Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txt Arthur Schopenhauer. Il mondo come volontà e rappresentazione. Appendice: Critica della filosofia kantiana, a cura di Giuseppe Riconda. Traduzione dal tedesco di Nicola Palanga. Copyright 1969 Gruppo Ugo Mursia Editore S.P.A. Prima edizione in questa collana: 1991. Nel 1818, a Dresda, Schopenhauer portava a termine questa che rimane la sua opera principale, e che doveva uscire alla fine dello stesso anno, ma con la data del 1819. Trovavano così sistemazione definitiva le lunghe meditazioni giovanili, e confluivano in un'originalissima sintesi creativa destinata ad aprire nuovi orizzonti alla speculazione filosofica, i risultati di uno sforzo diretto a rivivere una tradizione filosofica e religiosa che per la prima volta non era solo quella occidentale. Passato quasi inosservato alla data della sua apparizione, questo libro fu apprezzato in tutto il suo significato e il suo valore solo oltre la prima metà del secolo, quando Schopenhauer, al termine della vita, raggiunse quella fama tardiva che fu il suo singolare destino. Ad esso conviene ancora oggi rifarsi come all'opera che ci permette di cogliere nel loro insieme tutti i temi della filosofia di Schopenhauer, e che ci mette di fronte al nucleo unitario del suo pensiero: lo Schopenhauer della maturità svolgerà questo pensiero nei suoi possibili sviluppi, e ne accentuerà magari certi aspetti, ma lo manterrà sostanzialmente invariato. L'influsso esercitato dal suo pensiero è stato grandissimo, e tale da toccare quasi tutti i temi della cultura: quest'opera rimane uno strumento indispensabile per la comprensione della nostra situazione spirituale, e possiede nella ricchezza delle sue suggestioni un'attualità non ancora esaurita. Arthur Schopenhauer (1788-1860) nacque a Danzica. Libero docente a Berlino dal 1820 al 1831, si ritirò poi dalla vita universitaria e visse dal 1833 a Francoforte. Avverso all'idealismo di Fichte e di Hegel, egli dà una nuova interpretazione della filosofia kantiana, contrapponendo al mondo fenomenico la vera realtà, identificata in una volontà di vivere che è alla radice anche dell'essere umano. Nelle forme particolari di esistenza, essa reca nella vita il dolore, eliminabile radicalmente solo con la negazione della volontà di vivere, e temporaneamente nell'arte. Tra le sue opere: La libertà del volere (1839), Il fondamento della morale (1840), Parerga e Paralipomena (1851). Presentazione Nel 1818, centocinquanta anni fa, a Dresda Schopenhauer portava a termine la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, che doveva uscire per i tipi dell'editore Brockhaus alla fine dello stesso anno, ma con la data del 1819. In essa finiva col trovare la sua sistemazione definitiva una lunga meditazione, di cui costituiscono un interessante documento i primi manoscritti schopenhaueriani, che, dopo essere stati fatti conoscere parzialmente al pubblico dal Gwinner, dal Frauenstädt e dal Grisebach, hanno avuto la loro edizione storicocritica definitiva - che ne consente una facile ed ordinata lettura - ad opera dello Hochstetter nell'edizione Deussen e più recentemente nell'edizione dello Hübscher. Se già nel periodo che va dal 1808 al 1814 è possibile vedere profilarsi la fondamentale comprensione schopenhaueriana della vita e i motivi che in essa trovano espressione (la concezione dell'esistenza come colpa e dolore e l'aspirazione ad una Erlösung da ricercarsi nell'arte, nel puro amore e nell'ascesi), è a partire dal 1814 che comincia a farsi chiaro il grande principio metafisico sulla cui base Schopenhauer tenterà una ricostruzione unitaria del reale: Pagina 1

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtArthur Schopenhauer.Il mondo come volontà e rappresentazione.

Appendice:Critica della filosofia kantiana,a cura di Giuseppe Riconda.

Traduzione dal tedesco di Nicola Palanga.

Copyright 1969Gruppo Ugo Mursia Editore S.P.A.Prima edizione in questa collana: 1991.

Nel 1818, a Dresda, Schopenhauer portava a termine questa cherimane la sua opera principale, e che doveva uscire alla fine dellostesso anno, ma con la data del 1819. Trovavano così sistemazionedefinitiva le lunghe meditazioni giovanili, e confluivano inun'originalissima sintesi creativa destinata ad aprire nuoviorizzonti alla speculazione filosofica, i risultati di uno sforzodiretto a rivivere una tradizione filosofica e religiosa che per laprima volta non era solo quella occidentale.Passato quasi inosservato alla data della sua apparizione, questolibro fu apprezzato in tutto il suo significato e il suo valore solooltre la prima metà del secolo, quando Schopenhauer, al termine dellavita, raggiunse quella fama tardiva che fu il suo singolare destino.Ad esso conviene ancora oggi rifarsi come all'opera che ci permettedi cogliere nel loro insieme tutti i temi della filosofia diSchopenhauer, e che ci mette di fronte al nucleo unitario del suopensiero: lo Schopenhauer della maturità svolgerà questo pensiero neisuoi possibili sviluppi, e ne accentuerà magari certi aspetti, ma lomanterrà sostanzialmente invariato.L'influsso esercitato dal suo pensiero è stato grandissimo, e taleda toccare quasi tutti i temi della cultura: quest'opera rimane unostrumento indispensabile per la comprensione della nostra situazionespirituale, e possiede nella ricchezza delle sue suggestioniun'attualità non ancora esaurita.

Arthur Schopenhauer (1788-1860) nacque a Danzica. Libero docente aBerlino dal 1820 al 1831, si ritirò poi dalla vita universitaria evisse dal 1833 a Francoforte. Avverso all'idealismo di Fichte e diHegel, egli dà una nuova interpretazione della filosofia kantiana,contrapponendo al mondo fenomenico la vera realtà, identificata inuna volontà di vivere che è alla radice anche dell'essere umano.Nelle forme particolari di esistenza, essa reca nella vita il dolore,eliminabile radicalmente solo con la negazione della volontà divivere, e temporaneamente nell'arte. Tra le sue opere: La libertà delvolere (1839), Il fondamento della morale (1840), Parerga eParalipomena (1851).

PresentazioneNel 1818, centocinquanta anni fa, a Dresda Schopenhauer portava atermine la sua opera principale, Il mondo come volontà erappresentazione, che doveva uscire per i tipi dell'editore Brockhausalla fine dello stesso anno, ma con la data del 1819. In essa finivacol trovare la sua sistemazione definitiva una lunga meditazione, dicui costituiscono un interessante documento i primi manoscrittischopenhaueriani, che, dopo essere stati fatti conoscere parzialmenteal pubblico dal Gwinner, dal Frauenstädt e dal Grisebach, hanno avutola loro edizione storicocritica definitiva - che ne consente unafacile ed ordinata lettura - ad opera dello Hochstetter nell'edizioneDeussen e più recentemente nell'edizione dello Hübscher.Se già nel periodo che va dal 1808 al 1814 è possibile vedereprofilarsi la fondamentale comprensione schopenhaueriana della vita ei motivi che in essa trovano espressione (la concezionedell'esistenza come colpa e dolore e l'aspirazione ad una Erlösung daricercarsi nell'arte, nel puro amore e nell'ascesi), è a partire dal1814 che comincia a farsi chiaro il grande principio metafisico sullacui base Schopenhauer tenterà una ricostruzione unitaria del reale:

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtil Wille, che nel suo stato di affermazione costituisce il mondo enel suo stato di negazione costituisce quel soprammondo in cui èpossibile trovare una liberazione dal male e dal dolore che il mondoaffliggono. La gioia che accompagna la nuova scoperta e ilsignificato che essa ha per Schopenhauer è facilmente riscontrabilenel mutamento fondamentale di tono (e non solo di tono) che in questimanoscritti si rivela dopo che essa si è consolidata. Mentre primapiù che ad una filosofia si ha l'impressione di trovarsi di fronte aduna esperienza di vita che cerca la sua espressione filosofica, nellepagine fra il 1814 e il 1818 - in cui è possibile seguire l'emergeredell'intera sua filosofia a poco a poco nei suoi precisi contorni«come un bell'oggetto nella nebbia del mattino» - Schopenhauer èfinalmente giunto in possesso di quelle intuizioni di base e diquegli strumenti concettuali che di questa esperienza glipermetteranno una trascrizione filosofica almeno ai suoi occhiadeguata. Al procedere per tentativi, quasi saggiando il terreno, airipensamenti manifestanti lo sforzo di venire in chiaro con sè e conil proprio pensiero si sostituisce a poco a poco un più sicuroarmonico e lineare procedere: non a caso molti di questi frammenti,specialmente del periodo più tardo, passeranno nelle opere a stampaquasi immodificati.Schopenhauer stesso indicò questo periodo come quello del processodi lievitazione del suo pensiero. Egli sentiva di avere qualcosa dinuovo da dire, che il mondo poteva da lui imparare qualcosa che nonavrebbe potuto dimenticare, e in un momento d'entusiasmo creativoscrisse questo bel passo nel quale il sentimento prepotente della suaoriginalità viene alla luce: «Nelle mie mani, o piuttosto nel miospirito, cresce un'opera, una filosofia, che deve essere insiemeetica e metafisica, cose che fino ad ora venivano separatealtrettanto falsamente quanto anima e corpo. L'opera cresce, anzi apoco a poco e lentamente concresce, come il bambino nel seno dellamadre: non so che cosa sia sorto prima o che cosa sia sorto dopo,come nel caso del bambino nel seno della madre. Quel mio io che quista seduto e che i miei amici conoscono non sa rendersi conto di comel'opera mia sorga, come la madre non sa rendersi conto di come sorgail bambino dal suo seno. La vedo e dico come la madre: "Benedetto sonio con il mio frutto". Caso, dominatore di questo mondo sensibile,fa' ch'io viva e abbia quiete solo ancora per pochi anni! Infatti ioamo l'opera mia come la madre il bambino suo: quando essa sarà maturae sarà nata allora esercita il tuo diritto su di me e prenditi gliinteressi della proroga...» (Berlino, 1813). Questo alto sensodell'originalità della sua filosofia non va però disgiunto inSchopenhauer dall'altro, di essere l'erede di una tradizione dipensiero che ha i suoi antesignani nell'antica sapienza vedica, inPlatone e Kant: «Confesso del resto che non credo che la mia dottrinasarebbe potuta sorgere prima che le Upanisad, Platone e Kantpotessero gettare contemporaneamente i loro raggi sullo spirito di unsol uomo. Ma certamente c'erano (come dice Diderot) molte colonne, eil sole risplendeva su tutte, pure solo la colonna di Memnonerisuonò» (Dresda, 1816).Ne Il mondo come volontà e rappresentazione confluiscono in unaoriginale sintesi creativa esperienza vissuta (e non bisognadimenticare che la filosofia per Schopenhauer non è altro cheespressione dell'esperienza vissuta nella varietà e ricchezza dellesue dimensioni), suggestioni dell'ambiente culturale in cui eglivisse (il razionalismo illuministico forse trasmessogli dal padre,l'ambiente pietistico di Amburgo, i rapporti con i romantici e conGoethe a Weimar) e infine i risultati di uno sforzo diretto arivivere una tradizione filosoficareligiosa che per la prima voltanon è solo quella occidentale (e che anche nella sua prospettivarisulta molto più ampia di quanto le tre fonti citate non faccianosospettare).Il mondo come volontà e rappresentazione consiste di quattro libriche grosso modo potrebbero essere considerati rispettivamente lateoria della conoscenza, la metafisica, l'estetica e l'etica diSchopenhauer: ma Schopenhauer avverte il lettore che caratteristicadella sua opera è l'organicità, e che la sua preoccupazione costanteè quella di comunicare un «unico pensiero», il quale diventa sempre

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiù chiaro a mano a mano che se ne considerino le parti, che a lorovolta da esso prendono luce e senza una sua preliminare comprensionenon possono essere appieno comprese.L'esposizione del sistema comincia con la celebre frase: «Il mondoè una mia rappresentazione». Tale frase non ha però il significatoovvio e da tutti accettabile di escludere il realismo ingenuo chepresume si possa uscire dalla coscienza per identificarsi con ilmondo esterno, ma ha un senso più pregnante, soggettivistico eidealistico. Schopenhauer vuole cioè con essa avanzare la tesi che ilmondo, che ci appare innanzi ed è generalmente assunto come la realtàin sè, è invece solamente un insieme di contenuti rappresentativi,condizionato, nel suo strutturarsi secondo leggi, dalla coscienza edalle sue forme a priori (spazio, tempo e causalità), mentre larealtà in sè non si lascia attraverso esse conoscere e rimane quindi,a livello puramente rappresentativo, inconoscibile. Nell'avanzarequesta tesi e nel tentativo di fondarla egli pretende di esserefedele a Kant: certamente però va oltre a Kant quando interpreta ildualismo fenomenocosa in sè come dualismo di apparenzarealtà,sostenendo che l'analisi del mondo della rappresentazione ci mette difronte ad un insieme di pure parvenze e giungendo ad affermare ilcarattere puramente illusorio e decettivo del mondo fenomenico.Comunque, posto che questo sia il risultato a cui mette capol'analisi del mondo come rappresentazione, sta di fatto che perSchopenhauer l'uomo non è destinato a soggiacere senza scampo aquesto sapere illusorio, ed ha a sua disposizione una via perpenetrare nella dimensione profonda del reale, per giungere inqualche modo a rendersi consapevole di quella cosa in sè della cuirealtà egli non dubita. Schopenhauer stesso paragona questa via aduna specie di passaggio sotterraneo che, a tradimento, ci introducenella fortezza che era impossibile espugnare dal di fuori. Di tuttele cose ce n'è una sola che ci è data in duplice maniera,dall'esterno e dall'interno, e questa siamo noi stessi in quantoesseri corporei. Considerato esteriormente il nostro corpo è unoggetto dell'intuizione empirica, rappresentazione fra lerappresentazioni; vissuto invece nell'immediatezza dell'interiorità,per così dire dal di dentro, è volontà. La volontà che affiora comeessenza del nostro essere costituisce (secondo un ardito ragionamentoanalogico, che a dire il vero Schopenhauer non si preoccupa troppo digiustificare) la dimensione interiore di tutte le cose. Immergendocicioè nella nostra interiorità ci ritroviamo parti di quell'unicavolontà che si agita cieca ed eternamente insoddisfatta in noi comein tutto l'universo. Schopenhauer insiste sia sull'unità chesull'irrazionalità della volontà di vivere, Streben eterno che mainon ha posa.Su queste basi viene tentata una vera e propria cosmologia, checostituisce l'oggetto principale del secondo libro. La volontà nellasua unità e irrazionalità è sufficiente a spiegare sia l'armonia chela lacerazione che percorrono l'universo. L'armonia: l'unità dellacompagine dell'universo si spiega con l'essere tutti i fenomeni inesso compresi obiettivazioni del l'unica volontà, e l'unitàteleologica che si manifesta appieno nei corpi organici si spiega inbase al principio che, essendo la volontà unica e indivisibile, è«presente tutta intera in ogni fenomeno». La lacerazione: se lavolontà infatti è tutta intera presente in ogni elemento della suaobiettivazione ne consegue che i singoli elementi mossi da questaforza primordiale ed infinita cerchino di affermare sè a danno deglialtri. Una lotta senza tregua si manifesta allora ad ogni livellodell'essere e culmina nel mondo umano, con la cruda e spietatacontrapposizione di egoismo a egoismo. Con il conflitto e lalacerazione è dato il dolore, fatto universale che si acuisce conl'acuirsi della sensibilità e della coscienza. Si sa con quali tetricolori Schopenhauer abbia dipinto i lati oscuri dell'esistenza e comeefficace sia riuscita la sua pittura. Si ha una vera e propria«demistificazione» di tutti quelli che sono genericamente assunticome valori mondani: la civiltà e il progresso non sono che nomivuoti destinati a mascherare la brutale contrapposizione di egoismiche costituisce la sempre uguale tragedia della vita.Ma Schopenhauer non si limita a questo disvelamento degli aspetti

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txttragici dell'universo: alla presa di coscienza della radicalità delmale nel mondo da parte dell'uomo, in cui questo giunge alla pienacoscienza di sè, si accompagna il bisogno di redimersi da esso e lafilosofia di Schopenhauer culmina con l'indicare le vie attraverso lequali la liberazione dal male è possibile.Una prima via di liberazione è l'arte (ad essa è dedicato il terzolibro). Ciò che rende la liberazione un compito difficile è il fattoche il nostro intelletto è comunemente al servizio della volontàindividuale e non fa altro che offrirle i mezzi per la soddisfazionedelle sue aspirazioni e dei suoi bisogni: la liberazione saràpossibile solo se l'intelletto riuscirà ad affrancarsi dalla suaschiavitù, il che avviene appunto nella intuizione estetica.Approfondendo il principio kantiano della apraticità dellacontemplazione estetica Schopenhauer giunge a definire l'arte comecontemplazione disinteressata del mondo. Nella contemplazioneestetica le cose non sono più viste nella loro relatività essenziale(nei loro rapporti reciproci ed in ultima analisi nel rapporto con lavolontà individuale), ma nel loro carattere ideale, nel loro esserepure Idee. Schopenhauer definisce le Idee (che per evitare confusionichiama Idee platoniche) come l'oggettivazione adeguata e immediatadella volontà nella sua unità e totalità, come forme eterne dellecose al di là della molteplicità empirica e del divenire temporale.Al tempo stesso anche il soggetto contemplante si sottrae alledeterminazioni fenomeniche, lascia cadere quanto in lui v'è diparticolare e contingente per ritrovarsi come soggetto puro (puroocchio del mondo) unito a questo mondo di forme ideali.Nei preziosi momenti della contemplazione estetica il conoscere silibera dal volere, il tormento della tempesta delle passioni cessa.L'insistenza su questo aspetto soteriologico dell'arte non deve peròfarci dimenticare che in questo libro è contenuta in nuce una vera epropria estetica, una teoria compiuta delle arti belle,dall'architettura alla scultura, dalla pittura alla poesia nelle suevarie forme, sino alla musica, che a differenza delle altre arti cherappresentano le Idee si fa manifestazione immediata della volontàstessa, stando così ad essa in rapporto analogo a quello delle idee.Ma la liberazione offerta dall'arte non può essere che provvisoria,legata com'è ai brevi momenti della contemplazione estetica. Al primosviluppo di pensiero che portava dal mondo degli oggetti al loro«nocciolo essenziale» subentra ora un secondo sviluppo, che dallanegazione provvisoria dell'arte ci porta a quella definitivadell'ascesi. E' questo il tema del quarto libro, nel quale vienepienamente alla luce quel pessimismo profondo che costituiva ilGrundton di tutti e tre i libri precedenti. Quest'ultimo libro non silimita alla dottrina dell'ascesi: le considerazioni sulla morte esull'immortalità, sulla giustizia eterna, sulla libertà e ilcarattere intelligibile, sulla teoria del diritto e della morale, lorendono infatti particolarmente ricco e suggestivo.Qui basterà richiamare l'attenzione del lettore sulla teoria dellapietà, per la quale Schopenhauer distacca il fondamento della moraledalla ragione per ancorarlo ai puri impulsi della profondità dellanostra natura. La ragione infatti pare a Schopenhauer facoltà troppovuota e formale, capace di tradurre in concetti l'esperienza vissuta,ma incapace di introdurre nuovi contenuti d'esperienza, incapace inogni caso di vincere quella affermazione di sè a danno degli altri incui l'egoismo consiste. Fondamento della morale può essere solo unsentimento che abbia vivacità, immediatezza e calore (come li ha ilsentimento egoistico) eppure sia capace di liberare l'uomodall'illusione di considerarsi separato dagli altri esseri per farglirealizzare l'unità vivente che ad essi lo lega, capace insomma ditradurre nella fluidità dell'esperienza vissuta l'intuizionedell'unità dell'essere penetrando il principium individuationis. Talesentimento è la pietà: per esso l'uomo riesce a sopprimere ledifferenze che lo separano dai suoi simili, e si identifica con essi,soffre il dolore altrui come suo dolore e assume il bene altrui comemotivo determinante d'agire, come se fosse il suo bene. Dalla pietànascono le virtù (giustizia e carità), ma anche l'ascesi. Lapartecipazione al dolore universale diventa infatti un «quietivo»della volontà, che può così giungere alla sua autonegazione. La

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrinnegazione della volontà di vivere è al tempo stesso liberazionedal mondo del male e del dolore che di essa è manifestazione,raggiungimento di uno spazio eterno di pace, di quiete, di silenzioal di là di tutti i conflitti che ritroviamo ad ogni livellodell'esperienza temporale.La negazione con cui la filosofia di Schopenhauer conclude non èassoluta. Il nulla cui la rinnegazione della volontà di vivere mettecapo è sempre solo un nulla relativo: il nulla di questo mondo; equesto mondo non esaurisce le possibilità dell'essere. Solo chi èancora prigioniero del mondo dei fenomeni teme quel che rimane dopoil superamento della volontà di vivere come il nulla assoluto. Quellagioia positiva che accompagna l'intuizione estetica, che prova anchel'uomo virtuoso (in quanto l'intuizione immediata dell'unitàdell'essere lo immette in un mondo di «fenomeni amici», liberandolodalla cupa e angosciosa preoccupazione della propria esistenza)culmina nell'ascesi, che non è concepibile se non come esperienza diun regno di pace profonda e di beatitudine, di un «regno dellagrazia» al di là del mondo cieco e violento della volontà di vivere. E'qui che avviene nella filosofia di Schopenhauer il richiamo allamistica come espressione positiva di quel che la filosofia esprimesolo negativamente. La filosofia ci porta fino alla negazione e ci faavvertiti che questa negazione è soltanto relativa: ma quello che conquesto superamento e negazione si guadagna si rivela solonell'esperienza mistica che per Schopenhauer, che ancora la filtraattraverso il suo razionalismo metafisico, si atteggia al di là deisimboli diversi in cui si esprime a seconda delle diverse culture,come esperienza di una Positività originaria nei cui confronti tuttociò che è contenuto in questo mondo svanisce (è proprio questo nostrouniverso tanto reale «con tutti i suoi soli e le sue vie lattee» cheallora ci appare come un nulla), di una Realtà ineffabile ebeatificante.

Il mondo come volontà e rappresentazione ebbe due edizionisuccessive a quella del 1819: nel 1844 veniva ristampato assieme adun secondo volume di Supplementi, di pari estensione: nel 1859, dopola diffusione del pensiero schopenhaueriano e il diffondersi dellasua fama, conseguenti alla pubblicazione dei Parerga e Paralipomena(1851), si ebbe una ulteriore ristampa dei due volumi.Nell'edizione di Lipsia del 1859, che è quella seguita dal nostrotraduttore, esso consiste, oltre che dei quattro libri del testo, ditre prefazioni (rispettivamente alla prima, alla seconda e alla terzaedizione) e di una appendice di Critica alla filosofia kantiana,nella quale con molta chiarezza Schopenhauer indica quelli che sonoper lui i meriti (la teoria dell'idealità del tempo e dello spazio,la giusta demarcazione fra fenomeno e cosa in sé, la teoria dellalibertà e del carattere intelligibile, la critica alla metafisicatradizionale, il riconoscimento del significato trascendentedell'etica, alcuni elementi metodologici della Critica del giudizio ela teoria del sublime) e i difetti (toccanti quasi tutti gli altriaspetti dell'opera kantiana) della filosofia di Kant: questaappendice già presente nella prima edizione fu notevolmenterimaneggiata nella seconda.Nella prefazione alla prima edizione Schopenhauer insiste sullaorganicità (nel senso già detto) del suo pensiero, che rendenecessaria la lettura del suo libro, se si vuol giungere ad una pienacomprensione di esso, almeno due volte. Afferma inoltre dipresupporre che il lettore conosca il suo saggio Sulla quadrupliceradice del principio di ragione sufficiente (1813), che costituiscela naturale introduzione e propedeutica al suo sistema, e che con ilcontenuto del primo capitolo della sua memoria Sopra la visione e icolori (1816) (quello cioè più propriamente gnoseologico sullavisione, consistendo il secondo in una ripresa della teoria deicolori di Goethe contro Newton, svolta sulle basi soggettivistiche eidealistiche messe in luce dal primo) avrebbe dovuto trovar posto nelprimo libro del Mondo (e l'avrebbe veramente trovato se Schopenhauernon avesse avuto ripugnanza a ripetere e copiare se stesso). Domandainoltre al lettore una conoscenza preliminare della filosofia di Kante afferma che sarà grandemente facilitato nella comprensione del suo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpensiero chi, oltre a Kant, conosca Platone e le Upanisad.Nella prefazione alla seconda edizione Schopenhauer fa amareriflessioni sull'insuccesso della sua filosofia, sul silenzio intornoad essa da ogni parte, che pertanto non può scoraggiare o abbatterechi come lui, a differenza dei «filosofi ufficiali» (i filosofi delleUniversità tedesche e gli hegeliani in ispecie), non subordina laverità a gretti fini personalistici e utilitaristici, ma pensa chealla ricerca libera e coraggiosa di essa si debba sacrificare ognicosa: spiega poi come i due volumi in cui la sua opera appare siintegrino a vicenda e perchè abbia preferito dare al secondo volumela forma di Supplementi al primo anziché rifondere il contenuto deidue volumi in un tutto organico; ribadisce inoltre come la suafilosofia procede da quella kantiana e consiglia la lettura di Kantnell'originale contro le numerose esposizioni deformanti del suopensiero apparse in Germania. Il tono amaro e talvolta un po' astiosodella prefazione alla seconda edizione cede a quello più sereno dellaterza (accresciuta rispetto alla seconda di 136 pagine) in cuiSchopenhauer, riflettendo sul destino che ha avuto e potrà avere lasua opera, cita le celebri parole del Petrarca: «Si quis, tota diecurrens, pervenit ad vesperam, satis est».I Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione sipresentano come un commentario generale ed uno sviluppo della materiatrattata nell'opera principale: il contenuto vi è disposto in quattroparti in corrispondenza ai quattro libri del Mondo ed è distribuitoin 50 capitoli, di cui alcuni acquistarono grande rinomanza comequello sul Bisogno metafisico dell'uomo, Sulla storia, Sulla morte esulla sua relazione con la indistruttibilità del nostro essere in sè,sulla Metafisica dell'amor sessuale, sull'Ordine della salvezza e suquella Epifilosofia in cui Schopenhauer riflette sul significato e laportata della propria filosofia.Nei venticinque anni che corrono fra la prima e la seconda edizionedel Mondo Schopenhauer aveva pubblicato una serie di scritti che nonfanno che ampliare, integrare e approfondire nei dettagli esviluppare nelle sue direzioni essenziali quel nucleo fondamentale dipensiero cui era giunto il giovane trentenne.Così nel 1836 ruppe un silenzio durato diciotto anni con l'operettaLa volontà della natura (di cui nel 1854 si avrà una secondaedizione), che contiene «una discussione delle conferme che lafilosofia dell'autore, dalla sua comparsa, ha ottenuto dalle scienzeempiriche», e che giustamente raccomandò come la migliore e piùapprofondita esposizione della sostanza della sua metafisica. Nel1838 decise di rispondere ad un concorso a premio sul problema dellalibertà del volere indetto dalla Società reale norvegese dellescienze in Drontheim e la sua memoria fu premiata. Lo scritto Sullalibertà del volere umano fu pubblicato nel 1841 assieme a quello sulFondamento della morale (altra memoria scritta per un concorsoindetto dalla Società reale danese delle scienze in Copenhagen, chenon fu premiata) in un sol volume intitolato I due problemifondamentali dell'etica: caratteristica di queste due operette è diriprendere daccapo e approfondire i temi della libertà, del carattereintelligibile, della morale della pietà, senza presupporre laconoscenza delle opere precedenti (anche di quest'opera apparve unaseconda edizione nel 1860). Nel 1830 aveva tradotto e rifuso inlatino per una collana diretta da J' Radius la sua operetta Sopra lavisione e i colori con il titolo di Theoria colorum physiologica: nel1846 dava alle stampe una seconda edizione del suo trattato dignoseologia, il saggio Sulla quadruplice radice del principio diragione sufficiente, notevolmente riveduto e accresciuto inconformità degli sviluppi che la sua filosofia aveva avuto dagli anniimmediatamente seguenti la prima edizione.Nel 1851 uscirono infine i due volumi dei Parerga e Paralipomena,che ruppero il silenzio che fino ad allora si era creato intorno aSchopenhauer e gli procurarono la fama. Lo stile facile e chiaro, ilcarattere di alcuni scritti in essi contenuti che potevanointeressare veramente un vasto pubblico (notevoli ad esempio gliAforismi sulla saggezza della vita in cui Schopenhauer pur senzanegare la sua concezione radicalmente pessimistica del mondo e dellavita ma adattandosi al punto di vista empirico e comune, detta quelle

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtregole che possono aiutare l'uomo a vivere in questo che è ilpeggiore dei mondi possibile nella maniera più armonica e felice oalmeno il più possibile lontana dal dolore), l'espressione infinedella sua comprensione fondamentale dell'esistenza in una formaaforistica in cui emergono pensieri che sembrano essere dettatiimmediatamente dall'esperienza vissuta conservandone il sapore,spiegano abbastanza bene, anche senza ricorrere al «mutamento deitempi», il successo che arrise a quest'opera. Anch'essa, come iSupplementi, doveva servire come chiarimento ed estensione dei temitrattati nell'opera principale, ma Schopenhauer avvertiva che potevaessere comprensibile e profittevole anche per coloro che non laconoscevano, e finì con l'essere considerata una specie di più facileesposizione della sua filosofia. L'attenzione del pubblico si rivolseallora alle altre sue opere e soprattutto a Il mondo come volontà erappresentazione, passato prima quasi inosservato ed ora finalmentepotuto apprezzare in tutto il suo significato e in tutto il suovalore. Ai quattro libri del primo volume de Il mondo come volontà erappresentazione converrà dunque rifarsi, come all'opera che cipermette di cogliere nel loro legame intrinseco tutti i temi dellafilosofia di Schopenhauer e ci mette immediatamente di fronte alnucleo unitario del suo pensiero espresso con la energia lafreschezza e la spontaneità che «il fuoco della giovinezza» seppe adesso conferire: lo Schopenhauer della maturità infatti lo porterà acompimento, come già abbiamo accennato, nei suoi possibili sviluppi,magari evidenziandone certi aspetti, ma lo manterrà nella suasostanza del tutto invariato.

Il tema della fortuna di Schopenhauer, la ricerca dell'influsso chela sua opera ha esercitato lungo gli ultimi centoventi anni, è unargomento che meriterebbe uno studio approfondito che finora manca(si veda tuttavia la rapida sintesi di A' Hübscher, Die NachwirkungSchopenhauers, nello SchopenhauerJahrbuch del 1967, pp' 90-94). Quici limiteremo a indicare le direzioni speculative o più genericamentegli aspetti culturali in cui, in questo arco di tempo, il suopensiero è in qualche modo (o per influsso diretto o per affnitàtematica) presente.Tra i suoi discepoli immediati non mancarono personalitàspeculative di primo piano, forse oggi ingiustamente dimenticate,come J' Bahnsen e E' von Hartmann; e se certamente meno originale fuil pensiero di P' Deussen, non bisogna dimenticare che (a parte isuoi meriti di orientalista) si ha con lui la prima forma di quello«schopenhauerismo religioso» di cui ultimo e vigoroso rappresentanteè in Italia Piero Martinetti.Ma il nome di Deussen ci riporta a Nietzsche e al suo circolo. Laricostruzione che Charles Andler ci dà di esso, nella sua ormaicelebre monografia su Nietzsche, mette assai bene in luce l'impattoche la filosofia di Schopenhauer esercitò non solo su Nietzsche, maanche su Burkhardt, su Rohde e su Wagner: il pensiero di Schopenhauerveniva così a manifestare la forza della sua suggestione colsuscitare nelle sue molteplici direzioni quel rinnovamento culturaleeuropeo che a questi nomi è legato.E ancora si potrebbe segnalare la sua influenza sul romanzoeuropeo, da Tolstoj a Maupassant, da Zola aAnatole France, dalgiovane Kafka a Thomas Mann, per non ricordare che alcuni celebrinomi, alla rinfusa.Ma è proprio nella filosofia a noi più vicina che possono trovarsilargamente diffusi temi della filosofia schopenhaueriana. E se si ègiunti (cosa certamente ingiusta) a vedere in Bergson un plagiatoredi Schopenhauer, è innegabile che molti motivi del pensierobergsoniano richiamino quelli schopenhaueriani. D'altra parte è statarilevata l'intonazione schopenhaueriana della Lebensphilosophietedesca e delle correnti di pensiero che ad essa si riallacciano. Siè poi visto in Schopenhauer un precursore di quel pensierodemistificante che ha i suoi massimi rappresentanti in Marx,Nietzsche e Freud, e che continua ad informare di sè tanta partedella nostra cultura. La vicinanza della visione dell'uomoschopenhaueriana a quella che possono suggerire le intuizionifondamentali di Freud, o più genericamente della psicologia dinamica,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtè stata più volte sottolineata, dal che appare come anche quiSchopenhauer anticipi una delle componenti culturali del nostrotempo. Ancora si è insistito sulle affinità che con i temi centralidella filosofia dell'esistenza ha il suo pensiero, quando sia vissutoal di fuori delle rigide sovrastrutture metafisiche che lo opprimono:al proposito il Thyssen molto felicemente ha parlato di Schopenhauerzwischen den Zeiten, per mettere in luce il carattere «iconoclastico»della filosofia di Schopenhauer nei confronti di quella del passato,senza che pertanto egli sia riuscito a portare sino in fondo i temi«rivoluzionari» che essa conteneva e che furono effettivamente svoltidal pensiero contemporaneo: del resto è nota l'ammirazione cheKierkegaard ebbe per Schopenhauer, in cui riconobbe, nonostante ledivergenze, uno spirito fratello. Nell'ambiente anglosassone, dovela figura dominante è ancora quella di Wittgenstein, si èrecentemente insistito sull'influsso di Schopenhauer sul pensierowittgensteiniano: su certi aspetti di esso, è vero, che ilneopositivismo e la filosofia analitica del linguaggio a cuiWittgenstein deve la sua fama non hanno ripreso, ma che pure siricominciano a scoprire e che risultano fondamentali per unacomprensione di questa singolare e spesso sconcertante figura difilosofo. E ancora si potrebbe segnalare l'influenza che esercitò ilsuo pensiero sul corifeo della Scuola di Francoforte: Max Horkheimer.Queste indicazioni forzatamente sommarie - e accompagnate dalriconoscimento che i temi «attuali» della sua filosofia si trovano inSchopenhauer accompagnati da motivi che ne bloccano una piena ecoerente espansione - ci pare che possano tuttavia richiamarel'attenzione sulla ricchezza e fecondità dell'opera di un filosofo ilcui pensiero è stato troppe volte impoverito e banalizzato oconsiderato ormai fuori dall'orizzonte speculativo dell'uomo deinostri giorni.La traduzione che qui presentiamo dei quattro libri del primovolume de Il mondo come volontà e rappresentazione è quella di NicolaPalanga, la quale è stata fatta sulla terza edizione di quest'opera(Lipsia, Brockhaus, 1859), curata da Schopenhauer stesso. (1) IlFrauenstädt ristampandola nella sua edizione delle opere complete diSchopenhauer (1873), vi fece alcune aggiunte ricavandole dalle notemanoscritte che Schopenhauer stesso vi appose prima della sua morte,avvenuta come si sa nel 1860. Queste aggiunte tuttavia si riducono aben poco (intorno ad una decina di righe): se ne veda l'elencoindicativo della riedizione recente di A' Hübscher, Wiesbaden,Brockhaus, 1946-1951 (Ii ediz'), vol' Ii, pp' 637-638.Giuseppe Riconda

NOTE:(1) Ad essa sono state aggiunte, a cura della Redazione, leprefazioni alla prima, alla seconda e alla terza edizione e, a curadi Giuseppe Riconda, la Appendice sulla Critica della filosofiakantiana.

AvvertenzaLa presente traduzione - condotta da Nicola Palanga sulla terzaedizione in due volumi di Die Welt als Wille und Vorstellung (Lipsia,Brockhaus, 1859) a cura dell'Autore - comprende il testo integraledei quattro libri del primo volume dell'opera: ad essa è stataaggiunta la traduzione della Appendice sulla Critica della filosofiakantiana condotta da Giuseppe Riconda sull'edizione di A' Hübscher(Wiesbaden, Brockhaus, 1949(2), Sämtliche Werke, Ii). Non vengonodati, invece, i quattro libri di Supplementi che costituiscono ilsecondo volume: per comodità del lettore si sono peraltro mantenutiinalterati i passi e le note del testo che ad essi fanno riferimento.Abbiamo completato direttamente sul testo le citazioni greche congli spiriti e gli accenti che, com'è noto, Schopenhauer tralasciava(N'd'C').

Prefazione dell'autorealla prima edizioneLo scopo che mi sono qui proposto è quello di indicare come questolibro debba essere letto per riuscire facilmente comprensibile. Quel

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche per mezzo suo io voglio comunicare è un unico pensiero. Eppure,nonostante ogni mio sforzo, non m'è riuscito, per esporlo, di trovaraltra via piú breve di questo intero libro. Io ritengo che un talunico pensiero sia ciò che per così gran tempo si è cercato sotto ilnome di filosofia e la cui scoperta, ai piú dotti esperti in storia,sembra davvero altrettanto impossibile quanto quella della pietrafilosofale, sebbene già li ammonisse Plinio: Quam multa fieri nonposse, priusquam sint facta, iudicantur? (Hist' nat', 7, 1).A seconda del punto di vista da cui si consideri quest'unicopensiero che sento di dover comunicare, esso si manifesta come quelche è stato chiamato metafisica, etica e estetica, mentre in realtàdovrebbe, e in maniera univoca, esser tutte queste cose insieme:sempre che esso possieda, come già dissi, la natura che ho ritenutodovergli attribuire.Un sistema di pensieri dev'essere sempre organizzato in manieraarchitettonica, tale cioè che ogni sua parte, pur di sostegno aun'altra, possa restarne indipendente: la pietra fondamentalesostiene tutti gli elementi della struttura senza essere sostenuta, eil vertice è sorretto senza sorreggere. Al contrario un pensierounico deve, per quanto comprensivo possa essere, mantenere integra lapropria unità. Pur ammettendo che, per essere intelligibile, esso silasci scomporre in piú parti, queste dovranno avere unaconcatenazione organica, in cui ciascuna parte regga il tutto,proprio altrettanto quanto essa venga retta dal tutto: in un sistemadel genere nessuna parte è cosí la prima e nessuna l'ultima, e tutteanzi contribuiscono a che l'intero pensiero acquisti in chiarezzasicché anche la sua piú piccola parte non può appieno comprendersi segià non è stato in precedenza compreso il pensiero nel suo insieme.Un libro deve peraltro possedere una riga all'inizio e una alla fine,e rimarrà quindi assai dissimile da un organismo, pur mantenendoglisisomigliante nel proprio contenuto: il che vuol dire che saranno quiin contrasto forma e contenuto.Va da sé che in tali circostanze, per chi voglia bene a fondopenetrare il pensiero qui esposto, non resta che leggere questo librodue volte, e la prima invero con una buona dose di pazienza chesoltanto potrà attingersi dalla spontanea fiducia che il principiodel libro presupponga la fine, quasi altrettanto come la fine ilprincipio: e che ogni parte che sta innanzi presupponga quella chesegue, quasi altrettanto come quest'ultima la precedente. Ho detto«quasi», perché non è rigorosamente e completamente cosí: e quanto miè stato possibile fare per porre innanzi quello che meno richiedevadi esser chiarito dal seguito, in modo altresí che tutto riuscisse ilpiú possibilmente chiaro e comprensibile, io l'ho fatto con onestà ecoscienza. Potrei dire anzi d'aver quasi conseguito questo mio finese il lettore - ma ciò è naturale - anziché limitarsi a quanto divolta in volta è detto, non pensasse anche alle deduzioni possibili:dal che ne discende che, oltre ai numerosi contrasti cheeffettivamente esistono tra il presente libro e l'opinione diquest'epoca e presumibilmente del lettore stesso, potranno sorgernealtri anticipati e arbitrari, tali da far apparire come vivacedisapprovazione ciò che al momento è solo un semplice malinteso.Questo malinteso non può d'altra parte esser facilmente riconosciutodal lettore perché, nonostante che la nitidezza dell'esposizione(faticosamente raggiunta) e la chiarezza dell'espressione non lascinoforse dubbi sul senso immediato d'ogni luogo del testo, i rapporti diquesto con il resto dell'opera non possono essere simultaneamenteespressi. Ed è proprio per tale ragione, come dianzi ho avvertito,che la prima lettura richiede una pazienza attinta alla fiducia chetutto, o quasi tutto, nella seconda lettura, possa esser visto in benaltra luce. Il consapevole sforzo poi di conseguire una piú piena epersino piú agevole intelligibilità di un argomento assai difficile,potrà servire di scuse se qua e là chi legge troverà qualcheripetizione. La struttura organica, e non già disposta con unasuccessione al pari d'una catena, del mio sistema mi ha obbligatotalvolta a toccare due volte uno stesso argomento. Proprio questaspeciale struttura, e l'intima coesiva coerenza d'ogni partedell'opera, non ha consentito una suddivisione - che avrei peraltromolto gradito - in capitoli e in paragrafi, obbligandomi invece ad

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtaccontentarmi di quattro divisioni fondamentali che sono come quattroaspetti dell'unico pensiero. In ciascuno di questi quattro libri èsoprattutto importante il non perder mai di vista, di là dagliargomenti particolari dei quali per necessità si parla, il pensieroessenziale cui essi vanno riferiti e appartengono, e il procederedell'esposizione nel suo complesso. E con ciò si esaurisce la primamia raccomandazione al lettore malevolo (malevolo verso il filosofo,poiché il lettore è egli stesso filosofo), la quale è indispensabilecome quella che seguirà.La seconda raccomandazione è appunto questa, che prima dell'opera,si legga il saggio che ad essa serve da introduzione nonostante chenon sia qui unito, essendo uscito cinque anni fa con il titolo: Sullaquadruplice radice del principio di ragione sufficiente - Trattazionefilosofica. Senza la conoscenza di questa introduzione epropedeutica, è del tutto impossibile una vera comprensione delpresente scritto, che presuppone come sua parte essenziale ilcontenuto dell'altro. Se quest'ultimo non avesse d'altronde precedutodi un buon numero d'anni l'opera, non le starebbe ora innanzi come unproemio, bensí verrebbe incorporato nel primo libro dove, per lamancanza di quanto vien detto in quella trattazione, si notanoaltresí una certa incompiutezza e non poche lacune, cui si è dovutoovviare facendo ad essa riferimenti continui. L'avversione tuttavia acopiare me stesso, o a presentare con altre parole e faticosamentequanto in precedenza espressi con sufficiente chiarezza, era cosígrande che ho preferito questa via, sebbene mi sarebbe stato forseora possibile dare al contenuto di quella memoria un'esposizionemigliore, soprattutto depurandola dei non pochi concetti ispiratidall'allora mia eccessiva soggezione a taluni elementi dellafilosofia di Kant, quali le categorie, il senso interno e quelloesterno e cosí via. Questi concetti vi si trovano quindi solo perchéin quel tempo non li avevo ancora esaminati a fondo, per cuipossiedono un carattere meramente accessorio, senza legame alcuno conl'essenziale: e alla loro rettificazione in quella memoria potrà dasé benissimo provvedere il lettore con l'attento esame della presenteopera. Ma solo quando per mezzo di quella memoria si siano compresiappieno e l'essenza e il significato del principio di ragione -conoscendo anche i limiti entro cui la sua applicazione è valida, eavendo ben chiaro come esso non sia precedente a tutte le cose, quasiche l'esistenza del mondo venga ad esso condizionata al pari d'unsemplice corollario, ma sia in realtà solo la forma con cui l'oggettoviene ovunque conosciuto da un qualsivoglia soggetto che, proprio inquanto individuo conoscente, subordina a sé l'oggetto stesso - soloallora, diciamo, sarà possibile capire a fondo il metodo filosoficoqui per la prima volta tentato, affatto diverso da tutti iprecedenti.Ed è stato peraltro il medesimo fastidio a copiar me stesso parolaper parola, o anche a ripetere in maniera diversa ma in ogni casopeggiore quanto la prima volta riuscii a dire con espressioni piúadatte e significanti, che ha prodotto un'ulteriore lacuna nel primolibro di quest'opera, dove ho infatti tralasciato quel che si trovanel primo capitolo della mia memoria Sopra la visione e i colori, eche altrimenti sarebbe stato qui trascritto integralmente. Quindianche la conoscenza di questo mio piccolo saggio anteriore viene quipresupposta.La terza richiesta che vorrei infine rivolgere al lettore potrebbeanche essere sottintesa, non essendo altro che la conoscenza del piúimportante avvenimento che si è avuto da venti secoli in filosofia eche pertanto ci è così vicino, ovvero la comparsa dei principaliscritti di Kant. Essi possono influenzare quegli spiriti che liaccolgano con la dovuta comprensione in maniera che trovoparagonabile, come già altra volta è stato detto, all'operazionedella cateratta sui ciechi; e, per continuare il paragone, vorreidefinire il mio intento in filosofia dicendolo simile a quello dichi, agli operati di cateratta, ha fatto dono di quegli occhiali, perl'uso dei quali è pertanto proprio quell'operazione condizionenecessaria. Per quanto io prenda infatti le mosse da ciò che ilgrande Kant ha affermato, mi sono nondimeno accorto, con un attentostudio delle sue opere, della presenza in esse di notevoli errori,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtch'io dovevo necessariamente condannare isolandoli dal contestogenerale della dottrina kantiana, per poter presupporre e utilizzare- purgato e emendato da questi - quanto in essa vi è di vero e dieccellente. Per non interrompere tuttavia di continuo l'esposizionecon una frequente polemica con Kant, ho raccolto questa per intero inuna speciale Appendice, la cui conoscenza, come quella dellafilosofia kantiana, è presupposto indispensabile per comprendere afondo quanto verrà qui via via esposto. Da questo punto di vistasarebbe quindi opportuno legger prima l'Appendice, specie perché essaha precisi rapporti proprio con il primo libro di quest'opera.D'altra parte non mi è stato possibile evitare che qua e làl'Appendice si riferisse all'opera stessa, per cui il lettore dovràdi entrambe operare una duplice lettura.La filosofia di Kant è la sola di cui si presuppone propriamenteuna conoscenza compiuta per ciò che in questo libro è proposto, anchese il lettore sarà maggiormente preparato e disposto ad ascoltarmiov'egli abbia una certa dimestichezza con la scuola del divinoPlatone. Se poi addirittura egli è diventato partecipe dellebenefiche idee dei Veda, l'accesso ai quali apertoci dalle Upanisadcostituisce, a mio avviso, il maggior privilegio che questo ancorgiovane secolo può vantare sul precedente - dal momento chel'influsso della letteratura sanscrita sarà probabilmente non menoprofondo di quello che la cultura greca esercitò nel Xv secolo - sedavvero dunque il lettore ha già ricevuto e accolto con animo apertoanche la consacrazione dell'antichissima saggezza indiana, alloraegli davvero è nel migliore dei modi preparato a ascoltare quanto stoper esporgli. Come potrà accadere a qualcun altro, la materia non gliparrà in tal caso estranea o addirittura ostica: anzi io, se quantosto per dire non suonasse troppo superbo, oserei affermare che dellesingole e isolate sentenze, che costituiscono appunto le Upanisad,non ce n'è alcuna che non si lasci dedurre, come conseguenza, dalpensiero che m'accingo ad esporre, nonostante che quest'ultimo nonpossa in alcun modo là essere trovato.

Ma ecco già la maggior parte dei miei lettori levarsi conimpazienza, prorompendo in un rimprovero a stento trattenuto pertanto tempo, chiedendosi come mai io possa osare di presentare alpubblico un'opera ponendo esigenze e condizioni che sembrano, speciele prime due, presuntuose e immodeste. E questo in un'epoca tantoricca di singolari forme di pensiero, al punto che in Germaniasoltanto ve ne sono tali che, annualmente per mezzo della stampa,diventano di pubblico dominio attraverso tremila opere - dense dicontenuto, originali e assolutamente indispensabili - e altresímediante innumerevoli periodici o addirittura giornali quotidiani: inun'epoca in cui certo non mancano filosofi pienamente originali eprofondi, dei quali tanti vivon oggi nella sola Germaniacontemporaneamente quanti non ne seppero produrre vari secoli l'undopo l'altro. Come diavolo dunque, chiede l'infuriato lettore, si puòvenirne a capo, se bisogna darsi tanto da fare per un libro solo?Dal momento che a tali rimproveri non ho da opporre la benchéminima obiezione, da lettori del genere non m'attendo gratitudinealcuna, se non per averli avvertiti in tempo di non perdere una solora con un libro, la cui lettura può riuscir utile soltanto sevengono soddisfatte le esigenze da me formulate, e che perciò essidevono assolutamente tralasciare, anche perché, c'è da scommettercimolto, il libro non piacerebbe loro, poiché esso sarà sempre paucorumhominum: e per questo proprio deve - modesto e paziente - saperattendere quei pochi la cui non comune maniera di pensare lo trovileggibile. Quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sapere tantosi è avvicinato a quel mirabile punto dove paradosso e errorecoincidono, potrebbe infatti (anche astraendo dall'ampiezza di idee edallo sforzo che l'opera richiede al lettore) sopportare di trovarquasi ad ogni pagina pensieri che, francamente, sono in nettocontrasto con ciò che egli stesso ha da sempre ritenuto come vero eindubitato? E quanto poi si troveranno spiacevolmente delusi queitali che non s'imbatteranno qui in alcuno di quei ragionamenti che siaspettavano invece di trovare, accordandosi il loro modo di specularecon quello d'un grande filosofo vivente, (1) il quale ha scritto

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlibri invero commoventi, ma che ha solo il piccolo difetto di vedere,in tutto quel che lo spirito umano ha imparato e accettato prima delquindicesimo anno, dei pensieri fondamentali innati! Chi mai potrebbesopportare tutto questo? Quindi il mio unico consiglio è, ancora unavolta, di mettere via il libro.Solo temo io stesso di non potermela cavare cosí. Il lettore,arrivato alla prefazione che lo respinge, ha pur acquistato condenaro sonante il libro, e domanda in qual modo può esser risarcito.A questo punto il mio ultimo riparo è il rammentargli i vari modi incui egli può utilizzare un libro, senza bisogno di leggerlo. Può,come tanti altri, riempire un vuoto nella sua biblioteca, dovel'opera, ben rilegata, farà certo buona mostra di sé. Oppure deporlosulla toilette o sul tavolino da tè della sua colta amica. Oppureegli può ancora - e questa è la soluzione migliore che io caldamenteconsiglio - farne una recensione.

E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, per il quale nonesiste pagina per quanto seria che non debba trovargli posto inquesta vita, che mostra ovunque e sempre un duplice aspetto, offrocon intima gravità la mia opera, fiducioso che presto o tardi essaperverrà a quelli cui sola può esser rivolta: pienamente rassegnato,peraltro, a vederle toccare in piena misura quello stesso destino chesempre toccò alla verità in ogni dominio del sapere, specie nel piúimportante. Alla verità tocca solo un breve trionfo, tra i due lunghiintervalli di tempo in cui essa è condannata come paradossale odisprezzata come banale. E il primo destino suole colpire anche coluiche l'ha trovata. Ma la vita è breve, mentre la verità sa operarelontano e lungamente vive: diciamo, dunque, la verità.Scritto in Dresda, agosto 1818

NOTE:(1) F'H' Jacobi.

Prefazione dell'autorealla seconda edizioneNon ai contemporanei, non ai miei compatrioti ma all'umanità ioconsegno la mia opera ormai compiuta, persuaso che non sarà per essasenza valore: anche se questo valore, qual è solitamente il destinodel bene in ogni genere, verrà riconosciuto con ritardo. Soltantoinfatti per l'umanità e non per la generazione che passa frettolosa eimmersa nel suo effimero sogno, è potuto accadere che la mia mente,quasi contro il mio volere, abbia di continuo atteso per tutta unalunga vita al suo lavoro. Né la mancanza di consensi, durante questotempo, ha potuto trarmi in errore sulla validità dell'opera, giacchéio vidi sempre oggetto di onori e d'ammirazione il falso, l'ingiustoe infine l'assurdo e l'insensato. (1) Sono giunto quindi allaconvinzione che quanti dan vita al giusto e al vero non potrebberoessere così pochi (tanto da fare eccezione con l'opere loro allacaducità delle cose umane), se altrettanto rari - sicché è possibileandarne invano in cerca per una ventina d'anni - non fossero anchecoloro che quel giusto e quel vero sono in grado di comprendere. Secosí non fosse, andrebbe perduta per i primi la vivificanteprospettiva della posterità, indispensabile corroborante per chiunquesi sia proposta un'alta meta.Chi seriamente prende ad occuparsi di una cosa che non ha utilitàmateriale non può fare affidamento sulla partecipazione deicontemporanei. Si accorgerà anzi il piú delle volte che si fa valerenel mondo una falsa immagine di quella cosa, che gode, com'ènell'ordine delle umane vicende, di una caduca notorietà. La cosastessa deve invero essere coltivata per se medesima, ché altrimentinon può appieno venir conseguita, dato che ogni preoccupazioneestranea altro non serve che a intorbidire il giudizio. Quindi, comepienamente attesta la storia letteraria, ogni opera di pregio haavuto bisogno di molto tempo per farsi valere, soprattutto se delgenere istruttivo e non ameno: e nel frattempo risplendeva il falso.Proprio per questa ragione è difficile, se non impossibile, riunirela cosa con l'apparenza della cosa stessa: tale è appunto lamaledizione del nostro mondo dominato dalla pena e dal bisogno, alla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtqual pena e bisogno tutto deve servire e prestarsi. Il mondo non èpertanto costituito in maniera che possa prosperarvi indisturbato eprocedervi di per sé solo un nobile e sublime sforzo qual è quelloche vuole conseguire la luce e la verità. Accade invece che anchequando per una volta una tale aspirazione è riuscita a imporsi e sene è diffusa l'idea, ben presto s'impadroniscono anche di essa gliinteressi materiali, i fini personali, per farne una loro maschera ostrumento. Conformemente a ciò accadde che anche la filosofia, dopoesser stata rimessa in onore da Kant, è divenuta lo strumento diinteressi estranei, di stato dall'alto e personali dal basso, anchese, a guardar bene, non sia questa la filosofia ma la sua falsaimmagine, che vien confusa con l'essenza di lei. Questo non ci puòperò stupire, essendo la stragrande maggioranza degli uomini adatta,per sua natura, solo a fini materiali che, del resto, sono gli unicich'essa è in grado di comprendere. Lo sforzo per conseguire la veritàpura è pertanto troppo intenso e eccezionale per pretendere chetutti, o che molti, o che anche soltanto alcuni vi debbano prendereparte. Se però a volte si nota, come per esempio appunto oggi inGermania, una sorprendente operosità, un generale affaccendarsi, escrivere e parlare d'argomenti di filosofia, si può con certezzaaffermare che il vero primum mobile, la molla nascosta di talemovimento è, nonostante che con solenni arie si cerchi di sostenereil contrario, soltanto un fine del tutto reale e non ideale: quellicui si tende sono interessi personali, d'ufficio, di chiesa, di statoe cioè, in breve, interessi materiali. Sono semplici interessi dipartito che mettono quindi in cosí forte movimento le numerose pennedei pretesi sapienti universali: questi vociferatori non sono diconseguenza guidati da motivi ideali ma da ragioni assolutamentepratiche, e la verità è certo l'ultima cosa cui pensano. Essa nontrova seguaci: anzi attraverso un tal filosofico frastuono puòprocedere lungo il suo cammino tranquilla e inosservata come quando,nella notte invernale del piú tenebroso dei secoli - rinchiuso nellapiú rigida fede chiesastica - essa a stento veniva comunicata a pochiadepti quasi una dottrina segreta, o addirittura affidata solamentealla pergamena. Oserei dire che nessuna epoca può essere piúsfavorevole alla filosofia, di quella in cui la filosofia da unaparte viene ignobilmente sfruttata come mezzo di governo, edall'altra come mezzo di lucro. O forse qualcuno si illude che tratali confuse aspirazioni la verità, da tutti del resto trascurata,possa venir alla luce per caso? La verità non è la meretrice che sigetta al collo di chi non la vuole: essa possiede una cosí alterabellezza che persino chi a lei sacrifica tutto non può ancora essercerto di ottenere i suoi favori.Oggi i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini distato, e i dotti vedono nelle cattedre filosofiche soltanto unmestiere che, alla stregua degli altri, è in grado di nutrire chi loesercita: essi fan dunque ressa per ottenerle, sotto assicurazionedei loro buoni sentimenti, ovvero della disposizione a servire queidati fini. E mantengono il proprio impegno. Non sono guidati dallaverità, dalla chiarezza, né da Platone o da Aristotele: loro stellapolare sono i fini al cui servizio essi furono posti, e che divenneroaltresì immediatamente il criterio del vero, del giusto,dell'importante e del loro contrario. Quel che all'opposto noncorrisponde a tali fini, fosse pur la cosa piú ragguardevole estraordinaria nella loro disciplina, viene condannato o - ove ciòvenga giudicato pericoloso - soffocato mediante la concordeostentazione d'ignorarlo. Basti notare l'unanime accanimento dicostoro contro il panteismo: potrebbe forse credere, anche unsemplicione qualsiasi, ch'esso nasca da una reale convinzione? Come èpossibile evitare, peraltro, che la filosofia, degradata a strumentodi guadagno, non degeneri in sofistica? Proprio perché questo èinevitabile, e perché la regola «di chi io mangio il pane, di luicanterò lodi» è sempre stata in vigore, presso gli antichi guadagnardenaro con la filosofia era il segno distintivo dei sofisti. A ciòdeve poi aggiungersi il fatto che, essendo la mediocrità l'unica cosache si possa attendere, esigere ed ottenere per denaro, anche qui inGermania è stato giocoforza contentarsene. Vediamo quindi l'amabilemediocrità affannarsi, in ogni Università tedesca, per mettere in

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiedi con i propri mezzi la filosofia - che ancora non esiste in modoalcuno - e costruirla secondo misure e finalità preordinate: unospettacolo beffarsi del quale sarebbe quasi una crudeltà.Mentre cosí già da tempo la filosofia veniva generalmentestrumentalizzata, ora per fini pubblici, ora per fini privati, io,senza lasciarmi turbare, per piú di trent'anni son rimasto coerenteal corso del mio pensiero, solo perché cosí dovevo, né potevoaltrimenti. Lo feci per un impulso istintivo, sorretto peraltro dallacertezza che quanto uno ha pensato di vero, o ha portato alla lucedalla tenebra, deve pure un giorno o l'altro venir colto da unqualsiasi spirito pensante e colpirlo, rallegrarlo e confortarlo: edè proprio per costui che si parla, come per noi han parlato quelliche ci somigliano e che son diventati il nostro conforto nel desertodella vita. In genere la propria missione vien compiuta per amoredella cosa e per se stessi. Con le speculazioni filosofiche accadeperò, in modo singolare, che risulta anche a vantaggio di altri soloquanto uno ebbe a coltivar per se medesimo, e non quello cheoriginariamente a questi altri era destinato. Il primo genere dispeculazione è subito riconoscibile per la sua assoluta probità,perché mai si cerca d'ingannare se stessi, offrendo noci vuote: ogniverbosità e sofisticare sono messi in disparte, sicché ogni periodoscritto ci compensa immediatamente della fatica compiuta perleggerlo. Coerentemente a ciò, i miei scritti recano cosí chiaral'insegna dell'onestà e della franchezza da essere, per questo solo,in stridente contrasto con quelli dei tre celebri sofisti del periodopostkantiano: sempre mi si può trovar fermo sul piano dellariflessione, ossia del meditare razionalmente e dell'onestocomunicare, e non su quello dell'ispirazione, la cosiddettaintuizione intellettuale o pensiero assoluto, il cui vero nomedovrebbe esser piuttosto gonfia vacuità e ciarlataneria. Lavorandoquindi in base a quell'unico criterio, e vedendo nel frattempo ilfalso e l'ingiusto in pregio universale, anzi la tronfia vacuità (2)e la mera ciarlataneria (3) in altissima stima, ormai da gran tempoho rinunciato al plauso dei miei contemporanei. E' poi impossibileche lo spettatore di un tale spettacolo possa essere attratto dalplauso di una generazione, che di sé ha dato spettacolo strombazzandoper vent'anni un Hegel, questa sorta di Calibano intellettuale, comeil piú grande dei filosofi, facendone risuonare le lodi per l'Europaintera. Questa generazione non ha piú corone da largire: il suoplauso si è ormai prostituito, né ha valore alcuno il suo biasimo.Che io dica questo sul serio si vede dal fatto che, se mai avessiaspirato al plauso dei miei contemporanei, avrei dovuto eliminare unaventina almeno di passi della mia opera che contrastano appieno contutte le loro opinioni e che anzi, in parte, devon loro apparirescandalosi. Ma giudicherei un delitto il sacrificio d'una solasillaba a quel plauso. Unico mio riferimento è stato in tuttasincerità il vero; seguendolo, io potevo aspirare esclusivamente almio proprio plauso, avendo del tutto distolto lo sguardo da un'eracompletamente decaduta rispetto a ogni aspirazione superiore dellospirito, e da una letteratura nazionale dove ha veramente toccato ilsuo vertice l'abilità di accordare con alte parole un bassosentimento. Non posso certo sottrarmi in alcun modo ai difetti e alledebolezze inerenti per necessità alla mia natura come aciascun'altra: ma non li accrescerò con indegni compromessi.Per quel che contingentemente riguarda questa seconda edizione, mirallegra in primo luogo il fatto che, dopo venticinque anni, nientetrovo da ritirare, ovvero il fatto che, almeno in me stesso, fermesono rimaste le mie convinzioni fondamentali. I mutamenti apportatial primo volume, il quale contiene solo il testo della primaedizione, non riguardano quindi mai l'essenziale, bensí in parte siriferiscono a cose secondarie, e in parte maggiore consistono inbrevi spiegazioni introdotte qua e là. Soltanto la Critica allafilosofia kantiana ha subíto importanti correzioni e ampie aggiunte,dal momento che qui esse non potevano essere raccolte in un librosupplementare, com'è invece accaduto nel secondo volume per ciascunodei quattro libri che espongono la mia dottrina. Per essi ho sceltoquesta forma di ampliamento e di miglioramento perché i venticinqueanni trascorsi hanno portato un cosí accentuato cambiamento nel modo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdel periodare e nei toni del discorso, che non mi parve convenienteriunire in un tutto unico il contenuto del secondo volume con quellodel primo, dato che entrambi avrebbero sofferto in seguito a talefusione. Io presento quindi i due lavori distinti, e spesso nulla homodificato nella prima redazione, anche là dove ora vorrei esprimermiin maniera completamente diversa, specie perché non volevo sciuparecon la pedanteria dell'età senile il lavoro dei miei giovani anni.Tutto ciò che, sotto questo punto di vista, è da correggere, potràstabilirlo agevolmente il lettore con l'aiuto del secondo volume.Entrambi i volumi possiedono, nell'accezione piú estesa del termine,un reciproco rapporto di integrazione dal momento che esso si fondasul fatto che ogni età della vita umana è, sotto il rispettointellettuale, l'integrazione dell'altra. Si vedrà, quindi, che nonsoltanto ogni volume contiene quel che l'altro non ha, ma che ivantaggi dell'uno consistono appunto in ciò che all'altro manca. Sela prima parte della mia opera possiede pertanto il privilegio,rispetto alla seconda, che solo il fuoco della giovinezza e l'energiahanno potuto prestare alla prima concezione, la seconda supererà laprima per maturità e per la compiuta elaborazione del pensiero chesolamente s'accompagna ai frutti di una lunga vita e di una costanteapplicazione. Infatti, quando io possedevo la forza di afferrare ilpensiero fondamentale del mio sistema dal suo inizio, e seguirloquindi nelle quattro diramazioni per tornare poi indietro da questeverso l'unità del loro ceppo, ed esporre infine con chiarezza iltutto, non potevo essere allora altresí in grado di approfondire ognisingola parte del mio sistema con quella compiutezza, profondità eestensione che solo possono venir conseguite con una meditazione dimolti anni, la quale è invero necessaria per metterlo alla provad'innumerevoli fatti, chiarirlo, sostenerlo con le dimostrazioni piúdiverse, illuminarlo in ogni sua parte, porre con esso audacemente incontrasto le differenti posizioni speculative, isolare i molteplicielementi esponendoli nel miglior ordine possibile. Quindi, anche seal lettore sarebbe forse piaciuto avere la mia opera per interoanziché composta da due metà le quali, nell'uso, debbono essereaccostate reciprocamente, è tuttavia opportuno che questi riflettasul fatto che, a tal fine, io avrei dovuto fornire, in un'età dellavita, ciò che solo è possibile in due, e cioè possedere in una etàquei caratteri che la natura ha distribuito in due età diverse. Lanecessità pertanto di presentare la mia opera in due metàintegrantisi a vicenda può essere paragonata a quella in base allaquale si costruisce un obiettivo acromatico: esso non può fabbricarsiin un solo pezzo, dato che è composto da una lente convessa dicristallo flint e da una lente concava di cristallo crown, dalla cuiazione riunita solamente può aver origine l'oggetto voluto. Allafastidiosa necessità di dover contemporaneamente usare due volumi illettore troverà un qualche compenso nella varietà e nel diletto chenascono dal veder trattata una stessa materia, nell'identica mente econ lo stesso spirito, ma in anni molto diversi. Per chi non avessepoi familiarità alcuna con la mia filosofia, è assolutamenteconsigliabile leggere anzitutto per esteso il primo volume senzariferirsi ai complementi, usando di questi solo in una secondalettura. In caso contrario, infatti, sarebbe troppo difficile allettore comprendere il sistema nella sua totalità, quale lo espone dasolo il primo volume: mentre nel secondo le principali teorie vengonoa una a una piú dettagliatamente dimostrate e compiutamente svolte.Anche chi non desiderasse leggere due volte il primo volume, farebbebene a leggere il secondo solo dopo di quello, e in sé solo, nellaregolare successione dei suoi capitoli, che del resto sono fra diloro in un rapporto reciproco, per quanto meno stretto: ogni lacunasarà colmata dal ricordo del primo volume se, naturalmente, l'ha bencompreso. Gli sarà poi possibile trovare ovunque il rinvio ai luoghirispettivi del primo volume dove io, a questo scopo, ho munito dinumeri i paragrafi che, nella prima edizione, erano semplicementeindicati mediante linee di separazione.Già nella prefazione alla prima edizione ho detto che la miafilosofia trae origine da quella kantiana, e presuppone quindi unaconoscenza approfondita di questa: qui lo ripeto. La dottrina di Kantproduce infatti in ogni mente che bene l'abbia compresa una

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsostanziale trasformazione, e cosí grande che può considerarsi unavera e propria rinascita intellettuale. Essa sola può in effettieliminare quel realismo innato che deriva come dalla originariadisposizione dell'intelletto: a ciò non sono riusciti né Berkeley néMalebranche, tenendosi essi troppo sulle generali, mentre Kant entranel particolare in un modo da non avere né modelli né imitatori:produce cioè sullo spirito un'azione tutta speciale, oserei direimmediata, grazie alla quale esso subisce un radicale disingannonelle sue credenze, riuscendo quindi a vedere ogni cosa in altraluce. Solo in questo modo ognuno può conseguire quella disposizionedella mente che gli consente di accogliere le conclusioni piúpositive che sono in grado di fornirgli. Chi invece ignora lafilosofia kantiana si trova, per quanto altro possa aver studiato, inuno stato d'innocenza, ovvero è rimasto vincolato a quello stessorealismo naturale e infantile in cui ognuno di noi è nato, e che cirende abili ad ogni attività, tranne che alla filosofia. Costui staquindi a quel primo, come un minorenne a un maggiorenne. Che questaverità debba oggi suonare come un paradosso (e ciò non sarebbe maiaccaduto nei primi trent'anni dopo l'apparire della Critica dellaragion pura), deriva dal fatto che le generazioni successive nonconoscono Kant se non per una frettolosa e impaziente lettura, o perqualche notizia di seconda mano. Questo stato di cose ha a sua voltaorigine dal gran tempo che cotesta generazione ha dissipato, inseguito a un cattivo indirizzo, sui filosofemi di cervelli mediocri eincompetenti, o addirittura di sofisti gonfi di vento che le venivanvantati senza criterio: donde appunto la confusione nei concettiprimi e tutto quel che di grossolano e semplicistico traspare,attraverso la presuntuosa veste della preziosità, nei tentativifilosofici delle generazioni educate in tal guisa. Cade peraltro inun irreparabile errore chi pretende d'apprendere la filosofia di Kantdalle esposizioni che altri ne ha fatte: io sento il dovere di metterseriamente in guardia contro queste esposizioni, in particolarecontro le recenti, perché proprio in questi ultimi anni mi è capitatodi leggerne alcune, tra gli scritti degli hegeliani, che son vere eproprie favole. Del resto come si può pretendere che dei cervelli,già dalla prima giovinezza distorti e guasti dalle fumisteriedell'hegelismo, siano in grado di comprendere la profondità dellaspeculazione kantiana? Si sono abituati ormai a confondere ogni sortadi filastrocche per pensieri filosofici, i piú banali sofismi peracume e ogni ignobile stravaganza per dialettica: con l'assimilareuna tal vertiginosa accozzaglia di parole dove invano lo spirito sisforza - esaurendosi - di trovare un pensiero, quei cervelli hannoperso ogni capacità di coordinazione. Essi non son fatti per unacritica della ragione, né per alcuna filosofia: tutt'al piú potrebbegiovar loro una medicina mentis o forse in primo luogo, comecatartico, un petit cours de senscommunologie e vedere poi, in unsecondo tempo, se sia il caso o meno di parlar di filosofia. Ladottrina kantiana sarà quindi cercata invano al di fuori di quelleche sono le opere di Kant, sempre istruttive, anche là dove eglisbaglia, persino dove gli vien meno il vigore intellettuale. Per luiin sommo grado, a causa della sua originalità, è valido quel che si èsoliti dire per tutti i filosofi: è soltanto dagli scritti loro, enon dai resoconti altrui che s'impara a conoscerli. I pensieri diquegli spiriti eccezionali non tollerano la mediazione attraverso unamente comune. Trasportati entro l'angusto alloggio di crani stretti,schiacciati, massicci, da cui si tende opaco a spiare lo sguardo,intento ai suoi propri materiali vantaggi, essi - nati dietrospaziose, alte e ben curvate fronti sotto le quali splendono occhiluminosi - perdono ogni vita e vigore, non si riconoscono piú. Vorreianzi aggiungere che un tal genere di cervelli funziona da specchioconvesso in cui tutto si storce e stravolge, e dove l'equilibratasimmetria della sua bellezza si mostra in una smorfia. Lespeculazioni filosofiche si possono ricevere solo dai loro autori;chi si sente quindi portato alla filosofia deve visitarne gliimmortali maestri nel santuario delle loro stesse opere. Sarannoinvero sufficienti i capitoli essenziali di uno scritto di ciascunfilosofo per comprenderne la dottrina in maniera cento voltesuperiore a quella che può conseguirsi attraverso le strascicate e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtincomplete sue esposizioni, e per di più operate da menti comuni,irretite dalla moda della filosofia del momento o dall'opinione piúcara al loro cuore. C'è di che ben stupirsi se il pubblicopreferisce, il piú delle volte, ricorrere a quelle esposizioni diseconda mano. Mi sembra davvero che, a questo proposito, si possachiamare in causa l'affinità elettiva, in base alla quale una naturacomune si sente attratta verso i suoi simili, e solo da questigradisce ascoltare persino ciò che ha detto un grande spirito. Forsequesto poggia sull'identico principio su cui si fonda il metododell'insegnamento reciproco, secondo il quale i bambini apprendonomeglio da altri bambini.

Ancora una parola, per i professori di filosofia. Sempre ho dovutoammirare la sagacia, l'acuta e abile convenienza con cui essi hanno,sin dal suo apparire, riconosciuto nella mia filosofia un qualcosa diaffatto eterogeneo alle proprie aspirazioni, anzi di assolutamentepericoloso, o, per parlare in maniera popolare, come qualcosa che nontengono nella loro bottega; e la sicura ed acuta politica grazie allaquale essi immediatamente hanno scoperto il solo giusto atteggiamentoda tenersi davanti ad essa, nonché la piena unanimità con cui l'hannoposto in pratica, e infine la perseveranza con cui gli son rimastifedeli: tutte queste cose, dicevo, ho sempre dovuto ammirare. Uncontegno del genere, peraltro quanto mai conveniente per l'assolutafacilità della sua applicazione, consiste notoriamente nell'assolutoignorare, ovvero, per usare la maliziosa espressione di Goethe,nell'«insegretire», che con maggior proprietà indica l'azione di chisoffoca qualcosa di importante e significativo. L'efficacia di questatecnica silenziosa viene accresciuta mediante il clamore dacoribanti, con cui reciprocamente festeggiano la nascita dei figlispirituali dei compari, e che costringe il pubblico a prestareattenzione e ad accorgersi delle gran arie con cui costoro sifelicitano. Chi potrebbe negare l'opportunità di un tal metodo?Niente è da opporre al principio primum vivere, deinde philosophari.Costoro voglion vivere, e precisamente vivere della filosofia: daquesta traggono sostentamento con moglie e prole e tutto, nonostanteil povera e nuda vai filosofia del Petrarca, tutto essi hannoarrischiato su di lei. La mia filosofia, al contrario, non è pernulla adatta a che si possa viver di lei. Per questo proprio essa èpriva dei requisiti primi, essenziali per una ben retribuita cattedradi filosofia: in primo luogo di una teologia speculativa che perl'appunto - a dispetto del povero Kant con la sua Critica dellaragion pura - deve costituire il nucleo centrale d'ogni filosofia,anche se a questa capita di dover trattare cose di cui assolutamentenon può sapere nulla. La mia filosofia non sostiene neppur la favola,tanto abilmente escogitata dai professori in filosofia, e ad essidiventata indispensabile, di una ragione che in maniera immediata eassoluta conosce, intuisce e percepisce: ché se si ha l'avvertenza didar da bere ai lettori sin dall'inizio questa favola, si può entrareallora in carrozza e nel modo piú comodo, come su un tiro a quattro,nel dominio che Kant assolutamente precluse alla nostra conoscenza,che è di là da ogni possibile esperienza, dove troviamo poi subitorivelati e sistemati nel migliore dei modi i dogmi fondamentali delcristianesimo moderno ebreizzante e ottimistico. Che cosa mai puòimportare la mia spregiudicata filosofia, che non reca profitti, mache muove alla riflessione e al pensiero - per la quale l'unicastella polare verso cui, senza guardar né a destra né a sinistra,sempre volge diritto il suo timone, è la semplice, la nuda, nonrimunerata, priva di amici e spesso perseguitata verità - a quellaalma mater, buona e vantaggiosa filosofia delle Università che,gravata da cento intenzioni eterogenee e mille riguardi, con grancautela avanza in modo incerto, tenendo via via d'occhio il timor diDio, la volontà del ministero, i precetti della chiesa locale, idesideri dell'editore, la clientela degli studenti, la buona amiciziadei colleghi, l'andamento della politica quotidiana, la contingentetendenza del pubblico e chissà quant'altre cose? E che cosa può averpoi in comune con l'assordante alterco scolastico delle cattedre edelle aule - i cui piú intimi moventi sono gli interessi personali -la mia silenziosa e seria ricerca della verità? Piuttosto, queste due

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmaniere di filosofare sono fondamentalmente eterogenee. Né si puòtrovare in me compromesso o facile amicizia: con me trova il suoconto solo colui che è sinceramente in cerca della verità; e quindinessuno dei partiti filosofici del momento, giacché ciascuno di essimira soltanto ai propri fini, mentre io non ho da offrire checoncezioni disinteressate le quali non convengono a nessuno di essi,in quanto esse sono state fornite prescindendo da ogni finalità delgenere. Altri tempi dovrebbero sorgere invero, prima che la miafilosofia possa giungere a una cattedra: sarebbe davvero bella chequesta mia filosofia, dalla quale non si può trarre guadagno,raggiungesse l'aria e la luce, e persino una universaleconsiderazione! Questo bisognava impedire, e tutti dovevano farfronte unico contro di essa come un sol uomo. Ma non si può avere uneguale buon gioco nel combattere e nel discutere; quest'ultimo mezzogià per ciò è pericoloso, per il fatto che attira l'attenzione delpubblico sulla cosa cosí che la lettura dei miei scritti potrebbetoglier ad esso il gusto di leggere le fumisterie dei filosofi diprofessione. Chi ha assaporato un pensiero originale e serio non sapiú gustare un pensiero da burla, e per giunta noioso. Ed è proprioper questo che il sistema del silenzio, contro di me cosíunanimemente adottato, è l'unico giusto, quello in cui io consigliodi rimanere e di perseverare, finché è possibile: ossia fino a quandoun tal genere d'ostentazione non sia attribuito a ignoranza, chéallora ci sarà sempre ancor tempo di cambiare rotta. Nel frattempociascuno potrà a piacer suo strapparmi qua e là qualche piccola piumaper adornarsene al bisogno, dato che la mente di costoro non fa certospicco per esuberanza di pensieri. Cosí il sistema dell'ignorare edel tacere può andare avanti ancora per un pezzo, almeno per il brevetempo che mi resta ormai da vivere: e sarà già tanto di guadagnato.Se anche nel frattempo qualche timida voce indiscreta si è fatta quae là sentire, essa viene subito soffocata dalla sonora eloquenza deicattedratici, tanto abili nell'intrattenere il pubblico, congrand'arie di importanza, di tutt'altre cose. Ripeto quindi il mioconsiglio di mantenersi unanimemente ancor piú rigorosamente coerentia questo modo d'agire, sorvegliando soprattutto i giovani, essendoessi talvolta quanto mai indiscreti. Anche cosí, non posso tuttaviagarantire che un tal lodevole contegno possa durare a lungo, nérispondere del suo esito finale. Del resto, è certo una curiosafaccenda quella del governo su un pubblico che pure, nel complesso,si mostra buono e docile. Se anche abbiamo visto in ogni tempo starquasi sempre a galla i Gorgia e gli Ippia e dominare incontrastatol'assurdo, e ci sembra impossibile che la voce di un singolo possaemergere sul coro dei raggiratori e dei raggirati, ci accorgiamoaltresì come resti pur sempre alle opere sincere una speciale,segreta, lenta e poderosa capacità d'azione, in virtú della qualeesse si vedono infine quasi per miracolo levarsi sul trambustogenerale: come un aerostato che dalla sfera dei densi vapori diquesto spazio terrestre si innalza in regioni piú alte, dove, unavolta giunto, rimane quieto e donde nessuno piú riuscirà arimuoverlo.Scritto in Francoforte sul Meno, febbraio 1844

NOTE:(1) La filosofia hegeliana.(2) Fichte e Schelling.(3) Hegel.

Prefazione dell'autorealla terza edizioneLa verità e l'originalità troverebbero piú facilmente posto nelmondo se per di piú coloro che non sono in grado di produrle noncospirassero di comune accordo per non farle venire alla luce. Unacircostanza del genere ha già contrastato e ritardato, quando non haaddirittura soffocato, molte iniziative che eran destinate alvantaggio dell'umanità. Per quel che mi riguarda, io sono statocostretto, sebbene avessi appena trent'anni quando apparve la primaedizione di questa opera, a vederne la presente ristampa, che è laterza, non prima d'aver raggiunto il settantesimo compleanno. Di

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txttutto questo trovo però conforto nelle parole di Petrarca: Si quis,tota die currens, pervenit ad vesperam, satis est (De vera sapientia,pag' 140). Anch'io son giunto alla fine, e ho la soddisfazione divedere al termine delle mie fatiche il principio della mia azione,fiducioso altresí che questa, come afferma un antico detto, sia tantopiú a lungo durevole quanto piú tardi è cominciata.Il lettore non troverà nella presente terza edizione nulla in menorispetto al contenuto della seconda, ma ne riceverà anziconsiderevolmente di piú perché il volume, per le aggiunte fattevi, èstato accresciuto di 136 pagine, a parità di stampa.Sette anni dopo la comparsa della seconda edizione ho pubblicato idue volumi dei Parerga e Paralipomena, sotto il cui ultimo nome èindicata la materia che è una vera e propria aggiunta all'esposizionesistematica della mia filosofia, e che avrebbe potuto trovare il suoluogo naturale nei presenti volumi. Ma mi son visto costretto atrovarle un posto dove meglio potevo, dato che non ero certo digiungere a vedere questa terza edizione. La si può trovare nelsecondo volume dei suddetti Parerga, e la si riconoscerà facilmentedalle intestazioni dei capitoli.Francoforte sul Meno, settembre 1859

Libro primo:Il mondo come rappresentazione

Prima considerazione.La rappresentazione sottomessaal principio della ragione:l'oggetto dell'esperienzae della scienzaSors de l'enfance, ami, réveilletoi.JeanJacques RousseauPar' 1. - «Il mondo è una mia rappresentazione»: ecco una veritàvalida per ogni essere vivente e pensante, benché l'uomo possasoltanto venirne a coscienza astratta e riflessa. E quando l'uomo siavenuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato inlui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il solené la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano chesente il contatto d'una terra; egli sa che il mondo circostante nonesiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto inrelazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo.Se c'è una verità che si può affermare a priori, è proprio questa;essa infatti esprime la forma di ogni esperienza possibile edimmaginabile: la quale forma è piú universale di tutte le altre, ecioè del tempo, dello spazio e della causalità, perché tutte questeimplicano già la prima. E mentre ciascuna di tali forme, riconosciuteda noi come altrettante particolari determinazioni del principio diragione, ha valore soltanto per una singola classe dirappresentazioni, la distinzione in oggetto e soggetto è invece laforma comune a tutte le classi, la sola con cui si possa concepireuna rappresentazione di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, purao empirica. Nessuna verità è dunque piú certa, piú assoluta, piúlampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè ilmondo intero, non è altro che l'oggetto in rapporto al soggetto, lapercezione per lo spirito percipiente; in una parola:rappresentazione. Questa legge vale naturalmente sia per il presente,sia per tutto il passato e per tutto l'avvenire; per ciò che è a noilontano come per il vicino; infatti essa vale anche per il tempo eper lo spazio, in cui soltanto ogni cosa può essere percepita. Tuttoquanto il mondo include o può includere è inevitabilmente dipendentedal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo èrappresentazione.Questa verità è tutt'altro che nuova. Era già implicita nelleconsiderazioni degli scettici, donde procede la filosofia diDescartes. Ma Berkeley fu il primo a formularla espressamente;acquistandosi con ciò un merito immortale verso la filosofia, benchéil resto delle sue teorie non meriti di vivere. Il primo torto diKant è di aver trascurato questo principio (come verrà spiegatonell'Appendice). Quanto però questa fondamentale verità fosse

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconosciuta fin dall'antichità piú remota dai saggi dell'India,apparendo infatti come il supremo principio della filosofia Vedantaattribuita a Vyasa, ci attesta l'ultima dissertazione di W' Jones, Onthe Philosophy of the Asiatics; Asiatic Researches, vol' Iv, pag'164: «The fundamental tenet of the Vedanta school consisted not indenying the existence of matter, that is of solidity,impenetrability, and extended figure (to deny which would be lunacy),but in correcting the popular notion of it, and in contending that ithas no essence independent of mental perception; that existence andperceptibility are convertible terms». (1) Queste parole esprimonosufficientemente la coesistenza della realtà empirica e dell'idealitàtrascendentale.In questo primo libro noi studieremo il mondo sotto il solo puntodi vista indicato; cioè soltanto come rappresentazione. Una taleconcezione, nonostante la sua verità, è però unilaterale, e cioèottenuta mediante una astrazione arbitraria. Ne è infatti proval'intima ripugnanza degli uomini ad ammettere (benché il negarlo siaimpossibile) che il mondo non sia che una loro semplicerappresentazione. Ma l'unilateralità di questo punto di vista verràintegrata nel libro seguente con un'altra verità, la quale non ètuttavia cosí immediata come quella donde qui siamo partiti, perchéesige un'investigazione piú profonda, una piú difficile astrazione,una dissociazione del diverso ed una sintesi dell'identico. Veritàgrave: di tal natura, da far molto riflettere, se non tremare,l'uomo, che può e deve enunciarla così: «Il mondo è la mia volontà».Noi dobbiamo per ora, in questo primo libro, considerare il mondosotto uno solo dei suoi aspetti, quello che ci serve da punto dipartenza, e che è la conoscibilità. Dovremo quindi, abbandonando ogniriluttanza, considerare tutti gli oggetti presenti, e persino ilnostro proprio corpo (come sarà meglio spiegato in seguito), soltantocome rappresentazioni, come rappresentazione pura: non useremo perciò diverso nome. La sola cosa da cui qui facciamo astrazione(ciascuno, spero, ne sarà piú tardi convinto) è la volontà che solacostituisce l'altro lato del mondo. Il mondo infatti, da un primopunto di vista, non è che rappresentazione; dall'altro, non è chevolontà. Una realtà che non sia né volontà né rappresentazione, mabensí oggetto in sé (concetto di realtà, in cui è disgraziatamentedegenerata, nelle mani di Kant, la sua cosa in sé), non è cheun'assurda chimera; e l'ammetterla, in filosofia, è un perdersidietro un fuoco fatuo.

Par' 2. - Ciò che tutto conosce, senza esser conosciuto da alcuno,è il soggetto. Il soggetto è dunque il sostegno del mondo, lacondizione universale, sempre sottintesa, di ogni fenomeno, di ognioggetto: infatti tutto ciò che esiste, non esiste che in funzione delsoggetto. E ognuno sente come tal soggetto se stesso; unicamente peròin quanto conosce, non in quanto egli stesso è oggetto di conoscenza.Il nostro stesso corpo è già un oggetto, e perciò noi, sotto un talpunto di vista, lo chiamiamo rappresentazione. Il nostro corpoinfatti è un oggetto fra oggetti, sottoposto alle leggi deglioggetti: soltanto è un oggetto immediato. (2) Al pari di ogni altrooggetto di intuizione, il corpo è sottoposto alle leggi formali delpensiero, lo spazio e il tempo, donde sorge la pluralità. Ma ilsoggetto, il conoscente non conosciuto, non obbedisce a tali forme,ma al contrario ne è sempre sottinteso, in modo tale che non gli sipuò applicare né la pluralità, né l'opposta categoria dell'unità. Manoi non possiamo mai conoscerlo e, dovunque vi sia conoscenza,l'elemento conoscente è sempre il soggetto.Il mondo come rappresentazione, cioè sotto l'unico punto di vistada cui ora lo consideriamo, ha due metà essenziali, necessarie edinseparabili. La prima è l'oggetto, le cui forme sono lo spazio, iltempo, mediante i quali, come si è detto, si ha la pluralità. Laseconda metà, il soggetto, sfugge però alla legge del tempo e dellospazio, poiché esiste intera e indivisa in ogni essere capace dirappresentazione; quindi anche uno solo di questi esseri, insieme conl'oggetto, basta a costituire il mondo come rappresentazione con lastessa completezza di milioni d'esseri esistenti; lo svanire invecedi quest'unico soggetto porterebbe con sé lo svanire del mondo come

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione. Le due metà sono dunque inseparabili, anche per ilpensiero; ciascuna delle due, infatti, non ha senso né esistenza senon per mezzo dell'altra e in ordine all'altra, ovvero ciascunaesiste con l'altra e con essa si dilegua. Esse inoltre si limitanotra loro direttamente: il soggetto finisce dove comincia l'oggetto.La reciprocità di questi limiti si mostra con chiarezza nel fatto chele forme essenziali e perciò universali di ogni oggetto, quali iltempo, lo spazio e la causalità, posson venir trovate e completamentericonosciute partendo dal soggetto stesso, facendo astrazione da ognioggetto; e cioè, in linguaggio kantiano, esistono a priori nellanostra coscienza. Fra i meriti di Kant, uno dei piú grandi è questascoperta. A questa io vorrei però aggiungere che il principio diragione è l'espressione generale di tutte quelle forme dell'oggettodelle quali noi siamo consapevoli a priori, e che quindi ogniconoscenza a priori non è altro che il contenuto di tale principio edi tutto ciò che da esso deriva, sicché proprio in tale principio èinclusa tutta la certezza della nostra conoscenza a priori. Nel mioscritto Sul principio di ragione, ho poi minutamente spiegato comeogni possibile oggetto sia sottomesso al suddetto principio, cioècome ogni oggetto sia in relazione necessaria con altri oggetti, dauna parte come determinato, dall'altra come determinante. Ora questalegge è cosí universale che l'intera esistenza di tutti gli oggetti,in quanto semplici oggetti o rappresentazioni, non si riduce ad altroche a questo loro scambievole rapporto, ed è perciò puramenterelativa. Ma di questo parleremo piú per esteso in seguito. Hodimostrato inoltre come questo necessario rapporto, genericamenteespresso dal principio di ragione, si presenti in modo differente aseconda delle classi in cui sono divisi gli oggetti dal punto divista del loro possibile verificarsi: il che è una confermadell'esatta ripartizione di queste classi. Io suppongo sempre, inquest'opera, che tutto quanto ho detto nella mia precedentetrattazione sia conosciuto dal lettore, e ben presente alla suamemoria. Infatti queste idee, se già non le avessi là esposte,dovrebbero qui necessariamente essere ripetute.

Par' 3. - Le rappresentazioni si distinguono fondamentalmente inintuitive ed astratte. Le astratte non costituiscono che una solaclasse, i concetti: patrimonio esclusivo dell'uomo. Questa capacità,che lo distingue da tutti gli animali, fu dai tempi piú remotidesignata con il nome di ragione. (3) Di queste rappresentazioniastratte parleremo espressamente in seguito; per ora ci limiteremoalla rappresentazione intuitiva. Essa comprende tutto il mondovisibile ovvero l'intero complesso dell'esperienza insieme con lecondizioni che la rendono possibile. E', abbiamo già detto, unagrandissima scoperta di Kant l'aver mostrato che tali condizioni,ovvero queste forme dell'esperienza, elementi universali d'ognipercezione e di ogni fenomeno, e cioè il tempo e lo spazio, non solopossono venir pensate in abstracto, ma anche intuite immediatamentein se stesse, facendo astrazione da ogni loro qualsiasi contenuto.Egli ha fatto vedere che tale intuizione non è un fantasma risultanteda ripetizione di esperienze, ma è indipendente dall'esperienza,tanto che questa ne trae le condizioni necessarie d'ogni suopossibile verificarsi: le proprietà del tempo e dello spazio, qualisono rivelate dall'intuizione a priori, valgono come leggi necessariedi ogni esperienza possibile. Questa è la ragione per cui, nella miatrattazione Sul principio di ragione, ho considerato il tempo e lospazio, intuiti nella loro pura forma, cioè priva di ogni contenuto,come una classe di rappresentazioni speciale e di per sé esistente.Ora, qualunque sia l'importanza della scoperta fatta da Kant(dell'aver cioè rilevata la proprietà, che hanno le forme universalidell'intuizione, di poter essere intuite e conosciute secondo le loroleggi, in via diretta e indipendente da ogni esperienza, proprietà sucui poggia l'infallibilità della matematica), c'è ancora un altrocarattere non meno degno di nota, e cioè il principio di ragione.Questo, mentre come legge di causalità e di motivazione determinal'esperienza e, come legge fondamentale di giudizi, determina ilpensiero, ci si presenta qui invece sotto una forma tutta particolarecui io ho dato il nome di principio dell'essere: questo principio

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcostituisce, nel tempo, la successione dei suoi momenti, e nellospazio la situazione posizionale delle sue parti determinantisivicendevolmente all'infinito.Chi, avendo letto la dissertazione che serve da introduzione allapresente opera, abbia chiaramente compreso la piena identità dicontenuto del principio di ragione, nonostante tutta la varietà dellesue forme, riconoscerà quanto importi, per penetrare l'intima essenzadi tale principio, conoscere dapprima la piú semplice delle sue formecome tali: e cioè il tempo. Come nel tempo nessun istante esiste senon a condizione di annientare il precedente che lo ha generato, peressere a sua volta annientato con la stessa rapidità; come il passatoe il futuro, facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto,sono illusori al pari del piú vano dei sogni (il presente non è altroche il limite senza estensione e senza durata che li separa), propriocosí allora riconosceremo lo stesso carattere illusorio anche intutte le altre forme del principio di ragione. E ci accorgeremo chesia lo spazio che il tempo, come tutto ciò che a sua volta esistenello spazio e nel tempo, insomma tutto ciò che trae la propriaesistenza da cause e da motivi, non possiede che un'esistenzarelativa, ovvero esiste solo per mezzo o in funzione di un'altra cosadella stessa natura, e cioè sottoposta alle identiche condizioni. Ilcontenuto essenziale di questo pensiero non è nuovo. E' il punto divista in cui si collocarono: Eraclito, quando costatava con tristezzal'eterno fluire delle cose; Platone, quando abbassava la dignitàdell'oggetto, che sempre diviene, senza mai possedere stabile realtà;Spinoza, quando riduceva le cose a puri accidenti di un'unicasostanza, che sola esiste e permane costante; Kant, quando opponeva,sotto il nome di puro fenomeno, l'oggetto della conoscenza alla cosain sé; infine l'antica saggezza indiana, quando affermava: «E' Maya,il velo dell'illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e faloro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che nonesista, poiché è simile al sogno, allo scintillio della luce solaresulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppuread una corda buttata per terra ch'egli prende per un serpente».(Queste similitudini si trovan ripetute in innumerevoli passi deiVeda e dei Purana.) Ma tali idee di tutti questi filosofi altro nonsono che quello intorno a cui noi ora andiamo discutendo: il mondocome rappresentazione, sottomesso al principio di ragione.

Par' 4. - Chi ha chiaramente compreso la forma in cui il principiodi ragione si manifesta nel tempo puro, cioè considerato a sé stante(sulla quale forma si basa ogni numerazione ed ogni calcolo), ha conciò anche penetrato per intero l'intima essenza del tempo. Il tempo,infatti, non è altro che questa forma del principio di ragione, e nonpossiede altra proprietà. Dato poi che la successione è la forma delprincipio di ragione nel tempo, la successione sarà l'intima essenzatotale del tempo. Chi, inoltre, ha ben compreso la forma in cui ilprincipio di ragione si manifesta nello spazio puro, ha con ciò anchepenetrato l'intima essenza dello spazio: lo spazio, infatti, non èaltro che la possibilità di reciprocamente determinare quellasituazione delle sue parti che prende il nome di posizione. Lo studiominuto delle varie posizioni e la traduzione dei risultati cosìottenuti in formule astratte che ne facilitino l'uso, costituiscel'oggetto della geometria. Infine, chi ha ben penetrato la formaspeciale del principio di ragione che regge il contenuto delle formeprecedenti, tempo e spazio, e la loro percettibilità, cioè lamateria, e quindi la legge di causalità, ha con ciò stesso coltol'essenza della materia come tale, non essendo la materia che meracausalità: verità, questa, di cui ognuno si rende immediatamenteconto.L'essenza della materia è infatti la sua attività, il suo divenire:e neppure è pensabile possa competerle altra essenza al di fuori diquesta. Soltanto con l'azione la materia riempie lo spazio e iltempo. La sua azione sull'oggetto immediato (esso stesso materiale) ècondizione indispensabile della percezione, senza la quale non puòesistere la materia; l'azione poi di un qualsiasi oggetto materialesu di un altro può esser conosciuta solo in quanto quest'ultimoagisce a sua volta sull'oggetto immediato in maniera diversa da

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprima: e tale azione consiste solo in ciò. Causa ed effetto: eccodunque tutta l'essenza della materia: il suo essere consisteunicamente nel suo agire. (Per maggiori particolari vedi ladissertazione Sul principio di ragione, par' 21, pag' 77.)Meravigliosa è dunque la precisione del termine Wirklichkeit(derivato da wirken, agire) con cui i tedeschi designano l'insiemedelle cose materiali: (4) termine ben piú preciso che non quello direaltà. Ciò su cui la materia agisce è ancora e sempre materia: lasua intima essenza consiste dunque unicamente nella regolaremodificazione che una parte di essa produce sull'altra; un'essenza,quindi, del tutto relativa, e di una relatività non valida che neilimiti del mondo materiale, proprio come il tempo e lo spazio.Lo spazio e il tempo possono però essere intuitivamente conosciuti,ciascuno per sé e indipendentemente dalla materia, ma questa non puòvenire percepita senza spazio e tempo. La forma, che è inseparabiledalla materia, presuppone già lo spazio; e d'altra parte l'attività,in cui unicamente consiste l'essenza della materia, implica sempreuna variazione, ovvero una determinazione, del tempo. Ma la materianon presuppone lo spazio e il tempo separatamente presi; la suaessenza è costituita dall'unione d'entrambe poiché tale essenza, comeabbiamo già visto, consiste nell'attività e nella causalità. Infattitutti gl'innumerevoli fenomeni e stati concepibili potrebbero, senzanuocersi reciprocamente, coesistere (senza succedersi) nello spazioinfinito; o similmente succedersi (senza coesistere) nel tempoinfinito. In tal caso una relazione di necessaria dipendenza fra ifenomeni, ed una legge che li determinasse in conformità di questarelazione, non soltanto sarebbero inutili, ma anche inapplicabili.Così, né tale coesistenza nello spazio, né tale cambiamento nel tempo(finché ciascuna delle due forme si mantiene e si svolge per proprioconto senza alcuna connessione con l'altra), sono capaci di produrrela causalità: e siccome la causalità costituisce l'essenza propriadella materia, non sussistendo nelle suddette condizioni la prima,non si avrebbe neppure materia. Affinché la legge di causalitàconservi la sua necessità e il suo significato, bisogna che ilcambiamento non si riduca ad una semplice trasformazione di statipresi ciascuno in se stesso; ma che, in un medesimo punto dellospazio, ora si verifichi uno stato, poi un altro; e che, in unistante determinato del tempo, un fenomeno si verifichi qui, l'altrolà; soltanto questa reciproca limitazione fra il tempo e lo spaziopuò dar senso e valore di necessità ad una legge che regoli ilcambiamento. Ciò che la legge di causalità determina non è dunque lasemplice successione degli stati nel tempo puro, ma nel temporelativo ad uno spazio dato; e parimenti tale legge determina nonl'esistenza dei fenomeni in uno spazio puro, ma in uno spaziorelativo ad un determinato istante. Il cambiamento, cioè latrasformazione che sopravviene secondo la legge causale, esige dunquein ogni caso che una data parte dello spazio sia in corrispondenzasimultanea con una data parte del tempo. La causalità collega quindilo spazio con il tempo. Ora noi abbiamo trovato che tutta l'essenzadella materia consiste nell'azione e quindi nella causalità; pertantospazio e tempo devono esser riuniti nella materia, la quale deve cioèconciliare simultaneamente in sé, nonostante il loro antagonismo, leproprietà del tempo e dello spazio, e riunire, cosa che è impossibilein ciascuna delle due forme isolata dall'altra, l'inconsistente fugadel tempo insieme con la rigida e immutabile persistenza dellospazio: la divisibilità infinita le è data dall'unione di entrambigli elementi. In primo luogo noi vediamo quindi il prodursi nellamateria della simultaneità, che non poteva sussistere né nel tempopuro, il quale non ammette giustapposizioni, né nel puro spazio, chenon conosce alcun innanzi, dopo e ora. Ma la vera essenza dellarealtà è precisamente la simultaneità di parecchi stati, che solarende possibile la durata: questa infatti non è concepibile che nelcontrasto fra il cangiante e il permanente, come allo stesso modo alperdurare d'un dato permanente in una variazione si deve il caratteredel cambiamento, cioè della modificazione di qualità e di forma nelpermanere della sostanza o materia. (5) Entro lo spazio puro il mondosarebbe rigido ed immobile; nessuna successione, nessun cambiamento,nessuna attività; ma con l'attività resterebbe soppressa anche la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione della materia. Parimenti, nel tempo puro tuttosarebbe transeunte; non piú permanenza, non piú giustapposizione, nonpiú simultaneità, quindi non piú durata: e, anche in questo caso, nonpiú materia. Soltanto la combinazione dello spazio e del tempo dàvita alla materia, ossia alla possibilità dell'esistenza simultanea;sorge cosí la durata, che a sua volta rende possibile la permanenzadella sostanza nel cambiamento degli stati. (6) La materia, traendola sua essenza dal tempo e dallo spazio, conserva sempre la loroduplice impronta. La sua origine dallo spazio è in parte attestatadalla forma, che ne è inseparabile, ma soprattutto dalla permanenza(sostanzialità), la cui certezza a priori è perciò del tutto fondatasullo spazio (7) (infatti il cambiamento non appartiene che al tempo,e nel tempo puro e considerato a sé stante non c'è nulla di stabile).Essa manifesta poi la propria origine dal tempo attraverso la qualità(l'accidente), senza cui la materia non potrebbe manifestarsi; equesta qualità non è altro che la causalità, l'azione esercitata sudi un'altra materia, ovvero il cambiamento (che è un concettorelativo al tempo). Una tale azione non è tuttavia legittima, e nonha punto significato, se non è sempre in simultanea relazione con lospazio e con il tempo. Determinare lo stato che deve prodursi in undato luogo e in un dato tempo: ecco a che cosa si riduce lagiurisdizione della legge di causalità. A tale derivazione deicaratteri fondamentali della materia dalle forme a priori dellanostra conoscenza, dobbiamo appunto l'attribuzione a priori allamateria di alcune proprietà, quali ad esempio il riempire lo spazio,e cioè l'impenetrabilità o l'attività: poi l'estensione, ladivisibilità infinita, la permanenza che equivaleall'indistruttibilità; ed infine la mobilità; la gravità, a partetalune eccezioni, deve ricondursi alla conoscenza a posteriori,quantunque Kant nei suoi Princìpi metafisici della fisica, pag' 71(ed' Rosenkranz, pag' 372), la ponga fra i caratteri conoscibili apriori.Come in genere l'oggetto non esiste che per il soggetto, quale suarappresentazione, cosí ogni singola classe di rappresentazioni siriferisce ad una funzione determinata del soggetto, che si chiamafacoltà conoscitiva. Il correlato soggettivo del tempo e dello spazioin sé, considerati cioè come pure forme, venne chiamato da Kantsensibilità pura; tale denominazione può essere conservata, in onoredi chi apriva questa via nuova al problema gnoseologico: pure non èdel tutto esatta, poiché sensibilità presuppone già materia. Ilcorrelato soggettivo della materia o della causalità (i due concettisono equivalenti) è l'intelletto, il quale non è nulla di più.Conoscere la causalità: ecco l'unica sua funzione, la sua unicapotenza; ma questa potenza è grande: abbraccia un vasto orizzonte edha innumerevoli applicazioni, quantunque non si possa disconoscerel'identità fondamentale di tutte le sue estrinsecazioni. Viceversaogni causalità, ogni materia, e quindi l'intera realtà, non esisteche per l'intelletto, in virtú dell'intelletto, e nell'intelletto. Laprima, la piú semplice, la continua funzione dell'intelletto, èl'intuizione del mondo reale, la quale consiste unicamente nelconoscere la causa dall'effetto: quindi ogni intuizione èintellettuale. Ad una tale intuizione noi mai però potremmopervenire, se non avessimo la conoscenza di un'azione immediata comepunto di partenza. Tale è l'azione sui corpi animati: oggettiimmediati del soggetto, son questi gl'intermediari dell'intuizione diogni altro oggetto. Le modificazioni che ogni corpo animato subiscesono immediatamente conosciute, cioè sentite, e non appena questoeffetto viene riferito alla sua causa, ha origine l'intuizione diquest'ultima come oggetto. Quest'opera di riferimento non è unaconclusione dedotta da concetti astratti; non avviene mediante unprocesso di riflessione né per arbitrio, ma è un fatto immediato,necessario, sicuro. E' l'atto conoscitivo dell'intelletto puro, attosenza il quale non ci sarebbe mai un'intuizione, ma solo unacoscienza ottusa e vegetativa delle modificazioni dell'oggettoimmediato, le quali si succederebbero senza avere un significato,tranne forse un senso di piacere o di dolore per la volontà. Ma comel'apparire del sole scopre il mondo visibile, cosí l'intelletto, conla fulmineità di un atto semplice ed unico, trasforma in intuizione

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtla vaga ed insignificante sensazione. Ciò che riusciamo ad avvertiremediante l'occhio, l'orecchio, la mano, non è intuizione, ma un suosemplice dato. Solo dopo che l'intelletto risale dall'effetto allacausa, può apparire il mondo esteso come intuizione nello spazio,mutevole secondo la forma, permanente ed eterno in quanto materia;poiché l'intelletto combina lo spazio e il tempo nellarappresentazione di materia, equivalente di attività. Il mondo qualerappresentazione esiste soltanto mediante l'intelletto, e non esisteche per l'intelletto. Nel primo capitolo della mia dissertazione suLa visione e i colori ho già spiegato come dai dati che offrono isensi l'intelletto si crei l'intuizione; come il fanciullo,comparando le impressioni di un identico oggetto sui diversi sensi,si elevi all'intuizione, ed ho anche mostrato come solo in tal modosi può spiegare una gran quantità di fenomeni sensibili, come adesempio la visione unica con due occhi, la visione doppia nellostrabismo o nel caso in cui l'occhio veda simultaneamente parecchioggetti situati l'un dietro l'altro a disuguale distanza, e cosí ognialtra illusione prodotta da subitaneo cambiamento negli organi deisensi. Ma nella seconda edizione del mio scritto Sul principio diragione (par' 21), ho trattato ben piú a lungo intorno a questoimportante argomento. Quanto ho là detto, dovrebbe naturalmente quitrovar posto, e bene sarebbe riportarlo: ma a ripetere me stessoavverto l'identica ripugnanza che provo nel copiare gli altri,d'altronde non saprei far meglio di quanto ho fatto nel suddetto mioscritto cui, senza inutili ripetizioni, io rimando il lettore,supponendo già egli sia al corrente della questione.L'apprendimento della visione da parte dei bambini e da parte dicoloro che, nati ciechi, siano stati operati, la visione unica di ciòche vien peraltro percepito in maniera doppia con i due occhi; laduplice vista o la duplice sensibilità tattile nello spostamentodegli organi sensori dalla loro posizione abituale, il raddrizzamentovisivo degli oggetti di cui invece l'immagine si imprime capovoltanel fondo di ciascun occhio; l'attribuzione agli oggetti del colore,il quale è soltanto una pura funzione interna, un'attivitàdifferenziata dell'occhio stesso; e infine la stereoscopia: eccotante salde ed irrefutabili prove per dimostrare che l'intuizione nonè puramente sensibile, bensí intellettiva, ossia conoscenzaintellettiva della causa partendo dall'effetto, e presuppone quindila legge di causalità. Questa legge rende possibile ogni intuizione,e quindi ogni esperienza, nella sua totale ed originaria possibilità:e non è viceversa vero che l'apprendimento della causalità possatrarsi dall'esperienza, ché in tal caso si cadrebbe nello scetticismodi Hume, i cui princípi vengono per la prima volta confutati daquesta mia dimostrazione. Infatti per provare l'indipendenza dellanozione di causalità dall'esperienza, e cioè la sua natura a priori,non c'è che un solo mezzo: mostrare che l'esperienza è proprio quellache ne dipende. Per arrivare a questo non si può peraltro procedereche nel modo qui solo accennato, ma largamente esposto negli scrittidianzi citati, dimostrando cioè come la nozione di causalità sia giàdi per sé universalmente implicita nell'intuizione, nel cui dominiosta tutta l'esperienza. Donde appunto risulta che la legge causale èdel tutto a priori rispetto all'esperienza stessa da cui èpresupposta come condizione, e non la presuppone. Tutto questo nonpuò invece esser dimostrato con gli argomenti di Kant, da me giàcriticati nella dissertazione Sul principio di ragione (par' 23).

Par' 5. - Sarebbe però errore gravissimo dedurre una relazione dicausa ed effetto fra l'oggetto e il soggetto dal fatto chel'intuizione si realizza per mezzo della nozione di causalità; talerelazione, al contrario, ha infatti sempre ed unicamente luogo traoggetto immediato e oggetto mediato, e quindi fra oggetti. Taleipotesi (che tra oggetto e soggetto intercorra cioè una relazionecausale) diede origine all'assurda controversia intorno alla realtàdel mondo esteriore; controversia, in cui dogmatismo e scetticismosono alle prese; il primo affacciandosi ora come realismo, ora comeidealismo. Il realismo pone l'oggetto come causa e il soggetto comesuo effetto. L'idealismo di Fichte fa dell'oggetto un effetto delsoggetto. Siccome però fra soggetto ed oggetto non intercorre (come

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtormai dovremmo esserci piú che persuasi) alcuna relazione fondata sulprincipio di ragione, nessuna delle due suddette posizioni si è maipotuta provare, e contro entrambe si impose con vittoriosi assalti loscetticismo. Infatti, come la legge di causalità precede, essendonecondizione, l'intuizione e l'esperienza, e non può quindi (comepretendeva Hume) esserne dedotta, cosí il soggetto e l'oggettoprecedono come prima condizione ogni conoscenza, e quindi anche ilprincipio di ragione in generale, il quale non è che la forma di ognioggetto e la modalità costante del suo apparire ovvero del suofenomeno; ma l'oggetto di per sé presuppone sempre il soggetto, e frai due non può quindi esistere alcuna relazione di causa ed effetto.Il mio scritto Sul principio di ragione ha precisamente il fine diprovare che il contenuto di tale principio non è altro che la formaessenziale d'ogni oggetto, cioè il modo universale d'ogni oggettivaesistenza come qualcosa di tipicamente proprio all'oggetto in quantotale; ma l'oggetto, in quanto tale, presuppone sempre il soggettocome necessario correlato: sicché il soggetto rimane sempre fuori deldominio in cui ha validità il principio di ragione. La disputaintorno alla realtà del mondo esteriore è nata precisamentedall'erronea estensione della validità del principio di ragione ancheal soggetto: malinteso che impediva persino di comprendere il verotema della discussione. Da un lato il dogmatismo realistico,considerando la rappresentazione come effetto dell'oggetto, pretendedi separare ciò che è uno, cioè la rappresentazione e l'oggetto, edammettere una causa radicalmente distinta dalla rappresentazione,ovvero un oggetto in sé, indipendente dal soggetto. Cosa del tuttoinconcepibile, perché questo oggetto (supposto in sé), presuppone,come oggetto il soggetto, e rimane sempre soltanto una suarappresentazione. Dall'altro lato lo scetticismo, partendo dallastessa falsa ipotesi, oppone al dogmatismo realistico che nellarappresentazione si ha sempre unicamente l'effetto, mai la causa,donde l'impossibilità di conoscere l'essenza degli oggetti, masoltanto la loro azione. L'azione potrebbe poi forse non possedereanalogia alcuna con l'essenza; anzi ammettere tale analogia sarebbeassurdo, dato che la legge di causalità deriva unicamentedall'esperienza, la cui realtà si vorrebbe al contrario far derivareda tale legge. Alle due suddette opposte dottrine si può rispondere,in primo luogo, che oggetto e rappresentazione sono la stessa cosa;poi, che l'essenza degli oggetti intuibili non è altro che la loroazione, nella quale consiste appunto la loro realtà; e che è assurdoe contraddittorio pretendere di trovare l'esistenza dell'oggettofuori della rappresentazione del soggetto, e l'essenza della cosareale fuori della sua stessa azione: infatti la conoscenza del mododi agire di un oggetto d'intuizione, esaurisce l'idea di questooggetto in quanto tale, cioè in quanto rappresentazione, poichéall'infuori di questa non resta nell'oggetto alcunché di conoscibile.In questo senso dunque, il mondo percepito nel tempo e nello spazio eche si manifesta come pura causalità, è perfettamente reale, ed èproprio quello che ci si presenta: ovvero è rappresentazione regolatadalla legge di causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altrolato la causalità non esiste se non nell'intelletto e perl'intelletto: quindi il mondo reale, cioè attivo, è sempre, cometale, condizionato dall'intelletto. Ma c'è un'altra ragione, oltre aquesta, per cui contestiamo ai dogmatici, che spiegano la realtà delmondo esteriore con la sua indipendenza dal soggetto, la possibilitàdi una realtà siffatta: è infatti impossibile pensare senzacontraddizione un oggetto senza un soggetto. Tutto il mondo materialeè e resta rappresentazione, e quindi rimane sempre sotto lacondizione assoluta del soggetto, ovvero possiede una sua idealitàtrascendentale. Da ciò non si può peraltro concludere che il mondosia menzogna o illusione: esso si manifesta per quel che è, ovverocome una rappresentazione, o meglio come una serie dirappresentazioni aventi a legame comune il principio di ragione. Cometale esso è intelligibile, fin nel senso piú profondo, ad ogni sanointelletto, e gli parla un linguaggio perfettamente chiaro. Soltantoad una mente rovinata da sofismi può venire l'idea di contestare lasua realtà; il che è sempre dovuto ad una falsa applicazione delprincipio di ragione, il quale, pur collegando tra loro tutte le

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazioni di qualsiasi specie, non le riconnette tuttavia colsoggetto, o con qualcosa che non sia né soggetto né oggetto masemplice fondamento dell'oggetto (concetto assurdo e insensato,poiché soltanto un oggetto può esser causa, e causa sola di oggetti).Se si ricerca piú da vicino l'origine del problema della realtà delmondo esteriore, vi si ritrova, oltre a questa falsa applicazione delprincipio di ragione a ciò che sfugge al suo dominio, anche unasingolare confusione fra le sue forme: in particolare, quella formache riguarda unicamente i concetti o le rappresentazioni astratte, ètrasportata nel campo delle rappresentazioni intuitive e deglioggetti reali pretendendo altresì un principio di conoscenza daoggetti i quali non ammettono che un principio d'esistenza. Ilprincipio di ragione regola infatti le rappresentazioni astratte e iconcetti da collegare in giudizi in maniera tale che ciascun concettoo rappresentazione possa trarre il suo valore, la sua autorità, lasua esistenza (che qui deve dirsi verità) unicamente dalla relazionestabilita fra il giudizio e qualcosa che ne sta al di fuori, e cioèil suo principio di conoscenza al quale quindi si deve semprerisalire. Gli oggetti reali invece, le rappresentazioni intuitive,ammettono il principio di ragione non come principio di conoscenza,bensì come principio di divenire, come legge di causalità. Legge cuihanno già interamente soddisfatto con il loro semplice divenire, cioècon l'esser prodotti come effetti da una data causa; il principio diconoscenza non ha qui dunque alcun significato o valore, poiché siriferisce a tutt'altra classe di oggetti. Ed è per questo che ilmondo intuitivo, fino a che si resta nei suoi limiti, non muove chilo contempla né al dubbio né allo scrupolo; non c'è qui né errore néverità; che sono entrambi relegati nel dominio dell'astratto e dellariflessione. Qui il mondo si apre al senso e all'intelletto, e simanifesta con ingenua veracità per quello che è, per rappresentazioneintuitiva che si svolge sotto la direzione della legge causale.Il problema intorno alla realtà del mondo esteriore, qualel'abbiamo considerata fin qui, nasceva sempre da un errore, chedeviava la ragione al punto da non lasciarle capire se stessa; e perrisolvere tale problema non c'era quindi altro mezzo se non quello dimetterne in luce il vero contenuto. Un esame accurato dell'essenzadel principio di ragione, della relazione fra oggetto e soggetto, edella vera natura della percezione sensibile, doveva portarenecessariamente alla soppressione del problema, come privo ormaid'ogni significato. Ma oltre alla suddetta origine tutta speculativa,ce n'è ancora un'altra di natura affatto differente, e cioè empirica,sebbene venga poi sempre espressa a scopo speculativo. Sotto questopunto di vista il significato del problema è ben piú comprensibile.Ed è questo: noi abbiamo dei sogni; non potrebbe la vita essere tuttaun sogno? In termini piú precisi: c'è un criterio sicuro perdistinguere il sogno dalla realtà, il fantasma dall'oggetto reale?L'addurre come criterio la minore vivacità e chiarezza del sognorispetto alla percezione reale, non merita alcuna considerazione;nessuno infatti ha potuto fino ad ora mettere a confronto le duecose; il paragone non è possibile se non fra la realtà presente e ilpuro ricordo del sogno. Kant risolve il problema cosí: «Ciò chedistingue la vita dal sogno è la connessione delle rappresentazionifra loro secondo la legge di causalità». Però anche i singolielementi del sogno si connettono secondo il principio di ragione intutte le sue forme, e questa connessione non si rompe che tra la vitae il sogno o tra un sogno e l'altro. Quindi la risposta di Kant nonammette che quest'unica interpretazione: il sogno lungo (la vita) hain sé una connessione costante secondo il principio di ragione, perònon la possiede con i sogni brevi, nonostante ciascuno di essi abbiain sé la stessa connessione: in questo modo è dunque rotto il pontetra i sogni delle due classi, e tale è appunto il carattere che lidistingue. Tuttavia il ricercare secondo tale criterio se una cosa fusogno o realtà, è impresa difficilissima e spesso impossibile; poichénoi non siamo per nulla in grado di ricostruire, anello per anello,la catena causale che riallaccia un fatto della vita passata almomento presente, e non per questo siamo autorizzati a ritenerlo perun sogno. Ecco perché nessuno nella vita reale si serve abitualmentedi questo criterio per distinguere la realtà dal sogno. L'unico

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcriterio sicuro per tale distinzione è quello tutto empirico delrisveglio, il quale rompe in modo effettivo e palpabile laconnessione causale fra gli avvenimenti del sogno e quelli dellaveglia. Una prova meravigliosa in proposito ci è data daun'osservazione di Hobbes nel Leviatano, cap' 2, a riguardo del fattoche noi facilmente confondiamo con la realtà un sogno quando, anostra insaputa, ci siam coricati vestiti; e la cosa è ancor piúfacile quando, per di piú, un progetto o un affare, assorbendo tuttii nostri pensieri, ci travaglia nel sonno al pari che nella veglia.In tali casi il risveglio è insensibile come la venuta del sonno, ecosí il sogno confluisce con la realtà, e ambedue si confondono. Eallora non resta che applicare il criterio di Kant: ma se poi, comespesso avviene, risulta del tutto impossibile costatare la presenza ol'assenza d'un nesso causale col presente, resterà per sempre indubbio se un avvenimento sia sogno o realtà. Ben si vede qui lastretta parentela tra la vita e il sogno: e non ci vergogniamo diconfessarla: tanti spiriti grandi l'hanno riconosciuta e proclamata.I Veda e i Purana non hanno, per la conoscenza del mondo reale, cheessi chiamano «il velo di Maya», una similitudine piú bella e piúfrequente di quella del sogno. Platone afferma sovente che gli uominivivono nel sogno, e che soltanto il filosofo si sforza di tenersidesto. Pindaro dice (Ii, ¶û, 135): «skiâs önar änôrwpos» (umbraesomnium homo), e Sofocle:«§hor# gàr hûmäs oudcn öntas ällo, plèn@ §eïdwl' hösoiper z#*men, èkoüfûn skiän.@»(Ajax, 125)(Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud esse comperio, quamsimulacra et levem umbram.)Ai quali fa degno riscontro Shakespeare:«We are such stuff@ As dreams are made of, and our little life@ Isrounded with a sleep.@»(Temp', a' 4, sc' I) (8)E Calderón era cosí profondamente preso da quest'idea, che vollefarne il soggetto per una specie di dramma metafisico intitolato Lavita è sogno.Dopo tante citazioni poetiche, sia permessa anche a me un'immagine.La vita e i sogni son pagine d'uno stesso libro. La lettura seguíta èla vita reale. Ma quando l'ora abituale della lettura (il giorno) ètrascorsa, ed arriva il momento del riposo, noi continuiamo spesso asfogliare oziosamente il libro, aprendo a caso questa pagina oquella, senz'ordine e senza séguito, imbattendoci ora in una paginagià letta, ora in una nuova; ma il libro che leggiamo è sempre ilmedesimo. La singola pagina isolata, pur priva di connessione conl'ordinata lettura dell'intera opera, non ne differisce tuttavia granche, quando si pensa che comincia e finisce all'improvviso anche lalettura regolare, e può quindi ritenersi come una pagina unica,sebbene un po' piú lunga.I sogni si distinguono dunque dalla vita reale in quanto nonrientrano nella continuità dell'esperienza che ininterrottamente vicircola: e tale differenza è ben indicata dal risveglio. Ma se questaconnessione dell'esperienza appartiene già, come sua forma, alla vitareale, anche il sogno possiede la sua connessione. Se per giudicarele cose noi ci poniamo in un punto di vista estraneo e alla vita e alsogno, nella loro essenza noi non riusciamo a trovare un caratteredistintivo netto, e allora dobbiamo concedere ai poeti che la vitanon è che un lungo sogno.Abbandonando ora l'esame di quest'origine empirica del problemadella realtà del mondo esteriore (cosa che sta del tutto a sé),torniamo alla sua origine speculativa. Abbiamo già visto come taleorigine si fondi su due motivi essenziali, dei quali il primoconsiste in una falsa applicazione del principio di ragione, estesosino a porre una relazione tra soggetto e oggetto; mentre il secondonasce dalla confusione che si faceva nelle sue forme, trasportandocioè - come legge di conoscenza - il principio di ragione in unsettore dove esso è solo valido come legge del divenire. Tuttaviaquesto problema, se davvero fosse completamente privo di significato,non avrebbe certo cosí facilmente e cosí a lungo tormentato ifilosofi: esso infatti nasconde nelle sue profondità un pensiero ed

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtun senso piú giusti di quanto non lasci supporre la sua origine piúimmediata: pensiero, che poi, quando entrò nella fase riflessiva ecercò una espressione tecnica, si smarrí in formule assurde e inquestioni prive d'ogni significato. Ecco, a mio parere, come sonoandate le cose, ed ecco, a mio parere, la formula vera, esprimentecon esattezza il senso profondo, fin ora non saputo cogliere, delproblema. Che cos'altro è, questo mondo dell'intuizione, oltre ad unamia rappresentazione? Questo mondo non concepito da me se non comerappresentazione, non potrebbe essere simile al mio corpo che sirivela alla coscienza in duplice forma, cioè come rappresentazione ecome volontà? La soluzione chiara ed affermativa del problema saràmateria del secondo libro, e le relative conclusioni occuperanno ilresto dell'opera.

Par' 6. - Per il momento noi tratteremo in questo primo librol'universo come pura rappresentazione, come oggetto per il soggetto;e al pari di ogni altro oggetto reale, considereremo anche il nostrocorpo, unico nostro mezzo per l'intuizione del mondo, soltanto dalpunto di vista della conoscibilità, rispetto alla quale non è cherappresentazione. In verità la coscienza dell'uomo, che giàprotestava contro la riduzione degli altri oggetti a purerappresentazioni, sentirà una ripugnanza ancora maggiore nel doverridurre il proprio corpo ad una rappresentazione; il che deriva dalfatto che la cosa in sé, finché si manifesta all'uomo come il suoproprio corpo, è conosciuta immediatamente; mentre al contrario, inquanto si oggettiva nelle cose esterne, non se ne ha che unaconoscenza mediata. Ma il metodo delle nostre ricerche esige questaastrazione, questo esame unilaterale, e questa separazione violentadi ciò che è essenzialmente unito; bisogna dunque vincere per ilmomento questa ripugnanza, e calmarla nell'attesa fiduciosa che leriflessioni ulteriori colmeranno l'unilateralità della presente, e cidaranno una conoscenza integrale dell'essenza del mondo.Il corpo dunque viene qui considerato come oggetto immediato, cioècome la rappresentazione che serve al soggetto da punto di partenzaper il conoscere: cioè come quella rappresentazione che precede, conle sue modificazioni immediatamente percepite, l'applicazione dellalegge di causalità, e le fornisce cosí i primi dati. Tutta l'essenzadella materia consiste, come abbiamo dianzi dimostrato, nella suaattività. Ora non esiste né effetto né causa se non per l'intelletto,che è il loro correlato soggettivo. Tuttavia l'intelletto maiapplicherebbe la sua attività, se non trovasse in qualcos'altro unpunto di partenza. Questa cosa è la sensibilità, cioè l'immediatacoscienza delle variazioni che si producono nel nostro corpo, e nefanno un oggetto immediato. La possibilità di conoscenza del mondoesteriore esige quindi due condizioni: la prima, espressa in manieraoggettiva, è la facoltà che hanno i corpi di agire gli uni suglialtri, e di modificarsi reciprocamente: senza questa proprietàgenerale dei corpi, anche mediante l'intervento della sensibilitàanimale, non sarebbe possibile alcuna intuizione. Questa primacondizione si può altresí esprimere in maniera soggettiva dicendo chel'intelletto è la possibilità prima di ogni intuizione; soltanto daquello infatti procede, soltanto per quello ha valore la legge dicausalità, la possibilità dell'effetto e della causa; soltanto inquello e per quello dunque il mondo percepibile ha un'esistenza. Laseconda condizione è la sensibilità dei corpi animali, o la proprietàche hanno certi corpi di essere oggetti immediati del soggetto. Lesemplici modificazioni provate dagli organi dei sensi in virtù dellerispettive impressioni specifiche esterne, posson già essere chiamaterappresentazioni, in quanto l'impressione non produce né dolore népiacere, non ha cioè un significato diretto per la volontà, e vienetuttavia percepita: e quindi non esiste che per la conoscenza. E taleè il senso in cui dico che il corpo è conosciuto immediatamente, cioèè oggetto immediato. Tuttavia non bisogna qui prendere la parolaoggetto nella sua piú stretta accezione; poiché questa conoscenzaimmediata del corpo, anteriore ad ogni attività dell'intelletto, nonè che una pura sensazione, e quindi non ci fa ancora percepire comeoggetto il corpo in se stesso, ma soltanto i corpi che agiscono su diesso; infatti ogni conoscenza d'un oggetto propriamente detto, cioè

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi una rappresentazione percettibile nello spazio, non esiste chenell'intelletto e per l'intelletto, e quindi ben lungi dalprecederlo, deve necessariamente seguire la sua estrinsecazione. Cosìil nostro corpo come oggetto vero e proprio, cioè comerappresentazione intuitiva nello spazio, non vien conosciuto, al paridi ogni altro oggetto, se non mediatamente, cioè con l'applicazionedella legge di causalità agli effetti reciproci delle sue singoleparti, come ad esempio quando l'occhio vede il corpo e la mano lotocca. Per conseguenza la forma del nostro corpo non ci è puntorivelata dalla semplice sensibilità generale, ma soltanto in virtùdella conoscenza, soltanto nella rappresentazione, soltanto nelcervello il nostro corpo appare come qualcosa di esteso, diarticolato, di organico; colui che nasce cieco non acquista talerappresentazione che a poco a poco, mediante i dati della sensazionetattile; un cieco che non avesse mani non potrebbe mai conoscere laforma del suo corpo; tutt'al piú arriverebbe a dedurla e costruirla apoco a poco, in seguito all'azione degli altri corpi sul suo. Quandodunque chiamiamo il corpo oggetto immediato, non bisognaassolutamente dimenticare questa restrizione.Del resto risulta da quanto si è detto che tutti i corpi animatisono oggetti immediati, sono cioè i punti di partenza perl'intuizione del mondo da parte del soggetto che tutto conosce e chenon è perciò da nulla conosciuto. In conseguenza il conoscere e ilmuoversi in virtú di motivi tratti dalla conoscenza costituiscono ilcarattere proprio dell'animalità, come il muoversi dietro eccitazionidà il carattere della pianta; nel regno dell'inorganico non c'è altromovimento che quello prodotto dalle cause propriamente dette,nell'accezione piú ristretta della parola: tutto ciò fu espostominutamente nella mia dissertazione Sul principio di ragione, Iiediz', par' 20, nell'Etica, 1a dissertaz', Iii, e ne La visione e icolori, par' 1. Io rimando il lettore a queste opere.Risulta cosí che tutti gli animali, anche i piú imperfetti, sonodotati d'intelletto, poiché tutti conoscono oggetti, e questaconoscenza è il motivo determinante dei loro movimenti. L'intellettoè in tutti gli animali e in tutti gli uomini il medesimo, e conservaovunque la medesima essenza semplice: conoscenza della causalità,passaggio dall'effetto alla causa e dalla causa all'effetto, e nullapiú. Ma i gradi della sua acutezza e l'estensione della sua sfera diconoscenza sono estremamente diversi, svariati e multipli: nel gradoinferiore non si conosce che la relazione di causalità fra l'oggettoimmediato e l'oggetto mediato, il che basta per risaliredall'impressione subita dal corpo alla sua causa, e percepire questacome oggetto nello spazio; nei gradi superiori si arriva allaconoscenza della connessione causale fra gli oggetti puramentemediati; e questa conoscenza può elevarsi sino a penetrare leconcatenazioni piú complessive di causa ed effetto nella natura.Poiché anche l'ultimo tipo di conoscenza appartiene all'intelletto enon alla ragione, i cui concetti astratti servono soltanto araccogliere, fissare e connettere le conoscenze immediatedell'intelletto, ma non mai a produrre la comprensione propriamentedetta. Ogni forza o legge di natura, ogni fenomeno in cui esse simanifestino, prima di potersi presentare in abstracto alla ragionenella coscienza riflessa debbon esser percepiti in maniera diretta eintuitiva dell'intelletto. Concezione immediata, intuitivadell'intelletto fu la scoperta della legge di gravitazione dovuta aR' Hookes: scoperta la quale permette, come hanno poi confermato icalcoli di Newton, di ricondurre tanti e cosí grandi fenomeni adun'unica legge. Altrettanto dicasi della scoperta, dovuta aLavoisier, dell'ossigeno e della sua importante funzione in natura;cosí di quella di Goethe sul modo della produzione dei colorinaturali. Tutte queste scoperte non sono altro che un passaggiodiretto e divinatorio dall'effetto alla causa, operazione che hasubito condotto a riconoscere l'identità delle forze fisiche agentiin tutte le cause della stessa specie; tutta questa scienza non è cheuna estrinsecazione, differente solo per grado, di quell'identica edunica funzione dell'intelletto, per cui anche l'animale percepiscecome oggetto nello spazio la causa operante sul suo corpo. Cosí tuttele grandi scoperte, al pari dell'intuizione e di ogni altra

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtestrinsecazione dell'intelletto, sono una penetrazione immediata, ecome tali, opera di un momento, un aperçu, un'idea, e non il prodottodi una lunga catena di ragionamenti in abstracto. Questi ultimi, alcontrario, non servono che a fissare per la ragione le conoscenzeimmediate dell'intelletto, formulandole in concetti astratti: inaltre parole, a renderle chiare, cosí da poterle esprimere e spiegareagli altri. Questa attitudine dell'intelletto ad afferrare i rapporticausali tra gli oggetti mediatamente conosciuti trova la suaapplicazione non soltanto nella scienza della natura (che le devetutte le sue scoperte), ma anche nella vita pratica, dove prende ilnome di prudenza, mentre sotto il punto di vista teoretico si chiamapiuttosto perspicacia, penetrazione, sagacia: prudenza, a rigore,significa intelletto messo agli ordini della volontà. Tuttavia questiconcetti non hanno un limite netto e deciso, poiché in realtà sitratta sempre dell'unica e identica funzione di quel medesimointelletto che vediamo agire in ogni animale, quando intuisce glioggetti nello spazio. Questa funzione, al grado più alto del suosviluppo, ora indovina nei fenomeni naturali la causa sconosciuta diun dato effetto, ed appresta cosí alla ragione i dati su cuiformulare in regole universali le leggi di natura; ora,nell'applicazione di mezzi conosciuti ad effetti determinati, inventamacchine complicate e ingegnosissime: ora, nel campo dellamotivazione, penetra e sventa gl'intrighi e le macchinazioni, oppureescogita motivi adatti ai vari gradi di accessibilità degli uomini,per metterli in moto a volontà sua, come macchine che vanno a forzadi leve e di ruote, e per asservirli ai propri disegni. La mancanzad'intelletto si chiama propriamente stupidità, ed è ottusitànell'applicare la legge di causalità, incapacità di afferrareimmediatamente le concatenazioni di causa ad effetto, di motivo adazione.Lo stupido non arriva a penetrare la connessione tra i fenomenidella natura, né quando si producono spontaneamente, né quando sonoregolati ad un fine, come per esempio nelle applicazioni meccaniche:cosí facilmente egli crede alla magía e ai miracoli. Un uomo siffattonon s'accorge che persone diverse, indipendenti in apparenza le unedalle altre, agiscono in realtà di comune intesa, ed è quindi facilepreda d'intrighi e di mistificazioni: non penetra i segreti moventidei consigli che gli son dati, dei giudizi che si fanno ecc'. E'sempre uno stesso dono quello che gli manca: l'acutezza, la rapidità,la facilità di applicare la legge causale: in altre parole la forzadell'intelletto. L'esempio piú luminoso e piú istruttivo di stupiditàche io abbia mai visto è quello di un ragazzo di undici anni che sitrovava in un manicomio: egli era del tutto idiota; non privo diragione, poiché parlava e capiva, ma per l'intelletto stava aldisotto del livello animale. Tutte le volte ch'io arrivavo si fissavaa rimirare una lente sospesa al mio collo nella quale si riflettevanole finestre della stanza e le cime degli alberi retrostanti. Ciò gliprocurava di continuo altissimo stupore e gioia, e non si stancavamai di contemplare estasiato: si vede bene che non arrivava a capirela causa immediata della riflessione luminosa.Nelle differenti specie di animali i gradi di acutezzadell'intelletto sono ancor piú diversi che nell'uomo. Ma in tutte,non escluse quelle che piú rasentano il vegetale, c'è tantointelletto quanto basti per risalire, dall'azione sull'oggettoimmediato, all'oggetto mediato come causa, quanto basti cioè perl'intuizione, per l'apprensione di un oggetto. E' appuntol'intuizione quella che fa d'un animale un animale, poiché solo aquella è dovuta la sua facoltà di muoversi dietro motivi, e dicercare, o almeno di afferrare, il necessario nutrimento. Laddove, alcontrario, le piante non si muovono che dietro eccitazioni di cuidebbono attendere, per non languire, gli effetti immediati:incapacissime a procurarle e trovarle. Negli animali che appartengonoai piú alti stadi della stessa scala animale è ammirevole la grandesagacia: cosí nel cane, nell'elefante, nella scimmia e nella volpe,la cui prudenza è stata cosí magistralmente descritta dal Buffon. Inqueste specie piú elevate è ben facile misurare quanto possal'intelletto senza l'aiuto della ragione, cioè senza la conoscenzaper concetti astratti; verificazione impossibile in noi, dove

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtintelletto e ragione si aiutano sempre a vicenda. A ciò appunto sideve se noi troviamo le manifestazioni dell'intelletto negli animali,ora sopra ed ora sotto la nostra aspettazione. Ora per esempio, cistupisce la sagacia di quell'elefante il quale, dopo averattraversato nel suo viaggio in Europa un gran numero di ponti, sirifiutò un giorno di passarne uno, che pure aveva visto traversarecome al solito dal seguito di uomini e di cavalli che erano insieme eciò perché il ponte sembrava troppo leggero per il suo peso. D'altrocanto non siamo meno sorpresi nel sentir dire che i saggi oranghisono incapaci di portar della legna in un fuoco casualmenteincontrato su cui stanno a riscaldarsi: il che prova che tale idearichiede già una riflessione che non è possibile senza concettiastratti. Il fatto, che negli animali sia insita la conoscenza apriori del rapporto di causa ad effetto come forma generaledell'intelletto, risulta chiaro da ciò; tale conoscenza è per loro,al pari che per noi, la condizione preliminare di ogni conoscenzaintuitiva del mondo esterno.Ma chi vuole prove piú specifiche, non ha che da vedere, peresempio, come un cagnolino non osi, per quanta voglia ne abbia,saltar giú da un tavolino, in quanto prevede l'effetto del peso delsuo corpo, benché non abbia ancor mai sperimentato il presente casoparticolare. Tuttavia, nella valutazione dell'intelletto animale,dobbiamo ben guardarci dall'attribuirgli ciò che è manifestazionedell'istinto; facoltà che produce sovente effetti analoghi all'azioneaccoppiata dell'intelletto e della ragione, ma diversa essenzialmentetanto dal primo quanto dalla seconda. Non è questo per altro il luogodi fare una teoria dell'istinto: se ne parlerà nel secondo libro,quando tratteremo dell'armonia o della cosiddetta teleologia nellanatura: anche il 27o capitolo dei Supplementi è interamente dedicatoa tale problema.La mancanza d'intelletto, abbiamo visto, si chiama stupidità:vedremo più tardi che l'incapacità di applicar la ragione nell'ordinepratico rappresenta la stoltezza, e la mancanza di giudizio ilsemplicismo: che infine la mancanza totale o parziale di memoria dàla follia. Ma di tutto questo a suo luogo. Ciò che la ragione haesattamente riconosciuto si chiama verità, e consiste sempre in ungiudizio astratto con la sua ragion sufficiente (Sul principio diragione, par' 29 e segg'); chiamasi realtà ciò che è stato in parimodo riconosciuto dall'intelletto, ed è il giusto passaggiodall'effetto all'oggetto immediato come causa. Alla verità si opponel'errore come inganno della ragione; alla realtà l'illusione comeinganno dell'intelletto. Per una spiegazione minuta in propositoleggasi il primo capitolo della mia opera La visione e i colori.L'illusione si genera quando un semplice ed unico effetto può essereprodotto da due cause completamente differenti, di cui l'una agiscefrequentemente e l'altra solo di rado; l'intelletto, non avendo alcundato per decidere quale delle due cause agisca nel caso presente,poiché l'effetto è identico, ricorre sempre alla causa ordinaria, esiccome la sua attività non è riflessiva e discorsiva, ma intuitiva ediretta, questa falsa causa ci si presenta dinanzi come oggettointuito; ed ecco la falsa apparenza. Nell'opera su citata io ho fattovedere in che modo lo spostamento degli organi di senso dalla loronormale posizione possa produrre la doppia percezione tattile evisiva; ho dato cosí una prova irrefutabile che l'intuizione nonesiste che in virtú dell'intelletto e per l'intelletto. Ma ci sonoben altri esempi di tali inganni dell'intelletto od illusioni: cosíil bastone immerso nell'acqua che appare spezzato, le immagini deglispecchi sferici che sembrano un po' dietro la superficie quando èconvessa e molto in avanti quando è concava; la luna che appare moltopiú grande all'orizzonte che non allo zenit, contrariamente ad ognilegge ottica, essendosi dimostrato con il micrometro che l'occhio,allo zenit, vede la luna sotto un angolo visuale un po' piú grandeche all'orizzonte. Ma l'intelletto, il quale attribuisce alla maggiordistanza la causa per cui all'orizzonte lo splendore della luna edelle stelle è piú tenue, applicando loro, quasi fossero oggettiterrestri, i criteri della prospettiva aerea, crede con ciò che laluna sia all'orizzonte molto piú grande che allo zenit; lo stessodicasi della volta celeste, che all'orizzonte appare piú estesa in

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquanto piú schiacciata. E' un criterio non meno erroneo dovuto allafalsa applicazione delle leggi di prospettiva aerea, quello che ci faritenere le alte montagne, di cui non è visibile che la cimanell'atmosfera limpida e trasparente, molto piú vicine di quello chenon siano in realtà, e ciò a scapito della loro altezza: tale appareil Monte Bianco visto da Salenche. Tutte queste illusorie apparenzeci si presentano nell'intuizione immediata, e nessun sillogizzaredella ragione è capace di sopprimerle; la ragione non può cheprevenire l'errore, cioè un giudizio senza prova sufficiente,contrapponendone un altro contrario e vero; c'insegnerà per esempio,in abstracto, che la causa del men vivo splendore della luna e dellestelle non è la maggior distanza, ma nei vapori che all'orizzontesono piú densi; però, a dispetto di ogni conoscenza astratta,l'illusione resta e resterà sempre immutabile in tutti i casiriferiti; poichè l'intelletto, facoltà essenzialmente distinta dallaragione, che è un mezzo di conoscenza aggiunto in privilegio soltantoall'uomo, conserva in sé anche nell'uomo, un carattere irrazionale.La ragione non può che sapere: l'intuire è funzione esclusivadell'intelletto, fuori di ogni influsso razionale.

Par' 7. - Alle considerazioni fatte sinora è bene aggiungerel'osservazione seguente. Noi non siamo partiti né dall'oggetto né dalsoggetto, bensì dalla rappresentazione che li contiene e lipresuppone entrambi, essendo la separazione in oggetto e soggetto laforma prima piú generale e piú essenziale d'ogni altrarappresentazione. Noi abbiamo perciò trattato dapprima questa formacome tale, e in séguito (pur rinviando il lettore per l'essenzialealla dissertazione introduttiva) le forme subordinate dello spazio,del tempo e della causalità. Queste forme appartengono unicamenteall'oggetto; ma siccome sono essenziali all'oggetto come tale, chealla sua volta è essenziale al soggetto come tale, posson esserderivate anche dal soggetto, e venir conosciute a priori; e in questosenso si devono ritenere come il limite comune e dell'oggetto e delsoggetto. Tutte queste forme però possono ricondursi ad un'unicaespressione comune: al principio di ragione, come ho ben dimostratonella dissertazione introduttiva.Questa maniera di procedere è il carattere che distingueassolutamente il mio sistema da tutti gli altri tentativi filosoficivenuti sinora alla luce; questi partivano o dall'oggetto o dalsoggetto, e cercavano poi di spiegare l'uno per mezzo dell'altro,fondandosi sul principio di ragione: io invece sottraggo all'autoritàdi questo principio la relazione tra oggetto e soggetto, nonlasciandole che l'oggetto.Si potrebbe obiettare che la mia opposizione lasci sfuggire ilsistema apparso ai nostri giorni e generalmente conosciuto col nomedi filosofia dell'identità: questa invero non parte né dall'oggettoné dal soggetto, ma da un terzo principio, l'assoluto conoscibile perintuizione razionale, principio che non è né oggetto, né soggetto, maidentità dei due. Io non mi permetterò certo di arrischiare la miaparola su questa rispettabilissima identità e sull'assoluto,sprovvisto come sono di ogni intuizione razionale; tuttavia,basandomi sui protocolli di questi intuitori razionali (protocolliche sono a disposizione di tutti, anche dei profani), ardiscoosservare che il detto sistema filosofico non sfugge ai due erroriche costituiscono i poli della mia contrapposizione. Tale sistema,nonostante la sua identità tra soggetto e oggetto, identità del restonon accessibile per via di pensiero, ma solo per via dell'intuizioneintellettuale (o dell'assorbimento nell'intuizione medesima), nonriesce ad evitare i due opposti errori; ma piuttosto li riuniscetutti e due. Infatti si divide in due scuole: l'una è l'idealismotrascendentale o dottrina dell'io di Fichte, e fa in virtú delprincipio di ragione derivare l'oggetto dal soggetto, come filo chesi dipana a grado a grado; l'altra prende il nome di filosofia dellanatura, e fa nascere gradatamente il soggetto dall'oggetto medianteun metodo chiamato costruzione. Io non riesco peraltro a veder chiaroin questa costruzione; pure, per quel tanto che riesco a capire, essanon mi sembra altro che un procedimento progressivo regolato dallevarie forme del principio di ragione. Io rinunzio tuttavia a

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpenetrare la profonda scienza contenuta in tale costruzione;sprovvisto come sono di ogni intuizione razionale, ogni sistema chevi si fondi è per me come un libro suggellato con sette suggelli: equesta mia privazione è spinta a tal grado, che, strano a dirsi, laprofonda sapienza di tutte quelle dottrine mi fa l'effetto di unafanfaronata terribile e noiosa oltre misura.I sistemi che partono dall'oggetto hanno sempre come problema ilmondo intuitivo e le sue leggi: tuttavia l'oggetto che prendono apunto di partenza non è sempre il mondo o la materia che n'è ilprincipio primo; si può fare piuttosto una classificazione di questisistemi secondo le quattro categorie di oggetti da me distinte nelladissertazione introduttiva. Si posson cosí ritenere come partitidalla prima delle quattro classi, e cioè dal mondo reale: Talete e lascuola ionica, Democrito, Epicuro, Giordano Bruno e i materialistifrancesi. Dalla seconda, ossia dal concetto astratto, Spinoza (ilquale parte dall'astratto concetto di sostanza esistente solo nellasua definizione), e gli Eleati. Dalla terza classe, cioè dal tempo, equindi dal numero, i Pitagorici e la filosofia cinese dell'YKing.Dalla quarta, e cioè dall'atto volontario motivato dalla conoscenza,mossero gli Scolastici, i quali insegnano una creazione dal nulladovuta all'atto volontario di un essere personale distinto dal mondo.Il metodo oggettivo, quando si presenta sotto la forma delmaterialismo vero e proprio, è il piú logico e il piú fecondo disviluppo deduttivo. Il materialismo ammette l'esistenza assolutadella materia, e con essa quella del tempo e dello spazio, facendoastrazione dalla relazione di tali elementi con il soggetto ed è purl'unico fondamento della loro esistenza. Prende poi come filoconduttore la legge di causalità, che ritiene come un ordine di coseesistente per sé, come una veritas aeterna, e via innanzi; salta cosía piè pari anche l'intelletto, il solo principio nel quale e per ilquale la causalità esiste. Fatto tutto questo, cerca di trovare lostato primitivo e piú semplice della materia per derivarne tutti glialtri piú complessi, e si eleva, dal puro meccanismo, al chimismo,alla polarità, alla vegetatività, all'animalità: ammesso che la cosariesca, l'ultimo anello della catena sarebbe la sensibilità animale,il conoscere, che dovremmo ritenere come una semplice modificazionedella materia, come uno stato di quest'ultima prodotto dallacausalità. Supponiamo ora d'esser riusciti a seguire fin qui ilmaterialismo con le sue rappresentazioni intuitive: che cosaavverrebbe? Giunti alla vetta, ci sentiremmo subito invasi dal risoinestinguibile degli dèi dell'Olimpo, quando, svegliandoci come da unsogno, scoprissimo in un attimo che il risultato ultimo, l'oggetto ditante fatiche, la conoscenza era già implicita come indispensabilecondizione nel punto primo di partenza: nella materia. Sicché, quandonoi c'immaginavamo di pensare la materia, secondo il principiomaterialista, in realtà non pensavamo se non il soggetto che sirappresenta la materia, l'occhio che la vede, la mano che la tocca,l'intelletto che la conosce. In tal modo si rivela ad un trattol'enorme petitio principii: l'ultimo anello ci si mostra d'improvvisocome il punto d'attacco del primo: la catena è un cerchio, e ilfilosofo materialista somiglia al barone di Münchhausen, il qualecaduto nell'acqua con il suo cavallo, cercava di sollevare la suabestia con le proprie gambe e se stesso con il codino della suaparrucca tirata in avanti. L'assurdità fondamentale del materialismoconsiste dunque nell'assumere, come punto di partenza e comeprincipio ultimo di spiegazione, un elemento oggettivo, sia questomateria in abstracto come pura idea, sia materia già concretizzata informa e data nell'esperienza, come sono ad esempio i corpi semplicidella chimica e le loro prime combinazioni. Tali sono le cose che ilmaterialismo considera, e da cui vuol poi dedurre la natura organicae in ultimo il soggetto conoscente, credendo di poterne dare in talmodo una completa spiegazione: in realtà però tutto ciò che èoggettivo è già in un modo o nell'altro condizionato dal soggetto edalle forme della sua conoscenza, e le presuppone: soppresso quindiil soggetto, svanisce eo ipso ogni oggetto. Il materialismo dunquenon è altro che il tentativo di spiegare il dato immediato per mezzodel dato mediato. Tutta questa realtà obiettiva, estesa ed operante,e quindi materiale, ritenuta dal materialismo come un fondamento cosí

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsolido per le sue spiegazioni, al punto che queste non siano in nullacriticabili - appoggiate come sono su tale base (specie quando siconsideri che in ultimo fa capo alla legge della azione e reazione) -tutta questa realtà, dico, non è altro che un dato eminentementemediato e condizionale, e non ha quindi un'esistenza piú cherelativa. Infatti è dovuta prima passare attraverso il meccanismo ela lavorazione del cervello, ed entrare nelle sue forme di spazio,tempo e causalità; e soltanto dopo e soltanto per tal mezzo si èpotuta presentare come estesa nello spazio e operante nel tempo. Oraquesto è il dato con cui il materialismo pretende di spiegare il datoimmediato, la rappresentazione che è condizione sine qua non delprimo, e da ultimo persino la volontà, la volontà, si noti bene, chesola può farci comprendere tutte quelle forze elementari che siintrinsecano nell'ordine della legge causale. All'affermazione che laconoscenza sia una modificazione della materia si può sempre dunquecontrapporre con egual diritto l'affermazione contraria, che cioè lamateria non sia se non una modificazione della conoscenza delsoggetto, una sua rappresentazione. Tuttavia lo scopo e l'ideale diogni scienza della natura non è altro che un materialismo spinto allacompiutezza delle sue conseguenze. Ora l'evidente assurdità delmaterialismo è confermata da un'altra verità che vedremo risultaredalle nostre ulteriori considerazioni; da questa: che nessuna scienzapropriamente detta (nessun sistema di conoscenza diretto dalprincipio di ragione) può raggiungere un risultato finale, né dareuna spiegazione interamente soddisfacente; e ciò per la ragione, chela scienza non può cogliere l'intima essenza del mondo, néoltrepassare la rappresentazione: la scienza, in fondo, non fa chedarci relazioni tra rappresentazioni.Ogni scienza parte da due dati fondamentali. Uno è sempre ilprincipio di ragione in qualcuna delle sue forme, e serve da organo;l'altro è l'oggetto speciale, e costituisce il problema. Cosí, adesempio, la geometria ha per problema lo spazio, e per organo ilprincipio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha per problema iltempo, e per organo la legge di esistenza nel tempo; la logica ha perproblema la connessione tra i concetti come tali, e il suo organo èil principio della conoscenza: problema della storia sono gli attiumani considerati nel loro insieme, e suo organo la legge dellamotivazione. La scienza della natura infine ha per problema lamateria e la legge di causalità per organo: quindi il suo scopo è diricondurre, l'uno all'altro, secondo la legge di causalità, tutti glistati possibili della materia, e da ultimo tutti questi stati ad unostato unico: in seguito mira a dedurre uno stato dall'altro, e infinetutti gli stati da uno solo. Vi si trovano cioè contrapposti duestati estremi: quello, in cui la materia è oggetto piú immediato delsoggetto, in altri termini la materia piú morta e piú greggia,l'elemento primitivo, da un lato; e l'organismo umano dall'altro. Lascienza della natura studia il primo stato come chimica, il secondocome fisiologia. Ma sino ad ora nessuno dei due estremi si è potutoraggiungere; e se si è fatto qualche progresso, si è fatto solo neigradi intermedi. Né la prospettiva che si apre dinanzi dà troppo asperare. I chimici, nell'ipotesi che la divisione qualitativa dellamateria non vada all'infinito come la quantitativa, cercano direstringere di piú in piú il numero dei loro corpi semplici cheascendono ancora a circa sessanta; e se anche arrivassero a nonaverne piú di due, vorrebbero ancora ridurli ad uno. La leggedell'omogeneità conduce infatti all'ipotesi di un primitivo statochimico della materia che sarebbe il solo a questa essenziale, edavrebbe dovuto precedere tutti gli altri stati, non essenziali allamateria come tale, ma semplici forme accidentali, semplici qualità.Ma d'altra parte non si riesce a capire come questo stato primitivoabbia potuto mai subire una modificazione chimica, mancando ancora unsecondo stato che agisse su di esso: questa difficoltà è in chimicaanaloga a quella in cui urtò Epicuro nella meccanica, quando dovettespiegare il perché della prima deviazione dell'atomo dalla suadirezione originaria; questa contraddizione, che sorge, per cosídire, da essa stessa, e che è tanto inevitabile quanto insolubile,costituisce una vera e propria antinomia chimica: come la troviamoqui nel primo dei due estremi cui aspira la scienza della natura,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcosí ne troveremo la corrispondente contraria nel secondo estremo. Néc'è maggiore speranza che la scienza della natura arrivi a toccarequest'altro estremo poiché ci si rende sempre piú evidentel'impossibilità di ricondurre sia un principio chimico ad unomeccanico, sia un principio organico ad uno chimico od elettrico.Coloro che al giorno d'oggi tentano d'incamminarsi di nuovo perquesta antica via d'errore, saranno presto obbligati, al pari deiloro predecessori, a rimangiarsi la strada muti e svergognati. Ma diciò si parlerà piú a lungo nel secondo libro. Le difficoltà quiaccennate si erigono contro la scienza della natura nell'ambitostesso del suo dominio di scienza. Che se vogliamo farne unafilosofia, la scienza della natura sarà materialismo; il quale, comesi è visto, porta fin dalla nascita la morte nel cuore, poiché saltaa piè pari il soggetto e le forme della conoscenza, che pur sono giàpresupposti dall'informe materia donde vuole partire, comedall'organismo cui vuol giungere. «Oggetto senza soggetto»: questoprincipio del materialismo è insieme la sua condanna perpetua dimorte.Soli e pianeti, senza un occhio che li veda e un intelletto che liconosca, son parole che si possono ben pronunziare: marappresentativamente non piú intelligibili che un sideroxylon. (9)Tuttavia, la legge di causalità e lo studio della natura che laprende a guida ci forzano d'altro canto a ritenere con certezza, chenell'ordine cronologico ogni stato di organizzazione superiore dellamateria sia stato preceduto da uno stato meno perfetto, che glianimali siano esistiti prima dell'uomo, i pesci prima degli animaliterrestri, le piante prima dei pesci ecc'; in una parola, il regnoinorganico fu prima dell'organico. La materia primitiva dovettedunque attraversare una ben lunga serie di trasformazioni, prima cheil primo occhio si fosse potuto aprire. E tuttavia l'esistenza delmondo intero dipende pur sempre da questo primo occhio che si aprí;fosse pure quello d'un insetto. Quest'occhio infatti èl'intermediario indispensabile della conoscenza, per la quale e nellaquale soltanto il mondo può avere una realtà, e senza la quale èassurdo il solo pensarlo, poiché il mondo non è altro cherappresentazione, e come tale ha bisogno del soggetto conoscentequale sostegno della sua esistenza. Ma di piú: tutta questa lungaserie di tempi, riempita d'innumerevoli modificazioni, per cui lamateria si elevava di forma in forma fino a che non apparve il primoessere intelligente; tutta questa serie, dico, non può essere pensatache nell'identità di una coscienza, per la quale costituisce la seriedelle rappresentazioni e la forma della conoscenza, e senza la qualesarebbe ridotta ad un nulla insignificante. Noi vediamo dunque: da unlato, che l'esistenza del mondo intero dipende dal primo essereintelligente, per quanto imperfetto; dall'altro, che questo primoessere intelligente dipende alla sua volta necessariamente, in modoassoluto, da una lunga catena anteriore di cause ed effetti in cuirientra esso stesso come un piccolo anello. Queste due concezionicontraddittorie, a ciascuna delle quali noi siamo con pari necessitàricondotti, potrebbero alla loro volta esser considerate comeun'antinomia della nostra facoltà conoscitiva, corrispondente aquella riscontrata nell'altro estremo della scienza della natura. Perquanto riguarda la quadruplice antinomia di Kant, proverò, nellacritica della sua filosofia annessa al presente scritto, che non ènulla piú di una fantasmagoria senza fondamento.Ma l'ultima contraddizione, che abbiamo testé riconosciuta comeinevitabile, ha la sua soluzione nella considerazione, che il tempo,lo spazio e la causalità non appartengono (per adottare il linguaggiokantiano) alla cosa in sé, ma soltanto al fenomeno, di cui sono laforma. Il che può tradursi nel mio linguaggio cosí: il mondooggettivo, il mondo come rappresentazione, non è l'unico aspettodell'universo; ne è, per cosí dire, la sola faccia esteriore; ma ilmondo ha pure un'altra faccia, diversa essenzialmente dalla prima, eche ne costituisce l'intima essenza, il nocciolo vero: la cosa in sé.Ne tratteremo nel libro seguente; dove, attenendoci alla piúimmediata delle sue oggettivazioni, la chiameremo volontà. Il mondocome rappresentazione, l'unico argomento che per ora ci occupi, noncomincia, è vero, se non il giorno in cui s'apre il primo occhio;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsenza questo medium della conoscenza, e prima, non potrebbe esserci.Senza quest'occhio, cioè fuori della conoscenza, non ci fu nessuntempo, nessun prima. Non si può tuttavia dire che il tempo abbiaperciò avuto un inizio mentre invece ogni inizio è contenuto neltempo. Ma il tempo, essendo la forma piú generale della conoscenza,in cui si dispongono tutti i fenomeni secondo l'ordine della leggecausale, dovrà esistere anch'esso, con la sua bilaterale infinità,sin dal primo fatto di conoscenza; e il fenomeno, che riempie questoprimo presente, deve in pari tempo ritenersi come dipendente perconnessione causale da una serie di fenomeni che si estendeall'infinito nel passato; tale passato è d'altronde condizionato dalprimo presente, come questo alla sua volta dal passato. Cosí, ancheil passato, al pari del primo presente, che ne deriva, dipende dalsoggetto conoscente, senza del quale non è nulla. E nondimeno èproprio questo passato che fa sorgere il primo presente; che lo fasorgere, non già come il vero primo, come il primo che non abbia lapaternità in nessun passato, come il principio del tempo; bensí comesuccedente ad un passato, secondo la legge d'esistenza nel tempo;proprio come il fenomeno che riempie il primo presente quale uneffetto, risultante dagli stati che riempiono il passato secondo lalegge di causalità. Chi ama i sottili apologhi della mitologia puòparagonare il momento in cui cominciò il tempo, che pure mai ebbe uninizio, alla nascita di Krono (çrönos), il piú giovane dei Titani; ilquale, dopo aver evirato suo padre, mise fine alle deformi produzionidel cielo e della terra, surrogate ora dalla razza degli uomini edegli dèi.Questa esposizione, cui ci ha condotti l'esame del materialismo,cioè del piú conseguente fra i sistemi filosofici che partonodall'oggetto, serve in pari tempo a farci ben vedere la mutuainseparabile dipendenza (in seno alla loro inevitabilecontrapposizione) fra il soggetto e l'oggetto: e questa conoscenza ciconduce a ricercare l'essenza intima del mondo, la cosa in sé, nonpiú in uno dei due elementi della rappresentazione, ma piuttosto inqualcosa di essenzialmente diverso dalla rappresentazione, e che nonsia contaminato da questa originaria, essenziale, e perciò insolubilecontraddizione.Al sistema esposto, che parte dall'oggetto per farne sorgere ilsoggetto, si contrappone il sistema che dal soggetto vuol dedurrel'oggetto. Ma se il primo ebbe fino ad ora una continua e vastaefficacia in filosofia, del secondo non abbiamo che un unico esempioreale. L'esempio, molto recente, ci è dato dalla pseudofilosofia diF'G' Fichte, uomo peraltro non indegno di menzione, per quanto minimisiano d'altronde il valore e il contenuto intimo della sua dottrina.La quale, invero, si riduce a una fantasmagoria; e nondimeno sipresenta nella forma piú severa, con il tono piú sostenuto, e con ilpiú ardente zelo; difesa poi con eloquenza polemica impareggiabilecontro imbelli avversari; fu in grado per un momento di brillare efare illusione. Ma la serietà del pensiero, quella serietà che,inaccessibile ad ogni influenza estranea, fissa inesorabilmente ilsuo sguardo in un unico segno, nella verità, mancava del tutto aFichte, come a tutti i filosofi della stessa specie, che si foggianosecondo le circostanze. E non poteva essere diversamente. Ciò che cirende filosofi non è che lo sforzo di sottrarci all'assillo di undubbio: è il ôaumäzein che Platone dice: "mäla filosofikòn päôos". (10)Ma ciò che distingue in proposito il filosofo vero dal falso, èquesto: nel primo il dubbio si risveglia fin dalla prima vista delmondo reale, nell'altro invece non sorge che dalla lettura di unlibro, di un sistema già bell'e fatto. E tale appunto è il caso diFichte; egli non deve il suo titolo di filosofo che alla cosa in sédi Kant; senza della quale avrebbe molto verosimilmente badato adaltro, e senza dubbio con successo ben migliore, perché non gli sipuò negare un notevole ingegno retorico. Se avesse penetrato conqualche profondità il senso del libro che lo rese filosofo, cioèdella Critica della ragion pura, avrebbe compreso che lo spiritodella dottrina sviluppatavi non è che questo: il principio di ragionenon è, come vuole tutta la filosofia scolastica, una veritas aeterna,non ha cioè un valore incondizionato esistente prima del mondo, fuoridel mondo e al disopra del mondo; non ha invece che un valore

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrelativo condizionato, applicabile ai soli fenomeni, sia come nessospaziale temporale, sia come legge di causalità, sia come principiodi conoscenza. Quindi: l'essenza intima del mondo, la cosa in sé, nonsi può scoprire al lume del principio di ragione, il quale non ciconduce che al dipendente, al relativo, sempre al fenomeno e al solofenomeno, e non mai alla cosa in sé. Il principio di ragione nonconcerne punto il soggetto, è soltanto forma degli oggetti; i qualidunque non sono cose in sé. Il soggetto è posto contemporaneamenteall'oggetto e viceversa; in conseguenza non può, né l'oggettosuccedere al soggetto, né il soggetto all'oggetto, come l'effettosuccede alla causa. Ma nulla di tutto ciò è penetrato nella mente diFichte: il lato interessante della questione per lui, era il «partiredal soggetto»; principio scelto da Kant per mostrare la falsità delprincipio contrario, del «partire dall'oggetto», che allora divienecosa in sé. Ma Fichte scambiò il metodo della partenza dal soggettoper la tesi stessa da stabilire. Al pari di tutti gli imitatori,credette che, rincarando la dose di Kant, sarebbe riuscito asuperarlo; e ripeté in questo senso tutti gli errori commessi insenso opposto dal vecchio dogmatismo, che aveva appunto dato originealla Critica di Kant. Sicché, quanto all'essenziale, non ci fu nulladi cambiato: l'antico errore capitale - l'ammissione di una relazionedi causa ad effetto fra oggetto e soggetto - restò dopo come perl'innanzi; il principio di ragione conservò come per il passato ilsuo valore assoluto: soltanto la cosa in sé, invece di risiedere comeprima nell'oggetto, fu trasferita nel soggetto della conoscenza. Mal'assoluta relatività dei due termini, dalla quale si apprende che lacosa in sé o l'essenza intima del mondo non sono da ricercare in queitermini ma fuori, e fuori di ogni e qualsiasi esistenza puramenterelativa, rimase disconosciuta come per l'innanzi. Come se Kant nonfosse mai esistito, il principio di ragione, in Fichte, come in tuttigli scolastici, è ancora una veritas aeterna. Come, al disopra deglidèi dell'antichità, regnava l'eterno Destino, cosí al disopra del Diodegli scolastici regnano ancora quelle veritates aeternae, che sonole verità metafisiche, matematiche e metalogiche, e per alcuni anchel'autorità della legge morale. Queste verità non dipendono in sestesse da nulla: mentre soltanto per la loro necessità esistono Dio eil mondo. In pari modo, e cioè in base al principio di ragioneconsiderato come veritas aeterna, l'Io è presso Fichte la ragione delmondo, cioè del Nonio, dell'oggetto, che diviene allora suo effetto,sua produzione. Fichte poi si diede briga di studiare piú da vicino esindacare il principio di ragione. Ma se dovessi indicare a qualeforma del principio Fichte sia ricorso per generare il Noniodall'Io, come tela dal ragno, direi che è la legge di esistenza nellospazio; poiché tutte quelle affannose deduzioni sui processi con iquali l'Io fabbrica il Nonio (deduzioni che formano tutto ilcontenuto d'un libro, il piú insulso e il piú noioso che sia statomai scritto) non acquistano un significato e un costrutto se non inrelazione con lo spazio. Questa filosofia di Fichte, indegna sottoogni altro aspetto di qualsiasi menzione, non ci interessa se noncome opposizione completa e recente all'antico materialismo;quest'ultimo era il piú conseguente fra i sistemi che partonodall'oggetto, mentre la dottrina di Fichte è la piú conseguente diquelle che han per punto di partenza il soggetto. Il materialismo nons'accorge che nel porre il piú semplice tra gli oggetti è già postocontemporaneamente anche il soggetto; analogamente Fichte nons'accorge di porre, insieme con il soggetto (indicato con qualsiasinome) anche l'oggetto, senza del quale nessun soggetto è concepibile.Non solo, ma Fichte non si avvide neppure di questo: che ognideduzione a priori e in generale ogni dimostrazione, si fondano su diuna necessità, e che ogni necessità si fonda soltanto sul principiodi ragione; esser necessario, e risultare da una data causa, essendoconcetti equivalenti; (11) che dunque il principio di ragione non èche la forma universale dell'oggetto come tale; quindi presupponel'oggetto; e non avendo alcun valore prima e fuori dell'oggetto, nonpuò produrlo in virtú delle proprie leggi. In una parola: i sistemiche partono dal soggetto e quelli che muovono dall'oggetto sonoinfetti da un vizio comune: implicano in precedenza ciò che si devepoi dedurre, il correlato necessario del principio da cui prendon le

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmosse.Il mio procedimento differisce toto genere dai due opposti errori:io non parto né dall'oggetto né dal soggetto, ma dallarappresentazione come primo fatto di coscienza, la cui forma prima edessenziale è la divisione in oggetto e soggetto: la formadell'oggetto è alla sua volta rappresentata dal principio di ragionenelle sue diverse forme; ciascuna delle quali domina cosípotentemente la sua propria classe di rappresentazioni, che laconoscenza di tal forma ci dà insieme l'essenza di tutta la classeconosciuta; non essendo questa (come rappresentazione) altra cosadalla medesima forma. Cosí il tempo non è altro che il principio diesistenza temporanea, la successione; lo spazio non è che ilprincipio di ragione nello spazio, la situazione; la materia non èche la causalità; il concetto (come faremo or ora vedere) non è cherelazione al principio di conoscenza. Questa relatività piena ecostante del mondo come rappresentazione, sia nella sua forma piúgenerale (soggetto ed oggetto), sia in quella subordinata (principiodi ragione), ci insegna, come si è detto, a ricercare l'intimaessenza del mondo in un altro aspetto del mondo stesso, in una facciaessenzialmente diversa da quella della rappresentazione. Il libroseguente ce la mostrerà in un fatto, che, al pari dellarappresentazione, è immediatamente certo in ogni essere vivente.Ma prima dobbiamo considerare quella classe di rappresentazioni,che appartiene in modo esclusivo all'uomo, e che ha per materia ilconcetto e per correlato soggettivo la ragione; mentre lerappresentazioni finora studiate avevano per correlato l'intelletto ela sensibilità, che appartengono a qualsiasi animale senzadistinzione. (12)

NOTE:(1) «Il dogma essenziale della scuola Vedanta consisteva non nelnegare l'esistenza della materia, cioè della solidità,dell'impenetrabilità, dell'estensione (negare tutto questo sarebbeinvero una pazzia), bensí nel correggere in proposito la concezionevolgare, sostenendo cioè che la materia non possiede un'esistenzaindipendente dalla percezione mentale, poiché esistenza epercettibilità sono termini equivalenti.»(2) Sul principio di ragione, Ii ediz', par' 22.(3) Kant è il solo che abbia recato confusione in questo concettodella ragione: io rimando, in proposito, all'Appendice, come anche aimiei Problemi fondamentali dell'Etica, par' 6, Fondamento dellamorale, pagg' 148-154 della prima edizione.(4) «Mira in quibusdam rebus verborum proprietas est, et consuetudosermonis antiqui quaedam efficacissimis notis signat.» (Seneca,Epist' 81.)(5) Ho dimostrato nell'Appendice che materia e sostanza sontutt'uno.(6) Ciò spiega la ragione per cui Kant definisce materia «ciò chesi muove nello spazio»; il movimento non è infatti che lacombinazione dello spazio e del tempo.(7) E non sul tempo come vuole Kant: il che sarà dimostratonell'Appendice.(8) [«Noi siamo tal stoffa@ come quella di cui son fatti i sogni, ela nostra breve vita@ è circondata da un sonno.@»](9) Ferro di legno, o legno di ferro. (N'd'T'.)(10) [«La meraviglia è il sentimento filosofico per eccellenza.»](11) Vedi in proposito: Sulla quadruplice radice del principio diragione sufficiente, Ii ediz', par' 49.(12) A questi sette primi paragrafi si riferiscono i primi quattrocapitoli del primo libro dei Supplementi.

Par' 8. - Come dalla luce diretta del sole si passa a quellariflessa dalla luna, cosí ora passeremo dalla rappresentazioneintuitiva, immediata, che si afferma e si accerta da sé, allariflessione, ai concetti astratti e discorsivi della ragione, il cuicontenuto è tolto per intero dalla conoscenza intuitiva e non hasenso che in relazione con questa. Finché restiamo nel campodell'intuizione pura tutto risulta chiaro, determinato e certo. Non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtci son qui problemi, non dubbi, non errori; non si vuole né sipotrebbe andare piú in là: si riposa nell'intuizione, in tutto paghidel presente. L'intuizione basta a se stessa; cosí pure: tutto quantone procede con purezza e con fedeltà (come ad esempio un'opera d'artevera) non può esser mai falso, né smentito: infatti non c'è qui luogoper l'opinione avendosi la cosa stessa. Ma con la conoscenzaastratta, con la ragione sorgono, relativamente al campo teoretico,il dubbio e l'errore, e relativamente a quello pratico l'ansietà e ilpentimento. Se nella rappresentazione intuitiva l'apparenza può perun istante deformare la realtà, nella rappresentazione astrattal'errore può regnare per secoli, asservire interi popoli al suoferreo giogo, soffocare le piú nobili aspirazioni dell'umanità, efare, dai suoi schiavi e dalle sue vittime, incatenare quelli stessiche non è riuscito a ingannare. L'errore è il nemico, contro il qualei piú saggi spiriti d'ogni tempo sostennero sempre una lottaineguale; ciò che riusciremo a strappargli, costituisce il solo veropatrimonio dell'umanità. E' dunque bene attirare subito l'attenzionesull'errore, ora che stiamo per penetrare nel suo dominio. Si è piúvolte ripetuto che bisogna ricercare la verità quand'anche non siveda l'utile che possa venirne; potendo quest'utile essere indirettoe presentarsi al momento in cui meno ce l'aspettiamo. Desideroaltresí aggiungere che si deve con pari sforzo scoprire ed estirparel'errore, quand'anche non se ne veda il danno; anche questo potendoessere mediato e colpire quando meno ci si pensa: ogni errore portanelle sue viscere un veleno. Se ciò che fa l'uomo signore della terrasono l'ingegno e la conoscenza, non ci può essere errore innocuo, etanto meno rispettabile o sacro. A consolazione di quelli checonsacrano le loro forze e la loro vita alla nobile aspra lottacontro l'errore, in qualsiasi forma e circostanza, non possotrattenermi dall'aggiungere che l'errore può aver libero gioco, comei gufi e i pipistrelli nella notte, finché non è apparsa la verità;ma è piú facile aspettarsi che i gufi e i pipistrelli faccianoretrocedere il sole in oriente, che non vedere cacciata di nuovoindietro la verità, una volta riconosciuta e proclamata con pienacoscienza, o veder l'antico errore riprendere indisturbato il suocomodo posto. Tale è la forza della verità, che la sua vittoria èaspra e difficile, ma, una volta riportata, nessuno riesce astrapparla.Cosí dunque - oltre alle rappresentazioni esaminate fin qui, lequali, secondo il loro ordine, si posson ricondurre: al tempo, allospazio e alla materia se le consideriamo sotto il punto di vistadell'oggetto; alla sensibilità pura e all'intelletto (cioè allaconoscenza per cause) se le consideriamo sotto il punto di vista delsoggetto - esiste ancora, ma soltanto nell'uomo ad esclusione ditutti gli altri abitanti della terra, un'altra facoltà di conoscenza,si schiude in lui una nuova coscienza, che vien chiamata conmeravigliosa ed istintiva esattezza: riflessione. Questa non èinfatti che un riflesso, un derivato della conoscenza intuitiva;possiede per altro una natura e un carattere essenzialmente diversida quelli dell'intuizione, della quale ignora le formule; anche ilprincipio di ragione, che domina ogni oggetto, assume qui unafisionomia del tutto diversa. Questa nuova coscienza, questacoscienza a piú alta potenzialità, questa riflessione di ogniintuizione nel concetto non intuitivo di ragione, è la sola facoltàdonde all'uomo deriva l'assennatezza che ne distingue cosíprofondamente la coscienza da quella del bruto, e che ne rende lacondotta sulla terra cosí diversa da quella dei suoi fratelli prividi ragione. L'uomo li supera, e di molto, cosí in potenza come insofferenza. I bruti non vivono che nel presente; l'uomo vive anchenel futuro e nel passato; quelli si limitano a soddisfare il bisognodel momento; questi provvede con ingegnose disposizioni all'avvenire,anche per il tempo in cui forse non vivrà piú. I bruti s'abbandonanoin tutto all'impressione momentanea, lasciandosi dominare dal moventeintuitivo; l'uomo si determina in virtù di concetti astrattiall'infuori del presente. Cosí esegue piani premeditati, oppure operasecondo massime, senza tener conto delle circostanze dell'ambiente odelle impressioni momentanee: può, ad esempio, prendere con lamassima calma le opportune disposizioni riguardo alla sua morte; può

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdissimulare sino a rendersi impenetrabile, traendo seco il suosegreto sino alla tomba. L'uomo, infine, ha il reale potere discegliere fra piú motivi (perché soltanto in abstracto piú motivipossono coesistere nella coscienza attuale, rivelarvi la loroincompatibilità, e la misura dei rispettivi poteri; quindi il motivopreponderante, dando il tracollo alla bilancia, diviene la decisioneriflessa della volontà, e dà un sicuro indizio del suo carattere). Ilbruto, al contrario, non si lascia determinare che dall'impressionepresente: soltanto il timore di una punizione immediata può frenarnele cupidigie, fino a che il timore, divenuto abitudine, lo determiniad operare in questa nuova forma; donde l'ammaestramento. Il brutosente e percepisce; l'uomo, per di piú, pensa e conosce; tutti e duevogliono. Il bruto comunica le sue sensazioni e il suo umore permezzo di atti e di grida; l'uomo comunica, o nasconde, il suopensiero col linguaggio. Il linguaggio è la prima creazione e lostrumento necessario della ragione; cosí, in greco ed in italiano,linguaggio e ragione son due concetti espressi da un'unica parola: holögos, il discorso. (13) La parola tedesca Vernunft (ragione) derivada vernehmen (afferrare, comprendere), che non è sinonimo di hören(udire), ma vale: «acquistar coscienza dei pensieri comunicati pervia di parole». Soltanto con l'aiuto del linguaggio la ragioneottiene i suoi piú grandi effetti, come ad esempio l'azione concordedi piú individui, la cooperazione di piú migliaia d'uomini pereseguire un piano prestabilito, l'incivilimento, lo Stato; e inoltre:la scienza, la conservazione dell'esperienza precedente, lacomprensione in un concetto di elementi comuni, la comunicazionedella verità, la propagazione dell'errore, la meditazione, la poesia,i dogmi e le superstizioni. Della morte, il bruto non ha idea chenella morte: l'uomo le si avvicina ogni giorno con pienezza dicoscienza; questo è ciò che talvolta sparge di gravità melanconica lavita di quello stesso che ancora non ha riconosciuto l'annichilimentocontinuo come un carattere inerente alla vita intera. Soltanto allamorte si deve se l'uomo si crea filosofie e religioni; delle qualiper altro non è certo se abbiano mai prodotto ciò che a buon dirittostimiamo sopra ogni altra cosa nella condotta umana, e cioè laspontanea rettitudine, la nobiltà del sentimento. I loro effetti piúimmediati e sicuri, e le produzioni della ragione in questo riguardo,sono al contrario le piú sorprendenti ed arrischiate opinioni deifilosofi delle varie scuole, i riti piú strani, e anche talvolta piúcrudeli, dei preti delle diverse religioni.Tutti i popoli di tutti i tempi sono unanimi nel riconoscere che ledette manifestazioni, così varie e cosí estese, han radice in unprincipio comune in quella facoltà speciale dello spirito chedistingue l'uomo dal bruto, e che si chiama ragione, "ho lögos, tòlogistikòn, tò lögimon", ratio. Gli uomini sanno anche, tutti,riconoscere molto bene le manifestazioni di questa facoltà; sandiscernere il ragionevole dall'irragionevole nei casi in cui laragione si trova in contrasto con le altre facoltà e proprietàdell'uomo; sanno, infine, prevedere; ciò che dai bruti, anche dai piúprudenti, non si può attendere; a causa della mancanza di ragione.Della ragione parlano, in modo conforme alla detta concezione comune,anche i filosofi di tutti i tempi; i quali, oltre a ciò, mettono inluce alcune delle sue manifestazioni piú importanti, come ad esempiola padronanza degli effetti e delle passioni, la facoltà di giudicaree di porre dei principi universali, compresi quelli che sonoanteriori ad ogni esperienza, ecc'. Eppure tutte le teoriefilosofiche sull'essenza della ragione sono tentennanti, prolisse,indecise, prive d'un centro unitario; mettono in luce, ora unamanifestazione ora un'altra; e cosí non di rado son tra lorocontraddittorie. Inoltre: molti filosofi partono da una opposizionefra ragione e rivelazione: il che, questa rimanendo affatto estraneaalla filosofia, serve soltanto a crescere la confusione. Singolare,che fino ad ora nessun filosofo sia riuscito a ricondurre con metodorigoroso le molteplici manifestazioni della ragione ad una funzioneunica, riconoscibile in ciascuna, che ne spieghi ciascuna e cheperciò possa dirsi costituire l'intima essenza della ragione. Inverità il saggio Locke, nel suo Essay on Human Understanding, LibroIi, cap' 11, parr' 10 e 11, indica giustamente i concetti astratti

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtuniversali come il carattere distintivo tra gli uomini e i bruti; eLeibniz, nei suoi Nouveaux essais sur l'entendement humain, Libro Ii,cap' 11, pagg' 10 e 11, ripete questa distinzione, approvandola. Mapoi Locke, passando, nel Libro Iv, cap' 17, parr' 2 e 3, a darci unavera teoria della ragione, perde completamente di vista il carattereprincipale di questa, e si smarrisce in una enumerazione malsicura,indeterminata, incompleta delle sue manifestazioni minute, dicarattere secondario. E Leibniz, nel passo corrispondente della suaopera, non fa che ripetere Locke, ed accrescere l'oscurità e laconfusione. Io, nella Appendice, ho mostrato lungamente come Kantabbia imbrogliato e falsato la nozione dell'essenza della ragione. Machi vorrà darsi la pena di esaminare, sotto questo punto di vista, imolti scritti filosofici apparsi da Kant in poi, d'una cosa dovràpersuadersi: come gli errori dei principi vengono scontati da interipopoli, cosí gli errori dei grandi spiriti estendono il loro influssofunesto su intere generazioni, per secoli e secoli; non solo, ma,crescendo e moltiplicandosi, finiscono per degenerare in mostruosità;e ciò perché, secondo il detto di Berkeley: «Few men think: yet allwill have opinions». (14)L'intelletto non ha che una sola funzione: la conoscenza immediatadella relazione di causa ed effetto. Perché l'intuizione del mondoreale, come pure la credenza, la sagacità, la facoltàdell'invenzione, malgrado la varietà delle loro applicazioni, sonopur sempre manifestazioni di quest'unica funzione. Del pari: anche laragione ha una funzione unica: la formazione dei concetti; funzionein virtú della quale si spiegano e si comprendono senz'altro tutti ifenomeni sopra descritti, che distinguono la vita dell'uomo da quelladel bruto. E tutto ciò, che sempre e dappertutto fu chiamatoragionevole o irragionevole, si riferisce all'applicazione o alla nonapplicazione della detta funzione. (15)

Par' 9. - I concetti formano una classe speciale dirappresentazioni, che son patrimonio esclusivo dello spirito umano, edifferiscono toto genere dalla classe delle rappresentazioniintuitive di cui si è finora parlato. Così non ci è mai possibileacquistare una conoscenza intuitiva e realmente evidente della loroessenza: tale conoscenza sarà sempre anch'essa astratta e discorsiva.Sarebbe quindi assurdo pretendere dai concetti una dimostrazionesperimentale, se per esperienza s'intende il mondo esterno e reale,che appunto è rappresentazione intuitiva; altrettanto assurdo volerlipresentati dinanzi agli occhi o all'immaginazione come se fosserooggetti percepibili. I concetti possono venire soltanto pensati, nonintuiti: oggetti veri e propri d'esperienza possono essere (non iconcetti, ma) soltanto gli effetti che l'uomo produce per loro mezzo.Tali sono: il linguaggio, la condotta riflessa e sistematica, lascienza, e tutte le loro conseguenze. La parola, come oggettod'esperienza esterna, non è manifestamente che un telegrafoperfettissimo, il quale trasmette con la piú grande rapidità dei toniconvenzionali aventi le piú delicate sfumature. Ma che significanoquesti segni? E come facciamo a interpretarli? Forse che noi, mentreche l'altro parla, traduciamo all'istante le sue parole in immaginidella fantasia che si muovono e si succedono davanti a noi con larapidità del baleno, s'incatenano, si trasformano e si coloranodiversamente, secondo l'affluire delle parole, secondo le loroflessioni grammaticali? In questo caso, che tumulto nel nostro caponell'udire un discorso o nel leggere un libro! In realtà la cosa vaben diversamente. Il senso delle parole viene con immediata esattezzapercepito e compreso, senza che di regola vi s'immischino immaginidella fantasia. E' la ragione che, senza uscire dal suo dominio,parla con la ragione; ciò che trasmette o riceve sono concettiastratti, rappresentazioni non intuitive; queste, create una voltaper sempre, abbracciano, comprendono ed esprimono, nonostante larelativa scarsità del loro numero, tutti quanti gli innumerevolioggetti del mondo reale. E questo appunto ci spiega come i bruti,benché possiedano al pari di noi gli organi del linguaggio e lerappresentazioni intuitive, pure siano incapaci di parlare e dicomprendere. Le parole, siccome designano quella classe tuttaspeciale di rappresentazioni, di cui la ragione è il correlato

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsoggettivo, non hanno per gli animali nessun significato e nessunvalore. Al pari d'ogni altro fenomeno riferibile alla ragione, alpari di tutto ciò che distingue l'uomo dal bruto, il linguaggio sideve ricondurre ad un'origine unica e semplice: ai concetti, che sonorappresentazioni astratte, non intuitive; universali, non individuatenel tempo e nello spazio. Soltanto in certi casi isolati noi passiamodal concetto all'intuizione, e ci creiamo delle immagini di fantasiadestinate a servire da intuitive rappresentanti dei concetti, cuiperaltro non son mai perfettamente adeguate. Se n'è parlato a lungonel par' 28 della dissertazione Sul principio di ragione; qui nonvoglio ripetermi; si confronti con l'esposizione mia quello che diceHume nel dodicesimo dei suoi Philosophical Essays, pag' 244, e quantoafferma Herder nella sua Metakritik (cattivo libro, del resto), parteI, pag' 274. L'idea platonica nata dall'unione della fantasia e dellaragione, formerà l'oggetto principale del terzo libro della presenteopera.Per quanto poi i concetti possano radicalmente differire dallerappresentazioni intuitive, pure hanno con queste una relazionenecessaria, senza la quale non esisterebbero, e che perciòcostituisce tutta la loro essenza e la loro realtà. La riflessionenon può essere che una copia, una ripetizione del suo originale, cheè il mondo intuitivo; sebbene questa copia sia di natura tutt'affattospeciale, e in materia completamente eterogenea. Quindi si può moltoesattamente definire il concetto: rappresentazione dirappresentazione. Anche il principio di ragione riveste qui una formaspeciale. E come ciascun'altra delle forme, in cui esso principiodomina una data classe di rappresentazioni, costituisce tuttal'essenza di questa classe in quanto classe di rappresentazioni(sicché il tempo è pura successione e nient'altro, lo spazio puraposizione e nient'altro, la materia pura causalità e nient'altro;come si è visto); così tutta l'essenza dei concetti, cioè dellaclasse delle rappresentazioni astratte, consiste unicamente nellarelazione che il principio di ragione esprime per loro mezzo. Siccomepoi tale relazione è quella del principio di conoscenza, tuttal'essenza della rappresentazione astratta consiste nella suarelazione con un'altra rappresentazione, che è il suo principio diconoscenza. Ora questa seconda rappresentazione può essere anch'essaun concetto, una rappresentazione astratta, ed avere a sua volta unprincipio di conoscenza pure astratto. Un tale processo però non puòprolungarsi all'infinito: la serie dei principi di conoscenza deve inultimo far capo a un concetto che abbia il suo principio nellaconoscenza intuitiva; poiché il mondo della riflessione riposa perintero su quello dell'intuizione quale suo principio di conoscenza.Dunque la classe delle rappresentazioni astratte si distingue daquella delle rappresentazioni intuitive in questo: il principio diragione richiede, in queste ultime, soltanto una relazione conun'altra rappresentazione della medesima classe: nelle prime richiedeinoltre la relazione con una rappresentazione di un'altra classe.Il nome di astratti (abstracta) venne dato preferibilmente a queiconcetti che (secondo quanto abbiamo dimostrato) si riallacciano allaconoscenza intuitiva non direttamente, ma soltanto per mezzo di uno odi piú altri concetti. Concreti (concreta) si dissero al contrarioquei concetti, che hanno il loro principio immediato nel mondointuitivo. Ma quest'ultimo nome non conviene che in senso moltoimproprio ai concetti che denota, poiché anche questi son sempreconcetti astratti e non mai rappresentazioni intuitive. Taleterminologia, inoltre, venne creata quando ancora non si aveva unacoscienza chiara della distinzione che doveva designare. Possiamotuttavia conservarla: purché si tenga conto della precedenteosservazione critica. Esempi della prima specie, ossia di abstractanel senso eminente della parola, ci son dati dai concetti di«relazione, virtú, ricerca, incominciamento» ecc'; sono della secondaspecie, ossia concreta impropriamente detti, i concetti di «uomo,pietra, cavallo» ecc'. Se la similitudine non fosse un po' troppospinta e non rasentasse lo scherzo, si potrebbe felicementeparagonare i concreta al pianterreno, e gli abstracta ai pianisuperiori dell'edificio della riflessione.Proprietà essenziale del concetto non è, come il piú delle volte si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpretende, l'abbracciare il molteplice, cioè il comprendere piúrappresentazioni intuitive od astratte che lo abbiano a principio diconoscenza, e che vengano pensate insieme con il concetto. Questa nonè che una proprietà derivata e secondaria; e sebbene debba sempre enecessariamente trovarsi in potenza nel concetto, pure non sempre visi riscontra in realtà. E deriva da ciò: che il concetto, essendorappresentazione di una rappresentazione, deve tutta la sua essenzaalla sua relazione con un'altra rappresentazione. Siccome il concettoè distinto da questa rappresentazione, la quale il piú delle volteappartiene a una tutt'altra classe, cioè all'intuizione, e può quindiavere determinazioni temporali, spaziali ed altre molte ancora chenon vengono comprese nel concetto stesso, ne risulta che piúrappresentazioni, differenti tra loro per note non essenziali,possono venir pensate o sussunte sotto il medesimo concetto. Peròquesta proprietà, di valere per piú oggetti, non è essenziale alconcetto, ma soltanto accidentale. Possono darsi dei concetti con cuisi pensi un oggetto reale, unico, i quali non sono perciò menoastratti e generali, né sono rappresentazioni singolari e intuitive:tal è ad esempio il concetto che uno si forma di una data città chegli sia nota soltanto dalla geografia: quel concetto, benché designiquesta unica città, pur potrebbe convenire a parecchie cittàdifferenti tra loro sotto diversi aspetti. Il concetto dunque nondeve il carattere d'universalità all'essere astratto da piú oggetti;al contrario, il pensare piú oggetti mediante lo stesso concetto èreso possibile soltanto da ciò: che l'universalità, cioè la qualitàdi non determinare il particolare, è essenziale al concetto comerappresentazione astratta della ragione.Risulta da quanto precede che ogni concetto, essendo unarappresentazione astratta e non intuitiva, e quindi non del tuttodeterminata, ha quella che noi chiamiamo un'estensione, una sfera, eciò anche nel caso in cui non esista che un unico oggetto realecorrispondente. Ora: si trova che la sfera di un concetto ha semprequalcosa di comune con la sfera di un altro, e cioè che quando sipensa un concetto si pensa in parte anche all'altro e viceversa; matuttavia, quando i due concetti sono realmente differenti, ciascunodei due, o uno almeno, contiene qualcosa che l'altro non ha: insiffatta relazione sta il soggetto col suo predicato. Riconosceretale relazione è giudicare. Una delle trovate piú felici è stataquella di rappresentare tali sfere con figure geometriche. La primainvenzione si deve a Goffredo Plouquet, che usava dei quadrati;Lambert, sebbene venuto dopo di lui, non si serviva che di semplicilinee sovrapposte; Eulero introdusse il maggiore perfezionamento conl'uso del cerchio. Su che si fondi quest'analogia cosí esatta fra lerelazioni dei concetti e quelle delle figure spaziali, non so dire.Fatto sta che per la logica è un aiuto ben prezioso il poter daremediante simili figure una rappresentazione intuitiva di tutte lerelazioni fra i concetti, anche secondo la loro possibilità ossia apriori, e cioè:1) Le sfere dei due concetti sono perfettamente uguali; ad esempioil concetto di necessità e quello di conseguenza da un datoprincipio; quello di ruminantia e quello di bisulca (ruminanti eanimali ad unghia fessa): come pure quello di vertebrati e quello dianimali a sangue rosso (benché qui ci sia da fare qualche obiezione acausa degli anellidi). Tutti questi sono concetti equivalenti; quindisi rappresentano con una sola sfera che designa tanto l'uno quantol'altro.2) La sfera di un concetto (animale) include totalmente quella d'unaltro (cavallo).3) Una sfera (angolo) ne include due o piú altre (angolo acuto,angolo retto, angolo ottuso) che si escludono mutuamente e che lariempiono.4) Due sfere (fiore, rosso) includono ciascuna una partedell'altra.5) Due sfere (acqua, terra) sono incluse in una terza (materia), manon la riempiono.Quest'ultimo caso è quello di tutti i concetti le cui sfere nonhanno alcuna comunione immediata, benché ci sia sempre un terzoconcetto, sebbene spesso molto esteso, che le include ambedue.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtA questi casi possono ricondursi tutte le combinazioni possibili diconcetti, e si può dedurne l'intera dottrina dei giudizi, la loroconversione, la contrapposizione, la reciprocità, la disgiunzione(questa secondo la terza figura); oltre alle proprietà dei giudizisulle quali Kant ha fondato le sue pretese categorie dell'intelletto.Bisogna però eccettuare la forma ipotetica, la quale non è unacombinazione di semplici concetti, ma di giudizi; e cosí anche lamodalità, della quale come di tutti i caratteri dei giudizi che hanservito di base alle categorie, sarà dato ampio conto nell'Appendice.Un'altra osservazione da fare in proposito alle diverse possibilicombinazioni di concetti è che queste possono venir combinate invario modo anche tra loro; come ad esempio la quarta figura con laseconda. Quando una sfera che ne comprende un'altra in tutto o inparte è alla sua volta inclusa totalmente in una terza, lacombinazione delle tre sfere rappresenta il sillogismo di primafigura; cioè quella concatenazione di giudizi per mezzo della qualesi riconosce che un concetto compreso in tutto od in parte in unaltro, è compreso anche in un terzo che comprenda quest'altro. Ma puòrappresentare anche, all'opposto, la negazione, l'immagine graficadella quale non può naturalmente consistere in altro che in due sferecongiunte, ma non incluse nella terza. Quando parecchie sferes'includono in tal modo, si ha una lunga catena di sillogismi. Questoschematismo dei concetti, già benissimo esposto in parecchi trattati,può servire di base alla dottrina dei giudizi e a tutta lasillogistica, e renderne l'insegnamento molto piú semplice e facile.Tutte le regole infatti possono in tal modo essere comprese, dedotte,spiegate secondo la loro origine. Non è però necessario infarcire lamemoria di tutte queste regole; poiché la logica, se ha un interessespeculativo per la filosofia, è assolutamente priva di qualsiasiutilità pratica. Si può dire bensí che la logica, rispetto alpensiero razionale, compie l'ufficio che il basso fondamentale compiein musica od anche, per servirci di una similitudine un po' menoprecisa, quello dell'etica nella virtú o dell'estetica nell'arte; mabisogna poi riflettere che nessuno è divenuto artista con lo studiodell'estetica, né uomo di nobile carattere con lo studio dellamorale; che ben prima di Rameau si scriveva della bella e buonamusica, e che per avvertire le disarmonie non c'è bisogno diconoscere il basso fondamentale; c'è maggior bisogno di saper lalogica per non lasciarsi trarre in inganno da sofismi. Bisognatuttavia convenire che la conoscenza del basso fondamentale è digrande utilità, se non per l'apprezzamento, almeno per lacomposizione di un'opera musicale; del pari anche l'estetica, epersino l'etica, possono avere, sebbene in grado di gran lungainferiore, una utilità pratica, anche se a carattere essenzialmentenegativo. Non si può dunque negare a tali discipline ogni valorepratico; ma non altrettanto si può dire della logica. La qualeinfatti non rappresenta che la scienza in abstracto di cose che tuttisanno in concreto. Cosí non c'è alcun bisogno dell'aiuto di regolelogiche per confutare un ragionamento falso, né per farne uno giusto;ed anche il logico piú consumato, quando ragiona per ragionare, metteda canto tutte le sue regole. Il che si capisce facilmente. Ogniscienza consiste in un sistema di verità, di leggi e di regole,universali perché astratte, relative a una qualsiasi categoria dioggetti. Ogni caso particolare del genere, che si presenta inseguito, vien sempre determinato secondo le norme generaliriconosciute valide una volta per sempre; infatti, è cosainfinitamente piú facile applicare una regola universale, che far unostudio particolare, o risalire all'origine, di ogni singolo caso chesi presenti; e la ragione universale astratta, una volta acquisita, èben piú a portata di mano che non la ricerca empirica del fattoparticolare. Ma con la logica è tutto il contrario. La logica è lascienza generale dei processi razionali, riconosciuti perintrospezione dalla ragione in se stessa, ed espressi nella forma diregole in seguito all'astrazione da ogni loro contenuto. Ma laragione, siccome tali processi le sono essenziali e necessari, non sene allontanerà in nessun caso quando sarà lasciata libera di sestessa. Dunque sarà piú facile e piú sicuro lasciarla in ogni singolocaso procedere secondo la propria natura, che imporle, sotto forma di

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlegge estranea e data dal di fuori, una disciplina astratta dei suoimedesimi processi. Ed è piú facile: perché, se nelle altre scienze laregola universale è piú comoda che non lo studio del singolo caso dasé solo e in se medesimo, nel ragionamento avviene proprio ilcontrario; il processo razionale necessario nel singolo caso dato ciriesce ben piú facile della regola generale che ne è stata astratta;ciò che ragiona in noi essendo la ragione stessa. Piú sicuro:infatti, l'insinuarsi d'un errore in una scienza astratta e nelle sueapplicazioni, è piú facile che non il realizzarsi d'un processorazionale che si esplichi in modo contrario all'essenza e alla naturadella ragione. Di qui la strana conseguenza che consiste nel fattoche mentre nelle altre scienze la regola è quella che assicura laverità nel caso particolare, in logica è invece il caso particolarequello che verifica la regola; e il piú abile logico quando nota unadivergenza fra la conclusione di un caso particolare e la regola,cercherà sempre l'errore in quest'ultima piuttosto che nellaconclusione ricavata effettivamente. Voler fare della logica un usopratico è un voler affannosamente dedurre da regole generali ciò chein ogni singolo caso particolare conosciamo con la massima immediatacertezza: come se per muoverci credessimo necessario studiare primala meccanica, o studiare la fisiologia per digerire. Chi insegna lalogica per un fine pratico somiglia a colui che volesse insegnare alcastoro la costruzione della sua capanna. La logica poi, benché privadi ogni utile pratico, si deve tuttavia mantenere, perché presenta uninteresse filosofico, in quanto conoscenza specialedell'organizzazione e dell'attività della ragione. Come scienzacompleta, autonoma, perfetta, ben costituita e assolutamente sicura,deve essere trattata a sé, indipendentemente da ogni altra scienza. Edeve fare parte dell'insegnamento universitario: ma non acquista ilsuo reale valore che dalla sua connessione con l'insieme dellafilosofia, nello studio della conoscenza, e specialmente dellaconoscenza razionale ed astratta.Per conseguenza il suo insegnamento non dovrebbe né indulgereeccessivamente alle forme convenienti a un indirizzo pratico, néesaurirsi in semplici regole per la conversione dei giudizi, per isillogismi ecc'; dovrebbe invece mirare soprattutto a far conoscerel'essenza della ragione e del concetto, a dare una completa dottrinadel principio di ragione come legge di conoscenza. La logica infattinon è che una parafrasi di quest'ultimo; e precisamente per il solocaso in cui il principio, che dà la verità ai giudizi, non sia néempirico né metafisico, bensì logico e metalogico. Sarebbe dunquebene porre, accanto al principio di ragione come legge di conoscenza,le tre altre leggi fondamentali del pensiero che tanto gli sonoaffini, e cioè i giudizi aventi verità metalogica. Su queste quattroleggi si costruisce tutta la tecnica della ragione. L'essenza delpensiero puro, cioè del giudizio e del sillogismo, deve esserespiegata, come abbiam fatto vedere, per mezzo di schemi grafici,mostranti le combinazioni delle sfere dei concetti; da queste figuresi possono poi dedurre per costruzione tutte le regole del giudizio edel sillogismo. Il solo uso, che in pratica si possa fare dellalogica, è nella discussione; e consiste nel far notare all'avversarionon tanto i suoi paralogismi involontari, quanto i suoi sofismipremeditati, denotandoglieli col loro nome tecnico. Non si devetuttavia credere che noi, respingendo ogni applicazione pratica dellalogica e limitandone l'importanza alla connessione con l'insiemedella filosofia, di cui costituisce un capitolo, vogliamo con ciòlimitarne lo studio piú che oggi non si faccia. Chi non vogliarestare all'oscuro delle cognizioni piú essenziali, confondendosi trala folla delle menti limitate e rinchiuse, deve studiare la filosofiaspeculativa; tanto piú che il nostro secolo decimonono è il secolodella filosofia (vogliamo dire, non che il nostro secolo abbia unafilosofia, o che la filosofia vi domini; ma che è maturo per lafilosofia e che ne sente un bisogno estremo; indizio d'una culturamolto raffinata che segna un punto ben fermo nella scala dellaciviltà). (16)Non si può negare che la logica, per quanto se ne voglia ridurre aiminimi termini l'utilità pratica, fu inventata per uno scopo pratico.La sua origine io me la spiego cosí. Quando, fra gli Eleati, i

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtMegarici e i Sofisti, la voluttà del disputare si accrebbe di piú inpiú, fin quasi a divenire una vera e propria mania, la confusione, incui degeneravano quasi tutte le dispute, dovette far sentire benpresto la necessità di un procedimento metodico, di trovare una guidain una dialettica scientifica. La prima cosa che si dovette osservarefu il fatto che le parti disputanti dovevano ogni volta mettersid'accordo sopra un principio qualunque cui si dovevano ricondurre nelcorso della disputa i punti controversi. Queste proposizioni,dapprima, non riguardavano che il lato materiale della ricerca. Manon si tardò ad avvertire, come anche nella maniera di ricondursialla verità concordata e di trarne le relative conclusioni siseguissero certe forme o leggi; sulle quali, pur senza un'intesapreventiva, non sorgeva mai disparere. Donde si concluse che le detteleggi dovevano costituire il processo proprio ed essenziale dellaragione, il lato formale di ogni ricerca. Ora, sebbene queste formenon fossero soggette né a dubbio né a controversia, pure un qualchecervello, sistematico fino alla pedanteria, pensò che sarebbe statacosa bella e perfetta come metodo dialettico l'enunciare in formuleastratte le dette forme o leggi del disputare, il procedere costanteregolare della ragione. Cosí tali formule, al pari di quelleconcordate in ordine alla materia, furono anch'esse poste a capodelle dispute, e costituirono il saldo canone cui sempre bisognavariferirsi e conformarsi. Cercando cosí di elevare a leggi coscientiespressamente formulate le regole fino allora seguite come in tacitoaccordo e per istinto, si trovarono a poco a poco delle espressionipiú o meno perfette per i princípi della logica, quali ad esempio iprincipi di contraddizione, di ragione sufficiente, del terzoescluso, il dictum de omni et nullo; si scoprirono poi le regolespeciali della sillogistica, quali ad esempio ex meris particularibusaut negativis nihil sequitur, a rationato ad rationem non valetconsequentia, ecc'. Ma questo progresso fu molto lento e faticoso,tanto che non troviamo nulla di perfetto prima di Aristotele. Bastiper accertarcene la maniera imbarazzata e prolissa in cui son portatea luce le verità logiche in alcuni dialoghi di Platone; meglio ancoraquello che Sesto Empirico ci racconta intorno alle dispute tra iMegarici sulle leggi piú facili e piú semplici della logica edintorno alla fatica che dovettero incontrare per portarle adesplicita chiarezza (Sext' Emp' adv' Math', l' Viii, pag' 112 esegg'). Aristotele raccolse, ordinò e corresse i risultati giàacquisiti, e portò il tutto ad un grado di perfezioneincomparabilmente piú alto. Chi riflette sul come il corso dellacultura greca preparò e provocò il lavoro di Aristotele, sarà pocodisposto a prestar fede alle testimonianze degli scrittori persianiriferite da Jones (troppo prevenuto in loro favore), secondo le qualiCallistene avrebbe trovato presso gli indiani una logica già bella efatta, e l'avrebbe mandata allo zio Aristotele (Asiatic Researches,vol' Iv, pag' 163). Si comprende facilmente come la logica diAristotele, anche sotto la forma mutilata dagli Arabi, fosse accolta,e fattone il centro di ogni scienza, nel triste medioevo, dagliscolastici: spiriti bramosi di disputa, privi di ogni vera scienza, enutriti soltanto di formule e di parole. Perduta in seguito ognidignità, nondimeno mantenne fino ai nostri tempi il credito discienza autonoma, pratica e sommamente necessaria; anzi, ai nostrigiorni, la filosofia kantiana, che l'aveva presa per sua pietrafondamentale, suscitò per la logica un nuovo interesse. Interessecertamente meritato quando la logica si consideri sotto questo puntodi vista, cioè come il mezzo di riconoscere l'essenza della ragione.Per concludere con rigore, bisogna considerare la relazione fra lesfere dei concetti; quando una sfera è contenuta esattamente inun'altra, e questa a sua volta in una terza, allora soltanto si puòritenere anche la prima come tutta inclusa nella terza. Invece,l'arte di persuadere si fonda su di un esame puramente superficialedelle relazioni fra le sfere dei concetti; e in una determinazioneunilaterale, diretta ai propri fini, delle sfere medesime. Il piúcomune procedimento è questo: la sfera del concetto in discorso,posto che sia contenuta in parte in una seconda, in parte anche inun'altra differente, vien fatta passare come contenuta per interonell'una o nell'altra, secondo l'interesse di chi parla. Quando ad

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtesempio si tratta della passione, si può farla rientrare a volontànel concetto della massima forza, dell'attività piú potente nelmondo; oppure nel concetto d'irragionevoleza, incluso alla sua voltain quello di debolezza e d'impotenza. Il procedimento può esserecontinuato ed applicato di nuovo ad ogni concetto su cui cada ildiscorso. Quasi sempre, con la sfera di un concetto, se neintersecano parecchie altre, di cui ciascuna chiude in sé una partedella prima, includendo peraltro assai di piú. Ebbene: di questeultime sfere si mette in luce soltanto quella sotto la quale si vuolsussumere il primo concetto; mentre le altre si trascurano o siomettono. Questo è lo stratagemma su cui effettivamente si fondanotutti gli artifizi della persuasione; i sofismi piú sottili, iripieghi logici, come il mentiens, il velatus, il cornutus ecc', sonotroppo grossolani per avere una reale possibilità di applicazione.Se, sino ad oggi, qualcuno abbia saputo ricondurre l'essenzadell'arte dei sofismi e della persuasione al detto principio supremodella sua possibilità, ed abbia dimostrato che tal principio risiedenella natura speciale dei concetti, cioè nel modo di conoscenza dellaragione, io non so. Voglio quindi propormi, poiché l'argomento mitrascina, di chiarire la cosa, del resto facilissima, con l'aiutodella tabella seguente (non riprodotta in Braille), la quale faràvedere come le sfere dei concetti s'intersechino in molteplice guisal'una con l'altra, e diano libero campo di passare a capriccio da unconcetto qualsiasi a questo o a quell'altro. Non vorrei tuttavia chea causa di questa tabella si fosse indotti ad attribuire al miopiccolo schiarimento fatto così di sfuggita, un'importanza maggioredi quella che realmente per sua natura gli compete. Ho scelto, qualeesempio esplicativo, il concetto del viaggiare. La sua sfera invadeil campo di quattro altre, a ciascuna delle quali può passare apiacimento chi parli con il proposito di persuadere; queste, a lorovolta, s'intersecano con altre sfere, talora con due o piú,attraverso le quali l'oratore può scegliere a volontà la sua strada,quasi fosse l'unica, per arrivare infine al Bene o al Male, secondola mira propostasi. Importa soltanto che nella successione dellesfere si proceda sempre dal centro (concetto principale dato) allaperiferia, non mai viceversa. Si può, secondo il lato deboledell'uditore, introdurre questa sofistica, sia in un discorsocorrente, sia nella forma rigorosa del sillogismo. In fondo, lamaggior parte delle dimostrazioni scientifiche, specie quellefilosofiche, non sono di natura diversa: ché altrimenti come sarebbepossibile capire il fatto che tante dottrine siano state, in tempidiversi, non solo erroneamente accettate (dato che l'errore ha in sestesso un'altra origine), ma dimostrate e provate, e tuttavia piútardi riconosciute false di sana pianta (ad esempio la filosofia diLeibniz e di Wolff, l'astronomia di Tolomeo, la chimica di Stahl, lateoria dei colori di Newton e così via)? (17)

Par' 10. - Tutte queste ragioni rendono di sempre maggiore urgenzail problema di come raggiungere la certezza, o del come debbanofondarsi i giudizi, in che cosa veramente consistano il sapere e lascienza, di cui noi, insieme con il linguaggio ed una condottarazionale, siamo soliti vantarci come il terzo grande privilegioconcessoci dalla ragione stessa.La ragione è di natura femminile: non dà se non quando abbiaricevuto. In se stessa non ha altro se non le vuote forme del suooperare. Cosí non esistono altre conoscenze razionali all'infuori deiquattro princìpi ai quali ho riconosciuta una verità metalogica, ecioè di quelli d'identità, di contraddizione, del terzo escluso e diragion sufficiente. Il resto della logica non è piú conoscenzarazionale perfettamente pura. Presuppone infatti le relazioni e lecombinazioni delle sfere concettuali; ora, i concetti non si formanose non in seguito a precedenti rappresentazioni intuitive: tutta laloro essenza si esaurisce nella relazione con tali rappresentazioni,e quindi presuppone la precedenza delle rappresentazioni. Tuttavia,siccome tale presupposto riguarda, non propriamente il contenutoparticolare dei concetti, ma soltanto la loro esistenza in genere, lalogica, nel suo insieme, può valere come scienza razionale pura. Intutte le altre scienze la ragione attinge il suo contenuto dalle

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazioni intuitive. In matematica il contenuto è tratto dallerelazioni di spazio e di tempo, intuitivamente conosciute prima diogni esperienza. Nella scienza naturale pura (in quelle cognizioniche, intorno al corso della natura, possiamo avere anteriormente adogni esperienza) il contenuto proviene dall'intelletto puro, cioèdalla cognizione a priori della legge di causalità e della suaconnessione con le intuizioni pure dello spazio e del tempo. Nellealtre scienze, tutto ciò che non è tolto dalle due surriferiteproviene dall'esperienza. Sapere significa in generale avere nelproprio spirito, per riprodurli a volontà, un buon numero di giudizi,il cui principio di conoscenza sia fuori dei giudizi stessi, i qualisiano cioè giudizi veri. Soltanto la conoscenza astratta è quindi unsapere. Ed essendo esso condizionato dalla ragione, non possiamo direin senso stretto, parlando degli animali, che essi siano in grado disapere, nonostante posseggano la conoscenza intuitiva, la correlativamemoria, e quindi anche la fantasia, come provano i loro sogni. Noiattribuiamo loro la coscienza; il cui concetto, sebbene la parolacoscienza venga da scire, si confonde per conseguenza con quello dirappresentazione in generale. Così attribuiamo alla pianta la vita,ma non la coscienza. Sapere è dunque conoscere astrattamente: fissarein concetti di ragione quello che prima si conosceva generalmente.

Par' 11. - Sotto questo punto di vista, il vero e proprio oppostodel sapere è il sentimento, di cui dobbiamo qui parlare. Il concettodesignato dalla parola sentimento ha un contenuto assolutamentenegativo; significa cioè qualcosa di attualmente presente nellacoscienza, ma che non è un concetto, non è una conoscenza astrattadella ragione. Del resto, qualsiasi cosa possibile ed immaginabilepuò rientrare nel concetto di sentimento; la sua sfera vastissimaabbraccia le cose piú eterogenee, di cui non si riesce mai acomprendere il punto di coincidenza, finché non si riconosce che siaccordano soltanto nel carattere negativo, di non essere concettiastratti. Cosí gli elementi piú diversi, anzi piú antitetici,convergono tutti in questo concetto: ad esempio il sentimentoreligioso, il sentimento del piacere, il sentimento morale; ilsentimento corporeo come il tattile o dolorifico, come il sentimentodei colori, dei suoni, delle loro armonie o disarmonie; il sentimentodell'odio, dell'orrore, della soddisfazione di sé, dell'onore, dellavergogna, del diritto, dell'ingiustizia; il sentimento della verità,il sentimento estetico, il sentimento della forza, della debolezza,della salute, dell'amicizia, dell'amore, ecc' ecc'. Non c'è di comunefra questi che il carattere affatto negativo di non essere conoscenzeastratte della ragione; la qual cosa colpisce anche di piú, quando siriconducano sotto questo concetto anche le conoscenze intuitive apriori delle relazioni spaziali, e soprattutto quelle dell'intellettopuro; e quando in genere, nel parlare di nozioni o verità conosciutesoltanto intuitivamente, ma non ancora ridotte a concetti astratti,si suol dire che si sentono.Per maggiore chiarezza, voglio riferire qui alcuni esempi tratti dalibri recenti, che sono una riprova meravigliosa della miaspiegazione. Ricordo di aver letto nell'introduzione di unatraduzione tedesca di Euclide, che bisogna far disegnare aiprincipianti di geometria tutte le figure, prima di passare alledimostrazioni, affinché sentano cosí la verità geometrica prima chela dimostrazione ne dia la perfetta conoscenza. Anche nella Criticadella morale di F' Schleiermacher si parla di sentimento logico ematematico (pag' 339), e di sentimento di eguaglianza edisuguaglianza fra due formule (pag' 342); nella Storia dellafilosofia del Tennemann, vol' I, pag' 361, si legge: «Si sentiva chei sofismi erano falsi, ma non se ne poteva scoprire l'errore». Finchéil concetto di sentimento non sarà considerato sotto il suo giustopunto di vista, e non si scorgerà il carattere negativo che ne è lavera essenza, la sua estensione immensa e il suo contenuto puramentenegativo non circoscritto né determinato che universalmente darannosempre appiglio a malintesi e a controversie. Siccome noi tedeschi,oltre alla parola sentimento abbiamo l'altra quasi equivalente diEmpfindung (sensazione), converrebbe riservare quest'ultima per lesensazioni corporee, come una sottospecie del sentimento. Ma

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'origine di questo concetto di sentimento, sproporzionato inparagone degli altri, è senza dubbio la seguente. Tutti i concetti (ele parole non esprimono altro che concetti) esistono soltanto per laragione dalla quale soltanto procedono; dunque: coi concetti cicollochiamo in un punto di vista unilaterale. Ora, da questo punto divista, tutto ciò che è vicino appare chiaro e vien posto comepositivo; ciò che è lontano si confonde, venendo cosí consideratocome negativo. Quindi ogni nazione tratta le altre da straniere; ilgreco chiama gli altri popoli col nome di barbari; per l'inglesetutto ciò che non è Inghilterra o non è inglese è continent ocontinental, il credente chiama gli altri eretici o pagani, il nobileli chiama roturiers, lo studente filistei e così via. L'identicaunilateralità, si può dire anche l'identica grossolana e orgogliosaignoranza, si può imputare alla ragione stessa, la quale abbraccia,sotto il concetto unico di sentimento, ogni modificazione dellacoscienza che non rientri immediatamente nel suo modo dirappresentazione, che cioè non sia un concetto astratto. E ne hadovuto fino ad ora portare la pena; siccome per mancanza di unapprofondito esame di se stessa non aveva potuto acquistare unacoscienza chiara dei propri processi, si è trovata esposta a milleerrori e malintesi nella sfera del suo stesso dominio; tanto che si èarrivati persino a stabilire una facoltà speciale del sentimento, e acostruirne poi delle teorie.

Par' 12. - Il sapere, il cui opposto contraddittorio è il concettodi sentimento or ora spiegato, consiste, come ho già detto, nellaconoscenza astratta, cioè nella conoscenza razionale. Peraltro laragione non presenta mai alla conoscenza se non quello che haricevuto per altra via, non allarga realmente il campo delle nostreconoscenze, ma si limita soltanto a dar loro un'altra forma. Ciò chenoi conosciamo intuitivamente, in concreto, la ragione ce lo faconoscere in via astratta e generale. Questo fatto è molto piúimportante di quanto non si creda a prima vista, giudicandolo nellaforma esposta. Infatti: ogni sicura conservazione delle nostreconoscenze, ogni loro comunicabilità, ogni sicura ed estesapossibilità di applicarle alla pratica, dipendono dall'essere taliconoscenze divenute un sapere, una conoscenza astratta. La conoscenzaintuitiva non vale mai che per il caso singolare, va sempre a ciò cheè piú vicino senza mai fare un passo piú in là, la sensibilità el'intelletto non potendo realmente abbracciare che un oggetto allavolta. Ogni attività sostenuta, coerente, metodica non può procedereche da princípi, cioè da un sapere astratto, e deve esserne diretta.Così ad esempio la conoscenza che l'intelletto ha della relazione tracausa e effetto, è certamente in sé ben piú completa, profonda eadeguata di quella che può pensarsi in abstracto; soltantol'intelletto riconosce in forma intuitiva, immediata e perfetta ilmodo d'agire di una leva, di una carrucola, di una ruotad'ingranaggio, il sostenersi di una volta su se stessa ecc'. Ma,stante il carattere testé indicato della conoscenza intuitiva, di nonoltrepassare cioè l'immediato presente, il semplice intelletto nonpuò bastare da solo a costruire macchine o edifici; qui occorre cheintervenga la ragione, la quale, in luogo delle intuizioni, ponga iconcetti astratti, e prenda questi ultimi a guida direttiva del suooperare: se i concetti sono indovinati, la riuscita è sicura. In parimodo riconosciamo perfettamente nell'intuizione pura la natura e leleggi d'una parabola, d'una iperbole, d'una spirale; ma per poterdare a questa conoscenza una sicura applicazione alla realtà, bisognaprima trasformarla in conoscenza astratta; la conoscenza perde allorala sua intuitività, ma guadagna in compenso la sicurezza e laprecisione del sapere astratto. Cosí il calcolo differenziale nonaumenta la nostra conoscenza delle curve, e non contiene piú diquanto è già incluso nella loro intuizione: modifica peraltro lanatura della conoscenza, da intuitiva la rende astratta e perciòfecondissima di applicazioni. A questo punto si presenta, del nostropotere conoscitivo, un'altra particolarità, che non si era fin quipotuta mettere in luce, in mancanza di una distinzione perfettamentechiara fra la conoscenza intuitiva e quella astratta. E consiste nelfatto che le relazioni di spazio non possono immediatamente come tali

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrientrare nella conoscenza astratta: il passaggio è possibilesoltanto per le grandezze di tempo, cioè per i numeri. Soltanto inumeri si possono esprimere in concetti astratti perfettamentecorrispondenti; ma non le quantità spaziali. Il concetto di milledifferisce dal concetto di dieci precisamente come due quantità ditempo differiscono nell'intuizione; noi pensiamo il mille come unmultiplo determinato del dieci, cui possiamo a volontà ridurlo perfacilitare l'intuizione nel tempo; in altre parole, noi possiamocontarlo. Ma fra il concetto di un miglio e quello di un piede, senon c'è l'aiuto della loro rappresentazione intuitiva, o quello delnumero, non è possibile stabilire una differenza precisa ecorrispondente alle due grandezze. Queste non offrono al pensiero cheuna quantità spaziale; per poterne fare una distinzione precisa nonc'è altro mezzo, che ricorrere all'aiuto dell'intuizione spazialeabbandonando cosí il campo della conoscenza astratta; oppure bisognapensare la differenza in numeri. Chi vuole dunque una conoscenzaastratta delle relazioni spaziali, deve prima ridurle a relazioni ditempo, e cioè in numeri, ecco perché scienza generale delle quantitàè l'aritmetica e non la geometria ed ecco anche perché la geometria,se vuol essere insegnabile, se vuole avere precisione, se vuoldivenire facilmente applicabile in pratica, deve prima tradursi intermini aritmetici. E' possibile pensare, anche in abstracto, unarelazione spaziale come tale, ad esempio: «il seno cresce inrelazione con l'angolo»; ma se si vuol determinare la grandezza diquesta relazione bisogna ricorrere al numero. Ciò che rende lamatematica cosí difficile è appunto questa necessità di dovertradurre lo spazio, con le sue tre dimensioni, nel tempo, il quale hauna dimensione sola, ogni qual volta si desideri una conoscenzaastratta (cioè un sapere, non una semplice intuizione) delle suerelazioni. La cosa appare chiarissima se paragoniamo l'intuizionedelle curve con il loro calcolo analitico, o anche le tavole deilogaritmi delle funzioni trigonometriche, con l'intuizione dellerelazioni variabili fra le parti del triangolo che questi logaritmiesprimono. Che spaventose combinazioni di cifre, che calcoli faticosinon sono stati necessari, per poter esprimere in abstracto ciò chel'intuizione afferra in un baleno con cosí perfetta precisione: cioèche il coseno di un angolo decresce col crescere del seno, che c'èuna relazione inversa di crescenza e di decrescenza fra i due angoliecc'. Quanto, starei per dire, ha dovuto il tempo torturarsi conl'unica sua dimensione, per arrivare a rendere in abstracto le tredimensioni dello spazio! Ma tutto questo era necessario, se volevamo,in vista della loro applicazione, possedere in concetti astratti lerelazioni dello spazio; questa riduzione era impossibile per viadiretta; si è dunque dovuto ricorrere all'intermediario dellaquantità pura di tempo, cioè del numero, unico concetto che possaimmediatamente tradursi in conoscenza astratta. E' degno di nota chementre lo spazio si adatta meravigliosamente all'intuizione, e permezzo delle sue tre dimensioni permette di scorgere delle relazionianche molto complicate, ma si sottrae d'altra parte alla conoscenzaastratta; il tempo, al contrario, si traduce facilmente in concettiastratti, ma si presta pochissimo all'intuizione. La nostraintuizione dei numeri, nel loro elemento essenziale del tempo puro,indipendentemente dallo spazio, arriva appena al dieci; al di là deldieci non abbiamo piú conoscenza intuitiva dei numeri, ma soltantoconcetti astratti. In compenso, con ogni numero e con ogni segnoalgebrico colleghiamo un concetto astratto ben preciso e determinato.Osserviamo qui di sfuggita che ci son degli spiriti i quali nontrovano piena soddisfazione che nel conoscere intuitivo. Quello checercano è la visione intuitiva della ragion d'essere nello spazio edelle sue conseguenze. Una dimostrazione d'Euclide, o una soluzionearitmetica di problemi geometrici, li lascia del tutto indifferenti.Altri spiriti, al contrario, non badano che ai concetti astratti, isoli che siano utili all'applicazione e all'insegnamento. Questiultimi hanno la pazienza e la memoria per i princípi astratti, per leformule, per le dimostrazioni incatenate in lunghe serie disillogismi, per i calcoli, i cui segni rappresentano le astrazionipiú complesse. Cercano la determinatezza laddove i primi cercanol'intuitività. La differenza è caratteristica.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtIl pregio del sapere, o del conoscere, consiste nellacomunicabilità e nella possibilità di venir conservato in formafissa: ed è da ciò soltanto che proviene la sua inestimabileimportanza pratica. Possiamo, con l'aiuto del semplice intelletto,acquistare una conoscenza immediata e intuitiva del nesso causale frai cambiamenti e i movimenti dei corpi naturali, e trovarcenepienamente soddisfatti; ma questa conoscenza non diviene comunicabilese non si fissa prima in concetti. E la conoscenza intuitiva puòbastare per la pratica; ma soltanto quando chi la possiede sia soload applicarla, e la applichi in atti eseguibili mentre l'intuizioneviva; non basta piú quando c'è bisogno dell'aiuto d'un terzo, oquando si tratta di un'operazione da eseguirsi in tempi differenti, eche esige un piano prestabilito, meditato. Così, ad esempio, unesperto giocatore di biliardo può, delle leggi dell'urto, avere unaconoscenza soltanto intellettiva, che peraltro gli è sufficiente; machi abbia studiato meccanica possiede la scienza delle dette leggi,ossia ne ha una conoscenza in abstracto. La semplice conoscenzaintuitiva basta anche per la costruzione di una macchina, quandol'inventore ne è anche l'esecutore, come si è visto non poche voltein operai pieni di talento e sprovvisti di ogni cultura scientifica.Ma quando, per eseguire un'operazione meccanica, per costruire unamacchina, un edificio, si esige l'intervento di parecchie persone, eun'attività coordinata che si ripete a diverse riprese; allora chidirige deve aver già concepito il suo piano in abstracto; e soltantol'aiuto della ragione rende possibile siffatto concorso di attività. E'da notare che nell'attività della prima specie, dove un uomo deve dasolo eseguire qualche cosa con un lavoro ininterrotto, il sapere,l'applicazione della ragione, la riflessione, possono spesso riuscired'ostacolo; come per esempio nel biliardo, nella scherma, nel canto,nell'accordare uno strumento. Qui l'attività deve essereimmediatamente guidata dalla conoscenza intuitiva: il procedereattraverso la riflessione rende malsicuro l'operare, perché dividel'attenzione e turba lo spirito. Ecco la ragione perché i selvaggi egli uomini incolti, assai poco abituati al pensare, eseguiscono certiesercizi corporei, lottano con gli animali, lanciano frecce, ecc',con una sicurezza e con una rapidità, che il riflessivo europeoneppur si sogna di raggiungere, appunto perché la riflessione lo faesitare e temporeggiare. Questi cerca per esempio il punto e ilmomento buono che diano il giusto mezzo fra due estremi egualmentefalsi; l'uomo di natura li indovina immediatamente senza tantirigiri. Cosí mi sarà del tutto inutile saper indicare in abstracto,in gradi e in minuti, l'angolo con cui debbo maneggiare il miorasoio, se quell'angolo non mi è noto intuitivamente, cioè se nonl'ho sulle dita. Altrettanto dannoso è l'impiego della ragione nellalettura della fisionomia; questo è ufficio immediato dell'intelletto;l'espressione, il significato dei lineamenti, non si possono chesentire, come suol dirsi; non è possibile tradurli in concettiastratti. Ogni uomo possiede immediatamente e intuitivamente, una suafisiognomica e patognomica; c'è chi afferra piú nettamente e chi menoquesta signatura rerum. Ma non è possibile fare della fisiognomica inabstracto come scienza da insegnare ed apprendere; poiché qui lesfumature son così fini, che il concetto non ci può discendere; larelazione fra il sapere astratto e tali sfumature si può paragonare aquella fra un mosaico e un quadro di van der Werft o di Denner. Comenel mosaico, per sopraffino che sia, i limiti delle pietre restanosempre decisi, e non è quindi possibile alcun passaggio per sfumaturegraduate da una tinta all'altra; così anche i concetti, per quanto sivogliano dividere e suddividere con successive determinazioni, sonoincapaci di raggiungere, con la loro rigidezza e la loro precisadeterminazione, le fini modificazioni dell'intuitivo; e invece èproprio questo il punto importante nella fisiognomica che io ho presoqui come esempio. (18)I concetti, per questa stessa proprietà che li rende simili allepietre di un mosaico, e in virtú della quale l'intuizione restasempre il loro asintoto, non possono produrre in arte nulla di buono.Se un cantante o un virtuoso volessero regolare la loro esecuzionecon la riflessione, starebbero freschi! Altrettanto si dica delcompositore, del pittore, e anche del poeta: il concetto rimane

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsempre sterile per l'arte; della quale può, al massimo, regolare latecnica; il suo dominio è la scienza. Nel terzo libro faremo megliovedere perché l'arte vera proceda sempre dalla conoscenza intuitiva,non mai dal concetto. La nozione astratta conferma il suo valorepuramente negativo anche dal punto di vista della condotta e dellafinezza del tratto; può reprimere le grossolane irruzionidell'egoismo e della bestialità, meritando lode di gentilezza, mal'attrattiva, la grazia, il fascino delle maniere, l'amabile el'amichevole, non possono venire dal concetto; anzi«fühlt man Absichtund man ist verstimmt.» (19)Ogni dissimulazione è opera della riflessione; ma non può durare alungo e senza interruzione: «nemo potest personam diu ferre fictam»,dice Seneca nel libro De clementia: il piú delle volte poi si lasciascoprire, e allora viene a perdere tutto il suo effetto. Nel tumultotempestoso della vita, nei momenti in cui s'impone rapidità nelledecisioni, audacia nell'agire, prontezza ed energia nell'afferrare,la ragione è senza dubbio necessaria; però, se prende il sopravvento,ed ostacola con il suo influsso deviatore l'azione intuitiva eimmediata dell'intelletto puro, la quale ci farebbe trovare e seguirela via piú buona, allora arreca indecisione e può facilmente guastareogni cosa.Finalmente, neppure la santità e la virtú non derivano dallariflessione, ma bensí dalle intime profondità del volere e dalla suarelazione con la conoscenza. Tratteremo altrove questo argomento; quinotiamo soltanto che i dogmi riferentisi all'etica possono essere imedesimi nella ragione di tutte le nazioni, ma l'operare nondimeno èdiverso per ciascun individuo; e viceversa. L'azione obbedisce, comesi suol dire, al sentimento; cioè non deriva da concetti, almeno perciò che ne riguarda il contenuto morale. I dogmi occupano l'indolenteragione: l'azione percorre la sua strada indipendentemente,procedendo quasi sempre, non secondo princípi astratti, ma secondomassime tacite, la cui espressione è appunto tutto l'uomo. E cosí,quantunque i dogmi religiosi possano differire non poco nei varipopoli, non è men vero tuttavia che per ciascuno l'azione buona èaccompagnata da un'indicibile soddisfazione, l'azione cattiva daterrore infinito; nessuno scherno può distruggere il primosentimento, nessuna assoluzione di confessore riesce a liberarci dalsecondo. Con questo non intendo negare che l'uso deLla ragione sianecessario per la condotta virtuosa: affermo soltanto che la ragionenon è la sorgente della virtú; la sua funzione è di natura puramentesubordinata, e non consiste che nel mantenere le risoluzioni prese,nel tenere presenti le massime, nel fortificare lo spirito contro ledebolezze momentanee, nel dare unità alla nostra condotta pratica.Identico ufficio, in fin dei conti, compie la ragione nel campodell'arte; non fa che proteggere l'esecuzione: perché il genio nonveglia in ogni momento, e nondimeno la sua opera dev'essere compiutain ogni sua parte e condotta a perfetta unità. (20)

Par' 13. - Tutte queste considerazioni sull'utilità e suglisvantaggi dell'impiego della ragione non hanno altro scopo che di farben vedere come il sapere astratto, sebbene sia il riflesso dellarappresentazione intuitiva su cui si fonda, pure non le si identificafino al punto da poterla sostituire in tutto e per tutto; anzi, nonle corrisponde mai esattamente. Ecco perché, come abbiamo visto,molte azioni umane non possono eseguirsi che con l'aiuto dellaragione e della riflessione, ma ce ne son anche di quelle che riesconmeglio senza il suo intervento. Questa incongruenza fra la cognizioneintuitiva e quella astratta, per cui quest'ultima non si avvicina maialla prima piú che il mosaico alla pittura, è anche la causa di unfenomeno assai singolare; appartenente, come la ragione, alla solanatura umana; e di cui, malgrado mille tentativi rinnovati, ancoranon si riuscì a dare una spiegazione soddisfacente; intendo parlaredel riso. Non possiamo, in virtú di questa sua origine, trattenercidal darne una spiegazione, sebbene ne venga di nuovo ritardato ilnostro cammino. Il riso proviene sempre da una sconvenienzasubitamente constatata fra un concetto e l'oggetto realerichiamatocene, in un modo o nell'altro, al pensiero; e non è appuntose non l'espressione di questo contrasto. Il quale si verifica spesso

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquando due o piú oggetti reali sono pensati sotto un solo concetto esussunti nella sua identità; mentre poi la loro divergenza radicale,evidente per tutto il resto, ci rende accorti che il concetto nonconveniva che sotto un solo punto di vista. Ma si ride spesso anchequando si scopre d'improvviso una discordanza fra un oggetto realesingolo e il concetto sotto cui è stato sussunto, a buon dirittoeppure sotto un altro punto di vista. Piú, da un lato, la sussunzionedi tali realtà nel concetto è giusta; piú d'altro lato il lorocontrasto è forte e stridente; e tanto maggiore sarà l'effettoridicolo che ne risulta. Il riso si produce sempre in seguito a unasussunzione paradossale, e quindi inattesa, espressa in parole o conatti. Ecco, in poche parole, la giusta spiegazione del riso.Non voglio qui trattenermi a raccontare aneddoti ed esempi aconforto della mia teoria: che è tanto semplice e facile da nonaverne bisogno; e i ricordi di ogni lettore in materia di risobastano da soli a sostenerla e confermarla. Ma la teoria è in paritempo verificata e resa piú evidente dalla distinzione che ne derivafra due spade in cui si divide il ridicolo. Ed è questa: o son datinella conoscenza due o piú differenti oggetti reali, due o piúrappresentazioni intuitive, che identifichiamo arbitrariamentenell'unità di un concetto comune: questo genere di ridicolo si chiamaspirito. Oppure, viceversa, c'è dapprima nella conoscenza ilconcetto, dal quale passiamo in seguito alla realtà e al modo nostrod'operare sulla realtà, cioè alla pratica: oggetti radicalmentedifferenti sotto ogni altro aspetto ma che il pensiero abbraccia conun solo concetto, vengono considerati e trattati tutti allo stessomodo; finché da ultimo la grande divergenza che li separa finisce perdare nell'occhio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera:questo genere di ridicolo è la buffoneria. Per conseguenza tutto ciòche fa ridere, o è una trovata spiritosa, o un atto buffo secondo chesi passi dal contrasto fra gli oggetti all'identità del concetto, oviceversa il primo caso è sempre volontario, il secondo sempreinvolontario e necessitato dal di fuori. Scambiare di propositoquesti punti di vista, e dare allo spirito l'apparenza dellabuffoneria, è l'arte dell'arlecchino e del giocoliere; il quale, conpiena coscienza della diversità degli oggetti, li unisce con arguziasegreta sotto uno stesso concetto; poi, procedendo, ne scopre ladiversità, provando la sorpresa che si era già preparata. Da questabreve ma completa teoria del ridicolo risulta, tralasciando l'ultimocaso dell'arlecchino, che lo spirito si manifesta sempre in parole,la buffoneria quasi sempre nell'azione (qualche volta però anche inparole: come quando si limita a manifestare un'intenzione in luogo diattuarla realmente o quando si manifesta in semplici giudizi eopinioni).Alla buffoneria si riconnette anche la pedanteria: provenientedalla poca fiducia che si ha nel proprio intelletto; al quale perciònon possiamo concedere la libertà di scegliere il partito migliorenelle circostanze singole, e lo mettiamo sotto la tutela assolutadella ragione, attenendoci rigorosamente a questa, non muovendo unpasso se non dietro la guida di concetti, di regole, di massime, cuisi presta obbedienza assoluta e nell'arte, e nella vita, e persinonella condotta morale. Donde l'attaccamento del pedante alla forma,alla maniera, all'espressione, alla parola, che sostituiscono per luila realtà vera delle cose. Ma tosto appare in lui l'incongruenza frail concetto e la realtà; si vede allora che quello non discende maifino al particolare; e che la sua universalità e la rigidezza dellasua determinazione non gli permettono di quadrare a capello con lefini sfumature, con le svariate modificazioni della realtà. Eccoperché il pedante, nonostante le sue massime generali, si trova nellavita, quasi sempre alla sprovvista, facendosi vedere imprudente,insipido e inutile; nell'arte, dove il concetto è sterile, nonproduce che opere mancate, senza vita, senza moto e senzaspontaneità. Anche sotto il punto di vista etico, il proposito dioperar bene o generosamente non può venire sempre realizzato permezzo di massime astratte; in molti casi la natura delle circostanze,con l'infinita delicatezza delle loro sfumature, esige che l'uomo,per scegliere la via migliore, non consulti direttamente che ilproprio carattere. Perché l'applicazione di massime puramente

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtastratte, ora dà dei falsi risultati, in quanto le massime nonconvengono che a metà; ora non può essere attuata, in quanto sonoestranee al carattere individuale di chi opera, e questo caratterenon si può mai rinnegare del tutto; donde l'inconseguenza. NeppureKant non è del tutto esente dalla taccia di pedanteria in morale,quando pone a condizione del valore morale di un'azione il suo esserprodotta secondo massime astratte, puramente razionali, escludentiqualsiasi inclinazione o emozione momentanea; questo rimprovero siritrova anche nel senso dell'epigramma di Schiller intitolatoScrupolo di coscienza. Quando, soprattutto in politica, si parla didottrinari, di teorici, di eruditi ecc', non s'intende parlare che dipedanti, cioè di gente che conosce le cose in abstracto, ma non inconcreto. L'astrazione non consiste che nello spazzar via colpensiero i particolari: ora son proprio i particolari quelli cheimportano nella pratica.Per completare la nostra teoria dobbiamo menzionare ancora un'altrafalsa specie di spirito, il giuoco di parole o calembour o pun, cuisi può ricondurre il doppio senso, l'équivoque, che esprime sempreun'oscenità. Come lo spirito consiste nel riunire sotto un soloconcetto due oggetti reali differenti, cosí il giuoco di parole,profittando del caso, confonde in una sola parola due concettidifferenti; il contrasto che ne risulta è lo stesso, molto piú deboleperò e superficiale, in quanto non scaturisce dalla natura dellecose, ma soltanto da una casuale identità di denominazione. Inmateria di spirito, l'identità è nel concetto, la differenza nellarealtà; nel giuoco di parole invece la differenza è nei concetti,l'identità nella realtà, che è costituita dal suono della parola. Consimilitudine un po' ricercata si potrebbe dire che il giuoco diparole sta allo spirito, come la parabola segnata nella faldasuperiore del cono, la cui punta è in giú, sta a quella segnata nellafalda inferiore. Il malinteso della parola, ossia il qui pro quo, èun calembour involontario, e vi rassomiglia come la buffoneria allospirito. Cosí, chi è duro d'orecchio dà spesso materia a riso,proprio come il buffone, e i cattivi commediografi se ne servonoappunto in guisa di buffoni per provocare l'ilarità.Ho qui considerato il riso dal puro lato psichico. Per il latofisico rimando a ciò che ne ho detto nei miei Parerga, vol' Ii, cap'6, par' 96, pag' 134 (prima edizione). (21)

Par' 14. - Dopo tutte queste svariate considerazioni - le quali,spero avran fatto ben comprendere la differenza e la relazione chepassano fra il modo di conoscenza della ragione, il sapere e ilconcetto da un lato, la conoscenza immediata nell'intuizione(sensibile pura e matematica) e l'appercezione per mezzodell'intelletto dall'altro, dopo la teoria episodica del sentimento edel riso, a cui ci ha condotti quasi insensibilmente lo studio dellameravigliosa relazione fra tutti i nostri modi di conoscenza -ritorniamo alla scienza, di cui faremo un esame ulteriore, come delterzo privilegio che la ragione ha concesso all'uomo, accanto allafavella e alla condotta riflessa. La trattazione generale che faremodella scienza, si riferirà in parte alla sua forma, in parte alfondamento dei suoi giudizi, per ultimo anche alla sua sostanza.S'è visto che il sapere - trattine i princìpi della logica pura -non deriva dalla ragione; ma, procacciato per altra via (comeconoscenza intuitiva), riceve poi dalla ragione che lo accoglie laforma ben diversa di conoscenza astratta. Ogni sapere, cioè ogniconoscenza elevata alla coscienza in abstracto, sta alla scienzapropriamente detta, nell'identica relazione con cui un frammento staal tutto. Ciascun uomo, con l'esperienza, con l'osservazione di moltifenomeni, riesce ad acquistare una conoscenza di cose particolari; maverso la scienza procede soltanto chi si propone di acquistare,intorno a qualsiasi classe di oggetti, una precisa cognizione inabstracto, isolando questa classe con l'aiuto del concetto. Alla cimadi ogni scienza troviamo perciò un concetto, che isola dalla totalitàdelle cose quella parte di cui la scienza medesima vuoi darci unaperfetta conoscenza in abstracto; ad esempio: il concetto dellerelazioni spaziali, o dell'azione reciproca dei corpi inorganici, odella natura delle piante o degli animali, o delle variazioni

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsuccessive della superficie della terra, o delle modificazioni dellaspecie umana presa nel suo insieme, o della formazione di una lingua,ecc'. Se la scienza volesse acquistare la conoscenza del suo oggettoesaminando ogni singola cosa compresa nel suo concetto, fino a chenon arrivasse a poco a poco a prender conoscenza di tutto, in primoluogo non ci sarebbe memoria d'uomo che bastasse, inoltre, non sisarebbe mai certi di aver tutto esaurito. Ecco perché la scienzamette a profitto la suddetta proprietà che hanno le sfere deiconcetti di includersi a vicenda; si eleva dapprima alle sfere piúvaste comprese nel concetto del suo oggetto; e determinandone lerelazioni reciproche, tutti i loro dementi si trovano in pari tempodeterminati; la determinazione diviene sempre piú precisa quanto piúesclude le sfere concettuali via via piú ristrette. Soltanto così èpossibile che una scienza abbracci completamente il suo oggetto. Lavia seguita per arrivare alla conoscenza, e cioè il passaggio dalgenerale al particolare, la distingue dal sapere comune; sicché laforma sistematica è un elemento essenziale e caratteristico dellascienza. La connessione delle sfere dei concetti piú generali di ogniscienza, cioè la conoscenza dei suoi supremi princípi, è lacondizione indispensabile per il suo apprendimento; in séguito èpossibile però discendere fin dove si voglia nello studio deiprincípi particolari; col che peraltro si accresce, non la profonditàdella dottrina, ma soltanto la vastità dell'erudizione. Il numero deiprincípi superiori, a cui tutti gli altri sono subordinati, è moltovario nelle varie scienze: in alcune c'è piú subordinazione, in altrepiú coordinazione: sotto questo riguardo le prime richiedono piúgiudizio, le seconde piú memoria. Era già noto agli scolastici, (22)che siccome il sillogismo esige due premesse, nessuna scienza puòpartire da un principio unico irriducibile, ma ne suppone parecchi,per lo meno due. Le scienze di vera e propria classificazione(zoologia, botanica, e anche fisica e chimica, in quanto riconduconotutte le azioni inorganiche a un piccolo numero di forze elementari)possiedono la massima subordinazione. Al contrario la storia non neha propriamente alcuna. Infatti: quello che vi è di generale nellastoria non consiste che in un esame dei periodi principali; ma ifatti particolari, benché subordinati ai periodi quanto al tempo, visi debbono ritenere soltanto coordinati quanto al contenuto, nonessendo possibile dedurli dai caratteri generali dei periodi. Sicchéla storia, parlando con rigore, è un sapere, non già una scienza. Inmatematica, è vero che, stando al metodo di Euclide, gli assiomi sonoi soli princípi indimostrabili a cui tutte le dimostrazioni vengonogradualmente e rigorosamente subordinate; ma un tal metodo non le èessenziale; infatti, ogni teorema dà luogo a una costruzione spazialenuova, indipendente dalle anteriori, che potrebbe anche venireaccettata per sé, indipendentemente, nell'intuizione pura dellospazio; nella quale anche la costruzione piú complicata èimmediatamente evidente non meno dell'assioma; di che riparleremo piúa lungo in seguito. Poniamo intanto come dato acquisito che ogniprincipio matematico è una verità generale valida per un numeroinfinito di casi particolari; questo passaggio graduale dai princìpipiú semplici ai piú complicati, e la riducibilità di questi a quelli,è condizione essenziale per la matematica; la quale, sotto questopunto di vista, è dunque una scienza. La perfezione di una scienzacome tale, cioè quanto alla sua forma, consiste nella massimasubordinazione possibile e nella minima possibile coordinazione deisuoi princípi. Per conseguenza il talento scientifico in generaleconsiste nella facoltà di subordinare le sfere dei concetti secondol'ordine delle loro differenti determinazioni; in tal modo la scienza- come raccomanda piú di una volta Platone - non è costituita da unageneralità cui debba immediatamente sottostare la giustapposizioned'una varietà infinita di casi particolari, ma una conoscenza chediscende gradualmente dal generale al particolare per mezzo diconcetti intermedi e di divisioni fondate su determinazioni semprepiú ristrette. In linguaggio kantiano ciò significa: soddisfare inegual misura alla legge di omogeneità e a quella di specificazione.Ma, dall'essere questo il carattere della vera perfezionescientifica, risulta che fine della scienza non è una certezzamaggiore, poiché una uguale certezza è riconoscibile anche nella

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcognizione singola piú frammentaria: il suo fine vero è di facilitareil sapere col dargli una forma, e per conseguenza di procurargli lapossibilità di essere completo. Deve dunque ritenersi erronea, benchémolto comune, l'opinione che il carattere scientifico dellaconoscenza consista nella sua maggiore certezza; parimenti falsa èl'opinione che ne deriva, secondo la quale il nome di scienza vera epropria non conviene che alla matematica e alla logica, nelle qualisoltanto si riscontra, in virtú della loro apriorità completa, unaconoscenza irrefragabilmente certa. Questo privilegio, senza dubbio,non è contestabile; ma non può dare a quelle il diritto esclusivo altitolo di scienze: il carattere di scienza consiste infatti, non giànella sicurezza, ma nella forma sistematica della conoscenza, fondatain una graduale discesa dal generale al particolare. Il metodospeciale della conoscenza nelle scienze, consistente nel procederedal generale al particolare, ha come conseguenza il fatto che moltedelle loro proposizioni si fondano su princìpi anteriori, e quindi suprove. Di qui l'antico errore, che non ci sia nulla di perfettamentevero se non ciò che è provato, e che ogni verità abbia bisogno di unadimostrazione; mentre al contrario, ogni prova si appoggia su di unaverità non provata che fonda la prova o anche la prova della prova:una verità direttamente stabilita è dunque preferibile a quellafondata su di una dimostrazione, come l'acqua di sorgente a quella diacquedotto.L'intuizione, sia pura e a priori come in matematica, sia empiricae a posteriori come nelle altre scienze, è la sorgente di ogni veritàe il fondamento di ogni scienza. (Bisogna eccettuarne soltanto lalogica che è fondata sulla conoscenza non intuitiva, sebbeneimmediata, che la ragione acquista delle sue proprie leggi.) Non igiudizi dimostrati e le loro dimostrazioni, ma i giudizi attintidirettamente all'intuizione ed aventi questa come unica prova, sonoper la scienza quello che il sole è per l'universo: l'unica fonte diluce; sicché soltanto ciò che n'è irradiato può alla sua voltairradiare tutto il resto. Stabilire direttamente per intuizione laverità dei primi giudizi, e astrarre dall'infinita moltitudine dellecose reali le pietre fondamentali della scienza, ecco l'opera delgiudizio; facoltà consistente nel trasportare con esatta fedeltà laconoscenza intuitiva nella coscienza astratta, mediando cosí fral'intelletto e la ragione. Per introdurre nella scienza un realeprogresso è necessaria una forza di giudizio superiore alla comune:dedurre proposizioni da proposizioni, dimostrare, sillogizzare, ditutto ciò è capace ogni uomo di sana ragione. Invece bisogna astrarrele conoscenze intuitive, fissandole con la riflessione in concetticonvenienti, cosí da raccogliere sotto un concetto unico il caratterecomune di molti oggetti reali, e sotto altrettanti concetti i lorocaratteri differenti; in altre parole: far sí che il diverso vengariconosciuto e pensato come diverso nonostante un'identità parziale,e l'identico anch'esso come identico malgrado una parzialedivergenza; e tutto ciò conformemente al fine, al punto di vista, chedominano in ogni caso: ecco l'opera del giudizio. La mancanza digiudizio si chiama semplicità. Lo sciocco disconosce: ora ladifferenza parziale e relativa di ciò che sotto qualche aspetto èidentico; ora l'identità delle cose che differiscono soltanto in modorelativo e parziale. Del resto, anche a questa dottrina del giudiziosi può applicare la distinzione di Kant dei giudizi in riflettenti esussumenti (secondo che la facoltà giudicante procede dall'oggettod'intuizione al concetto o dal concetto all'oggetto d'intuizione): ilgiudizio, cosí nell'uno che nell'altro caso, fa da intermediario frala conoscenza intuitiva dell'intelletto e quella riflessiva dellaragione. Una verità ottenibile per via di soli sillogismi non esiste,la necessità di fondarla in tal modo è sempre relativa e soggettiva.Siccome ogni dimostrazione è un sillogismo, il primo pensiero per unaverità nuova è di cercarne, non una dimostrazione, ma l'evidenzaimmediata, e soltanto in mancanza di questa si ricorreprovvisoriamente alla dimostrazione. Una scienza interamentededuttiva non ci può essere, come non ci può essere un edifiziofondato in aria: tutte le sue dimostrazioni debbono far capo aqualcosa d'intuitivo, di non piú dimostrabile; perché tutto il mondodella riflessione ha la sua base e le sue radici nel mondo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdell'intuizione. Ogni evidenza ultima, e cioè originaria, è, come giàdice il suo nome, di carattere intuitivo; è dunque, o empirica, ofondata sull'intuizione a priori delle condizioni dell'esperienzapossibile; in ambedue i casi non dà quindi che una conoscenzaimmanente e non trascendente. Nessun concetto ha realtà e valore senon in relazione, sia pur mediata quanto si voglia, con unarappresentazione intuitiva; quanto si è detto dei concetti si ripetaper i giudizi che vi si fondano, e in genere per tutte le scienze. Cidev'essere quindi un qualche mezzo per riconoscere direttamente,anche senza bisogno di prove né di sillogismi, ogni verità scopertaper via sillogistica e comunicata con dimostrazioni. Questo riusciràsenza dubbio difficilissimo, per molte proposizioni matematiche moltocomplesse a cui non arriviamo che per lunga serie di sillogismi, qualè ad esempio il calcolo dei seni e delle tangenti negli archi, che sideduce dal teorema di Pitagora. In ogni modo, anche una verità di talgenere non può fondarsi essenzialmente ed esclusivamente su princìpiastratti, ma le relazioni spaziali che le stanno a base si debbonopoter mettere in evidenza con un'intuizione meramente a priori,sicché la loro enunciazione astratta ne venga immediatamenteconfermata. Tratteremo ora per esteso delle dimostrazionimatematiche.Si parla sovente in tono molto solenne, di scienze, che, fondateinteramente su conclusioni tratte a rigore da premesse assolutamentecerte, sono dunque irrefutabilmente vere. Ma con una serie puramentelogica di sillogismi, per sicure che ne siano le premesse, non siarriverà mai se non a chiarire ed esporre quello che già eracontenuto nelle premesse; non si farà dunque che mostrare explicitequello che già si sapeva implicite nelle premesse medesime. Quando siparla di queste famose scienze si suole alludere specialmente allamatematica, e in modo piú particolare all'astronomia. Ma la certezzadi quest'ultima deriva dal fatto che la sua base prima èl'intuizione, a priori, e perciò infallibile, dello spazio, e inoltreda ciò, che le relazioni spaziali derivano l'una dall'altra con unanecessità (principio d'essere) che le rende certe a priori, e cioèdeducibili con sicurezza l'una dall'altra. A queste determinazionimatematiche si aggiunge soltanto un'unica forza fisica, la gravità,che opera in relazione esatta con le masse e coi quadrati delledistanze; infine la legge d'inerzia, certa a priori poiché derivantedal principio di causalità, insieme con il dato empirico delmovimento impresso una volta per sempre a ciascuna massa.Ecco tutto il materiale dell'astronomia: materiale che per la suasemplicità, come per la sua sicurezza, conduce a risultati cosícerti, e (per la grandezza e l'importanza del suo soggetto) cosíinteressanti. Cosí, ad esempio, conoscendo la massa di un pianeta ela distanza del suo satellite, possiamo concludere con sicurezza iltempo di rivoluzione di quest'ultimo, in base alla seconda legge diKeplero; il principio di questa legge è che alla tal distanzasoltanto la tale velocità è capace di mantenere il satellite unitocol pianeta impedendone in pari tempo la caduta sul pianeta medesimo.Dunque: soltanto con l'aiuto della base geometrica (cioè diun'intuizione a priori) e dell'applicazione di una legge fisica, èpossibile progredire nei ragionamenti; che qui servono soltanto, percosí dire, da ponti per passare da una conoscenza intuitiva adun'altra. Ma non è piú cosí quando si tratta di pure e sempliciconclusioni tratte per via esclusivamente logica. Tuttavia l'originedelle prime verità fondamentali dell'astronomia è l'induzione, cioèquel processo con cui si raccolgono in un giudizio esatto eimmediatamente fondato i dati compresi in molte intuizioni; su questogiudizio si formulano allora delle ipotesi; la cui conferma da partedell'esperienza (conferma che è un'induzione molto vicina allaperfezione) viene a provare l'esattezza di quel primo giudizio. Peresempio: riconosciuto il movimento apparente dei pianeti, dopo tanteipotesi false circa le relazioni spaziali di questo movimento (orbitaplanetaria), si trovò infine l'ipotesi vera, poi le leggi che reggonoil movimento (leggi di Keplero), e in ultimo si scoprí anche la causadi queste leggi (gravitazione universale). In seguito, l'accordoempiricamente riconosciuto di ciascun caso presentatosi con ilcomplesso delle dette ipotesi e delle loro conseguenze, cioè

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'intuizione, assicurò la piena certezza delle ipotesi. La scopertadell'ipotesi fu affare del giudizio, che bene interpretò e formulòconvenientemente il dato di fatto; ma fu l'intuizione (una intuizionemultipla), quella da cui la verità dell'ipotesi venne confermata.L'ipotesi potrebbe esser verificata anche direttamente, con una solaintuizione empirica, se potessimo percorrere liberamente gli spazi,ed avessimo degli occhi telescopici. Per conseguenza, neppure inquesto caso i ragionamenti non sono l'unica ed essenziale sorgentedella conoscenza; ed anzi non sono che ripieghi.Per dare un terzo esempio d'altro genere, faremo notare che neanchele verità metafisiche, quali son quelle stabilite da Kant nei suoiPrincípi metafisici della scienza della natura, non debbono la loroevidenza alle dimostrazioni. Ciò che è certo a priori, noi loriconosciamo immediatamente; essendo la forma di ogni conoscenza,esso ha per noi un carattere di massima necessità. Ad esempio, ilprincipio che sostiene che la materia è permanente, ovveroimpossibilitata a crearsi o a distruggersi, è noto direttamente comeverità negativa; infatti la nostra intuizione pura del tempo e dellospazio ci fa conoscere la possibilità del movimento, l'intelletto cifa comprendere, nella legge di causalità, la possibilità delcambiamento nella forma e nella qualità: ma siamo assolutamente prividi forme in cui rappresentarci una creazione o una distruzione dellamateria. La verità su enunciata fu quindi evidente sempre dappertuttoe per ciascuno; e non fu mai seriamente messa in dubbio; il che nonpotrebbe essere se il suo principio di conoscenza non fosse qualcosadi ben altro dalla così difficile e vacillante dimostrazione di Kant.A me anzi questa dimostrazione sembra falsa (come dimostro a lungonell'Appendice), ho già fatto vedere che la permanenza della materia,quale fondamento della possibilità dell'esperienza, deriva dalpartecipare di questa non al tempo bensì allo spazio. La verificareale di queste verità, dette metafisiche in tal senso, cioè diqueste espressioni astratte delle forme necessarie ed universalidella conoscenza, non può a sua volta essere trovata in princìpiastratti, ma soltanto nella coscienza diretta delle forme dellarappresentazione; coscienza che si manifesta a priori conaffermazioni apodittiche incapaci di qualsiasi confutazione. Se,nonostante tutto ciò, si vuol ricorrere alla prova, questa potràconsistere soltanto nel dimostrare che la verità da provare ècontenuta, come parte o come ipotesi, in un'altra verità noncontestata; in tal modo ho dimostrato, ad esempio, che ogniintuizione empirica contiene già l'applicazione della legge dicausalità, la cui conoscenza è perciò condizione di ogni esperienza,e non può dunque esser data o condizionata da questa, secondo chepretendeva Hume. In generale, le prove son fatte meno per quelli chestudiano che per quelli che vogliono disputare. Questi ultimi neganoostinatamente ogni proposizione direttamente stabilita: ora, soltantola verità può esser conseguente sotto tutti gli aspetti: si devedunque far veder loro come accordino sotto una forma e mediatamenteciò che negano direttamente sotto un'altra forma, si deve in altreparole, mostrar loro la connessione logicamente necessaria fra quelloche negano e quello che ammettono.Risulta inoltre dalla forma scientifica, cioè dal metodoconsistente nel subordinare il particolare al generale risalendosempre piú, che la verità di molte proposizioni è soltanto logica;cioè fondata sulla dipendenza da altre proposizioni, sul ragionamentoil quale serve nello stesso tempo di prova. Non bisogna però maidimenticare che questa forma è soltanto un mezzo per facilitare ilconoscere; non per ottenere una maggiore certezza. Conoscere lanatura di un animale per mezzo della specie a cui appartiene e cosìvia per mezzo del genere, della famiglia, dell'ordine e della classeè certamente piú facile, che non studiare volta per voltaseparatamente ogni singolo animale; ma la verità di ogni proposizionededotta per via di ragionamento è sempre soltanto condizionata, edipende infine sempre da una verità fondata, non sul ragionamento, masull'intuizione. L'intuizione, se fosse sempre in nostro potere alpari della deduzione sillogistica, sarebbe sempre da preferire.Infatti, il dedurre da concetti espone sempre a parecchi errori, acausa del molteplice interferire delle sfere dei concetti di cui

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtabbiam sopra parlato, e della determinazione spesso incerta del lorocontenuto: servano d'esempio le dimostrazioni di tante false dottrinee i sofismi di qualsiasi specie. Senza dubbio, il sillogismo è,quanto alla sua forma, di assoluta certezza; ma non altrettanto sipuò dire della sua materia, cioè dei concetti; e ciò perché le sferedi questi, da una parte non sono abbastanza precisate, dall'altras'incrociano in tanti versi, che una sfera è contenuta parzialmentein un'infinità d'altre, e dunque c'è dell'arbitrario nel passaredall'una all'altra successivamente, come venne spiegato.In altre parole: il terminus minor, com'anche il medius, possonosempre venire subordinati a concetti differenti, fra i quali sisceglie a volontà il terminus maior e il medius: cosí la conclusionesarà differente a seconda della scelta del concetto. Risulta da tuttociò, che bisogna sempre di gran lunga preferire l'evidenza immediataalla verità dimostrata; e che non si deve ricorrere a questa se nonquando la prima si dovesse cercare troppo lontano, ma non già quandoci fosse ugualmente o maggiormente vicina. Ecco perché (s'è vistosopra), dove la conoscenza immediata dei singoli casi ci è piú allamano che non la conoscenza scientifica dedotta, il nostro pensiero sidirige sempre dietro la conoscenza immediata delle leggi di ragione,senza ricorrere alla logica. (23)

Par' 15. - Siamo dunque persuasi che l'intuizione è la primasorgente di ogni evidenza; che la verità assoluta consiste unicamentein una relazione diretta o indiretta con l'intuizione; che inoltre lavia piú vicina all'intuizione è sempre la piú sicura, perché ogniintromissione di concetti è esposta ad errori. Se ora, con talepersuasione, diamo uno sguardo alla matematica quale fu concepita informa scientifica da Euclide, e quale in complesso rimase fino adoggi, non possiamo non riconoscere che il suo metodo è strano, anziassurdo. Mentre vorremmo che ogni dimostrazione logica siriconducesse a una dimostrazione intuitiva, la matematica fa invecetutti gli sforzi possibili e immaginabili per respingere ad ognicosto l'evidenza intuitiva immediata sua propria, sostituendola conun'evidenza puramente logica. Il che ai miei occhi fa l'effetto dichi si tagliasse le gambe per camminare con le grucce, o delprincipe, nel Trionfo della sensibilità, il quale volge le spallealla vera bellezza della natura per bearsi a contemplare unadecorazione di teatro che la imita. Debbo qui rammentare quanto dissinel cap' Vi della mia dissertazione Sul principio di ragione,ammettendo che il lettore lo abbia sempre chiaro e presente allamemoria; per potervi connettere le considerazioni che seguiranno.Così non avrò bisogno di ripeter di nuovo quale differenza ci sia frail semplice principio di conoscenza di una verità matematica nel modoin cui può venire assegnato logicamente: e il principio d'esistenza,che è la relazione immediata, la sola conoscibile intuitivamente,delle parti dello spazio e del tempo. Soltanto l'appercezione diquesta relazione procura una soddisfazione vera e una conoscenzaprofonda; mentre il semplice principio (logico) di conoscenza rimanesempre alla superficie; e, se può indicarci che la cosa sta così ecosì, non ce ne potrà mai dire il perché. Euclide, con manifestodetrimento della scienza, si è attenuto alla seconda via. Fin dalprincipio, ad esempio, mentre avrebbe dovuto mostrarci una volta persempre in che modo, nel triangolo, gli angoli e i lati si determininoreciprocamente, gli uni essendo causa ed effetto degli altri secondola forma che il principio di ragione assume nello spazio puro (formache lì, come dappertutto, trae seco la necessità che una cosa siacosì e così perché un'altra del tutto diversa è così e così),Euclide, anziché procurarci nel detto modo una conoscenza completadella natura del triangolo, si contenta di stabilire alcuneproposizioni staccate, scelte ad arbitrio, e ne dà un principio diconoscenza logico, con una dimostrazione faticosa condottalogicamente secondo il principio di contraddizione. In luogo di unaconoscenza esauriente di tutte le relazioni spaziali, non otteniamocosì che alcuni risultati scelti a capriccio tra quelle; ci troviamocioè nel caso di colui, al quale si fan vedere i diversi effetti diuna macchina, senza permettergli di osservarne l'interno meccanismo ei congegni. Tutto quanto Euclide dimostra che è così e così, dobbiamo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtper forza riconoscerlo in virtú del principio di ragione, ma perchésia così, non ci riesce di comprendere. Così proviamo quasi la stessasensazione spiacevole che si prova dopo di avere assistito a ungiuoco di prestigio, cui infatti rassomiglia meravigliosamente ilmaggior numero delle dimostrazioni euclidee. Quasi sempre, inEuclide, la verità s'introduce dalla porticina di dietro; poichésalta fuori, per accidens, da una qualsiasi circostanza accessoria.Spesso una dimostrazione apagogica chiude l'una dopo l'altra tutte leporte, non lasciandone aperta che una sola, per la quale dobbiamopassare, per quest'unico motivo che è la sola aperta. In altri casi,come ad esempio nel teorema di Pitagora, vengono tirate delle lineesenza che se ne sappia il perché: piú tardi ci accorgiamo che eranodei nodi scorsoi che si stringono d'improvviso per strapparel'assenso dello studioso; il quale, tutto compreso di meraviglia, èora costretto ad ammettere una cosa, di cui la connessione intrinsecagli resta perfettamente incomprensibile. Tanto che si potrebbestudiare Euclide da cima a fondo, senza mai avere una effettivacomprensione delle leggi delle relazioni spaziali; mentre invece nonsi fa che imparare a memoria alcuni risultati. Questa conoscenza, inverità tutta empirica e antiscientifica, somiglia a quella del medicoche conoscesse la malattia e il rimedio, ma ignorasse la lororelazione. Tutto ciò deriva dall'avere a capriccio ripudiato ilgenere di dimostrazione e di evidenza appropriato a un modo diconoscenza, per sostituirvene a viva forza un altro che le ripugnaessenzialmente. Del resto, il modo con cui Euclide applica il suoprocesso merita tutta l'ammirazione che i secoli gli consacrarono; eche innalzarono a segno, da proclamarlo, in linea di trattazionescientifica, l'unico modello, sul quale ogni altra scienza si sforzòdi modellarsi. E' vero che piú tardi si è cambiato strada; ma senzasapere il perché. Ai nostri occhi nondimeno il metodo d'Euclide inmatematica non può parere che una brillante assurdità. Notiamo bensìche ogni grande errore, perseguito con intenzione e con metodo, e cheper di piú incontra l'approvazione generale, ha (riguardi la vita ola scienza) il suo fondamento nella filosofia dominante del tempo.Gli Eleati furono i primi a scoprire la differenza, e spesso anchel'antagonismo, fra il percepito (fainömenon) e il pensato(nooümenon), (24) e se ne servirono in mille modi nei loro filosofemie nei loro sofismi. Vennero poi i Megarici, i Dialettici, i Sofisti,i NuoviAccademici e gli Scettici: questi richiamarono l'attenzionesull'apparenza, cioè sull'illusione dei sensi, o meglio ancoradell'intelletto, che trasforma i dati dei sensi in percezione; questaillusione ci fa spesso vedere oggetti cui la ragione rifiuta consicurezza ogni realtà, come ad esempio il bastone spezzato nell'acquaecc'. Riconosciuto che non bisognava fidarsi ciecamentedell'intuizione sensibile, se ne concluse a precipizio che la veritànon si può fondare che sul pensiero razionale e logico; sebbenePlatone (nel Parmenide), i Megarici, Pirrone e i NuoviAccademici,provassero con esempi, nel modo che usò piú tardi Sesto Empirico,come anche i sillogismi e i concetti possano dal loro canto indurrein errore, generando anzi paralogismi e sofismi ben piú facili asorgere e ben piú difficili a risolvere che non l'apparenzanell'intuizione sensibile. Così dunque il razionalismo, sorto incontrapposizione all'empirismo, conservò il sopravvento; appunto e inconformità dei suoi princípi Euclide elaborò la sua matematica. Fondògli assiomi sull'evidenza intuitiva (fainömenon) perché non avrebbepotuto fare altrimenti ma volle, tutto il resto, fondarlo sulragionamento (nooümenon). Il suo metodo restò in vigore attraversotutti i secoli: né poteva essere altrimenti finché non si fossescoperta la differenza che passa fra l'intuizione pura a priori el'intuizione empirica. Sembra invero che Proclo, commentatored'Euclide, avesse già pienamente riconosciuta questa differenza comelo prova il suo passo tradotto in latino da Keplero nel libro Deharmonia mundi; ma la sua riflessione fu da Proclo presentata troppoisolatamente, senza darvi gran peso, di passata e senz'approfondirla;sicché rimase inavvertita. Soltanto dopo duemila anni doveva venirela dottrina di Kant destinata a suscitare una rivoluzione cosíprofonda nella scienza, nel pensiero e nella vita dei popoli europei,per apportare la medesima rivoluzione nel campo matematico. Bisognò

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche venisse questo grande a insegnarci che le intuizioni dello spazioe del tempo differiscono essenzialmente dall'intuizione empirica;sono assolutamente indipendenti dalle impressioni sensibili, e lecondizionano in luogo di esserne condizionate; cioè sono a priori, equindi al sicuro da ogni illusione dei sensi. Fu necessaria, dico, lavenuta di questo grande, per farci accorgere che il metodo logico diEuclide in matematica è una precauzione inutile, una gruccia per chiha gambe sane. Come se un viaggiatore, di notte, prendesse per uncorso d'acqua la bianca strada maestra, si guardasse bene dalseguirla, e la costeggiasse continuamente su di un sentiero scabroso;felicissimo d'imbattersi di tanto in tanto nel preteso rivo. Soltantooggi possiamo affermare con sicurezza, che quanto ci si manifestacome necessario alla vista di una figura, deriva non dalla figura,disegnata forse molto difettosamente, né dal concetto astratto cui lafigura ci fa pensare; ma direttamente dalla forma di ogni conoscenza,forma di cui siamo consci a priori. Questa forma è sempre ilprincipio di ragione. Il quale, in matematica, si manifesta comeforma dell'intuizione, ossia come spazio, come principio di ragiond'essere con un'evidenza e con una solidità non minori né menoimmediate che quelle del principio di ragione di conoscenza, cioèdella certezza logica. Non ricaviamo dunque nessun vantaggio dalfidarci esclusivamente di quest'ultima, abbandonando il campo propriodella matematica per verificarla con una misura che le èessenzialmente eterogenea, il concetto. Se non usciremo fuori dalterreno della matematica, otterremo l'immenso vantaggio diacquistarne una conoscenza che ci dia insieme il che e il perché diogni cosa, il metodo di Euclide, invece, separa questi due lati dellaconoscenza, e non ci dà che il primo; non mai il secondo. Aristotelenei suoi Anal' post', I, 27, dice mirabilmente: "§akribestërad'epistémû epistémûs kaì protëra, héte tov höti kaì tov diöti hûauté, allà mè çwrìs tov höti tês tov diöti" (Subtilior autem etpraestatior ea scientia, qua quod aliquid sit et cur sit una simulqueintelligimus, non separatim quod et cur sit). In fisica non siamosoddisfatti se non quando, oltre a sapere che un fenomeno è cosí,sappiamo anche il perché sia così; sapere che nel tubo di Torricelliil mercurio si innalza a 28 pollici, non fa poi gran scienza, se nonsi sa inoltre che tal fenomeno è dovuto al contrappeso dell'aria. Ein matematica ci dovremo contentare di conoscere quella qualitasocculta del circolo per la quale i segmenti di tutte le corde ches'intersecano internamente a due a due formano sempre dei rettangoliequivalenti? Che sia così Euclide dimostra, è vero, nella 35aproposizione del terzo libro; ma del perché non sappiamo ancor nulla.Così pure il teorema di Pitagora ci fa conoscere una qualitas occultadel triangolo rettangolo: la dimostrazione zoppicante, anzi capziosa,di Euclide, ci abbandona proprio quando siamo al perché; mentre lasemplice figura qui annessa (rappresentazione grafica del teorema diEuclide), che noi già conosciamo, ci fa penetrare al primo sguardomolto piú addentro nel cuore della cosa di quanto non faccia tutta ladimostrazione dandoci una convinzione intima e sicura della necessitàdi tale proprietà e della sua dipendenza dall'angolo retto.A una simile convinzione intuitiva si deve poter arrivare anche nelcaso dei cateti disuguali, come in generale per ogni veritàgeometrica escogitabile; per questa ragione se non altro: che lascoperta di tali verità procede sempre da una simile necessitàintuitiva; mentre la dimostrazione viene sempre pensata dopo. E bastal'analisi del processo del pensiero nella prima scoperta di unaverità geometrica, per riconoscerne subito intuitivamente lanecessità. In generale, nell'insegnamento delle matematichepreferisco il metodo analitico a quello sintetico usato da Euclide.Il primo presenta, è vero, gravi difficoltà nel caso di veritàmatematiche complicate: ma tali difficoltà non sono poi insuperabili.Già, in Germania, si comincia qua e là a modificare l'insegnamentodelle matematiche, e a seguire di piú il metodo analitico. Il piúenergico tentativo in tal senso è stato quello del Kosack, professoredi matematica e fisica nel ginnasio di Nordhausen; il quale, nelprogramma per gli esami del 6 aprile 1852, inserí un progettoparticolareggiato per l'insegnamento della geometria secondo i mieiprincípi.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtPer correggere il metodo nelle matematiche bisogna prima di tuttofinirla col vecchio pregiudizio, che la verità dimostrata abbia unqualsiasi privilegio su quella intuitivamente conosciuta; ossia, chela verità logica, fondata sul principio di contraddizione, siasuperiore a quella metafisica, la quale ultima è d'immediataevidenza, e comprende come sua parte l'intuizione pura dello spazio.Quel che vi è di piú certo, e che insieme non può essere spiegato,è il contenuto del principio di ragione. Infatti: ognuna dellediverse forme di questo principio esprime sempre la forma universaledi tutte le nostre rappresentazioni e di tutte le nostre conoscenze.Ogni spiegazione è un risalire al principio di ragione; un indicareper ogni caso la relazione che passa fra le rappresentazioni,relazione che dal principio vien espressa in maniera generale. Questoprincipio è dunque il fondamento di ogni spiegazione, senza essere asua volta capace né bisognevole di spiegazione, perché ognispiegazione lo implica e non diviene significativa che per suo mezzo.Né alcuna tra le forme del principio ha un privilegio sulle altre: ilprincipio è egualmente certo e indimostrabile come principio diragion d'essere, o del divenire, o dell'operare, o del conoscere. Larelazione di causa ad effetto è in ciascuna delle sue formenecessaria; non solo, ma è l'unica origine e l'unico significato delconcetto di necessità. Non c'è altra necessità che quelladell'effetto conseguente a una causa data, e non c'è causa che nonporti con sé la necessità dell'effetto. Dunque: con quanta sicurezzala conseguenza espressa nella proposizione finale deriva dalprincipio di conoscenza incluso nelle premesse, con altrettantasicurezza il principio di ragion d'essere nello spazio condiziona lesue conseguenze nello spazio. Se arrivo a percepire intuitivamente larelazione fra questi due ultimi termini, raggiungo una certezza, chenon ha nulla da invidiare a qualsiasi certezza logica. E ogni teoremadi geometria esprime una tale relazione, al pari di ciascuno deidodici assiomi; costituisce una verità metafisica, e come tale hal'identica certezza immediata del principio stesso di contraddizione(verità metalogica, e fondamento universale di ogni dimostrazionelogica). Chi nega la necessità intuitiva delle relazioni di spazioespresse in un qualsiasi teorema, può con pari diritto negare gliassiomi e la necessaria dipendenza della conclusione dalle premesse,anzi lo stesso principio di contraddizione: relazioni, anche queste,indimostrabili, immediatamente evidenti e conoscibili a priori. Volerquindi dedurre da una dimostrazione logica fondata sul principio dicontraddizione, la necessità intuitiva delle relazioni spaziali, è unvoler dare in feudo un terreno a chi n'è il diretto proprietario. E'quello che ha fatto Euclide. Il quale sull'evidenza immediata nonfonda (non potendo far di meno) che i soli assiomi, laddove tutte lealtre verità geometriche vengono dimostrate logicamente; cioè -presupposti sempre gli assiomi - vengono dimostrate, sia per mezzodel loro accordo con le condizioni ammesse nel teorema o con unteorema anteriore, sia col far risaltare la contraddizione fral'opposto del teorema e i dati ammessi, gli assiomi, i teoremianteriori, o intrinseca nella proposizione medesima. Ma gli assiominon sono piú immediatamente evidenti di qualsiasi altro teorema digeometria: soltanto sono piú semplici, data la loro povertà dicontenuto.Quando s'interroga un delinquente, si mettono a verbale tutte lesue deposizioni per valutarne la verità in base alla loroconcordanza. Ma questo è un ripiego a cui non di certo siricorrerebbe, se si potesse indagare direttamente la verità diciascuna delle dichiarazioni: tanto piú che il delinquente potrebbeaver mentito con logica coerenza dal principio alla fine. Pure ilprimo metodo è proprio quello con cui Euclide ha interrogato lospazio. Egli parte, è vero, dal giusto principio, che la naturadev'esser conseguente in tutto, e quindi anche nella sua formafondamentale dello spazio, che in conseguenza - siccome le partidello spazio son tra loro in relazione di causa ad effetto - nessunasingola determinazione spaziale può essere diversa da quella che èsenza essere in contraddizione con tutte le altre. Ma è un rigiro benincomodo e ben poco soddisfacente quello che preferisce la conoscenzamediata alla conoscenza immediata parimenti certa; che separa, a gran

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdetrimento della scienza, la conoscenza del che da quella del perché,che toglie infine al discepolo ogni possibilità di penetrare nelleleggi dello spazio, anzi lo disabitua dallo scrutare il fondamento el'intima connessione delle cose, insegnandogli a contentarsi dellaconoscenza storica che la tal cosa è così e così. L'efficacia tantocelebrata di questo metodo, di esercitare la penetrazione dellospirito, si riduce semplicemente a questo: che il discepolo si abituaa tirare conclusioni, cioè ad applicare il principio dicontraddizione, ma soprattutto a fare degli sforzi di memoria e aritenere tutti quei dati di cui deve confrontare l'accordo.E' del resto notevole che questo metodo di dimostrazione sia statoapplicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica. Qui la veritàeffettivamente vien fatta scaturire dalla sola intuizione,consistente nel semplice atto del contare. Siccome l'intuizione deinumeri non esiste che nel tempo, e non può quindi venirerappresentata da schemi sensibili, quali sono le figure geometriche,non si può sospettare qui che l'intuizione sia soltanto empirica,soggetta dunque a illusione - sospetto che era stato l'unico motivoper introdurre in geometria il metodo di dimostrazione logica.Siccome il tempo non ha che una dimensione, il contare è inaritmetica l'unica operazione, cui si debbono ricondurre tutte lealtre. Ma questo atto del contare non è che intuizione a priori, allaquale nessuno può esitare di richiamarsi: con la quale soltanto èpossibile, in ultima analisi, di verificare tutto il resto, siacalcolo, sia equazione. Non si può, ad esempio, provare cheëà?7+9*¨8ù-2np3ô=42 se non ci riferiamo all'intuizione pura neltempo, al contare; in tal modo ogni singola proposizione diviene unassioma. Non s'incontra punto in aritmetica quella folla di prove,che ingombra la geometria: tutto il contenuto dell'aritmetica edell'algebra non è che un semplice metodo di abbreviare lanumerazione. S'è visto, che la nostra intuizione immediata dei numerinel tempo non oltrepassa il dieci; subito al di là è necessario cheun concetto astratto del numero, fissato in una parola, prenda ilposto dell'intuizione, la quale allora non ha piú luogo, e dobbiamolimitarci a indicarla con la massima precisione. Anche in tal modo sipuò nondimeno avere un'evidenza intuitiva per ogni calcolo; e ciògrazie all'aiuto offerto dall'ordine delle cifre il quale permettesempre di rappresentare i grandi numeri per mezzo dei piccoli; questaevidenza è possibile anche nel caso in cui l'astrazione sia spintacosì lontano, che non soltanto i numeri, ma persino quantitàindeterminate ed operazioni intere non esistono che per il pensieroin abstracto, e non vengono espresse che in tal senso (come peresempio örâbo) tanto che l'eseguirle non è possibile, ma dobbiamolimitarci a darne la semplice indicazione.Con egual diritto ed egual sicurezza che in aritmetica, si potrebbeanche in geometria procedere in guisa che la verità venga semprefondata sull'intuizione pura a priori. Infatti è sempre la medesimanecessità intuitiva, riconosciuta in conformità del principio diragion d'essere, quella che dà alla geometria la sua grande evidenza,e su cui è fondata, nella coscienza di ciascuno, la certezza delleproposizioni geometriche; qui non c'entra affatto la dimostrazionelogica; questa, col suo camminare sui trampoli rimanendo estraneasempre all'oggetto discusso, cade il piú delle volte neldimenticatoio senza danno della nostra persuasione. La si potrebbefinanche sopprimere; né per ciò scemerebbe l'evidenza dellageometria; che è indipendente da ogni prova. La prova, in fondo, nonfa che dimostrare quello di cui un altro modo di conoscenza ci avevagià pienamente convinti. E' simile ad un soldato imbelle che ferisseun nemico già ucciso da un altro, e si vantasse poi di averloammazzato lui. (25)Dopo tutte queste considerazioni, nessuno, spero, vorrà piú metterein dubbio che l'evidenza della matematica - divenuta modello esimbolo di ogni evidenza - derivi per sua essenza, non già dalledimostrazioni, ma dall'intuizione immediata. L'intuizione, qui comedappertutto, è il principio supremo e la sorgente di ogni verità; maquella, che è a base della matematica, ha un grande privilegio su diogni altra, e in particolare sull'intuizione empirica. Essendoinfatti a priori, e perciò indipendente dall'esperienza sempre

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparziale e successiva, tutto le è egualmente vicino; sicché si puòpartire a piacimento o dal principio o dalla conseguenza. E ciò leconferisce un'assoluta infallibilità; in quanto la conseguenza vi èriconosciuta per mezzo del principio, solo genere di conoscenza cheabbia carattere di necessità. L'eguaglianza dei lati, per esempio, siriconosce fondata sull'eguaglianza degli angoli. Al contrario:l'intuizione empirica, e la maggior parte dell'esperienza, vannodall'effetto alla causa. E questo modo di conoscenza non èinfallibile, perché la necessità non conviene all'effetto che inquanto è data la causa; ma non alla conoscenza che dall'effetto siricava della causa, potendo l'effetto risultare da cause differenti.Questo secondo modo di conoscenza non è che induzione: processo percui, dati piú effetti che suggeriscono una stessa causa, si assumequesta causa come certa; siccome però l'insieme dei casi non può maipresentarsi completo, neppure la verità non è mai sicuraincondizionatamente. Questo appunto è il genere di verità inerente adogni conoscenza venuta dall'intuizione sensibile, e alla maggiorparte dell'esperienza. L'affezione di un senso determina l'intellettoa concludere dall'effetto alla causa: ma siccome il concluderedall'effetto alla causa non è mai sicuro, ne segue che la falsaapparenza, sotto forma d'illusione sensoriale, sia sempre possibile;anzi, come sopra si è dimostrato, spesso anche reale. Quando parecchisensi, o tutti e cinque, sono impressionati così da suggerire lamedesima causa, la possibilità dell'illusione si riduce ai minimitermini: senza però mai svanire del tutto; perché in certi casi, adesempio con delle monete false, s'ingannano tutti i sensi presiinsieme. E' questo il caso in cui si trova ogni conoscenza empirica,e quindi l'intera scienza della natura, salvo la sua parte pura (inlinguaggio kantiano: la sua metafisica). Poiché nella scienza dellanatura si risale dagli effetti alla causa, ogni dottrina fisica sifonda su delle ipotesi, che spesso risultano false, e che vengono poiman mano sostituite da ipotesi migliori. Soltanto negli esperimentifatti ad hoc si procede per via sicura dalla conoscenza della causa aquella dell'effetto: ma gli esperimenti vengono alla loro voltaistituiti in seguito a delle ipotesi. Ecco perché nessun ramo dellascienza della natura, ad esempio la fisica, o l'astronomia, o lafisiologia, non si è potuto scoprire in una sola volta come lamatematica o la logica; ma richiese e richiede sempre le esperienzeriunite e paragonate di secoli e secoli. Soltanto una moltepliceconferma empirica può sollevare l'induzione, su cui si fondal'ipotesi, a una tale perfezione, da potere in pratica tener luogo dicertezza; e tale conferma sola può rendere tanto innocuo l'originariovizio dell'ipotesi quant'è innocua nell'applicazione della geometrial'incommensurabilità fra la retta e la curva, o nell'aritmetical'impossibilità di raggiungere con esattezza il logaritmo. Comeinfatti si può, per mezzo di una frazione infinita, approssimarequanto si vuole all'assoluta esattezza la quadratura del circolo e illogaritmo, così le molteplici esperienze possono avvicinarel'induzione, o conoscenza della causa dall'effetto, all'evidenzamatematica o conoscenza dell'effetto dalla causa; possonoavvicinarla, di certo non infinitamente ma pure in grado cosìelevato, che la possibilità dell'errore venga ridotta ai minimitermini e resa trascurabile. Tuttavia tale possibilità c'è sempre, adesempio quando si conclude induttivamente da innumerevoli casi allatotalità; cioè, propriamente, alla causa ignota da cui essa totalitàdipende. Tra le conclusioni di tal genere quale ci sembra piú sicuradi questa: che tutti gli uomini abbiano il cuore a sinistra? Eppureci sono (eccezioni rarissime del tutto isolate) degli uomini chehanno il cuore a destra. L'intuizione sensibile e la scienza empiricahanno dunque lo stesso genere di evidenza. La superiorità dellamatematica, della scienza naturale pura e della logica in quanto apriori, di fronte alle altre scienze, consiste unicamente in ciò: chela parte formale delle conoscenze, sulla quale si fonda ogniapriorità, è data, nelle prime, tutta intera in una volta sola,sicché vi si può sempre passare dalla causa all'effetto; mentre nellealtre scienze si è costretti quasi sempre a retrocedere dall'effettoalla causa. Del resto: la legge di causalità, o principio di ragionedel divenire, che regge la conoscenza empirica, è in sé tanto sicura

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquanto le altre forme del principio di ragione, a cui sottostanno lesuddette scienze a priori. Le dimostrazioni logiche per concetti,cioè i sillogismi, hanno in comune con le conoscenze intuitive apriori il privilegio di procedere dalla causa all'effetto, e quindisono formalmente infallibili. Il che ha contribuito non poco all'altastima in cui si tengono le dimostrazioni. Ma questa infallibilità nonè che relativa. Dimostrare una proposizione significa soltantosussumerla sotto i princìpi supremi della scienza, nei quali sicontiene tutta la verità scientifica, fondamentale. Dunque: non bastache una proposizione sia provata per mezzo dei princìpi; ma bisognainoltre che questi vengano fondati sull'intuizione; la quale, se èpura nelle poche scienze a priori surricordate, viceversa è, in tuttele altre, sempre soltanto empirica, ed elevata all'universale per viadell'induzione. Donde segue che se, nelle scienze empiriche, si provail particolare col generale, il generale attinse a sua volta lapropria verità dal particolare; non è dunque che un granaio diprovviste, non un terreno che produca da sè.E questo basti intorno al fondamento della verità. Quanto poiall'origine e alla possibilità dell'errore si tentarono moltespiegazioni, a cominciare dalle soluzioni tutte metaforiche diPlatone (la colombaia donde si prende non il colombo desiderato ma unaltro ecc'; Theaet', pag' 167 e segg'). Nella Critica della ragionpura (pag' 294 della 1a e pag' 350 della 5a ediz') si trova laspiegazione vaga e imprecisa di Kant sull'origine dell'errore permezzo dell'immagine del movimento diagonale. Siccome la verità non èche la relazione fra un giudizio e il suo principio di conoscenza,resta sempre un problema il sapere come chi giudica possa credere dipossedere effettivamente questo principio, mentre di fatto non lopossiede: in altre parole: come l'errore, l'inganno della ragione,siano possibili. A me questa possibilità pare simile a quelladell'illusione o dell'inganno dell'intelletto. La mia opinione(questo è il luogo naturale di esporla) è che ogni errore consista inuna conclusione dall'effetto alla causa; conclusione che vale ogniqual volta è noto che l'effetto ha una data causa e non ne ammettealtra; ma che in ogni altro caso non è piú vera. Chi sbaglia: oattribuisce a un effetto una causa che non può avere; e in tal casodimostra una reale deficienza d'intelletto, cioè l'incapacità dicogliere immediatamente il legame fra causa ed effetto. Oppure (è ilcaso piú frequente) attribuisce all'effetto una causa possibile, manel sillogismo col quale conclude dall'effetto alla causa, aggiungealla maggiore il sottinteso che l'effetto risulta «sempre» unicamentedalla causa indicata. Questa affermazione, per essere giustificata,richiederebbe una perfetta induzione; ebbene: una tale induzioneviene presupposta senza che la si sia realizzata. Quel «sempre» èdunque un concetto troppo esteso; e bisognerebbe sostituirlo con«talvolta» o con «il piú delle volte»; la conclusione allora sarebbeproblematica, e quindi non piú falsa. La causa dell'errore va dunquecercata: o nella precipitazione; o in una conoscenza imperfetta dellepossibilità, che impedisce di scorgere l'imprescindibilitàdell'induzione da fare. L'errore quindi è perfettamente analogoall'illusione. Consistono, l'uno e l'altra, nel concluderedall'effetto alla causa: l'illusione si produce sempre secondo lalegge di causalità e nel solo intelletto, cioè immediatamentenell'intuizione; l'errore si verifica secondo il principio di ragionein tutte le sue forme, nella ragione medesima e quindi nel pensieropropriamente detto: il piú delle volte però ha origine nella legge dicausalità, come dimostrano i tre esempi seguenti che si possonoritenere come tipi o simboli di tre specie di errori.1) L'illusione dei sensi (inganno dell'intelletto) determinal'errore (inganno della ragione) quando, ad esempio, illusidall'apparenza, si ritiene che una pittura sia un altorilievo. Equesto è un concludere dal seguente principio: «quando il grigioscuro sfuma gradatamente nel bianco, la causa è da ricercare semprenella luce che illumina diversamente i rilievi e le incavature:ergo...». 2) «Quando manca danaro nella mia cassa, n'è sempre causail servo che ha una seconda chiave: ergo...». 3) «Se l'immagine delsole riflessa dal prisma, cioè deviata verso l'alto o verso il basso,invece di esser bianca e rotonda come prima, appare oblunga e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcolorata, ciò risulta una volta per sempre dal fatto che nella lucevi sono dei raggi luminosi omogenei diversamente colorati ediversamente rifrangibili, e questi, separati a causa del diversogrado di rifrangibilità, producono allora questa immagine allungata edi colore diverso: ergo... bibamus!». Ogni errore deve potersiricondurre a una conclusione tratta da una premessa che si riducesovente a una falsa generalizzazione, a una ipotesi, e che provienedall'attribuire a un effetto una certa causa determinata. Siescludano gli errori di calcolo, i quali non sono errori veri epropri, ma semplici sviste; l'operazione indicata dai concetti deinumeri non è stata eseguita nell'intuizione pura, nell'atto delcontare: se ne è sostituita un'altra.Il contenuto delle scienze, in genere, non è propriamente che larelazione reciproca dei fenomeni secondo il principio di ragione, inconformità del «perché», a cui soltanto esso principio dà un senso eun valore. Indicare la detta relazione è ciò che si dice: spiegare.La spiegazione dunque non può che mostrare come due rappresentazionistiano tra loro nella relazione richiesta dal principio di ragione,considerata nella forma dominante quella certa classe dirappresentazioni. Arrivati a questo punto non ci sono piú «perché» dachiedersi: la relazione cosí indicata è tale, che non si puòassolutamente rappresentare in maniera diversa: ed è insomma la formadi ogni conoscenza. Cosí non si domanda perché 2+2=4; perchél'eguaglianza degli angoli in un triangolo determina l'eguaglianzadei lati, perché a una data causa deve seguire il suo effetto; néperché dalla verità delle premesse risulti quella della conclusione.Ogni spiegazione che non riconduca a una relazione di cui non sipossa piú domandare il perché, si ferma in una ipotetica qualitasocculta; e tutte le forze elementari della natura appartengono aquesta categoria. Ogni teoria della scienza della natura devenecessariamente far capo a simili qualità occulte, cioè a qualcosa diperfettamente oscuro; la scienza deve dunque lasciare inesplicatal'intima essenza di una pietra non meno che quella dell'uomo; nonpuò, della gravità, della coesione, delle proprietà chimiche ecc'dell'una, rendere piú conto che del conoscere e dell'operaredell'altro. Cosí ad esempio la gravità è una qualitas occulta, poichési può eliminare col pensiero, e quindi non deriva necessariamentedalla forma della conoscenza. Necessaria è invece la legge d'inerzia,in quanto risulta dalla legge di causalità: quindi ogni spiegazioneche vi faccia capo sarà una spiegazione perfetta e completa. Duecose, in particolare, sono assolutamente inesplicabili, ossiairriducibili alla relazione espressa dal principio di ragione. Laprima è il principio di ragione in tutte quattro le sue forme; ilquale, come principio di ogni spiegazione, è il solo che dia unsignificato alla spiegazione. La seconda, che non rientra punto neldominio del principio di ragione, ma che nondimeno è la sorgente diogni fenomeno, è la cosa in sé: la conoscenza della quale sfugge alprincipio di ragione. Per ora la cosa in sé deve rimanere incompresa:ce ne permetterà la comprensione il libro seguente, nel qualeriprenderemo anche le nostre considerazioni sui risultati accessibilialle scienze. Ma là, dove la scienza della natura ed ogni scienzaabbandonano le cose a loro stesse, perché non soltanto la lorospiegazione, ma il principio stesso della spiegazione (il principiodi ragione) non può piú andare avanti, ecco sottentrare la filosofia,che si impadronisce delle cose e le studia secondo il suo metodo,differentissimo da quello delle scienze. Nella mia dissertazione Sulprincipio di ragione, par' 51, ho dimostrato come nelle varie scienzel'una o l'altra delle forme del principio costituisca il filoconduttore principale; in realtà, seguendo tale criterio si potrebbeforse ottenere la piú esatta classificazione delle scienze. Tuttavia:ogni spiegazione cosí ottenuta è, ripetiamo, sempre e soltantorelativa: spiega la relazione reciproca tra le cose, ma lascia sempreinesplicato qualcosa, che pur presuppone. Nella matematica, adesempio, lo spazio e il tempo; in meccanica, in fisica e in chimica,la materia, le qualità, le forze elementari, le leggi naturali; inbotanica e in zoologia, la varietà della specie e la vita stessa;nella storia, il genere umano con le sue proprietà caratteristichedel pensiero e della volontà. S'intende che in ogni scienza il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprincipio di ragione ha la forma rispettivamente dominante. Ilcarattere distintivo della filosofia è di non supporre nulla comeconosciuto; per la filosofia, tutto è in egual misura sconosciuto,tutto è problema; non soltanto le relazioni fra i fenomeni, ma glistessi fenomeni, e persino il principio di ragione. Le altre scienzesono pienamente soddisfatte quando possono ricondurre ogni cosa aquesto principio; la filosofia invece non avrebbe nulla di cheguadagnarvi, poiché ciascun anello della serie le rimane cosíestraneo come un altro. Non solo; ma la natura della relazione tra ifenomeni le è anch'essa estranea e problematica al pari dei fenomenimessi in relazione; e questi restano un problema tanto prima che dopola loro connessione. Infatti, come si disse, oggetto del problemapropriamente filosofico è appunto quella cosa, che le scienzesuppongono e che serve di fondamento e di limite alle lorospiegazioni; sicché la filosofia comincia dove le scienze finiscono.La filosofia non si può fondare su delle prove; perché questericavano l'ignoto dal noto, mentre per quella tutto è ugualmenteignoto ed estraneo. Non ci può essere principio alcuno da cuiderivare come semplici conseguenze il mondo con tutti i suoifenomeni; non si può, nonostante lo affermi Spinoza, dedurredimostrativamente una filosofia ex firmis principiis. La filosofia èla scienza piú generale; dunque i suoi princípi non possono essereconseguenze d'un altro principio ancor piú generale. Il principio dicontraddizione si limita a stabilire la concordanza fra i concetti, edunque non somministra concetti esso stesso. Il principio di ragionespiega le relazioni fra i fenomeni, ma non i fenomeni. La filosofianon può quindi mirare alla ricerca di una causa efficiens o di unacausa finalis del mondo. La filosofia moderna, almeno, non si pone ilproblema dell'origine e della finalità del mondo, ma si limita aricercare quello che è. Il «perché» vien qui subordinato al «che», inquanto il perché fa già parte essenziale del mondo, la cui originerisulta dalla forma dei fenomeni, dal principio di ragione, dondetrae l'unico valore. Si potrebbe dire bensí che ciascuno sappiasenz'altro quello che il mondo sia; cosa vera in questo senso, checiascuno è un soggetto della conoscenza e il mondo è una suarappresentazione. Ma tale conoscenza è intuitiva, in concreto;riprodurla in abstracto, prendere l'intuizione successiva e mutevolee tutta in genere la materia compresa nel vasto concetto delsentimento (concetto puramente negativo costituente un sapere nonastratto e non preciso), per elevarle a un sapere e astratto epreciso e durevole: ecco il compito della filosofia, la quale devedunque essere l'espressione in abstracto dell'essenza dell'universo,così nel tutto che nelle sue parti. La filosofia, se non si vuoleperdere in un labirinto di giudizi particolari, deve servirsidell'astrazione, deve pensare sotto la forma del generale ognielemento singolo, e concepire in forma generale anche le differenze.Cosí, ora separando, ora riunendo, riduce a poche nozioni astratte ilmolteplice del mondo, secondo la sua essenza, e ne fa un patrimonioscientifico. Con quei concetti, nei quali viene in tal modo fissatal'essenza del mondo, il particolare deve potersi conoscere cosí benecome il generale, venendo le due conoscenze ad essere strettamentecollegate; l'attitudine filosofica consiste appunto, come dicePlatone, nella capacità di conoscere l'uno nel molteplice e ilmolteplice nell'uno. La filosofia sarà dunque una somma di giudizigeneralissimi, il cui principio di conoscenza è direttamente il mondonel suo insieme senza esclusione alcuna - in una parola, tutto quelloche si trova nella coscienza umana -; sarà una ripetizione completa equasi un'immagine del mondo, riflessa in concetti astratti; e non puòesser tale se non riunendo in un sol concetto tutto quanto èessenzialmente identico, e separando sotto altri concetti tutto ildiverso. Già Bacone di Verulamio attribuiva alla filosofia questocompito, quando diceva: «Ea demum est vera philosophia, quae mundiipsius voces fidelissime reddit, et veluti dictante mundo conscriptaest, et nihil aliud est, quam eiusdem simulacrum et reflexio, nequeaddit quidquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» (De augm'scient', l' Ii, cap' 13). Noi però intendiamo queste parole in unsenso molto piú vasto di quello in cui potesse intenderle ai suoitempi Bacone.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtL'armonia che regna fra tutti gli aspetti e le parti del mondo,appunto perché costitutive di un medesimo tutto, deve ritrovarsianche nella sua immagine astratta. Per conseguenza, in questa sommadi giudizi, ciascun giudizio dovrà in certo qual modo potersi dedurredall'altro, e viceversa. Ma per ciò si richiede, prima, che i giudiziesistano, e vengano stabiliti come immediatamente fondati sullaconoscenza del mondo in concreto; tanto piú che ogni fondamentoimmediato è piú sicuro di un fondamento mediato. L'accordarsireciproco dei giudizi, per cui confluiscono tutti nell'unità di unpensiero, e che ha la sua sorgente nell'armonia e nell'unità delmondo intuitivo loro comune principio di conoscenza, non dovrà essereinvocata in antecedenza per giustificarli; non verrà che piú tardi ecome semplice conferma alla loro verità. Questo compito non riesceben chiaro se non all'atto della realizzazione. (26)

Par' 16. - Dopo tutte queste considerazioni sulla ragione comefacoltà speciale di conoscenza esclusivamente propria dell'uomo, esui risultati e i fenomeni che ne derivano, propri anch'essi dellasola natura umana, resterebbe da parlare della ragione in quantodirige le azioni umane, che in questo senso può dirsi pratica. Ma lamaggior parte di quello che qui dovrei dire fu esposto altrove,specialmente nell'Appendice a quest'opera, dove ho confutatal'esistenza della cosí detta ragion pratica di Kant, facoltà ch'eglici presenta, con un metodo in verità molto comodo, come sorgenteimmediata di ogni virtú, e come sede di un dovere assoluto, che èquanto dire caduto giú dal cielo. Una confutazione minuta e radicaledi questo principio morale di Kant, ho fatta piú tardi nei Problemifondamentali dell'etica. Ben poco dunque rimane qui a dire intornoall'influenza effettiva della ragione vera e propria sulla condottapratica. Già fin dal principio di queste considerazioni sulla ragionefeci notare in genere la enorme differenza che passa fra le azioni ela condotta dell'uomo, e l'operare del bruto; e rilevai come taledifferenza risulti unicamente dal fatto che la nostra coscienzapossiede dei concetti astratti. L'influenza dei concetti su tutta lanostra esistenza è d'un significato e d'una efficacia tali, darenderci quasi, di fronte ai bruti, nella relazione medesima chepassa fra gli animali dotati della vista e quelli che ne son privi(alcune larve, i vermi, i zoofiti). Questi ultimi riconoscono coltatto soltanto gli oggetti immediatamente presenti nello spazio aloro contatto: al contrario, quelli che vedono riconoscono in unvasto raggio gli oggetti vicini e lontani. Analogamente: l'assenza diragione limita i bruti alle rappresentazioni intuitive immediatamentepresenti nel tempo, cioè agli oggetti reali; noi al contrario, invirtú della conoscenza in abstracto, oltre alla ristretta sfera dellarealtà presente abbracciamo l'intero passato e l'avvenire, non solo,ma ben anche il vasto regno della possibilità; contempliamoliberamente sotto ogni aspetto la vita, molto al di là del presente edella realtà. In ordine al tempo e alla conoscenza interna laragione, in qualche modo, è ciò che è l'occhio in ordine allo spazioe alla conoscenza sensibile. Ma come la visione degli oggetti non hasenso né valore che in quanto ne indica la tangibilità; cosí tutto ilvalore della conoscenza astratta risiede sempre nella sua relazionecon la conoscenza intuitiva. Ecco perché l'uomo naturale dà sempremaggior valore all'oggetto di conoscenza immediata e intuitiva chenon ai concetti astratti e alle cose di puro pensiero; e preferiscela conoscenza empirica alla conoscenza logica. Ben altro è ilpensiero di chi vive piú di parole che d'azioni, di chi hacontemplato i libri e le carte piú che non il mondo reale, di chi nelcolmo di tale degenerazione è divenuto pedante e schiavo dellalettura. Soltanto cosí possiamo arrivare a comprendere come Leibniz eWolff coi loro seguaci abbiano potuto perdersi a segno, da affermare,dietro l'esempio di Duns Scoto, che la conoscenza intuitiva non è cheuna conoscenza astratta confusa. Ricordiamo a suo onore che Spinoza,contrariamente a questi filosofi, sostiene col suo retto senso chetutte le nozioni generali nascono dalla confusione della conoscenzaintuitiva (Eth' Ii, prop' 40, Schol' I). L'assurda opinione ricordatafu anche la causa che fece rigettare dalle matematiche la loroevidenza propria per introdurvi la sola evidenza logica; che fece

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtabbracciare sotto la vasta denominazione di sentimento tutto ciò chenon è conoscenza astratta, e che la fece deprezzare; che infinespinse Kant ad affermare, in morale, che la volontà buona, quella cheinnalza la sua voce immediatamente dopo la conoscenza dei fatti, esprona l'uomo alla giustizia e al bene, non è che un vuoto sentimentoe un impeto momentaneo senza valore e senza merito; e a nonriconoscere un valore morale alla condotta se non quando è regolatada massime astratte.L'intuizione complessiva, che l'uomo ha della sua vita sotto tuttigli aspetti (dono della ragione, che lo rende superiore ad ogni altroanimale), si può paragonare a un disegno geometrico, scolorito,astratto e rimpiccolito, del corso della sua vita. La posizionedell'uomo di fronte al bruto è simile a quella del navigante, che sidirige con l'aiuto della sua carta marittima, della bussola e delquadrante, e conosce ad ogni momento la sua posizione in mare, difronte all'equipaggio ignorante che non vede se non cielo e mare. Nerisulta un fatto notevole, anzi meraviglioso: l'uomo, accanto allasua vita in concreto, vive sempre una seconda vita in abstracto.Nella prima si trova esposto a tutte le tempeste della realtà eall'influsso del presente: deve lottare, soffrire e morire, come ilbruto. Ma la sua vita in abstracto, quale si presenta dinanzi allameditazione della sua ragione, è il tranquillo riflesso dell'altra edel mondo in cui vive; è appunto quello schizzo in scala ridotta dicui dicevamo. Qui, nelle altezze tranquille della riflessione, tuttociò che nell'altra vita lo possedeva per intero e lo agitava conviolenza, gli appare freddo, scolorito, e, almeno per un momento,estraneo; egli è qui un semplice spettatore ed osservatore. In questosuo rifugiarsi nella riflessione, l'uomo è simile a un attore che haterminato la sua parte e che, mentre attende di ricomparire in scena,si siede fra gli spettatori della sua morte, e quindi ricompare peroperare e soffrire come deve. A questa doppia vita l'uomo deve quelsangue freddo che tanto lo distingue dallo stupido bruto, e con cui,dopo una premeditazione, dopo una decisione presa, o per essersirassegnato alla necessità, soffre con calma, o compie di sua mano leazioni piú decisive, spesso le piú terribili per lui: suicidio, penadi morte, duello, temerità di ogni specie che si pagano con la vita:in genere, cose contro cui si ribella tutta la sua natura animale.Qui si vede fino a che segno la ragione signoreggi la natura animale,e come gridi al forte: "sidéreiön nü toi hêtor!" (ferreum certe tibicor!), Il', Xxiv, 521. Qui si può veramente dire che la ragione sidimostra pratica: dappertutto, dove l'azione è diretta dalla ragione,dove i motivi son nozioni astratte, dove non si è guidati né darappresentazioni intuitive isolate né da impressioni fugaci (comeaccade al bruto), in tutti questi casi è manifesta la ragion pratica.Ma nella mia Appendice ho fatto ben vedere, chiarendo anche per viadi esempi, che tutto ciò non ha niente che fare col valore moraledell'azione; che l'azione virtuosa e l'azione ragionevole son duecose essenzialmente differenti; che la ragione si allea tanto con lamalvagità piú nera quanto con la bontà piú esemplare e presta cosíall'una come all'altra, col suo concorso, un'efficacia considerevole;ho fatto anche vedere come la ragione sia pronta sempre a servire perla realizzazione metodica e conseguente sia di un progetto nobile,sia di un disegno cattivo; per l'attuazione sia di un saggio precettosia d'una massima ragionevole; come tutto ciò derivi appunto dallasua natura femminile, la quale ha il dono di concepire e di gestare,ma non la potenza di generare da sé. Tutto quello che ho detto inproposito nell'Appendice, qui avrebbe il suo posto naturale, ma là hodovuto relegarlo a causa della polemica contro la pretesa ragionepratica di Kant; e là rimando il lettore.Il piú alto grado di sviluppo della ragion pratica nel senso piúvero e piú puro, la piú alta sommità cui l'uomo possa innalzarsi conil semplice uso della sua ragione, e dove appare piú luminosamente ladifferenza che lo separa dai bruti, si riconosce nell'idealerappresentato dalla saggezza stoica. L'etica stoica, nella suaorigine e nella sua essenza, non è una dottrina della virtú, masoltanto una raccolta di precetti per vivere secondo ragione, il cuifine è la felicità conseguita con la calma dello spirito. La condottavirtuosa non appare presso gli stoici se non quasi per accidens; come

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmezzo, non come fine. Quindi l'etica stoica, nella sua essenza e nelsuo punto di vista, differisce radicalmente dai sistemi di morale cheguidano direttamente alla virtú, quali sono le dottrine dei Veda, diPlatone, del Cristianesimo e di Kant. Il fine della morale stoica èla felicità: tëlos tò eudaimoneîn (virtutes omnes finem haberebeatitudinem), dice Stobeo nella sua esposizione dello Stoa (Ecl', l'Ii, c' Vii, pagg' 114 e 138). Tuttavia l'etica stoica dimostra che lafelicità vera non si può trovare che nella pace interiore e nellacalma dello spirito (ataraxïa), la quale, a sua volta, non si puòconseguire se non per mezzo della virtú: ecco l'unico significatodell'espressione che la virtú è il bene supremo. Ma quando a poco apoco si perde di vista il fine per il mezzo, e la virtú vienraccomandata in un modo che tradisce un interesse tutt'altro daquello della propria felicità, con la quale anzi è in palesecontraddizione, allora si ha una di quelle inconseguenze, per cuimezzo, in ogni sistema, la verità direttamente conosciuta, sentitacome si suol dire, ci richiama sulla buona strada, violentando lalogica dei ragionamenti. Ne abbiamo un esempio luminoso nell'etica diSpinoza, il quale dal suo principio egoistico «suum utile quaerere»,deduce per via di palpabili sofismi una dottrina purissima dellavirtú. La morale stoica, secondo il concetto che mi son formato delsuo spirito, deriva dalla domanda: se la ragione, questo granprivilegio dell'uomo - che all'uomo, per via d'una condottasistematica e dei buoni effetti che ne risultano, alleggerisceindirettamente la gravezza della vita e dei suoi carichi - non siacapace anche di sottrarlo immediatamente, cioè per mezzo dellasemplice conoscenza, a una parte almeno, se non alla totalità, dellepene e dei tormenti di ogni genere da cui la sua vita è afflitta. Chel'essere, di cui la ragione costituisce un privilegio, che per suomezzo abbraccia e signoreggia un'infinità di cose e di circostanze,si veda condannato, nel presente nonché dagli incidentisopraggiungibili durante i pochi anni di una vita cosí breve, cosífugace e cosí incerta, a dolori e a tormenti cosí aspri e numerosi, atante angosce derivanti dall'impeto delle sue cupidigie e dalle sueripugnanze; sembrò incompatibile col privilegio della ragione. Sipensò, dunque, che l'ufficio piú conveniente della ragione dovesseessere di elevare l'uomo al di sopra di queste miserie, di renderloinvulnerabile. Perciò Antistene diceva: "§deî ktâsôai novn è bröçon"(aut mentem parandam, aut laqueum), Plut', De stoic' repugn', c' 14;e cioè a dire: la vita è cosí piena di tormenti e di tribolazioni,che bisogna o rendercene superiori con una ragione piú alta, orassegnarsi ad abbandonarla. Si comprese che la privazione e lasofferenza non sono conseguenze dirette necessarie del non avere, madel voler avere quando non si ha; che questo voler avere dunque è lacondizione indispensabile affinché il non avere divenga unaprivazione, sia sorgente di dolore: "§ou penïa lüpûn ergäzetai, allàepiôumïa" (non paupertas dolorem efficit, sed cupiditas), Epict',fragm' 25. Si riconobbe inoltre per esperienza esser le nostresperanze, le nostre pretensioni, quelle che suscitano e aguzzano ildesiderio; che quindi la causa del nostro angustiarci e del nostrosoffrire sta, non negli innumerevoli mali comuni a tutti einevitabili, e neppure nei beni non conseguibili da nessuno, masoltanto nella quantità piú o meno insignificante dei beniconseguibili e dei mali evitabili; che anzi, quello che non possiamo(assolutamente o relativamente) conseguire o sfuggire, ci lasciaperfettamente tranquilli; che questa era dunque la ragione per cui imali che assediano la nostra individualità e i beni che debbono dinecessità restarci interdetti sono riguardati con indifferenza; eche, grazie a questa particolare disposizione dell'uomo, ognidesiderio si estingue divenendo incapace di produrre dolore senessuna speranza viene ad alimentarlo.Donde la conclusione generale: che la felicità si fonda unicamentesulla proporzione fra ciò cui si aspira e ciò che si ottiene; lagrandezza e la piccolezza dei due termini non importano; laproporzione si mantiene tanto con l'impiccolire il primo terminequanto con l'ingrandire il secondo. Non solo: ma si dedusse ancorache ogni sofferenza proviene da una sproporzione fra quello chedesideriamo o aspettiamo e quello che ci è concesso; che tale

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsproporzione però non esiste evidentemente se non nella conoscenza, (27)e potrebbe quindi con una migliore riflessione venir soppressainteramente. Cosí diceva Crisippo: "§deî zê*n kat' empeirïan t#nfüsei sumbainöntwn" (Stob', Ecl', l' Ii, c' Vii, pag' 134) e cioè:bisogna vivere con una conoscenza conveniente del corso delle cosenel mondo. Poiché tutte le volte che un uomo esce dalla misura, silascia abbattere da una sfortuna, o si adira o si abbandona alloscoramento, dimostra con ciò, che le cose gli risultano diverse dacome se le aspettava, e che per conseguenza egli viveva nell'errore;non conosceva né il mondo né la vita; non sapeva come la naturainanimata per caso, e la natura animata per finalità opposte o ancheper intento malvagio, mettano ad ogni momento i bastoni fra le ruotealla volontà del singolo. Egli dunque, o non aveva fatto nessun usodella ragione per venire ad una conoscenza generale di questa naturadella vita, oppure il giudizio era in lui troppo fiacco perriconoscere nel fatto singolare quello che sapeva e ammetteva ingenerale; donde la sorpresa e l'andar fuori dei gangheri. (28)Così ogni gioia troppo viva è un errore, un'illusione, perchénessun desiderio soddisfatto può renderci a lungo felici, e perchéogni nostro bene, ogni nostra felicità non ci sono concessi che acaso e per un tempo che a nessuno è noto, possono dunque da unmomento all'altro esserci di nuovo strappati. Ogni dolore derivadallo svanire di una tale illusione: la gioia e la sofferenza nasconodunque l'una e l'altra da una conoscenza erronea: ecco perché tantoil giubilo quanto il dolore restano estranei al saggio, di cui nessunavvenimento riesce a turbare l'ataraxïa.Secondo questo spirito e questa direttiva della Stoa, Epittetostabilisce il precetto (cui fa costantemente ritorno come al nocciolodella sua filosofia): che bisogna ponderare bene, distinguere le coseche dipendono da noi da quelle che non ne dipendono, e non farassegnamento alcuno su queste ultime; in tal modo si è sicuri diliberarsi totalmente dal dolore dalla sofferenza e dalle angosce.Ora, la sola cosa che dipenda da noi è la volontà; ecco la via percui si passò a poco a poco alla vera dottrina della virtú: facendonotare che mentre i mali e i beni (esterni) ci vengono dal mondoesteriore indipendente da noi, viceversa la gioia e lo scontentointeriore sono opera della nostra volontà. In seguito sorse ilproblema: se il nome di bonum et malum si potesse attribuire ai benie ai mali esterni o agl'interni. Problema in fondo arbitrario edestraneo al soggetto. Pure gli Stoici v'impegnarono disputeinterminabili coi Peripatetici e con gli Epicurei, consumando iltempo nel tentare un paragone impossibile fra due quantitàincommensurabili, e nello scagliarsi a vicenda come frecce lesentenze opposte e paradossali che ne deducevano. Una interessanteraccolta della parte stoica di queste dottrine ci fu trasmessa daiParadoxa di Cicerone.Zenone, il fondatore della scuola, pare abbia seguito in origineuna via diversa. Il suo punto di partenza era questo: per conseguireil bene supremo, cioè la felicità e la calma dello spirito, bisognavivere in armonia con se stessi: "homologoumënws zê*n: tovto de ëstikaô' hëna lögon kaì sümfwnon zê*n" (consonanter vivere: hoc estsecundum unam rationem et concordem sibi vivere), Stob', Ecl', eth',l' Ii, c' Vii, pag' 132. Parimenti: "§aretèn diäôesin eînai yuçêssümfwnon heautê* perì hölon tòn bïon" (Virtutem esse animiaffectionem secum per totam vitam consentientem), ibid', pag' 104. Maciò non era possibile se non a condizione di vivere ragionevolmente,cioè secondo concetti, e non seguendo le impressioni mutevoli, icapricci; ora, siccome in nostro potere abbiamo soltanto le massimedella nostra condotta, non i risultati, né le circostanze esteriori,cosí, per vivere in coerenza con noi stessi, dobbiamo scegliere leprime, non affidarci alle seconde: rieccoci di nuovo alla dottrinadella virtú.Ma il principio morale, di vivere in armonia con se stesso, parvesin troppo formale e troppo vuoto agl'immediati successori di Zenone.Al principio si diede allora un contenuto materiale aggiungendovi«conformemente alla natura», "homologoumënws tê* füsei zê*n"; questanuova determinazione, al dire di Stobeo nell'opera citata, fuintrodotta per la prima volta da Cleante; ed allargò di molto la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquestione, data la vasta sfera del concetto e l'indeterminatezzadella frase. Infatti Cleante comprendeva nella sua formula tutta lanatura in generale: Crisippo invece intese indicare soltanto lanatura umana in particolare (Diog' Laert', 7, 89). Virtú dovevaritenersi soltanto quella che è conforme alla natura umana, quellache si addice alla natura animale non è che soddisfazione di istintibestiali. Ecco un nuovo ed energico ritorno alla dottrina dellavirtú; l'etica, a qualsiasi costo, doveva essere fondata sullafisica. Gli stoici cercavano innanzitutto l'unità del principio: Dioe il mondo non potevano essere separati nel loro sistema.L'etica stoica, presa nel suo complesso, è veramente un tentativoprezioso e rispettabile di valersi della ragione, di questo grandeprivilegio dell'uomo, per un fine degno e salutare: per elevare lacreatura umana al disopra delle sofferenze e dei dolori toccati insorte alla vita, secondo i dettami del seguente ammonimento:Qua ratione queas traducere leniter aevum:@ Ne te semper inopsagitet vexetque cupido,@ Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.@In tal modo l'uomo avrebbe partecipato nel piú alto grado a quelladignità che gli conviene come essere ragionevole, a differenza diogni altro animale: soltanto nel detto senso, non in alcun altro, laparola dignità esprime qualche cosa. La mia maniera di concepirel'etica stoica mi ha obbligato a parlarne in questa esposizione sullanatura della ragione e della sua efficienza. Il fine, cui le dottrinestoiche tendono per mezzo della ragione e di un'etica puramenterazionale, è in certa misura conseguibile: anche l'esperienzac'insegna che gli uomini di carattere puramente razionale, chiamaticomunemente filosofi pratici - e con ragione, poiché come il filosofoin senso vero e proprio, il teoretico, trasporta la vita neiconcetti, cosí quelli trasportano i concetti nella vita - sono lagente piú felice. Tuttavia molto ancora ci manca perché possiamo contal metodo raggiungere qualcosa di perfetto, e perché la rettaapplicazione della ragione ci liberi effettivamente da ogni peso e daogni sofferenza della vita, e ci possa condurre alla felicità. C'èanzi una contraddizione assoluta fra il voler vivere e il non volersoffrire; contraddizione che è implicita tutta intera nella frase«vita felice»; il che risulterà chiarissimo e persuasivo a chi vorràleggere fino a fondo il libro seguente. Una tale contraddizione simanifesta in quella stessa morale della ragione pura: lo stoicoinfatti si trova necessitato a introdurre fra i suoi precetti per lavita felice (unica sua mira), il precetto che impone il suicidio(proprio come i despoti orientali, che fra tanti meravigliosi oggettidi lusso, tenevano sempre una preziosa boccetta di veleno), precetto,che doveva applicarsi nel caso in cui le sofferenze fisiche, nonsopprimibili da nessun precetto né da nessun ragionamento filosofico,diventassero eccessive e insanabili: allora il fine unico della vita,la felicità, viene frustrato, e per sottrarsi al dolore non rimanealtro rimedio che la morte: rimedio che bisogna saper prendere asangue freddo come qualsiasi medicina. Qui si vede il grandecontrasto fra l'etica stoica e tutte le altre dottrine su ricordate;queste ammettono come fine ultimo e immediato la virtù, anche seacquistata a prezzo dei più gravi sacrifici; non ammettono che sipossa dar fine ai propri giorni per sfuggire al dolore; nessuna peròseppe addurre il vero argomento decisivo contro il suicidio, nessuna,dopo tanti sforzi e lambiccamenti, riuscì ad altro che a trovare unafolla di motivi illusori. Negli schiarimenti al quarto libro diremoanche noi quale sia l'essenza del vero motivo. Tale opposizionedimostra inconfutabilmente la differenza essenziale di principio frala dottrina stoica, che in sostanza è un eudemonismo particolare, ele altre dottrine suddette, benché quella e queste s'incontrinospesso nei risultati e abbiano una parentela evidente. Lacontraddizione intima, da cui l'etica stoica è affetta nei suoistessi princìpi fondamentali, si rivela anche nel fatto che il suoideale, il saggio stoico quale ce lo rappresenta, non è mai animatoda un soffio di vita o d'intima verità poetica, ma resta un rigidoburattino dalle membra di legno di cui non sappiamo che fare, che nonsa neppure esso che farsi della sua sapienza, e di cui la calma, lacontentezza, la beatitudine riescono incomprensibili per il lorocontrasto troppo stridente con la natura umana. Come è piccino lo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtstoico di fronte a quei vincitori del mondo, a quegli espiatorivolontari, che la sapienza indiana presenta e che realmente produsse;o di fronte al Salvatore del Cristianesimo, figura sublime,esuberante di vita profonda, piena di così fulgida verità poetica edi così alto significato; e che tuttavia, malgrado la sua virtúperfetta, la sua santità e la sua dignità morale, vediamo espostoalle piú acerbe sofferenze! (29)

NOTE:(13) In italiano nel testo. (N'd'T')(14) [«Pochi sono gli uomini che pensano, tutti però vogliono avereun'opinione.»](15) Cfr' con questo paragrafo i parr' 26 e 27 della secondaedizione della mia dissertazione Sul principio della ragione.(16) Cfr' capp' 9 e 10 del secondo volume.(17) Cfr' a questo proposito il cap' 11 del secondo volume.(18) Io sono quindi del parere che la fisiognomica, se vuol restaresu di un terreno sicuro, non deve andare di là dalla necessariapreordinazione di alcune regole generalissime, quali ad esempioqueste: l'intelligenza si legge sulla fronte e negli occhi; ilcarattere morale e le manifestazioni della volontà si manifestanonella bocca e nella parte inferiore del volto. La fronte e l'occhiosi spiegano l'un l'altro; nessuno dei due si può comprenderecompletamente se non si osserva anche l'altro. Il genio non va maidisgiunto da una fronte alta, spaziosa e ben curvata; ma non sempre èvero il contrario. Da un aspetto espressivo si potrà concludere contanta sicurezza lo spirito di un uomo, quanto piú il viso saràbrutto; cosí di una fisionomia stupida si dedurrà tanto piúsicuramente la stupidità, quanto piú il volto sarà bello, poiché labellezza, qualità propria al tipo dell'umanità, porta già in sé e diper sé un'espressione di chiarezza intellettuale: il contrario sidica della bruttezza.(19) [«L'intenzione, non appena si lascia subodorare,c'indispone.»](20) Cfr' il cap' 7 del secondo volume.(21) Cfr' cap' 8 del secondo volume.(22) Suarez, Disput' metaphysicae, disp' Iii, sect' 3, tit' 3.(23) Cfr' cap' 12 del secondo volume.(24) Bisogna qui dimenticare il cattivo uso che Kant ha fatto diqueste espressioni greche, e che io critico nell'Appendice.(25) Spinoza, che si vantava sempre di procedere more geometrico,seguí in realtà questo metodo molto piú di quanto non pensasse eglistesso. Tutto ciò che, in virtú di una comprensione intuitiva eimmediata dell'essenza del mondo, gli era già noto con certezzadefinitiva, egli cerca di dimostrarlo per via logica eindipendentemente dalla sua cognizione anteriore; in realtà nonraggiunge i risultati prefissi, di cui era già convinto, se nonprendendo come punto di partenza dei concetti arbitrariamentecreatisi da se stesso (substantia, causa sui, ecc') e permettendosinel corso della dimostrazione tutte quelle licenze a cui la naturadei concetti troppo estesi dà facile appiglio. Cosí, tutto ciò che divero e di buono si trova nella sua dottrina è affatto indipendentedalle dimostrazioni: proprio come in geometria. (Cfr' su questopunto, il cap' 13 del secondo volume.)(26) Cfr' il cap' 17 del secondo volume.(27) Omnes perturbationes judicio censent fieri et opinione. Cic',Tusc', 4, 6. "§tarässei toùs anôrjpous ou tà prägmata, allà tà perìt#n pragmätwn dögmata." (Perturbant homines non res ipsae sed derebus opiniones.) Epict', c' V.(28) "§tovto gär esti tò aïtion toîs anôrjpois päntwn t#n kak#n, tòtàs proléyeis tàs koinàs mè dünasôai efarmözein taîs epì mërous."(Haec est causa mortalibus omnium malorum, non posse comunes notionesoptare singularibus.) Epict', Dissert', Iii, 26.(29) Cfr' cap' 16 del secondo volume.

Libro secondo:Il mondo come volontà

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtPrima considerazione.L'oggettivazione della volontàNos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli:@ Spiritus, innobis qui viget, illa facit.@Par' 17. - Nel primo libro abbiamo considerato la rappresentazionecome tale, cioè unicamente sotto la sua forma generale. Ma larappresentazione astratta (il concetto) l'abbiamo studiata anche nelsuo contenuto; in quanto cioè questo suo contenuto e ogni suosignificato le derivano dalla sua relazione con la rappresentazioneintuitiva, senza la quale resterebbe vuota di ogni valore. Rimasticosì di fronte alla sola rappresentazione intuitiva, cercheremo diconoscerne il contenuto, le determinazioni precise e le forme.Vediamo per prima cosa di poter dare una esatta spiegazione del suosignificato; significato che d'ordinario ci limitiamo a sentire senzaben comprenderlo; e al quale si deve se le immagini offerteci dallarappresentazione, invece di passarci davanti quasi estranee einsignificanti, ci parlano direttamente, ci diventano comprensibili,e acquistano un interesse che impegna tutto il nostro essere.Diamo ora uno sguardo alla matematica, alla scienza naturale e allafilosofia, in ciascuna delle quali speriamo trovare una parte dellasoluzione desiderata. A prima vista la filosofia ci si presenta comeun mostro a piú teste, di cui ciascuna parla una lingua diversa.Tuttavia, sul punto particolare che qui si studia, cioè sulsignificato della rappresentazione intuitiva, non sono tutte indisaccordo fra loro; poiché, ad eccezione degli scettici e degliidealisti, tutti gli altri filosofi si accordano, almeno in sostanza,nell'ammettere un oggetto che serva di fondamento allarappresentazione; e che, quantunque ne differisca e nell'essere enell'essenza, le sia nondimeno tanto simile sott'ogni aspetto come unuovo ad un altro uovo. Ma da tale spiegazione non abbiamo nulla asperare: sappiamo infatti che l'oggetto non si può distinguere dallasua rappresentazione; anzi riconosciamo che l'uno e l'altra formanouna sola e medesima cosa, in quanto ogni oggetto presuppone sempre epoi sempre un soggetto, e quindi si riduce a semplicerappresentazione. Abbiamo anche riconosciuto che il carattered'essere oggetto costituisce la forma piú generale dellarappresentazione, la quale consiste appunto nella divisione inoggetto e soggetto. Inoltre: il principio di ragione, a cui sempre criferiamo in proposito, anch'esso non è se non la forma dellarappresentazione, ossia la connessione regolare di unarappresentazione con un'altra; e non già il legame della serie totalefinita o infinita delle rappresentazioni con qualcos'altro che nonsia rappresentazione, e non sia quindi suscettibile di venirerappresentato. Degli scettici e degli idealisti ho parlato innanzi,nella mia discussione sulla realtà del mondo esteriore.Se - per ottenere la conoscenza piú precisa che desideriamo intornoalla rappresentazione intuitiva, conosciuta fin qui soltanto sottol'aspetto generale della forma - interroghiamo la matematica, questanon ci parlerà delle rappresentazioni che in quanto riempiono iltempo e lo spazio, cioè in quanto sono grandezze. Ce ne indicherà conla massima esattezza il numero e l'estensione; però, siccome numeroed estensione non sono che relativi, e cioè risultano dallacomparazione di una rappresentazione con un'altra, e fatta per di piúsotto il solo punto di vista della quantità, non sarà qui che potremotrovare la soluzione desiderata. Se infine volgiamo lo sguardo alvasto e vario dominio della scienza della natura, vedremo che questasi divide in due rami principali. Il primo concerne la descrizionedelle forme e costituisce la morfologia: il secondo spiega lemodificazioni delle forme, ed io lo chiamo etiologia. L'uno studia leforme come permanenti; l'altro, la materia cangiante secondo le leggidel passaggio da una forma all'altra. Il primo costituisce quella cheimpropriamente vien chiamata storia naturale (nel senso largo dellaparola): la quale, in ispecie come botanica e come zoologia,c'insegna a riconoscere in mezzo all'incessante variaredegl'individui, le forme diverse, permanenti organiche e quindistabilmente fisse, di cui risulta una gran parte del contenuto dellarappresentazione intuitiva; le classifica, le separa, le riunisce, leordina in sistemi naturali o artificiali; e le dispone secondo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconcetti che ne rendono possibile una veduta e una conoscenzad'insieme. Non questo soltanto: ma inoltre ci dimostra la presenza diun principio di analogia dalle infinite sfumature, che scorreattraverso il tutto e le parti; di una unité de plan, in virtú dellaquale tutte quelle forme sembrano tante e diverse variazioni di untema unico non espresso. Il passaggio della materia attraverso tanteforme, e cioè la formazione dell'individuo, non fa parte essenzialedi questa scienza; perché ogni individuo proviene dal suo simile pervia di creazione; la quale, dappertutto egualmente misteriosa, si èsottratta fin qui a una conoscenza precisa; il poco che noi nesappiamo appartiene alla fisiologia, che è già una scienzaetiologica. Anche la mineralogia, benché per l'essenziale facciaparte della morfologia, pure, principalmente quando si trasforma ingeologia, tende ad assumere un carattere etiologico. L'etiologiapropriamente detta comprende tutti quei rami delle scienze naturaliche hanno per intento precipuo lo studio delle cause e degli effetti:c'insegna come, in virtù di una regola infallibile, un certo statodella materia debba essere necessariamente seguito da un altro statodeterminato, e come una data modificazione debba di necessitàcondizionare e produrre un'altra modificazione data: il che significadare una spiegazione. In questo ramo di scienze troviamo lameccanica, la fisica, la chimica e la fisiologia.Ma se ci mettiamo alla scuola di queste scienze, ci accorgeremosubito che l'etiologia ci nega, non meno della morfologia, lasoluzione di cui ci preoccupiamo. La morfologia ci schiera dinanziun'infinità di forme svariatissime; legate bensì tra loro daun'incontestabile affinità di somiglianza; ma che, in quanto semplicirappresentazioni, ci restano eternamente estranee, come tantigeroglifici indecifrabili. L'etiologia, d'altra parte, c'insegna che,in virtú della legge di causa e d'effetto, un determinato stato dellamateria ne produce un altro; ma con questo il suo compito è esaurito.Non fa in ultimo che mostrare l'ordine regolare con cui gli stati siproducono nello spazio e nel tempo, ed insegnarci per ogni casopossibile quali fenomeni si debbano di necessità verificare in undato tempo e in un dato luogo. Assegna dunque a ciascun fenomeno ilrispettivo posto nello spazio e nel tempo, secondo una legge il cuicontenuto determinato ci viene offerto dall'esperienza, ma la cuiforma universale e la cui necessità ci sono note indipendentemente daquesta. Ma ciò non c'illumina punto sull'intima essenza di unoqualsiasi di tali fenomeni; questa essenza, la cui spiegazione cadeall'infuori del dominio dell'etiologia, vien chiamata forza naturale,e la costanza immutabile con la quale si produce l'estrinsecazione diquesta forza ogni qualvolta si presentino le condizioni cui soggiace,prende il nome di legge naturale. Questa legge naturale, questecondizioni e questo prodursi di fenomeni a tempo e luogo determinati:ecco tutto ciò che l'etiologia conosce o potrà mai conoscere. Laforza stessa che si manifesta, la natura intima dei fenomeni che siproducono con leggi regolari anche per l'etiologia resta in eterno unsegreto; qualcosa cioè di assolutamente estraneo e sconosciuto, sianel caso del fenomeno piú semplice come del piú complicato.Perché, sebbene l'etiologia abbia ottenuti finora i risultati piúperfetti nella meccanica e i piú imperfetti nella fisiologia,nondimeno la forza che fa cadere a terra una pietra, o urtare uncorpo contro l'altro, non è nella sua essenza meno strana emisteriosa per noi di quella che produce il moto e l'accrescimentonegli animali. La meccanica ammette come inesplicabili la materia, ilpeso, l'impenetrabilità, la comunicazione del movimento per mezzodell'urto, la rigidità ecc', cui dà il nome di forze fisiche; dà ilnome di leggi fisiche alla regolare necessità dell'apparire di quellesotto certe condizioni e soltanto in séguito (cioè soltanto in basealle forze e alle leggi assunte) comincia la sua opera dispiegazione; la quale si risolve nel dimostrare, con fedeltà e conprecisione matematica, il come, il dove, il quando ogni forza simanifesta, e nel riferire ogni fenomeno che accade ad una di taliforze. Altrettanto fanno la fisica, la chimica, la fisiologia nelrispettivo campo; con la differenza che presuppongono molto di piú eapprodano a molto meno. Per conseguenza: la spiegazione etiologica,anche piú perfetta, della natura non si riduce ad altro che a un

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcatalogo di forze inesplicabili, ad una precisa indicazione delleregole secondo cui le loro manifestazioni si producono, si succedonoe si sostituiscono a vicenda nel tempo e nello spazio: ma l'essenzaintima delle forze che si estrinsecano in tal maniera deve restareun'eterna incognita, poiché la legge che serve di base all'etiologianon può arrivare fin là, e costringe questa scienza a limitarsi aifenomeni e al loro ordinamento. Si potrebbe paragonare l'etiologia aun blocco di marmo la cui sezione ci lascia scorgere un'infinità divene che serpeggiano l'una accanto all'altra, ma non ci fa scoprireil corso interiore di queste vene fino alla superficie. Mi sipermetta un altro paragone il quale, sebbene scherzevole, è molto piúincisivo: il filosofo, di fronte a tutta la sua scienza etiologicadella natura, deve provare la stessa impressione di un uomo capitatonon si sa come in mezzo ad una compagnia affatto sconosciuta, alquale ciascun membro della compagnia presentasse a turno l'altro comesuo amico o cugino, e gliene facesse fare la conoscenza: il nostrobrav'uomo, mentre si effonde in congratulazioni con ciascuno deipresentati, avrebbe tuttavia fra le labbra la continua domanda: «Macome diavolo son mai capitato qui tra costoro?».Dobbiamo dunque concludere che neppure l'etiologia ci può dareintorno ai fenomeni, da noi conosciuti soltanto come nostrerappresentazioni, la spiegazione desiderata e capace di farciprogredire; poiché, tanto dopo quanto prima di ogni spiegazione, ifenomeni restano sempre rappresentazioni pure e semplici, prive pernoi di significato, ed a noi estranee. La connessione causale non cidà che la regola e l'ordine relativo della loro produzione nellospazio e nel tempo, ma non c'insegna niente sulla natura del fenomenoche si produce. Inoltre la legge di causalità non possiede essastessa un valore che in ordine alle rappresentazioni, agli oggetti diuna data classe; non ha significato che in quanto è un loropresupposto; quindi, al pari di questi oggetti medesimi, anch'essaesiste soltanto in relazione al soggetto; è condizionata: ed eccoperché può venir riconosciuta, come appunto ha insegnato Kant, tantose si parte dal soggetto, e cioè a priori, quanto se si partedall'oggetto, cioè a posteriori.Ora ciò che ci spinge all'investigare è appunto il fatto che non cibasta di sapere che abbiamo delle rappresentazioni, che questerappresentazioni sono di tale o tal altra specie, e che si connettonotra loro secondo le leggi espresse in generale dal principio diragione. Noi vogliamo conoscere il significato di questerappresentazioni: ci domandiamo se questo mondo non sia altro cherappresentazione (nel qual caso dovrebbe passarci davanti come unvano sogno, come un aereo fantasma, indegno di ogni nostraconsiderazione); oppure al contrario, se non sia ancoraqualcos'altro, qualche cosa di piú, e che cosa sia questo qualcosa dipiú. Intanto, quel che sappiamo di certo è che il quid ricercato è dinatura pienamente ed essenzialmente eterogenea alla rappresentazione,è totalmente estraneo alle forme e alle leggi di questa; donde segueche, per ritrovarlo, non potremo mai partire dalla rappresentazione,né seguire il filo conduttore delle sue leggi: queste leggi nonessendo che il legame fra gli oggetti, fra le rappresentazioni, eriducendosi a semplici forme del principio di ragione.Vediamo dunque fin d'ora che se si parte dal di fuori non sarà maipossibile arrivare all'essenza delle cose: per quanto si cerchi es'investighi non troveremo che nomi e fantasmi, e ci accadrà come acolui che gira intorno a un castello per cercarne l'entrata, e nonpotendola trovare, si diverte a schizzarne le facciate. Pure questa èla via seguita da tutti i filosofi che vennero prima di me.

Par' 18. - In realtà sarebbe impossibile trovare il significato diquesto mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppurecomprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione delsoggetto conoscente a qualcosa d'altro e di piú, se il filosofostesso non fosse qualcosa di piú che un puro soggetto conoscente (unatesta d'angelo alata, senza corpo). Ma il filosofo ha la sua radicenel mondo; ci si trova come individuo, e cioè la sua conoscenza,condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, ènecessariamente condizionata al corpo, le cui affezioni, come abbiam

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfatto vedere, porgono all'intelletto il suo punto di partenza perl'intuizione del mondo medesimo. Per il soggetto puramenteconoscitivo il corpo è una rappresentazione come un'altra, un oggettofra altri oggetti, i suoi movimenti e le sue azioni non sono per lui,sotto questo punto di vista, nulla di diverso dalle modificazioni diqualsiasi altro oggetto intuitivo, e gli resterebbero altrettantoestranei e incomprensibili, se il loro significato non gli venisserivelato in modo del tutto speciale. Egli vedrebbe le sue azioniseguire con la costanza di una legge fisica i motivi che sipresentano, proprio come le modificazioni degli altri oggetti seguonole cause, gli eccitamenti, i motivi. Però non potrebbe comprenderel'influenza dei motivi, piú che non comprenda il collegamento deglialtri effetti visibili con le loro cause. L'essenza intima eincomprensibile delle estrinsecazioni e delle azioni del suo corpoverrebbe da lui chiamata, come gli piacesse, piacere, forza, qualitào carattere; senza però che ne sapesse nulla di piú positivo. Ora lecose non stanno punto così; anzi al contrario: è l'individuo, ilsoggetto conoscente, quello che dà la parola dell'enigma; e questa sichiama volontà. Questa parola, questa sola, offre al soggetto lachiave della propria esistenza fenomenica; gliene rivela ilsignificato, e gli mostra il meccanismo interiore che anima il suoessere, il suo fare, i suoi movimenti. Al soggetto conoscente chedeve la sua individuazione all'identità con il proprio corpo, essocorpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato comerappresentazione intuitiva dell'intelletto, come oggetto fra oggetti,sottostante alle loro leggi; ma insieme dall'altro lato, è dato comequalcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viendesignato col nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà èsempre infallibilmente anche un movimento del suo corpo; il soggettonon può voler effettivamente un atto, senza insieme costatare chequesto atto appare come movimento del suo corpo. L'atto volitivo el'azione del corpo non sono due stati differenti, conosciuti in modoobiettivo, e collegati secondo il principio di causalità; non stannotra loro nella relazione di causa ed effetto: sono, al contrario, unasola e medesima cosa che ci è data in due maniere essenzialmentediverse: da un lato immediatamente, dall'altro come intuizione perl'intelletto. L'azione del corpo non è che l'atto della volontàoggettivato, cioè divenuto visibile all'intuizione. Vedremo piú tardiche ciò è vero per tutti i movimenti del corpo, e cioè non solo perquelli causati da motivi, ma ben anche per quelli che seguonoinvolontariamente a un'eccitazione: vedremo, anzi, che il corpo tuttointero non è che volontà oggettivata, cioè divenuta rappresentazione;il seguito dell'opera tratterà ampiamente e renderà chiari tuttiquesti problemi. Nel primo libro e nella dissertazione Sul principiodi ragione, io, stando al punto di vista unilaterale dellarappresentazione in cui mi ero messo di proposito, designai il corpocon il nome di oggetto immediato: qui, sotto il nuovo punto di vista,lo chiamerò l'oggettità della volontà. Si può dire anche in un certosenso: la volontà è la conoscenza a priori del corpo, il corpo laconoscenza a posteriori della volontà. Le decisioni volontarieconcernenti l'avvenire non sono atti di volontà veri e propri, masemplici riflessioni della ragione su quello che si vorrà in unmomento dato. Soltanto l'esecuzione dà il suggello alla decisione;questa dapprima si risolve in un semplice variabile progetto, e nonesiste che in abstracto nella ragione. Il volere e il fare non sonoseparati che nella riflessione: nella realtà fanno una sola cosa.Ogni atto vero, effettivo, immediato della volontà è subito eimmediatamente un atto fenomenico del corpo; del pari, ogniimpressione esercitata sul corpo è ipso facto un'impressione direttasulla volontà; e come tale si chiama dolore o piacere (benessere), aseconda che sia contraria o conforme alla volontà. Le gradazionidell'uno e dell'altro sono diversissime. In ogni caso, dare il nomedi rappresentazioni a piaceri e a dolori è un grande errore; piacerie dolori non sono rappresentazioni, ma soltanto immediate affezionidella volontà nella sua manifestazione fenomenica, ossia nel corpo:sono un subitaneo e necessario volere o nonvolere, le impressionisubite dal corpo. Non c'è che un piccolo numero d'impressionicorporee cui si possa, in eccezione a quanto si disse or ora, dare il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnome di semplici rappresentazioni. Queste non sono affezioni dellavolontà, ma costituiscono soltanto la condizione a che il corpodivenga oggetto immediato della nostra conoscenza; invece, comerappresentazione intellettuale, il nostro corpo è già un oggettomediato al pari di tutti gli altri. Intendo qui parlare delleaffezioni dei sensi puramente oggettivi, cioè della vista, dell'uditoe del tatto; e unicamente in quanto questi organi vengono affetti inmaniera specifica, particolare, conforme alla loro natura cosí daprodurre sulla sensibilità rinforzata e specificamente modificata diqueste parti un'eccitazione cosí debole, che la volontà non ne vieneaffetta; tale affezione allora, non essendo turbata da eccitamentidella volontà, non fa che somministrare all'intelletto i dati cheprodurranno l'intuizione. Ogni affezione violenta o anormale diquesti organi è dolorosa, cioè ripugna all'oggettità della volontà, acui anche questi organi dunque appartengono. Si ha debolezza nervosaquando le impressioni, che dovrebbero avere soltanto la forzabastante a farne dei dati dell'intelletto, raggiungono un gradosuperiore in cui eccitano la volontà, cioè producono piacere odolore: e piú spesso dolore, oscuro peraltro e vago il piú dellevolte; non soltanto dei suoni isolati e una luce viva c'impressionanodolorosamente, ma spesso ci sentiamo una disposizione generaleipocondriaca o malaticcia, che non riusciremmo a ben definire.L'identità del corpo e della volontà si manifesta, fra l'altro, anchein questo: che ogni movimento violento ed eccessivo della volontà,cioè ogni emozione, scuote immediatamente il corpo e tutto il suomeccanismo interiore, e turba il corso delle sue funzioni vitali. Diquesto argomento feci una trattazione speciale nel libro La volontànella natura, pag' 27 della seconda edizione.Infine la conoscenza che io ho della mia volontà, sebbene immediataè nondimeno inseparabile da quella del mio corpo. La volontà io laconosco, non nel suo insieme, non nella sua unità, non nellaperfezione della sua essenza; ma soltanto nei suoi singoli atti,quindi nel tempo che è la forma del fenomeno del mio corpo, come diogni altro oggetto; il corpo è dunque la condizione della conoscenzadella mia volontà. Questa volontà senza il corpo, io non sonoveramente capace di concepirla. Nella dissertazione Sul principio diragione, ho bensì presentato la volontà, o meglio il soggetto delvolere, come una classe speciale di rappresentazioni o di oggetti: mafin d'allora s'è visto, che un tale oggetto coincide col soggetto,perdendo il suo essere oggetto; e tale coincidenza venne chiamata ilmiracolo (kat' exoçén): la presente opera non è, in certa misura, chela spiegazione del detto miracolo. In quanto io conosco la miavolontà come oggetto, io la conosco come corpo, e allora mi trovo inpresenza della prima classe di rappresentazioni di cui ho parlato inquella dissertazione, ossia degli oggetti reali. A misura cheavanzeremo vedremo sempre meglio che questa prima classe dirappresentazioni non potrà spiegarsi e decifrarsi che per mezzo dellaquarta classe successivamente stabilita, la quale non appare piú alsoggetto come oggetto; e reciprocamente arriveremo a comprendere, permezzo della legge di motivazione che domina la quarta classe,l'intima essenza della legge di causalità dominante nella prima, e ditutti i fenomeni che accadono in sua conformità.Questa identità della volontà e del corpo, di cui s'è dato unrapido cenno, non si può che metterla in luce, come s'è detto qui perla prima volta, e come si farà sempre piú man mano che procederemo:noi cioè l'abbiamo elevata dalla coscienza immediata e in concreto alsapere razionale, alla conoscenza in abstracto; ma il volerladimostrare, cioè trarla come conoscenza mediata da un'altraconoscenza che fosse immediata, sarebbe cosa assolutamenteimpossibile perché contraria alla sua natura. Infatti: l'accennataidentità è la piú immediata delle nostre conoscenze, e se noi non laconcepiamo e non la fissiamo come tale, sarà vano ogni nostro sforzoper acquistarla mediatamente come conoscenza derivata. Si ha qui unaconoscenza di natura tutta speciale; per ciò appunto la sua veritànon può rientrare in nessuna delle quattro rubriche in cui nelladissertazione Sul principio di ragione, par' 29 e segg', ho divisotutte le specie di verità; cioè: la verità logica, la empirica, lametafisica e la metalogica. Non è infatti, come queste ultime, la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrelazione di una rappresentazione astratta con qualche altrarappresentazione, o con la forma necessaria della rappresentazioneintuitiva o astratta; consiste bensí nella dipendenza di un giudiziodalla relazione che passa fra una rappresentazione intuitiva (ilcorpo) e qualcosa che non è rappresentazione, anzi ne differisce totogenere: la volontà. Per tale ragione io vorrei distinguere questaverità da tutte le altre, e chiamarla la verità filosofica (kat'exoçén). Si può esprimerla indifferentemente in varie maniere,dicendo: il mio corpo e la mia volontà son tutt'uno; oppure: ciò cheio in quanto rappresentazione intuitiva chiamo il mio corpo, inquanto ne sono conscio in maniera diversa e non paragonabile anessun'altra, lo dico mia volontà; o pur anche: il mio corpo èl'oggettività della mia volontà; e ancora: il mio corpo, facendoastrazione che il suo essere è una mia rappresentazione, non è piúche la mia volontà: e così via. (1)

Par' 19. - Se la riduzione, fatta nel primo libro, del nostro corpo(come di tutti gli altri oggetti del mondo intuitivo) a semplicerappresentazione del soggetto conoscente, non fu senza una mia intimaripugnanza, ormai vediamo chiaramente ciò che nella coscienza diciascuno distingue la rappresentazione del proprio corpo da quella,per il resto affatto simile, di tutti gli altri oggetti: un talecarattere distintivo consiste nel fatto che il nostro corpo sipresenta ancora in un'altra maniera toto genere differente, espressadalla parola volontà. Questa doppia conoscenza ci dà, sul nostrocorpo, sul suo operare e muoversi in virtú di motivi, come anchesulla sua sensibilità alle impressioni esterne, in una parola su ciòche il nostro corpo è in se stesso all'infuori e in piú dellarappresentazione, quella spiegazione, che ci è impossibile otteneredirettamente sull'essenza, sull'attività e sulla passività di ognialtro oggetto reale.In virtù appunto di questa relazione speciale con un solo corpo, ilquale, all'infuori della relazione medesima, non è che unarappresentazione simile a tutte le altre, il soggetto conoscente è unindividuo. Ma questa relazione, in virtú della quale il soggetto è unindividuo, non esiste per ciò stesso che fra il soggetto e una soladi tutte le sue rappresentazioni. Ecco perché questa è la sola dellaquale il soggetto abbia coscienza, non soltanto come di unarappresentazione pura, ma insieme come di una volontà. Quando facciaastrazione dalla detta relazione speciale, dalla conoscenza dupliceed eterogenea di quella cosa una e medesima ch'è il nostro corpo,questo si riduce a una semplice rappresentazione uguale a tutte lealtre. Allora il soggetto conoscente, se vuole orientarsi inproposito, deve ammettere l'una o l'altra delle due ipotesi qui diseguito esposte. Ciò che distingue tale rappresentazione, consisteunicamente nel fatto che questa è la sola conosciuta (dal soggetto)sotto quel duplice aspetto, l'unico oggetto d'intuizione contemplatoin quel doppio modo, sicché la distinzione, in ultimo, si spiega, nongià con una differenza fra l'oggetto in discorso e tutti gli altri,ma con la differenza che passa fra la relazione conoscitiva conquest'unico oggetto e la relazione conoscitiva con tutti gli altrioggetti. Oppure il soggetto ammetterà che l'oggetto in discorso èessenzialmente differente dagli altri, e solo fra tutti è insiemevolontà e rappresentazione, mentre gli altri non sono che purerappresentazioni, cioè puri fantasmi; e che per conseguenza il suocorpo è l'unico individuo reale al mondo, cioè l'unico fenomeno divolontà, l'unico oggetto. Si può veramente provare con certezza chegli altri oggetti, considerati come semplici rappresentazioni, sonosimili al nostro corpo, e cioè riempiono anch'essi lo spazio (ilquale, a sua volta, non ci è dato se non come rappresentazione), eoperano anch'essi nello spazio. Una tale prova infallibile ce laoffre la legge di causalità - che per le rappresentazioni è certa apriori - la quale richiede che ogni effetto abbia la sua causa. Ma,prescindendo anche da ciò, che da un effetto dato non si può risalireche ad una causa in generale, non a una causa determinata, è danotare che noi ci troviamo qui nel campo della pura rappresentazioneper la quale soltanto ha valore la legge di causalità, che non puòmai condurci fuori di quel campo. E, come abbiamo già mostrato nel

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlibro precedente, il vero senso della questione sulla realtà delmondo esteriore si riduce proprio a questo: se gli oggetti chedall'individuo sono conosciuti soltanto come semplicirappresentazioni al pari del proprio corpo, siano anche fenomeni diuna volontà. Negarlo è dare la risposta dell'egoismo teorico (delsolipsismo), il quale considera tutti i fenomeni, salvo il proprioindividuo, come fantasmi, precisamente come sotto il punto di vistadell'azione, l'egoismo pratico considera e tratta come realtà la solapropria persona, e tutte le altre come semplici fantasmi. L'egoismoteorico non si potrà mai confutare con argomenti: del resto non èstato mai di sicuro impiegato in filosofia se non come sofismascettico, cioè senza convinzione. Come convinzione seria non potrebbeincontrarsi che in un manicomio, e allora per confutarlo nonoccorrono piú argomenti, ma è necessaria una cura. Non ne terremodunque piú conto, e ci limiteremo a considerarlo come l'ultimatrincea dello scetticismo che per sua natura è sempre polemico.Tuttavia la nostra conoscenza, sempre legata all'individualità, e perciò stesso limitata, esige che l'individuo, pur essendo uno, possanondimeno conoscere tutto, ed è appunto questa limitazione che fanascere il bisogno della filosofia. E noi, che cerchiamo di estendereper mezzo della filosofia i limiti della nostra conoscenza, nonriguarderemo l'argomento scettico, a noi opposto dall'egoismoteorico, se non come un piccolo forte di frontiera; inespugnabile, mala cui guarnigione non può far mai una sortita, sicché si può passareoltre lasciandocelo alle spalle senza pericolo.Abbiamo dunque ora, dell'essenza e dell'attività del nostro corpo,una duplice ben chiara conoscenza ottenuta per due vie del tuttoeterogenee, che ci servirà d'ora innanzi di chiave per conoscerel'essenza di ogni fenomeno della natura, e per giudicare, in analogiacol nostro corpo, tutti gli altri oggetti. Questi, non essendo ilnostro corpo, non vengono conosciuti in doppia maniera, ma soltantocome rappresentazioni. E ammetteremo, che, se da un lato sonrappresentazioni al pari del nostro corpo, e in ciò gli son simili;d'altro lato, astrazione fatta dalla loro esistenza comerappresentazioni del soggetto, ciò che ne resta deve, secondo la suaessenza intima, essere tutt'uno con ciò che noi chiamiamo in noivolontà. Infatti, qual altra specie di esistenza o di realtà potremmoattribuire al resto del mondo materiale? Donde prenderemmo glielementi per poterlo comporre? Al di fuori della volontà e dellarappresentazione non c'è per noi nulla di noto né di conoscibile.Se vogliamo, al mondo materiale che esiste direttamente nellanostra rappresentazione, attribuire la massima realtà da noiconcepibile, gli conferiremo la realtà che agli occhi di ciascuno hail proprio corpo; il proprio corpo è per ognuno la cosa piú reale. Mase analizziamo la realtà di questo corpo e delle sue azioni, non viriscontriamo - oltre al suo essere una nostra rappresentazione -nient'altro, all'infuori della volontà; con questi due elementiabbiamo esaurito tutto il suo essere. Non possiamo dunque trovare innessun luogo qualche altra realtà da attribuire al mondo materiale.Se questo dev'essere qualche cosa di piú che una semplice nostrarappresentazione, dobbiamo affermare che oltre a rappresentazione èin sé e nella sua intima essenza una cosa identica a quella chetroviamo immediatamente in noi come volontà. Dico nella sua intimaessenza. Ma questa essenza dobbiamo innanzi tutto conoscerla piú davicino, per saperne distinguere tutto ciò che non le appartiene ma faparte del suo fenomeno nelle varie sue gradazioni. Bisogna sapere adesempio, quando l'essenza s'accompagni con la conoscenza e quindivenga (nell'operare) determinata necessariamente da motivi: unasimile condizione, come si vedrà meglio in seguito, non appartieneall'essenza, ma soltanto al suo fenomeno: sia uomo, sia animale.Quindi, allorché diremo: la forza che fa cadere a terra la pietra è,nella sua essenza, in se stessa e all'infuori di ognirappresentazione, volontà, non si deve a questa proposizioneattribuire lo stolto significato che la pietra si muova in virtú diun motivo cosciente: questo essendo il modo con cui la volontà siestrinseca nell'uomo. (2) Passiamo a spiegare piú a lungo e conmaggiore chiarezza i princìpi esposti fin qui rapidamente in modogenerale; non solo, ma procurando inoltre di dar loro un fondamento e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi svolgerne in tutta l'ampiezza il significato. (3)

Par' 20. - Come essenza in sé del nostro corpo, cioè consideratacome coincidente col nostro corpo in quanto è qualcosa di piú che unsemplice oggetto intuitivo (una rappresentazione), la volontà, comes'è detto, si manifesta nei movimenti volontari di esso corpo, inquanto i movimenti medesimi non sono che la visibilità dei singoliatti volontari, coi quali coincidono immediatamente e perfettamente efanno tutt'uno, differendone soltanto per la forma con cui vengonoconosciuti e rappresentati.Oltre ai movimenti, gli atti della volontà hanno ancora un altroprincipio: i motivi. Questi però non determinano se non ciò che iovoglio in un tal momento, nel tal luogo e nelle tali circostanze; manon già il fatto che io voglia; né in generale ciò che io voglia; noncioè la massima caratterizzante, il contenuto organico della miavolontà. Coi motivi non è dunque possibile spiegare la volontà intutta la sua essenza; quelli non determinano che le suemanifestazioni in un momento dato; non sono che le occasioni per cuila volontà si manifesta. La volontà (in se stessa) è, al contrario,fuori del dominio della legge di motivazione, a cui sottostanno dinecessità soltanto i suoi fenomeni che si succedono in ogni datomomento. Sotto il punto di vista del mio carattere empirico il motivoè certo un principio sufficiente per la spiegazione dell'agire;nondimeno: se, astrazion fatta dal mio carattere, io domando perché,in generale, voglio questo e non quello, non mi è possibile trovarealcuna risposta, poiché, della volontà il solo fenomeno è sottomessoal principio di ragione: la volontà in se medesima essendoneindipendente, si può in tal senso dire priva di ragione. Debbo quipresupporre nota la dottrina di Kant sul carattere empirico e sulcarattere intelligibile, nonché la spiegazione che ne diedi neiProblemi fondamentali dell'Etica, pagg' 48-58 e pag' 178 e segg'della 1a edizione (pagg' 44-57 e pag' 174 e segg' della 2a edizione);del resto vi ritorneremo piú a lungo nel Iv libro. Per ora mi limitoa far notare che il fondarsi di un fenomeno su di un altro fenomeno,nel nostro caso il fondarsi dell'atto sul motivo, non contraddicepunto al fatto che l'essenza del fenomeno sia la volontà, la qualenon è in sé fondata su alcuna ragione. Il principio di ragione, sottociascuno dei suoi aspetti, non è infatti che la forma dellaconoscenza, e la sua validità non riguarda che la rappresentazione,il fenomeno, la visibilità della volontà; non la volontà stessa chediviene visibile.Ora, siccome ogni azione del mio corpo è fenomeno di un atto divolontà, nel quale si esprime, in virtú di motivi dati, la miavolontà in generale nel suo insieme, cioè il mio carattere; ne segueche anche la condizione preliminare necessaria di ogni azionedev'essere alla sua volta un fenomeno della volontà. Questo fenomenopoi non può dipendere da qualcosa che non sussista direttamente eunicamente per opera della volontà, che non le appartenga se non acaso; nella quale ipotesi il fenomeno stesso avrebbe il carattere dicontingenza. E una tale condizione si riduce al (mio) corpo nel suoinsieme. Il (mio) corpo deve dunque essere già fenomeno dellavolontà; deve, con la mia volontà nel suo insieme (cioè con il miocarattere intelligibile di cui l'empirico non è che la manifestazionenel tempo), trovarsi nella stessa relazione in cui un atto isolatodel mio corpo si trova con un atto isolato della mia volontà. Edunque il mio corpo non può essere che la mia volontà resa visibile:dev'essere la mia volontà stessa in quanto è divenuta oggettointuitivo, rappresentazione della prima classe. A conferma di taleproposizione abbiamo già dimostrato che ogni impressione sul corpoaffetta eo ipso anche la volontà, e si chiama sotto questo riguardodolore o piacere, o, in grado minore, sensazione gradevole osgradevole; abbiamo viceversa fatto anche vedere che ogni motoviolento della volontà, ogni affetto e ogni passione, scuotono ilcorpo e turbano il corso delle sue funzioni. Si può bensí dare,sebbene in modo non propriamente perfetto, una spiegazione etiologicadella nascita del corpo, e meglio anche del suo sviluppo e della suaconservazione: questo è appunto il compito della fisiologia: ma talescienza non spiega il suo oggetto se non al modo con che i motivi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtspiegano l'azione. Se, quindi, la spiegazione di un atto singolo permezzo di un motivo, e la necessità per questo atto di succedere a talmotivo, non impediscono che l'atto medesimo, non sia in generale enella sua essenza se non un fenomeno di una volontà in se stessainesplicabile; parimenti la spiegazione fisiologica delle funzionidel corpo non reca nessun pregiudizio alla verità filosoficaaffermante che la realtà del corpo e l'intera serie delle suefunzioni altro non sono se non l'oggettivazione d'una volontà che simanifesta in virtú di motivi nelle azioni esteriori del corpomedesimo. La fisiologia si sforza, è vero, anche di ricondurre questeazioni esteriori, questi movimenti direttamente volontari, a causeinerenti all'organismo; spiega, ad esempio, i movimenti muscolari conun'affluenza di succhi («come il contrarsi di una corda bagnata»,dice Reil nel suo Archivio di fisiologia, vol' Vi, pag' 153); però,anche ammesso che si possa giungere effettivamente ad una spiegazioneperfetta di tal genere, non per questo si potrà distruggere la veritàimmediata e certa, che ogni movimento volontario (functionesanimales) è il fenomeno di un atto di volontà. E neppure laspiegazione fisiologica della vita vegetativa (functiones naturales,vitales), per quanto avanti la si voglia spingere, non potrà maiabbattere la verità, che la vita animale, nell'insieme del suosviluppo, è anch'essa non altro che un fenomeno della volontà. Ingenerale, come abbiam visto piú addietro, nessuna spiegazioneetiologica può darci qualcosa di piú del luogo necessariamentedeterminato nel tempo e nello spazio per ogni fenomeno, e delprodursi di questo secondo leggi fisse. In tal modo l'essenza intimadi ogni fenomeno resta sempre inesplicata; la spiegazione etiologicanon può che presupporla, e si limita semplicemente a designarla colnome di forza o di legge naturale, oppure - quando si tratta diazioni - con l'altro di carattere e di volontà. Cosí dunque, sebbeneogni atto singolo, dato in precedenza un carattere, debbanecessariamente seguire un determinato motivo; sebbenel'accrescimento, il processo di nutrizione e tutte le modificazionidell'organismo animale si compiano in virtú di cause operantinecessarie; tuttavia l'intera serie delle nostre azioni, e perconseguenza ogni azione singola; parimenti la loro condizione, ilcorpo che le effettua, e quindi anche il suo meccanismo e il suoprocesso, altro non sono che il fenomeno, la visibilità, l'oggettitàdella volontà. Ecco il principio su cui si fonda l'armonia perfettache sussiste fra il corpo dell'uomo e dell'animale e la loro volontàrispettiva, armonia simile, ma di gran lunga superiore, a quella chepassa fra uno strumento e la volontà del costruttore, emanifestantesi per ciò appunto come finalità, come esplicabilitàteleologica del corpo. Le parti del corpo debbono quindicorrispondere perfettamente alle tendenze fondamentali in cui simanifesta la volontà, ed essere l'espressione visibile di questa; identi, l'esofago e il canale intestinale sono la fame oggettivata;gli organi genitali l'istinto sessuale oggettivato; le mani cheafferrano e i piedi veloci corrispondono a un'esigenza piú indirettadella volontà che rappresentano. Come la forma umana in generalecorrisponde alla volontà umana in generale, cosí alla volontàindividualmente modificata, al carattere del singolo, corrisponde unaspeciale configurazione corporea, che è quindi molto caratteristicaed espressiva cosí nel suo insieme che nelle sue parti. E' cosanotevole che Parmenide, nei seguenti versi riportati da Aristotele(Metaph', Iii, 5), abbia già espresso la medesima verità:«§hws gàr hëkastos ëçei krâsin melëwn polukämptwn,@ §tqs nöosanôrjpoisi parëstûken: tò gàr autò@ §ëstin, höper fronëei, melëwnfüsis anôrjpoisi,@ §kaì pâsin kaì pantï: tò gàr plëon estì nöûma.@»(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium se habet, ita menshominibus adest: idem namque est, quod sapit, membrorum naturahominibus, et omnibus et omni: quod enim plus est, intelligentiaest.) (4)

Par' 21. - Se ora, dopo tutte queste spiegazioni, il lettore si èfatta una conoscenza in abstracto, cioè chiara e precisa, di quelloche ciascuno sa direttamente in concreto come sentimento; che cioèl'intima essenza del proprio fenomeno (manifestantesi a lui come

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione, tanto per mezzo delle sue azioni, quanto per mezzodel loro substrato permanente, il corpo), non è altro che la suavolontà, la quale costituisce l'oggetto immediato della sua propriacoscienza; se si è reso conto di ciò, che questa volontà non rientratuttavia completamente nel modo di conoscenza in cui oggetto esoggetto si contrappongono l'uno all'altro, ma ci si presenta per unavia immediata nella quale non si può piú nettamente distinguere ilsoggetto dall'oggetto, e in cui la volontà stessa non si rendeconoscibile nel suo insieme bensí e soltanto nei suoi singoli atti;se, dico, il lettore condivide questa mia convinzione; questa gliservirà di chiave per la conoscenza dell'essenza intima della naturaintera; basta semplicemente che la riferisca anche a tutti queifenomeni che ci son noti, non in via immediata e mediata ad un tempo,come il nostro fenomeno, ma soltanto in modo indiretto e unilaterale,a titolo di semplici rappresentazioni. E non soltanto nei fenomenisimili al proprio, negli uomini e negli animali, riconoscerà comeessenza intima questa medesima volontà; ma un po' piú di riflessionelo porterà a riconoscere che tutta l'universalità dei fenomeni, purcosí diversi nelle loro manifestazioni, ha una sola e identicaessenza: quella che da lui è conosciuta piú direttamente, piúintimamente e meglio di ogni altra: quella che nella sua piú fulgidamanifestazione prende il nome di volontà.Volontà vedrà egli nella forza che fa crescere e vegetare lapianta; in quella che dà forma al cristallo; in quella che dirigel'ago calamitato al nord; nella commozione che prova al contatto didue metalli eterogenei; nella forza che si manifesta nelle affinitàelettive della materia in forma di ripulsione e attrazione, dicombinazione e decomposizione; e persino nella gravità, che agiscecon tanta potenza in ogni materia e attira la pietra a terra come laterra al cielo. Soltanto con la riflessione è possibile oltrepassareil fenomeno e pervenire alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione,e nulla piú; e ogni rappresentazione, ogni oggetto di qualsiasispecie è fenomeno. Cosa in sé è soltanto la volontà, che a tal titolonon è affatto rappresentazione, anzi ne differisce toto genere; larappresentazione, l'oggetto, non ne sono che il fenomeno, lavisibilità, l'oggettità. La volontà è la sostanza intima, il nocciolodi ogni cosa particolare e del tutto, è quella che appare nella forzanaturale cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionatadell'uomo; l'enorme differenza che separa i due casi non concerne senon il grado della manifestazione; l'essenza di ciò che si manifestane rimane assolutamente intatta.

Par' 22. - La cosa in sé (conserveremo l'espressione di Kant comeformula consacrata) non può mai, come tale, essere oggetto, appuntoperché ogni oggetto ne è alla sua volta un fenomeno, e non può dunqueidentificarvisi. La cosa in sé, per essere pensata obiettivamente,dovrà pure assumere un nome, un concetto, da un oggetto, da qualcosadi oggettivamente dato, cioè da un suo fenomeno: ma questo, perchéserva di tramite alla comprensione della cosa in sé, dev'essere ilpiú perfetto tra i fenomeni, cioè il piú appariscente, il piúsviluppato, il piú rischiarato dall'intelligenza. Tali condizioni sonquelle in cui si trova la volontà umana. Debbo tuttavia far bennotare che io mi servo qui soltanto di una denominatio a potiori, conla quale il concetto di volontà acquista appunto una estensione piúgrande di quella che aveva fin qui. Riconoscere l'identico neifenomeni diversi e il dissimile nei simili, è, come ripeté piú voltePlatone, una condizione per filosofare. Non si era fin quiriconosciuto che l'essenza in ogni energia potenziale od attualedella natura è identica alla volontà; perciò i differenti fenomenierano considerati come eterogenei, mentre non sono che specie diversedi un genere unico; quindi non si poteva neanche trovare una parolaper esprimere il concetto di questo genere. Io dunque ho denominatoil genere secondo la specie piú perfetta, la cui conoscenza facile eimmediata ci conduce alla conoscenza mediata di tutte le altre.Ma se non si vuole poi restare impigliati in un perpetuo malinteso,bisogna ben saper dare a questo concetto la dovuta estensione, e noncontinuare ad intendere con la parola volontà l'unica specie sino aquesto punto indicata, ossia la volontà accompagnata dalla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconoscenza, quella che si esplica esclusivamente in seguito a motivi,anzi a soli motivi astratti, e che per conseguenza è regolata dallaragione. Questa non è, abbiamo detto, se non la manifestazione piúappariscente della volontà. Dobbiamo, nel pensiero, separare l'intimaessenza, direttamente nota, di questa manifestazione; trasportarlanelle sue manifestazioni piú deboli ed oscure; potremo cosí dare alconcetto di volontà l'estensione richiesta. Cadrebbe nello stessomalinteso, ma in senso contrario, chi credesse che in fin dei contisia indifferente designare l'essenza in sé di ogni fenomeno con laparola volontà o con un'altra qualsiasi. Questo sarebbe vero sel'esistenza della cosa in sé fosse da noi semplicemente inferita, econosciuta soltanto in via mediata e in abstracto; allora la potremmochiamare come meglio ci aggrada: il nome non sarebbe che il segnod'un'incognita. Ma ciò che vien designato col vocabolo di volontà, eche ci deve spiegare, come una formula magica, l'intima essenza diogni cosa nella natura, non è affatto una quantità incognita, un quida cui si arrivi per via di sillogismi: è anzi qualcosad'immediatamente noto; di noto in tal guisa, che noi sappiamo eintendiamo l'essenza della volontà molto meglio che non quella diqualsiasi altra cosa. Sino ad ora si sussumeva il concetto di volontànel concetto di forza: io procedo proprio all'opposto, ed esigo cheogni forza venga pensata come volontà. Non si creda che questa siauna logomachia oziosa: anzi, è cosa del piú alto significato e dellamassima importanza. Poiché il concetto di forza, come ogni altro, hacome sua base ultima la conoscenza intuitiva del mondo oggettivo,cioè il fenomeno, la rappresentazione, da cui lo ricaviamo. Loastraemmo dal campo in cui regnano la causa e l'effetto, cioè dallarappresentazione intuitiva; e significa precisamente l'essenza dellacausa nel punto in cui non è piú spiegabile in via etiologica, madiviene il presupposto necessario di ogni spiegazione etiologica. Alcontrario, il concetto di volontà è l'unico, fra i concettipossibili, che non abbia origine dal fenomeno, dalla semplicerappresentazione intuitiva, ma che sgorga dall'intimo nostro, dallanostra coscienza immediata, in cui ciascuno riconosce l'essenza delproprio individuo, direttamente, senza nessuna forma, neppur sottoquella di soggetto e oggetto, essendo che qui il conoscente e ilconosciuto coincidono. Se dunque riconduciamo il concetto di forza aquello di volontà, riconduciamo di fatto un'incognita ad un quid diinfinitamente piú noto, anzi, alla sola cosa che ci sia realmente,immediatamente e assolutamente nota; in tal modo allarghiamo di granlunga la cerchia delle nostre conoscenze. Se al contrario sussumiamo,come si è fatto fin qui, il concetto di volontà sotto quello diforza, rinunziamo alla sola conoscenza immediata che si abbiadell'intima essenza del mondo, annegandola in un concetto, che fuastratto dal fenomeno, e che dunque mai ci permetterà di oltrepassareil fenomeno.

Par' 23. - Come cosa in sé, la volontà differisce assolutamente dalsuo fenomeno, è indipendente da tutte le forme fenomeniche; non neassume alcuna se non quando si manifesta. Per conseguenza, la formanon riguarda che la sua oggettità, e le resta del tutto estranea. Lavolontà non conosce neppure la forma piú generale dellarappresentazione, quella d'essere un oggetto per un soggetto; e tantomeno le altre forme subordinate, la cui espressione generale è ilprincipio di ragione, e che comprendono anche lo spazio e il tempo, eper conseguenza la pluralità che non è possibile se non nel tempo enello spazio. Sotto quest'ultimo punto di vista io - con un'anticaespressione tolta in prestito alla scolastica, e su cui richiamol'attenzione una volta per sempre - chiamerò d'ora in poi lo spazio eil tempo principium individuationis. Poiché soltanto in virtú dellospazio e del tempo ciò che è simile ed uno nell'essenza e nelconcetto ci appare come diverso e come multiplo, sia nellacoesistenza spaziale, sia nella successione temporale; spazio e tempocostituiscono dunque il principium individuationis che fu oggetto dilambiccamenti e dispute senza fine fra gli scolastici com'è riportatoda Suarez (disp' V, sect' 3). Come cosa in sé, la volontà, secondoquanto abbiamo detto, è fuori del dominio del principio di ragione intutte le sue forme; quindi è assolutamente senza ragione, sebbene

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtciascuno dei suoi fenomeni sottostia rigorosamente a tale principio;è inoltre indipendente da ogni pluralità, benché i suoi fenomeni neltempo e nello spazio siano innumerevoli. E' una: ma non alla manieradell'oggetto, la cui unità non risulta che dal contrasto con unapluralità possibile; né a guisa di un concetto, che non è unico senon perché astratto dalla pluralità; è invece una perché fuori deltempo, fuori dello spazio, fuori del principium individuationis, cioèfuori di ogni possibile molteplicità. Quando tutto ciò sarà benchiarito dallo studio che faremo sui fenomeni e sulle variemanifestazioni della volontà, allora, e soltanto allora, potremocomprendere appieno il senso della dottrina di Kant, che il tempo, lospazio, la causalità non convengono alla cosa in sé, ma sono pure esemplici forme di conoscenza.L'incondizionalità della volontà fu riconosciuta sempre, nella suamanifestazione piú distinta di volontà dell'uomo, e perciò la volontàumana fu dichiarata libera, indipendente. Ma in pari tempo, a causaappunto di questa incondizionalità, si perdette di vista lanecessità, a cui tutti i suoi fenomeni sottostanno; si affermò cheanche gli atti sono liberi. E questo è falso: ogni azione singolarisulta con rigorosa necessità dall'azione del motivo sul carattere.Abbiamo detto piú volte che la necessità è una relazione dell'effettoalla causa, e nulla piú. Il principio di ragione è la formauniversale di ogni fenomeno; e l'uomo, nel suo agire, deve dinecessità obbedirgli, al pari di ogni altro fenomeno. Ma siccome lavolontà è riconosciuta direttamente, in sé, nell'autocoscienza,l'autocoscienza deve contenere anche la nozione di libertà. Soltantosi dimentica che l'individuo, la persona, non è volontà come cosa insé, ma un fenomeno della volontà come tale già determinato esottomesso alla forma del fenomeno, al principio di ragione. Ed èappunto da ciò che deriva il fatto singolare che ogni uomo si crede apriori assolutamente libero in ciascuno dei suoi atti, e s'immaginadi potere ad ogni momento iniziare un nuovo tenore di vita, cioèdiventare un'altra persona. Soltanto a posteriori, dopo l'esperienza,s'accorge con sua meraviglia che non è libero, ma soggetto allanecessità: che a dispetto di tutti i suoi propositi e di tutte le sueriflessioni non può cambiare in nulla la sua condotta, che dallaculla alla tomba è costretto a svolgere un carattere da lui stessocondannato, e a compiere fino alla fine il compito che ha sopra lespalle. Non posso trattenermi piú a lungo su questa considerazione,che si trova sviluppata, sotto il punto di vista etico, in un'altraparte della presente opera. Desidero frattanto far notare qui che,quantunque la volontà sia in se stessa incondizionata, il suofenomeno è tuttavia soggetto come tale alla necessità, al principiodi ragione; e su questo punto insisto, affinché la necessità con cuisi seguono i fenomeni della natura non impedisca di riconoscervi lemanifestazioni della volontà.Non si considerarono sinora come manifestazioni della volontà senon quelle modificazioni la cui sola causa è un motivo, unarappresentazione; perciò in tutto il regno della natura la volontàvenne attribuita soltanto all'uomo e, nella migliore ipotesi, aglianimali: difatti, la conoscenza, la rappresentazione, come si èmostrato altrove, sono il carattere vero ed esclusivo dell'animalità.Ma noi costatiamo luminosamente nell'istinto e nella tendenzaindustriosa degli animali che la volontà agisce anche là dove non c'èconoscenza che la guidi. (5) Siccome gli animali non conoscono pernulla il fine per cui s'adoperano, come se il conseguirlo fosse unmotivo noto, non dobbiamo qui preoccuparci delle rappresentazioni edelle conoscenze che hanno. La loro attività non motivata e nonguidata dalla rappresentazione ci prova luminosamente che la volontàagisce anche senza conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessunarappresentazione delle uova per le quali tesse il suo nido; il ragnonon conosce la preda per cui fila la sua rete, né il formicaleoneconosce la formica per cui prepara la prima volta una fossa. La larvadel cervo volante scava nel legno, dove compirà la sua metamorfosi,un buco, che quando ne verrà fuori un maschio è doppio di quandoverrà fuori una femmina; e ciò per preparare un posto convenientealle corna, di cui per altro non ha nessuna rappresentazione. In talie simili atti di questi animali, come nel resto del loro operare, la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvolontà è manifestamente attiva, ma è, la sua, un'attività cieca:accompagnata sì dalla conoscenza, ma non guidatane. Una volta bencapito che la rappresentazione come motivo non è condizioneessenziale e necessaria per l'attività della volontà, ci sarà piúfacile riconoscere tale attività anche là dove appare meno evidente.Non pretenderemo piú, allora, che la chiocciola costruisca la suacasa con una volontà a lei estranea e accompagnata da conoscenza,come non sosterremo mai che la casa costruita da noi sorga in virtúdi una volontà diversa dalla nostra. Diremo invece che ambedue lecase son opera di una volontà che si oggettiva nei due fenomeni; eche, mentre opera in noi secondo motivi, nella chiocciola è ancoracieca e sembra agire in virtú di una spinta venuta dal di fuori.Anche in noi la medesima volontà non manca di operare ciecamente, intutte le funzioni del corpo che non son governate dalla conoscenza:in tutti i processi vitali e vegetativi, nella digestione, nellacircolazione del sangue, nella secrezione, nell'accrescimento, nellariproduzione. Non soltanto le azioni del corpo, ma il corpo stessotutto intero è, come abbiamo sopra visto, fenomeno della volontà;volontà oggettivata, volontà concreta; per conseguenza, tutto ciò chesi produce nel corpo deve scaturire dalla volontà; benché da unavolontà non guidata da conoscenza, né regolata da motivi, ma cheopera ciecamente in virtú di cause che si chiamano in questi casieccitazioni. Nel senso piú ristretto della parola, io chiamo causaquello stato della materia che, mentre produce necessariamente unaltro stato, subisce a sua volta un cambiamento uguale a quello cuidà luogo: il che viene espresso dalla legge: «l'azione e la reazionesono eguali fra loro». Inoltre: nella causa propriamente dettal'azione cresce precisamente in ragione della causa, e così lareazione; sicché una volta conosciuto il modo dell'azione, si può dalgrado d'intensità della causa misurare e calcolare l'intensitàdell'effetto, e viceversa. Tali cause (così dette in senso vero eproprio) son quelle che si rendono attive nel meccanismo, nelchimismo e, in una parola, in tutte le modificazioni dei corpiinorganici. Al contrario chiamo eccitazione una causa che non subisceuna reazione proporzionale all'azione prodotta, e il cui gradod'intensità non è parallelo a quello dell'azione medesima, sicché nonpuò servire a misurarla; così un piccolo accrescimentonell'eccitazione può provocarne uno grandissimo nell'azione, oviceversa distruggere completamente l'effetto già prodotto, ecc'. Aquesta classe appartiene ogni azione sui corpi organici come tali;tutte le modificazioni propriamente organiche e vegetative nel corpoanimale son dovute a eccitazioni, e non a semplici cause. Mal'eccitazione, al pari di ogni altra causa in generale, al pari anchedel motivo, non determina che il punto del tempo e dello spazio incui una forza entra in azione, ma non l'essenza della forza stessa;sappiamo, dietro alle precedenti deduzioni, che questa essenza è lavolontà, e che a questa dobbiamo dunque attribuire tutte lemodificazioni del corpo, siano coscienti, siano incoscienti.L'eccitazione sta in una via media: costituisce il passaggio fra ilmotivo, che è la causalità penetrata di conoscenza, e la causa insenso stretto. Secondo i casi l'eccitazione s'avvicina ora al motivo,ora alla causa: bisogna tuttavia sempre distinguerla bene dall'uno edall'altra. Così, ad esempio, l'ascensione della linfa nelle piantesi compie, non per una semplice causa, riferibile alle leggidell'idraulica e della capillarità, bensì per eccitazione; ma è peraltro favorita dalle dette leggi, e molto vicina a una semplicemodificazione causale. Al contrario i movimenti dell'Hedysarum gyranse della Mimosa pudica, benché si producano per pura eccitazione,somigliano straordinariamente a quelli dovuti a motivi, e sembra chevogliano fare quasi la transizione. Il restringimento della pupilladi fronte a una luce forte proviene da un'eccitazione, ma rientra giàfra i movimenti motivati; si produce perché la luce troppo intensafarebbe sulla retina una dolorosa impressione, per evitare la qualesi contrae la pupilla. L'erezione è dovuta a un motivo poiché èeffetto di una rappresentazione; ma questo motivo agisce con lanecessità di un'eccitazione, ossia non possiamo resistergli: il solomezzo di renderlo inefficace è l'allontanarlo. Altrettanto dicasidegli oggetti disgustosi che eccitano la nausea. Come intermediario

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi tutt'altra specie fra il movimento che segue l'eccitazione el'agire in virtú di un motivo cosciente abbiamo già indicatol'istinto degli animali. Un altro simile intermediario si sarebbetentati di trovarlo nella respirazione: si è infatti discusso seappartenga ai movimenti volontari o a quelli involontari, cioè seobbedisca a un motivo o ad un'eccitazione e infine se sia qualchecosa di mezzo fra l'uno estremo e l'altro. Marshall Hall (On thediseases of the nervous system, par' 293 e segg') la ritiene come unafunzione mista, poiché soggetta in parte all'influenza del cervelloche è volontaria, in parte a quella del sistema nervoso spinale che èinvolontaria. Sembra tuttavia che debba in definitiva rientrare nellaclasse dei movimenti volontari motivati, poiché ci son altri motivi,e consistono in semplici rappresentazioni, che possono determinare lavolontà a trattenere od accelerare la respirazione, e c'è tuttal'apparenza che si possa, con la stessa facilità con cui si compiequalsiasi altro atto volontario, sopprimerla del tutto e asfissiarsiliberamente. E' infatti quello che avviene quando un altro motivodetermina così energicamente la volontà da sopraffare il suoimpellente bisogno di aria. Secondo alcuni Diogene avrebbe troncatola sua vita in tale maniera (Diog' Laert', Vi, 76). Anche dei negrisembra che abbiano ricorso a questo genere di suicidio (F'B'Osiander, Sul suicidio [1813], pagg' 170-180). Avremmo qui un esempioeloquentissimo dell'influenza dei motivi astratti, cioè dellasupremazia della volontà ragionevole su quella puramente animale. Chela respirazione sia per lo meno in parte condizionata dall'attivitàcerebrale è provato dal fatto che l'acido cianidrico produce la morteparalizzando innanzi tutto il cervello e arrestando cosìindirettamente la respirazione; ma se si mantiene questaartificialmente finché la narcosi cerebrale non sia dissipata, lamorte non avviene affatto. La respirazione ci dà in pari tempo, siadetto qui di passaggio, il piú luminoso esempio del fatto che imotivi agiscono con altrettanta necessità che gli eccitamenti e chele cause vere e proprie, e non possono essere ridotti all'impotenzase non nel caso in cui sian due che agiscano in senso inverso a mo'dipressione e contropressione; poiché nel caso della respirazione lapossibilità di sopprimerla appare molto piú debole che in altrimovimenti motivati. Nella respirazione il motivo è piú impellente,piú intimo, la sua soddisfazione è delle piú facili perl'instancabilità dei muscoli che la compiono, nulla normalmente laostacola, e infine l'antica abitudine dell'individuo la favorisce. Etuttavia gli altri motivi agiscono tutti anch'essi con la medesimanecessità. Il sapere poi che la necessità inerente ai movimentimotivati è comune ai movimenti risultanti da eccitazioni, ci renderàpiú facile il comprendere che tutte le funzioni del corpo organicodovute ad eccitamenti e compientisi in piena regola sono tuttaviaanch'esse, nella loro intima essenza, volontà: volontà sottomessa nonin sé, ma nelle sue manifestazioni, al principio di ragione, allanecessità. (6) Non esiteremo dunque a riconoscere che gli animali,come nel loro agire, cosí anche in tutto il loro essere, in tutta laloro configurazione ed organizzazione, sono fenomeni di volontà; nonsolo, ma questa conoscenza dell'essenza in sé delle cose, che èl'unica a noi direttamente data, l'applicheremo anche alle piante icui movimenti nascono tutti da eccitazioni; l'essenziale differenzafra l'animale e la pianta si riduce, in ultima analisi, soltantoall'assenza di conoscenza e di movimenti determinati da motivi. Noiaffermeremo che quello che alla rappresentazione appare come pianta,come semplice vegetazione, come forza cieca, è nella sua essenzavolontà; quella medesima volontà che costituisce la base del nostroproprio fenomeno quale si manifesta nella nostra attività e in tuttal'essenza del nostro corpo.Ci resta da fare un ultimo passo: estendere il nostro punto divista a tutte le forze che operano in natura secondo leggi universalie immutabili, e che producono i movimenti di tutti i corpiinorganici, i quali non hanno né recettività per le eccitazioni néconoscenza per i motivi. Perciò quella chiave che ci ha servito perpenetrare l'essenza della cosa in sé, e che non ci poteva esser datase non dalla conoscenza immediata del nostro proprio essere, dovremoapplicarla anche ai fenomeni del mondo inorganico che piú di tutti

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtgli altri si distaccano dalla natura nostra. Se osserviamo con occhioscrutatore tutti questi fenomeni; se vediamo l'impeto violento eirresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi, lapersistenza con cui la calamita si rivolge sempre al polo nord,l'ansia con cui il ferro vola verso la calamita, la violenza con cuii poli elettrici tendono a riunirsi l'un con l'altro, e che siaccresce se ostacolata, proprio come i desideri umani; se osserviamola rapidità quasi fulminea con cui si forma un cristallo e laregolarità della sua figura, la quale non è evidentemente che una bendecisa e determinata tendenza in varie direzioni, arrestata e fissatada un brusco irrigidimento; se riflettiamo alla selezione con cui icorpi sottratti ai legami della solidità e resi liberi dallo statofluido si cercano o si fuggono, si uniscono o si separano; se infinesperimentiamo in noi stessi come un peso, di cui il nostro corpoimpedisce la spinta a terra, prema e si accalchi sulle nostre spallerealizzando così l'unica sua aspirazione; allora non dovremo fare unsoverchio sforzo d'immaginazione per riconoscere anche qui, sebbene acosì gran distanza, la nostra propria essenza; quell'identica essenzache in noi persegue i suoi fini al lume della conoscenza, ma che qui,nelle piú deboli delle sue manifestazioni, non ha che impulsi ciechi,sordi, unilaterali e invariabili; che però essendo dappertutto unasola e stessa cosa - come il primo bagliore dell'aurora è luce solareal pari dei raggi meridiani - deve qui come là portare il nome divolontà, poiché un tal nome designa l'essenza in sé di ogni cosa nelmondo e la sostanza unica di tutti i fenomeni.Tuttavia la distanza, o piuttosto l'apparenza di un'assolutaopposizione fra i fenomeni della natura inorganica e la volontà chepercepiamo come l'intimo della nostra essenza, sorge specialmente dalcontrasto fra la regolarità rigorosa che domina nei primi el'apparenza di irregolare arbitrio che si manifesta nella seconda.Infatti l'individualità si accentua fortemente nell'uomo; ciascuno hail suo proprio carattere; cosí lo stesso motivo non agisce in tutticon pari efficacia, e mille circostanze accessorie che trovan luogonella vasta sfera di conoscenza di ogni individuo, ma che restanosconosciute a qualsiasi altro, vengono a modificare la sua azione; ene risulta che il motivo non basta da solo a determinare a priori lacondotta, poiché manca l'altro fattore: la nozione precisa delcarattere individuale e della conoscenza che l'accompagna. Alcontrario, le manifestazioni delle forze naturali ci presentanol'estremo opposto, agiscono secondo leggi universali, senzadeviazione, senza individualità, in condizioni pienamente note,soggette sempre alla piú rigorosa predeterminazione, e la stessaforza naturale, nei suoi milioni di fenomeni, si manifesta semprealla stessa maniera. Per delucidare questo punto, per dimostrarel'identità della volontà una e indivisibile in tutte le sue pur cosìdifferenti manifestazioni, tanto le piú tenui quanto le piú forti,dobbiamo innanzi tutto esaminare la relazione fra la volontà comecosa in sé e il suo fenomeno, o in altre parole, fra il mondo comevolontà e il mondo come rappresentazione: in tal modo ci si aprirà lavia migliore per uno studio approfondito di tutta la materia trattatain questo secondo libro. (7)

Par' 24. - Sappiamo, per merito dell'illustre Kant, che tempo,spazio e causalità, con tutte le loro leggi e forme possibili,esistono nella nostra coscienza indipendentemente dagli oggetti chevi si rappresentano e che ne formano il contenuto. In altre parole,noi possiamo riconoscerli sia partendo dal soggetto, sia partendodall'oggetto: cosicché si possono chiamare con egual ragione modid'intuizione del soggetto, oppure proprietà dell'oggetto in quantooggetto (fenomeno secondo Kant), ossia in quanto rappresentazione.Queste forme si posson considerare altresì come il limiteindivisibile fra oggetto e soggetto; così ogni oggetto dev'esserepercepito in quelle, ma il soggetto le possiede e le dominaindipendentemente da ogni oggetto percepibile. Ora, gli oggetti cheappaiono nelle dette forme affinché esse non siano vuoti fantasmi edabbiano un significato, bisogna che rappresentino qualcosa, sianocioè l'espressione di qualcosa che non sia essa stessa oggetto (cioèrappresentazione: puramente relativa e condizionata dal soggetto) ma

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi qualcosa che sussista indipendentemente dalle forme, di unelemento che a queste si contrapponga come una condizione, in altreparole, di una cosa in sé. Allora per altro si affaccia il problema:le rappresentazioni, gli oggetti, oltre ad essere oggetti erappresentazioni del soggetto sono qualcosa di piú? E che cosa? Qualè quest'altro loro aspetto così toto genere diverso dallarappresentazione? Che cos'è infine la cosa in sé? Abbiamo giàrisposto: la volontà. Ma lasciamo per ora da parte una tale risposta.Qualunque sia la natura della cosa in sé, resta sempre vera laconclusione di Kant: che il tempo, lo spazio e la causalità(riconosciuti da noi come forme del principio di ragione, cheriteniamo alla sua volta come l'espressione generale delle forme delfenomeno) non sono determinazioni della cosa in sé, non leappartengono che in quanto essa cosa diviene rappresentazione; inaltre parole: appartengono unicamente al suo fenomeno e non alla cosacome tale. Infatti: quelle forme, poiché il soggetto le conosce e lecostruisce da sé, indipendentemente da ogni oggetto, debbono inerirealla facoltà di rappresentare, non a ciò che viene rappresentato;debbono costituire la forma della rappresentazione come tale, non unaproprietà di ciò che ha preso questa forma; debbono esser già datenella semplice opposizione (non astratta, ma reale) di soggetto eoggetto, e dunque non essere che la determinazione piú precisa dellaforma della conoscenza, di cui tale opposizione è la determinazionepiú generale. Ora: tutto ciò che nel fenomeno, nell'oggetto, non èrappresentabile che mediante il tempo, lo spazio e la causalità, equindi è condizionato a queste forme in quanto non è rappresentabileche per loro mezzo, in altri termini: la pluralità, che esige lacoesistenza e la successione; il cambiamento e la durata (implicantila legge di causalità, e implicanti la materia che non èrappresentabile se non supponendo la causalità); tutto ciò appartieneessenzialmente, non a ciò che appare, non a ciò che ha rivestito laforma di rappresentazione, ma inerisce a questa forma soltanto.Viceversa: quello che nel fenomeno non è condizionato né dal tempo,né dallo spazio, né dalla causalità, quello che non può ricondursi aqueste forme e tanto meno venirne spiegato, è precisamente ciò in cuisi manifesta la cosa che appare, la cosa in sé. Dunque laconoscibilità piú perfetta, cioè la piú grande chiarezza e precisionee la piú esauriente investigabilità debbono di necessità convenire aciò che è proprio alla conoscenza come tale, e cioè alla forma dellaconoscenza, ma non già a ciò che non è in sé né rappresentazione néoggetto, e non diviene conoscibile se non dopo assunte le forme dirappresentazione e di oggetto. La sola cosa che ci assicuri unaconoscenza senza riserve, chiara, completa e che non lasci alcunresiduo inesplorato, sarà dunque unicamente ciò che dipendeesclusivamente dalla facoltà di conoscere e, come tale, dalla facoltàdi rappresentare (non dalla rappresentazione come semplice oggetto diconoscenza), ovvero sarà in definitiva ciò che comprende l'attributosenza distinzione di ogni conoscenza, e che può essere ottenutopartendo sia dal soggetto che dall'oggetto. E ciò non consiste innient'altro che nelle forme note a priori di ogni fenomeno; forme chesono espresse nella loro generalità dal principio di ragione, le cuimodalità, concernenti la conoscenza intuitiva (la sola di cui cioccupiamo qui), sono il tempo, lo spazio e la causalità. In questesole si fonda l'insieme delle matematiche e delle scienze naturalipure a priori. Ecco perché soltanto in queste scienze la conoscenzanon urta in nessuna oscurità, in nulla d'inesplicabile(l'inesplicabile è la volontà), in nulla che non si possa dedurre; edecco anche la ragione per cui Kant riservava il titolo di scenze,oltre alla logica, di preferenza e anzi esclusivamente, a questacategoria di conoscenze. D'altro lato però tali scienze non ci dannoche relazioni fra rappresentazioni, forme prive di qualsiasicontenuto. Ogni loro contenuto, ogni fenomeno che riempia tali forme,contiene sempre qualcosa che non è piú perfettamente conoscibilenella sua essenza, che non è piú interamente spiegabile con altro,che non ha causa; donde viene che la scienza scapiti nella suaimmediata evidenza e nella sua perfetta chiarezza. Ma l'elemento chesi sottrae a tale investigazione è la cosa in sé, ciò che per suaessenza non è rappresentazione od oggetto di conoscenza, e che non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdiviene conoscibile se non dopo entrato in tali forme. Alla cosa insé la forma è originariamente estranea, e quindi non le si puòidentificare: la cosa in sé non è riducibile a pura forma; e, data lacoincidenza di questa col principio di ragione, non può mai venirfondata su questo principio. Sebbene dunque le matematiche ci dianouna conoscenza completa di tutto ciò che nei fenomeni è quantità,posizione, numero; cioè di tutto quanto è relazione di tempo e dispazio; sebbene l'etiologia c'insegni a conoscere perfettamente lecondizioni regolari in cui si producono nello spazio e nel tempo ifenomeni con tutte le loro determinazioni (benché poi non ci dica infondo altra cosa all'infuori del perché ogni fenomeno dato debba averluogo in un dato posto nel tale istante e in un dato istante nel taleposto), noi non possiamo tuttavia, nonostante il loro aiuto,penetrare nell'essenza delle cose. Resta sempre un quid di cui è vanotentare ogni spiegazione, che anzi è il presupposto necessario diogni spiegazione; questo quid son le forze naturali, il determinatomodo di agire delle cose, la qualità caratteristica di ogni fenomeno:il senza causa che non dipende dalla forma del fenomeno (dalprincipio di ragione) che è estraneo a tale forma, ma che quando vientra agisce secondo la sua legge - legge però che determina soltantoil rappresentato e non ciò che rappresenta; il fenomeno, e nonl'essenza del fenomeno; la forma, e non il contenuto. La meccanica,la fisica e la chimica ci insegnano le regole e le leggi secondo lequali agiscono le forze, come l'impenetrabilità, il peso, lasolidità, la fluidità, la coesione, l'elasticità, il calore, la luce,l'affinità, il magnetismo, l'elettricità ecc'; in altre parole:c'insegnano la legge, la regola cui queste forze obbediscono ognivolta che si estrinsecano nello spazio e nel tempo; ma le forze in sestesse, per quanto si dica e si faccia restano sempre qualitatesoccultae. Poiché la cosa in sé, che manifestandosi ci presenta queifenomeni, è diversa radicalmente dai fenomeni stessi, è nel suofenomeno soggetta al principio di ragione come forma dellarappresentazione, ma non è in sé riducibile a tale forma; non puòquindi venire etiologicamente spiegata e penetrata fino in fondo;pienamente comprensibile in quanto riveste quella forma, cioè inquanto fenomeno, tale comprensibilità non ne rischiara punto l'intimaessenza. Cosí una conoscenza, quanto piú possiede il carattere dinecessità, quanto piú contiene elementi che non possono venir pensatio rappresentati in altro modo (come ad esempio le relazionispaziali), e tanto piú è chiara e soddisfacente; ma tanto minore inpari tempo è il suo contenuto oggettivo, tanto minore la quantità direaltà vera e propria che vi s'include; viceversa: una conoscenza,quanto piú abbraccia di contingente, quanto piú ha carattere di datoempirico, e tanto piú conterrà di veramente oggettivo e reale, masarà nello stesso tempo tanto piú oscura e indeducibile.Ci fu nondimeno in ogni tempo un'etiologia che, disconoscendo ilsuo proprio fine, si sforzò di ridurre tutta la vita organica alchimismo o all'elettricità, il chimismo, cioè la qualità, allameccanica (azione atomistica), e questa in parte all'oggetto dellaforonomia (cioè al tempo e allo spazio uniti per la possibilità delmovimento), in parte a quello della geometria, ossia alla posizionenello spazio (presso a poco con lo stesso metodo con cui, e a buondiritto, si costruisce geometricamente la decrescenza di una forza inragione del quadrato della distanza o la teoria della leva). Lageometria, infine, può ridursi all'aritmetica la quale, grazieall'unità di dimensione, è la forma del principio di ragione piúfacile a comprendere, ad abbracciare nel suo insieme e a penetrarefino in fondo. Come esempi di questo metodo possiamo ricordare:l'atomo di Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica meccanica diLesage che verso la fine del secolo scorso voleva spiegaremeccanicamente, con l'urto e la pressione, le affinità chimiche e lagravitazione, come si può vedere nel suo Lucrèce Newtonien; anche ilReil nella sua teoria della forma e del miscuglio come cause dellavita animale dimostra le stesse tendenze. Alla medesima categoria sideve infine ascrivere il materialismo; questo rozzo sistema,riscaldato a nuovo proprio ora, nel bel mezzo del secolo decimonono,e che quanto piú è ignorante, tanto piú si crede originale, negandostupidamente l'esistenza delle forze vitali, pretende spiegare i

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfenomeni della vita con le forze fisiche e chimiche, far nascerequeste dall'attività meccanica della materia, dalla posizione, dallafigura e dal movimento di atomi fantasticati ad hoc, e ricondurrecosí tutte le forze della natura all'azione e reazione che sarebberola sua «cosa in sé». In conformità di questa teoria, persino la lucedovrebbe ridursi alla vibrazione meccanica o all'ondulazione di unetere immaginato e postulato al bisogno; questo etere (si suppone) simetterebbe a tamburinare sulla retina, e con 483 bilioni di battuteal secondo produrrebbe il rosso, con 727 bilioni il violetto ecc'. Intal caso il daltonismo dipenderebbe dall'incapacità di contare questicolpi di tamburo; non è vero? Siffatte teorie, crasse, meccaniche,democritee, teorie veramente storpie e bitorzolute, sono ben degne dipersone che 50 anni dopo la pubblicazione della teoria dei colori diGoethe, credono ancora alle luci omogenee di Newton e non sivergognano di confessarlo. Costoro dovrebbero sapere che quello diche si scusa il fanciullo (Democrito) non si può perdonare all'uomofatto. E finiranno di certo ignominiosamente; allora però ciascuno sela svignerà quatto quatto facendo il nesci. Di questo metodo falso diridurre le une alle altre le originarie forze naturali dovremoriparlare: ma per ora basti. Dato e non concesso che la cosa fossefattibile, allora tutto sarebbe spiegato e conosciuto: tutto siridurrebbe a un problema di calcolo, che sarebbe il sancta sanctorumnel tempio della sapienza, in cui verremmo infine felicementeintrodotti dal principio di ragione. Ma tutto il contenuto deifenomeni sarebbe scomparso e non resterebbe piú che la nuda forma. Ilche del fenomeno sarebbe ridotto al come: questo come, essendoconoscibile anche a priori, dipenderebbe assolutamente dal soggetto enon sussisterebbe che per il soggetto: si ridurrebbe quindi a purofantasma, a rappresentazione e forma di rappresentazione: di cosa insé a nessuno sarebbe piú lecito parlare. Se fosse così, allora tuttointiero il mondo si potrebbe dedurre dal soggetto, e quello cheFichte si immaginava di fare con i suoi sogni sventati, sarebbe unfatto compiuto. Ma le cose stanno in ben altri termini: con questometodo si sono ben create fantasie, sofisticazioni, costruiticastelli in aria ma non si è fatta della scienza. Si è riuscitibensì, e ogni passo in questa direzione ha segato un vero progresso,a ricondurre i molti e svariati fenomeni della natura a un piccolonumero di forze originarie; molte forze e qualità che sembravanodapprima differenti furono dedotte le une dalle altre (come adesempio il magnetismo dall'elettricità), e in tal modo se ne ridusseil numero; l'etiologia sarà all'apice della perfezione quando abbiariconosciute e stabilite come tali tutte le forze elementari dellanatura, e precisato i loro modi d'agire, cioè le regole secondo lequali, nella direzione del principio di causalità, i loro fenomeni siproducono nel tempo e nello spazio e si determinano a vicenda i loroposti rispettivi; resteranno però sempre delle forze primitive:resterà sempre, come residuo insolubile, un contenuto del fenomenoche non si potrà mai ridurre alla sua forma e che non sarà maipossibile spiegare con altro secondo il principio di ragione. In ognioggetto della natura c'è infatti un elemento di cui è vano cercare laragione, la spiegazione o la causa; questo qualcosa è il suo modospecifico di azione: il modo suo di esistenza, la sua essenza. Si puòsenza dubbio, per ogni azione singola di un oggetto, stabilire unacausa da cui risulti che quest'oggetto doveva proprio agire in talmomento e in tal luogo; ma non si troverà mai una causa del suo doveragire in generale o in questo e in quel modo. Fosse privo di ognialtro carattere, fosse un impercettibile pulviscolo, manifesterebbeancora, col suo peso e con la sua impenetrabilità, un quidd'imperscrutabile; questo qualcosa, dico io, è per il detto elementociò che la volontà è per l'uomo; esclude per sua natura qualsiasispiegazione, al pari di questa volontà; e le s'identificaintrinsecamente. Anche la volontà, per ogni singola estrinsecazione,per ogni atto speciale che produca in un dato luogo e in un datotempo, esige un motivo; da cui, presupposto il carattere dell'uomo,segue che quest'atto doveva di necessità realizzarsi. Ma che unindividuo possegga il tale carattere, che abbia in generale unvolere, che fra tanti motivi proprio questo, e non l'altro, muova lasua volontà, anzi che un motivo possa in generale determinarla, non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsono cose di cui sia possibile ricercare un fondamento. Il caratteredato di un uomo, che resta inesplicabile, sebbene sia la condizioneindispensabile per spiegare tutte le azioni individuali risultanti damotivi, è rispetto all'uomo quello che è rispetto al corpo inorganicola sua qualità essenziale, la sua maniera di agire, le cuiestrinsecazioni vengono provocate dal di fuori, ma che non è in sédeterminata da nulla di esteriore e resta inesplicabile; i suoifenomeni isolati, unico mezzo per cui quella si renda visibile, sonosoggetti al principio di ragione, ma essa stessa non ha in sé unaragione superiore. Gli scolastici avevano già riconosciuto questaverità in quello che ha di essenziale, e la designavano col terminedi forma substantialis (cfr' Suarez, Disput' metaph', disp' Xv, sect'1).E' un errore grave, ma tuttavia molto diffuso, che i fenomeni piúfrequenti, piú generali e piú semplici, siano i meglio conosciuti;mentre, in realtà, sono i fenomeni che noi siamo piú abituati avedere e ad ignorare. Il cadere a terra di una pietra è per noi unfatto inesplicabile né piú né meno del muoversi di un animale. Comeabbiamo già detto, si credette che partendo dalle forze naturali piúgenerali (quali sono ad esempio la gravitazione, la coesione,l'impenetrabilità) si potessero per loro mezzo spiegare quelle cheagiscono piú raramente e solo in circostanze determinate (quali sonoad esempio le proprietà chimiche, l'elettricità, il magnetismo), eche infine, con l'aiuto di queste, si potessero comprenderel'organismo e la vita animale, anzi persino la conoscenza e lavolontà dell'uomo. Si convenne con tacita acquiescenza di partire damere qualitates occultae, senza curarsi di spiegare queste ultime:l'intento infatti era di costruirvi sopra, e non di scavarviaddentro. A simile impresa non può arridere alcun successo. E anchedato e non concesso che si venisse a capo di qualcosa, l'edifizio nonstarebbe né in cielo né in terra. A che servono delle spiegazioni chefiniscono col ricondurre a qualcosa di non meno sconosciuto delproblema iniziale? In definitiva: sull'essenza della forza,sull'essenza intima delle forze generali di natura, sappiamo forsequalche briciola di piú di un animale? Non resta l'una occulta alpari dell'altra? L'una è al pari dell'altra inesplicabile in quantoesclude qualsiasi fondamento superiore: costituisce il contenuto, ilche del fenomeno, ed è irriducibile alla forma, al come, al principiodi ragione. Ma noi che stiamo costruendo la filosofia, nonl'etiologia, e che cioè miriamo a una conoscenza non relativa, bensíassoluta dell'essenza del mondo, noi battiamo la via opposta;partiamo cioè da quello che ci è noto in modo piú immediato e piúperfetto, che ci è piú familiare e piú vicino, per comprendere quelloche conosciamo soltanto da lontano, da un lato e mediatamente; ilfenomeno piú energico, piú significativo e piú chiaro è quello chedeve servirci a comprendere il piú imperfetto e piú debole.Eccettuato il mio corpo, io non conosco di tutti gli oggetti che unasola faccia, quella della rappresentazione; la loro essenza intimaresta per me un profondo mistero, anche quando conosca tutte le causedei loro cambiamenti. Io non posso rendermi conto del modo con che icorpi inanimati si modificano causalmente se non per analogia con ciòche si produce in me ogni qualvolta il mio corpo estrinseca un'azionesotto l'impero di un motivo, e che costituisce l'intima essenza deicambiamenti determinati in me da ragioni esteriori; la conoscenzadella semplice causa del fenomeno non mi dà se non la regola del suoprodursi nello spazio e nel tempo; nulla di piú. E tale analogia mi èpermessa in quanto il mio corpo è l'unico oggetto di cui io conoscanon soltanto il lato della rappresentazione, ma bensì anche l'altro,quello della volontà. Dunque non bisogna credere che si potrebbemeglio comprendere la propria organizzazione, la propriaintelligenza, il proprio volere, i propri movimenti motivati,solamente se si arrivasse a ricondurre tutto ciò a movimenti prodottida cause come l'elettricità, il chimismo, il meccanismo; in quanto iofaccio della filosofia e non dell'etiologia, io debbo anzi tenere lavia opposta, e cioè spiegare l'essenza intima dei movimenti anche piúsemplici e piú comuni del corpo inorganico, determinati da cause,ricorrendo all'analogia con i movimenti miei propri determinati damotivi; e debbo anche riconoscere che le forze inesplicabili, che si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmanifestano in tutti i corpi della natura, sono nella loro specieidentiche a quella che costituisce in me la mia volontà, e non nedifferiscono che di grado. Vale a dire: la quarta classe dirappresentazioni stabilita nella mia dissertazione Sul principio diragione ci dovrà servire di chiave per arrivare a conoscere l'essenzaintima delle rappresentazioni della prima classe: con la legge dimotivazione dobbiamo arrivare a comprendere la legge di causalità nelsuo piú profondo significato.Spinoza dice (epist' 62) che una pietra lanciata in aria, se avessecoscienza, si immaginerebbe di volare per volontà propria. Ed ioaggiungo che la pietra avrebbe ragione. L'urto è per la pietra ciòche il motivo è per me; quello che appare nella pietra come coesione,peso, perseveranza nello stato acquisito, è nella sua essenzaidentico a quello che io riconosco in me come volontà, e che anche lapietra riconoscerebbe come volontà se fosse dotata di conoscenza.Spinoza, nel passo citato, pone mente alla necessità con cui lapietra percorre lo spazio, e vuole trasferirla con ragione ai singoliatti volontari della persona. Io, al contrario, pongo menteall'essenza intima che sola dà un senso e un valore ad ogni necessitàreale (cioè ad ogni effetto derivante da una causa), come suacondizione necessaria; questa essenza, nell'uomo si chiama carattere,nella pietra qualità; ma è in ambedue la medesima, e si chiamavolontà quando la si riconosce in maniera immediata; l'unicadifferenza sta in questo: che nella pietra è d'infimo grado divisibilità e di obbiettità, nell'uomo è al grado massimo. Questaidentità fra il tendere insito in tutte le cose e la volontàdell'uomo venne riconosciuta con giusto sentimento anche da S'Agostino, e io non posso trattenermi dal riportare il passo in cuiegli esprime ingenuamente il suo pensiero: «Si pecora essemus,carnalem vitam et quod secundum sensum eiusdem est amaremus, idqueesset sufficiens bonum nostrum, et secundum hoc si esset nobis bene,nihil aliud quaeremus. Item, si arbores essemus, nihil quidemsentientes motu amare possemus: verumtamen id quasi appeterevideremur, quo feracius essemus: uberiusque fructuosae. Si essemuslapides, aut fluctus, aut ventus, aut flamma, vel quid eiusmodi, sineullo quidem sensu atque vita, non tamen nobis deesset quasi quidamnostrorum locorum atque ordinis appetitus. Nam velut amores corporummomenta sunt ponderum, sive deorsum gravitate, sive sursum levitatenitantur; ita enim corpus pondere, sicut animus amore ferturquocumque fertur» (De civit' Dei, Xi, 28).E' cosa pur degna di nota che Eulero (nella 68a delle Lettere allaPrincipessa) avesse di già compreso come l'essenza della gravitazionedovesse essenzialmente ricondursi a «una tendenza e a un desiderio»propri dei corpi. Ed è appunto questa la ragione che lo fa distaccaredal concetto di gravitazione stabilito da Newton, inclinandolo acercarne una modificazione fondata sull'antica teoria cartesiana, adedurre cioè la gravitazione dall'urto di un etere sui corpi, il chesarebbe «piú conforme a ragione e piú accettabile a coloro che amanoi princípi chiari e comprensibili». L'attrazione come qualitasocculta deve secondo lui esser bandita dalla chimica. Il ches'accorda pienamente con la fredda concezione che al tempo di Eulerosi aveva della fisica quale correlato dell'anima immateriale; ma nonè men degno di nota, per quanto concerne la verità fondamentale da mestabilita, e da Eulero intravveduta come un bagliore lontano, ilvedere questo spirito fine fare di tempo in tempo voltafaccia, e, neltimore di mettere a rischio tutti i princìpi ammessi a suo tempo,cercare persino rifugio in una teoria assurda e morta già da tempo.

Par' 25. - Sappiamo che la pluralità in generale è necessariamentecondizionata dal tempo e dallo spazio, e non è pensabile se non permezzo di questi, che noi perciò chiamiamo principium individuationis.Abbiamo però anche riconosciuto che lo spazio e il tempo sono formedel principio di ragione in cui vien espressa ogni nostra conoscenzaa priori. Ora, come s'è visto sopra, questa conoscenza come taleconviene soltanto alla conoscibilità delle cose (alle cose in quantoconoscibili), ma non alle cose in se stesse; in altri termini: èforma della nostra cognizione, ma non proprietà della cosa in sé, laquale, come cosa in sé, è indipendente da ogni forma di conoscenza,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtanche dalla piú generale consistente nell'essere oggetto per ilsoggetto, ed è quindi qualcosa di radicalmente diverso dallarappresentazione. Se dunque la cosa in sé, come ritengo di aversufficientemente e luminosamente dimostrato, è la volontà, questa,considerata come tale separatamente dal suo fenomeno, esisteall'infuori del tempo e dello spazio e non conosce pluralità: èquindi una. Ma una (s'è detto anche questo) non in quel senso, in cuiè uno l'individuo e il concetto; bensí come qualcosa, a cui lacondizione della possibile pluralità, il principium individuationis,rimane del tutto estraneo. La pluralità delle cose nel tempo e nellospazio, costituenti nel loro insieme la sua oggettità, non la toccapunto: nonostante il tempo e lo spazio, la volontà restaindivisibile. Non si creda che ce ne sia una piccola parte nellapietra e una parte piú grande nell'uomo: la relazione di parte atutto appartiene soltanto allo spazio, e non ha piú alcun sensoquando si esca da questa forma d'intuizione; anche il piú e il menoriguardano soltanto il fenomeno, la visibilità, l'oggettivazione.Questa c'è in un grado piú alto nella pianta che nella pietra,nell'animale che nella pianta, anzi la manifestazione visibile dellavolontà, la sua oggettivazione, ha la stessa infinità di gradazioniche passa fra il piú fioco bagliore del crepuscolo e il piúsfavillante raggio di sole, fra il suono piú intenso e l'eco piúleggera. Piú innanzi ritorneremo su questi gradi di visibilità cheappartengono alla sua oggettivazione, all'immagine della sua essenza.La pluralità dei fenomeni, coi loro diversi gradi, e cioè il numerodegl'individui d'ogni forma e delle singole estrinsecazioni d'ogniforza, concerne la volontà meno ancora che non la concernano i gradidella sua oggettivazione. La pluralità infatti ha per condizioneimmediata il tempo e lo spazio, forme che non sono forme dellavolontà. Questa si manifesta con egual forza e tutta in una solaquercia come in milioni di querce; il loro numero, la loromoltiplicazione nel tempo e nello spazio, non ha nessun significatoin ordine alla volontà, ma soltanto in ordine alla molteplicità degliindividui conoscenti nel tempo e nello spazio e che perciò vi sono emolti e dispersi, questa loro stessa molteplicità non essendo chel'apparenza della volontà, non un suo carattere. Perciò si potrebbeaffermare che se, per impossibile, un singolo essere, anche l'infimo,si annientasse completamente, il mondo intero svanirebbe insieme.Cosa che fu ben sentita dal grande mistico Angelo Silesio:«Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht ein Nu kann leben:@ Werd' ichzunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.@» (8)Si è tentato in diverse maniere di far comprendere all'intelligenzadi ciascuno la smisurata grandezza dell'universo, e se n'è toltaoccasione a considerazioni edificanti, ad esempio sulla piccolezzarelativa della terra e dell'uomo; per contrasto, si fa poi rilevarela grandezza di spirito in quest'uomo pur cosí piccino, che sascoprire, comprendere e perfino misurare l'immensità del mondo. Tuttobene! Ma per me nel considerare l'immensità del mondo, quello che piúimporta è questo: l'essere in sé, di cui è fenomeno il mondo - siadel resto qualsivoglia - non può aver diffuso e spezzato il suo verosé nello spazio infinito; questa estensione infinita appartienesoltanto al suo fenomeno; laddove l'essere stesso è presente tuttointero e indiviso in ogni cosa della natura, in ogni essere vivente.Sicché non si perde niente se ci si trattiene su qualunque singolo; eanche per acquistare la vera sapienza non c'è bisogno di misuraretutto l'universo, né di percorrere in persona l'infinito spazio (chesarebbe meglio); basta, e serve assai piú, indagare a fondo unqualunque singolo, sforzandosi di riconoscerne e comprenderneperfettamente la vera essenza.Sarà nel prossimo libro oggetto di lunghe considerazioni un puntoche si è già fin d'ora imposto da sé ad ogni discepolo di Platone: idiversi gradi di oggettivazione della volontà (i quali, espressi ininnumerevoli individui, esistono come irraggiungibili prototipi diquesti o come forme esterne delle cose) non rientrano nel tempo enello spazio, medium proprio degl'individui, ma restano sempre fissi,invariabili; esistono sempre e non divengono mai, mentre gl'individuinascono e muoiono, divengono sempre e non esistono mai. E questigradi di oggettivazione della volontà non sono, dico io, nient'altro

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche le idee di Platone. E di tutto questo io mi occupo qui soltantofuggevolmente, per potere in seguito impiegare la parola idea inquesto significato; bisognerà dunque intenderla sempre nel senso puroe originario che le dava Platone, e non per designare il prodottoastratto della ragione scolastica dogmatizzante; nel quale ultimosenso, Kant abusò inopportunamente d'una parola di cui Platone avevafatto un uso esattissimo. Con idea intenderemo dunque indicare ognigrado determinato e costante di oggettivazione della volontà comecosa in sé, quindi come estranea alla pluralità; in relazione con glioggetti particolari questi gradi sono forme eterne, o modelli.L'espressione piú breve e piú comprensiva di questo celebre dogmaplatonico ci è data da Diogene Laerzio (Iii, 2): "ho §plätwn fûsï, entê* füsei tàs idëas hestänai kaôäper paradeïgmata; tà d' älla taütaiseoikënai, toütwn homoijmata kaôest#ta" (Plato ideas in natura velutexemplaria dixit subsistere; cetera his esse similia, ad istarumsimilitudinem consistentia). Non mi tratterrò qui piú a lungo aparlare dell'abuso fatto da Kant della parola idea: ne dirò quanto ènecessario nell'Appendice.

Par' 26. - Le forze piú generali della natura ci si presentano comeil gradino piú basso di oggettivazione della volontà: queste forze,in parte si manifestano in ogni materia senza eccezione, come ilpeso, l'impenetrabilità, in parte si ripartiscono tra la materiaquale si presenta in generale, sicché le une dominano qui, le altrelà, ciascuna in una materia specificamente differente, come lasolidità, la fluidità, l'elasticità, l'elettricità, il magnetismo, leproprietà chimiche e le qualità di qualsiasi specie. Sono in séimmediate manifestazioni della volontà, né piú né meno che l'attivitàumana; come tali non ammettono ragione superiore piú che nonl'ammetta il carattere umano; soltanto i loro singoli fenomeni sono,al pari delle azioni umane, soggetti al principio di ragione; ma leforze non possono mai prendere il nome di causa o di effetto, poichécostituiscono la condizione preliminare di ciascuno degli effetti edi ciascuna delle cause mediante cui si esplica e si manifesta laloro propria essenza. E' dunque assurdo il domandarsi quale sia lacausa del peso o dell'elettricità; queste son forze primitive le cuiestrinsecazioni si realizzano in virtú del principio di causa e dieffetto, cosicché ciascuno dei loro fenomeni ha una causa che a suavolta è un fenomeno della stessa specie che determina l'apparizionenecessaria di tal forza nel tal punto dello spazio e del tempo; ma laforza in se stessa non è né effetto di una causa né causa di uneffetto. Quindi è falso dire: «il peso è la causa per cui la pietracade»; la causa è piuttosto la vicinanza della terra, in quantoquesta attira la pietra. Sopprimiamo la terra, e la pietra non cadràpiú, sebbene il peso rimanga. La forza in sé rimane al tutto fuoridella catena delle cause e degli effetti, che presuppone il tempo enon ha significato che in ordine al tempo; ma la forza è anche fuoridel tempo. Il singolo cambiamento ha sempre per causa un altrosingolo cambiamento particolare, ma non la forza di cui èmanifestazione. Poiché ciò che a una causa, tutte le innumerevolivolte che può prodursi, dà il potere di agire, è una forza naturale;come tale questa non ammette spiegazioni, ossia risiede al di fuoridella catena delle cause, e in generale fuori del dominio delprincipio di ragione. In filosofia, la riconosciamo come oggettitàimmediata della volontà, ossia dell'in sé di tutta la natura; inetiologia, e nel caso speciale in fisica, la indichiamo come unaforza primitiva, come una qualitas occulta.Al piú alto grado di oggettità del volere vediamo l'individualitàaccentuarsi energicamente, e in modo speciale nell'uomo, nella grandediversità dei caratteri individuali, ossia nella personalitàcompleta. La quale si esprime già all'esterno con una fisionomiaindividuale fortemente accentuata che investe tutta la formacorporea. Questa individualità è ben lontana dal raggiungere un gradocosí elevato nei bruti; soltanto gli animali superiori ne hanno unaleggera tinta, ma ciò che predomina in loro è sempre il caratteredella razza: la fisionomia individuale si riduce a un minimo. Quantopiú si discende nella scala, e tanto piú ogni traccia di carattereindividuale si perde nel carattere generale della specie, la cui

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfisionomia resta in tal modo unica. Conosciuto il caratterefisiologico della famiglia, si sa precisamente quello che ci si deveaspettare dall'individuo. Nella specie umana, invece, ogni individuova studiato e approfondito per se stesso; il che presenta le piúgravi difficoltà, specialmente quando si voglia determinare inprecedenza con qualche sicurezza la condotta individuale; perchél'individuo acquista con la ragione anche l'attitudine a dissimulare.A questa differenza fra la specie umana e tutte le altre dobbiamoverosimilmente attribuire il fatto che i solchi e le circonvoluzionidel cervello, le quali mancano ancora presso gli uccelli e sonodeboli nei roditori, sono anche negli animali superiori molto piúsimmetriche d'ambo i lati e molto piú costanti in ogni individuo diquello che non siano nell'uomo. (9)Un altro fenomeno dimostra meglio ancora l'individualità dicarattere che distingue cosí profondamente l'uomo dal bruto: inquesto l'istinto sessuale non esplica nessuna scelta notevole nellasua soddisfazione; mentre nell'uomo la scelta, sebbene istintiva eindipendente dalla riflessione, si spinge cosí lontano da poterdegenerare nella passione piú violenta. L'uomo dunque si puòconsiderare come un fenomeno della volontà, particolarmentedeterminato e caratterizzato; e fino a un certo segno anzi comeun'idea speciale; mentre nei bruti questo carattere individuale mancadel tutto, e soltanto la specie conserva un proprio significato;attenuandosi ogni traccia di individualità man mano che ciallontaniamo dall'uomo; le piante non hanno altre particolaritàindividuali all'infuori di quelle che risultano dalle influenzefavorevoli o sfavorevoli del terreno e del clima, o da qualsiasialtra circostanza accidentale. Infine l'individualità spariscecompletamente nel regno inorganico. Soltanto il cristallo può ancorain certa misura esser considerato come un individuo; rappresentainfatti una unità di sforzo in direzioni determinate, sforzo che lasolidificazione è venuta ad arrestare rendendone permanenti letracce. Ed è insieme, il cristallo, un aggregato costituitosi attornoad un germe figurato e unificato da un'idea, precisamente comel'albero è un aggregato risultante da una fibra unica che cresce, simanifesta, e si ripete in ogni nervatura della foglia, in ognifoglia, in ogni ramo, sicché ciascuna parte si può in qualche modoconsiderare come una pianta separata vivente da parassita sullagrande; l'albero è dunque, al pari del cristallo, un aggregatosistematico di piccole piante; l'insieme soltanto dà larappresentazione perfetta d'una idea indivisibile, di un gradodeterminato di oggettivazione della volontà. Gli individui dellastessa famiglia di cristalli non possono presentare differenzeall'infuori di quelle causate da accidentalità esteriori; si puòfinanche, a capriccio, far cristallizzare ogni specie in cristalligrandi o piccoli. L'individuo come tale, cioè portante le tracce diun carattere individuale, non si riscontra in alcun modo nella naturainorganica. Tutti i fenomeni inorganici non sono che estrinsecazionidi forze naturali generali, cioè di gradi di oggettivazione dellavolontà che non si manifestano affatto (come invece avviene nellanatura organica) per mezzo della differenza fra le individualitàesprimenti parzialmente la totalità dell'idea; ma si rivelanosoltanto nella specie che rappresentano interamente e senzadeviazione in ogni singolo fenomeno. Siccome il tempo, lo spazio, lapluralità e la dipendenza causale non appartengono né alla volontà néall'idea (che è il grado di oggettivazione della volontà) maunicamente ai loro fenomeni isolati, bisogna che nelle miriadi dimanifestazioni di una forza naturale, come ad esempio del peso odell'elettricità, la forza si manifesti come tale esattamente nellastessa maniera; le sole circostanze esteriori possono modificare ilfenomeno. A questa unità della sua essenza in tutte le suemanifestazioni, a questa costanza invariabile nel suo prodursi ognivolta che il filo conduttore della causalità incontri le condizionirichieste, si dà il nome di legge naturale. Una volta conosciuta peresperienza la legge, si può in antecedenza calcolare e determinarecon precisione l'apparire di quella forza naturale, il cui carattereè nella legge espresso e come deposto. La detta regolarità deifenomeni relativi agl'infimi gradi di oggettivazione della volontà, è

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprecisamente la causa che a tali fenomeni conferisce un aspetto cosídifferente da quello caratteristico dei fenomeni superiori, piúdistinti, relativi all'oggettivazione della volontà negli animali,negli uomini e nella loro condotta; dove l'accentuazione piú forte opiú debole del carattere individuale e la facoltà di esserdeterminati da motivi (che restano frequentemente ignoti allospettatore, perché hanno radice nella conoscenza), impedironocompletamente finora di scorgere l'identità dell'essenza intima frale due specie di fenomeni.L'infallibilità delle leggi di natura presenta, quando si partadalla conoscenza del singolo e non da quella dell'idea, qualcosa disorprendente, anzi talvolta quasi di terrificante. E' meravigliosoche la natura non dimentica mai, neppure una volta, le sue leggi: se,ad esempio, è conforme a una legge naturale che l'incontro di duematerie in determinate condizioni dia luogo a una combinazionechimica, a uno sviluppo di gas o ad una combustione, tutte le volteche le suddette condizioni si verificano, sia perché preparate danoi, sia per puro e semplice caso (e allora la puntualità del fattoci sorprende tanto piú quanto piú è inattesa), immediatamente ilfenomeno si produce, oggi come dieci secoli or sono. E ilmeraviglioso del fatto ci colpisce tanto piú vivamente nel caso difenomeni rari, che si producono soltanto in circostanze moltocomplicate, e che pur ci vengono predetti. Come ad esempio quando simettono in colonna certe lastre di metalli che si tocchinoalternativamente e tocchino insieme un liquido acido; due fogliolined'argento, che si pongano alle estremità di questa catena, brucianoimmediatamente con fiamma verde. Oppure, per un altro esempio, quandoil diamante, cosí duro, in certe condizioni si trasforma in acidocarbonico. Ciò che allora ci sorprende è questa onnipresenza delleforze naturali, simile a quella degli spiriti; quello che neifenomeni giornalieri ci passa inosservato davanti agli occhi, eccitaqui tutta la nostra attenzione; ci accorgiamo allora, che laconnessione fra causa ed effetto racchiude in sé tanto di misteroquanto quella che passa fra la formula magica e lo spirito evocato.Al contrario, quando ci siamo penetrati del principio filosofico cheogni forza naturale è un determinato grado di oggettivazione dellavolontà, ossia di ciò che anche noi riconosciamo come la piú intimaessenza nostra; che questa volontà è in sé (indipendentemente dal suofenomeno e dalle sue forme) fuori del tempo e dello spazio; che lapluralità, di cui tali forme sono la condizione, non tocca né lavolontà in sé né direttamente il grado della sua oggettivazione ol'idea, ma inerisce soltanto ai fenomeni; che inoltre la legge dicausalità non ha significato che in relazione al tempo e allo spazio,in quanto determina il luogo che vi debbono occupare i molteplicifenomeni delle differenti idee in cui si manifesta la volontà,regolando l'ordine secondo il quale si debbono produrre; quando, inbreve, abbiamo riconosciuto, penetrando bene lo spirito della grandedottrina kantiana, che lo spazio, il tempo e la causalità nonappartengono alla cosa in sé, ma soltanto al suo fenomeno, e sonosemplici forme della nostra conoscenza, non proprietà della cosa insé; allora ci accorgiamo che la nostra meraviglia di fronte allapuntuale regolarità d'azione delle forze naturali, alla perfettauniformità delle loro miriadi di manifestazioni e all'infallibilitàdel loro apparire, somiglia in realtà allo stupore di un ragazzino odi un selvaggio che, osservando per la prima volta un fioreattraverso un vetro sfaccettato, si trova innanzi innumerevoli fioriperfettamente uguali, e se ne meraviglia, e si mette a contare ad unaad una le foglie di questi fiori.Ogni forza naturale generale ed originaria non è dunque altro,nella sua intima essenza, che un'oggettivazione della volontà in ungrado inferiore; ciascuno di questi gradi è un'idea eterna nel sensodi Platone. La legge di natura sarebbe la relazione tra l'idea e laforma del suo fenomeno. Questa forma è il tempo, lo spazio e lacausalità, legati tra loro da connessioni e relazioni necessarie edindissolubili. Mediante il tempo e lo spazio l'idea si moltiplica ininnumerevoli manifestazioni: l'ordine poi, secondo cui talimanifestazioni si producono nelle forme della molteplicità, èrigorosamente determinato dalla legge di causalità: la quale segna in

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtqualche modo il limite fra le manifestazioni delle differenti idee,ripartendo fra loro il tempo, lo spazio e la materia. Questa legge haquindi una relazione necessaria con l'identità di tutta la materiadata, costituente il substratum comune dei diversi fenomeni. Sequesti non fossero tutti collegati con una materia comune di cui sidividono il possesso, non ci sarebbe piú bisogno di una legge simileper determinare le loro esigenze; potrebbero tutti insieme econtemporaneamente riempire uno spazio infinito per un tempoinfinito. Una regola che fissi il cominciamento e la fine di tutte lemanifestazioni delle idee eterne, è resa necessaria unicamente dalfatto che tali manifestazioni si riconnettono a una sola e identicamateria; in caso contrario nessuna farebbe posto all'altra. La leggedi causalità è dunque essenzialmente collegata a quella dellapermanenza della sostanza e ciascuna delle due riceve un significatounicamente dall'altra; ma una identica relazione collega con questeleggi lo spazio e il tempo. Poiché il tempo non è che la semplicepossibilità di determinazioni opposte nella stessa materia; lo spazionon è che la possibilità pura e semplice di permanenza della stessamateria nella molteplicità delle opposte determinazioni. Ecco perchénel primo libro spiegammo la materia con la combinazione del tempo edello spazio: questa unione si mostra come cambiamento di accidentiin seno al permanere della sostanza, il che non è possibileassolutamente se non per mezzo della causalità e del divenire. Edecco ancora perché dicemmo che la materia è assolutamente causalità.Noi vedemmo nell'intelletto il correlato soggettivo della causalità;ed affermammo che la materia (ossia il mondo intero comerappresentazione) non esiste che per l'intelletto; il quale ne è lacondizione, il sostegno, il correlato necessario. Tutto ciò non serveche a rinfrescare la memoria di quanto fu esposto nel primo libro. Laconcordanza perfetta dei due libri sarà ben compresa quando si saràdetto che la volontà e la rappresentazione, indissolubilmente unitenel mondo reale di cui costituiscono le due facce, furono in questidue libri separate a bella posta per poterle meglio studiare ciascunaper conto suo.Forse non è superfluo chiarire ancora con un esempio, come la leggedi causalità non abbia senso che in relazione con il tempo, con lospazio e con la materia che si risolve nella loro unione. Lacausalità infatti non fa che fissare i limiti secondo cui lemanifestazioni delle forze naturali si dividono il possesso dellamateria; mentre queste medesime forze originarie, essendooggettivazioni della volontà che come cosa in sé non è soggetta alprincipio di ragione, stanno interamente al di fuori di queste forme.Ora la spiegazione etiologica non ha senso e valore che nel campodelle dette forme; quindi non può mai condurci fino all'essenzaintima della natura. Immaginiamoci a tale scopo una macchinacostruita secondo le leggi della meccanica. Dei pesi di ferro dannocon la loro gravità; il primo impulso al movimento; ruote di rameresistono in virtú della loro rigidità, si urtano e si sollevanomutuamente, fanno agire con la loro impenetrabilità delle leve ecc'.Qui il peso, la rigidità, l'impenetrabilità, son forze originarieinesplicabili; la meccanica non ci dà che le condizioni sotto cui siproducono, il modo con cui si estrinsecano dominando una data materianel tal momento e nel tal luogo. Ora può una forte calamita agire sulferro dei pesi e vincere la loro forza di gravità; il moto dellamacchina si ferma e la materia diviene immediatamente il teatro diuna forza naturale tutta diversa, il magnetismo di cui la spiegazioneetiologica non ci fa parimenti comprendere altro che le condizionidel suo apparire. Oppure si possono mettere i dischi di rame dellamacchina su lamine di zinco, frapponendovi un liquido acidulato;immediatamente la stessa materia della macchina incapperà nell'azionedi un'altra forza originaria, il galvanismo, che la dominerà orasecondo le sue leggi e vi si manifesterà con fenomeni propri; anchequi l'etiologia non può fare di piú che insegnarci le circostanze incui si manifestano e la forza nuova e le leggi che la governano.Eleviamo in seguito la temperatura e facciamo arrivare dell'ossigenopuro: tutta la macchina brucerà; ciò vuol dire che una forza naturalecompletamente diversa, il chimismo, ha fatto in questo momento e inquesto luogo valere su quella materia il suo diritto inderogabile,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmanifestandovisi come idea, come grado determinato di oggettivazionedella volontà.Si supponga poi che l'ossido metallico risultante da talecombustione si unisca con un acido: ecco che ha origine un sale chesi forma e cristallizza, ecco cioè il fenomeno di una nuova idea,completamente inesplicabile anch'essa, benché il suo apparire dipendadalle condizioni che l'etiologia ci sa con precisione indicare. Icristalli si disgregano, si mescolano con altre materie; sorge unavegetazione, cioè un nuovo fenomeno della volontà. E cosí via: sipotrebbero continuare all'infinito gli esperimenti sulla stessamateria permanente, e si vedrebbe come ora l'una, ora l'altra delleforze naturali vi accampi dei diritti e se ne impadroniscainesorabilmente, allo scopo di prodursi e di manifestare la suaessenza. La legge di causalità ci dà la determinazione di questodiritto, e il punto del tempo e dello spazio del suo farsi valere; mala spiegazione fondata sulla causalità non può andare un passo piúoltre. La forza in sé è una manifestazione della volontà, e come talenon è soggetta al principio di ragione, è senza una ragione. E' fuoridel tempo, onnipresente, e sembra quasi che spii continuamentel'arrivo di circostanze favorevoli per manifestarsi, per impadronirsidi una data materia, per dominarla scacciando la forza che vi regnavaprima. Il tempo non esiste che per la forza; da solo non ha alcunsignificato. Le forze chimiche sonnecchiano per millenni e millenninel seno di una data materia, fino a che il contatto con un reagentele rimetta in libertà; allora ed allora soltanto si manifestano; mail tempo non esiste che per la loro manifestazione, non per le forzein se stesse. Per millenni e millenni sonnecchia il galvanismo nelrame e nello zinco, e questi riposano tranquilli vicino all'argento:vengano questi tre metalli a contatto in determinate condizioni,l'argento s'infiammerà immediatamente. Fin anche nel regno organico,vediamo un seme disseccato conservare per tremila anni la forza chevi riposa, e poi, al presentarsi di circostanze favorevoli,germogliare e sorgere in pianta. (10)Se le presenti considerazioni ci han reso ben chiara la differenzafra una forza naturale e le sue manifestazioni; se abbiamo bencompreso che questa forza è la volontà stessa a tal grado preciso dioggettivazione; che la molteplicità non conviene se non ai fenomeniin virtú dello spazio e del tempo, e che la legge di causalità non èaltro che la determinazione del punto dello spazio e del tempoconveniente ai singoli fenomeni; potremo ben riconoscere la veritàesatta e il senso profondo della dottrina di Malebranche sulle causeoccasionali. Sarebbe assai utile comparare questa sua teoria - com'èda lui esposta nelle Recherches de la vérité, soprattutto nel 3ocapitolo della 2a parte del Vi libro, e negli schiarimenti annessi aquesto capitolo - con la mia presente esposizione; e rilevare poi lapiú perfetta concordanza fra le due dottrine, malgrado tantadivergenza nel corso dei pensieri. Anzi, mi meraviglio comeMalebranche, imprigionato mani e piedi nei dogmi positivi che il suotempo gl'imponeva irresistibilmente, abbia saputo nondimeno, contanti vincoli e tanti pesi, cogliere così felicemente e cosí apuntino la verità, ed accordarla con quei dogmi, almeno con la loroespressione verbale.Sí; la forza della verità è maggiore che non si creda, e la suatenacità indicibile. Ne troviamo le numerose tracce in tutti i dogmi,anche i piú bizzarri ed assurdi, dei vari paesi e dei vari tempi;spesso, è vero, in strana compagnia e in un amalgama curioso, matuttavia sempre riconoscibili. La verità è simile ad una pianta chegermoglia sotto un mucchio di grosse pietre, ma che tuttavia siarrampica verso la luce; con sforzi inauditi, con mille giravolte einflessioni, sformata, pallida, intristita, ma pur sempre verso laluce.In ogni modo Malebranche ha ragione; ogni causa naturale non è checausa occasionale: non dà che occasione o motivo alle manifestazionidi quella volontà una e indivisibile che è l'in sé di tutte le cose ele cui graduali oggettivazioni costituiscono il mondo visibileintero. Il mero prodursi e farsi visibile della volontà nel tal luogoe nel tal momento, è la sola cosa che la causa possa determinare, ein tal senso ne dipende; ma l'insieme del fenomeno, la sua natura

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtintima, ne è affatto indipendente; questa natura intima è costituitadalla volontà stessa, su cui il principio di ragione non fa presa, eche è quindi senza ragione. Nessuna cosa al mondo ha una causa diesistenza che sia assoluta e generale, ma semplicemente una causa delsuo essere proprio qui ed ora. Il fatto che una pietra manifesti orail peso, ora la rigidità, ora l'elettricità, ora le proprietàchimiche, va riferito a cause, a influenze esterne, per mezzo dellequali soltanto tale fatto può essere spiegato; ma queste stesseproprietà, e quindi tutta la sua intima essenza che si compone ditali proprietà e che si manifesta in tutte quelle maniere, in unaparola, il fatto che la pietra è quella che è, il fatto che ingenerale esiste, non ha alcun fondamento superiore; non è che lamanifestazione visibile dell'inesplicabile volontà. E dunque ognicausa è causa occasionale. Questo abbiamo costatato nella naturaincosciente; ma è vero anche là dove non piú le cause o glieccitamenti, ma i motivi, determinano il momento di manifestazionedei fenomeni: è vero anche nella condotta dell'uomo e dell'animale.Perché, qui come là, è sempre la stessa volontà che si manifesta;molto differente nei gradi del suo apparire, multipla nei suoifenomeni, soggetta riguardo a questi al principio di ragione, ma insé libera da tutti questi elementi. I motivi non determinano ilcarattere dell'uomo, ma soltanto le manifestazioni del carattere,cioè gli atti; la forma esteriore, ma non il senso profondo e ilcontenuto della sua vita; il senso e il contenuto dipendono dalcarattere, che è il fenomeno immediato della volontà e che nonammette cause. Perché il tale è cattivo, il tal altro buono? Ciò nondipende da motivi o da influenze esterne, da massime o da prediche: ècosa per questo verso assolutamente inesplicabile. Ma quando unmalvagio mostra la sua malvagità in piccole ingiustizie, in viliintrighi, in basse furberie esercitate nella ristretta cerchia deisuoi familiari, o quando opprime i popoli come conquistatore, quandoprecipita il mondo intero nella desolazione e fa scorrere il sanguedi milioni di uomini; allora si ha la forma esteriore della suamanifestazione, quello che non le è essenziale, che dipende dallecircostanze in cui il destino ha posto lui, dall'ambiente, dalleinfluenze esterne, dai motivi; ma la decisione sua dietro tali motivinon ammetterà mai simili spiegazioni; procede dalla volontà di cuiquest'uomo è la manifestazione. Ma di tutto questo si parlerà nelquarto libro. La maniera in cui il carattere dispiega le sueproprietà è perfettamente simile a quella in cui ogni corpo dellanatura incosciente dispiega le proprie. L'acqua resta sempre acquacon tutte le sue qualità inerenti; sia quando lago tranquillorispecchia la sua riva, sia quando spumeggiante precipita tra lerupi, sia quando si slancia artificialmente al cielo come un lungozampillo, è soggetta a cause esterne; l'uno stato le è naturale alpari dell'altro; e secondo le circostanze assume l'uno o l'altro,pronta egualmente a tutto; ma fedele però in ogni caso al suocarattere, non manifestando mai altro che questo. Parimenti, ognicarattere umano si manifesterà in ogni circostanza eguale a sestesso; ma i fenomeni che ne risultano saranno quali le circostanzeli avran fatti.

Par' 27. - Se le precedenti considerazioni sulle forze della naturae sulle loro manifestazioni ci han reso ben chiaro fin dove laspiegazione causale possa giungere, e dove debba cessare per noncadere nell'assurda pretesa di ricondurre il contenuto dei fenomenialla loro semplice forma (il che sarebbe infine un lasciarnesussistere la sola forma), saremo in condizione di determinare quelloche in generale si può pretendere da ogni etiologia. L'etiologia devecercare le cause dei fenomeni, le circostanze del loro costanteapparire: deve poi anche ricondurre i fenomeni, diversi per lamolteplice diversità delle circostanze, a ciò che agisce in ognifenomeno e vien supposto da ogni causa, e cioè ad una forza naturaleoriginaria, ma deve ben distinguere, se la diversità dei fenomeniderivi da una diversità di forze, oppure da una semplice varietà dicircostanze in cui le forze si esplicano; e deve in ultimo guardarsibene dal ritenere per manifestazioni di forze differenti quello chenon è se non estrinsecazione, in circostanze differenti, di un'unica

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txte identica forza; viceversa non deve prendere per manifestazione diuna medesima forza ciò che appartiene a forze originariamentediverse. E qui occorre buon discernimento: ecco perché nel campodella fisica ben pochi sanno allargare gli orizzonti, mentre ognuno ècapace di arricchire la cerchia delle esperienze. La pigrizia el'ignoranza inclinano a ricorrere troppo presto a forze primitive: ilche si riscontra, con un'esagerazione che rasenta l'ironia, nelleentità e nelle quiddità degli scolastici. Nulla è piú contrario aimiei desideri che favorire il ritorno di questo abuso. Non bisognamai, in luogo di una spiegazione fisica, ricorrere allaoggettivazione della volontà o alla potenza creatrice di Dio. Lafisica esige delle cause; ora la volontà non è una causa, e la suarelazione con i fenomeni non si fonda sul principio di ragione;bensí, ciò che è in sé volontà è dall'altro lato rappresentazione,ossia fenomeno, e come tale segue le leggi costituenti la forma delfenomeno. Nonostante ogni movimento, ad esempio, sia sempre unamanifestazione della volontà, deve peraltro avere una causa che lospieghi in relazione a un tempo e ad un luogo determinati, cioè nonin modo generico e quanto all'intima essenza, ma come fenomenoparticolare. Questa causa è meccanica nella pietra, è un motivonell'uomo in ordine ai suoi movimenti: comunque, non può mai mancare.Al contrario, ciò che vi è di universale, di essenziale, di comune atutti i fenomeni di una data specie, il principio senza del qualenessuna spiegazione causale ha senso né valore, è la forza universaledella natura, che nella fisica deve rimanere allo stato di qualitasocculta, questo essendo il limite in cui finisce la spiegazioneetiologica e comincia quella metafisica. Ma la catena delle cause edegli effetti non viene mai rotta dall'ammissione di una forzaoriginaria: la catena non risale a questa forza come a suo primoanello; anzi, ogni anello, tanto il primo che l'ultimo, presupponegià la forza primitiva, senza la quale non potrebbe spiegarealcunché. Una serie di cause e di effetti può essere lamanifestazione delle forze piú differenti, di cui la serie medesimanon fa che regolare la manifestazione successiva nel campo visibile(come fu chiaramente mostrato nell'esempio della macchina metallica);ma la differenza delle forze primitive, indeducibili una dall'altra,non spezza in nessun modo l'unità della catena delle cause, laconnessione fra tutti i suoi anelli. L'etiologia della natura e lafilosofia della natura non si nuocciono mai a vicenda; procedonol'una al fianco dell'altra, considerando l'oggetto medesimo da puntidi vista differenti. L'etiologia rende conto delle cause cheprodussero necessariamente il fenomeno singolo di cui cerca laspiegazione, e come fondamento di ogni sua spiegazione, indica leforze universali che agiscono intrinsecamente a tutte le cause e atutti gli effetti; determina con precisione queste forze, il loronumero, le loro caratteristiche, nonché tutti gli effetti in cui ogniforza si manifesta variamente secondo la diversità delle circostanze;serbandosi (l'etiologia) fedele sempre al proprio carattereparticolare, di spiegare i fatti con regole certe chiamate leggi dinatura. La fisica, quando avesse compiuto quest'opera in modoperfetto sotto ogni riguardo, avrebbe conseguito il colmo dellaperfezione. Allora non ci sarebbe piú nella natura inorganica nessunaforza sconosciuta, nessun effetto non spiegato come estrinsecazionedi una di quelle forze in determinate circostanze secondo una leggedi natura. Ciò nonostante, una legge di natura non è mai altro cheuna regola, strappata di sorpresa alla natura, secondo cui la naturaprocede sempre, ogni volta che si presentino certe circostanzedeterminate; si può dunque assolutamente definirla come un fattoespresso in forma generale, un fait généralisé; quindi un'esattaesposizione di tutte le leggi naturali non sarebbe in ultima analisiche un inventario completo di fatti. Lo studio dell'insieme dellanatura trova il suo compimento nella morfologia, che enumera tutte leforme fisse della natura organica, le compara e le coordina. Lamorfologia poco ha da dire sulla causa dell'apparizione dei singoliesseri; perché questa causa, ch'è la medesima per tutti, lagenerazione, dà luogo a una teoria a parte: in casi rarissimi abbiamola generatio aequivoca. A rigore, in quest'ultima classe rientraanche il modo con cui i gradi inferiori di oggettità della volontà,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtossia i fenomeni chimicofisici, si producono nei singoli casi; e ilcompito dell'etiologia è appunto d'indicare le condizioni di questeproduzioni. La filosofia, invece, considera in ogni cosa, e quindianche nella natura, soltanto quello che è universale; suo soggettosono le forze primitive in sé, in cui la filosofia riconosce idifferenti gradi di oggettità della volontà, che è l'essenza intima,l'in sé, del mondo; mondo che la filosofia, quando fa a meno dellavolontà, riduce a una pura rappresentazione del soggetto. Mal'etiologia, se, invece di servire d'introduzione alla filosofia e diconfermare con esempi le sue dottrine, s'immagina che il suo scoposia di negare tutte le forze naturali salvo una sola, la piúgenerale, ad esempio l'impenetrabilità (supposta compresa a fondo, ealla quale si vorrebbero ricondurre violentemente tutte le altre),distrugge da se stessa il proprio fondamento, ed anziché condurrealla verità produce soltanto l'errore. Allora, dalla forma vieneeliminato per intero il contenuto; tutto viene attribuitoall'influenza delle circostanze, niente all'essenza intima dellecose. Se questo metodo realmente riuscisse, un semplice calcolobasterebbe (come dicevamo) a sciogliere l'enigma dell'universo. Equesta è la via che si segue quando si vuole, ad esempio, ricondurrele azioni fisiologiche all'elettricità, l'elettricità al chimismo, ilchimismo infine al meccanicismo. L'ipotesi meccanicistica fu l'erroredi Cartesio e degli atomisti, che ricondussero il movimento dei corpicelesti all'urto di un fluido, e la qualità dei corpiall'aggruppamento e alla forma degli atomi; e si sforzarono dispiegare tutti i fenomeni della natura come semplici fenomenidell'impenetrabilità e della coesione. Per quanto ci si sia ormailiberati da tale errore, pure non diversa da questa è la via seguitaoggi dai fisiologi, che si fissano sull'elettricità, sulla chimica esulla meccanica, e si ostinano a spiegare la vita intera e tutte lefunzioni dell'organismo con la «forma e la combinazione» delle sueparti costitutive. Che lo scopo della spiegazione fisiologicaconsista nel ricondurre la vita organica alle forze universalistudiate dalla fisica, è principio enunciato espressamente negliArchivi fisiologici di Meckel (1820, vol' V, pag' 185). AncheLamarck, nella sua Philosophie zoologique, vol' Ii, cap' 3, spiega lavita come semplice effetto del calore e dell'elettricità: «Lecalorique et la matière électrique suffisent parfaitement pourcomposer ensemble cette cause essentielle de la vie» (pag' 16).Secondo questa dottrina il calore e l'elettricità sarebberopropriamente la cosa in sé, e il mondo degli animali e delle pianteil loro fenomeno. A pag' 306 e segg' di questo libro si ha una provalampante dell'assurdità di tale teoria. Ognuno sa che tutte questedottrine, tanto frequentemente messe in ridicolo, riapparvero dinuovo audacemente in questi ultimi tempi. Un attento esame dimostracome tutte si riducano in fondo all'ipotesi che l'organismo sia unsemplice aggregato di fenomeni fisici, chimici e meccanici,convergenti casualmente cosí da formare l'organismo, il quale restaun puro giuoco della natura, privo di ogni significato. L'organismod'un animale o d'un uomo, considerato filosoficamente, non sarebbepiú allora la rappresentazione di un'idea particolare, cioè oggettitàimmediata della volontà in un determinato grado superiore; vi simanifesterebbero soltanto quelle idee che oggettivano la volontànell'elettricità, nel chimismo, nel meccanicismo; l'organismo sarebbeplasmato dall'incontro di queste forze, cosí accidentalmente come lefigure d'uomini e di animali che presentano le nuvole o lestalattiti, né offrirebbe in sé altro d'interessante. Vedremotuttavia subito in qual misura sia permesso ed utile applicareall'organismo le spiegazioni fisiche e chimiche. Dimostreremo infattiche è pur vero che la forza vitale impiega ed utilizza le forze dellanatura organica, ma non è punto costituita dalle forze medesime; comeil fabbro non è un composto di incudini e di martelli. Neppure lavita vegetale, pur cosí poco complicata, potrebbe spiegarsi con taliforze, ad esempio con la capillarità e con l'endosmosi; che diredella vita animale? La considerazione seguente ci appianerà la viaalla non facile esposizione di quanto abbiamo annunciato.Risulta da quanto precede, che la pretesa di ricondurre i piú altigradi di oggettivazione della volontà verso i piú bassi, è un errore

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnella scienza della natura; essendo un disconoscere, o un rinnegarele forze naturali primitive ed esistenti a sé; è un errore simile aquello di chi ammette senza ragione delle forze particolari dove nonc'è che la speciale manifestazione di forze già conosciute. Ben aragione, dice dunque Kant, è assurdo sperare in un Newton del filod'erba, sperare cioè che un genio riduca il filo d'erba amanifestazione di forze fisiche e chimiche pure e semplici, arisultato di una loro concrezione accidentale, riducendolo, in altritermini, ad un semplice gioco di natura in cui non appaia alcuna ideaparticolare, ossia dove la volontà non si manifesti direttamente inun grado elevato e determinato, ma soltanto in quello stesso modo incui si manifesta nella natura inorganica, e assuma per un puro casol'attuale sua forma. Gli scolastici che non avrebbero in nessun modoammesso un processo di tal genere, avrebbero detto con tutta ragioneche questo è un negare totalmente la forma substantialis e undegradarla a forma accidentalis. Infatti la forma substantialis diAristotele designa precisamente quello che io chiamo grado dioggettivazione della volontà in una cosa. D'altra parte però nonbisogna perdere di vista che in tutte le idee, cioè in tutte le formedella natura inorganica e in tutte le forme della natura organica,c'è una sola e identica volontà che si manifesta, o prende la formadella rappresentazione, oggettivandosi. La sua unità deve quindipotersi riconoscere dalla parentela intima fra tutte le suemanifestazioni. Nei gradi piú alti della sua oggettità, dove ilfenomeno si manifesta piú chiaramente, ossia nel regno degli animalie delle piante, la parentela si manifesta nell'analogia spiccata egenerale fra tutte le forme, nel tipo fondamentale che si trova intutti i fenomeni; questo è il principio che è servito come criteriofondamentale all'eccellente sistema zoologico creato ai nostri tempidai francesi: questo è il principio che l'anatomia comparata cimostra come l'unité de plan, l'uniformité de l'élément anatomique.Dimostrare tale principio fu l'assunto principale, o per lo meno ilpiú lodevole sforzo dei filosofi naturali della scuola di Schelling,i quali si acquistarono con ciò piú di un merito. Sebbene in molticasi la loro caccia alle analogie della natura sia degenerata in unoscherzo; a ragione però rilevarono questa parentela universale,questa affinità di famiglia, anche nelle idee della naturainorganica, come ad esempio tra l'elettricità e il magnetismo (la cuiidentità venne piú tardi costatata di fatto) e cosí pure tral'attrazione chimica e il peso, ecc'. Fecero particolarmente notareche la polarità, ossia lo sdoppiamento di una forza in due attivitàqualitativamente distinte, opposte, e tendenti alla riunione - forzache si manifesta il piú delle volte anche nello spazio, con unadivergenza in due direzioni opposte -, è il tipo fondamentale diquasi tutti i fenomeni della natura, dal magnete e dal cristallo finoall'uomo. In Cina, tuttavia, questa dottrina è accettata fin da untempo antichissimo, come opposizione del Yin e del Yang. Siccometutte le cose del mondo sono l'oggettità di un'unica e identicavolontà, e perciò identiche nella loro intima essenza, non soltantodeve esistere tra loro un'analogia incontestabile, non soltanto sideve in ogni cosa meno perfetta scoprire una traccia, l'indizio o,per cosí dire, il germe di quella immediatamente superiore, ma sideve altresí, dal momento che tutte queste forme non appartengono senon al mondo come rappresentazione, anche supporre che in tali formeuniversali della rappresentazione, costituenti la vera e propriaimpalcatura del mondo fenomenico, ossia nello spazio e nel tempo,debba potersi trovare e mostrare il tipo fondamentale, l'indice, ilgerme di tutto ciò che riempie queste forme. Pare che ad un vagosentimento di questa verità si debba l'origine della Cabbala, dellafilosofia tutta matematica dei Pitagorici, e di quella dei cinesi nelYKing; anche nella scuola di Schelling, oltre ai molteplici sforzidi porre in luce le analogie fra i fenomeni della natura, troviamoalcuni benché infelici tentativi per dedurre le leggi di natura dallesemplici leggi dello spazio e del tempo. Nessuno può oggi sapere sequalche uomo di genio potrà un giorno realizzare questi tentativi.Benché non si debba mai dimenticare la differenza tra il fenomeno ela cosa in sé; benché dunque l'identità della volontà oggettivata intutte le idee non possa mai snaturarsi (visto che possiede gradi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdeterminati di oggettità) in identità delle singole idee in cuiappare; benché l'attrazione chimica, ad esempio, oppure quellaelettrica, non si possano mai ridurre all'attrazione della gravità(nonostante che se ne conosca l'intima analogia e le prime si possanoconsiderare come l'ultima elevata a potenzialità superiori); benché,del pari, l'analogia intima di struttura tra gli animali nonautorizzi in alcun modo a confondere e identificare le specie o aritenere le specie superiori come varietà di quelle che relativamentead esse sono meno perfette; benché, infine, le funzioni fisiologicheescludano ogni riduzione a processi chimici e fisici; tuttavia questamaniera di procedere, quando sia contenuta entro certi limiti, puòvenir giustificata dalle considerazioni seguenti che sono moltoverosimili.Quando, fra le manifestazioni della volontà nei gradi piú bassidella sua oggettivazione, ossia nel regno inorganico, alcune vengonoa conflitto fra loro, in quanto ciascuna, condotta dal filo causale,cerca d'impadronirsi della materia data, scaturisce dalla lotta lamanifestazione di un'idea superiore, che supera tutte le precedentipiú imperfette, ma in maniera da lasciarne sussistere l'essenza inuno stato subordinato, e da non appropriarsene che l'analogo;processo, questo, non comprensibile se non in virtù dell'identitàdella volontà che si manifesta in tutte le idee, e della suaaspirazione a un'oggettivazione sempre piú elevata. Abbiamo, adesempio, nella solidificazione delle ossa un fatto evidentementeanalogo alla cristallizzazione che dominava in origine nella calce;sebbene l'ossificazione non sia affatto riducibile allacristallizzazione. Piú debole appare l'analogia nella solidificazionedella carne. Inoltre: il miscuglio dei succhi nel corpo animale, alpari della secrezione, è un analogo della combinazione e separazionechimica; anche qui le leggi chimiche seguitano a valere, masubordinate, modificate e dominate da un'idea superiore; sicché leforze chimiche sole, all'infuori dell'organismo, non potrebbero maiprodurre succhi simili; ma«Encheiresin naturae nennt es die Chemie;@ Spottet ihrer selbst undweiss nicht wie.@» (11)L'idea di grado superiore che sorge dalla vittoria sulle idee odoggettivazioni inferiori della volontà, viene ad assumere, per ilfatto stesso che trae dalle idee vinte un quid analogo elevato apotenza superiore, un carattere completamente diverso; la volontà sioggettiva in maniera nuova e piú comprensibile; allora sorgono, primaper generatio aequivoca, poi per assimilazione al germe esistente, ilsucco organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Cosí, dalla lotta tra ifenomeni inferiori, scaturisce il fenomeno superiore che li inghiottetutti, ma che in pari tempo realizza la loro aspirazione verso ungrado piú elevato. Qui dunque regna già la legge espressa dallaformula: serpens, nisi serpentem comederit, non fit draco.Sarei lieto d'esser riuscito a dissipare, con la chiarezzadell'esposizione, l'oscurità delle idee inerenti a questa materia; mavedo bene che la riflessione propria del lettore dovrà essermi divalido aiuto se non voglio essere frainteso o addirittura incompreso.Conformemente al punto di vista indicato, si potranno di certocostatare nell'organismo le tracce di ogni sorta di attività fisichee chimiche; tuttavia non sarà mai possibile spiegarlo con quelle,perché l'organismo non è un fenomeno risultante dall'azione combinatadi queste forze, un prodotto accidentale; ma è un'idea superiore cheha soggiogato tutte le altre idee inferiori con una assimilazionetrionfante; l'unica volontà che si oggettiva in tutte le idee,tendendo sempre alla piú alta oggettivazione possibile, abbandonaqui, dopo il conflitto, i gradi inferiori del suo fenomeno, perapparire in modo tanto piú energico in un gradino superiore. Nessunavittoria senza battaglia; l'idea o l'oggettivazione piú alta dellavolontà, mentre non può prodursi che vincendo le inferiori, deve pursostenere la resistenza di queste ultime; le quali, benché ridotte inservitù, aspirano sempre a manifestare la propria essenza in modocompleto e indipendente. Come la calamita che ha sollevato un ferroimpegna un'assidua lotta col peso (il quale, in quanto oggettivazioneinfima della volontà, ha un diritto originario sulla materia delferro) - lotta in cui il magnete si fortifica, poiché la resistenza

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdel ferro lo eccita a moltiplicare gli sforzi -, parimenti ognifenomeno della volontà, compreso quello che si manifestanell'organismo umano, deve sostenere una lotta perpetua contro lenumerose forze fisiche e chimiche che in qualità di idee inferioriaccampano un diritto piú antico sulla stessa materia. Ecco perché ilbraccio ricade dopo che si è tenuto alzato per qualche temposuperando la resistenza del peso; ecco anche perché il sentimentopiacevole della salute, che esprime la vittoria dell'ideadell'organismo autocosciente sulle leggi fisiche e chimiche dominantiin antecedenza i succhi del corpo, subisce tuttavia delleinterruzioni cosí frequenti: e per di piú è sempre accompagnato da uncerto malessere piú o meno sensibile, risultante dalla resistenza diqueste forze, ed a causa del quale la parte vegetativa della nostravita è costantemente affetta da una leggera sofferenza. Cosí ancora èpossibile spiegare come la digestione deprima tutte le funzionianimali, impegnando tutta la forza vitale per vincere, mediantel'assimilazione, le forze naturali chimiche. Da ciò deriva, infine,anche il peso della vita fisica, la necessità del sonno, e in ultimodella morte, poiché le forze naturali soggiogate, favorite finalmentedalle circostanze, strappano all'organismo, stancato dalle sue stessecontinue vittorie, la materia che esso aveva loro sottratta, earrivano a manifestare senza piú ostacolo alcuno la propria natura.Si può anche dire, dunque, che l'organismo non rappresenti l'idea dicui è l'immagine, se non dopo sottratta la porzione di forza che fuadibita a vincere le idee inferiori che gli contendono la materia.Sembra che di questa verità avesse un vago sentimento Jakob Böhme,quando affermò che i corpi degli uomini e degli animali, ed anchedelle piante, sono tutti semimorti. L'organismo, nella misura in cuiriesce piú o meno completamente a trionfare sulle forze naturaliesprimenti i gradi inferiori di obiettità della volontà, riesce anchenella stessa misura all'espressione piú o meno perfetta della suaidea, si avvicina piú o meno all'ideale, che nella sua specie incarnala bellezza.Nella natura vediamo dunque dappertutto lotta, conflitto ealternativa di vittoria; la qual cosa ci servirà in seguito acostatare piú chiaramente il dissenso della volontà con se stessa.Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all'altro lamateria, lo spazio e il tempo. La materia deve nella sua permanenzacambiare perpetuamente di forma, poiché i fenomeni meccanici, fisici,chimici e organici, diretti dalla causalità e facentisi ressaimpetuosa per giungere a manifestarsi, se la contendono avidamente,per poter manifestare ciascuno la sua idea. Questa lotta si puòcostatare in tutta la scala della natura: ed anzi, la natura stessanon è che una lotta: "ei gàr mè hên tò neîkos en toîs prägmasin, hcnàn hên häpanta, hws fésin §empedöklûs" (nam si non inesset in rebuscontentio, unum omnia essent, ut ait Empedocles. Arist' Metaph' B',5): ora questa lotta non è che la manifestazione del dissensoessenziale della volontà con se stessa. Questo conflitto universalesi rivela in modo piú eloquente nel mondo degli animali, che si nutredel mondo vegetale ed in cui ogni individuo è nutrimento e predadell'altro; in altri termini: ogni animale deve cedere la materia incui si rivelava la sua idea, affinché un altro possa giungere a suavolta ad una sua propria rappresentazione; infatti un essere viventenon può mantenersi in vita se non a spese di un altro: la volontà divivere si nutre della sua propria sostanza e fa di sé in diverseforme il suo nutrimento. Infine la specie umana, che giunse asoggiogare tutte le altre, considera la natura come una creazioneistituita per suo uso e consumo; e nondimeno anch'essa, come vedremonel quarto libro, ci manifesta con spaventosa evidenza la medesimalotta, il medesimo dissenso della volontà; donde il detto: homohomini lupus. Intanto possiamo riconoscere l'identico conflitto,l'identica dominazione, nei gradi inferiori di oggettità dellavolontà. Parecchi insetti (specialmente gli icneumoni) depongono leloro uova nella pelle, e persino nel corpo delle larve di altriinsetti, la cui lenta distruzione sarà la prima opera del germe chene verrà fuori. Il giovane polipo a tentacoli che cresce dal vecchioa guisa di ramo, e piú tardi se ne separa, lotta già con quello,mentre ancora vi aderisce, per la preda che si fa innanzi; l'uno

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtstrappandola dalla bocca dell'altro (Trembley, Polypod' Ii, pag' 110,e Iii, pag' 165). L'esempio piú sorprendente del genere ci è datodalla formicamastino (bulldogant) che si trova in Australia; se lasi taglia in due, si impegna subito una lotta fra la testa e la coda:la prima afferra con le sue mandibole la seconda, e questa si difendebravamente col suo pungiglione: la lotta di solito dura una mezz'ora,fino a che i due litiganti non muoiono o non vengono separati daaltre formiche. Il fatto si rinnova ogni volta. (Da una lettera diHowitt nel W' Journal, riprodotta nel Messenger di Galignani, 17novembre 1855.) Sulle rive del Missouri accade sovente di vedere unaquercia enorme talmente avviluppata, incatenata e allacciata neltronco e nei rami da una gigantesca vite selvatica, che finisce permorire come soffocata. Altrettanto accade nei gradi piú bassi dellanatura, come ad esempio quando per assimilazione organica l'acqua eil carbonio si cambiano in succo vegetale, oppure la pianta e il panein sangue; in genere dappertutto, dove si produca la secrezioneanimale costringente le forze chimiche a un'attività subordinata.Cosí anche nel regno inorganico, allorché ad esempio due cristalli invia di formazione si incontrano, si incrociano e si ostacolano avicenda, in modo da non poter piú assumere la forma cristallina aciascuno di essi originaria; quasi tutte le druse offrono l'immaginedi questa lotta della volontà in un grado così basso della suaoggettivazione; come pure quando il magnete impone al ferro il suomagnetismo per realizzare anche lì la sua idea; oppure quando ilgalvanismo trionfa sulle affinità chimiche, dissolvendo le piústabili combinazioni e sopprimendo le leggi chimiche al punto che loione acido di un sale decomposto al polo negativo deve passare alpolo positivo senza potere in alcun modo combinarsi con il compostoalcalino che è costretto ad attraversare, e senza neppure arrossareil girasole posto sulla sua via. Il fenomeno si riproducemacroscopicamente nella reazione tra un corpo celeste centrale e ilsuo pianeta; quest'ultimo, sebbene in assoluta dipendenza dal primo,pure gli resiste costantemente, alla maniera delle forze chimichenell'organismo, donde la perpetua tensione tra la forza centripeta ela forza centrifuga, che mantiene il movimento nel sistemadell'universo, ed è anch'essa un'espressione della lotta universaleche noi studiamo, lotta essenziale a tutti i fenomeni della volontà.Siccome ogni corpo deve essere considerato come un fenomeno dellavolontà, e questa si manifesta necessariamente come aspirazione, lostato primitivo di ogni corpo celeste conglobato in sfera non puòallora in alcun modo esser la quiete, ma il movimento, la tendenza aprocedere innanzi nello spazio infinito senza tregua e senza un puntodi mira. Il che non contraddice né la legge d'inerzia né quella dicausalità. Infatti, poiché in virtù della prima di queste leggi, lamateria è come tale indifferente al riposo e al movimento, il suostato primitivo può essere l'uno come l'altro; se dunque la troviamoin movimento, non abbiamo alcun diritto di supporle uno statoantecedente di quiete, né di cercare la causa del movimento iniziale;come viceversa, trovandola in quiete, nulla ci autorizza ad ammettereun movimento anteriore, e ad escogitare delle cause per cui siacessato. Non c'è dunque alcun motivo da cercare un primo impulso allaforza centrifuga; questa, secondo l'ipotesi di Kant e di Laplace, ènei pianeti un residuo della rotazione primitiva del corpo celestecentrale dal cui moto accentratore vennero separati. Il corpocentrale, invece, è mobile per sua essenza; continua sempre aruotare, a percorrere lo spazio infinito; o forse circola intorno adun corpo centrale piú grande invisibile a noi. Questi cenni sono inperfetto accordo con l'ipotesi astronomica dell'esistenza di un solecentrale, e con la costatazione effettiva del graduale spostamentodel sistema solare, fors'anche di tutto il gruppo di stelle cuiappartiene il sole: fatto da cui si può concludere un movimentogenerale di tutte le stelle fisse insieme col sole centrale. Un talmovimento, nello spazio infinito, perde ogni significato (perchénello spazio assoluto il movimento non si distingue punto dallaquiete); si viene così, come già si è visto per l'aspirare o per ilcorrere senza scopo, ad esprimere quel nulla, quella mancanza difinalità ultima, che la fine di questo libro ci farà riconoscere comeinerenti alle aspirazioni della volontà, in qualsivoglia delle sue

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmanifestazioni concrete. Da ciò deriva anche il fatto che lo spazioinfinito e il tempo infinito debbono costituire le forme piú generalie piú essenziali dell'insieme di tutti i fenomeni, in cui vieneespressa l'intera essenza della volontà. La lotta, osservata fratutte reciprocamente le manifestazioni della volontà, possiamoriconoscerla fin anche nel campo della materia pura e semplice cometale, in quanto l'essenza del suo fenomeno venne bene spiegata daKant come una forza di attrazione e di repulsione: sicché la suaesistenza si risolve in una lotta fra forze antitetiche. Se facciamoastrazione da ogni differenza chimica nella materia, o ci immaginiamodi potere, nella catena delle cause e degli effetti, retrocedere finoa quando ancora non fosse apparsa nessuna differenza chimica, non ciresta che la semplice materia: il mondo conglomerato in una sfera, lacui vita, il cui grado di oggettivazione della volontà, non consisteche in una lotta fra la forza di attrazione e quella di repulsione;la prima, sotto forma di gravità, tendente da ogni lato verso ilcentro; la seconda, in forma d'impenetrabilità, contrastante la primasia come rigidità, sia come elasticità; questa qualità di spinta eresistenza può esser considerata come l'oggettivazione della volontànei gradi piú bassi, e già ne esprime il carattere.Abbiamo visto che la volontà si mostra nel suo infimo gradino comeun cieco slancio, come un impulso misterioso ed oscuro, privo di ogniconoscenza immediata. E' questa la piú semplice e la piú debole dellesue oggettivazioni. Come impulso cieco e come sforzo incosciente lavolontà si rivela pure in tutta la natura inorganica, in tutte leforze primitive, che è compito della chimica e della fisica indagaree studiare nelle loro leggi, e di cui ciascuna si manifesta inmilioni di fenomeni tutti simili e tutti egualmente regolari, senzala minima traccia di carattere individuale, semplicementemoltiplicati dal tempo e dallo spazio, cioè dal principiumindividuationis, come un'immagine viene moltiplicata dalle faccettedi un vetro.La volontà, benché si oggettivi sempre piú distintamente a mano amano che si eleva di grado in grado, pure anche nel regno vegetale(dove il legame tra i fenomeni è lo stimolo, e non piú la semplicecausa) opera in modo inconscio e sotto forma di forza cieca; lostesso nella parte vegetativa del fenomeno animale, nella produzionee nello sviluppo di ogni essere vivente e nel mantenimento della suaeconomia interiore, dove sono sempre gli stimoli quelli chedeterminano necessariamente i fenomeni. I gradi sempre piú salientidi oggettità della volontà conducono infine al punto in cuil'individuo, che rappresenta l'idea, non potrebbe piú procurarsi, colsemplice movimento per via di stimolo, il nutrimento che deveassimilare; poiché lo stimolo è causale, bisogna attenderel'occasione che si presenti, mentre la nutrizione è cosa ben distintae determinata; la molteplicità sempre crescente dei fenomeni dà luogoa un tale tumulto e a una tale confusione, che i fenomenis'impediscono a vicenda; e il caso, da cui deve aspettare il cibol'individuo che fosse in balía di semplici stimoli, non è piúabbastanza favorevole. Perciò l'animale, fin dall'istante in cui si èdistaccato dall'uovo o dal seno materno in cui vegetavainconsciamente, dev'essere in grado di cercare e di scegliere il suocibo. Di qui la necessità del movimento determinato da motivi, eperciò della conoscenza, che interviene a questo grado dioggettivazione della volontà come un aiuto, una «mûçané»indispensabile alla conservazione dell'individuo e alla propagazionedella specie. Essa si manifesta come rappresentata dal cervello o daun grosso ganglio, allo stesso modo con cui ogni altra tendenza odeterminazione della volontà che si oggettiva è rappresentata da unorgano, ossia si manifesta alla rappresentazione nella forma di unorgano. (12)Ma con l'apparire di questo aiuto, di questa «mûçané», sorge oraimmediatamente il mondo come rappresentazione, con tutte le sueforme, oggetto e soggetto, tempo, spazio, pluralità e causalità. Ilmondo ora manifesta il suo secondo aspetto: era finora semplicevolontà, ed è - adesso - insieme rappresentazione, ovvero oggetto delsoggetto conoscente. La volontà, che sino a questo punto perseguivale sue tendenze nella tenebra in modo sicuro e infallibile, ora,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtgiunta a questo grado, si è munita di una fiaccola divenutale mezzonecessario per rimuovere lo svantaggio risultante dal numerostragrande e dalla natura complicata dei suoi fenomeni, specie diquelli di grado piú elevato. La sicurezza, la regolarità infallibilecon cui procedeva nella natura puramente inorganica e vegetativa,risultava dal fatto che qui operava da sola, nella sua essenzaprimitiva, come cieco impulso, come volontà, senza l'aiuto, ma anchesenza il disturbo recatole da un mondo nuovo e diverso, dal mondodella rappresentazione; il quale, benché sia un'immagine dellavolontà, possiede un'altra natura affatto diversa, ed ora intervienenella connessione dei suoi fenomeni. Cessa con questo fattol'infallibile sicurezza della volontà. L'animale è già espostoall'apparenza, all'illusione. Ma non ha che rappresentazioniintuitive; privo di concetti, privo di riflessione, è impigliato nelpresente e non volge l'occhio all'avvenire. Sembra che questaconoscenza sprovvista di ragione non sia in molti casi sufficiente alsuo scopo e che abbia talvolta bisogno di un aiuto; ci si offreinfatti il fenomeno assai curioso che l'attività cieca della volontàe quella illuminata dalla conoscenza invadono in maniera sorprendenteciascuna il dominio dell'altra, in tutte e due le specie dimanifestazioni. In un primo caso, tra gli atti degli animali guidatidalla conoscenza intuitiva e dai motivi che ne derivano, ne troviamoalcuni che ne sono sprovvisti, e vengono quindi compiuti con lanecessità di una volontà cieca; alludo qui agli istinti per così diredi produzione i quali, benché non guidati né da un motivo né da unaconoscenza, pure han tutta l'apparenza di compiere le loro opere invirtú di motivi astratti e razionali. L'altro caso, antitetico alprimo, è quello in cui viceversa la luce della conoscenza penetra nellaboratorio della volontà cieca ed illumina le funzioni vegetativedell'organismo umano; è questo il caso della chiaroveggenzamagnetica. Finalmente, dove la volontà sia pervenuta al sommo gradodella sua oggettivazione, la conoscenza di cui gli animali sonosuscettibili - conoscenza di cui sono debitori all'intellettoassimilante il dato del senso, e da cui non si ottengono che sempliciintuizioni legate all'attualità presente - non è piú in modo alcunobastante; l'uomo, questa creatura complicata, multilaterale,plasmabile, sovraccarica di bisogni ed esposta ad innumerevolilesioni, doveva, per poter sussistere, essere illuminato da unadoppia conoscenza; alla semplice intuizione doveva aggiungersi, percosì dire, una potenza piú elevata di conoscenza intuitiva, unariflessione di questa; in una parola, la ragione, con tutto il suopatrimonio di concetti astratti. Con la ragione si affaccia lariflessione che abbraccia la vista del passato e dell'avvenire, inseguito la meditazione, la preoccupazione, la facoltà di agire conprevidenza e indipendentemente dall'attualità presente, e infine lacoscienza piena ed intera della decisione della volontà come tale.Abbiamo visto poco fa che con la conoscenza intuitiva era già nata lapossibilità dell'apparenza e dell'illusione, che portava seco lasoppressione dell'infallibilità primitiva nell'agire incoscientedella volontà, e le rendeva così necessario l'aiuto dell'istinto edella tendenza al produrre, come manifestazioni incoscienti delvolere fra quelle accompagnate da conoscenza. Con l'intervento dellaragione, questa sicurezza, questa infallibilità (che all'altroestremo, nella natura inorganica, si manifesta con rigorosaregolarità) è quasi del tutto perduta, l'istinto scomparecompletamente, la circospezione che ora deve rimediare a tutto (comeabbiamo visto nel I libro), produce l'esitazione e l'incertezza; lapossibilità dell'errore sorge e impedisce in molti casi l'adeguataoggettivazione della volontà per mezzo di atti. Infatti, nonostantela volontà abbia già preso nel carattere una direzione determinata einvariabile secondo la quale si manifesta in maniera infallibileall'occasione dei motivi, tuttavia l'errore può falsare le sueestrinsecazioni, in quanto motivi illusori si introducono con forzaal posto dei motivi veri e li annientano. (13) Tale è ad esempio ilcaso in cui la superstizione suggerisce dei motivi immaginari chespingono l'uomo a un modo d'agire radicalmente opposto a quello incui la volontà si manifesterebbe in identiche circostanze. Agamennonesacrifica sua figlia: un avaro prodiga elemosine per puro egoismo,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnella speranza che un giorno gli vengano rese al centuplo, e cosívia.La conoscenza in generale, sia razionale, sia puramente intuitiva,scaturisce dunque dalla volontà e costituisce l'essenza dei gradi piúalti della sua oggettivazione come una pura «mûçané», come un puromezzo di conservazione dell'individuo e della specie, al pari di ognialtro organo del corpo. Destinata in origine al servizio dellavolontà e alla realizzazione dei suoi disegni, le si conserva quasicontinuamente subordinata; cosí in tutti gli animali e in quasi tuttigli uomini. Vedremo tuttavia nel terzo libro come in alcuni uomini laconoscenza arrivi ad affrancarsi da questa servitú, scuota da sé ognigiogo e, libera da tutti gli interessi della volontà, possasussistere puramente in sé, come terso specchio del mondo: ed è cosìappunto che nasce l'arte. Infine, nel quarto libro, vedremo comequesta specie di conoscenza, quando reagisca sulla volontà, possaspingerla alla propria soppressione, ovvero alla rassegnazione, che èlo scopo finale, anzi l'interiore essenza di ogni virtú e di ognisantità, e la vera liberazione dal mondo.

Par' 28. - Abbiamo studiato la grande quantità e varietà difenomeni in cui la volontà si oggettiva; anzi, abbiamo visto la lorolotta perpetua e implacabile. Tuttavia il complesso delle nostreconsiderazioni ci ha fatto costatare che la volontà stessa, lavolontà come cosa in sé, non è in alcun modo affetta da talemolteplicità né da tale diversità. La varietà delle idee(platoniche), cioè dei gradi di oggettivazione, la infinitàd'individui in cui ciascuna di quelle si manifesta, la lotta delleforme per la materia, tutto ciò non tocca la volontà, per il fattoche non è altro che il modo del suo oggettivarsi, e soltanto in talesenso ha con la volontà una relazione mediata, in virtù della qualecostituisce per la rappresentazione l'espressione della sua essenza.Come una lanterna magica ci mostra mille immagini diverse, restandopur sempre unica la sorgente luminosa che le rende visibili, cosìnella molteplicità dei fenomeni che l'uno accanto all'altronell'estensione spaziale riempiono il mondo o successivamente sielidono nel rapido evolversi degli avvenimenti, una e identica è lavolontà che si manifesta: volontà la cui visibilità, la cui obiettitàè il tutto, e che resta sempre immutabile in seno a tutte levariazioni; essa sola è la cosa in sé; ogni oggetto èrappresentazione: in linguaggio kantiano, fenomeno. Benché come idea(platonica) la volontà trovi la sua piú decisa e piú perfettaoggettivazione nell'uomo, pure quest'idea sola non basterebbe adesprimere l'essenza dell'uomo stesso. L'idea dell'uomo, permanifestarsi in tutto il suo valore, aveva bisogno di non appariresola e distaccata, ma di essere accompagnata da tutta la scaladiscendente dei vari gradi della natura, attraverso le forme animalied il regno vegetale, fino all'inorganico; tutti questi gradi ches'integrano a vicenda in una perfetta oggettivazione della volontàsono presupposti dall'idea dell'uomo, come le foglie, i rami, iltronco e le radici son presupposti dal fiore; costituiscono unapiramide al cui vertice sta l'uomo. Chi ama le similitudini potrebbeanche dire: il loro fenomeno accompagna quello dell'uomo con lastessa necessità con cui la luce piena è accompagnata da tutte legradazioni insensibili delle penombre attraverso le quali finisce perperdersi nell'oscurità. Possiamo chiamarli anche l'eco dell'uomo edire: l'animale e la pianta sono la quinta e la terza minoredell'uomo; il regno inorganico è la sua ottava inferiore. Ma laverità di quest'ultimo paragone non ci risulterà ben evidente finchénon avremo nel prossimo libro cercato di approfondire il significatodella musica. Vedremo allora che la melodia, che procede incatenatasu toni elevati ed agili, si deve in certo senso considerare come lacoerenza dalla riflessione messa nella vita e nei desideri dell'uomo,mentre al contrario gli accompagnamenti non incatenati e il bassodall'andatura grave, che creano l'armonia indispensabile alcompletamento della musica, rappresentano il resto della naturaanimale e incosciente. Ma di ciò si parlerà piú per esteso in altroluogo, dove non ci si potrà piú accusare di paradosso. Questamedesima necessità interna della serie graduale dei fenomeni della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvolontà, inseparabile da un'oggettivazione adeguata della volontàmedesima, la ritroviamo egualmente nell'insieme di questi fenomeni,espressa come necessità esterna: è la necessità, per cui l'uomo, permantenersi in vita, ha bisogno degli animali (che, per una serie digradi, necessitano l'uno dell'altro) e delle piante (che hanno a lorovolta bisogno del suolo, dell'acqua, degli elementi chimici e delleloro combinazioni, del pianeta, del sole, della rotazione del primo edella sua rivoluzione attorno al secondo, dell'obliquitàdell'eclittica ecc'). Infine tutto ciò risulta evidente dal fatto chela volontà deve essere autosufficiente, e cioè nutrirsi di se stessa,perché nulla esiste esternamente a lei, ed essa è una volontàaffamata: donde la caccia, l'ansietà e la sofferenza.Come la conoscenza dell'unità della volontà quale cosa in sé inmezzo alla varietà e molteplicità infinita dei suoi fenomeni, cioffre l'unica e vera spiegazione dell'analogia meravigliosa edincontestabile tra tutte le produzioni della natura e di quellasomiglianza di famiglia che ce le fa considerare come variazioni diun medesimo tema non dato; in pari modo la conoscenza chiara eprofonda dell'armonia, dell'essenziale connessione fra tutte le particostitutive dell'universo, della necessità di gradazione di cui s'èdetto, ci aprirà una intuizione vera e soddisfacente sull'essenzaintima e sul significato dell'innegabile finalità dei prodottinaturali organici, finalità che anzi ammettiamo a priori nellatrattazione e nell'analisi della natura organica.Questa finalità riveste due caratteri: da un lato è interna, e sipresenta come disposizione armonica delle parti di un organismounico, ordinata in modo che la conservazione dell'organismo e dellaspecie ne risulti, e si riveli come il fine ultimo dell'ordinamento.D'altro lato è finalità esterna, ossia una relazione della naturainorganica con la natura organica in generale, oppure delle singoleparti della natura organica tra loro, che rende possibile laconservazione dell'insieme di queste ultime, o di specie distinte dianimali; donde la conclusione che tale relazione sia un mezzo perconseguire un tal fine.La finalità interiore si riconnette con le nostre considerazioninel modo seguente. Se, in conformità di quanto si è detto, la varietàdelle forme della natura e la pluralità degli individui nonappartiene alla volontà, ma soltanto alla sua oggettità e allarelativa forma di questa, ne risulta necessariamente che la volontà èindivisibile e presente tutta intera in ogni fenomeno, benché i gradidella sua oggettivazione, le idee (platoniche) siano moltodifferenti. Possiamo, per facilitare la comprensione, considerarequeste diverse idee come atti isolati e semplici della volontà, neiquali la sua essenza si pronunzia con piú o meno forza; alloragl'individui saranno alla loro volta manifestazioni delle idee (ossiadi tali atti), nel tempo, nello spazio e nella pluralità. Un taleatto (o idea), ai gradi inferiori dell'oggettità conserva la suaunità anche nel fenomeno; ai gradi superiori ha invece bisogno, perpotersi manifestare, di tutta una serie di stati e di sviluppi neltempo, l'insieme dei quali è una condizione sine qua non perl'espressione completa della sua essenza. Cosí ad esempio, l'idea chesi manifesta in una forza naturale qualunque, ha sempreun'espressione semplice, benché variabile secondo le relazioniesterne; o non si potrebbe neppure provarne l'identità: la provainfatti non può farsi che per la eliminazione delle differenze dovuteunicamente alle relazioni esteriori. Il cristallo non ha che un'unicamanifestazione di vita, la cristallizzazione, che alla sua voltatrova un'espressione perfetta e compiuta nella forma rigida, cadaveredella sua vita momentanea. La pianta esprime l'idea, di cui èfenomeno, non piú in una sola volta e con un'unica manifestazione, macon uno sviluppo successivo dei suoi organi nel tempo. L'animale nonsoltanto sviluppa similmente il suo organismo in una successione diforme non di rado molto differenti (metamorfosi), ma questa formastessa, benché già rappresenti oggettità della volontà in quel grado,pure non è sufficiente a dare una espressione completa della suaidea: la quale trova piuttosto la pienezza della sua realizzazionenegli atti dell'animale, ove il suo carattere empirico, identico pertutta la specie, si esprime, dando per la prima volta la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmanifestazione completa dell'idea, supposto come base un determinatoorganismo. Nella specie umana ciascun individuo ha il suo carattereempirico particolare (vedremo anzi nel Iv libro che si arriva, conl'autoannullamento di tutta la volontà, persino alla soppressionetotale del carattere della specie). Ciò che per il suo necessariosviluppo nel tempo, e quindi per il suo frazionamento in azioniisolate, viene riconosciuto come carattere empirico, costituisce,facendo astrazione da questa forma temporale del fenomeno, quello cheKant chiama, con espressione sua, carattere intelligibile. Con l'averposto tale distinzione e con l'avere stabilita la relazione fralibertà e necessità, ossia propriamente fra la volontà come cosa insé e il suo fenomeno nel tempo, Kant diede una prova luminosa del suomerito immortale. (14) Il carattere intelligibile coincide conl'idea, o piú propriamente con l'atto originario di volontà che simanifesta nell'idea: in tal senso, non soltanto il carattere empiricodi ogni uomo, ma anche quello di ogni specie animale, anzi di ognispecie vegetale, e persino quello di ogni forza primitiva dellanatura inorganica, si deve considerare come la manifestazione di uncarattere intelligibile, e cioè di un atto della volontà,indivisibile ed esistente fuori del tempo. Vorrei qui di sfuggitamettere in risalto l'ingenuità con cui la pianta, mediante lasemplice forma, manifesta ed esprime il suo carattere, la sua naturao la sua volontà; perciò le fisionomie delle piante destano un vivointeresse. L'animale invece, per essere conosciuto nella sua essenza,esige uno studio dei suoi atti e dei suoi costumi; l'uomo, infine, vastudiato ben a fondo e deve esser messo alla prova, perché la ragionelo rende quanto mai capace di fingere. L'animale è piú ingenuodell'uomo nella stessa misura in cui la pianta è piú ingenuadell'animale. Nell'animale vediamo però la volontà di vivere in certoqual modo piú a nudo che non nell'uomo, dove essa è mascherata datante sovrastrutture conoscitive e velata cosí bene dalla capacità difingere, che la sua vera essenza non può trasparire se non a caso edin particolarissimi momenti. Nelle piante, la volontà si svelacompletamente, ma in maniera assai meno intensa, e come pura e ciecatendenza a vivere, senza un fine, senza un disegno. La pianta infattiesibisce tutto il suo essere a prima vista: la sua innocenza nonsoffre in nulla dal fatto che gli organi della riproduzione ripostipresso gli animali nelle parti piú nascoste, fan libera mostra di séalla cima. Questo candore della pianta è dovuto al suo esser priva diconoscenza; non già nel volere, ma nel volere cosciente è il peccato.Ogni pianta parla immediatamente della sua patria, del suo clima edella natura del terreno da cui essa è scaturita; sicché, il piúinesperto riconosce facilmente se la tal pianta esotica appartengaalla zona tropicale o alla temperata, se cresca nell'acqua o nellapalude, nel monte o nella landa. La pianta esprime inoltre la volontàparticolare della sua specie, raccontando qualche cosa chenessun'altra lingua saprebbe esprimere. Ma veniamo ad applicarequanto si è detto allo studio teleologico dell'organismo dal punto divista della sua finalità interna. Poiché nella natura inorganical'idea, che si deve considerare dappertutto come un unico atto divolontà, non si manifesta che in un'estrinsecazione unica e sempreuguale, si può dire in conseguenza che il carattere empiricopartecipa direttamente dell'unità del carattere intelligibile, sicchél'uno e l'altro in certo modo coincidono, e non possono dar luogo adalcuna finalità interna. Dal momento che invece gli organismiesprimono la loro idea mediante una serie di svolgimenti successivicondizionati da una molteplicità di parti differenti spazialmentedisposte l'una accanto all'altra, il carattere intelligibile non saràespresso in ciascuna manifestazione dell'empirico, ma soltanto dallatotalità delle manifestazioni. Da ciò peraltro non deriva il fattoche la necessaria giustapposizione di parti e la successione disviluppi sopprimano l'unità dell'idea che si manifesta e dell'atto divolontà che si estrinseca, anzi, al contrario, questa unità trovaormai, nella relazione delle parti e nella concatenazione causalereciproca degli sviluppi, la sua vera espressione. La volontà una,indivisibile e sempre in accordo con se stessa, è quella che simanifesta nella totalità dell'idea come in un atto unico; bisognadunque che il suo fenomeno, sebbene disseminato in una moltitudine di

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparti e di stati differenti, mostri nondimeno la sua unità mediantela costanza dell'accordo; e ciò avviene in virtù di una relazione ed'una dipendenza necessaria di tutte le parti fra loro, in virtùdella quale è possibile ristabilire nel fenomeno l'unità dell'idea.Perciò vediamo le diverse parti e funzioni dell'organismo servirsireciprocamente l'una dell'altra come mezzi e come fini, mentrel'organismo è il fine ultimo di tutte. Così, mentre da un latol'idea, che in se stessa è semplice, si dissemina in una pluralità diparti e di stati organici, dall'altro trova ristabilita la sua unitàdalla relazione necessaria di tutte le sue parti e funzioni, in virtúdella quale esse diventano causa ed effetto, ossia mezzo e fine.Tutto ciò non tocca punto la volontà che si manifesta nell'idea né lacosa in sé, ma si riferisce unicamente ed essenzialmente al suomanifestarsi nel tempo, nello spazio e nella causalità (semplicimodalità del principio di ragione, della forma del fenomeno). Lospezzarsi e il ricostituirsi in unità da parte dell'idea nonappartiene al mondo come volontà, ma soltanto al mondo comerappresentazione; cioè al processo con cui la volontà, nel dettogrado di oggettivazione, diviene oggetto, ossia rappresentazione. Chiha ben penetrato il senso della nostra esposizione forse non facile,potrà ora intendere con esattezza la dottrina di Kant, che lafinalità del mondo organico, come anche la regolarità del mondoinorganico, sono introdotte nella natura dal nostro intelletto, equindi appartengono unicamente al fenomeno, ma non alla cosa in sé.L'ammirazione (di cui è detto sopra) suscitata in noidall'infallibile costanza e regolarità della natura inorganica, ènella sua essenza identica a quella che ci è suggerita dalla finalitàdella natura organica; poiché ciò che in ambedue i casi ci sorprendeè il vedere l'unità originaria dell'idea, che per manifestarsi harivestito la forma della pluralità e della diversità. (15)Abbiamo finora parlato della finalità interna: per quanto riguardala seconda specie di finalità, la finalità esterna (la quale non simanifesta nell'economia interna degli organismi, ma nel sostegno enell'aiuto esteriore che gli organismi hanno dalla natura inorganicao ricevono gli uni dagli altri), tale finalità trova anch'essa la suaspiegazione generale nella precedente esposizione, poiché il mondointero con tutti i suoi fenomeni è l'oggettità di una volontà unica eindivisibile; è l'idea che sta alle altre idee come l'armonia staalle voci isolate; quindi l'unità della volontà deve manifestarsianche nell'accordo di tutti i fenomeni tra loro. Ma possiamo elevarele nostre intuizioni a maggiore chiarezza esaminando piú da vicino lemanifestazioni della finalità esterna e dell'accordo tra le diverseparti della natura; questo esame getterà in pari tempo una lucemaggiore sull'esposizione precedente. Il miglior metodo per riuscirein questo studio è di considerare la seguente analogia.Il carattere di ogni singolo uomo, in quanto individuale e non deltutto compreso nel carattere della specie, può essere consideratocome un'idea particolare corrispondente ad un atto speciale dioggettivazione della volontà. L'atto medesimo sarebbe allora il suocarattere intelligibile, di cui il carattere empirico non è che ilfenomeno. Il carattere empirico è completamente determinato dalcarattere intelligibile, il quale è volontà, volontà senza ragione,ossia volontà non sottomessa, in quanto cosa in sé, al principio diragione. Il carattere empirico deve, nel corso dell'esistenza,fornire l'immagine del carattere intelligibile, e non può prendereuna piega diversa da quella che l'essenza di quest'ultimo esige.Tuttavia la determinazione si estende soltanto a quanto nel corsodella vita cosí regolata c'è di essenziale; non agli elementiaccessori. Fra questi ultimi è da riporre la piú precisadeterminazione degli atti e degli avvenimenti costituenti; la materiain cui il carattere empirico si manifesta. Gli atti vengonodeterminati da circostanze esteriori, che presentano i motivi, su cuireagisce (in modo conforme alla sua natura) il carattere. Siccometali motivi possono essere molto diversi, ne segue che la formaesteriore della manifestazione del carattere empirico, e cioè laconfigurazione precisa della vita nella serie dei fatti o nellastoria, anch'essa prenderà una diversa direzione secondo la loroinfluenza. La configurazione può assumere le forme piú svariate,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsebbene la parte essenziale del fenomeno, il suo contenuto, permangasempre identico; così per esempio non è cosa che intacchi l'essenzail sapere se un tale giuochi a noci o a corone; ma sapere se ingannioppure se giuochi onestamente, ecco un dato essenziale; il secondofatto dipende dal carattere intelligibile, il primo è dovuto soltantoa circostanze esterne. Come un tema unico si può presentare in millevariazioni, analogamente il medesimo carattere unico si può tradurrein mille forme diverse di vita. Ma per quanto sia varia l'influenzaesterna, il carattere empirico che si manifesta nel corso della vita,oggettiverà sempre esattamente, in qualunque modo esso possadispiegarsi, il carattere intelligibile, conformando la suaoggettivazione alla materia offerta dalle circostanze attuali delmomento. Ebbene, noi dobbiamo ammettere qualcosa di analogo al dettoinflusso delle circostanze esterne sul corso della vita (determinatorelativamente alla sua essenza dal carattere), se vogliamo farciun'idea chiara del come la volontà, nell'atto originario della suaoggettivazione, determini le diverse idee nelle quali si oggettiva,cioè le varie forme delle creature di ogni specie tra cui divide lasua oggettivazione; creature che debbono quindi avere relazionireciproche nei loro fenomeni. Dobbiamo ammettere che fra tutte questemanifestazioni della volontà unica si sia prodotto un adattamento, unaccordo generale reciproco; escludendo però (come si vedrà meglio inseguito) da questo fatto ogni determinazione temporale, perché l'ideaè fuori del tempo. Dunque ogni fenomeno si dovette adattare allecircostanze in cui appariva, e viceversa le circostanze al fenomeno,sebbene questo occupasse nel tempo un posto molto piú recente, edappertutto troviamo questo consensus naturae. La pianta è adattataal suo terreno e al suo clima, l'animale al suo elemento e alla predadi cui farà suo cibo: è anche, in certo modo e in certa misura,protetto contro i propri nemici naturali; l'occhio è adattato allaluce e alla sua rifrangibilità, il polmone ed il sangue all'aria, lavescica natatoria all'acqua, l'occhio della foca al cambiamento delmezzo visivo, le cellule acquifere dello stomaco del cammelloall'aridità dei deserti africani, la vela del nautilo al vento chedeve spingere la sua navicella, e cosí di seguito, sino ai piúspeciali e meravigliosi esempi di finalità esteriori. (16) Ma intutto ciò si deve astrarre da ogni relazione temporale: la relazionedi tempo, infatti, concerne soltanto il fenomeno dell'idea, nonl'idea in se stessa. Possiamo dunque dare a questo metodo dispiegazione un valore retroattivo, ed ammettere non soltanto che ognispecie si sia adattata alle circostanze preesistenti ma inoltre chele circostanze preesistenti abbiano esse stesse avuto riguardo agliesseri che sarebbero venuti un giorno. La volontà, che si oggettivanel mondo intero, essendo una e identica, non conosce il tempo; ilquale, come forma del principio di ragione, non ha valore né per lavolontà né per la sua oggettità originaria (le idee), ma concernesoltanto la maniera in cui queste vengono riconosciute dagliindividui destinati a perire, ossia il fenomeno delle idee. Cosí,nelle presenti considerazioni sul modo con cui l'oggettivazione dellavolontà si spezza nelle idee, la successione temporanea non hasignificato alcuno; le idee, che si manifestarono per le prime (invirtú della legge di causalità, che ne domina le manifestazioni), nonper questo hanno alcun privilegio di fronte a quelle i cui fenomeniapparvero piú tardi; anzi: le seconde costituiscono oggettivazioni diun grado piú elevato della volontà, cui le oggettivazioni precedentidovettero adattarsi, come a loro volta le piú recenti si adattanoalle precedenti. Cosí il corso dei pianeti, l'inclinazionedell'eclittica, la rotazione della terra, la partizione deicontinenti e dei mari, l'atmosfera, la luce, il calore e tutti ifenomeni analoghi, che sono in natura quello che è in armonia ilbasso fondamentale, si adattarono previdentemente alle future speciedi esseri viventi che dovevano sostenere e mantenere. E il suolo siadattò al nutrimento delle piante, queste al nutrimento deglianimali, questi al nutrimento di altri animali, e viceversa. Tutte leparti della natura s'incontrarono, poiché una sola è la volontà chesi manifesta in ciascuna; e la successione temporale è del tuttoestranea alla sua oggettità primitiva, alla sola che sia adeguata, (17)cioè alle idee. Ancor oggi, quando cioè le specie non hanno piú da

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnascere, ma solo da conservarsi, vediamo ancora qua e là questaprevidenza della natura che si estende fino all'avvenire, facendoquasi astrazione dalla successione temporale; è una specie diaccomodamento di ciò che ora esiste a ciò che verrà. Cosí l'uccellotesse un nido ai piccoli che non conosce ancora; il castorocostruisce una casa la cui destinazione gli è ignota; la formica, ilcriceto, l'ape, radunano provviste per l'inverno che ignorano; ilragno, il formicaleone costruiscono con calcolata astuzia tranelliper una preda sconosciuta, gli insetti depongono le uova dove ilfuturo nato troverà il suo futuro alimento. Quando, al tempo dellafioritura, il fiore femmina della Valisneria spiralis svolge dal suostelo le spire che sino a quel momento la tennero immersa in fondoall'acqua, ed emerge alla superficie, nello stesso momento il fioremaschio si strappa dal corto stelo su cui cresce in fondo all'acqua,e facendo sacrificio della sua vita, sale alla superficie; giuntovi,comincia a nuotare intorno al fiore femmina finché non lo trova, equesto, non appena fecondato, contrae di nuovo le sue spire e siritrae verso il fondo, ove il frutto avrà il suo sviluppo. (18) Debboqui ricordare di nuovo anche la larva del cervo volante maschio, chescavando il suo buco nel legno, in vista della metamorfosi, lo fadoppio di quello della femmina, perché vi sia il dovuto spazio allecorna future. L'istinto degli animali ci fornisce insomma la migliorespiegazione per la teleologia del resto della natura. Infatti, comel'istinto è un agire simile a quello che segue un concetto di fine,pur essendo del tutto privo di tale concetto, cosí ogni formazione dinatura sembra fatta secondo la nozione di un fine, che pure le restadel tutto estraneo. Nella teleologia della natura, tanto in quellaesteriore che in quella interiore, ciò che dobbiamo concepire comemezzo e fine è sempre e soltanto la manifestazione (appropriata allanostra maniera di conoscere nel tempo e nello spazio) dell'unitàdella volontà che nei detti limiti è concorde con se stessa.Ma questo adattamento, questo accomodamento reciproco dei fenomenirisultante dalla loro unità, non riesce a placare il conflitto di cuipoco fa dicevamo: conflitto che si traduce in una lotta universaledella natura e che è altresí inerente all'essenza della volontà.L'armonia non oltrepassa il limite in cui essa è necessaria allasussistenza del mondo e delle sue creature, che senza di leisarebbero già da lungo tempo perite. E perciò si limita ad assicurarela conservazione della specie e delle condizioni generalid'esistenza, non quella degli individui. Se dunque, grazie aquest'armonia ed a questo accomodamento, le specie del regno degliorganismi, e nel mondo inorganico le forze generali della natura,esistono le une accanto alle altre e persino si danno reciprocoaiuto, d'altro lato il conflitto interno della volontà oggettivantesiin tutte queste idee, si manifesta nella implacabile guerra disterminio che si fanno a vicenda gli individui di quelle specie,nella lotta perpetua e reciproca dei fenomeni di quelle forze (il cheè già stato da noi in precedenza notato). Il teatro e l'oggetto diquesta lotta è la materia, di cui gli avversari cercano di strapparsia viva forza il possesso; è il tempo e lo spazio, la cui riunionenella forma di causalità costituisce propriamente (come s'è visto nelI libro) la materia. (19)

NOTE:(1) Cfr' cap' 18 del secondo volume.(2) Non condivideremo dunque in nessun modo l'opinione di Bacone diVerulamio il quale sostiene (De augm' scient', l' 4 in fine) chetutti i movimenti meccanici e fisici dei corpi non si verifichino senon in seguito ad una loro antecedente percezione. Tuttavia c'è unvago presentimento di verità nella concezione di questo principio.Altrettanto si dica a proposito di Keplero il quale, nella suadissertazione De planeta Martis, afferma che i pianeti debbono esseredotati di conoscenza per saper ritrovare cosí esattamente la loroorbita ellittica e regolare con tanta precisione la loro velocità,sicché il triangolo della loro superficie di rivoluzione si conservisempre proporzionale al tempo in cui ne percorrono la base.(3) Cfr' cap' 19 del secondo volume.(4) Cfr' cap' 20 del secondo volume, e così nel mio scritto La

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvolontà nella natura, alle rubriche «Fisiologia» e «Anatomiacomparata», dove si è sviluppato per esteso quello che qui è statoappena accennato.(5) Dell'istinto tratta in modo speciale il cap' 27 del secondovolume.(6) Questo punto è completamente stabilito nel mio opuscolo scrittoper concorso sulla Libertà del volere, dove (pagg' 30-44 dei Problemifondamentali dell'Etica, 2a ediz', pagg' 29-41) si trova anche unostudio particolareggiato sulle relazioni fra causa, stimolo e motivo.(7) Cfr' cap' 23 del secondo volume; inoltre, nella mia opera Lavolontà nella natura il capitolo «Fisiologia delle piante», e l'altrocapitolo «Astronomia fisica», che è di capitale importanza per lasostanza della mia metafisica.(8) [«Io so che senza di me viver non può Dio un solo istante:@ seio muoio, Egli deve necessariamente render lo spirito.@»](9) Wenzel, De structura cerebri hominis et brutorum, 1812, cap' 3;Cuvier, Leçons d'anat' comp', leçon 9, art' 4 e 5; Vicq d'Azyr, Hist'de l'acad' d' sc' de Paris, 1783, pagg' 470, 483.(10) Il 16 settembre 1840, nell'Istituto letterario e scientificodi Londra, il signor Pettigrew, mentre teneva una conferenza sulleantichità egiziane, fece vedere alcuni chicchi di grano trovati dasir G' Wilkinson in una tomba di Tebe ove eran dovuti restare pertrenta secoli. Stavano in una vaso ermeticamente chiuso. Il Pettigrewne aveva seminati dodici ottenendone una pianta di cinque piedi dialtezza, i cui semi erano allora perfettamente maturi(«Times», 21settembre 1840). Parimenti alla Società di medicina e di botanica diLondra, nel 1830, il signor Haulton mostrò una radice bulbosa trovatain mano a una mummia d'Egitto: postavi probabilmente con qualcheintenzione religiosa, e quindi non meno di duemila anni fa. Eglil'aveva piantata in un vaso di fiori dove subito era cresciuta everdeggiava(Medical Journal del 1830, citato nel Journal of the RoyalInstitution of Great Britain, ottobre 1830 pag' 196). «Nel giardinodel signor Grimstone, dell'Herbarium di Highgate, a Londra, cresceora un arbusto di piselli in piena fruttificazione, nato da unpisello che il signor Pettigrew e gl'impiegati del British Museumpresero in un vaso che si trovava in un sarcofago egiziano in cuideve essere restato 2844 anni» («Times», 16 agosto 1844). Ma c'èancora di piú: si trovarono rospi viventi dentro pietre calcari; dalche si deduce che persino la vita animale può sopportare unasospensione di secoli, quando questa venga preparata dal sonnoinvernale e trattenuta da circostanze particolari.(11) [«Ma la chimica chiama ciò encheiresin naturae;@ irride sestessa e non sa come.@»](12) Si veda il cap' 22 del secondo volume; e nella mia opera Lavolontà nella natura alle pagg' 54 e segg' e 70-79 della 1a edizione;oppure alle pagg' 46 e segg' e 63-72 della 2a edizione.(13) Ecco perché gli scolastici dicevano con ragione: «Causafinalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum essecognitum». Cfr' Suarez, Disp' metaph', disp' Xxiii, sect' 7 et 8.(14) Si veda Critica della ragion pura: «Soluzione delle ideecosmologiche relative alla totalità della derivazione degliavvenimenti cosmici», pagg' 560-586 della 5a edizione e pag' 532 esegg' della 1a edizione. Vedasi inoltre: Critica della ragionpratica, 4a edizione, pagg' 169-179; edizione Rosenkranz, pag' 224 esegg'; cfr' infine la mia dissertazione Sul principio di ragione,par' 43.(15) Cfr' La volontà nella natura, alla fine del capitolo «Anatomiacomparata».(16) Cfr' La volontà nella natura, al capitolo «Anatomiacomparata».(17) Questa espressione sarà chiarita nel seguente libro.(18) Chatin, Sur la Valisneria spiralis, nei «Comptes rendus del'acad' d' sc'», n' 13, 1855.(19) Si vedano i capitoli 26 e 27 del secondo volume.

Par' 29. - Termino qui la seconda parte del mio lavoro, e spero -per quanto almeno è possibile nella prima esposizione di un pensieronuovo, che non può essere mai del tutto libero dalle tracce personali

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdel suo primo autore - spero, dico, di essere riuscito a ispirare unapiena convinzione che il mondo in cui noi viviamo e siamo è nella suaessenza, per un verso tutto volontà, per l'altro tuttorappresentazione; che la rappresentazione suppone già come tale unaforma, quella dell'oggetto e del soggetto, ed è perciò relativa; cheinfine, se ci domandiamo che cosa resti, facendo astrazione da questaforma e da tutte le subordinate espresse dal principio di ragione, untale residuo, toto genere differente dalla rappresentazione, non puòesser altro che la volontà, che è dunque la vera cosa in sé. Ciascunoha coscienza di esser egli stesso questa volontà, che è l'intimaessenza costitutiva del mondo; e parimenti ciascuno si riconosce comeil soggetto conoscente di cui il mondo intero è la rappresentazione;il mondo non ha dunque un'esistenza se non in ordine alla coscienzache è il suo sostegno necessario. Cosí, sotto questo dupliceriguardo, ciascuno è il mondo intero, il microcosmo; ciascuno trovale due facce di questo mondo pienamente e completamente in se stesso.E ciò che ciascuno riconosce come propria essenza, esaurisce anchel'essenza del mondo intero, del macrocosmo: anche il mondo, al paridell'uomo, è tutto volontà e tutto rappresentazione, e nulla piú.Vediamo qui la filosofia di Talete, che considera il macrocosmo,confondersi con quella di Socrate che studia il microcosmo: il lorooggetto appare infatti il medesimo. Ma le teorie esposte in questidue primi libri guadagneranno in perfezione e in sicurezza nei duelibri seguenti, dove alcune domande, che al lettore possono essersifin qui presentate con piú o meno chiarezza, troveranno la loroesauriente risposta.E' peraltro nostra intenzione esaminare a parte, sin d'ora, una ditali questioni, in quanto non è ponibile se non da chi non abbia benafferrato lo spirito della nostra esposizione precedente, che saràquindi chiarita dall'esame in discorso. La volontà è sempre volontàdi qualche cosa, dunque ha un oggetto, un fine. Ora: che cosa maivuole, a che cosa mai tende quella volontà, che ci vien presentatacome l'essenza in sé del mondo? La domanda proviene, al pari di tantealtre, dal confondere la cosa in sé con il fenomeno. A questounicamente, ma non a quella, si estende il principio di ragione, unadelle cui modalità è anche la legge di motivazione. Non si può dareuna ragione se non dei soli fenomeni come tali, di cose considerateisolatamente: non mai però della volontà, né dell'idea che n'èl'adeguata oggettivazione. Cosí di ogni movimento isolato, di ognicambiamento in generale nella natura, possiamo cercare una causa, unostato che lo abbia prodotto necessariamente; ma non si può farealtrettanto per la forza naturale in sé che si manifesta in similifenomeni; è un vero non senso, una vera mancanza di riflessione,cercare una causa del peso, dell'elettricità, ecc'. Se si riuscisse adimostrare che il peso e l'elettricità non sono forze naturalioriginarie vere e proprie, ma semplici modalità fenomeniche diun'altra forza piú generale già nota, ci si potrebbe allora domandarein base a quale motivo una tale forza si possa tradurre ora nelfenomeno del peso, e ora in quello dell'elettricità. Tutto ciò inprecedenza è stato ampiamente spiegato. Ogni atto isolatodell'individuo cosciente (fenomeno anch'esso della volontà come cosain sé) esige un motivo necessario, in mancanza del quale non avrebbeavuto luogo. Ma come la causa materiale non determina che il tempo,il luogo e la materia in cui si manifesterà la tale o tal altra forzafisica, cosí anche il motivo non determina nell'atto volontario d'unsoggetto conoscente, se non il tempo, il luogo e le circostanze incui deve prodursi come atto isolato. E' assolutamente impossibile unadeterminazione del fatto che quel soggetto abbia in generale unavolontà, e che voglia proprio in una data maniera; qui si tratta diuna manifestazione del suo carattere intelligibile, il quale essendola volontà stessa, la cosa in sé, non inclusa nel dominio delprincipio di ragione, esclude assolutamente ogni ragione superiore.Cosí ogni uomo ha costantemente fini e motivi che regolano la suacondotta, e sa in ogni caso render conto del suo singolo operato. Madomandategli in maniera generale perché voglia, o perché in generalevoglia esistere: non saprà rispondere, anzi troverà assurda la stessadomanda. E con ciò viene a confessare che ha coscienza di non esserealtro che una volontà, le cui volizioni si comprendono da sé, né

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdunque hanno bisogno di una speciale determinazione per via dimotivi, se non nei singoli atti e nei singoli momenti.L'assenza di ogni finalità e di ogni termine è infatti essenzialealla volontà in sé, che si risolve in uno sforzo senza fine. Questopunto fu già sfiorato quando si parlò della forza centrifuga; ilfatto si rivela, nel modo piú semplice, anche nel grado ultimo dioggettivazione della volontà, e cioè nel peso, il cui sforzocostante, nonostante l'impossibilità di un fine, risulta evidente.Supponiamo infatti per un momento che, in conformità del suo tendere,tutta la materia riuscisse a concentrarsi in un unico blocco: ilpeso, che tende di continuo al centro, impegnerebbe una lottaperpetua con l'impenetrabilità, operante in forma di rigidità o diforza elastica. Lo sforzo della materia è dunque sempre impedito, népuò mai venire soddisfatto. Lo stesso dicasi delle aspirazioniinerenti ad ogni altro fenomeno della volontà. Ogni fine conseguitonon fa che segnare il punto di partenza di un nuovo fine daraggiungere, e cosí all'infinito. La pianta sviluppa in viaascensionale la sua manifestazione dalla gemma, dal tronco e dallefoglie, sino al fiore ed al frutto: il frutto a sua volta è ilprincipio di una nuova gemma, di un nuovo individuo, destinato aripercorrere la vecchia strada; e cosí via, per tutta l'eternità deltempo. Identico è il corso della vita animale: la procreazione è ilsuo culmine: raggiunto questo fine, la vita del primo individuo siestingue piú o meno rapidamente, mentre un essere nuovo garantiscealla natura la conservazione della specie e ricomincia lo stessofenomeno. Il rinnovamento continuo della materia di ogni organismodeve essere similmente considerato come una semplice manifestazionedi questo sforzo e di questo movimento perpetuo; i fisiologi hannosmesso oggi di vedervi un rifornimento necessario della materiaconsumata dal moto, poiché il rendimento possibile della macchina nonpuò in alcun modo equivalere all'affluenza continua dovuta allanutrizione; un eterno divenire, una corsa senza fine, ecco lacaratteristica con cui si manifesta l'essenza della volontà. Di talnatura sono infine gli sforzi e i desideri umani, che ci fannobrillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimodella volontà; ma non appena soddisfatti, cambiano fisionomia;dimenticati, o relegati tra le anticaglie, vengono sempre, lo siconfessi o no, messi da parte come illusioni svanite. Fortunatoabbastanza colui, al quale resti ancora da carezzare qualchedesiderio, qualche aspirazione: potrà continuare a lungo il giuocodel perpetuo passaggio dal desiderio all'appagamento edall'appagamento al nuovo desiderio, giuoco che lo renderà felice seil passaggio è rapido, infelice se lento; ma se non altro non cadràin quella paralizzante stasi che è sorgente di stagnante e terribilenoia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languoremortale. In conclusione: la volontà, quando la conoscenza laillumina, sa sempre quello che vuole in un dato luogo e in un datomomento; ma non sa mai quello che voglia in generale: ogni attosingolo ha un fine; la volontà nel suo insieme non ne ha nessuno.Precisamente quello che avviene in ogni fenomeno naturale; la suaapparizione nel tal luogo e nel tal momento è sempre determinata dauna causa sufficiente; la forza di cui è manifestazione, escludeassolutamente ogni causa, poiché non è altro che un grado difenomenizzazione della cosa in sé, della volontà senza fondamento diragione. La sola coscienza di sé che possegga la volontà in generaleè l'insieme della rappresentazione, la totalità del mondopercepibile; ch'è la sua oggettità, il suo rivelarsi, il suospecchio. Che cosa il mondo esprima in tale qualità, sarà l'oggettodelle nostre ulteriori considerazioni. (20)

NOTE:(20) Cfr' cap' 28 del secondo volume.

Libro terzo:Il mondo come rappresentazione

Seconda considerazione.La rappresentazione considerata

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtindipendentemente dal principiodi ragione. L'idea platonica:l'oggetto dell'arte§tï tò òn mcn aeï, gënesin dc ouk ëçon? kaì tï tò gignömenon mcnkaì apollümenon, öntws dc oudëpote ön?§platwnPar' 30. - Abbiamo nel primo libro considerato il mondo comesemplice rappresentazione, come oggetto per un soggetto: nel secondopoi l'abbiamo studiato secondo un altro punto di vista, e abbiamoscoperto che esso è la volontà, la sola cosa che resti del mondoquando si astragga dalla rappresentazione; in conformità di talecostatazione, abbiamo dato al mondo, sia nel suo insieme sia nellesue parti, il nome di oggettità della volontà; il che significa, inaltre parole, volontà divenuta oggetto, ossia rappresentazione.Ricordiamoci ora che tale oggettivazione della volontà è suscettibiledi gradi numerosi, ma ben definiti, che sono un indice dellanitidezza e della perfezione sempre crescenti con cui l'essenza dellavolontà si traduce nella rappresentazione stessa, ossia si manifestanell'oggetto. In tali gradi abbiamo già riconosciuto le idee diPlatone, dal momento che essi infatti rappresentano le specie bendefinite, o le forme e le proprietà originarie e immutabili, di tuttii corpi naturali organici e inorganici, come anche le forze generaliche si estrinsecano secondo le leggi della natura. Tutte queste ideesi manifestano in un'infinità di individui, di esistenze particolari,che sono semplici copie degli originali. Tale pluralità di individuinon è concepibile che in virtú del tempo e dello spazio: il lorosorgere e perire non si comprendono senza la causalità; in tali formenon riconosciamo se non i differenti modi del principio di ragione,che è il principio ultimo di ogni limitazione, di ogniindividuazione, la forma universale della rappresentazione qualegiunge alla coscienza dell'individuo come individuo. Al contrario,l'idea non è soggetta a questo principio; non conosce né pluralità nécambiamento. L'idea, mentre gli individui in cui si manifesta sonoinnumerevoli e soggetti inesorabilmente al divenire e alla morte,permane invariabilmente unica e identica, sottratta al principio diragione. Ora, siccome questo principio è la forma necessaria di ogniconoscenza del soggetto conoscente individuale, necessariamente leidee saranno del tutto fuori della sfera di conoscenzadell'individuo. La condizione sine qua non affinché le idee divenganooggetto di conoscenza, è la soppressione dell'individualità delsoggetto conoscente. Trattare in modo preciso ed esauriente questoproblema, è l'oggetto dello studio che segue.

Par' 31. - Ma prima di cominciare debbo fare un'osservazioneessenzialissima. Spero d'esser riuscito, nel precedente libro, aconvincere il lettore che ciò che Kant nella sua filosofia chiama lacosa in sé - dottrina di così alto significato, ma oscura eparadossale e che, specie per il modo con cui fu presentata da Kant,ossia mediante un'inferenza dall'effetto alla causa, venne ritenutacome la pietra d'inciampo, anzi come il lato debole della suafilosofia - che la cosa in sé, ripeto, quando per arrivarvi si prendala via ben diversa battuta da noi, non è altro che la volontà, intesanel senso in cui venne allargata e precisata la sfera del suoconcetto. Spero inoltre che, dopo quanto precede, non si esiterà piúa riconoscere nei gradi determinati di oggettivazione di questavolontà che è l'in sé del mondo, ciò che Platone chiamava le ideeeterne o le forme invariabili (eïdû); idee che, riconosciute come ildogma capitale, ma in pari tempo piú oscuro e piú paradossale dellasua dottrina, furono per una lunga serie di secoli oggetto dellemeditazioni, delle dispute, dello scherno e dell'ammirazione di unafolla di pensatori appartenenti alle scuole piú diverse.Se dunque la volontà è la cosa in sé, e l'idea è l'oggettitàdiretta della volontà in un determinato grado, dobbiamo riconoscereche i due grandi ed oscuri paradossi dei due piú grandi filosofid'occidente, la cosa in sé di Kant e l'idea di Platone (che perquest'ultimo è l'unico öntws ön), sono, se non identici, tuttavialegati da una stretta parentela, e non differiscono che per un solocarattere. Questi due grandi paradossi (appunto perché, nonostante la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtloro intima concordanza e parentela, ricevettero dalle individualitàstraordinariamente diverse dei loro autori enunciazioni così diverse)costituiscono il miglior commentario l'uno dell'altro; rassomiglianoinfatti a due vie del tutto distinte, ma che conducono alla stessameta. Ciò si spiega chiaramente in poche parole. Ecco infatti quelloche in sostanza dice Kant: «Il tempo, lo spazio e la causalità nonsono determinazioni della cosa in sé, bensí appartengono soltanto alfenomeno, in quanto non sono che forme della nostra conoscenza. Masiccome ogni pluralità, ogni cominciamento ed ogni fine, non sonopossibili che nello spazio, nel tempo e nella causalità, ne segue chepluralità, cominciamento e fine, appartengono anch'essi al fenomeno enon alla cosa in sé. Ora, essendo la nostra conoscenza condizionatada tali forme, l'esperienza nel suo insieme non è conoscenza che delfenomeno, e non della cosa in sé; le leggi empiriche non hanno per lacosa in sé nessun valore. Questa dottrina si applica persino alnostro proprio io: non lo conosciamo che nel suo fenomeno ma non inquello che può essere in sé». Questo è, sotto l'importante punto divista che ci riguarda, il senso e il contenuto della dottrina diKant. Platone afferma a sua volta: «Le cose di questo mondo, qualisono percepite dai nostri sensi, non hanno alcuna esistenza reale;esse si svolgono in un divenire continuo, ma non posseggono una veraessenza; hanno un'esistenza appena relativa, non esistono che nelleloro scambievoli relazioni e in virtú di queste; il loro essere sipuò dunque a buon diritto chiamare un non essere. Per conseguenza nonpossono costituire oggetto di conoscenza vera e propria (epistémû);nel senso vero della parola, possiamo infatti conoscere soltanto ciòche è in sé e per sé, che resta sempre identico a se stesso; le cosesensibili non sono che l'oggetto di un'opinione occasionata dallasensazione (döxa met' aisôésews alögou). Finché non usciamo dal campodella percezione, siamo simili a uomini al fondo di un'oscura cavernae cosí fortemente legati da non poter neppure volgere il capo; essinon vedono nulla: scorgono soltanto nella parete di fronte, alla lucedi un fuoco che arde alle loro spalle, le ombre delle cose reali chepassano tra loro e il fuoco; e neppur di se stessi e dei lorocompagni posson vedere altro che l'ombra proiettata sulla parete.Tutta la loro sapienza si ridurrebbe a un puro e semplice predire, invirtú dell'esperienza acquistata, l'ordine secondo cui si succedonoquelle ombre. Ma la sola cosa che si possa chiamare veramenteesistente (öntws ön), in quanto sempre è né mai diviene o trapassa,sono i modelli reali riflessi in quelle ombre; sono le idee eterne, iprototipi di tutte le cose. Le idee non conoscono pluralità, poichéciascuna è unica per sua natura, ovvero è l'idea tipo o il modello dicui tutte le cose singole e passeggere dello stesso nome e dellastessa specie sono copie od ombre. Esse sono poi senza inizio e senzatermine: sono infatti ciò che veramente è, né mai divengono operiscono al pari delle loro effimere copie. (Questi due caratterinegativi ci spingono a supporre che il tempo, lo spazio e lacausalità non abbiano alcun senso e alcun valore riguardo alle idee,le quali esisterebbero all'infuori di tali forme.) Soltanto le ideepossono dunque costituire l'oggetto di conoscenza reale, poichéoggetto di tale conoscenza non può essere se non ciò che esistesempre e sotto tutti gli aspetti (ossia in sé), e non ciò che esisteo non esiste, secondo il punto di vista sotto cui lo si considera»:tale è la dottrina di Platone. E' evidente, senz'altra dimostrazione,che il senso profondo delle due dottrine è esattamente il medesimo:entrambe giudicano il mondo sensibile come un'apparenza che non ha insé alcun valore, che possiede un significato e una realtà derivatasolo in virtú di ciò che vi si esprime (la cosa in sé per Kant,l'idea per Platone): questa realtà così espressa, l'unica realtàveramente reale, non ha, secondo ambedue le dottrine, niente a chefare con le forme del fenomeno, senza escludere le piú generali edessenziali. Kant, per negare queste forme, le ridusse immediatamentead espressioni astratte, ed è per questo che dalla cosa in sé separòdirettamente - come semplici forme di fenomeni - lo spazio, il tempoed il principio di causalità. Platone, al contrario, non spinse lasua dottrina fino all'ultima e categorica espressione: egli infattiha mostrato che le sue idee son prive di quelle forme solo in manieraindiretta, rifiutando di attribuire alle idee stesse tutto ciò che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnon è possibile se non per mezzo di tali forme, ossia la pluralità inun'identica specie, la nascita e la morte. In ogni modo, e persovrappiú, voglio con un esempio rendere ancor piú evidente quellanotevole ed interessantissima concordanza. Supponiamo di aver davantiagli occhi un animale in piena attività vitale. Platone dirà: «Questoanimale non esiste in senso vero e proprio; non ha che un'esistenzaapparente in divenire continuo: è un essere relativo che può benchiamarsi tanto essere quanto non essere. Possiede una esistenza verasolo l'idea che in quell'animale si riproduce, ossia l'animale in sé(autò tò ôûrïon), l'animale che non dipende da nulla, ma che esistein sé e per sé (kaô' heautò aeì hws aütws), che non diviene, che nonperisce, ma che si conserva sempre identico a sé (aeì ön, kaìmûdëpote oüte gignömenon, oüte apollümenon). Dal momento che abbiamonell'animale riconosciuto la sua idea, è indifferente e senzasignificato domandarci se abbiamo davanti agli occhi questo stessoanimale o un suo antenato che viveva mille anni fa, se si trovi qui oin qualche terra lontana, se si presenti nella tale o nella tal altramaniera, nella tale o nella tal altra posizione, mentre compie latale o la tal altra azione; se, infine, sia il tale individuo, oppureun altro individuo della sua specie. Tutto ciò non ha importanza, enon concerne che il fenomeno; l'esistenza vera non compete cheall'idea dell'animale: questa sola è oggetto di conoscenza vera».Cosí Platone. Ecco pressappoco quello che direbbe Kant: «Questoanimale è un fenomeno sottoposto al tempo, allo spazio e allacausalità; ora tempo, spazio e causalità sono condizioni a prioridella possibilità dell'esperienza, esistenti unicamente nella nostrafacoltà conoscitiva, ma non sono determinazioni della cosa in sé.Quindi, quest'animale, quale noi lo percepiamo qui ed ora, comeindividuo facente parte della serie dell'esperienza, ossia delconcatenarsi delle cause e degli effetti, e perciò destinatonecessariamente a finire, non è una cosa in sé, ma semplicemente unfenomeno, che non ha valore se non in relazione alla nostraconoscenza. Per poterlo conoscere in ciò che può essere in sé, e cioèindipendentemente dalle determinazioni inerenti al tempo, allo spazioed alla causalità, dovremmo possedere una facoltà di conoscenzadiversa dall'unica di cui disponiamo, costituita dal senso edall'intelletto».Per ravvicinare ancor meglio l'espressione di Kant a quella diPlatone, si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità,costituiscono quella legge del nostro intelletto in virtú della qualel'essere che è propriamente unico, e solo in ogni specie, si presentaa noi come una pluralità di esseri della stessa specie che rinasconoe periscono sempre di nuovo in una successione infinita. Ilcomprendere le cose per mezzo e in conformità di questa leggecostituisce l'appercezione immanente; comprenderle invece con pienacoscienza di causa costituisce l'appercezione trascendentale.Arriviamo a quest'ultima, in abstracto, per mezzo della critica dellaragione pura; ma, in via eccezionale, ci possiamo arrivare ancheintuitivamente. Questa seconda aggiunta è la scoperta mia, ecostituisce l'oggetto che mi sforzerò di spiegar bene nel presentelibro.Se si fosse ben intesa la dottrina di Kant, se si fosse, dopo Kant,ben compreso Platone; se invece di far giuochi d'acrobatismo suitermini tecnici dell'uno e di parodiare lo stile dell'altro, si fossemeditato seriamente e dirittamente sul senso profondo e sullasostanza delle dottrine di questi due grandi maestri, non si sarebbemancato di riconoscere da lungo tempo quanto sia grande l'accordo frai due sapienti, e si sarebbe scoperto che il significato genuino e loscopo vero delle due teorie sono identici. Allora non solo non sisarebbe di continuo paragonato Platone a Leibniz, cui il primo nondiede in realtà soffio ispiratore alcuno; non solo, cosa anchepeggiore, non lo si sarebbe ravvicinato ad una certa persona, bennota ed ancora vivente, (1) quasi per fare un insulto ai Mani delgrande pensatore; ma si sarebbe soprattutto compiuto un progressoassai maggiore, o piuttosto non si sarebbe tornati indietro in modocosì vergognoso, come si è fatto in questi ultimi quarant'anni;nessuno si sarebbe lasciato menare per il naso oggi da un ciarlatano,domani da un altro, né il secolo decimonono, che pur si annunziava

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcosí brillantemente, sarebbe stato inaugurato col rappresentare sullatomba di Kant (come solevano talvolta gli antichi nelle cerimoniefunebri dei loro) certe farse filosofiche che suscitarono le giusterisa delle altre nazioni; simili farse si addicono assai poco alcarattere serio e persino rude dei tedeschi. Ma il pubblico dei verifilosofi è così minuscolo, che persino i secoli sono avari diconceder loro scolari degni di comprenderli. "§eisì, dè narôûkoföroimcn polloï, bäkçoi dë ge pavroi" (Thyrsigeri quidem multi, Bacchivero pauci). "§hû atimïa filosofïa* dià tavta prospëptwken, höti oukat' axïan autês häptontai: ou gàr nöôous ëdei äptesôai, allàgnûsïous" (Eam ob rem philosophia in infamiam incidit, quod non prodignitate ipsa attingunt: neque enim a spuriis, sed a legitimis eratattrectanda.) [Platone.]Si andò dietro ai termini: «rappresentazioni a priori, formedell'intuizione e del pensiero conosciute indipendentementedall'esperienza, concetti originari dell'intelletto puro» ecc', e cisi chiese poi se le idee di Platone, che pretendono anch'esse diessere concetti originari, e per di piú anche reminiscenze diun'intuizione delle cose veramente reali anteriore alla vitapresente, non fossero per avventura la stessa cosa che le formekantiane dell'intuizione e del pensiero, quali risiedono a priorinella nostra coscienza. Così le due dottrine affatto eterogenee -quella di Kant sulle forme che limitano la conoscenza dell'individuoal fenomeno, e quella di Platone sulle idee, idee la cui conoscenzarinnega espressamente tali forme - furono oggetto di un attento esamecomparativo; e siccome, nonostante la loro diametrale opposizione,hanno una certa analogia di parole, si è consultato e discusso sullaloro identità o meno; non trovata tale identità, si finì perconcludere che la teoria delle idee di Platone e la Critica dellaragione di Kant non avevano assolutamente nulla di comune. (2)Ma basta su tale soggetto.

Par' 32. - Dietro alle nostre precedenti considerazioni, dobbiamoriconoscere che, nonostante tutto il profondo accordo fra Platone eKant, nonostante l'identità dello scopo che ambedue avevano in vista,nonostante la concezione del mondo che ispirava e dirigeva le lorospeculazioni filosofiche, l'idea e la cosa in sé non sono tuttaviaassolutamente identiche; l'idea, piuttosto, non è che l'oggettitàimmediata, e quindi adeguata, della cosa in sé, la quale coincide conla volontà; con la volontà in quanto non ancora oggettivata, nonancora divenuta rappresentazione. Infatti, secondo Kant, la cosa insé deve essere spogliata di tutte le forme inerenti alla conoscenzacome tale; ed è un vero e proprio errore di Kant (come dimostreremonell'Appendice) il non aver annoverato tra tali forme quella checonsiste nell'essereoggettoperunsoggetto, poiché questa è laforma prima e piú generale di ogni fenomeno, cioè di ognirappresentazione. Kant avrebbe, dunque, dovuto espressamenterifiutare alla sua cosa in sé la proprietà di essere oggetto; il chelo avrebbe salvato dalla grave inconseguenza che non tardò a scoprirein seno alla sua teoria. L'idea di Platone, al contrario, costituiscenecessariamente un oggetto, una cosa conosciuta, unarappresentazione, ed è appunto, ma unicamente, per tale carattere chesi differenzia dalla cosa in sé. L'idea non è libera se non dalleforme subordinate del fenomeno, da quelle che noi comprendiamo tuttenel principio di ragione; o per meglio dire l'idea non ha ancorafatto sue quelle forme, conservando peraltro la forma prima euniversale, la forma della rappresentazione in generale, quella checonsiste nell'essereoggettoperunsoggetto. Sono invero le formesubordinate alla principale (ed espresse in modo generico dalprincipio di ragione) quelle che moltiplicano l'idea negli individuisingoli e transeunti, il cui numero le è del tutto indifferente. Ilprincipio di ragione è dunque a sua volta la forma che deve rivestirel'idea quando cade nella conoscenza del soggetto in quanto individuo.La cosa particolare, che si manifesta secondo la legge del principiodi ragione, non è dunque se non un'oggettivazione mediata della cosain sé (che è la volontà), e fra l'una e l'altra si trova l'idea, cheè la sola oggettità immediata della volontà, poiché non ha assuntonessun'altra forma della conoscenza, all'infuori di quella della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione in generale, cioè di quella che consistenell'essereoggettoperunsoggetto. Quindi l'idea è anche e essasola l'oggettità piú adeguata della volontà o della cosa in sé: anzi,è tutta la cosa in sé, con l'unica riserva che è sottomessa allaforma della rappresentazione; e qui sta appunto la ragione del grandeaccordo fra Platone e Kant (benché, a rigore, non parlino entrambi diuna stessa cosa). Le cose particolari, al contrario, noncostituiscono per nulla l'oggettità adeguata della volontà; questa èqui già turbata dalle forme di cui il principio di ragione èl'espressione comune, ma che costituiscono la condizione dellaconoscenza nel modo con cui è possibile all'individuo consideratocome tale. Se fosse lecito trarre conclusioni da un'ipotesi assurda,noi non conosceremmo piú cose particolari, non avvenimenti, noncambiamenti, non pluralità, ma concepiremmo soltanto le idee,soltanto i gradi di oggettivazione della volontà unica, della veracosa in sé, e ne avremmo una conoscenza pura da ogni elementoperturbatore; in conseguenza il nostro mondo sarebbe per noi un Nuncstans, se, in qualità di soggetti conoscenti, non fossimo al tempostesso individui, cioè se le nostre intuizioni non avessero perintermediario un corpo che le produce in virtú delle sue affezioni, eche non è esso stesso se non volere concreto, oggettivazione dellavolontà, quindi oggetto tra oggetti; un corpo, che non può arrivarealla coscienza del soggetto conoscente se non in virtú delle formedel principio di ragione, di conseguenza presuppone già e introducedi fatto il tempo e tutte le altre forme espresse da tale principio.Il tempo non è che la visione divisa e spezzata che un individuo hadelle idee, le quali sono fuori del tempo, e quindi eterne; perciòdice Platone che il tempo è l'immagine mobile dell'eternità: "ai#noseikqn kinûtè ho çrönos". (3)

Par' 33. - Siccome noi, come individui, non abbiamo altraconoscenza fuori di quella che è sottoposta al principio di ragione,e siccome d'altra parte questa forma esclude la conoscenza delleidee, ne deriva il fatto che se a noi è possibile elevarci dallaconoscenza delle cose particolari a quella delle idee, ciò non potràavvenire se non a condizione che si operi nel soggetto unamodificazione corrispondente ed analoga a quella che si è prodottanella natura dell'oggetto, e in virtú della quale il soggetto stesso,in quanto conosce un'idea, non sia piú un individuo.Sappiamo dal libro precedente che la conoscenza in generale faparte essa stessa dell'oggettivazione della volontà nei suoi gradisuperiori; che la sensibilità, i nervi, il cervello, al pari di tuttele altre parti dell'essere organico, sono l'espressione della volontàin questo grado della sua oggettità; che in conseguenza larappresentazione che ne deriva è ugualmente destinata al serviziodella volontà, come mezzo (mûçané) per conseguire fini che sonoattualmente ben piú complicati (polutelestëra) e per conservare unessere dai molteplici bisogni. In origine dunque, e secondo la suaessenza, la conoscenza è tutta al servizio della volontà e, comel'oggetto immediato, che diviene mediante l'applicazione della leggedi causalità, il punto di partenza della conoscenza, non è altro chevolontà oggettivata; cosí anche ogni conoscenza risultante dalprincipio di ragione conserva una relazione piú o meno vicina con lavolontà. L'individuo infatti vede il suo corpo come un oggetto traaltri oggetti, a ciascuno dei quali è unito da nessi e da relazionimolteplici nate dal principio di ragione; la considerazione di questioggetti deve dunque, in via piú o meno indiretta, ricondurre sempreal suo corpo, e quindi alla sua volontà. Siccome il principio diragione è quello che mette gli oggetti in tale relazione con ilcorpo, e per il suo tramite con la volontà, ne segue che laconoscenza, intrinsecamente subordinata alla volontà, cerchi diconoscere negli oggetti esclusivamente le relazioni stabilite dalprincipio di ragione, cioè le molteplici relazioni di spazio, ditempo e di causalità. Poiché questo è l'unico punto di vista in cuil'oggetto è interessante per l'individuo, ossia conserva unarelazione con la volontà, cosí la conoscenza, che è soggetta allavolontà, non conosce degli oggetti se non le relazioni; non liconcepisce che in quanto esistono in un dato tempo, in un dato luogo,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtin date circostanze, in virtú di date cause, insieme a dati effetti,ecc': in una parola, non li riconosce se non come oggetti singoli.Soppresse tutte queste relazioni, anche gli oggetti svanirebbero:infatti, fuori di tali relazioni, altro non vi si può riconoscere.Non dobbiamo dimenticarci che tutto quanto le scienze consideranonelle cose, si riduce essenzialmente a quanto abbiamo detto, e cioèalle relazioni di tempo, di spazio, alle cause dei cambiamentifisici, alla comparazione delle forme, ai motivi degli avvenimenti:in una parola, a pure relazioni. Ciò che distingue le scienze dalsapere volgare è unicamente la loro forma, l'organizzazionesistematica, la facilitazione della conoscenza ottenuta sintetizzandoper subordinazione di concetti il particolare nel generale, e lacompletezza in tal modo raggiunta della conoscenza medesima. Larealtà d'ogni relazione è relativa; ogni esistenza è, ad esempio neltempo, anche una nonesistenza, perché il tempo è in definitivasoltanto ciò che permette a un identico oggetto di possederedeterminazioni opposte; quindi ogni fenomeno finisce per diventare -sempre nel tempo - anche un nonessere; ciò infatti che separa il suoprincipio dalla sua fine non è precisamente se non il tempo, cioèqualcosa di essenzialmente fuggitivo, inconsistente e relativo,chiamato qui durata. Ma il tempo è la forma piú generale di tutti glioggetti della conoscenza in quanto serva della volontà, e il tipooriginario di tutte le altre forme.In regola generale: la conoscenza resta sempre serva della volontà;anzi questo è il suo destino, per cui è nata; la conoscenza sorgesulla volontà come la testa sul tronco. Nei bruti, l'asservimentodella conoscenza alla volontà non può venir mai eliminato. Presso gliuomini, sí; ma soltanto a titolo di eccezione, come ora megliovedremo. Tale differenza fra l'uomo e il bruto, o animale, trova lasua espressione fisica esteriore nella differenza di relazione fra ilcapo e il tronco. Negli animali inferiori le due parti sono ancoraben saldate insieme: in tutti la testa è prona a terra, dove trovagli oggetti della sua volontà; anche negli animali superiori la testae il tronco son molto piú uniti che nell'uomo. Nell'uomo la testa èliberamente piantata sul corpo: ne è sostenuta senza pur esserneasservita. Questo privilegio umano è personificato sul grado piúeminente nell'Apollo del Belvedere: il capo del dio delle Muse ha unosguardo cosí maestoso e si erge così libero sulle spalle, che sembradel tutto svincolato dal corpo quasi senza piú preoccuparsene.

Par' 34. - Il passaggio dalla conoscenza comune delle coseparticolari a quella delle idee, possibile, come si è detto, masempre di natura eccezionale, si produce bruscamente. La conoscenzasi affranca dal servizio della volontà; il soggetto cessa con ciò diessere puramente individuale, e diviene il soggetto conoscente puro elibero dalla volontà; non si preoccupa piú allora di andar dietroalle relazioni fondate sul principio di ragione, ma si riposa e siassorbe nella contemplazione profonda dell'oggetto che gli è dinanzi,e lo contempla in sé, al di fuori delle sue correlazioni con altrioggetti.Ciò ha bisogno, per esser ben compreso, di un esame esplicativo:prego il lettore di non lasciarsi sconcertare da quello che troveràdi strano in tale esposizione; ogni sorpresa, ogni dubbio svanirannoquando si sarà afferrato nel suo insieme il concetto animatore ditutta l'opera mia.Quando, elevandosi con la forza dell'intelligenza, l'uomo rinunciaalla maniera volgare di considerar le cose: quando cessa di cercare,alla luce del principio di ragione, le sole relazioni degli oggettifra loro, relazioni che in ultima analisi non si risolvono che nellarelazione di tali oggetti con la nostra volontà; quando, in tal modo,non si preoccupa piú del dove, del quando, del come e del perchédelle cose, ma unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono;quando non permette piú che la sua coscienza sia invasa da pensieriastratti e da concetti di ragione, ma consacra invece tutta la forzadel suo spirito all'intuizione, vi si sprofonda tutto; quando riempietutta la sua coscienza della contemplazione tranquilla di qualcheoggetto naturale presente, paesaggio, albero, roccia, edificio, o diqualsiasi altra cosa, e, secondo un'espressiva frase tedesca, si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtperde completamente in quest'oggetto, dimentica cioè il suoindividuo, la sua volontà, e non sussiste piú se non come soggettopuro, come limpido specchio dell'oggetto (sicché l'oggetto sembriesistere da solo, senza nessuno che lo percepisca, e non sia piúpossibile separare il percipiente dal percepito, ma entrambi siconfondano in una sola cosa, in una coscienza totalmente piena ecompresa di un'immagine intuitiva unica); quando infine l'oggettoviene in tal modo a spogliarsi da ogni relazione con altro, e ilsoggetto da ogni relazione con la volontà, allora ciò che vienconosciuto non è piú la cosa particolare come tale, ma è invecel'idea, la forma eterna, l'oggettità immediata della volontà in queldato grado; e colui che è rapito in tale contemplazione, non è piúindividuo (l'individuo è annientato dalla contemplazione), ma assurgea soggetto conoscente puro, a soggetto che è di là dal dolore, di làdalla volontà, di là dal tempo. Questa mia affermazione, che orasembra così paradossale (e conferma, lo so bene, l'aforisma di ThomasPaine: «Du sublime au ridicule il n'y a qu'un pas»), diverrà inseguito man mano piú chiara, e perderà buona parte della suastranezza. Non diverso, del resto, era il pensiero di Spinoza, quandoscriveva: «Mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specieconcipit» (Eth' V' pr' 31, schol'). (4)In una tale contemplazione la cosa particolare diviene ad un trattol'idea della sua specie, e l'individuo percipiente si eleva asoggetto conoscente puro. L'individuo come tale non conosce se noncose particolari: il soggetto conoscente non conosce che idee.L'individuo, infatti, non è che il soggetto conoscente in relazionecon una data manifestazione singola della volontà, e rimane sempre alservizio della volontà. Questa manifestazione particolare dellavolontà è soggetta come tale al principio di ragione in tutte le sueforme; quindi anche ogni conoscenza che la riguardi si conforma alprincipio di ragione: d'altronde, per il servizio della volontà nonc'è altra conoscenza adatta all'infuori di quella che ha per suounico oggetto le relazioni. L'individuo conoscente come tale, e lacosa particolare conosciuta, esistono sempre in un dato luogo, in undato tempo, e sono tanti anelli nella catena delle cause e deglieffetti. Il soggetto conoscente e il suo correlato, l'idea, sonoliberi da tutte queste forme del principio di ragione: il tempo, lospazio, l'individuo conoscente, l'individuo conosciuto, non hanno piúsignificato alcuno. Solo nel momento in cui l'individuo conoscenteassurge nella maniera ora descritta a soggetto puro della conoscenzae trasforma in quell'istante l'oggetto considerato in idea; soltantoallora il mondo come rappresentazione appare puro ed intero; soltantoallora si realizza la perfetta oggettivazione della volontà, proprioperché l'idea è la sua unica adeguata oggettità. L'idea include in sécontemporaneamente e oggetto e soggetto, come costituenti la suaforma unica; ma tra i due termini c'è perfetto equilibrio; comeinfatti l'oggetto non è che la rappresentazione del soggetto, cosíanche il soggetto, mentre si assorbe tutto nella contemplazionedell'oggetto, si identifica con l'oggetto medesimo, in quanto la suacoscienza non si riduce allora se non ad esserne la piú limpidaimmagine. Questa coscienza, in quanto possiamo concepire dipercorrere successivamente col suo lume la serie completa delle ideeo dei gradi di oggettità della volontà, costituisce in senso vero eproprio tutto il mondo come rappresentazione. Le cose particolari, inqualsiasi tempo e in qualsiasi luogo sussistano, non sono altro chele idee rese multiple dal principio di ragione (forma conoscitivadell'individuo come tale) e offuscate nella loro oggettità pura. Comenell'idea il soggetto e l'oggetto non si distinguono piú l'unodall'altro, perché il loro perfetto fondersi per reciprocamentecompletarsi è appunto la condizione sine qua non che fa sorgerl'idea, l'oggettità adeguata della volontà, il mondo comerappresentazione; cosí nella conoscenza particolare l'individuoconoscente e l'individuo conosciuto restano, come cose in sé,inseparabili. Poiché, se facciamo astrazione completa dal mondo comerappresentazione, altro non resta che il mondo come volontà. Lavolontà costituisce l'in sé dell'idea, che è la sua perfettaoggettivazione; e costituisce anche l'in sé della cosa particolare edell'individuo che la conosce, i quali non ne sono che una

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtoggettivazione imperfetta. La volontà come tale, ossiaindipendentemente dalla rappresentazione e dalle sue forme, è una eidentica, cosí nell'oggetto contemplato, come nell'individuo, che,assurgendo a tale contemplazione, acquista coscienza di se stessocome soggetto puro: l'oggetto in sé e il soggetto in sé nondifferiscono quindi l'uno dall'altro, poiché in sé altro non sono senon la volontà che diviene conscia di se stessa, la pluralità e ladifferenziazione non sono altro che la maniera in cui tale volontàviene a conoscersi, ed esistono soltanto nel fenomeno, in virtú dellasua forma che è il principio di ragione. Come senza un oggetto, senzauna rappresentazione, io non sono un soggetto conoscente, ma unasemplice volontà cieca, cosí senza di me, soggetto conoscente, lacosa conosciuta non può essere oggetto, ma resta semplice volontà,impulso cieco. Questa volontà è in sé, all'infuori dellarappresentazione, una e identica con la mia; la separazione fraindividuo conoscente e individuo conosciuto non si opera che nelmondo della rappresentazione, la cui forma è sempre, per lo meno,quella di soggetto ed oggetto. Soppressa la conoscenza, soppresso ilmondo come rappresentazione, altro non resta che pura volontà eimpulso cieco. Se la volontà si oggettiva e diviene rappresentazione,abbiamo a un tratto e il soggetto e l'oggetto: se questa oggettità èun'oggettità pura, perfetta, adeguata, l'oggetto sarà posto come idealibera dalle forme del principio di ragione, e il soggetto diverrà ilsoggetto puro della conoscenza, libero da ogni individualità e dallaschiavitú della volontà.Colui che in tal modo si sprofonda e si perde nella contemplazionedella natura, cosí da non esistere piú se non a titolo di soggettoconoscente, sentirà immediatamente di essere, in quanto tale, lacondizione, il sostegno del mondo e di ogni esistenza oggettiva;poiché quest'esistenza oggettiva non si presenterà piú, da questomomento in poi, se non come dipendente dall'esistenza sua. Egliattira a sé la natura, e non la sente piú se non come un accidentedel suo proprio essere. Ecco il senso in cui dice Byron:«Are not the mountains, waves and skies a part@ Of me and of mysoul, as I of them?@» (5)E colui che porta con sé tale sentimento, come potrebbe, incontraddizione con l'immortale natura, creder se stesso assolutamentetransitorio? No; si sentirà piuttosto penetrato della parola delleUpanisad nei Veda: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeterme aliud ens non est» (Oupnek'hat, I, 122). (6)

Par' 35. - Per arrivare a un'intuizione piú profonda dell'essenzadel mondo è assolutamente indispensabile imparare a distinguere inprimo luogo la volontà come cosa in sé dalla sua oggettità adeguata ein secondo luogo i differenti gradi di chiarezza e perfezione di taleoggettità, ossia le idee, dalla semplice manifestazione delle ideenelle varie forme del principio di ragione, e nelle modalità dellalimitata conoscenza individuale. Allora non si potrà che esserd'accordo con Platone, il quale non attribuisce una realtà vera epropria se non alle idee, mentre alle cose che sono nello spazio enel tempo, a quello che per l'individuo è il mondo reale, non accordache l'esistenza dell'apparenza e del sogno. Allora si arriverà acomprendere come l'idea una e identica si manifesti in cosíinnumerevoli fenomeni, e non riveli il suo essere all'individuoconoscente, se non a frammenti e una faccia dopo l'altra. E siarriverà anche a distinguere l'idea dalla maniera in cui il suofenomeno cade nell'appercezione dell'individuo; si riconoscerà laprima come l'essenziale, e nella seconda non si vedrà chel'accidente. Chiariremo questo punto con alcuni esempi salendo daicasi piú semplici sino ai piú spiccati. Consideriamo delle nubifuggenti nel cielo: le loro figure non fan parte della loro essenza,sono del tutto indifferenti; ma che il vento le raccolga e ledisperda, le dilati e le squarci, questa è la loro natura di vaporeelastico, l'essenza delle forze che vi si oggettivano, l'idea; mentrele figure accidentali non esistono che per l'individuo che osserva.Per il ruscello che scorre giú fra i sassi i gorghi, le increspaturee gli spruzzi, i capricci delle schiume che vediamo alla superficie,sono cose affatto indifferenti e non essenziali, ma l'ubbidire alla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlegge di gravità, il comportarsi come liquido anelastico,perfettamente mobile, amorfo, trasparente, questa è la sua essenza,questa è, se si ricorre alla conoscenza intuitiva, la sua idea; lealtre formazioni esistono soltanto per noi, che le conosciamo comeindividui. Il ghiaccio si depone sui vetri delle finestre secondo leleggi della cristallizzazione, che rivelano l'essenza della forzanaturale attiva in tale fenomeno, e rappresentano quindi l'idea; magli alberi e i fiori che i cristalli disegnano sul vetro, hanno uncarattere puramente accidentale, non esistono che per noi. Ciò che simanifesta nelle nubi, nel rivo e nel cristallo, non è che l'eco piúdebole di quella volontà che s'afferma con perfezione maggiore nellapianta, con perfezione anche maggiore nell'animale, con perfezionemassima nell'uomo. In ciascuno di questi gradi, peraltro, l'ideaconsiste soltanto in ciò che vi è di essenziale; il suo sviluppo, chesi effettua secondo le forme del principio di ragione, e produce ifenomeni molteplici e vari non è essenziale all'idea, non esiste chenella conoscenza dell'individuo, e non è reale che per questo. Laverità medesima vale necessariamente anche per lo sviluppo di quellaidea, che della volontà costituisce l'oggettità piú perfetta: inconseguenza la storia del genere umano, l'incalzare degli eventi, ilcambiamento dei tempi, le forme della vita umana, cosí diverse colvariare dei luoghi e dei tempi, tutto ciò non è che la formaaccidentale del fenomeno dell'idea; nessuna di tali determinazioniparticolari appartiene all'idea, che sola costituisce l'oggettitàadeguata della volontà; fanno tutte parte del solo fenomeno soggettoalla conoscenza dell'individuo; tali determinazioni sono all'ideacosí estranee, inessenziali e indifferenti, come alle nubi le figureche vi appaiono, al ruscello la forma dei gorghi e delle schiume, eal ghiaccio le sue arborescenze.Per chi abbia compreso bene tutto ciò, per chi sappia distinguerela volontà dall'idea, e l'idea dal suo fenomeno, il significato verodegli avvenimenti è quello d'essere un alfabeto che permette dileggere l'idea dell'uomo; mentre in sé e per sé non hanno alcunvalore. Allora non si crederà piú, come fa l'uomo del volgo, che iltempo possa generare qualcosa di veramente nuovo e di veramenteimportante; che nel tempo e per via del tempo qualcosa possaattingere ad una realtà assoluta; non si attribuirà piú al tempo,come a un tutto, un principio e una fine, un disegno e unosvolgimento; né, seguendo il concetto volgare, si assegnerà come fineallo scorrere del tempo il piú alto perfezionamento del genere umano,che è l'ultimo venuto su questa terra, e in cui la vita mediaindividuale non oltrepassa i trent'anni. Né si terrà dietro ad Omeronell'istituire un Olimpo di dèi destinati a dirigere gli avvenimentidella storia, come non si terrebbe dietro ad Ossian nel prendere percreature umane le figure delle nuvole; come si disse, i due generi difenomeni hanno un medesimo significato rispetto all'idea che vi simanifesta. Nelle molteplici forme della vita umana, e nell'incessantemutare degli avvenimenti, non si considererà come permanente edessenziale se non l'idea; l'idea, in cui la volontà di vivere haraggiunto il piú alto grado di oggettità; l'idea, che mostra le suefacce differenti nelle qualità, nelle passioni, negli errori e nellevirtú del genere umano, nell'egoismo, nell'odio, nell'amore, neltimore, nell'audacia, nella leggerezza, nella stupidità, nellafinezza, nello spirito, nel genio, ecc'; tutto ciò, combinato efissato in mille forme diverse (individui), spinge incessantementeinnanzi la grande e la piccola storia del mondo, grande commedia, incui è affatto indifferente se ciò che mette in moto gli attori sianodelle noci o delle corone. Si verrà infine a scoprire che nel mondoavvengono fatti che son gli stessi di quelli che compaiono nei drammidel Gozzi, dove sono presenti sempre gli stessi personaggi, con lestesse passioni, con lo stesso destino; i motivi e gli avvenimenticambiano, è vero, nei vari drammi, ma lo spirito degli avvenimenti èperaltro sempre il medesimo. E come le persone di un dramma non sannonulla dei precedenti in cui rappresentarono pure la loro parte; cosí,nonostante le esperienze dei drammi anteriori, Pantalone non ètuttavia piú abile né piú generoso di prima, Tartaglia non ha unoiota in piú di coscienza, Brighella non piú di coraggio, né Colombinadi moralità.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtSe, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nelregno della possibilità e sulla completa catena delle cause e deglieffetti, lo Spirito della terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in unquadro gli uomini più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi chefurono rapiti dal destino prima che l'ora delle rispettive missionifosse suonata. Ci mostrerebbe i grandi avvenimenti che avrebberocambiato aspetto alla storia del mondo e arrecato ere di luce e disuprema civiltà, se il caso piú cieco e l'accidente più futile non liavessero soffocati sul nascere. Ci parlerebbe infine delle grandiforze di grandi personalità, che sarebbero bastate a fecondare di séun intero ordine di secoli, ma che, o traviate dall'errore e dallepassioni o incalzate dal bisogno, applicarono senza profitto i lorotalenti a cose inutili o indegne, o li sciuparono per un puro esemplice divertimento. A tale spettacolo noi raccapricceremmo, epiangeremmo i tesori perduti da tante generazioni. Ma lo Spiritodella terra ci direbbe allora con un sorriso «La sorgente da cuiscaturiscono gl'individui e le loro forze è inesauribile e infinitacome il tempo e lo spazio; poiché, al pari del tempo e dello spazio,che sono le forme di ogni fenomeno, gli individui non sono chefenomeno, semplice visibilità della volontà. Nessuna misura finitapuò esaurire quella sorgente infinita: tutti gli avvenimenti e tuttele opere soffocate sul nascere hanno ancora e sempre l'eternitàintera dinanzi per potersi riprodurre. In questo mondo del fenomeno èimpossibile parlare di vera e assoluta perdita, come di vero assolutoguadagno. Soltanto la volontà esiste; la volontà, cosa in sé, esorgente di tutti quei fenomeni. La coscienza che la volontà prendedi sé, l'autoaffermazione o l'autonegazione che si decide a trarne,ecco il solo avvenimento in sé». (7)

Par' 36. - La storia segue il filo degli avvenimenti; è prammaticain quanto deduce i fatti secondo la legge di motivazione, chedetermina i fenomeni della volontà illuminata dalla conoscenza. Per igradi inferiori della sua oggettità, in cui la volontà agisce ancoraincoscientemente, alla storia sottentra la scienza della natura, che,in quanto etiologia, studia le leggi del variare dei fenomeni: e inquanto morfologia prende ad oggetto le forme permanenti dei fenomenistessi, e semplifica la sua materia quasi infinita con l'aiuto deiconcetti, raccogliendo i caratteri generali per poterne dedurre iparticolari. Finalmente la matematica studia le semplici forme in cuile idee ci appaiono come fenomeni multipli, per poter divenireoggetto di conoscenza da parte del soggetto: cioè lo spazio e iltempo. Tutti questi rami del sapere, costituenti nel loro insieme lascienza, sono dunque soggetti alle varie forme del principio diragione, senza oltrepassare mai la cerchia del fenomeno, delle sueleggi, delle sue dipendenze e delle sue relazioni. Quale sarà dunquela specie di conoscenza in cui sia contemplato il vero essenziale delmondo, nel suo sussistere all'infuori e indipendentemente da ognirelazione, la vera sostanza dei suoi fenomeni, ovvero ciò che non èsoggetto a cambiamento, e che viene perciò conosciuto con una veritàche rimane identica in ogni tempo, quale sarà, in una parola, laspecie di conoscenza in cui siano contemplate le idee, che sonol'oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà?Questa speciale conoscenza è l'arte, l'opera del genio. L'arteconcepisce con la pura contemplazione, e riproduce poi, le ideeeterne, cioè tutto quello che vi è di essenziale e di permanente intutti i fenomeni del mondo; a seconda poi della materia che impiegaper questa riproduzione, prende il nome di arte figurativa (oplastica), di poesia o di musica. La sua origine unica è laconoscenza delle idee; il suo unico fine, la comunicazione di taleconoscenza. La scienza, obbedendo alla corrente sempre incalzantedelle cause e degli effetti nelle loro quattro forme, ad ognirisultato raggiunto si trova sospinta sempre più avanti; non conosceun termine ultimo che le conceda una piena soddisfazione (tantovarrebbe voler raggiungere correndo il punto in cui le nubi toccanol'orizzonte). L'arte, al contrario, ha dappertutto il suo termine:strappa dalla corrente, che trascina le cose del mondo, l'oggettodella sua contemplazione, ponendolo isolato dinanzi a sé;quest'oggetto, che nel vortice della corrente non figurava se non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcome una particella fuggitiva evanescente, diviene agli occhidell'arte il rappresentante del tutto, l'equivalente dellamolteplicità infinita nel tempo e nello spazio. L'arte si attienedunque all'oggetto singolo considerato a sé stante; ferma la ruotadei tempi; svanite le relazioni, l'essenziale, l'idea, formano il suounico oggetto. Possiamo perciò definire l'arte come la contemplazionedelle cose, indipendente dal principio di ragione; contrapponendolacosí alla specie di conoscenza che segue tale principio, ecostituisce la via dell'esperienza e della scienza. Questa secondaspecie di conoscenza è paragonabile ad una orizzontale correnteall'infinito: l'arte sarebbe invece una perpendicolare intersecantel'altra linea in un punto preso a piacere. La conoscenza cheobbedisce al principio di ragione costituisce il sapere razionale, néha valore ed utilità se non nella vita pratica e nella scienza:quella che è in grado di fare astrazione da tale principio è lacontemplazione del genio, ed ha valore ed utilità soltanto nell'arte.La prima corrisponde alla concezione di Aristotele, la secondacoincide nel suo insieme con la contemplazione di Platone. La prima èsimile all'uragano violento, che passa senza che se ne veda ilprincipio e la fine, e tutto abbatte e sconquassa e trascina nellasua via; la seconda è il pacifico raggio di sole, che squarcia letenebre dell'uragano e sfida la sua violenza. La prima è simile allegocce innumerevoli di una cascata, che cadono con violenza, assumonomille forme svariate, senza un attimo di riposo; la seconda èl'arcobaleno che si stende tranquillo sopra questo tumulto infernale.Questa pura contemplazione, assorta per intero nel suo oggetto, èl'unico mezzo per cui l'uomo possa innalzarsi alla concezione delleidee; e l'essenza del genio consiste appunto in un'attitudinesupernormale a siffatta contemplazione. Siccome questa esige un oblíocompleto della propria personalità e delle sue relazioni, il genionon è altro che il piú alto grado dell'oggettità, ossia la direzioneoggettiva dello spirito, in opposizione alla direzione soggettiva,che fa capo alla propria persona, alla propria volontà. La genialitàconsiste dunque nell'attitudine a mantenersi nell'intuizione pura,perdendovisi; a redimere dalla schiavitú della volontà la conoscenzache le era originariamente asservita; in altre parole, bisognaperdere affatto di vista il proprio interesse, la propria volontà, ipropri fini; bisogna per un certo tempo estraniarsi completamentedalla propria personalità, per non restare che puro soggettoconoscente e limpido occhio del mondo, e ciò non per un balenoistantaneo, ma per tanto tempo e con tanta riflessione, quanto ènecessario per poter riprodurre le proprie concezioni con i mezzi benmeditati dell'arte, e per fissare in pensieri eterni ciò che fluttuanell'onda dei fenomeni. Affinché il genio si manifesti in unindividuo, questo sembra debba aver avuto in sorte una somma dipotenza intellettuale oltrepassante di gran lunga quella richiestaper il servizio di una volontà individuale; il sovrappiú diconoscenza che rimane, viene a costituire il soggetto libero davolontà, limpido specchio dell'essenza del mondo. In tal modo sispiega la vivacità che si incontra negli uomini di genio, e chetalvolta rasenta la turbolenza; il presente non li appaga se non dirado, poiché non riempie la loro coscienza; donde quella tensionesenza tregua, quel bisogno incessante di cercare oggetti nuovi e piúdegni di considerazione; di qui anche il desiderio, quasi maisoddisfatto, di trovare esseri che assomiglino loro, che siano allaloro altezza, e che possano comprenderli; mentre, al contrario,l'uomo comune, tutto pieno e soddisfatto del comune presente, vi siassorbe completamente, e vivendo in una famiglia di tipidell'identico stampo, prova, nella pedestre vita di ogni giorno,quella speciale sensazione di benessere che al genio è del tuttonegata. Si è voluto vedere nella fantasia un elemento essenziale delgenio, anzi, si è persino identificato quella con questo: ora laprima cosa è giusta, ma la seconda è un errore bell'e buono. Siccomegli oggetti, di cui si occupa il genio come tale, sono le ideeeterne, le forme permanenti ed essenziali del mondo e di tutti i suoifenomeni, e siccome la conoscenza dell'idea è necessariamenteintuitiva e non astratta, ne risulta che la conoscenza del geniosarebbe limitata alle idee degli oggetti realmente presenti alla sua

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpersona, e dipenderebbe dalla serie delle circostanze in cui talioggetti si mostrano, se la fantasia non allargasse il suo orizzonteben di là dalla realtà della sua esperienza personale, e non lorendesse capace, con il poco che arriva alla sua appercezioneeffettiva, di costruire tutto il resto, e di far cosí sfilare dinanziai suoi occhi quasi tutte le immagini possibili della vita. Inoltre,gli oggetti reali non sono il piú delle volte che esemplaridifettosissimi dell'idea che rappresentano. Il genio ha dunquebisogno di fantasia per vedere nelle cose, non ciò che la naturaeffettivamente vi produsse, bensí ciò che voleva realizzare ma nonpoté a causa del conflitto reciproco fra le sue forme di cui abbiamoparlato nel libro precedente. Ritorneremo in seguito su talesoggetto, trattando della scultura. La fantasia dunque allargal'orizzonte del genio di là dagli oggetti che si presentano di fattoalla sua persona, estendendolo, cosí per la quantità, come per laqualità. Sicché una forza straordinaria di fantasia è la compagna delgenio, anzi ne è la condizione sine qua non. Ma non può per sé solacostituire una prova del genio; anzi, persone che sono agli antipodidel genio, possono esser dotate di eccezionale fantasia. Infatti,come un oggetto reale si può considerare in due maniere opposte, cioèsotto il punto di vista puramente oggettivo, quello del genio che neafferra l'idea, e sotto il punto di vista comune, proprio del volgo,il quale delle cose non vede che le relazioni razionali da cui sonoconnesse con gli altri oggetti e con la propria volontà; cosí ancheuna creazione fantastica si può considerare in due modi; nel primo,come un mezzo per arrivare alla conoscenza dell'idea, la cuicomunicazione sarà l'opera d'arte; nel secondo, per costruire deicastelli in aria destinati a lusingare l'egoismo e il capricciopersonale, a illuderli momentaneamente, a divertirli; ma in tal casolo spirito non conosce mai altro che relazioni di siffatte illusioni.Chi si diverte in simili giuochi è un sognatore, arriverà facilmentea confondere con la realtà le immagini di cui si bea nellasolitudine, e diverrà in tal modo inadatto alla vita pratica; metteràforse in iscritto le chimere della sua fantasia; questa è la sorgentedi tutti i romanzi ordinari d'ogni genere, che fanno la gioia delgrosso pubblico e della gente di gusto affine a quello degli autori;il lettore, sognando di essere al posto dell'eroe, deve certo trovareassai gradevole una simile rappresentazione.L'uomo volgare, questa merce di fabbrica della natura, che ne creain ragione di parecchie migliaia al giorno, è, come abbiamo detto,incapace, per lo meno con continuità, di quell'appercezionepienamente disinteressata sotto ogni aspetto che è la contemplazionevera; può dirigere l'attenzione verso le cose solo in quanto le cosehanno una relazione, ammettiamo pure del tutto indiretta, con la suavolontà. Siccome sotto un tale punto di vista, il quale non esige cheuna conoscenza di relazioni, è sufficiente il concetto astratto dellacosa e il piú delle volte è anzi preferibile, l'uomo ordinario nons'indugia a lungo nell'intuizione pura; non posa a lungo il suosguardo su di un oggetto, ma per ogni cosa che gli si offre corresubito a cercare il concetto nel quale poterla classificare, comel'indolente corre in cerca della sedia; poi non se ne interessa piúin alcun modo. In tal modo agisce ben alla svelta con ogni cosa, conle opere d'arte, con le bellezze della natura, e con lo spettacolotanto interessante della vita universale in tutte le sue scene. Nonsi perde in indugi; e cerca soltanto la sua via nella vita, o, inogni caso, ciò che potrebbe un giorno divenire la sua via; non fadunque che raccogliere, nel senso piú largo della parola, una seriedi notizie topografiche: quanto alla contemplazione della vita in sestessa, non ha tempo da perdervi. Al contrario l'uomo di genio, lacui facoltà di conoscenza si sottrae per qualche tempo in virtúproprio di quell'eccesso di potenza intellettuale di cui si è poco faparlato, al predominio della volontà, si ferma alla contemplazionedella vita in se stessa, e si sforza di afferrare l'idea di ognicosa, lasciando del tutto da parte le sue relazioni con gli altrioggetti: in tale preoccupazione trascura sovente di considerare lasua via nella vita, e cosí il piú delle volte gli accade di nonsapersi piú in essa raccapezzare. La conoscenza, mentre per l'uomovolgare è la lanterna che illumina la via, per l'uomo di genio è

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtinvece il sole che rivela il mondo. Questa maniera così antitetica diconsiderare la vita non tarda a trovare in ambedue i casiun'espressione esteriore. L'uomo in cui palpita e opera il genio, sidistingue facilmente dallo sguardo vivo e fermo che porta l'improntadell'intuizione della contemplazione, come possiamo costatare neiritratti delle poche teste geniali che natura produsse di tratto intratto fra innumerevoli milioni di individui; al contrario,nell'occhio degli altri, quando non è, come il piú delle volte, ospento o indifferente, si lascia facilmente scorgere l'opposto dellacontemplazione, ossia lo sguardo che spia attento e curioso attorno asé. In conformità di quanto si è detto, «l'espressione geniale» delvolto di un dato individuo consisterà nel poter vedere in esso unapreponderanza spiccata della conoscenza sulla volontà, e nel trovarvil'espressione di una conoscenza esente da ogni relazione con lavolontà, cioè di una conoscenza pura. Al contrario, negli individuicomuni l'espressione della volontà è predominante, e ci si accorgeche la conoscenza non opera se non sotto l'impulso della volontà, enon è guidata che da motivi.Siccome la conoscenza geniale, o conoscenza delle idee, nonobbedisce al principio di ragione, mentre quella che si conforma atale principio dà la prudenza e la saggezza pratica e crea lescienze; ne risulta che gli uomini geniali avranno quellemanchevolezze che porta seco l'oblío della seconda specie diconoscenza. Tuttavia c'è da fare qui una restrizione: tutto quelloche io sarò per dire a tale riguardo non li concerne se non in quantoe per il tempo in cui sono effettivamente immersi nel modo diconoscenza propria al genio; ora questo non è di certo il caso diogni momento della loro vita: la tensione estrema, sebbene spontanea,che si richiede per arrivare a una concezione delle idee libera daogni volontà, si rilascia necessariamente talora, e per lunghiintervalli, durante i quali la situazione degli uomini di genio èpressappoco eguale a quella degli uomini ordinari, sia dal lato deipregi che da quello dei difetti. Ecco perché si è in ogni tempoconsiderata l'opera del genio come un'ispirazione; e non solo, macome il nome stesso lo indica, vi si è visto l'opera di un esseresovrumano differente dall'individuo stesso, e che non ne prendepossesso se non a intervalli periodici. La ripugnanza degli uomini digenio a dirigere la loro attenzione sul contenuto del principio diragione, si manifesta in primo luogo verso il principio di esistenza,con un'avversione alla matematica; infatti questa scienza porta lesue investigazioni sulle forme piú generali del fenomeno, sul tempo esullo spazio, che altro non sono che forme del principio di ragione,e si trova quindi agli antipodi di quel genere di considerazioni cheha per unico oggetto il contenuto dei fenomeni, l'idea che vi simanifesta, e riesce completamente ad astrarsi da ogni relazione.Inoltre ciò che della matematica ripugna al genio è anche il metodocosiddetto logico, che esclude ogni intuizione vera e propria e nonpuò quindi accontentarlo: un tale metodo si risolve infatti in unaserie di sillogismi fondata sul principio di ragione di conoscenza e,fra tutte le facoltà dello spirito, impegna soprattutto la memoria,per aver presenti sempre le proposizioni anteriori che gli servono dibase. L'esperienza stessa conferma che i grandi geni artistici sonola negazione assoluta della matematica; nessuno si è mai segnalatocontemporaneamente in questi due rami. Alfieri narra di non esseremai riuscito a comprendere il solo quarto teorema di Euclide. Gliinetti avversari della teoria dei colori, hanno rimproverato aGoethe, fino alla nausea, la sua ignoranza di matematica; in veritàperò, siccome qui non si tratta di calcolo né di misura secondo datiipotetici, ma di una conoscenza intuitiva immediata di cause e dieffetti, tale rimprovero è quanto mai ingiusto e del tuttoingiustificato, e questi signori vi danno prova luminosa della loromancanza di giudizio; come fecero, del resto, nelle altre loroconfidenze, veramente degne di Mida, che credettero cosa opportunadover propagare ai quattro venti. Verrà un giorno in cui nel fattoche oggi, dopo quasi mezzo secolo dall'apparizione della teoria deicolori di Goethe, le bubbole di Newton riescano a conservare nellastessa Germania l'incontrastata sovranità nelle scuole, e che sicontinui ancora a parlare sul serio delle sette luci omogenee e della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtloro diversa rifrangibilità, si arriverà a vedere uno dei piú certisegni rivelatori di ciò che valga l'intelligenza umana in generale, equella dei tedeschi in particolare. La medesima ragione suesposta cispiega il fatto notissimo che viceversa i grandi matematici sono pocosensibili alle opere d'arte: ne troviamo una conferma singolarmenteingenua nel noto aneddoto di quel matematico francese che dopo lalettura dell'Iphigénie di Racine si chiedeva scrollando le spalle:«Qu'estceque cela prouve?». Dal momento poi che ciò che piúpropriamente costituisce l'intelligenza è una esatta comprensioned'ogni possibile tipo di relazioni, fondata sulle leggi di causalitàe di motivazione ed anche per il fatto che d'altra parte laconoscenza del genio non si preoccupa di relazioni, ne deriva che unuomo intelligente, nella misura e nel tempo in cui è intelligente,manca di genio, e viceversa un uomo di genio, nella misura e neltempo in cui è tale, non può essere un uomo intelligente. Infine laconoscenza intuitiva in generale, che include nel suo campo l'idea, èopposta direttamente alla conoscenza razionale od astratta fondatasul principio di ragione di conoscenza. Cosí è notorio che si trovararamente una grande genialità accoppiata a una eminente facoltàdiscorsiva; al contrario, gli uomini di genio sono spesso in preda aviolente affezioni e a passioni insensate. La causa di questo fattonon è tuttavia una debolezza di ragione, ma in parte unastraordinaria energia del fenomeno di volontà che costituisce l'uomodi genio, e che si traduce nella veemenza di tutti i suoi attivolontari; in parte la preponderanza della conoscenza intuitiva deisensi e dell'intelletto sulla conoscenza astratta; da qui la tendenzadecisa verso la contemplazione, la cui luce gli risplende cosísovrana, da rigettare nell'ombra i pallidi concetti, e da sostituirlinella direzione della condotta, che diviene per ciò stessoirragionevole; l'impressione del presente è quindi potentissima nelgenio, e lo trascina all'irriflessione, agli affetti, alla passione.Per questo anche, e in generale per il fatto che la sua conoscenza siè parzialmente emancipata dal servizio della volontà, il genio, nellesue conversazioni, non pensa tanto alla persona con cui discorre,quanto al soggetto di cui tratta, che occupa sempre vivamente il suospirito: cosí, dal punto di vista del proprio interesse, ha un mododi giudicare troppo oggettivo, oppure discorre di cose che laprudenza consiglierebbe di tenere in sé, e cosí via. Ecco ancheperché ha tendenza al monologo, e può mostrare tante di quelledebolezze che rasentano veramente la follia. Che genio e folliaabbiano un lato in cui si toccano, anzi si confondono, èun'osservazione che venne fatta piú d'una volta; e anchel'ispirazione poetica fu detta una specie di follia; amabilis insaniala chiama Orazio (Od' Iii, 4), e Wieland, nell'introduzioneall'Oberon, la chiama anch'esso holder Wahnsinn (amabile follia). Lostesso Aristotele, a quanto riferisce Seneca (De tranq' animi 15,16), avrebbe detto: «Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiaefuit». Platone, nel mito della caverna oscura precedentementericordato (De Rep' 7), esprime la medesima opinione in questitermini: «Coloro che usciti dalla caverna videro la luce del sole ele cose realmente esistenti (le idee), una volta rientrati nonpotranno piú nulla vedere, né saranno in grado di distinguere leombre della caverna, poiché i loro occhi avran perduto l'abitudinedell'oscurità; e allora gli altri, che non han mai lasciato lacaverna e le ombre, si rideranno di loro a causa dei loro errori».Nel Fedro (pag' 327) egli dice espressamente che senza un piccoloramo di follia non ci può essere un vero poeta, e aggiunge anzi (pag'327) che «colui il quale riconosce nelle cose passeggere le ideeeterne, ha l'aria d'un folle». Cicerone (De divin' I, 37) riferisce:«Negat enim sine furore Democritus quemquam poëtam magnum esse posse;quod idem dicit Plato». Dice infine il Pope:«Great wits to madness sure are near allied,@ And thin partitionsdo their bounds divide.@» (8)Istruttivo in modo speciale è su questopunto il Torquato Tasso di Goethe, dove egli non solo ci mostra lasofferenza, il martirio proprio del genio in quanto genio, ma ci faanche vedere come ad ogni istante cada nella follia. Chi vuole infineconvincersi della parentela immediata tra genio e follia, develeggere le biografie di uomini geniali quali Rousseau, Byron,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtAlfieri, documentandosi altresí su certi aneddoti tratti dalla vitadi alcuni altri; aggiungiamo infine un esempio personale: io visitaifrequentemente delle case di alienati, e m'imbattei spesso insoggetti d'incontestabile valore: il loro genio balenava attraversola follia, pur rimanendo essa l'elemento predominante. Una similecoincidenza non può essere casuale; perché da un lato, il numerodegli alienati è relativamente ben piccolo, e dall'altro un uomo digenio è un fenomeno raro di là da ogni espressione, e può ritenersicome il fatto piú eccezionale che si verifichi in seno alla natura:basti, per convincersene, calcolare il numero dei veri grandi geniche vide nascere l'intera Europa civile in tutta l'antichità e neitempi moderni, calcolando, s'intende, quelli soli che produsseroopere destinate a conservare un valore immortale agli occhidell'umanità; si confronti poi questo numero con i 250 milioni diuomini che vivono costantemente in Europa e che si rinnovano ognitrent'anni. Ma c'è anche un altro fatto che non posso fare a meno dicitare: io conobbi persone d'una superiorità intellettuale, se nonproprio eminente, certo molto pronunciata: ebbene, tutte presentavanoin pari tempo una leggera traccia di follia. Sembrerebbe, in seguitoa tutto ciò, che ogni superiorità intellettuale oltrepassante lamedia comune debba venir considerata come una normalità predisponentealla follia. Voglio nondimeno esporre in breve la mia opinione sullaragione puramente intellettuale della parentela fra genio e follia;la discussione contribuirà indubbiamente a fare un po' di lucesull'essenza propria del genio, cioè di quella facoltà dello spiritoche sola è capace di produrre le vere opere d'arte. Ma ciò esige dinecessità un breve esame preliminare sulla follia in se stessa. (9)Non si è neppure arrivati, ch'io sappia, a una visione chiara ecompleta sulla natura della follia, né ad un concetto chiaro esoddisfacente di ciò che distingue il folle dall'uomo sano dispirito. Non si può negare ai folli né la ragione né l'intelletto,dal momento che sono in grado d'esprimersi e di comprendere, e fannoanzi spesso ragionamenti sensatissimi, dimostrando altresí di averegeneralmente una percezione abbastanza esatta di quanto avvienedinanzi a loro, e afferrano la connessione delle cause e deglieffetti. Le visioni richiamanti le fantasie della febbre, non sonoper nulla un sintomo ordinario della follia; il delirio falsa lapercezione, la follia falsa il pensiero. Infatti il piú delle volte ipazzi non s'ingannano nella conoscenza di ciò che è immediatamentepresente; le loro divagazioni si riferiscono sempre a ciò che èassente o passato, e soltanto in tal modo alla loro relazione colpresente. Il che mi fa credere che la loro malattia tocchispecialmente la memoria: non certo in modo tale da sopprimerlacompletamente, perché molti pazzi sanno parecchie cose a memoria, ericonoscono talvolta persone non piú viste da gran tempo; ma il filodella memoria viene spezzato, la continuità della sua concatenazionesoppressa, e ogni richiamo regolare coerente del passato è resoimpossibile. Il pazzo può evocare delle scene isolate del passato edar loro tutta la vivacità di una scena isolata presente: ma in unsimile ricordo sono presenti non poche lacune, ch'egli non sa faraltro che riempire con finzioni: queste finzioni, o sono sempre lestesse e divengono idee fisse, oppure si modificano ogni volta comeaccidentalità momentanee; si ha nel primo caso la monomania, lamelanconia; nel secondo la demenza, o fatuitas. Ecco perché è cosídifficile, quando un pazzo entra la prima volta in una casa dialienati, interrogarlo sulla sua vita precedente. Il vero e il falsosi confondono in modo costantemente crescente nella sua memoria. Ilpresente immediato vien certo percepito con esattezza, ma è falsatoda relazioni fittizie con un passato chimerico; i pazzi confondono sestessi e gli altri per persone che non esistono se non nel loropassato fantastico; non riconoscono piú alcune delle loro conoscenze,e pur avendo una rappresentazione giusta del presente, attribuisconoad essa delle false relazioni con il passato. Quando la folliaraggiunge un alto grado, la memoria si disorganizza completamente; ilpazzo non è capace di ricordarsi nulla di ciò che è assente opassato; è del tutto ed esclusivamente governato dal capriccio delmomento, unito alle finzioni che costituiscono nel suo cervello ilpassato; cosí, chi gli sta accanto corre ad ogni momento il pericolo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi essere maltrattato od ucciso, a meno che non gli faccia sentirecostantemente la propria superiorità di forza. Il folle e il brutohanno in comune un tipo di conoscenza limitata al presente, con peròl'unica differenza che il bruto non ha propriamente alcunarappresentazione del passato come tale (benché ne risenta l'influenzaper via dell'abitudine: cosí ad esempio il cane riconosce il suoantico padrone anche dopo molti anni, e cioè tale vista gli risvegliaun'impressione abituale; il cane per altro non conserva alcun ricordodel tempo scorso posteriormente). Il pazzo, al contrario, conservasempre nella sua mente un passato in abstracto; ma un passato falso,non esistente che per lui, e talora di natura costante, talora unacreazione puramente momentanea; l'influenza di questo falso passatoimpedisce ogni utilizzazione del presente, sebbene vi sia diquest'ultimo un'esatta percezione; mentre l'animale sa trarre da talepercezione del presente il suo miglior partito. E cosí pure mi spiegocome la follia possa essere spesso casualmente generata da violentesofferenze morali o da avvenimenti spaventosi e imprevisti. Ognisimile sofferenza è sempre come fatto reale limitata al presente; èdunque di natura transitoria, e come tale non di certoinsopportabile: la sofferenza non oltrepassa le forze umane chequando è permanente; ma un dolore permanente non è che un pensiero, enon esiste che nella memoria. Ebbene: quando una tale afflizione,quando il dolore causato da un tal pensiero o ricordo diviene cosícrudele da riuscire assolutamente insopportabile, facendo soccomberel'individuo, allora la natura, presa da simile angoscia, ricorre allafollia come all'unico mezzo che le resta per salvare la vita; lospirito torturato rompe, per cosí dire, il filo della sua memoria,colma le lacune con finzioni, e trova in tal modo nella follia unasilo di salvezza contro il dolore morale che oltrepassa le sueforze; proprio come quando si amputa un membro incancrenito e lo sisostituisce con un altro di legno. Servano di esempio l'Aiacefurioso, il re Lear e Ofelia, perché le creazioni del vero genio, leuniche cui qui possiamo ricorrere, in quanto universalmenteconosciute, sono così vive e vere da potersi ritenere come personereali; del resto l'esperienza quotidiana della vita offre inproposito risultati assolutamente analoghi. Qualcosa di simile aquesto passaggio dal dolore alla follia si riconosce nel fatto che,quando una reminiscenza penosa ci sorprende all'improvviso, ci accadespesso di volerla scacciare in maniera quasi meccanica con unaesclamazione o con un gesto; cerchiamo con ciò di dissipare ilricordo, e di distrarcene violentemente.Si è dunque visto che il folle ha un'esatta percezione del presentee di alcuni elementi frammentari del passato, ma disconosce la loroconnessione, le loro relazioni; sicché erra e divaga. E questo èprecisamente il suo punto di contatto con l'uomo di genio. Anche ilgenio, infatti, trascura la conoscenza delle relazioni fondata sulprincipio di ragione; non vede, non cerca nelle cose che le loroidee, afferra la loro essenza propria, che si manifesta allacontemplazione, e in relazione con la quale una cosa unicarappresenta tutta la sua specie, sí che bisogna esser d'accordo conGoethe sul fatto che un solo caso vale per mille; l'oggetto singolocontemplato, e il presente fissato con vivacità eccessiva, brillanoper lui di luce così sovrana che gli altri anelli della catena di cuifan parte rientrano per ciò stesso nell'ombra, il che appunto dàluogo a fenomeni la cui somiglianza con la follia venne da lungotempo riconosciuta. Ciò che nella singola cosa data non esiste se nonin uno stato imperfetto e indebolito dalle modificazioni, il genio,con la sua maniera di concepire, lo eleva a idea, lo eleva aperfezione; in ogni cosa, il genio non vede che gli estremi, e perciòanche la sua condotta cade negli estremi; non sa cogliere la giustamisura, manca di moderazione, col risultato che sappiamo. Il genioconosce benissimo le idee, ma non gli individui. Cosí un poeta, comenotavamo, può conoscere a fondo l'uomo, ma conoscere molto male gliuomini; cade facilmente nella trappola degli inganni, e diviene untrastullo in mano degli astuti.

Par' 37. - Il genio, come l'abbiamo presentato, consistenell'attitudine a svincolarsi dal principio di ragione, cioè nella

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcapacità di fare astrazione dalle cose particolari, la cui essenza sirisolve unicamente nelle relazioni, e a riconoscere le idee: infine,a porre se stesso quale correlato delle idee: in altre parole, adabbandonare la natura d'individuo, per elevarsi a soggetto puro dellaconoscenza. Tuttavia tale attitudine, sebbene in grado minore ediverso, deve riscontrarsi presso tutti gli uomini, senza di chesarebbero incapaci di gustare le opere d'arte, né piú né meno diquello che non siano a produrle: sarebbero inoltre assolutamenteinsensibili al bello e al sublime; anzi, queste parole non avrebberoper loro nessun significato. Dobbiamo dunque ammettere, a meno chenon ci sia della gente totalmente refrattaria ad ogni sentimentoestetico, che questa facoltà di riconoscere le idee nelle cose, e dielevarsi momentaneamente al disopra della propria personalità, sia unpatrimonio comune a tutti gli uomini. Il genio non ha che ilvantaggio di possedere tale facoltà in un grado piú elevato, e digoderne in modo piú continuo, il che gli permette di accoppiare a unasimile conoscenza tutta la riflessione occorrente per poterriprodurre in una libera creazione l'oggetto così conosciuto: questariproduzione costituisce l'opera d'arte. Con tal mezzo egli comunicaagli altri l'idea che ha concepita. L'idea resta dunque immutata edidentica; così il piacere estetico è essenzialmente uno ed identico,sia provocato da un'opera d'arte, sia che lo si provi direttamentenella contemplazione della natura e della vita. L'opera d'arte non èche un mezzo destinato a facilitare la conoscenza in cui tale piacereconsiste. Se percepiamo piú facilmente l'idea nell'opera d'arte chenella contemplazione diretta della natura e della realtà, ciò si deveal fatto che l'artista, il quale non si fissa che nell'idea e nonvolge piú l'occhio alla realtà, riproduce anche nell'opera d'arteunicamente l'idea pura, distaccata dalla realtà e libera da tutte lecontingenze che potrebbero turbarla. L'artista ci fa contemplare ilmondo con gli occhi suoi. Possedere una tale capacità visiva,riconoscere l'essenza delle cose che esiste all'infuori di ognirelazione, è il dono innato del genio; essere capace di comunicarequesto dono e la suddetta capacità di osservazione, è il latoacquisito e tecnico dell'arte. Ecco perché dopo avere fin qui espostonelle sue linee fondamentali la natura intima della conoscenzaestetica, nelle considerazioni filosofiche seguenti studierò il belloe il sublime nell'arte e nella natura simultaneamente, senza piú faredistinzione alcuna. Dapprima esamineremo quello che avviene nell'uomoquando si commuove al contatto del bello e del sublime; l'attingeretale emozione direttamente dalla natura e dalla vita, o con lamediazione dell'arte, costituisce una differenza, non essenziale, masoltanto esteriore.

Par' 38. - Abbiamo riconosciuto nella contemplazione estetica dueelementi inseparabili: la conoscenza dell'oggetto, considerato noncome cosa particolare, ma come idea platonica, cioè come formapermanente di tutta una specie di cose; e la coscienza dell'essereconoscente, a titolo, non di individuo, ma di soggetto conoscentepuro e scevro di volontà. Abbiamo anche visto che la condizionenecessaria affinché questi due elementi si mostrino sempre uniti, èla rinunzia al modo di conoscenza fondato sul principio di ragione,modo che è tuttavia il solo valido per il servizio della volontà eper la scienza. Ora vedremo come anche il piacere estetico suscitatodalla contemplazione del bello, provenga da questi due elementi:talvolta piú dall'uno, talvolta piú dall'altro, a seconda di qualesia l'oggetto della contemplazione estetica stessa.Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, da unasofferenza. La soddisfazione vi mette un termine; ma per un desiderioche viene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essercontrariati; per di piú, ogni forma di desiderio sembra non aver maifine, e le esigenze tendono all'infinito: la soddisfazione è breve eavaramente misurata. Ma l'appagamento finale non è poi che apparente:ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovodesiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo unadisillusione non ancora riconosciuta. Nessun voto realizzato può dareuna soddisfazione duratura e inalterabile; è come l'elemosina che sigetta a un mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsuoi tormenti sino all'indomani. Finché la nostra coscienza èriempita dalla nostra volontà, finché ci abbandoniamo all'impulso deidesideri con la loro alternativa di timori e di speranze, finché, inuna parola, siamo soggetti del volere, non ci saranno concessi néfelicità duratura né riposo. Inseguire o fuggire, temer la sventura oanelare alla gioia, è in realtà la stessa cosa; l'inquietudine di unavolontà sempre esigente, in qualunque forma si manifesti, riempie edagita incessantemente la coscienza; ora, senza tranquillità, nessunvero benessere è possibile. Il soggetto volitivo è dunque sempreattaccato alla girante ruota d'Issione, attinge sempre con il cribrodelle Danaidi; è Tantalo che eternamente si strugge.Ma quando un'occasione esterna o una disposizione intima ci strappacon impeto subitaneo dal torrente infinito del volere, e libera laconoscenza dalla sottomissione che la vincola alla volontà, allora lanostra attenzione non sarà piú diretta sui motivi del volere, maconcepirà le cose indipendentemente dalla relazione con la volontà,cioè le considererà senza interesse, senza soggettività, ovvero inmodo puramente oggettivo; si può dire in tal caso che la nostraattenzione si concentrerà totalmente sulle cose, non però consideratecome motivi, ma come semplici rappresentazioni. Allora quella calmache nel primo periodo di asservimento alla volontà cercavamo conassillo pungente senza poterla mai conseguire, sorriderà di un trattoall'animo nostro, e allora veramente saremo del tutto felici. Tale èlo stato senza dolore che Epicuro stimava il bene supremo e lacondizione degli dèi; infatti, per quel momento siamo liberi dalgiogo oltraggioso della volontà; schiavi suoi umilissimi, ciprendiamo un giorno di festa: la ruota d'Issione si ferma.Ma un simile stato è precisamente quello che ho innanzi descrittocome condizione indispensabile per la conoscenza dell'idea; è lacontemplazione pura, l'assorbimento nell'intuizione, il perdersinell'oggetto, l'oblío di ogni individualità, la soppressione dellaconoscenza fondata sul principio di ragione e non abbracciante cherelazioni; è lo stato in cui, con un'unica e contemporaneatrasformazione, la cosa contemplata assurge a idea della sua specie,e l'individuo conoscente si eleva al grado di soggetto puro dellacoscienza emancipata dalla volontà; allora oggetto e soggetto cometali sfuggono entrambi alla corrente del tempo e delle altrerelazioni. In tali condizioni è indifferente contemplare un tramontodi sole dal carcere o da un palazzo.Una disposizione interiore, un predominio della conoscenza sulvolere, possono occasionare questo stato, comunque possano essere lecircostanze concomitanti. Di ciò fanno prova quei meravigliosipittori olandesi, che contemplavano in una intuizione cosí oggettivagli oggetti piú insignificanti, e che ci trasmisero nei loro quadridi vita intima una testimonianza imperitura della loro oggettività edella loro serenità di spirito; chi abbia un po' di gusto esteticonon può contemplare senza commozione le loro tele, dalle quali è aisuoi occhi evocata la disposizione di spirito tranquilla, serena,libera da volontà, che animava l'artista, e che era indispensabileper contemplare oggetti cosí insignificanti con maniera tantooggettiva, per considerarli con tanto scrupolo, per infine riprodurretale intuizione con tanto studiata fedeltà; e mentre il quadroc'invita a partecipare a questa disposizione, la nostra emozione èspesso aumentata ancora dal contrasto con lo stato d'animo presente,inquieto e turbato dalla violenza del volere. Questo è lo spirito incui alcuni paesaggisti, tra i quali Ruisdael, dipinsero sovente coseinsignificanti, e produssero cosí lo stesso effetto, ma in manieraancor piú gradevole.Soltanto la forza interiore di un animo artista può arrivare aquesto segno: ma ogni disposizione oggettiva dell'animo è facilitatae favorita dagli oggetti che ci si offrono esternamente,dall'esuberante bellezza della natura che ci invita a sé imponendosialla nostra contemplazione. Una volta presentatasi al nostro sguardo,la bella natura riesce quasi sempre, foss'anche per un solo istante,a strapparci dalla soggettività, dalla schiavitú del volere, atrasportarci nello stato della conoscenza pura. Un solo e liberosguardo gettato sulla natura è sufficiente a rianimare, a rallegrareed a riconfortare ad un tratto chi si agita nel tormento delle

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpassioni, delle necessità e delle pene: la tempesta delle passioni,l'impulso del desiderio e del timore, in una parola tutti i tormentiche affliggono la volontà, vengono messi a tacere come per incanto.Infatti, nel momento stesso in cui, liberi dalla volontà, ci siabbandona alla conoscenza pura ed esente dal volere, si entra, percosí dire, in un altro mondo, dove piú non esistono elementi chepossano, suscitando il desiderio, eccitare violentemente gli animi.Questa liberazione della conoscenza ci sottrae ad ogni tormento disimil genere, in maniera cosí perfetta come fa il sonno ed il sogno;felicità e infelicità dileguano; non siamo piú l'individuo, che èdimenticato, ma ci eleviamo a soggetti puri della conoscenza; nonesistiamo piú se non come occhio unico del mondo; occhio proprio diogni essere conoscente, ma che soltanto nell'uomo riesce ademanciparsi completamente dal servizio della volontà; nell'uomo, ognidifferenza d'individualità si estingue in modo cosí assoluto, che nonimporta assolutamente piú il sapere se l'occhio contemplatore siaquello di un re potente o di un misero mendicante, perché a questacosí grande altezza non ci accompagnano né felicità né miserie.Questo asilo in cui sfuggiamo completamente alle nostre pene è dunquesituato ben vicino a noi; ma chi ha la forza di mantenervisi a lungo?Non appena una relazione fra l'oggetto puramente contemplato e lanostra volontà, la nostra persona, viene ad affacciarsi allacoscienza, l'incanto è rotto, ed eccoci ricaduti nella conoscenzadominata dal principio di ragione; allora non concepiamo piú l'idea,ma soltanto la cosa particolare, l'anello di quella catena di cuianche noi facciamo parte: ripiombiamo, ancora una volta, nelle nostremiserie. La maggior parte degli uomini, mancando assolutamente dioggettità, ossia di genio, non riesce tuttavia quasi mai adoltrepassare questo punto di vista. Perciò non amano di trovarsi dasoli e soli di fronte alla natura; esigono la compagnia, se nonaltro, di un libro. Infatti la loro conoscenza resta sempre servaumilissima della volontà; negli oggetti non cercano altro che lerelazioni possibili col volere; ad ogni cosa che sia priva di talirelazioni, una voce interiore, simile ad un basso d'accompagnamento,intona il lamento eterno e sconsolato: «Ciò non mi serve a nulla»;cosí anche la piú bella veduta, quando siano soli a contemplarla,assume ai loro occhi un aspetto solitario, tetro, estraneo ed ostile.E' infine questa beatitudine della contemplazione esente davolontà, che diffonde un incanto magico su tutte le cose passate elontane, e che in virtú di un'illusione, che facciamo a noi stessi,ce le fa vedere in una luce cosí bella. Quando ci ricordiamo deigiorni d'un tempo trascorsi in qualche luogo lontano, la nostraimmaginazione rievoca soltanto gli oggetti, ma non il soggetto dellavolontà, il quale, allora come oggi, portava la croce delle sueinsanabili miserie; queste vengono dimenticate, perché d'allora inpoi mille e mille altre vennero a prenderne il posto. L'intuizioneoggettiva opera sul ricordo in quel modo stesso con che opererebbeattualmente se fossimo capaci di offrirvici liberi da volontà. Perquesto, quando un dolore ci angustia piú dell'ordinario, il ricordoimprovviso delle scene passate o lontane ci si presenta davanti agliocchi come l'immagine d'un paradiso perduto. Di queste scene lafantasia non rievoca che la parte oggettiva, ma nulla della parteindividuale e soggettiva; c'immaginiamo allora che la parte oggettivaci si fosse presentata cosí pura e cosí incontaminata da relazionicon la volontà, nello stesso modo in cui di tale parte oggettiva cisi presenta oggi l'immagine, nonostante la relazione di queglioggetti con il nostro volere non ci creasse in quel tempo menotormenti di ora. Possiamo, per mezzo degli oggetti presenti, come permezzo di quelli lontani, sottrarci a tutte le pene: basta che cieleviamo alla loro contemplazione pura e oggettiva, e che ci possiamoin tal modo creare l'illusione che se questi oggetti sono presenti anoi, noi non siamo presenti agli oggetti; allora, sgravati del nostromisero io, e divenuti soggetti puri di conoscenza, facciamo tutt'unocon tali oggetti, e la nostra miseria diviene allora tanto estranea anoi, quanto è estranea agli oggetti. Non resta piú che il mondo comerappresentazione; il mondo come volontà è svanito.Spero di essere riuscito, con le presenti considerazioni, achiarire la natura e l'importanza della condizione soggettiva del

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiacere estetico; tale condizione, abbiamo visto, consiste nellaliberazione della conoscenza dalla servitú della volontà, nell'oblíodi noi stessi come individui, nell'elevazione della coscienza allostato di puro soggetto di conoscenza esente da ogni volere,indipendente dal tempo e da tutte le relazioni. Come correlatonecessario di questo lato soggettivo della contemplazione estetica,si produce sempre in pari tempo il suo lato oggettivo, la concezioneintuitiva dell'idea platonica. Ma prima di studiare l'idea, e lacreazione artistica in connessione con l'idea, sarà bene insistereancora un poco sul lato soggettivo del piacere estetico, percompletarne l'esposizione con l'esame di un sentimento che ne dipendestrettamente, e che sorge da una sua modificazione; il sentimentoestetico. Dopo di che passeremo allo studio del lato oggettivo, ecosí verrà completata la nostra analisi del piacere estetico.Dobbiamo nondimeno, a quanto si disse fin qui, aggiungere leseguenti osservazioni. La luce è la cosa piú gaia che esista, è ilsimbolo di tutto ciò che è buono e salutare. In tutte le religioni laluce significa la salute eterna, e la tenebra, al contrario, ladannazione. Ormuzd abita la luce piú pura, Ahriman la notte eterna.Il Paradiso di Dante somiglia molto al Vauxhall di Londra: le animedei beati vi appaiono come punti luminosi disposti in figureregolari. L'assenza della luce subito ci rende tristi: il suo ritornosubito ci fa ritornare lieti; i colori eccitano in noi una viva gioiache raggiunge il massimo quando essi siano trasparenti. Tutto ciòproviene dal fatto che la luce è il correlato, la condizione del piúelevato grado della conoscenza intuitiva, dell'unico grado chedirettamente non abbia nulla a che fare con la volontà. La vistainfatti non somiglia al funzionamento degli altri sensi; non è adattadi per sé a produrre direttamente per i suoi effetti sensibili unasensazione piacevole o spiacevole nell'organo; non ha legame alcunodiretto con la volontà; soltanto la percezione intellettuale che nederiva può possedere una simile proprietà, e tale proprietà consistenella relazione dell'oggetto con il volere.Nell'udito è già tutt'altra cosa: i suoni possono riusciredirettamente dolorosi o piacevoli per l'organo sensoriale,all'infuori di ogni relazione con l'armonia o con la melodia. Iltatto, in quanto si confonde con il sentimento generale del corpo, èancor piú capace di esercitare tale influenza sulla volontà: benchéci siano certe sensazioni tattili che non provocano dolore né gioia.Peraltro gli odori sono sempre gradevoli o sgradevoli, e ancor piú isapori. Questi due ultimi sensi, dunque, sono quelli maggiormenteinquinati dalla volontà, e perciò sono i meno nobili: questa è laragione per cui Kant li chiamò soggettivi. Il piacere suscitato dallaluce non è dunque in realtà che la gioia, nella quale ci si fasentire la possibilità oggettiva del modo di conoscenza intuitiva piúpuro e piú elevato, per cui possiamo concludere che la conoscenzapura e libera da volontà è una sorgente del piú alto piacere, e a taltitolo costituisce già un fattore importante del godimento estetico.Questo modo di considerare la luce ci permette ancora di renderciconto della inesprimibile bellezza che ci presenta il riflesso deglioggetti nell'acqua. Quell'azione mutua che scambiano i corpi gli unisugli altri, azione che è della natura piú sottile, piú pronta, piúdelicata, e alla quale siamo anche debitori delle piú pure e piúelevate fra le nostre percezioni; quell'azione, dovuta al riflettersidei raggi luminosi, vediamo ora, realizzata macroscopicamente davantiai nostri occhi, nelle sue cause e nei suoi effetti, e nel modo piúchiaro, piú visibile, piú evidente. Tale è la causa del piacereestetico che proviamo a simile spettacolo: piacere che si fonda,nella sua parte essenziale, sul principio fondamentale del godimentoestetico, e che non è se non la gioia che sentiamo per la conoscenzapura e per i suoi modi. (10)

Par' 39. - Abbiamo cercato di mettere in luce la parte soggettivadel piacere estetico, ossia il piacere estetico medesimo in quantogioia generata dalla pura conoscenza intuitiva in contrapposizionealla volontà; ora a queste considerazioni, si riallaccia comeconseguenza immediata l'analisi di quello stato d'animo che si chiamasentimento del sublime.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtAbbiamo già fatto osservare in precedenza che il rapimento nellostato di contemplazione pura si effettua con tanto maggiore facilitàquando gli oggetti vi si prestano, cioè quando, in virtú della loroforma variata, ma in pari tempo chiara e precisa, possono facilmenterappresentare le loro idee; nel che appunto consiste la bellezzaoggettiva. La bella natura gode al disopra di ogni altra cosa questaproprietà, ed è capace di rapire, almeno per un attimo, anche l'uomopiú insensibile all'ebbrezza del piacere estetico; è cosa talmentesorprendente il vedere come in special modo il regno vegetale invitie s'imponga, per cosí dire, alla contemplazione estetica, che sisarebbe tentati di credere una tale proprietà connessa con il fattoche questi esseri organici non sono essi stessi, al pari deglianimali, oggetti immediati di conoscenza; sentono quindi il bisognodi un individuo estraneo e intelligente per poter passare dal mondodella volontà cieca in quello della rappresentazione, e cosí aspiranoad effettuare questo passaggio, per ottenere almeno in via mediataquello che non è stato loro concesso immediatamente. Non insisto inquest'idea, forse arrischiata e pressoché fantastica; e che soltantopuò essere suggerita e giustificata da una contemplazione intima eprofonda della natura. (11) Finché questo atteggiamento della naturad'offrire se stessa, finché il significato e l'evidenza delle sueforme esprimenti le idee che vi s'individualizzano, sono le solecondizioni che ci elevano dalla conoscenza delle semplici relazioni(conoscenza che è umilmente sottomessa alla volontà), allacontemplazione estetica, e a dignità di soggetto di conoscenza liberoda ogni volere, fino allora ciò che agisce in noi non è che il bello,e non altro che sentimento del bello quello che vibra in noi. Masupponiamo che quegli oggetti, le cui forme significative c'invitanoalla loro contemplazione, siano in relazione d'ostilità con lavolontà umana in generale, quale si oggettiva nel corpo umano;supponiamo che tali oggetti le siano funesti, che la minaccino conuna strapotenza vittoriosa di ogni opposizione, o che la riducano alnulla con la loro smisurata grandezza; se, nonostante tutto ciò, lospettatore non pone attenzione a questa relazione ostile con la suavolontà; se al contrario, benché percepisca e riconosca talerelazione, ne fa coscientemente astrazione, strappandosi con violenzadalla sua volontà e dalle sue relazioni per abbandonarsi tutto allaconoscenza; se, in qualità di soggetto conoscente puro e libero daogni volontà, contempla con calma serena oggetti che, per loronatura, sono quanto mai lontani dalla volontà, limitandosi aconcepire le idee, estranee ad ogni relazione; se lo spettatore sitrattiene quindi con piacere in tale contemplazione e se, infine, inconseguenza di tale atteggiamento, si eleva al disopra di se stesso,della sua persona, della sua volontà, al disopra di ogni volontà,allora davvero il sentimento che lo riempie sarà il sentimento delsublime. Il soggetto è allora in stato di elevazione, donde il nomedi sublime all'oggetto che provoca un tale stato. Ecco ciò chedistingue il sentimento del sublime da quello del bello: in presenzadel bello, la conoscenza pura trionfa senza lotta, poiché la bellezzadell'oggetto, cioè la sua proprietà di facilitare la conoscenzadell'idea, viene a rimuovere senza contrasto, e quindi a nostrainsaputa, la volontà e la conoscenza delle relazioni che ècompletamente soggetta alla stessa volontà; la coscienza rimane inqualità di soggetto conoscente puro, e della volontà non sopravviveneppure il ricordo. Al contrario, in presenza del sublime, questostato di conoscenza pura non può essere che frutto di una conquista:dobbiamo, con atto di conscia violenza, strapparci dalle relazionidell'oggetto che sappiamo sfavorevoli alla nostra volontà: dobbiamo,con uno slancio libero e cosciente, sollevarci al disopra dellavolontà e del tipo di conoscenza che vi si riferisce. Né basta chetale elevazione si compia con pienezza di coscienza; bisogna insieme,con pienezza di coscienza, mantenerla; è dunque accompagnata da unacostante reminiscenza della volontà, non però di una volontàparticolare o individuale, come il timore o la speranza, ma dellavolontà umana in generale, quale si trova espressa, nella suaoggettità, nel corpo umano. Supponiamo che un atto volontario reale eparticolare si manifesti alla coscienza, per effetto di una veraafflizione dell'individuo o di un pericolo che gli provenga

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdall'oggetto; immediatamente la volontà individuale, tocca sul vivo,riprende il sopravvento; la serena contemplazione divieneimpossibile; non si ha piú l'impressione del sublime, ma sottentral'angoscia, e lo sforzo dell'individuo per acquietarsi l'animoscaccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi gioveranno non poco achiarire questa teoria del sublime estetico, e per metterla inevidenza con la dovuta chiarezza fuori di ogni dubbio; tali esempiserviranno al tempo stesso a mostrare i vari gradi di cui è capace ilsentimento del sublime. Sappiamo che il sentimento del sublime siconfonde con quello del bello nella sua condizione principale, cioènella contemplazione pura, esente da ogni volontà, come nellaconoscenza delle idee che ne deriva necessariamente; e che sta fuoridi tutte le relazioni determinate dal principio di ragione. Sappiamoinoltre che il sublime si distingue dal bello, soltanto per unacondizione aggiunta, consistente nell'elevarsi al disopra dellarelazione ostile alla volontà, riconosciuta nell'oggetto; segue daciò che ci saranno parecchi gradi del sublime, anzi parecchietransizioni dal bello al sublime, a seconda che la condizioneaggiunta sia forte, distinta, incalzante, vicina, oppure debole,lontana e appena percettibile. Credo piú conveniente perl'esposizione iniziare la serie degli esempi con queste transizioni,con i gradi piú deboli dell'impressione del sublime; tuttavia coloroche non hanno una sensibilità estetica ben sviluppata, né unafantasia molto viva, non comprenderanno che gli esempi ulteriori, incui faccio vedere i gradi piú alti e spiccati di questa impressione;i lettori di questa categoria faranno bene ad attenersi a taliesempi, e a non occuparsi dei primi.L'uomo è al tempo stesso un impetuoso ed oscuro impulso di volontà,e soggetto puro di conoscenza, eterno, libero e sereno; per uncontrasto analogo, il sole è da una parte sorgente della luce, lacondizione del piú alto grado di conoscenza, e quindi anche della piúgioconda tra le cose; per un altro è sorgente del calore, condizioneprima della vita, cioè di ogni fenomeno della volontà considerata neisuoi gradi superiori. La luce, per la conoscenza, è dunque ciò che ilcalore è per la volontà. La luce è il piú fulgido diamante nellacorona della bellezza: esercita nella conoscenza di ogni cosa bellal'influsso piú decisivo: la sua presenza è in generale condizioneindispensabile; se posta in situazione favorevole, è in gradod'aumentare ulteriormente la bellezza della cosa piú bella. La luceha tale capacità d'aumentare la bellezza soprattuttonell'architettura; ma col suo concorso, anche la cosa piúinsignificante può peraltro assumere il piú bell'aspetto. Supponiamodi vedere nel cuore dell'inverno, quando la natura è tutta irrigiditae il sole non sorge mai alto, i raggi solari riflessi da massirocciosi: essi illuminano, ma non riscaldano, e quindi favorisconosoltanto la conoscenza pura, ma non la volontà; la visione delbell'effetto della luce su questi massi ci trasporta, al pari di ognicosa bella, nello stato di conoscenza pura; tuttavia il ricordoleggero che questi raggi mancano di calore, e quindi di principiovivificante, esige intanto una certa elevazione al disopradell'interesse della volontà; un lieve sforzo diventa necessario,perché si persista nella conoscenza pura escludente ogni volizione;abbiamo qui un passaggio dal sentimento del bello a quello delsublime. Sul bello viene ad alitare un lieve soffio di sublime, chequi si manifesta in grado minimo.Un altro esempio quasi altrettanto tenue è il seguente.Trasportiamoci in una contrada solitaria; l'orizzonte è infinito, ilcielo senza nubi; le piante e gli alberi sono immersi in un'atmosferaperfettamente immobile: nessun animale, nessun uomo, non acquecorrenti, e dappertutto il piú profondo silenzio; il paesaggio invitaal raccoglimento, alla contemplazione, all'oblio piú completo dellavolontà e delle sue miserie. Ma ciò appunto conferisce a questopaesaggio, dove non regnano che la solitudine e la quiete, una tintadi sublime. Infatti, siccome la volontà, sempre avida di tendere e diacquistare, non vi trova alcun oggetto favorevole o sfavorevole, nonresta qui che lo stato di contemplazione pura, e chi non è capace dielevarsi a tanta altezza, rimane con sua vergogna ed umiliazionecondannato al vuoto di una volontà disoccupata, e al tormento della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnoia. L'attitudine a gustare una bellezza di questa specie, e ingenere la facilità maggiore o minore di sopportare od amare lasolitudine, è un'eccellente pietra di paragone per misurare il valoreintellettuale d'un uomo. Il paesaggio descritto ci offre dunque unesempio del sublime, benché al suo grado piú tenue; infatti, allostato di conoscenza pura, tutto pieno di calma e di autosufficienza,si mescola qui, per contrasto, il ricordo di una volontà maiautosufficiente, sempre misera, sempre tormentata dal bisogno dispingersi innanzi. Questo è il genere di sublime che si vanta nellospettacolo delle immense praterie all'interno dell'America del Nord.Cerchiamo d'immaginarci ora una tale contrada, spoglia di ognivegetazione, tale che non vi si vedano che nude rocce: la volontàproverà ben presto un senso d'inquietudine dall'assenza assoluta ditutta la natura organica necessaria alla nostra sussistenza. Ildeserto ha un aspetto terribile, e in esso il nostro stato d'animodiviene piú tragico, sicché ci sarà impossibile elevarci ad uno statodi pura conoscenza senza un violento distacco dagli interessi dellavolontà; e per tutto il tempo in cui persisteremo in tale stato, ilsentimento del sublime dominerà nettamente in noi. E in grado ancorasuperiore potremo sentirlo nella scena seguente. La natura è intempestosa agitazione: una luce fievole e tetra traspare dalle nubinere e minacciose; rocce immani e nude, scendenti a picco, cirinserrano e chiudono l'orizzonte; le acque spumeggiano furiose atorrenti; dappertutto deserto: non si ode che il gemito del ventosibilante attraverso le gole rocciose. La nostra dipendenza, lanostra lotta con la natura nemica, l'annullamento della nostravolontà, ci sono qui rivelati per diretta intuizione; ma finchél'angoscia personale non prende il sopravvento, finché noiperseveriamo nella contemplazione estetica, è il soggetto conoscentepuro che volge il suo sguardo tranquillo su questa lotta dellanatura, e su questa immagine della volontà vinta: impassibile eindifferente (unconcerned), egli, negli stessi oggetti che minaccianoe spaventano la volontà, non scorge altro che le idee. E questo èprecisamente il contrasto che dà luogo al sentimento del sublime.Ma piú potente ancora è l'impressione quando la lotta deglielementi scatenati si compie in grande sotto i nostri occhi; quando,ad esempio, una cateratta che si precipita con il suo frastuonoinfernale ci impedisce di udire la nostra stessa voce; o ben ancheallo spettacolo del mare immenso agitato dalla tempesta, quando ondemostruose infuriano in alto e si abbassano, si frangono con violenzacontro le rocce che svettano a picco sulla spiaggia, e lanciano alcielo le loro spume; la tempesta urla, il mare mugge; i balenisolcano l'aria squarciando le nuvole nere, e il ruggito del tuonosovrasta completamente quello della tempesta e del mare. Di fronte asimile spettacolo, l'intrepido spettatore può acquistare la piúnitida visione della duplicità della sua coscienza: si riconosce comeindividuo, come fragile fenomeno della volontà, annientabile dallaminima violenza degli elementi, impotente contro la strapotentenatura, soggetto ad ogni dipendenza, gingillo del caso, atomoevanescente di fronte a forze gigantesche, immani; ma al tempo stessoha coscienza di sé come soggetto immortale sereno di conoscenza:sente di essere la condizione dell'oggetto, il fulcro del mondointero; sente che questa lotta terribile della natura non è che unasua rappresentazione; assorto nella tranquilla contemplazione delleidee, si sente un essere libero ed estraneo ad ogni volontà e ad ognimiseria. Siamo qui al colmo dell'impressione del sublime; prodottadallo spettacolo di una forza incomparabilmente superiore all'uomo, eche minaccia di annientarlo.Questa impressione si può produrre in maniera tutta diversa inpresenza di una semplice quantità presa nello spazio o nel tempo, ele cui smisurate proporzioni riducano al niente l'individuo. Possiamochiamare sublime dinamico il primo, sublime matematico il secondo,conservando cosí la terminologia e la giusta divisione di Kant: dalquale peraltro ci separiamo nella interpretazione della natura intimadi questa impressione: noi non diamo infatti posto a considerazionimorali, né ad ipostasi tratte dalla filosofia scolastica. Quando ciperdiamo a contemplare l'infinità dell'universo nello spazio e neltempo, e meditiamo sui mille e mille secoli passati e futuri, oppure

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquando il cielo stellato ci discopre alla vista la realtà diinnumerevoli mondi, e la nostra coscienza è penetrata dell'immensitàdell'universo, noi ci sentiamo rimpiccioliti come minuscoli atomi:come individui, come corpi animati e come fenomeni passeggeri dellavolontà abbiamo la coscienza di svanire e di dissolverci nel nullacome una goccia nell'oceano. Ma al tempo stesso, contro questofantasma del nostro nulla, contro una impossibilità cosí menzognera,si eleva in noi la coscienza immediata che tutti questi mondi nonesistono che nella nostra rappresentazione, e non sono chemodificazioni del soggetto eterno della conoscenza pura; che talesoggetto è proprio quello che noi avvertiamo d'essere non appenadimentichiamo la nostra individualità; e che quindi noi siamo ilsostegno necessario e la condizione sine qua non di tutti i mondi edi tutti i tempi. La grandezza del mondo, che prima ci turbava, orariposa serena in noi: noi non dipendiamo piú da quella grandezza,poiché anzi la grandezza dipende da noi. Pure, non facciamoeffettivamente simili riflessioni: ci limitiamo ad avvertirecoscientemente che in un certo senso (la filosofia sola puòprecisarlo) siamo tutt'uno col mondo, e che quindi la sua immensitàin realtà non ci abbatte, ma ci risolleva. E' questo il sentimentocosciente di ciò che leUpanisad dei Veda ripetono cosí spesso informe cosí varie, soprattutto nella sentenza già citata: «Hae omnescreaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est»(Oupnek'hat, vol' I, pag' 122). C'è qui un'elevazione al disopradella propria individualità: è il sentimento del sublime.L'impressione del sublime matematico si prova già immediatamentealla vista di uno spazio, che di certo è piccolo in confronto ditutto l'universo, ma che, potendo essere abbracciato subito e tuttocon un solo sguardo, agisce in noi con tutte le tre dimensioni e intutta la sua grandezza, sufficiente a ridurre la massa del nostrocorpo a proporzioni quasi infinitesime. Un effetto simile non potràmai essere prodotto da uno spazio aperto e vuoto, ma soltanto da unospazio immediatamente percepibile in quanto ben delimitato in tuttele sue dimensioni: così, ad esempio, da una volta molto alta espaziosa come quella di San Pietro a Roma o l'altra di San Paolo aLondra. Il sentimento del sublime risulta qui dal fatto che noiabbiamo piena coscienza del nulla evanescente del nostro corpo, inconfronto di una grandezza che tuttavia a sua volta non esiste se noncome nostra rappresentazione e della quale noi siamo, in quantosoggetto conoscente, il sostegno; per conseguenza, qui comedappertutto, tale sentimento scaturisce dal contrasto fra la nullitàe la dipendenza del nostro io come individuo, come fenomeno dellavolontà, e la coscienza del medesimo io come soggetto puro diconoscenza. Anche la volta del cielo stellato, quando la si contemplisenza riflessione, non agisce se non come una volta di pietra; e nongià con la sua vera grandezza, ma solo con la sua grandezzaapparente. Molti oggetti della nostra intuizione producono in noi ilsentimento del sublime per il fatto che, in virtú della loro grandeestensione e della loro alta antichità, cioè della loro lunga durata,ci sentiamo in loro presenza rimpiccioliti al nulla, e tuttavia ciinebriamo nella gioia di contemplarli; a tale categoria appartengonole alte montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine dell'altaantichità.La nostra teoria del sublime si applica ugualmente al campo morale,cioè a quello che si chiama un carattere sublime. Qui ancora ilsublime risulta dal rimanere impotenti contro la volontà deglioggetti, che sembrerebbero destinati a trascinarla; e da che laconoscenza ottiene anche qui il sopravvento. Un uomo di siffattocarattere considererà dunque gli altri uomini da un punto di vistapuramente oggettivo, senza tenere alcun conto delle loro possibilirelazioni con la sua volontà; e noterà ad esempio i loro difetti,fors'anche il loro odio e la loro ingiustizia verso di lui, senzasentirsi dal suo lato eccitato ad odiarli; contemplerà la lorofelicità senza sentirne invidia; riconoscerà le loro buone qualitàsenza tuttavia desiderare un legame piú intimo con loro; ammirerà labellezza delle donne senza appetirle. La propria felicità odinfelicità personale non lo commuoveranno oltre misura: somiglieràproprio ad Orazio quale è dipinto da Amleto:

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txt«...for thou hast been@ As one, in suffering all, that suffersnothing;@ A man, that fortune's buffets and rewards@ Hast ta' en withequal thanks,@ ecc'.» (12)Poiché nel corso della propria esistenza e nelle sue sventure, eglivedrà meno il suo destino individuale che quello dell'umanità ingenere, la sua vita sarà quindi per lui un oggetto di studio, piú cheuna causa di sofferenza.

Par' 40. - Dal momento che i contrari si rischiarano a vicenda,credo opportuno far qui osservare che l'opposto del sublime è qualchecosa che a primo aspetto non sembra averne l'aria: l'eccitante (dasReizende). Con questo nome designo tutto ciò che stimola la volontà,offrendole direttamente soddisfazione e appagamento. Il sentimentodel sublime, abbiamo visto, deriva dal fatto che una cosa recisamenteostile alla volontà, diviene oggetto di contemplazione pura;contemplazione che si può prolungare soltanto in virtú di un completodistacco dalla volontà, e di una elevazione al disopra del propriointeresse; il che appunto costituisce la sublimità di un simile statodi coscienza. L'eccitante, al contrario, distoglie lo spettatoredallo stato di contemplazione pura che si richiede alla concezionedel bello, seducendo la volontà con la vista di oggetti cheimmediatamente la lusingano; in tal modo, lo spettatore non simantiene piú all'altezza di puro soggetto di conoscenza, ma si riducea semplice oggetto di volontà, asservito a tutti i bisogni e a tuttele dipendenze. Si dà per solito il nome di eccitante ad ogni cosabella del genere lieto; ma è questa una denominazione troppo larga,dovuta alla mancanza di una giusta distinzione, ed io non esito alasciarla da parte, anzi a ripudiarla totalmente. Attenendomi alsenso da me definito, riconosco nel campo dell'arte due specie dieccitante, ambedue indegne dell'arte stessa. La prima, veramenteinferiore, si ha nei quadri di vita domestica della scuola fiamminga,dove il pittore si perde a rappresentare dei commestibili, la cuiviva illusione ottica non fa che stuzzicare l'appetito; la volontàallora si sente eccitata, e taglia subito corto ad ognirappresentazione estetica dell'oggetto. La frutta dipinta è ancoraammissibile, quando il frutto si consideri come ultimo sviluppo delfiore, ammirandolo per la sua forma e per i suoi colori come un belprodotto naturale, senza che si debba necessariamente pensare allasua qualità di commestibile; ma, sventuratamente, si vedono spessoriprodotti, e con prodigiosa imitazione del vero, dei cibi già bellie serviti in tavola, come ad esempio ostriche, aringhe, gamberi dimare, panini con burro, birra, vino, ecc', cosa assolutamente nonammissibile. Nella pittura storica e nella scultura, l'eccitanteconsiste nel rappresentare forme ignude che per la posa, il semiabbigliamento e, in genere, per il loro atteggiarsi solleticano ilsenso lascivo dello spettatore: la contemplazione estetica pura ècosì del tutto distrutta, e lo scopo dell'arte radicalmentetravisato.Questo difetto corrisponde perfettamente a quello che abbiamo testérimproverato ai pittori olandesi. Gli antichi, nonostante la bellezzae la nudità piena delle loro figure, ne sono quasi affatto liberi,perché l'artista le creò con uno spirito puramente oggettivo, pienodi bellezza ideale, non contaminato da elementi soggettivi e da bassaconcupiscenza. In arte, ciò che stuzzica dev'essere evitato sempre.C'è inoltre un eccitante negativo, piú spregevole ancoradell'eccitante positivo (di cui ora si è parlato): ed è il nauseante.Questo, al pari dell'eccitante in senso proprio, mette in allarme lavolontà dello spettatore, disturbando cosí la pura contemplazioneestetica. Ma ciò che ne viene provocato è un violento non volere, uncontrastare; l'eccitazione della volontà si deve alla presenza dioggetti che le ripugnano. Perciò ne venne riconosciuta semprel'inammissibilità nell'arte; nella quale peraltro anche l'odioso,purché non sia ripugnante, può, come vedremo avanti, essere a suoluogo tollerato.

Par' 41. - Il corso del nostro studio ha reso necessario inserirequi l'analisi del sublime, quando l'analisi del bello non eracompiuta che a metà, cioè in uno solo dei suoi lati, quello

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsoggettivo. Infatti ciò che distingue il sublime dal bello non è cheuna modificazione di questo lato soggettivo. Lo stato di conoscenzapura libera da volontà, presupposto e richiesto da ognicontemplazione estetica, o si produce da sé in modo spontaneo, senzaresistenza, per il semplice sparire della volontà, grazie alla naturadell'oggetto che invita ed attira; oppure dev'essere conquistato conuna lotta, mediante un libero e cosciente sollevarsi al disopra dellavolontà e della relazione sfavorevole ostile che ha con questal'oggetto contemplato, l'attenersi alla quale sopprimerebbe ognicontemplazione. Ci troviamo in presenza, nel primo caso, del bello,nel secondo caso, del sublime. Nell'oggetto, il bello e il sublimenon sono essenzialmente distinti; perché, sia nell'uno chenell'altro, l'oggetto della contemplazione estetica non è la cosaindividuale, ma l'idea che tende a manifestarvisi, cioè l'oggettitàadeguata della volontà in un determinato grado; il suo correlatonecessario, libero come quella dal principio di ragione, è ilsoggetto puro della conoscenza; come il correlato della cosaindividuale è l'individuo conoscente, (ambedue contenuti nell'ambitodel principio di ragione).Una cosa dicesi bella, in quanto è oggetto della nostracontemplazione estetica, e ciò implica due affermazioni. Primo, chela sua vista ci renda obiettivi, cioè che nel contemplarla nonabbiamo coscienza di noi stessi come individui, bensí come soggetticonoscenti puri, liberi da ogni volontà. Secondo, che nell'oggettoriconosciamo non già una cosa individuale, ma un'idea; il che non puòaver luogo, se non a condizione che la nostra contemplazione sisvincoli dal principio di ragione, rinunzi alle possibili relazioniesistenti dell'oggetto (relazioni che in ultimo fan sempre capo allavolontà), non riposi che nell'oggetto stesso. L'idea e il soggettoconoscente puro, che sono correlativi, alla coscienza si presentanosempre insieme; al loro affacciarsi, ogni differenza di temposvanisce, perché l'idea e il soggetto conoscente sono estranei alprincipio di ragione in ogni sua forma, e giacciono fuori dellerelazioni, che ne derivano; come l'arcobaleno e il sole nonpartecipano al movimento delle goccioline cadenti. Perciò, quando iocontemplo, ad esempio, un albero, ma esteticamente, con occhiod'artista, e quindi considero, non l'albero come individuo, ma l'ideasolamente, non m'importa se l'albero sia l'attuale o un suoprogenitore di mille anni fa, né se lo spettatore sia il tale o iltal altro individuo vivente in un qualsiasi punto del tempo e dellospazio; con il principio di ragione svaniscono sia la cosaparticolare sia l'individuo conoscente; non restano che l'idea e ilsoggetto puro della conoscenza, costituenti insieme l'oggettitàadeguata della volontà in questo grado. L'idea è sottratta nonsoltanto al tempo, ma ben anche allo spazio; l'idea infatti non èl'immagine che mi appare nello spazio, ma la sua espressione, il suosignificato puro, la sua intima essenza, che mi si manifesta e miparla; espressione, significato, essenza, che possono rimanereidentici, nonostante le piú gravi differenze tra le relazionispaziali della forma.Siccome da un lato ogni cosa data si può considerareoggettivamente, all'infuori di ogni rappresentazione; d'altro latoogni cosa è manifestazione della volontà in un qualche grado dellasua oggettità, ed esprime quindi un'idea; segno che ogni cosa èbella. Che anche l'oggetto piú insignificante ammetta unacontemplazione puramente oggettiva, libera dalla volontà, e possaquindi assumere un carattere di bellezza, è provato dai quadri disoggetto domestico dei pittori fiamminghi, di cui già si disse. Lecose però sono piú o meno belle, a seconda che facilitino o suscitinoin grado maggiore o minore una contemplazione puramente oggettiva; sidicono bellissime, se la determinano in modo, per cosí dire,necessario. Il che si verifica in due circostanze. Primo, quandol'oggetto particolare, in virtú di una relazione nettamentedeterminata, chiarissima, precisa e significativa tra le sue parti,esprime con esattezza l'idea della sua specie, e la manifesta conperfezione, riunendone tutte le proprietà possibili, così dafacilitare allo spettatore il passaggio dalla cosa singola all'idea,e da invitarlo allo stato di pura contemplazione. Secondo, questo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpregio di singolare bellezza di un oggetto dipende dal fatto chel'idea che da esso si rivela esprime un alto grado di oggettità dellavolontà ed è per questo assai significante ed espressiva. Per taleragione l'uomo è bello al disopra di ogni cosa bella, e larappresentazione della sua intima essenza costituisce il fine supremodell'arte. La figura e l'espressione umana formano l'oggetto piúimportante dell'arte figurativa, come l'azione umana è l'oggetto piúimportante della poesia.Ogni cosa, peraltro, ha una sua peculiare bellezza. E questo è veronon soltanto per gli esseri organici, che si manifestano nell'unitàdi una forma individuale, ma anche per ogni oggetto inorganico privodi forma; anzi, anche per ogni prodotto artificiale. Poichéquest'ultima categoria di esseri esprime le idee nelle quali lavolontà si oggettivizza ai gradi inferiori, e rende quasi le note piúprofonde e piú sorde nel concerto armonico della natura. Peso,rigidità, fluidità, luce, ecc', ecco le idee che si esprimono nellerocce, negli edifici, nelle acque. La bella arte del giardiniere el'architettura non possono che aiutare le idee a svolgere in modochiaro, completo ed evidente, queste loro proprietà, e dar lorooccasione di esprimersi nettamente, in guisa da provocare efacilitare la contemplazione estetica. Il che non si verifica, se nonin grado minimo o nullo nei mal costrutti edifici e nei paesagginegletti dalla natura o guastati da grossolane manifestazioniartistiche: ma le idee universali e fondamentali della natura nonsono del tutto assenti neppure da queste cose, ed anche in questocaso esse parlano allo spettatore che le cerca. Gli stessi bruttiedifizi e cose simili sono atti ad essere considerati esteticamente;le idee delle proprietà piú generali della loro materia vi si possonoancora riconoscere; soltanto la loro forma artificiale, invece difacilitare la contemplazione, costituisce piuttosto un ostacolo e unadifficoltà. Cosí anche i prodotti artificiali servono all'espressionedelle idee; ma ne viene espressa non l'idea di prodotto artefatto,bensí e soltanto l'idea della materia che fu plasmata in questa formaartificiale. Gli scolastici resero felicemente la distinzione con duetermini del loro linguaggio: ciò che viene espresso dal prodottoartificiale, è l'idea della sua forma substantialis, non quella dellaforma accidentalis; quest'ultima forma non conduce a un'idea, masoltanto al concetto umano, da cui è uscita. Con il termine diprodotto artificiale non vogliamo designare (s'intende) alcunprodotto delle arti figurative. Del resto, ciò che gli scolasticiintendono con il termine forma substantialis, coincide perfettamentecon quello che io chiamo grado di oggettivazione della volontà in unacosa. Ritorneremo fra poco, parlando dell'architettura,sull'espressione dell'idea dei materiali. Risulta dalla nostrateoria, che non possiamo esser d'accordo con Platone, quando afferma(De Rep', X, pagg' 284-285, e Parmen', pag' 79, ed' Bip') che latavola e la sedia esprimono le idee tavola e sedia; sosteniamo alcontrario che tavola e sedia esprimono le idee già rivelatesi nellaloro materia in quanto materia. Secondo Aristotele (Metaph', Xi, cap'3) Platone non avrebbe tuttavia ammesso idee che per gli esseri dinatura: «ho §plätwn ëfû, öti eïdû ëstin hopösa füsei» (Plato dixit,quodideae eorum sunt, quae natura sunt); e nel cap' 5 dice che,secondo i platonici, non vi sono idee di casa e di anello. In ognimodo, già i discepoli piú prossimi di Platone, stando alleinformazioni di Alcinoo (Introductio in Platonicam philosophiam, cap'9), avevano negato che potessero esservi idee per le coseartificiali, ovvero prodotte dall'uomo. Ecco quanto dice Alcinoo:«§horïzontai dc tèn idëan, parädeigma t#n katà füsin aijnion. §oütegàr toîs pleïstois t#n apò §plätwnos arëskei, t#n teçnik#n eînaiidëas, oîon aspïdos è lüras, oüte mèn t#n parà füsin, oîon puretovkaì çolëras, oüte t#n katà mëros, oîon §swkrätous kaì §plätwnos, all'oüte t#n eutel#n tinös, oîon hrüpou kaì kärfous, oüte t#n prös ti,oîon meïzonos kaì huperëçontos; eînai gàr tàs idëas noéseis ôeovaiwnïous te kaì autoteleîs» (Definiunt autem Ideam exemplar aeternumeorum, quae secundum naturam existunt. Nam plurimis ex iis, quiPlatonem secuti sunt, minime placuit, artefactorum Ideas esse, utclypei atque lyrae; neque rursus eorum quae praeter naturam, utfebris et cholerae: neque particularium, seu Socratis et Platonis;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtneque etiam rerum vilium, veluti sordium et festucae; nequerelationum, ut maioris et excedentis, esse namque Ideasintellectiones Dei aeternas, ac seipsis perfectas). Ora che se nepresenta l'occasione, debbo qui ricordare un altro punto in cui lamia dottrina delle idee si allontana notevolmente da quella diPlatone. Insegna questi (De Rep', X, pag' 288), che l'oggetto, di cuile arti belle tendono a dare la riproduzione, cioè il modello dellapittura e della poesia, non è l'idea, ma la cosa particolare. Tuttal'analisi da me condotta sin qui afferma precisamente il contrario: etale opinione di Platone deve tanto meno turbarci, in quanto è lasorgente di uno dei piú gravi e riconosciuti errori di questogrand'uomo, e cioè del suo disprezzo e della sua ripugnanza perl'arte, specialmente per la poesia: il suo falso giudizio suquest'ultima si riconnette immediatamente con il passo da noiriferito.

Par' 42. - Riprendiamo la nostra analisi dell'impressione estetica.Sappiamo che la conoscenza del bello presuppone sempre un soggettoconoscente puro e un'idea conosciuta come oggetto, entrambisimultanei ed inseparabili. Tuttavia la sorgente del godimentoestetico risiederà in maggior misura, ora nella concezione dell'ideaconosciuta, ora nella beatitudine e nella serenità d'animo cheaccompagnano la conoscenza pura, libera da ogni volere, da ogniindividualità, e da tutte le relative miserie. La preminenza dell'unoo dell'altro di questi elementi del piacere estetico, è strettamentecollegata con il grado piú o meno elevato di oggettità della volontàcorrispondente all'idea intuita. Cosí nella contemplazione estetica(sia diretta, sia per mezzo dell'arte) del bello nella naturainorganica e vegetale, o nelle opere artistiche di architettura,terrà il predominio il godimento della conoscenza pura ed esente davolere, perché in tal caso le idee concepite non sono che gradiinferiori di oggettità della volontà, e non rappresentano quindifenomeni di alta importanza e di ricco contenuto interiore. Alcontrario: se l'oggetto di contemplazione o di rappresentazioneestetica sarà costituito da animali o da uomini, il piacereconsisterà principalmente nella concezione oggettiva di queste idee,che costituiscono le manifestazioni piú decise della volontà; inquanto presentano la piú complessa varietà di figure, la piú grandericchezza e il significato piú profondo nei fenomeni, e rivelano conla massima perfezione l'essenza della volontà. La quale vi si svelanella sua violenza e nei suoi terrori, ora soddisfatta, ora affranta(ad esempio nella tragedia); e finalmente nella sua conversione onell'autoannullamento, che è il tema particolare della pitturacristiana, come la pittura storica e il dramma hanno generalmente peroggetto l'idea della volontà pienamente illuminata dalla conoscenza.Ora verremo a parlare separatamente di ogni singolo ramo dell'arte,il che contribuirà a chiarire e completare la nostra teoria delbello.

Par' 43. - La materia, come tale, non può essere larappresentazione di un'idea. La materia, infatti, come s'è visto nelprimo libro, è essenzialmente ed esclusivamente causalità; il suoessere non è altro che agire. Ora la causalità è una forma delprincipio di ragione: la conoscenza dell'idea, al contrario, escludeessenzialmente il contenuto di tale principio. S'è anche visto, nelsecondo libro, che la materia è il substrato comune di tutti ifenomeni particolari delle idee, ed è perciò anche l'anello dicongiunzione tra l'idea e il fenomeno o la cosa particolare. Perentrambe queste ragioni, dunque, la materia non può da se stessarappresentare l'idea. Il che, d'altronde, viene confermato aposteriori dal fatto che la materia non ammette alcunarappresentazione intuitiva, ma soltanto un concetto astratto, dalmomento che la rappresentazione intuitiva non può avere ad oggetto senon le forme e le qualità, di cui la materia è il substrato, e nelcui insieme si manifestano le idee. Questo si ricollega anche alfatto che la causalità (l'essenza stessa della materia) non può diper sé essere rappresentata in modo intuitivo: similerappresentazione non è possibile che per una relazione causale

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdeterminata. D'altra parte, invece, ogni fenomeno dell'idea, poichéassume, come tale, la forma del principio di ragione o del principiiindividuationis, deve manifestarsi nella materia e come qualità dellamateria. E questo è il senso, in cui la materia costituisce, come s'èdetto, l'anello di congiunzione fra l'idea e il principiumindividuationis, il quale non è che la forma di conoscenzadell'individuo, cioè il principio di ragione. Platone è dunqueperfettamente nel vero, quando, oltre all'idea e al suo fenomeno,cosa particolare, che esauriscono insieme la totalità delle cose diquesto mondo, ammetteva un terzo elemento, diverso dagli altri due,nella materia (Timaeus, pag' 345). Ogni individuo, come fenomenodell'idea, è sempre materia. Parimenti, ogni qualità della materia èsempre fenomeno di un'idea, e come tale, atto a ricevere lacontemplazione estetica, capace di prestarsi alla concezionedell'idea che rappresenta. Ciò vale anche in ordine alle qualità piùgenerali della materia; qualità da cui la materia è inseparabile, ele idee delle quali costituiscono i gradi piú deboli di oggettitàdella volontà. Tali sono il peso, la coesione, la rigidità, lafluidità, la reazione contro la luce, ecc'.Consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella,prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici (nel quale ultimocaso è al servizio della volontà, e non della conoscenza pura, sicchénon costituisce un'arte nel senso in cui noi l'intendiamo). Nonpossiamo attribuirle altro ufficio che quello di facilitarel'intuizione di alcune di quelle idee che sono i gradi inferiorid'oggettità della volontà, e cioè il peso, la coesione, la rigidità,la durezza; proprietà generali della pietra, prime, piú semplici epiú oscure manifestazioni della volontà, note del basso fondamentaledella natura; e insieme con esse la luce, che per molti riguardi è illoro contrapposto. Anche in un grado cosí basso della sua oggettitàvediamo già la volontà manifestare la sua essenza nella lotta fra ilpeso e la rigidità, lotta che costituisce infatti propriamentel'unico tema estetico dell'arte in architettura; far risaltare talecontrasto nel modo piú vario e piú evidente: questo è il suo ufficio.Ufficio cui essa adempie chiudendo a quelle indistruttibili forze lavia diretta della loro libera espansione, ovvero le frena deviandole;così prolunga la lotta, e rende visibile sotto mille forme svariatelo sforzo infaticabile delle due forze nemiche. Abbandonato alla suatendenza naturale, tutto l'edificio verrebbe a formare una massacompatta, premente al massimo sul suolo, su cui lo spingeinesorabilmente il peso, che qui è la forma di manifestazione dellavolontà; la rigidità invece, che è egualmente oggettità dellavolontà, oppone a tale sforzo un'energica resistenza. L'architetturaimpedisce la manifestazione immediata della naturale legge dellagravità, non concedendole che una manifestazione mediata,costringendola cioè per una via tortuosa. Così, ad esempio,l'impalcatura non può poggiare al suolo che per mezzo di colonne; lavolta deve reggersi da sé, e i pilastri sono l'unico mezzo medianteil quale la gravità può soddisfare la propria tendenza verso terra,ecc'. Ma appunto in virtú di queste vie contorte e forzate, in virtúdi questi ostacoli, le forze immanenti a quei rudi massi di pietrahanno il modo di manifestarsi nella forma piú evidente e piú varia;né altro si può chiedere all'architettura dal lato estetico. Quindila bellezza di un edificio consisterà nel palese adattamento finaledi ogni parte ad una finalità, non esterna e fissata dall'uomo adarbitrio (l'opera, in tal caso, apparterrebbe all'architetturapratica e applicata), ma riferita direttamente alla staticadell'insieme, in ordine al quale ogni elemento deve, per laposizione, per la grandezza e per la forma, essere in una relazionecosì necessaria che, se per ipotesi si togliesse una qualsiasi parteda qualsiasi luogo, tutto l'edificio dovrebbe cadere in rovina.Bisogna infatti che ogni parte sostenga un peso esattamenteproporzionato alla sua resistenza, e venga essa stessa sostenuta népiú né meno del necessario: questa è infatti la condizioneindispensabile per metter bene in luce quel conflitto tra la rigiditàe il peso, in cui si manifesta la vita, l'estrinsecazione dellavolontà nella pietra, e che manifesta con chiarezza ed evidenzaquesti infimi gradi dell'oggettità della volontà stessa. Parimenti,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtanche la forma di ogni parte dev'essere determinata dal suo compito edalla sua relazione col tutto, e non dall'arbitrio. La colonna è ilpiú semplice dei sostegni, quello di cui la forma è determinataunicamente dalla sua destinazione: la colonna spirale è priva digusto; il pilastro quadrato, sebbene casualmente piú facile acostruire, in realtà è meno semplice della colonna rotonda. Le formedel fregio, della trabeazione, dell'arco e della cupola, dal momentoche sono anch'esse interamente determinate dalla loro immediatadestinazione, si spiegano perfettamente da sé. Gli ornamenti deicapitelli, ecc', fanno parte della scultura, non dell'architettura,la quale si contenta d'ammetterli a titolo di semplici ornamentiaccessori che potrebbero anche mancare. Risulta da quanto si è dettoche, per comprendere un'opera di architettura e gustarlaesteticamente, conviene possedere una conoscenza immediata eintuitiva del materiale di cui è composta; sia in ordine al suo peso,sia in ordine alla sua rigidità e alla sua coesione: se venissimo percaso a scoprire che un edificio è costruito di pietra pomice, ilnostro piacere estetico sarebbe immediatamente ridotto ai minimitermini; ci sembrerebbe allora di non trovarci di fronte che a unedificio apparente. Lo stesso effetto produrrebbe in noi l'apprendereche l'edificio è fatto di legno, mentre lo supponevamo di pietra; eciò perché la relazione fra il peso e la rigidità, su cui poggiatutta l'importanza e la necessità delle parti, verrebbe a subireun'alterazione, uno spostamento, dovuti precisamente al fatto chenegli edifici di legno le forze naturali si manifestano in modo moltopiú debole. Questa è la causa per cui il legno non può, nonostante sipresti a ricevere ogni forma, servire propriamente ad alcuna operad'arte architettonica: ed è questo un fatto che nessuna teoria che sidiscosti dalla nostra riesce a spiegare. Se infine ci si dicesse chel'edificio, la cui vista ci appaga, si compone di materiali diversi,di peso e consistenza molto ineguali, ma indiscernibili all'occhio,l'edificio perderebbe allora per noi ogni incanto; non potremmo piúgustarlo, come non si può gustare una poesia scritta in un linguaggiosconosciuto. E ciò dimostra appunto che l'effetto dell'architetturanon dipende soltanto da leggi matematiche, ma inoltre anche da leggidinamiche; ciò che nell'architettura ci parla non è la semplice formae la simmetria, ma son piuttosto le forze elementari della natura, leidee primitive, i gradi inferiori dell'oggettità della volontà. Laregolarità d'una costruzione e delle sue parti si riferisce, per unverso, al concorso di ogni singolo membro all'equilibrio staticodell'insieme; per un altro, serve a facilitare la veduta d'insieme el'intelligenza del tutto; e, infine, le figure regolaricontribuiscono alla bellezza, mostrando la regolarità dello spazio inquanto tale. Ma tutto ciò non ha che un valore e una necessità dinatura subordinata; non è qualcosa di principale: la simmetria non è,a rigore, una condizione indispensabile, poiché anche le rovineconservano un carattere di bellezza.Segnaliamo ancora l'esistenza di una relazione tutta speciale, chehanno con la luce le opere di architettura; le quali brillano di unaduplice bellezza quando siano inondate di sole e risaltino sul fondoazzurro del cielo; e un tutt'altro effetto producono al lume di luna.Ecco perché nella costruzione di una bell'opera di architettura sideve sempre avere uno speciale riguardo agli effetti di luce eall'orientazione. Tutto ciò dipende senza dubbio dal fatto che, perrendere ben visibili tutte le parti nelle loro correlazioni, sirichiede una luce chiara ed intensa; ma credo inoltre chel'architettura sia destinata, oltreché a mettere in rilievo il peso ela resistenza, anche a rivelare la natura della luce, opposta aquella del peso e della resistenza. Infatti, accolta, impedita,riflessa da immense masse riflettenti dai contorni precisi e ricchedi forme svariate, la luce rivela nel modo piú puro e spiccato la suanatura e le sue proprietà, e riempie di viva gioia lo spettatore:poiché la luce è la piú gioconda di tutte le cose, in quanto è lacondizione e il correlato oggettivo del modo piú perfetto diconoscenza intuitiva.Ora, siccome le idee, di cui l'architettura ci dà la chiaraintuizione, non occupano che gl'infimi gradi dell'oggettità dellavolontà, e in conseguenza il significato oggettivo di ciò che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'architettura ci rivela è relativamente minimo, ne segue che ilgodimento estetico suscitato dalla contemplazione di un edificio nonsoltanto bello ma anche bene illuminato risiede non tanto nellaconcezione dell'idea, quanto nel correlato soggettivo chel'accompagna; consisterà cioè principalmente nel fatto che, allavista dell'edifizio, lo spettatore si emancipa dalla conoscenzaindividuale schiava della volontà e del principio di ragione, perassurgere a soggetto puro di conoscenza, libero da ogni volere; inaltre parole: consiste nella contemplazione pura, emancipata da tuttele miserie della volontà e dell'individualità. Sotto questo punto divista, l'opposto dell'architettura, l'altro estremo nella serie dellearti belle, è il dramma. Il dramma offre alla conoscenza le idee piúprofonde di significato; e nel godimento estetico che ne deriva, illato oggettivo predomina di gran lunga sul soggettivo.L'architettura differisce dalle arti figurative e dalla poesia peril fatto che essa non ci dà una copia, ma la cosa stessa; nonriproduce, come fanno le arti, l'idea conosciuta, per mezzo dellaquale l'artista presta i suoi occhi allo spettatore; ma qui l'artistapone dinanzi allo spettatore il semplice oggetto, e gli facilita laconcezione dell'idea, portando l'oggetto reale e individuale allachiara e completa espressione della sua essenza.Le opere architettoniche vengono ben di rado (al contrario diquelle delle altre arti) eseguite per fini puramente estetici;vengono piuttosto subordinate ad altri fini utilitari ed estraneiall'arte; sicché il gran merito dell'architetto consiste nelperseguire e raggiungere il fine estetico, pur tenendo conto dellealtre esigenze cui è subordinato; per arrivarci, bisogna chel'architetto, caso per caso, si sforzi di accordare opportunamente invari modi l'effetto estetico con fini utilitari, e si renda ben contodel genere di bellezza esteticoarchitettonica che meglio si possaconciliare e associare con un arsenale, un palazzo, ecc'. Quanto piúil rigore del clima moltiplica le esigenze e i bisogni d'utilitàpratica, quanto piú le determina e le prescrive imperiosamente, tantopiú si viene a restringere in architettura l'orizzonte del bello. Neiclimi temperati dell'India, dell'Egitto, della Grecia e di Roma, dovele esigenze della pratica erano assai piú ristrette e meno imperiose,l'architettura poteva con la massima libertà raggiungere i suoi finiestetici; sotto il cielo nordico, il suo compito è molto piúdifficile; qui, ove c'è bisogno di muri di chiusa, di tetti acuti edi torri, l'architettura, costretta a racchiudere il suo svolgimentoartistico nei limiti piú angusti, dovette, per compenso, ricorreretanto piú agli ornamenti presi a prestito dalla scultura; cosaevidentissima nell'architettura gotica.Ogni esigenza utilitaria pratica è dunque un ostacolo perl'architettura, e tuttavia le offre un forte punto di appoggio per ilfatto che, viste le dimensioni e il prezzo delle sue opere, visto ilcampo ristretto della sua efficacia estetica, non le sarebbepossibile sussistere unicamente come arte bella, se, nella suaqualità di professione utile e necessaria, non occupasse al tempostesso un posto sicuro ed onorevole fra le attività umane. Appunto lamancanza di tale condizione impedisce ad un'altra arte di collocarsicome sorella accanto all'architettura, della quale, sotto il punto divista estetico, è propriamente un ramo collaterale; voglio direl'idraulica artistica. Tutte e due rappresentano infatti l'idea delpeso, con la differenza però che l'architettura la rappresentaassociata con l'idea di solidità, mentre l'idraulica la congiunge conla fluidità, che è assenza di forma, mobilità perfetta e trasparenza.La cascata che fragorosa precipita spumeggiando sulle rocce, lacateratta che si polverizza senza rumore, il getto d'acqua che sieleva in alto come una liquida colonna e il lago che appare come unlimpido specchio, rivelano le idee della materia fluida e pesante,come le costruzioni architettoniche rappresentano le idee dellamateria rigida. L'idraulica pratica non può essere d'alcun aiutoall'idraulica artistica, perché i loro fini sono di regolainconciliabili; salvo casi eccezionali, come ad esempio nella cascatadi Trevi a Roma. (13)

Par' 44. - Abbiamo visto i compiti dell'architettura e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdell'idraulica in ordine ai gradi inferiori dell'oggettità dellavolontà; simile ufficio compie in certo modo l'arte del giardinaggioin ordine al grado piú elevato che corrisponde alla natura vegetale.Un paesaggio, per esser bello, deve anzitutto riunire una grandevarietà di prodotti naturali; bisogna poi che questi si distinguanonettamente, e spicchino in modo chiaro e preciso, rispettando l'unitàe la varietà dell'insieme. L'arte dei giardini deve cercare direalizzare queste due condizioni; tuttavia è molto lontana dalpadroneggiare la sua materia, come l'architettura la sua: donde ilimiti alla sua azione. Il genere di bellezza che è suo compito diporre in rilievo, è proprietà quasi esclusiva della natura; l'artenon vi può contribuire che in minima parte; inoltre ben poco può farecontro l'inclemenza della natura; se questa ne contraria gli sforzi,anziché favorirli, la sua potenzialità è ridotta ai minimi termini.Il mondo delle piante si offre all'ammirazione estetica senzal'intermediario dell'arte: nondimeno, in quanto è oggetto diriproduzione artistica, appartiene principalmente alla pittura dipaesaggio, nel cui campo parimenti rientra tutto il resto dellanatura incosciente. Nei quadri di scene domestiche, di soggettiarchitettonici, di rovine, di interni di chiese, ecc', predomina illato soggettivo del piacere estetico. Ciò significa che la gioia cheproviamo in tale contemplazione deriva, non direttamente néprincipalmente dalla concezione dell'idea rappresentata, masoprattutto dal correlato soggettivo di questa concezione, dallaconoscenza pura e libera dal volere. Infatti, non appena ci sforziamodi contemplare tali oggetti con gli occhi dell'artista che li hadipinti, gioiamo subito, come per eco simpatica di sentimento, dellaserenità profonda di spirito dovuta al silenzio completo dellavolontà, i quali elementi si resero necessari affinché l'artistapotesse effondere la sua conoscenza in oggetti cosí privi di vita, econcepirli con tanto amore, con oggettività cosí perfetta. L'effettodella pittura di paesaggio propriamente detta è ancora pressappocodello stesso genere; tuttavia, siccome le idee che da esse sonorappresentate rispondono a gradi superiori di oggettità dellavolontà, e sono quindi piú importanti e piú significative, l'aspettooggettivo del piacere estetico si afferma qui con forza maggiore,cosí da controbilanciare il soggettivo. La conoscenza pura noncostituisce piú il solo elemento principale; l'idea conosciuta, cioèil mondo come rappresentazione in un grado significativo dioggettivazione della volontà, opera qui con altrettanta potenza e conaltrettanta efficacia.Ma un grado anche piú elevato ci si rivela nella pittura e nellascultura di animali; l'antichità ce ne trasmise belli ed importantiesempi, quali i cavalli di Venezia, di Monte Cavallo, dei rilievi diElgin: quelli di Firenze, che son di bronzo e di marmo; nella stessacittà abbiamo l'antico cinghiale e i lupi urlanti; ricordiamo i leonidell'arsenale di Venezia; tutta una intera sala del Vaticano è pienaesclusivamente d'animali antichi ecc'. In tali rappresentazioni, illato oggettivo del piacere estetico prende un deciso predominio sullato soggettivo. La calma del soggetto che percepisce queste idee,riducendo al silenzio la sua volontà, vi si fa senza dubbio valere,come in ogni altra contemplazione estetica; ma senza che se neavverta l'effetto; rimanendo l'attenzione assorta nello spettacolodella volontà, rappresentata nella sua agitazione e nella suaviolenza. Ci vediamo dinanzi quella medesima volontà in cui consisteanche la nostra essenza; ma la vediamo incarnata in esseri nei qualila sua manifestazione non è, come in noi, dominata e mitigata dallariflessione, bensí accentuata nei tratti piú intensi, ed esplicata inmaniera cosí franca, da rasentare il grottesco e il mostruoso; e, incompenso, sbrigliata, nella piena luce del giorno, sempre ingenua,sempre schietta, senza la minima dissimulazione. Questa è la ragionevera per cui noi proviamo tanto interesse agli animali. Lacaratteristica della specie appare già nei quadri di piante, ma nonvi si distingue che per la forma: negli animali assume inveceun'importanza ben maggiore; né si esprime soltanto nella forma, maben anche nell'atto e nel piglio; benché rimanga semprecaratteristica della specie, senza arrivare mai all'individuo. Laconoscenza delle idee di grado superiore ci è, nella pittura,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfavorita da mezzi estranei; possiamo tuttavia parteciparne in viaimmediata, osservando con occhio puramente contemplativo le piante egli animali: questi ultimi, s'intende, nel loro stato naturale dilibertà e di salute. La contemplazione oggettiva delle loro formecosì meravigliosamente varie, come dei loro atti e comportamenti, èuna lezione ricca ed istruttiva, che leggiamo nel gran libro dellanatura: è una vera decifrazione della De signatura rerum; (14) viriconosciamo i vari gradi e le varie forme di manifestazione dellavolontà; questa volontà, una e identica in tutti gli esseri, vuolsempre e dappertutto la stessa cosa, e cioè oggettivarsi nella vita,nell'esistenza; tutta questa varietà infinita di esseri e di formealtro non è che tutta una serie di adattamenti alle varie condizioniesterne, e che si può paragonare alle molteplici variazioni di unostesso tema. Per dare al contemplatore una nozione sintetizzante inuna parola l'essenza intima di questi esseri, e gravida diriflessioni, non posso far meglio che scegliere la formula sanscritache si riscontra sovente nei libri sacri degli indú e il cui nome èMahavakya, la grande parola; eccola: «Tat twam asi» (questa cosavivente sei tu).

Par' 45. - Rappresentare in maniera immediata e intuitiva le ideein cui la volontà raggiunge il grado piú elevato della suaoggettivazione, è infine l'alta missione della pittura storica edella scultura. Il lato oggettivo del piacere estetico vi ha ilpredominio assoluto, mentre il soggettivo passa addirittura in ultimalinea. Dobbiamo inoltre notare che nel grado immediatamenteinferiore, nella pittura degli animali, il caratteristico è ancoratutt'uno con il bello: il leone, il lupo, il cavallo, il montone, iltoro piú caratteristici, son sempre i piú belli. E la ragione ditutto questo consiste precisamente nel fatto che gli animali hanno uncarattere generico, non un carattere individuale. Al contrario,quando si rappresenta l'uomo, i due caratteri, generico eindividuale, si distinguono in modo chiaro e preciso; il caratteredella specie si chiama allora bellezza (nel senso interamenteoggettivo); quello dell'individuo conserva il nome di carattere o diespressione. Donde una nuova difficoltà: quella di rappresentare ledue specie di caratteri con eguale perfezione in uno stessoindividuo.La bellezza umana è un'espressione oggettiva, che designal'oggettivazione di piú alto grado della volontà nel grado supremodella sua conoscibilità, e cioè l'idea dell'uomo, espressaperfettamente nella sua forma intuitiva. Ma per quanto siapredominante la faccia oggettiva del bello, qui la soggettiva nonmanca mai; non c'è infatti oggetto che ci trascini così rapidamentealla contemplazione estetica pura, come la bellezza del volto e dellafigura umana, al cui aspetto ci sentiamo in un solo istante compresidi gioia ineffabile, e rapiti al disopra di noi stessi, al disopra ditutto ciò che ci affligge. Questo rapimento, se è possibile, èpossibile soltanto per il fatto che la piú pura e piú distintamanifestazione della volontà, è in pari tempo la via piú facile e piúbreve che ci possa condurre in quello stato di pura conoscenza, incui la nostra personalità e la nostra volontà, con tutte le suecontinue miserie, svaniscono, finché duri la gioia estetica. Donde leparole di Goethe: «Colui che contempla la bellezza umana, si senteimmune da ogni soffio di male; si sente in pieno accordo con sestesso e col mondo». La creazione, da parte della natura, di unabella forma umana, si spiega con il fatto che la volontà, favorita datutte le circostanze propizie e dalla propria forza, nel momento incui si oggettiva a questo grado superiore in un individuo, trionfapienamente di tutti gli ostacoli e di tutte le resistenze opposteledalle manifestazioni dei gradi inferiori della volontà, cioè dalleforze naturali: nemici che si contendono fra loro il dominio dellamateria, e a cui la volontà deve ogni volta strapparla con violenza.Inoltre i fenomeni della volontà, nei loro gradi superiori, hannosempre una forma estremamente complessa (l'albero stesso non è che unaggregato sistematico di fibre, che si accrescono e si ripetonoindefinitamente); tale complicazione va crescendo, man mano che cieleviamo nella scala degli esseri; e il corpo umano è un sistema

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprodigiosamente combinato di parti affatto eterogenee, ciascuna dellequali, pur vivendo in subordinazione al tutto, possiede nondimeno unavita particolare sua propria. Le parti debbono essereconvenientemente subordinate al tutto, e coordinate fra loro, debbonoarmonicamente collaborare alla espressione dell'insieme: nessunaipertrofia, nessuna atrofia. Ecco le condizioni dal concorsoeccezionale delle quali scaturisce la bellezza, cioè il caratteredella specie nella sua piú perfetta espressione. Così opera lanatura. E l'arte? Alcuni credono che imiti la natura. Ma l'artista,se non avesse del bello una nozione anteriore ad ogni esperienza, conquale criterio potrebbe riconoscere nella natura il capolavoro, ilmodello da imitare? Come potrebbe distinguere questo modello fra laturba degli aborti? D'altronde, produsse mai la natura un essereumano perfettamente bello in tutte le sue parti? Credono altri, chel'artista dovrebbe fare una raccolta delle bellezze isolate, dispersein molti uomini, per comporre con questi particolari un bell'insieme:opinione assurda e irriflessa. Infatti, e di nuovo: con qualecriterio può l'artista riconoscere che le forme belle sono le tali enon le tali altre? Sappiamo, del resto, che bel successo abbianoavuto, in fatto di bellezza umana, gli antichi pittori tedeschi, contutta la loro imitazione della natura; basta dare uno sguardo ai loronudi. No: la nozione del bello non può acquistarsi puramente aposteriori, e per via di sola esperienza: è sempre, almeno in parte,una nozione a priori, sebbene di specie affatto diversa dai vari modidel principio di ragione, anch'essi noti a priori. Questi modiconcernono la forma generale del fenomeno come fenomeno, in quantoessa forma costituisce il fondamento della conoscenza in genere, e cidà il come universale e necessario del fenomeno; e da taleconoscenza, derivano la matematica e la scienza fisica pura; invece,l'altro genere di conoscenza a priori, da cui è resa possibile larealizzazione del bello, non concerne la forma, bensì la sostanza deifenomeni; il loro che, non il loro come. Tutti sappiamo riconoscerela bellezza umana: ci basta vederla. Ma il vero artista la intuiscecon così straordinaria chiarezza, da potercela rivelare quale non lavide mai; e la sua creazione oltrepassa la natura. La qual cosa èpossibile soltanto per il fatto che la volontà che l'artista analizzaper riprodurne l'adeguata e suprema oggettivazione, coincide conl'intima essenza di noi stessi. E questa è l'unica ragione per cuiabbiamo una conoscenza anticipata di ciò che la natura (identicaappunto alla nostra volontà, costitutivo essenziale del nostroessere) si sforza di realizzare; tale anticipazione di conoscenza è,nel vero genio, accompagnata da così grande profondità diriflessione, che non appena riconosce l'idea nelle cose particolari,comprende subito la natura, come a mezze parole, e può esprimere conperfetta purezza ciò che la natura non fa che balbettare; quellabellezza di forme che la natura, dopo mille infruttuosi tentativi,non riesce a produrre, l'artista di genio crea e fissa nel piú durodei marmi; ponendola poi di fronte alla natura quasi esclamando:«Ecco quello che tu volevi dire». «Sì, proprio questo», risponde unavoce vibrante dall'intima coscienza dello spettatore. Soltanto cosìil genio greco poté scoprire il prototipo della figura umana, eimporlo come canone alla sua scuola di scultura; soltanto in virtúdelle dette anticipazioni ci è dato di riconoscere il bello, dove lanatura sia di fatto, in un caso, riuscita a produrlo.Nell'anticipazione consiste l'ideale: l'idea, in quanto, almeno inparte, riconosciuta a priori, e in quanto, associandosi con i dati aposteriori della natura, e completandoli, entra nella praticadell'arte. La possibilità, per l'artista, di concepire il bello apriori, e per l'osservatore di costatarlo a posteriori, deriva dalfatto che, tanto l'artista, quanto l'osservatore, sono essi stessil'in sé della natura, e la loro essenza coincide con la volontà chesi oggettiva. Infatti, come dice Empedocle, il simile non si conosceche col simile: soltanto la natura può comprendere se stessa eapprofondirsi; come lo spirito non può esser sentito che dallospirito. (15)L'assurda opinione che l'ideale della bellezza umana fosse statodai greci scoperto in modo puramente empirico, mediante unacomposizione di bei particolari, scegliendo qui un ginocchio, là un

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtbraccio, ecc', ha un riscontro analogo nell'opinione letteraria, cheShakespeare, ad esempio, per poter rappresentare nei suoi drammi icaratteri cosí svariati, così veri, cosí fermi, così profondamentestudiati dei suoi personaggi, abbia dovuto incontrarli e studiarlinella propria esperienza del mondo. L'impossibilità, l'assurdità diuna tale opinione, non ha bisogno di essere confutata; è evidente cheil genio, come nell'arte plastica non può creare le belle opere senzaavere un presentimento anticipato del bello, cosí nulla può fare inpoesia senza un simile presentimento del caratteristico; senzadubbio, in ambedue i casi c'è bisogno dell'esperienza: ma l'ufficiodi questa non è che di somministrare uno schema; il quale aiutal'artista a portare ad esplicita chiarezza la concezione di cui apriori aveva soltanto una coscienza oscura, e costituisce l'unicabase possibile di una rappresentazione riflessa.Ho poco fa definito la bellezza umana come l'oggettivazione piúalta della volontà, nel grado supremo della sua conoscibilità. La suaespressione è la forma: forma che non esiste se non nello spazio, eche non ha nessuna relazione necessaria con il tempo, come ad esempioè il caso del movimento. Possiamo dunque dire che la bellezza insenso oggettivo non è altro che l'oggettivazione adeguata dellavolontà, mediante un fenomeno puramente spaziale. La pianta non è cheun fenomeno di tal genere, ossia un fenomeno della volontà situatopuramente nello spazio, perché (astrazion fatta dal suoaccrescimento) all'espressione della sua essenza non concorre nessunmovimento, e quindi nessuna relazione con il tempo; la semplice formadi un vegetale basta ad esprimerne e rivelarne per intero l'essenza.Ma l'animale e l'uomo, per offrire la piena rivelazione della volontàdi cui sono l'oggettivazione, hanno inoltre bisogno di tutta unaserie di atti, che ponga ciascuno dei loro fenomeni in una relazioneimmediata con il tempo. Questo argomento venne già spiegato nel libroprecedente, ma si riconnette col presente studio nella maniera chesegue. Come il fenomeno puramente spaziale della volontà può in ognideterminato grado oggettivarla in modo perfetto o imperfetto,realizzando appunto in tal guisa la bellezza o la bruttezza; cosìanche l'oggettivazione della volontà nel tempo, ossia l'azione, esoprattutto l'azione immediata, il movimento, può comportarsi in duemaniere rispetto alla volontà stessa che si oggettiva: o lecorrisponde in modo puro e perfetto, senza che vi si mescoli nulla diestraneo, nulla di superfluo, nulla di difettoso, in modo dacostituire la pura ed esatta espressione dell'atto volontario che sitratta di rappresentare; oppure avviene tutto il contrario. Nel primocaso il movimento si fa con grazia, nel secondo caso questa viene amancare. Come dunque la bellezza è la rappresentazione esatta dellavolontà in generale per mezzo di un fenomeno puramente spaziale, cosìla grazia è rappresentazione adeguata della volontà mediante unfenomeno collocato nel tempo, e cioè l'espressione giusta e misuratad'un atto volontario mediante il movimento e l'atteggiamento in cuisi oggettiva. Il movimento e l'atteggiamento presuppongono il corpo:sicché giusta e precisa è la definizione del Winckelmann: «La graziaconsiste in una relazione particolare fra l'azione e la personaagente» (Werke, vol' I, pag' 258). Ne segue naturalmente che allepiante possiamo attribuire la bellezza, ma non (fuorché in sensofigurato) la grazia; gli animali e l'uomo hanno e bellezza e grazia.La grazia, ripetiamo, consiste nel fatto che ogni movimento ed ogniatteggiamento devono essere eseguiti nel modo piú facile, piúconveniente e piú libero, cosí da riuscire l'espressione piú fedeledell'intenzione inerente all'atto volontario. Non ci deve esser nulladi superfluo: il superfluo si traduce, o in pose forzate, o in gestisenza scopo e senza senso. Ma non ci dev'esser neppure nulla dimanchevole; nel qual caso si avrebbe la rigidità del legno. La graziapresuppone un'esatta proporzione fra tutte le membra, ed esige unaconformazione corporea regolare ed armonica; questa è la suacondizione; e siccome questo è l'unico mezzo che renda possibilel'agevolezza completa e la convenienza evidente di ogni movimento edi ogni atteggiamento, segue che la grazia non va mai disgiunta dauna certa bellezza fisica. Uniamo una perfetta bellezza con unaperfetta grazia, ed avremo la manifestazione piú notevole dellavolontà nel grado supremo della sua oggettivazione.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtNell'umanità (ed è questo un suo elemento peculiare, già da noirilevato) il carattere della specie si distingue dal carattereindividuale, sicché ogni uomo (come si disse nel precedente libro)rappresenta in un certo modo un'idea particolare. Ne segue che learti, il cui scopo è di rappresentare l'idea dell'umanità, hanno perufficio di esprimere, non soltanto la bellezza come carattere dellaspecie, ma inoltre il carattere individuale, che è il carattere nelsenso piú preciso della parola. Ma questo carattere non si dovràconsiderare come qualcosa di accidentale, di proprio esclusivamentedell'individuo; bensì come una faccia dell'idea dell'umanità,nell'individuo che rifulge di luce speciale; una rivelazionedell'idea non è realizzabile che mediante la pittura di questocarattere individuale. Così, benché individuale, il caratteredev'essere sempre concepito e riprodotto in senso ideale, e cioè inmodo tale da mettere in viva luce il suo significato in relazione conl'idea generale dell'umanità (infatti, contribuisce anch'esso, a suomodo, all'oggettivazione dell'idea stessa): intesa altrimenti, larappresentazione si riduce ad un puro e semplice ritratto, ad unacopia del particolare in quanto particolare, con tutti i suoiammennicoli contingenti. Del resto, anche il ritratto, come diceWinckelmann, dev'essere l'idealizzazione dell'individuo.Questo carattere idealizzato, il quale non è che l'accentuazione diuna faccia particolare dell'idea dell'umanità, si rende visibileall'esterno, sia nella fisionomia e nell'atteggiamento abituale, sianegli affetti e nelle passioni transitorie, nelle modificazionireciproche dell'intelligenza da parte della volontà e della volontàda parte dell'intelligenza; tutte cose che si manifestano nel viso enei movimenti. Siccome l'individuo appartiene sempre all'umanità, esiccome, d'altra parte, l'umanità si manifesta sempre nell'individuo,con tutta la ricchezza di significato ideale propria di quest'ultimo,è necessario che né la bellezza sopprima il carattere né il caratteretolga la bellezza. Supponiamo infatti che il carattere individualesopprima il carattere della specie, o che viceversa il caratteredella specie cancelli ogni nota dell'individuo: non avremmo, nelprimo caso, che una caricatura, nel secondo, che una figurainsignificante. Cosí l'artista, quando si propone di rappresentare labellezza, oggetto specialmente proprio della scultura, deve pursempre modificare in qualcosa la bellezza medesima (cioè il caratteredella specie) mediante il carattere individuale, ed esprimere l'ideadell'umanità in modo precisamente individuale, mettendone in vivaluce un lato particolare. Infatti, l'individuo umano, come tale, hain certa misura la dignità di un'idea propria; e il rivelarsi inindividui che abbiano un significato proprio, è, dell'ideadell'umanità, una caratteristica essenziale. Perciò vediamo nelleopere degli antichi, che la bellezza, di cui pur avevano unaconcezione cosí limpida, non fu espressa in un tipo unico, ma in unafolla di figure individuanti caratteri diversi; fu, per cosí dire,sorpresa in aspetti sempre nuovi; l'Apollo, il Bacco, l'Ercole,l'Antinoo, ciascuno presenta una bellezza sua propria, ilcaratteristico potendo persino prevalere sul bello, al punto dadegenerare in bruttezza, come ad esempio nel Sileno ebro, nel Fauno,ecc'. Quando poi fosse spinto fino alla totale soppressione delcarattere della specie, ed esagerato fino alla mostruosità, ilcaratteristico si convertirebbe in pura e semplice caricatura. Ilcaratteristico, se deve non danneggiare la bellezza, importa piúancora che non danneggi la grazia; qualunque atteggiamento, qualunquemovimento, che si richiedano ad esprimere il carattere individuale,debbono effettuarsi nel modo piú facile, piú vantaggioso e piúappropriato alla persona. Questo canone s'impone, oltreché alloscultore ed al pittore, anche ad ogni buon attore: altrimenti nonabbiamo ancora che una caricatura, cioè una contorsione o unadislocazione.Nella scultura, oggetto principale sono sempre la bellezza e lagrazia. Il carattere spirituale dell'individuo, quale si traducenegli affetti, nelle passioni e nelle azioni e reazioni scambievolitra l'intelligenza e la volontà, e che si esprime unicamente nel visoe nel gesto, appartiene piuttosto al campo della pittura. Infatti,l'occhio e il colore, che sfuggono alla scultura, sebbene diano un

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpotente contributo alla bellezza, hanno un'importanza ben piúessenziale per l'espressione del carattere. Inoltre, la bellezza ècompresa in maniera piú completa quando si può contemplarla daparecchi lati: al contrario, il carattere e l'espressione possonovenire perfettamente compresi anche se guardati da un solo punto divista.Partendo dal principio che la bellezza è evidentemente lo scopoprincipale della scultura, il Lessing credette spiegare il fatto cheil Laocoonte non grida, con la ragione che il gridare non ècompatibile con la bellezza. Questo soggetto fu per Lessing il tema,o per lo meno il punto di partenza, di un intero libro; fu inoltrel'anima di parecchi scritti anteriori e posteriori; mi sia dunquepermesso di esporre qui incidentalmente l'opinione mia personale inproposito, sebbene una discussione cosí speciale non rientripropriamente nel campo del nostro studio, che deve sempre mantenereun punto di vista generale.

NOTE:(1) F'H' Jacobi.(2) Cfr' ad es' Immanuel Kant, ein Denkmal von Fr' Bouterwech, pag'49; e Buhle, Geschichte der philosophie, vol' 6, pagg' 802-815, 823.(3) Cfr' cap' 29 del secondo volume.(4) Per ben precisare il modo di conoscenza di cui qui si tratta,raccomando di leggere ciò ch'egli dice ancora nella stessa opera, L'Ii, prop' 40, schol' 2; poi nel L' V, prop' 25-38, sulla cognitiotertii generis, sive intuitiva; e in modo speciale prop' 29, schol';prop' 36, schol' e prop' 38 demonstr' et schol'.(5) [«Non sono i monti, i flutti e i cieli una parte@ Di me edell'anima mia, com'io di loro?@»](6) Cfr' cap' 30 del secondo volume.(7) Quest'ultima frase non si può capire senza conoscere il libroseguente.(8) [«Il grande genio è affine alla follia,@ Solo una paretesottile li divide.@»](9) Cfr' cap' 31 del secondo volume.(10) Cfr' cap' 33 del secondo volume.(11) Sono tanto piú felice e sorpreso di scoprire oggil'espressione del mio pensiero in S' Agostino, 40 anni dopo il giornoin cui l'ho scritto io stesso con tanta timidità ed esitazione:«Arbusta formas suas varias, quibus mundi huius visibilis structuraformosa est, sentiendas sensibus praebent: ut, pro eo quod nosse nonpossunt, quasi innotescere velle videantur». (De civ' Dei, Xi, 27)(12) [«...poiché tu fosti@ Come uno, che pur soffrendo tutto, nullasoffre;@ un uomo che della fortuna i colpi ed i favori@ Ha accoltocon eguali grazie,@ ecc'.»] (A' 3, sc' 2).(13) Cfr' il cap' 35 del secondo volume.(14) Jakob Böhme, nel suo libro De signatura rerum, cap' 1, parr'15, 16, 17, dice: «E non c'è alcuna cosa in natura, che non esprimaanche esteriormente la sua forma interiore: poiché l'interiore lavoracostantemente per la sua rivelazione. Ogni cosa ha una bocca perrivelarsi. E questa bocca è il linguaggio naturale, con cui ogni cosaesprime la sua condizione, e rivela e rappresenta se stessa. Poichéogni cosa richiama alla sua madre, che le ha dato l'essenza e lavolontà di rivestire quella forma particolare».(15) Quest'ultima frase è una traduzione del principio di Helvetius«Il n'y a que l'esprit qui sente l'esprit»; e nella prima edizionenon avevo sentito il bisogno di farlo notare. Ma da allora in poi,l'influsso deprimente della scienza degenerata di Hegel degradò eimbastardí gli spiriti dei nostri contemporanei, a segno che moltipotrebbero immaginare che io alluda in questo passo all'antitesi fra«spirito e natura»: il che m'indusse a mettermi bene in guardiacontro chi volesse imputarmi cosí volgari filosofemi.

Par' 46. - Che il Laocoonte, nel gruppo famoso, non gridi, è unfatto manifesto, di cui ciascuno si meraviglia; perché, in quellacondizione, ciascuno griderebbe, naturalmente. Colpiti da un dolorefisico violento e da un'angoscia inattesa e spaventosa, lariflessione, che potrebbe forse consigliarci la rassegnazione e il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsilenzio, svanisce ben presto dalla coscienza, e la natura si sfogain grida, che nello stesso tempo esprimono il dolore e l'angoscia,invocano un soccorso, e intimidiscono l'assalitore. Winckelmann,accortosi che il Laocoonte non grida, e volendo giustificarel'artista, fece di Laocoonte uno stoico, la cui dignità sarebbeoffesa nel gridare «secundum naturam», e che inacerbisce il suodolore col vano tormento di reprimerne l'espressione. Winckelmannvide in esso «lo spirito provato di un grand'uomo che lotta contro ilmartirio, e che si sforza di reprimere e di contenere in se stessol'espressione delle sue sofferenze: che non prorompe in acute grida(come in Virgilio), e soltanto si lascia sfuggire dal petto qualchesospiro d'angoscia ecc'.» (Werke, vol' Vii, pag' 98 - E piú inparticolare nel vol' Vi, pag' 104 e segg'). Questa opinione diWinckelmann fu oggetto di critica da parte di Lessing, il quale, nelsuo Laocoonte, la corresse nel modo sopra indicato. Al motivopsicologico, ne sostituí uno puramente estetico: la bellezza,principio dell'arte antica, non permette l'espressione del grido. Edaggiunge anche un'altra ragione: cioè, che uno stato eminentementetransitorio e non atto a durare, non può venire riprodotto inun'opera d'arte permanente. Contro simile prova stanno mille esempidi figure meravigliose, fissate dall'artista in pose tutte fuggitive,nella danza, nella lotta, nella rincorsa, ecc'. Goethe anzi, nel suosaggio sul Laocoonte, al principio dei Propilei, arriva persino asostenere che la scelta d'un simile momento fuggitivo è assolutamentenecessaria. Ai nostri giorni lo Hirt (Horen, 1797, libro X),subordinando tutto al principio della piú esatta verità diespressione, tagliò il nodo della questione, sostenendo che seLaocoonte non grida, non grida perché, essendo sul punto di morireasfissiato, non aveva piú la forza di emetter voce. Infine il Fernow,(Römische studien, vol' I, pag' 426 e segg') esamina e pesa ciascunadelle tre opinioni, ma non aggiunge nulla di nuovo, e si contenta dicombinarle e conciliarle.Io non posso abbastanza meravigliarmi, come uomini di spirito cosìriflessivo e perspicace si siano tanto affannati ad andar pescandocosí lontano argomenti di natura psicologica, e persino fisiologica,per ispiegare una cosa il cui motivo è cosí a portata di mano, e dàsubito nell'occhio di chi non abbia prevenzioni; mi fa soprattuttomeraviglia che il Lessing, il quale pur giunse tanto vicino allaverità, non abbia colto il punto esatto della spiegazione.Prima di entrare in qualsiasi investigazione psicologica efisiologica, prima di chiedermi se Laocoonte, nella situazione in cuisi trova, debba o no gridare (questione cui del resto non esiterei arispondere con un sì categorico), incomincio con il dichiarareespressamente che l'azione del gridare non può nel gruppo in parolavenire espressa, per la semplice ragione che l'espressione del gridoesorbita completamente dal campo della scultura. Non è possibilerappresentare nel marmo un Laocoonte che gridi: vi si può, tutt'alpiú, rappresentare un uomo che apra la bocca e si sforzi invano digridare: un Laocoonte, cui la voce si serra nella gola: vox faucibushaesit. L'essenza del grido, e quindi anche il suo effetto sullospettatore, risiede tutta nel suono, e non nell'apertura della bocca.Questa apertura, fenomeno che accompagna necessariamente il grido,non è motivata e giustificata che dal suono emesso; e allora, comesegno caratteristico dell'azione, oltreché permessa, è necessaria,sebbene rechi danno alla bellezza. Ma nelle arti figurative lariproduzione del grido è impossibile; quindi, volervi rappresentareuna bocca aperta, violento mezzo meccanico del grido non avente altroeffetto che quello di deturpare i tratti e il resto dell'espressione,sarebbe cosa davvero incomprensibile; perché, in tal maniera, non siriuscirebbe che a sacrificare la maggior parte degli elementi dellabellezza, per rappresentare un mezzo il cui fine, cioè il grido e ilsuo effetto sull'animo, resterebbero inespressi. E c'è di peggio: siavrebbe lo spettacolo sempre ridicolo di uno sforzo non seguito daeffetto; come nella storiella di quel buffone, che, avendo chiuso condella cera il corno di un vigile notturno addormentato, lo risvegliòpoi gridando al fuoco, e si sgangherava dalle risa nel vederegl'inutili sforzi del pover'uomo per trarre un suono dal suostrumento. Invece nelle arti i cui mezzi di espressione si prestano

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtalla rappresentazione del grido, questo è completamente ammissibile,poiché in tal caso contribuisce alla verità, cioè alla perfettaespressione dell'idea. Così avviene in poesia, dove larappresentazione intuitiva chiama in aiuto la fantasia del lettore;ecco perché Virgilio fa gridare Laocoonte come un toro, che, feritodalla scure, rompe i suoi legami; anche in Omero (Il', Xx, 48-53),Marte e Minerva emettono urla spaventose, senza che la loro dignità ebellezza divina venga menomamente a scapitarne. Altrettanto si dicadell'arte drammatica: Laocoonte sulla scena, deve realmente gridare;anche Sofocle fa gridare il suo Filottete, che deve nella scenaantica aver senza dubbio gridato. Rammento di aver visto a Londra, inun dramma tradotto dal tedesco e intitolato Pizarro, il celebreattore Kemble, che rappresentava la parte di Rolla, un americanosemiselvaggio, ma di carattere molto nobile; ricevendo una ferita,egli emetteva un grido violento che produceva sempre una grande edeccellente impressione; infatti questo grido, singolarmentecaratteristico, contribuiva assai alla verità della parte sua. Alcontrario un grido muto, scolpito nella pietra o dipinto nella tela,sarebbe molto piú ridicolo ancora che non la musica dipinta,biasimata già da Goethe nei suoi Propilei; alla bellezza e al restodell'espressione, l'atto di gridare nuoce infatti molto piú che nonl'atto di far della musica; il quale, d'ordinario, non impegna che lamano ed il braccio, e deve considerarsi come un'azione caratteristicadella persona: e quindi è molto convenientemente rappresentato inpittura, dato, s'intende, che non esiga alcun movimento violento delcorpo e nessuna contorsione della bocca. Ricordiamo la Santa Ceciliaall'organo e il Suonatore di violino nella Galleria Sciarra in Roma,ambedue di Raffaello, e con essi tanti altri. Siccome dunque, per ilimiti dell'arte, il dolore di Laocoonte non poteva manifestarsi congrida, l'artista dovette mettere in opera gli altri mezzi diespressione; il che fece riuscendo a meraviglia, come dimostramagistralmente il Winckelmann (Werke, vol' Vi, pag' 104 e segg'),l'eccellente descrizione del quale, a parte le intenzioni stoicheattribuite a Laocoonte, conserva ancor oggi tutta la verità e tuttoil valore. (16)

Par' 47. - La scultura, avendo come principale oggetto la bellezzaunita con la grazia, predilige il nudo, e solo tollera le vestiquando esse non nascondano le membra; si serve del panneggio, noncome di una copertura, ma come di un mezzo indiretto dirappresentazione della forma; un mezzo che mette in moto l'intellettodello spettatore, dal momento che questi deve sforzarsi di giungereall'intuizione della causa, cioè della forma del corpo, non avendoaltro dato diretto che l'effetto, cioè la disposizione delle pieghe.Il panneggio è dunque in certo modo per la scultura quello che per lapittura è lo scorcio. Tanto l'uno come l'altro sono dei segni: nonperò segni simbolici, ma segni di tal natura, che se ben riusciti,costringono l'intelletto ad intuire immediatamente l'oggettosignificato, proprio come se fosse vero e reale.Mi sia permesso d'intercalare qui incidentalmente un paragone chesi applica all'arte oratoria. Come la bellezza corporea brilla ditanto piú vivo splendore quanto minori sono le vesti, e come unbell'uomo dotato di buon gusto e libero di seguirlo preferirebbeandar quasi nudo, alla moda degli antichi; cosí un uomo di bellaintelligenza e ricco di pensiero, quando abbia l'opportunità dicomunicare agli altri i suoi sentimenti (per addolcire in tal modo lasolitudine a cui si trova condannato in un mondo come questo)cercherà sempre di esprimersi nel modo piú naturale, piú diretto epiú semplice. Laddove il povero di spirito, l'uomo dall'intelligenzaconfusa e distorta, farà sfoggio di parole ricercate e di locuzionioscure, per velare con una fraseologia difficile e pomposa solo unasequela di pensieri meschini, insignificanti, insipidi e volgari,simile a colui che, privo della maestà del bello, presume dicompensare tale difetto con lo splendore degli abiti, e si sforza dinascondere, sotto una quantità di ornamenti barbari, di lustrini, dipennacchi, la miseria e la bruttezza della sua persona. Un tal uomosi troverebbe ben imbarazzato se dovesse andar nudo: altrettanto malese la caverebbe quell'autore che fosse costretto a tradurre in parole

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtchiare il magro contenuto della sua opera oscura e magniloquente.

Par' 48. - Oltre alla bellezza e alla grazia, la pittura storica haper oggetto principale il carattere. Con questa parola intendiamo ingenere la rappresentazione della volontà nel grado piú alto della suaoggettivazione; quel grado cioè, in cui l'individuo, come espressioned'una faccia particolare dell'idea dell'umanità, assume unsignificato speciale; rivelando l'idea, non piú con la formasoltanto, ma con atti di ogni sorta, e con le modificazioni dellaconoscenza e della volontà che li motivano e li accompagnano: atti emodificazioni che si manifestano nella fisionomia e nel gesto. Arappresentare con tale ampiezza l'idea dell'umanità, bisogna metternein luce lo sviluppo, nelle sue mille facce, in individui pieni disignificato; e questi non possono rifulgere in tutto il lorosignificato, se non vengon sorpresi nelle scene, nelle circostanze enelle condizioni piú diverse. Questo compito cosí grandioso vienerisolto dalla pittura storica, mediante la rappresentazione di scenedella vita di qualsiasi specie e di qualsiasi grado d'importanza.Nessun individuo, nessuna azione, possono esser privi d'importanza:in ogni individuo, in ogni azione, si rivela in maniera costantementecrescente l'idea dell'umanità. Non c'è dunque alcun avvenimento dellavita umana che si debba escludere totalmente dal campo della pittura.Fa quindi un gran torto agli eccellenti pittori olandesi chi riduceil loro merito a pura capacità tecnica, negando loro ogni altropregio, perché rappresentano il piú delle volte oggetti tratti dallavita ordinaria, mentre a suo modo di vedere non ci sarebbe cheun'unica categoria di oggetti degni di importanza: gli avvenimentitratti dalla storia e dalla Bibbia. Si dovrebbe anzitutto osservareche il significato interiore di un'azione è interamente diverso dalsignificato esteriore, e che ambedue procedono spesso separati l'unodall'altro. Il significato esterno consiste nell'importanza che leconseguenze dell'azione possono avere per e nel mondo reale; ciò chelo determina è dunque il principio di ragione. Il significatointeriore è dato dalle vedute profonde che schiude sull'ideadell'umanità, col metterne in luce i lati straordinari per mezzo diindividualità nettamente e fortemente pronunciate, offrendo lorofavorevoli occasioni di mostrare le proprie caratteristiche. Perl'arte non vale che il significato interiore: l'altro importasoltanto alla storia. I due significati sono indipendenti l'unodall'altro: si possono presentare insieme ma possono anche apparireseparatamente. Un'azione della piú alta importanza storica può, peril suo significato interiore, essere delle piú comuni e volgari, epuò esserci viceversa un significato interiore nella scena piú umiledella vita di tutti i giorni: la quale può mettere in luce, nei loropiú riposti segreti, e gli uomini e la condotta umana. Due azionipossono, nonostante la differenza di significato esteriore, avere unsignificato interiore identico: cosí, ad esempio, riguardo aquest'ultimo, non c'è alcuna differenza di valore tra il fatto chedei ministri si disputino il possesso di paesi e di popoli attorno auna carta geografica, o che dei contadini si contrastino il lorodiritto di vincita al giuoco delle carte o dei dadi; come è affattoindifferente che i pezzi del giuoco agli scacchi sian d'oro o dilegno. Inoltre, le scene e gli avvenimenti che costituiscono pertanti milioni di uomini la trama della vita: i loro atti e i loromaneggi, le loro gioie e i loro affanni, han già per sé tantaimportanza da costituire oggetti degni dell'arte, e possono con laloro complessa varietà offrire abbastanza materia per lo sviluppodell'idea ricchissima dell'umanità. Che anzi, la stessa fugacità delmomento fissato dall'arte in simili tele (dette oggi «quadri digenere») suscita in noi una speciale soave commozione; infatti,fissando in immagini durature questo mondo fuggevole, eternasuccessione di avvenimenti staccati, che pur costituiscono l'insiemedella vita, l'arte della pittura compie un'opera, che, sollevando ilparticolare all'idea della specie, sembra immobilizzare la fugastessa del tempo. Infine gli avvenimenti storici, benché importantidal punto di vista esteriore, hanno spesso dal lato della pittural'inconveniente che il loro elemento significativo non si puòtradurre in una rappresentazione intuitiva, ma deve essere raggiunto

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdal pensiero. Sotto un tale riguardo, dobbiamo in generaledistinguere in un quadro il significato nominale dal significato veroe reale: il primo è affatto esterno, e non è che un puro e sempliceconcetto aggiunto; il secondo consiste in una faccia particolaredell'idea di umanità, rivelata mediante l'immagine all'intuizione.Prendiamo un esempio, e sia Mosè trovato dalla principessa egiziana;momento, senza dubbio, di singolare importanza per la storia: ilsignificato reale, quello cioè che in fatto viene datoall'intuizione, si riduce a un bimbo, abbandonato in una cullagalleggiante, tratto in salvo da una donna di nobile nascita; fattoche può essersi verificato ben piú di una volta. Soltanto il vestitopuò in tali casi orientare sull'avvenimento storico la personaistruita; ma il vestito non ha valore che in ordine al significatonominale, riuscendo indifferente per il significato reale, cheriguarda soltanto l'uomo come uomo, senza tener conto delle sue formearbitrarie. Gli avvenimenti tratti dalla storia non hanno alcunprivilegio su quelli considerati nella loro semplice possibilità, equindi non capaci di una designazione individuale, ma soltanto di unasemplice denominazione generale; infatti, ciò che vi è di veramentesignificativo nei soggetti storici non è il fatto concreto, lacircostanza particolare come tale, ma soltanto ciò che vi si contienedi universale, cioè la faccia dell'idea di umanità di cui sonoespressione. D'altra parte non dobbiamo però in alcun modo condannarei soggetti storici determinati, ma soltanto ricordiamo che la lorocontemplazione artistica, tanto da parte del pittore come da partedello spettatore, verte, non sul caso individuale costituente ilfatto storico in senso vero e proprio, ma sull'universale, sull'idea,che trova nel fatto singolare la sua espressione. E' pureconveniente, in fatto di soggetti storici, di non scegliere chequelli soltanto, il cui significato principale sia effettivamenteesprimibile, senza bisogno di essere aggiunto dal pensiero;altrimenti il significato nominale si allontana di troppo da quellovero e reale; ciò che il pensiero aggiunge nel quadro assume unaimportanza eccessiva, e viene a nuocere a ciò che si percepisce conla vista. Se già nel teatro è sconveniente che l'azione principale sisvolga (come avviene nelle tragedie francesi) dietro la scena,l'errore senza dubbio è molto e molto piú grave in pittura. Ci sonpoi alcuni soggetti storici che producono un effetto addiritturadisastroso, e son quelli che obbligano, per considerazioni estraneeall'arte, il pittore a rinchiudersi in un campo limitato e scelto adarbitrio; un tal effetto è detestabile in ispecie quando il terrenoscelto è povero di oggetti pittorici e significanti; serva di esempiola storia di un popoluccio meschino, isolato, bizzarro, governatodalla gerarchia, e quindi dall'errore, e per di piú disprezzato datutti i grandi popoli contemporanei d'Oriente e d'Occidente; nonaltro infatti era il popolo ebreo. Siccome l'invasione barbaricatracciò, fra noi e tutti i popoli antichi, una linea di separazionesimile a quella che gli ultimi sconvolgimenti idrografici posero fral'attuale periodo geologico e l'altro i cui organismi non son piú pernoi che dei fossili, è da considerar come una vera e propria sventurache il popolo, di cui la civiltà scomparsa doveva servire difondamento principale alla nostra, sia stato appunto il giudaico, enon l'indiano, il greco, o anche il romano. Ma dell'influsso diquesta maligna stella soffrirono soprattutto i geniali pittoriitaliani del Xv e Xvi secolo. I quali, rinchiusi per la scelta degliavvenimenti nella cerchia che s'erano arbitrariamente imposta,dovettero appigliarsi ai soggetti piú miseri, perché il NuovoTestamento, per la parte storica, presenta una materia piú ancoraingrata che non l'Antico, e la storia dei martiri e dei padri dellaChiesa è un soggetto ancora piú infelice. Tuttavia c'è da fare unagrande distinzione fra i quadri che rappresentano la parte storica omitologica del giudaismo e del cristianesimo, e quelli che rivelanoalla nostra intuizione il vero genio del cristianesimo, cioè il suospirito etico, mediante la figura di personaggi penetrati da questospirito. Simili opere infatti rappresentano, della pittura, lecreazioni piú mirabili e piú alte, non realizzate che dai piú eccelsimaestri di quest'arte, principalmente da Raffaello e dal Correggio:quest'ultimo, in ispecie nei suoi primi lavori. Quadri di tal genere

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnon debbon neppure ascriversi fra i soggetti storici; perché,d'ordinario, non rappresentano avvenimenti od azioni, ma semplicigruppi di santi, oppure il Salvatore medesimo, spesso come fanciullo,con la sua madre, con angeli, ecc'. Nelle loro fisionomie,specialmente negli occhi, vediamo l'espressione, il riflesso dellaconoscenza piú completa; non di quella che mira alle coseparticolari, ma di quella che abbraccia con visione grandiosa leidee, quindi l'essenza intera del mondo e della vita; una taleconoscenza reagisce anche sulla volontà; ma, anziché somministrarledei motivi, come fa la conoscenza volgare, opera come un quietivo, ene procede quella perfetta rassegnazione che costituisce ad un tempolo spirito intimo del cristianesimo e della saggezza indiana: larinunzia e il sacrificio di ogni desiderio, la soppressione di ognivolontà, e quindi anche di tutta l'essenza di questo mondo: e cioè,in ultimo, la salvezza. Ecco l'alta saggezza che quegl'immortalimaestri dell'arte espressero nelle loro opere. Ed ecco anche ilvertice supremo dell'arte stessa: dopo aver seguito la volontà nellascala ascendente di tutte le sue oggettivazioni adeguate che sono leidee, percorrendo successivamente i vari gradi in cui il suo esseresi sviluppa, cioè gli inferiori, in cui obbedisce alle cause, glialtri in cui segue le eccitazioni, gli ultimi infine, in cui sottostàall'impero dei motivi, l'arte assurge finalmente allarappresentazione della volontà in atto di libera autosoppressione,dovuto a quel grande «quietivo» che è la perfetta conoscenza del suoproprio essere. (17)

Par' 49. - Tutte le considerazioni presentate fin qui si fondanosul principio che l'oggetto dell'arte, l'oggetto che l'artista ha ilcompito di rappresentare, l'oggetto la cui conoscenza deve quindiprecedere la sua opera e costituirne il germe e la sorgente, èun'idea in senso platonico e null'altro; non la cosa particolare, cheè oggetto di cognizione comune, e neppure il concetto, oggetto delpensiero razionale e della scienza. L'idea e il concetto hanno senzadubbio qualche cosa di comune, in quanto ambedue sono unitàrappresentanti una pluralità di cose reali; tuttavia c'è tra di lorouna enorme differenza, risultante ben chiara e luminosa da tutto ciòche dissi nel primo libro intorno al concetto, e nel presente aproposito dell'idea. Non pretendo certo di affermare che Platoneavesse già chiaramente concepito questa differenza; anzi, molti deisuoi esempi e delle sue spiegazioni a proposito delle idee non sonoapplicabili che a semplici concetti. Lasciamo per ora la questioneindiscussa, e procediamo per la nostra via: felicissimi se citroveremo a calcare le orme di un grande e nobile spirito, nonpreoccupandoci tuttavia di seguire servilmente le impronte dei suoipassi, bensí di raggiungere il nostro fine. Il concetto è astratto,discorsivo: pienamente indeterminato nella sua sfera, non èdeterminato che nei suoi confini; afferrabile, concepibile dachiunque possieda la ragione: comunicabile senz'altro mediante lasemplice parola esauribile per intero dalla propria definizione.L'idea invece, che si può a rigore definire come il rappresentanteadeguato del concetto, è assolutamente intuitiva, e, sebbenerappresenti un'infinità di cose singolari, possiede unadeterminazione perfetta. L'individuo come tale non può conoscerla;per arrivare a concepirla è necessario elevarsi al disopra di ognivolere, di ogni individualità, ed assurgere a puro soggetto diconoscenza. L'idea non è dunque accessibile se non al genio edall'uomo che in grazia di una elevazione della sua facoltà diconoscenza pura (provocata il piú delle volte dalle opere del genio)si trova in una disposizione geniale. Incomunicabile per via diretta,non può comunicarsi che in modo condizionato, poiché, una voltaconcepita e riprodotta nell'opera d'arte, allo spettatore si rivelasoltanto in misura del suo valore intellettuale. Perciò le piúeccellenti opere d'arte, le creazioni piú alte del genio, sonodestinate a restare in eterno come tanti libri chiusi alla stupidamaggioranza degli uomini; l'abisso che separa tali opere da loro ècosí sconfinato, che quelle restano inaccessibili a questi, come lapersona del principe è inaccessibile al volgare plebeo. Senza dubbio,anche i piú stupidi fra gli uomini riconoscono, dietro l'autorità

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtaltrui, il merito delle opere d'arte di valore consacrato, e ciò pernon tradire la propria debolezza; ma nell'intimo loro, son sempredisposti a lanciar l'anatema tutte le volte che sperano di poterviriuscire senza compromettersi; e allora, con voluttà indicibile,danno libero sfogo all'odio lungamente represso contro tutte le operegrandi e belle e contro i loro autori, non potendo rassegnarsiall'umiliazione di non riuscire a comprenderle. In generale, perchési riconosca spontaneamente e si apprezzi volonterosamente il valorealtrui, bisogna possederne del proprio. Qui appunto si fonda lanecessità della modestia accanto al merito, come anche il chiassoeccessivo che si fa di questa virtú, unica fra le sue sorelle a nonesser mai obliata da chi osa fare l'elogio di un uomo segnalato,nell'intento conciliante di placare le ire degli stolti. Che cos'èinfatti la modestia, se non una finta umiltà cui si è costretti, inquesto basso mondo rigurgitante di abbietta invidia, per mendicare ilperdono dei meriti e dei privilegi propri da coloro che non ne hannoalcuno? Colui che non si attribuisce né privilegi né meriti, perchédi fatto non ne ha, non è modesto, ma semplicemente sincero.L'idea è l'unità che si trasforma in pluralità in virtú dellospazio e del tempo, forme della nostra percezione intuitiva: ilconcetto, al contrario, è l'unità astratta dalla pluralità medianteun processo astraente compiuto dalla ragione; il concetto può esserechiamato unitas post rem, l'idea unitas ante rem. La seguentesimilitudine rende con proprietà la differenza fra l'uno e l'altra:il concetto è simile a un recipiente inanimato, in cui le cosedepostevi si possono in fatto, e nell'ordine stesso, ritrovare, madal quale non si può estrarre (per mezzo del giudizio analitico) senon ciò che vi si è messo (mediante la riflessione sintetica).L'idea, invece, sviluppa, nello spirito di chi l'abbia concepita,delle rappresentazioni affatto nuove in ordine al concetto omonimo; èsimile a un organismo vivo, dotato di facoltà accrescitiva eprocreatrice, e capace di produrre quello che non vi è statointrodotto.In conseguenza, per quanto utile nella pratica della vita, perquanto applicabile, necessario e fecondo nelle scienze, il concettoresterà eternamente sterile per l'arte. Al contrario l'idea, unavolta concepita, diviene la sorgente vera ed unica di ogni operad'arte, degna di tal nome. Piena di potente originalità, sgorga dalseno della vita stessa, dalla natura e dal mondo; non è afferrabileche dal genio e dall'uomo entusiasmato per un momento fino allagenialità. Soltanto una simile concezione immediata è capace dipartorire le opere d'arte vera, quelle che portano in sél'immortalità. Siccome l'idea è e resta intuitiva, l'artista non hanessuna coscienza in abstracto né dell'intenzione né del fine dellasua opera; non è un concetto, ma un'idea che brilla dinanzi a lui;egli dunque non può rendersi conto di quello che fa; lavora (perusare un'espressione volgare) di sentimento, inconsciamente, anzi,istintivamente. Invece gli imitatori, i manieristi, «imitatores,servum pecus», prendono in arte il punto di partenza dal concetto,osservano ciò che nei veri capolavori piace e fa effetto, se nerendono ben conto, lo fissano in un concetto astratto; e infine,apertamente o dissimulatamente, si mettono ad imitarlo con prudenzaed avvedutezza. Simili a piante parassite, succhiano il loronutrimento dalle opere altrui, e, come i polipi, prendono il coloredel loro alimento. Per usare ancora una similitudine, si potrebbeaffermare che gli imitatori somigliano a macchine che possonpolverizzare sottilmente e rimescolare ben bene tutto ciò che vi simette dentro, ma che non sono capaci di digerirlo, sicché glielementi estranei posson sempre venire trovati e separati dalmiscuglio; soltanto il genio somiglia ad un corpo organico cheassimila, elabora e produce. Senza dubbio, il genio fiorisce e sieduca alla scuola dei suoi predecessori, e con lo studio delle loroopere, ma è in grado di dar frutti soltanto al contatto diretto conla vita e con il mondo, sotto l'influenza dell'intuizione: ed è perquesto che l'educazione, per quanto raffinata, non può maidanneggiarne l'originalità. Gli imitatori, i manieristi, concepisconosempre in modo astratto l'essenza delle opere altrui che servono loroda modello: ma un concetto non potrà mai dare anima e vita ad una

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcreazione. I contemporanei, cioè lo stupido volgo del tempo, nonconoscendo neppur essi che concetti, e non potendo distaccarsene,accolgono le opere manierate con approvazione premurosa edentusiastica; ma pochi anni bastano per togliere a queste opere tuttoil loro fascino, perché lo spirito del tempo, cioè i concettidominanti, unico fondamento su cui si regge la loro fama, saranno inbreve del tutto mutati. Le sole opere d'arte vera, che scaturisconodirettamente dalla natura e dalla vita, restano eternamente giovani epotenti come la natura e la vita, perché non appartengono a nessunaepoca, bensì all'umanità. I contemporanei, di cui sdegnano dilusingare il gusto, le accolgono con freddezza; e il tempo, di cuisvelano in maniera diretta o mediata i traviamenti, non rende lorogiustizia che tardi e a malincuore; ma in compenso, e appunto perciò,non possono invecchiare; anche nel piú lontano futuro conservano laloro espressione, la loro freschezza, la loro giovinezza, nérischiano piú di andar soggette alla condanna o alla dimenticanza,dopo che furono coronate e sanzionate dall'approvazione edall'applauso di quel piccolo numero di menti superiori, che i secoliproducono soltanto isolatamente a lunghi intervalli. (18) I voti diqueste, lentamente accumulati, fanno legge, e costituiscono da soliquel tribunale supremo cui s'intende ricorrere ogni volta che si faappello alla posterità. Ma questi giudici rimarranno sempre soli;perché il grosso pubblico delle generazioni future sarà e resterà ineterno traviato e stupido come fu sempre. Si leggano i lamenti deigrandi uomini di ogni secolo contro i loro contemporanei; sembra chesiano di oggi: perché la razza umana è sempre la stessa. In ognitempo ed in ogni arte la maniera si sostituisce allo spirito, che èsempre il privilegio di pochi; mentre per contro il manierismo non èche un abito vecchio sotto le cui spoglie lo spirito brillò perqualche momento e poi cadde in disuso. Risulta da tutto ciò che inregola generale, per ottenere l'applauso dei posteri, bisognasacrificare quello dei contemporanei; e viceversa. (19)

Par' 50. - Il fine dell'arte è dunque, come s'è visto, lacomunicazione dell'idea. Essa, attraverso lo spirito dell'artista chela isola e la purifica da ogni elemento estraneo, diviene accessibileanche alle menti di piú debole recettività e di facoltà creatrice piústerile; sappiamo inoltre essere indegno dell'arte il trarreispirazione dai concetti. In base a tali princípi non potremotollerare che un'opera d'arte venga formalmente destinataall'espressione di un concetto. E' il caso dell'allegoria.L'allegoria è un'opera d'arte che vuol significare una cosa diversada quella che rappresenta. Ora, ogni oggetto d'intuizione, e quindianche l'idea, si esprime immediatamente e compiutamente da sé, senzabisogno di alcun intermediario estraneo che lo commenti. Per talmodo, ciò la cui rappresentazione esige l'intervento di qualcosa diestraneo, poiché non direttamente accessibile all'intuizione, non puòessere altro che un concetto. L'allegoria dunque ha sempre il compitodi rappresentare un concetto, e distoglie sempre lo spirito dellospettatore dall'immagine visibile intuitiva, per ricondurlo adun'immagine di tutt'altra natura, ad una rappresentazione astratta,non intuitiva, essenzialmente estranea all'opera d'arte; s'imponecosì al quadro e alla statua una funzione che dalla scrittura èadempiuta in modo ben piú perfetto. Il fine dell'arte non è piú, intal caso, quello da noi stabilito, cioè la rappresentazione dell'ideaintuita. Per ottenere il fine dell'allegoria non si esige del restouna grande perfezione artistica; basta semplicemente che si possariconoscere il significato dell'oggetto: fatto questo, l'intento èconseguito, poiché non si trattava che di rivolgere lo spirito a unarappresentazione di natura diversa da quella intuita nell'operad'arte, cioè a un concetto astratto. Per conseguenza le allegorie,nelle arti plastiche, non sono che geroglifici; il valore artisticoche possono del resto avere come rappresentazioni intuitive, nonconvien loro per il fatto che sono allegorie, ma per ragioni deltutto diverse. La Notte del Correggio, il Genio della fama diAnnibale Carracci, le Ore del Poussin, sono senza dubbio bellissimeopere; ma non certo in virtú del loro significato allegorico. Comeallegorie non equivalgono un'iscrizione. Siam qui ricondotti alla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnostra distinzione precedente fra il significato reale e ilsignificato nominale di un'opera d'arte. Il significato nominale, inquesti casi, è appunto il senso allegorico per sé; come ad esempio ilGenio della fama: il significato reale non è che il soggettoeffettivo della rappresentazione; nel caso nostro, un bel giovanealato intorno al quale vola uno sciame di bei puttini. Abbiamo quiespressa un'idea; ma questo significato reale non si fa valere se nonin quanto facciamo astrazione dal senso nominale allegorico: sepensiamo all'allegoria, abbandoniamo ipso facto l'intuizione: lospirito non è occupato che da un concetto astratto: e il passaggiodall'idea al concetto non è mai altro che una caduta. C'è di piú: ilsignificato nominale, l'intenzione allegorica, guasta sovente ilsenso reale, la verità intuitiva; ne abbiamo un esempio nella Nottedel Correggio, di cui l'illuminazione innaturale, per quanto eseguitaa meraviglia, non può esser giustificata che dal punto di vistaallegorico, ed è una vera e propria impossibilità reale. Se dunque unquadro allegorico possiede anche un valore artistico, un tal valorenon ha nessuna dipendenza dalla sua intenzione allegorica: ma simileopera serve in un tempo a due fini: all'espressione di un concetto eall'espressione di un'idea: di questi due però soltanto l'ultimo puòcostituire il fine dell'arte. Il primo le è del tutto estraneo, e siriduce a un divertimento gradevole, a un'immagine destinata, come igeroglifici, a far le veci d'un'iscrizione; inventata per piacere acoloro, a cui l'essenza vera dell'arte non si rivelerà mai. E' comequando un'opera d'arte fosse in pari tempo un oggetto utile, eservisse quindi a due fini; ad esempio, una statua che faccia insiemeda candelabro o da cariatide, o un bassorilievo che serva di scudo adAchille. Ma nessuno di questi due generi otterrà l'approvazione deiveri amici dell'arte. Un'immagine allegorica può senza dubbio, asemplice titolo di allegoria, esercitare una viva impressionesull'animo: ma una semplice iscrizione, in circostanze simili,produrrebbe l'identico effetto. Così, ad esempio, un uomo, suppostopervaso da un potente desiderio di gloria, considera la gloria comesua proprietà legittima, di cui nessuno gli contesterà il possessonon appena egli presenti i suoi titoli giuridici. Se costui si trovaper caso di fronte al Genio della fama, con le sue corone di alloro,tutto il suo animo freme, pervaso da un potente stimolo al lavoro; malo stesso effetto si sarebbe prodotto se avesse visto improvvisamentela parola «fama» scritta a grossi e distinti caratteri sulla parete.Altro esempio: un uomo ha scoperto una verità importante, sia comemassima per la vita pratica che come principio scientifico: e questaverità non trova credito. Mettiamolo di fronte ad un'immagineallegorica, rappresentante il Tempo che solleva il velo e fa vederela Verità tutta nuda. La commozione sarà senza dubbio immensa: ma ilmotto: «Le temps découvre la vérité», l'avrebbe impressionatoaltrettanto. Infatti, ciò che qui agisce non è un'intuizione, masoltanto e sempre un concetto astratto.L'allegoria è dunque nell'arte plastica una tendenza viziosa,asservita a fini tutt'altro che artistici; ma diviene affattoinsopportabile quando la si spinge troppo lontano, perché in tal casonon rappresenta che interpretazioni forzate e arbitrarie, e cadenell'assurdo. Eccone degli esempi: la tartaruga ricorda il pudorefemminile; la Nemesi contempla il proprio seno sollevando la veste(per significare che conosce tutti i segreti): sostiene inoltre ilBellori che Annibale Carracci abbia vestito la Voluttà di abitogiallo, per dimostrare che le sue gioie presto avvizziscono ediventano gialle come la paglia. Ma quando la cosa si spinge a talpunto, che tra l'immagine rappresentata e il concetto a cui si vuolealludere non c'è piú la benché minima connessione fondata su di unapossibile sussunzione sotto il concetto, oppure in una qualsiasiassociazione d'idee; quando invece fra il segno e la cosa significatanon c'è che una relazione convenzionale, fondata su di una assunzionepositiva e scelta a caso; allora ci troviamo di fronte adun'allegoria di altra specie: l'allegoria simbolica. In tal modo larosa è il simbolo della discrezione, l'alloro il simbolo dellagloria, la palma il simbolo della vittoria, la conchiglia il simbolodel pellegrinaggio, la croce il simbolo della religione cristiana; inquesta categoria rientrano anche le significazioni che si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtattribuiscono ai puri e semplici colori; ad esempio il giallo è ilcolore della falsità, l'azzurro è il colore della fedeltà. Simboli dital genere possono talvolta riuscire utili nella vita ma agli occhidell'arte non hanno alcun valore; non sono che geroglifici o speciedi scritture cinesi, ed appartengono alla stessa classe degli stemmidei ramoscelli attaccati alla porta delle osterie, della chiave delciambellano, del grembiale di cuoio del minatore. Si potrebbe infinedare il nome di emblemi, a certi simboli ammessi una volta per sempreper caratterizzare qualche personaggio storico o mitico, oppure unconcetto personificato; tali sono gli animali degli Evangelisti, ilgufo di Minerva, il pomo di Paride, l'àncora della speranza, ecc'.Tuttavia si dà ordinariamente il nome di emblemi a dei disegniallegorici semplici, accompagnati da un motto esplicativo, edestinati ad insegnare in forma intuitiva una verità morale; neabbiamo grandi raccolte in J' Camerarius, in Alciato e in altri, eformano una transizione all'allegoria poetica, di cui parleremooltre. La scultura greca si rivolge all'intuizione, ed è quindiestetica; la scultura indiana si rivolge al concetto, ed è perciòpuramente simbolica.Questo giudizio sull'allegoria, che si fonda su tutto ciò che dissiintorno all'essenza dell'arte, e n'è rigorosa conseguenza, èessenzialmente opposto alle opinioni di Winckelmann, il quale, nonlungi dal ritenere l'allegoria estranea, nociva spesso all'arte, nonfinisce mai di parlarne, anzi (Werke, vol' I, pag' 55 e segg'),arriva a porre il supremo fine dell'arte nella «rappresentazione diconcetti generali e di cose non percepibili dai sensi». Liberociascuno di schierarsi dietro l'una o l'altra opinione. Debbotuttavia confessare che leggendo in Winckelmann queste ed altreanaloghe dottrine sulla vera e propria metafisica del bello,acquistai la convinzione che si può essere dotati del senso piúsquisito del bello e del giudizio piú sicuro per apprezzarlo, senzaessere tuttavia capaci di scrutare e penetrare l'essenza intima delbello e dell'arte da un punto di vista astratto e veramentefilosofico; come appunto si può essere molto nobili e virtuosi, epossedere una coscienza squisitamente delicata, capace di risolvere icasi particolari con lo scrupolo di una bilancia di precisione, senzaper questo saper approfondire filosoficamente ed esporre in abstractoil significato etico delle azioni.Ben altro valore ha l'allegoria nella poesia; inammissibile affattonelle arti plastiche, bisogna riconoscere che in letteratura èperfettamente ammissibile ed utile. Nell'arte plastica, infatti,l'allegoria conduce dal dato intuitivo, che è il vero oggettodell'arte, al pensiero astratto. In poesia, invece, si ha larelazione opposta: il dato immediato è il concetto espresso inparole, e il fine supremo del poeta è appunto di far passare dalconcetto all'immagine intuitiva, immagine la cui rappresentazione èun compito lasciato alla fantasia del lettore. Se nelle artiplastiche il dato immediato ci riconduce a qualcosa d'altro, questoqualcosa non può essere che un concetto, perché l'astrazione èl'unico elemento che esorbiti dalla potenzialità dei loro mezzirappresentativi; ora il concetto non può esser mai la sorgenteispiratrice, né la sua comunicazione il fine di un'opera d'arte. Alcontrario, in poesia il concetto costituisce appunto la materia, ildato immediato, e possiamo quindi benissimo oltrepassarlo, perevocare un'immagine intuitiva di natura tutta diversa, e raggiungerein tal modo il fine dell'arte. Nella trama di un'opera poetica puòessere indispensabile di ricorrere a concetti o a pensieri astratti,non suscettibili per se stessi di nessuna rappresentazione intuitivaimmediata; essi si rendono intuibili per mezzo di esempi capaci divenir sussunti all'astrazione del concetto. E' quello che si fa inogni espressione figurata, in ogni metafora, similitudine, parabola oallegoria: figure che non differiscono l'una dall'altra se non per losviluppo, piú o meno lungo, dato alla descrizione. Nell'arte oratoriala similitudine e l'allegoria producono l'effetto piú eccellente.Come è bella l'immagine di Cervantes, quando per esprimere che ilsonno ci libera da tutti i dolori fisici e morali, lo chiama «unmantello che avvolge tutto l'uomo»! E altrettanto meravigliosa èl'allegoria con la quale il Kleist esprime in un verso, il pensiero

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche i filosofi e i pensatori illuminano il genere umano:«Die, deren nächtliche Lampe den ganzen Erdball erleuchtet.@»(20)Che forza e che evidenza nel quadro omerico di Ate,l'apportatrice di sventure: «I suoi piedi son teneri, perché nontocca mai il rigido suolo, ma cammina sopra le teste degli uomini»(Il', Xix, 91). Che effetto potente esercitò l'apologo delle membra edello stomaco, da Menenio Agrippa recitato alla plebe romana sulMonte Sacro! Abbiamo già citata in addietro la bella allegoria dellacaverna con cui Platone, al principio del Vii libro della Repubblica,esprime con efficacia meravigliosa uno fra i dogmi filosofici piúalti ed astratti. Altra allegoria di profondissimo significatofilosofico è la favola di Proserpina che, per aver gustato unmelograno nell'inferno, è condannata a restarvi; questo mito ci sirivela in luce singolare nella inimitabile trattazione di Goethe, chelo intercalò come episodio nel suo Trionfo della sensibilità. Conoscotre opere allegoriche di lunga lena; la prima, ove l'allusione èmanifesta e potente, è l'incomparabile Criticon di BaldassarreGracián; consistente in un ampio e ricco tessuto di allegorie pregnedi senso e concatenate fra loro, che nascondono sotto lieta vesteprofonde verità morali, dando loro una meravigliosa evidenzaintuitiva: il lettore resta trasognato davanti a tanta ricchezza diinvenzione. Le due altre opere, di senso piú nascosto, sono il DonQuijote e Gulliver in Lilliput. Il primo allegorizza la vita di unuomo, che non è, come gli altri, preoccupato esclusivamente della suafelicità propria, ma persegue un fine oggettivo, ideale, che dominatutto il suo pensiero e la sua volontà: e che fa davvero in questonostro mondo una ben trista figura. Nel Gulliver non c'è che daprendere in senso morale ciò ch'egli dice del fisico, per comprenderetutto quel che si nasconde nel suo «satirical rogue», (21) come loavrebbe chiamato Amleto. Siccome nell'allegoria poetica il dato sirisolve sempre in un concetto che si cerca di rendere intuitivomediante una immagine, si può ben ammettere che una figura dipintavenga talvolta ad accompagnarne od appoggiarne l'espressione; masiffatta immagine non verrà considerata come un'opera d'artefigurativa, bensí come un segno geroglifico; né potrà avere un valorecome pittura, ma soltanto come creazione poetica. Tale è la bellavignetta allegorica di Lavater, che deve certo esercitare l'effettopiú confortante su di ogni nobile campione della verità: rappresentauna mano che, punta da una vespa, tiene una fiaccola sulla cui fiammabruciano dei moscerini; e sotto il motto seguente:«Und ob's auch der Mücke den Flügel versengt,@ Den Schädel und allsein Gehirnchen zerprengt,@ Licht bleibet doch Licht;@ Und wenn auchdie grimmigste Wespe mich sticht,@ Ich lass'es doch nicht.@» (22)Dital genere è anche quella pietra sepolcrale che rappresenta un lumespento e ancora fumante, con l'iscrizione:«Wann's aus ist, wird es offenbar,@ Ob's Talglicht, oder Wachslichtwar.@» (23)Un altro esempio analogo ci viene offerto da quell'alberogenealogico tedesco, nel quale l'ultimo rampollo d'un'antichissimafamiglia, deciso di trascorrere tutta la vita nella piú perfettacontinenza e castità, e di lasciare in tal modo estinguere la suastirpe, viene rappresentato nell'atto di tagliare con le forbici leradici dell'albero dai mille rami che si aderge sopra il suo capo. Intale categoria rientrano in generale le immagini allegoriche chiamated'ordinario emblemi, di cui abbiamo già parlato, e che si potrebberoanche chiamare brevi favole dipinte, con la morale espressa inparole. Tutte le allegorie di questa natura debbono farsi rientrare,non nella pittura, ma nella poesia, in cui trovano l'unica lorogiustificazione; l'esecuzione plastica passa in seconda linea, néaltro se ne richiede, se non che rappresenti le cose in modo chesiano riconoscibili. Ma come nell'arte plastica, cosí anche in poesial'allegoria si volge in simbolo, ogni volta che tra il dato intuitivoe il concetto astratto sottinteso non c'è che una relazionearbitraria. Siccome ogni rappresentazione simbolica riposa in fondosu di una convenzione, il simbolo, fra tanti inconvenienti, presentaanche questo, che con l'andar del tempo il suo significato sidimentica e svanisce. Chi mai indovinerebbe, se non la sapesse già,la ragione perché il pesce è simbolo del cristianesimo? (24) Soltantouno Champollion, poiché qui non si tratta che di un geroglifico

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfonetico. Ecco perché l'Apocalisse di S' Giovanni si trova oggi, comeallegoria poetica, pressappoco nella stessa condizione deibassorilievi portanti l'iscrizione: «Magnus Deus sol Mithra», la cuiinterpretazione è anche oggi un punto controverso. (25)

Par' 51. - Passando, nel nostro studio sull'arte in generale, dallearti plastiche alla poesia, non esiteremo punto ad affermare cheanche il fine di questa è di manifestare le idee (i gradi dioggettivazione della volontà) per comunicarle all'uditore con tuttala precisione e la vivacità con cui lo spirito del poeta le haconcepite. Le idee sono essenzialmente intuitive: benché dunque ciòche in poesia si comunica direttamente con la parola si risolva inconcetti astratti, risulta nondimeno evidente l'intenzione dipresentare all'intuizione del lettore, sotto i segni rappresentatividi questi concetti, le idee, la vita: il che non può riuscire, se illettore non concorre con la sua immaginazione. Ma per eccitarel'immaginazione e per dirigerla a questo fine, bisogna che i concettiastratti, che costituiscono la materia prima cosí della poesia comedella piú arida prosa, vengano coordinati in modo che le loro sferesi intersechino, e nessuno resti nella sua astratta generalità;bisogna inoltre che un'immagine intuitiva venga a sostituire ilconcetto nell'immaginazione, e che la parola del poeta modifichisempre più tale immagine, per adattarla a ciò che si propone diesprimere. Come il chimico sa ottenere un precipitato solido daliquidi perfettamente chiari e trasparenti, il poeta sa, per cosídire, precipitare il concreto, l'individuale, la rappresentazioneintuitiva dall'universalità astratta e trasparente dei concetti; eciò grazie al segreto con cui li sa combinare. L'idea infatti non èconoscibile che per intuizione, e la conoscenza dell'idea è il finedell'arte. La maestria, tanto in poesia che in chimica, sta nelsapere ogni volta ottenere il precipitato che si desidera. Questo èil fine cui servono i numerosi epiteti che s'incontrano in poesia, eche restringono sempre piú l'universalità del concetto, sino arenderlo intuitivo. Omero accoppia quasi sempre al sostantivo unaggettivo, il cui concetto taglia la sfera del soggetto in modo darestringerla considerevolmente, avvicinandola quant'è possibileall'intuizione. Cosí ad esempio:«§en d' ëpes' §wkean#* lampròn fäos hûelïoio,@ §hëlkon nüktamëlainan epì zeïdwron ärouran.@»(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis, trahens noctemnigram super almam terram.)E ancora:«Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,@ Die Myrte still, undhoch der Lorbeer steht.@» (26)Con pochissime nozioni, questi versiriescono ad evocare alla fantasia tutto l'incanto del climameridionale.Ausiliari speciali della poesia sono il ritmo e la rima. Dellapotenza meravigliosa del loro effetto io non so darmi altraspiegazione se non questa: che la nostra facoltà di rappresentazione,essenzialmente legata al tempo, acquista con il loro aiutoun'intonazione speciale, che ci spinge a seguire interiormente ognisuono che si ripete a intervalli regolari, e ci fa quasi vibrareall'unisono con quello. In tal modo il ritmo e la rima tengonoincatenata l'attenzione, perché ascoltiamo la recitazione con maggiorpiacere; fanno inoltre sorgere in noi una disposizione cieca,anteriore ad ogni giudizio, di acquiescenza alla cosa che si recita;il che le conferisce una certa potenza enfatica e persuasiva,indipendente da ogni ragionamento.Per l'universalità della materia di cui dispone per esprimere leidee, cioè per l'universalità dei concetti, la poesia si estende inun dominio sconfinato. Tutta la natura, tutte le idee, in tutti igradi di oggettivazione della volontà, possono essere abbracciatidalla poesia; la quale, secondo la natura del soggetto, adotta ora laforma descrittiva, ora la forma narrativa, ora la forma drammatica.Se nella rappresentazione dei gradi inferiori di oggettità dellavolontà, le arti figurative riescono sovente superiori alla poesia,perché la natura incosciente, e anche quella puramente animale,rivelano quasi tutta la loro essenza in un solo istante che bastasaper bene afferrare; l'uomo invece, che non si rivela unicamente

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdall'attitudine e dall'espressione della fisionomia, ma esprime sestesso in una catena di azioni e in una serie di pensieri e diaffetti concomitanti, costituisce l'oggetto principale della poesia:in questo campo nessun'altra arte può competere con la poesia, dotatadella facoltà, mancante a tutte le arti figurative, di sviluppareprogressivamente il suo soggetto.Esprimere l'idea che costituisce il grado supremo di oggettitàdella volontà, dipingere l'uomo nella serie continua delle sueaspirazioni e delle sue azioni: ecco l'alta missione della poesia.Senza dubbio, anche l'esperienza, anche la storia ci insegnano aconoscere l'uomo; ma ci fanno conoscere gli uomini piuttosto chel'uomo; in altre parole, ci offrono notizieempiriche sul modo in cuisi comportano gli uomini l'uno con l'altro, notizie da cui possiamotrarre delle regole per la nostra condotta personale; ma non ciaprono vedute profonde sulla intima natura umana. Quest'ultimoufficio non è certo escluso dal loro dominio; però, se talvolta lastoria e l'esperienza individuale ci rivelano l'essenza dell'umanità,è segno che noi abbiamo già considerato, sia i fatti storici, sia ifatti di esperienza, con occhi di artisti e di poeti, e cioè sotto ilpunto di vista dell'idea, e non sotto quello del fenomeno, dal latoessenziale e non dal lato relativo. La propria esperienza è, al paridella storia, condizione indispensabile per comprendere la poesia; lapoesia, infatti, è come il dizionario della lingua che parlanoambedue. Ma la storia sta alla poesia come il ritratto sta al quadrostorico; il primo ci dà il vero particolare, il secondo il verogenerale; l'uno ha la verità del fenomeno, e il fenomeno serve a taleverità come documento e come prova; l'altro ha la verità dell'ideache non si trova in nessun fenomeno particolare, ma parla in tutti ifenomeni in generale. Il poeta presenta a ragion veduta caratterisignificativi, e li pone in situazioni importanti. Lo storico prendeambedue le cose come vengono; sceglie e tratta uomini e avvenimenti,non già secondo il loro significato intimo, vero, ed esprimentel'idea, ma secondo il significato esteriore, apparente e relativo cherisiede unicamente nelle complicazioni e nelle conseguenze chepossono risultarne. Lo storico non può apprezzare le cose in sé e persé, secondo il loro carattere essenziale e il loro valore intrinseco,ma deve giudicare ogni cosa in vista delle sue relazioni, delle sueconcatenazioni, delle sue influenze sull'avvenire, e specialmente suifatti di cui egli stesso è contemporaneo. E, ad esempio, mai ometteràl'azione di un re, anche se di poca importanza, e anche volgare, inquanto essa è ricca di effetti e di conseguenze. Al contrario, non sipreoccuperà di azioni altamente significative, compiute forse daipersonaggi piú illustri, ma che non ebbero nessuna conseguenza enessuna influenza. La sua ricerca infatti, procede con il principiodi ragione, senza tener conto che del fenomeno di cui tale principioè la forma. Il poeta, invece, abbraccia l'idea, l'essenzadell'umanità, all'infuori di ogni relazione, all'infuori del tempo:in altre parole, coglie l'oggettità adeguata della cosa in sé nel suogrado supremo. Senza dubbio, anche restando nel punto di vistanecessario allo storico, è innegabile che l'essenza intima, ilsignificato dei fenomeni, il nocciolo dell'esteriorità non possonoandare del tutto perduti; possono perlomeno, essere trovati ericonosciuti da chi ne fa ricerca, ma ciò che ha un significato insé, e non in ordine ad altro, e cioè il vero sviluppo dell'idea,verrà espresso in modo ben piú esatto e preciso nella poesia chenella storia. Donde bisogna concludere, per quanto la cosa sembriparadossale, che bisogna attribuire molto piú di verità intrinseca,pura, intima alla prima che alla seconda. Lo storico, infatti, deveseguire gli avvenimenti individuali quali la vita li produce, edesporli nell'ordine con cui si svolgono nel tempo, in cui formanotante serie molteplici e interferenti di cause e di effetti; ma gli èimpossibile di possedere tutti i dati, di aver tutto veduto, tuttosaputo; ad ogni passo l'originale del suo quadro gli viene a mancare,o un falso modello si sostituisce al vero; e ciò avviene così difrequente, che io mi credo autorizzato ad affermare che nella storiaci sia assai piú di falso che di vero. Il poeta, invece, abbraccial'idea dell'umanità nel senso determinato in cui vuol rappresentarla;è la natura del suo proprio io quella ch'egli oggettiva dinanzi a sé

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnell'idea umana; la sua conoscenza, come s'è detto in occasione dellascultura, è in parte a priori; il suo modello è sempre di fronte alsuo spirito, fermo, distinto, luminoso, e non gli si offusca unmomento. Ci mostra in tal modo, nello specchio del suo spirito,l'idea pura e limpida, e le sue pitture sono, fin nei minimiparticolari, vere come è vera la vita stessa. (27) I grandi storicidell'antichità sono dunque poeti nei particolari, quando loro mancanoi dati, come per esempio nei discorsi dei personaggi; allora latrattazione del soggetto assume l'aria dell'epopea; ma ciò conferisceunità all'esposizione, permettendo loro di restar fedeli alla veritàintrinseca in quel caso stesso in cui la verità estrinseca erainaccessibile o falsificata. Se piú addietro paragonammo la storia alritratto, in contrapposizione alla poesia, corrispondente allapittura storica, dobbiamo dire che gli antichi storici seguivano ilprecetto di Winckelmann, il quale vuole che il ritratto debba esserel'ideale dell'individuo; infatti, descrivono il particolare in guisada mettere in luce l'idea dell'umanità che vi si esprime; laddove imoderni, fatte pochissime eccezioni, riducono la storia a un cestod'immondizie, a una camera da cianfrusaglie, o tutt'al piú alladescrizione di qualche grande avvenimento o di qualche fattopolitico. Chi dunque desidera conoscere l'umanità nella sua essenzaintima, nella sua idea, sempre identica in tutte le suemanifestazioni e nei suoi sviluppi, ne troverà nelle operedegl'immortali grandi poeti un'immagine ben piú fedele e piú nettache non negli storici; perché persino i migliori storici sono benlontani dall'essere ottimi come poeti; senza contare che non hannomai le mani libere. Sotto un tale riguardo, la posizione dellostorico rispetto al poeta può esser caratterizzata dal seguenteparagone. Lo storico puro e semplice, il quale non lavora che su daticerti, è simile ad un uomo che, senza veruna conoscenza dimatematica, calcola, su figure date a caso, per via di misure, lerelazioni tra le loro linee; i suoi risultati empirici saranno senzadubbio contaminati da tutti gli errori della figura disegnata. Ilpoeta, invece, somiglia al matematico, il quale costruisce lerelazioni stesse a priori nell'intuizione pura, e le formula, noncome sono realmente date nella figura, ma secondo la legge della loroesistenza nell'idea che il disegno deve rappresentare. Il che fa direa Schiller:«Was sich nie und nirgends hat begeben@ Das allein veraltet nie.@» (28)Io anzi non esito, per quanto riguarda la conoscenza della naturaumana, neppure ad attribuire alle biografie, specialmente alleautobiografie, un valore piú grande che non alla storia vera epropria, intesa nel senso in cui si suole ordinariamente trattarla.Infatti, per le prime, i dati si possono raccogliere in modo piúesatto e completo che non per la seconda: d'altra parte, nella storiapropriamente detta non sono tanto gli uomini che agiscono, quanto ipopoli e gli eserciti, e i pochi individui che vi fanno comparsa ciappaiono a così grande distanza, in mezzo a tanto circuito e a tantoseguito, trasfigurati in vesti ufficiali così rigide, o in corazzecosí pesanti e inflessibili, che riesce quasi impossibile, attraversotanti ostacoli, riconoscere i veri movimenti umani. Al contrario, unabiografia fedele ci dipinge nella sua sfera ristretta la condottadegli uomini in tutte le sue sfumature e in tutte le sue forme:saggezza, virtú, e persino santità in alcuni, pravità, miseria emalignità nei piú, scelleratezza in piú d'uno. Aggiungiamo ancora chedal punto di vista che ora c'interessa, quello cioè del valoreintrinseco dei fenomeni, è assolutamente indifferente se gli oggettisu cui si svolge la trama di un'azione siano comparativamente piccolio grandi, se si tratti di un potere o di un regno; tutte queste cose,in sé insignificanti, non acquistano un'importanza che in quantomettono in moto la volontà; un motivo non ha valore che in relazionecon la volontà: la relazione che lo unisce come cosa alle altre cosenon è da prendersi affatto in considerazione. Come una circonferenzadi un pollice e una circonferenza di 40'000'000 di miglia di diametrohanno precisamente le identiche proprietà geometriche, del pari lastoria e i fatti di un villaggio sono essenzialmente gli stessi chequelli di un regno, sicché possiamo studiare l'umanità e conoscerla,sia nella storia del villaggio che in quella del regno: senza nessuna

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdifferenza. Né si ha ragione di supporre che le autobiografie sianotutto un inganno e una dissimulazione. Anzi, la menzogna (benchépossibile dappertutto) è forse piú difficile qui che altrove. Ladissimulazione è soprattutto facile nella semplice conversazione; inuna lettera, per quanto ciò possa sembrare un paradosso, è già infondo piú difficile: l'uomo infatti, mentre scrive una lettera, solocon se stesso, vede quello che accade in lui, e non guarda al difuori: né gli riesce facile di porsi dinanzi agli occhi ciò che gli èestraneo e lontano, e di farsi una idea della natura e del gradodell'impressione che producono le sue parole su quello a cui ledirige. Questi poi legge la lettera e la rilegge piú volte in diverseriprese, con perfetta tranquillità, e in una disposizione d'animoignorata dallo scrittore; sicché infine gli riesce di scoprirefacilmente le intenzioni segrete che vi si racchiudono. Per conoscereun autore, anche come uomo, non c'è di meglio che leggerne i libri;perché il complesso delle circostanze, accennate a proposito dellelettere, agisce qui ancora piú a lungo e piú fortemente. Fingere inun'autobiografia è così difficile, che non c'è forse una solaautobiografia la quale non sia in complesso piú vera di ogni altrastoria scritta. L'uomo che dipinge la sua vita la vede nell'insieme,all'ingrosso; i particolari, per lui, non hanno piú importanza; ciòche è vicino si allontana, ciò che è lontano si riavvicina; iriguardi svaniscono. L'uomo si pone da sé al confessionale, con attodi spontaneità volenterosa; e, nel tribunale della confessione, lospirito di menzogna non fa presa così facilmente su di lui; perché inciascuno c'è alla verità un'inclinazione innata, contro la qualebisogna lottare ogni volta che si è tentati di mentire, e che nelcaso presente si fa sentire con forza incredibile. Che relazionepassi fra la biografia e la storia dei popoli, risulta chiaro dalseguente paragone. La storia ci mostra l'umanità come ci appare lanatura contemplata dall'alto di un monte: abbracciamo con un solosguardo una infinità di cose, grandi estensioni, grandi masse; ma nonc'è nulla di chiaro, nulla di riconoscibile nelle sue particolaritàessenziali. La biografia ci fa invece conoscere l'uomo comeconosciamo la natura quando nel passeggiare osserviamo gli alberi, lepiante, le rocce, le acque. Ma come la pittura di paesaggio, in cuil'artista ci presta i suoi occhi per veder la natura, ci facilital'intelligenza delle sue idee, ponendoci nello stato richiesto diconoscenza pura e libera dalla volontà; cosí, per la conoscenza delleidee che cerchiamo nella storia e nella biografia, la poesia ci apreuno spiraglio ben piú luminoso che non la storia e la stessabiografia; perché, anche nella poesia, il genio è come lo specchiolimpido e terso che raccoglie e riflette in viva luce tutto ciò che èessenziale ed importante, sopprimendo gli elementi accidentali edeterogenei. (29)La rappresentazione dell'idea di umanità, rappresentazionecostituente il fine del poeta, è possibile in due modi. O il poetaprende per oggetto se stesso, cosí che il rappresentante non sidistingua dal rappresentato, e abbiamo allora la poesia lirica, lacanzone propriamente detta: qui l'autore non fa che descriverci laviva intuizione dei propri stati d'animo; per la natura stessadell'oggetto, è essenziale a questo genere una certa soggettività.Oppure (come in tutti gli altri generi di poesia) il poeta ètotalmente estraneo all'oggetto descritto; allora il poeta sinasconde piú o meno dietro al suo soggetto, e finisce con lo spariretotalmente. Nella romanza, l'artista lascia trasparire ancora i suoisentimenti nell'intonazione, nell'andamento generale dell'insieme:piú obiettiva della canzone, la romanza conserva nondimeno qualcosadi soggettivo, che diminuisce anche piú nell'idillio, anche piú nelromanzo, sparisce quasi del tutto nell'epopea, e finisce per nonlasciar piú traccia nel dramma; genere, non soltanto il piúoggettivo, ma sotto molti aspetti anche il piú perfetto e il piúdifficile che abbia la poesia. E questa è la ragione perché il generelirico è appunto il piú facile; se il dono poetico non è concesso cheal raro e puro genio, è indiscutibile tuttavia che anche un uomo dinon troppa elevatezza di mente, quando una viva impressione esterna ouna subitanea ispirazione vengano ad esaltare il suo spirito, puòscrivere una bella lirica: non richiedendosi a ciò che una viva

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtintuizione dei propri sentimenti in un momento di eccitazione.Servano di prova le numerose liriche di persone rimaste d'altrondeignote; specialmente i canti popolari tedeschi, di cui abbiamo nelWunderhorn un'eccellente raccolta; nonché le innumerevoli canzoni,sia d'amore che d'altro argomento, composte in ogni lingua da autoripopolari. Saper cogliere un'impressione momentanea e formularla inuna canzone, è tutto il compito di questo genere di poesia. Peraltro, il vero poeta lirico rispecchia nella sua opera la naturaintima dell'umanità intera; sa, in una sola canzone, esprimere inmodo perfetto ciò che milioni di esseri, passati, presenti e futuri,sentirono e sentiranno nelle situazioni medesime rinascenti sempre dinuovo. Tali situazioni, a causa del loro incessante ritorno, duranoeterne come eterna è l'umanità, ed eccitano sempre le medesimeimpressioni; cosí le opere liriche dei veri grandi poeti conservanoattraverso i secoli tutta la loro vita, la loro verità e la lorofreschezza. Il poeta è l'uomo universale; tutto ciò che abbia maifatto palpitare il cuore umano, tutto ciò che la natura umana abbiamai fatto, in una circostanza qualunque, scaturire da se stessa,tutto ciò che possa albergare e covare nel petto di un uomo, tutto ètema e materia per lui: tutto, non escluso il resto dell'interanatura. E il poeta può cantare la voluttà o la mistica, essereAnacreonte o Angelo Silesio, scrivere tragedie o commedie, dipingereun carattere sublime o volgare, secondo il suo capriccio o la suavocazione. Nessuno può prescrivergli di esser nobile, sublime,morale, pio o cristiano; nessuno può imporgli di esser questo e nonquello; molto meno ha il diritto di rimproverarlo perché è tale e nonaltrimenti. E' lo specchio dell'umanità, che le presenta dinanziriflessa l'immagine di tutti i suoi sentimenti e di tutte le sueazioni.Esaminiamo piú da vicino la natura della canzone propriamentedetta. Scegliendo modelli che siano perfetti e puri, e non tali chesi avvicinino piú o meno a un altro genere, come alla romanza,all'elegia, all'inno, a epigramma, ecc', riconosceremo come vero eproprio carattere distintivo della canzone il seguente. Ciò che nellacanzone occupa la coscienza del poeta è il soggetto della volontà, ilsuo proprio volere; talvolta, come volere libero e soddisfatto(gioia), piú spesso come un volere contrastato (tristezza), semprepoi come affetto, come passione, come stato d'animo commosso. Oltre aun tale stato d'animo, e insieme, c'è la contemplazione della naturacircostante, che risveglia nel poeta la coscienza di sé come soggettodi conoscenza puro e libero dalla volontà; l'imperturbabile calma dispirito che ne deriva, contrasta con l'impeto della volontà sempremiserabile e sempre bisognosa; e il sentimento dell'alterno contrastoè appunto ciò che anima il complesso della canzone e che costituiscel'ispirazione lirica in generale. In tale stato d'animo, laconoscenza pura viene in qualche modo a noi, per liberarci dallavolontà e dai suoi impulsi; noi vi ci abbandoniamo; per un momentosolo però; la volontà, il ricordo dei nostri interessi personali,ritornano sempre di nuovo a strapparci alla placida contemplazione:la bellezza della natura circostante, la cui contemplazione invitaalla conoscenza pura e libera dalla volontà, ci sottrae di nuovo conla sua seduzione alla tirannia della volontà. Perciò nella canzone enell'ispirazione lirica si ha questa mirabile fusione del volere(espresso dalle vedute e dagli interessi personali) e dellacontemplazione pura della natura circostante; si cercano, siimmaginano relazioni fra i due stati: la disposizione soggettiva,l'affezione della volontà, colora delle sue tinte la naturacontemplata, e viceversa; la canzone vera e pura è l'espressione diquesti sentimenti così mescolati e contrastanti. Per ben comprenderein via di esempi questo sdoppiamento astratto di uno stato il quale ètutt'altro che astrazione, non si ha che a leggere una qualsiasidelle immortali canzoni di Goethe: ma come singolarmente adatte alfine credo raccomandabili le seguenti: Il lamento del pastore, Salutoe congedo, Alla luna, In mare, Impressioni d'autunno. Le canzonipropriamente dette contenute nel Wunderhorn, offrono pure ottimiesempi, specialmente quella che incomincia con le parole: «O Brema,devo dunque lasciarti!». Come parodia comica e ben riuscita delcarattere lirico, debbo ricordare una notevole canzone, in cui Voss

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdescrive lo stato d'animo di un acconciatetti ubriaco il quale cadeda una torre, e nella sua caduta osserva che l'orologio della torresegna le undici e mezzo: conoscenza estranea senza dubbio alla suasituazione, libera dunque da ogni volontà. Chi accetta il modo mio diconcepire la condizione lirica dell'animo, concederà ammettere che lacondizione medesima è propriamente la conoscenza intuitiva e poeticadella seguente verità (da me stabilita nella mia dissertazione Sulprincipio di ragione e menzionata pure nella presente opera): chel'identità del soggetto conoscente e del soggetto volente si può direil miracolo per eccellenza. L'effetto poetico della canzone deriva inultimo dalla detta verità. Nel corso della vita, i due soggetti (o,per esprimerci popolarmente, la testa e il cuore) si vanno sempre piúseparando; l'uomo distingue sempre piú la propria sensibilitàsoggettiva dalla propria conoscenza oggettiva. Entrambi gli elementisono ancora confusi nel fanciullo, il quale appena sa distinguere sédal mondo esterno che lo circonda e che quasi lo inghiotte. Nelgiovane, ogni percezione agisce prima di tutto sulla sensibilità esulla disposizione intima; e anzi vi si confonde con esse: come diceByron in magnifici versi:«I live not in myself, but I become@ Portion of that around me;and to me@ High mountains are a feeling.@» (30)Perciò il giovane sisente cosí fortemente attaccato all'apparenza esteriore delle cose,né riesce ad oltrepassare la poesia lirica: per la poesia drammaticaci vuol l'uomo maturo: il vecchio potrà tutt'al piú pensareall'epopea, come Omero o come Ossian: il raccontare è la gioia dellavecchiezza.Gli altri generi poetici piú oggettivi, specialmente il romanzo,l'epopea e il dramma, raggiungono il loro intento, che è, comesappiamo, la rivelazione dell'idea dell'umanità, mediante duecondizioni principali; e cioè: la concezione esatta e profonda deicaratteri significativi, e l'invenzione di situazioni importanti incui tali caratteri possano esplicarsi. Perché, come il chimico nonpuò esaurire il suo ufficio nel descrivere con chiara esattezza icorpi semplici e i loro principali composti, ma deve anche metternein rilievo le proprietà caratteristiche, esponendoli al contatto direattivi convenientemente scelti; così anche il poeta deve nonsoltanto presentarci dei caratteri significativi con la verità e lafedeltà della natura; ma, per farceli meglio comprendere, deverappresentarli in situazioni in cui possano spiegare tutte le loropeculiarità, e assumere contorni precisi, netti; sono tali appunto lecosiddette situazioni significative. Nella vita e nella storia, èraro che si verifichino tali situazioni, che in ogni modo restanoisolate, sperdute, eclissate fra la moltitudine degli avvenimentitriti e volgari. Ciò che deve distinguere il romanzo, l'epopea e ildramma dalla vita reale sta dunque nell'importanza delle situazioni,oltreché nella scelta e nella combinazione dei caratterisignificativi. Notiamo peraltro che condizione indispensabile di ogniefficacia ed emozione è la verità piú assoluta; la mancanza d'unitànei caratteri, la loro contraddizione con se stessi o con la naturaumana in generale, l'impossibilità delle situazioni, o la loroinverosimiglianza, ch'è lo stesso, producono, anche nelle minuzie piúsecondarie, lo stesso disastroso effetto in poesia, che in pittura lefigure mal disegnate, la falsa prospettiva, o la difettosailluminazione. Sia nell'uno che nell'altro caso, all'arte si domandache sia uno specchio fedele della vita, dell'umanità e del mondo;l'arte deve soltanto conferir loro una luce piú chiara mediante lapittura dei caratteri, e un maggior rilievo mediante la combinazionedelle situazioni. Unico è il fine delle arti: la rappresentazionedelle idee. La differenza fra le varie arti consiste soltanto nelgrado di oggettivazione corrispondente all'idea che in ciascuna sitratta di rappresentare; grado, da cui dipende anche il genere dimateria proprio ad ogni arte. Le arti, anche le piú disparate, sipossono dunque spiegare a vicenda col loro confronto. Cosí, adesempio, per comprendere bene le idee espresse dall'acqua, non bastavederla immobile in uno stagno, o scorrente con moto uniforme nelletto di un fiume; bisogna inoltre osservarla in molte condizioni,dominata da forze contrarie che le diano occasione di rivelarepienamente le sue proprietà: ci piace ammirarla quando precipita,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfreme, schiumeggia, rimbalza, quando si dissolve in sottilissimapolvere, o infine, quando costretta dall'arte si slancia con gettopotente al cielo; l'acqua, in tale varietà di condizioni, si mostracon proprietà diverse, rimanendo pur sempre una e identica a semedesima; essendole infatti cosa naturale di sprizzare nell'aria,come di riflettere immobile il cielo, si presta indifferentementeall'uno e all'altro stato, secondo la natura delle circostanze. Oraciò che l'ingegnere idraulico fa per la materia liquida el'architetto per i solidi, il poeta epico o drammatico lo fa perl'idea dell'umanità. Sviluppare, illuminare l'idea che si esprime inogni opera d'arte, la volontà in ogni grado della sua oggettivazione:questo è il fine comune di tutte le arti. La vita umana, quale ci simostra d'ordinario nella realtà, è simile all'acqua, che vediamo ilpiú delle volte nello stagno e nel fiume; nell'epopea, nel romanzo enella tragedia, i caratteri vengono scelti e posti in situazionitali, da poter esplicare tutte le loro proprietà distintive; leprofondità dell'animo umano si schiudono e si rivelano in azionisignificanti e straordinarie. Questo è il mezzo con cui la poesiaobiettiva l'idea dell'umanità: idea che ha la particolarità dirivelarsi tanto piú distintamente, quanto piú fortemente accentuatisono i caratteri individuali. La tragedia è considerata, e conragione, come il piú elevato dei generi poetici; per la potenzadell'effetto, e per la difficoltà dell'esecuzione. Bisogna tener benein mente, se si vuol comprendere l'insieme delle considerazionipresentate in quest'opera, che quest'opera suprema del genio poeticoha il fine di mostrare il lato terribile della vita, i dolori senzanome, le angosce dell'umanità, il trionfo dei malvagi, il potereschernitore del caso, la disfatta irreparabile del giusto edell'innocente; nel che si ha un indice significativo della naturadel mondo e dell'esistenza. Ciò che qui viene in luce è la lottaspaventosa della volontà con se stessa; lotta che, in questo gradosupremo di oggettivazione, si spiega nell'ambito piú vasto ecompleto. La tragedia ci mostra tale conflitto col dipingerci ilquadro delle sofferenze umane; sia di quelle provenienti dal caso edall'errore che governano il mondo sotto la forma d'un destinofatale, con una perfidia che ha quasi l'apparenza di una persecuzioneintenzionale, sia di quelle che hanno sorgente nella stessa naturaumana, cioè, o nell'incrocio degli sforzi e delle volizionidegl'individui, o nella malvagità e nella perversità dellamaggioranza degli uomini. Una e identica è la volontà che viene e sirivela in tutti gli esseri umani; ma le sue manifestazioni sicombattono e si dilaniano fra loro. La volontà, secondo gl'individui,appare ora piú ora meno energica, ora piú ora meno accompagnata dallaragione, ora piú ora meno mitigata dalla conoscenza; finalmente, inalcuni esseri privilegiati, la conoscenza, purificata espiritualizzata dal dolore stesso, arriva al grado in cui il mondoesteriore, il velo di Maya, non può piú ingannarla; e vede chiaroattraverso la forma del fenomeno, attraverso il principiumindividuationis. Allora, con il detto principio, svanisce anchel'egoismo, che vi si fondava; i motivi, prima cosí potenti, perdonola loro forza, e subentra la perfetta conoscenza dell'essenza delmondo; conoscenza che agendo come quietivo della volontà produce larassegnazione, la rinunzia, non soltanto alla vita, ma alla stessavolontà di vivere. Cosí, nella tragedia, vediamo le creature piúnobili rinunziare, dopo lunghi combattimenti e lunghe sofferenze, aifini perseguiti con accanimento, sacrificare per sempre le gioiedella vita, oppure sbarazzarsi liberamente e con gioia del pesodell'esistenza medesima. Questo fa il Principe costante di Calderón;questo, la Margherita del Faust; questo, Amleto: anche Oraziovorrebbe seguirne l'esempio, ma l'amico gl'impone di vivere, direspirare ancora per qualche tempo i dolori di questo mondo crudele,al fine di raccontare il suo destino e di giustificare la suamemoria; questo fanno anche la Pulzella di Orléans e la Fidanzata diMessina. Tutti personaggi che muoiono purificati dal dolore, quandoin loro è già morta la volontà di vivere. Nel Maometto di Voltaire,le ultime parole rivolte a Maometto da Palmira morente affermanoespressamente tale verità: «Vivi», dice, «il mondo è fatto per itiranni!». Esigere dalla tragedia il rispetto alla cosiddetta

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtgiustizia poetica, significa disconoscere interamente l'essenza dellapoesia tragica, ed anche l'essenza di questo mondo. Il dottor SamuelJohnson, nelle sue critiche ai singoli drammi di Shakespeare, nonteme di esprimere un'esigenza così barocca; egli muove al poetal'ingenuo rimprovero di avere assolutamente trascurato la giustizia.Il che, in realtà, è vero: qual è difatti la colpa di Ofelia, diDesdemona, di Cordelia? Ma ci vuol proprio uno spirito imbevuto divolgare ottimismo, uno spirito protestante razionalista o giudaico,per pretendere nel dramma la giustizia, e farne condizioneindispensabile di compiacimento! Ben altro è il vero significatodella tragedia; la quale c'insegna che l'eroe compie l'espiazione,non dei suoi peccati, ma del peccato originale, del delittodell'esistenza medesima; Calderón lo dice senza reticenze:«Pues el delito mayor@ Del hombre es haber nacido.@» (31)Venendo a parlare piú particolarmente del come si debba trattar latragedia, mi sia permessa una sola osservazione. Il soggettoessenziale di un dramma è unicamente lo spettacolo di una grandesventura. Ma i mezzi diversi a cui ricorre il poeta perrappresentarci tale spettacolo, sebbene infiniti di numero, sipossono ridurre a tre specie. Può immaginare come causa di sventuraun carattere di perversità straordinaria e mostruosa, come ad esempioRiccardo Iii, Jago in Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, FranzMoor, la Fedra di Euripide, Creonte nell'Antigone, ecc'. La sventurapuò nascere anche da una fatalità cieca, cioè dal caso e dall'errore;un esempio tipico n'è l'Edipo re di Sofocle: insieme con leTrachinie, con la maggior parte delle tragedie antiche, le qualiappartengono in genere tutte alla medesima categoria; esempi modernise ne hanno in Romeo e Giulietta, nel Tancredi di Voltaire, nellaFidanzata di Messina. Causa di sventura può essere infine la semplicesituazione reciproca dei personaggi, la relazione dell'uno conl'altro. In tal caso non c'è bisogno né d'un errore funesto, né di uncaso inaudito, né di un carattere oltrepassante i limiti dellamalvagità umana; dei caratteri di tempra morale ordinaria, incircostanze che si verificano giornalmente, si trovano in situazionirispettive che li obbligano a prepararsi l'uno all'altro, con pienaconsapevolezza, la sorte piú infelice, senza che la colpa siaunicamente da un lato o dall'altro. Questo mezzo drammatico mi sembrainfinitamente migliore degli altri due; perché ci presenta il colmodella sventura, non come un'eccezione, come qualcosa dovuto acircostanze straordinarie o a caratteri mostruosi; ma come unaconseguenza facile, spontanea, e quasi direi necessaria dellacondotta e dei caratteri umani; tali sventure assumono agli occhinostri, a causa della loro grande facilità, un aspetto ancora piúspaventoso. Anche le altre due maniere ci danno visione di orribilidestini e di mostruose malvagità; ma le potenze minaccianti non ciappaiono che da lontano, sicché abbiamo grande speranza disottrarcisi, senza essere perciò costretti alla rinuncia; l'ultimogenere tragico ci presenta invece le stesse potenze, nemiche di ognifelicità e di ogni vita, ma in condizioni tali che aprono loro adogni momento il piú facile accesso fino a noi; e vediamo le piúgrandi calamità prodotte da complicazioni in cui può venireessenzialmente coinvolto il nostro destino, e da azioni che anche noisaremmo forse capaci di commettere; sicché non potremmo accusarenessuno di ingiustizia. Ci sentiamo rabbrividire allora; e ci sembragià di essere tra i supplizi dell'inferno. Ma un tal genere ditragedia è anche il piú difficile: perché l'effetto piúimpressionante dev'essere ottenuto con i mezzi e i moventi piúpiccoli, con l'abilità sola della composizione e della disposizione.Questa è la ragione per cui, anche in molte fra le migliori tragedie,si cerca di eludere una tale difficoltà. C'è nondimeno un dramma, chesi può citare come modello piú perfetto del genere, sebbene sottomolti altri punti di vista inferiore alla maggior parte di quelli delsuo grande autore: il Clavigo di Goethe. Amleto appartiene in qualchemodo allo stesso genere, se non si tien conto che delle sue relazionicon Laerte e con Ofelia; così pure Wallenstein, e soprattutto Faust,se, come azione principale, si consideri l'avventura con Margherita econ il fratello di lei. Dicasi altrettanto del Cid di Corneille; alquale peraltro manca la catastrofe tragica che invece si trova nella

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsituazione analoga di Max e di Tecla nel Wallenstein. (32)

Par' 52. - Abbiamo fin qui passato in rassegna tutte le belle arti,col criterio generale conveniente al nostro punto di vista. Abbiamoincominciato con l'architettura, che ha per intento estetico diesprimere l'oggettivazione della volontà nel grado piú basso dellasua visibilità, cioè nel gradino in cui si mostra come tendenza dellamateria, tendenza cieca, incosciente, regolare, ma rivelante già unintimo antagonismo nel conflitto fra la rigidità e il peso. E abbiamofinito con la tragedia, che ci presenta, nel grado supremo di taleoggettivazione, l'identica lotta della volontà con se stessa, ma inproporzioni piú vaste, con un'evidenza spaventosa. Giunti al finedella rassegna, costatiamo che c'è tuttavia un'arte, rimasta fuoridel nostro studio, e che doveva rimaner fuori, perché non potevatrovare un posto conveniente nella connessione sistematicadell'esposizione: la musica; totalmente isolata dalle altre sorelle.Nella musica non riconosciamo piú la copia, la ripetizione di qualcheidea degli esseri di questo mondo. E nondimeno la musica è un'artecosí sublime e meravigliosa, di efficacia così grande sui sentimentipiú intimi dell'uomo, cosí facile a comprendersi interamente eprofondamente quasi lingua universale oltrepassante in chiarezza lastessa evidenza del mondo intuitivo, che senza dubbio ci dobbiamovedere ben piú di un puro «exercitium arithmeticae occultumnescientis se numerare animi», come la definiva Leibniz. (33) Ilquale era tuttavia nel vero, in quanto non ne considerava che ilsenso immediato ed esteriore; per cosí dire, la scorza. Ma se lamusica non fosse nulla di piú, la soddisfazione che ci procura nondovrebbe differire dal piacere che proviamo nel trovare la soluzioneesatta di un problema di calcolo: non potrebbe essere quella gioiaintima in cui sentiamo vibrare le corde piú profonde dell'esserenostro. Sotto il nostro punto di vista che riguarda soltantol'effetto estetico, dobbiamo dunque riconoscere alla musica unsignificato piú serio e piú profondo, in intima correlazione conl'essenza suprema e del mondo e di noi stessi: significato, rispettoal quale le relazioni numeriche in cui la musica si può risolvere,non sono che un simbolo ben lontano dalla realtà significata. Che trala musica e il mondo corra in qualche modo una relazione dirappresentante a rappresentato, di copia a modello, possiamo desumeredall'analogia con le altre arti, che tutte possiedono questo medesimocarattere, e la cui azione su di noi è dello stesso genere di quellaesercitata dalla musica. Ma tale azione, in questa, è piú forte, piúrapida, meno condizionata e piú sicura. Bisogna che la relazione dicopia a modello tra la musica e il mondo sia molto intima, diun'esattezza e d'una puntualità estrema, poiché viene compresaimmediatamente da ognuno, e lascia riconoscere una certainfallibilità in questo, che la sua forma è riducibile a regolearitmetiche rigorose, dalle quali non si può scostare senza cessareaffatto di esser musica. Pure, l'analogia fra la musica e il mondo,il senso in cui quella è un'imitazione o una ripetizione di questo,rimangono profondamente nascosti. Si è sempre fatto della musica,senza mai riuscire a rendersene conto; paghi d'intenderlaimmediatamente, non si ottenne mai una comprensione astratta dellasua intelligibilità immediata.Avendo l'abitudine di abbandonarmi con tutto l'animo alleimpressioni della musica in ogni sua forma, e di riflettervi suriferendomi sempre al corso di pensieri esposto nel presente libro,mi riuscí alla fine di rendermi conto della sua intima essenza, dispiegarmi la natura della sua relazione d'imitazione con il mondo;relazione, che l'analogia ci costringe a presupporre. Talespiegazione, che mi soddisfa in tutto, e che appaga la mia ricerca,riuscirà, spero, altrettanto soddisfacente per coloro che mi hanseguito fin qui, e che accettano la mia concezione del mondo. Debbotuttavia riconoscere che la verità della mia interpretazione è peressenza indimostrabile; suppone infatti e stabilisce una connessionefra la musica in quanto arte rappresentativa, e qualcosa che per suanatura non può mai essere oggetto di rappresentazione; impone anzi diconsiderare nella musica la copia di un modello non rappresentabiledirettamente. Posso dunque soltanto esporre la mia spiegazione: che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtservirà di chiusa al presente libro, consacrato in special modo allostudio delle arti; quanto all'approvazione o alla condanna delle miedottrine, mi rimetto in parte al gusto musicale del lettore, in parteall'opinione ch'egli si sarà fatta intorno all'unico pensieroanimatore di tutta l'opera mia. Notando inoltre che per accettare consincera convinzione la mia interpretazione bisogna che nell'ascoltarela musica vi si associ una costante riflessione sull'interpretazionemedesima, il che, a sua volta, esige una perfetta familiarità con ilpensiero generale del mio libro.Le idee (nel senso platonico) sono l'oggettivazione adeguata dellavolontà; ora, nello stimolare l'uomo alla conoscenza delle idee, staprecisamente il fine delle belle arti, le quali realizzano il loroideale mediante la riproduzione di oggetti particolari (le opered'arte non sono mai altro), e mediante una modificazionecorrispondente nel soggetto conoscitivo. Le arti dunque nonoggettivano la volontà immediatamente, ma soltanto per mezzo delleidee. Il mondo non è che il fenomeno delle idee, reso multiplo dalprincipium individuationis (unica forma di conoscenza possibileall'individuo come tale); dunque la musica, la quale si spinge finoalle idee, è affatto indipendente dal mondo fenomenico: lo ignora, epotrebbe in certo modo continuare ad esistere anche quando l'universonon fosse piú: il che non si può dire delle altre arti. La musica èinfatti, della volontà, un'oggettivazione, una copia, tanto immediataquanto lo stesso mondo, quanto le stesse idee, il cui fenomenomultiplo costituisce il mondo degli oggetti individuali. La musicanon è dunque, come le altre arti, una riproduzione delle idee, ma unariproduzione della stessa volontà, una sua oggettivazione allo stessotitolo che le idee. Perciò il suo effetto è più potente, piúpenetrante che quello delle altre arti; queste non esprimono chel'ombra; quella celebra l'essenza. Siccome per altro la volontà chesi oggettiva nelle idee, è una e identica con quella che si rivelanella musica (la differenza tra l'un caso e l'altro essendo soltantodi forma), segue che fra la musica e le idee, i fenomeni multipli eimperfetti delle quali costituiscono il mondo visibile, debbanecessariamente sussistere, se non una somiglianza diretta, certo unparallelismo e un'analogia. Lo sviluppo di tale analogia sarà laguida con cui potremo piú facilmente comprendere una spiegazione resacosí difficile dall'oscurità del soggetto.Nei suoni piú gravi dell'armonia, nel basso fondamentale, ioriconosco i gradini inferiori di oggettivazione della volontà; lanatura inorganica, la massa planetaria. I suoni acuti, piú mobili epiú fuggitivi, nascon tutti, come si sa, da vibrazioni concomitantidel suono fondamentale, e ogni volta che si produce questo, sisentono sempre risuonare leggermente; anzi, è regola di armonia ilnon accordare con una nota bassa se non i suoi sons harmoniques,quelli cioè che risuonano effettivamente da sé in pari tempo che lanota bassa, in virtú delle vibrazioni concomitanti. C'è quiun'analogia con il fatto che in natura tutti i corpi e tutti gliorganismi si debbono considerare come sorti dalla graduale evoluzionedella massa planetaria, che ne è il sostegno e l'origine; la stessarelazione intercede fra i toni superiori e il basso fondamentale. C'èun limite di gravità, sotto del quale nessun suono è piú percepibile;questo corrisponde al fatto che nessuna materia è percepibile senzauna forma e una qualità, cioè senza la manifestazione di una forzanon scandagliabile in cui si esprime l'idea; più in generale, alprincipio che non esiste materia totalmente priva di volontà. Quindi,come dal suono è inseparabile un certo grado di altezza, cosí dallamateria è inseparabile un certo grado di estrinsecazione dellavolontà. Il basso fondamentale è dunque, nell'armonia, ciò che nelmondo è la natura inorganica, la materia piú bruta, in cui tuttoriposa e da cui tutto nasce e sviluppa. Nella serie poi delle vocicomponenti l'armonia, dalla più bassa fino a quella che dirigel'insieme e canta la melodia, riconosco la serie graduale delle ideein cui la volontà si oggettiva. Le note più vicine al bassocorrispondono ai gradi inferiori, cioè ai corpi inorganici, ma giàdotati di certe proprietà; le note piú alte rappresentano il mondodei vegetali e degli animali. Gli intervalli determinati della gammasono paralleli ai gradi determinati di oggettivazione della volontà,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtalle specie fisse della natura. Le derogazioni dalla regolarità delleproporzioni aritmetiche fra gl'intervalli, prodotte sia dalla temperadella scala, sia dalla scelta del tono, sono analoghe alla deviazionedell'individuo dal tipo della specie; le dissonanze impure, quelleche non seguono alcuna regolarità d'intervallo, si possono paragonareagli aborti mostruosi risultanti dall'incrocio tra due specie dianimali, oppure tra un animale e l'uomo. Le note basse di ripieno,che formano l'armonia, mancano però tutte assolutamente di ognicontinuità di progressione; questo è un privilegio esclusivo dellenote superiori, che sviluppano la melodia, e che sole son capaci dicorrer liberamente e leggermente, eseguendo modulazioni e gamme,laddove le altre hanno un moto piú lento, e mancano di una propriaprogressione continua. Il basso profondo, il rappresentante dellamateria bruta, è la nota dal movimento piú grave e piú pesante: nonsale né discende che a grandi intervalli: terze, quarte, quinte; nonmai con l'intervallo di un solo tono, fuorché nella trasposizione perdoppio contrappunto. Questa lentezza di movimento gli è ancheinerente per necessità fisica: non si riesce ad immaginare una gammarapida o un trillo in note gravi. Piú veloci, ma senza una melodiaseguita, e senza un'andatura che esprima un senso, si muovono le notedi ripieno, che stanno al disopra del basso, e corrono parallele almondo animale. L'andamento irregolare, la determinazione rigorosa ditutte le note di ripieno, hanno il loro analogo in ciò che ha luogonel mondo delle creature irragionevoli; nel quale, dal cristallo finoal bruto piú perfetto, non c'è alcun essere dotato di coscienzaorganica, e capace di conferire alla sua vita un senso e un'unità:nessuno, che percorra una serie intellettuale di sviluppi, e chepossa perfezionarsi con l'istruzione; ma tutti restano eternamenteidentici a se stessi, quali furono fissati dalle rigide leggi dellapropria specie. Viene finalmente la melodia, eseguita dalla voceprincipale, dalla voce alta, dalla voce cantante; voce che dirigel'insieme, che si muove libera e capricciosa, conservando sempre, dalprincipio alla fine, la connessione organica e significativa di unpensiero unico, di un tutto, di un insieme. Riconosco in questa ilgrado supremo di oggettivazione della volontà, la vita e leaspirazioni coscienti dell'uomo. Nello stesso modo che questo,essendo l'unico essere ragionevole, guarda incessantemente dinanzi edietro a sé il corso della sua realtà effettiva e il campo delleinfinite possibilità, vivendo una vita riflessa e organicamentesistemata; cosí la melodia, sola, si sviluppa organicamente,sensatamente, intenzionalmente, dal principio alla fine. La melodiaci racconta, per conseguenza, la storia della volontà illuminatadalla riflessione il cui manifestarsi nella realtà costituisce laserie degli atti umani; di piú: ce ne racconta la storia piú segreta,ci dipinge ogni impulso, ogni slancio, ogni movimento della volontà,quanto la ragione abbraccia sotto il vasto concetto negativo disentimento, ma che non riesce a tradurre nelle sue astrazioni. Eperciò, sempre si disse che la musica è il linguaggio del sentimentoe della passione, come le parole sono la lingua della ragione. CosìPlatone la definisce: "hû t#n mel#n kïnûsis memimûmënû, en toîspaôémasin hötan yuçè gïnûtai" (melodiarum motus, animi affectusimitans), De leg', Vii; e Aristotele dice: "dià tï hoi hruômoì kaì tàmëlû, fwnè ovsa, éôesin ëoike"; (cur numeri musici et modi, qui vocessunt, moribus similes sese exhibent?), Probl', c' 19.E' naturale all'uomo concepire desideri, soddisfarli, vagheggiarnedi nuovi, e così di seguito all'infinito; anzi, l'uomo non è contentoe felice che in quanto il passaggio dal desiderio all'appagamento, eda questo al nuovo desiderio, si effettui con la piú grande rapiditàpossibile; perché il ritardo nella soddisfazione produce sofferenza,e la mancanza di desiderio è fonte di sterile rimpianto, di languor,di noia. Ebbene: altrettanto si dica della melodia; che va errando sumille strade, e si allontana incessantemente dal tono fondamentale;né procede soltanto per intervalli armonici, come la terza e ladominante, ma fa salti di ogni grado, e sale alla settima dissonanteo agl'intervalli aumentati, terminando sempre con un ritorno al tonofondamentale. In tutti questi suoi slanci, la melodia esprime leforme diverse del desiderio umano, e il suo ritorno finale ad unsuono armonico, o meglio ancora al tono fondamentale e ne simboleggia

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtla realizzazione. Inventare una melodia, rivelare per suo mezzo i piúprodi segreti della volontà e del sentimento umano; questa è l'operadel genio; qui, piú che altrove, il genio agisce evidentemente fuoridi ogni riflessione, di ogni intenzione cosciente; qui abbiamo lavera e propria ispirazione. Come in ogni altra arte, anche in musicail concetto è sterile: il compositore ci manifesta l'essenza intimadel mondo, ed esprime la sapienza più profonda, ma in un linguaggioche la sua ragione non intende: proprio come la sonnambula magnetica,la quale svela delle cose, di cui allo stato di veglia non ha laminima nozione. Cosí, nel compositore, piú che in ogni altro, l'uomoè completamente distinto e separato dall'artista. Anche nel semplicetentativo di spiegare quest'arte meravigliosa, vediamo quanto ilconcetto si riveli povero ed infecondo: tenterò nondimeno diproseguire con l'analogia il discorso. Come il rapido passaggio daldesiderio alla realizzazione, dalla realizzazione al nuovo desiderio,fa contento e felice l'uomo; cosí la melodia, nei movimenti rapidi esenza grandi deviazioni, esprime la giocondità; mentre invece lamelodia lenta, che s'intreccia di dissonanze dolorose, che nonriviene al tono fondamentale se non dopo molte battute, ha uncarattere di tristezza, e ci fa rammentare il ritardo, l'ostacolo diun piacere che si sospira. La lentezza nell'arrivo di qualche nuovaeccitazione della volontà, il languore, non può avere analogo che inuna melodia in cui si prolunghi indefinitamente il tono fondamentale:il suo effetto riuscirebbe presto insopportabile; ma una melodiamonotona e insignificante produrrebbe su per giú la medesimasensazione. I motivi facili e brevi di un veloce ballabile sembranoparlarci di una felicità volgare, facile a conseguire; al contrario,l'Allegro maestoso, con i suoi ampi motivi, con i suoi lunghiperiodi, e con le sue lontane deviazioni, ci descrive le grandi enobili aspirazioni verso un fine lontano, e insieme la lororealizzazione finale. L'Adagio racconta le sofferenze di un animonobile e generoso che sdegna ogni meschina felicità. Ma ciò che haveramente del magico è l'effetto dei modi, Maggiore e Minore. C'èproprio da stupire, al pensiero che il semplice cambiamento di unsemitono, la semplice sostituzione della terza minore in luogo dellamaggiore, facciano sorgere in noi, immediatamente ed infallibilmente,un senso di angoscia, e che il modo maggiore possa con rapiditàugualmente fulminea liberarcene. L'Adagio riesce, nel modo minore, adesprimere il dolore estremo: divenendo un lamento dei piú commoventi.Il ballabile in minore, pare che racconti la perdita di una felicitàfrivola e che si dovrebbe volentieri sdegnare: pare anche ricordiche, dopo tante fatiche e strapazzi, non si è raggiunto che un finemisero e basso. Il numero inesauribile delle melodie possibilicorrisponde all'inesauribile varietà di individui, di fisionomie, diesistenze che produce la natura. Il passaggio da una tonalità adun'altra differente che rompe ogni connessione con la prima, è similealla morte, in cui ogni individuo ha fine; ma la volontà che vi simanifestava, continua la sua vita e la sua manifestazione in altriindividui, la cui coscienza non ha tuttavia nessun legame con quelladel primo.Non dobbiamo però dimenticare che la musica non ha, con le nostreanalogie, che una relazione indiretta: la musica, infatti, nonesprime il fenomeno, ma soltanto l'intima essenza, l'in sé di ognifenomeno, la volontà stessa. Non esprime la tal gioia, la taleafflizione, il tal dolore, il tal raccapriccio, il tal giubilo, latale allegria, la tale calma di spirito, ma dipinge la gioia,l'afflizione, il dolore, il terrore, il giubilo, l'allegria, la calmadi spirito, tali quali sono in sé, nella loro universalità inabstracto; ce ne dà l'essenza priva d'ogni accessorio, e perconseguenza, non ce ne indica neppure i motivi. E tuttavia lacomprendiamo perfettamente, in tutta la raffinatezza della suaquintessenza. Ecco perché l'immaginazione viene cosí facilmenteeccitata dalla musica: la nostra fantasia cerca di dare una figura aquel mondo di spiriti invisibile, eppur cosí mosso e animato, la cuiparola vibra direttamente nell'animo nostro; si sforza di darglicarne e ossa, cioè di incarnarlo in un esemplare analogo. Dondel'origine del canto con parole, e dell'opera; s'intuisce che né ilcanto né l'opera debbono mai dimenticare la loro posizione

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsubordinata, per assurgere a quella principale; in tal caso, lamusica degraderebbe in un semplice mezzo di espressione; il chesarebbe un enorme sproposito e una madornale assurdità. La musicainfatti non esprime, della vita e dei suoi avvenimenti, se non laquintessenza: non si preoccupa quasi mai delle loro variazionisecondarie. E tale universalità, che nonostante la precisionerigorosa della musica, ne costituisce il privilegio esclusivo, èappunto il carattere che le conferisce un cosí alto valore, che ne fala panacea di tutti i nostri mali. Quindi, chi si sforza diaccomodare la musica alle parole, e di adattarla agli avvenimenti, hal'assurda pretesa di farle parlare una lingua che non è la sua. Datale difetto nessuno si conservò immune piú di Rossini; la musica delquale parla il proprio linguaggio in modo cosí distinto e cosí puro,da non aver bisogno di parole; bastano dei semplici strumenti perfarcene gustare tutto l'effetto.Segue da tutto ciò, che il mondo fenomenico (la natura) da unaparte, la musica dall'altra, si possono considerare come duedifferenti espressioni di una medesima cosa, ch'è il termine mediofra l'uno e l'altra, e la cui conoscenza è indispensabile per bencomprendere la loro analogia. La musica, in quanto espressione delmondo, è una lingua universale al massimo grado: e con la generalitàdei concetti, sta in quella relazione, a un dipresso, in che iconcetti stanno con le cose particolari. Ma l'universalità dellamusica non ha che fare con la vuota universalità dell'astrazione: lamusica è di tutt'altra natura: è d'una precisione, d'una chiarezzainsuperabili. Somiglia, in ciò, ai numeri e alle figure geometriche.Benché siano forme universali di tutti gli oggetti possibili diesperienza, benché applicabili a priori ad ogni cosa, né gli entigeometrici, né i numeri, non si posson dire cose astratte; anzi, sonointuitivi e pienamente determinati. Le aspirazioni della volontà, isuoi impulsi, le sue possibili estrinsecazioni; tutto ciò che vibra esi agita nell'intimo del cuore umano, e che la ragione abbraccia nelvasto concetto negativo di sentimento, tutto può venir espresso dalleinnumerevoli possibili melodie; sempre, però, nell'universalità dellapura forma, senza mistura di materia; sempre nell'in sé, non mai nelfenomeno; l'espressione musicale ci dà, in qualche modo, l'animasenza il corpo. L'intima relazione che unisce con la musica la veraessenza delle cose, ci spiega anche il fatto: che, in presenza di unascena qualsiasi, di un'azione, d'un avvenimento, di qualchecircostanza, una musica, il cui suono ci convenga e ci si facciasentire, sembra che ce ne riveli il senso piú profondo, e ce ne diail commento piú preciso e piú chiaro. Questa medesima relazione cispiega egualmente l'altro fatto: che, mentre siamo tutti assortinell'esecuzione di una sinfonia, pare che ci sfilino dinanzi agliocchi tutti gli avvenimenti possibili della vita e del mondo, etuttavia, per quanto ci sforziamo di rifletterci, non ci riesce discoprire nessuna analogia fra i motivi eseguiti e le nostre visioni.Perché la musica (notavamo) non è, a differenza delle altre arti, unariproduzione del fenomeno, dell'adeguata oggettità della volontà; èimmagine diretta della volontà in se stessa, e quindi esprimel'elemento metafisico del mondo fisico, l'in sé di ogni fenomeno. Ilmondo si potrebbe, in conseguenza, chiamare un'incarnazione dellamusica, non meno che della volontà: oramai comprendiamo in che modola musica dia immediatamente ad ogni quadro, ad ogni scena della vitao del mondo reale, un senso piú alto e profondo; senso che tanto piúviene espresso quanto piú la melodia è analoga allo spirito intimodel fenomeno presente. Perciò, anche ad ogni composizione musicale sipuò adattare indifferentemente, sia una poesia da cantare, sia unarappresentazione intuitiva di natura pantomimica, o entrambe le coseinsieme, come si fa nel libretto d'opera. Simili scene isolate dellavita umana non sono mai connesse necessariamente, né incorrispondenza rigorosa con il linguaggio universale della musica incui sono tradotte; non c'è, fra l'uno e l'altro elemento, altrarelazione che quella intercedente fra un esempio scelto a caso e unconcetto universale: gli elementi assodati con la musicarappresentano, con la precisione della realtà, ciò che la musicaenuncia nell'universalità della pura forma. Perché, al pari deiconcetti universali, le melodie sono in certo modo astrazioni dalla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrealtà. La realtà, cioè il mondo delle cose particolari, forniscel'intuitivo, lo speciale, l'individuale, il singolo caso, per lageneralizzazione, tanto dei concetti, quanto delle melodie; benché ledue specie di generalizzazione siano, sotto certi riguardi, oppostel'una all'altra. Invero: i concetti contengono le sole forme astrattedall'intuizione, quasi la spoglia esterna delle cose; perciò, sonoastrazioni vere e proprie; invece la musica ci dà l'intimo noccioloche precede ogni formazione, il cuore delle cose. In linguaggioscolastico si esprimerebbe a meraviglia tale relazione dicendo: iconcetti sono gli universalia post rem, la musica ci dà gliuniversalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. Alsignificato universale della melodia, che venne associata con unapoesia, possono corrispondere nello stesso grado altri esempi sceltia caso dell'universale in quella espresso; perciò la stessacomposizione può adattarsi a molte strofe (donde anche ilvaudeville). Ma che in generale sia possibile una relazione tra unacomposizione musicale e una esposizione intuitiva, dipende, come sidisse, da ciò: che l'una e l'altra non sono che differentiespressioni della medesima essenza del mondo. Se, in un singolo caso,la relazione detta è realizzata; se, cioè, la composizione seppetradurre nel linguaggio universale della musica i moti della volontàche formano il nocciolo di un avvenimento, allora la melodia dellacanzone, la musica dell'opera, saranno espressive. Ma bisogna chel'analogia trovata dal compositore derivi da una conoscenza immediata(cioè tale che non avverte il suo fondamento razionale) dell'essenzadel mondo; e non sia già un'imitazione costruita per via di concetti,e con una consapevolezza intenzionale; altrimenti la musica nonesprimerebbe l'essenza intima, la volontà in sé, ma non farebbe cheimitare imperfettamente il fenomeno. Quest'ultimo è il caso dellamusica propriamente imitativa, come ad esempio delle Stagioni diHaydn e della sua Creazione, dove in molti luoghi sono imitatidirettamente i fenomeni del mondo intuitivo; come pure della musicadescrittiva di battaglie: roba tutta da buttar via.Ciò che nella musica vi è d'ineffabilmente intimo, che ce lapresenta come un paradiso familiare, e pur eternamente lontano, stanel suo riprodurre tutte le commozioni della nostra intima natura, masenza la loro tormentosa realtà. La sua essenziale serietà, cheesclude affatto il ridicolo dal campo immediatamente suo proprio, sispiega con ciò: che l'oggetto suo non è la rappresentazione, inordine alla quale soltanto sono possibili delusione e ridicolo, mal'immediato volere, ch'è qualcosa di assolutamente serio, perché ognicosa ne dipende. Quanto sia ricco di contenuto e di significato ilsuo linguaggio, è provato anche dalle ripetizioni, dai da capo chenella parola sarebbero insopportabili, nella musica invece sonoconvenienti e utili, perché la musica va sentita due volte, per bencomprenderla.In tutta questa trattazione mi sforzai di chiarire che la musicaesprime, in un linguaggio altamente universale, con una materiaspecifica (semplici suoni) e con la piú grande verità edeterminazione, l'intima essenza, l'in sé del mondo; ciò che venne,secondo la sua piú limpida estrinsecazione, pensato sotto il concettodi volontà. D'altra parte: secondo il mio pensiero, e come dimostrai,la filosofia non è che una ripetizione esatta e completa, unaenunciazione dell'essenza del mondo, secondo concetti generalissimi,che soli permettono una visione sufficiente e applicabile della dettaessenza. Chi mi abbia seguíto, e sia penetrato nel modo mio dipensare, s'accorgerà che non è poi un paradosso ciò che soggiungo.Che cioè, se ci riuscisse dare della musica una spiegazione completa,esatta e penetrante nei particolari; se cioè riuscissimo a riprodurreper via di concetti quanto la musica esprime; avremmo insiemeottenuto, per via di concetti, anche una soddisfacente riproduzione ospiegazione del mondo, che sarebbe la vera filosofia. Perconseguenza: il detto di Leibniz, già ricordato (è vero, sotto unpunto di vista inferiore), secondo la nostra superiore concezione sipotrebbe parodiare come appresso: «Musica est exercitium metaphysicesoccultum nescientis se philosophari animi». Perché scire, sapere,significa sempre un esprimere per via di concetti astratti. Siccomepoi, grazie alla verità riconosciuta del principio di Leibniz, la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmusica, astrazion fatta dal suo significato estetico interno, econsiderata unicamente dal punto di vista esterno ed empirico, non èche un mezzo per affermare immediatamente in concreto dei grandinumeri e delle complicate relazioni numeriche, non comprensibilialtrimenti se non per la via indiretta dell'astrazione, possiamoinfine, combinando le due concezioni cosí diverse, ma tutt'e due cosígiuste, concepire la possibilità di una filosofia dei numeri, similea quella di Pitagora e a quella dei Cinesi nell'YKing, spiegando intal senso il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (Adv'Mathem', libro Vii): "th#* ariôm#* dc tà pänt' epëoiken" (numerocuncta assimilantur). Applichiamo da ultimo il nostro modo di vederealla spiegazione già data dell'armonia e della melodia. Vediamo cheuna pura filosofia morale (come Socrate volle introdurla), senza laspiegazione della natura, è simile a una melodia (come la volevaRousseau), senz'armonia; mentre una fisica e una metafisica pura,senza l'etica, sarebbero armonia senza melodia. Mi si permetta diaggiungere, a queste considerazioni incidentali, alcune altreosservazioni sull'analogia fra la musica e il mondo fenomenico. S'èvisto, nel libro precedente, che il grado supremo di oggettivazionedella volontà, l'uomo, non può apparire da solo e staccato, mapresuppone ed esige i gradi inferiori, che hanno a loro volta bisognodi tutti gli altri gradi della scala dipendente. Orbene: anche lamusica è, come il mondo, un'oggettivazione della volontà, e non èperfetta che in una completa armonia. La voce superiore, che dirigela melodia, esige, per produrre il suo effetto, di essereaccompagnata dalle altre voci: da tutte, compreso il basso piúprofondo, che si può considerare come loro origine comune. La melodiaentra nell'armonia come sua parte integrante; cosí pure questa inquella. E come soltanto nell'insieme completo di tutte le voci lamusica esprime ciò che si propone di esprimere, cosí l'unicoestemporaneo volere ha la sua piena oggettivazione soltanto nellacompleta unione di tutte le fasi che negli innumerevoli gradi degliesseri ne manifestano l'esistenza con chiarezza crescente. Non menomeravigliosa è l'analogia seguente. S'è visto nel precedente libroche nonostante il reciproco adattarsi delle manifestazioni dellavolontà considerate in ordine alle specie (il che dà luogo allaconsiderazione teleologica), resta nondimeno, fra quelle apparenzecome individui, un contrasto ineliminabile, che si vede su ognigradino della scala, e che fa del mondo il teatro di una guerraperpetua fra le varie manifestazioni della volontà sempre una esempre identica, di cui si rivela in tal modo l'intimacontraddizione. C'è anche in musica qualcosa di analogo. Un sistemadi suoni armonici perfettamente puro, è un'impossibilità, e infisica, e in aritmetica. Tra gli stessi numeri, con cui si esprimonoi toni, vi sono delle irrazionalità irriducibili. Non si potrebbecalcolare una gamma in cui la relazione col tono fondamentale fossedi 2/3 per ogni quinta, di 4/5 per ogni terza maggiore, di 5/6 perogni terza minore, ecc'. Infatti, se i toni avessero una relazioneesatta con il tono fondamentale, non l'avrebbero tra loro, la quinta,ad esempio, dovrebbe essere la terza minore della terza, ecc'; igradi della scala somigliano a degli attori, che ora debbonorappresentare una parte ora un'altra. Non è dunque possibileconcepire, tanto meno eseguire, una musica di rigorosa esattezza;ogni musica, per essere possibile, deve piú o meno allontanarsidall'assoluta purezza; se vuole dissimulare le dissonanze che le sonoessenziali, deve ripartirle fra tutti i gradi della scala, per mezzodel suo temperamento. Si veda a questo proposito l'Acustica diChladni, par' 30, e il Breve cenno sulla teoria dei suoni edell'armonia, del medesimo autore. (34)Parecchio avrei da dire ancora sul modo con cui vien percepita lamusica; potrei dimostrare che la sua percezione si effettuaunicamente nel tempo e per mezzo del tempo, e che lo spazio, lacausalità e quindi l'intelletto non vi hanno la minima parte.Infatti, l'impressione estetica dei suoni è data immediatamente dalloro effetto, né c'è alcun bisogno di risalire alle cause; il cheinvece è necessario nell'intuizione. Ma non voglio prolungare di piúqueste considerazioni, perché a qualche lettore il presente librosembrerà già forse prolisso; fors'anche mi sono troppo indugiato su

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparticolari minuti. Mi c'indusse l'intento che mi ero prefisso; chilegge mi scuserà tanto piú di buon grado, quanto piú terrà presentel'importanza spesso disconosciuta e l'alto valore dell'arte. Bensíteniamo presente che, secondo il nostro sistema, l'intero mondovisibile non è che l'oggettivazione della volontà: il suo specchio,che l'accompagna nella via dell'autocoscienza, anzi, come prestovedremo, nella via della redenzione. D'altra parte, non dimentichiamoche il mondo come rappresentazione, quando lo si contempli da solo,quando cioè ci si svincoli dalla volontà e ci si limiti alla sua puravisione, è la cosa piú consolante, è l'unico aspetto innocente dellavita. In questo senso, l'arte si deve necessariamente considerarecome il grado piú alto, come l'evoluzione piú perfetta di quantoesiste; ci offre infatti essenzialmente la stessa cosa che il mondovisibile; ma piú concentrata, piú perfetta, con scelta e conriflessione: possiamo quindi, nel senso vero della parola, chiamarlala fioritura della vita. Se il mondo come rappresentazione non è chevolontà divenuta visibile, l'arte è precisamente tale visibilità resavieppiú chiara; è la camera obscura che rende piú distinti glioggetti, e permette di meglio abbracciarli con una sola occhiata; èlo spettacolo nello spettacolo, la scena nella scena (comenell'Amleto).Il piacere estetico, la consolazione dell'arte, l'entusiasmo che fadimenticare all'artista le pene della vita, questo privilegiospeciale che ricompensa il genio dei dolori crescenti sempre inproporzione con la chiarezza della coscienza, che lo fortifica nelladesolante solitudine a cui, si trova condannato nel seno di unamoltitudine eterogenea, tutto, come vedremo piú oltre, deriva da chel'in sé della vita, la volontà, l'esistenza stessa, sono un dolorecostante, ora lacrimevole, ora terribile; mentre, se consideratenella rappresentazione pura intuitiva, nella riproduzione dell'arte,sono libere da ogni dolore, presentando anzi uno spettacolograndioso. Cogliere questo lato puramente conoscitivo del mondo,riprodurlo in qualsiasi forma dell'arte, è l'ufficio dell'artista. Lospettacolo presentato dalla volontà nella sua oggettivazione, seducel'animo dell'artista, che lo contempla senza stancarsi di ammirarlo edi riprodurlo. E, frattanto, egli stesso fa le spese dellarappresentazione; l'artista, in altre parole, fa tutt'uno con quellamedesima volontà che si oggettiva, e che resta sola nel suo eternodolore. Questa pura profonda e vera conoscenza della natura delmondo, costituisce appunto lo scopo supremo dell'artista, che non vapiú oltre. Perciò, quella conoscenza non diviene per l'artista, comeinvece diviene per il santo arrivato (come si vedrà nel quarto libro)alla rassegnazione, un quietivo della volontà; non lo redime persempre dalla vita, ma ne lo svincola soltanto per un breve momento;non è ancora la via che lo conduca fuor della vita, ma soltanto unaconsolazione provvisoria nella vita. Finché, sentendosi cresciute lesue forze, non si rivolga, stanco del giuoco, alle cose serie. LaSanta Cecilia di Raffaello si può prendere come simbolo di taleconversione. Alle cose serie faremo ritorno dunque anche noi nellibro seguente.

NOTE:(16) Anche quest'episodio ha il suo supplemento: cfr' cap' 36 delsecondo volume.(17) Questo passo presuppone, per essere ben compreso, l'attentalettura del libro seguente.(18) Apparent rari, nantes in gurgite vasto.(19) Cfr' cap' 34 del secondo volume.(20) [«Quelli, la cui notturna lampa tutta la terra illumina.@»](21) Furfante satirico. (N'd'T')(22) [«Bruci pure l'ali al moscerino,@ Gli scoppi il cranio e ilpiccolo cervello,@ La luce resta sempre luce;@ E se la piú irosavespa anche mi punge,@ Pur cadere la luce io non lascio.@»](23) [«Quando si spegne si rende manifesto,@ Se era luce di sego,oppur di cera.@»](24) Prendendo le cinque lettere iniziali dell'espressione: §iûsovs§çristòs §ôeov §huiòs §swtér, che significa: Gesú Cristo, figlio diDio, Salvatore, si forma la parola greca §içôüs (pesce). (N'd'T')

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txt(25) Cfr' cap' 36 del secondo volume.(26) [«Un vento lieve dal cielo azzurro muove,@ Sta immoto ilmirto, e in alto si drizza l'alloro.@»](27) Non occorre dire ch'io parlo sempre del solo vero poeta, cosìraro e così grande, senza curarmi affatto di quella turba insulsa dipoeti mediocri, di fabbri di rime, di inventori di novelle, cheinfestano specialmente oggi la Germania, e ai quali bisognerebbegridar senza tregua agli orecchi:«Mediocribus esse poëtis@ Non homines, non Di, non concesserecolumnae.@»Val proprio la pena di prendere in seria considerazionequanto tempo ha perduto e fatto perdere questo sciame di mediocripoeti, quanta carta abbia sprecata, e quanto funesta sia la loroinfluenza, perché se il pubblico è da un lato sempre in bramosaricerca del nuovo, dall'altro ha una tendenza istintiva a tutto ciòche è assurdo e triviale perché piú congeniale alla sua natura;quindi le opere dei poeti mediocri lo distolgono dai veri capolavori,e lo privano dell'istruzione che otterrebbe dalla loro lettura; imediocri lavorano contro la benefica influenza del genio, corromponosempre piú il gusto, e impediscono il perfezionamento. La critica ela satira dovrebbero dunque frustare senza riguardo e senza pietà ipoeti mediocri, fino a che non si sentano spinti, per il propriomeglio, a impiegare i loro ozi piuttosto in buone letture che incattivi scritti. Infatti, se la goffaggine di un poeta senzavocazione bastò a far montare su tutte le furie il pacifico Dio delleMuse, al punto da fargli scorticare Marsia, non vedo su che possa lapoesia mediocre fondare la propria pretesa alla tolleranza.(28) [«Quello che mai né in luogo alcuno avvenne@ Quello soltantonon invecchia mai.@»](29) Cfr' cap' 38 del secondo volume.(30) [«Io non vivo in me stesso, ma divento@ Parte di quel che mista intorno; e per me@ L'alte montagne sono un sentimento.@»](31) [«Poiché il delitto maggiore@ Dell'uomo è l'esser nato.@»](32) Cfr' cap' 37 del secondo volume.(33) Leibnitii epistolae, collectio Kortholti: ep' 154.(34) Cfr' cap' 39 del secondo volume.

Libro quarto:Il mondo come volontà

Seconda considerazione.Acquistata la coscienza di sé,la volontà di vivere si afferma,poi si negaTempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit.(Oupnek'hat, studio AnquetilDuperron, vol' Ii, pag' 216)Par' 53. - L'ultima parte del nostro studio si annunzia come la piúimportante; concerne infatti le azioni umane, oggetto che premedirettamente a ciascuno, e di fronte al quale nessuno può restareindifferente od estraneo; il riferirvisi è anzi così conforme allanatura umana che, di qualunque indagine connessa, la parte cheriguarda il fare viene considerata come il risultato complessivo,almeno per quel che c'interessa; perciò a quella parte si dedicaun'attenzione seria, quand'anche le altre siano trascurate. Nel sensoindicato, quest'ultima parte del nostro studio si può, secondo ilmodo comune di esprimersi, denominare filosofia pratica, inopposizione alla teoretica trattata finora. Ma secondo me, lafilosofia è sempre teoretica; in quanto è suo carattere essenziale,qualunque sia l'oggetto immediato della ricerca, di considerare,d'indagare, non di prescrivere. Applicarsi alla pratica, regolare lacondotta, riformare il carattere, sono vecchie pretensioni a cui,dopo una riflessione matura, si dovrebbe ormai rinunziare. Qui, dovesi tratta del valore di un'esistenza, di salvezza o di dannazione,ciò che decide non sono già i morti concetti della filosofia, mal'intima natura dell'uomo: il demone che lo guida, e che non loscelse, ma ne fu scelto (come dice Platone), o il suo carattereintelligibile (come si esprime Kant). La virtú, come il genio, nons'insegna; per la virtú, come per l'arte, il concetto è sterile;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtappena può servire di strumento. Aspettarsi che i nostri sistemi dimorale formino i virtuosi, i nobili e i santi, o che le dottrinedell'estetica formino i poeti, gli scultori e i musicisti, sarebbedel pari una pazzia.La filosofia non può che interpretare e spiegare il dato, etrasformare in chiara conoscenza razionale (astratta) quell'essenzadel mondo che a ciascuno è intelligibile in concreto come sentimento;il che per altro va fatto in ordine a tutte le possibili relazioni, esotto ogni punto di vista. Ebbene: ciò che nei tre libri precedentisi procurò di fare con l'universalità propria della filosofia, esotto altri punti di vista, dev'essere fatto nel presente libro inordine alla condotta umana; la qual faccia del mondo si riconoscerà(come notavo) essere la piú importante, oggettivamente nonchésoggettivamente. Rimarrò fedele in tutto alle precedenticonsiderazioni; mi fonderò sul già esposto, presupponendolo noto;quell'unico pensiero, che forma il contenuto dell'intero mio scritto,come sviluppai finora negli altri oggetti, ora svilupperò nelleazioni umane; facendo cosí l'ultimo sforzo per comunicarlo il piúcompletamente possibile.Il punto di vista e il metodo indicati lasciano comprenderechiaramente che in questo libro di etica non bisogna aspettarsinessun precetto, nessuna teoria dei doveri; molto meno un principiogenerale di morale, una specie di ricetta universale per laproduzione di tutte le virtú. Non parleremo né di un «dovereincondizionato», che implica una contraddizione (come viene espostonell'Appendice), né di una «legge della libertà»: che si trova nellostesso caso. In generale non parleremo affatto del dovere: del qualesi può parlare ai bimbi e ai popoli ancora nell'infanzia; ma non aquelli che si appropriarono la cultura dell'età maggiore. E' pur unacontraddizione palmare: chiamar libera la volontà, e tuttaviaprescriverle delle leggi, secondo cui debba volere; «dover volere!»come chi dicesse: ferro di legno! Secondo la nostra concezione, lavolontà non è soltanto libera, ma onnipotente; ne procede, nonsoltanto il suo fare, ma il suo mondo; qual è la volontà, e tali neappaiono gli atti, e tale ne appare il mondo; atti e mondo sono lacognizione che il volere ha di se stesso, non altro; il voleredetermina se stesso, e con ciò i suoi atti e il mondo, perché atti emondo sono il volere stesso, fuori del quale non c'è niente; inquesto senso è il volere veramente autonomo; secondo qualsiasi altraconcezione sarebbe eteronomo. Lo sforzo della filosofia non devetendere ad altro che ad interpretare la condotta umana, e le massimecosì diverse, anzi contraddittorie, di cui la condotta è la vivaespressione; a spiegarle nella loro essenza e nella loro formaintima, in connessione con le considerazioni precedenti, eprecisamente nello stesso modo, come fin qui procurammo di chiariregli altri fenomeni del mondo, procacciandone una cognizione astrattachiara. La nostra filosofia resterà dunque nel campo dell'immanenza,come finora; fedele alla dottrina di Kant, non si varrà delle leggiformali del fenomeno (aventi per espressione generale il principio diragione, e significative soltanto in ordine al fenomeno) per saltareal di là del fenomeno, approdando al regno sconfinato delle vuotefinzioni. Costante oggetto e limite della ricerca resterà il mondoreale e visibile in cui viviamo e che vive in noi; ricco abbastanza,perché le piú profonde investigazioni dell'umano ingegno non riesconoad esaurirlo. Poiché dunque alle nostre considerazioni etiche nonmancherà, come non mancò mai alle precedenti, materia e realtà nelmondo conoscibile, non avremo bisogno di ricorrere a concettinegativi e vuoti; per poi darci ad intendere d'aver detto qualcosaparlando con grave cipiglio, di «assoluto», d'«infinito», di«soprasensibile» e d'altre simili negazioni (oudën esti, è tò têssteréseos önoma, metà amudrâs epinoïas) (nihil est, nisi negationisnomen, cum obscura notione), Iul', Or' 5; o piuttosto fantasie(nefelokokkugïa): piatti coperti, ma vuoti, di questa sorte, non neimbandiremo. Insomma: non racconteremo qui, come non raccontammo finqui, delle storielle, spacciandole per filosofia. Perché, a parernostro, chi presume che l'essenza del mondo si possa conoscerestoricamente, sia pure col metodo piú fine e larvato, è ancora agliantipodi della conoscenza filosofica. E questo è l'errore in cui si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcade quando, nella teoria dell'intima essenza delle cose, s'introduceil concetto di un divenire, passato, presente o futuro; quando alprima e al poi si attribuisce una sia pur minima importanza; quando,palesemente o velatamente, s'indaghino, del mondo, il punto dipartenza, il punto d'arrivo e la via tra l'uno e l'altro; e quando,infine, l'individuo filosofante presume di fissare il suo proprioposto sulla detta via. Una simile filosofia storica mette capo il piúdelle volte a una cosmogonia. Che può essere di molte specie: adesempio, un sistema emanatistico, una dottrina della caduta, o infine(ultimo rifugio, perduta la speranza di riuscire con gli altritentativi) una teoria del continuo divenire, del nascere, delsorgere, del sorgere alla luce dalle tenebre, su dall'oscuro fondo,dal fondo ultimo, dal fondo senza fondo; e simili fantasticherie.Alle quali, del resto, si taglia corto con questa sempliceosservazione: che sino ad ora è già scorsa un'intera eternità, e cioèun tempo infinito, e che dunque tutto ciò che può e deve accadere,deve già essere accaduto. Qualsivoglia filosofia storica, per quantosi dia un'aria d'importanza, si riduce ad assumere (come se Kant nonfosse mai esistito) che il tempo sia una determinazione della cosa insé. Dunque non oltrepassa ciò che da Kant fu detto (incontrapposizione alla cosa in sé) il fenomeno, da Platone (incontrapposizione all'essere che non diviene) il divenire o il nonessere, e che dagl'Indiani fu detto il tessuto di Maya. E', insomma,la conoscenza subordinata al principio di ragione; con che non ciriesce mai di arrivare all'essenza intima delle cose, ma ci si perdein eterno dietro ai fenomeni, girando senza fine, senza scopo, comelo scoiattolo nella gabbia; finché, stanchi, ci si ferma in un puntoscelto a caso disopra o disotto, pretendendo poi che anche gli altriconsiderino con rispetto il punto medesimo. La considerazioneveramente filosofica del mondo, quella cioè che ce ne fa conoscerel'essenza, sollevandoci al di sopra dei fenomeni, indaga, nonl'origine, o il fine, o il perché dell'universo, ma soltanto il che;in altri termini: studia le cose, non secondo una relazionequalsivoglia, non in quanto si trasformano e passano, cioè, nonsecondo alcuna delle quattro forme del principio di ragione, maprendendo come oggetto ciò che resta delle cose dopo di averneseparato quanto cade sotto quel principio, ciò che in tutte lerelazioni appare senz'esservi soggetto: l'essenza del mondo sempreuguale a se stessa, le idee. Come l'arte, da tale conoscenza trael'origine anche la filosofia, e altresì, come vedremo, quelladisposizione d'animo che sola conduce alla vera santità e allaredenzione.

Par' 54. - I primi libri, spero, avran fatto chiaramentecomprendere che nel mondo come rappresentazione, la volontà trova lospecchio in cui si riconosce con una chiarezza e una perfezionecrescente; questa coscienza raggiunge il suo grado supremo nell'uomo,l'essenza del quale però non ha l'espressione completa che nellaserie connessa delle proprie azioni. E l'uomo non può acquistarecoscienza della sua condotta come unità, se non per mezzo dellaragione, che gli permette di abbracciarne l'insieme con un solosguardo e in abstracto.Considerata in se stessa, la volontà è un impulso incosciente,cieco ed irresistibile. Tale si manifesta nella natura inorganica evegetale, come pure nella parte vegetativa della nostra vita. Ma,grazie al mondo come rappresentazione, che le si offre sviluppando asuo servizio, la volontà diviene conscia di se stessa e del suooggetto; sa che l'oggetto si riduce al mondo e alla vita che sirealizza nel mondo. Perciò dicemmo che il mondo fenomenico è lospecchio e l'oggettità della volontà. Inoltre: siccome ciò che lavolontà vuole è pur sempre la vita, perché la vita non è che lamanifestazione della volontà per mezzo della rappresentazione, dire«volontà di vivere», invece che semplicemente «volontà», è tutt'uno.Dal momento dunque che la volontà è la cosa in sé, la sostanza,l'essenza del mondo e la vita, d'altra parte, è il mondo visibile,mentre il fenomeno è soltanto lo specchio della volontà; ne derivache il fenomeno è inseparabile dalla volontà, come l'ombra èinseparabile dal corpo; dove c'è volontà, c'è anche vita e mondo.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtAlla volontà di vivere la vita è dunque assicurata; finché siamoanimati da tale volontà, non dobbiamo, neppure di fronte alla morte,essere ansiosi per la nostra esistenza. Senza dubbio, vediamol'individuo sorgere e perire. Ma l'individuo non è che fenomeno;esiste soltanto per la conoscenza inviluppata nel principio diragione, nel principio individuationis. Sotto questo aspetto,l'individuo, scaturito dal nulla, riceve certo la vita come un dono;e, spogliatone dalla morte, ripiomba nel nulla. Ma sotto il punto divista filosofico delle idee, riconosceremo che né la volontà (l'in sédei fenomeni) né il soggetto conoscente (lo spettatore di essifenomeni) non sono contaminati dalla nascita e dalla morte. Nascita emorte spettano soltanto al fenomeno della volontà, alla vita, il cuicarattere essenziale è di estrinsecarsi in individui che sorgono eperiscono come tante manifestazioni fuggevoli e temporanee di ciò chenon conosce tempo, ma che nel tempo soltanto può oggettivare la suavera natura. Nascita e morte appartengono del pari alla vita: sifanno equilibrio: sono condizioni reciproche l'una dell'altra. O, sesi preferisce l'immagine, sono i poli del fenomeno complessivo dellavita. La mitologia indiana, di tutte la piú saggia, esprime questodando a ¬siva come attributo, insieme con la collana di crani, ancheil Lingam, simbolo della generazione, pareggiata cosí alla morte (a¬siva, che simboleggia la distruzione, la morte; come Brahma, il piúabietto e colpevole dio della Trimurti, simboleggia la generazione;come Visnu simboleggia la conservazione). Facendo cosí vedere che lagenerazione e la morte sono correlati essenziali, neutralizzantisi esopprimentisi a vicenda. Il medesimo sentimento spinse greci e romaniad ornare, come vediamo, i loro sarcofaghi preziosi conrappresentazioni di feste, danze, nozze, cacce, lotte di animali,baccanali, cioè delle piú forti scene di vita; che oltre che inqueste piacevolezze, ci si presentano anche in gruppi licenziosi, adesempio in accoppiamenti di satiri e di capre. L'intento eraevidentemente di distrarre il pensiero dalla morte della personacompianta, per innalzarlo energicamente alla considerazione dellavita immortale della natura: indicando in tal modo, quantunqueall'infuori d'un sapere astratto, che tutta la natura è apparenza, eadempimento della volontà di vivere. Forme dell'apparenza sono iltempo, lo spazio e la causalità, e quindi l'individuazione; dondesegue che l'individuo debba sorgere e perire; mentre la volontà divivere, della cui apparenza l'individuo non è che un saggio e unesempio singolo, non viene perciò affetta in nessun modo, come iltutto della natura non è turbato dalla morte di un individuo. Lanatura è ordinata, non all'individuo bensì alla specie, allaconservazione della quale tende con ogni serietà prodigandovi concura un meraviglioso eccesso di germi e la grande potenzadell'istinto riproduttivo. L'individuo, invece, non ha per la naturanessun valore; e non può averne; perché il suo regno è un tempoinfinito, uno spazio infinito, e in questi un numero infinitod'individui possibili: perciò la natura è pronta sempre a sacrificarel'individuo; il quale non è soltanto esposto a perire in mille modiper i casi piú insignificanti, ma vi è originariamente destinato eguidato dalla natura stessa, dal momento in cui abbia servito allaconservazione della specie. La natura stessa esprime con ciò affattoingenuamente la verità che soltanto le idee, non gl'individui, hannorealtà vera e propria, sono l'oggettità perfetta della volontà.Siccome poi l'uomo è la natura stessa, nel grado supremo d'autocoscienza, e la natura è soltanto la volontà di vivere oggettivata,l'uomo che abbia colto questo punto di vista, e che vi rimanga, puòin ogni modo con ragione consolarsi della morte sua e di quella deisuoi amici; gli basta uno sguardo alla vita immortale di quellanatura, che è lui stesso. Così dobbiamo intendere ¬siva con ilLingam, cosí gli antichi sarcofaghi che, con le loro immagini ardentidi vita, gridano allo spettatore lamentoso: «Natura noncontristatur».Che la nascita e la morte siano condizioni proprie della vita,essenziali a questa manifestazione della volontà, risulta nuovamenteprovato da che l'una e l'altra ci si presentano come le piú potentiespressioni di ciò, in che tutta la rimanente vita consiste. La vitainfatti non è che un flusso continuo di materia nel seno di una forma

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpermanente; quale appunto è la transitorietà degl'individui rispettoalla permanenza della specie. Tra la nutrizione quotidiana e lagenerazione, rispettivamente tra l'escrezione quotidiana e la morte,non c'è che una differenza di grado. Il che, per la prima delle duedifferenze, si vede con la massima semplicità e chiarezza nellapianta. La pianta è la ripetizione costante di un medesimo impulsodella sua fibra piú semplice, che si aggruppa in foglia ed in ramo,un aggregato sistematico di piante omogenee che si sostengono avicenda, e il cui unico impulso è verso la loro continuarigenerazione; la pianta, per soddisfare pienamente questo impulso,sale, attraverso le varie metamorfosi, fino al fiore e al frutto, chesono il compendio della sua esistenza e dei suoi sforzi, e in cui lapianta ottiene in breve ciò che è il suo unico fine, ottenendo in uncolpo, a mille doppi, ciò che aveva ottenuto fino allora per minuto:la ripetizione di se stessa. Fra il suo svilupparsi verso il frutto,e il frutto, c'è la stessa relazione che fra lo scritto e la stampa.Il medesimo evidentemente ha luogo per gli animali. Nutrirsi è ungenerare continuo; generare, un nutrirsi elevato a piú alta potenza;la voluttà nella generazione è il benessere vitale intensificato.Viceversa: l'escrezione, cioè il rifiuto e l'esalazione continua dimateria, è la stessa cosa che, a una piú alta potenza, è la morte, ilcontrario della generazione. E come siamo sempre contenti diconservare la nostra forma, né mai pensiamo a rimpiangere la materiaespulsa; nello stesso modo ci dovremmo comportare quando nella morteaccade in piú alta potenza e nel tutto, quello stesso che accademinuto per minuto, giorno per giorno e ora per ora: indifferentinell'un caso, non dovremmo arretrarci spaventati nell'altro. Sottoquesto punto di vista, pretendere il durare della propriaindividualità, che viene sostituita dalle altre, appare non menostravolto di quel che sarebbe il desiderare la permanenza dellamateria nel proprio corpo, che viene sostituita da materia nuova: el'imbalsamare dei cadaveri appare così pazzo, come sarebbe ilconservare accuratamente i propri escreti. Quanto poi alla coscienzaindividuale, connessa con il corpo individuale, viene ogni giornototalmente interrotta dal sonno. Ma tra il sonno profondo e la morte(che spesso gli succede con continuità, ad esempio nei casi dicongelamento), la differenza, finché il sonno dura, è assolutamentenulla, non assume un significato che riguardo all'avvenire, allapossibilità del risveglio. La morte è un sonno in cui vienedimenticata l'individualità; ma tutto il resto si risveglia, opiuttosto non ha mai cessato di essere sveglio. (1)Dobbiamo soprattutto comprendere bene che la forma del fenomenodella volontà, quindi la forma della realtà e della vita, èpropriamente il solo presente, non l'avvenire, né il passato; i qualinon esistono che nel concetto, in connessione con la conoscenza inquanto soggetta al principio di ragione. Nessuno visse mai nelpassato, e nessuno vivrà mai nell'avvenire; ma il presente solo è laforma di ogni vita; è questo anche un suo dominio sicuro, che nonpotrebbe esserle rapito. Il presente, con il suo contenuto, c'èsempre; l'uno e l'altro stanno fermi, senza oscillare: comel'arcobaleno sopra la cascata. Perché alla volontà è certa e sicurala vita, alla vita il presente. E' ben vero che, ripensando aimillenni trascorsi, ai milioni di uomini che ci vissero, sorgespontanea la domanda: Che cosa furono? Che ne avvenne? Allora, nonabbiamo che da richiamare il passato della nostra propria vita,facendone rivivere le scene nella nostra fantasia, e domandare dinuovo: Che fu, tutto questo? Che ne avvenne? Il problema è lo stesso,per noi, e per quei milioni di uomini. O vorremmo credere che dalsuggello della morte il passato riceva una nuova esistenza? Il nostrostesso passato, anche il piú prossimo, quello di ieri, non è piú cheun vano sogno della nostra fantasia: il medesimo si dica del passatodi quei milioni di uomini. Che fu? Che cos'è? Fu ed è la volontà, ilcui specchio è la vita; fu ed è la conoscenza libera dalla volontà,che riconosce in tale specchio la volontà medesima. Chi ancora noncomprese o ancora non vuol comprendere, aggiunga un'altra questionealle surriferite sul destino delle passate generazioni: perché maiegli, che interroga, sia il felice possessore di questo presente,cosí prezioso, cosí fuggitivo, ed unico reale; mentre quelle migliaia

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi generazioni di uomini, gli eroi e i saggi di quei tempi, sommersinella notte del passato, scomparvero nel nulla mentre egli, il suo ioinsignificante, sussiste di fatto? Piú in breve, ma con la medesimasingolarità: perché questo «ora», il suo «ora», è precisamente «ora»,e non fu già da lungo tempo? Nel fare queste strane interrogazioni,egli considera il suo esserci e il suo tempo come indipendenti l'unodall'altro, e quello come inserito in questo; assume propriamente due«ora», appartenenti, uno all'oggetto, l'altro al soggetto, e simeraviglia del felice caso che li ha fatti coincidere. In verità(come dimostrai nella mia dissertazione Sul principio di ragione) ilpresente non è che il punto di contatto dell'oggetto, la cui forma èil tempo, con il soggetto che non ha per forma nessuno dei modi delprincipio di ragione. Ora l'oggetto non è che volontà divenutarappresentazione, il soggetto non è che il correlato necessariodell'oggetto; gli oggetti reali non esistono che nel presente, perchéil passato e l'avvenire non racchiudono che vuoti concetti efantasmi. Il presente, dunque, è la forma essenziale ed inseparabiledi ogni fenomeno della volontà; è la sola cosa che duri sempre salda,incrollabile. Agli occhi dell'empirico, nulla è piú fuggevole: ma ilmetafisico, il cui sguardo si spinge oltre le forme dell'intuizioneempirica, vede nel presente la sola realtà fissa, il nunc stans degliscolastici. Sostegno e fonte del suo contenuto è la volontà divivere, la cosa in sé: noi stessi. Ciò che incessantemente sorge eperisce, che fu e che sarà, fa parte del fenomeno come tale; perchéle sole forme di questo rendono possibile il nascere e il morire.Alla domanda: «Quid fuit?», bisogna dunque rispondere: «Quod est»; ea quella: «Quid erit?», si deve rispondere: «Quod fuit». Parole chenon sono da intendere all'ingrosso; la relazione fra le due coppie ditermini non è di somiglianza, ma d'identità. Poiché alla volontà èassicurata la vita, e alla vita il presente. Quindi può direciascuno: «Io sono perpetuo signore del presente, il quale miaccompagnerà per tutta l'eternità come la mia ombra; dunque non devocurarmi di sapere donde sia venuto, e perché esista proprio ora». Iltempo si può paragonare a un cerchio che gira incessantemente; lametà sempre discendente sarebbe il passato; la metà sempreascendente, l'avvenire. In alto c'è un punto indivisibile, il puntodi contatto con la tangente: questo è il presente senza estensione.Come la tangente non è trascinata nella rotazione, altrettantoimmobile resta il presente, punto di contatto dell'oggetto, la cuiforma è il tempo, con il soggetto, il quale non ha nessuna forma, inquanto non rientra nell'ambito del conoscibile, ma è bensí condizionedi ogni conoscenza. Il tempo è anche simile a una corrente impetuosa;il presente a una roccia contro cui la corrente si frange, ma cheresta salda ed immobile. La volontà come cosa in sé non soggiace alprincipio di ragione; come non vi soggiace il soggetto conoscente, ilquale, in ultima analisi, non è in certo senso che la volontà stessaod una sua manifestazione. E come alla volontà è assicurata la vita,che è la sua espressione propria, cosí alla vita è assicurato ilpresente, unica forma della vita reale. Non dobbiamo dunqueinvestigare né sul passato anteriore alla vita né sul futurosusseguente alla morte: bensí riconoscere il presente come l'unicaforma in cui la volontà si manifesta; (2) tale forma non sfuggirà maialla volontà, la quale viceversa le si sottrarrà. Un essere che amila vita qual è, che l'afferma con tutta la sua potenza, se c'è, puòsenza scrupolo ritenerla come infinita, bandire il timore della mortecome un'illusione che suscita in lui l'insensato orrore di poterperdere un giorno il possesso del presente; bandirlo come il sognovano di un tempo senza presente. Questa illusione rispetto al tempo èsimile a quella di chi s'immagina, in ordine allo spazio, che ilpunto da lui occupato sulla sfera terrestre sia il piú alto, e chetutte le altre posizioni stiano in basso; analogamente, ciascunoconnette il presente con la propria individualità, ciascuno crede chesvanendo questa, svanirebbe il presente, non rimanendo piú che ilpassato e l'avvenire. Ma come sulla terra ogni punto è un sopra, cosíè il presente la forma di ogni vita; e temere che la morte ci tolgail presente, non è piú ragionevole che temere di scivolare verso ilbasso della sfera terrestre giú dal punto elevato in cui si ha lafortuna di stare al momento presente. L'oggettivazione della volontà

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtha per forma necessaria il presente, punto inesteso che taglia in dueil tempo infinito, e che resta immobilmente saldo, quale un eternomezzogiorno al quale non mai succeda la sera, o come il vero sole,che arde senza intermittenza, benché sembri tuffarsi nel seno dellanotte. L'uomo che teme nella morte l'annientamento di se medesimo, èsimile a chi s'immagina che il sole, al tramonto, debba esclamaregemendo: «Ahimè! discendo nella notte eterna!». (3) Peraltro anchel'inversa è vera; chi si sente oppresso dal fardello della vita; chi,pur desiderandola e affermandola, inorridisce dei suoi tormenti, enon vuol piú sopportare il duro destino che gli toccò in sorte, nonpuò dalla morte sperare la liberazione, né dal suicidio la salvezza.L'immagine fredda e tenebrosa dell'Orco, che lo seduce come un portodi pace tranquilla, non è che un vano miraggio. La terra gira e sivolge dalla luce alle tenebre; l'individuo muore; ma il sole dellavita brilla di eterna luce meridiana. La volontà di vivere è sicuradi vivere e forma della vita è un presente che non finisce mai; pocoimporta che gli individui, fenomeni dell'idea, sorgano e svaniscanonel tempo come sogni fuggenti. Il suicidio ci appare dunque già comeun atto inutile e stolto; nel corso delle nostre considerazioni ci sipresenterà in una luce ancor piú sinistra.Le dottrine cambiano, e la nostra scienza è illusoria; ma la naturanon s'inganna; il suo corso è sicuro ed evidente. Ogni essere è nellanatura tutto intero, e la natura è tutta in ogni essere. In ognianimale ha il suo centro; ogni animale trova senza ingannarsi la viaper entrare nell'esistenza, e con uguale sicurezza troverà la via peruscirne; vive intanto senza timore né angoscia del nulla, sostenutodalla coscienza di far tutt'uno con la natura, e di essere comequesta indistruttibile. Soltanto l'uomo porta girando con sé lapersuasione astratta di dover morire. Ma, strano!, questo pensieronon lo angustia che ad intervalli, quando una qualsiasi occasione lorichiami alla fantasia. Ben poco può la riflessione contro la vocepotente della natura. Anche nell'uomo, come nel bruto senza pensieri,ciò che predomina come stato abituale è un senso di sicurezza,suscitato dalla profonda coscienza di esser tutt'uno con la natura ecol mondo. Grazie a tale sentimento, neanche l'uomo non è quasiturbato dal pensiero di una morte sicura e sempre imminente; ma tiraa campare, come se la sua vita dovesse durare in eterno. Fenomenocosí generale, da potersi affermare con sicurezza che nessun uomo siaveramente persuaso di dover morire: o non ci sarebbe una differenzacosí recisa fra il suo abituale stato d'animo e quello di undelinquente condannato a morte. In realtà, ciascuno riconosce inabstracto e in teoria la certezza della propria morte; ma la mette dacanto, come si fa di molte altre verità teoriche non applicabili inpratica; non la solleva mai a coscienza viva e attiva. A chi benrifletta su questa particolare disposizione della natura umana,risulterà chiaro che gli argomenti psicologici dell'abitudine e dellarassegnazione all'inevitabile non bastano a spiegarla; ma tuttipresuppongono un principio ben piú profondo; ed è quello dato da noi.E questo principio spiega insieme perché in ogni tempo, e presso ognipopolo, siano state in vigore dottrine affermanti sotto varia formala persistenza dell'individuo dopo la morte; ci fa comprendere perchéle dette dottrine fossero tenute in cosí grande considerazione, adispetto dell'insufficienza delle loro prove, della forza e delnumero degli argomenti opposti. La tesi contraria, veramente, non habisogno di prova; ogni uomo di buon senso la riconosce come un fatto,confermato anche dalla riflessione che la natura non c'inganna e nons'inganna, bensí ci rivela con ingenua franchezza quello che è equello che fa: chi la travisa, siam proprio noi, che la veliamo disogni e d'illusioni, per interpretarla nel senso che piú sorride alleconcezioni limitate del nostro spirito.Abbiamo sollevato a chiara coscienza il principio che, sebbene ilfenomeno singolo della volontà cominci e finisca nel tempo, lavolontà come cosa in sé non ha che vedere col tempo, come non vi hache fare il correlato dell'oggetto: il soggetto conoscente e nonconosciuto. Abbiamo inoltre dimostrato che alla volontà di vivere èassicurato l'eterno possesso della vita. Le mie dottrine peraltro nonsono da confondere con le teorie suaccennate intorno alla persistenzadell'individuo. Infatti, quando si parla della volontà come di cosa

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtin sé, del soggetto conoscente puro, eterno occhio del mondo,permanenza e distruzione son parole prive di significato. Quelleparole, infatti, non esprimono che determinazioni valide in ordine altempo: laddove la volontà e il soggetto son fuori del tempo. Cosìl'egoismo dell'individuo (di questo fenomeno particolare dellavolontà illuminata dal soggetto della conoscenza) non potrà dallenostre concezioni trarre alimento né conforto al suo desiderio diaffermarsi nel tempo infinito; come non ne potrebbe trarre dal sapereche dopo la sua morte il resto del mondo esteriore continuerà adesistere. In fondo non si tratta che di due espressioni d'un'unicaidea; con questa differenza: che la seconda è relativa all'oggetto, equindi al tempo. Infatti: l'individuo, da una parte, perisce soltantocome fenomeno, essendo estemporaneo ed eterno in sé; ma d'altra partenon è distinto dalle altre cose e dal mondo se non come fenomeno,essendo in sé tutt'uno con la volontà che si manifesta in ogni cosa.La morte dissipa l'illusione che separa la coscienza individualedall'universale; in ciò sta la vera permanenza. L'esenzione dallamorte non conviene all'individuo, se non come cosa in sé; coincide,quanto al fenomeno individuale, con la durata del rimanente mondoesteriore. (4) Ne segue che la coscienza profonda e semplicementesentita di ciò che abbiamo testé innalzato a cognizione chiara,impedisce bensí, come s'è detto, al pensiero della morte diavvelenare l'esistenza di un essere ragionevole, in quanto una talecoscienza è la base di quell'ardore di vita che sostiene ognivivente, facendolo vivere lietamente (finché ami e cerchi la vita)come se la morte non ci fosse; ma che ciò non tolga per altroall'individuo, quando la morte gli si presenta in realtà, o anchesoltanto nell'immaginazione, cosí da costringerlo a guardarla infaccia, di essere colpito dall'orrore che gl'ispira, e da cercareogni mezzo per fuggirla. Nello stesso modo infatti che la suaconoscenza, finché era diretta verso la vita come tale, dovevariconoscervi l'eternità, cosí, quando la morte gli si presenta,l'individuo la deve riconoscere per quello che è: per la finetemporale del singolo fenomeno temporale. Ciò che temiamo nella mortenon è il dolore; poiché, da una parte, il dolore sta di qua dallamorte, d'altra parte, spesso dal dolore ci rifugiamo nella morte, oviceversa, preferiamo sopportare le piú atroci sofferenze, pur disottrarci ancora un istante a una morte che pur sarebbe facile epronta. Distinguiamo dunque la morte e il dolore, come due maliassolutamente eterogenei. Ciò, che temiamo nella morte, in realtà èla distruzione dell'individuo, che nella morte ci si rivela evidente;l'individuo, essendo la stessa volontà di vivere in una singolaoggettivazione, deve per la sua natura stessa rivoltarsi contro lamorte. Il sentimento ci lascia dunque senza difesa; ma la ragione puòintervenire, superare in gran parte le impressioni contrarie delsentimento, sollevandosi a un punto di vista superiore, donde sivede, non piú l'individuo, ma il tutto. Una conoscenza filosoficadella natura del mondo, arrivata, senza dar piú oltre, al punto incui ci troviamo, basterebbe già, dunque, a vincere i terrori dellamorte; in quanto almeno in un dato individuo la riflessione abbiaforza sul sentimento immediato. Un uomo, si sia ben assimilate leverità finora esposte. Non sia, per altro, arrivato, né peresperienza propria, né per via d'una profonda riflessione, ariconoscere che l'essenza della vita è un perpetuo soffrire; anzi,sia pienamente soddisfatto della sua vita, sicché una calmariflessione gliela faccia desiderare prolungata senza fine orinnovata in perpetuo. E sia coraggioso quanto bisogna per accettaredella vita la gravezza e il dolore, pur di non perderne il godimento.Un tal uomo starebbe «con piede saldo e irremovibile sulla rotondastabile terra»: e avrebbe nulla da temere. Armato della conoscenzache gli supponiamo, egli vedrebbe con indifferenza la morte che gliviene incontro; la considererebbe come un'apparenza mendace, come unfantasma impotente, fatto per spaventare i deboli, ma senza poteresopra chi sa di essere egli stesso quel volere, di cui l'universo èl'oggettivazione o la copia, e che dunque la vita gli è assicurata ineterno, insieme col presente, forma unica ed esclusiva di ognimanifestazione della volontà. Saprebbe, che un passato e un futuroinfiniti, privi di lui, non sono che un miraggio, un tessuto di Maya;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquindi non se ne spaventerebbe: sicuro contro la morte come il solecontro le tenebre. E' questa la concezione a cui, nel Bhagavat Gita,Krsna innalza il suo giovane discepolo Arjuna il quale, in vistadegli eserciti pronti a combattere, è assalito da una tristezza cherichiama quella di Serse, sente l'animo venir meno, e vuoleabbandonare la lotta per evitare strage di tante migliaia di uomini;allora Krsna viene ad illuminarlo, e da quel momento la distruzionedi tante migliaia di esistenze non è piú capace di trattenerlo; e dàil segnale della battaglia. Tale è anche l'idea che anima il Prometeodi Goethe, specialmente là dove dice:«Hier sitz'ich, forme Menschen@ Nach meinem Bilde,@ Ein Geschlechtdas mir gleich sei,@ Zu leiden, zu weinen,@ Zu geniessen und zufreuen sich,@ Und dein nicht zu achten,@ Wie ich!@» (5)Al medesimo risultato condurrebbero anche le filosofie di Bruno edi Spinoza, se le imperfezioni non ne turbassero e non neindebolissero la forza di persuasione. In Bruno manca un'etica vera epropria: quella contenuta nella filosofia di Spinoza non ha radicenell'essenza della sua dottrina; e per quanto in sé pregevole ebella, non vi si riconnette che a forza di sofismi deboli egrossolani. A questa concezione sorgerebbero molti, se la loroconoscenza procedesse di pari passo con la volontà, cioè, se fosserocapaci di liberarsi da ogni illusione, e di acquistare perfettacoscienza di se stessi. Tale è infatti, per la conoscenza, il puntodi vista assoluto dell'affermazione della volontà di vivere.Riconosciuta pienamente con chiarezza nella sua oggettità, vale adire nel mondo e nella vita, la propria essenza comerappresentazione, la volontà non cessa perciò di volere; anzi: quellamedesima vita, verso la quale si era fin allora diretta come ciecatendenza, è ormai voluta con riflessa coscienza. E questa èl'affermazione che la volontà fa di se stessa. Il contrario, lanegazione della volontà di vivere, si manifesta quando, in base alladetta cognizione, il volere finisce. Quando cioè i singoli fenomeniconosciuti non operano piú quali motivi del volere; ma la cognizione,sviluppatasi per mezzo delle idee, dell'essenza del mondo comespecchio delle volontà, diviene un quietivo del volere, che in talmodo sopprime liberamente se stesso. Questi concetti, affattosconosciuti, e nella loro espressione generale difficilmentecomprensibili, potranno divenir chiari mediante l'esposizione, cheseguirà fra poco, dei fenomeni, o, nel caso nostro, delle azioni concui si esprimono, da una parte l'affermazione della volontà nei suoidiversi gradi, e dall'altra la negazione. Perché l'una e l'altraderivano dalla conoscenza; non però da una conoscenza astratta che siesprima in parole, ma da una conoscenza viva, che si esprime soltantonei fatti, e indipendentemente da qualsiasi dottrina di cui sipreoccupa la ragione astratta. Esporre l'una e l'altra (cioè tantol'affermazione della volontà, quanto la sua negazione) facendoneacquistare una chiara cognizione razionale, questo il mio solointento: prescrivere o raccomandare l'una o l'altra, sarebbe non menopazzo che inutile, perché la volontà in se stessa è assolutamentelibera, e si determina soltanto da sé, all'infuori d'ogni legge.Prima però di procedere alla discussione accennata, dobbiamospiegare, determinandola con esattezza, la libertà nella suarelazione con la necessità; come pure in ordine alla vita,l'affermazione o negazione della quale costituisce il nostroproblema, dobbiamo esporre alcune considerazioni riferentisi alvolere e ai suoi oggetti; cosí da facilitare la conoscenza desideratadel significato etico delle azioni secondo la loro intima natura.Poiché, secondo quanto si disse, la presente opera non è che losviluppo di un unico pensiero, ne segue che le sue parti hanno tuttefra loro la piú intima connessione. Non soltanto ciascuna parte siconnette necessariamente con quella che la precede e che viensupposta nota (come è il caso di tutte le filosofie che si risolvonoin una semplice serie di deduzioni), ma, in tutta l'opera, ogni partesi connette intimamente con ogni altra e la presuppone. Il lettoredunque deve ricordare, non soltanto ciò che immediatamente precede,ma tutto l'insieme già esposto; deve saper collegare ciò che gli sidice con ciò che gli venne detto, quand'anche vi sia non poco dimezzo. Un'avvertenza che fu anche fatta da Platone; il quale, nel

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txttortuoso labirinto dei suoi Dialoghi, non riprende il temafondamentale se non dopo episodi lunghi, da cui quello vien per altrochiarito. Presso di noi quest'avvertenza è necessaria; perché ladivisione del nostro unico pensiero in molte considerazioni è bensíun mezzo imprescindibile di esposizione; ma rispetto al pensiero, èuna forma non essenziale, bensí artificiale. La separazione deiquattro punti di vista principali nei quattro libri, e ilcollegamento accurato degli elementi affini e omogenei, servono afacilitare l'esposizione e la comprensione; la materia per altro nonconcede un procedimento rettilineo quale sarebbe lo storico, anziesige un processo molto piú complicato; bisogna dunque, percomprendere l'intima connessione reciproca delle varie parti, ches'illuminano a vicenda, ristudiare piú volte il mio libro, il qualeallora soltanto si renderà in tutto chiaro.

NOTE:(1) L'osservazione seguente aiuterà quelli, per cui non sia tropposottile, a comprendere che l'individuo è soltanto un fenomeno, e nonuna cosa in sé. Ogni individuo è da un lato soggetto dellaconoscenza, e quindi condizione complementare della possibilitàdell'intero mondo oggettivo; d'altro lato è un fenomeno particolaredi quella stessa volontà, che si oggettiva in ogni cosa. Questaduplicità del nostro essere non ha la sua radice in un'unitàesistente in sé; altrimenti noi saremmo capaci di acquistarecoscienza del nostro io in se stesso, e indipendentemente daglioggetti della conoscenza e della volontà; il che per noi èassolutamente impossibile. Non appena tentiamo infatti di acquistaretale coscienza, e, volgendo il lume dell'intelletto verso il nostrointimo, cerchiamo di essere pienamente consci di noi, ci perdiamo inun vuoto senza fondo, come se fossimo in una sfera cava di vetro, dalvuoto della quale parli una voce di cui non sia possibile trovar lacausa entro la sfera; mentre cerchiamo di afferrare noi stessi, nonstringiamo, con raccapriccio, che uno spettro inconsistente.(2) «Scholastici docuerunt quod aeternitas non sit temporis sinefine aut principio successio, sed Nunc stans; i' e' idem nobis Nuncesse, quod erat Nunc Adamo; i' e' inter nunc et tunc nullam essedifferentiam» (Hobbes, Leviatano, c' 46).(3) Nei Colloqui con Goethe, di Eckermann (2a edizione, vol' I,pag' 154), dice il Goethe: «Il nostro spirito è un essere di naturaindistruttibile; una forza che agisce di eternità in eternità.Proprio come il sole: ai nostri occhi terrestri pare che tramonti, main realtà non tramonta mai, e diffonde incessantemente la sua luce».E' Goethe che deve a me la sua similitudine: non io a lui. Senzadubbio, in questo dialogo, che data dal 1824, questa immagine gli fusuggerita come una reminiscenza, forse inconscia, del presente passo,che si legge testualmente con le stesse parole nella prima edizionedel mio libro, a pag' 401, e ripetuto a pag' 528, come lo sirileggerà in appresso alla fine del par' 65. E la prima edizione fumandata da me, nel dicembre del 1818, a Goethe, che nel marzo del1819 mandò a me, a Napoli, dov'ero, le sue congratulazioni per mezzodi mia sorella; era una breve lettera, con un foglietto in cui notavale pagine che gli erano singolarmente piaciute: aveva dunque letto ilmio libro.(4) Il Veda esprime questa verità col dire che, morendo un uomo, lasua vista si confonde col sole, il suo odorato con la terra, il suogusto con l'acqua, il suo udito con l'aria, la sua parola col fuoco,ecc' (Oupnek'hat, vol' I, pag' 249 e segg'); e ancora con unacerimonia speciale: il morente fa dono delle sue facoltà e de' suoisensi al figliuolo, in cui dovranno d'allora in poi continuare avivere (ibid', vol' Ii, pag' 82 e segg').(5) [«Qui sto io, formo uomini@ A immagine di me@ Una razza cheegual mi sia@ Nel soffrire, nel piangere,@ Nel gioire e rallegrarsi,@E di te nel non curarsi,@ Come me!@»]

Par' 55. - Che la volontà come tale sia libera, è una conseguenzadel suo essere (secondo la nostra concezione) la cosa in sé, lasostanza di ogni fenomeno. Invece questo ci è noto in quanto èinteramente sottoposto al principio di ragione in ciascuna delle sue

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquattro forme; e poiché sappiamo anche che la necessità coincide conla conseguenza da un dato principio (sicché le due nozioni sonoconvertibili), tutto ciò che appartiene al fenomeno, che è oggettoper il soggetto conoscente in quanto individuo, è, da un lato,principio, dall'altro, conseguenza, e sotto quest'ultimo aspetto ènecessariamente determinato: non potrebb'essere altrimenti da quelche è. Tutto il contenuto della natura, l'insieme dei fenomeni, èdunque assolutamente necessario; di ogni parte dell'universo, di ognifenomeno, di ogni avvenimento, è possibile dimostrare la necessità;si deve infatti poter trovare la causa e il principio da cuidiscendono come effetto e conseguenza. Questa legge non soffreeccezione: è conseguenza del principio di ragione, la cui validità èillimitata. D'altra parte, il mondo medesimo, con tutti i suoifenomeni, è oggettità della volontà; ora questa non è fenomeno,rappresentazione, oggetto, ma cosa in sé; quindi sfugge al principiodi ragione, legge formale di ogni oggetto; non essendo effetto di unacausa, non conosce necessità; in altri termini, è libera. Il concettodi libertà è per conseguenza negativo, in quanto significa negazionedella necessità, negazione della relazione di causa ad effettoimposta dal principio di ragione. Ci si manifesta qui distintamenteil come s'incontrino e si concilino la libertà e la necessità, dueavversari sulla cui riunione si parlò tanto nei tempi moderni, ma,per quanto mi consta, senza piena cognizione di causa. Ogni cosa,come fenomeno, come oggetto, è assolutamente necessaria; ma in sestessa è volontà, e, come tale, interamente ed eternamente libera. Ilfenomeno, l'oggetto, è fissato da vincolo necessario e immutabilenella catena ininterrotta delle cause e degli effetti. Ma l'esistenzain generale di quest'oggetto, il modo suo di essere, cioè l'idea chevi si rivela, il suo carattere, è manifestazione diretta dellavolontà. In virtù della libertà intrinseca al volere, l'oggettoavrebbe potuto non esistere, avrebbe potuto essere originariamente edessenzialmente diverso; allora però l'intera catena di cui è unanello, e che in se stessa è la forma visibile dell'identica volontà,sarebbe stata diversa. Una volta realizzato l'oggetto viene inclusonella serie delle cause e degli effetti, si trova impigliato nellarete delle relazioni necessarie; non può divenire un altro, cioècambiare; tanto meno può uscire dalla serie e svanire. L'uomo, alpari di ogni elemento della natura, è oggettità della volontà; quindiciò che si è detto vale anche in ordine all'uomo. Ogni cosa naturaleha le sue forze, le sue qualità, che ad ogni dato stimolo reagisconoin maniera determinata, caratteristica della cosa: ed anche l'uomopossiede un carattere, in virtù del quale i motivi determinano inmaniera necessaria le sue azioni. La sua condotta rivela il suocarattere empirico; ma in questo traluce il carattere intelligibile,la volontà in sé, di cui quello non è che una determinatamanifestazione. Ora l'uomo è la forma visibile più perfetta assuntadalla volontà: alla sua sussistenza, come s'è visto nel secondolibro, era necessaria un'intelligenza cosí alta e luminosa, da esserdegna di creare in sé, nella sua rappresentazione, una riproduzionedell'essenza dell'universo; tale infatti è la natura dell'atto concui si concepiscono le idee. L'uomo diviene allora, s'è visto nelterzo libro, il limpido specchio del mondo. La volontà può dunquenell'uomo arrivare a una piena coscienza di sé, ad una conoscenzachiara ed esauriente del suo proprio essere quale si rispecchia nelmondo. Dalla conoscenza elevatasi a quest'alto grado scaturiscel'arte, come s'è visto nel libro anteriore. Ma il seguito dellenostre considerazioni prepara un risultato ulteriore; vedremo che lastessa conoscenza impiegata dalla volontà come lume a se stessa,rende possibile alla volontà medesima la propria soppressione enegazione; in tal modo la libertà, del resto relegata nella cosa insé, e bandita dal regno del fenomeno, riesce a insinuarsi nel mondofenomenico; sopprimendo l'essenza di questo, mentre l'individuocontinua a sussistere nel tempo, provoca un antagonismo del fenomenocon se stesso, e crea lo stato di santità e di abnegazione. Tutto ciònon risulterà ben chiaro che alla fine del libro. Per oracontentiamoci di accennare in generale al carattere per cui l'uomo sidistingue dagli altri fenomeni della volontà. La libertà, cioèl'indipendenza dal principio di ragione, attributo esclusivo della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcosa in sé, ripugnante al fenomeno, può, nel caso dell'uomo,realizzarsi anche nel fenomeno, benché il suo realizzarsi provochiuna contraddizione del fenomeno con se stesso. In questo sensopossiamo dire, che non soltanto la volontà in sé, ma ben anche l'uomopossieda l'attributo della libertà; e che questo carattere lodistingue da tutti gli altri esseri. Ma l'esatta interpretazione ditutto ciò esige l'intero corso ulteriore delle nostre considerazioni;per ora dobbiamo prescinderne. Dobbiamo infatti, prima di ogni altracosa, rimuovere quell'errore, per cui si crede che la condotta di unindividuo determinato non sia soggetta alla necessità, che cioè laforza del motivo sia meno sicura di quella della causa o di quelladella conseguenza dedotta logicamente dalle premesse. La libertàdella volontà come cosa in sé, astrazion fatta dal caso eccezionaletesté ricordato, non si trasmette mai al suo fenomeno, e neppure aquello in cui la volontà sorge al grado supremo di espressione; nonconcerne quell'animale ragionevole fornito di carattere individuale,che si chiama persona umana. Questa non è mai libera, sebbene siafenomeno di una volontà libera: è un fenomeno che dalla volontàlibera fu già determinato a priori. Entrando nella forma di ognioggetto, nel principio di ragione, il fenomeno svolge bensì l'unitàdella volontà in una molteplicità di azioni; ma questa molteplicità,in virtú dell'unità estratemporale della volontà in sé, si presentacon tutto il rigore di una legge naturale. Siccome, per altro, ciòche si rivela nella persona e nella sua condotta, è la volontàlibera, la quale ha con la condotta umana la stessa relazione che ilconcetto con la definizione: segue che anche l'atto singolo sia dariferire alla volontà libera, e come tale si riveli alla coscienzaimmediatamente. Perciò, come si disse nel secondo libro, ognuno sicrede a priori (cioè per un sentimento innato) libero anche inciascuno dei suoi atti, nel senso di poter compiere, in qualsivogliacaso, un'azione qualsivoglia ideata a piacere; soltanto a posteriori,soltanto in seguito all'esperienza e alla riflessione, veniamo ariconoscere che i nostri atti sono il prodotto necessario di duefattori: carattere e motivi. E perciò anche, i piú rozzi fra gliuomini, pedissequi seguaci dell'istinto, difendono con tutto ilcalore del sentimento la tesi della piena libertà delle singoleazioni, mentre i grandi pensatori di tutti i tempi, e persino ledottrine religiose piú profonde, sostennero la tesi contraria. Maquando si sia riconosciuto alla luce dell'evidenza che l'essenzadell'uomo non è che volontà, che l'uomo stesso non è che un fenomenodi tale volontà, che infine questo fenomeno ha come forma necessariae riconoscibile già dal soggetto il principio di ragione, quitradotto in legge di motivazione, non si potrà piú accogliere alcundubbio sull'imprescindibile necessità con cui l'azione consegue alcarattere e al motivo, come non si accoglie alcun dubbiosull'eguaglianza della somma dei tre angoli di un triangolo a dueretti. La necessità di ogni singolo atto della condotta venneconvenientemente dimostrata da Priestley, nella sua Doctrine ofphilosophical necessity (Dottrina della necessità filosofica); aKant spetta l'alto merito di aver dimostrato per il primo lacompatibilità di tale necessità con la libertà del volere preso insé, all'infuori del mondo fenomenico. (6) A lui dobbiamo ladistinzione fra il carattere intelligibile e il carattere empirico;distinzione che accetto senza riserve, perché il carattereintelligibile designa la volontà come cosa in sé, in quanto simanifesta in un determinato individuo; il carattere empirico è inveceil fenomeno stesso che si esplica nella condotta dell'individuosecondo le leggi del tempo, e nel suo organismo corporeo secondo leesigenze dello spazio. L'espressione piú adatta per far comprenderela relazione fra i due caratteri, è quella da me impiegata nelladissertazione introduttiva, in cui dissi che il carattereintelligibile dell'uomo è un atto di volontà estratemporale, e perciòindivisibile e invariabile; il suo fenomeno, sviluppato e spiegatonel tempo, nello spazio, e in tutte le forme del principio diragione, costituisce il carattere empirico quale si rivelasperimentalmente nella condotta e nel corso della vitadell'individuo. Come l'albero è la manifestazione sempre ripetuta diun unico e identico sforzo, la cui prima e piú semplice forma

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvisibile è la fibra: questa poi, associandosi alle compagne, dà lafoglia, il picciuolo, il ramo e il tronco, prodotti dov'è manifestala costante ripetizione dell'identico fenomeno; cosí gli attidell'uomo sono l'estrinsecazione costante, piú o meno variabilequanto alla forma, del suo carattere intelligibile, al quale si puòarrivare per induzione dall'insieme delle sue azioni. Ma non voglioqui rimaneggiare l'esposizione magistrale di Kant: la suppongo notaal lettore.Nella mia memoria premiata del 1840, trattai a fondo e per estesol'importante capitolo sulla libertà del volere: e in particolarescopersi la causa dell'illusione per cui si crede che nella coscienzasi trovi, come fatto reale, una libertà di volere assolutaempiricamente data, e quindi un liberum arbitrium indifferentiae(tale appunto era il tema giudiziosamente proposto a concorso).Rimando il lettore allo scritto indicato, e al par' 10 della miamemoria sul Fondamento della morale; queste due opere furonopubblicate insieme sotto il titolo: I due problemi fondamentalidell'etica. Nella prima edizione della presente opera avevo qui dato,della necessità degli atti del volere, una spiegazione; maimperfetta, ed ora credo meglio sopprimerla. Vi sostituirò una brevespiegazione dell'illusione di cui or ora parlavo; la spiegazionerichiede la conoscenza del 19o capitolo dei Supplementi, e quindi nonpoteva essere inclusa nella memoria su riferita.Siccome la volontà, come cosa in sé, è una realtà originaria eindipendente, anche i suoi atti, benché determinati, debbono essereaccompagnati nella coscienza dal sentimento del loro carattereoriginario ed autonomo. Ma prescindiamo da questo sentimento.L'illusione di una libertà empirica della volontà (mentre la solalibertà che le convenga è quella trascendentale), l'illusione, dico,di una libertà inerente ai singoli atti particolari, deriva, come sidimostra nel 19o capitolo dei Supplementi, e specie al n' 3, dallaposizione isolata e subordinata dell'intelletto di fronte allavolontà. L'intelletto non conosce le decisioni della volontà, se nona posteriori ed empiricamente. Quindi, al momento della scelta, nonha nessun dato per sapere se la volontà si deciderà in un senso onell'altro. Poiché il carattere intelligibile, in virtú del quale,dati i motivi, una sola decisione è possibile e necessaria, non cadenella conoscenza dell'intelletto, che può conoscere soltanto ilcarattere empirico, e anche questo successivamente atto per atto.Perciò all'intelletto, alla coscienza conoscitiva, sembra, che in uncaso dato qualsivoglia, siano egualmente possibili due decisioniopposte. Precisamente come se di fronte a una sbarra verticalespostata dalla sua posizione di equilibrio e oscillante, si dicesseche può inclinare a destra, oppure a sinistra. Il «può» non ha che unvalore soggettivo, e significa: «dati gli elementi noti»;oggettivamente, la direzione della caduta è necessariamentedeterminata fin dal principio dell'oscillazione. Altrettanto si dicain ordine alla decisione della volontà individuale: non èindeterminata che per lo spettatore, per l'intelletto:l'indeterminazione è dunque relativa e soggettiva, cioè, non esisteche in ordine al soggetto conoscente; in sé, oggettivamente, inpresenza di ogni scelta da fare, la decisione è sempre determinata enecessaria. Ma tale determinazione non arriva alla coscienza, seprima non si traduce nella relativa decisione. Ecco, del resto, unaprova empirica in conferma della nostra tesi. Ci si trovi di fronte auna scelta importante e difficile, che richieda una condizione ancoranon realizzata, sicché frattanto dobbiamo starcene con le mani inmano, passivamente. Allora ci si mette a riflettere sul partito chebisognerà prendere nel momento in cui, realizzandosi la dettacondizione, saremo liberi nella scelta e nell'azione. Ci sipresentano d'ordinario due partiti: la riflessione ragionata ecalcolatrice sta per l'uno, l'istinto immediato per l'altro. Finchésiamo costretti a rimanere inattivi, il predominio della ragionesembra manifesto; prevediamo bensí che, appena venuto il momentodell'azione, l'istinto insorgerà con violenza per trascinarcinell'altro partito. Non si ha fin qui che un solo pensiero: divalutare con freddezza il pro e il contro, e di metter bene in luce imotivi che militano in favore di ciascuna delle due alternative;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtaffinché, venuto il momento, ciascun motivo possa operare sullavolontà con tutta la sua potenza, e affinché nessun erroredell'intelletto induca la volontà in una decisione diversa da quellache prenderebbe se i motivi operassero tutti con la stessa forza. Mala funzione dell'intelletto, in ordine alla scelta, si esauriscenella detta ricerca e analisi dei motivi. Quanto alla decisione verae propria, l'intelletto l'attende con la febbrile curiosità di unospettatore freddo e passivo, come se si trattasse della risoluzionedi una volontà estranea; è dunque inevitabile che tutt'e due ledecisioni gli appaiano egualmente possibili. Donde l'illusione dellalibertà empirica del volere. Certo, a conoscenza dell'intelletto ladecisione viene soltanto per via dell'esperienza, come colpo finale;ma la decisione risulta dalla natura intima, dal carattereintelligibile della volontà individuale, del suo conflitto con imotivi dati, e quindi, avviene con una necessità assoluta.L'intelletto non può che mettere in luce piena e completa la naturadei motivi; determinare la volontà non è affar suo; la volontà è perl'intelletto, nonché inaccessibile, imperscrutabile.Perché un uomo potesse, in circostanze uguali, agire una volta inun modo, e un'altra volta in un altro, bisognerebbe che la suavolontà, nell'intervallo, si fosse mutata; e il mutare implicherebbeche la volontà esistesse nel tempo. E allora una delle due: o lavolontà è un puro fenomeno, o il tempo è una determinazione dellacosa in sé. La questione della libertà nei singoli atti, del liberumarbitrium indifferentiae, viene dunque, in ultimo, a tradursi nelproblema: se la volontà esista nel tempo, oppure no. Se, comerichiede la dottrina di Kant, e come risulta necessariamente dallamia, la cosa in sé è fuori del tempo e di ogni forma del principio diragione, l'individuo, a parità di situazione, deve sempre agire nellostesso modo. Quindi: un'azione cattiva, sia pure unica, è sicuragaranzia di un'infinita serie di azioni simili, che l'uomo dovràcompiere, e non potrà non compiere. Inoltre, come dice lo stessoKant, chi conoscesse a fondo il carattere empirico e i motivi di unuomo, potrebbe calcolar la sua condotta futura come si calcolaun'eclissi. La natura è senza dubbio conseguente; ebbene, ilcarattere non è meno conseguente; ogni azione singola si svolge inarmonia col carattere, come ogni fenomeno accade in conformità delleleggi di natura; la causa qui, e il motivo là, non sono cheoccasioni: come s'è visto nel secondo libro. La volontà, di cui tuttal'essenza e la vita dell'uomo sono la manifestazione, non puòsmentirsi nel singolo caso; ciò che l'uomo vuole una volta per tutte,deve, sempre, volerlo in ciascun caso particolare.La credenza in una libertà empirica, in un liberum arbitriumindifferentiae, è in intima connessione con la dottrina che ponel'essenza dell'uomo in un'anima, la quale sarebbe in origine unessere dotato di conoscenza, o, meglio, di pensiero astratto, e inseguito anche di volontà; ma quest'ultimo attributo non leconverrebbe che come conseguenza dei primi due; tale dottrina viene aconferire alla volontà una natura puramente secondaria, mentre inverità il posto di second'ordine spetta appunto alla conoscenza. Sigiunse persino a considerare la volontà come un atto di pensiero, aidentificarla col giudizio: basti ricordare, fra gli altri, Cartesioe Spinoza. Secondo tale teoria, ogni uomo è quel che è in virtú dellasua conoscenza; viene al mondo come zero morale; acquistate poi dellecognizioni, si decide conseguentemente ad essere tale o tal altro, adagire cosí o cosí; potrebbe anche, in seguito a nuove cognizioni,seguire un nuovo sistema di condotta, e divenire un altro uomo. E nonpotrebbe volere una cosa, che prima non avesse riconosciuta comebuona; mentre, in realtà, avviene il contrario: una cosa, prima èvoluta, poi è qualificata per buona. Infatti, secondo la mia teoria,quel primo modo di vedere non è che una completa inversione dellerelazioni effettive. La volontà è la realtà prima e originaria; laconoscenza non è che un puro epifenomeno, uno strumento di cui lavolontà si serve per le sue manifestazioni. E quel che ciascun uomoè, è in virtú della sua volontà; il suo carattere è di naturaoriginaria; il volere è la base del suo essere. In seguito,sopraggiungendo la cognizione, l'uomo apprende a sapersi quel che è;a conoscere il proprio carattere. La conoscenza che acquista di sé è

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdunque affine alla volontà; siam proprio agli antipodi dell'anticomodo di vedere, per il quale l'atto del volere è conseguente econforme alla conoscenza. Secondo l'antica dottrina, l'uomo non hache a deliberare sul modo di essere che gli piace di piú, e tale sivuole, tale è; questa sarebbe appunto la libertà del suo volere;l'uomo, in virtú di tale libertà, sarebbe opera sua propria, plasmataalla luce della conoscenza. Io affermo, al contrario, che l'essereumano è opera sua propria, anteriormente ad ogni conoscenza: questanon sopraggiunge che ad illuminare il lavoro fatto. L'uomo, dunque,non può decidersi ad avere il tale o il tale altro carattere; moltomeno a divenire altro da quello che è; è, una volta per sempre,quello che è; benché non possa che successivamente, a poco a poco,riconoscersi per quello che è. Secondo l'antica dottrina, l'uomovuole ciò che conosce; secondo la mia, conosce ciò che vuole.I greci chiamavano il carattere «êôos», e le sue manifestazioni, icostumi «éôû»; ora, questa parola deriva da ëôos, abitudine; laparola esprimeva metaforicamente la costanza del carattere, mediantela costanza dell'abitudine: «§tò gàr êôos apò tov ëôous ëçei tènepwnumïan; ûôiçè gàr kaleîtai dià tò eôïzesôai (a voce "ëôos", i' e'consuetudo, "êôos" est appellatum; ethica vero dicta est "apò toveôïzesôai", sive ab assuescendo)»; cosí dice Aristotele (Eth' magna,I, 6, pag' 1186, e Eth' Eud', pag' 1220, e Eth' Nic', pag' 1103, ed'berlinese). E Stobeo: «hoi dc katà §zénwna tropik#s; êôös esti pûgèbïou, af' hês hai katà mëros präxeis hrëousi (Stoici autem, Zenoniscastra sequentes, metaphorice ethos definiunt vitae fontem, e quosingulae manant actiones)», Ii, cap' 7. Nella dottrina cristianatroviamo il dogma della predestinazione, riferibile alla scelta(divina) tra la grazia e la riprovazione (S' Paolo, Epist' ai Romani,9, 11-24); il dogma deriva, senza dubbio, dalla credenza che l'uomonon varia; che la sua vita e la sua condotta non sono che lamanifestazione del suo carattere intelligibile, lo sviluppo didisposizioni fisse, invariabili, riconoscibili fin dall'infanzia; eche, in conseguenza, la sua condotta è già determinata fin dallanascita, e si conserva essenzialmente identica fino alla morte. Nelche io son pienamente d'accordo; quanto alle conseguenze, che sivollero dedurre collegando queste verità con i dogmi dell'anticareligione giudaica, e che suscitarono le piú gravi difficoltà,creando l'inestricabile nodo gordiano intorno al quale si accentra ilmaggior numero delle dispute sorte nella Chiesa, davvero non mi sentoil coraggio di sostenerle. Una tale impresa non riuscì neppureall'apostolo Paolo, nonostante il suo apologo del vaso. A cherisultato si può arrivare? A nessuno, se non a quello indicato neiseguenti versi:«Es fürchte die Götter@ Das Menschengeschlecht!@ Sie halten dieHerrschaft@ In ewigen Händen:@ Und können sie brauchen@ Wie 's ihnengefällt.@» (7)Ma simili questioni esorbitano dal nostro campo. Passiamo aqualcosa di piú consono al nostro oggetto, e diamo qualchespiegazione sulla natura della relazione che passa fra il carattere ela cognizione, dalla quale il carattere attinge i motivi.I motivi, che determinano la manifestazione del carattere, ossia lacondotta, agiscono per il tramite della conoscenza; ora, questa èvariabile per sua natura, e oscilla sovente fra la verità e l'errore;sebbene, in regola generale, si vada nel corso della vitaprogressivamente rettificando in gradi piú o meno diversi. Segue daciò, che la condotta di un uomo possa cambiare notevolmente senza chesia lecito inferirne una modificazione del carattere. Ciò che l'uomovuole realmente e precipuamente, l'oggetto a cui aspira nel segretodel suo essere, il fine correlativo che si propone, non c'è forzaesteriore o dottrina capace di modificarli; altrimenti dovremmoessere in condizione di ricreare un uomo ex novo. «Velle nondiscitur», dice meravigliosamente Seneca, dando prova, con ciò, dipreferire la verità agli Stoici, i quali sostenevano che la virtú sipuò insegnare: "didaktèn eînai tèn aretén". Non c'è che un solo mezzocapace di agire ab extra sulla sua volontà: i motivi. Ma questi nonla possono mai modificare, perché il loro potere sulla volontàpresuppone che la volontà sia precisamente quella che è. La loropotenza si riduce a modificare la direzione del suo sforzo, cioè a

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfar che l'oggetto, rimanendo il medesimo, sia cercato per altre vieda quelle prima battute. L'istruzione, la piú perfetta conoscenza, inuna parola l'influenza esterna, serviranno senza dubbio alla volontà,qual mezzo per accorgersi che la via seguita era falsa; e potrannoanche servirle di guida a cercare per altre vie, e a riporre in benaltro oggetto il fine cui non cessa di tendere in virtú della suaintima natura: ma non riusciranno mai a farle volere qualcosa direalmente diverso da ciò che ha voluto; il fine resta immutabile:cambiarlo, sarebbe un sopprimere la volontà stessa che n'ècostituita. Nondimeno, la modificabilità della conoscenza, e inconseguenza della condotta, arriva a un segno, che il suo scopoinvariabile, sia ad esempio il paradiso di Maometto, potrà essercollocato, una volta nel mondo reale, un'altra in un mondoimmaginario, scegliendo i mezzi secondo la concezione; ricorrendo,nella prima ipotesi alla prudenza, o alla violenza e all'inganno;nella seconda invece, alla continenza e alla giustizia,all'elemosina, o al pellegrinaggio alla Mecca. Non per questo viene acambiare la tendenza; e tanto meno si può dire che muti la volontà.La condotta può variare col variare dei tempi; la volontà restaeternamente uguale a se stessa. Velle non discitur.I motivi, perché agiscano con efficacia, non basta che sianopresenti; bisogna che vengano conosciuti; perché, secondo la giustaformula scolastica già citata, «causa finalis movet, non secundumsuum esse reale, sed secundum esse cognitum». Cosí ad esempio: unuomo, affinché appaia nella sua vera luce la relazione fra l'egoismoe la compassione, non basta che possegga delle ricchezze e veda altrinella miseria, ma deve sapere che cosa si possa fare della ricchezza,e per sé, e per gli altri; e nemmeno basta che abbia sotto gli occhile altrui sofferenze; ma deve anche sapere che cosa sia sofferenza eche cosa sia godimento. Ora può darsi che in una prima occasionel'uomo sappia tutto ciò non così bene come in una seconda: se allora,in circostanze simili, agisce in maniera diversa, ciò dipendeunicamente dal fatto che le circostanze medesime sono in realtà, perla parte nota, differenti, benché sembrino identiche. Comel'ignoranza di circostanze reali toglie loro ogni efficacia, così,viceversa, circostanze del tutto immaginarie possono agire come sefossero reali; né soltanto come illusione unica, ma come illusionetotale e duratura. Cosí, ad esempio, se si riesce a convincere unuomo che ogni atto di beneficenza gli sarà ripagato al centuplo nellavita futura, tale convinzione avrà tutto il valore e l'effetto di unaben garantita cambiale a lunga scadenza; e l'uomo potrà esseregeneroso per egoismo, come avrebbe potuto, con altre convinzioni,essere per egoismo avaro. Ma non perciò si può dire che la sua naturacambi: velle non discitur. Questo potente influsso della conoscenzasulla condotta è appunto la ragione per cui, nonostante l'invariabilenatura della volontà, il carattere si sviluppa in via progressiva, emette in luce i suoi diversi aspetti. Cosí varia al variare dell'età,e ad una giovinezza violenta e impulsiva può succedere un'età virilesaggia e moderata. Il lato cattivo del carattere è quello che piúviene in luce con il tempo: accade però talvolta che l'uomo arrivi aporre, nell'età matura, un freno volontario alle passioni a cui siabbandonava nella giovinezza; e ciò, semplicemente perché prima nonaveva potuto acquistare una chiara coscienza dei motivi contrari. Perquesto, anche, in origine tutti siamo innocenti; vale a dire: nonconosciamo, né gli altri conoscono, quel che c'è di cattivo nellanostra indole; i motivi, che soli possono mettere in luce ogni cosa,esigono tempo ad esser conosciuti. Alla lunga, finiamo con ilrenderci consci di noi stessi, e ci riconosciamo ben diversi da comeci credevamo a priori; sicché, allora, non di rado ci assale un sensodi orrore e di raccapriccio.L'origine del pentimento non va mai cercata in un cambiamento dellavolontà (cosa impossibile), ma in un cambiamento della conoscenza.Ciò che, nel mio volere d'una volta, c'è di essenziale e di speciale,io debbo volerlo ancora; poiché io sono sempre quella medesimavolontà, superiore al tempo ed al cambiamento. Il mio pentimento nonpotrà dunque mai cadere su ciò che volli, ma soltanto su ciò chefeci; traviato da false nozioni, operai non conformemente alleesigenze della mia volontà. Poi me ne accorgo: la mia conoscenza si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrettifica; ed ecco il pentimento. Il quale si estende, non soltantoagli errori dovuti alla poca prudenza, alla cattiva scelta dei mezzi,alla sconvenienza fra il fine propostoci e la nostra volontà vera: masí ben anche al valore morale degli atti. Posso, ad esempio, averagito piú egoisticamente di quanto si addica al mio carattere; e ciò,perché indotto in errore da un'idea esagerata dei miei propribisogni, oppure dall'astuzia, dalla falsità, dalla cattiveria deglialtri, o infine per aver agito a precipizio, senza riflessione,lasciandomi trascinare, non da motivi di cui mi rendessi conto inabstracto, ma da motivi di pura intuizione, dall'impressione delmomento e dalla commozione suscitatasi nel mio animo (un impulsoviolento mi ha tolto il lume della ragione). Anche in questo casoperò, il ritorno alla riflessione non è che una conoscenzarettificata; il pentimento, che può derivarne, si annunzierà semprecon degli sforzi tendenti a riparare al possibile gli erroricommessi. E' tuttavia da notare come talvolta noi, per illuder noistessi, ci prepariamo delle precipitazioni apparenti, che in fondosono atti segretamente premeditati. Non c'è infatti persona che ciriesca d'ingannare e di lusingare con finezza di artifici, quanto noimedesimi. Talora, invece, accade il contrario: la troppa fiducianegli altri, l'ignoranza del valore comparativo dei beni della vita,o la fede (successivamente perduta) in qualche dogma astratto,possono indurmi ad agire con meno egoismo di quello che è insito nelmio carattere, e prepararmi un pentimento d'altro genere. Ilpentimento è dunque sempre una conoscenza piú esatta della relazionefra l'azione ed il suo fine reale. La volontà, quando estrinseca lesue idee nella semplice forma dello spazio (nella figura), incontranella materia, già dominata da altre idee (cioè dalle forzenaturali), una resistenza, che raramente permette alla forma dirivelarsi nella sua perfetta purezza, nella sua bellezza. Ebbene: lavolontà, quando si manifesta nel tempo, cioè nelle azioni, trova unostacolo simile nella conoscenza, che ben di rado le offre dati benprecisi: l'azione, in tal caso, non è in pieno accordo con lavolontà; donde il pentimento. Il quale dunque, ripetiamo, ha sempreorigine da una conoscenza rettificata, non da un cambiamentoimpossibile di volontà. Il rimorso di coscienza, che sussegue ad unacolpa, non ha niente che fare col pentimento. E' dolore prodottodalla coscienza che acquistiamo di noi stessi, della nostra intimanatura, della nostra volontà. E suppone l'esatta visione della grandeverità, che il nostro volere è sempre il medesimo. Se la volontàpotesse cambiare, il rimorso di coscienza si ridurrebbe a un puro esemplice pentimento, che dovrebbe distrugger se stesso: il passatoinfatti non dovrebbe dar luogo a rimorsi, poiché si ridurrebbe allamanifestazione di una volontà che non è piú quella del penitente. Matorneremo in seguito a parlare piú a lungo sulla natura del rimorso.L'influenza che la cognizione (o il motivo in quanto noto)esercita, non sulla volontà in sé, ma sul modo con cui la volontà sirivela nelle azioni, costituisce anche la differenza principale fral'uomo ed il bruto. I modi loro di conoscenza differiscono infattinotevolmente. Il bruto non ha che rappresentazioni intuitive; l'uomo,grazie alla ragione, possiede anche rappresentazioni astratte,concetti. I motivi, senza dubbio, agiscono con pari necessità sulbruto come sull'uomo: tuttavia l'uomo, di fronte al bruto, gode ilprivilegio esclusivo di una perfetta facoltà di scelta: facoltà incui si è voluto persino vedere una libertà della volontà nellesingole azioni, ma che in fondo si riduce alla possibilità di unconflitto fra molti motivi, il piú forte dei quali deve da ultimonecessariamente determinare la volizione. Il conflitto suppone che imotivi abbiano rivestito la forma di concetti, senza di che unadeliberazione vera e propria, una valutazione comparativa esatta deimotivi opposti, riuscirebbero impossibili. Il bruto non ha dascegliere che fra motivi presenti e sensibili; quindi la sua scelta èristretta nella sfera della sua apprensione immediata e intuitiva. Lanecessità della relazione fra i motivi e la determinazione delvolere, necessità simile a quella con cui l'effetto segue la causa,si può dunque manifestare in forma intuitiva e immediata soltanto nelbruto; lo spettatore può vedere in questo caso, direttamente, imotivi e i loro effetti. Nell'uomo invece i motivi, quasi sempre, son

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazioni astratte di cui l'osservatore non ha la benchéminima coscienza; inoltre, la necessità delle azioni è, dal conflittodei motivi, dissimulata allo stesso agente. La forma astratta, laforma del giudizio e del raziocinio, è condizione affinché piúrappresentazioni possano coesistere nella coscienza, e reagire le unecon le altre, all'infuori di ogni determinazione di tempo, finché lapiú energica trionfi sulle altre e determini la volontà. In ciòappunto consiste la perfetta facoltà di scelta, o facoltà dideliberazione; privilegio che mette l'uomo al disopra del bruto, eche fece attribuire all'uomo la libertà di volere, come se la volontàfosse un semplice risultato di operazioni intellettuali non fondatein nessun impulso istintivo. Ma, in fatto, i motivi non agiscono chesul fondamento e nel presupposto di una tendenza determinata, chenell'uomo è individuale, e prende il nome di carattere. Chi desideramaggiori spiegazioni sulla facoltà di deliberazione, e sulladifferenza che ne risulta tra la spontaneità dell'uomo e quella delbruto, farà bene a leggere la mia opera: I due problemi fondamentalidell'etica (1a ed', pag' 35 e segg') a cui rimando il lettore. Delresto, la facoltà di deliberazione posseduta dall'uomo è da metteretra le cause che rendono l'esistenza umana molto piú tormentosa diquella del bruto. I nostri dolori piú grandi non hanno infatti,d'ordinario, un oggetto nel presente, non nascono da rappresentazioniintuitive, né da sentimenti immediati; ma son prodotti dalla ragione,da concetti astratti, da pensieri tormentosi; concetti e pensierisconosciuti al bruto; il quale, ristretto com'è nel presente, se nevive in uno stato di tranquillità e di spensieratezza veramenteinvidiabile.Il fatto che nell'uomo la facoltà di deliberazione dipende dallafacoltà del pensiero astratto, e quindi anche da quella del giudizioe del raziocinio, sembra essere stato la causa che indusse Descartese Spinoza a identificare le decisioni della volontà con la facoltà diaffermare e di negare in cui consiste il giudizio. Da questoprincipio Descartes conclude che la volontà (dotata, secondo lui, diuna libertà di indifferenza) è responsabile persino degli erroriteoretici; Spinoza, invece, ne dedusse che la volontà ènecessariamente determinata dai motivi, come il giudizio dalle prove;(8) proposizione, quest'ultima, senza dubbio giusta; ma solo a titolodi conclusione vera, tratta da premesse false.La divergenza da noi segnalata fra l'animale e l'uomo, quanto almodo con che i motivi agiscono sull'uno e sull'altro, intacca la lorostessa essenza e costituisce la causa principale dell'opposizionecosí profonda e visibile che separa i modi loro di esistere. Il brutoha sempre a motivo qualche intuizione; l'uomo, al contrario, tende adescludere dalla sua condotta quest'ordine di motivazioni, e a nonobbedire che a rappresentazioni astratte. Questo è l'uso migliore chepossa farsi del privilegio della ragione; l'uomo tende a redimersidalla servitú del presente; anziché scegliere il piacere dell'attimo,o fuggire il dolore momentaneo, riflette sulle conseguenze ulteriori.Nella maggior parte dei casi, a prescindere dalle azioni del tuttoinsignificanti, ciò che ci determina sono i motivi astratti epensati, non le impressioni del momento. Quindi ci è facilesopportare una privazione momentanea, mentre il solo pensiero dellarinunzia ci spaventa; la privazione, infatti, non riguarda che ilfuggevole presente, la rinunzia impegna invece tutto l'avvenire;implica un'infinità di privazioni, di cui è, per così dire, la somma,o l'equivalente preventivo. La causa del nostro dolore, come dellanostra gioia, non sta dunque, d'ordinario, nella realtà concreta delpresente, ma in pensieri astratti; che molte volte ci opprimono sottoil loro peso, infliggendoci torture, di fronte alle quali lesofferenze della natura animale si riducono a un nonnulla; poichétalora ci impediscono perfino di sentire i nostri dolori fisici.Anzi, nel caso di acerbe sofferenze morali, arriviamo a provocarciqualche pena corporale che ci distragga; perciò, nei momenti didolore estremo, ci strappiamo i capelli, ci percuotiamo il petto, cilaceriamo la faccia, ci sdraiamo per terra, ecc'; mezzi violenti perdistrarre il nostro spirito da un pensiero divenuto insopportabile.In questa supremazia del dolore morale, in questo suo potere direnderci insensibili al dolore fisico, si deve cercare la ragione per

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcui, nei momenti di disperazione o negli accessi di angoscia morbosa,il suicidio riesce cosí facile anche a coloro che in stato normale dicalma inorridivano al solo pensarvi. Parimenti le ansie e lepassioni, cioè il lavorio dei pensieri, consumano spesso il corpomolto piú che non i mali fisici. Ben a ragione dice dunque Epitteto:«§tarässei toùs anôrjpous ou tä prägmata, allà tà perì t#n pragmätwndögmata (Perturbant homines non res ipsae, sed de rebus decreta)»(V'), e Seneca: «Plura sunt quae nos terrent, quam quae premunt, etsaepius opinione quam re laboramus» (Ep' 5). Ed anche Eulenspiegelparodiava graziosamente la natura umana, quando rideva nella salita epiangeva alla discesa. Ma c'è di piú: quando un bambino si è fattomale, avviene spesso che il dolore non è tale da farlo piangere; maditegli una sola parola di compianto: si metterà in testa disoffrire, e proromperà subito in lacrime. Tali sono le maggioridifferenze nel modo di agire e di essere, che derivano dalladiversità che separa i modi di conoscenza del bruto e dell'uomo.Anche l'apparizione del carattere individuale chiaro e deciso,principale distintivo fra l'uomo e il bruto (il quale ultimo nonpossiede che il carattere della specie), richiede come condizione lapossibilità della scelta fra piú motivi, possibile soltanto per viadi concetti. Soltanto in seguito alla scelta le decisioni, diverse daun individuo all'altro, diventano un segno del carattere individualepur diverso; mentre il fare del bruto dipende soltanto dalla presenzao dall'assenza di un'impressione; presupposto, che questa costituiscein generale un motivo per la specie. Perciò finalmente, nell'uomo,indizio sicuro del carattere, per lui e per gli altri, è soltanto ladecisione, e non il semplice desiderio. Ma la decisione, per glialtri e per lui, è accertata soltanto dall'azione. Il desiderio non èche la semplice conseguenza necessaria dell'impressione del momento,sia che risulti da un eccitamento esterno, sia che provenga da unadisposizione interiore transitoria: è determinato in maniera direttae irriflessa, come l'azione del bruto; quindi, al pari di questa,esprime il carattere, non dell'individuo, ma della specie; rivela ciòdi che sarebbe capace l'uomo in generale, non quell'uomo inparticolare. Siccome l'azione, come fatto umano, esige sempre unacerta riflessione; siccome l'uomo è ordinariamente padrone della suaragione, cioè riflette, né si decide che in virtú di motivi astrattie meditati, possiamo concludere che l'atto è l'unica espressionedella massima intelligibile della sua condotta, e il risultato dellasua volontà intima; l'atto appare come una lettera della parola chedenota il suo carattere empirico, il quale, a sua volta, è lamanifestazione nel tempo del suo carattere intelligibile. Perciò lacoscienza di un uomo di mente sana si sentirà gravata dagli atti, manon dai desideri, né dai pensieri. Soltanto gli atti ci presentano lospecchio della nostra volontà. Le azioni, di cui s'è or ora parlato,compiute irriflessamente e nei trasporti della cieca passione,costituiscono come un intermedio fra il semplice desiderio e larisoluzione; un pentimento sincero e che si traduca nei fatti puòcancellarle, come un segno mal riuscito, da quell'immagine dellavolontà che è il corso della nostra vita. Del resto, e a titolo disingolare similitudine, noterò che la relazione fra il desiderio el'azione ha un'analogia perfetta, sebbene accidentale, con quella cheha luogo fra la distribuzione dei fluidi elettrici e la lororiunione.Dall'insieme delle considerazioni esposte sulla libertà del voleree sui problemi correlativi, concludiamo che la volontà, sebbene sialibera, ed anzi onnipotente, quando la si prenda in sé, all'infuoridi ogni sua manifestazione, presa invece in quella categoria difenomeni singolari che sono illuminati dalla conoscenza, presa cioènell'uomo e nel bruto, è determinata da motivi contro i quali ognicarattere speciale reagisce con regolare necessità, sempre nellostesso modo. L'uomo, grazie alla conoscenza che gli è propria, graziealla conoscenza astratta o razionale, ha sul bruto il vantaggio dipossedere la facoltà della determinazione elettiva: ma questa facoltàlo fa essere il campo nel quale i motivi si combattono, senzapermettergli di signoreggiarli; la facoltà di scelta è di certo lacondizione che sola rende possibile il perfetto estrinsecarsi delcarattere individuale; ma in ciò non dobbiamo vedere una libertà

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtinerente ad ogni volere particolare, né una indipendenza dalla leggedi causalità; la necessità di questa legge vale per l'uomo come perogni altro fenomeno. Fin qui, e non piú in là, si estende ladifferenza che la ragione o conoscenza concettuale crea fra lavolontà dell'uomo e quella del bruto. C'è, per altro, un fenomeno divolontà, nuovo, impossibile nel bruto, ma possibilissimo nell'uomo, eche si realizza quando l'uomo, lasciata la conoscenza dominata dalprincipio di ragione, la considerazione delle cose particolari cometali, s'innalza con la concezione delle idee oltre il principiumindividuationis. La volontà come cosa in sé può allora manifestare lasua libertà, mettendo il fenomeno in contraddizione con se stesso.Questo fatto, che si dice abnegazione, può spingersi fino alla vera epropria soppressione dell'essenza in sé del nostro proprio essere; èl'unico e vero modo con cui la libertà della volontà come cosa in sépuò insinuarsi nel campo del fenomeno. Ma questo punto non può ancoraessere ben compreso; ne faremo l'oggetto finale delle nostreconsiderazioni.Le precedenti conclusioni ci permettono di fissar bene dueprincípi. Primo, l'immutabilità del carattere empirico, in quantopura e semplice estrinsecazione del carattere intelligibileestratemporale. Secondo, la necessità con cui le azioni derivanodall'incontro del carattere con i motivi. E ora dobbiamo eliminareuna conclusione che si sarebbe inclinati a ricavare a vantaggio dellenostre perverse tendenze. Siccome il nostro carattere è lo sviluppo,nel tempo, di un atto di volontà estemporaneo, e però indivisibile eimmutabile, ossia del carattere intelligibile; siccome questo attodetermina irrevocabilmente la nostra condotta in ciò che ha diessenziale, in ciò che ne concerne il contenuto morale; siccomedunque il detto elemento essenziale non può non esprimersi nel suofenomeno, nel carattere empirico; e l'elemento secondario, la formaesteriore della vita, è determinato dal come si presentano i motivi;si potrebbe concludere che il lavorare al miglioramento del propriocarattere, il resistere alla violenza delle inclinazioni malvagie,sia fatica sprecata; e che il partito piú saggio e migliore sia dirassegnarsi all'immutabile, di seguire gl'istinti, siano anchemalvagi. La risposta è simile a quella che si deve opporre allateoria del destino ineluttabile e alla conseguenza che se ne suoltrarre, il cosiddetto lögos argös, (9) o, come si vuol chiamarlo algiorno d'oggi, il fatalismo orientale. Cicerone, nel suo libro Defato, capp' 12-13, riferisce l'esatta confutazione che si crede neabbia data Crisippo.Benché infatti ogni cosa possa considerarsi come irrevocabilmentepredeterminata dal destino, tale determinazione non ha tuttavia luogoche per mezzo di una catena di cause. Dunque non si può dare nessuncaso in cui un effetto si produca senza la causa. L'avvenimento nonsi può dunque predeterminare come avvenimento puro e semplice, masoltanto come risultato di cause anteriori: il destino decide, non ilrisultato soltanto, ma inoltre anche i mezzi, fattori necessari delsuo prodursi. Per conseguenza: se i mezzi faranno difetto, neppure ilrisultato avrà luogo: entrambe le eventualità son di certo soggetteal decreto del destino; ma questo decreto non ci è noto che inseguito, dopo l'esperienza.Come gli avvenimenti seguono sempre il corso determinato daldestino, dalla concatenazione infinita delle cause, così le nostreazioni si svolgono sempre in conformità al nostro carattereintelligibile. Ma noi non sappiamo prevedere il destino, e nonpossediamo una conoscenza a priori del nostro carattere: soltanto aposteriori, per esperienza, impariamo a conoscere gli altri e noistessi. Se il nostro carattere intelligibile è così fatto, che noi sipossa prendere una buona risoluzione soltanto in seguito a una lungalotta contro un istinto malvagio, questa lotta dovrà necessariamenteaver luogo, e noi dovremo attendere fino alla fine. Le riflessionisull'immutabilità del carattere, sull'unità della sorgente da cuiscaturiscono tutte le nostre azioni, non debbono indurci adanticipare, in favore dell'una o dell'altra parte, il giudizio sulledecisioni che il carattere medesimo sarà per prendere; a fatticompiuti soltanto, potremo sapere che genere d'uomini siamo; i nostriatti son l'unico specchio in cui potremo riconoscer noi stessi. Ecco

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtil perché della soddisfazione o dell'angoscia che sentiamo ripensandoal passato della nostra vita; questi sentimenti non son certo dovutia che le azioni passate abbiano ancora una qualche esistenza; leazioni passate son passate, non sono piú nulla. Ciò che dà loro tantaimportanza ai nostri occhi, è il loro significato; sono infattil'immagine del carattere, sono lo specchio della volontà; noi viriconosciamo il nostro io profondo, l'essenza intima della nostravolontà. Siccome dunque di tale volontà non conosciamo nulla inantecedenza, e tutto quello che ne sappiamo è una costatazioneposteriore, dobbiamo, nel corso della nostra esistenza temporanea,sforzarci e lottare a che le nostre azioni formino un quadro che cirassereni e non ci contristi. Il significato sia della soddisfazioneche dell'angoscia, formerà il tema di ulteriori considerazioni. Oraci viene opportuna la considerazione qui appresso.Distinto dal carattere intelligibile, nonché dal carattereempirico, è il carattere acquisito; è quello che ci si forma nelcorso della vita, e a cui si allude quando un uomo vien lodato perchéha, biasimato perché non ha, un carattere. Il carattere empirico è,come una manifestazione del carattere intelligibile, invariabile, e,al pari di ogni altro fenomeno naturale, conseguente con se stesso.Perciò l'uomo parrebbe dover essere sempre uguale a sé, coerentesempre, senza bisogno di crearsi con l'esperienza un carattereartificiale. E, senza dubbio, l'uomo resta sempre lo stesso; nonsempre ha un'esatta cognizione di sé; anzi, non di rado sifraintende, finché non arrivi ad acquistare una piú o meno esattacognizione della propria natura. Il carattere empirico, sempliceistinto naturale, è sprovvisto di ragione; anzi, le suemanifestazioni possono venire disturbate dalla ragione, tanto piú,quanto è maggiore nell'uomo il potere della riflessione e delpensiero. Queste facoltà, presentandoci l'immagine di ciò che a noiconviene come a uomini (come appartenenti alla specie umana), cirendono difficile riconoscere quel che precisamente ci convenga comeindividui, quel che noi si voglia e si possa. Ciascuno riconosce insé i germi di tutte le aspirazioni e di tutte le potenze umane; ma inche dose ciascuno di questi elementi entri a formare la suaindividualità, è una questione a cui risponderà soltantol'esperienza. L'uomo ha un bel dare ascolto ai soli desideri conformial suo carattere; in certi momenti, in certe disposizioni d'animo,sente nondimeno svegliarsi dentro di sé dei desideri opposti einconciliabili coi primi; tanto che, se vuole dar libero corso agliuni, deve sforzarsi di soffocare gli altri. Come nel camminarefisicamente sulla terra si descrive una semplice linea, e non unasuperficie; così nel vivere, se vogliamo impadronirci d'una cosa epossederla, dobbiamo rassegnarci ad abbandonarne a destra e asinistra un'infinità di altre. Non sapersi limitare; tendere, come ifanciulli alla fiera, le mani a tutto quanto ci seduce per via, ètenere una condotta pazza, un voler mutare in superficie la lineadella nostra vita; allora si corre a zigzag, si va errando comefuochi fatui, senz'approdare a nulla. Un'altra similitudine: secondola teoria del diritto di Hobbes, ciascuno ha, in origine, un dirittosu ogni cosa, ma un diritto che non è esclusivo; per ottenere undiritto esclusivo su qualcosa, egli deve rinunziare a qualsiasidiritto sul resto; perché, in compenso, gli altri faccianoaltrettanto verso l'oggetto scelto da lui. Così è nella vita;nessun'aspirazione al piacere, all'onore, alla ricchezza, allascienza, all'arte, alla virtú è seria e realizzabile, se non acondizione che si rinunzi ad ogni altra pretensione, desistendo datutto ciò che le è estraneo. Perciò, il volere e il potere soli nonbastano; l'uomo deve anche sapere che cosa voglia e che cosa possa;soltanto allora darà prova di carattere, e condurrà bene un'impresa.L'uomo, finché non sia giunto a tale altezza, benché dotato dicarattere empirico, non è un uomo di carattere: potrà, sì, restarfedele a se stesso, e proseguire la sua via, guidato dal propriodemone; ma non sarà capace di seguire una linea diritta: percorreràun sentiero tortuoso e disuguale, vacillerà, devierà, torneràindietro, si preparerà pentimenti e dolori. Perché si vede innanzi(nel grande come nel piccolo) tutto ciò che sta genericamente inpotere dell'uomo, senza sapere, in mezzo a tanta profusione di cose,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquali convengano alla sua propria natura, siano a sua disposizione, epossano procurargli piacere. Invidierà, ad esempio, i suoi simili,per posizioni e relazioni convenienti al carattere loro ma non alsuo, e che a lui riuscirebbero dolorose e insopportabili. Infatti,come il pesce non vive bene che nell'acqua, l'uccello nell'aria, latalpa sotterra, così l'uomo non si trova bene che in un ambienteadatto; non da tutti, ad esempio, è respirabile l'aria delle corti.Piú d'uno, per non essersi ben penetrato di queste verità, si consumain tentativi sgraziati; fa, in mille particolari, violenza al propriocarattere, del quale rimane tuttavia, nell'insieme, fedelissimoschiavo. Dato pure che, a gran pena e contrariando se stesso, gliriesca di conseguire qualcosa, non ne trarrà nessuna gioia; ciò cheimparerà, per lui resterà lettera morta. E, anche sotto il punto divista morale, un'azione che per il carattere d'un uomo sia tropponobile, che provenga, non da un impulso spontaneo, ma da qualcheconcetto o da qualche dogma, non avrà, neanche agli occhi di chi lacompie, alcun merito, perché sarà immediatamente seguita dal rimorsoegoistico. Velle non discitur. In ordine al carattere altrui,soltanto l'esperienza c'insegna quanto sia poco flessibile: per lungotempo crediamo ingenuamente di potere, a forza di saggi consigli, dipreghiere, di suppliche, di esempi, di appelli alla generosità,piegare gli uomini ad abbandonare il modo loro di essere, a cambiarela loro condotta, a modificare i loro sentimenti, e a sviluppare leloro facoltà. Altrettanto si dica della nostra situazione di fronte anoi stessi. Finché l'esperienza non ce l'abbia insegnato, nonsappiamo quel che vogliamo e che possiamo: siamo uomini senzacarattere; il duro cozzo col mondo esterno è il piú delle voltel'unico mezzo capace di ricacciarci nella buona e vera via. Ilcarattere - il carattere acquisito - non si ha che quando si èconsapevoli con chiarezza di ciò che sappiamo e di ciò che possiamo. E'la conoscenza piú perfetta possibile della propria individualità: lanozione astratta e precisa delle qualità immutabili del nostrocarattere empirico, del grado e della direzione delle nostre forzefisiche e spirituali, e però dei lati forti e deboli della nostraindividualità. Quel compito personale, in sé immutabile, che prima sirisolveva senza regola né criterio, siamo capaci, ora (mediante ilcarattere acquisito), di perseguirlo con riflessione, con metodo;riuscendo anche a colmare, con l'aiuto di saldi princìpi, le lacunedovute a capricci e a debolezze. La condotta, già tracciata, dellanatura individuale, si regola ormai su princípi chiari e sempreavvertiti, da noi seguiti con sicurezza, come formule sapute amemoria, senza lasciarci fuorviare dall'influenza passeggeradell'umore o dall'impressione momentanea, senza lasciarci fermaredall'amarezza, dalla dolcezza di qualche oggetto particolare trovatoper via, senza esitazioni, senza incertezze, senza inconseguenze. Nonsiam piú novizi che debbono aspettare, provare, andare tentoni, persapere quel che vogliono e quel che possono; questo sappiamo unavolta per sempre; in presenza di una scelta qualsiasi, non dobbiamoche applicare al caso particolare princípi universali: decidiamo.Conoscendo la nostra volontà nella sua natura universale, non cilasciamo piú indurre, da una disposizione d'umore o da unacircostanza esterna, a un atto di volizione particolare contrarioalla natura medesima. Conoscendo in qualità e in quantità le nostreforze e le nostre debolezze, possiamo risparmiarci un'infinità diguai. Non c'è infatti altra fonte di piacere, che l'uso e ilsentimento delle proprie forze; né peggior dolore, che il sentirsimancare la forza nel momento in cui se ne ha bisogno. Riconosciutoche abbiamo il nostro forte e il nostro debole, potremo coltivare lenostre disposizioni naturali piú salienti, applicarle, trarne ilmassimo vantaggio, e orientarci sempre in quelle direzioni in cuitali doti riescono d'aiuto efficace; scansando, a prezzo delle lottepiú aspre con noi stessi, le imprese a cui la natura non ci chiamò;molto meno poi ci perderemo in tentativi, nei quali ci attenderebbeun sicuro insuccesso. Soltanto chi si sia reso ben capace di taliverità, rimarrà con salda coscienza l'uomo che è; non tradirà mai sestesso, non perdendo mai la chiara visione di ciò che può aspettarsida sé. Un tal uomo gusterà spesso la gioia di provar le sue forze, eben di rado gli toccherà il dolore di sentire le proprie debolezze:

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtuna grande umiliazione, che è forse la sorgente principale dei piúatroci dolori di spirito: chi non sopporta meglio una disgrazia, chela taccia d'inettitudine? Allorché possederemo la perfetta coscienzadelle nostre forze e delle nostre debolezze, non verremo piú dunque afar pompa di facoltà che non abbiamo; né pagheremo la gente con falsamoneta: persuasi che in questo genere di giochi si finisce sempre colperdere. L'uomo non è che il fenomeno della sua volontà; quindi,nulla di piú assurdo che intestarsi di volere essere altro da quelloche si è; si cadrebbe, allora, in una stridente contraddizione dellavolontà con se stessa. Se è vergognoso vestirsi dei panni altrui, benpiú ignominioso è lo scimmiottare le altrui qualità o specialità; è,questa, una chiara autoconfessione del proprio nulla. Conoscere leproprie tendenze e le proprie facoltà, di qualunque natura siano;aver chiara visione dei limiti che non si possono oltrepassare:questa è la via piú sicura per giungere allo stato di massimasoddisfazione di se stessi. Vale infatti rispetto a noi, quelmedesimo che rispetto alle cose di fuori: non c'è consolazione piúefficace, che la piena certezza di una necessità inflessibile. Unmale che c'incolga, è meno tormentoso che il pensiero dellecircostanze in cui avremmo potuto evitarlo; per contribuire allanostra calma, niente val piú, che il considerare gli avvenimentisotto il punto di vista della necessità; ci appaiono allora comestrumenti di un destino supremo, e il male che ci colpisce si riduceall'inevitabile effetto di un conflitto di circostanze interne edesterne; non c'è dunque altra consolazione, che il fatalismo. Gemiamoe gridiamo, finché speriamo di agire in tal modo sugli altri, o dieccitare noi stessi a qualche tentativo estremo. Ma, ragazzi o uominifatti, sappiamo rassegnarci quando si veda chiaramente che le cosestanno come stanno, e non si posson mutare:«§ôumòn enì stéôessi fïlon damäsantes anägkû*»(Animo in pectoribus nostro domito necessitate.)Somigliamo aglielefanti prigionieri: dapprima s'infuriano e fanno l'inferno peralcuni giorni; poi, accortisi che tutto è inutile, si lascian metteretranquillamente il giogo, domati per sempre. Facciamo come il reDavid: finché suo figlio era sempre in vita, non cessavad'importunare Jehovah con le sue preghiere, ed era fuor di sé per ladisperazione: non ci pensò piú dopo che fu morto. Ecco perché tantagente sopporta con indifferenza un'infinità di mali insanabili, comedeformità, miseria, bassezza di condizione, bruttezza, dimoraripugnante, ecc'; non li sente piú, come non sente una feritacicatrizzata, essendo le circostanze interne ed esterne ordinateinvariabilmente; laddove i piú felici non riescono a comprendere lapossibilità di sopportare un simile stato. Il medesimo si dica dellanecessità interiore; il conoscerla con esattezza, è ciò che piú rendefacile adattarvisi. Quando ci siamo resi esattamente edefinitivamente conto delle nostre buone qualità e delle nostreforze, dei nostri errori e delle nostre forze; quando abbiamo datoalla nostra vita un orientamento in armonia con ciò che la coscienzaci rivela, rinunziando all'inconseguibile, siamo, per quanto èpossibile, al sicuro dal piú crudele dei mali: dalla scontentezza dinoi stessi: conseguenza inevitabile dell'ignoranza, della falsaopinione intorno alla propria individualità, e della presunzione chene risulta. Molto a proposito, in questo capitolo amaro in cuiraccomandiamo la coscienza di sé, vengono i versi di Ovidio:«Optimus ille animi vindex, laedentia pectus@ Vincula qui rupit,dedoluitque semel.@»Ma basti oramai quanto si è detto sul carattereacquisito; il quale non ha tanta importanza per l'etica vera epropria, quanto per la vita sociale; abbiamo tuttavia dovutoparlarne, perché ha luogo accanto al carattere intelligibile e alcarattere empirico, come una terza specie coordinata; sui primi dueci fu necessario uno studio ben ampio, altrimenti non si sarebbepotuto comprendere come la volontà si trovi in tutti i suoi fenomenisoggetta alla necessità, benché sia, in se stessa, e libera, eonnipotente.

Par' 56. - La volontà libera e onnipotente, di cui l'universofenomenico è l'estrinsecazione, la manifestazione, l'immagine, che sisviluppano secondo le leggi intrinseche alla forma della conoscenza,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpuò, nel suo fenomeno piú compiuto, nell'essere in cui sorge alla piúperfetta coscienza di sé, assumere una forma nuova di manifestazione,che si realizza in due modi. Sollevatasi al sommo della riflessione edella coscienza di sé, la volontà, o segue a volere (con chiarezza)la stessa cosa che prima voleva con un impulso cieco e incosciente;in tal caso, la conoscenza, sia generale, sia particolare, restasempre un motivo; oppure, viceversa, la conoscenza medesima divieneun quietivo: e allora, ogni volontà s'addormenta e si annulla. Sihanno, cosí, l'affermazione o la negazione della volontà di vivere,di cui già prima si disse in generale. Sotto il punto di vistadell'esistenza dell'individuo, questa nuova manifestazione dellavolontà è di natura, non particolare, ma generale; non turba némodifica lo sviluppo del carattere, né si esprime in atti isolati;anzi, traduce in espressione vivente, mediante la forte accentuazioneo la soppressione completa della precedente condotta, la massima chela volontà, divenuta ormai cosciente, adottò con atto di liberascelta. E' questo il soggetto che dobbiamo illustrare nel presentelibro. Le precedenti considerazioni sulla libertà, sulla necessità esul carattere, per quanto incidentali, ci prepararono e cifacilitarono in qualche modo il compito. Ma la via sarà maggiormenteappianata, se, ritardando ancora la discussione del soggettoprincipale, riprenderemo il nostro studio sulla vita. Perché ilgrande problema è: volere o non voler vivere. Cercheremo perciò distabilire, in modo generale, che cosa, nell'affermarsi, guadagni lavolontà, questa essenza intima della vita universale; in che modo, efino a che segno, l'affermazione la soddisfaccia o possa maisoddisfarla; esamineremo cioè, quale sia la situazione generale edessenziale della volontà in questo mondo che sott'ogni aspetto leappartiene.Domando prima di tutto al lettore di richiamar bene alla memoria lariflessione presentata sulla fine del secondo libro, quando ci siaffacciò il problema del fine della volontà; in luogo di trovare unarisposta positiva, costatammo che la volontà, in ogni grado della suamanifestazione, dal piú basso al piú alto, manca interamente di unfine ultimo; aspira sempre perché la sua essenza si risolve inun'aspirazione che non può cessare per via di nessun conseguimento, eche quindi è incapace di una soddisfazione finale; la volontà, persua natura, si slancia nell'infinito, e soltanto degli ostacolipossono metterle un freno. Tutto ciò venne verificato nel piúsemplice dei suoi fenomeni naturali, nella gravità; sforzo incessanteche tende verso un punto centrale inesteso, a cui non potrebbegiungere senza annientare se stessa e insieme tutta la materia; purevi tende, e vi tenderebbe quand'anche l'universo fosse concentrato eridotto al minimo in una massa unica. E venne ugualmente verificatoin tutti gli altri fenomeni semplici della natura; ogni corpo solidotende, sia per fusione, sia per soluzione, verso lo stato liquido: ilsolo, in cui le sue forze chimiche siano interamente libere; laddoveil freddo le chiude nella solidità, come in un carcere. La materialiquida tende allo stato gassoso, a cui passa non appena libera dallapressione. Corpi senza affinità, senza una tendenza, o, come direbbeJakob Böhme, senza un desiderio, senza una passione, non esistono.L'elettricità propaga fino all'infinito la sua interna scissione,benché l'effetto ne sia neutralizzato dalla massa terrestre. Anche ilgalvanismo, finché la pila è attiva, è un atto, incessantementerinnovato e senza scopo, di scissione e di ricongiungimento. Anche lavita della pianta è uno sforzo senza tregua e non mai appagato, untendere perpetuo attraverso forme sempre piú elevate, fino al puntod'arrivo, al seme, che ridiviene il punto di partenza; e tutto ciò siripete all'infinito, senza uno scopo, senza un appagamento ultimo,senza riposo. E rammentiamo, dal secondo libro, che dappertutto levarie forze naturali e le forme organiche si disputano la materia chetendono a dominare, ciascuna possedendo ciò che tolse all'altra;donde, fra la vita e la morte, una lotta continua, che tende invano asuperare le resistenze opposte allo sforzo costituente l'essenzaintima di ogni cosa; essenza che tuttavia dura, e si tormenta, finchéil suo fenomeno svanisca per fare luogo ad altri che avidamenteafferrino la stessa materia.Già da tempo riconoscemmo che questo sforzo, costituente il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnocciolo e l'in sé di ogni cosa, è tutt'uno con ciò che in noi, dovesi manifesta con la massima chiarezza nella piena luce dellacoscienza, si dice volontà. Il suo impedimento per via di un ostacoloche ne impedisca il fine momentaneo, si dice sofferenza; mentre ilconseguimento del suo fine si dice soddisfazione, benessere,felicità. Queste denominazioni si possono applicare anche aifenomeni, piú deboli di grado ma identici di natura, del mondo privodi cognizione. Anche questi, allora, ci si presentano affetti da unperpetuo soffrire, senza piacere durevole. Perché ogni tendere nasceda una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque,finché non soddisfatto, un soffrire; ma nessuna soddisfazione èdurevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere.Il tendere si vede sempre impedito, sempre in lotta, è dunque sempreun soffrire; non c'è nessun fine ultimo al tendere: dunque, nessunamisura e nessun fine al soffrire.Ma ciò che nella natura incosciente possiamo scoprire soltanto conuna riflessione acuta e faticosa, ci appare chiaramente nella naturaconsapevole, nella vita degli animali, di cui è facile dimostrare ilsoffrire continuo. Ma senza indugiarci su questo gradino intermedio,veniamo alla vita umana, dove tutto appare con la massima chiarezza,nella luce della conoscenza piú distinta. Quanto piú perfetto è ilfenomeno della volontà, tanto piú manifesto è il soffrire. Nellapianta non c'è ancora sensibilità, quindi non dolore; gli animaliinferiori, infusori e raggiati, non hanno di certo che un gradominimo di dolore; la facoltà di sentire e di soffrire è ancoralimitata negl'insetti, cresce col perfezionato sistema nervoso deivertebrati, e sempre piú cresce, quanto piú si sviluppal'intelligenza. Dunque: man mano che la conoscenza diviene piúdistinta, e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, cheraggiunge nell'uomo il grado piú alto, e tanto piú alto, quanto piúl'uomo è intelligente; l'uomo di genio è quello che soffre di piú. Inquesto senso, cioè in ordine alla conoscenza in generale, non alsemplice sapere astratto, intendo e cito il detto dell'Ecclesiaste:«Qui auget scientiam, auget et dolorem». Questa esatta relazione frala coscienza e il dolore, fu ben espressa in modo intuitivo edevidente da un disegno del Tischbein, il pittore filosofo, o meglioil filosofo pittore. La parte superiore del foglio rappresenta delledonne a cui furono rapiti i figliuoli; e che in gruppi ed attitudinidiverse, esprimono variamente il dolore materno profondo, l'angosciae la disperazione; la parte inferiore del foglio rappresenta, insimile aggruppamento, delle pecore a cui furon tolti i loroagnellini; sicché, ad ogni figura e ad ogni attitudine umana dellaparte superiore, corrisponde nell'inferiore una figura eun'attitudine animalesca; si vede chiaro, che relazione vi sia tra ildolore possibile nell'ottusa coscienza del bruto, e lo spasimo atrocereso possibile dalla coscienza chiara e dalla cognizione distinta.Nell'esistenza umana studieremo perciò l'intimo essenziale destinodella volontà. Ciascuno riconoscerà facilmente il medesimo, indiversi gradi e con minore intensità, nella vita del bruto;persuadendosi così, anche nell'animalità sofferente, che ogni vivereè per essenza un soffrire.

Par' 57. - La volontà, in ogni grado in cui è illuminata dallacognizione, appare a sé come un individuo. Nell'infinità dello spazioe del tempo, l'individuo finito si sente come un nulla; il quando eil dove della sua esistenza, nell'infinità del tempo e dello spazionon sono assoluti, ma relativi; lo spazio e il tempo che gliappartengono sono parti finite di un tutto immenso. Non esiste, arigore, che nel presente, il quale fugge senza posa verso il passato;e la fuga è un andare continuo verso la morte, un perpetuo morire.Astrazion fatta dalle conseguenze possibili sul presente, dallatestimonianza che rende sul carattere della volontà di cui èimmagine, la vita passata è un conto già chiuso: è morta eannichilita. Perciò a un uomo di giudizio, deve importar poco se ilsuo passato sia pieno di dolori o di gioie. Il presente gli sfugge adogni momento per cadere nel passato; l'avvenire è incerto e breve inogni caso. La sua vita, quanto alla forma, è un perpetuo morire.Consideriamola ora sotto il punto di vista fisico: nello stesso modo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche il nostro camminare si risolve in una successione di caduteevitate, anche la vita del nostro corpo non è che un'agoniacontinuamente impedita, una morte differita d'istante in istante. Einfine, anche l'attività del nostro spirito non è che uno sforzocostante per cacciare la noia. Ogni nostro atto di respirazione è unallontanare la morte che ci assale; è una battaglia in ogni secondo;a cui se ne aggiungono altre a intervalli piú lunghi, ogni volta checi nutriamo, che dormiamo, che ci riscaldiamo, ecc'. Ma bisognainfine che la morte trionfi, poiché siam divenuti sua preda per ilsolo fatto di esser nati; la morte si permette un momento di giocarecon la sua preda, ma non aspetta che l'ora di divorarla. Rimaniamonondimeno affezionati alla vita, e spendiamo ogni cura perprolungarla quanto possiamo; proprio come chi si sforza di gonfiarequanto piú e quanto piú a lungo è possibile una bolla di sapone, pursapendola destinata a scoppiare.Già nella natura incosciente, costatammo che la sua essenza è unacostante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell'uomo,questa verità si rende manifesta in modo ancor piú eloquente. Voleree aspirare, questa è la loro essenza, una sete inestinguibile. Ognivolere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di undolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Masupponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare unoggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ognimotivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventosodella noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un pesoinsopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra ildolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lostranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell'infernodolori e supplizi, non trovarono che restasse per il cielo, nienteall'infuori della noia.Questo sforzo perenne, costituente l'essenza di ogni fenomeno dellavolontà, riesce finalmente, nei gradi piú alti della suaoggettivazione, a trovare il suo primo e piú generale principio; lavolontà si rivela qui a se stessa, in un corpo vivo che le comandaimperiosamente di nutrirlo; e il comando trae la sua forzaprecisamente da ciò, che il corpo è la volontà di vivere oggettivata.Quindi l'uomo, essendo l'oggettivazione piú perfetta della volontà divivere, è anche il piú bisognoso degli esseri; non è che volontà ebisogno, e lo si potrebbe definire una concrezione di bisogni. Sullaterra, l'uomo si trova dunque abbandonato a se stesso, incerto diogni cosa, fuorché della sua indigenza e della sua angustia; le ansieper la conservazione della vita, in mezzo ad esigenze cosí difficilia soddisfare, e sempre rinascenti, bastano d'ordinario ad occuparetutta la vita. Si aggiunga un altro bisogno: quello di propagare laspecie. Si aggiungano i pericoli di ogni sorta che lo minacciano daogni lato, donde la necessità di star sempre all'erta per non cadernevittima. L'uomo non può avanzare che a passi lenti, con occhioansioso e vigile, perché mille rischi e mille nemici gli tendonoagguato. Cosí procedeva allo stato selvaggio, cosí procede in pienaciviltà: per lui non c'è nessuna sicurezza.«Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis@ Degitur hoc aevi,quodcumque est.@»(Lucr', Ii, 15)Per i piú, la vita non è che una lotta continuaper l'esistenza, con la certezza di una disfatta finale. E ciò che dàloro tanta forza di persistere in questo disastroso conflitto, non ètanto l'amor della vita, quanto la paura della morte, che tuttaviasta là, nel fondo, pronta sempre ad affacciarsi. La vita è un mareseminato di scogli e di gorghi, che l'uomo riesce, con cura e conprudenza estreme, ad evitare; sapendo però che se anche gli vienfatto, con la sua forza e con la sua destrezza, di cavarsela, non fache avvicinarsi man mano al grande, al totale, all'inevitabile,all'irreparabile naufragio; sapendo che il suo è un veleggiare versoil naufragio, verso la morte; ultimo termine del penoso viaggio, metaspaventosa piú degli scogli evitati.E' poi anche da notare: per un verso, che i dolori e le torturedella vita posson facilmente arrivare a una tale intensità, che lamorte stessa ci divenga desiderabile: sicché, quantunque la nostraesistenza consista nel fuggirla, pure le si corra incontro

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvolentieri; per un altro verso, che, non appena il bisogno e lasofferenza ci diano un momento di respiro, ci piomba subito addossola noia, sicché siamo costretti a cercare qualche passatempo. Ciò chetien desti e in moto i viventi, è il desiderio di vivere. Orbene:assicurata che abbiano la vita, non sanno piú che farsene:sopravviene allora un altro stimolo: il desiderio di liberarsi dalpeso dell'esistenza, di renderlo insensibile, di «ammazzare iltempo»; in altre parole, di sfuggire alla noia. Cosí, la piú granparte di quelli che sono al riparo da ogni bisogno e da ognipreoccupazione, una volta riusciti a liberarsi di ogni altro peso,finiscono per diventar di peso a se stessi, e per ritenere come tantodi guadagnato, ogni ora che riescono a passare, ogni particella cheriescono a sottrarre a quella vita, per il cui massimo prolungamentoavevano prima impegnate tutte le loro forze. La noia non è, delresto, il meno disprezzabile dei mali; finisce per imprimere nel visouna stimmata di vera disperazione. La noia è appunto la causa per cuiesseri che si amano cosí poco fra loro, e cioè gli uomini, pure sicercano a vicenda con tanta premura; è, dunque, la radice dellasocievolezza. E contro la noia, la saggezza politica prende, comecontro le calamità comuni, dei provvedimenti pubblici. A ragione;perché la noia, e il suo estremo opposto che è la fame, può spingeregli uomini ai piú furiosi eccessi; panem et circenses è ciò di cui ilpopolo ha bisogno. Il rigido sistema penitenziario di Filadelfia, cheimpone l'isolamento e l'inazione, fece della noia un mezzo dipunizione: l'effetto fu cosí terribile, da spingere al suicidio idetenuti. Se il bisogno è il flagello del popolo, la noia è ilsupplizio delle classi superiori. Nella borghesia, la noia èrappresentata dalla domenica, il bisogno dagli altri sei giorni dellasettimana.Tutta la vita umana scorre tra il desiderio e la soddisfazione. Ildesiderio è per sua natura dolore: la soddisfazione si traduce prestoin sazietà. Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisceogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova, e con esso, ilbisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemiciancor piú terribili del bisogno. Quando il desiderio e lasoddisfazione si seguono a intervalli non troppo lunghi né troppobrevi, la sofferenza che deriva da entrambi è ridotta al suo minimum,e si ha la vita piú felice. I momenti piú belli e le gioie piú puredella vita, che, strappandoci all'esistenza reale, ci sollevano aspettatori disinteressati del mondo (accenniamo alla conoscenza puraed esente da ogni volere, al godimento del bello, alla gioia puradell'arte), richiedono disposizioni naturali estremamente rare; benpochi sono i privilegiati che possono goderne. Anzi: neppure a questinon arridono se non come sogni fugaci; senza contare che gli spiritisuperiori gustano queste gioie in virtù di un'intelligenza superiore,che li rende accessibili a dolori sconosciuti al grosso pubblico, ene fa tanti solitari in mezzo a una turba di viventi cosí dissimilida loro; il che ristabilisce l'equilibrio. Ai piú, le gioie puramenteintellettuali non sono accessibili; la gioia che scaturisce dallaconoscenza pura non è pane per i loro denti. Ridotti a puro esemplice volere, nessun oggetto è capace di attrarre la loroattenzione, di suscitare in loro qualche interesse, quando non ecciticomunque la loro volontà, con la quale abbia una relazione sia purlontana e accidentale; in ogni modo, bisogna che la volontà entrisempre in giuoco, perché la loro esistenza si risolve piú in atti divolontà che in atti di conoscenza; azione e reazione, sono i lorosoli costitutivi. Un tale stato di spirito si può riconoscereingenuamente manifesto in molti fatti ordinari e insignificanti dellavita quotidiana: gli uomini di cui parliamo scriveranno, ad esempio,il loro nome in luoghi molto visitati: è un modo con cui reagisconosu di una località dalla quale non ricevettero la convenienteimpressione. Oppure, vedendo un animale esotico o raro, non saprannolimitarsi a guardarlo, ma bisognerà che lo stuzzichino, che ci sibalocchino; e ciò, per sentire un'azione cui reagire. Niente rivelameglio un tale bisogno di eccitazione della volontà, quantol'invenzione e la fortuna del giuoco delle carte: niente mette piú anudo il lato miserabile dell'umanità.Ma nonostante quel che la natura e la fortuna abbiano potuto fare

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtper l'uomo, chiunque sia e qualunque cosa possieda, il dolore,essenza stessa della vita, non si potrà mai estirpare.«§pûleïdûs d' j*mwxen, idqn eis ouranòn eurün.»(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum.)E ancora:«§zûnòs mcn päis êa §kronïonos, autàr oizùn@ §eîçon apeiresïûn.@»(Jovis quidem filius eram Saturnii, verum aerumnam@ habebaminfinitam.@)Gli sforzi incessanti dell'uomo per bandire il dolore non riesconoche a mutargli faccia. Il dolore si fa sentir dapprima comeprivazione, bisogno, ansia per la conservazione della vita. Se, cosadifficilissima, riusciamo a scacciarlo sotto questa forma, ricomparesubito sotto mille altre, cambiando con l'età e con le circostanze:desiderio carnale, amor passionale, gelosia, invidia, odio,inquietudine, ambizione, avarizia, malattia, ecc' ecc'. Suppostaesclusa ogni altra forma, prenderà quelle tristi e lugubri deldisgusto e della noia, contro cui si escogitarono tutti i mezzipossibili di difesa. Che se la buona fortuna ci permette discongiurare anche la noia sarà ben difficile che il dolore non siripresenti sotto una delle altre forme perché, ripetiamo, la vitaumana è un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia. Il quadro èsconfortante; ma voglio richiamare l'attenzione su di un suo lato chepotrà esserci fonte di consolazione, ispirandoci forse una stoicaindifferenza verso tutti i nostri dolori. L'insofferenza dipende inmassima parte dalla persuasione che i malanni siano accidentali, eprodotti da una catena di cause che avrebbe potuto essere diversa. Dimali assolutamente inevitabili ed universali, come ad esempio lanecessità della vecchiaia, della morte, o altre piccole miseried'ogni giorno, non siamo soliti affliggerci. La sofferenza è resapungente dal pensiero che le sue circostanze determinanti sianoaccidentali. Ma quando si sia riconosciuto che il dolore è come taleessenziale alla vita ed inevitabile; che dal caso dipende unicamentela figura, la forma sotto cui ci si presenta; che dunque il nostrodolore dell'hic et nunc riempie un posto della nostra vita, che insua assenza sarebbe senza dubbio invaso da un altro dolore, oraescluso da quello; che infine il destino, quanto al fondo essenziale,ha su noi ben poca presa; allora questa riflessione, se siconvertisse in persuasione viva e vera, c'ispirerebbe un tanto diserenità stoica, e attenuerebbe di molto le cure ansiose con cuipensiamo al nostro benessere. In fatto, per dominare fino a tal segnoi dolori che attualmente ci premono, si richiede una potenza diragione che s'incontra soltanto di rado, e, per meglio dire, non mai.Del resto: le considerazioni accennate sul fatto che il dolore èinevitabile, che una sofferenza ne scaccia sempre un'altra, che lafine di ogni tormento è il principio di un tormento nuovo, potrebberosuggerirci l'ipotesi, paradossale ma non assurda, che ciascunindividuo possieda una misura di sofferenza essenziale al suo essere,fissata una volta per sempre dalla sua natura; misura che nonpotrebbe né restar vuota né traboccare per eccesso, per quanto mutila forma della sofferenza. I mali e i beni di ciascuno sarebberodunque determinati, non da fattori ab extra, ma precisamente dalladetta misura, da una predisposizione. Senza dubbio, di tempo intempo, e secondo le condizioni della salute, la misura potrebbeessere oltrepassata o mal riempita; ma, in complesso, resterebbesempre la stessa: e ciascuna costituirebbe il cosí dettotemperamento, il grado in cui l'uomo è eükolos o düskolos (di umorefacile o difficile), come dice Platone nel primo libro dellaRepubblica. In favore di tale ipotesi, non parla soltanto il fatto atutti noto che i grandi dolori ci rendono insensibili ai piccoli, e,viceversa, in assenza di gravi angosce, le piú minuscole contrarietàci tormentano e c'indispongono. C'è anche un'altra esperienza: quandoci piomba sopra una grave sciagura, il cui solo pensiero mettevaraccapriccio, il nostro umore, superato lo strazio del primo momento,resta su per giú il medesimo di prima: viceversa, quando unafelicità, oggetto di lunghi desideri, viene infine ad arriderci, noi,alla lunga e in complesso, non ci sentiamo né molto meglio né piúsoddisfatti. Soltanto nel punto in cui si producono, questicambiamenti ci colpiscono con una commozione straordinaria, sia diprofondo strazio o di vivo giubilo; ma la commozione svanisce presto,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtperché non era che l'effetto d'un'illusione. Infatti: ciò che lasuscita, non è la gioia o il dolore presente, ma la prospettiva di undiverso avvenire, che anticipiamo col pensiero. E ciò che allacommozione permette di assumere proporzioni anormali, non dipende cheda quanto la gioia o il dolore prendono a prestito dall'avvenire:donde la ragione della sua poca durata. In conferma della nostraipotesi, per la quale anche il sentimento di sofferenza e dibenessere sarebbe in gran parte, al pari della conoscenza,determinato soggettivamente a priori, si noti che nell'uomo lagaiezza e la tristezza non sono determinate da circostanze esteriori,non dalla ricchezza, né dallo stato sociale: incontriamo, infatti,almeno tanti visi gai fra i poveri, quanti fra i ricchi. Osserviamoanche i suicidi: quanto ne sono diversi i motivi! Non c'è una solasciagura, per quanto grave, di cui si possa dire con verosimiglianzache sia una ragione sufficiente di suicidio per tutti gli uomini, diqualsiasi carattere; viceversa, ben pochi sono i casi di tanto minimaimportanza, dei quali sia certo che non abbiano provocato alcunsuicidio. La causa perché la nostra gaiezza o tristezza non è sempreeguale, non va dunque (secondo noi) cercata nel cambiamento dellecondizioni esteriori, ma in quello dello stato interiore, delledisposizioni fisiche. I nostri accessi di buon umore fuordell'ordinario, che possono, per breve tempo, costituire uno stato divera e propria letizia, si producono di solito senza un motivoesteriore. Spesso riconosciamo bensí che il nostro dolore è provocatoda relazioni esterne, che sono evidentemente la sola causa che ciopprime e ci turba; crediamo allora che, soppressa quella causa, neseguirebbe per noi il massimo della gioia. Vana illusione! La misuradel nostro dolore e della nostra gioia è, nella nostra ipotesi,determinata in ogni istante da cause soggettive; il motivo esterioreha, in proposito, la stessa funzione che ha sul corpo unvessicatorio: attira gli umori maligni, che altrimenti rimarrebberoper esso dispersi. Senza quella determinata causa esteriore, ildolore essenziale alla nostra natura, e quindi inevitabile,resterebbe sparpagliato in mille punti, e si manifesterebbe sottoforma di mille piccoli disgusti e fastidi a proposito di cose a cuiora non prestiamo attenzione, essendo la nostra capacità di soffrirecolmata dal male che riconcentrò in un sol punto i dolori primadispersi. Del pari: quando un felice successo ci libera da unainquietudine grave e tormentosa, vien subito a sostituirla un'altrainquietudine, la cui materia esisteva già, ma non potevaimpressionare né contristare la coscienza, incapace di riceverla: ildetto motivo di affanno restava inosservato, in una forma nebulosa edoscura, al limite estremo dell'orizzonte della coscienza. Ma ora chegli si è fatto posto, subito invade l'animo nostro, ed occupa iltrono dell'inquietudine dominante (proutaneüousa) del giorno; esebbene sia di materia ben piú leggera che non l'affanno scomparso,tuttavia sa gonfiarsi a segno da eguagliarlo in grandezza apparente,troneggiando maestoso come inquietudine principale del giorno.Gioie eccessive e dolori violenti si incontrano sempre in unastessa persona: questi due estremi si condizionano a vicenda, edhanno a condizione comune una grande vivacità di spirito. Tanto l'unoche l'altro, come abbiamo già visto, hanno il loro principio, nontanto sul semplice presente, quanto in un'anticipazionesull'avvenire. Ora, siccome il dolore è essenziale alla vita, esiccome anche il suo grado è fissato dalla natura del soggetto, èchiaro che le variazioni subitanee, essendo sempre di naturaestrinseca, non possono modificarne le proporzioni; risulta da ciòche l'eccessiva gioia e l'eccessivo dolore riposano sempre su qualcheerrore o su qualche illusione, e che l'intelligenza deve saperevitare questa sovreccitazione del sentimento, sia in un senso chenell'altro. Ogni gioia smisurata (exultatio, insolens laetitia)nasce sempre da un'illusione che ci fa credere di aver trovato nellavita cosa che non è possibile trovarci: la soddisfazione duratura deidesideri che ci tormentano e che rinascono sempre di nuovo, ilrimedio di ogni affanno. Ora, ogni illusione di questo genere dovràpiú tardi infallibilmente svanire; e allora ci sarà fonte di doloreamarissimo, e molto piú intenso che non la nostra primitiva gioia.Sotto un tale aspetto, la gioia è simile a una vetta scoscesa da cui

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnon si può discendere che a precipizio; evitiamola dunque; ognidolore subitaneo e smisurato non è che una caduta di questo genere,un dileguare di simile illusione. Ora, chi vuole evitare ambedue glieccessi, deve proporsi di aver sempre una esatta e lucida visionedelle cose e delle loro connessioni, e ben guardarsi dall'attribuirloro dei colori che non esistono se non nella sua fantasia. La moralestoica tendeva principalmente ad affrancare lo spirito dalla dettaillusione e dalle sue conseguenze, a instillargli un'imperturbabileindifferenza. Identico sentimento animava Orazio nell'ode famosa:«Aequam memento rebus in arduis@ Servare mentem, non secus inbonis@ Ab insolenti temperatam@ Laetitia.@»Ma il piú delle volte, noi vogliamo chiudere gli occhi alla tristeverità che il dolore è essenziale alla vita, e che quindi non ciassale dal di fuori, ma che ciascuno di noi ne porta in sél'inessiccabile sorgente. Ad ogni pena che ci affligga, cerchiamsempre una causa esterna; per cosí dire, un pretesto; come l'uomolibero, che si fabbrica un idolo per non restare senza un padrone.Con lena infaticabile, noi voliamo di desiderio in desiderio; esebbene nessuna realizzazione, nonostante le sue promesse, riesca asoddisfarci, anzi, venga il piú delle volte riconosciuta come unerrore vergognoso, non vogliamo tuttavia comprendere che ripetiamo ilgiuoco delle Danaidi; ma persistiamo nell'andare a caccia di nuovidesideri.«Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videtur@ Caetera; postaliud, quum contigit illud, avemus;@ Et sitis aequa tenet vitaisemper hiantes.@»(Lucr', Iii, 1095)E così all'infinito; o per lo meno (cosa piúrara, e che suppone già una certa forza di carattere) fino al momentoin cui ci troviamo in faccia di un desiderio che non possiamo nésoddisfare né abbandonare. Allora possediamo in un certo modo quelloche cercavamo: un oggetto su cui si possa rovesciare, invece che sunoi stessi, la colpa d'esser causa dei nostri dolori. Allorac'irritiamo contro il destino, ma ci sentiamo riconciliati con noi;piú lontani che mai dal credere che l'esistenza sia essenzialmentedolore, e che una vera soddisfazione sia impossibile. L'esposta seriedi riflessioni genera un umore leggermente melanconico; l'uomo,nutrendo in sé un unico e grande dolore, disprezza le piccole pene ele piccole gioie; attitudine piú nobile che non sia l'occupazioneabituale dei piú: la caccia perpetua a fantasmi sempre mutevoli.

Par' 58. - La soddisfazione, o, come si dice ordinariamente, lafelicità, è per natura essenzialmente negativa, senza nulla dipositivo. La felicità non è mai originaria, né ci vienespontaneamente; ma si deve sempre alla soddisfazione di un desiderio.Il desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari diogni gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindianche la gioia. Dunque, la soddisfazione, la felicità, si riducono infondo alla liberazione da un dolore e da un bisogno. (Intendendosotto questo nome non soltanto le sofferenze reali o sensibili maogni specie di desiderio che turbi la nostra quiete, e la stessa noiamortale che rende la vita un peso.) Conquistare un bene qualsiasi èben difficile; ad ogni progetto si oppongono difficoltà senza numero;gli ostacoli si centuplicano ad ogni passo. E quando infine, superatigli inciampi, siamo giunti al fine desiderato, che guadagno abbiamfatto? Nessuno: siam riusciti semplicemente a liberarci da un dolore,da un desiderio; ci ritroviamo, insomma, nello stato di prima. Ildato primitivo è il bisogno, cioè il dolore. Della soddisfazione,della gioia, non abbiamo che una conoscenza indiretta, che si deve alricordo delle antecedenti sofferenze, delle privazioni da cui fummoliberati. Perciò, dei beni e dei vantaggi attualmente posseduti, nonsappiamo né renderci un conto preciso né fare un'esatta valutazione;le cose, ci sembra, non potrebbero andare diversamente; infatti, lafelicità che quei beni ci danno, è negativa: ci tien lontani daldolore. Non possiamo sentir il valore dei beni, che dopo di averliperduti; la mancanza, la privazione, la sofferenza, sono i solielementi positivi che si facciano sentire direttamente. Questa èanche la ragione che ci rende così dolce il ricordo di mali superati,ad esempio, angustie, malattie, povertà, ecc'; non abbiamo infatti

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtaltro mezzo per gustare i beni presenti. E non si può negare che inquesto senso, cioè sotto il punto di vista egoistico (l'egoismo è delresto la forma stessa della volontà di vivere), la vista e ladescrizione delle sofferenze altrui è una fonte analoga disoddisfazioni e di piaceri; lo dice francamente in bei versi ancheLucrezio, al principio del secondo libro:«Suave, mari magno, turbantibus aequora ventis,@ E terra magnumalterius spectare laborem:@ Non, quia vexari quemquam est jucundavoluptas,@ Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suaveest.@»Tuttavia, come vedremo piú tardi, questa specie di gioia,questo modo di rendersi consci del proprio benessere, son prossimialla sorgente da cui scaturisce la malvagità vera e positiva.La felicità essendo negativa, senza niente di positivo, lasoddisfazione, l'appagamento, non possono durare a lungo: non fannoche liberarci da un dolore o da una privazione, a cui seguiranno dicerto un'altra nuova sofferenza, o il languor o un'aspirazione senzaoggetto, o la noia. Di che s'ha una conferma nell'arte, fedelespecchio dell'essenza del mondo e della vita: e specialmente nellapoesia. Un poema epico o drammatico non può avere che un soggetto:sforzi e conflitti per conseguire la felicità; non mai una felicitàperfetta e durevole. Conduce alla mèta gli eroi, attraverso a milledifficoltà e mille pericoli; e, appena raggiuntala, fa calare ilsipario. Non rimane piú altro, infatti, che dimostrare come losplendido fine in cui l'eroe sognava di ottenere la felicità, nonfosse che un inganno; come il conseguimento non abbia reso l'eroe piúfelice di prima. La felicità vera e duratura, essendo irrealizzabile,non può nemmeno costituire l'oggetto dell'arte. E' noto che l'idilliosi propone la pittura di un tale stato; ed è facile vedere chel'idillio come tale è, dell'arte, una forma insostenibile. Neltrattarlo, il poeta finisce sempre col dargli, o un carattere epico:e allora (è il caso piú comune) si ha un'epopea insignificante, fattadi piccoli dolori, di piccole gioie, di ambizioni minuscole; o coltrasformarlo in semplice poesia descrittiva, in una pittura dellabellezza naturale: allora l'idillio si riduce a quella conoscenzapura ed esente da volere, in cui sta l'unica felicità vera, nonpreceduta da privazioni o da sofferenze, né inesorabilmente seguítadal rimpianto, dal dolore, dal vuoto e dalla noia; ma una talefelicità può riempire soltanto pochi momenti passeggeri; non maitutta la vita. Lo stesso che nella poesia riconosciamo nella musica:la melodia racconta la storia intima della volontà divenuta coscientedi se stessa, la vita intima, le aspirazioni, le tristezze, le gioie,il flusso e il riflusso del cuore umano. La melodia è una deviazioneche si distacca dal tono fondamentale, e, attraverso mille fantasticisentieri, mette capo a una dissonanza dolorosa, per trovare infine latonica, esprimente la soddisfazione e l'acquietamento della volontà;ma qui, punto e basta: voler sostenere la nota fondamentale troppo alungo, sarebbe una monotonia opprimente e insignificante: si avrebbeallora la melodia della noia.Ciò che le presenti considerazioni dovevano chiarire: e cioè,l'impossibilità di una soddisfazione duratura, il carattere negativodella felicità, ha una spiegazione in quanto si disse alla fine delsecondo libro: la volontà, di cui la vita umana e ogni altro fenomenoè l'oggettivazione, si riduce a una tendenza senza scopo e senzatermine. Questa impronta di infinità si riscontra in tutti glielementi parziali del suo fenomeno totale; a cominciare dalle formepiú generali della realtà sensibile, spazio e tempo senza limiti,fino alla piú perfetta delle sue manifestazioni, la vita el'aspirazione umana. Si possono, in teoria, concepire tre formeestreme della vita umana, e considerarle come elementi della vitareale dell'uomo. In primo luogo una volontà potente, una vita pienadi grandi passioni (RajoGuna). E' quella che si manifesta nei grandicaratteri storici, e costituisce il soggetto dell'epopea e deldramma, ma è peraltro riscontrabile anche in sfere piú limitate,perché la grandezza degli oggetti è misurata qui unicamente dallaloro azione sulla volontà, e non dalle relazioni esterne. In secondoluogo la conoscenza pura, la concezione delle idee, privilegio diun'intelligenza redenta dal servizio della volontà; è la vitadell'uomo di genio (SattvaGuna). Ed infine il letargo piú profondo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdella volontà e dell'intelligenza collegatavi, l'aspirazione vuota,la noia che assidera l'esistenza (TamoGuna). La vita dell'individuo,non che si mantenga in uno di questi estremi, appena li toccararamente: il piú delle volte non fa che avvicinarsi con lentezzaverso l'uno o verso l'altro; volere meschino di oggetti piú meschini,diretto soltanto a sfuggire la noia. Non si crederebbe quanto siafutile e insignificante per lo spettatore esterno, quanto stupida eirriflessa per chi la vive ab intra, la vita della piú gran partedegli uomini; un'aspirazione vaga, una serie di tormenti sordi, unbarcollar da trasognati attraverso le quattro età sino alla morte, incompagnia di una folla di pensieri triviali. Gli uomini in effettinon sono nient'altro che orologi! Caricati che siano, camminano senzasapere il perché; ogni atto di concepimento e di generazionerappresenta l'orologio della vita umana che si ricarica di nuovo perriprendere ancora una volta, frase per frase, misura per misura, convariazioni insignificanti, il suo ritornello, ripetuto già un numeroinfinito di volte. Un individuo, una figura umana, una vita umana,sono un breve sogno dello spirito infinito che anima la natura, edell'eterna volontà di vivere; un'immagine fuggitiva di piú chequesta disegna, scherzando, sul suo foglio senza limiti, lo spazio eil tempo, e che subito dopo cancella per fare posto ad altre immaginisuccessive. Tuttavia, e questo è il lato grave della vita, ciascunadi queste immagini fuggenti, ciascuno di questi insulsi capricci, lavolontà di vivere, nella pienezza della sua violenza, deve scontarlicon dolori senza numero e senza misura, e infine con l'amarezza diuna morte lungo tempo temuta, e inevitabile. Ecco perché la vista diun cadavere ci rende subito seri.La vita di ciascuno di noi, considerata nell'insieme, nellageneralità e nei tratti piú salienti, è una vera e propria tragedia;ma, esaminata nei particolari, assume il carattere di una commedia.Le occupazioni e le cure del giorno, i casi del momento, i desideri ei timori della settimana, gli incidenti di ogni ora, i malanni dovutialla sorte sempre in agguato per burlarsi di noi, costituisconoinnegabilmente altrettante scene comiche. Ma i desideri non esauditi,gli sforzi frustrati, le speranze calpestate dall'empio destino, glierrori fatali di tutta la vita, le pene sempre crescenti, e in ultimola morte, ci danno la trama di una tragedia. Si direbbe che ildestino abbia voluto inacerbire con lo scherno le torture dellanostra esistenza: infatti, mentre tessé la vita con i dolori dellatragedia, ci volle fin anche negare la dignità del personaggiotragico, condannandoci, nei particolari della vita ordinaria, allaparte di buffoni cenciosi.Ma i tormenti piccoli e grandi, benché riempiano la vita umana e lamantengano in continua inquietudine, in agitazione senza tregua, nonriescono peraltro a dissimularne l'insufficienza, né a calmare lavita di un'anima; non colmano il vuoto dell'esistenza, né sopprimonola noia, pronta sempre ad invadere gli istanti di tregua dalleinquietudini. Perciò lo spirito umano, quasi non gli bastino itormenti, gli affanni e le occupazioni impostegli dal mondo reale, sicrea, con mille superstizioni diverse, un mondo immaginario, e vi sidà interamente, e vi consacra tutto il suo tempo e tutte le sueforze, non appena la realtà gli concede un riposo che non è atto agustare. Tale è, d'ordinario, il caso di quei popoli a cui laclemenza del clima e del suolo sorrise una facile vita, degliindiani, dei greci, dei romani, e poi degli italiani, degli spagnoli,ecc'. L'uomo si crea, a sua immagine e somiglianza, dei demoni, deglidèi e dei santi, ai quali deve poi offrire, con costante premura,sacrifici, preghiere, splendore di templi, voti e scioglimenti divoti, pellegrinaggi, saluti, ornamenti di immagini, ecc'. Il loroculto s'intreccia dappertutto alla vita reale; anzi, finisce peroscurarla; ogni avvenimento diviene un effetto dell'azione di questiesseri; il commercio con i quali riempie la metà della vita, alimentala speranza, e, col fascino delle illusioni, si rende spesso piúinteressante che non il commercio con gli esseri reali. Tutto ciò èl'effetto e il sintomo di un duplice bisogno dell'uomo: quello diaiuto e di assistenza, e quello di occupazione e di distrazione:frequentemente, senza dubbio, il risultato è opposto al primo dei duebisogni, perché, in caso di calamità e di pericoli, fa sciupare tempo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txte forze preziose in preghiere e sacrifizi, piuttosto che spingerci adutilizzare quello e queste nella rimozione del male; ma soddisfatanto meglio l'altro bisogno, in virtú di quel commercio fantasticocon un mondo di sogni e di spiriti: benefizio tutt'altro chedisprezzabile che si trae dalle superstizioni.

Par' 59. - Ora che, grazie alle nostre considerazioni di ordine piúgenerale, grazie al nostro studio dei caratteri primi ed elementaridella vita umana, siamo riusciti a persuaderci in qualche modo apriori che la vita è per natura incapace di vera felicità, ed èinvece essenzialmente una sofferenza sotto mille forme, uno statoradicalmente infelice; potremmo piú vivamente illuminare questa idea,se, procedendo a posteriori e discendendo ai particolari,presentassimo all'immaginazione i quadri e gli esempi delle miseriesenza nome che ci offrono e l'esperienza e la storia, in qualunquepunto si volga lo sguardo e si dirigano le investigazioni. Ma ilcapitolo andrebbe all'infinito, e ci costringerebbe ad abbandonare ilpunto di vista dell'universalità proprio del filosofo. Inoltre, unasimile descrizione potrebbe facilmente passare per una semplicedeclamazione sulle miserie umane, fatta sul tipo delle solite; né,dato il suo procedere per fatti singolari, potrebbe sfuggireall'accusa di parzialità. La dimostrazione a priori, rigida,filosofica, e basata su ragioni di ordine universale, con cui si misein luce l'inevitabile ed essenziale correlazione fra il dolore e lavita, sfugge invece ad ogni accusa e ad ogni sospetto di tal genere.Del resto, per chi desidera una conferma a posteriori, nulla di piúfacile. Chi si riebbe dai sogni della prima giovinezza, chi tienconto dell'esperienza propria ed altrui, e imparò a conoscersi nellavita, nella storia presente e passata, e nella lettura dei grandipoeti, a meno che un pregiudizio inestirpabile non gli tolga deltutto l'equa serenità dello spirito, riconoscerà senz'altro: che ilmondo umano è il regno del caso e dell'errore, spadroneggianti senzapietà nelle grandi e nelle piccole cose: e che inoltre, insieme, lastoltezza e la malvagità procedono menando la frusta. Sotto un taleregime, s'intende, ogni cosa buona stenterà a venire in luce, egrande ventura sarà, se ciò che è nobile e saggio riuscirà a farsistrada, a trovar credito ed efficacia, mentre l'assurdo e il falsonel campo del pensiero, il triviale e il disgustoso nel dominiodell'arte, il malvagio e il fraudolento nel regno dell'azione,conserveranno, fuor di qualche breve intervallo, una assolutasupremazia. In qualsiasi ordine di cose, il perfetto è un'eccezione,un caso fra milioni di casi che, se talvolta riesce a rivelarsi inqualche opera duratura, questa, dopo essere sopravvissuta al rancoredei contemporanei, rimane del tutto isolata, e la si conserva come siconserva una meteorite piovuta da un mondo senza relazione con ilnostro. E quanto alla vita dell'individuo, ogni biografia è unastoria di dolore: ogni esistenza è di regola una via crucis di grandie di piccole sciagure, sebbene poi ciascuno s'ingegni di nasconderle,sapendo bene che raramente troverebbe in altri o pietà o simpatia, maquasi sempre qualche dose di soddisfazione; l'abbiamo già visto:ciascuno prova un sentimento di voluttà nel racconto di sventure dacui è momentaneamente libero; ma non si troverà forse mai un uomoassennato e sincero, il quale, giunto al fine della sua esistenza, siauguri di tornar da capo, e a tale prospettiva non preferisca di granlunga il piú assoluto non essere. Qual è, in fondo, il contenutoessenziale del celebre monologo dell'Amleto? Il nostro stato è cosìmisero, che l'assoluto non essere sarebbe senz'alcun dubbiopreferibile. Se il suicidio ci assicurasse il nulla, se l'alternativa«essere o non essere» fosse un dilemma assoluto, ci appiglieremmosenza esitazione al partito dell'autoannullamento; che cischiuderebbe una fine delle piú desiderabili (a consummation devoutlyto be wish'd). Ma qualcosa in noi ci dice che non è così: che nontutto finisce col suicidio, che la morte non è assoluto annullamento.E' l'idea già espressa dal padre della storia, (10) quando affermava,con parole da nessuno ancora smentite, non esserci mai stato al mondouomo che non si sia piú volte augurato di non sopravviverel'indomani. Sicché la brevità dell'esistenza, di cui ci lamentiamotanto, sarebbe forse appunto ciò che la vita ha di meglio. Se si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmettessero sotto gli occhi di ciascuno di noi le sofferenze e letorture atroci a cui ci si trova costantemente esposti, tremeremmo diterrore e di raccapriccio. Prendiamo il piú ostinato degli ottimisti,facciamogli fare un pellegrinaggio attraverso gli ospedali, ilazzaretti e gli ambulatori chirurgici: attraverso le prigioni, lecamere di tortura, e gli ergastoli; sui campi di battaglia, e suiluoghi di supplizio; schiudiamogli i tetri tuguri ove la miseria sinasconde agli sguardi dei curiosi indifferenti: facciamolo entrarenella prigione del conte Ugolino, nella torre della fame; eglifinirà, senza dubbio per comprendere di che razza sia questo meilleurdes mondes possibles. Del resto, da dove prese Dante la materia delsuo Inferno, se non da questo mondo reale? Tuttavia ne fece uninferno in piena regola. Ma quando si trattò di dipingere il cielo ele sue gioie, allora... allora si trovò a lottare con difficoltàinsuperabili, perché il nostro mondo non gli forniva punto materialiadatti. Non potendoci descrivere le gioie del Paradiso, non fece cheriferirci le notizie avutene dagli avi, da Beatrice, e dai varisanti; non gli rimaneva un partito migliore. Il che mostrachiaramente di quale natura sia il nostro mondo. Senza dubbio, lavita umana è simile alle stoffe di cattiva qualità: sul diritto,l'orpello del falso splendore; nel di dentro ogni forma di difetti;ciascuno si sforza di mettere in mostra quel che ha di appariscente;quanto piú è lontano dalla vera felicità interiore, tanto piúdesidera di passar come beato nell'opinione altrui; tale e tanta è lafollia degli uomini, da fare dell'opinione altrui lo scopo principaledella loro esistenza, sebbene la nullità di siffatto scopo risultievidentissima: basti pensare che, in quasi tutte le lingue, la parolacon che si esprime il concetto di vanità (vanitas) ha sempre il sensooriginario di vuotezza e di nullità. Nonostante però il falsosplendore, i tormenti della vita possono facilmente assumereproporzioni tali, da farci augurare con passione quella morte che cisuole incutere un orrore spaventoso: e questa è storia d'ogni giorno.Ma c'è di peggio: la sorte, quando vuole spiegare tutta la suaperfidia, chiude all'infelice anche la porta di questo rifugio e loabbandona, fra le mani di furiosi nemici, in preda ai piú crudeli elenti martirii. E allora il povero suppliziato ha un bell'invocaregli dèi a soccorso! Rimane solo con il suo destino, che non sentepietà. E questa impossibilità di salvezza è lo specchiodell'indomabilità del volere, di cui la nostra persona èl'oggettivazione. Se non c'è potenza esteriore capace di modificarela volontà o di sopprimerla, tanto meno ci sarà una forza estraneache possa liberarla dai suoi tormenti: la sorgente dei quali è nellavita, manifestazione di essa volontà. Su questo punto capitale, comesu tutto il resto, l'uomo è ricondotto sempre a fare assegnamentosulle proprie forze. Invano si fabbrica degli dèi, per mendicarne consupplichevoli adulazioni dei beni che può ottenere soltantodall'energia della propria volontà. L'Antico Testamento aveva fattodel mondo e dell'uomo un'opera di Dio: ma il Nuovo Testamento, perinsegnare che la salvezza e la redenzione del mondo dal male in cui èsommerso non può venire se non dal mondo medesimo, si vide costrettoa fare di Dio un uomo. La volontà dell'uomo è per lui, e resteràsempre, ciò da cui tutto dipende. Se i sannyasi, i martiri, i santidi ogni fede e di ogni nome, sopportarono spontaneamente e di buoncuore ogni sorta di supplizi, lo fecero per la semplice ragione chein loro la volontà di vivere era già soppressa; il che doveva farsembrare benvenuta anche la distruzione lenta del suo fenomeno. Manon voglio anticipare l'oggetto delle ulteriori considerazioni.Aggiungerò che l'ottimismo, quando non sia chiacchiera vuota in boccadi persone il cui stupido cervello sia capace soltanto di parole, misembra un'opinione, non soltanto assurda, ma veramente empia; unodioso dileggio di fronte alle inesprimibili sofferenze dell'umanità.Né si creda che la fede cristiana sia favorevole all'ottimismo; alcontrario: negli Evangeli, mondo e male son presi quasi sempre comesinonimi. (11)

Par' 60. - Abbiamo terminati i due studi che bisognava intercalarenella nostra esposizione: quello sulla libertà della volontà in sé esulla necessità del suo fenomeno, e quello sulla sorte della volontà

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnel mondo, che è il riflesso della sua natura, e la cui conoscenzadeve condurla ad affermarsi o a negarsi. A questo punto potremo inmaniera piú dettagliata spiegare questa affermazione e questanegazione in sé, di cui non abbiamo dato, finora, che un'ideagenerica: le metteremo in piena luce, studiando i due sistemi diazione in cui l'una e l'altra si esprimono, e cercando il loro intimosignificato.L'affermazione della volontà, è quel volere costante che non siarresta di fronte alla conoscenza, e che riempie in genere la vitaumana. Siccome il corpo dell'uomo è un'oggettivazione della volontàquale appare nel grado e nell'individuo di cui si tratta, si può direche la volontà nel proprio sviluppo nel tempo è, in certo qual modo,la parafrasi del corpo, il commentario che ne spiega il sensodell'insieme e delle parti; è un altro aspetto di quella cosa in sé,della quale il corpo è una manifestazione. Invece che affermazionedella volontà, possiamo anche dire, dunque, affermazione del corpo.Il tema fondamentale dei molteplici atti volontari è la soddisfazionedei bisogni, che sono inseparabili dall'esistenza del corpo sano, eche nel corpo hanno la loro espressione: la conservazionedell'individuo e la propagazione della specie. Soltanto in relazionecon i bisogni, i motivi piú eterogenei operano sulla volontà, dandoorigine agli atti piú svariati. Ciascun atto è un saggio, un esempiodella volontà generale che vi si manifesta: la forma, l'aspettoassunto dal motivo, sono d'importanza secondaria: l'essenziale è chesi compia un atto di volizione, che si voglia; né altro c'interessa,se non l'intensità con cui si vuole. La volontà non diviene visibileche in presenza dei motivi, come l'occhio non può esplicare la suapotenza visiva che in seno alla luce. Il motivo in generale, sta difronte alla volontà come un Proteo dalle mille forme; promette sempreuna soddisfazione completa e una completa estinzione della sete delvolere; ma non appena si è conseguito, subito si ripresenta in altraforma, ed eccita di nuovo la volontà, secondo la vivacità di questa ela sua relazione con la conoscenza, i due elementi, che con l'aiutodelle prove e degli esempi rivelano il carattere empirico.Sin dal primo risveglio della coscienza, l'uomo si riconosce dotatodi volizione, e in genere la sua intelligenza rimane in relazionecostante con la sua volontà. Comincia allora con il cercare di benconoscere gli oggetti del suo volere, poi i mezzi per poterliraggiungere. Allora sa quel che deve fare; d'ordinario, non gliimporta di saper altro. Agisce: la coscienza di lavorare in armoniacon il fine del suo volere, sostiene le sue forze e la sua attività.Il suo pensiero non si occupa che della scelta dei mezzi. Tale è lavita dei piú: vogliono, sanno ciò che vogliono, vi aspirano consuccesso bastante a non lasciarli cadere nella disperazione, e coninsuccesso bastante a non lasciarli morire di noia. Donde una certaserenità, una certa pace interiore, in cui né ricchezza, né povertà,hanno gran che a vedere: né il ricco né il povero non godono infattiper quel che possiedono (ciò che si possiede ha soltanto, come già sidisse, un valore negativo), ma di quel che sperano di ottenere comefrutto dei loro sforzi. E lavorano, lavorano sempre, con gravità econ aria d'importanza, come fanciulli assorti nel giuoco. E' una puraeccezione, se una tal vita è deviata (per poco) dal suo corso: se unaconoscenza libera dal servizio della volontà, e intuente nell'essenzadel mondo, la solleva alla contemplazione nell'ordine estetico, ealla rinunzia nell'ordine morale. I piú fuggono attraverso la vita,incalzati senza posa dal bisogno: senza un minuto in cui possanoriflettere sopra di sé. Molte volte, anzi, la volontà di vivere siesalta al punto da provocare un'affermazione straordinariamenteintensa del corpo, donde il sorgere di appetiti violenti e passioniprepotenti; l'individuo, allora, non tiene soltanto ad affermare lapropria esistenza, ma nega quella degli altri, e cerca di sopprimerlase d'impedimento alla sua.La conservazione del corpo mediante le proprie forze è un gradocosí basso di affermazione della volontà che, se questa vi sifermasse liberamente, si potrebbe crederla estinguersi con la mortedel corpo. Ma la soddisfazione dell'istinto sessuale oltrepassa giàl'affermazione dell'esistenza particolare nei brevi limiti dellapropria vita, e afferma la vita oltre la morte dell'individuo,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprolungandola nel tempo infinito. La natura, sempre conseguente, inquesto caso è anche ingenua, svelando apertamente il significatodell'atto generativo. La coscienza stessa e la violenza dell'impulso,ci rivelano, in questo atto, l'affermazione piú decisa della volontàdi vivere presa in tutta la sua purezza e senza elementi estranei(senza ad esempio la negazione degli altri individui); come risultatodell'atto, una vita nuova sorge nel tempo, nella serie causale, nellanatura; diverso come fenomeno dal generante, il generato gli èidentico in se stesso e nella sua idea. Perciò l'atto generativocollega generazioni successive in un tutto che si perpetua. Ilgenerare, mentre per chi genera è l'espressione, il sintomo della suaenergica affermazione di voler vivere, per il generato non è laragione della volontà che vi si manifesta (la volontà in sé non ha nécausa né effetto), ma, come ogni altra causa, una pura e sempliceoccasione per cui la volontà si manifesta nel tal tempo e nel talluogo. Come cosa in sé, la volontà del generante non differisce daquella del generato: il fenomeno soltanto essendo soggetto alprincipio individuationis, non la cosa in sé. Quest'affermazione, cheoltrepassa il proprio corpo, arrivando alla produzione di unorganismo nuovo, implica insieme una riaffermazione del dolore edella morte come costitutivi essenziali della vita; e rende vana, perquesta volta, la possibilità della redenzione per mezzodell'intelligenza sollevatasi al piú alto grado di perfezione; questoè il significato profondo della vergogna che accompagna l'attogenerativo. E questa è precisamente l'idea, che, sotto forma di mito,si trova nel dogma cristiano del peccato di Adamo: noi siamo tuttipartecipi della sua caduta (la quale consiste manifestamentenell'aver gustato le gioie carnali), e perciò condannati al dolore ealla morte. In questo punto la dottrina cristiana si eleva sopra laconoscenza sottomessa al principio di ragione, sino alla concezionedell'idea umana; l'unità di questa, in seno alla molteplicedispersione in un numero infinito d'individui, è ricostituita dallegame potente della generazione. Il cristianesimo vede, in ciascunindividuo, in primo luogo la sua identità con Adamo, rappresentantel'affermazione del voler vivere; di qui la sua partecipazione alpeccato (peccato originale), e quindi al dolore ed alla morte. Insecondo luogo riconosce, per mezzo dell'idea, l'individuo medesimocome identico al Salvatore, che rappresenta la negazione dellavolontà di vivere: come partecipe dunque al sacrificio, redento daimeriti di Lui, e liberato dalle catene del peccato e della morte, ecioè sciolto dal mondo (Epist' ai Romani, 5, 12-21).Un altro mito si accorda con noi nel considerare la gioia carnalecome affermazione (oltrepassante la vita individuale) della volontàdi vivere come dedizione piena di un essere a tale volontà, come unconsenso rinnovato alla vita: è il mito greco di Proserpina. La qualepoteva ritornare dall'inferno, finché non avesse gustato nessunfrutto infernale, ma vi rimase prigioniera in eterno, per aver volutogustare una melagrana. Il significato dell'allegoria splendechiarissimo nell'esposizione incomparabile del Goethe, e specialmentenel passo in cui, non appena Proserpina gustò il suo frutto, il coroinvisibile delle Parche incomincia a cantare:«Du bist unser!@ Nüchtern solltest wiederkehren:@ Und der Biss desApfels macht dich unser.@» (12)Da notare che Clemente Alessandrino (Strom', Iii, c' 15) esprime lostesso pensiero con la stessa immagine, anzi, con gli stessi termini:"§hoi mcn eunouçïsantes heautoùs apò päsûs amartïas, dià tènbasileïan t#n ouran#n, makärioi hovtoï eisin, hoi tov kösmounûsteüontes" (Qui se castraverunt ab omni peccato propter regnumcoelorum, ii sunt beati, a mundo jejunantes).In un altro fatto l'istinto sessuale ci si rivela come la piúprecisa ed energica affermazione della volontà di vivere: nel fattoche per l'uomo di natura, come per il bruto, l'istinto medesimocostituisce il termine ultimo e il fine supremo della vita. La primatendenza è verso la propria conservazione; dopo aver a questaprovveduto, l'essere non pensa che a propagare la specie: né, comeessere allo stato rozzo di natura, può proporsi altro ideale. Anchela natura, la cui essenza intima è la volontà di vivere, spinge contutte le sue forze sia l'uomo sia il bruto alla propagazione. Fatto

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquesto, e ottenuto dall'individuo quanto desiderava, la natura rimaneglacialmente indifferente di fronte alla possibile distruzionedell'individuo; ciò che le preme, in quanto volontà di vivere, non èinfatti che la conservazione della specie: l'individuo non leimporta. Siccome l'essenza intima della natura, la volontà di vivere,assume nell'istinto sessuale la piú energica espressione, gli antichipoeti e filosofi, Esiodo e Parmenide, dissero con senso profondo cheEros (Amore) è il principio primo, il principio creatore da cuiuscirono tutte le cose. (Si veda Aristotele, Metaph', I, 4). DiceFerecide: "§eis ërwta metabeblêsôai tòn §dïa, mëllonta dûmiourgeîn"(Iovem, cum mundum fabricare vellet, in cupidinem sesetransformasse); Proclus, ad Plat' Tim', I, Iii.Uno studio recente suquesto soggetto si deve a G'F' Schoemann, De cupidine cosmogonico,1852. Anche la Maya degli indiani, di cui l'intero mondo visibile èl'opera e il tessuto, viene parafrasata con amor.Le parti genitali, molto piú di qualsiasi altro organo del corpo,sono soggette alla volontà sola, e sottratte all'intelligenza; lavolontà vi manifesta anzi la propria indipendenza dall'intelligenza,quasi quanto negli organi della vita vegetativa e della riproduzionescissipara, nei quali opera ciecamente come nella natura inconscia.La procreazione, infatti, non è che una formazione che mette capo aun nuovo individuo, una formazione alla seconda potenza, come lamorte non è che un'escrezione alla seconda potenza. Ne risulta che igenitali costituiscono il vero fuoco della volontà, il polo oppostoal cervello, che rappresenta l'intelligenza, l'altra faccia delmondo, il mondo come rappresentazione. Sono il principio che fonda lavita e le assicura un'esistenza infinita nel tempo; perciò furonoadorati, dai greci nel Phallus, e dagli indiani nel Lingam: simboli,come ben vediamo, dell'affermazione della volontà. L'intelligenzarende invece possibile la soppressione della volontà, la salvezzamediante la libertà, la vittoria sul mondo, ed il suo annientamento.Agli inizi del presente libro, studiammo a lungo la relazione trala volontà che si afferma, e la morte; concludendo che alla volontàla morte non reca pregiudizio alcuno, in quanto, essendo essaimplicita nell'idea della vita, fa parte della sua essenza, ed èpienamente controbilanciata dal suo contrario, dalla generazione, chealla volontà di vivere assicura, nonostante la morte degli individui,l'eternità del tempo (idea, questa, espressa dagli indiani, medianteil conferimento del Lingam a ¬siva, dio della morte). Dimostrammoinoltre che l'uomo, il quale si collocasse con piena coscienza nelpunto di vista dell'affermazione piú risoluta della vita, potrebbesenza timore guardare la morte in faccia. E di ciò basti. La maggiorparte degli uomini si attiene, benché senza rendersene un contochiaro, a questo punto di vista, e afferma con costanza la vita.Specchio di tale affermazione è il mondo quale ci si offre allavista, con i suoi innumerevoli individui dispersi nell'infinità dellospazio e del tempo, oppressi da una serie senza fine di dolori,agitati continuamente tra la nascita e la morte. Senza che ci sia dalamentarsene; la volontà sola sostiene a sue spese l'immensatragicommedia, e n'è anche la sola spettatrice. Il mondo è quello cheè, precisamente perché la volontà della quale il mondo èl'espressione fenomenica ovvero la rappresentazione, è quello che è,e cosí vuole essere. Il dolore ha la sua giustificazione nel fattoche la volontà vi afferma se stessa; d'altra parte, l'affermazione hala sua giustificazione, il suo compenso nella sofferenza che lavolontà stessa viene a subirne. Dell'eterna giustizia ci si rivelacosì, nell'insieme, un primo raggio; in seguito ce ne renderemo contoin maniera piú chiara e precisa, e avremo modo di riconoscerla neiminimi fatti particolari. Ma prima dobbiamo parlare della giustiziatemporale o umana. (13)

Par' 61. - Ricordiamo, dal secondo libro, che deve necessariamenteesserci nella natura, in ogni oggettivazione della volontà, unaguerra perpetua tra gli individui di tutte le specie; guerra, in cuisi rende manifesto l'antagonismo con se stessa della volontà divivere. Quando si giunge al grado supremo di oggettivazione, ilsolito antagonismo appare con chiarezza infinitamente maggiore, ed èquindi piú facilmente decifrabile. Il suo principio primo è

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'egoismo, del quale ora passiamo a indagare l'origine.Tempo e spazio, in quanto condizione della molteplicitànell'identico, furono detti principium individuationis. Sono le formeessenziali della conoscenza naturale, o della conoscenza chescaturisce dalla volontà. Perciò la volontà deve sempre manifestarsiin una pluralità d'individui. Ma tale molteplicità non concerne lavolontà in sé, bensí, e soltanto, i suoi fenomeni: la volontà esisteintera e indivisibile in ciascuna delle sue manifestazioni, e vedeintorno a sé l'infinitamente ripetuta immagine della propria essenza.Questa essenza, la sola cosa veramente reale, la volontà non la trovache dentro di sé. Questa la ragione, per cui ciascuno vuol tutto persé, tutto vuol possedere, o almeno dominare; per cui si vorrebbepoter annientare tutto quanto ci oppone resistenza. Si aggiunga, perquanto riguarda gli esseri intelligenti, che l'individuo è come labase del soggetto della conoscenza, che a sua volta è il sostegno delmondo. La natura esterna tutta intera, e quindi anche gli altriindividui, non esistono che nella mia rappresentazione; io nonconosco gli altri individui, se non come rappresentazioni mie, cioè,mediatamente, come qualcosa che è in essenziale dipendenza da me; sela mia coscienza svanisse, anche il mondo svanirebbe ipso facto(l'esistenza o la non esistenza del mondo sarebbero tutt'uno per me).Ogni individuo conoscente è dunque, in realtà, e sente di essere, lavolontà di vivere tutta intera, l'in sé del mondo, la condizioneintegrante del mondo come rappresentazione: un microcosmo, che nonval meno del macrocosmo. La natura medesima, sempre e dappertuttosincera, gli conferisce ab origine questa conoscenza: semplice almassimo, immediatamente certa, e indipendente da qualsiasiriflessione. Con le due dette determinazioni necessarie, si spiega inche modo ciascun individuo, benché infinitesimo da svanire come unniente nell'immensità del mondo, pure si consideri come centrodell'universo, e pensi alla propria esistenza e al proprio benessere,piú che a tutto il resto; anzi, sino a che rimanga nel punto di vistanaturale, sia pronto a sacrificare tutto il resto, ad annullare ilmondo intero, pur di conservare un attimo di piú il suo proprio io,minuscola goccia d'acqua nell'oceano. In questa disposizione d'animosta l'egoismo, essenziale ad ogni cosa nella natura, e causa delperché il conflitto interiore della volontà con se medesima si riveliin maniera cosí spaventosa. L'egoismo ha infatti la sua base e la suaessenza nel detto antagonismo fra il microcosmo e il macrocosmo:sorge dal fatto che l'oggettivazione del volere ha come formanecessaria il principium individuationis, di modo che la volontà siriproduce in un'infinità d'individui, sempre identica, sempre interae completa, in entrambe le sue facce (volontà e rappresentazione).Ciascun individuo ha coscienza di sé come intera volontà e interarappresentazione; gli altri individui non gli sono invece dati che atitolo di semplici rappresentazioni sue; perciò, a ciascun individuo,la propria esistenza e la propria conservazione premono piú che nonl'esistenza e la conservazione di tutti gli altri esseri presiinsieme. Ciascuno vede, nella sua morte, la fine del mondo intero;mentre guarda con occhio indifferente la morte di altre persone, chenon gli siano congiunte da vincoli speciali. Nella coscienzasollevatasi al piú alto grado, nella coscienza dell'uomo, l'egoismo,al pari dell'intelligenza, del dolore e della gioia, deve raggiungerela massima intensità, e il conflitto provocatone fra gl'individuideve scatenarsi nelle proporzioni piú spaventose. Tale infatti è lospettacolo che ci vediamo dappertutto dinanzi, nelle cose grandi enelle piccole. Terrificante, nella vita dei tiranni e dei malfattori,nelle guerre che riempiono la terra di stragi; ridicolo, e tema dicommedia, nella vanità presuntuosa, di cui nessuno, meglio di LaRochefoucauld, seppe cogliere il concetto e dare una rappresentazionein abstracto; lo spettacolo ci appare nella storia del mondo, allostesso modo con cui si manifesta nella nostra esperienza quotidiana.E raggiunge poi la massima evidenza, quando una folla si scatenaviolando ogni legge e ogni principio d'ordine, mettendo in chiaraluce il bellum omnium contra omnes di cui Hobbes tracciò un quadrocosì ammirevole nel I cap' del suo De cive. Ciascuno, allora, tentadi strappare all'altro ciò che desidera per sé; non solo, ma spesso,per accrescere di un nonnulla il proprio benessere, non ha il minimo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtscrupolo di distruggere l'intera felicità e la vita dei proprisimili. E' questa, dell'egoismo, la piú energica espressione;oltrepassabile soltanto dalla malvagità vera e propria, che cerca ildanno e il dolore altrui per puro diletto senza il pensiero di trarnevantaggio: di che piú oltre. Il lettore voglia confrontare, colpresente studio sull'origine dell'egoismo, la descrizione che ne fecinella mia memoria sul Fondamento della morale, par' 14.Una delle sorgenti principali del dolore inevitabilmente essenzialealla vita è la Eris, la lotta fra gl'individui; espressione delconflitto interiore da cui è affetta la volontà di vivere, chediviene sensibile in virtú del principii individuationis, e che simanifesta crudelmente nei combattimenti fra gli animali. Questadiscordia originaria è l'inesauribile sorgente del dolore; inefficacisono le precauzioni di cui presto parleremo, escogitate dall'uomo perimpedirla.

Par' 62. - La prima e piú semplice affermazione della volontà è,come si disse, l'affermazione del proprio corpo. Questo, con la suaforma e con la sua organizzazione teleologica, rappresenta nellospazio la volontà, che mediante i moti del corpo, si manifesta neltempo. L'affermazione si estrinseca nel conservare il corpo, enell'asservirgli tutte le forze dell'individuo. E vi si riconnetteimmediatamente la soddisfazione dell'istinto sessuale, che anzi ne faparte, in quanto gli organi sessuali fanno parte del corpo. Larinunzia alla soddisfazione di tale istinto, quando sia libera e nonfondata su alcun motivo, è dunque negazione della volontà di vivere,è una libera autosoppressione della volontà medesima, in virtú di unaconoscenza che agisce come quietivo: una tale negazione rappresentauna contraddizione fra la volontà e il suo proprio fenomeno. Perché,mentre il corpo oggettiva nei genitali la volontà di propagazione,questa non è tuttavia voluta. Perciò appunto una tale rinunzia, comenegazione o soppressione della volontà di vivere, è una dolorosa edifficile vittoria sopra noi stessi: ma di questo si parlerà piúampiamente in seguito. A causa dell'egoismo inerente a tutti gliindividui, accade facilmente che la volontà, il cui affermarsi nelproprio corpo si realizza in infiniti individui coesistenti, spingatalmente la sua affermazione in un individuo che questa affermazionediventi negazione della volontà medesima in quanto appare in un altroindividuo. La volontà del primo irrompe nella sfera in cui si affermala volontà del secondo, sia danneggiandone o distruggendone il corpo,sia costringendone le forze a servire alla propria volontà, inveceche a quella del corpo a cui sono inerenti. L'individuo, che allavolontà in quanto manifestata nel corpo altrui, sottrae le forze diquesto per aumentare le proprie, afferma la propria individualità,oltrepassandola e negando l'altrui, negando la volontà in quantomanifestazione in un altro individuo. Questa invasione dell'altruidominio è nota, e il suo concetto astratto è designato col nomed'ingiustizia. Entrambi gli individui se ne rendono subitoesattamente conto: non, certo, in forma chiara ed astratta, ma per unintimo sentimento. La vittima dell'ingiustizia sente la sferad'affermazione del proprio corpo, invasa e negata da parte di unindividuo estraneo; sente l'invasione immediatamente come un doloremorale, ben distinto dalla sofferenza fisica provocata dall'atto, odal rincrescimento dovuto al danno. D'altra parte, l'autoredell'ingiustizia è conscio che la sua volontà, e quella che sioggettivizza nel corpo della vittima, sono in fondo una medesima cosae che, affermando la propria volontà con tanta veemenza daoltrepassare i limiti del suo corpo e delle sue forze, rinnegal'identica volontà in un altro fenomeno, in un altro individuo. Eglisa quindi che, se si considera come volontà in sé, non fa, con taleviolenza, che venire in lotta con se stesso, e dilaniare il proprioseno. E tali verità comprende all'istante; non certo in abstracto,come accennavo poc'anzi, ma in forma di oscuro sentimento: ilcosiddetto rimorso di coscienza; nel nostro caso, il sentimentodell'ingiustizia commessa.L'ingiustizia, di cui abbiamo analizzato il concetto nella sua piúastratta generalizzazione, ha in concreto l'espressione piú completa,piú caratteristica e piú materiale, nel cannibalismo; questo è il suo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txttipo piú netto e piú evidente, l'immagine spaventosa del conflittopiú atroce della volontà con se stessa nel grado supremo della suaoggettivazione, nell'uomo. Viene poi l'omicidio; il suo atto èseguito all'istante dal rimorso, di cui abbiamo dato una definizionerigida e astratta: e che si manifesta qui con chiarezza orribile,togliendo all'anima ogni riposo, e aprendovi una ferita, che la vitaintera sarà incapace di richiudere; il raccapriccio che proviamo deldelitto commesso, il terrore di cui rabbrividiamo nell'istante dicommetterlo, sono l'indizio dell'illimitato attaccamento alla vita,di cui ogni essere vivente si sente pervaso come fenomeno dellavolontà di vivere. (Del resto, questo sentimento prodotto in noidall'ingiustizia e dal male commesso, in altre parole, il rimorso dicoscienza, sarà tema di un'analisi piú completa, che ci permetterà dielevarlo alla chiarezza del concetto.) Essenzialmente identiciall'omicidio, da cui non differiscono che per il grado, son daritenersi le mutilazioni o lesioni intenzionali al corpo altrui: eanche le percosse. L'ingiustizia si mostra pure nel soggiogamentoaltrui, nella schiavitú forzata, e infine in ogni attentato allaproprietà di altre persone: questo attentato, visto che la proprietàè il frutto del lavoro, è della stessa natura dell'imposizione dellaschiavitú, di fronte alla quale sta nella stessa relazione che leferite all'omicidio.L'unica proprietà infatti, che, secondo la dottrina esposta, non sipossa rapire ad un uomo, senza ingiustizia, è il frutto dell'impiegodelle sue forze: col rapirglielo, noi togliamo, alla volontàoggettivata in un dato individuo, le forze del suo corpo, permetterle a servizio della volontà oggettivata nel nostro. L'autoredell'ingiustizia, pure non attentando al corpo di un altro, matoccando una cosa priva di vita e radicalmente diversa da quel corpo,si rende nondimeno colpevole d'aver violato la sfera di affermazionedell'altrui volontà: infatti, le forze, il lavoro di quel corpo, diquella volontà, si congiunsero in qualche modo con la cosa, e nefanno parte. Ogni diritto vero, ogni diritto morale di proprietà, èdunque fondato in origine unicamente sul lavoro: questa era, delresto, l'opinione piú accreditata prima di Kant, già espressa intermini chiari e in forma splendida nel piú antico dei codici: «Isaggi, conoscitori delle cose antiche, dichiarano che un campocoltivato è proprietà di chi lo dissodò, lo nettò ed arò comel'antilope è del primo cacciatore che l'abbia ferita a morte» (Leggidi Manu, Ix, 44). Venendo a Kant, la sua debolezza senile è l'unicaragione con cui riesco a spiegarmi quello strano tessuto di errorisenza fine che forma l'insieme della sua teoria del diritto, e inparticolare la sua idea di fondare il diritto di proprietà nellaprima occupazione. Come potrebbe infatti, una semplice dichiarazionedella mia volontà, escludere altri dall'uso di una cosa? Come ci sipotrebbe fondare un diritto? Evidentemente, una tale dichiarazione haessa stessa bisogno di appoggiarsi a un diritto: Kant, invece,sostiene che sia un diritto essa stessa. E dove sarebbe l'ingiustiziamorale, se io mi rifiutassi di tener conto delle pretese allaproprietà esclusiva di una cosa, quando queste non si fondassero chesu di una semplice dichiarazione verbale? Perché mai in tal casodovrei esser turbato dalla mia coscienza, essendo chiaro che nonesiste alcuna legittima presa di possesso all'infuoridell'appropriazione di quelle cose in cui abbiamo impiegato forze cheoriginariamente ci appartengono? Quando una cosa fu elaborata,migliorata, difesa dagli accidenti esterni e custodita da un altroindividuo mediante un lavoro anche minimo, e limitato per ipotesi alsemplice atto di cogliere o di radunare dei frutti selvaggi, noi, setentiamo di impadronirci di quella cosa, togliamo evidentementeall'altro il frutto del suo lavoro, e sottraiamo il suo corpo allasua volontà, per asservirlo alla nostra; in altre parole, spingiamol'affermazione del nostro volere, di là dal nostro fenomeno, fino anegare il fenomeno estraneo; commettiamo quindi un'ingiustizia. (14)Non dà, invece, alcun diritto su di una cosa il suo semplice uso,all'infuori d'ogni lavoro per migliorarla e impedirne la distruzione;come non ne conferisce una semplice dichiarazione verbale diproprietà esclusiva. Una famiglia che abbia, se si vuole per unsecolo, esercitato la caccia in un dato territorio, ma senza far

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnulla per migliorarlo, non può, senza ingiustizia morale, impedire adun estraneo di cacciarvi. Il preteso diritto di prima occupazione,per cui, avendo semplicemente goduto alcunché, si esige ancora uncompenso, e cioè il diritto di goderne in modo esclusivo in avvenire,manca di fondamento morale. A chi accampasse unicamente un talediritto, qualsiasi nuovo venuto potrebbe obiettare con piú ragione:«Poiché tu ne godi da tanto tempo, è giusto che ora ne godano anchealtri». Quando una cosa esclude per sua natura ogni possibilità dielaborazione, di miglioramento, e di preservazione da accidenti, nonesiste, a suo riguardo, alcun diritto morale di esclusiva proprietà;a meno che tutti gli altri non se ne astengano liberamente, incompenso, ad esempio, di qualche servizio: ma ciò presuppone già unasocietà regolata da una convenzione, uno Stato. Il diritto diproprietà, come l'abbiamo dedotto da princípi morali, conferiscenaturalmente, a chi lo possiede, un potere sulle cose, tantoillimitato quanto quello che ha sulla propria persona; la suaproprietà è dunque trasmissibile, per scambio e per donazione, adaltri, che allora la possederanno con pari diritto morale.L'ingiustizia si può commettere generalmente in due modi: con laviolenza e con la frode: il che, moralmente, è tutt'uno. Se uccido, èmoralmente indifferente ch'io mi serva del pugnale o del veleno;altrettanto dicasi di ogni lesione corporea. Le altre formed'ingiustizia si possono sempre ridurre a questa formula suprema: io,in quanto commetto una ingiustizia, costringo un individuo a servirela mia volontà, in luogo della sua, ad agire secondo la mia volontà,e non secondo la sua. Se adopero la violenza, raggiungo il mio fineper mezzo della causalità fisica: se ricorro alla frode, mi valgodella motivazione, ossia della causalità agente al lume dellaconoscenza: in altre parole, propongo alla sua volontà dei motiviillusori di tal natura, che, mentr'egli crede di agire secondo la suavolontà, non fa altro invero che seguire ciecamente la mia volontà.Siccome il terreno in cui si muovono i motivi è la conoscenza, io nonposso riuscire nel mio intento che falsando i dati della suaconoscenza, e cioè con una menzogna. Il fine della menzogna è sempredi agire sulla volontà altrui, non mai sulla conoscenza in senso veroe proprio: si rivolge a questa, ma soltanto come a un mezzo dideterminazione della volontà. Infatti la mia menzogna, nascendo dallamia volontà, deve avere un motivo: e questo motivo non può essere chela volontà estranea; non già la conoscenza estranea in sé e per sé,la quale non può esercitare influenza alcuna sulla mia volontà, ecioè non può né muoverla né costituire un motivo per i suoi scopi;soltanto la volontà e l'azione altrui possono compiere un taleufficio; la conoscenza non può divenire un motivo che in seguito, ein via indiretta. Il che vale non soltanto per la menzogna ispiratada palese interesse, ma ben anche per quella che deriva da malvagitàvera e propria, da quella malvagità che ama pascersi delleconseguenze dolorose di errori provocati a bella posta a danno dellealtrui persone. Anche la semplice vanteria tende ad esercitareun'influenza piú o meno grande sulla volontà e sull'azione deglialtri, cercando di elevare la loro stima, e di migliorare la loroopinione sul nostro conto. Il tacere una verità, e, in genere, ilrifiutarsi a una testimonianza, non costituisce in sé un'ingiustizia:ma accreditare una menzogna è un'ingiustizia bell'e buona. Chi, ad unviandante smarrito, si rifiuta d'indicare la strada giusta, non sidimostra ingiusto con lui: ma ingiusto è invece chi lo indirizza peruna strada falsa. Risulta da quanto precede che ogni menzogna, comeogni atto di violenza, è una ingiustizia, perché si propone diestendere il predominio d'una volontà su altri individui, e quindi diaffermare un'individuale volontà rinnegando quella altrui: non unoiota di piú, non uno iota di meno di quello che fa la violenza. Ma lamenzogna piú completa è la rottura d'un qualsivoglia contratto: qui,tutte le condizioni esposte si trovano riunite in modo evidente ecompleto. Infatti, quando aderisco a una convenzione, confido chel'altro contraente vi si manterrà fedele; e questo è il motivo percui cerco anch'io di restar dal mio canto fedele alla parola data. Lepromesse reciproche vengono scambiate dopo riflessione matura, e condichiarazioni formali. La verità di tali reciproche dichiarazionidipende, per ipotesi, dalla volontà dei contraenti. Dunque l'altro

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcontraente, se vien meno all'impegno preso, m'inganna: e, suggerendoalla mia conoscenza motivi illusori, dirige la mia volontà secondo lesue intenzioni, estendendo il predominio della sua volontà sullapersona di un estraneo, e commette quindi una completa ingiustizia.Queste sono le basi morali della legittimità e della validità delcontratto.L'ingiustizia di violenza non è, per chi la commette, tantodisonorevole quanto l'ingiustizia per frode: la prima, infatti, èprova di una forza fisica potente abbastanza per imporsi agli uominiin ogni circostanza: l'altra invece, col suo impiego di raggiri,tradisce la debolezza, ed avvilisce il colpevole, sia nel suo esserefisico, che nel suo essere morale. Inoltre, la menzogna e l'ingannoriescono soltanto se chi ricorre a tali mezzi ostenta, per ottenerela stima altrui, d'averne disprezzo e orrore; la sua vittoria si devealla fama usurpata di una lealtà che non possiede. La profondaripugnanza suscitata dall'astuzia, dalla slealtà e dal tradimento, sispiega con il fatto che la buona fede e la probità sono il vincoloesteriore che ricostituisce in unità la volontà dispersa in unamolteplicità d'individui, e che limita cosí le conseguenzedell'egoismo derivante dalla dispersione. La slealtà e il tradimentospezzano quest'ultimo vincolo esteriore, aprendo cosí, agli effettidell'egoismo, un campo sconfinato.Seguendo lo svolgimento logico delle nostre idee, giungemmo ariconoscere che l'essenza dell'ingiustizia consiste in quel caratterespeciale dell'azione, per cui l'individuo spinge l'affermazione dellavolontà manifestantesi nel proprio corpo, fino alla negazione dellavolontà incarnata nell'altrui persona. Determinammo inoltre, conl'aiuto di esempi generali, i limiti in cui comincia il dominiodell'ingiusto, e ne stabilimmo, per mezzo di alcuni concetti generaliimportantissimi, la serie dei gradi, dal piú elevato al piú debole.Risulta da ciò che il concetto originario e positivo è quellodell'ingiusto; il suo contrario, il giusto, non è che un concettoderivato e negativo. Non consideriamo le parole, ma le idee. Non sisarebbe mai potuto parlare di diritto, se non esistessel'ingiustizia. Il concetto di diritto non contiene che la negazionedel torto, ed include ogni azione che non trasgredisca i limiti danoi stabiliti, e cioè che non rinneghi l'altrui volontà per affermarepiú energicamente la propria. Questi limiti dividono dunque perquanto concerne il valore morale puro e semplice, l'intero campodelle azioni possibili in due categorie: quella delle azioni giuste,e quella delle azioni ingiuste. Quando un'azione non invade la sferadi affermazione dell'altrui volontà, né la rinnega, non si può direingiusta. Rifiutarsi ad esempio di soccorrere un infelice travagliatoda mille angustie, contemplare con occhio tranquillo, in senoall'abbondanza, un disgraziato che muore di fame, sono atti di unacrudeltà selvaggia, diabolica, ma non costituscono un'ingiustizia; sipuò bensí affermare con piena sicurezza che un essere capaced'inumanità e di durezza fino a questo punto, è anche pronto acommettere la piú nera delle ingiustizie, non appena i suoi desiderilo spingano, e non gli si opponga ostacolo alcuno.Ma la nozione di diritto come negazione dell'ingiustizia, trova lasua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua origineprima, in quei casi in cui un tentativo d'ingiustizia viene respintocon la forza; tale resistenza non può essere a sua voltaun'ingiustizia, e quindi è giusta. Certo la violenza è, in sé e persé, un'ingiustizia ma, nel caso in oggetto, il motivo la giustifica,e la costituisce nello stato di diritto. Se un individuonell'affermazione della sua volontà, eccede al punto da invadere lasfera di affermazione della volontà incarnata nella mia persona, o darinnegarla, la mia difesa da tale invasione non è che negazione diuna negazione: in questo senso, io, per parte mia, non faccio cheaffermare la volontà incarnata essenzialmente ed originariamente nelmio corpo, ed espressa implicitamente dal suo fenomeno: sono in pienagiustizia, e non commetto ombra d'ingiustizia. Io, dunque, ho ildiritto di negare l'altrui negazione con tutta la forza necessariaper neutralizzarla: tale diritto, non occorre dirlo, può spingersifino all'uccisione dell'individuo; la reazione, con cui respingo laviolenza minacciata, può essere piú energica di questa, senza perciò

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtessere ingiusta, e cioè con piena giustizia. Infatti: ciò ch'iofaccio da parte mia, non esce dal limite dell'affermazione della miavolontà, affermazione essenziale alla mia persona, e di cui la miapersona è la prima espressione; il teatro della lotta non esorbita datale sfera; io non invado l'altrui: la mia azione, come negazione diuna negazione, è affermazione, non negazione. Dunque se una volontàestranea rinnega la mia, quale si mostra nel mio corpo e nell'impiegodi forze fisiche da me spese per il suo mantenimento, io posso, senzaviolare il diritto, costringere la volontà estranea a desistere dallasua negazione: ciò non implica la negazione di una volontà estraneache si mantenga nei suoi limiti; e in tale misura, io ho un dirittodi coercizione.Allorché mi trovo in condizione di usare il diritto di costrizione,allorché ho il diritto assoluto di impiegare la violenza controaltri, potrei, secondo le circostanze, opporre invece all'altruiviolenza l'astuzia, e ciò senza cadere nell'ingiustizia. Ho, dunque,un diritto di mentire, nella stessa misura in cui ho un diritto dicoercizione. Chi ad esempio, ad un ladro che gli sta frugando letasche, giura di non aver piú con sé un quattrino, agisce in pienagiustizia; cosí pure chi, sorpreso nella notte da un ladrointrodottosi nella sua dimora, lo attrae con una menzogna in cantina,e ve lo chiude. Un uomo assalito da masnadieri, ad esempio, dacorsari che vogliono ridurlo in servitú, ha diritto, in difesa dellasua libertà, di ucciderli, sia con la violenza, sia con l'astuzia. Eper questo, un giuramento strappato con la violenza non vincola chil'abbia prestato: la vittima, che avrebbe diritto di liberarsi dalsuo aggressore uccidendolo, a maggior ragione potrà sbarazzarsene conl'inganno. Un tale mi ruba dei beni che non mi riesce di riavere conla forza: ricorro all'astuzia: dov'è l'ingiustizia? E cosí pure, sechi m'ha derubato si mette, con il danaro toltomi, a giocare con me,io sono in pieno diritto di adoperare con lui dei falsi dadi: tuttoquanto riesco a strappargli, non è, in fondo, che roba mia. Chi lonegasse, dovrebbe a piú forte ragione contestare la legittimità deglistratagemmi in guerra, che sono infatti menzogne in atto, econfermano questa sentenza della regina di Svezia: «Alle parole degliuomini non bisogna prestar mai fede; ai loro atti, sí e no». Come sivede, i limiti estremi del giusto e dell'ingiusto si toccano. Credosuperfluo mostrare come una tale dottrina concordi perfettamente conquanto si è detto intorno all'illegittimità della violenza e dellamenzogna: le nostre idee servono anche a fare un po' di luce sulleteorie così strane della menzogna pietosa. (15)Risulta da quanto precede, che giusto e ingiusto non sono chedeterminazioni morali; hanno cioè significato soltanto in ordine allacondotta umana considerata in sé, nel suo valore intrinseco. Un talevalore si rivela direttamente nella coscienza: da una parte, l'attoingiusto viene accompagnato da un dolore interno, cioè, dalsentimento, dalla coscienza di avere nell'affermazione della propriavolontà, ecceduto al punto da rinnegare la manifestazione di unavolontà estranea; d'altra parte, chi opera ingiustamente non ignorache, sebbene distinto come fenomeno dalla sua vittima, nel fondo enell'essenza le si identifica. Spingeremo piú a fondo questa analisisul rimorso di coscienza e sul suo significato, ma non è questoancora il momento. La vittima dell'ingiustizia, poi, sente con dolorela negazione della sua volontà, incarnata nel suo corpo e nellenaturali esigenze alla cui soddisfazione consacra tutte le proprieforze fisiche, ma sente al tempo stesso che, se le forze non lemancassero, potrebbe, senza ombra d'ingiustizia, neutralizzare inqualsiasi maniera l'opera di negazione. E' questo l'unico significatomorale che le parole «giusto ed ingiusto» possano avere per l'uomocome uomo, all'infuori del suo carattere di cittadino. Significato,che resterebbe anche nell'ipotesi di uno stato di natura sprovvistodi qualsiasi legge positiva, e sul quale si fonda tutto quelcomplesso di norme che prende il nome di diritto naturale, ma che piùgiustamente dovrebbe chiamarsi diritto morale, in quanto si riferiscenon a ciò che agisce su di noi, alla realtà esterna, ma soltantoall'attività interiore, alla conoscenza che l'uomo ne trae dellapropria volontà individuale, e cioè in quanto si riferisce allacoscienza. Nello stato di natura, un tale diritto non sempre si fa

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvalere al di fuori, su altri individui; non sempre impedisce ilprevalere della violenza. Nello stato di natura, il non commettereingiustizia dipende in ogni caso dalla volontà di ciascuno, ma il nonsubirla, non è sempre in nostro potere; dipende, infatti, dalla forzafisica di cui ciascuno è provvisto. I concetti di giusto e d'ingiustohanno dunque un valore anche in ordine allo stato di natura, cioè,non sono convenzionali; ma non vi si fanno valere che a titolo diconcetti morali capaci di illuminare la coscienza che ciascuno hadella volontà propria. Nella gradazione delle forze con cui lavolontà di vivere si afferma in ciascuno, quei concetti segnano unpunto fisso, come sarebbe lo zero della scala termometrica: il punto,in cui l'affermazione della volontà propria diventa negazionedell'altrui e cioè il punto in cui la volontà esprime con l'attoingiusto la sua violenza, e sottomissione della conoscenza alprincipio individuationis, forma universale della conoscenzasottomessa alla volontà stessa. Chi volesse trascurare o negare illato puramente morale delle azioni umane, considerandole sotto ilsolo punto di vista dell'efficacia esteriore e delle conseguenze, nonpotrebbe che schierarsi a fianco diHobbes, per il quale giusto eingiusto erano concetti convenzionali, arbitrari, e quindi sprovvistid'ogni valore all'infuori delle leggi positive. Dimostrare conl'esperienza ciò che non rientra nel campo dell'esperienza stessa, èimpossibile. Il pensiero di Hobbes ha uno spiccato carattereempirico; prova ne sia il suo libro De principiis Geometrarum, in cuinega recisamente le matematiche pure, intestandosi nel sostenere cheil punto ha un'estensione, la linea una larghezza. Non possiamocertamente mettere dinanzi agli occhi un punto senza estensione, ouna linea senza larghezza. Chi la pensa come Hobbes, si è chiuso unavolta per sempre ad ogni conoscenza non empirica, sicché noi dobbiamodunque rinunziare all'impresa di fargli comprendere il carattereaprioristico sia della matematica sia del diritto.La dottrina del diritto puro è dunque un capitolo della morale;concerne direttamente ciò che si fa, non ciò che si subisce. L'azionesola costituisce, infatti, una estrinsecazione della volontà; e lamorale non si occupa che della volontà. Subire un'ingiustizia, è unpuro caso: e la morale non se ne occupa che indirettamente, perdimostrare non essere ingiusta l'azione compiuta con il solo scopo dinon soffrire un'ingiustizia. Un possibile sviluppo di questo capitolodi morale dovrebbe avere ad oggetto la precisa determinazione dellimite che l'individuo, nell'affermazione della volontà oggettivatanel suo corpo, non può superare senza negare la volontà medesima inquanto si manifesta in un altro individuo; dovrebbe inoltredeterminare le azioni, che, superando questi limiti, e perciò essendoingiuste, si possono respingere senza ingiustizia. L'oggetto unico epermanente del nostro studio resterebbe pur sempre l'azione.Tuttavia il fatto dell'ingiustizia patita si manifesta, comeaccidente, nel campo dell'esperienza interna: e in questo fatto, piúche altrove, si manifesta con evidenza luminosa la lotta dellavolontà di vivere con se stessa; lotta che risulta dalla molteplicitàdegli individui e dall'egoismo; condizionati, questo e quella, dalprincipio individuationis, unica forma del mondo comerappresentazione per la conoscenza dell'individuo. Si è anche vistoche tale conflitto tra individui è la sorgente inesauribile di unagran parte del dolore che sempre accompagna la vita umana.Tutti gli individui godono di un privilegio comune, la ragione, invirtù della quale oltrepassano la conoscenza degli animali, limitataalle cose particolari, e si elevano alla concezione astratta deltutto e dei suoi nessi interiori. Ed è mediante la ragione che gliindividui sanno risalire alla sorgente del dolore, sanno rifletteresui mezzi di attenuarlo e possibilmente di sopprimerlo. Il mezzoconsiste in un sacrifizio comune, compensato dai vantaggi comuni chene risultano. Se, infatti, all'egoismo dell'individuo il commettereun'ingiustizia riesce gradevole in un'occasione, tale soddisfazioneha un correlato necessario nella grande sofferenza di chi subiscel'ingiustizia. Ora, non appena la ragione, con il suo potere dielevarsi alla concezione dell'insieme, abbandona il punto di vistaunilaterale dell'individuo, e si libera per un istante dalla suaconnessione con gli interessi di questo, riconosce che il piacere

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprovato da un uomo nel commettere un'ingiustizia è sempre nonsoltanto controbilanciato, ma altresí superato da una gravesofferenza in chi la subisce. Riconosce inoltre che se tutto èabbandonato al caso, la probabilità di soffrire per un'ingiustiziasubita non è inferiore, per ciascuno, a quella di godere perun'ingiustizia commessa. E conclude che, sia per attenuare la sommadelle sofferenze sparse in tutti gli uomini, sia per distribuirla nelmodo piú uniforme possibile, il mezzo migliore, l'unico, è dirisparmiare ad ognuno il dolore dell'ingiustizia subita, facendoglirinunziare insieme al piacere di commetterla. Questo mezzo chel'egoismo riuscì, procedendo secondo il lume della ragione eabbandonando il suo punto di vista unilaterale, a scoprire, esuccessivamente, a perfezionare, consiste nel patto sociale, nellalegge. La mia spiegazione dell'origine della legge coincide conquella indicata già da Platone nella sua Repubblica. Non c'è,infatti, altra ragione possibile: l'essenza e la natura stessa dellecose ne escludono qualsiasi altra. In nessun paese, in nessun tempo,lo Stato si poté creare altrimenti; questo modo di formazione, equesto scopo, costituiscono l'unico fondamento cui lo Stato deve ilsuo essere uno Stato. Il resto non ha che un valore secondario: se,in un dato popolo, la situazione anteriore sia stata quella di unamoltitudine di selvaggi indipendenti fra loro (anarchia), oppurequella di una folla di schiavi obbedienti al capriccio del piú forte,poco importa. In nessuno dei due casi ancora non esisteva uno Stato:il quale infatti non sorge che in virtú dell'intesa comune; e, aseconda che tale intesa sia piú o meno modificata da elementianarchici o dispotici, anche lo Stato ha un grado minore o maggioredi perfezione. Le repubbliche tendono all'anarchia, le monarchie aldispotismo; la monarchia costituzionale, regime del giusto mezzo,tende al dominio delle fazioni. Per fondare uno Stato perfetto,bisognerebbe cominciare con il creare degli esseri la cui naturapermettesse loro di sacrificare completamente il proprio bene al benedi tutti. Per ora l'esistenza di una famiglia, la fortuna della qualesia solidalmente unita con la fortuna del paese, costituisce un tantodi guadagnato; la detta famiglia non potrebbe, almeno negli affaripiú gravi, promuovere l'interesse proprio, senza favorire in paritempo il benessere comune. Questa è la causa della forza e deivantaggi della monarchia ereditaria.La morale, si è visto, non considera che l'azione giusta odingiusta, ed assegna limiti precisi di condotta a chiunque abbiadeciso di non commettere ingiustizia. Ben altro ufficio si propone lascienza dello Stato. La teoria della legislazione ha di mira la solaingiustizia sofferta; non si occuperebbe dell'ingiustizia commessa,se questa non fosse un correlato necessario e inseparabile di quella.L'ingiustizia patita è il nemico, contro cui la legge deve rivolgereogni sforzo: è il suo obiettivo. Un'ingiustizia commessa non potrebbelogicamente essere interdetta dallo Stato, se fosse concepibile senzail correlato di un'ingiustizia sofferta. Per il fatto che in moralenon si ha da prendere in considerazione che la volontà ovverol'intenzione, si avrà conseguentemente che una ferma volontà dicommettere ingiustizia, impedita e resa impotente soltanto da unavolontà esterna, equivale, nel campo etico, a una vera e propriaingiustizia commessa. Chi abbia sia pur soltanto concepitoun'ingiustizia, è dal tribunale morale condannato come ingiusto. LoStato, invece, non si preoccupa né della volontà né dell'intenzionein loro stesse: non conosce che il fatto (sia compiuto, sia tentato),a causa del suo correlato, il torto sofferto da altri. Il fatto,l'avvenimento, è, per lo Stato, l'unica realtà; l'intenzione, lavolontà, non vengono considerate se non in quanto servono a spiegarela natura, il significato del fatto. Lo Stato non può impedire anessuno di nutrire un costante proposito di omicidio o diavvelenamento, dal momento che gli basta accertarsi che la pauradella spada e della ruota esercitino un'azione forte abbastanza perneutralizzare costantemente gli effetti di quel proposito. E neppureha la pretesa pazza di sradicare le tendenze all'ingiustizia, e lecattive intenzioni: si limita a porre, a fianco di ogni possibilemotivo che trascini all'ingiustizia, un motivo piú forte, che abbiala virtú di farcene astenere. Questo motivo è la pena inevitabile; il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcodice criminale non è dunque che un registro, il piú possibilecompleto, di contromotivi da opporre a tutte le azioni delittuose chesi possano prevedere, notando che, nel codice, azioni e contromotivisono previsti in abstracto: al giudice compete soltantol'applicazione concreta ai singoli casi. La teoria dello Stato, oscienza della legislazione, prende a prestito dalla morale uno deisuoi capitoli, quello che tratta del diritto, che definisce il sensointimo del giusto e dell'ingiusto, e che precisa i limiti tra unconcetto e l'altro; ma ciò al solo fine di utilizzare il rovescio;quei limiti, che la morale prescrive di non oltrepassare se non sivuol commettere un'ingiustizia, la legislazione li considera dallaloro faccia opposta, come limiti che non bisogna permettere aglialtri di oltrepassare se non si vuol subire una ingiustizia; liconsidera cioè come limiti dai quali si ha il diritto di respingerequalunque invasore. Come si vede, la legge fortifica questi limitidal lato esposto ad ogni possibile aggressione. Si è, con frasespiritosa, chiamato lo storico un profeta a rovescio; ebbene, illegislatore potrebbe, con denominazione altrettanto felice, chiamarsiun moralista a rovescio: la legislazione in senso vero e proprio, lateoria dei diritti che ciascuno si può arrogare, è il rovescio diquel capitolo della morale, che insegna quali diritti non siapermesso violare. Il concetto dell'ingiusto (e della sua negazione,del giusto), puramente morale in origine, trasferito il punto dipartenza dal lato attivo al passivo (cioè attraverso unaconversione), viene ad assumere un carattere giuridico. Taleconversione - per non parlare della teoria del diritto di Kant, ilquale deduce assai falsamente l'istituzione dello Stato, quasi comeun dovere morale, dal suo imperativo categorico - diede origine,anche negli ultimi tempi, allo stranissimo errore in base al quale loStato dovrebbe essere una istituzione destinata a promuovere lamoralità, come se esso traesse le proprie origini dalla tendenzamorale e dovesse per questo esser diretto contro l'egoismo. Come sel'intenzione interiore, in cui soltanto risiede la moralità el'immoralità - ossia la volontà libera ed eterna -, si lasciassemutare dall'esterno da una qualsivoglia impressione! Anche piúassurda è la teoria che fa dello Stato la condizione sine qua nondella libertà nel senso morale, e, perciò, della moralità; la libertàrisiede fuori del mondo fenomenico, e, a piú forte ragione, aldisopra di tutte le istituzioni umane. Lo Stato, come già si diceva,è lontano dal combattere l'egoismo in generale e come tale: anzi,l'egoismo costituisce appunto la sua sorgente: non certo l'egoismocieco, ma l'egoismo illuminato, metodico, l'egoismo che abbandona ilpunto di vista unilaterale, sollevandosi a una visione generale, eriunendo in sé i caratteri dell'egoismo comune. Servire tale egoismo,è l'unica ragione d'essere dello Stato: l'istituzione del quale sideve soltanto all'impossibilità di una moralità pura, cioè di unacondotta giusta fondata su meri princìpi morali. Lo Stato è dunquediretto non contro l'egoismo, ma contro le conseguenze dannosedell'egoismo: queste, infatti, radicate nella pluralità degliindividui egoistici, turbano il benessere dei singoli che dello Statoè l'unica finalità. Così si esprime Aristotele (De Rep', Iii):«§tëlos mcn ovn pölews tò ev zê*n; tovto dë ëstin tò zê*n eudaimönwskaì kal#s (Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate etpulchre vivere)». Anche Hobbes fece vedere, con analisi esatta,questa essere la finalità e l'origine dello Stato; ed è inutilericordare l'antica formula esprimente il principio di ognilegislazione, salus publica prima lex esto. Se lo Stato conseguisseil suo fine perfettamente, il risultato esterno sarebbe il medesimoche se la piú perfetta giustizia intenzionale regnasse in tutte leanime. Ma l'identità sarebbe nel risultato esterno, e non giànell'essenza interiore. Nel regno della moralità, nessunocommetterebbe ingiustizia; in uno Stato perfetto, nessuno lasubirebbe, perché ognuno avrebbe i mezzi necessari a difendersi. Unamedesima linea può essere tracciata in due direzioni opposte: unabestia feroce, imbavagliata con una museruola, è innocua come unerbivoro. Ma lo Stato non può andare oltre, né produrre quell'ordineche risulterebbe da uno scambio reciproco e universale di benevolenzae di amore. Non potrebbe infatti (e ciò per la sua stessa natura,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcome si disse) proibire un'azione ingiusta, che, per un'ipotesi delresto irrealizzabile, non avesse come necessario correlatoun'ingiustizia sofferta. E viceversa perché ciascuno sperimentassetutti gli effetti della benevolenza e della carità, bisognerebbe checorrispondentemente tutti praticassero la benevolenza e la carità; maciascuno vorrebbe assumersi la parte passiva; né ci sarebbe ragioned'imporre quest'ultima agli uni piuttosto che agli altri. Perciò loStato deve limitarsi a una funzione negativa, cioè può imporre con laforza solo ciò che rientra nel campo del diritto: un'imposizionepositiva dei cosiddetti doveri di carità, o doveri imperfetti,sarebbe assurda.La legislazione, come si disse, trae dalla morale la sua teoriapura del diritto, cioè, la teoria dell'essenza e dei limiti delgiusto e dell'ingiusto; ma la fa servire a fini suoi propri, estraneialla morale, applicandola in senso contrario, e fondandovi la leggepositiva corroborata dalle necessarie sanzioni: edificando lo Stato.La legislazione positiva è, dunque, la dottrina morale del dirittopuro, applicata in senso contrario. In questa applicazione, si può,per ogni dato popolo, tener conto delle sue relazioni, e delle suecircostanze speciali. Bisogna però, in ogni caso, che la legislazionesi ispiri, in tutto ciò che ha di essenziale, ai princípi delladottrina morale del diritto puro, che giustifichi ciascuna delle suedisposizioni; soltanto così la legislazione costituirà un verodiritto positivo, e lo Stato formerà un'associazione giuridica, saràuno Stato nel senso vero e proprio della parola, cioè un'istituzionemoralmente ammissibile, non contaminata da dementi immorali.Altrimenti, la legislazione positiva non è che l'istituzione diun'ingiustizia positiva: cioè, di un'ingiustizia imposta, epubblicamente accettata. E' tale il carattere del dispotismo dellamaggior parte degli Stati musulmani e di molte istituzioni facentiparte di parecchi regimi: quali, ad esempio, la schiavitú, il lavorotributario, ecc'. La teoria del diritto puro, il diritto naturale, omeglio il diritto morale, è riconoscibile, benché sempre invertita,in ogni legislazione giuridica; in quel modo che la matematica puraserve di base ad ogni ramo delle matematiche applicate. I punti piúessenziali della dottrina del diritto puro, che dalla filosofia vannoformulati a servizio della legislazione, sono quelli che qui diseguito esporremo. E cioè in primo luogo la spiegazione dei concettidi giusto e d'ingiusto, nel loro significato intimo e proprio, nellaloro origine, in ordine alle loro applicazioni e al posto che lorocompete in morale. In secondo luogo la deduzione del diritto diproprietà, e poi la deduzione del valore morale del contratto, inquanto costituisce il fondamento morale del patto sociale. Seguequindi la spiegazione dell'origine e del fine dello Stato, dellarelazione di questo fine con la morale, e la spiegazione altresídella necessità che ne risulta, di trasportare per inversione ladottrina morale del diritto, nel campo della legislazione. Infine ladeduzione del diritto di punire. Il resto della teoria del dirittonon è che un'applicazione di tali princípi, una determinazione piúprecisa dei limiti del giusto e dell'ingiusto, in ordine a tutte lecircostanze possibili; circostanze che vengono, all'occasione,raggruppate e suddivise in titoli diversi, e sotto punti di vistaspeciali. In queste dottrine speciali, s'accordano quasi per intero itrattati di diritto puro; ma, intorno ai suddetti principi èstridente il contrasto tra le varie opinioni; perché i princípi sonsempre in connessione con qualche sistema filosofico. Dei primiquattro fra i punti suaccennati noi trattammo, secondo lo spirito delnostro sistema; con brevità e in generale, ma tuttavia con chiarezzae precisione; resta che parliamo del diritto di punire.Kant pretende che, all'infuori dello Stato, non esista un dirittoperfetto di proprietà: niente di piú falso. Da tutte le deduzioniprecedenti, risulta che nello stesso Stato di natura esiste undiritto di proprietà naturale, cioè morale; che un tale diritto nonsi può senza ingiustizia violare, mentre si può senza ingiustiziadifendere fino agli estremi. E' certo invece che, fuori dello Stato,non esiste un diritto di punire. Non c'è un diritto di punire, chenon sia fondato sulla legge positiva; questa, in previsione diqualsiasi trasgressione, fissa una pena, la cui minaccia è destinata

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txta vincere come contromotivo i possibili motivi che allettino allaviolazione della giustizia. Questa legge positiva si deve considerarecome riconosciuta e sanzionata da tutti i cittadini. Ha dunque, perbase, un contratto comune, che tutti i membri dello Stato sonoobbligati a rispettare in qualunque occasione: si tratti di imporrela pena, o di subirla; per questo si può con diritto costringere uncittadino a soffrire la pena dovuta. Risulta da ciò che il fineimmediato della pena in ogni singolo caso è l'esecuzione della leggecome contratto. Ma la legge non può avere che un fine, quello cioè didistogliere chiunque, con l'intimidazione, dalla violazione deldiritto altrui. L'assicurarsi infatti contro l'eventualità disopportare una ingiustizia, è l'unica ragione che indusse i singolicittadini a riunirsi nello Stato, rinunziando a commettereingiustizia, e assumendo il peso di mantenere tutto l'edifiziopolitico. La legge, il compimento della legge, la pena, hanno dunquedi mira essenzialmente l'avvenire, non il passato. Il che distinguela pena dalla vendetta: la quale ultima trae motivo unicamente dacerti fatti compiuti, dal passato come passato. Infliggere al reo undolore, senza mirare ad un fine per l'avvenire, sarebbe vendetta; conla quale vogliamo soltanto consolarci di un dolore sofferto, con lospettacolo di un dolore imposto da noi a chi ci fece soffrire. Veramalvagità, crudeltà, per cui la morale non ha parole digiustificazione. Un torto che altri mi faccia, non mi autorizza inalcun modo a rispondergli con un altro torto. Rendere male per male,senza mire ulteriori, non è giustificabile moralmente, né, comunque,razionalmente: il jus talionis, eretto a principio fisso e supremo didiritto penale, è un non senso.La teoria di Kant, il quale non vede nella pena che una punizionecon l'unico intento di punire, è dunque un'idea mal fondata edassurda. Il che non toglie a tale dottrina d'insinuarsifrequentemente negli scritti di molti teorici del diritto. La siadorna di molte belle frasi, che tutte, però, si risolvono in unvuoto verbalismo: si dirà, ad esempio, che, mediante la pena, ildelitto viene espiato, neutralizzato, annullato, ecc'. Ma nessuno hail diritto di erigersi a giudice, a vendicatore nel senso morale, dipunire con il dolore i misfatti altrui, di imporre penitenze.Sarebbe, questa, una pretesa delle piú temerarie: ne offretestimonianza la stessa Bibbia: «Mia è la vendetta, dice il Signore;io m'incarico di punire». Peraltro non si può contestare all'uomo ildiritto di vegliare alla sicurezza della società: l'esercizio di talediritto è possibile soltanto a condizione che tutte le azionidelittuose siano previste e prevenute, opponendo come contromotivi leminacce della legge penale: minacce che riescono efficaci soltanto seapplicate ad ogni costo, non appena se ne presenti il caso. Il finedella pena, o, meglio, della legge penale, è dunque la prevenzionedella colpa mediante l'intimidazione; verità cosí universalmentericonosciuta, e cosí evidente di per se stessa, che in Inghilterra èfinanche pronunziata nell'antica formula d'accusa (indictment), dicui l'avvocato della corona si serve anche oggi nei processicriminali, e che si chiude cosí: «If this be proved, you, the saidN'N', ought to be punished with pains of law, to deter others fromthe like crimes, in all time coming» (Se vien provato questo, voi,tal dei tali, dovete essere punito con le pene della legge, perdissuadere gli altri dal commettere simili delitti in tutto il tempoavvenire). La preoccupazione per l'avvenire è il carattere chedistingue la pena dalla vendetta: la pena può avere questa notadistintiva, soltanto se applicata in esecuzione di una legge; allorasi rivela inevitabile, come nel presente, anche in ogni casoavvenire, conferendo alla legge quel potere d'intimidazione che necostituisce lo scopo. Un kantiano non mancherebbe di opporre che, aquesto modo, il colpevole punito viene trattato «come un semplicemezzo». Ma il principio, instancabilmente ripetuto dai kantiani, «chel'uomo vada trattato sempre come fine, non mai come semplice mezzo»,è bensí altisonante, e quindi, gradevole a chi brama le formule perrisparmiarsi la pena di riflettere; ma, esaminato, risultaun'affermazione vaga, indeterminata e incapace di giungere alloscopo, se non per via indiretta; in ogni caso di applicazione,richiede spiegazioni, determinazioni e modificazioni speciali; nella

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsua forma generale è non soltanto insufficiente e vuoto di senso, maanche problematico. L'assassino colpito per legge da sentenzacapitale, deve senza dubbio venire adoperato come semplice mezzo: nésenza giustizia. Turbò la sicurezza pubblica, fine supremo delloStato, e che svanirebbe se la legge non avesse esecuzione; la suavita, la sua persona, devono servire di mezzo all'esecuzione dellalegge, al ristabilimento della sicurezza pubblica. E' giusto che egliserva di mezzo all'adempimento del patto sociale, da lui sottoscrittocome cittadino: patto, con cui egli, per godere la sicurezza dellasua vita, della sua libertà e della sua proprietà, impegnò questibeni medesimi come garanzia di un'egual sicurezza per gli altri;perdette il pegno, e deve pagarlo.Questa dottrina delle pene, che a un intelletto sano risulteràevidente nella sua essenza, è tutt'altro che nuova; ma era statapressoché soffocata da recenti errori; perciò credetti mio dovere dirimetterla in luce. Tutto quanto contiene di sostanziale, si trovagià incluso in ciò che Puffendorf ne dice nel suo De officio hominiset civis (Libr' Ii, cap' 13). Idee simili sono espresse da Hobbes:Leviatano (capp' 15 e 28). Tutti sanno che l'ugual tesi fu ai nostrigiorni difesa dal Feuerbach. Ed è già espressa nelle sentenze deifilosofi antichi. Platone la espone nettamente nel Protagora (pag'114, edit' Bip'), nel Gorgia (pag' 168), e, infine, nell'undicesimolibro delle Leggi (pag' 165). Seneca esprime in due parole ilpensiero di Platone e una completa teoria delle pene, dicendo: «Nemoprudens punit, quia peccatum est; sed ne peccetur» (De ira, I, 16).Lo Stato è dunque il mezzo di cui si serve l'egoismo fortificatodalla ragione, per sfuggire le funeste conseguenze da esso stessoprodotte a suo danno; nello Stato, ciascuno promuove il bene ditutti, poiché sa che nel bene di tutti è implicito anche il beneproprio. Lo Stato, con le forze umane che riunisce, domina sempre piúla rimanente natura; se potesse conseguire appieno il suo intento, imali d'ogni sorta potrebbero venir eliminati, realizzando una sortadi paese di Bengodi, o qualcosa di simile. Ma, in primo luogo, loStato è ancora molto ben lontano dall'aver conseguito il suo intentoe, per di piú, rimarrebbe sempre una folla innumerevole di maliassolutamente inerenti alla vita. Inoltre, anche nell'ipotesi che sieliminassero tutti gli altri, ne resterebbe sempre uno, la noia, cheoccuperebbe subito il posto prima occupato da quelli; sicché ildolore non cesserebbe mai di far parte integrante della vita. Nonbasta: la discordia tra gli individui non può, dallo Stato, veniredel tutto soppressa; impedite le grandi lotte, verran fuori lecontese locali; la Eris, posto che, per una felice contingenza, siriuscisse a proscriverla nell'interno, avrà sempre un rifugioall'esterno; bandita, in virtú di un saggio ordinamento civile, comeguerra fra gl'individui, si riaffaccerà dal di fuori come guerra dipopoli, esigendo in una volta e in grande, come un debito accumulato,il sacrificio cruento che le savie leggi avessero potuto sottrarle inpiccolo. E immaginiamo pure che una saggezza illuminata da esperienzedi millenni riuscisse a vincere, a estirpare anche questo flagello;ebbene: il risultato ultimo si tradurrebbe in un eccesso dipopolazione infestante l'intero pianeta: spaventoso disastro, di cuisoltanto un'audace immaginazione riesce a farsi un'idea. (16)

NOTE:(6) Critica della ragion pura, 1a ed', pagg' 532-558; 5a ediz',pagg' 560-586. Critica della ragion pratica, 4a ediz', pagg' 169-179;ediz' Rosenkranz, pagg' 224-231.(7) [«Tema gli dèi@ L'umana razza!@ Nelle eterne mani@ Hanno ilpotere:@ Possono usarne@ Come loro piace.@»](8) Cart' Medit' 4; Spin' Eth' P' Ii, prop' 48 et 49, caet'.(9) Sofisma pigro.(10) Herodot', Vii, 46.(11) Cfr' cap' 46 del secondo volume.(12) [«Tu sei nostra!@ Digiuna dovevi ritornare:@ E l'avere morsoil pomo ti fa nostra.@»](13) Cfr' cap' 45 del secondo volume.(14) Risulta quindi evidente che per fondare il diritto naturale diproprietà non c'è bisogno di ammettere due titoli giuridici

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparalleli: quello fondato sulla detenzione, e quello basato sullaformazione, dal momento che quest'ultimo basta da solo. Ma la parolaformazione non è del tutto giusta, poiché non sempre il lavoro spesoin una cosa ha come risultato necessario il conferirle una forma.(15) Lo sviluppo completo della teoria del diritto esposta fin qui,si trova nella mia opera sul Fondamento della morale, par' 17, pagg'221-230 della prima edizione.(16) Cfr' cap' 47 del secondo volume.

Par' 63. - Abbiamo studiato la giustizia temporale, che risiedenello Stato con una missione insieme compensatrice e punitrice;abbiamo visto altresì come la giustizia esista soltanto in vistadell'avvenire; senza di che, nessuna retribuzione o punizione didelitto potrebbe giustificarsi, e non farebbe che aggiungere unsecondo male al primo, senza costrutto né ragione. Ben altro si dicadella giustizia eterna (di cui s'è già fatta menzione piú sopra) cheregge non lo Stato ma l'universo; che non dipende da istituzioniumane, non è soggetta al caso, né all'illusione; non è incerta, nonvacillante; che non può errare, ma è infallibile, salda e sicura. Ilconcetto stesso di punizione implica l'idea del tempo; la giustiziaeterna dunque non può essere punitiva; non può accordare dilazioni, ofissare scadenze; non può, nel compensare l'atto malvagio con laconseguenza funesta, rassegnarsi a ricorrere al tempo come acondizione sine qua non della propria esistenza. Nella giustiziaeterna, la pena e la colpa devono essere cosí strettamente connesse,da far tutt'uno.«§dokeîte pûdâ*n t'adikémat' eis ôeoùs@ §pteroîsi, kä'peit' en§diòs dëltou ptuçaîs@ §gräfein tin' autä, §zêna d' eisor#ntä nin@§ônûtoîs dikäzein? §oud' ho pâs ouranös,@ §diòs gräfontos tàs brot#nhamartïas,@ §exarkëseien, oud' ekeînos àn skop#n@ §pëmpein hekästw*zûmïan; all' hû §dïkû@ §entavôä pou' stìn eggüs, ei boülesô'horâ'*n.@»(Eurip',apud Stob' Ecl', I, c' 4)(Volare pennis scelera ad aetherias domus@ Putatis, illic in Jovistabularia@ Scripto referri; tum Jovem lectis super@ sententiamproferre? Sed mortalium@ Facinora coeli, quantaquanta est, regia@Nequit tenere; nec legendis Juppiter@ Et puniendis par est. Est tamenultio,@ Et, si intuemur, illa nos habitat prope.@)Che una tale giustizia eterna esista realmente nell'essenza delmondo, risulta con chiarissima evidenza dal corso di tutti i nostripensieri, purché si siano ben compresi.Il mondo, nella molteplicità delle sue parti e delle sueformazioni, è il fenomeno, l'oggettità di un'unica volontà di vivere.L'esistenza stessa e i suoi modi, nel tutto e nelle singole parti,non hanno radice che nella volontà. La volontà è libera, èonnipotente. Si manifesta in ogni cosa con la determinazione che essastessa si dà fuori del tempo. Il mondo ne è lo specchio; tutte lelimitazioni, le sofferenze, i tormenti che vi si racchiudono, sonol'espressione di ciò che la volontà vuole: è così, perché la volontàvuole che sia così. E', dunque, rigorosa legge di giustizia, checiascun essere porti sulle proprie spalle, oltre all'esistenza ingenerale, l'esistenza della sua specie e quella della sua propriaindividualità, quali sono, in condizioni determinate, nella realtàqual è. Governato dal caso e dall'errore, soggetto alle leggi deltempo, effimero, e fatto per un'eterna via crucis; gli ostacoli cheincontra e che può incontrare, gli si oppongono a giusta ragione.Perché la volontà è sua e, quale è la volontà, tale è il mondo. Laresponsabilità dell'esistenza e dell'organizzazione del mondo ricadesul mondo medesimo, e non su altri: chi se la potrebbe assumere? Chivuol conoscere il valore morale complessivo in genere degli uomini,deve considerarne complessivamente in genere il destino. Questo non èche bisogno, miseria, desolazione, tormento e morte. La giustiziaeterna regna; se gli uomini, presi complessivamente, non valesserocosí poco, il loro destino, preso complessivamente, non sarebbe cosìtriste. In questo senso, possiamo dire che «il tribunale del mondo èil mondo medesimo». Se fosse possibile mettere in uno dei piattidella bilancia tutte le sofferenze del mondo, e nell'altro tutti i

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsuoi peccati, l'indice resterebbe di certo perpendicolare.Senza dubbio, all'intelligenza dell'individuo, sottomessa allavolontà, il mondo non si presenta quale si rivela in seguitoall'osservatore che vi riconosca l'oggettivazione di una stessa edunica volontà di vivere, tutt'una con lui stesso. La vista del rozzoindividuo è turbata da quello che gl'indiani chiamano il velo diMaya; in luogo della cosa in sé, non vede che il fenomeno, nel tempo,nello spazio, nel principio individuationis, nelle altre forme delprincipio di ragione. Con una conoscenza cosí limitata l'individuonon scorge l'essenza delle cose, che è una; vede soltanto leapparenze, isolate, separate, innumerevoli, svariatissime, e persinoopposte. Gli pare quindi che la volontà sia una cosa, e il tormentoun'altra; il tal uomo gli sembra un carnefice o un assassino, il talaltro un martire o una vittima: qui c'è il delitto, là c'è lasofferenza. Vede che questi nuotano nell'abbondanza e vivono fra ipiaceri, laddove questi altri muoiono fra le torture del freddo edella fame. Dov'è, dunque, la giustizia? E, sotto l'impulso violentodi quella volontà da cui ha l'essenza e l'origine, si precipita sullevoluttà e sulle gioie della vita, vi si appiglia con ogni forza; enon sa che mediante questo stesso atto del suo volere, egli stessoafferra e stringe al seno i dolori e i tormenti della vita, il cuipensiero lo faceva rabbrividire. Vede, nel mondo, la sofferenza e lamalvagità; ma, invece di riconoscervi due facce diverse del fenomenodell'unica e identica volontà di vivere, le ritiene distinte, anzi,opposte fra loro; e così, prigioniero nel principio individuationis,illuso dal velo di Maya, ricorre sovente alla malvagità, fa soffriregli altri, nella persuasione di sfuggire in tal modo ai mali, aidolori della propria persona. Come, in mezzo ad un mare furioso cheda ogni parte dell'orizzonte sconfinato solleva e inghiotte con urlospaventoso immense montagne d'acqua, il marinaio siedetranquillamente, confidando nella sua fragile imbarcazione, cosìl'uomo isolato, in mezzo a un mondo pieno di guai, se ne sta calmo,abbandonandosi fiducioso al principio individuationis, all'aspettofenomenico delle cose. Il mondo sconfinato e doloroso, con il suopassato infinito e il suo infinito avvenire, per lui sono unnonnulla, una favola: il suo presente fugace, il benessere momentaneodella sua persona evanescente, per lui son l'unica realtà; non c'èsforzo che non faccia per conservarsi questa realtà, finché non gliapra gli occhi una conoscenza piú esatta delle cose. Che i fenomeniesterni all'individualità non le siano in fondo estranei, anzi, lesiano connessi da un vincolo ben piú forte del principioindividuationis, l'uomo fino allora non sa; purtuttavia avverteoscuramente tutto ciò nelle profondità della sua coscienza. E nederiva l'orrore invincibile, naturale all'uomo (e forse anche ai piúintelligenti fra i bruti), che lo colpisce a un tratto, quando l'usodel principii individuationis riesca per caso imbarazzante, quando ilprincipio di ragione, in una qualunque delle sue forme, sembrisoffrire un'eccezione. Come, ad esempio, quando pare che si producaun cambiamento senza causa, che un morto risorga, che il passato o ilfuturo divengano il presente, che il lontano sia vicino, ecc'. Ilsupremo terrore che allora si impadronisce di noi, deriva dal fattoche ci sentiamo sconcertati circa il valore delle forme che servonodi base alla conoscenza del fenomeno, e che sole stabiliscono unadistinzione fra il nostro individuo e il resto del mondo. Ladistinzione sussiste soltanto nel fenomeno, ed è priva di valore inordine alla cosa in sé; nel che appunto ha il suo fondamento lagiustizia eterna. Il terreno su cui si costruisce la felicità neltempo, e su cui si muove la saggezza, è veramente minato. La saggezzamette l'individuo al sicuro contro le sorprese della sorte: la buonafortuna gli procura delle gioie; ma l'individuo non è che un semplicefenomeno; ciò che lo fa parere distinto dagli altri e immune daidolori che spezzano questi altri, è unicamente la forma del fenomeno,il principium individuationis. Data la vera essenza delle cose, ogniuomo, finché - avendo in sé la ferma volontà di vivere - consacritutte le sue forze all'affermazione della vita, dovrebbe considerarecome suoi tutti i dolori dell'universo, e ritenere come reali finquelli che sono semplicemente possibili. Per chi riesce a sollevarecon la conoscenza il velo del principii individuationis, una vita

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfelice nel tempo (sia dono del caso, sia compenso della saggezza),che si trascorra in mezzo ad un'infinità di esistenze dolorose, non èche il sogno di un mendicante, il quale si creda nel sonno di essereun re; verrà il momento del risveglio, in cui si accorgerà come fosseillusione fugace quella per cui si credeva immune dalle miserie dellasua esistenza.All'intelligenza tenuta prigioniera dal principio di ragione e dalprincipio individuationis la giustizia eterna sfugge come qualcosad'inafferrabile; l'uomo, in tali condizioni, o la disconoscecompletamente, o la sostituisce con delle finzioni. Vede il malvagio,dopo misfatti e crudeltà d'ogni specie, vivere fra i piaceri, euscire dal mondo senza soffrire il minimo disturbo. E vede l'oppressotrascinare fino alla fine una vita di dolori, senza che unvendicatore, un giustiziere, si facciano avanti. Concepire lagiustizia eterna e comprenderla, è dato soltanto a chi si sottrae alfilo conduttore del principio di ragione; a chi, abbandonata laconoscenza che a tale principio è sottomessa ed altresì limitata allecose particolari, sorge alla visione delle idee, penetra ilprincipium individuationis, apprende che le forme del fenomenolasciano intatta la cosa in sé. A quello solo che sia giunto a talealtezza di concezione, è concesso di comprendere la vera essenzadella virtú, quale ci verrà in seguito rivelata dal corso dellepresenti considerazioni; sebbene sia poi vero che, per praticarla,tale conoscenza in abstracto non è per nulla necessaria. Ma una voltaentrati in questo punto di vista superiore, ci si persuaderà conevidenza luminosa che, essendo la volontà l'in sé di ogni fenomeno,la sofferenza inflitta e quella patita, il male e il dolore,colpiscono sempre un identico e unico essere; non ha importanzaalcuna il fatto che i fenomeni in cui l'uno e l'altro si manifestano,appaiano in forma d'individui distinti, e persino separati daintervalli immensi di tempo e di spazio. Si vedrà inoltre che ladistinzione fra colui che infligge i dolori e colui che li sopporta èsemplice apparenza, da cui rimane intatta la cosa in sé, la volontàunica vivente in entrambi; la volontà, ingannata dalla sua ancella(dalla conoscenza), disconosce se stessa, e, cercando in uno dei suoifenomeni un accrescimento di benessere, produce nell'altro un eccessodi dolore; trascinata dal suo impulso violento, conficca i suoi dentinella propria carne, senza saper di lacerare se stessa; mettendo inluce cosí, per mezzo dell'individuazione, il conflitto interiore chele si nasconde nel seno. Carnefice e vittima sono tutt'uno, per ilfatto che ciascuno di essi s'inganna: infatti il primo si credeesente dal martirio, e la seconda immune dalla colpa. Se levasserol'occhio in alto, il malvagio riconoscerebbe di vivere in tutte lecreature che nel vasto universo trascinano una vita di tormenti,senza comprendere - benché, se dotate di ragione, se lo chiedano -per quale scopo siano state chiamate a una vita cosí miserabile chesanno di non meritare; la vittima, dal canto suo, costaterebbe chetutto quanto il male si commette o fu commesso in alcun tempo sullaterra, deriva da quella volontà, in cui sta la sua stessa essenza, eche si manifesta in essa stessa; che, quindi, essa medesima siaccolla tutte le sofferenze che dipendono dalla volontà come suemanifestazioni e sue affermazioni; che dunque, finché séguiti adessere una tale volontà di vivere, è giusto che ne sopporti nellasofferenza il necessario correlato. Queste sono le idee cheispiravano il genio divinatore di Calderón, quando, nel suo dramma Lavita è sogno, diceva:«Pues el delito mayor@ Del hombre es haber nacido.@» (17)Chi non vede, infatti, che il nascere non può non essere undelitto, poiché una legge eterna lo colpisce di morte? Calderón, delresto, non fece che tradurre in due versi il dogma cristiano delpeccato originale.Alla conoscenza vivente della giustizia eterna, bilanciacompensante con inflessibilità inesorabile il malum culpae con ilmalum poenae, si richiede che l'uomo si elevi completamente aldisopra della propria individualità, e del principio stesso che larende possibile; perciò quella conoscenza, come pure quella chiara eprecisa dell'essenza della virtù, di cui parleremo fra poco, resteràsempre inaccessibile alla piú parte degli uomini. Gli antichi saggi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdel popolo indiano, nei Veda, in cui è contenuta la loro dottrinaesoterica, e la cui lettura si concede soltanto alle tre casterigenerate, espressero tale verità direttamente, per quanto lopermettono il concetto, il linguaggio, e la loro esposizione sempreimmaginosa e rapsodica; mentre alla religione popolare, nelladottrina essoterica, non parlarono che in forma di miti.L'esposizione diretta è nei Veda, frutto della piú alta dottrina edella piú profonda saggezza umana, il cui nocciolo, le Upanisad,giunto ultimamente sino a noi, costituisce il dono piú prezioso checi abbia fatto il secolo presente. Le forme dell'espressione sonodiverse; questa è la piú notevole: si fa sfilare, sotto gli occhi deldiscepolo, tutta la serie degli esseri, animati e inanimati, edinanzi a ciascuno si pronunzia una parola, che ha il valore d'unaformula, e detta come tale Mahavakya: Tatoumes, o piú correttamente,Tat twam asi, che vuol dire: «tu sei questo». (18)Quanto al popolo, una cosí grande verità, dovendola rendereaccessibile alla sua corta intelligenza, fu tradotta nella forma diconoscenza espressa dal principio di ragione. Certo: una taleconoscenza non poteva, per sua natura, accogliere questa verità nellasua purezza, che, anzi, la contraddice direttamente. Ma ne accolse unsurrogato mitico, sufficiente come regolativo della condotta. Perchéil mito, esprimendo per via di immagini quella verità in una forma diconoscenza che le ripugna, ne rende accessibile il significatomorale; e questo è il fine di tutte le dottrine religiose, che tuttesono travestimenti mitici di verità inaccessibili agli uomini rozzi.Quel mito potrebbe anche, in linguaggio kantiano, chiamarsi unpostulato della ragione pratica: e, considerato come tale, ha ilgrande vantaggio di non contenere altri elementi, fuori di quelliappartenenti alla realtà sensibile, sicché i suoi concetti si possonofondare su intuizioni. Alludiamo al mito della metempsicosi otrasmigrazione delle anime, il quale insegna che le sofferenzeinflitte ad altri durante la vita, saranno punite con ugualisofferenze in una vita ulteriore - in questo stesso mondo - e ciò vatanto lontano al punto che l'uccisore d'un animale rinascerà unavolta o l'altra nella forma di quello stesso animale per soffrire lastessa morte. Un tale mito insegna altresí che la condotta malvagiaprocura, in questo mondo, una vita futura sotto forma di una creaturasofferente e, in genere, inferiore; sicché si rinasce in un grado piúbasso nella scala della natura, o come donna o come bruto, comeparia, candala, lebbroso, coccodrillo, ecc'. I tormenti che il mitominaccia, son tratti dalla intuizione del mondo reale, da creatureche soffrono, ignorando come abbian meritato di soffrire: senzabisogno di ricorrere a un altro inferno. E come ricompensa, èpromessa una rinascita in forme superiori e migliori: di brahmano, disaggio, di santo. Ma la piú alta ricompensa spettante alle piú nobiliazioni e alla rassegnazione piú completa, e anche alla donna che insette vite successive sia morta spontaneamente sul rogo del marito,come pure all'uomo la cui bocca pura non abbia mai proferita una solamenzogna, nel linguaggio di questo mondo non può venir espressa chein forma negativa, con la promessa piú volte ripetuta, di nonrinascer piú: «Non adsumes iterum existentiam apparentem». O, come siesprimono i buddisti, che non ammettono i Veda, né le caste: «Tugiungerai al Nirvana, cioè ad uno stato in cui non c'è piú nessuna diqueste quattro cose: nascita, vecchiaia, malattia, morte».Alla verità filosofica, intelligibile da così pochi, nessun mito siavvicinò e s'avvicinerà piú di questa antica dottrina del popolo piúantico e piú nobile; dottrina che, sebbene snaturata in molti punti,domina ancora in quel popolo come articolo di fede comune,esercitando sulla vita la piú decisiva influenza, oggi comequattromila anni orsono. Pitagora e Platone, ammirando questo nonplus ultra d'esposizione mitica, la tolsero dall'India o dall'Egitto,la onorarono, l'applicarono e, non sappiamo fino a che segno, vicredettero. Al giorno d'oggi noi, pietosi, mandiamo clergymen inglesie fratelli moravi ai bramini, per insegnar loro qualcosa di meglio einformarli che furono creati dal nulla, di che debbono esser lieti ericonoscenti. Ma ci accade come a chi tira una palla contro unaroccia. In India, le nostre religioni non prendono e non prenderannomai radice; la saggezza originaria del genere umano non si ritira

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdinanzi ai fatterelli che accaddero in Galilea. La saggezza indianarifluisce invece verso l'Europa, e vi produrrà una trasformazioneradicale nella nostra scienza e nel nostro pensiero.

Par' 64. - Dalla nostra non mitica, ma filosofica esposizione dellagiustizia eterna, passiamo a considerazioni che vi si connettono, sulsignificato etico dell'azione e sulla conoscenza morale, che di quelsignificato è il sentimento. E prima richiamerò l'attenzione su dueparticolarità della natura umana, che aiuteranno a intendere comel'uomo abbia una coscienza, per lo meno involuta, dell'essenza dellagiustizia eterna e del principio che le serve di base, e cioèdell'unità e dell'identità della volontà in tutti i suoi fenomeni.Facciamo astrazione dal fine indicato, fondamentale al diritto, percui lo Stato minaccia la pena. Quando un delitto fu commesso, ilvedere come colui che recò dolore ad altri soffra un egual dolore, dàsoddisfazione, oltreché all'offeso generalmente bramoso di vendetta,anche allo spettatore disinteressato. In questo fatto parla, se nonerro, la coscienza della giustizia eterna; malcompresa però, efalsata. Il senso male illuminato, e imprigionato nel principioindividuationis, cade in un'anfibolia di concetti ed esige dalfenomeno ciò che si conviene soltanto alla cosa in sé; non vede chel'offeso e l'offensore sono un solo e medesimo essere che, nonriconoscendosi nel suo proprio fenomeno, sopporta il dolore e lacolpa; esigendo invece che il dolore cada su quel medesimo individuoa cui appartiene la colpa. Un uomo profondamente malvagio, siainsieme fornito di altre doti straordinarie, di una gran forzad'animo, che lo rendano superiore agli altri e gli permettano di fargravare, ad esempio come conquistatore, indicibili sofferenze sumilioni di uomini. Crederanno, i piú, che un tal uomo debba inqualunque modo espiare, con una ugual somma di male, il male da luifatto. Non s'accorgono che i tormentati e il tormentatore sono in séun essere unico; e che il volere, per cui quelli esistono e vivono, èil medesimo che in questo si manifesta con la massima chiarezza;volere che soffre, come negli oppressi, anche nell'oppressore; chetanto piú soffre anzi in quest'ultimo, quanto piú ha in lui maggioreviolenza e piú chiara consapevolezza. Ma una cognizione piú profondae non imprigionata nel principio individuationis (la cognizione dacui derivano la virtú e la nobiltà dell'animo), respingeràquell'esigenza vendicatrice: prova ne sia la morale cristiana, cheinterdice assolutamente di rendere male per male, riconoscendo lagiustizia eterna come valida nel campo della cosa in sé, diverso daquello dei fenomeni. («La vendetta è mia, dice il Signore: iom'incarico di punire»: Rom' 12, 19.)Un altro carattere della natura umana, molto piú meraviglioso emolto piú raro, manifesta la medesima pretesa di tirare la giustiziaeterna nel campo dell'esperienza e dell'individuazione; denotandoinsieme la coscienza confusa di quanto accennammo, cioè che lavolontà di vivere fa essa stessa le spese della grande tragicommedia,e che una sola e identica volontà vive in tutti i fenomeni. Ed è ilseguente. Vediamo talora un uomo indignarsi cosí profondamente difronte a qualche grave iniquità di cui sia stato vittima, ofors'anche soltanto spettatore, da fare, a sangue freddo, e senzariservarsi uno scampo, il sacrificio della propria vita; pur dicolpire con la sua vendetta l'autore del delitto. Lo vediamo spiareper lunghi anni un potente oppressore, per infine assassinarlo; e poimorire, sul patibolo, come aveva previsto ed anzi quasi senza avertentato di evitarlo, perché la vita non aveva piú valore per lui senon come un mezzo di vendetta. Esempi di tal genere s'incontranospecialmente fra gli spagnoli. (19)Considerato con diligenza nel suo spirito, questo desiderio direagire appare ben diverso dalla brama volgare di vendetta che cercadi addolcire il dolore sofferto con lo spettacolo del doloreinflitto; la sua mira non è la vendetta, ma la punizione; in quantovuol dare un esempio efficace per l'avvenire; senza alcuna utilitàegoistica, né per il vendicatore, che ne va di mezzo, né per lasocietà, che alla sua sicurezza provvede con le leggi. La pena ècompiuta da un singolo, non dallo Stato; e non per l'adempimento diuna legge; anzi, colpisce sempre un'azione che lo Stato non vorrebbe

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txto non potrebbe punire, e di cui disapprova la punizione. A me sembrache un'indignazione capace di spingere l'uomo cosí oltre i confinidell'amor proprio, scaturisca dalla profonda coscienza di esseretutt'uno con quella volontà di vivere che si manifesta in tutti gliesseri e in tutti i tempi. L'uomo sente allora che il piú lontanoavvenire appartiene a lui come il presente, che nulla può dunquelasciarlo indifferente. Mentre afferma una tale volontà, esigetuttavia che nello spettacolo in cui se ne manifesta l'essenza piúnon appaiano mostruosità così esecrabili: vuole spaventare gliscellerati futuri con l'esempio di una vendetta contro di cui non c'èdifesa possibile; infatti neppure il terrore della morte puòtrattenere il punitore. Così la volontà di vivere, benché si affermiancora, non si attacca piú al fenomeno particolare, all'individuo;abbraccia l'idea dell'umanità, esige che la manifestazione diquest'idea si conservi pura da iniquità mostruosamente abominevoli.E', questo, un tratto caratteristico raro e significativo, anzisublime; per cui la creatura umana si sacrifica e si sforza didivenire il braccio della giustizia eterna, di cui per altro ancoradisconosce la vera natura.

Par' 65. - Le considerazioni precedenti, relative all'azione umana,si possono ritenere come preliminari allo studio che ora siamo perintraprendere. Ci facilitarono di molto il problema intorno alsignificato etico dell'azione espresso dalla coscienza volgare con leparole buono o cattivo. La coscienza volgare si appaga, senz'altreindagini, di queste parole; noi procureremo di precisarne ilsignificato con chiarezza filosofica. E', questa, una parteintegrante del nostro pensiero fondamentale.Una premessa necessaria: per gli odierni scrittori di filosofia(strano!) i concetti di buono e di cattivo sono semplici, e quindinon analizzabili. E invece io voglio, dei concetti medesimi,richiamare il significato esatto; sicché il lettore non cadanell'illusione di supporvi un contenuto maggiore di quello che nonhanno, di credere che bastino da soli ad esaurire il problema etico.Questo posso fare, perché non intendo affatto trincerarmi,nell'etica, dietro alla parola «buono», come in precedenza non mifeci scudo delle parole «bello» e «vero». Senza dubbio, conl'artificio di applicare a queste parole il suffisso in «tà»,suffisso che ha oggi una semnötûs, una dignità particolare, che ne fad'ordinario una magnifica scappatoia, mi sarebbe stato facile dare adintendere, con grave solennità, di aver espresso qualcosa diveramente alto e sublime con quei tre nomi che in fatto denotano treidee molto estese, molto astratte, quindi poverissime di contenuto, emolto diverse d'importanza e d'origine. C'è forse, in verità, fra ilettori degli scritti filosofici odierni, chi non si senta nauseatoalla sola vista di quelle tre parole? Le quali espressero di certo,in origine, qualche cosa di eccellente; ma ripugna sentirle ripeteremille e mille volte da qualsivoglia cialtrone che, incapace dipensare, s'immagina, con il solo pronunziare quelle parole a boccapiena e con l'aria di una pecora ispirata, di aver dato prova dellapiú alta saggezza.La spiegazione del concetto di vero fu data nella mia dissertazioneSul principio di ragione (cap' Iv, par' 29 e segg'). Al concetto dibello fu dedicato tutto il terzo libro, dove per la prima volta ne fumesso in luce il vero contenuto. E ora voglio ricondurre al suo veroe genuino significato il concetto di buono: al che bastano quattroparole. Questo concetto è essenzialmente relativo, e designa laconvenienza di un oggetto a qualche tendenza determinata dellavolontà. Quindi, tutto ciò che si addice alla volontà in unaqualsiasi delle sue manifestazioni, tutto ciò che le serve araggiungere i suoi fini, cade sotto la denominazione di buono: e ciò,senza riguardo a differenze d'altra natura. Così, ad esempio,parliamo di un buon cibo, di una buona strada, d'un buon tempo, diuna buon'arma, d'un buon augurio, ecc'; in una parola, chiamiamobuono tutto quanto corrisponde perfettamente alle nostre aspirazioni,ed è proprio per questo che una cosa può riuscir buona per l'uno ecattiva per l'altro. Il concetto di buono si divide in duesottospecie a seconda che ci si riferisca o alla soddisfazione

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtimmediata della volontà presente o alla sua soddisfazione mediatanell'avvenire; abbiamo, insomma, il gradevole e l'utile. Il contrariodi buono, finché si parli di esseri privi di cognizione, vieneespresso dalla parola «cattivo»; piú di rado, e piú astrattamente,dalla parola «male»; designanti, l'una e l'altra, ciò che non siconviene alla tendenza della volontà. Le categorie di buono e dicattivo, oltre che a tutti gli altri esseri capaci di entrare inrelazione con la volontà, si applicano anche agli uomini; quelli diloro che favoriscono i nostri fini, che li promuovono e che visimpatizzano, vengono detti buoni. La parola conserva il medesimosignificato; e il significato rimane relativo, come risulta adesempio dall'espressione: «Il tale è buono per me, ma non per te».Alcuni però, in virtú del loro carattere, non soltanto noncontrariano i fini e le aspirazioni degli altri, ma fanno, anzi,quanto possono per favorirli; si mostrano, in tutta l'estensione deltermine, solleciti, benevoli, cordiali e benefici. E a questi,appunto in grazia della relazione del modo loro di operare conl'altrui volontà in generale, la qualifica di buoni s'attribuisce nelsenso vero ed assoluto. Il concetto contrario, quando si applichi adesseri dotati di cognizione (uomini e bruti), si esprime in Germania,da qualche secolo anche in Francia, con un termine diverso da quelloapplicato agli esseri incoscienti: böse, méchant. La distinzionemanca, invece, in quasi tutte le altre lingue: kakös, malus, cattivoe bad si usano, e per gli uomini e per le cose inanimate, qualora sioppongano ai disegni di una determinata volontà individuale. Laconsiderazione, che aveva prese le mosse dalla parte passiva delbuono, soltanto piú tardi si rivolse anche alla parte attiva, lacondotta dell'uomo chiamato buono venendo indagata rispetto non piúagli altri, ma bensí a lui medesimo. Spiegando, in tal modo, e laconsiderazione oggettiva da parte degli altri, e la propriacontentezza, evidente in chi se la procura con sacrifici di speciediversa, nonché il dolore intimo che accompagna invece le cattiveintenzioni, qualunque sia il vantaggio esteriore che procurino a chile cova. Di qui sorsero i sistemi di morale fondati o sulla filosofiao sulla religione, ché tutti cercano sempre di stabilire un legamefra la felicità e la virtú. I primi ricorrono in proposito alprincipio di contraddizione o al principio di ragione; in altritermini o identificano la felicità con la virtú, oppure fanno diquella una conseguenza di questa: puri sofismi, nell'uno e nell'altrocaso. I secondi cercano un rifugio nell'affermazione di un mondoaltro da quello che l'esperienza può conoscere. (20) Il modo nostrodi vedere ci rivelerà invece che l'essenza della virtú consiste inun'aspirazione orientata in senso contrario all'aspirazione verso lafelicità e verso la vita.Risulta da quanto precede che il buono, considerato nel suoconcetto, è "t#n prös tï", cioè essenzialmente relativo; non esiste,infatti, che in relazione con una volontà che abbia dei desideri. Ilbene assoluto è dunque una contraddizione in termini; altrettanto sidica del bene supremo, summum bonum, con cui si designa unasoddisfazione finale della volontà, dopo la quale non ci sarebbe piúposto per un nuovo desiderio; un motivo ultimo, che, una voltarealizzato, darebbe alla volontà una gioia indistruttibile. Da quantosi è detto, ben si vede che simili cose non sono concepibili. E'impossibile, per la volontà, trovare una soddisfazione chel'acquieti, che la faccia smettere dal voler ancora e sempre, com'èimpossibile, per il tempo, di cominciare o di finire; non c'è, per lavolontà, un appagamento duraturo, completo, e che ne plachi persempre le aspirazioni. La volontà è come la botte delle Danaidi: nonammette un bene supremo e assoluto; non conosce che il benedell'istante. Summum bonum è una espressione antica, ormai divenutadi moda; se non si è disposti ad abbandonarla, se si vuole, come abenemerita, conservarle un ufficio d'onore, allora possiamoapplicarla, in senso metaforico, a denotare l'autosoppressionecompleta o negazione della volontà, l'assenza di ogni volere; statod'animo, che solo può calmare ogni desiderio, porgere unasoddisfazione incapace di turbamento; disposizione interiore, che èla sorgente unica di redenzione dal mondo, e di cui parleremo frapoco, alla fine di tutto il nostro studio. Questo è il bene supremo,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtil rimedio unico e radicale della malattia: tutti gli altri beni sonosemplici palliativi e calmanti. Nel detto senso, potremmo servircianche meglio del termine greco tëlos (fine), o del latino finisbonorum. Ma basti, oramai, quanto si disse intorno al significato dibuono e di cattivo; e veniamo al nostro problema.Un uomo, che sia disposto a commettere l'ingiustizia, sempreché glisi presenti l'occasione, e nessuna forza esterna lo trattenga, sidice cattivo. Data la nostra concezione dell'ingiustizia, essercattivo significa non contentarsi di affermare la volontà di viverequale si manifesta nel proprio corpo, ma spingere l'affermazione finoa negare la volontà che si estrinseca in altre individualità: ilcattivo tenta di asservire le altrui forze alla volontà propria, e didistruggere le altrui esistenze quando sian d'ostacolo alle proprieaspirazioni. La sorgente ultima di tale disposizione d'animo vacercata in un eccesso di quell'egoismo, di cui già esponemmo lanatura. Ne risultano ad evidenza due verità. La prima consiste nelfatto che la volontà di vivere, quale si manifesta in un tale uomo, èviolenta ed eccessiva, e supera di gran lunga la sempliceaffermazione del proprio corpo. La seconda verità insegna invece chela conoscenza di costui è interamente schiava del principio diragione e prigioniera del principii individuationis, ed incapacequindi di elevarsi al disopra della distinzione assoluta (posta daquest'ultimo principio) fra la persona propria e gli altri esseri.Perciò il malvagio va in cerca del solo suo benessere, senza puntocurarsi dell'altrui. Le altre persone gli rimangono estranee, come sefra la loro essenza e la sua ci fosse un abisso incolmabile, come sele altre non fossero che larve senz'ombra di realtà. Questi sono ifondamenti del carattere cattivo.La veemenza eccessiva del volere è già in sé e per sé una sorgenteimmediata e inesauribile di dolore. Perché, in primo luogo, ognivolere come tale nasce da un bisogno; dunque, da una sofferenza. (Eperciò, come s'è visto nel terzo libro, il silenzio momentaneo, chesi verifica nella volontà, quando, sollevandoci all'altezza disoggetti conoscenti puri, ci abbandoniamo alla contemplazione delbello, costituisce uno degli elementi principali della gioiaderivante da essa contemplazione.) Perché, in secondo luogo, laconcatenazione causale dei fatti condanna i piú tra i desideri arestare senza soddisfazione; poiché la volontà viene piú soventecontrariata che accontentata, la sua violenza e la sua multiformitàsaranno indissolubilmente congiunte con delle sofferenze anch'essemultiformi e violente. La sofferenza, infatti, non è che volontàinsoddisfatta e contrariata; lo stesso dolore derivante da unalesione del corpo, è possibile perchè il corpo è volontà oggettivata.Il legame indissolubile, per cui una volontà violenta e multiformenon può andar disgiunta da un multiforme violento soffrire, imprimenella fisionomia stessa del malvagio il caratteristico segno diun'intima sofferenza. Quand'anche abbia raggiunto il colmo dellafelicità esterna, il malvagio, trattone qualche istante in cui siaposseduto da una qualche gioia passeggera, conserva sempre, se non sadissimulare, l'aria d'infelice. E questa intima tortura, che fa parteintegrante della sua essenza, è anche la sorgente di una gioia nonderivante per intero dall'egoismo che il malvagio prova nella vistadel dolore altrui; gioia in cui propriamente consiste la malvagità eche s'intensifica nella crudeltà. Il dolore altrui non è piú, allora,un semplice mezzo per altri fini egoistici, ma diviene fine a sestesso. Ed ecco in che modo. L'uomo, essendo una manifestazione dellavolontà illuminata dal grado supremo della conoscenza, misuracostantemente la soddisfazione reale e sentita della sua volontà,comparandola con la soddisfazione possibile che l'intelligenza gli faintravedere. Di qui l'invidia: ogni privazione è smisuratamenteaggravata dalla gioia altrui, e addolcita al solo pensiero che altrine soffrano al pari di noi. I mali comuni a tutti gli uomini, einseparabili dalla vita umana, poco ci preoccupano, poco ci turbano;altrettanto dicasi dei malanni che colpiscono un paese intero, delleinclemenze del clima. Il solo ricordo di sofferenze piú gravi che lenostre, vale a calmare le nostre pene; la vista del dolore altruibasta di per sé ad alleviare il nostro. Si supponga ora un uomoanimato da una volontà straordinariamente violenta; che voglia, con

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtbramosia cocente, abbracciare tutto quanto esiste, per immolarlo alproprio egoismo e calmarne la sete; senza dubbio, egli dovrà benpresto e necessariamente sperimentare che ogni soddisfazione è persua natura illusoria, che l'oggetto posseduto non mantiene mai lepromesse dell'oggetto desiderato, che non ci dà l'acquietamentofinale degli impulsi furiosi del nostro volere. Costui dovrà d'altraparte rendersi conto che il desiderio soddisfatto non fa altro cherivestire una forma nuova, per ricominciare di nuovo a tormentarci eche, infine, se tutte le forme del desiderio venissero esaurite, nonper questo la sete ardente del volere si estinguerebbe, mapersisterebbe anche in assenza di ogni motivo conosciuto, e sirivelerebbe come sentimento spaventevole del vuoto e del nulla, cometortura atroce. Tutto ciò, in una persona dotata di un grado comunedi volontà, non è sentito che debolmente, senza produrre che unvolgare malumore; in quella persona invece, la cui volontà è intensaquanto si richiede alla perversità, provoca un tormento interioreinaudito, un'eterna inquietudine, un dolore insanabile. Quelsollievo, che direttamente non è ottenibile, è allora cercato per viaindiretta: il malvagio procura di mitigare il proprio dolore, con lospettacolo del dolore altrui, con il pensiero che tale dolore è uneffetto e una testimonianza della propria potenza. Cosí, lasofferenza degli altri diviene per lui un fine a se stessa, unospettacolo dilettevole; questa è l'origine del fenomeno, cosífrequente nella storia, della crudeltà nel senso piú puro dellaparola; di quella sete di sangue che ardeva nei Neroni, neiDomiziani, nei Robespierre, ecc'.Affine alla malvagità, lo spirito di vendetta ripaga il male con ilmale, non in vista dell'avvenire, il che caratterizza le punizioni,ma semplicemente a causa del passato, del fatto accaduto in quantoaccaduto; infligge la sofferenza, senza sperare di trarne un partito:non come mezzo, ma come fine. Il vendicativo cerca il diletto neitormenti procurati di propria mano all'offensore. Se c'è cosa chedistingue la vendetta dalla malvagità pura, e la scusa un poco, èun'apparenza di diritto, nel senso che l'atto medesimo, se compiutocon legale autorizzazione, secondo una regola nota e stabilita inprecedenza, nel seno di una società che l'avesse sanzionata sichiamerebbe, non vendetta, ma punizione, e costituirebbe quindi undiritto.Oltre ai dolori di cui s'è detto, che nascono dalla stessa radicedella malvagità, cioè da una volontà di eccessiva violenza, e cheperciò le sono indissolubilmente congiunti, con la malvagità se neassocia un altro distinto e diverso, che si fa sentire in seguito adogni cattiva azione; si tratti, o di una semplice ingiustiziacommessa per egoismo, o di malvagità pura: e si chiama rimorso, opersistente tormento di coscienza, secondo il tempo del suopersistere. Chi ha ben presente il contenuto di questo quarto libro,e specialmente la verità esposta in principio, che, cioè, la vita èassicurata per sempre alla volontà di vivere, di cui non è chel'immagine e lo specchio; chi ricorda inoltre il mio concetto dellagiustizia eterna, riconoscerà conseguente, come spiegazione vera delrimorso, quella che segue. Il contenuto, espresso in terminiastratti, del rimorso, coincide con la nozione che sono per darne; visi possono distinguere due elementi, ma sempre necessariamente unitie concordi fra loro. Il malvagio, per quanto il senso ne sia tenutoin tenebre fitte dal velo di Maya, e per quanto sia sottomesso alprincipio individuationis - in virtú del quale considera la suapersona come assolutamente differente da tutte le altre e da esseseparata da un abisso - per quanto si attenga energicamente a taleconcezione, come alla sola che al suo egoismo convenga e che losostenga (l'intelligenza è quasi sempre un'umile ancella subornatadalla volontà), sente nondimeno agitarsi, nella profondità della suacoscienza, un segreto presentimento. Comprende, vagamente, chel'ordine attuale fenomenico è semplice apparenza: che quando si parlidell'in sé, la questione muta interamente d'aspetto. Invano lo spazioed il tempo scavano un abisso fra lui e gli altri, fra lui e lesofferenze infinite sofferte dagli altri per sua colpa; invano eglisi rappresenta gli altri, e i loro dolori, come del tutto estranei alui. Sotto il punto di vista dell'in sé, facendo astrazione dalla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione e dalle sue forme, non si tratta che di un'unica eidentica volontà di vivere, che si manifesta indistintamente in tuttigli esseri. E che, disconoscendo se stessa, rivolge contro di sé leproprie armi; e, mentre in uno dei suoi fenomeni cerca di accrescereil proprio benessere, impone in pari tempo all'altro il sacrificiopiú doloroso. Egli stesso, il malvagio, incarna tutta intera questavolontà; non è, dunque, soltanto il carnefice, ma ben anche lavittima e, se qualcosa lo separa dalla vittima stessa, e lo facredere immune dalle sue pene, questo qualcosa non è che illusione diun sogno, ma di un sogno che già si dilegua e svanisce. Il malvagioriconosce la verità: vede che le gioie vanno acquistate a prezzo didolori e costata infine che tutte le sofferenze, non escluse quelleche all'immaginazione appaiono soltanto come possibili, cadono inrealtà sopra di lui, in quanto volontà di vivere. La distinzione trapossibilità e realtà, tra vicinanza e distanza nel tempo e nellospazio, non ha valore, infatti, che in ordine alla conoscenzadell'individuo, e sotto il punto di vista del principiiindividuationis; la cosa in sé non ammette simili distinzioni. Questaè la verità che, in linguaggio mitico, e adattata (secondo l'esigenzadel principio di ragione) alla forma fenomenica, vien espressa dallateoria della trasmigrazione delle anime; la sua espressione genuina,immune da qualsiasi elemento eterogeneo, è data peraltro daquell'angoscia oscuramente sentita, e tuttavia insanabile, che sichiama rimorso di coscienza. Questa stessa verità scaturisce anche daun'altra conoscenza, pure immediata, strettamente congiunta con laprima; dico, dalla conoscenza della forza con cui s'afferma nelmalvagio la volontà di vivere; forza che oltrepassa di tanto iconfini del suo fenomeno individuale, da giungere alla negazionedella volontà medesima in quanto si manifesta in altri individui. Ilsenso non eliminabile di orrore, che allo scellerato ispira ilproprio misfatto, implica - oltre al presentimento della nullità,della pura natura fenomenica del principii individuationis e delladistinzione da esso posta fra lui e gli altri - la coscienza dellaviolenza della sua volontà, della forza con cui abbraccia e succhiala vita; quella vita di cui vede il lato spaventoso nei tormenti cheinfligge alle vittime, e a cui peraltro si sente legatoirresistibilmente, poiché la perpetrazione dei delitti piú atroci èper lui un semplice mezzo di affermazione piú completa del propriovolere. Il malvagio riconosce in sé una manifestazione concentratadella volontà di vivere: sente sino a qual punto egli sia stretto neilacci dalla vita, e quindi esposto alle sofferenze inseparabili dallavita stessa, la quale ha poi dinanzi a sé un tempo e uno spazioinfiniti per colmare l'abisso tra la possibilità e la realtà, e pertrasformare in dolori sentiti realmente quelli soltanto immaginati.Ma i milioni di anni, che gli son preparati dalle rinascite future,non esistono per lui che nel pensiero come soltanto nel pensieroesistono per intero, e il passato, e il futuro; il tempo veramentepieno, forma del fenomeno della volontà, è il presente; perl'individuo, il tempo è sempre nuovo; l'individuo si crede un eternoneonato. Infatti, la volontà di vivere non è separabile dalla vita, eforma della vita è il nunc, l'adesso. La morte (mi si perdoni seripeto la similitudine) si può paragonare al tramonto del sole: ilquale, se in apparenza sembra inghiottito dalla notte, in realtà,come sorgente di ogni luce, brilla senza interruzione, recando nuovogiorno a un nuovo mondo: il suo è un eterno sorgere. Principio e finetoccano soltanto l'individuo; lo toccano per via del tempo, che èappunto la forma che il fenomeno riveste per la rappresentazione.All'infuori del tempo, non esistono che la volontà (la cosa in sé diKant) e la sua oggettità adeguata, l'idea di Platone. Perciò, ilsuicidio non offre nessuna liberazione: quale ciascuno vuol esserenel suo piú profondo, tale dev'essere; quale ciascuno è, tale appuntosi vuole. Dunque, oltre che dall'idea, dal sentimento vagodell'illusoria nullità delle forme con cui la rappresentazionedistingue gli individui, la coscienza viene armata di pungiglionedalla conoscenza interiore che la volontà acquista di se stessa edella sua forza. La vita, nel suo corso, plasma in noi l'immagine delcarattere empirico, secondo l'originale del carattere intelligibile.E il malvagio inorridisce di fronte a questa immagine. Poco importa,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtse l'immagine sia disegnata in grande, cosí da far fremere il mondointero, o sia invece delineata sottilmente, cosí da esser visibilesoltanto alla coscienza del malvagio medesimo. L'immagine ha, in ognicaso, un valore immediato per lui. Il passato non sarebbe che unfenomeno indifferente, il ricordo non tormenterebbe la coscienza, seil carattere non si sentisse indipendente dal tempo, e refrattario (ameno di rinnegare se stesso) alla sua influenza modificatrice. Perciòil passato anche piú remoto pesa sempre sulla coscienza. La preghiera«Non m'indurre in tentazione» significa «Non mi far vedere chi sono».Dalla violenza con cui afferma la vita, e che gli si manifesta nellesofferenze inflitte da lui agli altri, il malvagio misura la suadistanza da quel sacrificio, da quella negazione della volontà, cheoffrono l'unico mezzo possibile di redenzione dal mondo e dai suoidolori. Vede quali e quanto salde siano le radici che lo vincolanoinvece al mondo; il conoscere (il semplice conoscere) le sofferenzealtrui, non basta a commuoverlo: di reale, per lui, non ci sono chela vita e i dolori effettivamente sentiti. Rimane da sapere se idolori effettivamente sentiti riusciranno a vincere, a fiaccare laviolenza del suo volere.Il rimorso è dunque non già una conoscenza chiara ed astratta, masolo una forma di sentimento nel quale al malvagio si manifestal'essenza della sua malvagità. Questa spiegazione riuscirà piú chiarae completa, dopo che avremo con lo stesso criterio analizzato ilconcetto di bontà come attributo della volontà umana, dopo che avremoparlato della completa rassegnazione e della santità, che derivanodalla bontà innalzatasi al grado supremo. Infatti i contraris'illuminano sempre a vicenda; e, come dice benissimo Spinoza, ilgiorno rivela insieme l'essenza propria, e quella della notte.

Par' 66. - Una morale senza fondamento, una morale che si riducessea un semplice moralizzare, non potrebbe avere alcuna influenza,poiché non somministrerebbe alcun motivo. D'altra parte, una moraleche facesse fondamento sui motivi non avrebbe influenza chesull'egoismo, e ciò che proviene dall'egoismo, è privo di valoremorale. Quindi, né la morale, né la conoscenza astratta in genere,sono atte a formare la vera virtú; questa non può nascere che dallaconoscenza intuitiva, la quale ci fa riconoscere nell'individuoestraneo l'essenza medesima che risiede in noi.La virtù sorge dalla conoscenza, ma da una conoscenza non astrattané comunicabile in parole. Può anche sembrare che la virtú potrebbeperaltro anche essere insegnata, che noi, con l'esprimere in formuleastratte la sua essenza e la conoscenza che le serve di base,potremmo rendere al tempo stesso moralmente migliore ogni studiosoatto a comprendere le nostre parole. Tutto ciò è in realtàassolutamente falso, anzi non esiste predica morale che possa renderevirtuoso un uomo, come non ci fu, da Aristotele ad oggi, nessunaestetica in grado di ispirare realmente un solo poeta. Sterile nelcampo dell'arte, il concetto è inefficace in quello della virtú; nonpuò rendere che servizi di second'ordine, come strumento adatto adelaborare e conservare le conoscenze e le conclusioni tratte peraltra via. Velle non discitur. Sulla virtú, cioè sulla bontàdell'intenzione, i dogmi astratti non esercitano in realtà nessunainfluenza; i falsi non la distruggono, i veri ben difficilmente lapromuovono. E davvero sarebbe un cattivo affare, se ciò che piúimporta nella vita umana, il suo valore etico ed immortale, dovessedipendere da dogmi, da dottrine religiose e da quei filosofemi che ilcaso può farci conoscere oppure ignorare. I dogmi non hanno, inordine alla moralità, che un unico e semplice ufficio, che è poiquello di fornire all'uomo già divenuto virtuoso (per via di unaconoscenza del tutto eterogenea, di cui ora parleremo), uno schema,una formula, con cui render conto alla propria ragione dei propriatti non egoistici. Ma un tale resoconto, benché la ragione perabitudine se ne contenti, non ha, il piú delle volte, che uncarattere fittizio: alla ragione, o, in altri termini, all'io, sfuggeil valore intimo della condotta virtuosa.Certo, sulla condotta, sulle azioni esterne, i dogmi possonoesercitare una grande influenza, non meno che le abitudini el'esempio (l'influenza di questi ultimi si deve al fatto che l'uomo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsi fida ordinariamente, non del proprio giudizio, di cui gli è notala debolezza, ma soltanto della esperienza propria e dell'altrui); manon mutano per nulla il fondo della disposizione interiore. (21) Laconoscenza astratta non fa che porre innanzi una serie di motivi, iquali - come si è detto - è pur vero che possono cambiare ladirezione della volontà, ma non sono tuttavia in grado di modificarela volontà in se stessa. Ora, la conoscenza comunicabile non puòinfluire sulla volontà che a titolo di motivo; quindi, qualunque siail senso in cui i dogmi dirigono la volontà, ciò che l'uomo vuolerealmente in generale non può mutare mai; le nuove idee, cheacquisti, servono soltanto a indicargli una diversa via per giungereall'intento; e un motivo immaginario non la guiderà meno di un motivoreale. Così, ad esempio, è moralmente indifferente che uno faccia unagenerosa elemosina, convinto di esserne compensato al decuplo in unavita futura, o che invece impieghi la medesima somma nelmiglioramento di un fondo, che gli renderà piú tardi con sicurezza unbuon raccolto. Similmente: chi per ortodossia condanna l'eretico allefiamme, non è meno assassino del bandito che uccide per unaricompensa; e, se non si tien conto che dello stato interioredell'animo, lo stesso deve dirsi del cristiano che va a sgozzare ilturco in Terra santa. L'uno e l'altro agiscono, in fondo, nellasperanza di assicurarsi un posto nel cielo. Pensano ciascuno soltantoa sé, al proprio egoismo, né piú né meno di quanto faccia il banditodal quale si distinguono soltanto per l'assurdità del mezzo cheadottano. Come abbiamo già detto, non si può ab extra accedere allavolontà, se non in virtú dei motivi; ora, i motivi posson certocambiar la maniera in cui la volontà si manifesta, ma non produrre labenché minima alterazione nell'essenza della volontà medesima. Vellenon discitur.In ordine alle opere buone compiute da persona che segua dei dogmireligiosi, bisogna sempre distinguere. O i dogmi furono anche ilmotivo reale dell'azione, o servirono invece (come sopra dicemmo) adarne una spiegazione illusoria, con cui l'uomo si tranquillizzòsulla bontà di una azione suggeritagli da tutt'altro. In questosecondo caso, l'uomo fece il bene semplicemente perché buono eglimedesimo; e soltanto, non essendo filosofo, non sa spiegarsiriflessamente la propria condotta, mentre pur sente il bisogno dispiegarsela. Ma la distinzione riesce difficilissima, poiché il suocriterio è nascosto nel piú profondo dell'animo. Quindi, non possiamoquasi mai giudicare con certezza del valore morale degli atti altrui,e raramente di quello dei nostri. Le azioni e la condotta, così d'unindividuo che di un popolo, possono venir grandemente modificate daidogmi, dagli esempi e dall'abitudine. Ma, in fondo, le azioni (operaoperata) non sono che pure e vuote immagini: ricevono un valoremorale soltanto dall'intenzione che le ispira. E una medesimaintenzione può tradursi nei fenomeni esteriori piú differenti. Due,ugualmente scellerati, moriranno, l'un sulla ruota, l'altro fra lebraccia dei suoi. Una stessa malvagità può manifestarsi, presso latal nazione, in tratti grossolani, come l'assassinio e ilcannibalismo; presso l'altra, in linee fini e sottili, en miniature,sotto forma d'intrighi di corte, di persecuzioni, di raggiri d'ognispecie; ma il fondo resta sempre il medesimo. Supponiamo che unoStato perfetto, oppure una religione saldamente radicata neglispiriti, e promettente pene e compensi al di là della tomba, riescanoad impedire qualsiasi delitto: il guadagno sarebbe, politicamente,immenso, moralmente, nullo; anzi: non si sarebbe fatto che impedirealla vita di esser copia fedele della volontà.La vera bontà, la virtú disinteressata, la nobiltà pura, derivanodunque non da una conoscenza astratta, ma pur dalla conoscenza: eprecisamente da una conoscenza immediata e intuitiva, che non è unarzigogolare i pro e i contro; da una conoscenza che, appunto perchénon è astratta, neppure può esser comunicata, ma dev'essere propriadi ciascuno, e che perciò ha la sua espressione adeguata, non giànelle parole, ma soltanto nei fatti, nelle azioni, nella condottadell'uomo. Noi, che stiam qui cercando una teoria della virtú, edobbiamo quindi esprimere con una formula astratta la natura dellaconoscenza che le serve di base, non potremo dunque, con taleespressione, fornire la conoscenza medesima: non ne daremo che il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconcetto, in ordine al quale dovremo partire sempre dai fatti, neiquali soltanto essa conoscenza è visibile, rinviare ai fatti, che neson l'unica espressione adeguata; espressione, che noi dobbiamoesporre, chiarire, formulare in astratto.Ora, prima che parliamo della bontà propriamente detta, inopposizione alla malvagità sopra esposta, toccheremo di un gradointermedio, semplice negazione della malvagità: della giustizia. Chesiano diritto e torto, venne sopra discusso a sufficienza; possiamoperciò dire in breve che si chiama giusto chiunque spontaneamentericonosca i limiti posti dalla morale fra il diritto e il torto,rispettandoli anche se non protetti dallo Stato, né da nessun altropotere; secondo la nostra teoria, giusto è chi, nell'affermazionedella propria volontà, non va mai fino alla negazione della volontàche si manifesta in un altro individuo. Il giusto non infliggerà maidelle sofferenze agli altri, per accrescere il proprio benessere: noncommetterà mai nessun delitto, e rispetterà sempre i diritti e laproprietà di ciascuno. Come ben si vede, per il giusto, il principiumindividuationis non costituisce piú, come per il malvagio, un muro diseparazione assoluta; egli non si limita piú, come quest'ultimo, adaffermare unicamente il fenomeno della volontà propria, e a negarlonegli altri; le altre creature umane non son piú, per lui, dellelarve fantastiche di essenza diversa dalla sua; tutta la sua condottaprova ch'egli riconosce la propria essenza, cioè la volontà di viverecome cosa in sé, anche nell'essere estraneo, dato a lui soltanto comerappresentazione. Il giusto riconosce se stesso nell'altro; nelgrado, almeno, che si richiede per non ledere l'altrui persona; inquesto grado appunto egli riesce a penetrare di là dal principioindividuationis, dal velo di Maya: pone l'essere esteriore allostesso livello col suo: non fa torto a nessuno.Ben esaminata, la giustizia rivela il fermo proposito di noneccedere, nell'affermazione della propria volontà, fino a rinnegarele manifestazioni della volontà altrui, asservendole al propriovantaggio. Perciò, il giusto sarà sempre disposto a rendere aglialtri l'equivalente di quanto riceve. Nel suo grado supremo, ilsentimento di giustizia non si distingue piú dalla bontà vera epropria, il carattere della quale non è soltanto negativo. Chi ne èsignoreggiato, giunge a mettere in dubbio il suo diritto sopraun'eredità, si crede in obbligo di sovvenire ai bisogni del corpo conle sole sue forze fisiche e spirituali, ha scrupolo di farsi servire,si rimprovera ogni forma di lusso, e abbraccia volonterosamente lapovertà. Serva d'esempio il Pascal: il quale, dopo che si fu datoall'ascetismo, non volle piú accettare servigi, benché avesse tantagente ai suoi comandi; e, quantunque sempre malaticcio, si rifacevada sé il letto, andava egli stesso a prendere il cibo in cucina, ecc'(Vie de Pascal par sa soeur, pag' 19). Esempi analoghi ci sonoofferti dall'India. A quel che si racconta, piú di un indiano,persino dei rajà non usano le ricchezze che al sostentamento dellafamiglia, della corte e dei servi, praticando con rigido scrupolo lamassima di non mangiar nulla che non abbiano seminato e raccolto dipropria mano. Ma non ci nascondiamo che qui c'è, in fondo, unmalinteso. Un uomo, per il fatto che è ricco e potente, può renderealla società umana dei servigi tali, da compensare le ricchezze dicui la società medesima gli assicura il godimento. In verità, questagiustizia straordinaria dei nostri indiani è già qualcosa di piú cheuna pura e semplice giustizia: è rinuncia, negazione della volontà divivere, ascesi: ne parleremo in seguito. Invece: il dolce far nulla,il vivere sulla ricchezza ereditata, senza produrre nulla di proprio,se per la legge positiva rimane giusto, non è piú giusto sotto ilpunto di vista morale.La sorgente interiore della giustizia spontanea è (dicevamo)un'intelligenza che ha conseguito un certo grado di superamento delprincipii individuationis; di cui l'ingiusto rimane sempre schiavo.Questa penetrazione può non limitarsi a quel tanto che si richiedealla giustizia; può elevarsi anche piú, dando luogo alla benevolenzapositiva, alla beneficenza, alla carità. E ciò, qualunque sia laforza della volontà che si manifesta nell'individuo. Infatti,l'intelligenza potrà sempre farle equilibrio, insegnandole aresistere alla tentazione di agire ingiustamente; producendo, così,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtogni maggior bontà, e fin la rassegnazione. Dunque: non è da ritenereche l'uomo dabbene sia, della volontà, una manifestazioneoriginariamente piú debole che il malvagio; si ricordi bensí che neldabbene l'intelligenza padroneggia il cieco impulso del volere. Senzadubbio, alcuni hanno di buono soltanto l'apparenza, dovuta alladebolezza della volontà che si manifesta in loro; ma presto si scoprechi siano, e che cosa valgano: incapaci di riportare sopra se stessiuna vittoria un po' ardua, non appena si tratti di compiere un attodi bontà o di giustizia.Supponiamo ora - il caso è di ben rara eccezione - che ci sipresenti un uomo il quale possieda un buon patrimonio, ma non neutilizzi per sé che una piccola parte, e dia tutto il resto aipoveri, facendo sacrifizio quasi completo delle gioie e dellecomodità della vita. Se vogliamo renderci un conto chiaro dellacondotta d'un tal uomo (facendo astrazione dai dogmi con cui eglicercasse di rendere i suoi atti intelligibili alla propria ragione),riconosceremo che l'espressione generale piú semplice, lacaratteristica essenziale del suo modo di agire, è la seguente: egliattenua, piú che la maggioranza degli uomini non faccia, ladifferenza fra sé e gli altri. Mentre agli occhi dei piú questadifferenza è così grande, che la sofferenza altrui costituisce per ilmalvagio un soggetto immediato di gioia, e per l'ingiusto unostrumento prezioso di benessere; mentre l'uomo semplicemente giustosi limita a non infligger dolori; mentre in genere la piú parte degliuomini vede e conosce da vicino innumerevoli creature che soffrono,ma non si sa decidere ad offrire un sollievo, poiché ciò esigerebbeda parte loro qualche privazione; mentre, in una parola, in ciascunodi costoro sembra predominare l'idea di una radicale differenza frail proprio io e quello degli altri; al contrario, in un animo nobilequale quello supposto, la differenza si riduce a un minimo; ilprincipium individuationis, la forma del fenomeno, non lo domina piúcon la forza consueta. Le sofferenze altrui lo commuovono quasi comele proprie; procura perciò di ristabilire l'equilibrio fra le une ele altre; con il rinunziare ai piaceri, con l'imporsi delleprivazioni, al solo fine di addolcire le sofferenze altrui. Ladifferenza fra lui e gli altri esseri, che al malvagio apparesmisurata, non è che un fenomeno passeggero ed illusorio. E il buonose ne accorge; riconosce, in via immediata e senza raziocinii chel'in sé del fenomeno è identico, e in lui, e negli altri, coincidendocon quella volontà di vivere, in cui sta l'essenza di ogni cosa, eche vive in tutto; anzi, estende tale identità anche ai bruti eall'intera natura; perciò, non lo si vedrà mai torturare un animale. (22)Un tal uomo non permetterà mai che altri languisca nell'inedia,mentre egli nuota nell'abbondanza e nel superfluo: questo egli nonpotrebbe tollerare, come non tollererebbe di soffrire la fame per ungiorno intero, nella speranza di avere all'indomani piú del bisogno.Infatti: per chi pratica le opere dell'amore, il velo di Mayaessendosi già reso trasparente, svanisce l'illusione del principiiindividuationis. In ogni creatura, e quindi anche nel sofferente,riconosce sé, il suo io, la sua volontà. Si è redento da quellaperversione, per cui la volontà di vivere, misconoscendo se stessa,gusta in un dato individuo delle voluttà effimere e illusorie, persoffrire in un altro miserie e dolori; una tale volontà di vivere èad un tempo carnefice e vittima; né sa che, al pari di Tieste, sidivora la propria carne; così, da una parte, piange per sofferenzeimmeritate, e dall'altra, infischiandosi della Nemesi, si contaminain ogni sorta di delitti; e ciò, solo e sempre per la ragione che nonriconosce se stessa nel fenomeno estraneo, né intravede la leggedell'eterna giustizia, ma permane eterna prigioniera del principiiindividuationis, e quindi schiava del modo di conoscenza dominato dalprincipio di ragione. Esser guarito dall'illusione e dall'errore diMaya, e praticare le opere dell'amore, è tutt'uno. Ma l'amore è ilsintomo inseparabile della conoscenza di cui parliamo.Abbiamo parlato del rimorso, della sua sorgente, del suosignificato. Il contrario del rimorso è la buona coscienza, lasoddisfazione che proviamo per ogni azione disinteressata. Nasce dalfatto che una simile azione, la quale ha per origine ilriconoscimento del nostro proprio essere nel fenomeno estraneo, offre

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtin pari tempo una conferma di tale conoscenza, e ci attesta che ilnostro vero io non risiede soltanto nella nostra persona, nel nostrosingolo fenomeno, ma in tutto ciò che vive. Una siffatta conoscenzaespande il cuore, come l'egoismo lo rinserra.L'egoismo, infatti, concentra tutto il nostro interesse nelfenomeno isolato del nostro individuo; allora l'intelligenza cipresenta l'immagine dei pericoli innumerevoli che minacciano senzatregua tale fenomeno, e l'inquietudine, l'ansietà divengono dominantinella nostra disposizione d'animo. Laddove il sapere che ognicreatura vivente fa, non meno di noi, parte integrante del nostroessere in sé, con l'estendere le nostre simpatie a tutti quanti gliesseri che vivono, allarga il nostro cuore. Col diminuire l'interesseverso il proprio io, recidiamo alle radici le ansiose preoccupazioniche ne derivano; donde l'espressione di serenità calma e confidente,caratteristica dell'intenzione virtuosa, della coscienza buona;espressione che si accentua ancora di piú, ogni volta che un'operabuona viene a consolidare la nostra disposizione. L'egoista si sentecircondato da fenomeni estranei e nemici, e la sua speranza sirestringe al proprio benessere. Il buono vive in un mondo di fenomeniamici; il bene di ciascuno è anche bene suo. Certo: la sua conoscenzadel destino umano in generale non è fatta per rallegrarlo; ma laferma convinzione, con cui sente di trovare il proprio essere intutte le creature viventi, conferisce all'animo suo una certaindifferenza, e anche una certa nota di gioconda serenità. Poiché uninteresse che abbracci un'infinità di fenomeni, non può angustiarequanto un interesse concentrato in un fenomeno solo. Gli accidentiche incolgono alla totalità degl'individui si compensano tra loro:quelli che accadono al singolo individuo, debbono di necessitàcondurre alla fortuna o alla sventura.Altri metta pure innanzi dei principi morali, li presenti pure comericette di virtú, come leggi a cui si debba necessariamente obbedire;io come dicevo, non posso far nulla di simile: io non ho legge nédoveri da imporre a una volontà eternamente libera. In compenso, lamia dottrina è penetrata d'una verità, puramente teoretica, di cui loscritto presente non è che un semplice sviluppo, e che può in certomodo esercitare un ufficio analogo a quello dei suddetti principimorali. Ed è questa: che la volontà è l'in sé di ogni fenomeno:quindi, se considerata in se stessa e come volontà pura, èindipendente dalle forme del fenomeno, e dalla molteplicità. Sotto ilpunto di vista pratico, non saprei, di tale verità, trovareun'espressione piú degna di quella data dalla formula già riferitadei Veda: «Tat twam asi!» (Tu sei questo). Chi sappia ripetere a sestesso questa formula, con piena coscienza e con salda intimaconvinzione, di fronte ad ogni creatura con cui venga in contatto, èsicuro di possedere ogni virtú, la vera nobiltà; di essere sulla viadiritta della redenzione.Due cose mi restano, per terminare la mia esposizione: primo,mostrare come l'amore, di cui troviamo la radice e l'essenza in unaintelligenza capace di penetrare di là dal principio individuationis,conduca alla redenzione, alla soppressione completa della volontà divivere, cioè del volere in generale; secondo, far vedere come esistaanche un'altra via, meno dolce, ma piú seguita, che conduce l'uomoall'identica mèta. Ma prima di andare oltre, debbo qui esporre espiegare una proposizione paradossale: non già perché tale, ma perchévera, e perché necessaria alla piena comprensione del pensiero che miresta da esporre. Questa massima è la seguente: «Ogni amore (agäpû,caritas) è compassione».

Par' 67. - Come s'è visto, l'intelligenza, quando riesce a operareanche in minimo grado un superamento del principii individuationis,produce la giustizia; e, quando s'innalzi a un grado ancor superiore,la vera bontà, che si manifesta nell'amor puro e disinteressato versogli altri. Allorché tale chiarezza di visione diviene perfetta, noimettiamo l'individuo estraneo, e il suo destino, allo stesso livellocon l'io nostro e con il nostro destino; piú oltre non si può andare,non essendoci alcuna ragione di preferire l'altro a noi stessi.Tuttavia, quando si tratta di una grande collettività d'individui, ilcui benessere o la cui vita sian minacciati da grave pericolo, può

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdarsi che la loro sciagura faccia in un dato individuo passare inseconda od ultima linea ogni considerazione sul benessere proprio. Intal caso vedremo dei caratteri pervenuti alla piú alta bontà e allapiú nobile elevazione, offrire in sacrifizio il proprio bene e lapropria vita, al bene ed alla vita della maggioranza; cosí morìCodro, così Leonida, così Regolo, cosí Decio Mure, cosí Arnold vonWinkelried; così muore chi corre liberamente e con piena coscienza amorte sicura, per la salvezza dei suoi e della patria. A pari altezzasi elevano tutti quegli uomini che affrontano volonterosi le torturee la morte, per l'affermazione di ciò che deve costituire ilbenessere e divenire il patrimonio legittimo dell'umanità; cioè peril trionfo di qualche importante verità di ordine generale, e perl'estirpazione di perniciosi errori; così morì Socrate, così GiordanoBruno, cosí tanti martiri ed eroi della verità che perirono sul rogoper mano dei preti.Ora, a proposito del paradosso dianzi espresso, dobbiamo ricordareche, secondo le nostre ricerche anteriori, alla vita è essenzialmentee inseparabilmente congiunto il dolore; che ogni desiderio nasce daun bisogno, da una mancanza, da una sofferenza; che perciò lasoddisfazione, lungi dal costituire un vero benessere positivo eacquisito, non è che la rimozione di un dolore; che le gioiementiscono alla speranza, presentandolesi come un bene positivo,mentre, in realtà, non sono che di natura negativa: semplice e puracessazione di un male. Quindi, tutto ciò che la bontà, la generositàe l'amore posson fare per gli altri, si riduce a lenirne lesofferenze; né altro può ispirare e promuovere le buone azioni e leopere di carità, fuorché la conoscenza delle sofferenze altrui, cheintuiamo nelle nostre, ponendole con queste allo stesso livello. Comesi vede, l'amor puro (agäpû, caritas) è per essenza pietà; lasofferenza che n'è mitigata può esser piccola o grande; potrebbeanche ridursi a un semplice desiderio insoddisfatto: poco importa.Non esito dunque a oppormi su questo punto a Kant; il quale riconoscecome vera bontà e vera virtú quelle soltanto che scaturiscono dallariflessione astratta, o meglio, dal concetto di dovere edall'imperativo categorico; e non ammette sia virtú la pietà chesentiamo per un essere debole. Io, invece, affermo recisamente che ilpuro e semplice concetto è impotente a produrre la vera virtú, come èimpotente a creare la vera opera d'arte: ogni amore puro e sincero èpietà; un amore, che non sia pietà, si riduce a egoismo. L'amorepersonale è l'ërws; la pietà è l'agäpû. Spesso ha luogo una fusionedei due sentimenti. Anche l'amicizia piú pura è sempre un miscugliodi egoismo e di pietà; il primo risiede nel piacere che proviamo allapresenza dell'amico, la cui individualità corrisponde alla nostra, ene costituisce quasi sempre la miglior parte; la pietà si rivelanella sincera partecipazione che prendiamo al suo bene e ai suoimali, e nei sacrifizi disinteressati a cui siamo pronti per lui. E lodice anche Spinoza: «Benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas excommiseratione orta» (Eth', Iii, pr' 27, cor' 3, schol'). A confermadella nostra massima paradossale, si può invocare il fatto che iltono, il linguaggio, le carezze dell'amor puro, coincidonoperfettamente con le espressioni della pietà; tanto che in italiano,sia detto di passaggio, ambedue questi sentimenti vengono designaticon il termine unico di «pietà».E' questo il luogo di studiare anche una delle piú meraviglioseproprietà della natura umana: il pianto; che, al pari del riso, è unodei segni esteriori per cui l'uomo si distingue dal bruto. Il piantonon è l'espressione del dolore; anzi, è ben raro che un dolore cifaccia versare delle lacrime. A parer mio, ci fa piangere, non ildolore immediatamente sentito, ma soltanto la rappresentazioneriflessa che ce ne facciamo. Infatti: non appena ci colpisce undolore, sia pur fisico, passiamo subito a rappresentarcelo; allora ilnostro stato ci appare cosí compassionevole, da sentirciprofondamente persuasi che se un altro si trovasse nella nostracondizione, lo soccorreremmo col piú fervido slancio della pietà edell'amore. Ora, per altro, siam proprio noi l'oggetto di questasincera pietà; e, animati come siamo dal piú tenero sentimento disoccorso, siam proprio noi che di soccorso abbiamo bisogno; sentiamodi soffrire piú di quanto non potremmo veder soffrire un altro. E, in

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtuna disposizione tanto strana e complessa, dove il dolore immediatoritorna alla percezione con duplice rimbalzo, prima come doloreestraneo e compatito, poi subito di nuovo come dolore proprio epercepito direttamente, la natura cerca un sollievo in quella stranacrisi convulsiva del corpo. Il pianto è dunque pietà di noi stessi: èpietà richiamata al suo punto di partenza. Cosí, non può piangere chinon sia capace di amore, di pietà e di fantasia; perciò gli uomini dicuore duro, e scarsi di fantasia, difficilmente piangono; perciò,anche, il pianto viene ritenuto sempre come segno di una certa bontàdi carattere; le lacrime disarmano la collera, perché si sente, inchi è capace di piangere, la capacità di amare, di esser pietoso congli altri; la pietà, come s'è visto, essendo elemento costitutivo diquella disposizione d'animo che invita al pianto. La spiegazione hauna piena conferma nei versi in cui il Petrarca descrive consemplicità e sincerità l'origine delle sue lacrime:«I' vo pensando, e nel pensar m'assale@ Una pietà sí forte di mestesso,@ Che mi conduce spesso@ Ad alto lacrimar, ch'i' non soleva.@»Ed ecco un'altra conferma: i bambini che si son fatti del male, ilpiú delle volte non piangono, se non quando vedono che altri licompiange; dunque, ciò che li fa piangere, non è già il dolore, masoltanto la sua rappresentazione. Il pianto, a cui ci muove, non ildolore nostro, ma l'altrui, si deve al nostro metterci conl'immaginazione al posto di chi soffre; al nostro vedere, nella suasorte, il destino di tutta l'umanità, e quindi anche il nostro.Dunque, in ultimo, finiamo sempre per piangere su di noi stessi; noistessi siamo l'oggetto della nostra pietà. E questa dev'essere anchela ragione del fatto costante, quindi naturale, per cui, di fronte adun caso di morte, ci sentiamo tutti venir da piangere. Ciò chepiangiamo, non è la perdita sofferta; ci vergogneremmo di lacrimetanto egoistiche: mentre, se c'è cosa che in simile caso ci facciavergogna, è appunto il non piangere. Senza dubbio, ciò che innanzitutto ci muove al pianto è la sorte del defunto: tuttavia, piangiamoanche se la morte sia stata per lui come una provvidenzialeliberazione da lunghe, tormentose, insanabili sofferenze; dunque, ciòche principalmente ispira la pietà nostra è il destino dell'umanitàintera, condannata ad una fine che estinguerà ogni vita, per quantoenergica e intraprendente, e la ridurrà al nulla; però, in taledestino dell'umanità intravediamo soprattutto il nostro; e tanto piú,se il morto era uno dei nostri cari; specialmente se un padre. Anchese, per effetto di vecchiaia o di malattia, la vita non era per luiche un tormento; anche se il suo stato d'impotenza lo rendeva digrave peso al figliuolo, il figliuolo verserà nondimeno delle lacrimeamare sulla morte del padre suo: il perché non occorre ripeterlo. (23)

Par' 68. - Dopo questa digressione sulla identità dell'amor puro edella pietà, e sul fenomeno delle lacrime, sintomo di una pietàrivolta verso il proprio individuo, riprendo ora il filo delle mieconsiderazioni sul significato morale dell'azione, per mostrare, comedall'identica sorgente da cui scaturiscono la bontà, l'amore, lavirtú e la nobiltà d'animo, deriva anche, in ultimo, ciò ch'io chiamonegazione della volontà di vivere.Abbiam visto, piú sopra, che l'odio e la malvagità si fondanosull'egoismo, il quale, a sua volta, proviene da un'intelligenzaprigioniera nel principio individuationis; abbiamo riconosciuto delpari che la sorgente e l'essenza della giustizia, e, a un gradosuperiore, dell'amore e della nobiltà d'animo in quello che hanno dipiú alto, è la penetrazione dello stesso principii individuationis;questa sola, sopprimendo le differenze fra la nostra persona e lealtre, ci rende possibile la perfetta bontà di cuore, l'amoredisinteressato e il sacrificio piú magnanimo di noi agli altri.Ora, la detta penetrazione del principii individuationis, laconoscenza immediata dell'identità della volontà in tutti i suoifenomeni, quando s'elevi a una grande chiarezza, eserciterà ipsofacto, sulla volontà, una influenza ancora piú grande. Un uomo, cuiriesca di sollevare il velo di Maya di penetrare il principiumindividuationis fino a sopprimere qualsiasi distinzione egoistica frala persona propria e l'altrui, un uomo che senta le sofferenze deglialtri non meno che le proprie; che dunque, non soltanto si mostri

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsoccorrevole fino all'estremo grado, ma sia pronto a sacrificare ilproprio individuo, se ciò si richieda per salvare molti individuiestranei; un tal uomo, riconoscendo in tutte le creature se stesso,il piú intimo, il piú vero se stesso, riterrà come sue le peneinfinite di tutti gli esseri viventi, e farà suo tutto il doloredell'universo. Nessuna sofferenza può essergli estranea. I tormentiche vede affliggere i suoi simili, e che può cosí raramenteaddolcire; quelli di cui non ha che notizia indiretta, e quellistessi che può soltanto concepire come possibili, tutti lo commuovonocome se fossero suoi. Non fissa piú lo sguardo sull'alterna vicendadei beni e dei mali della propria persona, come fa l'uomo ancoraschiavo dell'egoismo; ma invece, riuscito com'è a penetrare ilprincipium individuationis, ogni cosa lo tocca egualmente da vicino.Abbraccia tutto l'insieme delle cose, ne afferra l'essenza, e lariconosce consistere in un perpetuo annientamento, in uno sforzosterile, in una contraddizione intima, in una sofferenza senzatregua; dovunque volga lo sguardo, vede un'umanità dolorante,un'animalità sofferente, un mondo evanescente. Il tutto lo tocca davicino, come i mali della propria persona toccano l'egoista. Data unasimile conoscenza del mondo, come potrebbe l'uomo, con atti perpetuidi volontà, affermare la vita, aggrapparvisi sempre piú strettamente,e tenersela tanto a cuore? Mentre chi è ancora prigioniero nelprincipio individuationis e nell'egoismo, non concepisce che le coseparticolari, e soltanto in relazione con la propria persona, senzaricavarne che motivi sempre nuovi che lo eccitano a volere; alcontrario, la suaccennata conoscenza del tutto, la conoscenza dellanatura intima delle cose in sé, diviene un quietivo per qualsiasivolontà. La volontà allora si distacca dalla vita, e sente orrore ditutte le gioie in cui si traduce la sua affermazione. L'uomo pervienead uno stato di volontaria rinunzia, di rassegnazione, di perfettaquiete, e di soppressione completa del volere. A noi, miseri mortaliavvolti ancora nel velo di Maya, accade talvolta che un acerbo dolorepersonale, o la viva rappresentazione di sofferenze altrui, ci rendaconsci della nullità e dell'amarezza della vita; e allora vorremmo,con energico atto di rinunzia, smussare una volta per sempre la puntadei desideri, chiudere ogni accesso ai dolori, purificarci esantificarci; ma il fascino ingannatore del mondo fenomenico tornasubito a sedurci e irretirci, e i suoi motivi non tardano a metter dinuovo la volontà in movimento: siamo impotenti a liberarci. Leseduzioni della speranza, le lusinghe del presente, la dolcezza dellegioie, il benessere che per eccezione ci tocca talora in sorte fra lepene ed i guai di questo misero mondo dominato dal caso edall'errore, tutto ci sospinge indietro, e riallaccia di nuovo inostri vincoli con la vita. Ecco perché dice Gesú: «E' piú facile aduna gomena passare per la cruna di un ago, che ad un ricco l'entrarenel regno di Dio».La vita è paragonabile a una via circolare, coperta, fuorché inqualche tratto, di carboni ardenti, e che noi dobbiamo percorrere;gl'illusi, confortati dalla freschezza del tratto su cui si trovano,o che si vedono vicino, seguitano a percorrerla. Ma chi, riuscendo aveder oltre il principium individuationis, riconosce la natura dellacosa in sé o del tutto, non è piú capace di simili conforti; vede chedappertutto è lo stesso, e se ne va. La sua volontà si rivolge: nonafferma piú la propria essenza specchiantesi nel fenomeno; la nega.Il fenomeno in cui si manifesta il rivolgimento, è il passaggio dallavirtú all'ascesi. L'uomo non si contenta piú di amare i suoi similicome se stesso, e di fare per loro quello che farebbe per sé; masorge in lui una ripugnanza per quell'essere di cui è manifestazioneil suo stesso fenomeno, cioè, per la volontà di vivere, nocciolo edessenza di questo mondo di guai. La rinnega, anche in quanto simanifesta in lui e si esprime nel suo corpo; il suo agire smentiscerecisamente il suo fenomeno, e lo contraddice. Benché non sia eglistesso che fenomeno di volontà, cessa di volere, di attaccarsi aqualsiasi cosa, e si tien fermo in una indifferenza che non faeccezione. Il suo corpo, sano e forte, esprime negli organi diriproduzione il desiderio sessuale; ma egli rinnega la sua volontà, esmentisce il suo corpo, rifiutando ad ogni costo ogni soddisfazionesessuale. Il primo passo nell'ascesi, o nella negazione della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvolontà, è una libera e perfetta castità; che (rifiutando ilcommercio sessuale) nega questo affermarsi della volontà oltre lavita individuale, attestando cosí che, insieme con la vita del corpo,si sopprime anche la volontà di cui il corpo è manifestazione. Lanatura, sempre vera ed ingenua, dice che se questa massima divenisseuniversale, il genere umano perirebbe; ora, secondo ciò che dissi(nel secondo libro) sulla connessione reciproca dei fenomeni dellavolontà, crederei di poter affermare che, se della volontà svanissela manifestazione piú alta (l'uomo) svanirebbe insieme anche il suoriflesso, l'animalità; come, con la luce solare, svanirebbero lepenombre. Allora, soppressa in tutto la conoscenza, il resto delmondo si dissolverebbe nel nulla; non essendovi oggetto, senzasoggetto. Ricordo a proposito il seguente passo del Veda: «Come inquesto mondo i figlioli affamati si affollano attorno alla madre,cosí tutte le creature attendono il santo sacrificio» (AsiaticResearches, vol' Viii, Colebrooke, On the Vedas, nell'estratto delSamaVeda; si trova anche nei Miscellaneous Essays dello stessoautore, vol' I, pag' 88). Qui, sacrificio significa in generalerassegnazione, mentre il resto della natura attende la sua salvezzadall'uomo, che è nello stesso tempo il sacerdote e la vittima. Danotare, come lo stesso pensiero sia stato espresso da un misticomirabile di eccezionale profondità, Angelo Silesio, in una piccolapoesia intitolata L'uomo porta tutto a Dio:«Mensch! Alles liebet dich, um dich ist sehr Gedrange;@ Es läuftdir Alles zu, dass es zu Gott gelange.@» (24)E un mistico ancora piúgrande, Meister Eckhard, i cui scritti meravigliosi ci sono statifinalmente resi accessibili per merito dell'edizione curata da FranzPfeiffer (1857), si esprime a pag' 459, analogamente: «Io confermociò con le parole di Cristo, il quale dice: quando io verrò sollevatodalla terra, solleverò tutte le cose con me. (Joh' 12, 32.) Cosíl'uomo buono deve innalzare tutte le cose a Dio, loro prima sorgente.I dottori c'insegnano che tutte le creature son fatte per l'uomo.Dappertutto costatiamo che ogni creatura utilizza l'altra; l'agnelloutilizza l'erba, il pesce l'acqua, la belva la foresta; e tutte lecreature vengono utilizzate dall'uomo buono; che le prende,portandole poi l'una nell'altra fino a Dio». Vale a dire: l'utile,che l'uomo trae in questa vita dagli animali, consiste nel redimerli,in sé e con sé. Nel medesimo senso pare a me sia da interpretarel'oscuro passo della Bibbia, nella Lettera ai Romani, Viii, 21-24.Espressioni di tale verità non mancano neppure nel Buddismo; cosíad esempio, quando Buddha, ancora in forma di Bodhisatva, fa sellareil suo cavallo per l'ultima volta, per fuggire dalla casa paterna erecarsi nel deserto, rivolge all'animale queste parole: «Già da unpezzo sei nella vita e nella morte; d'ora innanzi cesserai di portaree di tirare. Ancora una volta, o Kantakana, portami via di qui;realizzata che io abbia legge [divenuto che sia Buddha] non miscorderò di te» (Foe Koue Ki, trad' p' Abel Rémusat, pag' 233).L'ascesi si manifesta inoltre nella povertà volontaria eintenzionale: essa non sorge per accidens, in quanto ci si spogliadei propri beni per addolcire le sofferenze altrui; ma ha per fine sestessa, e deve servire di costante mortificazione alla volontà,perché la soddisfazione dei desideri e le dolcezze della vita nonvengano di nuovo ad eccitarla; la volontà, per il soggetto resosiautocosciente, essendo divenuta oggetto di orrore. L'uomo, giunto aquesta altezza, sente ancora, in quanto corpo animato, in quantofenomeno concreto della volontà, i desideri del volere, ma lireprime, costringendosi a non far nulla di ciò che farebbevolentieri, e a fare ciò che non vorrebbe; per contribuire, se nonaltro, alla mortificazione della volontà. Poiché rinnega egli stesso,la volontà che si manifesta in lui neppure si opporrà piú a chi glifacesse qualcosa di simile, a chi gli facesse torto; accoglierà comebenvenuta ogni sofferenza che gli venga dal di fuori, sia per caso,che per altrui malvagità; lo stesso dicasi di ogni oltraggio, di ognioffesa, di ogni affronto; tutto accoglie con gioia, non vedendoci cheun'occasione per provare a se stesso di essersi ormai alienatodall'affermare la volontà, e inimicato con quella sua manifestazionespeciale che è la persona. Sopporta dunque oltraggi e dolori, con unapazienza e una dolcezza inesauribili; rende senza ostentazione bene

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtper male; non permette che si riaccenda in lui l'ardore né dellacollera né del desiderio. E, come la volontà, mortifical'oggettivazione visibile della volontà, il corpo. Lo nutreparcamente, perché la sua floridezza rigogliosa non ridesti a vitaenergica la volontà, di cui quello è l'espressione e lo specchio.Pratica il digiuno, la macerazione; giunge a flagellare la propriacarne, per abbattere sempre piú, con le privazioni e le sofferenzecontinue, quella volontà in cui ravvisa e detesta l'origine dellatravagliata esistenza sua e del mondo. La morte infine, quando vienea distruggere la manifestazione di una tale volontà, ch'egli avevagià da tempo con atto di libera negazione uccisa nella sua essenza,non lasciandone vivere che il debole resto animante il suo corpo, èda lui salutata con gioia, e accolta festosamente come unaliberazione sospirata. In lui la morte non si limita, come neglialtri, a porre un termine al semplice fenomeno; ma sopprime anchel'essenza, il cui ultimo barlume di esistenza non era dovuto che alfenomeno; (25) ora vien rotto anche questo fragile ultimo legame. Perchi finisce così, finisce in pari tempo anche l'universo.Non si creda che quanto qui si descrive con parole scolorite egeneriche, sia forse una favoletta filosofica immaginata oggi da me;si tratta d'una dottrina, che formò la vita invidiabile di una folladi santi e di anime belle tra i cristiani, e piú ancora tra gli indúe i buddisti, per non parlare dei fedeli di altre ed altre religioni.L'espressione dogmatica razionale della dottrina fu senza dubbiodiversa; ma la pratica della vita espresse in tutti, senza eccezione,concordemente, una medesima conoscenza, quella conoscenza interiore,immediata e intuitiva, che è la sorgente unica di ogni virtù e diogni santità. Anche qui riconosciamo la differenza radicale fraconoscenza intuitiva e conoscenza astratta: differenza di cui sitenne sinora piccolo conto, mentre ha, invece, una grande importanzae un'applicazione generale in tutto il corso delle nostreconsiderazioni. Tra questi due tipi di conoscenze c'è un abisso, che,relativamente alla conoscenza dell'essenza dell'universo, la solafilosofia è in grado di colmare. Infatti, finché restiamo nel campodell'intuizione, in concreto, ognuno è propriamente conscio di tuttele verità filosofiche; sistemarle nel sapere astratto, tradurle nellariflessione, è il compito del filosofo; il quale non ha né il dirittoné il potere di andare al di là.Questo nostro lavoro è dunque forse il primo, in cui l'essenzaintima della santità, dell'autorinnegazione, della mortificazionevolontaria e dell'ascesi, sia stata espressa con formule astratte,scevre d'ogni elemento mitico, come negazione della volontà di vivereverificantesi ogni volta che la conoscenza perfetta della proprianatura divenga per l'uomo un quietivo di ogni volere. Cogliereintuitivamente questa essenza, e tradurla nell'azione, fu opera deisanti e degli asceti; che, sebbene tutti fossero ispirati da unastessa conoscenza interiore, parlavano ciascuno un linguaggiodifferente, secondo i dogmi di cui s'era imbevuta la loro ragione.Alla varietà dei dogmi si deve, se ogni santo si rende un conto bendiverso della propria condotta, secondo che sia indiano, cristiano olamaista, ma l'essenza della cosa resta sempre inalterata. Che unsanto sia imbevuto delle piú assurde superstizioni, o sia unfilosofo, non importa. Ciò che lo fa e lo rivela santo, è unicamentela condotta; e questa, considerata moralmente, non scaturisce da unanozione astratta, ma si ispira alla conoscenza intuitiva e immediatadel mondo e della sua essenza. Il santo poi cercherà, con l'unicointento di tranquillizzare la sua ragione, di spiegarsi, per via d'unqualsiasi dogma, la sua condotta. Non è dunque necessario, ad unsanto, d'esser filosofo; come non è necessario che il filosofo siasanto: dire il contrario, sarebbe come sostenere che un bell'uomodebba di necessità essere un grande scultore, o che un grandescultore debba essere un bell'uomo. E' in generale assurda lapretensione che un moralista insegni quelle sole virtú che possiedeegli stesso. Tradurre l'essenza dell'universo in nozioni astratte,universali e distinte, fissarne l'immagine in concetti razionali bendeterminati e sempre pronti a nostra disposizione, questo, e soltantoquesto è il compito della filosofia. Si ricordi il passo di Bacone diVerulamio, già citato nel primo libro.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtCerto: la pittura che feci della negazione della volontà di vivere,o, in altri termini, della condotta di una bell'anima, di un'animarassegnata e santa che fa volontaria penitenza, non è che unadescrizione astratta, generica e fredda. Ma la conoscenza da cuiscaturisce la negazione della volontà è intuitiva, e non astratta;non può trovare la sua espressione completa nel concetto astratto;bensí, soltanto nell'azione e nella condotta. Quindi, chi vuol megliopenetrare l'essenza di ciò che noi traduciamo col termine filosoficodi negazione della volontà, deve ricorrere agli esempi offerti dallarealtà e dall'esperienza. Non certo dall'esperienza quotidianaperché, come dice benissimo Spinoza: «Nam omnia praeclara tamdifficilia quam rara sunt». Cosí, se un destino eccezionalmentefavorevole non ci offra l'occasione di esser testimoni oculari,dovremo contentarci di biografie. La letteratura indiana, pergiudicarne da quel tanto che se ne sa dalle traduzioni, sembra moltoricca in biografie di santi, di espiatori, di samanei, di sannyasi,ecc'. Anche il libro Mythologie des Indous di Mad' de Polier, operaassai nota, benché non raccomandabile sotto ogni riguardo contienemolti ottimi esempi di questo genere (specialmente nel 13o capitolodel Ii volume). Né i cristiani mancano di esempi che illustrino lanostra teoria. Non c'è che da leggere le biografie, d'ordinario moltomale scritte, di persone analoghe, sotto i nomi, ora di santi, ora dipietisti, di quietisti, di pii, di visionari, ecc'. Raccolte di talibiografie si fecero in diversi tempi; citiamo la Vita delle animesante di Tersteegen; la Storia dei rigenerati del Reiz; la raccoltadel Kanne, comparsa ai nostri giorni, fra molto di cattivo contieneanche qualcosa di buono, specialmente La vita della beata Sturmin. Unposto speciale nella serie appartiene alla vita di San Francescod'Assisi, che fu la vera personificazione dell'ascesi, l'ideale delfrate mendicante. La sua biografia, scritta da un contemporaneo piúgiovane, San Bonaventura, celebre anche come scolastico, furecentemente ripubblicata col titolo Vita S' Francisci a S'Bonaventura concinnata (Soest, 1847); e poco prima era apparsa inFrancia una biografia accurata, completa e attinta alle migliorifonti: Histoire de S' François d'Assise di Chavin de Mallan (1845).Come equivalente orientale di questi scritti monastici, abbiamol'interessantissimo libro di Spence Hardy: Eastern Monachism, anAccount of the Order ot Mendicants Founded by Gotama Budha, 1850 (Lavita monastica in oriente: studio sull'ordine dei mendicanti fondatoda Gotamo Buddha). Ci troviamo il medesimo contenuto, sotto una vestedifferente; il che dimostra quanto poco importi che la santitàprovenga da una religione teistica od atea. In modo particolare, comeesempio speciale completo, e come illustrazione pratica delle idee dame esposte, raccomando l'autobiografia di Madame de Guyon; animabella e grande, la cui memoria m'ispira sempre il piú alto rispetto;studiarsi di conoscerla, e render giustizia alla nobiltà dei suoisentimenti, indulgendo alle aberrazioni della sua intelligenza,dev'esser una vera gioia per un'anima eletta; tanto piú, che quellibro non acquisterà mai credito fra gli spiriti volgari, cioè fra lagrande maggioranza degli uomini; perché nessuno apprezza, né potràmai apprezzare, se non ciò che presenta qualche analogia con i suoisentimenti, e verso di cui sente una certa disposizione, per quantodebole. E questo è vero nell'ordine intellettuale, come nell'ordinemorale. Come un altro esempio si potrebbe in certo senso considerareanche la nota biografia francese di Spinoza; ma, per comprenderla,bisogna cercarne la chiave nella magnifica introduzione da luipremessa al molto mediocre trattato De emendatione intellectus;introduzione che raccomando come quanto di piú energico e di piúefficace sia stato mai scritto per calmare la tempesta dellepassioni. Allo stesso grande Goethe, pur tutto greco, non parveindegno di lui mostrarci nel limpido specchio della poesia questolato bellissimo dell'umanità; nelle Confessioni di un'anima bella cirappresentò, in una luce ideale, la vita della signorina Klettenberg;e piú tardi, ce ne offrí delle notizie storiche anche nella propriabiografia; ci narrò inoltre, per ben due volte, anche la vita di SanFilippo Neri. La storia non parlerà mai, e non può del restoparlarne, di quegli uomini la cui condotta presenta l'illustrazionemigliore e piú completa di questo punto importante delle nostre

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconsiderazioni. Infatti, la materia della storia è non soltanto moltodiversa, ma opposta; la storia non si preoccupa della negazione esoppressione della volontà di vivere; studia, invece, l'affermazionedella volontà medesima, e la sua estrinsecazione in un numeroinfinito d'individui; estrinsecazione, in cui la volontà rivela, nelmodo piú patente, il conflitto interiore che la travaglia sulla vettadella sua oggettivazione; facendoci vedere, ora il predominiodell'individuo in virtú della saggezza, ora la forza dellemoltitudini, ora la potenza del caso personificato nel destino;sempre, la vanità e la nullità dello sforzo totale. Ma noi, che nonseguiamo il filo dei fenomeni nel tempo; noi, che da filosofi,cerchiamo invece d'investigare il significato etico delle azioni, ece ne serviamo come di misura per tutto quanto abbia importanza evalore, noi proclameremo coraggiosamente, senza lasciarci spaventaredalla voce sempre contraria dei piú, cioè degli spiriti sciocchi evolgari, che il fenomeno piú sublime, piú importante e piúsignificativo che possa mai comparire sulla faccia della terra, non èil conquistatore del mondo, ma il vincitore di se medesimo: la vitaquieta e silenziosa di un uomo sollevatosi all'altezza suprema dellaconoscenza, in cui rinnega e sopprime la volontà di vivere che tuttodomina e pervade, che in tutto travaglia e si sforza, e, adesclusione di qualsiasi altra creatura, ne attua in sé la libertà,traducendola in una condotta opposta alla consueta. Per il filosofo,che abbia una siffatta concezione del mondo, le biografie dei santi edegli asceti, benché il piú delle volte scritte molto male, benchépiene di assurdità e di superstizioni, riescono, per il significatodella materia, molto piú istruttive e piú importanti che non lestorie di Plutarco e di Livio.Per approfondire e completare la conoscenza di ciò che, nel nostrometodo astratto e generale di esposizione, chiamammo negazione dellavolontà di vivere, è necessario studiare i precetti morali, che, insenso pienamente conforme al nostro, furono dati da uomini penetratidello stesso spirito; vedremo, allora, quanto siano antichi questiconcetti, benché nuova ne possa essere l'espressione filosofica. Lapiú vicina a noi, fra tutte queste dottrine, è il Cristianesimo; lasua etica, edificata sullo stesso ordine di sentimenti, non soltantoraccomanda la carità suprema ma anche la rinunzia; quest'ultimo latosi trova già in germe, sotto forma visibilissima, negli scritti degliApostoli; ma non fu sviluppato completamente, né esposto explicite senon piú tardi. Ciò che gli Apostoli ci raccomandano, è di amare ilprossimo come noi stessi, di fare il bene, di ricambiare con lacarità coloro che ci odiano, di essere pazienti e miti, dirassegnarci docilmente alle offese, di essere temperanti per domarela concupiscenza, di resistere agli appetiti carnali, e, sepossibile, di essere assolutamente casti. Dove già riconosciamo iprimi gradini dell'ascesi o negazione della volontà: espressione,quest'ultima, il cui senso corrisponde perfettamente a ciò che gliEvangeli chiamano «rinnegare se stesso» e «portare la sua croce»(Math' Xvi 24-25; Marc' Viii, 34-35; Luc' Ix, 23-24; Xiv, 26, 27,33). Queste tendenze si svilupparono sempre piú, e diedero origineagli asceti, agli anacoreti e ai monaci; istituzioni pure e sante, maappunto perciò inadatte alla grande maggioranza degli uomini edestinate quindi a produrre, col tempo, non altro che ipocrisia eabominazione, perché abusus optimi pessimus. Nello sviluppo ulterioredel Cristianesimo, vediamo questo germe ascetico sbocciare, arrivandoal suo fiore negli scritti dei santi e dei mistici cristiani. Questinon predicano soltanto l'amore piú puro, ma la piena rassegnazione,la povertà completa e volontaria, la vera calma, l'assolutaindifferenza per tutte le cose del mondo, la mortificazione dellavolontà, la rinascita in Dio, l'oblio totale della propria persona el'abbandono nella contemplazione del Signore. Un'esposizione completadi tali precetti si trova in Fénélon: Explication des maximes desSaints sur la vie intérieure. Ma in nessun luogo lo spirito delCristianesimo in tale stadio di sviluppo si espresse in modo perfettoed energico, come negli scritti dei mistici tedeschi, specie inMeister Eckhard, e nel libro giustamente celebre Die deutscheTheologie (La teologia tedesca), opera di cui Lutero, in unaprefazione annessavi, diceva che nessun'altra, eccettuata la Bibbia e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtS' Agostino, gli aveva meglio insegnato a conoscere Dio, il Cristo el'uomo; ma il suo testo puro e genuino non lo possediamo che dal1851, grazie all'edizione curatane dallo Pfeiffer di Stuttgart. Iprecetti e le dottrine lì contenute sono l'esposizione piú vasta, eispirata dalla fede piú profonda, di quella che io chiamai lanegazione della volontà di vivere. Qui bisogna studiarecoscienziosamente, prima di emanar sentenze con sicumeragiudaicoprotestantica. Scritta nello stesso spirito, sebbeneinferiore all'opera di Eckhard, è la Nachfolgung des armen LebenChristi (Imitazione della povera vita di Cristo) dovuta al Tauler; e,accanto ad essa, la sua Medulla animae. Secondo me, le dottrine diquesti mistici puramente cristiani stanno ai precetti del NuovoTestamento, come lo spirito al vino. In altre parole: ciò che nelNuovo Testamento ci appare come velato di nebbia, negli scritti deimistici traspare senza velo, e brilla in piena luce meridiana.Insomma: considererei il Nuovo Testamento come la prima, e i misticicome la seconda edizione; "smikrà kaì megäla mustéria".Ancora piú sviluppata, espressa in forme piú varie e in colori piúvivi che non nella Chiesa cristiana e nell'Occidente, la negazionedella volontà di vivere ci appare come concetto ispiratore delleantiche opere di lingua sanscrita. Se questa importante concezionemorale della vita vi poté raggiungere un così alto sviluppo, ed unaespressione così energica, la causa è forse da cercare nel fatto chela concezione medesima non venne laggiú contaminata da alcun elementoestraneo, quale ad esempio fu, per il Cristianesimo, quella dottrinagiudaica cui Gesú, il sublime fondatore della religione cristiana, inparte scientemente, in parte forse inconsciamente, dovetteaccomodarsi e piegarsi; sicché il Cristianesimo si compone di dueelementi costitutivi eterogenei, fra i quali non esiterei a chiamarecristiano il solo elemento morale puro, escludendone tutto ildogmatismo giudaico. Se, come si ebbe qualche ragion di temere,soprattutto nei tempi moderni, questa religione sublime e salutaredovesse un giorno cadere in rovina, la ragione sarebbe da cercare, ame pare, nel suo constare di due elementi, eterogenei quantoall'origine e non fusi insieme che dal corso delle circostanze; laloro separazione, risultante dalla loro naturale antipatia e dallareazione dello spirito sempre piú illuminato dei tempi, produrrebbe,certo, la temuta dissoluzione; ma l'elemento morale puro, comeindistruttibile, ne uscirebbe sempre intatto. Ritornando all'eticadegl'indiani (che, nonostante l'imperfetta conoscenza della loroletteratura, possiamo oggi veder espressa con forza e sotto le formepiú varie nei Veda, nei Puranas, nei poemi, nei miti, nelle sacreleggende, nelle sentenze e nei loro precetti di condotta), (26)vediamo ch'essa prescrive: l'amore universale, abbracciante, oltreall'umanità, ogni creatura vivente; la carità spinta fino alladedizione di quanto a fatica si fosse guadagnato nel giorno; unapazienza infinita nel sopportare gli oltraggi, il contraccambio conl'amore e con il bene, del male, anche del piú acerbo dei mali; larassegnazione volontaria e gioiosa a qualsiasi umiliazione;l'astensione da ogni cibo animale; la castità assoluta e la rinunziaal piacere, per chi aspiri alla santità perfetta; lo spogliarsi diogni ricchezza, l'abbandonare ogni abitazione, il lasciare i propricari, il vivere nell'isolamento piú profondo, l'immergersi nelsilenzio della contemplazione; il far penitenza volontaria el'infliggersi lenti e spaventosi supplizi, in vista di unamortificazione completa della volontà, spinta fino al morir di fame,al gettarsi in pasto ai coccodrilli, al precipitarsi dal culminesacro dell'Himalaya, al farsi sotterrar vivi, al buttarsi sotto leruote dell'immane carro che porta in processione le statue degli dèi,fra i canti, le grida di gioia e le danze delle baiadere. E questeprescrizioni, la cui origine risale a piú di quattromila anni orsono, vengono anche oggi osservate, e da qualcuno applicate conestremo rigore, per quanto il popolo indiano sia sotto molti aspettidegenerato. (27) Precetti che riuscirono, quantunque tanto gravosi, aimporsi tanto a lungo a un popolo tanto numeroso, non potrebberoessere invenzioni fantastiche del capriccio; debbono avere una radicenell'essenza stessa dell'umanità. Si aggiunga l'accordo meravigliosotra gli asceti dell'India e i santi cristiani, reso manifesto dalla

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlettura delle loro vite. Nonostante le differenze radicali dei dogmi,dei costumi e delle circostanze, l'aspirazione dell'anima e la vitainteriore sono identiche negli uni e negli altri. E identiche delpari sono le regole di condotta; così, ad esempio, ci dice Tauler chebisogna praticare l'assoluta povertà, cioè spogliarsi ed astenersi datutto quanto possa offrire una consolazione o gioia mondana, chefornirebbe nuovo alimento alla volontà, della quale va fatto invecesacrificio completo. Come corrispettivo indiano, vediamo che leprescrizioni del Fo raccomandano al sannyasi non solo di non avercasa né beni, ma di non coricarsi troppo sovente sotto uno stessoalbero, per non esporsi ad affezionarvisi, prediligendolo agli altri.I mistici cristiani e i filosofi del Vedanta s'accordano anche in unaltro punto: ritengono che il saggio arrivato alla perfezione siaesente da ogni opera esteriore e da ogni pratica religiosa. Unaccordo cosí pieno, in tempi e in popoli cosí differenti, prova conchiara eloquenza che qui si tratta, non, come si compiace disostenere la scipitaggine ottimistica, di una stortura od aberrazionedel sentimento, ma della manifestazione - tanto piú rara quanto piúsublime - di uno dei lati essenziali della natura umana.Ormai ho indicato le sorgenti da cui si possono attingere, nellaloro vita immediata, i fenomeni in cui s'incarna la negazione dellavolontà di vivere. Benché questo sia in certo modo il punto capitaledi tutta la nostra trattazione, mi sono tuttavia limitato a parlarnein termini generali; meglio rinviare a chi parla per esperienzavissuta, piuttosto che ingrossare inutilmente il volume, con unapallida ripetizione delle sue parole.Mi resta soltanto da aggiungere qualche cenno, per caratterizzarein linee generali un simile stato d'animo. Abbiamo visto che ilmalvagio, a causa della violenza del suo volere, prova una torturainteriore che lo divora senza un momento di tregua; e, quando tuttigli oggetti del volere sono esauriti, estingue la sete furiosa delsuo egoismo nello spettacolo delle sofferenze altrui. Ebbene: chi siagiunto alla negazione della volontà di vivere, per quanto misera,triste, piena di privazioni possa parerne la condizione a chi laguardi dal di fuori, gode di una gioia interiore e di una calmaveramente celeste. Non c'è, in lui, come invece negli uomini bramosidi vita e di piacere, né quel tumulto di vita, né quel trasporto digioia, che presuppongono sempre, come condizione anteriore osuccessiva, un dolore violento; ma la sua è una pace imperturbabile,una calma profonda, una serenità interiore; egli vive in uno statoche non possiamo né contemplare né soltanto immaginare, senzaconcepirne il piú vivo senso d'invidia, perché lo riconosciamo comeil solo giusto, come il solo che superi ogni altra condizione almondo; ciò che di migliore si agita in noi vi c'invita, gridandocidentro il grande «sapere aude». Costatiamo allora che lasoddisfazione elemosinata dal mondo ai nostri desideri, somiglia allacarità che oggi mantiene in vita il mendicante, per farlo domanilanguire nuovamente di fame. La rassegnazione, al contrario, è unpatrimonio ereditario; chi lo possiede, si sente libero per sempre daqualsiasi preoccupazione.Ci sovviene che nel terzo libro abbiamo visto che il piacereestetico consiste in gran parte nel fatto che, immergendoci nellostato di contemplazione pura, noi ci liberiamo per un istante da ognivolontà, da ogni desiderio e da ogni preoccupazione; ci spogliamo, incerto qual modo, di noi stessi; non siamo piú l'individuo che ponel'intelligenza al servizio del volere, il soggetto correlativo allacosa particolare, per il quale tutti gli oggetti divengono motivi divolizione; ma bensí, purificati da ogni volontà, siamo il soggettoeterno della conoscenza, il correlato dell'idea. Sappiamo altresí chequesti momenti, in cui, liberati dalla tirannia furiosa dellavolontà, ci solleviamo in certo modo al di sopra della graveatmosfera terrestre, sono i piú felici noti a noi. Da qui possiamoimmaginare quanto debba esser felice la vita di un uomo, la cuivolontà non sia acquietata per un solo momento, come nell'estasiestetica, ma calmata per sempre, anzi, ridotta completamente alnulla, fuor di quella piccola scintilla che anima tuttavia il corpo,e che svanirà con la vita. L'uomo che, dopo tanti angosciosiconflitti con se medesimo, riesce infine a così piena vittoria, non è

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiú ormai che un soggetto puro di conoscenza, ed un limpido specchiodel mondo: nulla può angustiarlo e commuoverlo; avendo spezzatociascuno dei mille fili che ci tengono attaccati alla terra: ildesiderio, il timore, l'invidia, la collera, e simili passioni, checi sconvolgono e dilaniano atrocemente. Con volto placido esorridente, contempla le immagini illusorie di questo mondo, che ungiorno tanto commossero ed agitarono l'animo suo, ma che oggi glistanno di fronte indifferenti, come le figure degli scacchi quando ilgiuoco è finito, e come, al mattino, gli sparsi abiti da maschera,che lo avevano tanto stuzzicato e tormentato per una notte dicarnevale. La vita e le sue forme fluttuano dinanzi a lui come ombrefuggitive, come lieve sogno mattinale nella semiveglia; un tal sognolascia già scorgere la realtà, e non può dare piú appiglio adillusione. Tutte queste considerazioni ci aiutano a comprendere checosa voglia dire M'me de Guyon, quando, verso la fine della suaautobiografia, ripete cosí spesso: «Tutto mi è indifferente: io nonposso piú voler nulla: spesso io non so se esisto o se non esisto».Per esprimere poi come, dopo l'annientamento della volontà, la mortedel corpo (fenomeno della volontà, con la soppressione della qualeperde ogni significato) non solo non può aver piú nulla di amaro, mavien salutata con gioia, mi sia permesso citare le parole testuali,benché ineleganti, di questa santa penitente: «Midi de la gloire;jour où il n'y a plus de nuit; vie qui ne craint plus la mort, dansla mort même; parce que la mort a vaincu la mort, et que celui qui asouffert la première mort, ne goûtera plus la seconde mort» (Vie deMad' de Guyon, Ii volume, pag' 13).Non bisogna tuttavia credere che la negazione della volontà divivere, una volta conquistata in virtú della conoscenza divenutaquietivo, non sia piú esposta a vacillare, e che ci si possa riposarefiduciosi come su di un bene definitivamente acquisito. Anzi, bisognasenza tregua riconquistarla con sempre nuove lotte. Infatti, siccomeil corpo non è che volontà divenuta oggetto o fenomeno nel mondo comerappresentazione, finché il corpo è vivo, anche la volontà di viverevirtualmente sussiste, e fa continui sforzi per rientrare nellarealtà, e riaccendersi di nuovo con piú ardore che mai. Cosí, nellavita dei nostri santi, la quiete e la beatitudine ci appaionosoltanto come un fiore sbocciato da una costante vittoria sullavolontà e cresciuto sul campo della lotta senza tregua contro lavolontà di vivere, a nessuna creatura essendo concesso di gustaresulla terra il riposo eterno. Leggendo le biografie dei santi,vediamo che la storia della loro vita intima è piena di lottespirituali, di tentazioni e di defezioni dalla grazia, cioè da quellaforma di conoscenza che, rendendo inefficace ogni motivo, agiscesulla volontà come un quietivo generale, procura la pace piúprofonda, ed apre le porte della libertà. Perciò coloro che una voltagiunsero alla negazione della volontà, non vi si mantengono che invirtú di uno sforzo incessante, infliggendosi privazioni di ognispecie, assoggettandosi a una vita di aspra penitenza, cercando tuttociò che riesca loro sgradevole: tutto questo, all'unico fine direprimere la volontà sempre ribelle. Di qui, anche, l'ansiosa premuracon la quale, conoscendo già il prezzo della redenzione, procurano dimantenersi nello stato di salvezza; di qui gli scrupoli di coscienzaper la piú innocente fra le gioie, e per il minimo risveglio dellaloro vanità, passione che è il piú indistruttibile, il piú vivace eil piú folle fra gl'istinti umani; e che, anche in loro, è l'ultima amorire. Con il termine di ascesi, da me già piú volte impiegato,intendo in stretto senso quell'annientamento intenzionale dellavolontà, che si ottiene rinunziando ai piaceri, e andando in cercadelle sofferenze: cioè la pratica volontaria di una vita di penitenzae di macerazioni, fatta in vista di una costante mortificazione delvolere.Ora, se l'ascesi è, per l'uomo arrivato alla negazione dellavolontà, l'unico mezzo per mantenervisi, c'è però anche una secondavia (deüteros plovs) conducente alla stessa meta: la via del dolore.Anzi: è questo, per la maggior parte degli uomini, l'unico sentierodella redenzione. Il dolore, il dolore sentito, non quellosemplicemente conosciuto, è quello che produce quasi sempre lacompleta rassegnazione, soprattutto in vicinanza della morte.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtPochissimi sono coloro cui, per giungere alla negazione dellavolontà, basti quella semplice conoscenza che, dopo aver penetrato ilprincipium individuationis, comincia con il produrre la piú elevatabontà e la carità universale, terminando con il farci riconoscerecome nostro dolore il dolore del mondo intero. Anche per l'uomoprossimo a una tal perfezione, il benessere suo, le lusinghe delpresente, le attrattive della speranza, le occasioni, pronte sempre asoddisfare la volontà o gli appetiti, costituiscono altrettantiostacoli perpetui alla negazione del volere, e una tentazione perennead affermarlo sempre di nuovo. E di qui sorse l'idea di personificaretutte queste seduzioni nel Diavolo. Prima dunque che la volontàcompia il suo atto di autorinnegazione, è quasi sempre necessario cheuna grande sofferenza venga a fiaccarne il potere. Allora vediamo chel'uomo, dopo aver salito ad uno ad uno i gradini di un'angosciasempre crescente, dopo aver lottato con tutta l'energia, mentre staper gettarsi nel precipizio della disperazione, rientra d'improvvisoin sé, riconosce se stesso e il mondo, s'impone una metamorfosiradicale, si eleva al disopra di sé e della sofferenza, e, quasipurificato e santificato da questa, rinunzia, con una calma, con unabeatitudine, con una elevatezza di spirito che nulla può turbare atutto ciò che prima bramava con furiosa violenza, e attende con gioiala morte. La negazione della volontà di vivere, la redenzione, sisprigiona come un guizzo dalla fiamma purificatrice del dolore. Anchei piú empi e i piú malvagi si vedono, per la via crucis dellasofferenza, salire a un grado elevato di purificazione; divengonotutt'altri, modificandosi radicalmente. Allora i delitti del passatonon tormentano piú la loro coscienza; li espiano volentieri con lamorte, e vedono con gioia estinguersi la manifestazione dellavolontà, divenuta ormai, per loro, oggetto di odio e di orrore.Nell'immortale capolavoro, il Faust, il grande Goethe ci offre, conla storia delle sofferenze di Margherita, un quadro luminoso edeloquente, quale non ci è dato in alcun'altra poesia, di questanegazione del volere, che segue le gravi sventure e la perdita diogni speranza di salvezza. Abbiamo, in tale storia, un esempio chesimboleggia nel modo piú eloquente la seconda via, che alla negazionedella volontà conduce, non, come la prima, in virtú della sempliceconoscenza del dolore universale cui volontariamente partecipiamo;bensí, per opera di un dolore strapotente che trafigga la nostrastessa anima. Non mancano tragedie aventi come protagonisti eroidalla volontà impetuosa, che giungono a quello stato di perfettarassegnazione in cui d'ordinario la volontà di vivere si estingueinsieme con il suo fenomeno; ma nessuna, ch'io sappia, in modo piúchiaro, piú semplice e piú puro del Faust, ci manifesta l'essenza diuna tale conversione.Nella pratica della vita, non è raro il caso di riscontrare similiconversioni in poveri infelici destinati a suggere fin l'ultimastilla dell'amaro calice del dolore, in disgraziati che, ancora nelfiore della loro attività spirituale, sono attesi, dopo avere perdutoogni speranza, dalla morte ignominiosa, violenta, e spesso atroce delpatibolo. Non dobbiamo credere che fra il loro e il carattere deipiú, ci sia tutta quella gran differenza che il loro destino parrebbeindicare; perché il destino si deve, in gran parte, attribuire allecircostanze. Sono, di certo, colpevoli, e considerevolmente malvagi.Però molti di costoro, giunti al colmo della disperazione, si vedonoconvertirsi nel modo indicato. E allora danno prova di una realebontà e di purezza di sentimento, inorridiscono d'ogni azione puntomalvagia o poco caritatevole; perdonano ai loro nemici, anche aicalunniatori che li abbian fatti condannare innocenti; e non soltantoa parole, o per una paura ipocrita della giustizia divina, ma perintima e sincera disposizione d'animo, aborrono da ogni desiderio divendetta. Piú ancora: finiscono per amare le loro sofferenze, la lorostessa morte; la negazione della volontà di vivere pervade tutto illoro essere: non di rado rifiutano la salvezza che loro vien offerta,e muoiono gioiosi, calmi e sereni. L'eccesso del dolore fu, per loro,la rivelazione dell'ultimo segreto della vita; ormai comprendono cheil dolore ed il male, la sofferenza e l'odio, il tormentatore e lavittima, per quanto paian diversi alla conoscenza ispirata dalprincipio di ragione, sono in sé una sola e medesima cosa, e cioè

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfenomeni di quell'unica volontà di vivere che oggettivizza il suoconflitto con se stessa nel principio individuationis; hanno imparatoa conoscere appieno le due facce delle cose, la malvagità e ildolore, ed avendole riconosciute identiche, evitano l'una e l'altrainsieme annientando la volontà di vivere. I miti e i dogmi, con cuicerchino di render conto alla loro ragione di una tale conoscenzaintuitiva ed immediata, nonché della conversione che ne deriva, nonhanno in proposito (come già notavamo) alcuna importanza.Matthias Claudius dovette senza dubbio essere stato testimonio diuna simile metamorfosi di sentimento, quando scrisse nel WandsbeckerBoten (Parte I, pag' 115) quel notevole saggio intitolato Storiadella conversione di ***, il quale termina con la seguenteconclusione: «Il pensiero dell'uomo può passare da un punto dellaperiferia al punto opposto, e ritornare in seguito al punto dipartenza; basta che le circostanze gliene forniscano l'occasione.Simili mutamenti non costituiscono certo qualcosa di grande ed'interessante nella natura umana. Ma questa meravigliosa conversionecattolica, questa metamorfosi trascendentale, dove il cerchio delpensiero è irrevocabilmente spezzato, e tutte le leggi dellapsicologia divengono inutili e vane, dove l'individuo spoglia, o perlo meno rovescia, il suo vecchio mantello, e gli cadono dagli occhile scaglie, costituisce un tale prodigio che, chiunque abbia un po'di fiato, non esiterà ad abbandonare il padre e la madre per correrea vederlo con i propri occhi e ad assicurarsene con i propriorecchi».La prossimità della morte e l'abbandono della speranza non sono delresto assolutamente indispensabili per arrivare alla purificazioneper via del dolore. Una sventura, un'angoscia profonda, possonbastare senz'altro a suscitare in noi la coscienza piú energica dellacontraddizione della volontà di vivere con se stessa, e a farciriconoscere l'inutilità finale di tutti i nostri sforzi. Perciò sividero sovente uomini dalla vita travagliata nelle tempeste dellepassioni, e re, ed eroi o avventurieri, convertirsi repentinamente,votarsi alla rassegnazione e alla penitenza, farsi monaci ed eremiti.Questa è la natura e l'origine di tutte le vere conversioni; ci bastiad esempio la storia di Raimondo Lullo. Dopo aver corteggiato a lungouna bella dama, ottenne finalmente un invito alla stanza di lei;ebbene: al momento in cui stava per realizzare i suoi lunghi voti, ladama si sciolse le vesti, e gli mostrò il seno divorato da unorribile cancro. Da quell'istante, quasi avesse visto l'inferno, siconvertí, abbandonò la corte del re di Maiorca, e si ritrasse a farpenitenza nel deserto. (28) Molto simile a questa è la storia dellaconversione dell'abate Rancé, che narro brevemente nel capitolo 48del secondo volume. Se pensiamo che la causa occasionale di similemetamorfosi fu, in ambedue, il brusco passaggio dal lato gaio eseducente al lato orribile e spaventoso della vita, non ci riusciràdifficile spiegare il fatto sorprendente che la nazione piú mondana,la piú gaia, la piú sensuale e la piú frivola d'Europa, cioè laFrancia, sia appunto quella che istituí l'ordine monastico di granlunga piú severo di tutti, quello dei Trappisti; restaurato da Rancédopo la sua dissoluzione, mantenutosi fino ad oggi in tutta la suapurezza e in tutto il rigore terribile della sua regola, nonostantele rivoluzioni, nonostante le riforme della Chiesa, e in dispettodell'incredulità sempre crescente.E' facile tuttavia che la nozione della natura vera dell'esistenzascompaia insieme con le circostanze che l'abbiano prodotta; che lavolontà di vivere risusciti di nuovo, e che ricompaia insieme ilcarattere anteriore. Ce ne dà una prova il passionale BenvenutoCellini. Convertitosi due volte nel detto modo, una prima inoccasione del carcere, una seconda in seguito a una crudele malattia,sempre, scomparso il dolore, ricadde negli antichi traviamenti. Lanegazione della volontà di vivere non segue generalmente al dolorecon la necessità matematica dell'effetto rispetto alla causa: lavolontà resta libera. E questo è anzi l'unico punto in cui la sualibertà si rivela immediatamente nel fenomeno; donde la meravigliache Asmus espresse cosí fortemente a proposito della «conversionetrascendentale». Ad ogni sofferenza si può opporre una volontàsuperiore in energia, e quindi indomabile. Platone, ad esempio, ci

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparla nel suo Fedone di condannati che, prima del supplizio,mangiano, bevono e sacrificano a Venere, affermando fino all'istantedella morte la loro volontà di vivere. Shakespeare ci dipinge, nelcardinal di Beaufort (Henry Vi, Parte Ii, Atto Iii, Sc' 3), la finespaventosa di uno scellerato che muore al colmo della disperazione,poiché né le sofferenze né la morte riuscirono a spezzare la suavolontà, violenta e malvagia fino all'estremo.Quanto piú impetuosa è la volontà, tanto piú stridente è il suoconflitto con se stessa; tanto piú grande, per conseguenza, ildolore. Un mondo che fosse l'oggettivazione fenomenica di una volontàdi vivere incomparabilmente piú violenta di quella che anima il mondoattuale, trascinerebbe con sé un cumulo di sofferenze via via piúatroci; sarebbe un vero e proprio inferno.Ogni dolore, in quanto è una mortificazione, una spinta allarassegnazione, possiede in potenza una virtú santificante: perciò unagrave sventura, una profonda sofferenza, ispirano sempre un certorispetto. Ma l'infelice non è pienamente rispettabile se non quando,nel contemplare il corso della sua vita come un tessuto disofferenze, o nel piangere qualche profondo e incurabile dolore, nonlimita l'attenzione alla sventura da cui fu colpita la sua singolapersona, e alle circostanze che gettarono lui nell'angoscia e nellutto. La sua conoscenza è, allora, sempre dominata dal principio diragione, aderente al fenomeno particolare; la vita è sempredesiderata, e soltanto non la si vorrebbe nelle presenti condizioni.L'infelice diviene realmente rispettabile, soltanto allorché si elevicon lo sguardo dal particolare all'universale, considerando il doloreproprio come un esempio del dolore che affligge l'universo. Alloraegli sorge all'altezza del genio morale; un caso unico rappresenta,per lui, mille e mille casi; e, vedendo che la vita si risolve in undolore universale, si dà in braccio alla rassegnazione. Cosí, nelTorquato Tasso, la persona della principessa incute rispetto, perché,raccontando i dolori e le tristezze della sua vita e di quella deisuoi, ci mostra l'immagine della sofferenza universale.E' per noi impossibile rappresentarci un carattere nobile senza unvelo di muta mestizia; di una mestizia ben diversa dall'umoreinasprito dalle continue contrarietà giornaliere (questo sarebbe untratto ben poco nobile, anzi sarebbe indizio di un caratterecattivo); ma che procede, invece, dalla coscienza pura e semplicedella vanità di tutti i beni e della nullità di tutti i dolori dellavita in generale. Tuttavia, tale coscienza può sorgere anche daun'esperienza semplicemente personale sotto condizione di un gravedolore; cosí, ad esempio, un solo desiderio irrealizzabile bastò adimprimere nell'intera vita di Petrarca quella nota di rassegnatamestizia che tanto ci commuove nelle sue opere; la Dafne da luivagheggiata, dovette sfuggire dalle sue braccia per lasciargli incambio l'immortale corona. Quando un destino irrevocabile ci rifiutal'appagamento di qualche vivissimo desiderio, la volontà si sentecome debellata: diviene, allora, incapace di volere altro, e ilcarattere si fa dolce, triste, nobile, rassegnato. E l'afflizione,quando in ultimo non ha piú un oggetto determinato, ma si estendealla vita intera, diviene in certo modo un ritorno su di sé, unaritirata, una sparizione graduale della volontà, e ne minasordamente, ma profondamente, persino il fenomeno visibile, il corpo;l'uomo si sente come liberato dai suoi vincoli, e pregustavoluttuosamente la morte, che si annunzia insieme come redenzione dalcorpo e dalla volontà. Di qui la gioia segreta che accompagna unatale afflizione, gioia che il popolo piú melanconico, l'inglese,denomina joy of grief, cioè voluttà del dolore. Ma qui appunto sorgelo scoglio della sensibilità, nella vita e nell'arte; perché piangeree lamentarsi eternamente, senza il coraggio di elevarsi allarassegnazione, è perdere insieme il cielo e la terra, per nonconservare che una sentimentalità lacrimosa. Il dolore non è via disalvezza, né ottiene rispetto, se non assume la forma di conoscenzapura; se non diviene, come quietivo del volere, uno stimoloall'effettiva rassegnazione. Sotto questo aspetto, la vista di unagrande sventura suscita in noi un certo rispetto, simile a quello chesentiamo di fronte alla virtú e alla nobiltà d'animo; in pari tempo,il nostro stato felice ci fa come l'effetto di un rimprovero. Non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpossiamo fare a meno di considerare ogni sofferenza, nostra o altrui,come un primo passo che, se non conduce, può condurre alla virtú ealla santità; laddove le gioie e i piaceri mondani ci appaiono comeun camminare nella via inversa. E ciò è tanto vero, che quandovediamo questo sopportare qualche sofferenza fisica o morale,quell'esaurirsi di stanchezza in un lavoro materiale richiedentesforzi sovrumani, l'uno e l'altro senza perder mai la pazienza, senzaproferire un lamento, ci par di vedere un malato, sottoposto a unacura penosa, che accetti volontariamente, anzi gioiosamente, i doloridell'operazione, nella certezza che piú soffre e meglio distrugge leradici del suo male, e che quindi la sua guarigione sarà tanto piúcompleta quanto piú crudele il dolore presente.Risulta da quanto si è detto che la negazione della volontà divivere, cioè la rassegnazione, l'assoluta santità, è sempre uneffetto dell'acquietamento della volontà, un effetto della coscienzache la volontà acquista del suo conflitto interiore e della vanità ditutte le sue aspirazioni, espressa nel dolore d'ogni creaturavivente. La differenza sta tutta nel sapere per quale delle due viesi giunga a una tale coscienza: se, cioè, vi si arrivi in virtú dellanozione pura e semplice del dolore altrui liberamente conosciuto ingrazia della penetrazione del principii individuationis, oppure peropera di una sofferenza direttamente sentita. Senza la completanegazione del volere, non c'è vera salute né vera liberazione dalmondo e dalle sue miserie. Finché non giungiamo alla negazione di noistessi, non siamo altro che quella volontà, il cui fenomeno èun'esistenza evanescente, uno sforzo sempre inutile, sempre vano, unmondo fenomenico irrevocabilmente pregno di tutte le miserie. Abbiamovisto, infatti, che alla volontà di vivere la vita è assicurata persempre; che la sua vera, la sua unica forma è il presente, cui lavita mai potrà sottrarsi, comunque la nascita e la morte governino ifenomeni. Pensiero molto ben espresso dal mito indiano:«rinasceranno». La grandissima differenza etica fra i caratterisignifica che il malvagio, come infinitamente lontano da quellaconoscenza che mette capo alla negazione della volontà, espia inverità e in realtà tutti i dolori del mondo, anche quellisemplicemente possibili, perché la felicità che forse assapora nelmomento attuale, non è che un'apparenza dovuta al principioindividuationis, un'illusione di Maya; è il sogno felice delmendicante. Le pene che infligge agli altri nell'impeto furioso delsuo volere, son la misura di quelle che dovrà egli stesso subirenella sua esperienza, senza tuttavia poter giungere al soggiogamentodella volontà e alla sua negazione finale. Al contrario, l'amore veroe puro, e anche il semplice sentimento spontaneo della giustizia,implicano una penetrazione del principii individuationis;penetrazione che, nel suo grado piú elevato, conduce all'assolutasantità e alla salvezza; il fenomeno delle quali è, come si disse,uno stato di rassegnazione completa, di pace imperturbabile e digioia profonda anche in faccia alla morte.

Par' 69. - Abbiamo fin qui, nei limiti della nostra trattazione,detto quanto basta per esporre l'essenza della negazione dellavolontà di vivere, unico atto della nostra libertà che si manifestinel fenomeno e che si possa chiamare con l'Asmus «metamorfositrascendentale». Nulla è piú diverso da questa negazione, chel'annientamento del proprio fenomeno individuale: voglio dire, ilsuicidio. Non che sia negazione della volontà, il suicidio è ilfenomeno di una sua piú energica affermazione. La negazione, infatti,non consiste in un orrore dei mali della vita, ma nell'odio dei suoipiaceri. Il suicida vorrebbe la vita: e soltanto non è soddisfattodelle condizioni in cui gli si offre. Distruggendo il suo fenomeno,il suicida non rinunzia dunque al voler vivere, ma unicamente alvivere. Bramerebbe la vita, e vorrebbe che il suo corpo potesseesistere ed affermarsi senza ostacoli, soffre atrocemente, perché ciònon gli è permesso dalla complicazione delle circostanze. La volontàdi vivere si trova in lui così ostacolata da non poter attuare edesplicare i suoi sforzi. E allora prende una decisione conforme allasua essenza di cosa in sé; essenza indipendente dalle forme delprincipio di ragione, indifferente al singolo fenomeno particolare,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtperché non la toccano la nascita, né la morte, costituendo anzi essastessa il principio primo della vita di tutte le cose. Tutti siamoanimati da una certezza salda e profonda, che ci permette di viveresenza il terrore costante della morte, dalla certezza che la volontànon mancherà mai di fenomeni. E questa è la certezza su cui si fondal'atto suicida. La volontà di vivere si manifesta dunque, tanto nelsuicidio (¬siva), quanto nella gioia della conservazione (Visnu),quanto nella voluttà della generazione (Brahma). Tale è il sensoprofondo dell'unità della Trimurti, che personifica l'uomo integrale:ma non mostra le sue tre facce nel tempo se non l'una dopo l'altra.Il suicidio sta alla negazione della volontà di vivere, comel'oggetto particolare all'idea; il suicida nega l'individuo, non laspecie. Come s'è visto, la vita è assicurata infallibilmente persempre alla volontà di vivere; e alla vita è essenziale il dolore;dunque, il suicidio appare come un atto vano e pazzesco; distruggearbitrariamente il fenomeno particolare, ma la cosa in sé ne rimanesempre intatta, come l'arcobaleno al disopra della rapida successionedelle goccioline che ne sono il momentaneo sostegno. Tuttavia ilsuicidio è anche il capolavoro di Maya: esprime infatti, nellamaniera piú stridente, la contraddizione della volontà di vivere conse stessa. Una tale contraddizione l'abbiamo già costatata neifenomeni inferiori della volontà, nella lotta costante di tutte leestrinsecazioni delle forze naturali e di tutti gli individuiorganizzati, disputantisi la materia nel tempo e nello spazio;abbiamo poi visto, man mano che si ascende nella scala delleoggettivazioni della volontà, che il conflitto si manifesta in lucesempre piú sinistra; quando infine si giunge al grado supremodell'oggettivazione, all'idea dell'uomo, la lotta assume proporzionicosí spaventose che non soltanto gl'individui rappresentanti unastessa idea si distruggono fra loro, ma si ha persino la guerradell'individuo con se stesso. L'ardore con cui si brama la vita, el'impeto con cui ci si slancia contro il suo ostacolo naturale, ildolore, ci spingono a distrugger noi stessi; la volontà individualepreferisce sopprimere nel corpo la sua manifestazione visibile,piuttosto che lasciarsi spezzare dalla sofferenza. Il suicida cessadi vivere, appunto perché non può cessar di volere; la volontà siafferma, in lui, con la soppressione del fenomeno, perché non leresta piú altro modo di affermazione. Ma quel dolore cui ci sisottrae con la morte, avrebbe potuto, in quanto mortificazione dellavolontà, condurci alla negazione di questa, ed aprirci la via dellaredenzione. Il suicida è quindi simile a un malato, il quale nonlasci condurre a termine un'operazione dolorosa che potrebbe guarirloradicalmente, e preferisce restare con la sua malattia. La sofferenzaviene a lui, aprendogli l'adito alla negazione del volere; il suicidala respinge, annientando il fenomeno della volontà, il corpo,affinché la volontà in sé rimanga intatta. Perciò le morali, siafilosofiche, sia religiose, condannano quasi tutte il suicidio,benché poi non sappiano opporgli che ragioni bizzarre e sofistiche.Ma se c'è stato un uomo il quale riuscì mai ad evitare il suicidioper un motivo puramente morale, il senso profondo della vittoria(quali che fossero i concetti di cui lo rivestì la ragione) non potéessere che questo: «Non voglio sottrarmi al dolore; voglio, anzi, cheil dolore m'aiuti ad annientare la volontà di vivere, il cui fenomenoè tanto deplorevole; il dolore deve rafforzare in me la conoscenzadella vera natura del mondo, affinché una tale conoscenza divenga ilquietivo supremo della mia volontà, e la sorgente della mia eternasalvezza».Com'è noto, si presentano talvolta alcuni casi in cui l'attosuicida si estende anche ai propri figli; il padre uccide i figliuoliadorati, e poi dà la morte a se stesso. Riflettiamo. La coscienza, lareligione, tutte le idee acquisite, gli rappresentano l'omicidio comeil piú grave delitto eppure questo delitto è commesso nell'ora stessadella morte, senza che sia possibile riconoscervi un motivoegoistico. Non resta, del fatto, che un'unica spiegazione plausibile:l'individuo riconosce immediatamente la sua volontà nei proprifigliuoli, ma è ancor vittima dell'illusione che gli fa prendere ilfenomeno per la cosa in sé; profondamente penetrato della conoscenzadelle miserie della vita, s'immagina di poter sopprimere, con un solo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtatto, e il fenomeno, e l'essenza stessa; perciò vuole liberare persempre dai supplizi dell'esistenza, e se stesso, e insieme ifigliuoli in cui si vede rivivere. Un errore analogo sarebbe ilcredere di poter ottenere gli stessi effetti della castitàvolontaria, sia opponendosi ai fini propostisi dalla natura nellafecondazione, sia provocando la morte del neonato in vista dei maliinevitabili della vita; mentre bisogna far di tutto per assicurarel'esistenza agli esseri che la cercano e che vi aspirano. Data,infatti, la volontà di vivere, non c'è forza capace di spezzarla; unaviolenza esterna può distruggerne il fenomeno in un punto dellospazio e del tempo, ma non ha efficacia contro la cosa in sé, controil fondamento metafisico dei fenomeni. La volontà di vivere cometale, non può venir soppressa che dalla conoscenza. Quindi, non c'èche una via di salvezza: bisogna, cioè, che la volontà si manifestiliberamente, affinché in tale manifestazione prenda coscienza dellapropria natura. Soltanto in virtú di una tale coscienza, la volontàpuò sopprimer se stessa, ponendo fine in pari tempo al dolore che neaccompagna inseparabilmente il fenomeno; la violenza, come ladistruzione dei germi, l'uccisione dei neonati, e il suicidio, sonomezzi assolutamente inadatti allo scopo. La natura guida la volontàverso la luce, appunto perché nella luce soltanto la volontà puòredimersi. Perciò bisogna favorire in ogni modo i fini della natura,non appena il voler vivere, che n'è l'intima essenza, si sia deciso amanifestarsi.Esiste un genere di suicidio, che sembra in tutto diverso dalcomune, ma che finora non si poté costatare sufficientemente: lamorte per inazione, liberamente voluta per un'ascesi spinta finoall'estremo. Casi di questo genere sogliono essere accompagnati dauna estrema esaltazione religiosa o superstiziosa; il che rende moltodifficile il ben comprenderli e valutarli. Ma sembra possibile che lanegazione della volontà di vivere arrivi al punto da estinguere ancheil minimo residuo che se ne richiede per mantenere con l'alimento lavita vegetativa del corpo. Un asceta di tal fatta, rassegnato fino aquesto segno, non che si dia la morte per volontà di vivere, noncessa anzi di vivere, se non perché ha completamente cessato divolere. Svanita ogni volontà, non si potrebbe immaginare altra morteche quella per inazione (a meno che un'altra scelta non vengasuggerita da qualche superstizione particolare); infatti, l'idea diabbreviare il supplizio sarebbe già un'affermazione del volere. Idogmi, di cui è ingombra la ragione del penitente, gli dannol'illusione che il suo digiuno gli sia prescritto da un esseresuperiore; ma la spinta proviene, in realtà, da un impulso intimo epersonale. Antichi esempi simili si trovano nelle opere seguenti:Breslauer Sammlung von Natur und MedicinGeschichten, settembre 1719,pag' 363 e segg'; pressoBayle, Nouvelles de la république deslettres, febbraio 1685, pag' 189 e segg'; presso Zimmermann, Ueberdie Einsamkeit, vol' I, pag' 182; nella Histoire de l'Académie dessciences del 1764 si trova una relazione di Houttuyn, riportata nellaSammlung für praktische Aerzte, vol' I, pag' 69. Si possono trovareesempi piú recenti in Hufeland, Journal für praktische Heilkunde,vol' X, pag' 181, e vol' Xlviii, pag' 95; in Nasse, Zeitschrift fürpsychische Aerzte, fascicolo 3, pag' 460; in Edinburgh Medical andSurgical Journal, 1809, vol' V, pag' 319. Nel 1833 tutti i giornaliannunziarono che a Dover, nel gennaio, lo storico inglese Lingard siera lasciato volontariamente morir di fame; secondo notizie piúrecenti, non si trattava di lui, ma di un suo parente. Purtroppo, lamaggior parte di questi racconti ci presentano come pazze le personein oggetto, né è possibile verificare se, e fino a qual punto,l'asserzione sia vera. Comunque voglio trascrivere qui la piú recentedi tali storie; non foss'altro, per conservarla come un raro esempiodi un fenomeno straordinario e meraviglioso, che sembra doversiricondurre alla mia teoria, esclusa ogni altra spiegazione. Il fattoè raccontato nel «Nürnberger Korrespondenten» del 29 luglio 1813;eccone le parole:«Riferiscono da Berna, che fu scoperta presso Thurnen, in mezzo aduna folta foresta, una capanna in cui era il cadavere, inputrefazione, di un uomo morto da circa un mese; i suoi abiti nondanno indizio che permetta di giudicare della sua condizione. Vicino

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtstavano due camicie di tela finissima. L'oggetto piú importante è unaBibbia in cui erano introdotte pagine bianche, che il defunto avevain parte riempite con note di suo pugno. Vi segnò il giorno in cuiaveva lasciata la famiglia (senza nominar questa, né il paese); poiaggiunse che lo spirito di Dio l'aveva chiamato nel deserto, allapreghiera e al digiuno. Durante il viaggio, prosegue, aveva digiunatoper sette giorni, e poi aveva ripreso cibo. Ben deciso al suoeremitaggio, aveva ricominciato a digiunare per molti giorni. E perogni giorno metteva un segnetto. Di tali trattini se ne trovaronocinque; verosimilmente, il pellegrino morí dopo il quinto giorno. Sitrovò anche una lettera ad un parroco, intorno a una predica che ildefunto aveva udita; questa lettera manca d'indirizzo». Fra unasimile morte volontaria ispirata da un ascetismo estremo, e ilsuicidio cui mette capo la disperazione, si possono intercalareparecchi gradi intermedi e di natura mista che è assai difficilespiegare; ma il cuore umano presenta profondità, oscurità ecomplicazioni, che sarà sempre difficile chiarire e risolvere.

Par' 70. - Si potrebbe forse credere che la mia esposizione, ormaigiunta al suo fine, intorno alla negazione della volontà, siainconciliabile con le mie considerazioni anteriori sulla necessitàinerente alla motivazione e a tutte le altre forme del principio diragione; necessità, in virtú della quale i motivi, al pari di tuttele altre cause, sono semplici occasioni, sotto l'influenza dellequali il carattere sviluppa la sua essenza, e la rivela con il rigoredi una legge di natura; necessità che appunto mi fece negare lalibertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ma anziché sconfessarequeste mie anteriori conclusioni, io anzi le richiamo espressamente.Invero, la libertà nel senso proprio appartiene soltanto alla volontàcome cosa in sé; non al fenomeno, la cui forma essenziale è sempre ilprincipio di ragione, elemento di ogni necessità. Il solo caso in cuila libertà divenga direttamente visibile nel fenomeno, è quello incui la libertà mette fine al fenomeno stesso. Siccome nondimeno ilsemplice fenomeno, in quanto anello nella catena delle cause, inquanto corpo vivente continua ad esistere nel tempo (il qualecontiene soltanto fenomeni), la volontà cade allora in contraddizionecon il corpo in cui si manifesta, poiché appunto nega ciò che ilcorpo afferma. Cosí, ad esempio, le parti genitali, manifestazionevisibile dell'istinto sessuale, saranno in sanità perfetta; eppurel'uomo, nella profondità del suo essere, non vorrà piú sapere disoddisfazioni carnali. Ancora: mentre tutto il corpo è l'espressionevisibile del voler vivere, i motivi corrispondenti a un tale volerenon avranno piú alcuna efficacia; ed anzi, la dissoluzione del corpoe la fine dell'individuo, cioè i piú gravi ostacoli alla volontànaturale, saranno desiderati e accolti con gioia. Io affermo, da unlato, la necessità con cui la volontà vien determinata, in funzionedel carattere, dai motivi; dall'altro, la possibilità di una completasoppressione della volontà, che spoglia i motivi d'ogni efficacia. Lacontraddizione tra queste due affermazioni è dunque semplicemente latraduzione, nel linguaggio riflesso della filosofia, dellacontraddizione reale che si produce quando la libertà del volere insé, il quale non conosce alcuna necessità, interviene direttamentenel suo fenomeno dominato da leggi necessarie. Per eliminarel'antinomia, non c'è che un mezzo: riflettere che la disposizioneinterna, che sottrae il carattere all'impero dei motivi, nonscaturisce direttamente dalla volontà, ma da un mutamento dellaconoscenza. Infatti, finché la conoscenza rimane prigioniera nelprincipio individuationis, e schiava del principio di ragione, lapotenza dei motivi è irresistibile; ma quando il principiumindividuationis vien penetrato; quando si è ben compreso che le idee,e l'essenza delle cose in sé, si risolvono in un'unica volontàdappertutto identica; quando una tale conoscenza diviene per noi unquietivo universale del volere, allora i motivi particolari perdonoogni loro efficacia; perché la conoscenza che n'era dominata, venneoscurata e sostituita da una conoscenza diversa. Certo: il caratterenon può modificarsi parzialmente: deve, con il rigore di una legge dinatura, eseguire nei particolari le prescrizioni della volontà, dicui è il fenomeno d'insieme; l'insieme stesso, peraltro, il carattere

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtin sé, può venire completamente annientato in virtú della conversionedella conoscenza, di cui già dicemmo. E' il cambiamento indicato daAsmus (che n'era rimasto colpito di alta meraviglia) come«conversione cattolica e trascendentale»; corrispondente a ciò che laChiesa cristiana designa con il termine suggestivo di«rigenerazione»; la conoscenza da cui deriva essendo la «graziaefficace». Siccome qui non si tratta di un semplice cambiamento, madi una completa soppressione del carattere, ben si comprende come icaratteri, benché prima diversissimi, presentino poi la piú grandesomiglianza nel modo di agire, pur continuando, ciascuno secondo isuoi concetti e i suoi dogmi, a tenere un linguaggio differente.Inteso cosí, l'antico filosofema del libero arbitrio, principiotanto combattuto e tanto difeso, non manca senza dubbio difondamento; né il dogma cristiano della grazia efficace e dellarigenerazione manca di significato e di valore. Anzi: vediamoinaspettatamente che il filosofema e il dogma si confondono in uno. Eormai comprendiamo in che senso l'eccellente Malebranche potessedire: «La liberté est un mystère». Aveva ben ragione. Infatti ciò chei mistici cristiani chiamano grazia efficace e rigenerazione,corrisponde pienamente a ciò che per noi è l'unica manifestazioneimmediata della libertà del volere; che si produce soltanto allorchéla volontà, innalzatasi a coscienza della propria natura, trae datale coscienza un quietivo che la sottrae al dominio dei motivi,l'efficacia dei quali è chiusa nel campo di una conoscenza d'altraspecie, di quella cioè che ha per oggetto i fenomeni. Una libertà chesi possa manifestare in simili condizioni, è il piú grande privilegiodell'uomo; e mancherà sempre al bruto, perché richiede, comecondizione indispensabile, una riflessione razionale capace diabbracciare l'insieme dell'esistenza, indipendentementedall'impressione presente. Per il bruto non c'è libertà; e neppurec'è la possibilità di una elezione vera, cioè riflessa e preceduta daun conflitto di motivi; perché un tale conflitto esigerappresentazioni astratte. Quindi: se la pietra cade a terra dinecessità, per la medesima necessità il lupo affamato conficca i suoidenti nella carne della sua preda; incapace com'è, e come saràsempre, di comprendere la sua identità con la vittima; la necessità èil regno della natura, la libertà è il regno della grazia.Come s'è visto, l'autosoppressione della volontà deriva dallaconoscenza; ora, ogni conoscenza è, come tale, indipendentedall'arbitrio. Ne risulta che la negazione del volere, la presa dipossesso della libertà, non si può raggiungere a forza, e diproposito deliberato. Scaturisce dall'intima relazione dellaconoscenza e della volontà nell'uomo, e quindi si producerepentinamente, quasi per un'ispirazione venuta dal di fuori. Perciòla Chiesa la chiama un effetto della grazia. Ma come, secondo laChiesa, la grazia non riesce efficace se noi non cooperiamo ariceverla, cosí anche l'effetto del quietivo si risolve, in ultimo,in un atto di libera volontà. L'azione della grazia muta e trasformadal profondo la natura dell'uomo; che, ormai, sdegna tutto ciò chefino allora desiderava con ardente bramosia; è, davvero, un uomonuovo che si sostituisce all'antico. E questa è la ragione per cui laChiesa designa l'effetto della grazia con il nome di rigenerazione.Ciò che la Chiesa chiama l'uomo naturale, cui rifiuta ogni facoltà dibene, è precisamente la volontà di vivere; volontà che deveassolutamente rinnegarsi da chi desideri la redenzione daun'esistenza come la nostra. Perché, dietro la nostra esistenza, sinasconde qualcosa di ben altro; ma qualcosa che non possiamoraggiungere, se non a condizione di scuotere il giogo della vitaterrena.Simbolizzando in Adamo la natura, e l'affermazione della volontà divivere, la dottrina cristiana non si collocò nel punto di vista delprincipio di ragione e dell'individuo, ma ebbe come mira l'idea umananella sua unità, il peccato di Adamo, la cui eredità grava sempre sudi noi, rappresenta la nostra unità con Adamo nell'idea; unità che simanifesta nel tempo mediante il vincolo della generazione, e che cirende tutti partecipi del dolore e della morte eterna. Al contrario,la grazia, la negazione della volontà e la redenzione, dalla Chiesavengono simboleggiate nel Dio divenuto uomo, il quale, puro d'ogni

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpeccato, cioè d'ogni volontà di vivere, non può essere, come siamnoi, emanato da un'affermazione energica della volontà; né può avereun corpo come il nostro, perché il corpo non è che volontà concreta,fenomeno del volere. Il Dio incarnato nacque da una vergineimmacolata, e non ha che un corpo apparente. Quest'ultimo punto erasostenuto dai Doceti; denominazione di alcuni padri della Chiesa,che, nel sostener quella dottrina, si mostrarono perfettamenteconseguenti. Apelle sopra tutti; contro di lui, e contro i suoidiscepoli, si levò Tertulliano; ma lo stesso sant'Agostino, al passodell'Epistola ai Romani, 8, 3: «Deus filium suum misit insimilitudinem carnis peccati», appone il seguente commento: «Non enimcaro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat; sedtamen inerat ei similitudo carnis peccati, quia mortalis caro erat»(Liber 83 quaestion', qu' 66). Il medesimo sant'Agostino, nell'Opusimperfectum (I, 47), insegna che il peccato originale è peccato epena ad un tempo; esiste già nel neonato, ma non si rende manifestose non gradatamente con il crescere dell'età. Nondimeno, aggiunge,anche la sorgente di un tale peccato non va cercata fuori dellavolontà del peccatore. Il peccatore fu Adamo; noi esistevamo in lui;Adamo divenne infelice; in lui, tutti noi divenimmo infelici. Ladottrina del peccato originale (affermazione del volere) e dellaredenzione (negazione del volere) è realmente la grande verità, e ilpunto cardinale del Cristianesimo; il resto non è, per lo piú, cheuna veste, un velo esteriore, o un accessorio. Così, bisogna sempreconcepire Gesú Cristo dal punto di vista universale, come simbolo opersonificazione della negazione del voler vivere, e non comeindividuo, quale ce lo rappresenta la sua storia mitica negliEvangeli, o quale ce lo mostrano i dati storici veri o verosimili sucui gli Evangeli si fondano. Né l'una né l'altra versione ci puòcompletamente soddisfare; non possiamo vedervi che un veicolo dellaconcezione primitiva, destinato a farle strada nel popolo, il qualeha sempre bisogno di qualcosa di positivo e di concreto. Che, se ilCristianesimo dimenticò in questi ultimi tempi il suo vero senso,degenerando in un ottimismo insulso, questa è cosa che non ciriguarda.C'è ancora, nel Cristianesimo, un'altra dottrina primitiva edevangelica che sant'Agostino, in accordo con i capi della Chiesa,difese contro le grette volgari opinioni dei Pelagiani; e che Lutero(come dichiara egli stesso formalmente nel suo libro De servoarbitrio) si era prefisso, come compito principale della suamissione, di proclamare di nuovo, purificandola da ogni errore: ladottrina, che la volontà non è libera, ma soggetta originariamentealla servitú del male. Secondo questa dottrina, le opere dellavolontà sono sempre colpevoli e difettose, non possono mai soddisfarealla giustizia; sono, dunque, assolutamente impotenti a salvarci:salvarci, può soltanto la fede; la quale, per altro, non deriva da unproposito, da un atto volontario; è semplicemente un effetto dellagrazia, che scende su noi senza nostra cooperazione, e come in virtúdi un'influenza esteriore. Questo dogma puramente evangelico faparte, come gli altri menzionati poco fa, di quei principi che lospirito gretto e triviale dei nostri tempi rigetta come assurdi,oppure svisa e deforma; nonostante sant'Agostino, nonostante Lutero,l'attuale credenza, imbevuta delle idee grettamente borghesi delPelagianismo, equivalente antico del razionalismo moderno, sdegnaquesti dogmi profondi, costituenti l'essenza vera e propria del piúpuro Cristianesimo; e preferisce prendere come punto di appoggio ecome pietra fondamentale della religione, un dogma sorto e conservatoin seno al giudaismo, ma che non si ricollega all'insegnamentocristiano, se non per via puramente storica. (29)Nella dottrina suddetta, noi, per quel che ci riguarda,riconosciamo implicita una verità che si accorda perfettamente con ilrisultato delle nostre considerazioni. Vediamo infatti, che la virtúvera e la santità dell'animo hanno l'origine prima, non già nellavolontà riflessa (nelle opere), ma nella conoscenza (nella fede): laconclusione medesima che traemmo dallo svolgimento della nostra ideafondamentale. Se le opere, compiute in seguito a motivi, a ragionveduta, bastassero per condurci alla beatitudine, la virtú (si girila cosa come si vuole) si ridurrebbe a un egoismo accorto, metodico,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txte lungimirante. La fede, cui la Chiesa cristiana promette in compensola beatitudine, consiste nel credere in primo luogo che la caduta diAdamo ci rese tutti partecipi del peccato, abbandonandoci alla mortee alla perdizione; e poi nel fatto che nessuno di noi si può salvare,se non in virtú della grazia dell'intercessore divino, il quale siassunse tutto il peso delle nostre colpe infinite. Ciò, senz'alcunmerito nostro personale; perché le opere derivanti dall'azionepersonale riflessa, cioè determinata da motivi, saranno sempreintrinsecamente inette a giustificarci, costituendo un fareintenzionale motivato, un semplice opus operatum. Il primo fondamentodella fede consiste dunque nel credere che la nostra è, in origine eper essenza, una condizione disperata, che esige una redenzione.Bisogna credere inoltre che noi siamo essenzialmente portati a quelmale cui siamo cosí strettamente incatenati, che le stesse nostreopere conformi alla legge e al precetto (vale a dire ai motivi)riescono assolutamente inette a soddisfare la giustizia e a salvarci.La salvezza non ci può venire che dalla fede e cioè da una radicaletrasformazione della nostra conoscenza; la fede, a sua volta, non puòentrare in noi se non per opera della grazia, come qualcosa che vengadal di fuori. In definitiva: la salvezza è qualcosa di assolutamenteestraneo alla nostra personalità; sua condizione necessaria è anziproprio la negazione, la soppressione della personale individualità.Le opere, l'osservanza della legge in quanto legge, non potranno maigiustificarci, perché sono semplicemente azioni regolate su motivi.Secondo Lutero (De libertate christiana), non appena la fede siaentrata in noi, le buone opere ne sgorgano spontaneamente comesintomi e come frutti della fede medesima; però, non costituiscono untitolo di merito, non giustificano e non danno alcun diritto a uncompenso, ma si producono spontaneamente e gratuitamente. Anche noiabbiam visto, dal canto nostro, che la comprensione del principiiindividuationis, man mano che progredisce in chiarezza, producedapprima il sentimento spontaneo della giustizia, poi l'amore spintofino alla completa estinzione dell'egoismo, e infine la rassegnazioneo negazione assoluta della volontà.I dogmi del Cristianesimo non hanno che fare con la filosofia:tuttavia ne volli qui far menzione, unicamente per dimostrare come lamorale risultante con perfetta coerenza ed armonia da tutto il corsodelle nostre considerazioni, benché nuova e in apparenza paradossalenella sua espressione, sia invece ben antica per la sostanza: e inaccordo perfetto con i veri dogmi del Cristianesimo, i quali necontengono anzi tutti gli elementi piú essenziali; a loro volta, idogmi cristiani, nonostante la radicale differenza delle forme, siaccordano non meno perfettamente con le dottrine e con i precettimorali dei libri sacri dell'India. I dogmi della Chiesa cristiana ciservirono in pari tempo a interpretare ed a chiarire lacontraddizione apparente che separa da un lato la necessità chedomina tutte le manifestazioni del carattere secondo le leggi deimotivi (regno della natura), e d'altro lato la libertà che possiedeil volere in sé di negar se stesso, e di sopprimere ad un tempo ilcarattere, insieme con la necessità dei motivi di cui è fondamento(regno della grazia).

Par' 71. - Ed ora eccomi al termine della mia opera; con questoschizzo sulle idee fondamentali dell'etica, termina lo svolgimento diquell'unico pensiero, che mi ero prefisso di esporre. L'ultima partedel mio lavoro dà luogo a un'obiezione, che non voglio dissimulare;alla quale, anzi, è impossibile sfuggire, perché ha una ragiond'essere nella natura stessa delle cose, come spiegherò. Ecco intantol'obiezione: le nostre considerazioni c'indussero a vedere nellasantità perfetta la negazione e il sacrificio del volere, tendenti auna liberazione definitiva dal mondo e dai suoi dolori: il lororisultato logico e finale non può dunque essere, per noi, che ilpassaggio nel vuoto inane del nulla.Comincerò con il far notare che il concetto del nulla èessenzialmente relativo; si riferisce sempre a un oggettodeterminato, di cui pronunzia la negazione. I filosofi in genere (eKant in ispecie), distinguono il nihil privativum e il nihilnegativum; di questi due nihil si riconosce il carattere relativo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsoltanto al primo, che designa una quantità affetta dal segno «-», inopposizione a un'altra quantità preceduta dal segno «+»; dov'èpossibile, invertendo il punto di vista, scambiare tra loro i segni«+» e «-». Il nihil negativum, antitetico al privativum, rappresentail nulla assoluto, di cui si suol dare come esempio la contraddizionelogica distruggente se stessa. Tuttavia, riflettendo bene, ci siaccorge che il nulla assoluto, il nihil negativum vero e proprio, nonsoltanto non esiste, ma non è neppur concepibile dalla ragione; ogninulla di questo genere, non appena lo si consideri da un punto divista piú alto, o lo si subordini a un piú ampio concetto, deve dinecessità ridursi a un nihil privativum. Ogni nulla può infattiessere tale solo in relazione con qualche altra cosa; il nullapresuppone questa relazione: implica dunque la cosa. La stessacontraddizione logica è un nulla privativo. E' qualcosa che laragione non può pensare, ma che non rappresenta per questo un nullanegativo. Infatti è, per lo meno, un'accozzaglia di parole, unesempio del non pensabile, di cui la logica si vale per chiarire leleggi del pensiero; perciò, quando si ricorre di proposito a similiesempi, l'attenzione vien fissata sul non concepibile, sola cosapositiva che allora importi, sorpassando sul concepibile, che alloratien luogo di nozione negativa. Così dunque: ogni nihil negativum,ogni assoluto nulla, non appena venga subordinato a un concetto piúalto, si riduce ad un semplice nihil privativum, a un nulla relativo,il quale può scambiare il suo segno con quello della nozione chenega, cosí da convertirla in una negazione, e da assumere esso stessoil segno della posizione. Tutto ciò s'accorda perfettamente con ilrisultato dell'ardua investigazione dialettica istituita da Platone,nel Sofista, intorno al concetto del nulla. Ecco le sue parole:"§tèn tov etërou füsin apodeïxantes ovsän te kaìkatakekermatismënûn epì pänta tà önta pròs ällûla, tò pròs tò ònhekästou mörion autês antitiôëmenon, etolmésamen eipeîn, hws autòtovtö estin öntws tò mè ön" (pagg' 277-287, Bip'). (Cum enimostenderemus, alterius ipsius naturam esse, perque omnia entiadivisam atque dispersam invicem; tunc partem eius oppositam ei, quodcujusque ens est, esse ipsum revera non ens asseruimus.)Ciò che è universalmente ammesso come positivo, ciò che noichiamiamo il reale, l'esistente; ciò la cui negazione viene espressacon il concetto di nulla preso nella sua piú generale accezione, èprecisamente il mondo della rappresentazione, che dimostrai esserel'oggettità e lo specchio della volontà. Questa volontà e questomondo siamo noi stessi; la rappresentazione in generale è una dellesue facce; le forme di tale rappresentazione sono lo spazio ed iltempo; quindi, tutto ciò che esiste deve, da tal punto di vista,esistere in qualche luogo e in qualche tempo. Chi dice negazione,soppressione, conversione della volontà, dice in pari temposoppressione ed estinzione del mondo, che ne è lo specchio. Nonvedendo piú la volontà nel detto suo specchio, ci domandiamo,inutilmente, dove se ne sia fuggita; non essendo possibile assegnarleun dove, né un quando, la piangiamo come se dunque si fosse svanitanel nulla.Un'inversione del punto di vista, se ci fosse possibile, basterebbeper rovesciare i segni; e allora, ciò che attualmente ha l'essere cifarebbe l'effetto del nulla, e viceversa. Ma finché noipersonificheremo la volontà di vivere, non potremo concepire, nécaratterizzare il nulla, se non in maniera affatto negativa; poichél'antico principio di Empedocle: «Il simile non vien conosciuto chedal simile», c'impedisce ogni conoscenza del nulla; come, viceversa,è l'unico mezzo che ci renda possibile la conoscenza di tutta lanostra realtà attuale, cioè del mondo come rappresentazione, comeoggettità del volere. Il mondo, infatti, non è che volontàautocosciente.Se, tuttavia, si volesse a qualunque costo avere un'idea positivadi ciò che la filosofia non può esprimere che in maniera negativa,con il termine di negazione della volontà, non ci sarebbe altro mezzoche riportarsi a ciò che provano coloro che giunsero a una completanegazione del volere, a ciò che si designa col nome di estasi, dirapimento, d'illuminazione, di unione con Dio, ecc'; ma un similestato non si può propriamente chiamare conoscenza, poiché non ammette

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiú la forma della distinzione fra soggetto ed oggetto, e nonappartiene che all'esperienza personale; è assolutamente impossibilecomunicarlo agli altri.Noi però, noi che ci atteniamo scrupolosamente al punto di vistadella filosofia, noi dobbiamo qui contentarci della nozione negativa,e sentirci felici di esserci potuti spingere fino alla frontieraestrema della conoscenza positiva. Siamo arrivati a riconoscere chel'essenza del mondo è la volontà, e che i suoi fenomeni sono tutti,semplicemente, volontà oggettivata. Abbiamo poi seguitol'oggettivazione dall'impulso incosciente delle oscure forzenaturali, fino all'azione piú cosciente dell'uomo. Arrivati qui, nonintendiamo punto sottrarci alle conseguenze della nostra dottrina;intendiamo, anzi, formularle. Con la libera negazione, con ilsacrificio della volontà, vengono soppressi anche i suoi fenomeni;soppressi gl'impulsi senza tregua e senza scopo da cui è costituitoil mondo nei diversi gradi della sua oggettità; soppresso l'insiemedelle forme svariate che si succedono progressivamente; in unaparola: con il volere, vien soppressa la totalità del suo fenomeno:con il fenomeno si estinguono le sue forme universali, tempo espazio; e con queste, infine, si distrugge anche la forma ultimafondamentale, il soggetto e l'oggetto. Se non c'è piú volontà, nonc'è piú rappresentazione, non piú universo.Non resta, dunque, che il nulla. Ma, non ce ne dimentichiamo: ciòche si ribella contro un simile annientamento, cioè la nostra natura,non è che il voler vivere: quel voler vivere che siam noi, e che è ilnostro universo. L'orrore nostro del nulla, non è che una diversaespressione per indicare che vogliamo la vita, che siamo volontà divivere, che non vogliamo saper nient'altro. Ma distogliamo l'occhio,per un momento, dalle nostre miserie, dall'orizzonte ristretto in cuisiamo chiusi; consideriamo quegli uomini che soggiogarono il mondo, ela cui volontà, innalzatasi al grado supremo di autocoscienza, siriconobbe in tutto quanto esiste, per fare poi libero sacrificio dise stessa; quegli uomini che non aspettano, se alcunché aspettano, senon di vedere l'ultima scintilla di volontà estinguersi insieme conil corpo che ne è tenuto in vita. E allora vedremo, in luogo deltumulto di aspirazioni senza fine, del passaggio incessante daldesiderio al timore, dalla gioia all'affanno; in luogo della speranzasempre insoddisfatta e sempre rinascente che trasforma in un sogno lavita dell'uomo in quanto essere volitivo; allora vedremo la pace piúpreziosa di tutti i tesori della ragione, l'oceano di quiete, laprofonda calma dell'animo, l'imperturbabile sicurezza e serenità, ilcui semplice riflesso, quale risplende nelle figure di Raffaello edel Correggio, è per noi la piú completa e la piú veridicarivelazione della buona novella: non resta più che la conoscenza; lavolontà è scomparsa. Paragonando un simile stato con il nostro, ciassale una profonda e dolorosa malinconia: il contrasto mette in vivaluce le desolanti, le insanabili miserie della nostra condizione.Tuttavia soltanto questa contemplazione ci può consolaredurevolmente. Su ciò non vi è dubbio: da una parte, il fenomeno dellavolontà, il mondo, non ha per essenza che dolore inconsolabile, emiseria infinita; dall'altra, con la volontà svanisce anche il mondo,e non ci resta dinanzi che il nulla. E' bene, dunque, che si meditinola vita e gli atti dei santi; se non direttamente, il che ben di radoci è concesso nella nostra esperienza personale, nell'immagine almenoche ce ne offrono la storia o l'arte (e specialmente quest'ultima,improntata da un suggello d'infallibile verità). Questo è, per noi,l'unico mezzo per dissipare la lugubre impressione del nulla; di quelnulla che si delinea quale meta finale in uno sfondo di là dallasantità e dalla virtú, e che temiamo come i fanciulli temono letenebre. Meglio cosí, che non illudere il nostro terrore, come fannogl'indiani; i quali si appagano di miti e di parole vuote di senso,come ad esempio l'assorbimento nel Brahm, o il Nirvana dei buddisti.Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dalvolere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è ilvero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà siè convertita e soppressa, questo mondo cosí reale, con tutti i suoisoli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtNOTE:(17) [«Perché il delitto maggiore@ Dell'uomo è l'esser nato.@»](18) Oupnek'hat, vol' I, pag' 60 e segg'.(19) Ricordiamo quel vescovo spagnolo che nell'ultima guerra invitòa pranzo alcuni generali francesi, e si avvelenò insieme con loro pernon parlare di mille altri esempi analoghi offertici da questaguerra. Si veda anche presso Montaigne, Libro Ii, cap' 12.(20) Notiamo qui incidentalmente come ciò che alle religionipositive dà tanta efficacia sugli animi, è sempre il loro latomorale. Non che questo agisca per forza propria e diretta; ma èindissolubilmente congiunto col resto del dogma mitico proprio adogni religione; sicché non sembra piú intelligibile separatamente.Pertanto, nonostante l'assoluta impossibilità di spiegare con ilprincipio di ragione il valor morale delle azioni, e quantunque ilmito abbia per guida il principio medesimo, i fedeli tuttavia nondesistono dal ritenere che il valor morale della condotta, e il lorostesso mito, siano cose inseparabili, anzi, assolutamente identiche;non solo, ma ogni assalto contro il mito, sembra loro sia rivoltocontro il diritto e contro la virtú. E tutto al punto che, presso ipopoli monoteisti, l'ateismo e l'irreligiosità son divenuti sinonimidi «assenza di ogni morale». I preti vedono molto di buon occhioqueste confusioni di idee, e in tal modo poté sorgere l'orribilemostro del fanatismo e regnare, non soltanto in individuistraordinariamente tristi e perversi, ma su intieri popoli; finchés'incarnò, qui nell'Occidente (il fatto, ad onore del genere umano,ebbe luogo una volta sola nella storia), in quell'Inquisizione chesecondo i dati piú recenti e ormai autentici, fece perire sul rogonella sola Madrid (senza contare gli altri numerosi mattatoireligiosi disseminati nel resto della Spagna) la bellezza di 300'000individui in 300 anni, e tutti per semplice causa di fede.Mostruosità, che bisogna sempre tenersi ben pronti a rinfacciare aipii zelatori, non appena osino alzare la voce.(21) Gli atti, direbbe la Chiesa, non sono che semplici operaoperata, e non servono, se la grazia non viene a darci la fede checonduce alla rigenerazione. Ma su questo punto ritorneremo inseguito.(22) Il diritto che ha l'uomo di disporre della vita e delle forzedegli animali ha il suo proprio fondamento sul fatto che a mano amano che la coscienza si accresce in chiarezza, si accresce inproporzione anche il dolore: così le sofferenze che il lavoro o lamorte costano all'animale, non son mai paragonabili a quelle chel'uomo proverebbe al solo privarsi della carne o del lavoro deglianimali. Quindi l'uomo può spingere l'affermazione della suaesistenza sino alla negazione dell'esistenza del bruto; e la volontàdi vivere, presa in totale, soffre meno così, che nel caso inverso.In base a tutto ciò si determina in pari tempo il grado in cui l'uomopuò senza ingiustizia usufruire delle forze degli animali; questolimite viene troppo spesso infranto, specialmente riguardo allebestie da soma e ai cani da caccia; quindi, a reprimer tale abuso, sisono istituite apposite società protettrici degli animali. A parermio, il diritto dell'uomo non è neppure tale da autorizzare levivisezioni in genere; tanto meno, se si tratti di animali superiori.Al contrario, l'insetto non soffre tanto per la sua morte, quantosoffre l'uomo per una sua semplice puntura. Ecco quello che nonvogliono capire gli indiani.(23) Cfr' cap' 17 del secondo volume. Non occorre forse ricordareche tutta l'Etica esposta qui in succinto nei parr' 61-67, è statatrattata in modo piú esteso e completo nel mio scritto a premio sulFondamento della morale.(24) [«Uomo! tutto ti ama; ogni cosa si affolla attorno a te;@Tutto verso te corre, per arrivare sino a Dio.@»](25) Questo pensiero è espresso con bella similitudine in unoscritto filosofico sanscrito della piú alta antichità, il SankhyaKarika: «Tuttavia l'anima resta ancora un istante rivestita delcorpo; come la ruota del vasaio, quando il vaso è terminato séguitaancora a girare in virtú dell'impulso in precedenza ricevuto. Quandol'anima, illuminata, si separa dal corpo, e cessa per lei la natura,allora sí che si compie la sua completa liberazione». Colebrooke, On

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtthe Philosophy of the Hindus; Miscellaneous Essays, vol' I, pag'259. Cosí anche nel Sankhya Karika by Horace Wilson, par' 67, pag'184.(26) Si veda, ad es', Oupnek'hat, studio Anquetil du Perron, volIi, nn' 138, 144, 145, 146. Mythologie des Indous, di Mad' de Polier,vol Ii, capp' 13, 14, 15 16, 17. Asiatisches Magazin di Klaproth,vol' I: «Sulla religione di Fo», ibid', «BhaguatGeeta», o «Dialoghifra Kreeshna e Arjoon», nel Ii volume: «MohaMudgava». Poi Institutesof HinduLaw, or the Ordinances of Menu, from the Sanskrit by Wm'Jones, tradotto in tedesco da Hüttner (1797); specialmente i capp' 6e 7; infine molti passi delle Asiatic Researches. (Negli ultimiquarant'anni, la letteratura indiana si è in Europa talmenteaccresciuta, che se volessi oggi completare questa nota della primaedizione, dovrei riempire per lo meno un paio di pagine.)(27) Durante la processione dello Jaggernaut, nel giugno 1840, benundici indú si precipitarono sotto il carro, e morironoimmediatamente (Lettera di un proprietario dell'India Orientale, nel«Times» del 30 dicembre 1840).(28) Bruckeri, Hist' philos', tomi Iv, pars I, pag' 10.(29) Ecco la prova della mia asserzione: non appena si facciaastrazione dal dogma fondamentale del Giudaismo, e si riconosca chel'uomo non è creazione di un altro essere, ma opera della propriavolontà, svanisce in pari tempo tutto ciò che la dommatica cristiana,sistematicamente stabilita da S' Agostino, contiene dicontraddittorio e d'incomprensibile, e che aveva appunto provocato leinsulse opposizioni dei Pelagiani. Tutto, allora, diviene chiaro epreciso; non c'è piú bisogno di ammettere la libertà nelle opere(Operari), poiché essa esiste nell'essere (Esse), ove risiede ancheil peccato, in quanto peccato originale; quanto alla grazia, essaappartiene proprio a noi. Al contrario, se ci mettiamo dal punto divista del razionalismo odierno, molte dottrine della dommaticaagostiniana, fondate sul Nuovo Testamento, ci appaiono affattoinsostenibili; anzi, rivoltanti: tale, ad es', il dogma dellapredestinazione. Tenersi in tal punto di vista, è un rinunziare a ciòche è veramente cristiano, per fare ritorno al rozzo Giudaismo. Mal'errore di calcolo, o, piuttosto, il vizio originale della dommaticacristiana, è nascosto là dove meno si cerca, e cioè, proprio nelpunto che si ritiene come assodato e certo, e si pone quindi aldisopra di ogni esame. Soppresso questo dogma, tutta la dottrinacristiana diviene razionale; poiché esso corrompe non solo tutte lealtre scienze, ma anche la teologia. Infatti: quando si studia lateologia agostiniana nel De civitate Dei (specialmente nel libroXiv), si ha come l'impressione di uno il quale voglia mettere inequilibrio un corpo che abbia il centro di gravità al di fuori; inqualunque posizione lo si volga e rivolga, esso non farà altro cherovesciarsi. Cosí anche qui: nonostante tutti gli sforzi e i sofismidi S' Agostino, la responsabilità del mondo e di tutte le sue miseriericade sempre su Dio; il quale ha creato tutto, assolutamente tutto,e sapeva inoltre come dovevano andare le cose. Lo stesso Agostinoaveva già piena coscienza della difficoltà, e se ne sentivafortemente imbarazzato: si legga, in proposito, il mio scritto apremio sulla Libertà del volere (cap' 4, pagg' 66-68 della 1aedizione). Altrettanto si dica della contraddizione fra la bontà diDio e la miseria del mondo, come pure fra la libertà del volere e laprudenza divina; tema inesauribile, questo, di una controversia quasisecolare fra i cartesiani Malebranche, Leibnitz, Bayle, Klarke,Arnauld, ed altri; controversia in cui il solo punto messo daidisputanti fuori discussione era il dogma dell'esistenza di Dio e deisuoi attributi: essi non facevano altro che aggirarsi in un perpetuocircolo, nel cercar di conciliare quelle contraddizioni; cioè, nelvoler risolvere un problema insolubile, il cui residuo, riusciti chesi sia a mascherarlo in qualche parte, riappare sempre, ora da unlato, ora dall'altro. Ma, che la radice prima del loro imbarazzodovesse ricercarsi proprio nell'ipotesi fondamentale ammessa datutti, ecco una cosa che non venne in mente a nessuno, sebbene,evidentemente, s'imponga da sé. Bayle è l'unico, il quale ci facciaintravedere di aver fiutato la difficoltà.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtAppendice:Critica della filosofia kantianaC'est le privilège du vrai génie, et surtout du génie qui oeuvreune carrière, de faire impunément de grandes fautes.VoltaireE' molto piú facile mostrare le mancanze e gli errori che sitrovano nell'opera di un grande spirito, che dare una spiegazionechiara e completa del suo valore. Infatti gli errori sono qualcosa diben individuato e definito, che si può perfettamente dominare con losguardo. Invece il marchio che un genio imprime sulle sue opere èpropriamente la loro eccellenza insondabile e inesauribile: perciòanche esse diventano successivamente i maestri che mai invecchiano dimolti secoli. Il perfetto capolavoro di un genio veramente grandeproduce sempre un effetto cosí profondo e incisivo su tuttal'umanità, che non si può calcolare quali tempi e paesi lontani ilsuo influsso illuminante potrà raggiungere. E sarà sempre cosí:perché per quanto sia ricco e colto il secolo in cui esso è nato, ilgenio, come un albero di palma, sempre si innalza sul terreno, nelquale è radicato.Ma un'influenza profonda ed estesa di questo genere non puòprodursi subitamente, a causa della grande distanza che c'è fra ilgenio e l'umanità comune. La conoscenza che questo esemplare unico inuna sola vita umana attinse immediatamente dalla vita e dal mondo,guadagnandosela e dandola agli altri come acquisita e bell'e pronta,non può diventare immediatamente proprietà dell'umanità: perchéquesta non ha neanche tanta forza di ricevere quanto quegli di dare.Ma quella conoscenza, anche dopo avere superato il pericolo dellalotta con gli avversari indegni, che contendono la vita agliimmortali fin dalla nascita e vorrebbero soffocare la salvezzadell'umanità nel suo germe (come il serpe alla culla di Ercole), devepoi passare attraverso le vie traverse di innumerevoli falseinterpretazioni e applicazioni sbagliate, resistere ai tentativi diunione con errori antichi e vivere lottando, sino a che una nuovagenerazione scevra da pregiudizi le viene incontro e, da mille canaliderivati e a poco a poco, riceve partitamente e sempre piú assimilail contenuto di quella fonte e viene così a godere del beneficio cheda questi grandi spiriti doveva derivare per l'umanità.Cosí anche l'intera forza e importanza della dottrina kantiana simanifesterà solo attraverso il tempo, quando lo spirito del tempo,trasformato a poco a poco dall'influsso di quella dottrina, mutatonella sua interiorità e profondità, darà testimonianza vivente dellapotenza di quello spirito gigantesco. Io non voglio però qui assumerela parte ingrata del Calcante e della Cassandra, anticipandolopresuntuosamente. Solo mi sia concesso, in conseguenza di quanto hodetto, considerare le opere di Kant come ancora nuovissime, mentreoggi molti le considerano come già invecchiate, anzi da mettersi daparte come liquidate o, come essi si esprimono, superate; e altri,diventati per questo motivo presuntuosi, le ignorano del tutto econtinuano a filosofare su Dio e sull'anima con ferrea fronte, sottole premesse del dogmatismo realistico e della scolastica - che è comese si volesse fare valere nella nuova chimica le dottrine deglialchimisti. Del resto le opere di Kant non hanno bisogno della miadebole lode: ma esse stesse eternamente loderanno il loro autore e senon nella lettera tuttavia nello spirito vivranno sempre sulla terra.Certo però, se guardiamo indietro al successo immediato delle suedottrine, ai tentativi e sviluppi nel campo della filosofia, duranteil periodo di tempo da allora trascorso, ci accorgiamo della veritàdi una sentenza di Goethe molto deprimente: «Come l'acqua che vieneallontanata da un battello subito si riunisce dietro ad esso; cosíanche l'errore, dopo che spiriti eccellenti l'hanno messo da parte esi sono fatti strada, assai rapidamente secondo natura si richiude dinuovo dietro di essi» (Poesia e verità, Parte 3, p' 521). Tuttavia,tenendo conto dei sopra ricordati destini di ogni nuova e grandeconoscenza, questo periodo di tempo è stato solo un episodio oraevidentemente prossimo alla fine, poiché la bolla di sapone cosíincessantemente gonfiata pure alla fine scoppia. Si comincia ingenerale ad acquistare consapevolezza che la filosofia reale e seriasta ancora dove Kant l'ha lasciata. In ogni caso io non riconosco che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfra lui e me sia accaduto qualcosa nel campo della medesima: perciò alui immediatamente mi rifaccio.In questa appendice alla mia opera io miro propriamente solo ad unagiustificazione della dottrina che in essa ho esposto, in quanto essain molti punti non si accorda con la filosofia kantiana, anzi lecontraddice. Una discussione di essa è tuttavia necessaria, poichémanifestamente il mio pensiero, per quanto diverso il suo contenutosia da quello di Kant, pure sta sotto la sua influenza,necessariamente la presuppone, procede da essa, ed io confesso chedebbo il meglio del mio sviluppo, dopo che all'impressione del mondointuitivo, all'opera di Kant, agli scritti degli indú e a Platone.Posso quindi giustificare le mie contraddizioni di Kant ciò malgradoesistenti solo se negli stessi punti gli faccio carico di errori escopro gli sbagli che ha commesso. Perciò in questa appendice debboprocedere polemicamente contro Kant e certamente con serietà e conogni sforzo: infatti solo cosí può accadere che l'errore presentenell'opera di Kant sia tolto e la sua verità tanto piú chiaramenteappaia e sicuramente sussista. Non ci si può certo aspettare che lamia devozione nei confronti di Kant, certo intimamente sentita, siestenda anche alle sue debolezze ed errori e che io le debba scopriresolo con cauto riguardo, con il che la mia esposizione diverrebbedebole e scipita per le circonlocuzioni. Verso un vivente si richiedeun tal riguardo, perché la debolezza umana sopporta anche laconfutazione piú giusta di un errore solo sotto mitigazioni eadulazioni e anche cosí con grande difficoltà, e un maestro di secolie benefattore dell'umanità merita almeno che si abbia rispetto ancheper la sua debolezza umana per non causargli dolore. Ma chi è mortos'è liberato da questa debolezza, il suo merito sta fermo; il tempolo purificherà sempre di piú da ogni sopravvalutazione esvalutazione. I suoi errori debbono essere isolati, resi innocenti epoi consegnati all'oblio. Perciò nella polemica da intonare quicontro Kant io ho di fronte ai miei occhi solo le sue mancanze edebolezze, procedo contro di esse come un nemico e svolgo nei loroconfronti una guerra di sterminio senza riguardi, con la miracostante non di coprirle riguardosamente, ma di metterle piuttosto inpiena luce, per annullarle piú sicuramente. Per le ragioni sopradette sono consapevole con ciò di non usare verso Kant né ingiustiziané ingratitudine. Intanto però, al fine di rimuovere anche dagliocchi degli altri ogni sembianza di malignità, manifesterò la miadevozione profondamente sentita e la mia gratitudine verso Kantesprimendo concisamente il suo merito principale, come appare ai mieiocchi, e da un punto di vista cosí generale, da non essere costrettoa toccare insieme i punti, nei quali in seguito dovrò contraddirlo.

Il piú grande merito di Kant è la distinzione del fenomeno dallacosa in sé, - sul fondamento della dimostrazione che fra le cose enoi stessi c'è ancor sempre l'intelletto, per cui esse non possonoessere conosciute secondo quello che possono essere in sé. Egli fucondotto su questa via da Locke (vedi Prolegomena ad ogni metafisica,par' 13, n' 2). Questi aveva dimostrato che le qualità secondariedelle cose, come suono, odore, colore, durezza, mollezza, liscezza esimili, poiché sono fondate sulle affezioni dei sensi, nonappartengono al corpo oggettivo, alla cosa in se stessa; ad essa egliattribuiva solo le qualità primarie, cioè quelle che presuppongonosolo lo spazio e la impenetrabilità, cioè l'estensione, la figura, lasolidità, il numero, la mobilità. Ma questa distinzione di Lockefacile a trovarsi, che si mantiene alla superficie delle cose, eraper così dire solo un preludio giovanile a quella di Kant. Questa ineffetti, partendo da un punto di vista incomparabilmente piú alto,spiega tutto ciò che Locke aveva fatto valere come qualitatesprimariae, cioè come qualità della cosa in se stessa, come egualmenteappartenente solo all'apparizione di essa nella nostra facoltàconoscitiva, e propriamente in quanto le sue condizioni tempo spazioe causalità sono da noi conosciute a priori. Così Locke avevasottratto alla cosa in sé la parte che gli organi di senso hannonella sua apparizione; Kant poi sottrasse anche la parte dellefunzioni cerebrali (sebbene non sotto questo nome); perciò ora ladistinzione fra fenomeno e cosa in sé ha un significato infinitamente

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpiú grande e un senso molto piú profondo. A questo fine egli dovevaeffettuare la grande separazione della nostra conoscenza a priori daquella a posteriori, che mai prima di lui si ebbe con l'appropriatorigore e completezza e con chiara coscienza: perciò proprio questodivenne l'argomento principale delle sue profonde ricerche. Quivogliamo subito notare che la filosofia di Kant ha un triplicerapporto con quella dei suoi predecessori; primo, una relazione diconferma e ampliamento nei confronti di quella di Locke, come or oraabbiamo visto; secondo, una relazione di rettifica e di utilizzazionenei confronti di Hume, come si trova detto nella maniera piú chiaranella prefazione ai Prolegomena, il piú bello e il piú comprensibiledi tutti gli scritti principali di Kant, che è letto troppo poco eche pure facilita grandemente lo studio della sua filosofia; terzo,una relazione decisamente polemica e distruttiva nei confronti dellafilosofia leibniziowolfiana. Si debbono conoscere tutte e tre questedottrine, prima di procedere allo studio della filosofia kantiana. Sedunque, giusta quanto detto sopra, la differenza fra fenomeno e cosain sé, ossia la dottrina della completa diversità dell'ideale e delreale, è il tratto fondamentale della filosofia kantiana,l'affermazione manifestatasi subito dopo dell'assoluta identità dientrambi è un triste esempio della sentenza goethiana sopraricordata; tanto piú che essa non poggiava su altro che sullafanfaronata della intuizione intellettuale e cosí era un ritorno allarozzezza della visione comune mascherata sotto l'imponenza di unaspetto distinto, ampollosità e confusione. Essa divenne il degnopunto di partenza per la insensatezza ancora piú grossolana del goffoe insulso Hegel. Come dunque la separazione di Kant, concepita nellamaniera che sopra abbiamo detto, del fenomeno dalla cosa in sé fu digran lunga superiore per profondità e avvedutezza a tutto quel chec'era stato, cosí anche essa fu nei suoi risultati ricca diconseguenze. Infatti egli, trovandola interamente da se stesso, in unmodo totalmente nuovo, da un nuovo lato e per una nuova via, esposequi la stessa verità che Platone instancabilmente ripete ed esprimenel suo linguaggio per lo piú cosí: questo mondo che appare ai sensinon ha alcun vero essere, ma solo un incessante divenire, esso è enon è, e la sua comprensione non è tanto una conoscenza quantoun'illusione. Questo è ciò che egli esprime miticamente nel passo piúimportante delle sue opere già menzionato nel terzo libro delpresente scritto, nel settimo libro della Repubblica, nel quale diceche gli uomini, incatenati in una caverna oscura non vedono né laluce originaria e vera né le cose reali, ma solo la misera luce delfuoco nella caverna e le ombre delle cose reali che dietro le lorospalle passano davanti al fuoco; essi credono tuttavia che le ombresiano la realtà, e che la determinazione della successione di questeombre sia la vera sapienza. La stessa verità, di nuovo in tutt'altramaniera esposta, è anche una delle dottrine fondamentali dei Veda edei Purana, la dottrina della Maya o illusione, con cui propriamentenon si intende nient'altro che quello che Kant chiama il fenomeno incontrapposizione alla cosa in sé; infatti l'opera della Maya vienepropriamente indicata come questo mondo in cui noi siamo unincantesimo suscitato, una apparenza senza consistenza e senzasostanza, un velo che circonda la coscienza umana, qualcosa di cui èegualmente vero e egualmente falso dire che sia e che non sia. Kantperò non solo espresse questa dottrina in una maniera totalmentenuova ed originale, ma fece di essa, attraverso la sua esposizionepiú calma e spassionata, una verità provata e incontestabile; mentretanto Platone quanto gli indiani avevano fondato le loro affermazionisolo su una intuizione generale del mondo, le avevano presentate solocome espressione immediata della loro coscienza, e le avevano espostepiú misticamente e poeticamente che filosoficamente e chiaramente.Per questo riguardo essi si rapportano a Kant, come i pitagoriciIceta, Filolao e Aristarco, che affermarono il movimento della terraattorno al sole, a Copernico. Una tale chiara conoscenza e calma,avveduta, esposizione di questa costituzione del mondo intero per cuiè simile a sogno è propriamente la base di tutta la filosofiakantiana, la sua anima e il suo merito massimo. Egli giunge a questorisultato con lo scomporre e con il mostrare pezzo per pezzo, conmeravigliosa avvedutezza e abilità, l'intero meccanismo della nostra

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtfacoltà conoscitiva, per mezzo del quale viene all'essere lafantasmagoria del mondo oggettivo. Tutta la precedente filosofiaoccidentale, indicibilmente goffa nei confronti di quella kantiana,aveva disconosciuto questa verità, e proprio perciò aveva sempreparlato come in sogno. Solo Kant risvegliò improvvisamente ad essa:perciò anche lo chiamarono gli ultimi dormienti (Mendelssohn) ildistruttore di tutto. Egli mostrò che le leggi, che dominano connecessità assoluta l'esistenza, cioè l'esperienza in generale, nonpossono applicarsi per dedurre l'esistenza stessa e per spiegarla;che la loro validità dunque è solo relativa, cioè comincia solo dopoche l'esistenza, il mondo dell'esperienza in generale, è già posto epresente; che di conseguenza queste leggi non possono esserci diguida, quando procediamo alla spiegazione dell'esistenza, del mondo edi noi stessi. Tutti i precedenti filosofi occidentali avevanoritenuto che queste leggi, secondo le quali i fenomeni sono legatil'uno all'altro e che io comprendo tutte, spazio tempo causalità econseguenza logica, sotto l'espressione del principio di ragioneerano leggi assolute e nient'affatto condizionate, aeternaeveritates; che il mondo era solo in conseguenza e conformità ad esse,e perciò con la loro guida si potesse risolvere l'intero enigma delmondo. Le assunzioni fatte a questo fine, che Kant critica sotto iltitolo di idee della ragione, servivano propriamente solo ad elevaread unica e somma realtà il puro fenomeno, l'opera della Maya, ilmondo delle ombre di Platone, a porlo al posto dell'essenza intima evera delle cose: cioè in una parola ad addormentare ancora piúsolidamente i sognatori. Kant mostrò come quelle leggi e diconseguenza il mondo stesso fossero condizionate dal modo diconoscere del soggetto: dal che derivava che, finché si continuava aricercare ed inferire sotto la guida di esse, per quel che riguardavala cosa principale e cioè la conoscenza del mondo in sé e fuori dellarappresentazione, non si faceva alcun passo innanzi, ma ci si muovevasolo come lo scoiattolo nella ruota. Si possono perciò paragonaretutti i dogmatici a persone che pensano che se solo andasseroabbastanza a lungo diritto raggiungerebbero la fine del mondo. MaKant avrebbe poi circumnavigato il mondo e mostrato che, poiché essoè rotondo, attraverso un movimento orizzontale non se ne potevauscire, ma che forse ciò non era impossibile con un movimentoverticale. Si potrebbe anche dire che la dottrina di Kant forní laconoscenza che la fine e l'inizio del mondo non è da cercare fuori dinoi, ma in noi.Tutto questo ora però riposa sulla distinzione fondamentale trafilosofia dogmatica e filosofia critica o trascendentale. Chi vuolrendersela chiara e illustrarla con un esempio, lo può presto fare,se scorre come specimen della filosofia dogmatica, un saggio diLeibniz, che porta il titolo De rerum originatione radicali e che èstato stampato per la prima volta nell'edizione delle operefilosofiche di Leibniz di Erdmann, vol' I, p' 147. Giusto in essoviene dimostrata a priori in maniera realisticodogmatica,utilizzando la prova ontologica e cosmologica, l'origine e lacostituzione eccellente del mondo, sul fondamento delle veritatumaeternarum. Di passaggio viene anche ammesso una volta chel'esperienza mostra l'esatto contrario della qui dimostrataeccellenza del mondo, il che significa per l'esperienza, che noncomprende nulla di ciò e deve tenere la bocca chiusa, quando lafilosofia a priori ha parlato. Come avversaria di tutto questo metodoè ora entrata in scena con Kant la filosofia critica, che fa suoproblema proprio le veritates aeternae che servono come fondamento ditutta questa costruzione dogmatica, ne ricerca l'origine e subito latrova nella testa umana, dove esse crescono dalle forme che ad essapropriamente appartengono, che le porta in sé in vista dellaconcezione di un mondo oggettivo. Qui dunque nel cervello è la cava,che fornisce il materiale a quell'orgoglioso edificio dogmatico. Lafilosofia critica, poiché per raggiungere questo risultato dovetteandare oltre le veritates aeternae, sulle quali si fondava tutto ildogmatismo sino ad ora, e renderle oggetto di ricerca, divennefilosofia trascendentale. Da essa poi anche si ricava che il mondooggettivo, come noi lo conosciamo, non appartiene all'essenza dellecose in sé, ma è solo un fenomeno di esse, condizionato proprio da

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquelle forme, che si trovano a priori nell'intelletto umano(cervello), e che esso perciò anche non può contenere nient'altro chefenomeni.Kant certo non giunse alla conoscenza che il fenomeno è il mondocome rappresentazione e la cosa in sé è la volontà. Ma egli mostròche il mondo fenomenico è condizionato sia dal soggetto siadall'oggetto e in quanto isolò le forme generali della suaapparizione, cioè della rappresentazione, provò che si conosce questeforme e le si coglie in tutta la loro regolarità non solo partendodall'oggetto ma anche dal soggetto, perché propriamente esse sono iconfini comuni ad entrambi, e concluse che nel seguire questi confininon si penetra né nell'intimo del soggetto né in quello dell'oggettoe di conseguenza non si conosce mai l'essenza del mondo, la cosa insé.Egli dedusse la cosa in sé non nella maniera giusta, come io subitomostrerò, ma attraverso una inconseguenza, che egli dovette pagarecon frequenti e irresistibili attacchi a questa parte principaledella sua dottrina. Egli non riconobbe direttamente nella volontà lacosa in sé; solo egli fece un passo grande e innovatore verso questaconoscenza, in quanto illustrò il significato morale innegabiledell'agire umano come del tutto diverso e indipendente dalle leggidel fenomeno, inspiegabile sulla loro base, come qualcosa che toccaimmediatamente la cosa in sé: questo è il secondo punto principale asuo merito.Come terzo possiamo considerare la completa distruzione dellafilosofia scolastica, col qual nome io vorrei indicare qui ingenerale l'intero periodo che inizia con il Padre della ChiesaAgostino e si chiude immediatamente prima di Kant. Infatti ilcarattere principale della scolastica è ben quello giustamenteindicato da Tenneman, la tutela della religione nazionale dominantesulla filosofia, a cui propriamente non rimaneva altro che dimostraree adornare i dogmi principali che le erano prescritti: i veri epropri scolastici fino a Suarez lo confessavano schiettamente: ifilosofi seguenti lo facevano piú inconsapevolmente, o almenoinconfessatamente. Si fa arrivare la filosofia scolastica solo finoall'incirca cento anni prima di Cartesio e poi con lui si facominciare un'epoca del tutto nuova della ricerca libera,indipendente da ogni dogmatica positiva: ciò però non si puòattribuire a Cartesio e ai suoi seguaci, (1) ma al massimo solo unaparvenza di ciò e semmai una tendenza a ciò. Cartesio fu uno spiritograndemente insigne, e quando si guardi al suo tempo, ha fattomoltissimo, ma se si mette da parte questa considerazione, e lo simisura secondo il metro della sua celebrata liberazione del pensieroda ogni catena e dell'avvio ad una ricerca personale spregiudicata,allora si troverà che con la sua scepsi ancora priva di serietàautentica e perciò così malamente e prestamente cedente, senza dubbioha l'aria di volere gettare di un solo colpo tutte le catene delleopinioni inoculate, appartenenti al suo tempo e al suo paese, ma chefa ciò solo in apparenza per un istante, per riassumerleimmediatamente e conservarle tanto piú saldamente: e cosí tutti isuoi seguaci sino a Kant. Molto ben applicabili ad un liberopensatore di questo stampo sono perciò i versi di Goethe:«Es scheint mir, mit Verlaub von Ewr Gnaden@ Wie eine derlangbeinigen Cikaden,@ Die immer fliegt und fliegend springt -@ Undgleich im Gras ihr altes Liedschen singt.@» (2)Kant aveva ragione di fare le mosse come se egli la pensasse anchesolo così. Ma dal preteso salto, che era concesso perché già sisapeva che esso riportava nell'erba, questa volta si ebbe un volo, equelli che sono rimasti sotto possono solo seguirlo con lo sguardosenza riuscire a riacchiapparlo.Kant dunque osò con la sua dottrina provare l'indimostrabilità diquei dogmi tante volte solo presuntivamente dimostrati. La teologiaspeculativa e la psicologia razionale che le era annessa ricevetteroin lui il colpo di grazia. Da allora esse sono sparite nellafilosofia tedesca, e non ci si deve fare trarre in inganno dal fattoche qui e là si mantenga la parola, dopo che si è abbandonata lacosa, o che qualche povero professore di filosofia abbia di fronteagli occhi la paura del suo padrone e lasci stare la verità. La

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtgrandezza di questo merito di Kant può essere misurata solo da chi haosservato l'influsso negativo di quei concetti sulla scienza naturalein tutti gli autori, anche nei migliori, del diciassettesimo e deldiciottesimo secolo. Negli scritti tedeschi di scienza naturale ilmutamento del tono e dello sfondo metafisico iniziato con Kant èsorprendente: prima di lui le cose stavano come ancora oggi inInghilterra. Il merito di Kant è una conseguenza del fatto chel'andare dietro alle leggi del fenomeno sconsideratamente,l'innalzarle a verità eterna e con ciò l'innalzare il fenomenofuggitivo a essenza del mondo, in breve il realismo non distruttonella sua illusorietà da alcuna riflessione, era stato assolutamentedominante in tutta la filosofia precedente, dal tempo antico,medioevale e moderno. Berkeley che, come già prima di lui ancheMelabranche, aveva riconosciuto l'unilateralità, anzi la falsità diesso, non poté eliminarlo, perché il suo attacco si limitava ad unsolo punto. Spettò così a Kant il fare trionfare in Europa almeno infilosofia la visione idealistica fondamentale, che è presente intutta l'Asia non islamizzata, e certo in modo essenziale, persinonella religione. Prima di Kant dunque eravamo noi nel tempo, ora iltempo è in noi, e così via.Anche l'etica era trattata da quella filosofia realistica secondole leggi del fenomeno, che riteneva assolute, valide anche per lacosa in sé e perciò era fondata ora sulla dottrina della felicità orasulla volontà del creatore del mondo, ora infine sul concetto diperfezione, che in sé e di per sé è del tutto vuoto e privo dicontenuto, poiché esso indica una pura relazione che ricevesignificato solo dalle cose, a cui essa è applicata, in quanto«essere perfetto» non significa altro che «corrispondere a un certoconcetto per ciò presupposto e dato», che quindi deve essere postoprima e senza il quale la perfezione è un'incognita che come taleespressa da sola non dice nulla. Se poi si volesse elevare a tacitopresupposto il concetto di umanità e conformemente a ciò porre comeprincipio morale il tendere ad umanità perfetta, con ciò si direbbesolo propriamente: «Gli uomini debbono essere come debbono essere». Enon si sarebbe certo diventati piú saggi di quanto lo si era prima.«Perfetto» è quasi solo sinonimo di «completo», in quanto afferma chein un caso dato, o in un individuo, tutti i predicati che si trovanonel concetto del suo genere, sono rappresentati o realmente presenti.Perciò il concetto di «perfezione» quando viene usato semplicementein abstracto è una parola vuota di pensiero, ed egualmente ildiscorso sull'«essere perfettissimo» e simili. Tutto ciò è purovaniloquio. Tuttavia nel secolo scorso questo concetto di perfezionee imperfezione era diventato moneta corrente, anzi era il cardineintorno a cui girava quasi tutto il moralizzare e anche ilteologizzare. Ognuno l'aveva in bocca, sicché infine con esso sigiunse a un vero eccesso. Vediamo persino gli scrittori migliori deltempo, per es' i Lessing, irretiti nella maniera piú pietosa nelle«perfezioni» e «imperfezioni» e alle prese con ciò. Ciononostanteogni testa pensante doveva tuttavia sentire almeno oscuramente chequesto concetto è senza alcun contenuto positivo, in quanto esso,come un segno algebrico, indica un puro rapporto in abstracto. Kant,come già abbiamo detto, separò dal fenomeno e dalle sue leggi ilgrande innegabile significato etico delle azioni, e mostrò che questeconcernono immediatamente la cosa in sé, l'essenza intrinseca delmondo, mentre quelle, cioè il tempo e lo spazio, e tutto ciò che liriempie ed in esse è ordinato secondo la legge di causalità, sono daconsiderarsi come sogno senza consistenza e sostanza.Questi pochi cenni, che non esauriranno certo l'oggetto, possonobastare come testimonianza del mio riconoscimento dei grandi meritidi Kant, qui data per mia propria soddisfazione, e perché lagiustizia esigeva che fossero richiamati alla memoria questi meritiper tutti quelli che vogliono seguirmi nella scoperta spietata deisuoi errori, alla quale io ora passo.

Che i grandi contributi di Kant anche dovessero essere accompagnatida grossi errori, lo si può vedere già solo sul piano storico dalfatto che, sebbene egli effettuò la piú grande rivoluzione infilosofia, e mise fine alla scolastica, che compresa nel senso piú

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtampio indicato, era durata quindici secoli, per iniziare realmenteuna terza epoca universale interamente nuova della filosofia, pure ilsuccesso immediato del suo comparire fu quasi solo negativo, nonpositivo: infatti, poiché non presentò un nuovo sistema completo, alquale i suoi seguaci anche solo per un certo tempo avessero potutoattenersi, tutti senza dubbio notarono che era accaduto qualcosa dimolto grande, ma nessuno sapeva propriamente cosa. Essi videro beneche l'intera filosofia fino ad allora era stata un sognare sterile,dal quale ora il nuovo tempo si risvegliava; ma a che cosa essidovevano attenersi, non lo sapevano. Un grande vuoto, un grandebisogno era sopraggiunto; era suscitata l'attenzione generale,persino del gran pubblico. Così stimolati, ma non sollecitati dalbisogno interiore e dal sentimento della forza (che si manifestaanche in tempi sfavorevoli, come per esempio in Spinoza), uominisenza talento distinto avviarono molteplici, deboli, insulsi,talvolta anche folli tentativi, a cui il pubblico, una voltaeccitato, dedicò la sua attenzione e con grande pazienza, come oggila si trova solo in Germania, a lungo prestò orecchio.Come qui adesso, dev'essere avvenuto una volta nella natura, quandouna grande rivoluzione ebbe cambiato l'intera superficie della terra,mare e terra ebbero cambiato le loro posizioni e fu spianato lospazio per una nuova creazione.Allora passò lungo tempo, prima che la natura potesse produrre unanuova serie di forme durevoli, ognuna armonizzante con se stessa econ le altre: apparvero organizzazioni strane e mostruose, che, indisarmonia con se stesse e fra di loro, non potettero durare a lungo,ma i resti che di esse ancora oggi si hanno sono giusto quelli che cihanno portato il ricordo di quell'esitare e di quel tentare dellanatura nuovamente formantesi. Che ora nella filosofia sia stataprovocata da Kant una crisi del tutto simile a questa e un tempo diprodotti mostruosi, come tutti sappiamo, già ciò ci porta aconcludere che il suo merito non è perfetto, ma deve essere statogravato di grossi difetti, negativo e unilaterale.

Innanzi tutto vogliamo renderci chiaro ed esaminare il pensierofondamentale, in cui è contenuta l'intenzione dell'intera Criticadella ragion pura. Kant si mise dal punto di vista dei suoipredecessori, i filosofi dogmatici, e conformemente partì con essidalle presupposizioni seguenti: 1) La metafisica è la scienza di ciòche sta al di là della possibilità di ogni esperienza. 2) Questo nonpuò essere assolutamente mai raggiunto sulla base di principi cheessi stessi siano solo attinti dall'esperienza (Prolegomena, par' 1),ma solo ciò che noi sappiamo prima e cioè indipendentementedall'esperienza può andare oltre alla possibile esperienza. 3) Nellanostra ragione si possono realmente rinvenire alcuni principi diquesto genere: li si comprende sotto il nome di conoscenze di puraragione. Fin qui Kant procede assieme ai suoi predecessori, qui peròsi separa da essi. Essi dicono: questi principi o conoscenze di puraragione sono espressioni della possibilità assoluta delle cose,aeternae veritates, fonti dell'ontologia: essi dominano l'ordine delmondo, come il Fato dominava le divinità degli antichi. Kant dice«sono pure forme del nostro intelletto, leggi, non dell'esistenzadelle cose, ma delle nostre rappresentazioni di esse, valgono perciòsolo per la nostra comprensione delle cose, e conformemente a ciò nonpossono andare oltre la possibilità dell'esperienza, ciò a cui,secondo l'articolo 1, si tendeva. Infatti proprio l'apriorità diqueste forme di conoscenza, poiché essa può riposare solosull'origine soggettiva di esse, ci impedisce la conoscenzadell'essenza delle cose in sé per sempre e ci limita ad un mondo dipuri fenomeni, sicché non solo a posteriori, ma nemmeno a priori,possiamo conoscere le cose, come possono essere in se stesse. Perciòla metafisica è impossibile e al suo posto compare la critica dellaragion pura. Nei confronti del vecchio dogmatismo Kant qui è deltutto vittorioso: perciò tutti i tentativi dogmatici comparsi daallora hanno dovuto battere vie totalmente diverse; allagiustificazione della mia io introdurrò ora, secondo l'intenzioneespressa dalla critica presente. Infatti dopo un piú preciso esamedella argomentazione sopra riportata, si dovrà ammettere che la sua

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtprima assunzione fondamentale è una petitio principi. Essa si trovanel principio (chiaramente formulato specialmente nei Prolegomena,par' 1): «la fonte della metafisica non può assolutamente essereempirica, i suoi principi fondamentali e concetti fondamentali nonpossono essere assunti dall'esperienza, né interna né esterna». Afondazione di questa affermazione cardinale non viene tuttaviaportato niente altro che l'argomento etimologico della parolametafisica. In verità però la cosa sta cosí: il mondo e la nostraesistenza ci si presentano necessariamente come un enigma. Ora vienesenz'altro assunto che la soluzione di questo enigma non possaprocedere da una comprensione fondamentale del mondo stesso, ma debbaessere cercata in qualcosa di completamente diverso dal mondo (ciòinfatti significa «al di là della possibilità di ogni esperienza»); eche da questa soluzione debba essere escluso tutto ciò di cui noi inqualche modo abbiamo conoscenza immediata (ciò significa infattiesperienza possibile tanto interna quanto esterna); essa piuttostodeve essere cercata solo in ciò a cui possiamo giungere solomediatamente, cioè con inferenze da principi necessari a priori. Dopoche in questa maniera si è esclusa la fonte principale di ogniconoscenza e ci si è chiusi la via diretta alla verità, non ci si puòmeravigliare che i tentativi dogmatici siano falliti e che Kant abbiapotuto mostrare la necessità di questo fallimento; infatti si eranoanticipatamente assunte come identiche metafisica e conoscenza apriori. Ma per ciò si sarebbe dovuto prima dimostrare che la materiaper la soluzione dell'enigma del mondo non possa essere assolutamentecontenuta in esso, e sia invece da cercarsi fuori del mondo, inqualcosa che si possa raggiungere solo con la guida di quelle formedi cui abbiamo coscienza a priori. Finché però ciò non è provato, nonabbiamo nessuna ragione, proprio per il piú difficile e importantedei nostri compiti, di chiuderci le piú ricche di contenuto di tuttele fonti di conoscenza, l'esperienza interna e esterna, per operaresolamente con forme prive di contenuto. Io dico perciò che lasoluzione dell'enigma del mondo deve procedere dalla comprensione delmondo stesso; che anche il compito della metafisica non è disorvolare l'esperienza, in cui è questo mondo, ma penetrarla a fondo,in quanto l'esperienza interna ed esterna è veramente la fonteprincipale di ogni conoscenza; che perciò la soluzione dell'enigmadel mondo è possibile solo attraverso il collegamento dovuto ecompiuto al giusto punto dell'esperienza interna e dell'esperienzaesterna, e attraverso l'unione in tal modo realizzata di queste duecosí eterogenee fonti di conoscenza: sebbene anche cosí soloall'interno di certi limiti, che sono inseparabili dalla nostranatura finita, per cui noi giungiamo ad una giusta comprensione delmondo stesso senza raggiungere una spiegazione conchiusa e che nonlasci piú ulteriori problemi della sua esistenza. Di conseguenza estquadam prodire tenus, e la mia via è in mezzo fra la dottrinadell'onniscienza dei precedenti dogmatici e la disperazione dellacritica kantiana. Le importanti verità scoperte da Kant, tramite lequali vennero fatti cadere i precedenti sistemi metafisici, hannofornito dati e materiale al mio. Si confronti quel che ho detto circail mio metodo nel cap' 17 del secondo volume. Tanto basta sulpensiero fondamentale di Kant; ora vogliamo considerare il suosviluppo e i particolari.

Lo stile di Kant porta sempre l'impronta di uno spirito superiore,di autentica robusta originalità e di una forza di pensiero del tuttoinsolita: il suo carattere si può forse indicare giustamente comesobrietà brillante con la quale egli può afferrare saldamente eenucleare i concetti con grande sicurezza per rivoltarli qua e là conla piú grande libertà, con meraviglia del lettore. La stessa sobrietàbrillante la ritrovo nello stile di Aristotele, sebbene questo siamolto piú semplice. Tuttavia l'esposizione di Kant è spesso vaga,indeterminata, insoddisfacente e talvolta affetta da oscurità. Certoquest'ultima si deve in parte scusare con la difficoltà dell'oggettoe la profondità dei pensieri; ma chi è chiaro a se stesso sino infondo e sa ben distintamente quel che pensa e vuole, non scriverà maiconfusamente, non formulerà mai concetti incerti, indeterminati néper indicarli andrà cercando qua e là in lingue straniere espressioni

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcomplicate e grandemente difficili, per poi usarle continuamente,come Kant prese dalla filosofia antica, persino dalla scolastica,parole e formule, che unì fra di loro ai suoi fini, come per es'«unità sintetica trascendentale dell'appercezione» e in generale«unità della sintesi» che si trova tutte le volte in cui«unificazione» di per sé sola bastava. Egli inoltre non spiegheràancora sempre di nuovo ciò che ha già spiegato una volta, come faKant con l'intelletto, le categorie, l'esperienza e altri concettiprincipali. Egli non si ripeterà in continuazione per poi lasciaretuttavia, in ogni nuova esposizione del concetto cento voltepresentato, gli stessi punti oscuri; ma dirà una volta per tuttechiaramente, completamente e esaurientemente la sua opinione e se neaccontenterà. Quo enim melius rem aliquam concipimus, eo magisdeterminati sumus ad eam unico modo exprimendam, dice Cartesio nellasua quinta lettera. Ma il piú grande inconveniente che l'esposizioneparzialmente oscura di Kant ha avuto è che essa ha agito comeexemplar vitiis imitabile, anzi venne fraintesa come autorizzazionecorruttrice. Il pubblico era stato costretto a riconoscere che ciòche è oscuro non è sempre insensato e subito l'insensato si rifugiòdietro l'esposizione oscura: Fichte fu il primo che si impossessò diquesto nuovo privilegio e ne approfittò grandemente; Schelling gli fuin ciò almeno alla pari e un esercito di scribacchini famelici senzaspirito e senza onestà subito li superò entrambi. Tuttavia la piúgrande impudenza nell'ammannire pure insensatezze, con il mettereinsieme affrettatamente intrecci verbali privi di senso e folli, comesinora si erano uditi solo nei manicomi, apparve alla fine con Hegele divenne lo strumento della piú grossolana mistificazione generale,che mai ci sia stata, con un successo, che per la posterità rimarràincredibile e resterà un monumento di sciocchezza tedesca.Inutilmente frattanto Jean Paul scrisse i suoi bei paragrafisull'«elogio sommo della pazzia filosofica sulla cattedra e di quellapoetica sulla scena teatrale» (postscuola di estetica); inutilmentegià Goethe aveva detto:«So schwätzt und lehrt man ungestört,@ Wer mag sich mit den Narr'nbefassen?@ Gewöhnlich glaubt der Mench, wenn er nur Worte hört,@ Esmüsse sich dabei doch auch was denken lassen.@» (3)Ma torniamo a Kant. Non si può fare a meno di ammettere che glimancava del tutto l'antica, grandiosa semplicità, l'ingenuità,ingénuité, candeur. La sua filosofia non ha nessuna analogia conl'architettura greca, che offre rapporti grandiosi, semplici, che sidanno tutti in una volta allo sguardo: piuttosto essa ricordagrandemente l'architettura gotica. Infatti una peculiarità del tuttoparticolare dello spirito di Kant è un singolare piacere per lasimmetria, che ama la molteplicità svariata, per ordinarla e ripeterel'ordine in ordini subordinati e così via, proprio come nelle chiesegotiche. Anzi egli giunge talvolta sino a fare di ciò un divertimentoe allora la sua inclinazione per questa passione va così lontano chefa manifesta violenza alla verità e si comporta con essa come con lanatura i vecchi giardinieri francesi, le cui opere sono vialisimmetrici, quadrati e triangoli, angoli piramidali e sferici e siepiritorte in curve regolari. Voglio dimostrare ciò con i fatti.Dopo che egli ha trattato isolatamente spazio e tempo, e quindi siè liberato alla svelta di questo intero mondo dell'intuizione cheriempie lo spazio e il tempo, in cui noi viviamo e siamo, con leparole insignificanti: «il contenuto empirico dell'intuizione civiene dato», - giunge subito con un salto, ai fondamenti logici dellasua intera filosofia, alla tavola dei giudizi. Da questa egli deduceuna dozzina esatta di categorie disposte simmetricamente sottoquattro titoli, che in seguito divengono il terribile letto diProcuste, in cui egli fa entrare a forza tutte le cose del mondo etutto quel che procede dall'uomo, senza temere alcun esercizio diviolenza e senza arretrare di fronte ad alcun sofisma, solo perpotere dovunque ripetere la simmetria di quella tavola. La prima cosache da essa simmetricamente viene dedotta è la tavola purafisiologica dei principi generali della scienza naturale; cioè gliassiomi dell'intuizione, le anticipazioni della percezione, leanalogie dell'esperienza, e i postulati del pensiero empirico ingenerale. Di questi principi i due primi sono semplici: i due ultimi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtinvece producono simmetricamente ciascuno tre germogli. Le purecategorie sono ciò che egli chiama concetti; questi principi dellascienza naturale sono invece giudizi. Seguendo la sua guida supremaad ogni sapere, cioè la simmetria, la serie si deve ora mostrareproficua per le inferenze, e queste a loro volta seguonosimmetricamente e ritmicamente. Infatti come attraversol'applicazione delle categorie alla sensibilità sorse l'esperienza,insieme con i suoi principi a priori; cosí con l'applicazione delleinferenze alle categorie, cosa che la ragione effettua, secondo ilsuo presunto principio di ricerca dell'incondizionato, sorgono leidee della ragione. Questo accade cosí: le tre categorie dellarelazione danno le tre sole possibili premesse maggiori aisillogismi, i quali ultimi conformemente a ciò si scindono in trespecie, ciascuna delle quali è da considerarsi come un uovo da cui laragione cova un'idea; cioè dal sillogismo categorico l'ideadell'anima, dall'ipotetico l'idea del mondo, dal disgiuntivo l'ideadi Dio. Nell'idea di mezzo, quella del mondo, si ripete ancora unavolta la simmetria della tavola delle categorie, in quanto i loroquattro titoli producono quattro tesi, di cui ciascuna ha la suaantitesi come pendant simmetrico.Tributiamo senz'altro la nostra meraviglia alla realmenteacutissima combinazione, che produsse questo delicato edificio: inseguito poi lo esamineremo approfonditamente nel suo fondamento enelle sue parti. Tuttavia debbono ancora essere premesse le seguenticonsiderazioni.

C'è da meravigliarsi come Kant, senza pensarci ulteriormente,percorre la sua via, seguendo la sua simmetria e ordinando secondoessa ogni cosa, senza mai prendere in considerazione di per sé unodegli oggetti cosí trattati. Voglio spiegarmi in maniera piú precisa.Dopo che egli prende in considerazione la conoscenza intuitiva solonella matematica, trascura del tutto la rimanente conoscenzaintuitiva, in cui il mondo ci sta di fronte, e si attiene solo alpensiero astratto, che tuttavia riceve ogni significato e ogni valoresolo dal mondo intuitivo, che è infinitamente piú significativo,comune, ricco di contenuti, che la parte astratta della nostraconoscenza. Anzi egli non ha in nessun luogo, e si tratta di un puntofondamentale, distinto la conoscenza intuitiva e la conoscenzaastratta con precisione, e proprio perciò, come vedremo in seguito,si è avvolto in contraddizioni insolubili. Dopo che ha liquidatol'intero mondo sensibile con l'insignificante «esso è dato», egli fa,come abbiamo detto, della tavola logica dei giudizi la pietrafondamentale del suo edificio. Ma qui egli non riflette neanche unistante su quello che ora propriamente gli sta di fronte. Questeforme di giudizi sono parole e combinazioni di parole. Ci si dovevadunque innanzi tutto domandare che cosa esse indicasseroimmediatamente: si sarebbe trovato allora che sono concetti. Ladomanda successiva sarebbe stata dunque sull'essenza dei concetti.Dalla sua risposta si sarebbe ricavato quale rapporto essi hanno allerappresentazioni intuitive, in cui è il mondo; allora intuizione eriflessione si sarebbero separate. Non avrebbe dovuto solo esserericercato come giunga a coscienza l'intuizione a priori pura e soloformale, ma anche il suo contenuto, l'intuizione empirica. Alloraperò si sarebbe mostrato quale parte ha in ciò l'intelletto, quindianche che cosa sia l'intelletto e che cosa per contro la ragione, lacui critica viene qui scritta. E' grandemente sorprendente che eglinon determina in modo accurato e sufficiente neanche una sola voltaquest'ultima; ma dà solo occasionalmente e come il contesto lo esigeillustrazioni incomplete e imprecise su di essa; in pieno disaccordocon la regola di Cartesio sopra addotta. (4) Per es' a p' 11 (V, p'24) della Critica della ragion pura essa è la facoltà dei principi apriori; a p' 299 (V, p' 356) si dice poi che è la facoltà deiprincipi ed è contrapposta all'intelletto, come facoltà delle regole!Ora si dovrebbe pensare che fra principi e regole ci dovrebbe essereuna differenza enorme, poiché egli autorizza ad assumere per ognunadi esse una speciale facoltà conoscitiva. Ma questa grande differenzadeve consistere solo in ciò, che quel che è conosciuto a priori dallapura intuizione e attraverso le forme dell'intelletto è una regola, e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsolo quel che procede da concetti puri a priori è un principio. Suquesta arbitraria e inammissibile distinzione ritorneremo in seguitocon la dialettica. A p' 330 (V, p' 386) la ragione è la facoltà diinferire; egli interpreta il puro giudicare più spesso (p' 69; V, p'94) come affare dell'intelletto. Così egli dice ora propriamente:giudicare è cosa dell'intelletto, finché il fondamento del giudizio èempirico, trascendentale o metalogico (trattato Sul principio diragione, parr' 31, 32, 33); se però è logico, come quello in cuiconsiste l'inferenza, allora agisce una facoltà conoscitivaspecialissima, molto più eccellente, la ragione. Anzi, ancor di più,a p' 303 (V, p' 360) viene spiegato che le illazioni immediate da unprincipio sarebbero ancora affare dell'intelletto e solo quelle doveviene usato un concetto che fa da mediatore verrebbero eseguite dallaragione. E come esempio viene addotto il seguente: dalla proposizione«tutti gli uomini sono mortali» la conclusione «alcuni mortali sonouomini» è tratta dal puro intelletto; invece quella «tutti i dottisono mortali» esige una facoltà totalmente diversa e più eccellente,la ragione. Come fu possibile che un grande pensatore potesseavanzare qualcosa di simile! A p' 553 (V, p' 581) ad un tratto laragione è la condizione permanente di ogni azione volontaria. A p'614 (V, p' 642) essa consiste in ciò, che noi possiamo dare contodelle nostre affermazioni; a p' 643, 644 (V, p' 671, 672) in ciò, cheunifica i concetti dell'intelletto in idee, così come l'intelletto lamolteplicità degli oggetti in concetti. A p' 646 (V, p' 674) non èaltro che la facoltà di dedurre il particolare dall'universale.L'intelletto viene allo stesso modo ancora sempre di nuovo spiegato:in sette luoghi della Critica della ragion pura, a p' 51 (V, p' 75) èla facoltà di produrre rappresentazioni. A p' 69 (V, p' 94) lafacoltà di giudicare, cioè di pensare, cioè di conoscere attraversoconcetti. A p' 137, quinta edizione, la facoltà delle conoscenze. Ap' 132 (V, p' 171) la facoltà delle regole. A p' 158 (V, p' 197)viene però detto: «esso non è solo la facoltà delle regole, ma lafonte dei principi, per la quale tutto sta sotto regole»; e tuttaviaesso più in alto fu contrapposto alla ragione, poiché questasolamente sarebbe la facoltà dei principi. A p' 160 (V, p' 199)l'intelletto è la facoltà dei concetti; a p' 302 (V p' 359) poi è lafacoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole.Non avrò certo bisogno di difendere oltre le illustrazioni da meaddotte di queste due facoltà conoscitive, solide, nette, definite,semplici e sempre in accordo con l'uso linguistico di tutti i popolie di tutti i tempi, contro tali discorsi confusi e infondati (sebbenevengano da Kant). Li ho voluti citare solo come documentigiustificativi del mio appunto, che Kant segue il suo sistemasimmetrico, logico, senza riflettere sufficientemente sull'oggetto,che egli così tratta.Se Kant, come ho detto sopra, avesse seriamente ricercato in chemodo due tali diverse facoltà conoscitive, di cui una è il trattodistintivo dell'umanità, si danno a conoscere e che cosa, secondol'uso linguistico di tutti i popoli e di tutti i filosofi si chiamaragione e intelletto, allora egli non avrebbe mai, senza altraautorità che l'intellectus theoreticus e l'intellectus practicusdegli scolastici usati in un senso totalmente diverso, diviso laragione in teoretica e pratica, e fatto di quest'ultima la fontedell'agire virtuoso. Allo stesso modo Kant, prima di separare cosìaccuratamente i concetti dell'intelletto (per cui egli intende inparte le categorie, in parte tutti i concetti comuni) e i concettidella ragione (le sue cosiddette idee) e di fare di entrambi ilmateriale della sua filosofia, che per lo più tratta solo dellavalidità, applicazione, origine di tutti questi concetti; - prima,dico, avrebbe dovuto veramente ricercare che cosa in generale è unconcetto. Solo anche questa ricerca così necessaria disgraziatamentenon fu affatto fatta, cosa che molto ha contribuito allairrimediabile confusione di conoscenza intuitiva e conoscenzaastratta, che presto mostrerò. La stessa mancanza di sufficienteriflessione con cui egli trascurò le domande: che cos'è l'intuizione?Che cos'è la riflessione? Che cos'è il concetto? Che cos'è laragione? Che cos'è l'intelletto? gli fece anche tralasciare leseguenti ricerche inevitabilmente necessarie: che cosa chiamo

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'oggetto, che distinguo dalla rappresentazione? Che cosa èl'esistenza? Che cosa è l'oggetto? Che cosa è il soggetto? Che cosala verità, l'illusione, l'errore? Ma egli segue, senza riflettere oguardarsi intorno, il suo schema logico e la sua simmetria. La tavoladei giudizi deve essere ed è necessariamente la chiave per ognisapienza.

Sopra ho posto il merito principale di Kant nel fatto che eglidistinse il fenomeno dalla cosa in sè, interpretò l'intero mondovisibile come fenomeno, e perciò negò alle sue leggi ogni validità aldi là dell'esperienza fenomenica. E' però sorprendente che egli nondedusse quell'esistenza puramente relativa del fenomeno dalla veritàsemplice, così a portata di mano, innegabile, «nessun oggetto senzasoggetto», per mostrare così che, già alla radice, l'oggetto, che èsempre assolutamente in relazione ad un soggetto, è da questodipendente, da questo condizionato e così esiste come puro fenomeno,non in sé, non incondizionatamente. Già Berkeley, verso il merito delquale Kant non è giusto, aveva fatto di questo importante principiola base della sua filosofia e con ciò si era procurato un ricordoimperituro, sebbene egli non trasse le conseguenze necessarie da essoe quindi in parte non fu capito, in parte non fu tenuto nella debitaconsiderazione. Io avevo, nella mia prima edizione, spiegatol'elusione di Kant di questo principio berkeleyano con un manifestotimore di fronte al deciso idealismo che d'altra parte trovavochiaramente espresso in molti passi della Critica della ragion pura:e avevo perciò accusato Kant di contraddizione con se stesso. Questorimprovero era fondato, in quanto, come allora era il mio caso, siconosceva la Critica della ragion pura solo nella seconda edizione, onelle cinque seguenti edizioni da essa ristampate. Quando io però piùtardi lessi l'opera principale di Kant nella prima edizione che eragià divenuta rara, vidi, con mia grande gioia, sparire tutte quellecontraddizioni e trovai che Kant, sebbene non usi propriamente laformula «nessun oggetto senza soggetto» con la stessa decisione diBerkeley e mia, interpreta il mondo esterno che giace nello spazio enel tempo come pura rappresentazione del soggetto conoscente; perciòad es' proprio là a p' 383 dice senza riserve: «Se viene meno ilsoggetto pensante, l'intero mondo corporeo deve venire meno, inquanto esso non è che il fenomeno nella sensibilità del nostrosoggetto e una specie delle sue rappresentazioni». Ma l'intero passodelle pp' 348-392, in cui Kant espone il suo deciso idealismo in modomolto chiaro e bello, venne da lui soppresso e invece fu introdottauna quantità di espressioni che ad esso contraddicevano. Perciò iltesto della Critica della ragion pura, come esso è circolatodall'anno 1787 fino all'anno 1838, è rovinato e corrotto, e questastessa è un libro autocontraddittorio, il cui senso proprio perciònon poteva essere chiaro e comprensibile a nessuno. Ho esposto in unalettera al professor Rosenkranz maggiori particolari su ciò, comeanche le mie opinioni circa i motivi e le debolezze che hanno potutoportare Kant ad una tale deformazione della sua opera fondamentale, equesti ha inserito i passi principali di essa nella prefazione alsecondo volume dell'edizione da lui curata delle opere complete diKant, a cui io dunque qui rinvio. A seguito delle mie osservazionicioè il professor Rosenkranz nell'anno 1838 è stato portato aristabilire nuovamente la Critica della ragion pura nella sua formaoriginaria, che egli fece ristampare nel citato secondo volume,secondo la prima edizione del 1871; con il che egli si è guadagnatoun merito inestimabile nel campo della filosofia, ed anzi ha forsesalvato dalla rovina l'opera più importante della letteraturatedesca, cosa che non si dovrà mai dimenticare. Nessuno però siimmagini di conoscere la Critica della ragion pura e di avere unconcetto chiaro della dottrina di Kant, se egli l'ha letta solo nellaseconda edizione, o in una delle seguenti: ciò è assolutamenteimpossibile; infatti egli ha letto solo un testo mutilato, corrotto,in certo qual modo inautentico.Con la decisa concezione idealistica fondamentale formulata cosìchiaramente nella prima edizione della Critica della ragion pura ilmodo con cui Kant introduce la cosa in sé è tuttavia in innegabilecontraddizione; ed è questo senza dubbio il motivo principale, per

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcui nella seconda edizione egli soppresse la parte principale dicarattere idealistico indicata, e si dichiarò addirittura control'idealismo berkeleyano, col che egli però introdusse nella sua operasolo incoerenze, senza poter rimediare al suo principale difetto.Questo è notoriamente l'introduzione della cosa in sé nella manierada lui scelta, la cui illiceità venne ampiamente dimostrata da G'E'Schulze nell'Enesidemo e subito riconosciuta come il puntoinsostenibile del suo sistema. La questione può essere chiarita moltoin breve. Kant fonda la supposizione della cosa in sé, per quantomascherandola sotto varie circonlocuzioni, su una inferenza secondola legge di causalità, che cioè l'intuizione empirica, piùgiustamente la sensazione, nei nostri organi di senso da cui procede,deve avere una causa esterna. Ora però, secondo la sua giustascoperta, la legge di causalità ci è nota a priori, e di conseguenzaè una funzione del nostro intelletto, dunque di origine soggettiva:inoltre la stessa sensazione, alla quale qui applichiamo la legge dicausalità, è innegabilmente soggettiva; e infine anche lo spazio, incui per mezzo di questa applicazione trasponiamo la causa dellasensazione come oggetto, è dato a priori, ed è perciò una formasoggettiva del nostro intelletto. Perciò l'intera intuizione empiricariposa completamente su un fondamento soggettivo, come processo innoi, e non si può introdurre nulla che sia da essa del tutto diverso,da essa indipendente, come una cosa in sè, nè provare che essa siauna presupposizione necessaria. L'intuizione empirica è e rimaneveramente nostra sola rappresentazione; è il mondo comerappresentazione. Possiamo giungere all'essere in sé di questo soloper una via del tutto diversa, che io ho battuta, per mezzo delricorso all'autocoscienza, che svela la volontà come l'in sé delnostro proprio fenomeno; allora la cosa in sé è un che di toto generediverso dalla rappresentazione e dai suoi elementi; come io hosviluppato tutto ciò.Il grande difetto, presto dimostrato come ho detto, del sistema diKant su questo punto è una prova del bel proverbio indiano: «Non c'èloto senza stelo». La derivazione scorretta della cosa in sé è qui lostelo: tuttavia solo il modo della derivazione, non il riconoscimentodi una cosa in sé per il fenomeno dato. In quest'ultimo modofraintese invece Fichte: cosa che egli poté, solo perché non sicurava per nulla della verità, ma solo del voler apparire, perperseguire i suoi scopi personali. Perciò egli fu talmentepresuntuoso e sconsiderato da negare del tutto la cosa in sé e daerigere un sistema, in cui si pretendeva derivare a priori dalsoggetto, non l'elemento puramente formale della rappresentazionecome in Kant, ma anche l'elemento materiale, il suo intero contenuto.Egli contò per ciò assai giustamente sulla sconsideratezza e sullasciocchezza del pubblico, che era disposto ad assumere perdimostrazioni cattivi sofismi, puri raggiri e chiacchiere insensate;sicché egli riuscì ad attirare l'attenzione di questo da Kant su sestesso e a imprimere alla filosofia tedesca quella direzione, che inseguito venne ulteriormente portata avanti da Schelling e raggiunsela sua meta nella insensata saputaggine hegeliana.Ritorno ora al grande errore di Kant a cui ho già accennato sopra,per il quale egli non ha separato convenientemente la conoscenzaintuitiva e la conoscenza astratta, cosa da cui è nata una confusioneirrimediabile, come ora dobbiamo vedere più da vicino. Se egli avessediviso nettamente le rappresentazioni intuitive dai concettipuramente pensati in abstracto, allora egli li avrebbe tenutientrambi discosti l'uno dall'altro e ogni volta avrebbe saputo conquale dei due aveva a che fare. Ma questo disgraziatamente non fu ilcaso, sebbene il rimprovero per ciò non si è ancora fatto sentirefortemente, per cui forse torna inaspettato. Il suo «oggettod'esperienza» di cui egli parla costantemente, l'oggetto propriodelle categorie, non è la rappresentazione empirica, e neanche ilconcetto astratto, ma qualcosa di diverso dai due, oppure entrambi idue, e una assurdità assoluta. Infatti gli è mancata, per quantoincredibile sia, la riflessione e la buona volontà di venire inchiaro con se stesso su questo punto e di spiegare chiaramente a semedesimo e agli altri, se il suo «oggetto d'esperienza, cioè laconoscenza che si effettua con l'applicazione delle categorie», è la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtrappresentazione empirica nello spazio e nel tempo (la mia primaclasse delle rappresentazioni) o solo il concetto astratto. Gliondeggia costantemente di fronte, per quanto ciò anche sia strano,qualcosa di mezzo fra entrambe, e di qui deriva l'indicibileconfusione, che ora debbo mettere in luce; al quale fine debboesaminare l'intera dottrina degli elementi.L'estetica trascendentale è una creazione così grandementemeritevole, che essa solamente potrebbe bastare a rendere eterno ilnome di Kant. Le sue dimostrazioni hanno una forza di convinzionecosì completa, che io annovero le sue tesi fra le veritàincontestabili, come anche appartengono alle più feconde diconseguenze, per cui si debbono considerare come la cosa più rara almondo, cioè una reale, grande, scoperta metafisica. Il fatto da luirigorosamente dimostrato, che una parte della conoscenza ci è nota apriori, non permette alcuna altra spiegazione se non quella chequeste forme costituiscono il nostro intelletto; anzi si tratta menodi una spiegazione che della chiara espressione del fatto stesso.Infatti a priori non significa nient'altro che «non acquisito per viad'esperienza, quindi non giuntoci dall'esterno». Ciò però che èpresente nell'intelletto, senza esservi pervenuto dall'esterno, èpropriamente ciò che originariamente appartiene ad esso stesso, lasua propria essenza. Se ora ciò che è in esso stesso originarioconsiste nel modo e nella maniera generale con cui tutti i suoioggetti gli si debbono manifestare, con ciò si è già detto che questesono le forme della sua conoscenza, cioè il modo e la maniera fissatiuna volta per tutte in cui esso compie la sua funzione. Perciò«conoscenza a priori» e «forme proprie dell'intelletto» in fondo sonosolo due espressioni per la stessa cosa, quindi in certo sensosinonimi.Dalla dottrina dell'estetica trascendentale non potrei perciòtogliere nulla, solo aggiungerei qualcosa. In particolare cioè Kantnon è andato sino in fondo del suo pensiero in quanto egli non harigettato l'intero metodo dimostrativo euclideo, pur dopo averedetto, p' 87 (V, p' 120), che tutta la conoscenza geometrica traeevidenza immediata dall'intuizione. E' ben notevole che persino unodei suoi oppositori, e senza dubbio il più acuto di essi, G'E'Schulze (Critica della filosofia teoretica, Ii, 241) trae laconclusione che dalla dottrina di Kant dovrebbe risultare unatrattazione della geometria del tutto diversa da quella che di fattosi ha solitamente; col che egli pensa di avere avanzato una provaapagogica contro Kant, ma di fatto inizia la guerra contro il metodoeuclideo, senza saperlo. Mi richiamo al par' 15 nel libro primo delpresente scritto.Dopo la considerazione dettagliata delle forme generali di ogniintuizione data nell'estetica trascendentale, ci si deve aspettare diottenere alcune spiegazioni sul suo contenuto, sul modo in cuil'intuizione empirica giunge alla nostra coscienza, come laconoscenza di questo intero mondo per noi così reale e importantesorge in noi. Ma l'intera dottrina di Kant su di ciò non contienepropriamente niente di più dell'espressione insignificante spessoripetuta: «l'elemento empirico dell'intuizione viene datodall'esterno». Per questo motivo anche qui Kant giunge con un saltodalle pure forme dell'intuizione al pensiero, alla Logicatrascendentale. Subito all'inizio di essa (Critica della ragion pura,p' 50; V, p' 74) dove Kant non può fare a meno di toccare ilcontenuto materiale dell'intuizione empirica, fa il suo primo passofalso, commette il pr#ton yevdos. «La nostra conoscenza» egli dice«ha due fonti, cioè la ricettività delle impressioni e la spontaneitàdei concetti; la prima è la facoltà di ricevere dellerappresentazioni, la seconda quella di conoscere un oggetto per mezzodi queste rappresentazioni: attraverso la prima un oggetto ci è dato,attraverso la seconda è pensato». Ciò è falso; infatti in tal casol'impressione, per la quale solamente abbiamo pura ricettività, chedunque viene dal di fuori e sola è propriamente data, sarebbe già unarappresentazione, anzi persino già un oggetto. Essa invece non èaltro che una pura sensazione nell'organo di senso e solo attraversol'applicazione dell'intelletto (cioè della legge di causalità) edelle forme dell'intuizione dello spazio e del tempo il nostro

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtintendimento trasforma questa pura sensazione in unarappresentazione, la quale poi esiste come un oggetto nello spazio enel tempo e da quest'ultimo (dall'oggetto) non può essere distintache se ci si pone la questione della cosa in sé, mentre se se neprescinde è identica con esso. Ho esposto dettagliatamente questosvolgimento nella dissertazione Sul principio di ragione, par' 21.Con ciò però l'ufficio dell'intelletto e della conoscenza intuitiva ècompiuto, e non c'è bisogno a tal fine né di concetti né di pensieri:perciò anche l'animale ha queste rappresentazioni. Se sopraggiungonoi concetti, se sopraggiunge il pensiero, a cui certo può essereattribuita spontaneità, allora la conoscenza intuitiva è totalmenteabbandonata e entra nella coscienza una classe di rappresentazionitotalmente diversa, cioè i concetti non intuitivi, astratti: questa èl'attività della ragione, che tuttavia riceve l'intero contenuto delsuo pensiero soltanto dall'intuizione che lo precede e dalla suacomparazione con altre intuizioni e concetti. Così Kant porta ilpensiero già nell'intuizione e pone la base per l'irrimediabilemescolanza di conoscenza intuitiva e conoscenza astratta, che quisono impegnato a criticare. Egli pone che l'intuizione sia per sépresa priva di intelletto, puramente sensibile, quindi del tuttopassiva, e che soltanto attraverso il pensiero (categoriedell'intelletto) sia compreso l'oggetto: così porta il pensieronell'intuizione. Ma anche l'oggetto del pensiero è un oggettosingolo, reale; per cui il pensiero perde il suo carattere essenzialedi generalità e astrazione e invece di concetti generali ha peroggetto cose singole, con il che di nuovo porta l'intuizione nelpensiero. Da ciò deriva la detta irrimediabile mescolanza, e leconseguenze di questo primo passo falso si estendono alla sua interateoria della conoscenza.Lungo tutta questa ricorre la completa mescolanza dellarappresentazione intuitiva con l'astratta come un qualcosa di mezzofra entrambe, che egli descrive come l'oggetto della conoscenzatramite l'intelletto e le sue categorie, chiamando questa conoscenzaesperienza. E' difficile credere che Kant abbia pensato qualcosa dicompletamente determinato e propriamente evidente con questo oggettodell'intelletto: io lo dimostrerò ora attraverso la enormecontraddizione, che percorre l'intera logica trascendentale ed è lafonte autentica dell'oscurità che la avvolge.Nella Critica della ragion pura dunque, pp' 67-69 (V, pp' 92-94),pp' 89-90 (V, pp' 122-123), inoltre V, p' 135, p' 139, p' 153, egliripete ed intima: l'intelletto non è facoltà intuitiva, la suaconoscenza non è intuitiva, ma discorsiva; l'intelletto è la facoltàdi giudicare (p' 69; V, p' 94), e un giudizio è conoscenza mediata,rappresentazione di una rappresentazione (p' 68; V, p' 93);l'intelletto è la facoltà di pensare e pensare è conoscere attraversoconcetti (p' 69; V, p' 94); le categorie dell'intelletto non sonoassolutamente le condizioni alle quali vengono dati oggettidell'intuizione (p' 89; V, p' 122), e l'intuizione non ha in alcunmodo bisogno delle funzioni del pensiero (p' 91; V, p' 123); ilnostro intelletto può solo pensare e non intuire (V, pp' 135, 139).Inoltre nei Prolegomeni, par' 20: intuizione, percezione, perceptio,appartengono solo ai sensi; il giudicare spetta solo all'intelletto;e par' 22: ufficio dei sensi è intuire, quello dell'intellettopensare, cioè giudicare. Infine ancora nella Critica della ragionpura, quinta edizione, p' 247 (edizione Rosenkranz, p' 281):l'intelletto è discorsivo, le sue rappresentazioni sono pensieri, nonintuizioni. Tutte queste sono parole proprie di Kant.Da ciò ne segue che questo mondo intuitivo esisterebbe per noi,quand'anche noi non avessimo alcun intelletto, che esso giunge nellanostra testa in una maniera del tutto inspiegabile, il che egliindica frequentemente con la sua bizzarra espressione, chel'intuizione è data, senza spiegare ulteriormente questa espressioneindeterminata e figurata.Ma poi contraddice a tutto quello che si è riportato e nellamaniera più stridente la sua rimanente dottrina dell'intelletto,delle sue categorie e della possibilità dell'esperienza, come laespone nella logica trascendentale. Cioè: Critica della ragion pura,p' 79 (V, p' 105), l'intelletto produce mediante le sue categorie

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtl'unità nel molteplice dell'intuizione, e i puri concettidell'intelletto si riferiscono a priori agli oggetti dell'intuizione.P' 94 (V, p' 126), «le categorie sono condizioni dell'esperienza, siadell'intuizione che del concetto che in essa si trova». V, p' 127,l'intelletto è l'autore dell'esperienza. V, p' 128, le categoriedeterminano le intuizioni degli oggetti. V, p' 130, tutto ciò che noici rappresentiamo unificato nell'oggetto (che dunque è un oggettointuitivo e non astratto) è stato unificato prima attraversoun'azione dell'intelletto. V, p' 135, l'intelletto viene di nuovospiegato come la facoltà di unificare a priori e di portare ilmolteplice sotto l'unità dell'appercezione; ma, secondo ogni usolinguistico, l'appercezione non è il pensiero di un concetto, mal'intuizione. V, p' 136, troviamo persino un principio supremo dellapossibilità di ogni intuizione rispetto all'intelletto. V, p' 143,sta addirittura come titolo che tutte le intuizioni sensibili sonodeterminate dalle categorie. Proprio qui la funzione logica deigiudizi porta anche il molteplice delle intuizioni date sottoun'appercezione in generale, e il molteplice di un'intuizione datasta necessariamente sotto le categorie. V, p' 144, l'unità vieneall'intuizione per mezzo delle categorie, tramite l'intelletto. V, p'145, il pensiero dell'intelletto viene molto stranamente spiegatoattraverso il fatto che sintetizza, unifica e ordina il molteplicedell'intuizione. V, p' 161, l'esperienza è possibile solo per lecategorie e consiste nella connessione delle percezioni che sono poiintuizioni. V, p' 159, le categorie sono conoscenze a priori dioggetti dell'intuizione in generale. Inoltre qui e in V, pp' 163 e165 è avanzata una dottrina fondamentale di Kant, e cioè questa: chel'intelletto anzitutto rende la natura possibile, in quanto leprescrive le leggi a priori e la regola secondo la sua legalità,etc...' Ora però la natura è bene qualcosa di intuitivo e non diastratto; l'intelletto dovrebbe conformemente a ciò essere unafacoltà intuitiva. V, p' 168, si dice che i concetti dell'intellettosono i principi della possibilità dell'esperienza, e questa è ladeterminazione dei fenomeni nello spazio e nel tempo in generale; maquesti fenomeni poi sono nell'intuizione. Infine alle pp' 189-211 (V,pp' 232-265) si trova la lunga dimostrazione (la cui erroneità homostrato ampiamente nella mia dissertazione Sul principio di ragione)che la successione obiettiva e la contemporaneità degli oggettid'esperienza non possono essere percepite con i sensi ma sonoprodotte dall'intelletto nella natura, la quale perciò diventapossibile. Tuttavia certamente la natura, la sequenza dei dati e lacontemporaneità degli stati sono qualcosa di puramente intuitivo enon di astrattamente pensato.Io invito ognuno, che condivida la mia venerazione per Kant, aconciliare queste contraddizioni e a mostrare che Kant con la suadottrina dell'oggetto dell'esperienza e del modo in cui esso vienedeterminato dall'attività dell'intelletto e delle sue dodici funzioniabbia pensato qualcosa di chiaro e di determinato. Sono convinto chela contraddizione dimostrata, che ricorre lungo tutta la logicatrascendentale, è la vera ragione della grande oscuritàdell'esposizione in essa. Kant fu cioè oscuramente cosciente dellacontraddizione, lottò interiormente con essa, ma non volle o non potétuttavia portarla a chiara coscienza, la velò perciò a se stesso eagli altri, e la aggirò con ogni sorta di tortuosità. Da ciòfors'anche si deve fare dipendere il fatto che egli fece dellafacoltà conoscitiva una macchina così strana e complicata, con tanteruote, quali sono le dodici categorie, la sintesi trascendentaledell'immaginazione, del senso interno, dell'unità trascendentaledell'appercezione, e ancora dello schematismo dei concettiintellettuali puri, e così via. E nonostante questo grande apparatonon viene mai fatto un tentativo per spiegare l'intuizione del mondoesterno, che pure è la cosa essenziale della nostra conoscenza: maquesta esigenza insistente viene miseramente respinta sempre con lastessa insignificante espressione figurata: «l'intuizione empirica ciè data». Da p' 145 della quinta edizione veniamo a sapere che essastessa è data dall'oggetto: quindi questo deve essere qualcosa didiverso dall'intuizione.Se ora ci adoperiamo a penetrare la più intima opinione di Kant, da

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlui stesso non espressa chiaramente, troviamo allora che veramente untal oggetto diverso dall'intuizione, che però non è in alcun modo unconcetto, è per lui il vero oggetto dell'intelletto, anzi, che lastrana presupposizione di un tale oggetto irrappresentabile deveessere propriamente ciò per cui solamente la intuizione diventaesperienza. Io credo che il fondamento ultimo in Kant perl'ammissione di un tale oggetto assoluto, che è oggetto in sé, cioèanche senza soggetto, sia un vecchio radicato pregiudizio che sfuggead ogni controllo. Esso non è assolutamente l'oggetto intuito, maviene aggiunto mentalmente nell'intuizione con il concetto, comequalcosa che le corrisponde, e così l'intuizione è esperienza ed havalore e verità, che di conseguenza essa ottiene solo con ilriferimento a un concetto (in opposizione diametrale alla nostraspiegazione, secondo la quale il concetto riceve valore e verità solodall'intuizione). L'aggiunta mentale di questo oggetto direttamenteirrappresentabile nell'intuizione è allora la funzione autenticadelle categorie: «solo attraverso l'intuizione è dato l'oggetto, chepoi è pensato in conformità alla categoria» (Critica della ragionpura, prima edizione, p' 399). Ciò appare in particolar modo chiaroin un passo della quinta edizione, p' 125: «ci si domanda ora, se nonprecedano anche concetti a priori, come condizioni sotto le qualisoltanto qualcosa, se non intuito, è nondimeno pensato come oggettoin generale», al che egli risponde affermativamente. Qui si mostrachiaramente la fonte dell'errore e della confusione che l'avvolge.Infatti l'oggetto come tale esiste comunque solo per l'intuizione ein essa, essa può essere effettuata attraverso i sensi, o in assenzadell'oggetto, attraverso l'immaginazione. Quel che invece è pensato èsempre un concetto generale, non intuitivo, che semmai può essere ilconcetto di un oggetto in generale; ma solo mediatamente, per mezzodei concetti, il pensiero si riferisce agli oggetti, che sono erimangono sempre intuitivi. Infatti il nostro pensiero non serve aconferire realtà alle intuizioni: esse hanno da se stesse realtà(realtà empirica) in quanto ne sono capaci; ma serve a concentrare itratti comuni e i risultati delle intuizioni, per conservarle epoterle più facilmente maneggiare. Kant invece ascrive gli oggetti alpensiero, per rendere così l'esperienza e il mondo oggettivodipendente dall'intelletto, senza tuttavia concedere che esso sia unafacoltà intuitiva. Sotto questo rispetto egli distingue certol'intuizione dal pensiero, ma considera le cose singole in parteoggetto dell'intuizione, in parte oggetto del pensiero. In realtàesse sono solo la prima cosa: la nostra intuizione empirica èimmediatamente oggettiva: proprio perché essa procede dal nessocausale. I suoi oggetti sono immediatamente le cose, non lerappresentazioni da esse diverse. Le cose singole vengono come taliintuite nell'intelletto e attraverso i sensi: la impressione parzialesu di essi viene integrata dall'immaginazione. Non appena invecepassiamo al pensiero, abbandoniamo le cose singole e abbiamo a chefare con concetti generali senza intuitività; anche se subito dopoapplichiamo i risultati del nostro pensiero alle cose singole. Se noiteniamo ben fermo ciò, si chiarisce l'inammissibilità dell'assuntoche l'intuizione delle cose riceva propriamente la realtà delle cosee divenga esperienza solo per il pensiero che applica le dodicicategorie. Piuttosto la realtà empirica è già data nell'intuizionestessa, e con ciò l'esperienza; l'intuizione stessa può però avereluogo solamente per mezzo dell'applicazione della conoscenza delnesso causale alla sensazione. L'intuizione è perciò veramenteintellettuale, ciò che Kant propriamente nega.L'assunzione di Kant qui criticata si trova espressa, oltre che nelpasso citato, anche in modo molto chiaro nella Critica del giudizio,par' 36, proprio all'inizio; parimenti nei Principi metafisici dellafisica, nella nota alla prima spiegazione della Fenomenologia. Ma conuna ingenuità, che Kant meno che mai su questo punto scabroso avrebbeusato, si trova esposta nel modo più chiaro nel libro di un kantiano,cioè nel Compendio di logica generale di Kieswetter, terza edizione,Parte I, p' 434 della discussione, e Parte Ii, par' 52 e par' 53della discussione; parimenti nella Dottrina del pensiero in stilepuramente tedesco di Tieftrunk. Qui si mostra benissimo come per ognipensatore, i discepoli che non sanno pensare da sé diventano specchio

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdi ingrandimento dei suoi errori. Kant si conduce in questaesposizione della sua dottrina delle categorie, una volta definitala,normalmente con prudenza, i suoi discepoli invece in maniera deltutto impudente, per cui essi mettono a nudo la falsità della cosa.In conseguenza a quanto detto per Kant l'oggetto delle categorienon è certo la cosa in sé, ma il suo più prossimo affine: è l'oggettoin sé, è un oggetto, che non ha bisogno di alcun soggetto, è una cosasingola, eppure non nel tempo e nello spazio, perché non intuitiva, èl'oggetto del pensiero, e tuttavia non è un concetto astratto. PerciòKant distingue propriamente tre cose: 1) la rappresentazione; 2)l'oggetto della rappresentazione; 3) la cosa in sé. La prima è cosadella sensibilità, che per lui, comprende accanto alla sensazioneanche le pure forme dell'intuizione dello spazio e del tempo. Laseconda è cosa dell'intelletto, che la pensa con le sue dodicicategorie. La terza giace al di là d'ogni conoscibilità (si vedanocome prova di ciò le pp' 108 e 109 della prima edizione della Criticadella ragion pura). Ma la distinzione di rappresentazione e oggettodella rappresentazione è infondata: già Berkeley l'aveva dimostrato,e risulta dalla mia intera esposizione nel primo libro, specialmentenel capitolo primo dei Supplementi, e persino dalla concezionefondamentale totalmente idealistica propria di Kant nella primaedizione. Se però non si volesse attribuire l'oggetto dellarappresentazione alla rappresentazione, lo si dovrebbe spostare nellacosa in sè: ciò dipende infine dal senso che si attribuisce allaparola oggetto. Tuttavia una cosa è sempre sicura, che, ad una chiarariflessione, non si può trovare niente di più che rappresentazione ecosa in sé. La ingiustificata introduzione di quest'ibrido, l'oggettodella rappresentazione, è la fonte degli errori di Kant: con la suaeliminazione però viene meno anche la dottrina delle categorie comeconcetti a priori; poiché esse non contribuiscono in nullaall'intuizione e non debbono valere per la cosa in sé, ma tramiteesse pensiamo solamente quegli «oggetti delle rappresentazioni» e conciò trasformiamo la rappresentazione in esperienza. Pure ogniintuizione empirica è già esperienza; empirica però è ogniintuizione, che procede da sensazione; l'intelletto riferisce questasensazione tramite la sua funzione generale (conoscenza a priori delnesso causale) alla sua causa, la quale proprio perciò si manifestanello spazio e nel tempo (forme della intuizione pura) come oggettodell'esperienza, oggetto materiale, permanente nello spazioattraverso tutto il tempo, e tuttavia rimane come tale ancora semprerappresentazione, come appunto lo spazio e il tempo stessi. Sevogliamo uscire da questa rappresentazione, ci troviamo allora difronte alla questione della cosa in sé, rispondere alla quale è iltema della mia intera opera, come di ogni metafisica in generale.All'errore di Kant qui denunciato è legato il difetto del suopensiero prima criticato, che egli non ci dà alcuna teoriadell'intuizione empirica, ma l'ammette senz'altro come dataidentificandola con la pura sensazione, alla quale attribuisce soloancora le forme dell'intuizione di spazio e di tempo, comprendendoleentrambe sotto il nome di sensibilità. Ma da questi materiali nonsorge ancora alcuna rappresentazione oggettiva: piuttosto questaesige davvero il riferimento della sensazione alla sua causa, dunquel'applicazione della legge causale, dunque l'intelletto; perché senzadi esso la sensazione rimane ancora sempre soggettiva e non trasportaalcun oggetto nello spazio, anche quando questo le è attribuito. Main Kant l'intelletto non poteva essere impiegato per l'intuizione;esso doveva solo pensare, per rimanere all'interno della logicatrascendentale. A questo si connette ancora un altro errore di Kant,che egli ha trascurato di addurre per la apriorità della legge dicausalità da lui giustamente riconosciuta a priori l'unicadimostrazione valida, cioè quella a partire dalla possibilità dellastessa intuizione empirica obiettiva, e invece di questa ne dà unamanifestamente falsa come ho già mostrato nella mia dissertazione Sulprincipio di ragione, par' 23. Da quanto sopra detto è chiaro chel'«oggetto della rappresentazione» (2) di Kant è messo insieme conciò che egli ha tolto in parte alla rappresentazione (1), in partealla cosa in sé (3). Se realmente l'esperienza si producesse solo inquanto il nostro intelletto applica dodici funzioni diverse, per

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpensare proprio attraverso tanti concetti a priori gli oggetti, cheprima erano stati solo intuiti, allora ogni cosa reale come taledovrebbe avere un insieme di determinazioni, che come date a prioriproprio come lo spazio e il tempo, non si potrebbero assolutamentesottrarre con il pensiero, ma apparterrebbero del tuttoessenzialmente all'esistenza della cosa, e tuttavia non sarebberodeducibili dalle proprietà dello spazio e del tempo. Ma si puòtrovare solo un'unica determinazione del genere: quella dellacausalità. Su questa riposa la materialità, poiché l'essenza dellamateria consiste nell'agire ed essa è da cima a fondo causalità (vedivolume secondo, cap' Iv). Ma la materialità sola distingue la cosareale dalla fantasia, e nondimeno essa è solo rappresentazione.Poiché la materia, come permanente, dà alla cosa la permanenza lungotutto il tempo, secondo la sua materia, mentre le forme cambiano inconformità alla causalità. Tutte le proprietà restanti della cosasono o determinazioni dello spazio e del tempo, o sue proprietàempiriche, che tutte risalgono alla sua attività, quindi sonodeterminazioni prossime della causalità. La causalità però entra giàcome condizione nella intuizione empirica, che quindi è cosadell'intelletto, che rende possibile l'intuizione, ma al di fuoridella legge della causalità non contribuisce in nulla all'esperienzae alla sua possibilità. Ciò che riempie le vecchie ontologie non èaltro, a parte quello che qui è indicato, che rapporti delle cose fradi loro, e farrago raccolta alla rinfusa.Un segno della infondatezza della dottrina delle categorie lo dàgià la loro esposizione. Quale differenza, sotto questo rispetto, fral'estetica trascendentale e l'analitica! Là, quale chiarezza,precisione, salda convinzione, che si esprime apertamente e sicomunica con sicurezza! Ogni cosa è chiara, non sono lasciati angolioscuri: Kant sa quel che vuole, e sa che ha ragione. Qui invece ognicosa è oscura, confusa, imprecisa, traballante, insicura,l'esposizione è ansiosa, piena di giustificazioni e richiami a quelche verrà dopo, o anche a ciò che ci si è trattenuti dal dire.Inoltre l'intera seconda e terza sezione della deduzione dei concettipuri dell'intelletto nella seconda edizione è totalmente mutata,perché Kant stesso non era soddisfatto, ed è divenuta del tuttodiversa da quella della prima, ma non più chiara. Si vede realmenteKant in lotta con la verità, per far passare la sua dottrina unavolta che l'ha decisa. Nella estetica trascendentale tutte le suetesi sono realmente dimostrate, come fatti innegabili dellacoscienza; nell'analitica trascendentale invece, quando la osserviamoben bene, troviamo pure affermazioni che così è e così deve essere.Dunque qui come altrove l'esposizione porta l'impronta del pensiero,da cui è derivata; infatti lo stile è la fisionomia dello spirito.Ancora si deve notare che Kant, tutte le volte che per spiegare conmaggior precisione vuol dare un esempio, assume quasi sempre a talfine la categoria di causalità, per la quale quello che è detto va apennello, perché la legge di causalità è la reale ma anche unica,forma dell'intelletto, e le rimanenti categorie sono solo finestreoscure. La deduzione delle categorie è nella prima edizione piùsemplice e meno tortuosa che nella seconda. Egli si sforza dimostrare come l'intelletto, dopo l'intuizione data della sensibilità,produca l'esperienza per mezzo del pensiero e delle categorie. Quindile espressioni ricognizione, riproduzione, associazione, apprensione,unità trascendentale dell'appercezione, vengono ripetute sino allastanchezza e non si raggiunge niente di chiaro. E' ben notevole peròche in questa discussione non tocchi una sola volta, quel che pure aciascuno innanzi tutto deve venire in mente, il riferirsi dellasensazione alla causa esterna. Se egli non volesse ammetterlo, alloradovrebbe negarlo espressamente, ma neanche ciò egli fa. Egli perciòvi gira intorno, e tutti i kantiani gli si sono propriamentetrascinati dietro. Il motivo segreto di ciò è che egli riserva ilnesso causale sotto il nome di «fondamento del fenomeno» per la suafalsa derivazione della cosa in sé; e anche perché per il riferimentoalla causa l'intuizione diventerebbe intellettuale, cosa che egli nonpuò concedere. Per giunta egli sembra avere temuto che se si fosseammesso il nesso causale fra la sensazione e l'oggetto, quest'ultimosarebbe divenuto immediatamente una cosa in sé e si sarebbe

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtintrodotto l'empirismo di Locke. Questa difficoltà però viene risoltacon la riflessione che ci mostra che la legge di causalità è diorigine soggettiva, quanto la sensazione stessa, e che anche ilproprio corpo, in quanto appare nello spazio, appartiene di già allerappresentazioni. Ma la sua paura dell'idealismo berkeleyano impedì aKant di ammettere ciò.Come operazione essenziale dell'intelletto per mezzo delle suedodici categorie viene ripetutamente indicata: «l'unificazione delmolteplice dell'intuizione»; tuttavia ciò non viene maiconvenientemente chiarito, nè viene mostrato che cosa poi questomolteplice dell'intuizione sia prima dell'unificazione mediantel'intelletto. Ora però il tempo e lo spazio, questo in tutte e tre lesue dimensioni, sono dei continua, ossia tutte le loro parti non sonooriginariamente separate, ma unite. Esse sono poi le forme comunidella nostra intuizione; quindi tutto quello che in esse si manifesta(è dato) anche appare già originariamente come continuum, cioè le sueparti si manifestano già come unite e non abbisognano di nessunaunificazione del molteplice che sopravvenga. Se si volesse poiinterpretare quell'unificazione del molteplice nell'intuizione conl'assumere che io riferisco le diverse impressioni sensoriali di unoggetto solo a quell'unico oggetto, quindi per es' che, intuendo unacampana, riconosco che ciò che impressiona il mio occhio come giallo,le mie mani come liscio e duro, il mio orecchio come sonante, siaveramente un unico e medesimo corpo; allora ciò sarebbe piuttosto unaconseguenza della conoscenza a priori del nesso causale (questa realee unica funzione dell'intelletto), grazie alla quale tutti questidiversi effetti sui miei diversi organi di senso mi conduconoveramente solo a una loro causa comune, cioè al carattere del corpoche mi sta di fronte, sicchè il mio intelletto, nonostante ladiversità e molteplicità degli effetti, tuttavia apprende l'unitàdella causa come unico oggetto che appunto perciò si manifestaintuitivamente. Nella bella ricapitolazione della sua dottrina cheKant ci dà nella Critica della ragion pura, pp' 719-726, o V, pp'747-754, egli spiega le categorie forse in modo più chiaro che inqualsiasi altra parte, cioè come «la semplice regola della sintesi diciò che la percezione può dare a posteriori». Pare che abbia presenteal suo spirito qualche cosa come quella per cui, nella costruzionedel triangolo, l'angolo dà la regola per la composizione delle linee;quanto meno con questa immagine ci si può chiarire quel che egli dicedella funzione delle categorie. La prefazione ai Principi metafisicidella fisica contiene una lunga nota, che offre anche una spiegazionedelle categorie e dice che esse «non sono in nulla differenti dalleoperazioni formali dell'intelletto nei giudizi», se non per ciò chein questi ultimi il soggetto e il predicato possono parimenticambiare la loro posizione; inoltre proprio qui il giudizio ingenerale viene definito «un'azione, attraverso la quale solamente lerappresentazioni date divengono conoscenze di un oggetto».Conformemente a ciò gli animali, dato che non giudicano, nondovrebbero conoscere alcun oggetto. In generale per Kant deglioggetti non si hanno intuizioni, ma solo concetti. Invece io dico:gli oggetti esistono anzitutto solo per l'intuizione, e i concettisono sempre astrazioni da questa intuizione. Perciò il pensieroastratto deve regolarsi esattamente secondo il mondo presentenell'intuizione, infatti solo il riferimento ad esso dà un contenutoai concetti, e noi non possiamo assumere per i concetti alcun'altraforma determinata a priori che la facoltà della riflessione ingenerale, la cui natura consiste nella formazione dei concetti, cioèdi rappresentazioni astratte, non intuitive, e questa costituiscel'unica funzione della ragione, come ho mostrato nel primo libro. Ioesigo dunque che delle categorie ne buttiamo undici dalla finestra econserviamo solo quella di causalità, e nondimeno riconosciamo che lasua attività è già la condizione della intuizione empirica, che cosìnon è puramente sensibile, ma intellettuale, e che l'oggetto cosìintuito, l'oggetto dell'esperienza, è una cosa sola con larappresentazione, dalla quale è da distinguersi solo ancora la cosain sè.Dopo lo studio della Critica della ragion pura ripetuto diversevolte in epoche diverse della mia vita mi si è imposta una

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconvinzione sulla formazione della logica trascendentale, che quicomunico in quanto è molto utile per la comprensione di essa. Solol'Apperçu che lo spazio e il tempo sono da noi conosciuti a priori èscoperta fondata su una comprensione oggettiva e sulla più altariflessione umana. Soddisfatto di questa felice scoperta Kant volleseguirne ulteriormente la vena, e il suo amore per la simmetriaarchitettonica gli fece da guida. Come cioè egli aveva trovato allabase della intuizione empirica una pura intuizione a priori qualecondizione, così pensò che anche alla base dei concetti acquisitiempiricamente vi fossero certi concetti puri come presupposto dellanostra facoltà conoscitiva e che il pensiero empirico reale fossepossibile solo per un pensiero puro a priori, che in sé però nonavrebbe oggetti, ma li dovrebbe assumere dall'intuizione; sicché comel'estetica trascendentale dimostra che v'è un fondamento a priori perla matematica, ve ne dovrebbe essere uno anche per la logica; con ilche la prima ottenne simmetricamente un Pendant in una logicatrascendentale. Da questo punto in poi Kant non fu più imparziale,non si mantenne più nello stato del puro ricercare ed osservare ciòche è presente nella coscienza, ma si lasciò guidare da unapresupposizione e seguì un'intenzione precisa, cioè quella di trovareciò che presupponeva, per elevare come secondo piano sulla esteticatrascendentale così felicemente scoperta una logica trascendentale adessa analoga e così ad essa simmetricamente corrispondente. Perquesto egli pensò alla tavola dei giudizi, dalla quale formò, ilmeglio possibile che gli riuscì, la tavola delle categorie, comedottrina dei dodici concetti puri a priori, che propriamentedovrebbero essere le condizioni del nostro pensiero delle cose, lacui intuizione è condizionata a priori dalle forme della sensibilità:alla sensibilità pura ora dunque corrispondeva simmetricamente unintelletto puro. Inoltre giunse ancora ad una considerazione che glioffrì un mezzo per aumentare la plausibilità della cosa, tramitel'assunzione dello schematismo dei concetti puri dell'intelletto, conil quale però si tradisce nel modo più evidente l'andamento, di cuilui stesso fu inconsapevole, del suo modo di procedere. Mentre eglicioè iniziava a cercare per ogni funzione empirica della facoltàconoscitiva una funzione a priori analoga, egli notò che fra ilnostro intuire empirico e il nostro pensare empirico effettuato conconcetti astratti non intuitivi, molto frequentemente sebbene nonsempre, si trova ancora una mediazione, dato che noi di tanto intanto proviamo a ritornare dal pensiero astratto all'intuizione; masolo proviamo, per convincerci propriamente, che il nostro pensieroastratto non si è molto allontanato dal terreno sicurodell'intuizione, sorvolandolo, o sia diventato puro vaniloquio:press'a poco come, muovendoci nell'oscurità, di tanto in tantotocchiamo la parete che ci serve di guida. Noi ritorniamo allora,anche se solo tentativamente e momentaneamente, all'intuizione, inquanto evochiamo nella fantasia una intuizione corrispondente alconcetto che ci occupa, la quale tuttavia non può mai esserecompletamente adeguata al concetto, ma è solo un semplicerappresentante provvisorio di esso: su ciò ho già detto quanto sideve nella mia dissertazione Sul principio di ragione, par' 28. Kantchiama un fantasma fugace di questa specie, in opposizioneall'immagine completa della fantasia, uno schema; dice che esso ècome un monogramma dell'immaginazione e afferma che come un taleschema sta in mezzo fra il nostro pensiero astratto dei concettiacquisiti empiricamente e la nostra chiara intuizione, producentesiattraverso i sensi, anche tra la facoltà dell'intuizione a prioridella sensibilità pura e la facoltà di pensare a prioridell'intelletto puro (quindi le categorie) sono presenti a priorischemi simili dei concetti puri dell'intelletto, schemi che eglidescrive uno per uno come monogrammi della immaginazione pura apriori, attribuendo ciascuno di essi alla sua categoriacorrispondente, nello strano «capitolo dello schematismo dei concettipuri dell'intelletto», che è celebre per la sua grandissima oscurità,perché nessuno mai ha saputo venirne a capo. Questa oscurità tuttaviasi rischiara se lo si considera dal punto di vista qui indicato, incui viene alla luce, più che mai, la finalità del suo procedimento ela decisione, anticipatamente assunta, di trovare ciò che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcorrispondesse all'analogia e potesse servire alla simmetriaarchitettonica; anzi qui la cosa si presenta in un grado tale daportare al comico. Infatti mentre egli assume schemi dei concettipuri (privi di contenuto) dell'intelletto a priori (categorie)analoghi agli schemi empirici (o rappresentanti dei nostri concettireali con la fantasia), dimentica che il fine di questi schemi quivien meno completamente. Perché il fine degli schemi nel pensieroempirico (reale) si riferisce interamente solo al contenuto materialedi tali concetti; ed essendo essi tratti dall'intuizione empirica noici orientiamo e ci aiutiamo gettando con essi uno sguardo fugace dalpensiero astratto all'intuizione, da cui i concetti sono tratti, perassicurarci che il nostro pensiero ha ancora un contenuto reale. Ciòtuttavia presuppone che i concetti che ci occupano siano sortidall'intuizione, ed è un semplice volger lo sguardo al loro contenutomateriale, anzi un semplice mezzo per aiutare la nostra debolezza. Maper i concetti a priori, che come tali non hanno ancora alcuncontenuto, evidentemente una cosa simile di necessità non ha luogo:essi infatti non sono scaturiti dall'intuizione, ma le vengonoincontro dall'interno, per ricevere da essa soltanto un contenuto, enon hanno quindi nulla a cui essi possano guardare. Mi dilungo suquesto argomento perché proprio esso getta luce sul procedimentosegreto del filosofare di Kant, che consiste in ciò, che Kant, dopola felice scoperta delle due forme di intuizione a priori, si sforza,sul filo conduttore dell'analogia, di mostrare che v'è un analogo apriori per ogni determinazione della nostra conoscenza empirica, einfine estende ciò nel caso degli schemi, persino ad un semplicefatto psicologico, per cui l'apparente profondità e difficoltàdell'esposizione propriamente non servono che a nascondere al lettoreche il suo contenuto rimane un'ammissione del tutto indimostrabile epuramente arbitraria. Colui però che alla fine penetra nel senso ditale esposizione, viene facilmente indotto a scambiare questacomprensione faticosamente raggiunta per convinzione della veritàdella cosa. Se Kant invece anche qui come nella scoperta delleintuizioni a priori si fosse comportato come imparziale e puroosservatore, allora avrebbe trovato che quel che si aggiunge allapura intuizione dello spazio e del tempo, quando essa divieneempirica, è da una parte la sensazione e dall'altra la conoscenzadella causalità, che trasforma la sensazione pura in intuizioneempirica obiettiva, e proprio perciò non è da questa assunta eappresa, ma è presente a priori e non è altro che la forma e funzionedell'intelletto puro, la sua unica forma, tuttavia così ricca diconseguenza, che tutta la nostra conoscenza si basa su di essa. Secome spesso è stato detto, la confutazione di un errore divienecompleta solo se si mostra il modo psicologico in cui sorge, pensocon quanto ho detto sopra di avere fatto ciò, per quel che riguardala dottrina kantiana delle categorie e dei loro schemi.

Ora, dopo che Kant ebbe compiuto errori così grandi nei primisemplici elementi di una teoria della facoltà della rappresentazione,si trovò a fare molteplici, complicatissime ammissioni. A questeappartiene l'unità sintetica dell'appercezione: una cosa assaistrana, stranissimamente esposta. «L'io penso deve potereaccompagnare tutte le mie rappresentazioni». Devepotere. Questo è unenunciato problematicoapodittico; in tedesco una proposizione chetoglie con una mano quel che dà con l'altra. E qual è il senso diquesta proposizione bilanciantesi così come su una punta? Che tuttoil rappresentare è pensare? No, e ciò sarebbe rovinoso: infatti nonsi darebbero allora che concetti astratti, meno che mai una puraintuizione libera dalla riflessione e dal volere, com'è quella delbello, la più profonda penetrazione della essenza vera delle cose,cioè delle loro idee platoniche. Allora anche gli animali dovrebberopensare, o non avere punto capacità rappresentativa. O forse laproposizione vuol dire: nessun oggetto senza soggetto? Allora ciòsarebbe da essa espresso assai male e essa giungerebbe troppo tardi.Se raccogliamo le espressioni kantiane, troviamo che ciò che egliintende per unità sintetica dell'appercezione è come il centroinesteso della sfera di tutte le rappresentazioni, i cui raggiconvergono su di esso. E' ciò che io chiamo il soggetto di conoscere,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtil correlato di tutte le rappresentazioni, e insieme quel che nelcap' 22 del secondo volume io ho descritto ed esaminatodettagliatamente come il punto focale, in cui convergono i raggidell'attività cerebrale. Perciò per non ripetermi, rimando a quelpunto.

Che io rigetti l'intera dottrina delle categorie e la annoveri trale ammissioni infondate di cui Kant ha gravato la sua teoria dellaconoscenza, risulta dalla critica che ne ho dato sopra; anche dalladimostrazione delle contraddizioni della logica trascendentale, cheavevano il loro fondamento nella mescolanza della conoscenzaintuitiva e della conoscenza astratta; inoltre anche dalladimostrazione della mancanza di un concetto chiaro e distintodell'essenza dell'intelletto e della ragione, invece del quale negliscritti di Kant abbiamo solo espressioni incoerenti, discordanti,insufficienti e scorrette su quelle due facoltà dello spirito.Risulta infine dalle delucidazioni che io stesso ho dato sulle stessefacoltà dello spirito nel primo libro e nei suoi supplementi, e ancorpiù estesamente nella dissertazione Sul principio di ragione, parr'21, 26 e 34: queste delucidazioni sono molto precise e chiare,risultanti in modo evidente dalla considerazione dell'essenza dellanostra conoscenza, pienamente in accordo con i concetti di queste duefacoltà conoscitive presenti nell'uso linguistico e negli scritti ditutti i tempi e di tutti i popoli per quanto non ancora giunti inessi a piena chiarezza. La difesa di essi nei confronti dellaspiegazione kantiana, che è diversissima, è in gran parte già datacon la scoperta degli errori di quella spiegazione. Poiché però orala tavola dei giudizi che Kant pone alla base di quella sua teoriadel pensiero, anzi di tutta la sua filosofia, ha in sé tutto sommatola sua giustezza, sono tenuto a dimostrare come queste forme generalidi tutti i giudizi sorgono nella nostra facoltà conoscitiva, e adaccordarle con la mia spiegazione di essa. In questa discussionecollegherò ai concetti di intelletto e di ragione costantemente ilsenso, che ho dato ad esso nella mia spiegazione, che perciòpresuppongo sempre noto al lettore.Una differenza essenziale fra il metodo di Kant e quello che ioseguo sta in ciò, che egli parte dalla conoscenza mediata, riflessa,io invece da quella immediata, intuitiva. Egli può paragonarsi a chimisura l'altezza di una torre dalla sua ombra, io invece a chiapplica direttamente il metro. Perciò per lui la filosofia è unascienza da concetti, per me una scienza in concetti, attinta allaconoscenza intuitiva, l'unica fonte di ogni evidenza, e raccolta efissata in concetti generali. Egli passa rapidamente oltre a questomondo intero che ci circonda, intuitivo, multiforme, ricco disignificato e si attiene alle forme del pensiero astratto; al che staa fondamento, sebbene egli mai lo esprima, il presupposto che lariflessione è l'ectipo di ogni intuizione, quindi che tutto ciò che èessenziale per l'intuizione debba essere espresso nella riflessione everamente in forme e principi molto concentrati e perciò facilmentedominabili con lo sguardo intellettuale. Conformemente a ciò ilmomento essenziale e legale della conoscenza astratta ci darebbe inmano tutti i fili, che mettono in movimento il variopinto teatro dimarionette del mondo intuitivo di fronte ai nostri occhi. Se Kantavesse espresso chiaramente questo principio supremo del suo metodo elo avesse poi conseguentemente seguito, egli avrebbe allora almenodovuto distinguere nettamente ciò che è intuitivo da ciò che èastratto, e noi non avremmo dovuto lottare con contraddizioni econfusioni irrisolvibili. Però nella maniera in cui egli ha assoltoil suo compito si vede che egli aveva in mente quel principio del suometodo solo in maniera molto oscura, perciò, dopo uno studio a fondodella sua filosofia lo si deve ancora decifrare.Per quel che riguarda il metodo offerto e la massima fondamentale,molto torna a suo favore ed è un pensiero brillante. Già l'essenzadella scienza consiste nel raccogliere l'infinito molteplice deifenomeni intuitivi sotto relativamente pochi concetti astratti, concui ordiniamo un sistema tramite il quale abbiamo pienamente inpotere della nostra conoscenza tutti quei fenomeni, possiamo spiegareciò che è accaduto e determinare il futuro. Le scienze poi si

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdividono fra di loro l'ampio campo dei fenomeni secondo leparticolari e svariate specie di questi ultimi. Ora fu un pensieroardito e felice quello di isolare ciò che è assolutamente essenzialeai concetti come tali e a prescindere dal loro contenuto per ricavaredalle forme cosí trovate di tutto il pensiero quel che è essenzialeanche a tutta la conoscenza intuitiva, e quindi anche al mondo comefenomeno in generale; e poiché questo sarebbe trovato a priori, datala necessità di quelle forme del pensiero, sarebbe cosí di originesoggettiva, e porterebbe proprio ai fini di Kant. Ma qui si sarebbedovuto ricercare, prima di procedere oltre, quale sia la relazionedella riflessione alla conoscenza intuitiva (cosa che presuppone lanetta separazione delle due da Kant trascurata), in quale manierapropriamente quella riproduca e rappresenti questa, se del tuttopuramente, o come già mutata e in parte resa inconoscibile tramitel'assunzione nelle sue (della riflessione) forme; se la forma dellaconoscenza riflessa, astratta, è determinata piú dalla formadell'intuitiva o dalla costituzione che ad essa stessa (conoscenzariflessa) invariabilmente appartiene, sicché anche quello che nellaconoscenza intuitiva è molto eterogeneo, appena entra nellaconoscenza riflessiva, non è piú distinguibile, e al contrariodifferenze che percepiamo nel modo di conoscere riflessivo sorgono daquesto stesso e non significano affatto diversità ad essecorrispondenti nella conoscenza intuitiva. Come risultato di questaricerca si sarebbe però avuto, che la conoscenza intuitiva nel suoessere assunta nella riflessione subisce quasi tanto mutamento quantogli alimenti nel loro essere assorbiti nell'organismo animale, le cuiforme e mistioni sono determinate da questo stesso e dalla lorocomposizione, sicché non è assolutamente piú possibile conoscere lacostituzione degli alimenti; o (poiché dire questo è dire un po'troppo) almeno si sarebbe avuto che la riflessione non si rapportaalla conoscenza intuitiva, come lo specchio dell'acqua agli oggettirispecchiati, ma soltanto appena come l'ombra di questi oggetti aglioggetti stessi, la quale ombra rende solo alcuni contorni esterni, eanche riunisce il piú vario nella stessa figura e presenta il piúdiverso con lo stesso contorno; sicché partendo da essa non sipossono costruire completamente e sicuramente le figure delle cose.L'intera conoscenza riflessa, o la ragione, ha una sola formaprincipale e questa è il concetto astratto: essa è propria dellaragione stessa e non ha immediatamente alcun nesso necessario con ilmondo intuitivo, che perciò esiste per gli animali anche in mancanzacompleta di quella, e che potrebbe essere anche del tutto diverso,adattandosi tuttavia quella forma di riflessione egualmente bene adesso. L'unificazione dei concetti in giudizi ha poi certe formedeterminate e legali, le quali, trovate con l'induzione, formano latavola dei giudizi. Queste forme sono da derivarsi per la maggiorparte dalla stessa conoscenza riflessa, cioè immediatamente dallaragione, specialmente in quanto si formano tramite le quattro leggidel pensiero (da me chiamate metalogiche) e tramite il dictum de omniet nullo. Altre di queste forme hanno però il loro fondamento nelmodo di conoscere intuitivo, cioè nell'intelletto, senza offrire inalcun modo per questo motivo indicazioni di altrettante formespeciali dell'intelletto; ché sono piuttosto da derivarsicompletamente dall'unica funzione, che ha l'intelletto, cioè quelladella conoscenza immediata di causa ed effetto. Altre ancora diquelle forme infine sono sorte dalla combinazione e collegamento delmodo di conoscenza riflesso e di quello intuitivo, o propriamentedall'assunzione di questo in quello. Ora prenderò in esame i momentidel giudizio singolarmente e mostrerò l'origine di ognuno dalle fontienunciate; dal che segue come cosa che va da sé, che una deduzionedelle categorie da essi non ha luogo e la sua ammissione è cosí privadi fondamento, come la sua esposizione è stata trovata confusa eautocontraddittoria.1) La cosiddetta quantità dei giudizi sorge dall'essenza delconcetto come tale, ha cioè la sua origine unicamente nella ragione,e non ha assolutamente alcun nesso immediato con l'intelletto e laconoscenza intuitiva. Difatti, come è ampiamente mostrato nel primolibro, è essenziale ai concetti che essi abbiano un'estensione, unasfera, e che la sfera piú ampia e indeterminata includa la piú

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtristretta e determinata, la quale ultima perciò può anche essereesclusa; e questo in verità può avvenire cosí, o che la si indichisolo come parte indeterminata del concetto piú ampio, o anche cosí,che la si determini e la si separi completamente, attribuendole unnome speciale. Il giudizio, che è il compimento di questa operazione,si dice nel primo caso un giudizio particolare, nel secondo ungiudizio generale; per es' una sola e medesima parte della sfera delconcetto albero può essere isolata con un giudizio particolare ogenerale, cioè: «Alcuni alberi producono galle», o cosí: «Tutte lequerce producono galle». Si vede che la diversità delle dueoperazioni è minima, anzi che la possibilità di esse dipende dallaricchezza delle parole della lingua. Nonostante ciò Kant ha spiegatoche questa diversità disvela due operazioni, funzioni, categorie,fondamentalmente diverse del puro intelletto, il quale proprioattraverso di esse determina a priori l'esperienza.Si può infine usare un concetto per giungere mediante esso ad unarappresentazione empirica, singola, intuitiva, dalla quale, e insiemeda molte altre, è stato tratto; il che accade con il giudizioparticolare. Un tale giudizio indica solo il confine della conoscenzaastratta con l'intuitiva alla quale da esso immediatamente sitrapassa: «Quest'albero qui produce delle galle». Se non che anche diciò Kant ha fatto una speciale categoria.Dopo tutto quel che si è detto precedentemente non c'è bisogno suquesto punto di polemica ulteriore.2) Nella medesima maniera la qualità dei giudizi giace interamentenel campo della ragione, e non adombra una qualche leggedell'intelletto che renda possibile l'intuizione, cioè non fornisceuna guida ad essa. La natura dei concetti astratti, che èpropriamente l'essenza della ragione stessa oggettivamente concepita,porta seco, come si è mostrato anche nel primo libro, la possibilitàdi unire e separare le sue sfere, e su questa possibilità, come loropresupposto, riposano le leggi generali del pensiero, identità econtraddizione, alle quali, poiché sorgono puramente dalla ragione enon richiedono ulteriore spiegazione, ho attribuito veritàmetalogica. Esse determinano che l'unito debba rimanere unito, e ilseparato separato, cioè che quel che è posto non possa essere altempo stesso negato, e presuppongono dunque la possibilità di unire eseparare le sfere, cioè il giudicare. Questo però, per quel cheriguarda la forma, sta solo e unicamente nella ragione, e questaforma non è, come il contenuto dei giudizi, assunta dalla conoscenzaintuitiva dell'intelletto, nella quale perciò non si deve cercarealcun correlato o analogo per essa. L'intuizione, dopo che è sortatramite e per l'intelletto, esiste come perfettamente compiuta, senzaessere soggetta a dubbio od errore, non conosce di conseguenza néaffermazione né negazione; poiché essa esprime se stessa, e non trae,come la conoscenza astratta della ragione, il suo valore e il suocontenuto dal puro riferimento a qualcosa fuori di lei, secondo ilprincipio della ragione del conoscere. Essa è pura realtà, ogninegazione è estranea alla sua essenza: questa può esservi aggiuntasolo con la riflessione, ma proprio perciò rimane sempre nel campodel pensiero astratto.Ai giudizi affermativi e negativi Kant aggiunge, utilizzando unghiribizzo dei vecchi scolastici, ancora gli infiniti, un tappabuchiescogitato sofisticamente, che non vale neanche la pena di unadiscussione, una finestra cieca, come ne ha costruite molte a favoredella sua simmetria architettonica.3) Sotto il concetto molto ampio di relazione Kant ha messo insiemetre qualità del tutto diverse, che quindi, per riconoscernel'origine, dobbiamo illuminare singolarmente.a) Il giudizio ipotetico in generale è l'espressione astratta dellaforma piú generale di tutte le nostre conoscenze, il principio diragione. Già nel 1813 nella mia dissertazione su di esso ho mostratoche ha quattro significati diversissimi, e ognuno di questi sorge dauna diversa forza conoscitiva, come pure riguarda una classe diversadi rappresentazioni. Da ciò risulta sufficientemente che l'originedel giudizio ipotetico in generale, questa forma generale delpensiero, non può essere semplicemente, come Kant vuole, l'intellettoe la sua categoria della causalità; ma che la legge della causalità

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtche, secondo la mia esposizione, è l'unica forma conoscitivadell'intelletto puro, è solo una delle forme del principio di ragioneche comprende tutte le conoscenze pure o a priori e che in ognuno deisuoi significati ha per espressione questa forma ipotetica delgiudizio. Vediamo però ora qui molto chiaramente che conoscenze, cheper la loro origine e il loro significato sono del tutto diverse,quando sono pensate in abstracto dalla ragione, appaiono in un'unicae medesima forma di unificazione dei concetti e dei giudizi e perciòin essa non si possono affatto piú distinguere, ma, per distinguerle,si deve ritornare alla conoscenza intuitiva, abbandonando del tuttol'astratta. Perciò la via imboccata da Kant, di trovare gli elementied il piú intimo meccanismo anche della conoscenza intuitiva apartire dal punto di vista della conoscenza astratta, è del tuttosbagliata. Del resto la mia dissertazione introduttiva Sul principiodi ragione è da considerarsi in certo qual modo solo come unadiscussione a fondo del significato della forma ipotetica delgiudizio; perciò qui non indugio su ciò ulteriormente.b) La forma del giudizio categorico non è altro che la forma delgiudizio in generale nel suo senso piú proprio. Infatti il terminegiudicare, rigorosamente preso, significa solo pensare l'unificazioneo l'incompatibilità delle sfere dei giudizi; perciò l'unificazioneipotetica e la disgiuntiva non sono propriamente forme speciali delgiudizio; giacché esse vengono applicate solo a giudizi già fatti,nei quali l'unificazione dei concetti rimane immutabilmente lacategorica; esse però collegano ancora questi giudizi, in quanto laforma ipotetica esprime la loro reciproca dipendenza, quelladisgiuntiva la loro incompatibilità. I semplici concetti invece hannosolo una forma di relazione fra di loro, cioè quella che è espressanel giudizio categorico. La determinazione prossima, o le sottospeciedi questa relazione, sono l'includersi o il separarsi completo dellesfere concettuali, cioè l'affermazione o la negazione; dal che Kantha tratto categorie speciali, sotto un titolo totalmente diverso,quello della qualità. L'includersi e il separarsi ha di nuovosottospecie, cioè a seconda che le sfere si includano totalmente osolo in parte, la qual determinazione costituisce la quantità deigiudizi; dal che Kant nuovamente ha tratto un titolo di categorie deltutto speciale. Così egli separò lo strettamente affine, anzil'identico, le modificazioni facilmente tralasciabili delle relazioniunicamente possibili di semplici concetti fra di loro, e riunì inveceil diversissimo sotto quest'unico titolo della relazione.I giudizi categorici hanno per principio metalogico la legge delpensiero dell'identità e della contraddizione. Ma il fondamento delcollegamento delle sfere concettuali, che conferisce verità algiudizio, che propriamente non è altro che questo collegamento, puòessere di specie molto diversa e conseguentemente a ciò la verità delgiudizio è allora o logica, o empirica, o trascendentale, ometalogica, come è stato mostrato nella mia dissertazioneintroduttiva, parr' 30-33, e non occorre che qui sia ripetuto. Da ciòrisulta però come possano essere assai diverse le conoscenzeimmediate, che in abstracto si presentano tutte come perl'unificazione delle sfere di due concetti come soggetto e predicato,e che non si può affatto porre un'unica funzione dell'intelletto,come loro corrispondente e produttrice. Per es' i giudizi: «L'acquabolle, il seno misura l'angolo; l'occupazione distrae; la distinzioneè difficile» esprimono con la stessa forma logica le relazioni piúdiverse, dal che ricaviamo nuovamente la conferma come sia falso peranalizzare la conoscenza intuitiva, il cominciare con il mettersi dalpunto di vista di quella astratta. Da una conoscenza propriadell'intelletto, nel senso mio, il giudizio categorico sorge delresto solo là dove attraverso di esso viene espressa una causalità.Infatti, se dico: «Questo corpo è pesante, duro, liquido, verde,acido, alcalino, organico, etc...»; allora ciò indica sempre il suoeffetto, cioè una conoscenza che è possibile solo tramitel'intelletto puro. Ora dopo che questa conoscenza, proprio come molteda essa assai diverse (per es' il sottordine di concetti estremamenteastratti), è stata espressa in abstracto tramite soggetto epredicato, si sono nuovamente riportate queste pure relazioniconcettuali alla conoscenza intuitiva, e si è supposto che il

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsoggetto e il predicato del giudizio dovessero avere nell'intuizioneun proprio speciale correlato, la sostanza e l'accidente. Ma iochiarirò in seguito che il concetto di sostanza non ha altro verocontenuto che quello del concetto di materia. Gli accidenti poi sonodel tutto identici in significato a specie di effetti, sicché lasupposta conoscenza di sostanza e accidenti è ancora sempre quelladel puro intelletto, di causa ed effetto. Come propriamente poi larappresentazione della materia sorga è stato esaminato in parte nelprimo libro, par' 4, e in maniera ancora piú comprensibile nelladissertazione Sul principio di ragione, alla fine del par' 21, p' 77;e lo vedremo ancor piú dappresso, quando esamineremo il principio chela sostanza permane.c) I giudizi disgiuntivi derivano dalla legge del pensiero delterzo escluso, che è una verità metalogica; essi appartengonointeramente alla ragione pura, e non hanno la loro originenell'intelletto. La derivazione della categoria di comunanza o azionereciproca da essi è un chiarissimo esempio delle violenze che Kanttalvolta si permette contro la verità, solo per soddisfare il suogusto per la simmetria architettonica. Che questa derivazione siainammissibile è stato già molto giustamente denunciato e mostrato conpiú ragioni, specialmente da G'E' Schulze nella sua Critica dellafilosofia teoretica e da Berg nella sua Epicritica della filosofia.Quale reale analogia c'è mai fra il lasciare aperta la determinazionedi un concetto con predicati che si escludono l'un l'altro e ilpensiero della determinazione reciproca?Le due sono persino interamente opposte, poiché nel giudiziodisgiuntivo la posizione reale di uno dei due membri della divisioneimplica allo stesso tempo l'eliminazione necessaria dell'altro,mentre se si pensano due cose in azione reciproca, la posizionedell'una implica giustappunto la necessaria posizione dell'altra eviceversa. Perciò l'analogo logico reale dell'azione reciproca èincontestabilmente il circulus vitiosus, nel quale, proprio come sipretende nell'azione reciproca, ciò che è fondato si presenta anchedi nuovo come fondamento, e viceversa. Proprio come la logica rigettail circulus vitiosus si deve cacciare il concetto di azione reciprocadalla metafisica. Per questo motivo sono seriamente intenzionato adimostrare che non si dà alcuna azione reciproca in senso proprio, eche questo concetto, per quanto se ne faccia volentieri grande usodel resto proprio a causa di questa sua indeterminatezza logica, èvuoto, falso e nullo. In primo luogo si rifletta su che cosa è lacausalità in generale, e si ripercorra a sostegno la mia esposizionedi essa nel mio trattato introduttivo, par' 20, nel mio scrittopremiato Sulla libertà del volere, cap' 3, p' 27 sgg' (2a ed', p' 26sgg') ed infine nel quarto capitolo del secondo volume. La causalitàè la legge secondo la quale gli stati succedentisi della materiadeterminano la loro posizione nel tempo. Nella causalità si parlasolo di stati, anzi propriamente di mutamenti, e non della materiacome tale, né del permanere senza mutamento. La materia come tale nonsottostà alla legge di causalità; poiché essa non nasce né perisce; eneanche la cosa intera, come pure si dice comunemente, ma solo glistati della materia. Inoltre la legge della causalità non ha nulla ache fare con il permanere; infatti dove non si muta nulla, non c'èazione e causalità, ma uno stato che permane in quiete. Se un talestato si muta, il nuovo stato che è sorto o è nuovamente permanente,o non lo è, e produce subito un terzo stato; la necessità, con cuiciò accade, è propriamente la legge di causalità, che è una forma delprincipio di ragione e con ciò non abbisogna di essere ulteriormentespiegata, perché il principio di ragione è il principio di ognispiegazione e necessità. Da ciò è chiaro che l'essere causa edeffetto sta in nesso preciso e relazione necessaria con lasuccessione temporale. Solo se lo stato A precede nel tempo lo statoB, e la loro successione è necessaria e non contingente, ossia è unconseguire e non un puro seguire, solo a queste condizioni lo stato Aè causa e lo stato B è effetto. Il concetto di determinazionereciproca contiene tuttavia la determinazione che entrambi sono causaed entrambi sono effetto l'uno dell'altro; ma questo equivale a direche ognuno di essi è l'anteriore ed anche il posteriore; ossia unapura assurdità. Infatti non si può assumere che entrambi gli stati

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsiano nello stesso tempo, ed anzi necessariamente nello stesso tempo;poiché essi necessariamente coappartenendosi ed essendo nello stessotempo, costituiscono uno stato solo, per il cui permanere è richiestala presenza continua di tutte le sue determinazioni e a proposito delquale non si parla piú però di mutamento e causalità, ma di durata edi quiete; e quel che si può ancora dire è che se una determinazionedell'intero stato si muta, il nuovo stato da ciò scaturito non puòstarsene in quiete, ma diviene causa del mutamento anche di tutte lealtre determinazioni del primo stato, per cui propriamente subentraun terzo stato nuovo; ma tutto ciò avviene solo secondo la leggedella causalità e non ne fonda una nuova, quella della azionereciproca.Affermo tout court che il concetto di azione reciproca non puòessere illustrato neanche con un solo esempio. Tutto ciò che sivolesse esibire a tal fine, o è uno stato di quiete, a cui non si puòapplicare il concetto di causalità, che ha significato solo per ilmutamento, o è una successione alternantesi di stati omonimideterminatisi, alla cui spiegazione il semplice concetto di causalitàbasta perfettamente. Un esempio della prima specie è una bilanciaposta in equilibrio da pesi eguali; qui non c'è alcun agire, poichénon c'è alcun mutamento: si ha uno stato di quiete: la gravità èpresente, egualmente ripartita, come in ogni corpo appoggiato sulbaricentro, ma non può manifestare la sua forza con alcun effettoesterno. Che la sottrazione di un peso provochi un secondo stato, chediviene immediatamente causa di un terzo, cioè dell'abbassarsidell'altro piatto, tutto ciò accade secondo la legge di causa edeffetto e non abbisogna di alcuna categoria speciale dell'intellettoe neanche di una speciale denominazione. Un esempio dell'altra specieè la combustione continua del fuoco. L'unione dell'ossigeno con ilcorpo combustibile è causa di calore, e questo a sua volta causa ilrinnovato riprodursi di quella mutazione chimica. Tutto ciò non èaltro che una catena di cause ed effetti, i cui membri sonoalternamente omonimi. La combustione A produce calore libero B,questo una nuova combustione C (cioè un nuovo effetto che è omonimocon la causa A, ma non è individualmente questa stessa), questo unnuovo calore D (che non è realmente identico con l'effetto B, ma èsolo concettualmente lo stesso, cioè gli è omonimo) e cosí via. Unbuon esempio di ciò che nella vita comune si chiama azione reciprocalo offre la teoria dei deserti data da Humboldt (Visioni dellanatura, seconda edizione, vol' 2, p' 79). Cioè: nei deserti sabbiosinon piove, ma piove sui monti selvosi che con essi confinano. Lacausa di ciò non è l'attrazione che i monti eserciterebbero sullenubi: piuttosto la colonna d'aria riscaldata che si alza dallapianura sabbiosa impedisce alle bollicine di acqua di rompersi espinge le nubi piú in alto. Sulla montagna il flusso dell'aria chesale verticalmente è piú debole, le nubi si abbassano e nell'aria piúfredda si ha la precipitazione. Cosí la mancanza di pioggia el'assenza di vegetazione nel deserto stanno in azione reciproca; nonpiove perché la superficie sabbiosa riscaldata emana piú calore; ildeserto non diventa steppa o prato perché non piove. Ma evidentementeabbiamo qui, come nel primo esempio, solo una successione di cause edeffetti omonimi e nulla di essenzialmente diverso dalla semplicecausalità. Cosí accade per l'oscillazione del pendolo, e anche per laconservazione del corpo organico, in cui ogni stato ne produceegualmente uno nuovo, che quanto a specie è identico con quello dacui esso stesso fu effettuato, ma individualmente è nuovo; solo lacosa è qui piú complicata, in quanto la catena non consiste piú dimembri di due specie, ma di membri di molte specie, cosí che unmembro omonimo ritorna solo dopo che molti altri si frappongono. Maabbiamo di fronte sempre solo un'applicazione dell'unica e semplicelegge di causalità, che regola la successione degli stati, e mai unaqualche cosa, che dovrebbe venire conosciuta mediante una nuova especiale funzione dell'intelletto.O forse si vorrebbe portare come prova del concetto di azionereciproca il fatto che azione e reazione sono uguali? Ma ciò sta inquello su cui io tanto insisto e che nella mia trattazione Sulprincipio di ragione ho ampiamente mostrato, che cioè la causa el'effetto non sono due corpi ma due stati successivi di corpi;

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtciascuno dei due stati implica anche i corpi interessati, l'effettodunque, cioè il nuovo stato che si ha, per es' nell'urto, si estendein eguale misura ai due corpi: perciò tanto si muta il corpo urtatoquanto l'urtante (ciascuno in rapporto alla sua massa e velocità). Sesi vuole chiamare ciò azione reciproca, allora ogni azione èpropriamente azione reciproca, ma con ciò non abbiamo alcun nuovoconcetto e ancor meno una nuova funzione dell'intelletto. Questaconcezione viene però espressa sconsideratamente addirittura da Kant,nei Principi metafisici della fisica, là dove comincia ladimostrazione del quarto teorema della meccanica: «ogni azioneesteriore del mondo è azione reciproca». Come allora potrebbero perla semplice causalità e l'azione reciproca esservi funzioni diversenell'intelletto e persino la reale successione delle cose esserepossibile e conoscibile solo per mezzo della prima e lacontemporaneità solo per mezzo della seconda? In base a ciò, se ogniazione è azione reciproca, anche la successione e la simultaneitàsono la stessa cosa, e quindi nel mondo tutto sarebbe allo stessotempo. Se vi fosse veramente azione reciproca, il perpetuum mobilesarebbe non solo possibile ma addirittura certo a priori; mapiuttosto è a fondamento dell'affermazione che esso è impossibile chesta la convinzione a priori che non c'è alcuna reale azione reciprocae alcuna forma dell'intelletto per essa.Anche Aristotele nega l'azione reciproca in senso proprio: infattiegli nota che certo due cose possono essere reciprocamente l'unacausa dell'altra, ma solo in quanto di ciascuna ciò si intenda in unsenso diverso, per es' che l'una agisca sull'altra come motivo equesta poi su quella come causa del suo movimento. Cosí troviamo indue passi le stesse parole: Phy', lib' Ii, c' 3, e Met', lib' V, c'2. "§ësti dë tina kaì allélwn aitïa; oîon tò poneîn aïtion têseuexïas, kaì haütû tov poneîn; all'ou tòn autòn tröpon, allà tò menhws tëlos, tò dc hws arçè kinésews" (Sunt praeterea quae sibi suntmutuo causae, ut exercitium bonae habitudinis, et haec exercitii; atnon eodem modo, sed haec ut finis, illud ut principium motus). Seegli oltre a ciò ammettesse una vera e propria azione reciproca laintrodurrebbe qui, poiché in entrambi i passi è impegnato adenumerare tutte le possibili serie di cause. Negli Analyt' post',libro Ii, cap' 11, egli parla di un ciclo di cause ed effetti, ma nondi un'azione reciproca.4) Le categorie della modalità hanno rispetto a tutte le altre ilvantaggio che quel che viene espresso attraverso ognuna di essecorrisponde realmente alla forma di giudizio da cui è derivato: ilche non accade quasi mai per le altre categorie, in quanto per lo piúvengono dedotte dalle forme del giudizio con la violenza piúarbitraria.Dunque che i concetti del possibile del reale e del necessarioproducano la forma problematica, assertoria e apodittica delgiudizio, è perfettamente vero. Non è però vero che quei concettisiano forme speciali, originarie e non ulteriormente deducibilidell'intelletto. Piuttosto è da dire che essi derivano dall'unicaforma originaria e perciò da noi conosciuta a priori di tutta laconoscenza, dal principio di ragione; senza dubbio sorgeimmediatamente da esso la conoscenza della necessità; invece iconcetti di contingenza, possibilità, impossibilità, realtà, sorgonosolo in quanto si applica la riflessione su di essa. Essi nonderivano perciò da un'unica facoltà spirituale, ma sorgono dalcontrasto della conoscenza astratta con l'intuitiva, come subito sivedrà.Io affermo che ciò che è necessario e ciò che segue da una ragionedata sono concetti assolutamente interscambiabili e del tuttoidentici. Noi non possiamo conoscere nulla come necessario, e neanchesolo pensarlo, se non lo pensiamo come conseguenza di una ragionedata; e il concetto di necessità non contiene propriamente nullaoltre a questa dipendenza, questo essere posto da un altro einevitabile conseguire da esso. Esso sorge e sussiste cosí unicamentee solo per l'applicazione del principio di ragione. Perciò, conformealle diverse forme di questo principio, vi è una necessità fisica(l'effetto dalla causa), una necessità logica (per il principio dellaconoscenza, nei giudizi analitici, nelle inferenze, e cosí via), una

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnecessità matematica (secondo la ragion d'essere nello spazio e neltempo) e infine una necessità pratica, con la quale certo nonvogliamo indicare l'essere determinato da un preteso imperativocategorico, ma l'azione che segue necessariamente per un datocarattere dai motivi che sono ad esso presenti. Tutto ciò che ènecessario lo è dunque solo relativamente, vale a dire in base allaposizione della sua ragione, da cui segue: perciò la necessitàassoluta è una contraddizione. Per il resto rimando al par' 49 dellamia dissertazione Sul principio di ragione.L'opposto contraddittorio, cioè la negazione della necessità è lacontingenza. Il contenuto di questo concetto è perciò negativo, cioèniente altro che questo: mancanza della connessione espressa dalprincipio di ragione. Di conseguenza anche il contingente è sempresolo relativo: cioè esso è tale in relazione a qualcosa, che non è lasua ragione. Ogni oggetto, di qualunque specie sia, per es' ogni datodel mondo reale, è sempre necessario e contingente insieme:necessario in riferimento a ciò che ne è la causa, contingenterispetto al resto. Infatti il suo essere a contatto nello spazio enel tempo con tutto il resto è un puro trovarsi insieme senzaconnessione necessaria; perciò anche le parole caso, sümptwma,contingens. Quindi un contingente assoluto è tanto poco pensabilequanto un necessario assoluto. Infatti il primo sarebbe propriamenteun oggetto che non si troverebbe rispetto ad alcun altro nel rapportodi conseguenza a ragione. La irrappresentabilità di un tale oggetto èperò proprio il contenuto espresso negativamente dal principio diragione, che dovrebbe dunque essere soppresso, per pensare uncontingente assoluto; dopo di che questo stesso perderebbe però ognisignificato, poiché il concetto di contingente ha significato solo inriferimento a quel principio e significa che due oggetti non sono fradi loro nel rapporto di ragione e conseguenza.Nella natura, in quanto essa è una rappresentazione intuitiva,tutto ciò che accade è necessario; infatti procede dalla sua causa.Ma se consideriamo una singola cosa in relazione al resto che non èsua causa, la riconosciamo come contingente e questa è già però unariflessione astratta. Se poi in un oggetto di natura astraiamo ancoradel tutto dal suo nesso causale con il resto, cioè dalla suanecessità o contingenza, allora si presenta in questo tipo diconoscenza il concetto del reale, nel quale si considera solol'effetto senza occuparsi della causa, in rapporto alla quale lo sidovrebbe chiamare necessario, mentre in rapporto al resto lo sidovrebbe chiamare contingente. Tutto ciò riposa in ultima analisi sulfatto che la modalità dei giudizi non indica tanto la costituzioneoggettiva delle cose, quanto il rapporto della nostra conoscenza adessa. Poiché però in natura ogni cosa procede da una causa, ogni cosareale è anche necessaria; ma di nuovo anche solo in quanto è inquesto tempo, in questo luogo; infatti a ciò solamente si estende ladeterminazione secondo la legge di causalità. Se invece abbandoniamola natura intuitiva e passiamo nella sfera del pensiero astratto,possiamo rappresentarci nella riflessione tutte le leggi di natura,che conosciamo in parte a priori e in parte a posteriori, e questarappresentazione astratta contiene tutto ciò che nella natura è in uncerto luogo e ad un certo tempo, ma con l'astrazione di ogni luogo etempo determinato; e cosí, con tale riflessione, siamo entratinell'ampio regno della possibilità. Quel che però persino qui nontrova posto è l'impossibile. E' chiaro che possibilità eimpossibilità esistono solo per la riflessione, per la conoscenzaastratta della ragione, non per la conoscenza intuitiva, quantunquesiano le forme pure di questa a dare in mano alla ragione ledeterminazioni del possibile e dell'impossibile. A seconda che leleggi di natura, da cui procediamo per pensare il possibile ol'impossibile, sono conosciute a priori o a posteriori, lapossibilità e l'impossibilità è metafisica o fisica.Da questa esposizione, che non abbisogna di prova alcuna, perchéessa si fonda immediatamente sulla conoscenza del principio diragione e sullo sviluppo dei concetti del necessario, del reale e delpossibile, risulta sufficientemente che l'ammissione kantiana di trefunzioni speciali dell'intelletto per quei tre concetti è del tuttoinfondata e che qui egli di nuovo non si è lasciato turbare da alcuna

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpreoccupazione nell'attuazione della sua simmetria architettonica.A ciò si aggiunge poi il grandissimo errore, che egli, certoseguendo il procedimento della filosofia precedente, ha scambiato fradi loro i concetti del necessario e del contingente. Quella filosofiaprecedente ha infatti usato l'astrazione con il seguente abuso. Erachiaro che ciò di cui è data la causa segue immancabilmente da essa,cioè non può non essere, è necessario. Ma ci si attenne solo aquest'ultima determinazione e si disse: necessario è ciò che non puòessere altrimenti, o il cui contrario è impossibile. Si trascurò peròla causa e la radice di tale necessità, si tralasciò la relatività daessa risultante di ogni necessità e si creò cosí la finzione deltutto impensabile di un necessario assoluto, cioè di qualcosa, la cuiesistenza sarebbe cosí indefettibile come la conseguenza dalla causa,che tuttavia non sarebbe conseguenza di causa alcuna e perciò nondipenderebbe da nulla; ma questa aggiunta è una petizione assurdaperché contraddice il principio di ragione. Partendo da questafinzione, in modo del tutto contrario alla verità, si spiegò quindicome contingente proprio tutto ciò che è posto da una causa, inquanto si guardò al relativo nella sua necessità e si paragonò questanecessità con la necessità assoluta del tutto campata in aria eautocontraddicentesi nel suo stesso concetto. (5) Questadeterminazione fondamentalmente errata del contingente è mantenutaanche da Kant ed anche egli la dà come spiegazione: Critica dellaragion pura, V, pp' 289-291; 243 (V, 301); 419, 458, 460 (V, 447,486, 488). Egli cade persino nella piú lampante contraddizione con sestesso, in quanto a p' 301 dice «tutto ciò che è contingente ha unacausa», e aggiunge «contingente è ciò il cui non essere è possibile».Ma il non essere di ciò che ha una causa è assolutamente impossibile;cioè questo è necessario. Del resto l'origine di questa spiegazionedel tutto falsa del necessario e del contingente si trova già inAristotele e precisamente nel De generatione et corruptione, l' Ii,c' 9, dove il necessario viene spiegato come ciò il cui non essere èimpossibile: ad esso sta di contro ciò il cui essere è impossibile efra questi due sta poi ciò che può essere e anche non essere - cioèquel che nasce e perisce, e questo sarebbe allora il contingente.Dopo quanto si è detto sopra, è chiaro che questa spiegazione, cometante altre di Aristotele, è sorta dall'attenersi a concetti astrattisenza rifarsi al concreto e all'intuitivo, nel quale tuttavia è lasorgente di tutti i concetti astratti, e da cui dovrebbero esserecostantemente controllati. «Qualcosa il cui non essere è impossibile»si fa semmai pensare in abstracto; ma se passiamo al concreto, alreale, all'intuitivo, non troviamo nulla da unire al pensiero, anchesolo come possibile, se non la già indicata conseguenza di una causadata, la cui necessità però è relativa e condizionata.Aggiungo ancora a questo proposito alcune note su quei concettidella modalità. Poiché ogni necessità riposa sul principio di ragioneed è perciò relativa, tutti i giudizi apodittici sono originariamentee nel loro significato ultimo ipotetici. Essi divengono categoricisolo con l'aggiunta di una minore assertoria, dunque nellaconclusione. Se questa minore è ancora indecisa e questa indecisioneviene espressa, si ha un giudizio problematico.Quel che in generale (come regola) è apodittico (una legge dinatura) in riferimento al caso singolo è sempre solo problematico,perché prima deve presentarsi realmente la condizione, che mette ilcaso sotto la regola. E viceversa quel che nel singolo come tale(ogni singolo mutamento, necessario per la sua causa) è necessario(apodittico), espresso in generale e universalmente è a sua voltasoltanto problematico; perché la causa sopraggiunta riguardava soloil singolo caso, e il giudizio apodittico, sempre ipotetico, esprimesolo leggi generali e non immediatamente i casi singoli. La ragionedi tutto ciò è che la possibilità esiste solo nel campo dellariflessione e per la ragione, il reale nel campo dell'intuizione eper l'intelletto; il necessario per entrambi. Propriamente parlandola distinzione fra necessario, reale e possibile esiste solo inabstracto e secondo il concetto; nel mondo reale tutte e trecoincidono in uno. Infatti tutto ciò che accade, accadenecessariamente; perché accade per cause e queste stesse hanno a lorovolta cause; sicché tutti gli eventi del mondo, grandi come piccoli,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcostituiscono la serie rigorosamente concatenata di ciò che siproduce necessariamente. Conformemente a ciò ogni reale è al contemponecessario e per le cose reali non v'è alcuna differenza fra realtà enecessità: e così anche propriamente non ve n'è fra realtà epossibilità: infatti quel che non è accaduto, cioè non è realmentedivenuto, non era neanche possibile: perché le cause, senza di cuiesso non avrebbe mai potuto prodursi, non si sono verificate, népotevano verificarsi, nella grande catena delle cause: era quindiqualcosa di impossibile. Ogni evento è dunque o necessario oimpossibile. Ma tutto ciò vale solo per il mondo reale empiricamente,cioè per il complesso delle cose singole, quindi per ciò che èsingolo come tale. Se invece consideriamo le cose in generale con laragione, concependole in abstracto, necessità, realtà e possibilitàsi scindono nuovamente; noi consideriamo allora tutto ciò che èconforme alle leggi a priori appartenenti al nostro intelletto comepossibile in generale e tutto ciò che corrisponde alle leggi dinatura empiriche come possibile in questo mondo, anche se non è mairealmente accaduto; distinguiamo quindi chiaramente il possibile dalreale. Il reale è certo in se stesso anche sempre qualcosa dinecessario, ma viene compreso come tale solo da chi conosce la suacausa e, se si prescinde da questa, è ed è chiamato contingente.Questa considerazione ci dà anche la chiave per la contentio "perìdunätwn" tra il megarico Diodoro e lo stoico Crisippo, che Ciceroneespone nel libro De fato. Diodoro dice: «Solo quel che è reale, èstato possibile: e tutto il reale è anche necessario». Crisippo alcontrario: «E' possibile molto che non diviene mai reale: infattisolo il necessario diviene reale». Noi possiamo chiarirci ciò inquesta maniera. La realtà è la conclusione di un'inferenza, a cui lapossibilità dà le premesse. Ma a ciò non basta la premessa maggiore,ci vuole anche la minore: solo entrambe danno la possibilità piena.La maggiore cioè dà una possibilità generale puramente teoretica inabstracto; questa però non rende in sé ancor nulla possibile, cioèpassibile di divenire reale. A ciò occorre ancora la minore, comequella che dà la possibilità per il caso singolo, in quanto lo portasotto la regola. Con ciò esso diviene subito realtà. Per es':Maggiore. Tutte le case (e quindi anche la mia casa) possonobruciare.Minore: la mia casa ha preso fuoco.Conclusione: la mia casa brucia.Infatti ogni proposizione generale, cioè ogni maggiore, determinale cose nei riguardi della realtà sempre soltanto sotto una premessa,quindi ipoteticamente: per esempio il potere bruciare ha comepremessa il prendere fuoco. Questa premessa viene fornita dallaminore. Sempre la maggiore carica il cannone; solo quando la minoreavvicina la miccia, segue il colpo, la conclusione. Ciò vale sempreper il rapporto di possibilità e realtà. Ora poiché la conclusione,che è l'espressione della realtà, segue sempre necessariamente,risulta da ciò che tutto ciò che è reale è anche necessario; il chesi vede anche dal fatto che essere necessario significa essereconseguenza di una ragione data; questa è per il reale una causa:così tutto il reale è necessario. Perciò vediamo qui che i concettidi possibile, reale e necessario coincidono e che non solo gli ultimipresuppongono i primi, ma anche viceversa. Quel che li separa è lalimitazione del nostro intelletto per la forma del tempo: infatti iltempo è ciò che media fra possibilità e realtà. La necessità delsingolo evento può essere perfettamente colta con la conoscenza ditutte le cause; ma l'incontrarsi di tutte queste diverse cause,indipendenti l'una dall'altra, ci appare contingente, anzi la loroindipendenza reciproca è per l'appunto il concetto di contingenza.Poiché però ciascuna di esse era la conseguenza necessaria della suacausa, la cui catena non ha inizio, è evidente che la contingenza èuna pura apparenza soggettiva, che sorge dalla limitazione del nostrointelletto, tanto soggettiva quanto l'orizzonte ottico, nel quale ilcielo tocca la terra.Poiché necessità è lo stesso che conseguenza da una ragione data,in ogni forma del principio di ragione essa deve apparire in modospeciale ed avere il suo opposto nella possibilità e impossibilità,che scaturisce sempre solo dall'applicazione della considerazione

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtastratta della facoltà raziocinativa all'oggetto. Perciò di frontealle quattro specie di necessità sopra menzionate stanno precisamentealtrettante specie di impossibilità: cioè fisica, matematica, logicae pratica. Si può inoltre ancora notare che quando ci si mantiene deltutto all'interno del campo dei concetti astratti, la possibilità èsempre inerente al concetto piú generale, e la necessità a quello piúristretto: per es' «un animale può essere un uccello, un pesce, unanfibio, e così via» - «Un usignolo deve essere un uccello, questo unanimale, questo un organismo, questo un corpo». Propriamente perchéla necessità logica, di cui è espressione il sillogismo, procededall'universale al particolare e non viceversa. Invece nella naturaintuitiva (nelle rappresentazioni della prima classe) tutto è davveronecessario, per la legge di causalità; solo la riflessionesopravveniente lo può nel contempo considerare come contingente,paragonandolo con ciò che non è sua causa, e anche come puro esemplice reale, prescindendo da ogni connessione causale: solo inquesta classe di rappresentazioni ha luogo il concetto del reale,come già anche indica la sua derivazione dal concetto di causalità. -Nella terza classe delle rappresentazioni, quella dell'intuizionematematica pura, quando ci si tiene completamente all'interno diessa, si ha la pura necessità: la possibilità anche qui sorge solocon il riferimento ai concetti della riflessione, per es' «untriangolo può essere rettangolo, ottusangolo, equiangolo; deve averetre angoli, che sono uguali a due retti». Dunque al possibile qui sigiunge solo tramite il passaggio dall'intuitivo all'astratto.Dopo questa esposizione, che presuppone il richiamo a quanto èdetto sia nella trattazione Sul principio di ragione sia nel primolibro del presente scritto, non si avrà piú, si può sperare, alcundubbio sulla vera e disparatissima origine di quelle forme deigiudizi, che la tavola ci mette innanzi, come neanche sullainammissibilità e completa infondatezza della adozione di dodicifunzioni speciali dell'intelletto per la loro spiegazione.Quest'ultima è anche già denunziata da parecchie osservazioni singolefacili a farsi. Così per es' ci vuole grande amore per la simmetria emolta fiducia in un filo conduttore da essa assunto, per ammettereche un giudizio affermativo, un giudizio categorico e un giudizioassertorio siano tre cose così fondamentalmente diverse, cheautorizzino ad adottare per ciascuno di essi una funzionedell'intelletto del tutto peculiare.Kant stesso tradisce la coscienza della insostenibilità della suadottrina delle categorie: infatti egli ha tolto nella secondaedizione del terzo capitolo dell'analisi dei principi (phaenomena etnoumena) parecchi lunghi passi della prima edizione (cioè pp' 241,242, 244-246, 248-253), che troppo apertamente mettevano in chiaro ladebolezza di quella dottrina. Così ad es' egli dice qui, a p' 241,che non ha definito le singole categorie, perché egli non potevadefinirle, anche se l'avesse voluto, in quanto non sono passibili dialcuna definizione; egli aveva dimenticato in questa occasione, che ap' 82 della stessa prima edizione aveva detto: «mi dispensodeliberatamente dalla definizione delle categorie, benché ne possagià essere in possesso». Questa era dunque - sit venia verbo - unafandonia. Quest'ultima frase però egli non l'ha tolta. E così tuttiquei passi in seguito saviamente omessi denunciano che nellecategorie non si può pensare nulla di chiaro e che questa dottrinasta su basi molto deboli.Questa tavola delle categorie deve essere il filo conduttoresecondo il quale è da compiersi ogni considerazione metafisica, anziogni considerazione scientifica (Prolegomena, par' 39). E di fattoessa è non solo il fondamento di tutta la filosofia kantiana e ilmodello, secondo cui la sua simmetria viene ovunque organizzata, comegià si è dimostrato sopra; ma essa è anche divenuta davvero il lettodi Procuste, in cui Kant fa entrare a forza ogni possibileconsiderazione, con una violenza, che ora esaminerò ancora un po' piúda vicino. Che cosa non dovevano poi fare con una tale occasione gliimitatores, servum pecus! Si è visto. Dunque quella violenza vieneesercitata mettendo da parte e dimenticando il significato delleespressioni che indicano i titoli, le forme dei giudizi e lecategorie, per attenersi solo alle espressioni stesse. Queste hanno

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtin parte la loro origine negli Analyt' priora I, 23, di Aristotele("perì poiötûtos kaì posötûtos t#n tov sullogismov hörwn": dequalitate et quantitate terminorum syllogismi), ma sono sceltearbitrariamente: infatti l'ambito dei concetti si sarebbe potutoindicare bene anche altrimenti che con la parola quantità, sebbeneproprio questa si adatti al suo oggetto ancora meglio che i titolirestanti delle categorie. Già la parola qualità è stata scelta soloper l'abitudine di opporre qualità e quantità, infatti perl'affermazione e la negazione il nome di qualità è adottatoabbastanza arbitrariamente. Ma Kant, in ogni considerazione cheavvia, riporta ogni quantità nello spazio e nel tempo e ognipossibile qualità delle cose, fisica morale e così via, sotto queititoli di categorie, sebbene fra queste cose e quei titoli delleforme del giudizio e del pensiero non vi sia la minima comunanza, adeccezione della denominazione accidentale, arbitraria. Si deve tenerepresente tutto il rispetto che d'altronde si deve a Kant per nonmanifestare la propria indignazione di fronte a un tal modo diprocedere con dure espressioni. Il prossimo esempio ci è subito datodalla tavola fisiologica pura dei principi generali della fisica. Chemai ha a che fare la quantità dei giudizi con l'avere ogni intuizioneuna grandezza estensiva? Che mai ha a che fare la qualità dei giudizicon l'avere ogni sensazione un grado? La prima cosa riposa piuttostosul fatto che lo spazio è la forma della nostra intuizione esterna el'ultima non è altro che una percezione empirica e inoltre del tuttosoggettiva, ricavata dalla osservazione della costituzione dei nostriorgani di senso. Poi nella tavola, che pone il fondamento per lapsicologia razionale (Critica della ragion pura, p' 344; V, p' 402),viene riportata alla categoria della qualità la semplicitàdell'anima; questa è però una proprietà quantitativa e non ha alcunarelazione con l'affermazione e la negazione del giudizio. Solo laquantità poteva essere soddisfacentemente riempita con l'unitàdell'anima, che pure è già compresa nella semplicità. La modalità èfatta poi entrare a forza in una maniera ridicola: l'anima è cioè inrapporto a possibili oggetti; il rapporto appartiene però allarelazione: solo che questa è già occupata dalla sostanza. Indi lequattro idee cosmologiche, che costituiscono la materia delleantinomie, vengono riportate ai titoli delle categorie: sul chemaggiori particolari oltre, quando saranno prese in esame. Parecchiesempi e se possibile anche piú stridenti sono offerti dalla tavoladelle categorie della libertà, nella Critica della ragion pratica;inoltre nella Critica del giudizio, il primo libro che prende inesame il giudizio di gusto secondo i quattro titoli delle categorie;infine i Principi metafisici della fisica, che sono interamentearticolati secondo la tavola delle categorie, al che forse si deveappunto il falso che qui e là è stato mischiato a quanto di vero e dieccellente vi è in questa opera importante. Si veda solo la fine delprimo capitolo, dove l'unità, la molteplicità, la totalità delladirezione delle linee devono corrispondere alle categorie cosíchiamate secondo la quantità dei giudizi.

NOTE:(1) Bruno e Spinoza sono qui da eccettuarsi. Essi stanno ognuno persé e solitario e non appartengono al loro tempo e alla parte delmondo in cui vissero, che ripagarono il primo con la morte l'altrocon la persecuzione e la gogna. La loro miserevole esistenza e mortein questo occidente è simile a quella di una pianta tropicale inEuropa. Le rive del sacro Gange erano la loro vera patria spirituale:là avrebbero potuto condurre un'esistenza tranquilla e onorata, fragente di opinioni simili alle loro. Bruno esprime bellamente echiaramente nei versi seguenti, con cui apre il libro Della causaprincipio ed uno, che gli guadagnò il rogo, come si sentisse solo nelsuo secolo, e mostra insieme un presentimento del suo destino che lofece esitare ad esporre la sua materia, finché quell'impulso cosíforte nei nobili spiriti alla comunicazione di ciò che è conosciutoper vero non prese il sopravvento:«Ad partum properare tuum, mens aegra, quid obstat;@ Seclo haecindigno sint tribuenda licet?@ Umbrarum fluctu terras mergente,cacumen@ Adstolle in clarum, noster Olympe, Jovem.@»

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtChi legge questo suo scritto principale, come anche i suoi altriscritti italiani, prima cosí rari, ma ora accessibili a tutti inun'edizione tedesca, troverà che di tutti i filosofi solo lui siavvicina in certo qual modo a Platone per il dono robusto della forzae disposizione poetica accanto a quella filosofica, che egli anchemostra in special modo nella forma drammatica. Si pensi aquest'essere delicato, spirituale, pensoso, che ci viene incontro daquesto suo scritto, nelle mani di preti rozzi e furenti quali suoigiudici e carnefici e si ringrazi il tempo, che ha prodotto un secolopiú illuminato e più mite, sicchè la posterità, la cui maledizionedoveva colpire quei fanatici diabolici, è già contemporaneità.(2) [«Mi pare con il permesso di Vostra Grazia@ come una di quellecicale dalle lunghe gambe@ che sempre vola e volando salta@ enell'erba la stessa vecchia canzone canta.@»](3) [«Così si ciancia e si insegna indisturbati@ Chi si puòoccupare dei matti?@ Comunemente l'uomo crede, quando sente soloparole@ che dovrebbero poterci essere anche pensieri.@»](4) Sia qui notato che io cito la Critica della ragon pura, ovunquesecondo il numero delle pagine della prima edizione, ché esso è datosempre nell'edizione Rosenkranz delle opere complete: inoltreaggiungo, preponendo un V, il numero delle pagine della quintaedizione; a questa sono conformi tutte le rimanenti, dalla seconda inpoi, anche per quel che riguarda la numerazione delle pagine.(5) Si veda Christian Wolf, Pensieri razionali su Dio, il mondo el'anima, parr' 577-579. E' strano che egli spieghi come contingentesolo ciò che è necessario secondo il principio di ragione deldivenire, cioè che si verifica per cause, e che invece quello che ènecessario secondo le restanti figure del principio di ragione loriconosca come tale, per es' quel che segue dall'essentia(definizione), cioè i giudizi analitici, e anche le veritàmatematiche. Come ragione di ciò egli adduce che solo la legge dicausalità dà serie infinite, mentre le altre specie di ragioni ledanno finite. Questo non è però il caso per le forme del principio diragione nello spazio e nel tempo, ma vale solo per il principio diragione logico della conoscenza; ma per esso egli sostenne lanecessità matematica. Cfr' la trattazione Sul principio di ragione,par' 50.

Il principio della permanenza della sostanza è derivato dallacategoria di sussistenza e inerenza. Noi conosciamo questa categoriaperò solo dalla forma del giudizio categorico, cioè dall'unione didue concetti come soggetto e predicato. Quanto forzatamente quelgrande principio metafisico è fatto dipendere da questa formasemplice e puramente logica! Ciò è avvenuto solamente pro forma e peramore di simmetria. La dimostrazione, che di questo principio quiviene data, prescinde dalla sua presunta origine dall'intelletto edalla categoria, ed è tratta dalla pura intuizione del tempo. Maanche questa prova è del tutto falsa. Non è vero che simultaneità edurata si diano nel solo tempo; queste rappresentazioni procedonounicamente dall'unione dello spazio e del tempo, come ho dimostratonella mia trattazione Sul principio di ragione, par' 18, e ancora piúampiamente e dettagliatamente nel par' 4 di questo scritto; per lacomprensione di quel che segue devo presupporre entrambe lespiegazioni. E' falso che in ogni cambiamento il tempo resti semprelo stesso; piuttosto è esso stesso che fluisce: un tempo che permaneè una contraddizione. La dimostrazione di Kant è insostenibile, perquanto egli l'abbia anche sostenuta con sofismi: anzi egli cade nellapiú palese contraddizione. Dopo che egli ha introdotto erroneamentela simultaneità come un modo del tempo (p' 177; V, p' 219), egli dice(p' 183; V, p' 226) del tutto correttamente: «la simultaneità non èun modo del tempo, poiché in esso non vi sono parti contemporanee, matutte le parti sono successive». In verità nella simultaneità lospazio è altrettanto implicito che il tempo. Infatti, se due cosesono simultanee, eppure non sono una cosa sola, sono diverse per lospazio; se due stati di una cosa sono simultanei (per es' il riluceree il calore del ferro), allora essi sono due effetti simultanei diuna cosa, presuppongono quindi la materia e questa lo spazio.Rigorosamente intesa la simultaneità è una determinazione negativa,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtla quale pone solo che due cose o stati non sono diversi per il tempoe che quindi la loro differenza deve essere cercata altrove. Senzadubbio però la nostra conoscenza della permanenza della sostanza,cioè della materia, deve riposare su una concezione a priori; poichéessa sta al di sopra di ogni dubbio, e non può essere attintaall'esperienza. Io la derivo da ciò, che il principio di tutto ilnascere e il perire, la legge di causalità, che conosciamo a priori,concerne in maniera del tutto essenziale solo i mutamenti, cioè glistati successivi della materia, quindi è limitato alla forma, e nontocca la materia, che nella nostra coscienza sussiste come nonsoggetta al nascere e al perire, cioè come il fondamento che sempre èstato e sempre sarà di tutte le cose. Una fondazione piú profondadella permanenza della sostanza, attinta dall'analisi della nostrarappresentazione intuitiva del mondo empirico in generale, la sitrova nel nostro primo libro, par' 4, dove si mostra che l'essenzadella materia consiste nell'unione completa dello spazio e del tempo,la quale unione è possibile solo mediante la rappresentazione dellacausalità, e di conseguenza solo per l'intelletto, il quale non èaltro che il correlato della causalità; e che perciò anche la materianon è conosciuta altrimenti che in quanto agisce, cioè da cima afondo come causalità; che essere ed agire (wirken) sono per essatutt'uno, come già è indicato nella parola tedesca Wirklichkeit [cfr'p' 92, I vol' Braille, N'd'T']. Intima unione di spazio e tempo -causalità, materia, realtà - sono dunque tutt'uno, e il correlatosoggettivo di quest'uno è l'intelletto. La materia deve recare in séle proprietà contrastanti da cui procede, e la rappresentazione dellacausalità supera il contrasto di entrambe e rende possibile il lorocoesistere nell'intelletto, con il quale e per il quale solo lamateria sussiste e il cui intero potere consiste nella conoscenza dicausa ed effetto; per esso dunque si riunisce nella materia il fluiresenza posa del tempo, che si presenta come mobilità degli accidenti,con la rigida immobilità dello spazio, che si presenta come lapermanenza della sostanza. Infatti se anche la sostanza trascorressecome gli accidenti, allora il fenomeno verrebbe del tutto separatodallo spazio e apparterrebbe solo ancora al puro tempo: il mondodell'esperienza sarebbe dissolto, per annientamento della materia,annichilazione. Dunque dalla partecipazione che lo spazio ha allamateria, cioè a tutti i fenomeni della realtà - in quanto esso èl'opposto e contrario del tempo e in sé e al di fuori dell'unione conquello non conosce assolutamente cangiamento -, da ciò doveva esserespiegato e derivato quel principio della permanenza e della sostanza,che ognuno conosce in modo certo a priori, e non dal puro tempo, alquale Kant per questo fine attribuisce del tutto insensatamente unpermanere.La erroneità della dimostrazione che poi segue della apriorità enecessità della legge di causalità dalla pura successione deglieventi è stata da me ampiamente esposta nella trattazione Sulprincipio di ragione, par' 23; posso dunque qui limitarmi al richiamoad essa. (6) Lo stesso si può dire per la dimostrazione dellareciprocità d'azione, di cui sopra ho dovuto mostrare persino ilconcetto come nullo. Anche della modalità, dei cui principi seguesubito l'esposizione, è già stato detto il necessario.Avrei ancora da confutare molti particolari punti dell'ulterioresvolgimento della Analitica trascendentale, ma temo di abusare dellapazienza del lettore e li lascio perciò alla sua riflessione. Masempre di nuovo si presenta nella Critica della ragion puraquell'errore capitale e fondamentale di Kant, che io sopra hoampiamente criticato, e cioè l'assoluta indistinzione dellaconoscenza astratta e discorsiva dalla intuitiva. Esso getta unacostante oscurità sull'intera teoria di Kant circa la facoltà dellaconoscenza, e non permette mai al lettore di sapere di che cosa divolta in volta propriamente si parli; sicché questo, invece diintendere, solo congettura, tentando di capire ciò che è detto ognivolta alternativamente del pensiero e dell'intuizione, e rimanecostantemente in sospeso. Questa credibile mancanza di riflessionesull'essenza della rappresentazione intuitiva e di quella astratta,come subito mostrerò piú dettagliatamente, porta Kant nel capitoloSulla distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtall'affermazione mostruosa che senza pensiero, quindi senza concettiastratti, non si dia conoscenza alcuna di un oggetto, e chel'intuizione, poiché non è pensiero, nemmeno sia conoscenza e ingenerale nient'altro che una pura affezione della sensibilità, purasensazione! Anzi, ancora di piú, che l'intuizione senza concetto siacompletamente vuota; e il concetto senza intuizione sia invece sempreancora qualche cosa (p' 253; V, p' 309). Ora questo è propriol'opposto della verità; infatti i concetti traggono tutto il lorosignificato, il loro contenuto, unicamente dalla relazione allerappresentazioni intuitive, da cui essi vengono estratti, astratti,ricavati, cioè formati con il lasciare cadere tutto ciò che èinessenziale; perciò quando ad essi è sottratta la basedell'intuizione sono vuoti e nulli. Le intuizioni invece hanno in séimmediato e grandissimo significato (in esse si obiettiva la volontà,la cosa in sé): esse rappresentano se medesime e non hanno uncontenuto semplicemente mutuato da altro, come i concetti. Infatti sudi esse il principio di ragione domina solo come legge di causalità,e determina come tale solo la loro posizione nello spazio e neltempo: ma non fissa il loro contenuto e significato, com'è nel casodei concetti, dove esso ha il valore di ragione di conoscenza.D'altra parte sembra che Kant proprio qui voglia distinguere larappresentazione intuitiva e la rappresentazione astratta; eglirimprovera a Leibniz e Locke, rispettivamente, di avere ridotto tuttoa rappresentazioni astratte o a rappresentazioni intuitive. Tuttavianon giunge ad alcuna distinzione; e se tanto Locke che Leibnizdavvero commisero quegli errori, Kant a sua volta incappò in un terzoerrore che comprende quei due, cioè l'avere mescolato l'intuitivo el'astratto in tale modo, che ne segue un ibrido mostruoso, unassurdo, di cui non è possibile nessuna chiara rappresentazione, cheperciò solo doveva confondere, stordire e mettere in lite idiscepoli.Certamente nel citato capitolo Sulla distinzione di tutti glioggetti in fenomeni e noumeni il pensiero e l'intuizione appaionoseparati piú che in ogni altro luogo, ma il modo di questadistinzione è completamente falso. Si dice infatti (p' 253; V, p'309): «Se da una conoscenza empirica tolgo ogni pensiero (percategorie), non rimane piú alcuna conoscenza di un oggetto; infatticon la semplice intuizione non viene pensato assolutamente nulla; eil fatto che esista in me questa affezione della sensibilità nonimporta in nessun modo una relazione di questa rappresentazione conun oggetto qualsiasi». Questo periodo contiene in certo modo tuttigli errori di Kant in nuce; infatti risulta evidente in esso che egliha concepito il rapporto fra sensazione intuizione e pensierofalsamente e ha identificato perciò l'intuizione, la cui formad'essere è lo spazio e in tutte e tre le sue dimensioni, con lasemplice sensazione soggettiva negli organi sensoriali, e fa sorgerela conoscenza dell'oggetto solo dal pensiero diverso dall'intuizione.Io dico invece: gli oggetti sono in primo luogo oggettidell'intuizione, non del pensiero, e ogni conoscenza di oggetti èoriginariamente ed in se medesima intuizione; questa però non èassolutamente pura sensazione, ma già in essa è attivo l'intelletto.Il pensiero che sopraggiunge solo nell'uomo e non negli animali èpura astrazione dall'intuizione, non offre alcuna conoscenzafondamentalmente nuova, non presenta per la prima volta oggetti chenon esistevano già prima; muta solo invece la forma della conoscenzagià acquisita con l'intuizione, rendendola astratta in concetti, percui va perduta la sua intuibilità e per contro diviene possibilequella sua combinazione che amplia immensamente la sua applicabilità.La materia del nostro pensiero invece non è altro che la nostraintuizione, e non qualcosa che, non contenuta nell'intuizione, vieneaggiunta solo dal pensiero; perciò anche di tutto ciò che si presentaal nostro pensiero si deve poter mostrare la materia nella nostraintuizione; altrimenti esso sarebbe un pensiero vuoto. Per quantoquesta materia venga variamente elaborata e trasformata dal pensiero,tuttavia deve potere essere di nuovo restaurata e il pensiero devepotere essere riportato ad essa, come un pezzo d'oro viene alla fineridotto da tutte le soluzioni, ossidazioni, sublimazioni ecombinazioni e appare di nuovo regolarmente e integro. Ciò non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpotrebbe darsi se il pensiero stesso avesse aggiunto qualche cosaall'oggetto, anzi la cosa principale.L'intero capitolo che segue a questo, sull'anfibolia, è solo unacritica della filosofia leibniziana e come tale è nel complessogiusto, sebbene tutta la sezione sia svolta solo per amore dellasimmetria architettonica, che anche qui dà il filo conduttore. Cosísi introduce una topica trascendentale, per farne emergere l'analogiacon l'Organon aristotelico, e questa consiste nell'affermazione chesi deve riflettere su ogni concetto secondo quattro aspetti, perstabilire a quale potere conoscitivo esso appartenga. Questi quattroaspetti sono però assunti del tutto arbitrariamente e con egualdiritto se ne potrebbero ancora aggiungere altri dieci: il loronumero di quattro corrisponde alle categorie: cosí le dottrine diLeibniz vengono ripartite fra di esse, per quanto si riesce. Anche inun certo modo da questa critica vengono bollati come errori naturalidella ragione quelle che erano solo false astrazioni di Leibniz, cheinvece di imparare dai suoi grandi contemporanei, Spinoza e Locke,preferì ammannire le sue bizzarre trovate. Nel capitolo sulleanfibolie della riflessione infine si dice che potrebbe possibilmentedarsi un modo di intuizione del tutto diverso dal nostro, a cuituttavia le nostre categorie potrebbero ancora essere applicabili;perciò gli oggetti di quella supposta intuizione sarebbero i noumeni,cose che possiamo solo pensare; ma dato che a noi manca l'intuizioneche darebbe significato a quel pensiero, anzi essa risulta del tuttoproblematica, l'oggetto di quel pensiero sarebbe allora anchesoltanto una possibilità del tutto indeterminata. Sopra con i passicitati ho mostrato che Kant, cadendo nella piú grande contraddizionecon se medesimo, presenta le categorie ora come condizioni dellarappresentazione intuitiva, ora come funzioni del puro pensieroastratto. Qui si presentano esclusivamente con l'ultimo significato esembra che egli voglia attribuire loro solo un pensiero discorsivo.Se però questo è realmente quello che intende, egli avrebbe dovutonecessariamente al principio della logica trascendentale, prima dispecificare così diffusamente le diverse funzioni del pensiero,caratterizzare il pensiero stesso, conseguentemente distinguerlodall'intuizione, mostrare quale conoscenza offra la pura intuizione equale nuova conoscenza sopravvenga con il pensiero. Allora si sarebbesaputo di che cosa propriamente si parla, o, piuttosto, egli avrebbeparlato del tutto diversamente, cioè di volta in voltadell'intuizione o del pensiero, invece che come ora avere sempre ache fare con una cosa intermedia fra le due, che è una chimera.Allora non ci sarebbe stata neanche quella grande lacuna fral'estetica trascendentale e la logica trascendentale, quando egli,dopo l'esposizione delle pure forme dell'intuizione, si sbriga delloro contenuto, dell'intera percezione empirica solo dicendo «essa èdata», e non si domanda come si verifichi, se con o senzal'intelletto; e invece con un salto passa al pensiero astratto, eneanche al pensiero in generale, ma immediatamente a certe forme delpensiero, e non dice una parola su che cosa sia il pensiero, su checosa sia il concetto, su quale sia il rapporto dell'astratto e deldiscorsivo al concreto e all'intuitivo, su quale sia la differenzafra la conoscenza dell'uomo e quella dell'animale, e su cosa sia laragione.Proprio quella differenza da Kant trascurata fra conoscenzaastratta e conoscenza intuitiva era però ciò che gli antichi filosofiindicavano con fainömena e nooümena, (7) e la cui opposizione eincommensurabilità diede loro tanto da fare, nei filosofemi deglieleati, nella dottrina platonica delle idee, nella dialettica deimegarici, e piú tardi per gli scolastici, con la polemica tranominalismo e realismo, il cui germe che si sarebbe sviluppato piútardi era già contenuto nella opposta direzione spirituale di Platonee di Aristotele. Kant, però, che in maniera irresponsabile trascuròdel tutto la questione per la cui designazione già erano stateassunte le parole fainömena e nooümena, si impossessò solo delleparole, come se esse non fossero di nessuno, per designare con essele sue cose in sé e i suoi fenomeni.Dopo che ho dovuto rifiutare la teoria delle categorie di Kantproprio cosí come egli stesso ha rifiutato quella di Aristotele,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtvoglio però qui indicare una terza via per il raggiungimento di ciòcui si mirava a mo'di proposta. Quel che entrambi cercavano sotto ilnome di categorie erano certamente i concetti piú generali, sotto iquali si potessero sussumere tutte le cose per quanto diverse eattraverso i quali perciò venisse pensato tutto ciò che si presenta.Perciò appunto Kant le concepí come forme di tutto il pensiero.La grammatica sta alla logica, come il vestito sta al corpo. Nondovevano questi concetti supremi, questo basso fondamentale dellaragione, che è alla base di ogni pensiero speciale, senza la cuiapplicazione non potrebbe darsi alcun pensiero, alla fine consisterenei concetti che a causa della loro generalità sovrabbondante(trascendentalità) non trovano la loro espressione in parole singolema in intere classi di parole, in quanto in ogni parola, qualsiasiessa sia, è già pensato uno di essi? Conformemente a ciò non sidoveva cercare la loro denominazione non nel lessico, ma nellagrammatica? Non dovevano essi in ultima analisi essere quelledistinzioni di concetti, grazie alle quali la parola che le esprime èo un sostantivo, o un aggettivo, un verbo, o un avverbio, un pronome,una preposizione, o altra particella, in breve le partes orationis?Infatti incontestabilmente queste indicano le forme che in primoluogo ogni pensiero assume e nelle quali immediatamente si muove;perciò appunto sono le forme essenziali del linguaggio, gli elementifondamentali di ogni lingua, sicché non possiamo pensare nessunalingua, che almeno non consista di sostantivi, verbi e aggettivi. Aqueste forme fondamentali dovrebbero poi subordinarsi quelle forme dipensiero, che vengono espresse attraverso la loro flessione, cioè ladeclinazione e la coniugazione, per cui è in sostanza inessenzialeche per la loro designazione ci si aiuti con l'articolo o con ilpronome. Vogliamo tuttavia esaminare l'argomento ancora piú dappressoe porci di nuovo la domanda: quali sono le forme del pensiero?1) Il pensiero consiste in tutto e per tutto di giudizi: i giudizisono i fili di tutto il suo tessuto. Infatti senza l'uso di un verboil nostro pensiero non si mette in moto, e tutte le volte che usiamoun verbo, noi giudichiamo.2) Ogni giudizio consiste nella conoscenza del rapporto frasoggetto e predicato, che esso divide o unisce con varie restrizioni.Esso li unisce per la conoscenza della identità effettiva dientrambi, che può avere luogo solo con concetti scambievoli; poi nelconoscere che l'uno è costantemente pensato assieme all'altro,sebbene non viceversa, nella proposizione affermativa generale, finoa riconoscere che l'uno è a volte pensato assieme all'altro, nellaproposizione affermativa particolare. Le proposizioni negativeseguono la via inversa. Conformemente a ciò in ogni giudizio si devetrovare soggetto, predicato e copula, quest'ultima affermativa onegativa; anche se ciascuno di questi non è indicato con una parolapropria, come tuttavia per lo piú lo è. Spesso una sola parola indicapredicato e copula, come: «Caio invecchia»; a volte una sola parolaindica tutti e tre, come concurritur, cioè «gli eserciti vengono allemani». Da ciò ne segue che le forme del pensiero non debbono cercarsidirettamente ed immediatamente nelle parole, e nemmeno nelle partidel discorso; giacché lo stesso giudizio può essere espresso inlingue diverse e anzi persino nella stessa lingua con parole diversee anche con diverse parti del discorso, mentre il pensiero rimane lostesso e di conseguenza anche la sua forma; infatti esso non potrebbeessere lo stesso con una forma diversa del medesimo pensare. Bene puòinvece essere diversa l'immagine verbale per lo stesso pensiero e lastessa forma di esso; essa è infatti solo il rivestimento esterno delpensiero, che è inseparabile dalla sua forma. Cosí la grammaticaspiega solo la veste esterna del pensiero. Le parti del discorso sipossono perciò dedurre dalle forme di pensiero originarie,indipendenti da tutte le lingue: esprimere queste con tutte le loromodificazioni è il loro compito. Esse sono il loro strumento, la loroveste, che dev'essere cosí adattata alla loro costituzione che questasi possa in esse riconoscere.3) Queste forme reali, immutabili, originarie del pensiero sonocerto quelle della tavola logica dei giudizi di Kant, solo che inquesta si trovano, per amore di simmetria e della tavola dellecategorie, finestre cieche, che debbono essere tutte eliminate, ed

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtanche un ordine falso. Diciamo dunque:a) Qualità: affermazione o negazione, cioè unione o separazione deiconcetti: due forme. Essa è legata alla copula.b) Quantità: il concetto del soggetto viene assunto in tutto o inparte: totalità o pluralità. Alla prima appartengono anche i giudiziindividuali; Socrate significa «tutti i Socrati». Quindi solo dueforme. E' legata al soggetto.c) Modalità: ha realmente tre forme. Essa determina la qualità comenecessaria, reale o contingente. E' quindi legata anche alla copula.Queste tre forme del pensiero sorgono dalle leggi logiche dicontraddizione e identità. Ma dal principio di ragione e del terzoescluso sorge lad) Relazione. Essa si presenta solo se si giudica su giudizi giàcompiuti e può consistere solo nell'indicare, o la dipendenza di ungiudizio da un altro (anche nella pluralità di entrambi), che così liunifica, o la esclusione reciproca dei giudizi, che così li dividenella proposizione disgiuntiva. Essa è legata alla copula, che quidivide o unisce i giudizi già compiuti.Le parti del discorso e le forme grammaticali sono modi diespressione delle tre parti costitutive del giudizio, cioè delsoggetto, del predicato e della copula, come anche dei loro possibilirapporti, cioè delle forme del pensiero or ora enumerate, e delle piúprossime determinazioni e modificazioni di queste ultime. Sostantivo,aggettivo, verbo sono perciò elementi fondamentali, essenziali, dellinguaggio in generale; perciò debbono trovarsi in ogni lingua.Invece si può pensare una lingua, in cui l'aggettivo e il verbo sianocostantemente fusi insieme, come talvolta lo sono in tutte. Sipotrebbe dire intanto: per l'espressione del soggetto abbiamo:sostantivo, articolo e pronome; per l'espressione del predicato:aggettivo, avverbio, preposizione; per l'espressione della copula ilverbo, che però con l'eccezione di esse contiene già il predicato. Lagrammatica filosofica deve insegnare il meccanismo esattodell'espressione delle forme del pensiero; come la logica leoperazioni con le forme del pensiero stesse.Annotazione. Come ammonimento nei confronti di una deviazione e achiarimento di quanto ho detto sopra ricordo il libro, S' Stern,Fondazione preliminare della filosofia del linguaggio, 1835, come untentativo totalmente fallito di costruire le categorie a partiredalle forme grammaticali. Egli ha dunque scambiato completamente ilpensiero con l'intuizione e perciò ha voluto dedurre dalle formegrammaticali, invece delle categorie del pensiero, le presuntecategorie dell'intuizione, con ciò ponendo le forme grammaticali indiretto rapporto con l'intuizione. Egli è rimasto immerso nel grandeerrore che il linguaggio si rapporta immediatamente all'intuizione;invece esso si rapporta immediatamente solo al pensiero e quindi aiconcetti astratti e solo mediante questi all'intuizione, con la qualeessi hanno un rapporto, che importa un intero mutamento della forma.Quel che esiste nell'intuizione, quindi anche le relazioni chederivano dal tempo e dallo spazio, diventa certo oggetto del pensieroe dunque debbono darsi anche forme di linguaggio per esprimerlo,tuttavia sempre solo in abstracto, come concetti. Il materiale piúprossimo del pensiero sono solo i concetti e solo ad essi sirapportano le forme della logica, mai direttamente all'intuizione.Questa determina sempre solo la verità materiale, e mai quellaformale, delle proposizioni; quest'ultima come tale procede dalleregole logiche.

Ritorno alla filosofia kantiana e vengo alla dialetticatrascendentale. Kant la apre con la delucidazione della ragione equesta facoltà ha in essa la parte principale, mentre finora erano discena solo sensibilità e intelletto. Ho già citato sopra, fra le suediverse delucidazioni della ragione, anche di quella qui data, percui essa è «la facoltà dei principi». Qui ora si insegna che tutte leconoscenze a priori considerate sinora, che rendono possibili lamatematica pura e la fisica pura, danno solo regole e non principi;infatti esse procedono da intuizioni e forme della conoscenza e nonda puri concetti come si esige perché si abbia un principio.Principio perciò dev'essere una conoscenza per soli concetti e

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txttuttavia sintetica. Questo è però assolutamente impossibile. Da soliconcetti non possono procedere che principi analitici. Se i concettidebbono essere uniti sinteticamente eppure a priori, questa unionedeve necessariamente essere mediata da un terzo elemento, tramite unapura intuizione della possibilità formale dell'esperienza; cosí comei giudizi sintetici a posteriori sono mediati dall'intuizioneempirica; di conseguenza un principio sintetico a priori non può maiprocedere da puri concetti. In generale poi non ci è noto nulla apriori se non il principio di ragione nelle sue diverse forme e nonsono perciò possibili altri giudizi sintetici a priori oltre a quelliche procedono da ciò che dà il contenuto a quel principio.Frattanto Kant vien finalmente fuori con un preteso principio dellafacoltà della ragione che corrisponde ad una sua esigenza, ma anchesolo con quest'uno, da cui poi seguono altre conseguenze. Esso èdunque il principio che Wolf stabilisce e spiega nella suaCosmologia, sect' 1, c' 2, par' 93, e nella sua Ontologia, par' 178.Come sopra, sotto il titolo dell'anfibolia, furono assunti comeerramenti naturali e necessari della ragione pura filosofemileibniziani e come tali furono criticati, lo stesso accade qui con ifilosofemi di Wolf. Kant presenta questo principio della facoltàdella ragione, ancora avvolto in una luce fioca per mancanza dichiarezza, di determinatezza e per frammentarietà (p' 307; V, p' 364e p' 322; V, p' 379): esso però, espresso chiaramente, è il seguente:«Se è dato il condizionato, deve anche essere data la totalità dellesue condizioni, e quindi anche l'incondizionato, con il qualesoltanto quella totalità diventa completa». Ci si può rendere contonel modo piú vivo dell'apparente verità di questo principio, quandoci si rappresentano le condizioni e i condizionati come membri di unacatena pendente, di cui però il termine superiore non è visibile, percui essa potrebbe continuare in infinito; siccome però la catena noncade, ma pende, vi deve essere in alto un anello che sia il primo eche sia attaccato da qualche parte. O piú in breve: la ragionevorrebbe avere un punto di appiglio per la catena causale cheregredisce all'infinito: ciò le sarebbe di grande comodità. Nonvogliamo però esaminare il principio per immagini, ma in se medesimo.Esso è certamente sintetico: infatti dal concetto di condizionato nonsegue nient'altro che il concetto di condizione. Ma esso non haverità a priori e neanche a posteriori: solo con l'inganno raggiungeuna sua apparenza di verità in una maniera sottile che io ora devoscoprire. Immediatamente ed a priori noi possediamo le conoscenze cheesprime il principio di ragione nelle sue quattro forme. Da questeconoscenze immediate sono prese tutte le espressioni astratte delprincipio di ragione e quindi esse sono mediate; ancora di piú poi leproposizioni che ne conseguono. Sopra ho già spiegato come laconoscenza astratta spesso unisce molteplici conoscenze intuitive inuna sola forma o in un solo concetto sì che allora non sono piúdistinguibili; perciò la conoscenza astratta sta all'intuitiva comel'ombra agli oggetti reali, la cui grande varietà viene da essariprodotta in un solo contorno che tutti li comprende. Ora il pretesoprincipio della facoltà della ragione utilizza questa ombra. Perderivare dal principio di ragione l'incondizionato, che ad essoaddirittura contraddice, esso accortamente abbandona la conoscenzaimmediata, intuitiva, del contenuto del principio di ragione nellesue forme particolari, e si serve solo di concetti astratti, che daquella son tratti e solo per essa hanno valore e significato, perintrodurre abusivamente in qualche modo nell'ampio ambito di queiconcetti il suo incondizionato. Il suo procedimento appare nel modopiú chiaro in forma dialettica, per es' così: «Se esiste ilcondizionato, deve essere anche data la sua condizione, e certointeramente, cioè completamente, dunque la totalità delle suecondizioni; per conseguenza se esse costituiscono una serie, la serieintera, per conseguenza, anche il primo inizio di essa, cioèl'incondizionato». Qui è già falso che le condizioni per uncondizionato come tali possano formare una serie. Piuttosto per ognicondizionato la totalità delle sue condizioni è contenuta nella suaragione piú prossima, da cui esso immediatamente procede e che soloperciò è la sua ragion sufficiente. Così ad es' le diversedeterminazioni dello stato che è causa debbono come tali essere tutte

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtriunite prima che si verifichi l'effetto. La serie poi, la catenadelle cause, sorge solo dal nostro attuale considerare a sua voltacome condizionato ciò che era finora condizione, per cui poiimmediatamente l'operazione intera subito ricomincia da capo e ilprincipio di ragione nuovamente si ripresenta con la sua esigenza.Non può però mai darsi per il condizionato una serie propriamentesuccessiva di condizioni, che esisterebbero solo come tali e per ilcondizionato ultimo, finale; si ha sempre solo una serie dicondizionati e condizioni alternantesi; la catena è poi interrotta adogni anello lasciato indietro e l'esigenza del principio di ragionecosì interamente soddisfatta; essa riappare non appena la condizionediventa il condizionato. Dunque il principio di ragion sufficienteesige sempre solo la completezza della condizione prossima, non dellaserie. Ma proprio questo concetto della completezza della condizionelascia indeterminata, se essa debba essere simultanea o successiva;solo se si sceglie l'ultima alternativa, sorge l'esigenza di unaserie completa di condizioni che si seguono l'un l'altra. Solo peruna arbitraria astrazione una serie di cause ed effetti vieneconsiderata una serie di pure cause, che esisterebbero solo perl'ultimo effetto e perciò sarebbero necessarie come sua ragionsufficiente. Ad una considerazione piú precisa ed attenta ediscendendo dalla generalità indeterminata dell'astrazione al singoloreale determinato, si trova invece che l'esigenza di una ragionsufficiente è rivolta solo alla completezza delle determinazionidella causa prossima, e non alla completezza di una serie. L'esigenzadel principio di ragione si estingue pienamente ad ogni ragionsufficiente data. Essa ricomincia però non appena questa ragioneviene considerata a sua volta conseguenza, ma non esige maiimmediatamente una serie di ragioni. Ma se invece di andaredirettamente alla cosa, ci si attiene ai concetti astratti, quelledifferenze scompaiono: allora una catena di cause ed effettialternantesi o di ragioni logiche e conseguenze alternantesi vienfatta passare per una catena di pure cause o ragioni nei confrontidell'ultimo effetto, e la completezza delle condizioni, alle qualisoltanto una ragione diventa sufficiente, appare come la completezzadi quella pretesa serie di pure ragioni, che esisterebbero solo perla conseguenza ultima. Allora si presenta impudentemente il principioastratto della facoltà della ragione con la sua esigenzadell'incondizionato. Ma per riconoscere l'invalidità di quest'ultima,non ci vuole alcuna critica della ragione, per mezzo delle antinomiee della loro soluzione, ma una critica della ragione, intesa nel miosenso, cioè una ricerca sul rapporto della conoscenza astratta conl'intuitiva e immediata, che discenda dalla generalità indeterminatadi quella alla solida determinatezza di questa. Da una tale ricercarisulta allora che l'essenza della ragione non consiste assolutamentenell'esigenza di un incondizionato; infatti non appena procede conpiena consapevolezza di sé, essa stessa deve riconoscere che unincondizionato è addirittura un'assurdità. La ragione, come facoltàconoscitiva, può sempre solo avere a che fare con oggetti; ognioggetto per il soggetto è però necessariamente e irrevocabilmentesottoposto al principio di ragione, tanto a parte ante quanto a partepost. La validità del principio di ragione è talmente inerente allaforma della coscienza, che non ci si può rappresentare nullaobiettivamente, di cui non si debba esigere ulteriormente un perché,e dunque nulla di assolutamente assoluto, che è una pura sciocchezza.Che la propria comodità porti a fermare questo o quello in qualcheluogo e ad assumere un assoluto a piacere non può significare nullacontro quella assoluta certezza a priori, quand'anche si prendaperciò un'aria di superiorità. Di fatto l'intero discorsodell'assoluto, questo tema quasi unico delle filosofie tentate daKant in poi, non è altro che la prova cosmologica incognito. Questacioè, dopo il processo che le ha fatto Kant, dichiarata priva didiritto e messa fuorilegge, non si può piú mostrare nella sua figuravera, e si presenta perciò sotto ogni specie di travestimento, oranobilmente, ammantata nella intuizione intellettuale, o pensieropuro, ora come un vagabondo spregevole, che un poco mendica e un pocoottiene con la forza con modestissimi filosofemi quel che esige. Se isignori vogliono assolutamente avere un assoluto, gliene voglio

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmettere uno a portata di mano, che soddisfa assai meglio tutte leesigenze che sono state poste per esso di tutte le figure nebulose daloro almanaccate: esso è la materia. Essa non è sottoposta al nasceree al perire, cioè è realmente immutabile, quindi realmenteindipendente e quod per se est et per se concipitur; dal suo senoprocede ogni cosa e tutto in esso ritorna: che cosa si può volere dipiú da un assoluto? Ma piuttosto a loro, per cui la Critica dellaragion pura non ha suonato, si dovrebbe gridare:«Seid ihr nicht wie die Weiber, die beständig@ Zurück nur kommenauf ihr erstes Wort,@ Wen man Vernunft gesprochen stundenlang?@» (8)Che il retrocedere a una causa incondizionata, ad un primoprincipio non sia affatto fondato sull'essenza della ragione è delresto provato anche effettivamente dal fatto che le religioni dellanostra razza, che ancora oggi hanno il maggior numero di seguacisulla terra, cioè il brahmanesimo e il buddismo, non conoscono taliassunti, né li concedono, ma introducono la serie dei fenomenicondizionantesi all'infinito. Rimando per ciò alla osservazione chesegue oltre alla critica della prima antinomia; su ciò ancora si puòvedere la Doctrine of Buddhaism di Upham (p' 9) e in generale ancheogni onesto rapporto sulle religioni dell'Asia. Non si puòidentificare il giudaismo con la ragione.Kant che non vuole affermare il suo preteso principio della facoltàdella ragione come oggettivamente valido, ma solo comesoggettivamente necessario, lo deduce come tale solo da un sofismasuperficiale (p' 307; V, p' 364). Dunque, se è vero che noi cerchiamodi sussumere ogni verità che ci è nota sotto una verità piú generale,sinché ci riesce, ciò non deve essere altro che appunto quella cacciaall'incondizionato, che si presuppone. In verità però con un talcercare non facciamo altro che applicare la ragione, cioè quellafacoltà di conoscenza astratta, generale, che distingue l'uomo capacedi riflessione, che parla e che pensa, dall'animale che è schiavo delpresente, e l'applichiamo e usiamo appropriatamente, allo scopo disemplificare la nostra conoscenza con una visione d'insieme. Infattil'uso della ragione consiste proprio nel conoscere il particolare conil generale, il caso con la regola, questa con la regola generale,cioè nel ricercare il punto di vista piú generale: attraverso unatale visione generale la nostra conoscenza viene appunto facilitata eperfezionata al punto che da ciò dipende la grande differenza fra lavita animale e quella umana, e ancora fra la vita dell'uomo colto edi quello rozzo. Ora certamente la serie delle ragioni dellaconoscenza, che è quella che solo esiste nel campo dell'astratto equindi della facoltà della ragione, esige in ogni caso una finenell'indimostrabile, cioè in una rappresentazione, che non èulteriormente condizionata secondo questa forma del principio diragione, dunque nel fondamento immediatamente intuitivo, a priori o aposteriori, della proposizione piú alta della catena di inferenze.Già ho dimostrato nella trattazione Sul principio di ragione che quila serie delle ragioni, della conoscenza passa propriamente in quelladelle ragioni del divenire, o dell'essere. Ora però il volere farevalere questa circostanza, per dimostrare un incondizionato secondola legge della causalità, sia pure come esigenza, è cosa che solo sipuò se non si sono ancora distinte le forme del principio di ragione,e, attenendosi all'espressione astratta, le si confonde tutte. MaKant cerca di fondare questo scambio persino con un puro gioco diparole con Universalitas e Universitas (p' 322; V, p' 379). E' dunquefondamentalmente falso che la nostra ricerca di piú alti principiconoscitivi, di verità generali, sorga sul presupposto di un oggettoincondizionato quanto alla sua esistenza, o che anche solo abbiaqualcosa in comune con esso. Come dovrebbe essere essenziale allaragione presupporre qualcosa, che essa deve riconoscere per unachimera, non appena vi rifletta? Piuttosto l'origine di quel concettodi incondizionato non si può mostrare in altro che nella pigriziadell'individuo, che con ciò si vuole liberare da tutte le ulterioriquestioni proprie e altrui, sebbene senza alcuna giustificazione.A questo preteso principio della facoltà della ragione Kantdisconosce certo ogni validità oggettiva, ma lo dà tuttavia come unapresupposizione necessaria soggettiva e porta così un conflittoinsanabile nella nostra coscienza, che egli presto fa chiaramente

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtemergere. A questo fine egli sviluppa quel principio della facoltàdella ragione ulteriormente, secondo il prediletto metodosimmetricoarchitettonico. Dalle tre categorie della relazioneemergono tre specie di sillogismi, ciascuno dei quali fornisce unfilo conduttore per la ricerca di uno speciale incondizionato, e diquesti perciò di nuovo se ne hanno tre: anima, mondo (come oggetto insé e totalità chiusa), Dio. Qui si deve notare immediatamente unagrande contraddizione, della quale tuttavia Kant non tiene conto,perché sarebbe pericolosissima per la simmetria: due di questiincondizionati sono a loro volta essi stessi condizionati dal terzo,cioè anima e mondo da Dio, che è la loro causa producente; questi nonhanno perciò assolutamente in comune con quello il predicato dellaincondizionatezza, di cui pure qui si tratta, ma solo quello diessere inferiti secondo i principi di esperienza al di là del campodella sua possibilità.Lasciando stare questo, troviamo nei tre incondizionati, ai qualisecondo Kant, ogni ragione, seguendo le sue leggi essenziali devegiungere, i tre oggetti principali, intorno ai quali ha ruotato tuttala filosofia che sta sotto l'influsso del cristianesimo dagliscolastici a Cristiano Wolf. Per quanto quei concetti siano oradivenuti accessibili e correnti per la pura ragione tramite tuttiquesti filosofi, con ciò non è tuttavia assolutamente stabilito cheessi dovevano procedere dallo sviluppo di ogni ragione, come unprodotto proprio dell'essenza di questa, anche senza rivelazione. Perstabilire ciò bisognerebbe ricorrere alla ricerca storica, e indagarese i popoli antichi e i popoli extraeuropei, specialmente gliindostani, e molti dei piú antichi filosofi greci siano pervenutirealmente a quei concetti; o se siamo soltanto noi ad attribuire lorociò troppo bonariamente, come i greci ritrovavano dovunque i lorodei, in quanto traduciamo del tutto falsamente il Brahm degli indú eil Tien dei cinesi con Dio; e se piuttosto il teismo vero e proprionon si debba trovare che nella religione giudaica e nelle due da essaderivate, i cui seguaci proprio perciò raccolgono sotto il nome dipagani gli appartenenti a tutte le altre religioni sulla terra -espressione, sia detto di passaggio, molto semplicistica e rozza, chealmeno dovrebbe essere bandita dagli scritti dei dotti, perchéidentifica e pigia in un sol sacco brahmanici, buddisti, egizi,greci, romani, germani, galli, irochesi, patagoni, caraibi,polinesiani, australiani. Una tale espressione può andare anche beneper parroci, ma nel mondo dei dotti deve essere messa immediatamentealla porta; essa può partire per l'Inghilterra e prendere dimora adOxford. Che specialmente il buddismo, questa religione che al mondo èquella che raccoglie il maggior numero di seguaci, non contengaassolutamente il teismo, anzi lo aborrisca, è cosa perfettamentestabilita. Per quel che riguarda Platone sono dell'opinione che eglidebba gli attacchi di teismo, che periodicamente lo colgono, aigiudei. Perciò Numenio lo ha chiamato (secondo Clem' Alex', Strom',I, c' 22, Euseb', Praep' evang', Xiii, 12) il Moses graecisans: "tïgär esti §plätwn, è §mwsês attikïzwn". Egli gli rinfaccia di avererubato (aposülûsas) le sue dottrine di Dio e della creazione dagliscritti mosaici. Clemente ritorna spesso sul fatto che Platone haconosciuto e utilizzato Mosè, per es', Strom', I, 25, V, c' 14, par'90 e sgg' Paedagog', Ii, 10 e Iii, 11; anche nella Cohortatio adgentes, cap' 6, dopo avere nel precedente capitolo ingiuriato eirriso tutti i filosofi greci alla maniera di un cappuccino, perchéessi non sono stati giudei, loda esclusivamente Platone ed esce ingrida di giubilo per il fatto che egli come ha imparato la suageometria dagli egizi, la sua astronomia dai babilonesi, la sua magiadai traci, e molto anche dagli assiri, cosí ha preso il suo teismodai giudei: "§oïdä sou toùs didaskälous kä'*n apokrüptein eôëlû*s,..., döxan tèn tov ôeov par'aut#n wfëlûsai t#n §ebraïwn" (tuosmagistros novi, licet eos celare velis, ..., illa de Deo sententia,suppeditata tibi est ab Hebraeis). Una toccante scena diriconoscimento. Ma una singolare conferma di ciò la scopro in quelche segue. Secondo Plutarco (in Mario) e meglio secondo Lattanzio (I,3, 19) Platone avrebbe ringraziato la natura di essere nato uomo enon animale, maschio e non femmina, greco e non barbaro. Ora nellepreghiere dei giudei di Isaak Euchel, tradotte dall'ebraico, sec'

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txted', 1799, p' 7, c'è una preghiera del mattino in cui Dio è lodato eringraziato perché colui che ringrazia è nato giudeo e non pagano,libero e non schiavo, maschio e non femmina. Una tale ricerca storicaavrebbe liberato Kant dalla triste necessità, in cui egli cade,facendo sorgere quei tre concetti necessariamente dalla natura dellaragione, e tuttavia mostrando che sono insostenibili e la ragione nonli può fondare, e perciò facendo della ragione un sofista, comeespressamente dice a p' 339, V, p' 397: «Sono sofisticazioni nondell'uomo, ma della ragione, da cui neanche l'uomo piú avveduto puòliberarsi: egli potrà forse con molta fatica prevenire l'errore, manon potrà mai liberarsi dall'apparenza, che incessantemente loincalza e si prende gioco di lui». Perciò si dovrebbero paragonarequeste «idee della ragione» kantiane al fuoco nel quale i raggiriflessi da uno specchio concavo convergendo si incontrano ad alcunipollici dalla superficie, in conseguenza della qual cosa, per uninevitabile processo intellettivo, si presenta in tal punto unoggetto, che è una cosa senza realtà.Molto infelicemente poi per quelle tre pretese produzioninecessarie della pura ragione teoretica è scelto il nome di ideeprendendolo da Platone, che con esso indica le forme eterne, che,moltiplicate nel tempo e nello spazio, divengono imperfettamentevisibili nelle innumerevoli individuali cose periture. Le idee diPlatone sono in tutto e per tutto intuitive, precisamente come ancheindica la parola che egli scelse, che si potrebbe tradurreappropriatamente solo con oggetti chiaramente visibili o intuibili. EKant se ne è appropriato per indicare ciò che è cosí lontano da ognipossibilità dell'intuizione, che persino il pensiero astratto vi puògiungere solo a stento. La parola idea, che Platone per primointrodusse, da allora, per ventidue secoli, ha sempre mantenuto ilsignificato in cui era usata da Platone; infatti non solo i filosofidell'antichità, ma anche gli scolastici e persino i Padri dellaChiesa e i teologi del Medioevo l'usarono solo in quel significatoplatonico, cioè nel senso della parola latina exemplar, come Suarezespressamente dice nella sua venticinquesima disputa, sez' 1. Che piútardi la povertà del loro linguaggio abbia portato inglesi e francesiad abusare della parola, è già un male, ma non di soverchia gravità.L'abuso kantiano della parola idea, con l'introduzione di un nuovosignificato, che è tratto dal filo sottile che esso ha in comune conle idee di Platone, ma anche con tutte le chimere possibili, di nonessere oggetto d'esperienza, non è assolutamente giustificabile.Poiché ora l'abuso di pochi anni non può essere preso inconsiderazione nei confronti di molti secoli, ho usato la parola,sempre, nel suo antico originario significato platonico.

La critica della psicologia razionale nella prima edizione dellaCritica della ragion pura è svolta molto piú ampiamente e a fondo chenella seconda edizione e nelle seguenti; perciò ci si deve quiassolutamente servire di quella. Questa confutazione ha nell'insiemeun merito grandissimo e contiene molto di vero. Tuttavia sonofermamente dell'avviso che Kant solo per amore di simmetria deducacome necessario da quel paralogismo il concetto di anima tramitel'applicazione dell'esigenza dell'incondizionato al concetto disostanza, che è la prima categoria della relazione, e perciò affermiche in questa maniera ogni ragione speculativa acquisisca il concettodi anima. Se questo avesse realmente la sua origine nellapresupposizione di un soggetto ultimo di tutti i predicati di unacosa, allora si sarebbe assunta con egual necessità un'anima non solonell'uomo ma anche in ogni cosa senza vita, poiché anche questa esigeun soggetto ultimo di tutti i suoi predicati. In generale però eglisi serve di un'espressione del tutto inammissibile, quando parla diqualche cosa che possa esistere solo come soggetto e non comepredicato (per es' Critica della ragion pura, p' 323; V, p' 412;Prolegomena, parr' 4 e 47); sebbene già nella Metafisica diAristotele si possa trovare un precedente di ciò (Iv, cap' 8). Comesoggetto e predicato nulla esiste; infatti tali espressioniappartengono esclusivamente alla logica e indicano il rapporto diconcetti astratti fra di loro. Nel mondo intuitivo sono sostanza eaccidenti a costituire il loro correlato e rappresentante. Allora poi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnon abbiamo bisogno di cercare molto lontano ciò che esiste semprecome sostanza e mai come accidente, ché lo abbiamo immediatamentenella materia. Essa è la sostanza di tutte le proprietà delle cose,che come tali sono i suoi accidenti. Essa è realmente, se ci si vuolattenere alla espressione di Kant or ora biasimata, il soggettoultimo di tutti i predicati di ogni cosa empiricamente data, cioèquel che rimane dopo la rimozione di tutte le sue proprietà di ognispecie; e questo vale dell'uomo, come dell'animale, della pianta edella pietra, ed è cosí evidente che per non vederlo ci vuole undeliberato non volere vedere. Che essa sia il prototipo del concettodi sostanza lo mostrerò subito. Soggetto e predicato però stanno asostanza e accidenti come il principio di ragione nella logica staalla legge della causalità nella natura, e come è inammissibile loscambio e l'identificazione di questi ultimi, lo è quello dei primi.Questo scambio e questa identificazione sono però spinti da Kant finoal massimo grado nei Prolegomena, par' 46, per fare sorgere ilconcetto dell'anima da quello del soggetto ultimo di tutti ipredicati e dalla forma del sillogismo categorico. Per scoprire ilcarattere sofistico di questo paragrafo, basta riflettere chesoggetto e predicato sono pure determinazioni logiche, che riguardanounicamente e solo concetti astratti, e secondo il loro rapporto nelgiudizio: sostanza e accidenti invece appartengono al mondo intuitivoe alla sua apprensione nell'intelletto, ma si trovano in esso solocome identici con la materia e la forma o qualità: ma di ciò diròsubito di piú.L'opposizione, che ha portato ad assumere due sostanzefondamentalmente diverse, corpo ed anima, è in verità quella disoggettivo e oggettivo. Se l'uomo si conosce obiettivamentenell'intuizione esterna, egli si ritrova come un essere spazialmenteesteso e in generale in tutto e per tutto corporeo; se invece siconosce nella pura autocoscienza, cioè in maniera puramentesoggettiva, egli si ritrova come un puro essere volente erappresentante, libero dalle forme dell'intuizione, quindi anchesenza alcuna delle proprietà che appartengono al corpo. Ora egliforma il concetto dell'anima, come tutti i concetti trascendenti daKant chiamati idee, in quanto applica il principio di ragione, laforma di tutti gli oggetti, a ciò che non è oggetto, qui al soggettodel conoscere e del volere. Egli considera cioè conoscere, pensare evolere come effetti, dei quali ricerca la causa senza potere assumerea tal fine il corpo e ponendo così una causa di essi del tuttodiversa.In questa maniera, cioè dal pensiero e dal volere come effetti cheportano ad una causa, dimostrano l'esistenza dell'anima il primo el'ultimo dogmatico; cioè già Platone nel Fedro e fino ad ora ancoraWolf. Solo dopo che in questa maniera, tramite l'ipostatizzazione diuna causa corrispondente all'effetto, nacque il concetto di un essereimmateriale, semplice, indistruttibile, la scuola lo sviluppò edimostrò muovendo dal concetto di sostanza. Ma questo stesso essa loaveva già prima formato proprio a questo scopo, con il seguentenotevole procedimento artificioso.Con la prima classe delle rappresentazioni, cioè con il mondointuitivo, reale, è anche data la rappresentazione della materia,perché la legge di causalità che in essa domina determina ilmutamento degli stati, che a loro volta presuppongono un qualcosa chepermane, di cui sono il mutamento. Ho mostrato prima, a proposito delprincipio della permanenza della sostanza, richiamandomi a passiprecedenti, che questa rappresentazione della materia nasce in quantonell'intelletto, per il quale solo essa esiste, vengono intimamenteunificati spazio e tempo mediante la legge di causalità (la sua unicaforma conoscitiva) e la parte che lo spazio ha in questo prodotto simanifesta come il permanere della materia, quella del tempo come ilmutamento dei suoi stati. La materia può essere pensata puramente persé solo in abstracto, e non può essere intuita; infattinell'intuizione appare già con forma e qualità. Di questo concetto dimateria quello di sostanza è a sua volta un'astrazione, quindi unGenus superiore, ed è nato dal fatto che si è lasciato sussistere delconcetto di materia solo il predicato di permanenza, astraendo datutte le restanti proprietà essenziali, estensione, impenetrabilità,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdivisibilità, etc...' Come ogni Genus superiore il concetto disostanza contiene in sé meno che il concetto di materia; ma noncontiene piú di esso sotto di sé, come altrimenti sempre il Genussuperiore, in quanto esso non comprende piú generi inferiori accantoalla materia, ma questa rimane l'unica vera sottospecie del concettodi sostanza, l'unica dimostrabile, attraverso cui il suo contenuto èrealizzato e ottiene una prova. Lo scopo dunque, per cui la ragionedi solito produce con l'astrazione un concetto piú alto, cioè perpensare insieme in esso piú sottospecie diverse per determinazioniaccessorie, qui non si verifica; perciò o quell'astrazione è stataprodotta del tutto senza un fine e oziosamente oppure in essa v'è unaseconda intenzione recondita. Questa ora viene in luce: poiché sottoil concetto di sostanza e accanto alla sua vera sottospecie, lamateria, ne viene posta una seconda, la sostanza immateriale,semplice e indistruttibile, l'anima. L'introduzione sofistica diquesto concetto avviene perché già nella formazione del piú altoconcetto di sostanza si era proceduto contro la legge eillogicamente. Nel suo procedimento secondo la legge la ragione formaun concetto di genere piú alto solo in quanto mette uno accantoall'altro piú concetti di specie e procedendo discorsivamente,paragonando, e, abbandonando le loro differenze e mantenendo le lorocoincidenze, ottiene il concetto di genere, che tutte le comprende,ma contiene di meno; da ciò consegue che i concetti di specie debbonosempre precedere quelli di genere. Nel caso presente accade però ilcontrario. Solo il concetto di materia esisteva prima del concetto digenere sostanza, che venne oziosamente formato da quello senza motivoe quindi senza giustificazione, con l'arbitrario abbandono di tuttele sue determinazioni sino a mantenerne una sola. Solo dopo, accantoal concetto di sostanza venne posta la seconda falsa sottospecie chefu introdotta così surrettiziamente. Alla formazione di questa poinon occorreva altro che la negazione espressa di ciò che già si eratacitamente abbandonato nel piú alto concetto di genere, cioèestensione, impenetrabilità, divisibilità. Così il concetto disostanza venne unicamente formato per servire alla introduzionesurrettizia del concetto della sostanza immateriale. Perciò è benlungi dal potere valere come categoria o funzione necessariadell'intelletto; piuttosto è un concetto del tutto superfluo, perchéil suo unico vero contenuto è già nel concetto di materia, e accantoad esso ha solo ancora un grande vuoto, che non può essere riempitoda niente, se non dalla specie coordinata di sostanza immaterialesurrettiziamente introdotta. Proprio per assumere questa esso fuanche solamente formato. Per questa ragione esso a rigore è darigettare assolutamente e al suo posto deve mettersi ovunque ilconcetto di materia.

Le categorie erano un letto di Procuste per ogni cosa possibile, male tre specie di sillogismi lo sono per le cosiddette idee. L'ideadell'anima fu costretta a trovare la sua origine nel sillogismocategorico. Ora la serie riguarda le rappresentazioni dogmatichecirca la totalità del mondo, in quanto, come oggetto in sé, vienepensato tra due limiti, quello minimo (l'atomo) e quello massimo (ilimiti del mondo nello spazio e nel tempo). Queste debbono oraprocedere dalla forma del sillogismo ipotetico. Ma a ciò non ènecessaria alcuna speciale coazione. Infatti il giudizio ipotetico hala sua forma dal principio di ragione, e dall'applicazionesconsiderata, incondizionata di questo principio e dal successivoarbitrario abbandono di esso sorgono di fatto tutte quelle cosiddetteidee, non soltanto le cosmologiche: cioè cosí, che conforme a quelprincipio, viene sempre solo cercata la dipendenza di un oggettodall'altro, fino a che la stanchezza dell'immaginazione non pone untermine al viaggio: perciò non si vede piú che ogni oggetto, anzi laserie intera di essi e il principio di ragione stanno in unadipendenza molto piú prossima e grande, cioè nella dipendenza dalsoggetto conoscente, per i cui oggetti solamente, lerappresentazioni, quel principio è valido, essendo da essodeterminata solo la loro posizione nello spazio e nel tempo. Poichédunque la forma di conoscenza, dalla quale qui sono derivate solo leidee cosmologiche, cioè il principio di ragione, è l'origine di tutte

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtle ipostasi sofisticheggianti, per ciò questa volta non occorre alcunsofisma; tanto piú però ne occorrono per classificare quelle ideesecondo i quattro titoli delle categorie.1) Le idee cosmologiche nei riguardi dello spazio e del tempo, deilimiti del mondo in entrambi, vengono arditamente consideratedeterminate dalla categoria di quantità, con la quale essemanifestatamente non hanno nulla in comune, se non la denominazionecasuale in logica dell'estensione del concetto del soggetto nelgiudizio con la parola quantità, una espressione figurata, al postodella quale se ne sarebbe potuta scegliere benissimo un'altra. Ma perl'amore kantiano alla simmetria tanto basta, per utilizzare il casofelice di questa denominazione e collegarvi i dogmi trascendentidella estensione del mondo.2) Ancora piú azzardatamente Kant lega alla qualità, cioèall'affermazione o negazione in un giudizio, le idee trascendentisulla materia, per cui non v'è neppure a fondamento una casualesomiglianza di parole; infatti esattamente alla quantità dellamateria e non alla sua qualità si riferisce la sua divisibilitàmeccanica (non chimica). Ma, cosa ancora piú importante, tutta questaidea della divisibilità non appartiene affatto alle conseguenzesecondo il principio di ragione, dal quale, come contenuto dellaforma ipotetica, pure debbono seguire tutte le idee cosmologiche.Infatti l'affermazione, sulla quale Kant qui si fonda, che ilrapporto delle parti al tutto è identico a quello della condizione alcondizionato, cioè un rapporto secondo il principio di ragione, èsofisma molto sottile, tuttavia infondato. Quella affermazione sifonda piuttosto sul principio di contraddizione. Infatti il tutto nonè per le parti, né queste per quello, ma entrambi sononecessariamente insieme, perché sono una sola cosa e la loroseparazione è un fatto arbitrario. Da ciò risulta, sulla base delprincipio di contraddizione, che quando si sopprime con il pensierole parti, si sopprime anche il tutto, e viceversa, in nessun modorisulta invece che le parti come ragione determinano il tutto comeconseguenza e che noi perciò, in base al principio di ragione,saremmo portati necessariamente a cercare le parti ultime, percomprendere da esse, come dalla sua ragione, il tutto. Difficoltàtalmente grandi sono qui superate dall'amore per la simmetria!3) Sotto il titolo della relazione dovrebbe stare ora propriamentel'idea della causa del mondo. Kant però deve conservare questa ideaper il quarto titolo, quello della modalità, per il quale altrimentinon gli rimarrebbe nulla e sotto il quale egli la costringe sullabase che il contingente (cioè secondo la sua spiegazionediametralmente opposta alla verità, ogni conseguenza dalla suaragione) mediante la causa prima diventa necessario. Come terza ideaentra perciò, per simmetria, il concetto di libertà, con il qualeperò propriamente si intende l'idea, qui una volta tanto appropriata,della causa del mondo, come l'annotazione alla tesi del terzoconflitto dice chiaramente. Il terzo e il quarto conflitto sonodunque in fondo tautologici.Oltre a tutto ciò poi io trovo ed affermo che l'intera antinomia èuna pura cosa campata in aria, un conflitto apparente. Solo leaffermazioni delle antitesi riposano veramente sulle forme dellanostra facoltà conoscitiva, cioè se ci si vuol esprimereoggettivamente, sulle leggi di natura piú generali necessarie e certea priori. Solo le loro dimostrazioni sono perciò tratte da ragionioggettive. Invece le affermazioni e le dimostrazioni delle tesi nonhanno alcun fondamento se non soggettivo, riposano solamente sulladebolezza dell'individuo raziocinante, la cui immaginazione si stancadi un regresso infinito e perciò pone una fine ad esso sulla base dipresupposizioni arbitrarie, che cerca di dissimulare come meglio può,e il cui giudizio su questo punto inoltre è paralizzato da pregiudiziimpostigli presto e saldamente. Perciò la dimostrazione per la tesiin tutti e quattro i conflitti è sempre solo un sofisma, mentrequella dell'antitesi è una conseguenza inevitabile delle leggi che cisono note a priori del mondo come rappresentazione. Anche Kant hapotuto tenere in piedi la tesi solo con molta arte e fatica facendolefare attacchi illusori all'avversario dotato di forza originaria. Aquesto proposito il suo primo e comune artificio è che egli non

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtevidenzia il nervus argumentationis per portarlo cosí di fronte agliocchi isolato, nudo e chiaro il piú possibile, come si fa quando si èconsapevoli della verità del proprio principio, ma lo introducecoperto e circondato dalle sue due parti con una quantità diproposizioni superflue e prolisse.Le tesi che qui sono presentate in conflitto ricordano il dïkaios,e l'ädikos lögos, che Socrate nelle Nuvole di Aristofane fa entrarein contrasto. Tuttavia questa somiglianza si estende solo alla formae non al contenuto, come vorrebbero volentieri affermare coloro cheascrivono a queste che sono le piú speculative questioni dellafilosofia teoretica un influsso sulla moralità, e perciò consideranoseriamente la tesi per il dïkaios e l'antitesi per l'ädikos lögos. Ionon mi degnerò di rivolgere la mia attenzione a questi limitati einsensati piccoli spiriti, e facendo onore alla verità e non ad essi,denuncerò come sofismi le dimostrazioni delle singole tesi svolte daKant, mentre quelle delle antitesi sono svolte del tutto giustamente,onestamente e con ragioni oggettive. Presuppongo che in questo esamesi abbia sempre presente la stessa antinomia di Kant.Se si volesse fare valere la dimostrazione della tesi nel primoconflitto, allora essa dimostrerebbe troppo, perché essa sarebbeapplicabile altrettanto bene al tempo stesso quanto al cangiamento inesso e perciò si dimostrerebbe che lo stesso tempo dovrebbe esserecominciato, il che è assurdo. Del resto il sofisma sta in questo:invece della mancanza del cominciamento della serie degli stati, dicui si parlava prima, viene surrettiziamente introdotta di colpo lamancanza di fine (infinità) di essi ed ora viene dimostrato, cosa dicui nessuno dubita, che a questa contraddice logicamente l'esserecompiuta e pertanto ogni presente è la fine del passato. La fine diuna serie senza inizio si può però sempre pensare senza pregiudicarela sua mancanza di cominciamento; come al contrario si può pensareanche l'inizio di una serie senza fine. Contro il giusto argomentodell'antitesi però, che i mutamenti del tempo all'indietropresuppongano semplicemente e necessariamente una serie infinita dimutamenti, non viene avanzato nulla del tutto. La possibilità che laserie causale finisca una volta in una pausa assoluta è pensabile; innessun modo invece la possibilità di un assoluto cominciamento. (9)Rispetto ai limiti spaziali del mondo si dimostra che se esso sideve chiamare un tutto dato, deve necessariamente avere dei limiti;la conseguenza è giusta; solo quel che doveva essere dimostrato erala sua premessa e questa rimane indimostrata. La totalità presupponei limiti e i limiti presuppongono la totalità; ma qui vengonoarbitrariamente presupposti tutti e due insieme. - L'antitesituttavia non offre per questo secondo punto nessuna dimostrazionecosí soddisfacente, come per il primo, perché la legge di causalitàdà determinazioni necessarie solo riguardo al tempo, non allo spazio,e certo ci partecipa la certezza a priori che nessun tempo riempitopuò confinare con un tempo ad esso precedente vuoto e nessunmutamento può essere il primo, non però quella che uno spazioriempito non possa avere accanto a sé alcuno spazio vuoto. Quanto aquest'ultimo non sarebbe possibile alcuna decisione a priori. Contutto ciò la difficoltà di pensare il mondo limitato nello spazio stain ciò, che lo spazio stesso è necessariamente infinito, e perciò inesso un mondo finito limitato, per quanto grande sia, diventa unagrandezza infinitamente piccola; ma in questa sproporzionel'immaginazione trova un ostacolo insormontabile, restandole poi solola scelta di pensare il mondo infinitamente grande o infinitamentepiccolo. Questo l'avevano già capito gli antichi filosofi:"§mûtrödwros, ho kaôûgûtès §epikoürou, fûsìn ätopon eînai en megàlw*pedïw* hëna stäçun gennûôênai, kaì hëna kösmon en t#* apeïrw*"(Metrodorus caput scholae Epicuri, absurdum ait, in magno campospicam unam produci, et unum in infinito mundum) Stob', Ecl', I, c'23. Perciò molti di loro insegnarono (cosa che ne segueimmediatamente), "apeïrous kösmous en t#* apeïrw*" (infinitos mundosin infinito). Questo è anche il senso dell'argomento di Kant per laantitesi; solo egli lo ha deturpato con una prolissa esposizionescolastica. Lo stesso argomento potrebbe essere usato anche contro ilimiti del mondo nel tempo, se non se ne avesse già uno moltomigliore, servendosi come guida del principio di causalità. Inoltre

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtsorge, con l'ammissione di un mondo limitato nello spazio, laquestione destinata a rimanere irrisolta, di quale privilegio maiavrebbe avuto la parte riempita dello spazio di fronte a quellainfinita, rimasta vuota. Giordano Bruno nel quinto dialogo del suolibro De l'infinito, universo e mondi dà un'esposizione dettagliata eassai degna di essere letta degli argomenti pro e contro la finitezzadel mondo. Del resto Kant stesso afferma con serietà e con ragionioggettive l'infinità del mondo nello spazio nella sua Storia naturalee teoria dei cieli, parte Ii, cap' 7. La stessa cosa sostiene ancheAristotele, Phys', Iii, cap' 4: questo capitolo assieme a quelli cheseguono merita davvero di essere letto riguardo a questa antinomia.Nella seconda antinomia la tesi commette subito una grossolanapetitio principii, poiché comincia: «Ogni sostanza composta consta diparti semplici». Dall'essere composto, qui arbitrariamente assunto,essa in seguito dimostra certo con molta facilità le parti semplici.Ma proprio la proposizione «ogni materia è composta», alla quale sigiunge, rimane indimostrata, perché non è nient'altro cheun'assunzione senza fondamento. Difatti al semplice è opposto non ilcomposto, ma l'esteso, l'avente parti, il divisibile. Propriamentequi però viene tacitamente assunto che le parti esistevano prima deltutto e vennero messe insieme, dal che il tutto è sorto: infattiquesto dice la parola «composto». Pure questo può cosí poco essereaffermato, come il contrario. La divisibilità significa solo lapossibilità di scomporre il tutto in parti; niente affatto che essosia composto di parti e cosí sia sorto. La divisibilità afferma solole parti a parte post: l'essere composto le afferma a parte ante.Infatti fra le parti e il tutto non c'è essenzialmente alcun rapportotemporale; piuttosto essi si condizionano reciprocamente e per questosono sempre allo stesso tempo, poiché solo in questo tutte e dueesistono, esiste l'esteso spazialmente. Quel che poi Kant dice nellanota alla tesi: «lo spazio si dovrebbe propriamente dire noncompositum, ma totum, etc...»: questo vale in tutto e per tutto anchedella materia, che è solo lo spazio divenuto percepibile. Invece ladivisibilità infinita della materia, che afferma l'antitesi, segue apriori e incontestabilmente dallo spazio che essa riempie. Questoprincipio non ha nulla che gli sia contro; perciò anche Kant a p' 513(V, p' 541), dove egli parla seriamente e in prima persona e non piúcome portaparola dell'ädikos lögos, lo espone come verità oggettiva;similmente nei Principi metafisici della fisica (p' 108, primaedizione) il principio «la materia è divisibile all'infinito» sta intesta alla dimostrazione del primo teorema della meccanica comeverità stabilita, dopoché fu presentato e venne dimostrato comequarto teorema nella dinamica. Qui però Kant rovina la dimostrazioneper l'antitesi, con la piú grande confusione dell'esposizione e uninutile profluvio di parole, nell'intenzione scaltra che l'evidenzadell'antitesi non ponga troppo in ombra i sofismi della tesi. Gliatomi non sono un pensiero necessario della ragione, ma solo unaipotesi per la spiegazione della diversità del peso specifico deicorpi. Che anche questo poi si possa spiegare altrimenti e persino inmaniera migliore e piú semplice che con l'atomistica, Kant stessol'ha dimostrato nella dinamica dei suoi Principi metafisici dellafisica; e prima di lui anche Priestley, On matter and spirit, sect'1. Anzi già in Aristotele, Phys', Iv, 9, se ne può trovare ilpensiero fondamentale.L'argomento per la terza tesi è un sofisma molto sottile epropriamente il presunto principio della stessa ragion pura, schiettood immutato. Esso vuole dimostrare la finitezza della serie dellecause sottolineando che una causa, per essere sufficiente, devecontenere la somma completa delle condizioni, da cui procede lo statoseguente, l'effetto. A questa completezza delle determinazioni allostesso tempo presenti nello stato che è la causa l'argomento orasostituisce la completezza della serie delle cause, per le quali soloquello stesso stato è divenuto realtà; e siccome completezzapresuppone chiusura e questa poi finitezza, l'argomento conclude auna causa prima, che chiude la serie ed è perciò incondizionata. Mail gioco di prestigio è chiaro. Per comprendere lo stato A come causasufficiente dello stato B, presuppongo che contenga la completezzadelle condizioni a ciò richieste, dal cui incontro lo stato B segue

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnecessariamente. Con ciò è interamente soddisfatta l'esigenza che iopongo ad esso come causa sufficiente ed essa non ha alcunaconnessione immediata con la questione di come lo stato A siadivenuto realtà: piuttosto quest'ultima tocca una considerazione deltutto diversa, in cui si considera lo stato A non piú come causa, maa sua volta come effetto, per cui un altro stato si deve di nuovorapportare ad esso così come esso si rapporta a B. La presupposizionedella finitezza della serie di cause ed effetti, e perciò di un primocominciamento, non appare poi in alcun modo necessaria, tanto pocoquanto l'attualità del momento presente ha per presupposizionenecessaria un cominciamento del tempo stesso; ma essa viene soloaggiunta dalla pigrizia dell'individuo speculante. Che quellapresupposizione sia implicita nell'assunzione di una causa comeragion sufficiente è quindi cosa falsa e frutto di surrezione; comedel resto ho dimostrato ampiamente sopra considerando il principiodella facoltà della ragione che coincide con questa tesi. Per ilchiarimento dell'affermazione di questa falsa tesi Kant non provaimbarazzo, nella sua nota ad essa, a dare come esempio di un inizioincondizionato il suo alzarsi dalla sedia, come se per lui non fossealtrettanto impossibile alzarsi senza un motivo quanto per la sferarotolare senza causa. L'infondatezza del suo richiamo, dettato da unsentimento di debolezza, alla filosofia antica, non è necessario cheio la dimostri con Ocello Lucano, gli eleati, etc..., per non parlaredegli indú. Niente invece si può obiettare alla dimostrazionedell'antitesi, come nel caso della precedente.Il quarto conflitto, come già ho notato, è propriamente tautologicocon il terzo. Anche la dimostrazione della tesi è nell'essenziale dinuovo la stessa che quella precedente. La sua affermazione che ognicondizionato presuppone una serie completa e perciò terminante conl'incondizionato, è una petitio principii, che si deve negarefrancamente. Ogni condizionato non presuppone altro che la suacondizione; che questa a sua volta sia condizionata, porta ad unanuova considerazione, che non è però immediatamente contenuta nellaprima.Non si può negare che l'antinomia possegga una certa speciosità: èpure notevole che nessuna parte della filosofia kantiana sia statacosì poco contraddetta, anzi abbia trovato tanto riconoscimentoquanto questa dottrina così paradossale. Quasi tutti i partiti e ilibri filosofici l'hanno riconosciuta valida, ripetuta, e ancherielaborata, mentre quasi tutte le altre dottrine di Kant sono statecontestate, anzi non sono mancati cervelli distorti, che hannopersino rigettato l'estetica trascendentale. Il plauso unanime cheinvece essa ha ricevuto può infine dipendere dal fatto che certepersone contemplano con intimo piacere il punto dove l'intellettopropriamente deve fermarsi, poiché ha urtato contro qualche cosa, cheinsieme è e non è, ed essi perciò hanno realmente qui di fronte aloro come il sesto gioco del Filadelfia, nel manifesto diLichtenberg. (10)La decisione critica del conflitto cosmologico che segue, se siesamina il suo vero senso, non è quello per cui egli la fa passare,cioè la soluzione del conflitto, con la dichiarazione che le dueparti, procedendo da presupposizioni false, nella prima e secondaantinomia sono entrambe nel torto, nella terza e nella quarta sonoentrambe nella ragione; ma essa è di fatto la conferma delle antitesie un chiarimento di quel che esse affermano.In primo luogo in questa soluzione Kant afferma, manifestamente atorto, che entrambe le parti procedono dalla presupposizione, comepremessa maggiore, che con il condizionato sia data anche la seriecompleta (quindi chiusa) delle condizioni. Ma solo la tesi misequesto principio, il puro principio kantiano della facoltà dellaragione, a fondamento delle sue affermazioni: l'antitesi invece lonegò anzi ovunque espressamente, e affermò il contrario. Inoltre Kantfa ancora carico ad entrambe le parti della presupposizione che ilmondo esiste in sé, ossia indipendentemente dall'essere conosciuto edalle forme della conoscenza; ma anche questa presupposizione è dinuovo fatta solo per la tesi: invece è così poco alla base delleaffermazioni delle antitesi, che è perfino inconciliabile con esse.Infatti al concetto di una serie infinita contraddice appunto che

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtessa sia interamente data, essendo ad essa essenziale l'esisteresempre e solo in relazione al suo continuo scorrere estendendosi; nonindipendentemente da questo. Invece nella presupposizione di limitideterminati è anche quella di un tutto, che esiste stando di per sé eindipendentemente dal compiersi della sua misurazione. Quindi solo latesi fa la falsa presupposizione di una totalità del mondo esistentein sé, cioè che essa sia data prima di ogni conoscenza, alla quale laconoscenza si aggiungerebbe solo dall'esterno. L'antitesi combattegià fin da principio questa presupposizione; infatti la infinitàdella serie, che essa affermava sulla base del principio di ragione,può solo esistere in quanto il regresso viene effettuato, nonindipendentemente da questo. Come cioè l'oggetto in generalepresuppone il soggetto, cosí anche l'oggetto determinato come unacatena infinita di condizioni presuppone necessariamente nel soggettoil modo di conoscenza che gli è corrispondente, cioè il continuoseguire dei membri di quella catena. Ciò è però quello che Kant offrecome soluzione del conflitto e così egli ripete spesso:«l'infinitezza della grandezza del mondo è solo per il regresso, nonprima di esso». Questa soluzione dell'antinomia è quindi solo ladecisione a favore dell'antitesi nella cui affermazione quella veritàè già presente, così come essa è assolutamente inconciliabile con leaffermazioni della tesi. Se l'antitesi avesse affermato che il mondoconsta di serie infinite di cause ed effetti e tuttavia èindipendente dalla rappresentazione e dalla sua serie regressiva,quindi esiste in sé e costituisce perciò un tutto dato, allora nonavrebbe solo contraddetto la tesi, ma anche se medesima: infatti uninfinito non può mai essere interamente dato, né può esistere unaserie infinita se non in quanto essa scorre estendendosiinfinitamente, né essa può costituire un tutto limitato. Solo allatesi spetta dunque il fare quella presupposizione di cui Kant diceche essa avrebbe tratto in errore tutte e due le parti. GiàAristotele insegna che un infinito non può mai essere actu, cioèrealmente e come dato, ma solo potentia. "§ouk ëstin energeïa* eînaitò äpeiron; ...all'adünaton tò enteleçeïa* òn äpeiron" (infinitum nonpotest esse actu; ... sed impossibile, actu esse infinitum). Metaph',K, 10. Inoltre:"kat'enërgeian mcn gàr oudën ëstin äpeiron, dunämei dcepì diaïresin" (nihil enim actu infinitum est, sed potentia tantu,nempe divisione ipsa). De generat' et corrupt', I; 3. - Egli esponeciò ampiamente anche in Phys', Iii, 5 e 6, dove dà in certo modo lasoluzione esattissima di tutte le opposizioni antinomiche. Egliespone, nel suo modo conciso, le antinomie e dice: «occorre unmediatore (diaitêtou)»; dopo di che egli dà la soluzione chel'infinità del mondo non solamente nello spazio, ma anche nel tempo enella divisione, non esiste mai prima del regresso o del progresso,ma solo in essi. Questa verità quindi è già nel concettodell'infinito rettamente inteso. Ci si fraintende allora, quando sipretende di pensare l'infinito, di qualunque specie esso sia, comeobiettivamente presente e già compiuto indipendentemente dalregresso.Anzi se, procedendo all'inverso, si prende come punto di partenzaquel che Kant dà come soluzione del conflitto, allora da ciò seguepropriamente addirittura l'affermazione dell'antitesi. Cioè: se ilmondo non è un tutto incondizionato e non esiste in sé ma solo nellarappresentazione, e le sue serie di cause ed effetti non esistonoprima del regresso delle loro rappresentazioni, ma solo per questoregresso, allora il mondo non può contenere serie determinate efinite, perché la loro determinazione e la loro finitezza debbonoessere indipendenti dalla rappresentazione che viene dopo; piuttostotutte le sue serie debbono essere infinite, cioè non esauribili conalcuna rappresentazione.A p' 506 (V, p' 534), Kant vuole dimostrare dalla falsità dientrambe le parti l'idealità trascendentale del fenomeno e comincia adire: «Se il mondo è un tutto esistente in sé, esso è finito oinfinito». Questo è però falso; un tutto esistente in sé non puòassolutamente essere infinito. Piuttosto quella idealità si puòconcludere dall'infinità delle serie nel mondo nella manieraseguente: se le serie delle cause ed effetti nel mondo sonosenz'altro senza fine, allora il mondo non può essere una totalità

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdata indipendente dalla rappresentazione; infatti una tale totalitàpresuppone sempre limiti determinati, così come invece serie infinitepresuppongono un regresso infinito. Perciò l'infinità presuppostadelle serie deve essere determinata dalla forma della causa edeffetto e questa dal modo di conoscenza del soggetto, cioè il mondocome è conosciuto deve esistere solo nella rappresentazione delsoggetto.Se Kant stesso abbia saputo o meno che la sua decisione critica delconflitto era propriamente una sentenza a favore dell'antitesi nonsaprei deciderlo. Infatti questo dipende da ciò: se quello cheSchelling molto appropriatamente ha chiamato il sistema diaccomodamento di Kant si estenda così ampiamente, oppure se lospirito di Kant qui sia già preso da un accomodamento inconscioall'influsso del suo tempo e del suo ambiente.

La soluzione della terza antinomia, il cui oggetto era l'idea dilibertà, merita una considerazione speciale, in quanto per noi è cosanotevolissima che Kant proprio qui, per l'idea di libertà, si trovicostretto a parlare piú ampiamente della cosa in sé, che finora sipoteva scorgere solo sullo sfondo. Ciò per noi si intende benissimo,dopo che abbiamo riconosciuta la cosa in sé nella volontà. Ingenerale qui sta il punto in cui la filosofia di Kant conduce allamia, o in cui questa deriva da quella come dal suo tronco. Ci siconvincerà di questo, se si leggono con attenzione le pp' 536 e 537(V, pp' 564 e 565) della Critica della ragion pura: con questo passosi paragoni anche l'introduzione alla Critica del giudizio, p' Xviiie Xix della terza edizione, o p' 13 dell'edizione Rosenkranz, dove sidice persino: «il concetto di libertà può rappresentare nel suooggetto una cosa in sé (che è dunque la volontà) ma nonnell'intuizione; invece il concetto di natura può ben rappresentareil suo oggetto nell'intuizione, ma non come cosa in sé». Ma sullasoluzione delle antinomie si legga specialmente il par' 53 deiProlegomeni e si risponda poi sinceramente alla domanda se tuttoquello che vi è detto non appaia come un enigma, di cui la miadottrina dà la chiave. Kant non è giunto a termine del suo pensiero:io ho semplicemente portato a compimento il suo contenuto.Conformemente a ciò io ho esteso a tutti i fenomeni in generale ciòche Kant dice solo del fenomeno umano, che differisce da questi soloper il grado, e cioè che il suo essere in sé è qualcosa diassolutamente libero, ossia una volontà. Come però sia feconda questavisione unita alla dottrina kantiana della idealità dello spazio, deltempo e della causalità, appare bene dalla mia opera.Kant in nessun luogo ha fatto della cosa in sé l'oggetto di unaspeciale discussione o di una chiara deduzione. Ma tutte le volte chene ha bisogno subito la cava fuori dalla conclusione che il fenomeno,cioè il mondo visibile, deve avere un fondamento, una causaintelligibile, che non è fenomeno e non appartiene perciò ad alcunaesperienza possibile. E questo lo fa, dopo che costantemente hasottolineato che le categorie, quindi anche la causalità, avrebberoun uso assolutamente limitato alla esperienza possibile, sarebberopure forme dell'intelletto che servirebbero a compitare i fenomenidel mondo sensibile, al di là dei quali invece non avrebbero alcunsignificato, etc..., e dopo che perciò egli vieta la loroapplicazione alle cose che sono al di là dell'esperienza nel modo piúrigoroso e con la trasgressione di questa legge spiega a ragionetutto il precedente dogmatismo e insieme lo abbatte. L'incredibileinconseguenza, in cui Kant incappò, venne notata prontamente dai suoiprimi avversari e utilizzata per attacchi, ai quali la sua filosofianon poteva opporre alcuna resistenza. Infatti certo noi applichiamoassolutamente a priori e prima di ogni esperienza la legge dellacausalità ai mutamenti che sentiamo nei nostri organi sensoriali; maproprio perciò essa è d'origine soggettiva, come queste stessesensazioni e non porta quindi alla cosa in sé. La verità è che sulpiano della rappresentazione non si può andare oltre allarappresentazione; essa è un tutto chiuso e non ha nei suoi proprimezzi alcun filo, che conduca all'essere da essa toto genere diversodella cosa in sé. Se noi fossimo puramente esseri rappresentanti lavia alla cosa in sé ci sarebbe totalmente preclusa. Solo l'altra

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtparte del nostro proprio essere ci può aprire sull'altro latodell'essere in sé delle cose. Io ho battuto questa via. Laconclusione alla cosa in sé di Kant da lui stesso vietata ricevequalche attenuante da ciò che segue. Egli non pone, come esigerebbela verità, semplicemente l'oggetto come condizionato dal soggetto eviceversa; ma solo la specie e maniera del manifestarsi dell'oggettocome condizionato dalle forme di conoscenza del soggetto, che perciògiungono anche a priori alla coscienza. Quello che poi all'opposto diciò è conosciuto puramente a posteriori, per lui è già effettoimmediato della cosa in sé, che solo passando attraverso quelle formedate a priori diviene fenomeno. In questa prospettiva è in certo modocomprensibile come gli poté sfuggire che già l'essere oggetto ingenerale appartiene alla forma del fenomeno e che esso è condizionatodall'essere soggetto in generale tanto quanto il modo di appariredegli oggetti lo è dalle forme di conoscenza; che quindi, se deveessere ammessa una cosa in sé, essa non può assolutamente essereanche un oggetto, come tuttavia egli presuppone sempre, ma una talcosa in sé dovrebbe stare in un campo toto genere diverso dallarappresentazione (il conoscere e l'essere conosciuto) e perciò menoche mai potrebbe esserci dischiusa secondo le leggi della connessionedegli oggetti fra loro.Con la dimostrazione della cosa in sé è capitato a Kant lo stessoche con la apriorità della legge di causalità; entrambe le dottrinesono giuste, ma la loro dimostrazione è falsa; esse appartengonoquindi alle conclusioni giuste da premesse false. Io le ho mantenuteentrambe, nondimeno le ho fondate in tutt'altra maniera e saldamente.La cosa in sé non l'ho raggiunta e discussa sulla base di leggi chela escludono, poiché appartengono già al suo fenomeno; piuttosto l'hoimmediatamente mostrata là dove immediatamente si trova, nellavolontà, che a ciascuno si rivela immediatamente come l'in sé delfenomeno che è a se stesso.Questa immediata conoscenza della volontà è quella anche da cuiscaturisce nella coscienza umana il concetto di libertà: perché lavolontà come principio creante il mondo, come cosa in sé, è liberadal principio di ragione e perciò da ogni necessità, quindiperfettamente indipendente, libera e anzi onnipotente. Pure ciò vale,secondo verità, solo della volontà in sé, non dei suoi fenomeni, gliindividui, che sono già determinati immutabilmente proprio da essacome suoi fenomeni nel tempo. Nella coscienza comune, non purificatadalla filosofia, la volontà viene immediatamente scambiata con il suofenomeno e viene attribuito a questo ciò che solo a quellaappartiene; e da ciò sorge la illusione della libertà incondizionatadell'individuo. Spinoza dice perciò a ragione che anche la pietrascagliata, se avesse coscienza, crederebbe di volare liberamente.Poiché certo anche l'in sé della pietra è l'unica volontà libera, maessa, come in tutti i suoi fenomeni, anche qui dove appare comepietra, è già totalmente determinata. Nondimeno di tutto ciò si è giàparlato sufficientemente nella parte principale di questo scritto.Kant, disconoscendo e tralasciando questa formazione immediata delconcetto di libertà in ogni coscienza umana, pone ora, a p' 533 (V,p' 561) l'origine di quel concetto in una speculazione molto sottile,per la quale l'incondizionato, a cui la ragione deve sempre da ultimoriuscire, cagiona l'ipostatizzazione del concetto di libertà, e suquesta idea trascendente di libertà si deve primamente fondare ancheil concetto pratico di essa. Nella Critica della ragion pratica, par'6, p' 185 della quarta edizione e p' 235 di quella di Rosenkranz,egli deduce tuttavia quest'ultimo concetto di nuovo in manieradiversa, cosí: l'imperativo categorico lo presuppone; quindiquell'idea speculativa è solo la prima origine del concetto dilibertà in vista di questa presupposizione con cui poi essopropriamente riceve significato e applicazione. Ma non è il caso nédell'una cosa né dell'altra. Infatti l'illusione di una perfettalibertà dell'individuo nelle sue singole azioni è presente nellamaniera piú vivida nella convinzione dell'uomo piú rozzo, che non hamai speculato, e non è dunque fondata su alcuna speculazione, benchéspesso sia stata in essa trasposta. Liberi da questa illusione sonoinvece solo i filosofi, almeno i piú profondi, e parimenti i piúpensosi e illuminati scrittori della Chiesa.

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtIn conseguenza di tutto quanto si è detto l'origine propria delconcetto di libertà non è dunque in nessun modo essenzialmenterisultato di inferenza, né dall'idea speculativa di una causaincondizionata, né dall'essere essa presupposta dall'imperativocategorico: esso invece sorge immediatamente nella coscienza, in cuiognuno riconosce se stesso senz'altro come volontà, cioè come unacosa in sé che in quanto è tale non ha per forma il principio dellaragione, che non dipende da nulla ma da cui tutto dipende; egli perònon distingue allo stesso tempo con la critica filosofica e lariflessione astratta se stesso, come fenomeno di questa volontà giàentrato nel tempo e determinato, da quella stessa volontà di vivere eperciò invece di riconoscere la sua intera esistenza come atto dilibertà, cerca piuttosto quest'ultima nelle sue azioni singole. Perquesto punto rimando al mio scritto premiato sulla libertà delvolere.Se Kant, come qui asserisce e anche in precedenti occasioni fece,avesse solo trovato la cosa in sé e per di piú con la grandeinconseguenza di una inferenza da lui stesso assolutamente vietata,quale strano caso sarebbe allora, che qui dove per la prima volta siavvicina di piú ad essa e la illumina, riconosca in essaimmediatamente la volontà, la volontà libera che si manifesta nelmondo solo tramite i fenomeni temporali! Io assumo perciò realmente,sebbene non possa provarlo, che Kant ogni volta che parlava dellacosa in sé, pensava già sempre oscuramente alla volontà. Una prova diciò la danno le pp' Xxvii e Xxviii nella prefazione alla secondaedizione della Critica della ragion pura, p' 677 dei Supplementinell'edizione Rosenkranz.Del resto è proprio questa soluzione ideata per il preteso terzoconflitto, che dà a Kant l'occasione di enunciare in maniera assaibella i pensieri piú profondi della sua intera filosofia. Cosí intutta la «sesta sezione dell'antinomia della ragion pura»;soprattutto però la discussione dell'opposizione fra carattereempirico e carattere intelligibile, pp' 534-550 (V, pp' 562-578), cheio pongo fra quanto di piú eccellente sia mai stato detto da unessere umano (come spiegazione supplementare di questo passo se nepuò vedere uno ad esso parallelo nella Critica della ragion pratica,pp' 169-179 della quarta edizione, pp' 224-231 dell'edizioneRosenkranz). Con tutto ciò è tanto piú deplorevole che una tal cosanon stia qui al punto giusto, in quanto cioè, in parte non è statatrovata per la via che l'esposizione indica e quindi avrebbe dovutoanche essere dedotta altrimenti da come è avvenuto, in parte nonadempie allo scopo per il quale si trova qui, cioè la soluzione dellapretesa antinomia. Si inferisce dal fenomeno al suo fondamentointelligibile, la cosa in sé, tramite l'uso incoerente che ho giàsufficientemente biasimato della categoria di causalità al di là diogni fenomeno. Come cosa in sé in questo caso viene posta la volontàdell'uomo (che Kant del tutto illecitamente, con una inescusabileviolazione dell'uso linguistico chiama ragione) con il richiamo ad undovere incondizionato, l'imperativo categorico, che viene senz'altropostulato.Invece di tutto ciò il procedimento piú franco e aperto sarebbestato partire immediatamente dalla volontà, esibirla come l'in séimmediatamente riconosciuto del nostro proprio fenomeno, e poi darequell'esposizione del carattere empirico e intelligibile, mostrandocome tutte le azioni, sebbene necessitate da motivi, tuttavia dalloro autore, come dall'osservatore esterno, vengono semplicemente enecessariamente ascritte a lui stesso solamente, come dipendentiunicamente da lui, al quale anche poi a seconda di esse merito ecolpa sono riconosciuti. Questa sola era la via retta alla conoscenzadi ciò che non è fenomeno, che di conseguenza anche non viene trovatosecondo le leggi del fenomeno, ma è ciò che attraverso il fenomeno simanifesta, diventa conoscibile, si oggettiva, la volontà di vivere.Questa stessa poi avrebbe dovuto essere mostrata, puramente secondoanalogia, come la cosa in sé di ogni apparenza. Allora peròcertamente non avrebbe potuto essere detto che nel non vivente, anzipersino nella natura animale non sia da pensarsi una facoltà noncondizionata sensibilmente (p' 546; V, p' 574); con il che nellinguaggio di Kant è detto propriamente che la spiegazione secondo la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtlegge di causalità esaurisce anche l'essere piú intimo di questifenomeni, per cui, con grande incoerenza, la cosa in sé in loro èsoppressa. Per il posto non appropriato, e per la deduzione viziosache l'esposizione della cosa in sé in Kant ha assunto, anche l'interoconcetto di essa è stato falsato. Infatti, trovata mediante laricerca di una causa incondizionata, la volontà, o la cosa in sé, staqui al fenomeno nel rapporto della causa all'effetto. Questo rapportoperò si trova solo all'interno del fenomeno, lo presuppone già e nonpuò connetterlo con ciò che è fuori di esso e da esso toto generediverso.Inoltre il fine propostosi, la soluzione della terza antinomia, nonviene affatto raggiunto con la decisione che entrambe le parti,ognuna in senso diverso, sono nel giusto. Infatti tanto la tesi chel'antitesi non parlano assolutamente della cosa in sé, ma sempre delfenomeno, del mondo oggettivo, del mondo della rappresentazione.Questo e assolutamente niente altro che questo è quello di cui latesi vuol dimostrare con il sofisma indicato che esso contiene causeincondizionate, questo è poi anche quello di cui l'antitesi a ragionenega la stessa cosa. Perciò l'intera esposizione qui data pergiustificare la tesi della libertà trascendentale del volere, inquanto questa è una cosa in sé, per quanto anche eccellente di per sésia, è una "metäbasis eis ällo gënos". Infatti la libertàtrascendentale del volere esposta non è affatto la causalitàincondizionata di una causa, che la tesi afferma, dato che la causadeve essere essenzialmente fenomeno ma qualcosa di diverso che sta aldi là del fenomeno.Quando si parla di causa ed effetto non si deve mai metterviassieme il rapporto della volontà al suo fenomeno (o del carattereintelligibile a quello empirico), come qui accade; infatti talerapporto è assolutamente diverso da quello causale. Frattanto anchequi, in questa soluzione dell'antinomia si dice conformemente averità che il carattere empirico dell'uomo, come quello di ogni altracausa in natura, è determinato immutabilmente, e di conseguenza daesso derivano necessariamente le azioni secondo il grado delleinfluenze esterne; perciò anche, nonostante tutta la libertàtrascendentale (cioè l'indipendenza della volontà in sé dalle leggidella connessione del suo fenomeno), nessun uomo ha facoltà diiniziare da sé una serie di azioni; quest'ultima affermazione èinvece fatta dalla tesi. Cosí anche la libertà non ha causalitàalcuna; infatti libera è solo la volontà, che è al di fuori dellanatura o fenomeno, il quale ultimo è solo la sua obiettivazione, manon sta ad essa in rapporto di causalità: questo rapporto infatti puòessere trovato solo all'interno del fenomeno, e dunque già lopresuppone, e non può comprenderlo e connetterlo a ciò che non èfenomeno. Il mondo stesso si può spiegare solo con la volontà (poichéesso è proprio questa stessa, in quanto appare), non con lacausalità. Ma nel mondo la causalità è l'unico principio dispiegazione e tutto accade unicamente secondo le leggi di natura.Perciò la ragione è del tutto dal lato dell'antitesi che rimane sulterreno di ciò che si parla, che usa il principio di spiegazione chevale per questo ambito, e perciò non ha bisogno di alcuna apologia;invece la tesi deve essere tratta d'impiccio con una apologia, cheprima salta a qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello su cuila questione verteva, e poi assume un principio di spiegazione quiinapplicabile.Il quarto conflitto, come già si è detto, è nel suo senso piúintimo tautologico con il terzo. Nella soluzione di esso Kantsviluppa ancora di piú la insostenibilità della tesi: per la suaverità invece e per il suo preteso coesistere con l'antitesi nonporta alcuna ragione, cosí come viceversa non può opporne alcunaall'antitesi. Egli introduce l'ammissione della tesi addiritturasupplichevolmente, la chiama tuttavia egli stesso (p' 562, V, p' 590)una presupposizione arbitraria, il cui oggetto in sé potrebbe benessere impossibile, e mostra solo uno sforzo del tutto impotente diassicurare ad essa un posticino sicuro in qualche modo di fronteall'energica vigoria dell'antitesi, per non scoprire la nullitàdell'intera pretesa a lui cosí cara dell'antinomia necessaria dellaragione umana.

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Segue il capitolo sull'ideale trascendentale, che ci riporta dicolpo alla rigida scolastica del Medioevo. Sembra di sentire parlareAnselmo di Canterbury in persona. L'ens realissimum, la somma ditutte le realtà, del contenuto di tutte le proposizioni affermative,ci si presenta con la pretesa di essere un pensiero necessario dellaragione! Da parte mia debbo confessare che per la mia ragione un talepensiero è impossibile, che io con le parole che lo designano nonposso pensare nulla di determinato.Del resto non dubito che Kant sia stato costretto a questo stranocapitolo indegno di lui dalla sua mania per la simmetriaarchitettonica. I tre oggetti principali della filosofia scolastica(che, come si è detto, intesa in senso lato si può fare giungere sinoa Kant), l'anima, il mondo e Dio, dovevano essere dedotti dalle trepossibili premesse dei sillogismi; sebbene sia palese che essi sonosorti e possono sorgere solo dall'applicazione incondizionata delprincipio di ragione. Dopo che dunque l'anima fu costretta nelgiudizio categorico e il giudizio ipotetico fu impiegato per ilmondo, per la terza idea non restava che la premessa disgiuntiva.Fortunatamente si trovava un lavoro preparatorio in questa direzione,vale a dire l'ens realissimum degli scolastici, assieme alla provaontologica dell'esistenza di Dio, introdotta in una forma rudimentaleda Anselmo di Canterbury e perfezionata da Kant, probabilmente anchecon qualche reminiscenza di un suo precedente lavoro di giovinezza.Però il sacrificio che Kant porta al suo amore di simmetriaarchitettonica con questo capitolo è enorme. A onta di ogni verità larappresentazione, si deve pure dire, grottesca, di una somma di tuttele realtà possibili diventa un pensiero essenziale e necessario dellaragione. Per la deduzione di esso Kant assume la falsa pretesa che lanostra conoscenza delle cose singole nasca da una limitazione sempremaggiore di concetti generali, conseguentemente anche di uno piúgenerale di tutti che includerebbe in sé ogni realtà. Qui egli è incontraddizione tanto con la sua dottrina quanto con la verità;infatti proprio al contrario la nostra conoscenza, movendo dalsingolo si innalza al generale, e tutti i concetti generali sorgonoper astrazione dalle cose reali singole, conosciute intuitivamente,la quale può essere continuata sino al concetto piú generale ditutti, che comprende tutto sotto di sé, ma quasi nulla in sé. Kant hacioè qui propriamente capovolto il procedimento della nostra facoltàconoscitiva e perciò potrebbe essere incolpato a buona ragione diavere dato occasione al sorgere di una ciarlataneria divenuta celebreai giorni nostri, la quale, invece di riconoscere nei concettipensieri astratti dalle cose, mette al contrario innanzi a tutto iconcetti e vede nelle cose solo concetti concreti, esibendo alpubblico in questo modo il mondo alla rovescia, come una pagliacciatafilosofica, che naturalmente doveva trovare gran plauso.Se noi anche ammettiamo che ogni ragione debba o almeno possagiungere al concetto di Dio, anche senza rivelazione, ciò accadeallora solo seguendo il filo conduttore della causalità; cosa che ètalmente lampante che non ha bisogno di prova. Perciò anche Chr' Wolf(Cosmologia generalis, pref', p' 1) dice: «Sane in theologia naturaliexistentiam Numinis e principiis cosmologicis demonstramus.Contingentia universi et ordinis naturae, una cum impossibilitatecasus, sunt scala, per quam a mundo hoc adspectabili ad Deumascenditur». E prima di lui disse già Leibniz in riferimento allalegge di causalità: «Sans ce grand principe nous ne pourrions jamaisprouver l'existence de Dieu» (Théod', par' 44). Ed egualmente nellasua controversia con Clarke, par' 126: «J'ose dire que sans ce grandprincipe on ne saurait venir à la preuve de l'existence de Dieu».Invece il pensiero svolto in questo capitolo è così lontanodall'essere un pensiero essenziale e necessario, che esso è piuttostoda considerarsi un esempio tipico dei prodotti mostruosi di un'epoca,pervenuta attraverso strane circostanze alle piú bizzarre deviazionie assurdità, come fu appunto quella della scolastica, che è senzapari nella storia del mondo, e non potrà mai piú ritornare. Questascolastica, quando fu cresciuta sino alla sua perfezione, trasse laprova principale dell'esistenza di Dio dal concetto dell'ensrealissimum e usò gli altri concetti solo a fianco di essa,

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtaccessoriamente; questo è però solo un metodo di insegnamento e nondimostra nulla circa l'origine della teologia nello spirito umano.Kant ha qui assunto come procedimento della ragione il procedimentodella scolastica. Se fosse vero che, secondo leggi necessarie dellaragione, l'idea di Dio procedesse dal sillogismo disgiuntivo, con laforma dell'essere realissimo, allora quest'idea si sarebbe trovataanche presso i filosofi dell'antichità; ma di un ens realissimum nonc'è in nessuna parte traccia in nessuno dei filosofi antichi, sebbenealcuni di essi certamente insegnino che c'è un creatore del mondo, masolo come un datore di forme alla materia che esisteindipendentemente da lui, un dûmiourgös, che essi raggiungevanounicamente e solo secondo la legge di causalità. Certo Sesto Empirico(Adv' Math', Ix, par' 88) riporta un'argomentazione di Cleante, chealcuni considerano come prova ontologica. Essa non lo è tuttavia, masi tratta di una semplice inferenza analogica: poiché l'esperienzainsegna che sulla terra un essere è sempre piú eccellente di unaltro, e senza dubbio l'uomo, come quello che è piú eccellente,chiude la serie, ma ha ancora molti difetti, così debbono darsene diancora piú eccellenti e alla fine uno piú eccellente di tutti(krätiston, äriston) e questo sarebbe Dio.

Circa la dettagliata confutazione che poi segue della teologiaspeculativa, debbo solo notare in breve che essa, come in generalel'intera critica delle cosiddette tre idee della ragione, vale a direl'intera dialettica della ragion pura, è certamente il fine e loscopo dell'opera tutta, ma che questa parte polemica non hapropriamente, come la precedente dottrinale, cioè l'estetica el'analitica, un interesse generale, permanente e puramentefilosofico: essa ha piuttosto solo un fine storico e locale, inquanto essa riguarda in modo speciale i momenti principali dellafilosofia dominante in Europa sino a Kant, il completo abbattimentodella quale tramite questa polemica torna propriamente a meritoimmortale di quest'ultimo. Egli ha eliminato dalla filosofia ilteismo, poiché in essa, come scienza e non dottrina di fede, puòtrovare posto solo ciò che è empiricamente dato oppure stabilito conprove valide. Naturalmente si intende qui solo la filosofia reale,seriamente intesa, diretta alla verità e a nient'altro, e non lafilosofia da ridere delle Università, in cui, ora come prima, lateologia speculativa ha la parte maggiore e in cui anche, ora comeprima, l'anima si presenta senza cerimonie, come una personaconosciuta. Poiché questa è la filosofia provvista di stipendi eonorari e persino di titoli di consigliere aulico, che, guardandodalla sua altezza orgogliosamente in basso, non prende atto dipiccole persone come me, per quarant'anni, e si libererebbe anchevolentieri con tutto il cuore del vecchio Kant, con le sue critiche,per fare vivere Leibniz sostenendolo a tutto spiano. Inoltre si devenotare qui che, come Kant fu spinto per sua stessa confessione aformulare la sua dottrina dell'apriorità del concetto di causalitàdalla scepsi di Hume nei confronti di quel concetto, può darsi cheanche la critica di Kant a ogni teologia speculativa abbia trovatostimolo nella critica di Hume di ogni teologia popolare, chequest'ultimo aveva esposto nella sua Natural history of Religion,così degna di essere letta, e nei Dialogues on natural religion, cheanzi Kant abbia voluto in qualche modo integrarla. Infatti il sopracitato scritto di Hume è propriamente una critica alla teologiapopolare, di cui vuole mostrare la miseria, per richiamare invecel'attenzione sulla teologia razionale o speculativa, come quella cheè veramente autentica e rispettabile. Ma Kant scopre l'infondatezzadi quest'ultima e non tocca la teologia popolare che presenta persinoin una forma nobilitata, come una fede fondata sul sentimento morale.Questa fu poi piú tardi stravolta dai filosofastri in percezionedella ragione, coscienza di Dio, intuizione intellettuale delsovrasensibile, della divinità, etc...; mentre Kant avendo abbattutovecchi e venerabili errori e avendo avuto presente il pericolo dellacosa, volle con la teologia morale introdurre intanto un paio dideboli puntelli, affinché la rovina non lo colpisse, e potesseguadagnare tempo per mettersi al sicuro.Per ciò che riguarda l'esecuzione, a confutazione della prova

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtontologica dell'esistenza di Dio non era necessaria nessuna criticadella ragione, ché anche senza la presupposizione dell'estetica edell'analitica si può assai facilmente rendere evidente che quellaprova ontologica non è altro che un gioco sofistico di concetti,senza alcuna forza di persuasione. Già nell'Organo di Aristotele sitrova un capitolo, che è del tutto sufficiente per la confutazionedella prova ontoteologica, come se fosse stato scritto appositamentea questo scopo: è il capitolo settimo del secondo libro degli Analyt'post': fra l'altro vi si dice espressamente: "tò d'einai ouk ousïaoudenï": cioè existentia nunquam ad essentiam rei pertinet.La confutazione della prova cosmologica è una applicazione delladottrina esposta sino a questo punto ad un caso speciale, e non honulla da menzionare contro. La prova fisicoteologica è una puraamplificazione della prova cosmologica che presuppone, e trova anchela sua dettagliata confutazione nella Critica del giudizio. Perquesto rimando il mio lettore alla rubrica Anatomia comparata nel mioscritto Sulla volontà della natura.Come si è detto, con la critica di queste prove, Kant ha a che faresolo con la teologia speculativa e si limita alla scuola. Se egliinvece avesse guardato anche alla vita e alla teologia popolare,allora avrebbe dovuto aggiungere a queste tre prove ancora una quartaprova, che è quella che propriamente ha valore reale per la massa deipiú e che nel linguaggio artificiale di Kant si potrebbe chiamarenella maniera piú appropriata la prova keraunologica; è quella che sifonda sul sentimento di bisogno d'aiuto, impotenza e dipendenzadell'uomo di fronte alle forze di natura, infinitamente superiori,insondabili, e per lo piú minaccianti avversità; al quale siaccompagna la sua disposizione naturale a personificare ogni cosa, einfine anche la speranza di ottenere qualcosa con preghiere, lusinghee forse anche con doni. In ogni impresa umana c'è infatti qualcosache non sta in nostro potere, che sfugge al nostro calcolo: ildesiderio di guadagnarla a sé è l'origine degli dei. Primus in orbeDeos fecit timor è un'antica e vera sentenza di Petronio. Questaprova è stata criticata principalmente daHume, che in tal modo negliscritti sopra citati appare come il precursore di Kant. Quelli chepoi Kant con la sua critica della teologia speculativa ha messo ingrave e permanente imbarazzo sono i professori di filosofia: pagatidai governi cristiani, essi non possono abbandonare il principalearticolo della fede. (11) Come si aggiustano allora i signori? Essiaffermano persino che l'esistenza di Dio si comprende da sé. Davvero!Dopo che il mondo antico, a costo della sua coscienza, ha fattomiracoli per dimostrarla, e il mondo moderno a costo della suaintelligenza, ha sfoderato la prova ontologica, cosmologica efisicoteologica, per i signori essa si comprende da sé. E da questoDio che si comprende da sé essi spiegano poi il mondo: questa è laloro filosofia.Fino a Kant vigeva un dilemma reale fra materialismo e teismo, cioètra l'ammissione che un cieco caso, o un'intelligenza ordinante daldi fuori secondo fini e concetti, avesse prodotto il mondo, nequedabatur tertium. Perciò ateismo e materialismo erano la stessa cosa;perciò il dubbio se si potesse davvero dare un ateo, cioè un uomo cherealmente potesse aspettarsi dal cieco caso l'ordine della natura,soprattutto della natura organica, che è finalisticamente ordinata inmaniera cosí ammirevole: si veda ad es' gli Essays (Sermones fideles)di Bacone, essay 16, onatheism. Nell'opinione della massa del volgo edegli inglesi, che in queste cose ragionano come la massa del volgo(mob), la cosa sta ancora cosí, persino per i loro piú celebriscienziati: si veda solo l'Ostéologie comparée di R' Owen, 1855,préface, pp' 11-12, dove egli si mostra ancor sempre preso nelvecchio dilemma, da una parte Democrito ed Epicuro e dall'altraun'intelligence, nella quale «la connaissance d'un étre tel quel'homme a existé avant que l'homme fit son apparition». Ogni finalitàdeve essere uscita da un'intelligenza: dubitare di ciò non gli ècapitato neppure in sogno. Egli perciò nella lettura di questaprefazione per l'occasione un po' modificata fatta il 5 settembre1833 all'Académie des sciences ha detto con ingenuità infantile: latéléologie ou la théologie scientifique (Comptes rendus, sett',1853); ciò è immediatamente per lui una sola cosa! Se qualche cosa

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtnella natura è conforme ad un fine, essa è opera dell'intenzione,della riflessione, dell'intelligenza. Certo che cosa importa ad uninglese o all'Académie des sciences della Critica del giudizio oanche del mio libro Sulla volontà della natura? Cosí in basso isignori non guardano! Questi illustres confrères disprezzano lametafisica e la philosophie allemande: si attengono alla filosofiadella conocchia. La validità di quella premessa disgiuntiva, di queldilemma fra materialismo e teismo, riposa però sull'ammissione che ilmondo che ci sta di fronte è il mondo reale delle cose in sé, che diconseguenza non si dà altro ordine delle cose, al di fuori di quelloempirico. Dopo che però con Kant il mondo e il suo ordine eranodivenuti puri fenomeni retti da leggi riposanti essenzialmente sulleforme del nostro intelletto, l'essenza e l'esistenza delle cose nondoveva piú essere spiegata ad analogia con i mutamenti da noipercepiti o effettuati nel mondo, né doveva quello che noicomprendiamo come mezzo e fine essere derivato da una taleconoscenza. Kant mentre toglieva con la sua importante distinzione difenomeno e cosa in sé il suo fondamento al teismo, d'altro cantoapriva la via a spiegazioni dell'esistenza assai diverse e piúprofonde.Nel capitolo sugli scopi ultimi della dialettica naturale dellaragione si pretende che le tre idee trascendenti abbiano validitàcome principi regolativi per il progresso della conoscenza naturale.Ma è difficile dire che Kant abbia inteso rigorosamente e seriamentequesta affermazione. Almeno per ogni naturalista è vero il contrario,cioè che quelle presupposizioni frenano e mortificano ogni ricercanaturale. Per provare ciò con un esempio, si rifletta se l'ammissionedi un'anima, come sostanza immateriale, semplice, pensante avrebbefavorito o in sommo grado impedito le verità, che Cabanis ha cosímagnificamente esposte, o le scoperte di Flourens, Marshall Hall oCh' Bell. Anzi Kant stesso dice (Prolegomena, par' 44) che «le ideedella ragione sono contrarie e d'ostacolo alle massime dellaconoscenza razionale della natura».Non è certo uno dei meriti minori di Federico il Grande che sottoil suo regno Kant poté formarsi e pubblicare la Critica della ragionpura. Difficilmente sotto un qualsiasi altro governo un professorestipendiato avrebbe osato qualcosa di simile. Già al successore delgrande re Kant dovette promettere di non scrivere piú.

Dalla critica della parte etica della filosofia kantiana potrei quiconsiderarmi dispensato, in quanto l'ho svolta piú estesamente e piúa fondo, ventidue anni piú tardi della presente, nei Due problemifondamentali dell'etica. Cionondimeno quello che è mantenuto quidella prima edizione, che anche solo per ragioni di completezza nonpoteva essere omesso, può servire da acconcia introduzione a quellacritica posteriore e piú fondamentale, a cui perciò, in generale,rimando il lettore.Conformemente al suo amore per la simmetria architettonica laragione teoretica doveva avere anch'essa un Pendant. L'intellectuspracticus degli scolastici, che a sua volta deriva dal novs praktikösdi Aristotele (De anima, Iii, 10, e Pol', Vii, c' 14: "ho mcn gärpraktikös esti lögos, ho dc ôewrûtikös"), fornisce la parola di cuisi abbisogna. Tuttavia qui si indica con essa qualcosa di totalmentediverso, non come in Aristotele la ragione rivolta alla tecnica; quiinvece la ragion pratica si presenta come la fonte e l'originedell'innegabile significato etico dell'agire umano, come anche diogni virtù, di ogni nobiltà d'animo e di ogni grado raggiungibile disantità. Tutto ciò quindi verrebbe dalla sola ragione e nonrichiederebbe nient'altro che essa. Agire ragionevolmente ed agirevirtuosamente, nobilmente, santamente sarebbero una stessa ed unicacosa; agire egoisticamente, malvagiamente, viziosamente sarebbe soloagire irragionevolmente. Intanto tutti i tempi, tutti i popoli, tuttele lingue hanno sempre ben distinto le due cose e le hannoconsiderate del tutto diverse, come fanno anche ancor oggi tuttiquelli che non sanno nulla del linguaggio della nuova scuola, cioètutti ad eccezione di un piccolo mucchio di dotti tedeschi: tuttiquelli intendono per una vita virtuosa e un comportamento ragionevoledue cose completamente diverse. Il dire che il sublime fondatore

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtdella religione cristiana, la cui condotta ci viene proposta come ilmodello di ogni virtù, sia stato l'uomo più ragionevole, sarebbechiamato un modo di dire del tutto indegno, anzi persino blasfemo, ecosì anche si giudicherebbe, se si dicesse che i suoi precetticontengono solo il migliore insegnamento per una vita davveroragionevole. Inoltre che qualcuno, conformemente a questi precetti,invece di pensare anzitutto a sé e ai suoi bisogni futuri venga inaiuto alla presente maggiore indigenza altrui, senza alcun'altraconsiderazione; che anzi doni ai poveri tutto ciò che ha, e poi,spogliato di tutti i suoi mezzi, continui a predicare ad altri lavirtù che egli esercita; tutto ciò ognuno a buon diritto lo puòtenere in grande considerazione e onore, chi però oserebbe lodarlocome il culmine della ragionevolezza? E infine chi loderebbe comeun'azione sommamente ragionevole il fatto che Arnold von Winkelried,con straordinaria grandezza d'animo, raccolse contro al suo petto lelance nemiche, per procurare alle sue genti vittoria e salvezza?Invece eccoci di fronte un uomo, che fin dalla gioventù, con raraponderatezza, mira a procurarsi i mezzi per una vita tranquilla, peril mantenimento della moglie e dei figli, per farsi un buon nome trala gente, per l'onore e la considerazione esteriore, e non si lasciadeviare dall'eccitamento dei godimenti presenti, o dalla smania diopporsi all'arroganza dei potenti, o dal desiderio di vendicarsi dioffese subite, o dall'attrazione di inutili occupazioni spiritualiestetiche o filosofiche, di viaggi in paesi degni di essere visitati;un uomo dunque che non si lascia deviare da tutto ciò e simili, e maisi lascia indurre a perdere di vista il suo fine, ma con la massimacoerenza lavora ad esso e a nient'altro; ora chi oserebbe negare cheun tale filisteo sia un uomo straordinariamente ragionevole? Anchese, poniamo il caso, si sia permesso di usare alcuni mezzi nonapprovabili, ma non pericolosi? Anzi, ancora di più: se un malvagiocon meditata astuzia, secondo un piano ben calcolato, si procuraricchezze, onori e persino troni e corone, e poi con la perfidia piùsottile inganna gli stati confinanti, li soggioga singolarmente,diventa un grande conquistatore e in ciò non si fa deviare da alcunriguardo per il diritto o l'umanità, ma calpesta e stritola tutto ciòche si oppone al suo piano con coerenza inflessibile, e senza pietàprecipita milioni di persone in sventure di ogni sorta, milionisoffocandone nel sangue e nella morte, e tuttavia ricompensa sempreregalmente quelli che lo seguono e l'aiutano, senza dimenticare mainulla, e così raggiunge il suo fine: chi non vede che un tal uomodovette procedere alla sua opera dotato di grandissima capacità diragione, che come per il progetto dei suoi piani ci volle un potenteintelletto, così per la loro attuazione fu necessaria una perfettapadronanza della ragione, e propriamente della ragion pratica? O sonoforse irragionevoli i precetti che l'accorto e coerente, ponderato elungimirante Machiavelli dà al suo principe? (12)La malvagità sta molto bene assieme alla ragione, anzi solo inquesta unione diviene davvero temibile; al contrario si trovatalvolta anche la forza d'animo unita alla irragionevolezza. Si può aquesto proposito ricordare il caso di Coriolano, che, dopo avere peranni usato tutta la sua forza per vendicarsi dei Romani, quandofinalmente venne il tempo, si fece commuovere dalle suppliche delsenato, tanto da abbandonare la vendetta così a lungo e faticosamentepreparata e anzi, attiratasi con ciò su di sé l'ira dei volsci, morìper quei romani, la cui ingratitudine egli ben conosceva e avevavoluto punire con tanta fatica. Infine, e ciò sia menzionato percompletezza, la ragione può benissimo unirsi con la mancanza disenno: questo è il caso quando si sceglie una massima sciocca, ma lasi persegue con coerenza. Un esempio di questo tipo lo diede laprincipessa Isabella, figlia di Filippo Ii, la quale giurò che,finché Ostenda non fosse stata conquistata, non si sarebbe cambiatala camicia, e tenne la parola, per tre anni. In generale appartengonoa questa specie tutti i voti, la cui origine è sempre mancanza dicapacità di intendere secondo il principio di causalità, ossiamancanza di senno; nondimeno è ragionevole adempierli, quando si siastati di intelletto così limitato da farli.In corrispondenza di quanto abbiamo detto vediamo anche che gliscrittori venuti ancora poco prima di Kant mettono in opposizione la

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtcoscienza, come sede degli impulsi morali, alla ragione. CosìRousseau nel quarto libro dell'émile: «la raison nous trompe, mais laconscience ne trompe jamais»; e un poco più oltre: «il est impossibled'expliquer par les consiquences de notre nature le principe immédiatde la conscience indépendant de la raison même». Ancora oltre: «Messentiments naturels parlaient pour l'interêt commun, ma raisonrapportait tout à moi. On a beau vouloir établir la vertu par laraison seule, quelle solide base peuton lui donner?». Nelle Rêveriesdu promeneur, prom' 4'ème, egli dice: «Dans toutes les questions demorale difficiles je me suis toujours bien trouvé de les résoudre parle dictamen de la conscience plutôt que par les lumières de laraison». Anzi già Aristotele dice espressamente (Eth' magna, I, 5)che le virtù hanno la loro sede nell'"aljgw* morij* tês yuçês" (inparte irrationale animi) e non in "lögon êçonti" (in parterationale). In conformità a ciò Stobeo, parlando dei peripatetici(Ecl', Ii, cap' 7), dice: "§tèn ûôikèn aretèn upolambänousi perìtòälogon mëros gïgnesôai tês yuçês, epeidè dimerê pròs tèn parovsanôewrïan upëôento tèn yuçén, tò mcn logikònëçousan, tö d' älogon. §kaìperì mcn tò logikòn tèn kaloka*gaôïan gïgnesôai, kaì tèn frönûsin,kaì tèn agçïnoian, kaì sofïan, kaì eumäôeian, kaì mnémûn, kaì tàshomoïous; perì dc tò älogon, swfrosünûn, kaì dikaiosünûn, kaìandreïan, kaì tàs ällas tàs ûôikàs kaloumënas aretäs". (Ethicamvirtutem circa partem animae ratione carentem versari putant, cumduplicem, ad hanc diquisitionem, animam ponant, ratione praeditam, etea carentem. In parte vero ratione praedita collocant ingenuitatem,prudentiam, perspicacitatem, sapientiam, docilitatem, memoriam etreliqua, in parte vero ratione destituta temperantiam, iustitiam,fortitudinem, et reliquas virtutes, quas ethicas vocant). E Ciceronespiega molto diffusamente (De nat' Deor', Iii, c' 2631) come laragione sia il mezzo e lo strumento necessario di ogni delitto.Io ho spiegato la ragione come la facoltà dei concetti. Questaclasse ben peculiare di rappresentazioni generali, non intuitive,simbolizzate e fissate solo con le parole, distingue l'uomodall'animale e gli dà il dominio sulla terra. Se l'animale è loschiavo del presente, non conosce altri motivi che quelliimmediatamente sensibili e perciò, quando gli si offrono, ènecessariamente da essi attratto o respinto, come il ferro dalmagnete, per il dono della ragione invece nell'uomo è sorta lacapacità di riflettere. Questa gli permette di dominare facilmentecon lo sguardo, guardando in avanti e indietro, la sua vita e ilcorso del mondo nell'insieme, lo rende indipendente dal presente, gliconsente di operare meditatamente, secondo piani, e concircospezione, nel bene come nel male. Quello che poi egli fa, lo facon piena conoscenza di sé, egli sa esattamente come la sua volontàsi decide, che cosa ogni volta sceglie e quale altra scelta, secondola circostanza, era possibile, e da questa volontà autocosciente egliimpara a conoscere se stesso e si rispecchia nelle sue azioni. Intutti questi suoi rapporti all'agire dell'uomo la ragione devechiamarsi pratica; teoretica essa è solo quando gli oggetti di cuiessa si occupa non hanno alcun rapporto all'agire del soggettopensante, ma hanno essenzialmente un interesse teoretico, del qualepochissimi uomini sono in realtà capaci. Quel che in questo senso sidice ragion pratica viene abbastanza bene indicato dalla parolalatina prudentia, la quale secondo Cicerone (De nat' Deor') è lacontrazione di providentia; mentre ratio quando è usata per unafacoltà spirituale significa per lo più la vera e propria ragionteoretica, per quanto gli antichi non osservassero rigorosamente ladistinzione. In quasi tutti gli uomini la ragione ha un orientamentoquasi esclusivamente pratico; se però esso viene abbandonato, allorail pensiero perde il dominio sull'azione, e perciò si dice: «sciomeliora proboque, deteriora sequor», o, «le matin je fais desprojets, et le soir je fais des sottises»; se l'uomo dunque fa sì cheil suo agire non sia guidato dal suo pensiero, ma dall'impressionedel presente, quasi come l'animale, lo si chiama irragionevole (senzaperciò rimproverargli malvagità morale), sebbene propriamente in luifaccia difetto non la ragione, ma l'applicazione di essa al suoagire, e si possa in certo modo dire che la sua ragione siaprincipalmente teoretica e non pratica. Egli può nondimeno essere un

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtuomo assai buono, come qualcuno, che non può vedere un infelice senzaaiutarlo, anche con sacrificio, mentre lascia impagati i suoi debiti.Un tal carattere irragionevole non è capace di compiere grandidelitti, perché l'agire pianificato, la dissimulazione e lapadronanza di sè sempre necessari per ciò gli sono impossibili. Eglidifficilmente tuttavia anche perverrà ad un alto grado di virtù:infatti, se anche per natura è talmente incline al bene, non possonotuttavia mancargli gli impulsi viziosi e malvagi a cui ogni uomo èsottoposto, ed essi subito diventano azioni, se la ragione,esercitandosi come ragion pratica, non oppone ad essi massimeimmutabili e saldi propositi.Come pratica la ragione si mostra infine assai propriamente neicaratteri davvero ragionevoli, che perciò nella vita comune sonochiamati filosofi pratici, e che si segnalano per una non comuneequanimità nei casi tristi come in quelli lieti, per una disposizionedi spirito uniforme, e per il loro saldo attenersi alle decisioniprese. Infatti il predominio che in loro ha la ragione, cioè laconoscenza più astratta che intuitiva, la visione d'insieme dellavita, per mezzo dei concetti, in generale, nel tutto e in grande, liha resi esperti una volta per tutte dell'inganno dell'impressione delmomento, dell'incostanza di tutte le cose, della brevità della vita,della vanità dei piaceri, dei mutamenti della fortuna, dellemalignità grandi e piccole del caso. Nulla perciò giunge loroinaspettato, e quel che essi sanno in abstracto, non li sorprende enon li sconcerta, quando viene loro incontro nella realtà e nelparticolare, come invece avviene per i caratteri che non sono cosìragionevoli, sui quali il presente, l'intuitivo, il reale esercitatale potere, che i concetti freddi e incolori si ritiranocompletamente sullo sfondo della coscienza ed essi, dimentichi dipropositi e massime, si trovano in preda ad affetti e passioni d'ognigenere. Ho già spiegato, alla fine del primo libro, che secondo ilmio parere l'etica stoica non fu altro che un'introduzione ad unavita propriamente ragionevole in questo senso. Una tal vita è ancheesaltata da Orazio in moltissimi luoghi. In questo senso va ancheinteso il suo Nil admirari, ed egualmente il delfico mûdcn ägan.Tradurre nil admirari con «non ammirare nulla» è falsissimo. Questasentenza di Orazio è rivolta non tanto al teoretico, quanto alpratico e vuol dire propriamente: «Non apprezzare nullaincondizionatamente, non lasciarti attrarre smodatamente da nulla,non credere che il possesso di una qualsiasi cosa possa dare lafelicità; ogni desiderio eccessivo di un oggetto è solo una chimerabeffeggiante, da cui ci si può liberare parimenti ma molto piùfacilmente con la conoscenza rischiarata che con il raggiungimentodel possesso». In questo senso usa admirari anche Cicerone nel Dedivinatione, Ii, 2. Quel che Orazio intende è dunque l'aôambïa el'akatäplûxis, anche l'aôaumasïa, che già Democrito esaltava come ilsommo bene (vedi Clem' Alex', Strom', Ii, 21 e cfr' Strabone, I, pp'98 e 105). Una tale ragionevolezza della condotta non implica alcunriferimento alla virtù o al vizio, ma questo uso pratico dellaragione costituisce l'autentico privilegio che l'uomo ha suglianimali e solo sotto questo profilo ha senso ed è lecito parlare diuna dignità dell'uomo.In tutti i casi esposti e possibili la differenza fra agireragionevole e irragionevole dipende dai motivi, se essi sono concettiastratti o rappresentazioni intuitive. Perciò la spiegazione che ioho dato della ragione concorda esattamente con l'uso linguistico ditutti i tempi e di tutte le genti, che non si considererà certamentecome alcunché di accidentale e di arbitrario, ma piuttosto lo sivedrà come nato dalla consapevolezza che ogni uomo ha delladifferenza delle varie facoltà spirituali, conformemente alla qualeegli parla, anche se ovviamente egli non la eleva alla chiarezza diuna definizione astratta. I nostri antenati non hanno coniato leparole, senza attribuire loro un senso ben determinato, perché se nestessero pronte per i filosofi, che vengono dopo secoli e vorrebberodeterminare cosa con esse pensare, ma esse indicano concetti deltutto definiti. Le parole quindi non sono senza padrone, edattribuire loro un senso diverso da quello che hanno avuto sinora,significa abusarne, significa introdurre la licenza, per cui ognuno

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpuò usare ogni parola nel senso che gli pare, dal che non potrebbederivare altro che confusione infinita. Già Locke ha ampiamentemostrato che la maggior parte delle discordie in filosofia dipendonoda un falso uso delle parole. Se ci si vuole chiarire la cosa, sigetti uno sguardo sullo scandaloso abuso, che ai nostri giornifilosofastri poveri di pensieri promuovono delle parole sostanza,coscienza, verità e altre. Anche le espressioni e le spiegazioni ditutti i filosofi di tutti i tempi, con l'eccezione dei più recenti,sulla ragione, concordano, come i concetti dominanti fra tutti ipopoli circa quel privilegio dell'uomo, con la mia interpretazione diessa. Si veda ciò che Platone nel quarto libro della Repubblica e ininnumerevoli passi sparsi chiama il lögimon o logistikòn tês yuçês,ciò che dice Cicerone, De nat' Deor', Iii, 26-31, ciò che diconoLeibniz e Locke nei passi a questo proposito citati nel primo libro.Non si metterebbe mai fine alle citazioni, se si volesse mostrarecome tutti i filosofi prima di Kant nell'insieme hanno parlato dellaragione nel mio senso, anche se essi non seppero chiarirne subitol'essenza con perfetta determinatezza e evidenza, riportandola ad ununico punto. Quel che si intendeva per ragione prima di Kant lomostrano nell'insieme due dissertazioni di Sulzer, nel primo volumedei suoi scritti filosofici vari: l'una Analisi del concetto diragione, l'altra Sull'influsso reciproco di ragione e linguaggio. Seinvece si legge come si è parlato della ragione in tempi più recenti,sotto l'influenza dell'errore kantiano, che intanto si è ingranditocome una valanga, si è costretti ad ammettere che tutti i sapientidell'antichità, come anche tutti i filosofi prima di Kant, nonabbiano avuto affatto una ragione; infatti le percezioni, intuizioni,apprensioni, i presentimenti della ragione sono rimasti a loro cosìestranei, come è per noi il sesto senso dei pipistrelli. Del restodebbo confessare per quel che mi riguarda, che quella ragione chepercepisce immediatamente, o ha un'apprensione immediata, o intuisceintellettualmente il soprasensibile, assieme alle lunghe storie chevanno con lei, nella mia limitatezza non posso rendermelacomprensibile e rappresentabile se non come il sesto senso deipipistrelli. Si deve pur dire però in lode della invenzione oscoperta di una tale ragione che percepisce immediatamente tuttoquello che si vuole, che essa è un expédient unico, per trarred'affare sé e le proprie idee fisse favorite nel modo più semplicedel mondo, nonostante tutti i Kant e le loro critiche della ragione.L'invenzione e l'accoglienza che ha trovato fanno onore al secolo.Se dunque ciò che è essenziale alla ragione ("tò lögimon, hûfronésis", ratio, raison, reason) è stato nell'insieme e in generalerettamente conosciuto da tutti i filosofi di tutti i tempi, sebbenenon determinato in maniera sufficientemente rigorosa, né ricondottoad un solo punto, invece non è divenuto per loro altrettanto chiaroche cosa sia l'intelletto ("novs, diänoia", intellectus, esprit,intellect, understanding); perciò spesso lo mischiano con la ragionee proprio per questo motivo del resto non giungono ad una spiegazionedi quest'ultima che sia perfettamente compiuta pura e semplice. Per ifilosofi cristiani il concetto di ragione assunse poi un significatoaccessorio del tutto diverso per il contrasto con la rivelazione, epartendo da qui molti affermano, giustamente, che la conoscenzadell'obbligazione della virtù è possibile anche con la sola ragione,cioè anche senza rivelazione. Questa considerazione ha persinoinfluito sulla esposizione kantiana e sul suo uso della parola. Soloche quel contrasto ha un significato propriamente storico, positivo,e risulta perciò un elemento estraneo alla filosofia, da cui essadeve essere tenuta libera.Ci si sarebbe potuto aspettare che Kant, nelle sue critiche dellaragion teoretica e pratica fosse partito da una definizionedell'essenza della ragione in generale, e dopo averne così definitoil genus, fosse passato alla spiegazione di entrambe le species,provando come un'unica e identica ragione si manifesti in due modicosì diversi, e nondimeno, conservando il suo carattere generale, siriveli essere la stessa. Ma di tutto ciò non si trova nulla. Già hodimostrato come insufficienti oscillanti e disarmoniche siano lespiegazioni, che nella Critica della ragion pura occasionalmente eglidà qua e là della facoltà che egli critica. La ragion pratica è già

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtpresente, senza avviso, nella Critica della ragion pura, e nellacritica ad essa propriamente dedicata se ne sta poi come cosa ormaistabilita fuor di dubbio, senza che ne sia dato ulteriormente conto,e senza che l'uso linguistico di tutti i tempi e i popoli, quiassolutamente non rispettato, o le definizioni del concetto dei piùgrandi filosofi precedenti, possano fare sentire la loro voce.Nell'insieme si può ricavare dai singoli passi che l'opinione di Kantsia questa: la conoscenza di principi a priori è carattere essenzialedella ragione: ora poiché la conoscenza del significato eticodell'agire non ha origine empirica, anch'essa è un principio a priorie deriva perciò dalla ragione, che dunque in questo senso è pratica.Sulla scorrettezza di questa spiegazione della ragione ho già parlatosufficientemente. Ma anche prescindendo da ciò, com'è superficiale eleggero usare qui l'unica nota dell'indipendenza dall'esperienza perunire le cose più eterogenee, senza così tenere conto della lorodifferenza che resta fondamentale ed enorme. Infatti anche ammesso,per quanto non concesso, che la conoscenza del significato eticodell'agire sorga da un imperativo che è presente in noi stessi, da undovere [Soll] incondizionato, quanto diverso sarebbe esso tuttavia daquelle forme di conoscenza, che egli nella Critica della ragion puradimostra che ci sono note a priori, grazie alle quali noi possiamoesprimere in anticipo una necessità [Muss] incondizionata, valida perogni oggetto dell'esperienza. La differenza fra questa necessità,questa forma necessaria di tutti gli oggetti che è già determinatanel soggetto, e quel dovere della moralità è così grande e saltatalmente agli occhi, che il loro trovarsi insieme sotto il segnodella specie di conoscenza non empirica può farsi valere tutt'al piùcome fondamento per un paragone arguto, ma non per unagiustificazione filosofica dell'identificazione dell'origine dientrambi.Del resto il luogo di nascita di questo figlio della ragionpratica, il dovere assoluto, o imperativo categorico, non è nellaCritica della ragion pratica, ma già in quella della ragion pura, p'802 (V, p' 830). La nascita è forzata ed avviene solo con il forcipedi un perciò, che sfacciatamente e astutamente, anzi si potrebbe diresvergognatamente, si introduce fra proposizioni che sono fra di lorodel tutto estranee e senza connessione per unirle come ragione econseguenza. Che dunque non solo motivi intuitivi, ma anche motiviastratti ci determinano, è la proposizione da cui Kant parte,esprimendola nel modo seguente: «Non solo ciò che stimola, cioèagisce sui sensi, determina l'arbitrio umano, ma abbiamo il potere disuperare le impressioni sulla nostra facoltà di desiderare sensibile,con rappresentazioni di ciò che è utile o dannoso anche a distanza.Queste riflessioni su ciò che è desiderabile, cioè buono ed utile, inrelazione alla nostra situazione intera, riposano sulla ragione».(Perfettamente giusto! Se solo egli parlasse sempre cosìragionevolmente della ragione!). «Questa, perciò si fornisce ancheleggi che sono imperativi, cioè leggi oggettive della libertà cheesprimono quel che deve accadere anche se non accade». Così senzaulteriore convalidazione l'imperativo categorico viene al mondo, peresercitare il dominio con il suo dovere incondizionato, uno scettrodi ferro di legno. Poiché nel concetto di dovere è presenteimmediatamente e essenzialmente la considerazione di una penaminacciata o di una ricompensa promessa come sua condizionenecessaria, che da esso non si può separare senza abolirlo etogliergli ogni significato, il concetto di un dovere incondizionatoè una contradictio in adjecto. Questo errore doveva essere biasimato,per quanto sia strettamente apparentato al grande merito di Kant perl'etica, che consiste appunto nell'avere egli liberato l'etica datutti i principi del mondo d'esperienza e cioè da ogni diretta oindiretta dottrina della felicità, e nell'avere mostrato in veritàche il regno della virtù non è di questo mondo. Questo merito è tantopiù grande, in quanto tutti i filosofi antichi, con l'eccezione diPlatone, cioè i peripatetici, gli stoici, gli epicurei, con sofismidiversi ora fanno dipendere l'una dall'altra virtù e felicità secondoil principio di ragione, ora le identificano secondo il principio dicontraddizione. Lo stesso rimprovero colpisce nondimeno tutti ifilosofi moderni sino a Kant. Il suo merito è perciò su questo punto

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtgrandissimo; tuttavia giustizia esige che anche qui si ricordi che inparte l'esposizione e l'elaborazione della sua etica noncorrispondono alla sua tendenza e al suo spirito, come vedremoimmediatamente, ed in parte anche che egli non fu però il primo apurificare la virtù da tutti i principi della felicità. Infatti giàPlatone, specialmente nella Repubblica, la cui tendenza principale èproprio questa, insegna espressamente che la virtù sia da scegliersisolo per se stessa, anche se ad essa fossero immancabilmente legatesventura e vergogna. Ancora di più il Cristianesimo predica una virtùperfettamente disinteressata, che venga esercitata non per unaricompensa in una vita dopo la morte, ma del tuttodisinteressatamente, per amore di Dio, in quanto non le operegiustificano, ma solo la fede, alla quale la virtù si accompagnaall'incirca come un puro sintomo, e perciò si produce gratuitamente eda se stessa. Si legga Lutero, De libertate Christiana. Non vogliometter sul conto gli indiani, nel sacri libri dei quali ovunque lasperanza di una ricompensa per le proprie opere viene dipinta come lavia della tenebra, che mai può portare alla beatitudine. La dottrinadella virtù di Kant tuttavia non la troviamo così pura; o piuttostol'esposizione è rimasta di gran lunga indietro rispetto allo spirito,anzi essa è caduta in incoerenze. Nella sua dottrina del sommo beneesposta in seguito troviamo la virtù sposata alla felicità. Ildovere, originariamente così incondizionato, si postula più tardi unacondizione, proprio per liberarsi dalla contraddizione interna,gravato dalla quale non può vivere. La felicità nel sommo bene nondeve certo essere il motivo della virtù: essa però esiste come unoggetto segreto, la cui assenza farebbe di tutto il resto solo unaconvenzione senza sostanza; essa non è la ricompensa della virtù, maun dono spontaneo, per il quale la virtù tiene segretamente aperta lamano. Ci si può convincere di ciò leggendo la Critica della ragionpratica (pp' 233-266 della quinta edizione; pp' 264-295 dell'edizioneRosenkranz). La stessa tendenza si ritrova anche in tutta la suateologia morale; con questa perciò propriamente la morale annulla sestessa. Infatti, lo ripeto, ogni virtù che viene esercitata in vistadi una qualche ricompensa, riposa su un prudente, metodico,lungimirante egoismo.Il contenuto del dovere assoluto, la legge fondamentale dellaragion pratica è ora il celebre: «Agisci in modo che la massima dellatua volontà possa sempre anche valere come principio di unalegislazione universale». Questo principio pone il compito a coluiche cerca un regolamento per la propria volontà, di cercarne uno perla volontà di tutti. Poi ci si domanda come esso possa trovarsi. E'chiaro che per trovare la regola del mio comportamento, io non devosolo avere riguardo a me stesso, ma alla totalità degli individui.Allora invece del mio proprio benessere il mio fine sarà il benesseredi tutti, senza distinzione. Esso rimarrà però ancora semprebenessere. Io trovo allora che tutti potrebbero stare egualmentebene, se ognuno ponesse come limite al proprio egoismo quello altrui.Da ciò ne segue che non debbo danneggiare nessuno, perché, essendoassunto questo principio come universale, anch'io non siadanneggiato; questo è così l'unica ragione per cui io, non possedendoancora un principio morale, ma solo cercandolo, posso desiderarlocome una legge generale. Ma è evidente che in questa maniera ildesiderio di benessere, ossia l'egoismo, è la fonte del principioetico. Come base della scienza politica esso sarebbe eccellente, macome base dell'etica non vale nulla. Infatti per la determinazione diun regolamento per la volontà di tutti, richiesta da quel principiomorale, colui che lo cerca ha bisogno necessariamente a sua volta diun regolamento, altrimenti tutto gli sarebbe indifferente. Questoregolamento può però essere solo il proprio egoismo, perché solo sudi esso influisce la condotta degli altri, e perciò solo per suomezzo ed in rapporto ad esso, costui può avere una volontà neiconfronti dell'agire degli altri, il quale così non gli èindifferente. Molto ingenuamente Kant lascia trasparire ciò a p' 123della Critica della ragion pratica (edizione Rosenkranz, p' 192),dove così presenta la ricerca della massima per la volontà: «Seciascuno considerasse le necessità di ogni altro con totaleindifferenza, e tu appartenessi ad un tal ordine di cose, vi

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtconsentiresti?». Quam temere in nosmet legem sancimus iniquam!sarebbe il regolamento del consentimento richiesto. Allo stesso modonella Fondazione della metafisica dei costumi, p' 56 della terzaedizione, p' 50 dell'edizione Rosenkranz: «Una volontà che decidessedi non assistere nessuno nella necessità, si contraddirebbe, perchéle potrebbero capitare dei casi, in cui essa ha bisogno dell'amore edella partecipazione degli altri», etc...' Questo principiodell'etica, che ben considerato non è dunque che un'espressioneindiretta e velata dell'antico e semplice principio, quod tibi fierinon vis, alteri ne feceris, si riferisce primamente e immediatamenteal passivo, al subire, e solo per mezzo di questo all'agire; perciòesso, come ho già detto, sarebbe utilissimo come guida per laistituzione dello Stato, che è diretto ad impedire che si subiscaingiustizia e anche a procurare a tutti e a ciascuno la maggioresomma di benessere; ma nell'etica, dove l'oggetto della ricerca èl'agire come agire, e nel suo immediato significato per il soggettoagente, e non la sua conseguenza, il subire, o il suo riferimentoagli altri, l'attenzione a tutto ciò non è assolutamente lecita, inquanto essa si rifà di nuovo in fondo a un principio di felicità, edunque all'egoismo.Non possiamo perciò neanche condividere la gioia che Kant provaperché il suo principio dell'etica non è materiale, cioè tale daporre un oggetto come motivo, ma solamente formale, per cuicorrisponde simmetricamente alle leggi formali che la Critica dellaragion pura ci ha insegnato a conoscere. Esso è senza dubbio più laformula per trovare una legge che una legge; ma da una parte abbiamoquesta formula espressa più brevemente e chiaramente nel quod tibifieri non vis, alteri ne feceris; dall'altra l'analisi di questaformula mostra che solo e unicamente il rimando alla propria felicitàle dà un contenuto, perciò essa può servire solo all'egoismorischiarato dalla ragione, a cui deve la sua origine ognicostituzione legale.Un altro errore che, poiché urta il sentimento di ognuno, è spessobiasimato, ed anche è stato messo alla berlina da Schiller in unepigramma, è la norma pedantesca che un'azione per essere veramentebuona e meritevole debba essere compiuta unicamente e solo perrispetto alla legge riconosciuta e al concetto di dovere, e secondouna massima conosciuta dalla ragione in abstracto, e non invece peruna qualche inclinazione, non per benevolenza sentita verso altri,non per partecipazione tenera, compassione o per impulso del cuore,cose che (secondo la Critica della ragion pratica, p' 213; edizioneRosenkranz, p' 257) per le persone benpensanti, in quanto turbano leloro massime ben meditate, sono persino assai fastidiose; l'azioneinvece deve accadere controvoglia e in seguito ad autocostrizione. Siricordi poi che su di essa non deve influire la speranza del compensoe si misuri la grande insensatezza di ciò che si esige. Ma, ciò chevuol dire ancora di più, questo è contrario addirittura allo spiritoautentico della virtù; non l'azione, ma il farla volentieri, l'amoreda cui essa procede e senza di cui è opera morta, costituisce ciò chein essa v'è di meritevole. Perciò anche il Cristianesimo insegna aragione che tutte le opere esteriori sono prive di valore, se nonscaturiscono da quella retta intenzione, che consiste nella genuinavolonterosità e nel puro amore, e che non le opere effettuate (operaoperata), ma la fede, l'intenzione retta, che è conferita dallospirito santo solamente e non può mai essere prodotta dalla volontàlibera e calcolata che ha solo la legge di fronte agli occhi, rendebeati e redime. Dire secondo l'esigenza di Kant che ogni azionevirtuosa debba procedere dal puro e ponderato rispetto per la legge ele sue massime astratte, freddamente e senza, anzi contro ogniinclinazione, sarebbe come dire che ogni opera d'arte genuinadovrebbe sorgere per l'applicazione ben meditata di regole estetiche.L'una cosa è altrettanto insensata quanto l'altra. Alla questione,già dibattuta da Platone e Seneca, se la virtù possa essereinsegnata, si deve rispondere negativamente. Ci si dovrà deciderealla fine a riconoscere, cosa che diede anche origine alla dottrinacristiana della predestinazione per grazia, che nella sua sostanza enel suo significato più intimo la virtù è in certo qual modo innatacome il genio, e che tanto poco quanto tutti i professori di

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtestetica, con le loro forze riunite, potrebbero mai procurare aqualcuno la capacità di produzioni geniali, cioè di autentiche opered'arte, altrettanto poco tutti i professori di etica e i predicatoridi virtù potrebbero trasformare un carattere ignobile in un caratterenobile e virtuoso, l'impossibilità di una tal cosa essendo molto piùevidente di quella della trasformazione del piombo in oro; che laricerca poi di un'etica e di un principio superiore di essa, cheabbiano influsso pratico e migliorino e cangino realmente il genereumano, è del tutto simile alla ricerca della pietra filosofale.Nondimeno della possibilità di un completo mutamento d'intenzionedell'uomo (rinascita) non per mezzo della conoscenza astratta (etica)ma per mezzo di quella intuitiva (azione della grazia) ho parlatolungamente alla fine del quarto libro; il contenuto di questo libroin generale mi solleva dalla necessità di fermarmi più a lungo suquesto punto.Che Kant non abbia affatto penetrato il significato del contenutoetico delle azioni lo dimostra infine anche la sua dottrina del sommobene, come unione necessaria di virtù e felicità, tale che quella siala dignità per questa. Già cade preda qui del difetto logico, che ilconcetto di dignità che qui costituisce il criterio di misura,presuppone un'etica come sua misura, quindi non si poteva iniziare daesso. Nel nostro quarto libro siamo giunti al risultato che ogni veravirtù, dopo che essa ha raggiunto il suo grado più alto, conduce allafine ad una completa negazione, in cui ogni volontà trova una fine;invece la felicità è una volontà soddisfatta: le due quindi sonofondamentalmente inconciliabili. Chi ha ricevuto i lumi della miaesposizione non può avere bisogno di alcuna discussione sullainsensatezza completa di questa concezione kantiana del sommo bene. Eindipendentemente dalla mia esposizione positiva non ho qui da darneuna ulteriore negativa.L'amore kantiano per la simmetria architettonica lo incontriamoanche nella Critica della ragion pratica, in quanto l'ha divisa intutto e per tutto come la Critica della ragion pura ed ha nuovamenteintrodotto gli stessi titoli e le stesse forme, con evidentearbitrio, che si fa particolarmente palese a proposito della tavoladelle categorie della libertà.

La Dottrina del diritto è una delle opere più tarde di Kant ed ècosì debole che, sebbene io la disapprovi completamente, ritengosuperflua una polemica contro di essa, poiché essa deve morire dimorte naturale per la sua propria debolezza, come se fosse nonl'opera di questo grande uomo ma il prodotto di un comune mortale.Dunque rinuncio per la dottrina del diritto al procedimento negativoe mi richiamo al positivo, ossia ai brevi tratti fondamentali diessa, che sono stati presentati nel mio quarto libro. Qui possonoessere fatte solo un paio di osservazioni generali alla dottrina deldiritto di Kant. Gli errori, che io nella considerazione dellaCritica della ragion pura ho biasimato come gravanti su tutto ilpensiero kantiano, qui nella dottrina del diritto si trovano in taleeccesso, che si crede spesso di leggere una parodia satirica dellamaniera kantiana, o almeno di stare ad ascoltare un kantiano. Duesono qui i suoi errori principali. Egli vuole (e molti l'hanno volutoda allora) separare nettamente la dottrina del diritto dall'etica,tuttavia senza fare dipendere la prima dalla legislazione positiva,cioè dalla costrizione arbitraria, ma facendo sussistere il concettodi diritto puramente a priori di per se stesso. Ciò non è peròpossibile, perché l'agire, oltre il suo significato etico e il suoriferirsi fisicamente ad altri e perciò alla costrizione esteriore,non permette alcuna altra concezione neanche come possibile. Diconseguenza quando egli dice, «obbligo giuridico è quello che puòessere coattivamente imposto», questo può o è da intendersifisicamente e allora ogni diritto è positivo e arbitrario, e quindianche ogni arbitrio, che riesca ad imporsi, è diritto; o è daintendersi eticamente e siamo di nuovo nel campo dell'etica. Così inKant il concetto di diritto ondeggia fra il cielo e la terra, e nonha un terreno, su cui possa poggiare; per me esso appartieneall'etica. In secondo luogo la sua determinazione del concetto didiritto è completamente negativa e perciò insufficiente: (13)

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txt«Diritto è ciò che si accorda con la coesistenza delle libertà degliindividui fra di loro secondo una legge universale». Libertà (qui lalibertà empirica, cioè fisica, non quella morale del volere)significa il non essere impedito, quindi una pura negazione; deltutto lo stesso significato ha a sua volta la coesistenza; rimaniamosul terreno di pure negazioni e non raggiungiamo alcun concettopositivo, anzi non avremmo neanche sentore di che cosa si parlapropriamente, se già non ne fossimo informati da altra parte. Nellatrattazione dettagliata poi si sviluppano le concezioni piùinsensate, come quella che, nello stato di natura, ossia al di fuoridello Stato, non vi sia alcun diritto di proprietà, il chepropriamente significa che tutto il diritto è positivo, e perciò ildiritto di natura viene fondato sul diritto positivo, invece che ilcontrario come dovrebbe essere; inoltre la fondazionedell'acquisizione legale sulla presa di possesso; l'obbligo eticoall'istituzione di una costituzione civile; il fondamento del dirittopenale, etc..., cose tutte, come ho detto, che io non considero degnedi confutazione speciale. Frattanto anche questi errori kantianihanno esercitato un influsso molto negativo, hanno cioè di nuovoconfuso ed oscurato verità da lungo tempo conosciute e espresse, eoccasionato teorie bizzarre molti scritti e molte contese. Certo nonpuò essere permanentemente così, e già vediamo che la verità e lasana ragione si aprono nuovamente la via; essa è indicata, incontrasto con tante teorie confuse, specialmente dal diritto naturaledi I'C'F' Meister, sebbene ciò non mi porti a considerarlo un modellodi perfezione raggiunta.

Anche sulla Critica del giudizio, dopo le cose già dette, potròessere molto breve. C'è da meravigliarsi come Kant, a cui l'arte èrimasta certamente molto estranea, e che secondo ogni apparenza avevapoca sensibilità per il bello, che anzi non sembra avere avuto mail'occasione di vedere un'opera d'arte significativa, e che per finirenon sembra avere avuto notizie del suo fratello gigante Goethe,l'unico tanto nel secolo quanto nella nazione che gli potesse stare afianco - c'è da meravigliarsi dicevo che con tutto ciò Kant abbiapotuto guadagnarsi un grande e duraturo merito per la considerazionefilosofica dell'arte e del bello. Questo merito sta in ciò, che, perquanto anche fossero state fatte molte riflessioni sul bello esull'arte, tuttavia si era propriamente considerata la cosa solo dalpunto di vista empirico e poggiando sui fatti si ricercava qualeproprietà distinguesse l'oggetto chiamato bello di una certa speciedagli altri oggetti della stessa specie. Per questa via si giungevain un primo tempo a principi del tutto speciali, e poi a principi piùgenerali. Si cercava di sceverare l'autentico bello d'arte da quelloche non lo era e di trovare le caratteristiche di questa autenticità,che poi a loro volta potevano anche servire come regole. Che cosapiace come bello, che cosa sia e che cosa non sia da imitare, checosa si debba perseguire e che cosa si debba evitare, quali regolealmeno negativamente debbano essere fissate, in breve quali siano imezzi per l'eccitazione del piacere estetico cioè le condizionipresenti nell'oggetto a questo scopo; questo era quasi esclusivamenteil tema di tutte le riflessioni sull'arte. Questa via era già stataimboccata da Aristotele e su di essa troviamo ancora nei tempi piùrecenti Hume, Burke, Winckelmann, Lessing, Herder e altri ancora.Certo la generalità dei principi estetici trovati finì con ilrimandare anche al soggetto, e si notò che se l'effetto in esso fossestato conosciuto appropriatamente, si sarebbe potuto determinare apriori anche la sua causa presente nell'oggetto; attraverso la qualcosa solamente questa riflessione avrebbe potuto raggiungere lasicurezza di una scienza. Questa fu l'occasione perché sorgessero quie là discussioni di tipo psicologico, e con questo intento inparticolare Alessandro Baumgarten propose una estetica generale ditutto il bello, in cui egli partiva dalla perfezione della conoscenzasensibile, vale a dire intuitiva. Con la formulazione di questoprincipio la parte soggettiva è però anche per lui liquidata, e sipassa a quella obiettiva e alla parte pratica ad essa riferentesi. AKant però anche per questo punto era riservato il merito di indagareseriamente e profondamente l'emozione stessa, in conseguenza della

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtquale chiamiamo l'oggetto che la produce bello, per trovare sepossibile gli elementi e le condizioni di essa nel nostro animo. Lasua ricerca prese dunque interamente la via soggettiva. Questa viaera palesemente la giusta, perché, per spiegare un fenomeno dato neisuoi effetti, si deve esattamente conoscere, per determinare conprecisione la qualità della causa, prima questo stesso effetto. Ilmerito di Kant tuttavia non si estende molto più in là dall'avereegli indicato la giusta via e dall'aver dato un esempio con untentativo provvisorio di come all'incirca si debba procedere peressa. Certo quello che diede non può essere considerato veritàoggettiva e guadagno reale. Egli indicò il metodo di questa ricerca,aprì la via, ma per altro mancò il bersaglio.Per la critica del giudizio estetico ci si impone innanzi tuttol'osservazione che egli ha conservato il metodo proprio della suaintera filosofia e che io ho già estesamente considerato sopra:intendo il procedere dalla conoscenza astratta, per indagarel'intuitiva, sicché a lui quella serve per così dire da cameraobscura, per accogliervi ed esaminare questa. Come nella Criticadella ragion pura le forme dei giudizi dovevano fornirgli spiegazionisulla conoscenza del nostro intero mondo oggettivo, così anche inquesta critica del giudizio estetico, egli non parte dal bellostesso, dal bello intuitivo e immediato, ma dal giudizio sul bello,da quello che è in modo così brutto chiamato giudizio di gusto.Questo è per lui il suo problema. Specialmente colpisce la suaattenzione la circostanza che un tale giudizio è manifestatamentel'espressione di un processo nel soggetto, e tuttavia è cosìgeneralmente valido, come se riguardasse una proprietà dell'oggetto.Questo lo ha colpito, non il bello stesso. Egli parte solo sempre daespressioni di altri, dal giudizio sul bello, non dal bello stesso. E'perciò come se lo conoscesse in tutto e per tutto solo per sentitodire, non immediatamente. Quasi egualmente così un cieco moltointelligente potrebbe combinare una teoria dei colori a partire datestimonianze esatte che egli udisse intorno ad essi. E realmentepotremmo considerare i filosofemi di Kant sul bello quasi solo sottoquesto aspetto. Allora troveremo che la sua teoria è molto ingegnosa,anzi che qui e là sono fatte annotazioni generali vere e checolpiscono nel segno; ma la soluzione che egli propone del problema ètalmente inammissibile, sta talmente al di sotto della dignitàdell'oggetto, che non ci può venire in mente di considerarla veritàoggettiva. Perciò mi ritengo esentato da una confutazione di essa eanche qui rimando alla parte positiva del mio scritto.Riguardo alla forma del suo libro si deve notare che essa è sortadall'idea di trovare nel concetto della finalità la chiave delproblema del bello. L'idea viene dedotta: il che in generale non èdifficile, come abbiamo imparato dai seguaci di Kant. Così ora sorgel'unione barocca della conoscenza del bello con quella della finalitàdei corpi naturali, e la trattazione dei due oggetti eterogenei in unsolo libro. Con queste tre facoltà conoscitive, ragione, giudizio,intelletto si escogitano poi diverse piacevolezze simmetricoarchitettoniche, l'amore per le quali in generale in questo libroappare moltiplicato, già nell'adattamento violento al tutto deltaglio generale della Critica della ragion pura, in modo particolarepoi nell'antinomia del giudizio estetico, veramente tirata per icapelli. Si potrebbe anche avanzare un rimprovero di grandeincoerenza per il fatto che, dopo che nella Critica della ragion puraè continuamente ripetuto che l'intelletto è la facoltà di giudicare edopo che le forme dei giudizi sono elevate a pietra fondamentaledell'intera filosofia, ora si presenta una facoltà del giudizio deltutto particolare, che è completamente diversa da quella. Quel chedel resto io chiamo giudizio, cioè la facoltà di tradurre laconoscenza intuitiva in quella astratta e di applicare questa dinuovo giustamente a quella, è svolto nella parte positiva del miolibro.La parte più eccellente della critica del giudizio estetico èsenz'altro la teoria del sublime; essa è riuscita incomparabilmentemeglio di quella del bello, e non indica solo come quella il metodogenerale della ricerca ma anche percorre un tratto della giusta viaallo scopo, tanto che se essa non dà proprio la vera soluzione del

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtproblema, tuttavia la sfiora assai da vicino.Nella critica del giudizio teleologico è possibile, data lasemplicità della materia, riconoscere forse meglio che in qualsiasialtra parte il raro talento che Kant possiede di rigirare un pensierodi qua e di là e di esprimerlo in diverse maniere, sino a che ne esceun libro. L'intero libro vuol dire solo questo: sebbene i corpiorganizzati necessariamente ci appaiano come se fossero staticomposti in conformità ad un concetto di fine ad essi antecedente,tuttavia ciò non ci permette di assumerlo obiettivamente. Infatti ilnostro intelletto, al quale le cose sono date dall'esterno emediatamente, che dunque non conosce la loro interiorità, ciò per cuiesse sorgono e sussistono, ma solo il lato esteriore, non puòrendersi comprensibile una certa costituzione propria dei prodottiorganici se non per analogia, paragonandola con le opereintenzionalmente prodotte dagli uomini, la cui costituzione èdeterminata da un fine e dal concetto di esso. Questa analogia èsufficiente a renderci comprensibile l'accordo di tutte le loro particon il tutto e a darci persino un filo conduttore come guida perinvestigarle; ma in nessun modo essa può divenire un fondamento dispiegazione reale dell'origine e dell'esistenza di tali corpi.Infatti la necessità di concepirli in tal modo è di originesoggettiva. Press'a poco così io riassumerei la dottrina di Kant suquesto punto. Egli l'aveva già esposta nelle sue linee fondamentalinella Critica della ragion pura (pp' 692-702; V, pp' 720-730). Maanche nella conoscenza di questa verità troviamo che David Hume lo hagloriosamente precorso; anche egli aveva aspramente contestatoquell'assunto nella seconda sezione dei suoi Dialogues concerningNatural Religion. La differenza della critica di Hume da quella diKant consiste essenzialmente nel fatto che Hume lo critica come sefosse una tesi fondata sull'esperienza, Kant invece come se fosse dinatura aprioristica. Entrambi hanno ragione e le loro esposizioni sicompletano a vicenda. Anzi l'essenziale della dottrina di Kant suquesto punto lo troviamo già espresso nel commentario di Simplicioalla fisica di Aristotele: "hû dc plänû gëgonen autoîs apò tovhûgeîsôan, pänta tà hënekà tou ginömena katà proaïresin genësôan kaìlogismön, tà dc füsei mè hoütws horân ginömena" (Error iis ortus estex eo quod credebant, omnia, quae propter finem aliquem fierent, exproposito et ratiocinio fieri, dum videbant, naturae opera non itafieri). Schol' in Arist' ex' edit' Berol', p' 354. Kant ha su questopunto perfettamente ragione. Anzi era ben necessario che, dopo che fudimostrato che non si deve applicare il concetto di causa ed effettoalla totalità della natura in generale, per spiegare la suaesistenza, anche si dimostrasse che essa non deve pensarsi, per quelche riguarda la sua costituzione, come effetto di una causa guidatada motivi (concetti di fine). Se si pensa alla speciosità della provafisicoteologica, che persino Voltaire considerava irrefutabile, sivede che era estremamente importante dimostrare che ciò che vi è disoggettivo nel nostro intendimento, a cui Kant ha rivendicato spazio,tempo e causalità, si estende anche al nostro giudizio sui corpinaturali, e che di conseguenza la necessità, che sentiamo, di pensareche siano sorti secondo il concetto di fine, cioè per una via, percui la rappresentazione di essi sarebbe stata anteriore alla loroesistenza, è parimenti una necessità soggettiva, come l'intuizionedello spazio che pur si presenta così oggettivamente, e quindi nonpuò essere considerata valida come verità oggettiva. La discussionekantiana dell'argomento, se si prescinde dalle stancanti lungaggini eripetizioni, è eccellente. A ragione egli afferma che non giungeremomai a spiegare la costituzione dei corpi organici con sole causemeccaniche, sotto cui egli comprende l'effetto non intenzionale econforme a leggi di tutte le forze generali della natura. Io trovotuttavia qui ancora una lacuna. Egli nega la possibilità di una talespiegazione, solo nei confronti della finalità e intenzionalitàapparente dei corpi organici. Troviamo però che, anche dove essa nonha luogo, le ragioni di spiegazione non possono essere trasportate daun campo della natura all'altro, ma non appena noi entriamo in unnuovo campo esse ci abbandonano e subentrano nuove leggifondamentali, di cui non si può sperare di avere la spiegazione daquelle precedenti. Così nel campo di ciò che è effettivamente

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtmeccanico dominano le leggi della gravità, coesione, rigidità,fluidità, elasticità, che in sè (a prescindere dalla mia spiegazionedi tutte le forze di natura come gradi inferiori della oggettivazionedella volontà) sussistono come manifestazioni di forze nonulteriormente spiegabili, che addirittura costituiscono i principi diogni più remota spiegazione, che consiste solo nel riferimento adesse. Ma se abbandoniamo questo campo e passiamo ai fenomeni delchimismo, dell'elettricità, del magnetismo, della cristallizzazione,quei principi non sono più assolutamente utilizzabili, anzi, quelLeleggi non valgono più, quelle forze vengono superate da altre, e ifenomeni procedono in maniera contrastante ad esse, secondo nuoveleggi fondamentali, che, proprio come le prime, sono originarie einspiegabili, cioè non possono essere riportate ad alcuna legge piùgenerale. Così ad es' non si riuscirà secondo le leggi di ciò che èpuro meccanismo anche solo a spiegare la soluzione di un salenell'acqua, per tacere dei fenomeni più complessi della chimica. Nelsecondo libro del presente scritto tutto ciò è stato dettagliatamenteesposto. Una discussione di questo genere, mi pare, sarebbe stata digrande utilità per la critica del giudizio teleologica e avrebbegettato viva luce su quanto là è detto. Essa in particolare sarebbestata d'appoggio al prezioso accenno di Kant che una più profondaconoscenza dell'essere in sé, i cui fenomeni sono le cose dellanatura, ritroverebbe un unico ed identico principio, tantonell'operare meccanico (conforme a leggi) che in quelloapparentemente intenzionale della natura, che potrebbe servire comeprincipio di spiegazione di entrambi. Io spero di avere dato un taleprincipio, con la posizione della volontà come la vera e propria cosain sé, per cui in generale nel mio secondo libro e nei suoisupplementi ma principalmente nel mio scritto Sulla volontà dellanatura, l'intendimento dell'intima essenza dell'apparente finalità edell'armonia e accordo di tutta la natura è forse divenuto più chiaroe profondo. Perciò su di ciò non ho qui da dire niente di più.Il lettore in cui questa critica della filosofia kantiana harisvegliato interesse non tralasci di leggere il supplemento ad essache ho dato sotto il titolo di Ancora alcune spiegazioni sullafilosofia kantiana, nel secondo trattato del primo volume dei mieiParerga e Paralipomena. Infatti si deve considerare che i mieiscritti, per quanto pochi essi siano, sono stati stesisuccessivamente, nel corso di una lunga vita e ad ampi intervalli;perciò non ci si può aspettare che tutto ciò che ho detto su undeterminato argomento sia da trovarsi anche insieme in un solo luogo.Fine

NOTE:(6) Con questa mia confutazione della dimostrazione kantiana sipossono, se si vuole, paragonare i precedenti attacchi ad essa diFeder, Sul tempo, lo spazio e la causalità, par' 28; e di G'E'Schulze, Critica della filosofia teoretica, vol' Ii, pp' 422-442.(7) Vedi Sext' Empiric', Pyrron' Hypotyp', L' I, c' 13, "nooümenafainomënois antetïôû §anaxagöras" (intelligibilia apparentibusopposuit Anaxagoras).(8) [Non siete voi come le donne che sempre@ ritornano alla loroprima parola,@ dopo che a lungo la ragione ha parlato?@](9) Che l'ammissione di un limite del mondo nel tempo non sia innessun modo un pensiero necessario della ragione si può mostrareanche storicamente, poiché gli Indù non lo insegnavano neanche nellareligione popolare, per non parlare dei Veda, ma cercavano invece diesprimere mitologicamente con una mostruosa cronologia l'infinità diquesto mondo fenomenico, di questo incostante e insostanziale tessutodi Maya, mettendo insieme in evidenza assai ingegnosamente larelatività di tutte le lunghezze temporali nel mito seguente (Polier,Mythologies des Indous, vol' 2, p' 585). Le quattro epoche cosmiche,nell'ultima delle quali noi viviamo, comprendono insieme 4'320'000anni. Di tali periodi di quattro epoche mille costituiscono un giornodi Brahma e altri mille la notte. Il suo anno ha 365 giorni ealtrettante notti. Egli vive, sempre creando, 100 dei suoi anni equando muore nasce subito un nuovo Brahma e cosí di eternità ineternità. La stessa relatività del tempo è espressa anche dal mito

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Arthur Schopenhauer - Il mondo come volontà e rappresentazione.txtspeciale, raccontato nell'opera di Polier, vol' 2, p' 594, che loprende dai Purana, in cui un rajà dopo una visita di alcuni istanti aVisnú nel suo cielo, al suo ritorno nella terra, trova che sonopassati molti milioni di anni, perché ogni giorno di Visnú è uguale a100 ritorni delle quattro epoche cosmiche.(10) Schopenhauer allude qui a un prestigiatore messo alla berlinada Lichtenberg. (N'd'T')(11) Kant ha detto: «E' qualcosa di molto assurdo aspettarsi unachiarificazione dalla ragione e al tempo stesso prescriverle inanticipo a quale parte debba necessariamente attenersi» (Criticadella ragion pura, p' 747; V, p' 755). Invece si trova la seguenteingenuità nel giudizio di un professore di filosofia dei nostritempi: «Una filosofia che nega la realtà delle idee fondamentali delCristianesimo, è falsa, o se anche è vera, è inutilizzabile»,scilicet per professori di filosofia. E' stato il defunto professorBachmann colui che, nella «Jena'schen Litteraturzeitung» del luglio1840, n' 126, ha propalato cosí indiscretamente la massima di tutti isuoi colleghi. Frattanto è notevole a caratterizzazione dellafilosofia dell'Università come qui la verità, quando essa non vuolconformarsi e adattarsi, sia messa senza cerimonie alla porta con«Via verità! Non ti possiamo utilizzare. Ti dobbiamo qualcosa? Cipaghi tu? Allora, via!».(12) A proposito: il problema di Machiavelli era la risposta alladomanda come il principe si può mantenere incondizionatamente altrono, nonostante i nemici esterni e interni. Il suo problema non eraaffatto quello etico, se un principe come uomo debba volere una talcosa oppure no; ma soltanto il problema politico, come, se egli lavuole, debba metterla in atto. A questo egli rispose come si scriveuna introduzione al gioco degli scacchi, per la quale sarebbe scioccolamentare la mancanza della risposta alla domanda se sia moralmenteconsigliabile giocare in generale agli scacchi. Rimproverare aMachiavelli l'immoralità del suo scritto, è così a tono comerimproverare ad un maestro di scherma che egli non apre il suoinsegnamento con una lezione di morale sulla morte e l'assassinio.(13) Benché il concetto di diritto sia propriamente negativo, inopposizione a quello di ingiustizia che è il punto di partenzapositivo, tuttavia la spiegazione di questi concetti non può essereda cima a fondo negativa.

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