prio ad ottimizzare la canalizzazione. Negli anni venti sono soprattutto i ras locali ad esprimere questa volontà di contare. I re­gionalismi del movimento/partito che occu­pa lo Stato sono forti nell’area padana co­me in Puglia o in Calabria10. Negli anni trenta questa funzione sembra esercitata ancora dal partito, ma in misura sempre più netta da nuovi mediatori, come la rap­presentanza corporativa degli interessi, e soprattutto, la burocrazia periferica degli enti e degli apparati dello stato amministra­tivo. Nella padania, ove l’agricoltura rima­ne comparto decisivo, questa transizione è percepibile nel sempre più modesto inter­vento del partito come tramite di rivendica­

zioni locali negli anni della crisi. Vi sono podestà che si sostituiscono a questa istan­za. Arpinati a Bologna si propone come mediatore forte tra periferia e centro. Ma in generale non è il rettore delle istituzioni stravolte dal regime, il portavoce dei biso­gni locali. L’eco di questi arriva a Roma attraverso il prefetto, o più indirettamente attraverso le rappresentanze burocratiche degli interessi. Così la voce dei ceti sub­alterni, distorta ma inequivoca, è portata al centro dagli interventi ai congressi del sin­dacato rurale piuttosto che non tramite le pagine dei periodici controllati dalle federa­zioni fasciste. La voce dei ceti padronali raggiunge il ministero tramite la Confede­razione fascista degli agricoltori. Anzi, gra­zie al regime questa rappresentanza sinda­cale agraria supera i limiti regionali del passato e riesce a farsi sentire nei centri de­cisionali statali. Ma già nella seconda metà degli anni trenta, rispetto alle burocrazie sindacali vanta canali più efficaci, dalla pe­riferia al centro, l’ispettorato agrario, il consorzio, l’ente di bonifica. La permeabi­lità dei circuiti parastatali agli interessi pe­riferici, è mostrata dal fenomeno, ancora tutto da studiare, delle lobbies regionali che controllano parti importanti di questi circui­ti: i pugliesi ai Lavori pubblici, gli emiliani all’Agricoltura, e così via. Per apprezzare tutta la varietà dei percorsi concreti, più o meno incisivi, basti ricordare i casi limitrofi di Ravenna e Forlì. La prima città si avva­le dell’Ente nazionale fascista della coope­razione come supporto al centro, di richie­ste per lenire la disoccupazione, qualifica­re le infrastrutture economiche, contenere

Bologna cfr. Renato Zangheri (a cura), Bologna, Bari, Laterza, 1986; per la Sardegna, Salvatore Sechi, L ’autono­mismo in Sardegna, in Sandro Fontana, Il fascismo, cit.10 Si sofferma su questa dimensione Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, Laterza, 1974. Cfr. anche Ferdinando Cordova (a cura), Uomini e volti del fascismo, Roma, Bulzoni, 1980, che tuttavia non insiste sulla ‘famiglia’ regionale degli esponenti del regime. Per un sondaggio locale puntuale v. Istitu­to lombardo per la storia del movimento di liberazione, // fascismo in Lombardia. Politica, economia, società, Mi­lano, Angeli, 1989.

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la marginalizzazione nella stessa Emilia Ro­magna a vantaggio di centri più ‘protetti’ (Bologna, Ferrara, Forlì)11. La città del duce, Forlì, offre un’esemplificazione particolar­mente documentata, per ovvi motivi. Qui agi­scono negli anni trenta circuiti notabilari di tipo tradizionale che interconnettono centro e periferia. I mediatori sono il prefetto, il po­destà e il parlamentare, come accadeva nell’e­tà giolittiana. Accanto ad essi vi è un circuito parastatale che si avvale delle burocrazie cor­porative, del partito e della rappresentanza fascista degli interessi per arrivare a Roma e gestire Bussi di risorse in senso inverso. Si so­vrappone a questi, un circuito ulteriore, ga­rantito dalla parentela/clientela della fami­glia Mussolini. Il duce ha un occhio di riguar­do per Forlì, come Balbo per Ferrara, Pavoli- ni per Firenze, Rossini per Novara, i Ciano per Livorno, Starace per il Salento. I tre cir­cuiti non senza tensione coesistono e sono at­tivati, spesso simultaneamente, per canaliz­zare risorse. Dall’insediamento manifatturie­ro alla commessa industriale, dall’opera pub­blica al riconoscimento di prestigio munici­pale, il ventaglio dei ‘benefici’ è quanto mai variegato12. Non solo nella provincia roma­gnola si afferma uno scambio politico, che differisce da quello proprio dell’età giolittia­na, per l’abnorme crescita degli aspetti infor­mali e illegali, discrezionali e clientelari, ma anche per la natura dei flussi. Prevalgono vieppiù flussi ‘assistenziali’, che mirano a manipolare un consenso, a confermare il con­trollo sociale, piuttosto che promuovere lo

sviluppo, accelerare la modernizzazione. Non è un caso isolato. Il dirigismo produtti- vista di alcuni esponenti del regime, qui come in Puglia o in Calabria — come si evince dalle ricerche di Corvaglia e Cappelli — o in altre regioni, quando non si esaurisce spontanea­mente in appelli demagogici sembra rapida­mente sconfitto da poteri tradizionali, e non, che controllano quei circuiti di scambio, quei flussi assistenziali. E tuttavia a Forlì, più di quanto non accada nel Mezzogiorno, per queste vie arrivano risorse decisive per la mo­dificazione della funzione urbana, per l’indu­strializzazione locale (Orsi Mangelli, Becchi, Bonavita, eccetera) per la valorizzazione di una nuova vocazione, come il turismo bal­neare. Dunque né stagnante immobilismo, né assistenzialismo puro e semplice. La periferia è mortificata, nel suo autogoverno, nelle stes­se dinamiche imprenditoriali — si pensi alla parallela emarginazione nello stesso contesto della cooperazione o dell’imprenditorialità mezzadrile — ma, qui come altrove, si nota­no processi che potremmo definire, come ha proposto Luciano Cafagna, di modernizza­zione passiva, e protagonisti che rientrano nella figura dell’imprenditore politico deli­neato per altri contesti, da Giulio Sapelli13.

Più in generale, lo stato amministrativo, articolandosi nel paese, produce gerarchie territoriali nuove rispetto al passato. Ad esempio, esaspera il rapporto, certo già squi­librato in tema di funzioni economiche, tra campagna e città. Nelle città si concentrano nuovi poteri ed apparati. La stessa agricoltu-

11 Ho insistito su questi problemi in Ceto padronale e classi lavoratrici. Due situazioni a confronto: Lombardia ed Emi­lia, in Paola Bertolini e altri, Agricoltura e forze sociali in Lombardia nella crisi degli anni trenta, Milano, Angeli, 1983. Cfr. nello stesso volume i saggi di Carlo Fumian e Donata Brianta. Per il caso di Ravenna cfr. Pier Paolo D’Attorre - Pier Luigi Errani-Paola Morigi, La ‘città de! silenzio’. Ravenna tra democrazia e fascismo, Milano, Angeli, 1988.12 Per Forlì v. Istituto storico della Resistenza, Forlì, Gli anni del regime fascista in provincia di Forlì, in corso di stampa; per Ferrara, v. Giorgio Rochat, Rapporti di potere nella Ferrara fascista, in “Storia contemporanea” , 1982, n. 4. Su Verona v. Maurizio Zangarini, La composizione sociale della classe dirigente net regime fascista: il caso di Verona, in “Italia contemporanea”, 1978, n. 132. Per le città toscane cfr. Marco Palla, / fascisti toscani, in Giorgio Mori (a cura), La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 456 e segg. Un altro caso di notevole interesse è Na­poli, su cui v. Paolo Varvaro, Per una storia del potere fascista a Napoli, in “Italia contemporanea”, 1987, n. 169.13 Luciano Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, in “Meridiana”, 1988, n. 3. Giulio Sapel­li, Lo stato italiano come “imprenditorepolitico", in “Storia contemporanea”, 1990, n. 2. Sul dirigismo produttivi-

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ra vede spostarsi il centro di gravitazione in questo senso. Consorzi di settore e generali, strutture di trasformazione e commercializ­zazione delle derrate, reti finanziarie private e pubbliche gravitano in città. L’espansione urbana e le opportunità speculative aperte dalla politica edilizia del regime attraggono, tra le due guerre più che nell’età giolittiana, le rendite verso le città. L’urbanesimo compor­ta esodo di lavoro e di risorse nel medesimo senso. Non vi è alcuna ruralizzazione della vi­ta economica nel ventennio neppure in quelle regioni che vedono, ancora alle soglie della guerra, prevalere per addetti e valore aggiun­to il settore primario. Né vi è ruralizzazione indotta dallo stato amministrativo. La stessa urbanistica fascista — nelle ‘città nuove’ co­me nelle vecchie — è cultura scientifica del primato urbano, malgrado il ruralismo di facciata14. Semmai, in queste regioni si esten­de la costruzione di un nuovo paesaggio che è fisico ed economico ad un tempo, la “campa­gna urbanizzata”, delineata da Bellicini. Strade e ferrovie secondarie, centri minori più solidi, pendolarismi inediti tra ‘ville’ e cit­tà — tra i tanti protagonisti, le donne di servi­zio ma anche i fornitori di derrate per il con­sumo urbano (latte, ortofrutta) e infine mer­

canti imprenditori e lavoranti a domicilio — innescano, sia pure ancora con ritmi graduali e incerti, nuovi rapporti di interdipendenza15.

Un secondo caso di gerarchizzazione soste­nuta o accelerata dallo stato amministrativo riguarda il rapporto tra montagna e pianura. La marginalizzazione della prima passa attra­verso normative amministrative in tema di usi civici, utilizzazione delle risorse idriche, coordinamento del credito rurale, controllo del mercato del lavoro e dell’emigrazione. La codificazione delle ‘stazioni’ turistiche sele­ziona all’interno di questo ambiente alcuni centri — si pensi a Cortina d’Ampezzo, Me­rano — ma il decollo di questi non smentisce il generale, che tra l’altro, ha pesanti ri- percussioni ecologiche, ancora da quantifica­re16. Infine, entro la maglia urbana, si fanno più forti i primati della capitale sui capoluo- ghi principali, di questi sui comuni minori. Il caso più significativo, accanto a Roma, è Mi­lano, città per la quale abbiamo studi di note­vole interesse. La maglia autostradale che collega il capoluogo lombardo a Como, Ber­gamo e Brescia, Varese, Torino, tra il 1923 e il 1933, è la trama più esterna di un’intelaia­tura gerarchica di flussi di merci, uomini, ser­vizi, informazioni, unica nel paese17. Le dota-

sta, Ennio Corvaglia, Crisi del blocco agrario e capitalismo dipendente (1924-1945), in Luigi Masella- Biagio Salvemini (a cura), La Puglia, Torino, Einaudi; V. Cappelli, Politica e politici, inP. Bevilacqua-A. Placanica, La Calabria, cit.14 Giorgio Ciucci, Gli architetti e ilfascismo, Architettura e città, 1922-1944, Torino, Einaudi, 1989; Landò Bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1978. La rivista “Storia urbana” ha dedicato alla vicenda urbanistica delle città italiane tra le dueguerre, studi e monografie, cui si rimanda per ulteriori riferimenti bibliografici.15 Lorenzo Bellicini, La campagna urbanizzata, Fattorie e case coloniche nell’Italia centrate e nord orientale, in P. Bevilacqua (a cura), Storia dell’agricoltura cit., vol. 1, pp. 77-130. Per la mobilità cfr. Anna Treves, Le migrazioni in­terne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976. Per la diffusione del lavoro a domicilio v. gli studi dedicati ai casi ve­neto e toscano, ma soprattutto marchigiano, richiamati da Patrizia Sabbatucci Severini, La storia dell’industria nelle Marche; note e riflessioni, in “Proposte e ricerche”, 1986, n. 17, e più in generale Sergio Anseimi (a cura), Le Marche, Torino, Einaudi, 1990 (in particolare i saggi della stessa Sabbatucci, di Ercole Sori e Michael Blim).16 Teresa Isenburg, Acqua e Stato. Energia, bonifica e irrigazione in Italia tra 1930 e 1950, Milano, Angeli, 1981, mette in luce un aspetto decisivo di questo rapporto. Ma tutta l’inchiesta Inea sullo spopolamento montano è da leggere in questa direzione come proposto da G. Coppola, F. Bettoni, A Grohmann, P. Tino nei saggi raccolti in P. Bevilacqua (a cura), Storia dell’agricoltura cit., vol. I.17 Per Milano v. Gabriella Bonvini - Adolfo Scalpelli (a cura), Milano tra guerra e dopoguerra, Bari, De Donato, 1979; E. Dalmasso, Milano capitale economica d ’Italia, Milano, Angeli, 1972; D. Franchi - R. Chiumeo, Urbani­stica a Milano in regime fascista, Firenze, Le Monnier, 1972; su Roma v. Anne Marie Seronde Baboneaux, Roma. Dalla città alta metropoli, Roma, Editori Riuniti, 1983; Vittorio Fraticelli, Roma 1914-1929. La città e gli architetti tra guerra e fascismo, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1982; e i saggi raccolti in E 42. Utopia e scenario del re­gime, Venezia, Marsilio, 1987.

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zioni amministrative sono decisive per quali­ficare i rapporti tra città. Il Policlinico, la sede del Consorzio di bonifica, persino del­l’Opera nazionale maternità infanzia, sono prerogative che sanciscono un primato che ha risvolti materiali precisi. Si tratta di capi­tale fisso sociale distribuito in misura diffor­me. È naturale che questo arricchimento di funzioni sia più ‘visibile’ — il che non sem­pre significa più incisivo — nei centri elevati dal regime a capoluoghi di provincia. Asti e Pistoia, Taranto e Brindisi da questo punto di vista mi sembrano casi di notevole inte­resse. Ma nel Sud la dotazione di nuove fun­zioni non modifica profondamente le carat­teristiche dei sistemi urbani. Non sembrano affermarsi né moduli sistemici, paragonabili al triangolo industriale, il cui rafforzamento è dato di grande rilievo nel ventennio, né in­tegrazioni diffuse, paragonabili a quelle in movimento lungo la via Emilia. Si tratta an­cora, in Puglia come in Sicilia, di sistemi ur­bani policentrici caratterizzati da deboli flussi reciproci, scarse interdipendenze, mol­te sovrapposizioni funzionali che inibiscono un esito propulsivo del sistema urbano sui processi di modernizzazione economica18. In misura minore, questo handicap è percepibi­le in alcune aree centrosettentrionali, come la Romagna. Più in generale, tutto ciò pro­voca squilibri e mutamenti di peso lungo i grandi assi geospaziali del paese. Squilibri tra Nord e Sud, prima di tutto. Nel 1937 vi è un ospedale ogni 1606 chilometri quadrati in Sardegna, e ogni 117 in Lombardia; 7 tele­

foni ogni 100 abitanti nel Mezzogiorno, con­tro 24 nel resto del paese; 15 abbonati al- l’Eiar ogni mille abitanti contro 32 nel Cen- tronord. Ribadire questo dato non significa ignorare la diversificazione dei Sud, ma ap­prezzarne il divario d’insieme rispetto ai Nord, divario che non sappiamo ancora, malgrado il grande contributo conoscitivo della Svimez, se ridotto o incrementato, e di quanto, dal regime fascista19.

Il dato meno studiato, per quanto concer­ne i mutamenti lungo i grandi assi geospa­ziali, è tuttavia quello tra ovest ed est del paese. Non vi è dualismo paragonabile a quello nord-sud tra le due costiere, tirrenica e adriatica, ma è evidente uno spostamento ad est dell’asse di sviluppo nazionale tra le due guerre, che ha nella politica statale il suo vettore, e getta alcune premesse dello sviluppo multiregionale contemporaneo. Ri­sale agli anni trenta l’apertura della direttis­sima Bologna-Firenze e l’affermazione del­l’asse ferroviario del Brennero come sup­porto di un sempre più vivace interscambio commerciale con la Germania.

All’asse tirrenico verso Roma e il Sud, si aggiunge ora una dorsale diversa.

Su di essa si condensano nuovi poli indu­striali e commerciali. Il ventennio vede na­scere e prender forza strutture di magazzi­naggio, primo raccordo intermodale ed esposizione fieristica, di Verona, Bologna, Ancona, Bari. Ancora i porti dell’Adriatico, da Trieste a Venezia, da Ancona a Brindisi, conoscono sviluppi connessi alla politica

18 Per un caso esemplare di centro elevato a capoluogo v. Istituto per la storia della Resistenza, Asti, Fascismo di provincia: il caso di Asti, Cuneo, L’Arciere, 1990. Più in generale per i sistemi urbani v. Lucio Gambi, Da città ad area metropolitana e Italo Insolera, Urbanistica, in Storia d ’Italia, vol. V, 1, / documenti, Torino, Einaudi, 1973; Giuseppe Barone, Mezzogiorno ed egemonie urbane, in “Meridiana”, 1989, n. 5, nonché gli atti del seminario ‘Usi e costruzioni del territorio meridionale’ promosso dall’Imes nell’ottobre 1990.19 Su questo punto insistono Alfredo Del Monte - Adriano Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bolo­gna, Il Mulino, 1978, p. 95. Per un testo classico cfr. Alessandro Molinari, Il Mezzogiorno d ’Italia, in V. Zamagni - Marco Sanfilippo (a cura), Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez da! 1946 al 1950, Bolo­gna, Il Mulino, 1988, pp. 59 e segg.; Statistiche sul Mezzogiorno d ’Italia, Roma, Svimez, 1954. Per il secondo do­poguerra v. Sergio Gattei, Evoluzione del divario Nord-Sud nelle condizioni civili e sociali nel periodo 1951-1987, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 1989, n. 4.

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imperiale del regime, ma anche alle vocazioni economiche dell’entroterra. Sono di questo periodo le grandi operazioni di ristrutturazio­ne di tutti i porti adriatici, con ampliamento delle rade, lunghe gittate di moli foranei, e scavo di fondali, banchinamenti, raccordi ferroviari, installazioni per lo stoccaggio. A tale proposito, cosi ha concluso Paolo Fabbri:

Con l’eccezione di Ravenna e Manfredonia che pure furono inclusi nel piano di rinnovo, si può anzi riconoscere che precisamente nel periodo tra le due guerre tutti i porti adriatici acquisiscono le strutture che ancor oggi conservano o almeno l’impianto di base”20.

È la premessa della successiva localizzazione dell’industria petrolifera e petrolchimica: Trieste, Marghera, Ferrara, Ravenna, Falco­nara, Manfredonia, Bari, Brindisi. Ferrovie, porti, strutture commerciali, rimandano a le­gislazioni specifiche, ad apparati ed enti ad hoc, ad un intervento continuativo e capilla­re dello Stato, e sono a loro volta dotazioni di capitale fisso capaci di sostenere un mo­derno indotto di servizi e attività produttive. Ricerche ulteriori dovranno dirci chi guada­gna e chi perde dalla nuova gerarchia: le aree e i ceti penalizzati, su scala nazionale, e re­gionale. Non sempre lo slittamento verso nordest comporta un equilibrio tra costi e be­nefici, come sembra accadere nella Toscana attentamente indagata da Landò Bortolotti, Domenico Preti e Giacomo Becattini ed altri, nella monografia regionale Einaudi21.

Si dirà, in conclusione, che non tutti questi aspetti sono circoscrivibili, cronologicamen­te e logicamente, al ventennio fascista.

Improponibile è ogni anticipazione del de­collo della ‘terza Italia’ all’anteguerra. Basta una considerazione quantitativa in tal senso per chiarire i limiti dei processi che abbiamo sottolineato. Nel 1911, Piemonte, Lombar­dia e Liguria registrano il 49,16 per cento del totale nazionale degli addetti all’industria, contro il 26,68 per cento registrato da Vene­to, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria insieme. Nel ventennio il rapporto è confermato, sia pure con i primi segni del ca­lo percentuale nel triangolo. Ma soltanto nel 1961 la percentuale dell’area Nordest Centro supererà la quota del 1911. Ribadita questa cautela quantitativa, converrà riprendere considerazioni qualitative. La storia econo­mica e sociale di molte città del Nordest — penso alle monografie recentemente dedicate a Trieste, Padova, Venezia, Bologna, Anco­na — suggeriscono una valutazione più at­tenta del potenziamento delle funzioni urba­ne di questi centri, dovuto a fattori moltepli­ci, dalla crescita degli scambi commerciali e finanziari con l’area danubiano-balcanica, alla dotazione di poli universitari di prestigio nazionale e impatto apprezzabile sulle eco­nomie locali. Non si tratta, dunque, di sotto- lineare solo la disgregazione di vecchi equili­bri, che è certo parte della “modernizzazio­ne” passiva, ma anche l’emergere di nuovi punti di forza nel sistema produttivo e socia­le nazionale, accanto al triangolo industriale. In questo senso le ricerche hanno sviluppato una valutazione avanzata cautamente, quin­dici anni fa, da Giuseppe Tattara e Gianni Toniolo, sulle caratteristiche territoriali del­l’industrializzazione tra le due guerre22.

20 Paolo Fabbri, Processi di popolamento e di urbanizzazione della costa adriatica italiana in età contemporanea, in “Storia urbana”, 1984, n. 29; L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Storia d ’Italia, Annali. 8. Inse­diamenti e territorio, Torino, Einaudi, 1985, cui si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche.21 D. Preti, Tra crisi e dirigismo: l ’economia toscana nel periodo fascista-, Giacomo Becattini, Riflessioni sullo svi­luppo socioeconomico della Toscana in questo dopoguerra-, L. Bortolotti, L ’evoluzione del territorio, in G. Mori (a cura), La Toscana cit.22 Giuseppe Tattara - G. Toniolo, L ’industria manifatturiera: cidi, politiche e mutamenti di strutture (1921-1937), in Pierluigi Ciocca - G. Toniolo, L ’economia italiana cit., p. 157. I dati statistici sono elaborati da V. Zamagni, A

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Non tutti questi sviluppi sono riconduci- , bili all’azione dello Stato. È fuor di dubbio che vi è un processo di diffusione territoria­le dell’industrializzazione, oltre il triangolo, analogo a quanto è avvenuto in altri conte­sti nazionali, che ha per protagonisti sogget­ti privati. Proprio negli ambiti territoriali testé rimarcati gli esempi da addurre sono molti. Tra il 1923 e il 1931 la circolazione di autoveicoli quadruplica nel paese. Il ciclo dell’auto si estende di conserva, con reti di assistenza e commercializzazione delle ‘mar­che’ torinesi e milanesi che inducono a loro volta propensioni imprenditoriali: si pensi all’industria motoristica lungo la via Emi­lia. Un comparto di analoga importanza è quello chimico. La Toscana ove “calano i grandi gruppi” , dalla Montecatini alla Pi­relli, o la Sicilia, illuminata dagli studi di Giuseppe Barone e di suoi collaboratori, so­no contesti esemplari in questo senso. Ma ancor più meritevole d’attenzione la costa adriatica da Torviscosa a Pescara, punteg­giata di nuovi insediamenti chimici23. Ac­canto a questa ‘estensione’ dal lato dell’of­ferta, dal triangolo verso altre aree, vi è un modesto ampliamento della domanda che

produce qualche novità consistente. Settori come l’abbigliamento e affini, l’industria del mobile o il turismo — che nel 1925 con le sue entrate copre il 61 per cento del defi­cit commerciale italiano — valorizzano tra le due guerre centri maggiori ma anche mi­nori orientati verso nuove vocazioni. Voca­zioni che si cumulano ad altre, preesistenti, come a Perugia ove Gian Paolo Gallo ha parlato di “economia combinatoria”24. Ma combinatorie sono altre economie locali, da Bologna a Verona, nell’area Nord Est Cen­tro. In questa diversificazione — è evidente — sta una risorsa grande dell’industrializza­zione diffusa nel secondo dopoguerra. Ma non è solo questo che si vuol sottolineare. Va semmai ripresa la questione del ruolo dello Stato, per concludere che, anche lad­dove il vettore dinamico principale è una domanda meno asfittica del consueto, que- st’ultima rimanda ad una presenza di soste­gno non secondaria dello Stato. Valga per tutti il caso del turismo. Alla base del decol­lo di Viareggio, Rimini, Montecatini, Corti­na, e tanti altri centri, vi è sì un ceto medio con nuovi bisogni, ma vi è, non meno im­portante, l’Ente nazionale per il turismo, gli

Century o f change: Trends in the compositions o f Italian Labour Force 1881-1981, in “Historical Social Re­search”, 1987, n. 44. Sul concetto di “terza Italia”, v. Arnaldo Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino, 1977; G. Fuà - Carlo Zacchia, Industrializzazione senza fratture, Bo­logna, Il Mulino, 1983; E. Goodman - J. Bamford (a cura), Small firm s and Industrial Districts in Italy, London, Rontledge, 1989. Per una regione del nordest, interessata solo in parte a questi fenomeni di “modernizzazione passiva” v. Andrea Leonarduzzi, Storiografia e fascismo in Friuli. Partito, gruppi dirigenti, società, in “Italia contemporanea”, 1989, n. 177 e la bibliografia qui richiamata. Per la monografia di città v. Elio Apih, Trieste, Bari, Laterza, 1988; Emilio Franzina, Venezia, Bari, Laterza, 1986; Angelo Ventura, Padova, Bari, Laterza,1989, R. Zangheri, Bologna cit.23 A. Beiluzzi, L ’automobile italiana 1918-1943, Bari, Laterza, 1984; V. Zamagni, Dalla periferia al centro cit., p. 346. Per l’industria motoristica lungo la via Emilia v. il mio Una dimensione periferica: piccola industria, classe operaia e mercato del lavoro in Emilia (1920-1940), in Giulio Sapelli (a cura), La classe operaia durante il fascismo, Milano, 1981. Sulla Montecatini v. Franco Amatori - Bruno Bezza (a cura), Capitoli di storia di una grande impresa, Bologna, Il Mulino, 1990. Per gli insediamenti chimici periferici v. F. Fabbroni-P.L. Za- nio, La Said di Torviscosa, 1937-1948, in “Il Movimento di liberazione in Friuli” , 1973; Costantino Felice, Dal sonno di Aligi al grande capitale: la prima industrializzazione della vaI Pescara, in “Italia contemporanea”,1990, n. 180.24 Gian Paolo Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d ’impresa in una regione agricola, in Renato Covino - G.P. Gallo, L ’Umbria, Torino, Einaudi, 1989, p. 441. Per alcuni sviluppi esemplari cfr. G. Mori (a cura), Prato. Storia di una città, voi. Ill, Il tempo dell’industria, 1815-1943, Firenze, Olschki, 1988; Luciano Segreto, L ’indu­stria calzaturiera in Italia, in Sergio Anseimi (a cura), L ’industria calzaturiera marchigiana, Ancona, Unione indu­striali del fermano, 1989.

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enti periferici di soggiorno, i privilegi accor­dati alle “stazioni turistiche” , le manifesta­zioni collaterali promosse dal regime, dai tre­ni popolari alle tradizioni folcloristiche in­ventate 25. Ma questa presenza è di gran lun­ga più determinante nel decollo industriale di altri centri — Bolzano, Ferrara, Apuania, Livorno, Palermo, Brindisi, ma soprattutto Venezia-Marghera — grazie alla legislazione sui poli di sviluppo, studiata nei suoi effetti concreti da Raffaele Petri. Nel periodo tra le due guerre, come ha notato questo studioso la legislazione speciale relativa agli insedia­menti industriali, inizialmente varata per il Mezzogiorno, è adattata alle esigenze di cen­tri settentrionali. I risultati sono noti solo per alcuni poli di sviluppo. Più in generale vi è un risultato su cui hanno richiamato l’atten­zione Gallo e Covino. È la scoperta e la de­nuncia, da parte di molti centri, della propria arretratezza quando si evidenziano i benefici indotti dalle leggi speciali ai vicini. Il caso Perugia-Terni è esemplare; ma anche a Ra­venna risale agli anni trenta l’ambizione di gruppi influenti di riprodurre il modello del “polo” chimico realizzato a Ferrara26. Mer­cato e Stato si interconnettono continuamen­te a partire dagli anni trenta, qui come altro­ve. Nel settore delle costruzioni la fortuna di molte imprese — dalla Cooperativa muratori della stessa Ravenna al gruppo Puricelli — è affidata alla capacità di gestire questa inter­connessione27.

Proprio questi esempi, studiati con otti­che diverse, ci portano ad alcune conclusioni complementari. La diffusione dello stato amministrativo induce nel territorio nuove gerarchie che corrispondono anche a dota­zioni differenziate di capitale fisso sociale — un prerequisito decisivo per lo sviluppo po­stbellico, almeno nell’area Nord Est Centro — e tale processo, nel suo insieme si intrec­cia con l’estensione dell’industrializzazione dal triangolo verso nuove aree, secondo una direttrice da Nord Ovest ad Est/Sud Est che sfrutta anche nuove dorsali infrastrutturali. Ma contemporaneamente questi mutamenti esaltano mediatori peculiari: politici che si fanno imprenditori — come Balbo a Ferra­ra, Ciano a Livorno, Rossini a Novara, ma anche Jung in Sicilia — e imprenditori che si collocano a mezza strada tra scambio politi­co e logiche di mercato. Giovanni Armenise rappresenta il prototipo di imprenditore po­litico a cavallo tra anni trenta e cinquanta, come altri protagonista di una significativa plurisettorialità (agricola, industriale, im­mobiliare, editoriale e finanziaria). Il pode­stà di Genzano, possidente locale di tutto ri­spetto, acquisisce per meriti politici il con­trollo della Banca dell’agricoltura nel 1936 ed estende successivamente i suoi interessi all’industria chimica (Odol Mousson, Leo Penicillina), mineraria (Side), editoriale (“Giornale d’Italia” , “Tribuna”, “Tribuna illustrata”). È quest’ultimo settore il tramite

25 Enit, Le stazioni di cura, soggiorno e turismo in Italia, Spoleto s.d., 1932. Per la Toscana v. D. Preti, L ’econo­mia toscana cit. Su Cortina e Rimini cfr. Diego Cason, Il turismo nelle Dolomiti bellunesi: gli anni quaranta, in Ferruccio Vendramini (a cura), Montagne venete nel secondo dopoguerra, Verona, Bertani, 1988; Storia di Rimini dal 1800 ai giorni nostri, voi. Ili, Rimini, Ghigi, 1977.26 Rolf Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzo­giorno, Milano, Angeli, 1990. Per l’Umbria cfr. G. Gallo, Tipologia dell’industria, cit.27 L’industria bellica è caratterizzata da una forte diffusione territoriale lungo le direttrici delineatesi negli anni trenta. Cfr. oltre a R. Covino - G. Gallo - E. Mantovani, L ’industria dall’economia di guerra alla ricostruzione, in P. Giocca - G. Toniolo (a cura), L ’economia, cit., storia aziendali, come quella del gruppo Caproni (che dalla Lombardia si diffonde verso l’Emilia e la Toscana), su cui Andrea Mantegazza, La formazione del gruppo Capro­ni, in “Storia in Lombardia”, 1986, n. 1. Per il settore delle costruzioni v. L. Bortolotti, Storia della politica cit., in particolare pp. 107 e sgg. Sul particolare sviluppo di alcune cooperative di costruzione v. Impronte. Testimonianze del lavoro della Cmb di Carpi dal 1920 ad oggi, Carpi, Cmb, 1982; Giovanni Montanari, La Cmc di Ravenna du­rante il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1986.

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decisivo di rapporti con il potere politico — sanciti tra l’altro dalla npbilitazione — che si protraggono negli anni della ricostruzio­ne. Armenise tra Puglia e Roma, Paolo Orsi Mangelli a Forlì, Carlo Regazzoni a Bolo­gna, come Attilio Monti a Ravenna, un de­cennio più tardi, Buitoni a Perugia, per non ritornare al paradigmatico Volpi, hanno in comune una “cultura industriale” peculiare, flessibile al punto da sfruttare l’intreccio tra pubblico e privato, capitalizzare le risorse del patronage politico e corporativo. È an­che questa, una mobilitazione di propensio­ni imprenditoriali, che si affianca a quella non meno consistente che emerge ora nel- l’artigianato delle città più avvantaggiate dalle nuove gerarchie territoriali, ora al­l’ombra degli sventramenti operati dal ‘pic­cone risanatore’, che privilegiano sempre so­lo alcuni interessi immobiliari e alcune im­prese costruttrici. Insomma è una mobilita­zione di industriali in camicia nera, palazzi­nari e calzaturieri, fornitori dell’esercito, le­gati al regime e ai suoi circuiti burocratici, ma attenti al mercato, sui quali conviene in­sistere con rinnovate ricerche28.

Si tratta di una mobilitazione che non è sfuggita alle ricerche regionali più recenti. Giorgio Mori ha interpretato il frenetico so­vrapporsi di iscrizioni e cancellazioni presso i registri dei consigli dell’economia corporati­va, con un’espressione efficace — “il corag­gio della disperazione” — che però coglie so­lo una parte del fenomeno. Per la stessa To­

scana — ma il caso emiliano è analogo — Be- cattini ha scritto di “conati di sviluppo per proliferazione” . Riflettendo su realtà com­plementari marchigiane e venete Ercole Sori e Giorgio Roverato hanno sottolineato “l’at­tivismo industriale di base”, “i semi settoriali e aziendali” così innescati nel tessuto econo­mico dei futuri “distretti” . Lo stesso Sori, ha rimarcato “l’atmosfera da serra” che carat­terizza tutto il ventennio. In una serra, pos­sono sopravvivere artificiosamente settori obsoleti ed essere sottoposti ad “allevamento forzato” virgulti promettenti29. Il confronto è evidentemente col secondo dopoguerra. Ebbene, sottolineando percorsi imprendito­riali peculiari ma tutt’altro che eccezionali, vorremmo contribuire, con questi autori, ad allontanare semplificazioni frequenti che vo­gliono un anteguerra fatto di autarchia, pro­tezionismo e centralismo burocratico iniben­ti ogni sviluppo, ed un dopoguerra viceversa dominato da una crescita sana e spontanea, tutta neolocalismi autopropulsivi, imprendi­tori schumpeteriani e stato liberista. Più complessi sono i nessi tra i due periodi, più ricche di significato le continuità. Queste nulla tolgono alle peculiarità degli anni del ‘miracolo’ rispetto alla situazione economica del ventennio. La modernizzazione tra le due guerra è ‘passiva’ in quanto inibisce larga parte delle potenzialità che evoca. La com­pressione dei consumi toglie prospettiva ai ‘conati di sviluppo per proliferazione’ che proprio il regime ha disseminato30. Qualcosa

28 I casi emiliano-romagnoli sono esaminati in P.P. 'D’Attorre - V. Zamagni (a cura), L ’industrializzazione dell’E­milia Romagna, [Distretti, imprese e classe operaia], Milano, Angeli, 1991. Per le Marche v. Franco Amatori, Per un dizionario biografico degli imprenditori marchigiani, in S. Anseimi (a cura), Le Marche, cit.29 G. Mori, Materiali. Temi ed ipotesi per una storia dell’industria nella regione Toscana durante il fascismo (1923- 1939), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), Firenze, Olschki, 1971, p. 185; G. Becattini, Riflessioni sullo sviluppo cit. p. 912; Ercole Sori, Dalla manifattura cit.; per il caso veneto cfr. Giorgio Roverato, La terza regione industriale, in Silvio Lanaro (a cura), // Veneto, Torino, Einaudi, 1984.30 Insiste correttamente su questi nessi V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit. Per un approccio attento alle continuità tra fascismo e postfascismo, ma ignaro delle dimensioni territoriali dello sviluppo v. Gualberto Gualer- ni, Industria e fascismo. Per un ’interpretazione dello sviluppo economico italiano tra le due guerre, Milano, Vita e Pensiero, 1976; dello stesso, Ricostruzione e industria. Per un’interpretazione della politica industriale nel secondo dopoguerra 1943-1951, Milano, Vita e Pensiero, 1980.

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di comparabile, in Europa, è accaduto nella Spagna degli anni quaranta e cinquanta, co­me ci documenta una ricerca economico-so- ciale di notevole rigore filologico e vigore in­terpretativo. Anche qui un’epoca di scarsa mobilità sociale, non può essere considerata “ferma”. Nell’Italia degli anni trenta, il regime canalizza a suo modo il particolari­smo economico della periferia, disgrega le energie più o meno ‘disperate’ delle cento città italiane in una serie di circuiti che con­figurano una maglia clientelare pervasiva e duratura. È un fenomeno, questo dei flussi ‘assistenziali’ — risorse marginali in cambio di consenso — gestiti dagli apparati dello stato amministrativo, riscontrabile anche al Nord, ma certo più cospicuo al Sud.

La sfida competitiva del pluralismo peri­ferico si era già profilata nel primo dopo­guerra. Essa aveva, com’è stato notato, il volto del municipalismo, della cooperazio­ne, deH’imprenditorialità di ceti medi urbani e rurali emergenti, ma anche delle rappre­sentanze degli interessi in competizione tra loro. Lo Stato liberale non era attrezzato, né culturalmente né politicamente a raccoglie­re, in positivo, quella sfida. Il pluralismo è

così annichilito dal regime, in quanto sono eliminati i soggetti istituzionali di un antago­nismo consapevole, della periferia rispetto al centro: enti locali, cooperative, sindacati, partiti. Lo Stato riscrive autoritariamente il rapporto con la periferia. Di fatto è più per­meabile ad alcuni, e più forti, interessi peri­ferici. Infine induce in provincia flussi inedi­ti di redistribuzione di risorse a fini di con­senso. L’esito non sempre è negativo, come mostrano molte aree del Nord-Est, ma in ge­nerale prevalgono logiche parassitane. Lo Stato degli anni trenta eroga benefici a ca­rattere individuale più che collettivo, con di­screzionalità marcata da area ad area, da gruppo a gruppo, valorizzando comunque mediatori istituzionali legati al partito-stato. Si definisce così un modello di relazioni cen­tro-periferia che, dal punto di vista econo­mico e territoriale non produce immobili­smo ma modernizzazione passiva: un mo­dello che conoscerà nell’Italia repubblicana, malgrado la ripresa della sfida competitiva del pluralismo periferico — che sorregge tut­to il ‘miracolo economico’ —, ancora ag­giornamenti e sviluppi31.

Pier Paolo D’Attorre

31 In questo senso si condividono alcune considerazioni, relative al ventennio fascista svolte da Giulio Sapelli, Lo stalo come “imprenditore politico”, cit.; per l’età giolittiana, dello stesso v. Comunità e mercato. Socialisti, cattoli­ci e governo economico municipale agli inizi del X X secolo, Bologna, Il Mulino, 1986. Per la dinamica contempo­ranea cfr. Sidney Tarrow, Tra centro e periferia, Bologna, Il Mulino, 1979; L. Graziano - P.J. Kazenstein - S. Tar- row, Centro e periferia nelle nazioni industriali, Roma, 1982.