Askesis | "Una regola per principianti" di Massimo Folador

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Una regola per principianti Racconto tratto da Il sapore del pane di Massimo Folador Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA

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La città è alta, molto più alta della pianura. Sta lì, appesa al cielo, con le punte dei campanili che sembrano svanire tra le nubi. È così alta che nei giorni di vento pare debba crollare da un momento all’altro o piegarsi fino a scomparire. Sta al suo posto da anni, forse più; in compagnia della gente, di chi ci abita e di chi ci trascorre la vita stanco. Sola e nel contempo affogata nel fragore. Anche tu sei alta, molto più alta dei ragazzi della tua età. Eppure quando tenti di toccare la città con il dito più lungo arrivi a malapena alle cantine, in quegli angoli bui dove si annida l’odore acre degli ubriachi e del vino andato a male o dove la notte vedi accucciarsi i bar- boni e il loro tempo vuoto. Anni addietro avresti fatto salti di gioia per toccare con un dito le cantine. Adesso no, ora vuoi toccare il cielo, i palazzi, i campanili. Com’è possibile abituarsi alle cantine in eterno? Com’è possibile quando cominci a desiderare le stelle? Così un giorno hai deciso di imparare a camminare. La città pare fatta apposta per chi ne ha il coraggio: i lunghi viali, quasi infiniti, conducono sempre da qualche parte e le stradine a ridosso dei muri quando serve ti fanno riposare. E poi l’odore di primavera, specie la sera, prima di tornare a casa; le luci delle chiese. Mica è facile imparare a camminare così, all’improvviso, tanto più in una città che è tutta in salita. È vero: prima o poi anche la salita è destinata a finire e la strada a ritornare in discesa, ma intanto sali e non vedi altro all’orizzonte.

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Una regola per principianti

Racconto tratto da

Il sapore del pane di Massimo Folador

Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA

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La città è alta, molto più alta della pianura. Sta lì, appesa al cielo, con le punte dei campanili che sembrano svanire tra le nubi. È così alta che nei giorni di vento pare debba crollare da un momento all’altro o piegarsi fino a scomparire. Sta al suo posto da anni, forse più; in compagnia della gente, di chi ci abita e di chi ci trascorre la vita stanco. Sola e nel contempo affogata nel fragore. Anche tu sei alta, molto più alta dei ragazzi della tua età. Eppure quando tenti di toccare la città con il dito più lungo arrivi a malapena alle cantine, in quegli angoli bui dove si annida l’odore acre degli ubriachi e del vino andato a male o dove la notte vedi accucciarsi i bar- boni e il loro tempo vuoto. Anni addietro avresti fatto salti di gioia per toccare con un dito le cantine. Adesso no, ora vuoi toccare il cielo, i palazzi, i campanili. Com’è possibile abituarsi alle cantine in eterno? Com’è possibile quando cominci a desiderare le stelle? Così un giorno hai deciso di imparare a camminare. La città pare fatta apposta per chi ne ha il coraggio: i lunghi viali, quasi infiniti, conducono sempre da qualche parte e le stradine a ridosso dei muri quando serve ti fanno riposare. E poi l’odore di primavera, specie la sera, prima di tornare a casa; le luci delle chiese. Mica è facile imparare a camminare così, all’improvviso, tanto più in una città che è tutta in salita. È vero: prima o poi anche la salita è destinata a finire e la strada a ritornare in discesa, ma intanto sali e non vedi altro all’orizzonte.

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Hai deciso di iniziare a camminare una mattina d’aprile, una di quelle giornate in cui la bellezza è tanta da lasciare senza fiato. La pianura, giù in fondo alla valle, è ancora addormentata e luccicano chiarori qua e là per la campagna. Le donne si affrettano intorno ai lucernari mentre il resto attende quieto il giorno. Uno sguardo allo specchio, giusto per indovinarti più bella, con gli occhi ancora mezzo assonnati e un accenno di sorriso tra i capelli. Lo specchio non è cosa buona per chi vuole camminare, invita alla vanità. Meglio allora socchiudere gli occhi e sforzarsi di scappare. Davanti alla porta è già tutto pronto dalla sera prima. Rovisti di nuovo nello zaino e frughi tra le cose che contano: il berretto per il sole, gli spiccioli per mangiare. I libri. Mancano i libri. Com’è possibile camminare senza libri? Strada facendo potresti comprare del vino, del salame, persino i vestiti; ma i libri no, sono tutt’altra faccenda, non è possibile comprarli. Vanno annusati, accarezzati con cura. Un libro giusto è già una tappa del cammino, è come se partissi avvantaggiata. Con un salto sei già in camera, ficchi di corsa due libri nello zainetto e in un attimo sei di nuovo fuori. Adesso finalmente puoi iniziare il cam- mino. La città ti attende muta e silenziosa. Capita così di rado che si fermi a salutare. In genere in città si arriva, mica si parte; ci si siede, non si cammina. In silenzio ti salutano le auto parcheggiate lungo i marciapiedi, le panchine del parco e persino i lampioni reduci dalla fatica della notte. Di tanto in tanto un palazzo apre una finestra verso il giorno e scricchiola nell’aria l’odore di passato: è il loro modo di salutare chi gli passa accanto. Basta non farci caso e soprattutto non lasciarsi intimorire.

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L’aria della mattina è limpida e chiara. Decidi di camminare subito di buona lena, le scarpe sono comode e i pensieri decisi. Svoltato l’angolo di casa imbocchi subito una stradina in salita con il ciottolato vecchio e consunto; ai lati della carreggiata due grossi muri lo sostengono appena. Sorridi. Non è certo una stradina sperduta il luogo migliore per iniziare un cammino, tanto più se irta e deserta. Poi però incontri un gatto, nero e paffuto, poco più avanti un altro ancora. Paiono lì apposta ad aspettarti, pezzi di città anch’essi, sornioni e beffardi, capaci di catturarti con una moina e poi di fuggire lontano. Come la vita in fondo, proprio quella che hai deciso di raccogliere in un bicchiere e di sorseggiare adagio. Alla fine della stradina ti fermi a riposare un poco. Ti accoccoli al bordo di una fontana e respiri adagio per allontanare il fiatone che ti spezza le parole. L’acqua è fresca, come di sorgente, e canta di soppiatto. Buffo, pensi, un pezzo di montagna in mezzo a tutti quei pa- lazzi, un angolo di pace vera dentro a tanto rumore. Eppure è possibile anche qui in città, se sai cercare con occhi diversi, non abbandonare la strada alla prima fatica e saperti risvegliare dopo ogni distrazione. Bevi una sorsata d’acqua dalla fontana e subito senti un’energia diversa scorrere a fior di pelle, senti la voglia di muoverti e di arrivare lontano. A passi sempre più lunghi imbocchi un viale alberato, sorpassi una piazza con a lato una chiesa barocca e ti fermi di fronte a una bancarella ad annusare dei fiori. La città si sta svegliando lentamente ed è bello, per una volta almeno, farlo assieme ai suoi rumori, ai colori delle auto in sosta, ai profumi dei negozi. Quando la vita scorre dietro un vetro, i profumi puoi pensarli soltanto e anche i rumori paiono cose distratte, così come la gente e persino i gatti. Che ne è di una città da dietro i vetri? Che ne è di te senza una città e le sue persone?

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Quando arrivi in alto, proprio in cima all’ultimo scalino, è già tardi. Il sole sta accucciato sopra un paio di nubi a illuminare di sbieco i palazzi, l’aria è calda e leggera, ma devi aspettare i rintocchi di un campanile per indovinare l’ora. Capita a chi non usa l’orologio. E adesso? Adesso che sei arrivata in cima? Appoggi lo zainetto sopra una panchina e provi a issarti sul muretto che circonda la piazzuola. Non sei mai arrivata così in alto e non hai mai camminato tanto a lungo in questa città. Per un attimo ti chiedi cosa mai avresti visto da lassù se soltanto avessi deciso di partire prima: quanti paesaggi e quali racconti; quanti uomini indaffarati e quali storie. E ancora quanti boschi, colline, forse addirittura il mare da lontano, linea sottile oltre le montagne. Bello osservare tutto dall’alto, cincischiare con lo sguardo fino all’orizzonte e perdersi. Tu aggrappata all’ultimo muro e tutto il resto più in basso ad aspettare. A questo pensi quando finalmente il campanile della chiesa torna a battere otto rintocchi decisi: è ora di iniziare. Stropicci gli occhi, stiri per bene le braccia ed entri nello stabile che ti hanno indicato. Fai appena due passi e poco oltre l’ingresso trovi la tuta e gli arnesi che accompagneranno la tua giornata: una scopa nuova di saggina, dei sacchi neri e una paletta grande a dismisura. Non sembrano un granché per essere gli attrezzi del tuo nuovo lavoro, però sono la tua scommessa, il modo di ripagare la città che ti ha ospitata, di dare vita al tuo tempo. Domani forse si tramuteranno in qualcos’altro, ma intanto non ti resta che accoglierli, così come stai facendo con il nuovo giorno e con tutti quelli che verranno.

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Il vento della notte ha soffiato più forte del solito oggi e la piazza è zeppa di foglie e di cartacce. Ci sarà tanto lavoro da fare, molto più di quello che avresti sperato per iniziare. La giornata però è tersa e c’è un giusto tepore nell’aria; anche le persone che ti scorrono accanto sembrano essere di buon umore, qualcuno ti saluta persino, chi con un cenno, chi con un sorriso. Strano, proprio strano in un luogo che credevi deserto. Mentre continui a spazzare il lato della piazza baciato dal sole ti viene in mente una frase letta chissà dove qualche anno addietro, in cui un personaggio famoso raccontava del significato del lavoro. Ora che ti torna in mente mai avresti pensato che ti avrebbe riguardato così da vicino. Parlava di grandi artisti e di uno spazzino e di come in entrambi resti viva la stessa vocazione: il gusto cioè di fare bene e di vivere ogni lavoro con passione. Perché questo è ciò che alla fine sa di poter donare un cuore che vive se stesso e gli altri con passione. A questo pensi, quasi sorridendo, mentre ripercorri la stessa città che tante volte hai attraversato a capo chino. Rivedi con occhi diversi il campanile, i palazzi, la piazza, la chiesa a lato, poi un altro campanile, un’altra lunga fila di palazzi e ancora una piazza: i luoghi di sempre, scrigno di giorni sbadati e di noia, tempo di assenza e di futuro impervio mentre scorrono in dissolvenza tutti gli attimi che avresti voluto eterni. Per questo adesso godi di quel pezzo di sole che scivola tra gli alberi e assapori il tuo fare silenzioso tra le foglie. È poca cosa rispetto alle solite illusioni ma è ciò che senti tra le dita e che se vorrai proseguirà a essere domani.

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In fondo quando si riprende a camminare forse non serve neppure conoscere la meta, né avere le scarpe lucide e lo zaino preparato a puntino. Forse non occorre neppure sperare. È così tanta la strada da percorrere e così docile all’inizio il cammino. Non hai ripreso a lavorare per vedere una spianata di tetti o recuperare quattro soldi a fine mese; oggi senti che può essere la volta buona e che in gioco c’è un pezzo di vita più grande dei tuoi stessi pensieri, delle tue stesse emozioni. Ammucchi con cura un altro fazzoletto di foglie, lo raduni nel sacchetto e per un attimo socchiudi gli occhi e provi a respirare profondamente. Un respiro, poi un altro e un altro ancora, mentre adagio senti crescere dentro un sorriso, uno dei tuoi sorrisi grandi e senza meta che hai corso il rischio di dimenticare. È strano che sia bastato alzarsi la mattina e tuffarsi di nuovo in quel pezzo di vita che ti circonda per renderti conto che non esiste soltanto il tempo della paura e del tremore. È buffo come dentro a un cammino possa ricomparire ogni volta la voglia di essere e la possibilità di fare.  

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