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ARTI E TECNICHE NEL NOVECENTO STUDI PER MARIO COSTA a cura di Vincenzo Cuomo Igor Pelgreffi

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ARTI E TECNICHE NEL NOVECENTO

STUDI PER MARIO COSTA

a cura di

Vincenzo Cuomo

Igor Pelgreffi

Titolo | Arti e tecniche nel Novecento – Studi per Mario Costa Testo a cura di Vincenzo Cuomo e Igor Pelgreffi ISBN | 978-88-92649-70-5 Prima Edizione 2017 © Tutti i diritti riservati all’Autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il pre-ventivo assenso dell’Autore. Youcanprint Self-Publishing Via Roma, 73 - 73039 Tricase (LE) – Italy www.youcanprint.it [email protected] Facebook: facebook.com/youcanprint.it Twitter: twitter.com/youcanprintit

ESTETICA E TEORIA DELLE ARTI

Collana diretta da Vincenzo Cuomo, Jean-Claude Levêque e

Igor Pelgreffi

Comitato scientifico

Valerio Adami (Collège International de Philosophie/ Fondazione Europea del Disegno)

Roberto Barbanti (Université de Paris VIII) Mario Costa (Università di Salerno)

Roberto Diodato (Università Cattolica di Milano) Daniele Goldoni (Università Ca' Foscari di Venezia)

Giuseppe Tortora (Università di Napoli) La collana accoglie saggi impegnati nell'innovazione delle categorie estetologiche e particolarmente attenti alle pratiche artistiche nonché alle trasformazioni delle forme dell'esperienza estetica contemporanea. L'assunto di fondo è che non ci possa essere piena comprensione delle espressioni artistiche novecentesche e contemporanee se non le si interpreta alla luce delle trasformazioni delle “forme di vita” in cui sono coinvolte e dalle quali traggono la loro origine storico-sociale. La collana è aperta a contributi filosofici e teorico-critici di studiosi italiani e stranieri con l'obiettivo di cartografare le emergenze estetiche e artistiche in un orizzonte transnazionale, a partire dall’eredità teorica della tradizione novecentesca europea.

Indice

9 Prefazione di Vincenzo Cuomo

Saggi

15 Roberto Barbanti, Il sottrarsi della “base” al “fatto”. Complessità tecnologica e organica. 39 Maurizio Bolognini, Le mie macchine e il sublime tecnologico come programma artistico. 57 Vincenzo Cuomo, Metamorfosi e ibridazioni. Sperimentazioni artistiche e trans-modernità 77 Matteo D'Ambrosio, Per una storia della Computer Poetry. Testi, poetiche e critica nei primi anni Sessanta. 105 Diana Danelli, Eso-uomini. L’uomo fuori di sé

127 Paolo D'Angelo, Il restauro dell’arte contemporanea e la teoria del restauro di Cesare Brandi. 143 Roberto Diodato, Nota su Vico e techne

157 Filippo Fimiani, …come su un nastro magnetico vuoto, bianco… Medium, memoria, testimonianza 175 Fabio Galadini, Il suono tecnologico

183 Dario Giugliano, Note su teoria estetica e critica d’arte

195 Giuseppe O. Longo, La bellezza, ponte tra le due culture

205 Aldo Marroni, Il suicidio dell’arte contemporanea.

223 Carla Subrizi, Da Isidore Isou alla disumanizzazione dell’arte: l’arte oltre l’opera d’arte

241 Gianfranco Baruchello, I guardiani del fiordo

Testimonianze

245 Alice de Carvalho Lino, O pensamento de Mario Costa no Brasil: arte, tecnologia e a estética do sublime 269 Derrick de Kerkhove, Mario Costa visionario della cultura Digitale 287 Fred Forest, J’ai fait la connaissance...

293 Postfazione di Igor Pelgreffi

…come su un nastro magnetico vuoto, bianco… Medium, memoria, testimonianza

Filippo Fimiani

…si c’est un témoignage, c’est déjà une répétition, au moins une répétabilité[.] Là se trouve le problème

testimonial de la tekhnè. La technique, la reproductibilité technique, est exclue du témoignage qui en appelle toujours

à la présence de la vive voix en première personne. Mais dès lors que le témoignage doit pouvoir se répéter, la tekhnè est admise, elle est introduite là où elle est exclue. […] Et là

s’insinue peut-être, avec le technologique, à la fois comme idéalité et comme itérabilité prothétique, la possibilité de la fiction et du mensonge, du simulacre et de la littérature, du

droit à la littérature, à l’origine même du témoignage vérace, de l’autobiographie de bonne foi, de la confession

sincère, comme leur compossibilité essentielle.. […] En plus d’une langue.

Derrida1 Quasi una premessa Il titolo di questo sincero omaggio a Mario Costa è una

citazione da una straordinaria pagina di I sommersi e i salvati, ultimo libro licenziato da Primo Levi, nella tarda primavera del 1986. Prima di riportarla e discuterla, meglio mettere le carte in tavola e dichiarare quelle che mi sembrano le opportunità e le criticità della mia lettura, insieme modesta e sventata, limitata a quella configurazione estrema tra arte e tecnica, progettata e realizzata nei campi di concentramento e di sterminio. In tali spazi di eccezione bio-politica, “tecnica” è innanzitutto “tecnica disciplinare”, una “scritturazzione” che induce delle tecniche del corpo minime, menomate, gravemente semplificate nelle loro

                                                            1 J. Derrida, Demeure, Galilée, Paris 1998, pp. 48-49.

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potenzialità pratiche, comunicative ed espressive, finalmente umane. “Arte”, invece, è una programmata arte della memoria, insieme terminale ed elementare, meramente reattiva e involutiva, imposta a siffatti corpi deindividualizzati e svuotati di ogni soggettività e ridotti a cose inanimate o bestie e cavie di un protocollo di azioni prestabilite e obbligate; “arte” è un automaton mnestico cui sono vincolati i supporti biologici di una vita scritta e offesa, ordinata e privata di tutto, linguaggio incluso.

In Levi, mi hanno colpito le analogie tra il funzionamento della memoria e diversi dispositivi e supporti mediali: aldilà di un’insufficiente ermeneutica di un topos metaforico e inter-testuale2, qual è la posta in gioco di simili paragoni? Qual è il nesso tra una mnemotecnica basilare, adatta a sopravvivere in situazioni ultime come quelle dei Lager, e le tecnologie di registrazione analogica, sonore e visive? Qual è il rapporto tra memoria vivente, deleghe tecniche – esternallizate o incorporate –, e quella che Levi stesso chiama “testimonianza integrale”, dei “sommersi”, opposta a quella “vera”, dei “salvati”?

Una metafora, alla lettera Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro ma non parlato. Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant’anni, ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel ruolino di una certa

                                                            2 J. Kelly, Primo Levi. Recording and Reconstruction in testimonial Literature, Troubador, Burlington 2000.

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baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente, come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»). […] Quello «stergìsci stèri» funzionava anzi come il campanello che condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva. Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila rapidamente anche un cibo indigesto. Non ci ha aiutati a ricordarle il loro senso, perché per noi non ne avevano; eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano: erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come «che ora è?», o «non posso camminare», o «lasciami in pace». Erano frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l’insensato. Erano anche l’equivalente mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una sua fame specifica. O forse, questa memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un altro scopo: era una inconsapevole preparazione per il «dopo», per una improbabile sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato un tassello di un vasto mosaico. Innanzitutto, di questa lunga citazione3 su cui mi soffermerò,

va cassato uno spunto, benché promettente, ed eliminato un equivoco, perché pericoloso. I rimandi al cinema, e più precisamente alle comparse anonime e senza esemplarità, senza identità e volto, senza ruolo individuale e azione in prima persona, sarebbero da approfondire con cura. Non solo, in particolare, in merito ai rapporti tra Levi e il cinema 4 ,                                                             3 P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), in Id., Opere, intr. di C. Cases, cronologia di E. Ferrero, t. I, Einaudi, Torino 1987, pp. 724-726. 4 Mi limito ad A. Rondini, Bello e falso. Il cinema secondo Primo Levi, in Studi Novecenteschi, vol. 34, n. 73, gennaio-giugno 2007, pp. 57-100, A. R. Daniele, Primo Levi al cinema: La Tregua dal libro al grande schermo, in R. Speelman, E. Tonello e S. Gaiga (a cura di), Ricercare le radici. Primo Levi lettore-lettori di Primo Levi. Nuovi studi su Primo Levi, Italianistica Utraiectina 8, Igitur Publishing, Utrecht 2014, pp. 267-277.

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all’adattamento de La tregua di Francesco Rosi e Tonino Guerra e di Se questo è un uomo di Robin Lough e Anthony Sher, alle interviste e ai documentari (da Davide Ferrario a Roberto Andò); l’evocazione dell’esperienza cinematografica riguarda anche la questione, più generale, della rappresentabilità, documentaria e finzionale, storica e narrativa, dei Lager, inaggirabile banco di prova della settima arte nel Novecento, da Nuits et bruillards a La Question humaine, da The Last Silent Movie a Shoa, da Kapò a Saul fia, da Histoire(s) du cinéma a Notre Siècle, e oltre. Alla luce delle letture contemporanee del fuori-campo e dei “figurants” 5 , le figure evocate da Levi – e altre scritture concentrazionarie – sono al limite della sparizione nel fondo, sono corpi sono assottigliati fino ad essere irreperibili e impercepibili, indistinguibili dall’omogeneità agglutinante dell’ambiente circostante. Sfigurate e irriconoscibili, già consegnate all’oblio, non-monumentali, persone ridivenute letteralmente “personae”, maschere fisse e tipicizzate, senza carattere o espressività, sono parvenze interscambiabili di un mimetismo collettivo imposto e involontario: esposte al disumano, tali corpi senza soggetto sopportano una degradazione estrema, ma non svaniscono in una sparizione definitiva, persistono invece nella negazione totale, resistono, restano coloro – gli invisibili, gli indistruttibili – cui ridare figura e forma, voce e parola.

Mi preme soprattutto notare che, con i riferimenti all’impres-sione e alla registrazione su nastro magnetico o pellicola filmica, Levi non sta diluendo in un’analogia la violenza e l’indifferenza della mnemotecnica disciplinare in vigore nel Lager di Buna-Monowitz-Auschwitz III, dove fu deportato, Häftling, n.174517, dal febbraio 1944 al 27 gennaio 1945. Anzi, ricorrendo al parago-ne con il meccanismo di una memoria vicaria materiale e tecnologica – versione aggiornata di quella che Platone e vari autori tardo-ellenistici chiamavano hypomnesis – e descrivendola

                                                            5 Cfr. X. Vert (sous la direction de), figure, figurants, numero monografico di De(s)générations. Esthétique et philosophie, n. 9, septembre 2009, G. Didi-Huberman, Figurants, in L. Gervereau (sous la direction de), Dictionnaire Mondial des Images, Nouveau Monde Editions, Paris 2006, pp. 398-400, e Peuples exposés, peuples figurants. L’œil de l’histoire 4, Minuit, Paris 2012; J. Rancière, Figures de l’histoire, PUF, Paris 2012.

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però non più esterna e utilmente disponibile in quanto supporto, soccorso o sostegno per supplire o sopportare, per sedare o sosti-tuire la sfinita ed esaurita mneme del prigioniero allo stremo, Levi sta decretando una inedita forma di esteriorità della memoria. Una memoria separata ed estranea a se stessa, incarnata in una soggettività senza soggetto e ridotta al minimo, letteralmente a pelle e ossa. Monumenti

Nell’analogia mediale con la registrazione sonora e visiva, mi

sembra si debba allora intendere un’ingiunzione e un’impos-sibilità.

Da una parte, l’inaccessibilità a qualsiasi mezzo tecnico di delega memoriale e monumentale6, a qualsiasi medium capace di conservare e trasmettere, e, intimando a non dimenticare, di contribuire all’istituzione di una coscienza storica collettiva e pubblica. Dall’altra parte, la necessità di fare propria una siffatta “memoria materiale” e carnale, non per rivivere quei meccanismi disciplinari registrati e incorporati fino all’assuefazione e all’auto-matismo ma per riattivarli come occasioni di una ethopoietica, non per assimilare a sé quei segni incisi a vivo nel corpo ridotto a macchina biologica ma per assumerli come «operator[i] della trasformazione della verità in ethos»7. In tale processo di sogget-tivazione, il corpo proprio ma espropriato a sé, che ha vissuto, patito e subito, fino ad essere indifferente, apatico e anestetizzato, potrebbe divenire corpo testimoniale, prendere e assumere la parola, parlare di per sé, essere esso stesso atto di testimonianza.

Levi non si sottrarrà a quello che chiamerà il suo terzo mestiere – prima chimico poi scrittore, infine «presentatore e […]

                                                            6 Gli strumenti rammemorativi esterni e materiali, gli hypomnemata, sono “monumenti” per funzione e non per sostanza: J. Derrida, La farmacia di Platone (1972), trad. it. e note di R. Balzarotti, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1985, pp. 88-89. 7 M. Foucault, La scrittura di sé (1981), in Id., Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, trad. it. di S. Loriga, ed. a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 204-206.

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commentatore di me stesso». Così si descrive8 nell’appendice alla seconda edizione scolastica di Se questo è un uomo, apparsa da Einaudi nel novembre del 1976, dove ribadisce la funzione pubblica della parola dello scrittore-testimone, voce vivente della deportazione in Italia. Voce istituzionale e pedagogica, ma sempre impegnata in prima persona a parlare per tutti – i salvati e, per quanto possibile, i sommersi –, a descrivere, raccontare, rispondere, appunto a presentare e commentare i fatti della storia e l’esperienza concentrazionaria a chi, come i giovanissimi della generazione del boom economico e dei successivi anni di piombo, non li ha né vissuti né sentiti da familiari o persone vicine, ma, tuttavia, vuole sapere del nesso identitario tra antifascismo, resistenza e Prima Repubblica.

Di tale legame tra testimonianza individuale e comunicazione pubblica, abbiamo un altro esempio assai rivelatore9, anch’esso del 1986, l’anno in cui apparve I sommersi e i salvati e in cui ormai il revisionismo e la “zona grigia” tra vittime e carnefici sono argomenti molto discussi. Si tratta non più di una ricostruzione narrativa individuale, ma di una riflessione critica sulla costru-zione di una memoria collettiva dello sterminio.

In un luogo popolare e trafficato di Harburg, classico borgo bavarese da cartolina, Jochen ed Esther Shalev-Gerz realizzano il Mahnmal gegen Faschismus, un monumento contro il Fascismo, anzi, un contro-monumento: una torre di 12 metri, rivestita di duttili lastre di piombo, che, grazie a un marchingegno, sotto la pres-sione delle numerose iscrizioni dei cittadini e dei visitatori, sparì lentamente nel suo stesso piedistallo, definitivamente nel 1993, negandosi così in quanto mediatore materiale e monumentale di una memoria sociale e pubblica. Cosa ci dice tale intervento riguardo a Levi e all’aspetto performativo di una memoria

                                                            8 P. Levi, Se questo è un uomo (1958), in Id., Opere, cit., t. I, cit., p. 186. Il breve testo è di poco precedente a Dello scrivere oscuro, elzeviro per La Stampa, cui replica Manganelli, redatto in occasione della traduzione italiana della scelta di Poesie di Paul Celan, curata nel 1976 da M. Kahn e M. Bagnasco per Lo Specchio mondadoriano. 9 Mi permetto di rimandare, anche per una bibliografia, a A la rencontre du contre, in B. Rougé (sous la direction de), préf. de J.-P. Cometti, L’Inversion, PUP, Pau 2013, pp. 85-96.

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testimoniata, non solo cioè messa in forma narrativa ma messa in pratica in atti comunicativi intersoggettivi e pubblici? Accanto al monumento ormai invisibile, i Gerz si rivolgono direttamente ai visitatori e, in molte lingue – tedesco, francese, inglese, russo, ebraico, arabo e turco –, ingiungono loro di diventare essi stessi, con gli artisti, monumenti viventi e testimoni in prima persona: «Alla fine, leggiamo, siamo solo noi stessi che possiamo erigerci contro l’ingiustizia». Non c’è insomma mediatore materiale cui poter delegare l’atto memoriale individuale, non c’è un oggetto sociale, un monumento o un testo, cui poter definitivamente demandare la presa di parola e di memoria, che è invece ogni volta da reiterare e rilanciare, in tutta la sua fragilità e mortalità.

Basta rileggere in tal senso il capitolo che apre I sommersi e i salvati10, dal titolo La memoria e l’offesa. Qui, Levi ripete una «verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento»: «la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace [e] i ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei». Potremmo forse spiegare, continua, una tale inaffidabilità dei nostri ricordi «solo quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono scritti, su quale materiale, con quale penna». Conosciamo però, grazie alla scienza e alla psicoanalisi, i meccanismi che falsificano la memoria, sia in occasioni eccezionali – i traumi, i ricordi «concorrenziali» e intercalari, le repressioni e le rimozioni –, sia in condizioni normali – in cui «è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono[,] una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte.» Questa legge generale ripropone il doppio vincolo della memoria e della testimonianza cui ho già accennato. Questa “forza della natura”, da una parte, è vicina al principio di entropia, decisivo in Freud e nella teoria dell’informazionale su cui mi soffermerò; dall’altra parte, sembra

                                                            10 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 664-665.

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essere distante da un’idea di memoria come «capacità mnemo-nica dell’individuo» e, sosterrà Foucault 11 , come «forza della verità […] costantemente presente e attiva nell’anima», come tenace e coerente esercizio etico-spirituale di un soggetto che si realizza e si definisce praticando e verificando, rendendo vero e attuale quanto ricorda con parole e azioni.

La metafora impiegata da Levi è apparentemente banale o abusata. L’iscrizione degli eventi nella memoria umana in quanto ricordi, se non è come l’incisione e l’intaglio in un supporto permanente e resistente – in quel fondamentale e primo elemento della “civiltà epigrafica” umana e dei suoi “archivi di pietra”12 –, è tuttavia una segnatura molto più plastica e modificabile, è affare di segni presenti e patiti nel corpo e non di segni sostitutivi che si riferiscono a corpi assenti o li presentificano.

Se Jean Bollack ha potuto affermare che «la memoria è nelle pietre» proprio perché senza oggetti e contenuto, perché osses-sionata dagli insepolti e separata sia da un sentimento atavico della lunghissima durata della natura13, sia dalle tecniche simbo-liche allestite dagli uomini a sanare e significare il risentimento bruciante per la caducità e la violenza della propria storia, in Levi, invece, la memoria è affare d’incorporazione e tecnica14.

Biotecniche e fantabiologiche Nella pagina da I sommersi e i salvati che ho citato in apertura,

l’analogia epigrafica e mediale s’innesta nel racconto, ne innesca un’altra, alimentare e fisiologica. Da una parte, scrive Levi, «i

                                                            11 M. Foucault, Soggettività e verità, in Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, ed. it. a cura di L. Cremonesi, D. Lorenzini, O. Irrera e M. Tazzioli, postfaz. di A. Davidson, Cronopio, Napoli 2012, pp. 53-55. 12 Secondo le eloquenti espressioni di Louis Robert riprese da Jacques Le Goff. 13 J. Bollack, Mémoire/oubli, in B. Cassin (sous la direction de). Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Editions du Seuil - Le Robert, Paris 2004, p. 773. 14 Radicalizzo qui le tesi di Ch. Ross, Primo Levi’s Narratives of Embodiment. Containing the Human, Routledge, London 2011, pp. 41-62; cfr. L. N. Insana, Arduous Tasks: Primo Levi, Translation and the Transmission of Holocaust Testimony, University of Toronto Press, Toronto 2009, pp. 226-234.

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ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra»; dall’altra, «voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila rapidamente anche un cibo indi-gesto». Il paragone con un supporto esterno e un dispositivo tecnico è raddoppiato da un automatismo insieme digestivo e acustico, che illustra un meccanismo basilare di un organismo ridotto ai bisogni essenziali. Insieme tecnicizzato e animalizzato, il corpo proprio è un dispositivo indistinguibile, nel suo funzio-namento strumentale minimo e necessario, da un apparecchio sostitutivo tecnico, in grado di integrare e corroborare le carenze o i danni di una memoria psicologica individuale.

Di tale inquietante intreccio tra tecniche disciplinari del corpo e tecnologie artificiali del sentire, il cui risultato è una disu-manizzazione, ovvero un drastico ridimensionamento e un deterministico depauperamento della qualità e delle prestazioni della sensibilità, della memoria e dell’immaginazione, troviamo un esempio inaspettato in Trattamento di quiescenza15, racconto finale delle “fantabiologiche” (come le definirà Calvino) Storie naturali, pubblicate con lo pseudonimo di Damiano Malabaila nel 1966. In pieno boom economico, nel mezzo di un epocale cambiamento di costumi e aspettative, Levi racconta di un fantascientifico apparecchio di registrazione totale, detto Total Recorder o Torec, una protesi tecnica a disposizione di tutti e ormai facilmente innestabile su di sé da chiunque. Un tale apparecchio è o dovrebbe essere il non plus ultra delle possibilità di felicità offerte naturalmente dalla tecnologia democratizzata e a portata di mano, giacché è o dovrebbe essere in grado di arricchire la memoria vivente dell’uomo della società di massa, ma, finalmente, finisce per prendere il suo posto e sostituirla in tutto e per tutto con ricordi artificiali, con una vita altrui.

Di tale umanità tecnologizzata nel futuro prossimo, Levi coglie, nel recente passato dei Lager, l’altra faccia, quella rimossa e bestiale, quella dell’umanità de-umanizzata dei regimi totalitari.

                                                            15 P. Levi, Trattamento di quiescenza (1966), in Id., Opere, cit., t. III, intr. di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino 1990, pp. 161-185.

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Le tecnologie della sensibilità 16 dell’una corrispondono alle tecniche disciplinari dell’altra, l’apparente potenziamento, l’“au-mento” come si direbbe oggi, dell’una è, di fatto, complementare all’impoverimento e alla riduzione dell’esistenza all’apparato fisiologico dell’altra. L’umano, nell’una e nell’altra, è, in fondo, semplificato e costretto, adattato e ridotto a uno stato di morte in vita, a una quiescenza prima del decesso biologico.

Testimoni La biotecnica disciplinare realizzata nei campi e narrata da

Levi con la scrittura autobiografica e riflessiva de I sommersi e i salvati, è dunque affare d’incorporazione, per così dire di un’internalizzazione reificata nel corpo proprio ridotto a semplice organismo, espropriato della propria sensibilità e del proprio vissuto. Per questo, è complementare a quella delega tecnica raccontata dalla scrittura di finzione, “apocalittica” e morale, delle Storie naturali: è opposta all’esternalizzazione, da parte di un individuo, delle competenze sensibili e delle potenzialità psichiche, della memoria e dell’immaginazione, a favore di un artefatto inorganico esterno, ma finalmente invasivo e sostitutivo della sua interiorità e della sua stessa esistenza.

Nel primo caso, l’individuo è prigioniero dell’ambiente circo-stante appositamente costruito e regolato, è determinato dal dispositivo spaziale di reclusione e riduzione degli esseri umani alla nuda vita, ne subisce i protocolli e i meccanismi fino alla de-individualizzazione e all’assorbimento mimetico con la massa omogenea e continua di corpi normati e numerati, anonimi e passivi fino alla morte. Nel secondo caso, l’intreccio tra naturale e artificiale e l’innesto della tecnica con la corporeità configurano, predispongono e organizzano un ambiente specifico e associato ormai all’individuo e facilmente accessibile tramite un fanta-scientifico dispositivo esterno. Nel futuro distopico favoleggiato da Levi, tale ambiente ibrido, insieme sensibile e mentale,

                                                            16 Mutuo l’espressione da P. Montani, Tecnologie della sensibilità, Cortina, Milano 2014.

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percettivo e immaginario, è comunque disponibile all’uso – e all’abuso della dipendenza –, e dunque è o può essere oggetto di una scelta, di un’azione volontaria e perfino di un’interazione creativa.

Per meglio intendere la relazione tra tecniche disciplinari del corpo deportato e passività e, di qui, per cogliere nell’analogia con i dispositivi di registrazione sonora e visiva avanzata da Levi una chiave di accesso alla questione della “testimonianza inte-grale”, può forse venirci in soccorso un altro riferimento, quasi un contro-esempio. Come quello dei Gerz, anche questo è tratto dalle vicende dell’arte e degli artisti; questa volta, siamo a Parigi, nella primavera del 1958, poco prima della seconda edizione di Se questo è un uomo, uscita dopo non poche traversie, rivista e ampliata di un capitolo, per Einaudi.

Il quadro, non è che il testimone, la lastra sensibile che ha visto quello che è successo. Il colore chimico che tutti i pittori usano è il miglior medium capace di essere impressionato dall’“evento”. […] I miei dipinti rappresentano degli eventi poetici, o piuttosto, sono i testimoni immobili, silenziosi e statici dell’essenza stessa del movimento e della vita in libertà… Così annota Yves Klein 17 in margine ai suoi già celebri

Monocromi, esposti a Parigi, da Collette Allendy e Iris Clert, e a Milano, alla Galleria Apollinaire, tra la fine del 1956 e l’inizio del ‘57. L’impressionabilità della pellicola fotografica è dunque il prototipo della pittura e l’atto fotografico è il modello dell’atto pittorico: l’ininterrotta registrazione, meccanica e obiettiva, del reale così com’è, solo delimitato e ordinato dall’inquadratura del dispositivo tecnico, o dalla superfice della tela o di uno spazio appositamente “specializzato” dall’artista. Poco interessa sapere se Klein conoscesse il saggio di André Bazin sull’ontologia dell’immagine fotografica, pubblicato nel 1945 e seminale per le

                                                            17 Y. Klein, Le dépassament de la problématique de l’art et autres écrits, édition établie par M.-A. Sichère et D. Semin, École nationale supérieure des beaux-Arts, Paris 2003, p. 230; cfr. N. Everaert-Desmedt, Interpréter l'art contemporain. La sémiotique peircienne appliquée, De Boeck et Larcier, Bruxelles 2006, pp. 116-120.

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successive tesi essenzialiste, sorte a partire da Pierce e in concomitanza all’affermarsi dell’auto-referenzialità anti-narra-tiva e non-mimetica del Minimalismo, di cui i Monocromi furono invece indubitabili anticipatori. Certo è che la sua poetica è una poetica dell’impronta e della «traccia dell’immediato», come afferma a partire da Delacroix e non senza affinità con i Lettristi e i Situazionisti. Klein riconduce tutte le sue opere a un principio di “marcatura” di diversi eventi o situazioni; in questa prospettiva procedurale, i Monocromi, le Empreintes, le Anthropométries e le Naturemétries, sono tutti dispositivi che subiscono, registrano e fissano l’immateriale, lo spazio e l’atmosfera, la carne e la natura – e che sono da essi materialmente modificati, toccati, scritti18.

Ma non solo le opere sono supporti d’iscrizione e ritenzione invece di essere superfici di espressione e composizione: anche gli spettatori sono medium sensibili d’impressione e impregnazione. Proprio come un nastro magnetico o una pellicola fotografica, sono letteralmente esposti a e modificati da tutto quanto li circonda, dal reale continuo e indifferenziato – anche quando, come nell’Exposition du Vide, del 1958, non c’è nulla da vedere o toccare, né oggetti degni di attenzione, né aspetti o dettagli salienti. Sono insomma testimoni per così dire a tutto tondo, con l’intero corpo e tutti i sensi, senza intermediari e senza interruzioni.

Questo è il punto più significativo e problematico, che mi sembra si debba cogliere e rilanciare a partire da quanto afferma Klein e a prescindere della sua poetica. L’obbiettività, la traspa-renza e il realismo del medium fotografico – la sua aderenza causale, fisica, totale e perfetta, con il referente – possono essere declinati senza troppe forzature nei termini di un’inedita nozione di testimonianza, non intenzionale, né mediata né egocentrica, e per questo in tutto e per tutto veritiera, completa, definitiva. Ed ecco allora che sorge la domanda: tale testimonianza assoluta, meccanica e indifferente, è forse la “testimonianza integrale” di cui scrive Levi? Può aiutarci se non a comprenderla o imma-ginarla, almeno a descriverla?

                                                            18 Ivi, pp. 282-286.

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Com’è noto, Giorgio Agamben 19 fa dell’impossibilità della “testimonianza integrale” di der Muselmann, di chi faceva parte della “zona grigia” o di un Sonderkommando e non è sopravvissuto alla Shoa e non ha raccontato, la condizione della presa di parola testimoniale “vera”. Una tale negazione assoluta del linguaggio presso i “sommersi”, sarebbe realizzata dalle parole dei “salvati” e, proprio perché insieme impossibile e necessaria, le renderebbe possibili.

Da parte mia, a una tale idealità quasi trascendentale, preferirei la tecnica come soglia d’intelligibilità della testimo-nianza – “integrale” e “vera” –, e precisamente i dispositivi di registrazione sonora e visiva effettivamente disponibili e intro-dotti per analogia da Levi nel racconto dell’esperienza del Lager e da Klein nelle sue dichiarazioni di poetica.

Certo, la gioia spaziosa auspicata dall’artista di Nizza come forma estatica di emancipazione dell’uomo è agli antipodi della vita offesa imposta nello spazio di segregazione e riduzione dell’umano, riportata da Levi e altri sopravvissuti. A scanso di equivoci, va dunque denunciato l’abisso che separa i luoghi del mondo dell’arte dallo spazio del mondo concentrazionario: la specificità, istituzionale o simbolica, performativa o linguistica, dei primi, è incomparabile con l’eccezionalità governamentale e disciplinare, esistenziale e comunicativa dei secondi. Tuttavia, una polarizzazione siffatta, a prima vista eccentrica e perfino inaccettabile sotto il profilo storico e morale, può produrre un beneficio ermeneutico.

Mi sembra infatti che «l’essere nella sua integrità e compat-tezza, pura sostanzialità senza soggetto», di cui parla Agamben20, abbia le medesime qualità – omogeneità senza soluzione di

                                                            19 G. Agamben, Ciò che resta di Auschwitz, L'archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 31 sgg., 152 sgg.; P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 716 sgg.; non entro nel dibattitto ma cfr. almeno Ph. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben à l’épreuve d’Auschwitz, Kimé, Paris 2001; W. McClellan, Primo Levi, Giorgio Agamben, and the New Ethics of Reading, in S. G. Pugliese (ed.), The Legacy of Primo Levi, Palgrave, New York 2005, pp. 147-152; M. Marino, Corpo e testimonianza in Levi e Agamben, DEP, nn. 18-19, 2012, pp. 46-56; l. Zdravko, Drowning Ulysses: Saving Levi from Agamben's Remnant, in Shofar, vol. 33, n. 2, 2015, pp. 53-86. 20 Ivi, pp. 137-138.

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continuità o segmentazione, uniformità senza differenziazione o interruzione – di quanto registrato dal dispositivo tecnico fono-grafico o fotografico e che, insomma, possa essere descritto nei termini del realismo ontologico e della destituzione della sog-gettività che caratterizza tali medium.

Si rilegga Levi21: Nella memoria di tutti noi superstiti […] i primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Rumore bianco “Rumore bianco” è una nozione sincretica, coniata

sintetizzando dominio acustico e visivo: sarebbe una radiazione elettromagnetica di uno spettro tale che, all’interno delle banda della luce visibile e come quella delle onde udibili, apparirebbe all’occhio umano bianca, cioè continua e compatta, incolore e neutra. Nella pratica però tale “bianchezza” non esiste, poiché nessun sistema è in grado di generare uno spettro uniforme per tutte le frequenze e ciò che è percepito come un fruscio indistinto, tipico della televisione o della radio accesi in assenza di trasmis-sioni, è comunque striato e segnato da ripetizioni, intervalli e fluttuazioni.

“White noise” è una fortunatissima espressione della teoria dell’informazione di Claude Shannon e Warren Weaver22, resa nota tra il 1948 e il 1949, quando i due ingegneri e matematici pubblicano i risultati delle loro ricerche, nate al MIT e poi condotte per i servizi militari, e propongono un modello

                                                            21 P. Levi, I sommersi e i salvati, loc. cit.. 22 C. Shannon e W. Weaver, La teoria matematica delle comunicazioni (1949), trad. it. di P. Cappelli, ETAS, Milano 1971; J. S. Wicken, Entropy and Information: Suggestions for Common Language, in Philosophy of Science, vol. 54, n. 2, 1987, pp. 176–193.

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descrittivo che aprirà la strada della cibernetica. Anzi, per loro la teoria dell’informazione era generalizzabile e applicabile a ogni situazione o sistema definito nei suoi elementi e in cui avesse luogo una comunicazione.

A tali caratteristiche corrisponde anche il Lager, descritto, all’inizio del capitolo I sommersi e i salvati di Se questo è un uomo23, come «una gigantesca esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sot-toposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita».

All’interno di questo campo recintato e chiuso di osserva-zione, una delle condizioni determinanti questa inedita e coatta forma di vita è appunto la comunicazione, o piuttosto la sua opacità, uniforme, omogenea e infrangibile. Levi 24 distingue diverse nature e gradazioni dell’incomunicabilità. Quella «frivola e irritante» a proposito dell’Olocausto, non è che è un «discorso […] fittizio, puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio esistenziale», buono solo per dismettere presuntuosamente ogni esercizio critico e rinunciare pretestuosamente all’istanza seman-tica all’opera in ogni atto linguistico ed espressivo, inclusi il silen-zio e l’assenza di parole o gesti. Nel campo, l’incomunicabilità è radicale, è una «mancanza di comunicazione» assolutamente peculiare – il turista e l’emigrante sono ben diversi dal deportato e dal reduce, particolarmente di lingua italiana. Se la premessa è che «la comunicazione genera l’informazione, e che senza informazione non si vive», la conclusione può sembrare sorprendente: «a prima vista, [nei campi si muore] per fame, freddo, fatica, malattia; ad un esame più attento, per insufficienza d’informazione».

                                                            23 P. Levi. Se questo è un uomo, cit. p. 88. 24 Id., I sommersi e i salvati, cit., pp. 720 sgg., anche le citazioni successive.

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La Lagersprache, minuziosamente repertoriata da Viktor Klemperer 25 , “filologo della catastrofe” (come lo definisce Roberto Gilodi) allievo di Vossler e collega di Auerbach e di Curtius, è difatti una «lingua a sé stante», anzi è una «non-lingua», un multilinguismo babelico di comandi, corrotti da idiotismi e idiosincrasie idiomatiche, quasi creolizzati tra tedesco, polacco e ungherese, e ridotti finalmente a messaggi senza informazione, trasmessi con urla e pugni, «come con le vacche e i muli». Caduto in disuso «l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo», la forma di vita linguistica del campo è un gergo reiterato in formule sovra-individuali semplificate fino all’osso, in cui imperativi o infiniti stanno per ordini, numeri per nomi e bestemmie, imprecazioni, reiterate espressioni quotidiane, per interazioni. Le parole e le frasi, o quel che ne resta, sono messaggi incomprensibili e a stento sottratti al rumore di fondo, sono «frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l’insensato», come nota Levi. Nel sistema chiuso della comunicazione nel campo, come in quello descritto da Shannon e Weaver, la decodifica di un segnale molto debole e la sua ricezione in quanto messaggio, può avvenire anche grazie a una necessità vitale d’interpretazione di «poco più del niente, meglio del niente».

Già per Shannon e Weawer, il “rumore” oscilla tra due poli. Da una parte, disturba continuativamente il segnale, peggiora l’informazione e opacizza il contenuto del messaggio; dall’altra, permette ai segnali deboli di superare le soglie preposte all’eliminazione di ciò che interferisce con i segnali forti o principali, e di giungere, appunto mescolati con l’interferenza e per questo come potenziati, a una qualche ricezione. Nel caso della cosiddetta risonanza stocastica, maggiore è l’entropia e il disordine del sistema, maggiore l’equivocità della fonte del segnale e l’incertezza della prevedibilità del messaggio, maggiori sono anche la massa e le alternative tra informazioni possibili, maggiore la loro eventualità di giungere con successo a destina-                                                            25 V. Klemperer, LTI: la lingua del Terzo Reich, taccuino di un filologo (1947), trad. it. di P. Buscaglione, pref. di M. Ranchetti, La Giuntina, Firenze 1998; cfr. A. Chiapponi, La lingua nei Lager nazisti, Carocci, Roma 2004.

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zione. Là dove si è vittime dell’automatismo comunicativo della tecnica disciplinare e si è sommersi dal rumore bianco, può sal-varsi un messaggio ancora da interpretare e una memoria ancora da rimettere, faticosamente, all’opera.

Ed è una memoria, come mostra l’analogia impiegata da Levi da cui sono partito e su cui concludo, delle immagini e delle parole. Anche, anzi: specialmente di quelle che si vorrebbero nude e mute, nient’altro che traccia diretta della storia e testimonianza integrale di una realtà rispetto alla quale troppo facilmente si ammette – con la medesima logica negativa del sublime – che non tolleri altra forma di rappresentazione, sia essa verbale o visiva.

Anche in un sistema chiuso com’è il Lager, un “rumore bianco” puro non esiste in quanto tale ed è, sia per la teoria dell’informazione, sia per la rammemorazione e la narrazione testimoniale, un modello descrittivo e, come tale, falsificabile e ambivalente. Allo stesso modo, anche una “scrittura bianca”26, senza alcuna proprietà espressiva e inerente a uno stile, senza colores rhetorici, puramente atonale, denotativa, neutra e inespres-siva, è utopica e ideale, è, finalmente, un mito. Lo prova ogni parola di Levi e lo ha più volte argomentato Jacques Rancière27: non c’è una scrittura specifica e unica, l’unica adatta per l’esperienza concentrazionaria, ma c’è sempre solo il «linguaggio comune» della letteratura.

Il «non esser parlati a», che per Levi contraddistingue la mancanza di comunicazione del sistema concentrazionario, non esclude, anzi esige ed impone un “essere parlati da”. Qualcosa richiede ancora sensibilità e attenzione, qualcosa ritorna ancora all’ascolto, dentro e fuori il Lager, per così dire fuori e dentro l’orecchio di chi scrive e testimonia, fenomeno acustico fattuale o risonanza psichica ossessiva, voci straniere o vocio interiore,                                                             26 Tra gli esempi evocati da Barthes in Le degré zéro de l’écriture, del 1953, compaiono Camus, Blanchot e Jean Cayrol, deportato a Mauthausen-Gusen e autore di Lazare parmi nous e del testo letto da una voce off, anaffettiva, distaccata, senza timbri, toni, inflessioni e colori, in Nuit et Brouillard di Alain Resnais, del 1956. Cfr. B. Vouillloux, L’œuvre en souffrance, Bélin, Paris 2004, pp. 185-192. 27 Per esempio in Le destin des images e L’image intolérable, rispettivamente in J. Rancière, Le destin des images? Éd. La Fabrique, Paris 2003, pp. 7-41, e Le spectateur émancipé, Éd. La Fabrique, Paris 2008, pp. 93-114.

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ritornello e ritorno in eco di parole altrui – in Levi, Virgilio, Dante e Rabelais, tra gli altri. Tali permanenze e ripetizioni possono però essere intese non come cifre di una poetica o di una metaforica esplicitamente o implicitamente mobilitate nella scrittura letteraria e saggistica di Levi, ma come sintomi di una “fortuna” e di una casualità benevola, di una tyche della ram-memorazione a-posteriori, come segni di una figuralità – di una coloritura della lingua, anzi delle lingue, dell’Altro28 – che mostra l’impossibilità di una “scrittura bianca”, autobiografica e testi-moniale, continua, compatta e in presa diretta.

Come DeLillo29 farà dire a due personaggi in White noise, il romanzo che forse più di tutti tematizza il rapporto tra entropia e informazione, uscito un anno prima de I sommersi e i salvati, nel 1985, «la morte non è nulla ma suono», rumore appunto, che «si sente per sempre e ovunque», «uniforme, bianco», indecidibil-mente e indiscernibilmente fuori e dentro colui che parla, al suo posto, nell’impossibilità di un dialogo a due voci: «A volte mi invade, dice Babette Gladney, a volte mi si insinua nella mente, a poco a poco. Io cerco di parlarle. «“Non adesso, morte”».

                                                            28 Sfioro la questione, difficile, del multilinguismo in Levi, e rimando almeno alle letture di Cases e Mengaldo, e a D. Gramling, An Other Unspeakability: Levi and Lagerszprach, in New German Critique, vol. 39, n. 3, 2012, pp. 165-187. 29 Don DeLillo, Rumore bianco (1985), trad. it. di M. Biondi, Einaudi, Torino 2010, p. 238. Cfr. J. M. Conte, Noise and Signal: Information Theory in Don Delillo White Noise, in Id., Design and Debris. A Chaotics of postmodern Fictions, University of Alabama Press, Tuscaloosa 2002, pp. 112-139.

 

 

Profili bio-bibliografici Roberto Barbanti è professore presso il dipartimento di Arti visive dell’Università Parigi 8 (Saint Denis, France) dove insegna “Nuove modalità delle arti contemporanee” (Nouvelles modalités des arts contemporains). È direttore dell’Équipe di ricerca Teoria Sperimentazione Arti Media e Design (TEAMeD / Théorie Expérimentation Arts Médias et Design) dell’Università Parigi 8, e responsabile del Master Médias Design Art Contemporain (laurea specialistica: Media Design Arte Contemporanea). È stato cofondatore e presidente del centro PHAROS (San Leo: 2000-2005) Centro di Studi e di Ricerche sulla Filosofia, l’Arte e la Scienza. Nel 2006 ha fondato con il compositore Pierre Mariétan la rivista Sonorités (Champ Social éditions, Nîmes). Le sue ricerche riguardano la questione della complessità e dell’ecosofia nell’arte contemporanea e attuale, l’ecologia sonora e la dimensione sonora del paesaggio. Ha pubblicato e diretto una trentina di opere fra le quali, in codirezione e in italiano: Le dinamiche della bellezza. Pensieri e percorsi estetici, scientifici e filosofici (Raffaelli Editore, 2005); Paesaggi della complessità. La trama delle cose e gli intrecci tra natura e cultura (Mimesis Edizioni, 2011). Gianfranco Baruchello Gianfranco Baruchello nasce a Livorno nel 1924 e vive e lavora tra Roma e Parigi. Oltre al film e al video – di cui è precoce sperimentatore sin dal 1960 – la sua ricerca si esprime attraverso il disegno, la pittura, l’activity (Artiflex, 1968; Agricola Cornelia s.p.a., 1973-1981), la scrittura e l’installazione, allontanandosi progressivamente dai linguaggi tradizionali. Dopo la prima personale del 1963 presso la Galleria La Tartaruga di Roma, il suo lavoro è stato oggetto di numerose esposizioni in prestigiose sedi internazionali, tra cui la galleria du Cercle (1962) di Parigi, le gallerie Sidney Janis (1962) e Cordier & Ekstrom (1964, 1966), i musei MoMA (1965 e 1970) e Guggenheim di New York (1966, 1969 e 1970), il Palais des Beaux-Arts di Bruxelles (1967, 1974, 2013), il Musée d’Art Moderne (1968, 1970, 1975 e 1976) e il Centre Pompidou (1989, 2000, 2001, 2006, 2009, 2010 e 2011), entrambi di Parigi, Il MADRE di Napoli, la Serpentine Gallery di Londra (2011). Baruchello ha partecipato a documenta a Kassel (1977, 2012) e a numerose edizioni dell’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (1972, 1976, 1980, 1986, 1988, 1990,

 

1993, 2011, 2013). Nel 1998 nasce la Fondazione Baruchello, mentre è del 2011 la mostra antologica presso la Galleria Nazionale d’Arte. Nel 2014 si inaugurano due mostre retrospettive rispettivamente presso la Deichtorhallen- Sammlung Falckenberg di Amburgo e presso lo ZKM (Karlsruhe). Nel dicembre 2014 si inaugura la mostra Cold Cinema presso la Triennale di Milano. Maurizio Bolognini lavora all’intersezione tra arte e tecnologie, indagandone dimensioni diverse: la delega dell’azione artistica al tempo infinito della macchina, la generazione di infinità fuori controllo (immagini sconfinate, voci inesauribili, come nella serie Macchine programmate, dal 1988), l’introduzione di forme avanzate di interattività (come nelle serie Collective Intelligence Machines, 2000, e Interactive Collective Blue, 2006), il networking e l’e-democracy, i flussi spazio-temporali della comunicazione tecnologica e le interferenze tra spazio geografico e spazio elettronico. Prima di dedicarsi alla ricerca artistica, si è laureato in Urbanistica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e in Scienze sociali (MSocSc) alla Birmingham University. Dagli anni ‘90 le sue opere sono state esposte in numerose occasioni, in Europa e negli Stati Uniti. Tra i libri e cataloghi: S. Solimano (a cura di), Maurizio Bolognini: Macchine Programmate 1990-2005 (Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova 2005); Aa.Vv., Maurizio Bolognini. Infinito personale (Nuovi Strumenti, 2007); D. Scudero (a cura di), Maurizio Bolognini. Installazioni, disegni, azioni (Lithos, Roma 2003). È autore di diverse pubblicazioni tra cui i libri Democrazia elettronica (Carocci, Roma 2001), Postdigitale (Carocci, Roma 2008) e Machines (Postmedia Books, Milano 2012). Vincenzo Cuomo (Torre Annunziata 1955) è docente di filosofia nei Licei Statali e si occupa da molti anni di estetica dei media e di filosofia della tecnica, anche in collaborazione con alcune Università italiane (Salerno, Napoli) e straniere (Nizza) o Accademie di Belle Arti (NABA di Milano, Accademia di Belle arti di Napoli). È socio della Società Italiana di Estetica (SIE) ed è attualmente direttore della rivista Kaiak. A Philosophical Journey (www.kaiak-pj.it). Tra le sue monografie: Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné (Edisud, Salerno 1998); Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica (Liguori, Napoli 2004); Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire (Aracne, Roma 2007); Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene (Mimesis, Milano 2009); C’è dell’io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica (Aracne, Roma 2012);

Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche (kaiak edizioni, Tricase 2014).

Matteo D’Ambrosio è stato professore associato di Storia della critica letteraria all’Università di Napoli Federico II. Negli anni della formazione è stato borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici B. Croce di Napoli e del Centro Internazionale di Linguistica e Semiotica dell’Università di Urbino; ha studiato alla Harvard University, alla Yale University, al Getty Research Institute. Visiting Professor di Semiotica della letteratura alla P. U. C. di San Paolo. Autore di numerose pubblicazioni dedicate alle diverse tendenze della ricerca letteraria e artistica d’avanguardia, dal Futurismo alla Letteratura elettronica, dopo una ricerca sui rapporti tra il movimento futurista e la cultura napoletana (sei volumi, 1990-96) ha pubblicato Futurismo e altre avanguardie e Le “commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti. Futurismo e critica letteraria (entrambi 1999); Roman Jakobson e il Futurismo italiano (2009). Ha curato tre volumi di teoria e critica letteraria dal titolo Il testo, l’analisi, l’interpretazione (1995; 2002; 2009). Di prossima pubblicazione l’antologia di oltre 900 manifesti nella collana dei “Nuovi Archivi del Futurismo”.

Diana Danelli, laureata in Filosofia (Estetica), si occupa di arti elettroniche sia a livello teorico che sperimentale dai primi anni ‘90. Dal ‘95 ha svolto attività di ricerca appoggiandosi al DSI di Milano e al Polo Didattico e di Ricerca di Crema diretto dal Prof. Gianni Degli Antoni, sviluppando in seguito anche il concetto di robotica immateriale. Ha curato come web designer, Aesthetic Pages, rivista digitale diretta da Francesco Piselli, prima on-line in Italia (1996), sempre in ambito DSI. Tra gli altri contributi: Arte, Elettronica, Genetica in Aa.Vv, Le provocazioni dell’estetica (Trauben, Torino, 1999); Per una scultura digitale a bassa densità in Aa.Vv, Nel Foco che li affina. Quattro studi per Francesco Piselli (Prometheus, 2000); Tensione verso il possibile in Aa.Vv, L’uomo e la macchina: trent’anni dopo (Laterza, Bari, 2000). Ha insegnato installazioni multimediali e video digitale presso l’Accademia Santa Giulia di Brescia. Ha curato rassegne video e prodotto progetti multimediali. Paolo D’Angelo (Firenze 1956, www.profpaolodangelo.com) è professore ordinario di Estetica presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre, del quale è attualmente Direttore. È stato vicepresidente della Società Italiana di Estetica dalla sua fondazione nel 2001 fino al 2014 ed è membro del

 

comitato scientifico della “Rivista di Filosofia”, di “Cultura tedesca”, di “Leitmotiv”, di “Studi di Estetica“, di “Aesthetica Pre-Print”, di “Paradigmi” di “Estetica” . Ha tenuto lezioni e conferenze in molte Università italiane ed europee, e presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici. Ha collaborato alla Enciclopedia XXI secolo, al Dizionario Biografico degli Italiani, e ai programmi culturali della Rai TV. Fra i suoi lavori recenti ricordiamo: Filosofia del paesaggio, Macerata, Quodlibet; Le nevrosi di Manzoni, Bologna, Il Mulino, 2013; Estetica, Roma-Bari, Laterza, 2011; Estetica e paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2009; Introduzione all’estetica analitica, Roma-Bari, Laterza, 2008; Ars est celare artem, Macerata, Quodlibet, 2005; Estetismo, Bologna, Il Mulino, 2003; Estetica della Natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari, Laterza, 2001 (20104). Derrick de Kerckhove ha diretto dal 1993 al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell’Università di Toronto e ha insegnato anche in varie università europee. Tra i suoi numerosi libri, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato (Baskerville 1993); La pelle della cultura (Costa & Nolan 1996)); Dall’alfabeto a Internet (Mimesis 2007); Psicotecnologie collettive. Meet the media guru (EGEA 2014). Roberto Diodato è Professore di Estetica presso l’Università Cattolica “Sacro Cuore” di Milano ed è membro della Società Italiana di Estetica. Tra i suoi libri: Conoscere e fare. Temi di estetica nella neoscolastica italiana, ISU Università Cattolica, Milano 1988; Sub specie aeternitatis. Luoghi dell’ontologia spinoziana, CUSL, Milano 1990; Superficialità della bellezza. Spinoza e l’estetica, Il Melograno, Milano 1990; Immagine dell’assente. Vermeer, Spinoza, Il Melograno, Milano 1994; Decostruzionismo, Bibliografica, Milano 1996; Vermeer, Gongora, Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva, Bruno Mondadori, Milano 1997; Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano 2005; L’arte come categoria estetica. Un’introduzione, EuPress, Lugano 2005. Filippo Fimiani è professore ordinario di Estetica all’Università di Salerno. Membro del Réseau Thématique Européen “La dimension du sensible dans la pensée contemporaine” (responsable Suzanne Liandrat-Guigues, Université Charles de Gaulle-Lille III), con le Università di Pau, Genève, Paris III Sorbonne Nouvelle (Centre de Recherche sur les Images et leurs Relations, CRIR), Paris VIII Saint-Denis (Groupe Esthétiques, Représentations, Savoirs, GERS), Charles de Gaulle-Lille III, Cosenza, Centre d’Etude des Arts Contemporains (CEAC) (2005-2010), è nel comitato scientifico della Chaire Esprit méditerranéen-Paul

Valéry presso l’Université de Corse Pasquale Paoli (Laboratoire Lieux, Identités, eSpaces et Activités (LISA)-CNRS). È nella redazione di La Part de l’Œil. Revue de pensée des arts plastiques (Bruxelles, Belge), nel comitato scientifico di Figures de l’art. Revue d’études esthétiques (Bordeaux, France) e WikiCreation (Paris, France), nel comitato di lettura di Fata Morgana. Quadrimestrale di Cinema e Visioni, e nella direzione di Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico. Tra le sue pubblicazioni: Fantasmi dell’arte. Sei storie con spettatore (2012); Forme informi. Studi di poetiche del visuale (2005) Poetica Mundi. Estetica e ontologia delle forme in Paul Claudel (2001); Poetiche e genealogie. Claudel, Valéry, Nietzsche (2000). Fred Forest è un tecno-artista francese conosciuto a livello internazionale. È stato co-fondatore sia del Sociological Art Collective (1974), sia del movimento dell’Estetica della comunicazione (1983). Ha preso parte alla Biennale di Venezia del 1976 e di Documenta a Kassel nel 1977 e nel 1987. Il suo lavoro artistico è stato premiato alla Biennale di San Paolo nel 1973 e al Festival delle Arti Elettroniche di Locarno nel 1995. L’archivio delle sue opere fa parte dell’INA in Francia. Nel 2007 a Filadelfia una retrospettiva delle sue opere è stata ospitata presso la Slought Foundation. Fabio Galadini si occupa della nuova estetica a partire dai nuovi media e dalle loro tecnologie. È membro del comitato di redazione della rivista di estetica ed arti elettroniche “Epiphaneia” ed insegna Estetica alla Link Academy - University of Malta ed al Dipartimento Cinema e Nuovi Media all’Accademia di Belle Arti “Lorenzo da Viterbo”. Vice Presidente dell’Università Popolare di Viterbo e membro del “Gruppo Interdisciplinare per lo studio della Cultura Tradizionale dell’Alto Lazio”. Ha partecipato come attore presso il Teatro Ateneo di Roma a diversi allestimenti fra cui: Tito Andronico (Peter Stein), Mahabharata (Peter Brook), Tamerlano (Carlo Quartucci), Trilogia pirandelliana (Giuseppe Patroni Griffi). Ha curato diverse regie per allestimenti al Politecnico di Roma fra cui: Il ventaglio di Goldoni e Misura per misura di Shakespeare, La lezione e Le sedie di Jonesco, L’ispettore generale di Gogol. È direttore artistico del CIVITAFESTIVAL e consulente musicale per RAI e SKY. Dario Giugliano, PhD, dirige la rivista Estetica. studi e ricerche” (il Mulino). Socio corrispondente della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, è docente di prima fascia, titolare della cattedra

 

di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Suoi saggi sono apparsi su diverse riviste di filosofia e teoria dell’arte italiane e straniere, tra cui “aut aut”, “Rivista di Estetica”, “Rue Descartes”, “Third Text”, “Etica & politica”, “Teoria”, “Giornale di Metafisica”. Ha, tra l’altro, pubblicato in volume: Derrida-Saussure. Segno & differenza, Bulzoni, Roma 1994; Smarrendo la strada per casa. Studio sull’idiotismo, Bulzoni, Roma 1997; Lo sbando accademico. La situazione dell’alta formazione artistica in Italia, E.S.I., Roma-Napoli 2001; Il discorso sospeso – sul corpo dell’arte, Vallecchi, Firenze 2003. Alice Lino realiza atualmente estágio pós-doutoral pelo Programa de Pós-graduação em Educação da Universidade Federal de Mato Grosso (UFMT), na linha de pesquisa Movimentos Sociais, Política e Educação Popular, sobre “Cinema: identidade negra, política e conhecimento”. Doutora em Filosofia, na área de Estética, pelo Programa de Pós-Graduação em Filosofia da Universidade de São Paulo (USP), com tese intitulada: “Kant e a crítica de arte” (2015). É Mestre em Estética e Filosofia da Arte pela Universidade Federal de Ouro Preto (UFOP), com dissertação intitulada: “Belo e Sublime: a mulher e o homem na filosofia de Immanuel Kant” (2008). Bacharel e Licenciada em Filosofia (2006) pela Universidade Federal de Ouro Preto. Áreas de interesse: Estética, Filosofia da Arte, Ética, Gênero, Relações Étnico-raciais e Kant. Principais publicações: O sublime tecnológico, in Verlaine Freitas, Rachel Costa, Debora Pazetto Ferreira (Org.); O trágico, o sublime e a melancolia, 1ed, Belo Horizonte, ABRE - Associação Brasileira de Estética, 2016, v. 3; Kant e De Duve: crítica à recepção dos ready-mades de Duchampi, in Artefilosofia (UFOP), v. I, 2016; A pintura ‘sublime’ de Barnett Newman, viso Cadernos de Estética Aplicada, v. 18, 2016; Kant e o modernismo, in Rapsódia (USP), v. 8, 2015. Aldo Marroni insegna Estetica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. È co-editor di “Cultura. International Journal of Philosophy of Culture and Axiology” ed è membro del comitato di redazione di “Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica”. Ha ultimamente pubblicato L’enigma dell’impuro. La sfida dell’estetico nella società, nella sessualità e nell’arte (Carocci, 2007), L’arte dei simulacri. Il dèmone estetico di Pierre Klossowski (Costa & Nolan, 2009); Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa “grande stile” (Quodlibet, 2012); La decivilizzazione estetica della società. Sul sentire neo-cinico (Bruno Mondadori, 2014); Sotto il segno del dionisiaco. Laure tra erotismo, sacro ed esperienza politica (ombre corte, 2016). Ha inoltre curato

il volume, Laure. La sovrana dell’erotismo (Mimesis, 2015). È socio della SIE – Società Italiana d’Estetica. Carla Subrizi insegna Storia dell’arte contemporanea presso La Sapienza Università di Roma. È Presidente della Fondazione Baruchello. Tra le sue pubblicazioni più recenti, oltre a numerosi saggi, Verifica incerta. Art meets Cinema, (Zurigo, 2015), Baruchello. Certain Ideas, (Milano, 2014), Azioni che cambiamo il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo (Milano, 2012), Introduzione a Duchamp (Roma-Bari, 2008). Tra le recenti mostre da lei curate: Verifica Incerta - Documents & Souvenirs, (8 rue Saint-Bon, Parigi, 23 ottobre-22 novembre 2014), Duchamp Re-Made in Italy (Galleria nazionale d’arte moderna, Roma, 8 ottobre 2013-9 febbraio 2014), Baruchello. Certe idee (Galleria nazionale d’arte moderna, Roma, 21 dicembre 2011-4 marzo 2012), Camuflajes (La Casa Encendida, Madrid, 17 settembre- 1 novembre 2009).