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ARACNE Aspetti del mutamento sociale contemporaneo a cura di Alfredo Agustoni

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ARACNE

Aspetti del mutamento sociale contemporaneo

a cura diAlfredo Agustoni

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I edizione: gennaio 2008

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Indice

Introduzione: globalizzazione e mutamento sociale contemporaneo (di Alfredo Agustoni)……………………………………………

Cap. 1. Sul concetto di cultura nelle scienze sociali (di Lia Giancristofaro) ………………………………………….. Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 2. Mutamento sociale, alterità e relazioni. L’altro come fonda-zione della vita sociale (di Mara Maretti) ………………….…………... Introduzione …………………………………………………………… 1. L’altro nel decostruzionismo di Jacques Derrida …………….. 2. L’etica dell’alterità in Emmanuel Lévinas ……………………... 3. L’altro come motore del mutamento sociale …………………… 4. Le relazioni con l’altro: dall’individuo alla persona ………… Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 3. Mutamento sociale, razionalità e comunicazione. Agency vs. Fluency (di Stefano Pasotti) ……………………………………….……. 1. Il mutamento sociale e la sua dinamica epistemologica ……... 2. Il mutamento sociale tra struttura e azione ……………………. 3. Agency: la teoria morfogenetica della razionalità sociale …...

4. Fluency: la comunicazione come principio di razionalità dell’attore sociale ……………………………………………………..

Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 4. Mutamento sociale e differenziazione. Il contributo di Sim-

mel e Durkheim (di Stefano Ricciuti) …………………………. 1. Premessa ……………………………………………………………. 2. Uber sociale differenzierung …………………………………….. 3.De la division du travail social …………………………………… 4. Breve confronto ed epilogo ………………………………………. Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 5. Mutamento sociale e reciprocità. Il paradigma del dono

(di Ivo Germano) ……………………………………………….. Premessa. Il dono come contrappunto paradigmatico del muta-

mento ..…………………………………………………………………. 1. I buchi neri del mutamento socioculturale …………………….. 2. Alle radici del paradigma del dono fra antropologia e socio-

logia ……………………………………………………………………. 3. Dono, mutamento e isomorfismo sociale ……………………….

Note bibliografiche ……………………………………………………

p. 9 p. 21 p. 31 p. 33 p. 33 p. 35 p. 42 p. 48 p. 50 p. 52 p. 55 p. 55 p. 58 p. 61 p. 65 p. 71 p. 73 p. 73 p. 74 p. 76 p. 78 p. 79 p. 83 p. 83 p. 84 p. 85 p. 93 p. 95

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Cap. 6. Mutamento sociale e differenze di genere (di Thea Rossi) ………………………………………………….

Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 7 Mutamento sociale e relazioni internazionali. Il realismo po-litico e il problema della guerra (di Alessandro Orsini) ……………… Introduzione …………………………………………………………… 1. Il realismo politico. Gli assunti fondamentali …………………. 2. Quanto contano le identità? ……………………………………… 3. La lezione di Waltz. Strutturalisti vs. riduzionisti ……………. 4. La guerra come pericolo permanente …………………………... 5. Il realismo offensivo di John Mearsheimer …………………….. Note bibliografiche …………………………………………………… Cap. 8. Mutamento sociale, economia e tecnologie. Oltre Blade Run-ner (di Andrea Pitasi e Lucia M. Giraldi) …………………………….. Prologo ………………………………………………………………… 1. Paradigm Shifts ……………………………………………………. Note bibliografiche …………………………………………………. Cap. 9. Mutamento sociale e pubblica amministrazione. Il caso della dirigenza pubblica (di Francesco Ferzetti) ………………………….. Introduzione …………………………………………………………… 1. Gli stadi della riforma del reclutamento ……………………….. 2. Accesso alla qualifica di dirigente mediante concorso ……….

3. Il sistema del corso-concorso ……………………………………. 4. Il Regolamento di disciplina in materia di accesso alla quali-fica dirigenziale ………………………………………………. 5. Il riconoscimento e la valutazione dei titoli utili per l’accesso al corso–concorso selettivo di formazione dirigenziale …………. 6. Conclusioni ………………………………………………………… Note bibliografiche ……………………………………………………

Cap. 10. Mutamento sociale, morte e genesi dell’individuo contem-poraneo. Terry Schiavo e l’eutanasia nei media (di G. Caramaschi e G. Capanna Piscè) …………………………. Introduzione …………………………………………………………… 1. Emarginazione della morte fra modernità e contingenza……. 2. La riflessione etica come strategia della società ……………… 3. Terry Schiavo, ovvero la vita come materia sociale..…………. 4. Conclusioni……………………………. …………………………... Note bibliografiche ……………………………………………………

p. 99 p. 111 p. 113 p. 113 p. 115 p. 118 p. 119 p. 122 p. 123 p. 127 p. 131 p. 131 p. 134 p. 142 p. 145 p. 145 p. 147 p. 149 p. 150 p. 151 p. 154 p. 155 p. 157 p. 159 p. 159 p. 161 p. 165 p. 168 p. 173 p. 174

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Cap. 11. Mutamento sociale e spazi marginali. La convivenza inte-retnica in tre località della Provincia di Pesaro-Urbino (di Alfredo Agustoni)…………………………………………...

p. 177

1. Migrazioni e identità locali ……………………………………… p. 177 2. Articolazione della ricerca ………………………………………. p. 178 3. Urbino 2, Urbania e S. Angelo in Vado ……………………….. p. 179 4. Abitare ……………………………………………………………… p. 183 5. Spazi pubblici e luoghi d’incontro ……………………………… p. 187 6. Percorsi …………………………………………………………….. p. 192 7. Il lavoro …………………………………………………………….. p. 203 8. Andare a scuola …………………………………………………… p. 209 Sintesi e conclusioni …………………………………………………. p. 214 Note bibliografiche ………………………………………………….. p. 215

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Introduzione Globalizzazione e mutamento sociale contemporaneo

di Alfredo Agustoni

Se definiamo l’uomo alla stregua di animale culturale, dobbiamo osservare co-me, nella storia dell’evoluzione umana, il mutamento culturale sia proceduto con maggiore lentezza dell’evoluzione biologica, come attestano tutte le tracce relative alla lavorazione della pietra e alla domesticazione del fuoco. La tecnica di lavora-zione della pietra cosiddetta olduwaiana, fa la propria comparsa con l’homo habi-lis, ma continua ad accompagnare i suoi “successori”, l’africano ergaster e l’asiatico erectus, per buona parte della loro esistenza sul pianeta. La successiva tecnica acheuleiana, che si afferma con l’homo erectus, continua ad esistere, al di là dell’estinzione della specie, con l’uomo di Neanderthal – che utilizza il fuoco, per riscaldare la sua permanenza nell’Europa glaciale, esattamente come aveva cominciato a fare l’homo erectus (salvo avere, in aggiunta, acquisito qualche rudi-mentale conoscenza relativa alla lavorazione delle pelli). Anche le forme dell’organizzazione sociale, nell’arco di un paio di milioni d’anni, non sembrano conoscere trasformazioni di rilievo. Risulta, pertanto, difficile parlare del muta-mento sociale e culturale come di una realtà contrassegnata da una propria autono-mia rispetto alle trasformazioni di carattere biologico.

Solo con la comparsa dell’homo sapiens moderno, ci troviamo di fronte ad un complesso di mutamenti che prescindono dall’evoluzione biologica. Essi possono essere, pertanto, riferiti ad una sfera autonoma, la cultura, che possiamo definire come il «patrimonio intellettuale e materiale, relativamente stabile e condiviso, proprio dei membri di una determinata collettività, costituito da valori, norme, de-finizioni, linguaggi, simboli, segni, modelli di comportamento e oggetti materiali» (Bichi, 1997: 11). Con la nascita della cultura assistiamo, in un certo senso, alla genesi di una “seconda natura”. Un oggetto diventa uno strumento; lo stesso ogget-to, come anche un gesto corporeo (per esempio un determinato suono derivato da un’emissione vocale), possono diventare un simbolo. La realtà viene cognitivamen-te organizzata attraverso visioni del mondo, costituite da sistemi organici di rappre-sentazioni, che integrano al proprio interno conoscenze ed esperienze relative ai di-versi oggetti ed aspetti della realtà.

La “seconda natura”, creata dall’uomo, tende in un certo modo a naturalizzarsi, in virtù di un fenomeno che (con più specifico riferimento alla sfera dell’economia

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capitalistica) Marx definisce feticismo1. Le forme sociali e culturali, che si genera-no e si trasformano in relazione con l’agire umano, appaiono agli occhi degli uo-mini come entità naturali, dotate di una vita propria, scontate e necessarie. Il farao-ne regna sull’Egitto come vi ha sempre regnato, per le stesse ragioni che portano il sole a nascere ogni mattina. Il sole si chiama proprio “sole”, per le stesse ragioni che lo portano, ogni sera, a tramontare.

Questa “seconda natura” ha un ruolo di prim’ordine nella creazione di un equi-librio ecologico tra i differenti gruppi di homo sapiens e i contesti al cui interno si vengono ad inserire. Poco meno di 100mila anni fa, ha inizio la diaspora che porta questo primate bipede, l’homo sapiens moderno, fuoruscito dalla sua nativa Africa, ad espandersi attraverso tutte le terre emerse, approfittando della scomparsa di altri ominidi che l’avevano preceduto – o, forse, provocandola. Nelle terre che non era-no state interessate dalla presenza di precedenti specie umane (è il caso dell’Australia e delle Americhe) l’arrivo dell’homo sapiens si pone peraltro alla ba-se di spaventosi cataclismi ecosistemici, caratterizzati da estinzioni di massa, au-tentiche ecatombi di specie vegetali e animali.

Le successive “globalizzazioni” possono essere in qualche modo identificate con il progressivo ricongiungimento, nel corso dell’Olocene, di quella specie uma-na che nel Pleistocene si era dispersa in ogni angolo della terra. La prima globaliz-zazione è una sorta di globalizzazione millenaria, fatta di economie mondo, artico-late attorno a nuclei centrali, corrispondenti ai “fari” delle diverse civiltà, che nella loro espansione si incontrano, si scontrano, si influenzano reciprocamente. Nel contempo, settori della popolazione mondiale, caratterizzati da stili di vita nomade, sono sempre pronti a presentarsi come una minaccia che preme ai loro confini, con-tribuendo pur tuttavia ampiamente all’incontro tra i differenti “mondi”2.

Consideriamo, tra il XV e il XVI secolo, conclusa questa globalizzazione “mil-lenaria” e passiamo alla terza, “secolare”, che prende il proprio avvio dall’Europa, dopo che nei millenni precedenti il concorso di un complesso di fattori contingenti, egregiamente sintetizzati da Jared Diamonds (1997, 2005) e Carlo Maria Cipolla (1965, 1988), ne avevano preparato l’incubazione in Eurasia. Quest’ultima globa-lizzazione “secolare” è caratterizzata dall’affermazione dell’economia e della “ci-viltà” capitalistiche e, per adoperare l’espressione di David Harvey (1989), dalla compressione spazio-temporale.

1 Le merci, prodotte dal lavoro umano, sostiene nel Capitale il filosofo di Treviri, “sembrano

dotate di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra di loro e con gli uomini”, al punto che i rapporti si manifestano “non come rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma come ... rapporti sociali tra cose”.

2 La pastorizia transumante, praticata da Abramo e dai suoi discendenti, non è di molto più giovane dell’agricoltura stanziale. Il nomadismo “classico” della civiltà delle steppe, che nel nostro immaginario è egregiamente rappresentato dagli unni e dai mongoli, si afferma invece tra il II e il I millennio a.C., con la diffusione del cavallo nell’Asia centrale, come evidenziato da Walter Pohl (2000).

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Cosa si intende con quest’ultima espressione? Tra le svariate altre cose, il buon Leopardi si lamentava, negli anni venti dell’Ottocento, di un mondo divenuto or-mai troppo piccolo, tanto da non lasciare più spazio per l’ignoto e il mistero; ma, a dire il vero, il globo dei suoi tempi era ancora smisurato rispetto a quello che, di lì a poco, doveva prenderne il posto. Chi avesse inviato un messaggio da Londra a Bombay, attorno al 1850, avrebbe rischiato di attendere oltre un anno per ottenere una risposta. Verso il 1880, il tempo di attesa si era ridotto a poche ore, tutt’al più ad una giornata. Il telegrafo a fili aveva fatto il suo primo, timido, capolino negli anni che avevano seguito la Rivoluzione francese, per essere perfezionato nella prima metà dell’Ottocento ed arrivare ad avvolgere il mondo, attorno agli anni Set-tanta di quel secolo, con i propri cavi transoceanici3. D’altro canto, le nuove tecno-logie evolvono a questo punto con un’inaudita rapidità, al di là della telegrafia a fili (Kern, 1982; Hugill, 1998). Nel 1912, il naufragio del Titanic «fu la prima sciagura a cui il mondo assistette praticamente in diretta. Essa era simultanea alla vita di co-loro che, nelle loro case, ne venivano a conoscenza […] in un certo senso, una si-multaneità despazializzata» (Jedlowski, 2005: 68).

A questo punto, arguiscono alcuni (Guehenno, 1993; Ohmae, 1995; Sassen, 1996; Hobsbawm, 2007), l’accelerazione che ha caratterizzato le fasi più recenti della compressione spazio-temporale, sarebbe stata tale da compromettere drasti-camente quelle stesse potenzialità di controllo sul territorio che, negli ultimi due secoli, essa stessa aveva reso possibile, erodendo, di conseguenza, la sovranità del-la principale incarnazione della politica moderna, lo stato territoriale sovrano. In poche parole,

la tesi del logoramento del modello di sintesi statale uscito dalla modernità europea è stata comunque sostenuta anche con argomentazioni sistematiche e studi approfonditi … Il sorgere e il consolidarsi di una nuova dimensione spaziale tendenzialmente globale sembra infatti scalzare le basi della spazialità politica moderna, plasmata nel corso di cinque secoli proprio dagli Stati nazionali (Palano, 2007: 88). C’è chi, come Nicholas Negroponte (1995), “inguaribile ottimista” per sua pro-

pria ammissione, parla di una futuribile agorà virtuale, di un nuovo spazio despa-zializzato dove eserciteremo un’ancora indefinita cittadinanza globale. C’è per con-tro chi, come Paul Virilio, David Lion o Armand Mattelart, non nasconde le pro-prie inquietudini, mettendo in risalto l’attualità di quell’immagine del Panopticon nella quale, una trentina d’anni or sono, Michel Foucault (1975) identificava il sen-so stesso della modernità4: le nuove tecnologie potrebbero diventare l’occhio del

3 Il primo, che collegava Londra e New York, risale al 1867. 4 Intesa dal filosofo francese come perfezionamento, fino ai limiti del possibile, del controllo da

parte del “potere” sulla natura e sulla società (e, soprattutto, sul corpo, in quanto elemento di mediazione tra l’una e l’altra). Il Panopticon è quel carcere, ideato sul finire del XVIII secolo dal filosofo utilitarista Jeremy Bentham, dove la sentinella riesce a controllare, dalla propria torretta

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grande fratello? Se sì, chi potrebbe, nel concreto, incarnare tale figura di orwelliana memoria, in un mondo che sembra caratterizzato dalla frammentazione del potere?

C’è, infine, chi paventa il possibile impatto della diffusione delle nuove tecno-logie in termini di esclusione sociale, fino al limite di postulare la totale segrega-zione di un’élite (interamente proiettata nei flussi e negli spazi digitali dell’emergente network society), rispetto ad una massa relativamente immobile, le-gata alla materialità dei luoghi fisici dalla propria stessa immobilità, ancorché e-spulsa da questi ultimi in numerose situazioni (si pensi ai profughi, ai vagabondi e a simili figure che costituiscono le fasce più sventurate della massa “localizzata”). Quest’ultima è, sintetizzando e forse banalizzando, la posizione sostenuta da Ca-stells (1996) e da Baumann (1998).

La globalizzazione, in virtù dell’accelerazione indotta nei processi di scambio culturale, rende problematico il concetto stesso di cultura che, per i suoi legami con il patrimonio storico di discipline sviluppatesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, risente delle idee di nazionalità allora egemoni in Europa. «Non esistono ormai che pochissimi paesi, e forse non sono mai esistiti – sostiene Clifford Geertz (1995: 28) – , che coincidano almeno in parte con società culturalmente solidali». Rende pro-blematico tale concetto al punto che noti antropologi, come Ulf Hannerz (1996) e Pieterse (2004), propongono di sostituirlo con altri concetti e categorie d’analisi (per esempio, ibridazione, creolizzazione, ecumene culturale e habitat di significa-to) tali da evitare la rigida segmentazione del primo.

Ogni soggetto, occupando una determinata posizione (in termini spaziali, ma anche “sociali”) nel complesso delle relazioni mondiali, sviluppa un suo modo pe-culiare di appropriarsi della totalità dei significati che circolano nella sua epoca: piuttosto che dall’appartenenza culturale, la visione del mondo sembra cioè dipen-dere dalla posizione occupata nell’ambito dei flussi culturali planetari – «Il mio habitat di significato quotidiano cambiò improvvisamente il giorno in cui nel mio palazzo fu installata la televisione via cavo … tuttavia, il nostro habitat di significa-to non dipende soltanto dalla misura in cui gli siamo fisicamente esposti, ma anche dalle nostre capacità di confrontarci con esso» (Hannerz, 1996: 31).

Per tanta gente – ciò nondimeno – il termine globalizzazione significa soprattutto que-sto: un’omogeneizzazione globale in cui certe idee e certe pratiche dilagano in tutto il mondo, impedendo alle altre di esistere. Per alcuni questa è la marcia trionfale della modernità. Altri lamentano che sia la sopraffazione dei colossi mercantili, i quali im-pongono di bere Coca Cola, di vedere Dallas o di giocare con la Barbie ovunque (Han-nerz, 1996: 31). Con un’efficace espressione, un’ecologista indiana, Vandana Shiva (1993: 11),

parla di monocolture della mente, con riferimento al fatto che «le monocolture

centrale, in ogni momento tutti i carcerati, senza essere mai visibile da essi. Il Panopticon costituisce, secondo Foucault, la più egregia metafora di tale progetto totalitario della modernità.

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prima invaderebbero la mente e solo dopo si trasferirebbero nei campi». L’autrice, in breve, sostiene l’esistenza di un legame inscindibile tra cultura e ambiente. L’affermarsi, a livello planetario, di un pensiero unidimensionale, capace di vedere il mondo esclusivamente in un’ottica quantitativa e in termini di redditività si col-lega, a suo avviso, alle minacce che la diffusione delle monocolture comporta per la biodiversità. Le pratiche di monocoltura risponderebbero, pertanto, alla medesi-ma logica di quelle dello sradicamento culturale: il genocidio delle forme di vita inutili, improduttive, inefficienti è intimamente collegato a quello delle forme cul-turali “arretrate”.

In quest’ottica ci troveremmo, dunque, di fronte ad una “cultura unica” che tra-sforma “gli altri” in “periferia”, interpretandone le peculiarità alla stregua di un “sottosviluppo” e sprofondandoli nell’anomia (Latouche, 1998). «Trovare un modo per preservare e stimolare la diversità delle culture in un’economia di reti globali sempre più fondate sull’accesso a pagamento a servizi culturali, sarà una delle que-stioni politiche prioritarie del nuovo secolo». Di conseguenza, le eventuali perma-nenze culturali autoctone, parrebbero costituire una sorta di cavallo di Troia: «Le multinazionali dei media stanno cominciando a sfruttare le risorse culturali di ogni angolo del pianeta, manipolandole e presentandole come merci d’intrattenimento culturale» (Rifkin, 2000).

Sul versante opposto si colloca l’altrettanto monolitica immagine dello “scontro di civiltà”, con cui Samuel Huntington (1995) esprime l’idea del carattere mutua-mente irriducibile, e forse necessariamente conflittuale, delle differenti civiltà. Huntington ritiene che la modernizzazione del mondo non ne implichi necessaria-mente l’occidentalizzazione. Egli è inoltre convinto che l’aumento dei contatti, in un contesto di globalizzazione, invece di diminuire le distanze culturali, esasperi il sentimento che ciascuna civiltà ha della propria identità.

In seguito al crollo del blocco sovietico, il futuro geopolitico e culturale si carat-terizzerebbe come “scontro di civiltà”. Huntington identifica otto civiltà differenti. Gli antagonisti più temibili per l’occidente sarebbero, su di un piano economico, la civiltà cinese confuciana, e, da un punto di vista politico e culturale, quella islami-ca, attraversata dal cosiddetto “rinnovamento”, ovvero dalla riscoperta delle pro-prie radici religiose di fronte al fallimento del nazionalismo occidentalista di Ke-mal Atatürk e del panarabismo modernista di Gamal Abdel Nasser.

Nel disegno sottostante, vediamo rappresentati i diversi modelli presi in consi-derazione, dove le frecce a doppia direzione rappresentano un rapporto di contrap-posizione tra due modelli, mentre la linea discontinua rappresenta un rapporto di compatibilità tra i due. Naturalmente, il carattere ambiguo e polimorfo che caratte-rizza al loro interno i diversi modelli, conduce ad esiti che possono sembrare, per certi versi, non del tutto coerenti.

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monocolture “ecumene” culturale Inclusi vs. esclusi della mente (U. Hannerz, C. Geertz) (M. Castells, Z. Bauman, (V. Shiva, S. Latouche) B. Barber)

Scontro di civiltà (S. Huntington) Villaggio globale, agorà digitale

(Th. Friedman, N. Negroponte)

Troviamo, in primo luogo contrapposta l’immagine della monocoltura della

mente, che contempla l’occidentalizzazione del mondo, rispetto a quella dello scontro di civiltà, che si fonda sulla supposizione di una persistenza delle diverse culture, reciprocamente contrapposte. L’una e l’altra, d’altro lato, si contrappongo-no all’immagine della globalizzazione come creazione di una “ecumene” planeta-ria, così come espressa da Geerz, Hannerz e Pieterse, dal momento che quest’ultima respinge il monolitismo culturale delle prime due a vantaggio di un’idea di cultura come frammentazione e ibridazione. L’idea di Hannerz, a sua volta, è conciliabile tanto con il carattere “escludente” di modelli teorici come quelli di Castells (1996), Barber (1995) e Bauman (1998), che vedono un’umanità divisa in una minoranza integrata negli spazi della comunicazione globale, con-trapposta ad una maggioranza di esclusi, quanto con il carattere “inclusivo” di una certa letteratura apologetica, erede dell’immagine del “villaggio globale” di Mc Luhann, che interpreta la globalizzazione culturale come un’abbattimento tout court di spazi e barriere. Chiaramente, il carattere inclusivo dell’immaginario del “villaggio globale” si oppone a quello escludente del primo: per gli uni, la jihad (e gli altri conflitti di natura identitaria) è la folle risposta di chi respinge la globaliz-zazione (Friedman, 1992), per gli altri è la risposta disperata di chi ne è respinto. D’altro canto, l’uno e l’altro non sembrano andare molto d’accordo con l’idea dello scontro di civiltà, che vede nella jihad come la manifestazione di un naturale anta-gonismo tra visioni del mondo differenti.

L’immaginario del “villaggio globale”, peraltro, può essere interpretato come la rappresentazione “integrata” di un’idea di omologazione rispetto alla quale l’immagine della “monocoltura della mente” rappresenterebbe la versione “apoca-littica”, tanto da giustificare una loro, almeno parziale, conciliabilità. D’altro canto, l’idea delle monocolture della, caratterizzata dalla marginalizzazione delle forme biologiche e culturali che esulano dalla razionalità formale e strumentale della scienza newtoniana e dell’economia capitalistica, si coniuga in maniera eccellente

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con l’antitetica prospettiva della globalizzazione come esclusione, come ghettizza-zione, come creazione di una riserva indiana.

Siamo in un mondo che, per la prima volta nella sua storia, è abitato da una po-polazione a prevalenza urbana (il primo paese a raggiungere questo traguardo, giu-sto un secolo fa, è stato la Gran Bretagna).

Nei prossimi uno o due anni – scrive Mike Davis (2006: 11) – una donna partorirà in uno slum di Ajegunle a Lagos, un giovane abbandonerà il suo villaggio di Giava Ovest attratto dalle luci di Giacarta, un contadino si trasferirà con la sua famiglia impoverita in uno degli innumerevoli pueblos jovenes di Lima. L’evento specifico in sé non sarà nulla di speciale e passerà del tutto inosservato, però costituirà una rivoluzione nella storia umana paragonabile alla rivoluzione del neolitico o a quella industriale. Per la prima volta la popolazione urbana della terra supererà numericamente quella rurale.

Di qui a vent’anni – aggiunge Oswaldo de Rivero (1999) – la popolazione dei Pvs rag-giungerà i sei miliardi e mezzo d’individui, e sarà prevalentemente urbana. Salvo una drastica caduta della natalità e delle migrazioni verso la città, coniugata ad una crescita senza precedenti nel campo delle risorse alimentari5, dell’acqua e dell’energia, la mag-gioranza della popolazione mondiale vivrà nel cuore di un grave squilibrio fisico e so-ciale. I fenomeni d’inurbamento, a livello planetario, non mancano di presentare, su

più larga scala, alcune analogie con i processi che caratterizzarono, nel corso dell’Ottocento, i paesi interessati dall’industrializzazione. Tuttavia, con un’eccessiva enfasi sulle analogie, ci esporremmo ai rischi di una forte ingenuità epistemologica, tanto da ipotizzare un legame univoco tra sviluppo ed urbanizza-zione – mentre, al contrario, Mike Davis (2006) evidenzia il carattere storicamente contingente e contestualizzato del gigantismo urbano dei paesi in via di sviluppo. Tenuto a freno dalle amministrazioni coloniali, l’inurbamento delle masse rurali di questi ultimi ha conosciuto un iniziale decollo negli anni ’50 e ’60, per ragioni che spesso si legano all’espulsione della manodopera rurale e all’instabilità geopolitica dei rispettivi contesti nazionali.

Generalmente, all’inurbamento non corrisponde un’analoga domanda di mano-dopera da parte dei sistemi economici urbani, e questo conduce allo sviluppo di un economia parallela fatta di lavori occasionali, di sottoccupazione, di “terziario arre-trato”. Malgrado le promesse dei nuovi governi post-coloniali, inoltre, non si svi-luppa nella sostanza alcuna consistente risposta governativa alla domanda d’alloggio, mentre si tollerano, legittimandole nella sostanza, un complesso di pra-tiche che portano alla formazione di giganteschi slum (favela o bidonville, a secon-da del differente contesto geografico) o a forme di squatting generalizzato. La real-

5 Occorrerrebbe raddoppiare la produzione agricola entro il 2025, calcola la FAO, per garantire la

sicurezza alimentare dei 7,8 miliardi di persone previste per quella data

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tà dello slum, nel suo complesso, interessano oltre la metà della popolazione di numerose città dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”.

Come ricorda Saskia Sassen (2001: 71): L’effetto più importante dell’investimento estero è quello di sradicare gli individui dai loro modi di esistenza tradizionali. [Infatti], si è riconosciuto da molto tempo che lo svi-luppo dell’agricoltura commerciale tende a soppiantare i contadini dell’agricoltura di sussistenza, creando un’offerta di bracciantato agricolo salariato e dando vita ad un’emigrazione di massa verso le città. Così, lo sviluppo di impieghi industriali nelle città, attirando manodopera fem-

minile dai contesti rurali in crisi, produce un circolo vizioso: «L’esodo delle giova-ni riduce la possibilità per gli uomini di guadagnarsi da vivere in molte aree rurali, dove le donne sono indispensabili per la sopravvivenza». D’altro canto, «con il contrarsi delle possibilità economiche tradizionali nelle aree rurali, per chi viene licenziato diviene difficile, se non impossibile, ritornare a casa» (Sassen, 2001: 72). Le donne, respinte ad un tempo dalla fabbrica e dal loro contesto d’origine, sono pronte per una successiva scelta migratoria, anche in ragione «dell’espansione dell’offerta di impieghi a basso salario negli Stati Uniti», come in altre economie avanzate, derivante tra l’altro «dagli stessi processi economici internazionali che hanno incanalato investimenti e attività industriali verso i paesi con bassi costi del lavoro» (Sassen, 2001: 76).

Come evidenzia Manuel Castells (2000: 75-79): L’avvento dell’informazionalismo, al volgere del millennio, si associa a disuguaglianza e crescita dell’esclusione sociale in tutto il mondo … Il processo di ristrutturazione ca-pitalista, con tutta la sua logica di competitività, ha molto a che fare con tutto ciò … I dati sono però contraddittori, alimentando così un dibattito dai toni ideologici sulle reali condizioni delle popolazioni del globo. Dopotutto, l’ultimo quarto del XX secolo, ha vi-sto accedere allo sviluppo, all’industrializzazione e al consumo decine di milioni di ci-nesi, coreani, malesi, indiani, tailandesi, indonesiani … D’altra parte, individualizzazio-ne del lavoro, ipersfruttamento dei lavoratori, esclusione sociale e integrazione perversa sono legati a specifici processi associati ai rapporti di produzione … Il processo d’esclusione sociale colpisce sia le persone che i territori. Avviene così che, se valgono date condizioni, quartieri, regioni, città, paesi interi finiscono per essere esclusi, coin-volgendo nell’esclusione la maggior parte, se non la totalità, della popolazione. Tali considerazioni ci introducono un ulteriore aspetto, costituito dalle fenome-

nologie del cambiamento – ovvero dai differenti modi di manifestarsi del cambia-mento nell’esperienza dei membri delle società che ne sono investite. Storicamente, il cambiamento culturale ha un andamento prevalentemente “carsico”, costituendo-si di trasformazioni abbastanza graduali da risultare relativamente inavvertite, da non sconvolgere cioè la normalità quotidiana degli attori sociali. In alcuni casi, tut-

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Introduzione 17

tavia, esso assume la forma che un famoso antropologo, Ernesto De Martino (1977)6, ha definito dell’apocalisse culturale, con riferimento allo sconvolgimento delle coordinate quotidiane, di quelle certezze sulle quali si basa la sensazione della stabilità del reale.

L’apocalisse culturale è egregiamente rappresentata nel Ritratto di signora di Khushwant Singh, un narratore indiano contemporaneo, dove l’amorevole nonna, nel momento in cui il protagonista va a scuola e le racconta quello che impara, co-mincia a sentirsi straniera rispetto al mondo, perché non vi riconosce più la propria visione “tradizionale”: la terra gira intorno al sole invece di starsene ferma … . L’incantesimo che legava la nonna al nipote si rompe e la prima, sempre più sola in una realtà che ha perso significato, ormai, riesce a comunicare solo con i passeri ed imbocca la via di una repentina vecchiaia, fino alla morte.

La consapevolezza della relatività delle forme culturali e delle istituzioni sociali è un fenomeno relativamente recente. Esso si collega, in buona parte, al traumatico incontro con i “nuovi mondi”, seguito alle scoperte geografiche della prima moder-nità e, poi, all’accelerazione del mutamento sociale e alla conseguente “crisi dell’ovvietà” (Spedicato, 2006). La sociologia, in qualche modo, nasce di fronte a questa “crisi dell’ovvietà” tipicamente moderna. Già dal suo sorgere, essa si pro-pone cioè come una riflessione sul mutamento, in una fase storica (la prima metà del XIX secolo) nel quale il mondo sembrava non essere più quello che, fino ad al-lora, era sempre stato. L’irrompere della modernità in un contesto tradizionale, spesso, assume la fisionomia di un’apocalisse culturale. La modernità, ciò nondi-meno, finisce per caratterizzarsi come esperienza di un mutamento accelerato ed ininterrotto, che in qualche misura produce assuefazione, come ebbe ad evidenziare egregiamente Georg Simmel nel suo estremo saggio del 1918, relativo al Conflitto nella cultura moderna.

Il mutamento sociale e culturale è il tema che accomuna i saggi, per quanto ete-rogenei, di questo volume. Inizialmente il volume contiene alcuni contributi che affrontano il tema dal punto di vista della teoria sociale, ponendolo in relazione con aspetti quali la cultura (Lia Giancristofaro), la relazionalità e la figura dell’“altro” (Mara Maretti), la razionalità e la comunicazione (Stefano Pasotti), la differenzia-zione sociale (tema caro, quest’ultimo, a classici come Simmel e Durkheim, presi in esame da Stefano Ricciuti), la reciprocità (Ivo Germano). I saggi della seconda parte sono, invece, maggiormente calati negli aspetti e nei risvolti del mutamento sociale dei nostri giorni. È il caso delle differenze di genere, analizzate da Thea Rossi, delle relazioni internazionali, considerate da Alessandro Orsini con partico-lare attenzione per la tradizione teorica del realismo politico; è ancora il caso delle trasformazioni tecnologiche ed economiche nelle loro reciproche implicazioni, ana-lizzate con particolare attenzione ed efficacia da Andrea Pitasi e Lucia Giraldi. È di nuovo il caso della pubblica amministrazione, che Francesco Ferzetti analizza evi-

6 Vedi anche, a questo proposito, Agustoni (2007).

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Alfredo Agustoni 18

denziando i rapporti tra il mutamento sociale e le trasformazioni di carattere nor-mativo (con uno sguardo rivolto soprattutto alla formazione della dirigenza). È, in-fine, il caso dei rapporti tra il mutamento sociale e gli atteggiamenti nei confronti della morte, che Guido Capanna e Giulia Caramaschi prendono in esame, con par-ticolare riferimento al caso di Terry Schiavo. L’ultimo saggio, steso dallo scrivente, è concentrato su di un ultimo aspetto delle dinamiche culturali, costituito dalla convivenza interetnica.

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Cap. 1 Sul concetto di cultura nelle scienze sociali,

di Lia Giancristofaro

La cultura, quale attività oggettiva di mediazione con l’ambiente, è un’attività

pratica, non teorica. Dunque, lo studio della cultura è una disciplina intellettuale difficile da descrivere, e questo ha creato conseguenze negative soprattutto per l’antropologia culturale.

Lo studio della cultura, nell’intento di rappresentare, della cultura, soprattutto l’aspetto soggettivo e di ricerca scientifica, nacque nel contesto teorico dell’antropologia e quando apparve, con Tylor, nel 18711, non aveva equivalenti nella maggior parte delle lingue orali che vennero in seguito studiate dagli antropo-logi2: il concetto interessava prevalentemente la società in seno alla quale era stato elaborato, quella occidentale, bisognosa di autodefinirsi sia in rapporto ai gruppi etnici coi quali era entrata in contatto nel corso del colonialismo, sia in rapporto al-le sue grandi masse rurali a cultura orale, che all’epoca rappresentavano la preva-lenza della popolazione europea stessa e che, similmente alle popolazioni esotiche, si riteneva che fossero rimaste allo stadio primitivo, dunque senza storia. Tale con-cezione venne, nel giro di centocinquanta anni, pressoché ribaltata dal relativismo culturale, che ebbe origine con Herskovits (1947) e che si basò sulla convinzione che ogni cultura meritasse rispetto e riconoscimento; alla luce di questa prospettiva ermeneutica, ogni criterio metaculturale di valutazione risultò fallace, poiché nes-suna cultura era avvicinabile prescindendo dalla sua storia, dalle stratificazioni, dall’inquadramento ambientale: a farla breve, ogni cultura doveva essere conside-rata nella sua irriducibile complessità3.

1 Il termine venne per la prima volta usato, con un’accezione simile a quella attuale,

dall’antropologo britannico E. B. Tylor. Questi asseriva che, nella misura in cui la cultura comprende «tutte le capacità e i moduli di comportamento acquisiti dall'uomo in quanto membro di una società», lo studio di queste capacità avrebbe consentito di «risalire alle leggi del pensiero e dell'agire umano», p. 24.

2 Nella storia, la maggior parte delle popolazioni ha adoperato, per autodefinirsi, non termini relativistici e di equiparazione alle altre popolazioni, bensì etnonimi come gli uomini, gli autentici o gli eccellenti, in opposizione agli altri , non riconosciuti come umani a tutti gli effetti e considerati “barbari” o “selvaggi”, secondo l’attitudine etnocentrica a organizzare le diversità culturali per mezzo di una gerarchia, rivelatasi in seguito non solo scarsamente utile, ma anche molto pericolosa.

3 Spesso, questo pubblico riconoscimento della diversità culturale è stato erroneamente interpretato come relativismo morale, confondendo il piano socio-culturale con quello filosofico; il relativismo morale, infatti, è quella concezione filosofica che, attribuibile già a Protagora, non ammette principi immutabili in sede morale, mettendoli bensì in relazione a circostanze, bisogni e

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Lia Giancristofaro 22

La caratteristica della cultura di rappresentare la totalità dell’ambiente antropico e di essere condivisa e distribuita in maniera omogenea all’interno dei vari gruppi o società comportava inoltre che, nonostante lo spazio della variabilità individuale, nella cultura permanesse una normatività intrinseca, che dagli individui era diffi-cilmente percepibile come modello e regola esterna, poiché agente a livello intrap-sichico. Contemporaneamente a questo processo di progressivo riconoscimento e protezione delle culture in senso oggettivo4, la costruzione disciplinare dell’antropologia culturale, ovvero lo straordinario tributo soggettivo dell’uomo moderno nei confronti della diversità individuale e collettiva, si andava parados-salmente scostando dalla cultura (intesa come universale capacità degli esseri uma-ni di rappresentare il mondo tramite simboli, di propagare tali simboli con l'inse-gnamento e di trasformare, tramite essi, il mondo esterno), per allinearsi con la tra-dizione teorica di Max Weber, Emile Durkheim e Marcel Mauss, i quali avevano invece privilegiato l’osservazione della necessità di riproduzione dei gruppi sociali e le soluzioni adottate per regolare le relazioni fra gli individui. Questo avvicina-mento dello studio della cultura al terreno delle scienze sociali fu probabilmente dovuto al fatto che lo statuto antropologico originario, all’epoca, non soddisfaceva appieno gli intelletti, prevedendo, semplicemente, la descrizione delle culture come sistemi normativi (elaborati in modo più o meno formale), come sapere necessario per vivere e come totalità di ambiente socio-fisico di matrice umana.

L’allineamento tra cultura e società segnò, tuttavia, il progressivo impoveri-mento del concetto di cultura, per via della sua frequente assimilazione al concetto di società. In seguito, una volta che ambedue i pilastri teorici vennero incrinati dal dubbio riguardante non solo l’effettiva consistenza della cultura come modello concettuale5, ma persino la sopravvivenza, nella globalizzazione, di realtà umane caratterizzate dall’antica formula etnologica identificante un popolo con un territo-rio, una cultura ed una società, la definizione antropologica di cultura finì con il teorizzarsi al livello di una amorfa struttura di significati non localizzata in territo-ri precisi, determinando un ulteriore dissesto nell’impalcatura teorica antropologica basata sul binario cultura-società.

Vuoi perchè il passaggio dalla semplice constatazione (fatto oggettivo) a co-strutto concettuale (fatto soggettivo) aveva erroneamente ricondotto la cultura a un sistema di valori astratti; vuoi perché l’eclettismo e la complessità delle tematiche coinvolte avevano finito col caratterizzare l’antropologia culturale in quanto scien-za dell’uomo a 360°; vuoi perchè le politiche accademico-istituzionali cominciava-no a far proliferare le direzioni di ricerca, creando una grande varietà di sottodisci-

scopi. A livello storico, il relativismo morale ha il pregio di aver orientato la cultura greco-romana verso il criterio scientifico delle condizioni e della verifica.

4 L’Unesco considera e protegge la cultura come “serie di caratteristiche specifiche di una società o gruppo sociale” in termini spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali.

5 Dal fatto che la cultura è qualcosa di meno materiale della società, impersonata dalla gente, si evince la maggiore difficoltà ad individuarla.

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pline presso le università di tutto il mondo (antropologia visuale, economica, lin-guistica, storica, sociale, amazzonica, dello sviluppo, delle organizzazioni, del turi-smo, dell’arte, della letteratura, delle religioni, dell’alimentazione, dei fenomeni migratori, del territorio, giusto per citarne alcune), tutti questi percorsi, variegati quanto al contenuto e facili ad incroci e sovrapposizioni, segnalano quanto profon-da sia stata la crisi che ha attraversato il significato di cultura nelle scienze sociali.

Una soluzione risiederebbe proprio nella radicale esemplificazione dello studio della cultura, che se dalla globalizzazione sembrava essere stato, in un primo mo-mento, terribilmente complicato, alla luce degli ultimi contributi scientifici sembra facilitato. D’altronde, oggi che le migrazioni planetarie, i rimescolamenti e le con-taminazioni sembrano aver spazzato via la diversità culturale, alla radice del pro-blema si trova la vexata quaestio dell’identità mentale/sociale dei gruppi umani, che, sviluppandosi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, chiudeva il mille-nario lavoro preparatorio nel pensiero occidentale europeo verso una sempre mag-giore consapevolezza, negli individui, della propria coscienza sociale6, aprendo la tortuosa strada della determinazione della posizione dell’individuo rispetto allo stratificato fluire della narrazione umana nella quale egli vive e si relaziona.

Facendo un breve flash back, è curioso che, proprio nella Francia che dava alla luce la sociologia come disciplina scientifica, la questione identitario-culturale non ebbe spazio, restando in un posizione ancillare rispetto alla questione sociale: in Francia, si dovranno attendere gli anni Trenta del Novecento perché l’uso del ter-mine cultura cominciasse a figurare nelle ricerche degli africanisti e il tema della totalità culturale venisse ripreso da Claude Lévi-Strauss nella sua analisi struttura-le7.

In quella fase iniziale, il maggior apporto allo sviluppo e all’affinamento del concetto di cultura fu anglo-tedesco: innanzitutto, con le scoperte darwiniane e l’ipotesi di un cambiamento che, partendo dall’adattamento genetico all’ambiente naturale, avesse portato allo straordinario risultato dell’adattamento culturale, principale caratteristica di Sapiens: un adattamento che, a differenza di quello ge-netico, è trasmissibile per mezzo di miti e segni convenzionali, dunque mutevole nell’ambito dello stesso individuo senza dover attendere i tempi delle generazioni successive. Questo aspetto venne, tuttavia, sottovalutato, ed il fenomeno fu inter-pretato in modo evoluzionistico, normativo e valoriale, tanto da sollecitare, assieme alla contrapposizione tra cultura e civiltà, lo sviluppo del dibattito tra l’accezione particolaristica (soffermatasi in chiave talvolta razzista sulla differenziazione del fenomeno culturale nella storia) e quella universalistica, privilegiante l’unità del

6 L’idea di cultura, quando nacque, nei secoli XVIII e XIX, venne applicata solo al genere umano

e continuò intrinsecamente a contenere i concetti di paideia, cultura animi ed humanitas, fondamenti ideologici del mondo greco-romano, dell’Umanesimo quattrocentesco e dell’Illuminismo.

7 Va specificato, tuttavia, che anche Emile Durkheim, pur non adoperando quasi mai il concetto di cultura, sostenne che i fenomeni sociali, essendo fenomeni simbolici, hanno una dimensione culturale intrinseca.

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genere umano e minimizzante le diversità culturali interne8. Solo con il grande ap-porto del tedesco Boas, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si decise che le diffe-renze erano acquisite, non innate9; non è un caso che Boas si fosse trasferito negli Stati Uniti, dove il concetto di cultura stava ricevendo la migliore accoglienza e un approfondimento teorico tale da rendere l’antropologia americana, ancora oggi, si-nonimo di antropologia della cultura10. Da qui, le scienze sociali analizzarono la cultura sia secondo il suo rapporto con la storia (prerogativa degli eredi di Boas11), sia pure, parallelamente, secondo le strette relazioni che essa intesse con la perso-nalità individuale12. La terza strada fu quella di leggere la cultura come un sistema di comunicazione tra le persone e, sulla scorta dell’interpretazione di Sapir, per il quale la cultura consisteva nelle interazioni individuali, di analizzare i processi concreti di elaborazione della cultura, anziché definirla come entità ipotetica e a-stratta. Gli antropologi della comunicazione (Scuola di Palo Alto) concepirono la cultura come comunicazione orchestrale finalizzata ad una interazione durevole, sottolineando come fosse la pluralità dei contesti dell’interazione a motivarne il ca-rattere instabile, plurale, eterogeneo13. Pur non essendo riusciti a spiegare quale sia la sostanza della cultura, tutti questi studiosi hanno fatto almeno chiarezza su come essa viene incorporata e, separando ciò che dipende dalla natura da ciò che dipende

8 Edward Tylor era stato il primo studioso a maturare una concezione universalista della cultura,

ritenuta essere espressione della totalità della vita sociale dell’uomo; la sua fu una definizione oggettiva e descrittiva.

9 Boas attaccò il comparativismo, che ancora riscuoteva successo presso gli autori evoluzionisti, sottolineò l’impossibilità di trovare leggi universali sul funzionamento delle società umane, e invitò i colleghi a dedicarsi all’osservazione diretta delle popolazioni altre (ricerca sul campo), anziché per-dersi in congetture salottiere, secondo il principio di sfuggire ad ogni forma di etnocentrismo.

10 Questo dipendeva dal particolare contesto socio-economico degli Stati Uniti e del Canada, dove l’immigrazione stimolava ad interrogarsi sulle differenze culturali e andava allora creando le prime (e maggiori) plurietnicità nazionali.

11 La storia culturale si sforzò, in particolare, di spiegare la distribuzione spazio-temporale degli elementi culturali tramite il diffusionismo e nozioni come il tratto culturale, l’area culturale, il modello culturale. In seguito, gli eccessi interpretativi del diffusionismo furono ridimensionati dall’inglese Bronislaw Malinowski, che richiamò gli studiosi all’osservazione diretta delle culture allo stato attuale, evitando ogni illusoria speculazione sulle loro lontane origini. Opponendosi, come Boas, all’evoluzionismo (troppo rivolto a futuro), ma non per questo cadendo nel diffusionismo (troppo rivolto al passato), Malinowski spiegò le differenze culturali secondo la teoria dei bisogni, per la quale gli elementi costitutivi di una cultura avrebbero la funzione di soddisfare i bisogni essenziali delle persone, in un funzionalismo totalmente concentrato sul presente e insufficiente a spiegare la complessità del fenomeno.

12 Edward Sapir, Ruth Benedict, Margaret Mead, Ralph Linton e Abram Kardiner misero in luce l’importanza dell’educazione nel processo di differenziazione culturale.

13 Spiegando l’intrinseca eterogeneità di ogni cultura, gli interazionisti misero anche in discussione la distinzione tra cultura e subcultura. Nell’elaborazione culturale, infatti, la cultura che viene prima è quella locale, che unisce gli individui nell’interazione immediata, e non quella globale, che riguarda una collettività più ampia.

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dalla cultura (ossia la maggior parte dei fenomeni umani14), spianarono la strada ad una interpretazione sociologica della cultura, vista non come una semplice combi-nazione di elementi, bensì come un insieme organizzato di elementi così stretta-mente connessi che il meccanismo di interdipendenza finisce con sopravanzare l’importanza degli elementi stessi, cioè dei contenuti.

Un ulteriore rinnovamento fu dovuto allo studio delle relazioni tra le culture ed al contributo europeo di Roger Bastide (1971) che, contro il culturalismo america-no (considerato responsabile di un appiattimento dei fatti umani nella monodimen-sionalità culturale), sottolineò l’enorme diversità individuale dei vari ambiti sociali dove possono contestualizzarsi i fenomeni culturali (sincretismo, meticciato o as-similazione), ed invitò a valutare la complessa dialettica che va dalle sovrastrutture alle infrastrutture, nonché gli effetti secondari imprevisti. Per esempio, poiché non sono le culture ad incontrarsi, ma le persone, in un contesto di acculturazione certe caratteristiche della personalità umana possono essere spiegate solo ricorrendo alla dissociazione, per la quale un individuo riesce a vivere contemporaneamente in due universi culturali, senza metterli in comunicazione. L’acculturazione cominciò dunque ad essere letta non come fenomeno geometrico e simmetrico, ma come fat-to sociale totale, insomma di interpenetrazione culturale, espressa anche a livello di forme inconsce (strutture percettive, mnemoniche, affettive, logiche). Contempora-neamente, ogni cultura poté essere vista come una culturazione, vale a dire un si-stema dinamico e non perfettamente omogeneo, perchè intrinsecamente dotato di un necessario margine d’azione, una fondamentale libertà fruibile a livello indivi-duale e di gruppo.

Tuttavia, la progressiva scomparsa delle realtà socio-culturali caratterizzate dal-la formula che tradizionalmente identificava un popolo con un territorio, una cultu-ra ed una società, andava inevitabilmente ad erodere l’affidabilità teorica dei con-cetti di cultura e società: di questo fatto, si alimentò il nuovo filone dell’antropologia interpretativa.

A partire dal 1970, la crisi della rappresentazione etnografica, della quale il principale esponente fu Clifford Geertz (1997)15, portò ad interpretare le culture come fossero testi; dunque, all’antropologo si impone di limitarsi a tradurre la cul-tura diversa, i cui concetti fondamentali potrebbero essergli assolutamente incom-prensibili. Nel contempo, il fatto che la civiltà occidentale avesse invaso l’intero pianeta, sconvolgendo gli equilibri ecologico-culturali e scardinando le strutture

14 Poiché la cultura interpreta la natura e la trasforma, il corpo umano è fortemente influenzato

dalla cultura: la cultura plasma anche le pratiche corporee apparentemente naturali (mangiare, dormire, accoppiarsi, partorire, espletare le funzioni fisiologiche dell’organismo), come fu dimostrato nel 1936 da Marcel Mauss per il quale, a causa delle tecniche culturali riguardanti il corpo, la natura umana non può essere osservata prescindendo dalla cultura.

15 Prendendo lo spunto dalla notevole distanza che può essere intravista tra la materia culturale e l’interpretazione che lo studioso ne fornisce, nonché calcando la mano sul ruolo di scrittore-autore insito nell’etnografo, l’antropologia interpretativa rappresentò una seria provocazione contro la cultura, e fece da detonatore alle tensioni precedentemente accumulate dalla materia.

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socio-culturali dei popoli di interesse etnologico, pose al centro dell’indagine il sincretismo culturale e le culture meticcie. Il generale interessamento verso le pro-blematiche interculturali e transculturali del pianeta ed il conseguente passaggio dalla ratio culturale a quella delle logiche meticcie fecero sì che il sempre più in-quieto panorama delle scienze sociali dichiarasse il definitivo esaurimento del con-cetto di cultura, il cui termine cominciò ad essere virgolettato o persino sostituito da neologismi della disciplina, come ethnoscape (Appadurai, 1996). I dubbi su que-sto fondamentale strumento euristico andarono interamente a scapito dell’antropologia culturale, che si trovò a basarsi sullo studio di un concetto iper-criticizzato, impantanato nelle storie culturali ereditate dall’antropologia interpre-tativa, nonché già fortemente eroso, a livello operativo, dallo sviluppo di scienze contigue come la sociologia della cultura o della religione. Paradossalmente, nel momento in cui tutti, persino giuristi ed economisti, hanno attinto all’antropologia culturale, gli antropologi culturali si sono sfiduciati circa le proprie capacità di faci-litare la lettura della realtà sociale, in quanto irrimediabilmente contaminata dalla soggettività dell’etnografo (Fabietti e Matera, 1997) per l’essenza stessa della con-cettualizzazione della cultura, che tutto crea e… tutto distrugge.

Tuttavia, nell’intraprendere la strada della tuttologia e nell’obliterare il biglietto della tautologia o scienza del nulla, un ruolo negativo forse anche peggiore veniva già da tempo esercitato dal rapporto tra cultura e azione che, in una scienza come l’antropologia culturale, non poteva risolversi in favore dell’individuo, visto come determinato nei comportamenti e, dunque, psicologicamente svalutato. Per questo, molti studiosi avevano evidenziato che la connotazione olistica della cultura, ecce-dendo nell’evidenziare gli automatismi del comportamento umano, finiva col deni-grare l’individuo, la sua libertà di scelta, il suo ruolo attivo nel cambiamento cultu-rale. Si badi bene: l’olismo altro non era che l’ennesima, nefasta conseguenza della novecentesca confusione tra cultura e società, intesa, quest’ultima, come vita so-ciale. Infatti, la connotazione olistica non era molto presente agli albori della disci-plina, allorquando Tylor concepì la cultura come quel complesso di capacità e abi-tudini acquisite dall’uomo in quanto membro di una società16; né essa è totalmente imputabile all’organicismo della scuola di cultura e personalità che, relativamente alle culture analizzate, stabilì l’esistenza di un modello culturale fortemente condi-zionante, senza però entrare nel merito della cultura come categoria analitica. L’olismo, dunque, va ricondotto a coloro per i quali cultura coincide con società, intendendo l’antropologia come modo di raccontare una società.

Forse, da quando l’antropologia culturale aveva cominciato a camminare sui crinali, solo il filone di Parsons (1937) aveva individuato, in ogni azione sociale (anche in quella apparentemente più condizionata da fattori culturali), una dimen-

16 L’obbiettivo principale di Tylor era stato, infatti, quello di risalire alle origini della cultura, per

il quale usò il termine evoluzionistico di cultura primitiva; questo tipo di cultura, secondo lo studioso, ancora contraddistingueva alcune popolazioni presso cui, attraverso il metodo comparativo, era possi-bile documentare le sopravvivenze della cultura originale dell’umanità.

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sione simbolica autonoma, evidenziando l’impossibilità di rinchiudere la cultura in un unico compartimento disciplinare ed aprendo, nel contempo, la strada per di-stinguere ciò che è culturale da ciò che è sociale. Questo perché, quando la cultura esce dal pantano del comportamento appreso e assurge a sistema simbolico, la sfe-ra culturale non può più essere ritenuta coincidente con la sfera sociale, e la rela-zione di identità tra le due sfere precipita, a livello critico, in una interconnessione tutta da analizzare e riccamente afferente alla linguistica, secondo la precedente le-zione dello strutturalista Saussure che ridimensionava l’olismo ad un semplice or-dine che, essendo unico elemento comune ai simboli e ai loro significati, non pote-va essere colto attraverso lo studio isolato di simboli particolari, bensì nei termini delle loro relazioni in sistemi. Questa prospettiva evidenzia e concretizza come la cultura appartenga, sostanzialmente, all’orizzonte della comunicazione, nel quale, da Aristotele in poi (vedansi gli approfondimenti di Karl Jaspers, Ludwig Wittgen-stein, Ernst Cassirer, Roman Jakobson, Luis Hjelmslev, Antonino Buttitta), l’intera realtà umana è stata positivamente interpretata. La natura dei fatti culturali non è diversa da quella dei fatti linguistici, da cui i fatti culturali derivano gran parte della loro esistenza; pertanto, seguendo Saussure, in ognuno dei fatti culturali è presente non solo il livello della parole, individuale, ma anche quello della langue, colletti-vo. Ma, mentre il livello parole, essendo individuale, è facilmente individuabile, quello sociale non è immediatamente percepibile, a causa dell’ambiguità del con-cetto di società. L’essere sociale, infatti, rinvia a più ambiti, i quali sono dotati di perimetro diverso e spaziano in territori diversissimi, che vanno dalla microcomu-nità in cui ci riconosciamo al grande mosaico dell’umanità totale, di cui la nostra microcomunità è solo una piccola tessera. Invece, le teorie di Parsons, Hjelmslev ed altri, attraverso la diversa temporalità degli effetti di un fatto culturale (rapida, scandita, lenta, lentissima) ed il suo diverso stadio di consapevolezza (un fatto cul-turale può essere consapevole, come la parole, ma anche assolutamente inconsape-vole, come lo schema), direttamente o indirettamente evidenziarono che l’associazione tra significato e significante non è legata ad una legge naturale, ma è l’essenza stessa del foedus culturale che unisce, sincronicamente e diacronicamen-te, tutto il genere umano. Ciò è dimostrato anche dalla varietà interna degli idiomi (e delle culture) che, in ciascun linguaggio, non può essere modificata dal singolo attore, per l’essenza stessa di totalità del sistema linguistico-culturale.

Se l’oggetto delle scienze sociali (o umane) è ancora l’uomo, e se il metodo se-lezionato è ancora quello sperimentale, il punto di vista dell’antropologia culturale, secondo chi scrive, è ancora capace di cogliere le strutture comuni di fenomeni ap-parentemente diversi e lontani. La ricerca antropologica ha fatto un lungo cammino per arrivare alla determinazione morfologica di fiaba, miti e rituali; all’enucleazione dei motivi della narrativa orale o cibernetica e il loro rincorrersi, oggi come ieri, con l’arte, i media e la letteratura; alle ricerche psicologiche sui simboli e sui comportamenti religiosi individuali e collettivi, talvolta assurdi. E

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questo non solo ha il pregio di risolvere la contrapposizione tra culture popolari e culture dominanti17, ma dimostra che la categoria generale di cultura conserva, an-che nel contesto attuale, una capacità di analisi delle condivisioni sociali e una uti-lità nel loro collegamento con le altre scienze, anche se le culture intese in senso classico sono ormai quasi scomparse.

Certamente, l’accesso alla comunicazione globale ha sostanzialmente cambiato i confini etnologici e le rilevanze identitarie precedentemente connesse alla cultura, riorganizzando le forme simboliche in flussi culturali complessi, dove tradizione, modernità e post-modernità coesistono, ma ogni elemento assume un significato diverso rispetto al passato. Tuttavia, gli uomini di oggi consumano simboli come quelli di ieri, e la sfera simbolica di un oggetto (o un concetto) continua a suscitare il pensiero mitico: si pensi a temi diffusi come l’affondamento del Titanic, l’attentato alle Twin Towers, la principessa Diana, oppure a questioni universali come l’origine della vita, il tempo, la coppia, la madre, il padre, la procreazione, il viaggio, la fratellanza, l’acqua, la torre, il baratro, la nudità, la verginità, la morte.

Perciò, l’antropologia culturale non può fare a meno degli strumenti dell’antropologia simbolica (Butitta, 1996) e dell’obiettivo di comprendere, a livel-lo teorico, i meccanismi dell’immaginario umano. Dunque, la definizione di cultu-ra formulata da Tylor continua ad essere il miglior criterio organizzativo per la raccolta e l’ordinamento dei dati etnografici, nonostante la pecca di essere stata formulata in modo generico e poco adatto ad evidenziare gli aspetti più complessi del fenomeno. La definizione universalista della cultura dello studioso mirava alla descrittività e all’oggettività e, pur senza essersi distaccata completamente dalla prescrittività e normatività, contiene un elemento, importantissimo, di fiducia nell’uomo e nell’umanità, su cui si fonda l’unità psichica del genere umano. Tylor, nonostante fosse incrostato dell’evoluzionismo che caratterizzava il suo tempo, eb-be il senso del relativismo culturale: anticipando quanto esattamente un secolo do-po sarà obiettato da Geertz (1995), sembrò persino porsi il problema di verificare punto per punto se i fatti culturali analizzati dalla scienza della cultura mantenesse-ro una effettiva lontananza dagli psichismi dello scienziato stesso.

17 La differenziazione sociale che, a partire da Gramsci (e poi soprattutto con Alberto M. Cirese,

1973, 1976), venne identificata con l’osmotica opposizione tra ceto egemone e ceto subalterno, venne ingiustamente colpevolizzata di inutili scissioni su basi economiche dell’unità dello spirito umano. Riteniamo, invece, che la dialettica egemone/subalterno consentì di cogliere aspetti della religione e del mutamento culturale del tutto nuovi. Oggi, per esempio, essa può essere attualmente interpretata come drastica opposizione generazionale tra il ceto che detiene una identità culturale dominante (scritta od orale che sia) ed il ceto culturalmente depauperato, che, rincresce dirlo, si concretizza nelle nuove generazioni, in apparenza poco coinvolte dalla verticalità storica cui partecipano. Questo perché, nell’Era dell’informazione, la storia sociale viene frammentata dai media e somministrata ai fruitori come un oggetto di consumo. Interessante è, in proposito, il contributo di Michel de Certeau (1980), il quale ravvisa l’osmosi tra le stratificazioni sociali nel bricolage delle classi popolari, cioè quel consumo critico e libero che permette di accettare e, nel contempo, negare il prodotto somministrato dalla cultura dominante.