arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

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arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma Valentino Alberini matr. n. 269601 Relatore: Giovanni Anceschi Correlatore: Carlo Vinti Anno Accademico: 2010/2011 Università IUAV di Venezia Facoltà di Design e Arti Corso di Laurea Specialistica in Comunicazioni visive e multimediali

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arte e design:dal Bauhaus all’arte cinetico programmata,verso una nuova forma

Valentino Alberini

matr. n. 269601

Relatore: Giovanni Anceschi

Correlatore: Carlo Vinti

Anno Accademico: 2010/2011

Università IUAV di Venezia

Facoltà di Design e Arti

Corso di Laurea Specialistica

in Comunicazioni visive

e multimediali

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introduzione

il Basic Design

Ulm

il contesto artisticoe sociale in Italia

verso l’astrazione

Miriorama 1, l’inizio

i riferimenti nell’arte sul temadel rapporto spazio-tempo

la dimensione spaziale: Lucio Fontana

l’arte cinetica:Bruno Munari

la poetica del Gruppo T:tra arte e design

la critica militante

il basic design in Italia

conclusione

bibliografia

indice

pag. 5

pag. 10

pag. 24

pag. 28

pag. 30

pag. 35

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pag. 49

pag. 54

pag. 60

pag. 80

pag. 85

pag. 89

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“Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare

il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento

anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”1

Umberto Eco

Questo progetto di tesi intende introdurre e analizzare il rapporto tra Arte e Design

a partire dalle sue origini nel Bauhaus, fino ad arrivare ai giorni nostri; nell’esplicare

questo intersecato e vivo dialogo si approfondirà in particolare l’esperienza italiana

dell’arte cinetico-programmata attraverso la ricerca operata a Milano dal Gruppo

T - composto da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele

Devecchi e Grazia Varisco - e da Bruno Munari.

Da prima si analizzerà la nascita della disciplina del design a partire dal Bauhaus,

quindi attraverso le sue esperienze più significative di didattica e teorizzazione

che l’hanno condotta a superare il design inteso come tecnica al servizio

dell’industria, verso la sua definitiva appropriazione del ruolo di disciplina autonoma,

configurata e costituita; in seguito si vedrà come questo insieme di saperi

fondamentali del fare progettuale siano stati sviluppati e raccolti nella disciplina

del basic design, nata dagli insegnamenti di Josef Albers al Bauhaus,

e che si potrebbe definire come il corso base della progettazione, intesa

come configurazione di artefatti di qualsiasi genere.

Come scrive lo stesso Giovanni Anceschi nella sua raccolta online di testi critici

(“http://www.ganceschiteoria.altervista.org/”) il basic design “è una disciplina

estremamente particolare e originale come statuto, in quanto intreccia intimamente

propedeutica, (cioè la pratica dell’insegnamento di un saper fare) e fondazione

disciplinare (cioè il pensiero teorico e metodologico che le sta alla base). In altri

termini il Basic Design è il luogo ideale dove convergono e si concatenano di fatto

ricerca formale e espressiva, progetto e, appunto, insegnamento”.

Va ricordato che il corso al Bauhaus, come venne concepito da Josef Albers,

introduzione

1: AA. VV., Arte Programmata,1962

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prendeva le mosse dall’attività teorica e didattica di Paul Klee e Vasilij Kandinskij,

a partire soprattutto da una riflessione sul concetto di forma e rappresentazione

e dei loro primi tentativi di enunciare una didattica della materia.

Il corso, per sua natura stessa, cambiò negli anni, sia per i diversi approcci

che i vari docenti avevano, sia per i cambiamenti sociali e tecnologici

contemporanei, ma mantenne l’idea fondante di matrice neopositivista secondo

la quale il basic design poteva essere una disciplina basata su regole e principi

condivisibili, oggettivi e universali.

Questi saperi vennero ripresi da Tomàs Maldonado e Josef Albers e, una volta

aggiornati secondo le necessità derivate dal progresso della tecnica e del sapere

in nuovi codici comunicativi, trasmessi sia in Europa, a Ulm, sia in America, a Yale

e presso il New Bauhaus di Chicago.

In Italia questo processo di trasmissione della didattica del design non ebbe

la stessa fortuna, dato che l’architettura ancora era ritenuta la disciplina madre

che sovrastava le altre; ma a riprova del nuovo rapporto tra arte e design di cui

si era fatto promotore il Bauhaus, furono le correnti artistiche a promuovere

questi saperi attraverso le loro opere e le loro teorie.

Nel particolare fu l’arte cinetico programmata a farsi portavoce di questo sapere:

da una parte Bruno Munari, sia con delle opere d’arte che risentivano dell’influenza

degli insegnamenti del basic design sia con la promulgazione degli stessi saperi

con la serie dei libri* sulle forme geometriche base, che si possono intendere

come un ibrido tra un libro ed un’esercitazione di basic design; dall’altra parte

il lavoro del Gruppo T, che applicava le stesse teorie a delle opere d’arte

che investigavano i processi visivi, cognitivi e di interazione con lo spettatore.

Vedremo nello specifico l’attività del Gruppo T e di Bruno Munari inserite

nel contesto sociale e culturale coevo, caratterizzato da un dibattito quanto

mai vivace sulla centralità della figura dell’artista nella società italiana in veloce

rinnovamento. Il dibattito che prelude e contestualizza gli interventi del Gruppo

T e di Bruno Munari è la risultante del superamento della complessa esperienza

artistica del Neorealismo che caratterizza l’espressione artistica italiana negli anni

successivi alla ricostruzione post-bellica, dall’altro affronta i nodi dello sviluppo

economico della società, caratterizzato da una veloce espansione del sistema

industriale.

Queste trasformazioni trasferirono l’esigenza dell’innovazione anche nel panorama

artistico culturale con la nascita delle neoavanguardie come ad esempio il Gruppo

‘63, per quanto riguarda l’approccio letterario, e in arte ad un superamento

del pensiero esistenzialista verso le pratiche dell’Informale prima, programmato-

cinetiche poi, con la nascita dei collettivi Gruppo T a Milano insieme al Gruppo

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N di Padova, che confluiscono nelle Nuove Tendenze, vero e proprio movimento

internazionale parallelamente all’attività trasversale di Bruno Munari.

In generale questi movimenti di rottura col passato professavano una nuova

attenzione ai grandi cambiamenti sociali e tecnologici dell’epoca, uniti ad una forte

componente politica impegnata e ad un bisogno di confronto e discussione

sui nuovi temi non solo sociali ma anche culturali.

Agli inizi degli anni Sessanta il movimento dell’Informale si inserisce a pieno

in questa ricerca di nuovi linguaggi artistici portando alle estreme conseguenze

una serie di postulati teorici presenti già nelle opere e negli interventi di personalità

artistiche complesse: da Paul Klee a Vasilij Kandisnkij, da Lucio Fontana a Piero

Manzoni, per giungere fino a Bruno Munari e Jean Tinguely.

A prova dell’importanza delle innovazioni artistiche e culturali di questo periodo

va sottolineato che non fu solo nazionale, ma caratterizzato da forti tinte

internazionali e internazionaliste, anche dovute all’impatto di importanti personalità

italiane, in contatto costante con la cultura europea, in un rapporto di influenza

reciproca.

Per quanto concerne il Gruppo T nello specifico, si evidenzieranno i tratti salienti

della sua produzione artistica, che sviluppatasi a partire dall’Informale, si traduce

poi nell’arte cinetica e programmata e, nell’ultimo periodo, nella creazione

di ambienti, in un rapporto di continuo dialogo tra arte e design, arte e scienza, arte

e esperienza. In questo itinerario di ricerca si renderà conto anche del rapporto

dialettico con la critica militante sempre presente nel panorama culturale italiano.

La dimensione collettiva del fare arte tipica di questo periodo fa sì che anche

questo gruppo si trovi ad operare in continuo contatto con altri collettivi

che in Italia e fuori dai confini nazionali elaborano teorie e pratiche affini

a quelle che caratterizzano gli interventi del Gruppo T.

Attraverso questo percorso tra avanguardie artistiche, pratiche del design

e alcune importanti figure trasversali tra i due settori si cercherà di analizzare

le innovazioni praticate dai componenti del Gruppo T con i loro lavori, sia dal punto

di vista artistico che da quello della riflessione tecnologica e formale.

A conclusione dell’analisi, emerge la capacità anticipatrice di questi artisti

nel praticare in modi assolutamente innovativi le indicazioni dell’interaction design

da un lato e dell’arte digitale dall’altro, come si vedrà nello specifico delle opere

di grafica programmata pubblicate sull’“Almanacco Bompiani” nel 1962.

Inoltre, con la totale trasversalità dell’intervento estetico, gli operatori del Gruppo T

anticipano di fatto la tendenza recente di ibridazione delle discipline del design

e dell’arte, ora più che mai strettamente connesse.

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Questo concetto è una riprova del loro approccio scientifico di una ricerca

verificabile anche nella pratica artistica, che vede la loro attenzione concentrarsi

sullo spettatore e sulle sue reazioni cognitive e percettive di fronte alle opere

d’arte; attualizzando il pensiero del Bauhaus in uno spazio di interazione continua

tra arte e design, il Gruppo T usa i mezzi tecnologici per creare nuovi scenari

di ibridazione tra le discipline. Nel perseguire la volontà di un’arte aperta ad un

numero più vasto possibile di spettatori, utilizza le pratiche del disegno industriale

per mettere in produzione dei multipli di opere d’arte, collaborando prima con

Danese e successivamente con Alessi alla creazione di una serie di opere d’arte

riprodotte.

Inoltre uno dei punti salienti che avvicina la loro pratica artistica al mondo

del design è la creazione degli ambienti, in cui progettando realtà immersive

e interattive furono anticipatori profetici della dimensione temporale e interattiva

della nostra epoca; infatti ora più che mai il tempo è caratterizzato dal flusso

continuo di informazioni della rete e la nostra vita è sempre più pervasa di artefatti

tecnologici con cui interagiamo continuamente.

Questo aspetto ci permette di riallacciarci a quelli che sono gli sviluppi

della disciplina del basic design dei nostri tempi. A riprova della sua capacità

di adattarsi alle necessità della progettazione la sua evoluzione più recente è quella

rivolta alle nuove tecnologie: nel particolare della progettazione informatica si è

configurato il basic design eidomatico, grazie all’apporto di Giovanni Anceschi,

un corso che aiuta ad analizzare in maniera approfondita e percettiva gli elementi

che compongono un progetto per il web. Allo stesso modo si sono venuti a

sviluppare due corsi presso lo Iuav di Venezia, il New Basic Design di Giovanni

Anceschi e l’Hyper Basic Design con Cristina Chiappini.

Anche se non fa ufficialmente parte dei corsi di basic, la stessa spinta verso

una configurazione dei nuovi media si può vedere anche nel lavoro che ha portato

John Maeda del MIT (Massachusetts Institute of Technology) a analizzare l’area

in comune tra design e tecnologia, creando un settore specifico dell’università:

‘estethics + computational group’; da questo settore nasce Processing,

un software open-source per programmare dall’arte elettronica alla grafica.

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Per capire il rapporto tra arte e design, bisogna fare un’analisi di quello che era

stato il primo movimento a teorizzare e professare un nuovo rapporto tra queste

discipline: il Bauhaus e nello specifico il suo corso propedeutico, il grundkurs,

che tradotto in lingua anglosassone diventa basic design, che è il termine

con cui è conosciuto in Italia. E va sottolineato come questo coincida con la nascita

della disciplina del design, che prima infatti esisteva solo come attività, legata

ai sistemi produttivi determinati come la rivoluzione tipografica di Gutemberg

o la rivoluzione industriale di Watt.

L’eredità che ci ha lasciato il Bauhaus in termini di architettura, arte, grafica

e design è da considerarsi di pari importanza alla sua didattica, che ancora influenza

l’insegnamento delle scuole di design. L’organizzazione dei corsi subì molte

modifiche durante la vita della scuola, ma alcuni aspetti sono rimasti peculiari

e universalmente riconoscibili.

Inizialmente, uno dei principali obiettivi del Bauhaus fu di unificare arte, artigianato

e tecnologia. Si può dire che presso il Bauhaus nacque la disciplina del design

intesa come unione di tecnica ed arte, uno dei concetti informatori dell’ideologia

gropiusiana, che risentì dell’influenza del neopositivismo che vedeva la macchina

e la tecnologia con fiducia.

Il corso propedeutico del Bauhaus e la sua didattica, attraverso i cambiamenti

dei docenti e delle strutture in cui venne teorizzato e messo in pratica, arrivò

alla sua formulazione finale a Ulm, università che Giovanni Anceschi frequentò

dal 1962 al 1966. Contemporaneamente anche Munari si stava interessando

alla materia e questo si può notare sia in certa sua attività artistica che in quella

didattica delle pubblicazioni.

Il corso di basic design è in pratica la disciplina base del design, intesa sia

come propedeutica al saper progettare, sia come il pensiero teorico e tecnico

alla base del progetto: attraverso delle esercitazioni pratiche lo studente acquisisce

i fondamenti della configurazione, come per esempio la forma e il colore,

che attraverso la loro verifica pratica diventeranno il bagaglio culturale e tecnico

nella progettazione vera e propria.

Per definire meglio allora questo termine prendiamo in prestito ciò che afferma

Giovanni Anceschi: “che cos’è il basic design?

il Basic Design

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Basic design non è un’espressione del linguaggio comune come la parola arte

o, ormai, la parola design da solo.

E certamente non è una nozione notissima.

Se si dovesse fare un’inchiesta presso gli studenti di molte università e scuole

di design italiani io ho l’impressione che sarebbe più facile che dimostrino

di conoscere quello che si chiama design primario (termine elaborato in Italia

a cavallo degli anni ottanta da Antonio Petrillo e Clino Trini Castelli) piuttosto

che la tradizione del vero e proprio basic design.

Il che risulta davvero abbastanza curioso se si pensa che Alain Findeli in Rethinking

Design education for the 21st century è proprio al basic che si affida il ruolo

centrale e riequilibrizzatore delle relazioni fra componente estetica, tecnologica

e scientifica nella disciplina e nella professione.

Ai designer italiani si potrebbe dire che il basic design è la disciplina centrale

del design.

È una disciplina estremamente particolare e originale come statuto, in quanto

intreccia intimamente propedeutica (cioè la pratica dell’insegnamento di un saper

fare) e fondazione disciplinare (cioè il pensiero teorico e metodologico che le sta

alla base).” 2

2.Anceschi, L’ambiente dell’apprendimento: Web design e processi cognitivi

fig.1:

diagramma del corso

base del Bauhaus di

Joannes Itten

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Storicamente si dà merito alla scuola del Bauhaus per la nascita del corso di basic

design, appunto con il corso del grundkurs, ma sarebbe opportuno fare qualche

passo indietro nella storia per vedere quali siano stati i precedenti storici

e le personalità che hanno creato le premesse e contribuito al suo sviluppo.

La disciplina del basic design infatti deve la sua nascita alle prime scuole di design,

che nascono intorno al 1850 in Inghilterra, dove per la prima volta si vennero

a creare delle scuole di arte applicata corredati dai primi manuali didattici. Gli inizi

della formazione estetica del designer furono incentrati sui problemi tecnici formali,

dallo studio dell’ornamento nacquero le prime ricerche sulla percezione visiva.

Fino agli inizi del ‘900 è questa la disciplina fondamentale della formazione estetica

del designer : vanno ricordate le esercitazioni di Walter Crane, che, come si può

vedere nel suo ‘Line and form’ partendo dal disegno dal vero chiedeva ai suoi

studenti di analizzarne le strutture organiche di origine naturale, per determinarne

i loro ritmi dinamici. Uno studio simile venne portato avanti dal suo connazionale

Lewis Foreman Day, cui si può assegnare la paternità del pattern design, fulcro

della sua ricerca e della sua didattica: partendo dai problemi tecnici del disegno

degli ornamenti dei tessuti, sviluppò delle strutture geometriche e una

sua rappresentazione tecnica. Questi studi ebbero un notevole successo in Europa,

tant’è che i loro insegnamenti vennero introdotti nelle scuole di arte applicata.

Da queste premesse si sviluppò il corso del Bauhaus, che nacque a Weimar

nel 1919 dalla fusione dell’esistente Scuola d’Arte Applicata e della Scuola

Superiore di Belle Arti, sotto la direzione di Walter Gropius, che continuò

fig. 2: principi strutturali della linea

tratti dal manuale ‘Line

and form’ di Walter Crane,

1900

fig 3: sviluppo di un pattern visivo

da una griglia di elementi

geometrici. da ‘Pattern

design’ di Lewis Foreman

Day, 1903

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a dirigerla fino al 1928. Si decise di organizzare il corso della durata di quattro anni,

con un corso iniziale comune a tutti gli indirizzi della durata di un anno,

ed è così che nacque la disciplina del basic design come la conosciamo noi oggi.

Inizialmente il corso preliminare si chiamava vorlehre, in seguito divenne formlhere

o gestaltunghere, a sottolineare la peculiarità di essere un insegnamento

di una grammatica visiva e formale, sia pratica sia teorica, finalizzata al progetto.

Il basic design è caratterizzato dal carattere di propedeuticità intesa sia come

sviluppo delle facoltà dello studente sia come trasmissione oggettiva di saperi

tecnici e teorici, che ne formano i fondamenti disciplinari. La parte didattica

pedagogica è uno degli aspetti più interessanti del corso, dato che sotto

la sua spinta i docenti del Bauhaus hanno condiviso e redatto i loro saperi

con la produzione di una documentazione oggettiva e disciplinare di matrice

neopositivista (nel tentativo di produrre un sapere universale e scientifico

universalmente condivisibile), tra cui vanno citati i saggi di Kandisnky ‘Punto, linea,

superficie’ (nato da una raccolta di scritti e lezioni ideate apposta per la didattica

al Bauhaus), di Klee ‘Teoria della forma e della figurazione’, fino ad arrivare

alla ‘Teoria dei colori’ di Albers, di cui parleremo più avanti, che è stato concepito

e prodotto durante il corso.

Sull’importanza della didattica come matrice caratterizzante di tutta la filosofia

alla base del Bauhaus, interviene lo stesso Maldonado, che fu il direttore del corso

propedeutico a Ulm:

“Può sembrare sconcertante, visto che molti -la maggior parte- ritengono essere

il basic design la manifestazione più tipica del funzionalismo e del razionalismo

degli anni ‘20. Ho tentato ripetutamente, nelle sedi più diverse, di dimostrare come

questa sia solo una mezza verità, preoccupato di chiarire quanto ci fosse di reale

e quanto di leggendario nell’idea di Bauhaus oggi corrente (…) Una delle distorsioni

più gravi è stata quella di presentare il Bauhaus quasi esclusivamente come

un ‘movimento’ nel campo dell’architettura, dell’arte e del disegno industriale,

tralasciando il fatto che il Bauhaus fu anche una scuola vera e propria, una vera

e propria istruzione scolastica. Secondo questo modo di vedere, la componente

didattica avrebbe avuto una funzione ausiliaria, subalterna rispetto al Bauhaus

inteso come centro di progettazione e persino di produzione. Cioè: una mera

appendice. E come appendice non meriterebbe una valutazione autonoma.

Così si spiega perché le sopra accennate versioni riduttive o falsate del movimento

sono state trasferite automaticamente al Bauhaus-scuola. Tra le altre, in specie,

quella che vede nel Bauhaus una corrente improntata in tutto il suo decorso storico

solo dal razionalismo e dal suo funzionalismo cosa che non è esatta per il Bauhaus-

movimento e ancor meno per il Bauhaus-scuola” 3

3.Maldonado, Arte, educazione, scienza. Verso una creatività progettuale

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Agli inizi del Bauhaus la partecipazione ai corsi era libera, nel 1920 fu istituito

il corso preliminare, tenuto da Joannes Itten. Il corso propedeutico era obbligatorio

e comune a tutte le specializzazioni, in questo non era un semplice corso

di preparazione tecnica per la produzione artigianale, come era stato organizzato

in un primo momento da Walter Gropius, bensì consisteva in un metodo didattico

volto a sviluppare e fornire le basi teoriche del processo creativo dello studente.

Da un lato era caratterizzato dall’azzeramento dei pregiudizi formativi che gli

studenti avevano fin lì ricevuto e dall’altro era incentrato su una nuova visione

del fare progettuale.

Dopo la frequentazione del corso propedeutico gli studenti potevano decidere

il loro corso specialistico tra i laboratori di tipografia, ceramica, metallo,

falegnameria, teatro, rilegatura; in questi laboratori erano seguiti da due figure

didattiche, il maestro della forma,l’artista, e il maestro d’arte, ovvero l’artigiano,

in modo da favorire sia la preparazione teorica ed espressiva che quella tecnica

e pratica.

Gropius decise di rivolgersi a Joannes Itten per la didattica del corso propedeutico,

poiché tra i docenti era uno dei pochi che aveva già avuto delle esperienze come

insegnante di scuola elementare e secondaria. Itten pose alla base del suo

insegnamento la volontà di liberare le menti degli studenti da ogni convenzione

e insegnamento pregresso, in modo da rivelarne il talento personale. La sua idea

di trasmissione del sapere era influenzata dalle discipline esoteriche, Itten infatti

era un seguace del movimento Mazdaznan, che prevedeva di seguire delle

regole di vita molto ferree e precise, e la sua adesione convinta a questa dottrina,

sommata al fatto che con i suoi proseliti guadagnava seguaci tra gli studenti,

fu uno dei motivi che lo spinsero ad abbandonare l’insegnamento presso

fig. 4: lo schema ‘stella’ dei colori

sviluppato da Joannes Itten

nel suo ‘Design and form:

the basic course at the

Bauhaus, 1963

fig. 5: Joannes Itten che fa

compiere esercizi di

ginnastica ai suoi studenti

sul tetto della scuola, prima

di iniziare la vera e propria

lezione, 1920

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il Bauhaus. La sua visione della didattica era anche basata sull’idea di un sapere

inscritto nel corpo, che doveva essere messo in condizione di essere espresso

attraverso alcune pratiche specifiche, tra le quali la ginnastica corporale, che Itten

faceva praticare ai suoi studenti prima di iniziare le lezioni.

Un’altra delle sue esercitazioni era la pratica della ‘scioltezza gestuale’: a mano

libera lo studente doveva disegnare su di un foglio delle volute e dei tracciati,

seguendo solo l’istinto e le sensazioni, con l’obbiettivo di liberare il corpo

dalle costrizioni e stimolare il flusso delle idee.

Inoltre nella didattica di Itten lo studio della natura e dei suoi materiali avevano

un ruolo importante, servivano ad affinare la sensibilità alla materia

e alle emozioni e sensazioni che provocano. L’esercizio era basato sul trovare

il ritmo ed i contrasti che gli stessi elementi hanno in natura, descrivendone

le sensazioni tattili che suscitano, le impressioni visive, organizzandoli attraverso

delle gerarchie di contrasti; il fine ultimo era quello di organizzare la visione

ed accrescere la percezione.

Il corso di Itten non era solo votato alla sensibilizzazione dello studente, ma era

anche supportato da lezioni sulla teoria della forma e del colore. La teoria della

forma prendeva le mosse dallo studio delle forme primarie come, ad esempio,

il cerchio e il quadrato, cui veniva assegnato un carattere peculiare: il cerchio

rappresentava la centralità, il quadrato la calma. L’importanza fondamentale

di questa teoria si può vedere anche nei metodi di insegnamento che Paul Klee

e Vassillij Kandisnkij introdussero al Bauhaus, prendendo spunto dalle riflessioni

di Itten.

In ultimo, vanno ricordate le esercitazioni di studio del nudo e dal vero e l’analisi

di opere d’arte che Itten usava come completamento dell’insegnamento: gli allievi

dovevano analizzare le opere d’arte ridisegnandone i motivi principali, il ritmo

e le linee con il fine ultimo di individuare l’essenza strutturale del complesso

della figura.

Questo doveva servire come un allenamento alla composizione che avrebbero

dovuto impiegare nei successivi progetti, inoltre con lo studio della sintesi veniva

migliorata la sensibilità visiva e critica degli studenti, capaci di astrarre con l’uso

di composizioni e colori i principi compositivi universali di qualsiasi corrente artistica

e disciplina, rendendoli capaci anche di sviluppare liberamente le loro capacità

individuali.

Il basic design di Itten si trasformerà in due saggi didattici: “Arte del colore”,

una raccolta di osservazioni protoscientifiche che uscirà nel 1961 e “Design

e forma. Il corso base al Bauhaus”, del 1963, che, come suggerisce il nome, è un

compendio di tutte le esercitazioni svolte da Itten durante il suo corso.

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Alla partenza di Itten, nel 1923, il corso propedeutico venne assegnato a Laszlo

Moholy-Nagy, coadiuvato da Josef Albers. Nel suo insegnamento sviluppò

con particolare interesse la questione della multisensorialità e del rapporto

dell’artefatto con il corpo; uno dei temi fondamentali era infatti lo studio

delle qualità tattili della materia, organizzate per mezzo di esercitazioni volte

alla creazione di tavole in cui erano organizzati dei materiali secondo le loro

caratteristiche tattili e formali; questo con lo scopo di effettuare una ricerca

sistematica ed oggettiva sugli effetti sensoriali, in termini sia fisiologici

che psicologici.

Un altro punto importante della ricerca di Moholy-Nagy sono le composizioni

spaziali costruite per indagare le possibilità dell’equilibrio ed i rapporti tra i volumi

e i materiali. Queste sculture non rappresentavano tanto l’armonia dell’universo,

come per Itten, ma piuttosto la funzionalità dei nuovi materiali industriali: Moholy-

Nagy infatti era un sostenitore delle nuove tecnologie, e riteneva che i nuovi mezzi

tecnici come la fotografia potessero aiutare l’uomo nell’arrivare ad una conoscenza

più profonda delle cose e della realtà. La fotografia era per esso un mezzo

scientifico libero dalle alterazioni emotive che poteva permettere una conoscenza

dell’origine e dello sviluppo della forma grazie al processo stesso della ripresa e

della percezione.

Per questo faceva esercitare i suoi studenti attraverso l’uso del fotomontaggio

e del fotogramma (la fotografia ottenuta senza la macchina fotografica).

fig. 6 (pagina a fianco): Joannes

Itten, esercizio di analisi

dei chiaro-scuri sul dipinto

di Goya ‘La duchessa di Alba’.

Il dipinto è geometrizzato per

guidare lo studente in una

analisi conscia dell’intero

piano del dipinto.

La figura veniva disegnata

da Itten, gli studenti

dovevano colorare i principali

toni in maniera sempificata,

1921

fig. 7: docente Làszlo Moholy-Nagy

studio sull’equilibrio, Tom

Grote, 1924

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Josef Albers era arrivato al Bauhaus come studente, divenne insegnante del corso

propedeutico al fianco di Moholy Nagy durante tutto il periodo di Weimar; quando

quest’ultimo partì nel 1928, il corso venne affidato ad Albers, che lo mantenne fino

alla chiusura del Bauhaus nel 1933. Grazie a lui, il corso propedeutico assunse una

maggior raffinatezza didattica, oltre alla formazione dei futuri artisti, elaborò i corsi

anche in funzione della formazione dei futuri designer, con una rinnovata attenzione

alla ricerca tecnologica. Per Albers le esercitazioni di basic design avevano un valore

oggettivo, basato sullo sviluppo di un pensiero progettuale e costruttivo dell’allievo

attraverso la ricerca svolta con le esercitazioni.

Il nuovo corso era incentrato sulla sperimentazione sul materiale, sulla ricerca

delle sue qualità e della sua configurazione. Agli studenti non veniva più richiesto

di lavorare su una moltitudine di materiali, ma solo con vetro, carta e metallo,

secondo uno schema ben preciso. Il metodo di insegnamento era basato su

un processo di apprendimento induttivo, senza la guida dell’insegnante, basato

su determinate esercitazioni formali cui seguiva una critica comune dei risultati

svolta in aula.

Questi esercizi su materiale e texture sono uno dei più notevoli contributi di Albers

al corso e alla pedagogia che lo caratterizzava: sono in effetti una trasmissione

sperimentale del sapere basata sull’apprendimento, sviluppata con l’esperienza

diretta del lavoro con il materiale e i suoi limiti. La sua spinta innovativa nel campo

del sapere, definibile senza eufemismi ‘geniale’, coniò in quegli anni due teorie

molto importanti, sia per la storia della percezione cognitiva e della sua didattica,

sia per le influenze che ebbe su arte e design: stiamo parlando delle teorie

fig. 8: versione ridotta del volume

‘Interaction of colors’,

che nella prima edizione

consisteva delle tavole con

le esercitazioni sul colore

prodotte dagli studenti

cui si aggiungevano i disegni

di Albers.

in copertina notiamo

un esercizio sul colore,

chiamato ‘quattro colori

con tre’, in cui lo stesso

colore posto su due sfondi

contrastanti appare come

due colori differenti.

fig.9: viceversa, con il processo

della sottrazione del colore,

due colori differenti appaiono

uguali

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di ‘intersoggettività’, che analizzeremo più avanti, e di ‘factual’ e ‘actual’, termini

che Albers usa per la percezione dei colori. Sull’importanza di questo concetto

così definisce Anceschi: “Albers è un aristotelico, parla di actual e factual reality,

che sono due parole d’uso comune per gli inglesi; “realtà fattuale” sono i colori

fisici, misurati per intenderci col colorimetro, con il computer abbiamo sotto mano

queste misurazioni, però poi il colore è soggettivo, o meglio c’è una ricezione

intersoggettiva, un effetto psichico, quello che tu vedi, che possiamo appunto

definire actual.”•

Oltre al corso propedeutico, gli allievi frequentavano anche lezioni di teoria

della forma e dei colori tenute da Paul Klee e Vassillij Kandisnkij, a cui dal 1927,

vennero anche affidati dei laboratori di pittura libera. L’indirizzo pedagogico

di questi due pittori concordava con le loro teorie artistiche e i loro corsi erano

perlopiù basati sulla spiegazione della loro teoria del colore e della forma, anche

se erano supportati da alcune esercitazioni pratiche.

A differenza di Kandinskij, le cui esercitazioni erano basate sul disegno analitico

e sulla teoria del colore, Klee sviluppava la sua didattica usando dei testi

specializzati: prima eseguiva delle dimostrazioni corredate dell’apparato teorico,

poi richiedeva agli studenti di risolvere graficamente e con l’uso dei colori

gli esercizi proposti. In un crescendo di difficoltà lo studente veniva aiutato

a sviluppare la teoria del colore e le leggi della composizione bidimensionale.

Così scrive sulle pagine del suo “Teoria della forma e della figurazione”,

che è la raccolta delle sue lezioni tenute al Bauhaus: “La teoria della figurazione

(Gestaltung) si occupa delle vie che conducono alla figura (alla forma). Essa

è la teoria della forma, ma con l’accento sulle vie che a questa conducono:

la desinenza della parola stessa sta ad indicare quanto s’è detto or ora.

L’espressione “teoria della forma,” come si dice dai più, trascura di porre l’accento

sulle premesse e le vie che vi conducono. “Teoria della formazione” è espressione

troppo inconsueta. Figurazione implica inoltre chiaramente l’idea di una certa

mobilità, ed è quindi preferibile. Rispetto a forma (Form), figura (Gestalt) esprime

inoltre qualcosa di più vivo. Figura è più che altro una forma fondata su funzioni

vitali: per cosi dire, una funzione derivante da funzioni. Tali funzioni sono di natura

puramente spirituale; alla loro base sta il bisogno di espressione.

Ogni manifestazione della funzione dev’essere necessariamente motivata: allora,

momento iniziale, intermedio, e conclusivo saranno rigorosamente omogenei,

e mai potrà fare la sua comparsa alcunché di ambiguo, poiché necessariamente

l’una cosa si conforma all’altra.

La forza creativa non si può definire: essa permane in ultima analisi misteriosa.

• da intervista raccolta dallo scrivente, in più date, a cavallo tra 2011 e 2012

Page 20: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

20

Tuttavia non è un mistero quel che ci ha scosso dal profondo: questa forza

ci pervade tutti, fin nelle più sottili fibre. Non possiamo esprimerne l’essenza,

ma ci è dato, per quanto lontana sia, di risalire alla sua fonte. Comunque, questa

forza dobbiamo rivelarla nelle sue funzioni, com’essa è manifesta a noi stessi.

Probabilmente è essa stessa una forma di materia, solo non percepibile, come

tale, con gli stessi sensi validi per le specie materiali conosciute. Tuttavia essa

deve manifestarsi nelle specie materiali a noi note, deve agire a esse congiunta;

compenetrandosi con la materia, deve assumere un’effettiva forma vivente.

Muoversi così lungo le naturali vie della creazione è un’ottima scuola formativa.

Essa è in grado di smuovere dal profondo il creatore che, mobile egli stesso,

potrà curare la libertà dello sviluppo lungo le proprie vie figurative. La genesi quale

movimento formale è, nell’opera, l’essenziale.”

Già nel 1912, con il saggio “Dello spirituale dell’arte”, Kandinskij aveva teorizzato

una riflessione sulle caratteristiche di determinati colori e sull’effetto che stimolano

se associati a determinate forme; nell’introduzione del libro ci spiega le sue

motivazioni “Compito di questo scritto

Quanto al mio compito specifico in questo libro, per poter garantire almeno

l’esattezza iniziale non mi mancano solo le forze, ma anche lo spazio; il fine

di questo libriccino è unicamente l’intenzione di illustrare solo in generale e

su un piano puramente teorico gli elementi “grafici” fondamentali, e precisamente

1) in “astratto,” ossia isolati dall’involucro reale della forma materiale del piano

fig. 10: lezione sulle forze

dinamiche delle linee tratte

da ‘Teoria della forma e

della figurazione’ di Vasilij

Kandisnkij.

si noti come l’autore

scompone e rianalizza

gli elementi della sua

pratica artistica per giungere

a un sapere condivisibile

fig. 11: lezione sulle proprietà

sinestetiche delle figure

geometriche di Paul Klee:

per l’autore ad ogni figura

corrisponde una precisa

sensazione/emozione

Page 21: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

21

materiale,e

2) sul piano materiale : l’effetto delle proprietà fondamentali di questo piano.

Ma anche questi intenti potranno essere condotti innanzi solo nel quadro

di un’indagine alquanto frettolosa come tentativo di trovare un metodo normativo

nelle ricerche di scienza dell’arte e di sperimentarlo nell’applicazione pratica.”

Quando nel 1922 venne chiamato a tenere presso il Bauhaus un laboratorio

di pittura ed un corso sulla teoria del colore, che dovessero completare il corso

propedeutico di Itten, sviluppò quindi una teoria compositiva che si proponeva

come una grammatica della pittura astratta.

Nella sua didattica le forme geometriche base, come il punto e la linea, vengono

analizzate secondo un modello di tipo sinestetico: questo era volto al tentativo

di classificare con obbiettività scientifica le proprietà e gli effetti degli elementi

figurativi con un approccio oggettivo e universale. A differenza di Klee, inoltre,

Kandisnky dava molta importanza alla questione degli effetti del colore, che erano

al centro di molte esercitazioni che faceva svolgere ai suoi studenti del corso

di decorazione parietale, coadiuvato dal suo coorganizzatore, Ludwig Hirschfeld-

Mack; nello stesso corso un’attenzione particolare veniva riservata al disegno

analitico, gli studenti dovevano rappresentare con linee e forme libere un disegno

di una natura morta, analizzandone le tensioni compositive e le linee principali fino

ad arrivare all’astrazione del soggetto.

Nel 1933 la scuola del Bauhaus chiuse per colpa dell’ascesa del nazionalsocialismo

tedesco e i vari insegnanti emigrarono principalmente verso gli Stati Uniti, dove

ciascuno sviluppò singolarmente i diversi corsi di basic design.

Proprio in America, sul ispirazione Bauhaus, John Andrew Rice fondò il Black

Mountain college, che fu attivo nel North Carolina dal 1933 al 1956. Egli, scontento

della didattica tradizionale americana dei college, volle istituire un corso volto

a stimolare la creatività del singolo; ispirandosi agli insegnamenti di Dewey elaborò

un piano di studi basato sull’osservazione e sulla sperimentazione. Questo episodio

fu importante perché introdusse in America i principi del Bauhaus, accogliendo

anche alcuni docenti profughi tra le sue fila, tra questi va ricordato Josef Albers,

che vi replicò il suo corso propedeutico al design basato sulla percezione visiva

e sulla teoria del colore.

Dopo l’episodio del Black Mountain college, Albers si trasferì successivamente

a Yale, dove insegnò nel decennio a cavallo tra ‘50 e ‘60 il medesimo corso.

Da questa esperienza nacque il volume “Interazione del colore”, pubblicato

nel 1963: il saggio è una sintesi delle lezioni sulle proprietà del colore tenute

da Josef Albers nelle università americane, con lo scopo di sviluppare in modo

pratico e diretto

Page 22: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

22

una sensibilità per la tonalità e la luce dei colori, che uno studio solo teorico

non può in alcun modo affinare. Mediante una serie di esercitazioni

di complessità crescente con pigmenti e strisce colorate, lo studente scopriva

la legge fondamentale dell’interazione del colore. È interessante notare il metodo

induttivo applicato dallo stesso Albers nella didattica: gli studenti scoprivano

con l’esperimento e la ricerca le leggi della Gestalt senza che queste venissero

spiegate prima. A questo proposito riportiamo una descrizione del volume da parte

di Giovanni Anceschi: “(...) riguardo la forma pedagogica del basic design, Albers

si è dedicato anche alla scrittura dei libri, come ad esempio Interaction of colours.

È uno scatolone che contiene centinaia di esercitazioni fatte dagli allievi

e trasformate in serigrafie da Albers insieme a suoi lavori, presentate come

se fosse anche lui un allievo. La sostanza è l’esperienza che si fa insieme

agli studenti, e lui fra l’altro questa esperienza la fa da un altro punto di vista.

Storicamente il basic (anche quello di Klee e Kandisnky nella parte più virulenta),

con i contributi di Max Bill e dello stesso Maldonado, per certi versi tende a un’idea

di oggettivazione assoluta.

Va ricordato che in quel momento si sta affermando il neopositivismo, idea realista

e oggettivista, dove i saperi sono oggettivi ed anche le nostre discipline devono

diventare una scienza come la fisica.

Sul rapporto tra neopositivismo americano e fenomenologia europea: Albers fa

questo intervento sui fondamenti del basic.

Qual è il problema? Tu costruisci un sapere, ma come fai a condividerlo?

L’atteggiamento neopositivista, in questo, è assolutamente scientifico: io misuro il

sapere e lo faccio diventare oggettivo.

La posizione di Albers sembra influenzata dalla fenomenologia: l’intersoggettività

al posto della soggettività. Tradotto in soldoni pedagogici, i risultati avvengono

all’interno di una classe di allievi e c’è un momento fondamentale del processo

pedagogico che è la mostra che si realizza alla fine del corso con i risultati, che poi

si discutono insieme.”•

Anceschi ci fa capire con queste parole uno degli aspetti più innovativi della

didattica di Albers: il concetto di intersoggettività, che voleva appunto superare

l’idea di un sapere unico e oggettivo che aveva contraddistinto il primo periodo

del Bauhaus, verso un nuovo senso critico, che doveva essere il frutto della

didattica applicata congiunta alla sua discussione plurale.

Ritornando alle esperienze che derivarono dal Bauhaus, dobbiamo ricordare il New

Bauhaus di Chicago, fondata nel 1937 grazie al patrocinio della Association of

Arts and Industries, una sorta di Deutscher Werkbund americana, il cui obbiettivo

• da intervista citata

Page 23: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

23

primario era quello di liberare le discipline del design e dell’arte statunitensi

dall’influenza del vecchio continente. Gropius fu invitato a dirigere il corso, cosa

che rifiutò, ma consigliò il nome di Moholy Nagy, che aderì all’iniziativa. La didattica

del corso propedeutico era tesa verso la stimolazione sensoriale e ne abbiamo

una testimonianza orale di Michele Provinciali riferita da Giovanni Anceschi 4: una

delle esercitazioni consisteva nell’immergere, con gli occhi bendati, le mani in

recipienti che contenevano materiali diversi, come sfere metalliche o spugne e di

rappresentare poi con il disegno le sensazioni provate.

Se Max Bill aveva fondato la pedagogia sul connubio arte-tecnica; invece Moholy-

Nagy propone la triade arte, tecnologia e scienza: la tecnologia e la tecnica

diventano il fulcro su cui si basano le esercitazioni del corso di basic design,

la componente artistica si sviluppa nel corso di ‘visual fondamental’, l’apporto

scientifico alla didattica viene rafforzato, tant’è vero che vengono chiamati studiosi

di livello internazionale, come ad esempio il semiologo Charles Morris.

4, da “Il Verri”, ‘newbasic’ n. 42

fig. 12: evoluzione storica

del modello pedagogico

nei diversi rapporti tra arte,

scienza e tecnologia

che ebbero le scuole

del Bauhaus, del New

Bauhaus di Chiago e di

Ulm.

Page 24: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

24

Nel 1955, con la fine della seconda guerra mondiale, venne fondata a Ulm

la Hochschule fur Gestaltung sotto la direzione di Max Bill, che era stato a suo

tempo uno studente del Bauhaus. La scuola di Ulm si costituisce come centro

internazionale di studio e ricerca nelle diverse discipline del design industriale,

che rappresentava il fulcro degli innovativi insegnamenti e della pratica progettuale,

saperi così progressisti e innovativi che sono tuttora alla base della didattica

di molte università di design contemporanee. Riportiamo le parole con cui

Maldonado descrive quest’esperienza: “L’HfG non è solo una scuola dove vieni

educato ad una materia specifica; l’HfG è piuttosto una comunità i cui membri

condividono le stesse intenzioni: conferire struttura e stabilità al mondo che ci

circonda”.5

Sulla volontà di Max Bill, il corso propedeutico dell’università era organizzato come

un unico laboratorio che accoglieva tutti gli studenti che poi si sarebbero divisi

nelle varie sezioni a partire dal secondo anno. Le finalità erano l’omogeneizzazione

e l’allenamento alla creatività, in questo Bill si era limitato a riproporre la formula

bauhausiana che aveva conosciuto da studente.

Quando succedette alla direzione del corso Tomàs Maldonado, nel 1956, rielaborò

integralmente l’impostazione della scuola, a partire dal corso propedeutico,

secondo tre principi fondamentali.

Il primo punto della riforma consistette nella differenziazione delle corso

propedeutico in tre sezioni: un basic strutturale per l’architettura industrializzata,

un basic bidimensionale e semiotico per la comunicazione visiva e un basic

tridimensionale per il design del prodotto.

Il secondo punto consisteva nell’abbandono della formula della sperimentazione

libera di matrice artistica in favore di una formula caratterizzata da un approccio

scientifico e tecnico più marcato, supportato da esercitazioni basate su precisi

elementi, regole e obbiettivi. Le esercitazioni erano basate su dei modelli

semplificati di progetto, basati sul problem solving, in modo da simulare una vera

e propria progettazione da designer.

Il terzo punto, che prendeva le distanze da quella che era stata l’impostazione della

didattica al Bauhaus, era l’innesto sistematico di discipline scientifiche basate

Ulm

5, Maldonado, ‘Discorso inaugurale per il rettorato al HfG’, 5 ottobre 1964

Page 25: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

25

sulla tecnologia e sulle competenze che lo studente doveva sviluppare. Avevamo

così l’introduzione dello studio di simmetria, topologia, psicologia della percezione

e semiotica, mai fini a se’ stesse ma funzionali per il raggiungimento di una

progettualità matura e conscia.

Ispirandosi alle teorie neopositiviste, il nuovo direttore cercava un corso che si

facesse portatore di un sapere condivisibile ed oggettivo, inoltre voleva separare

le discipline arte e design per tutelare e configurare quest’ultima, garantendo

ai futuri designer che frequentavano Ulm una cultura progettuale basata

sulla tecnologia e sulla scienza. Su questo aspetto è opportuno citare quanto

afferma Anceschi, che fu allievo di Maldonado: “Alla Gestaltungschule di Ulm

era evidente un’ideologia “anti arte”, ma in che senso? Si voleva differenziare

radicalmente il design dall’arte: questa è una cosa tipica della modernità matura.

Il fatto di sottolineare l’autonomia della disciplina del design è una caratteristica

della modernità, che tende a sottolineare l’autonomia delle discipline, o meglio

l’articolazione di una pluralità di discipline.

Maldonado però, appena arriva a Ulm, proprio perché lui era stato un artista,

sapeva veramente come andavano le cose e non aveva mai preso una posizione

ideologica anti arte, ma preferiva riconoscere le differenze tra le discipline.

In effetti la sua definizione di design, fatta nel ‘60, è molto buona. Dice: “che cos’è

il compito del designer? di attribuire/dare una forma agli oggetti”, ma non vuol dire

dare solo forma alle carrozzerie ma anche alla strutture.”•

• da intervista citata

fig. 13: Tomàs Maldonado, mentre

tiene una lezione al corso

di basic design di Ulm

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26

Maldonado orientò il corso di basic design verso la ricerca gestaltica, venivano

insegnate materie scientifiche come la topologia, la geometria, la psicologia

della forma,la matematica combinatoria e, fatto importante, la semiotica; progettare

voleva dire attribuire con metodo scientifico qualità formali ed estetico/strutturali

agli oggetti di design come ai prodotti della comunicazione.

Il grande teorico di questa visione del basic design è stato William Huff, allievo

e assistente di Albers a Yale, nonché collega e seguace di Maldonado, a lui

dobbiamo i termini ‘geometrizzazione’ e ‘percettualizzazione’ intesi come aspetti

costitutivi del basic design.6

Per quanto riguarda gli esercitazioni che Maldonado proponeva ai suoi studenti,

Anceschi ci illustra quella più celebre, ovvero l’esercitazione dell’anti primadonna:

“esercizio dell’anti primadonna: prendete un foglio, nel foglio fate una finestra

di una certa misura. L’importante è che questo rettangolo allungato va diviso in sei

parti, diceva Tomàs; io ho portato le parti a 7. Queste bande verticali vanno dipinte

di colore tinta piatta o con una trama bianca e nera. È fondamentale: devi ottenere

questo effetto percettivo, dove nessuna delle bande o nessuna parte dell’immagine

giochi il ruolo di prima donna. Cosa vuol dire? Tutti capiscono tutto.

Una volta finita l’esercitazione, i singoli fogli vengono appesi e tutti giudicano,

si passa a un sapere che non è soggettivo, mentre l’altro polo è puramente

soggettivo (l’ “io”). I ragazzi infatti all’inizio sono convinti che sono dati opinabili,

che ogni soluzione è autonoma, indifferente e soggettiva, ma non è vero, perché

alla fine della discussione vedono il loro lavoro nella dimensione intersoggettiva.

Questo esercizio viene anticipato da una piccola esercitazione: prendi un foglio

grande e cerca il centro a occhio, segnandolo con un punto, successivamente

con la stecca devi trovare qual è il vero centro. In questo modo passi dalla

soggettività all’oggettività (quella prodotta da un’operazione di verifica scientifica).

Il punto viene messo abbastanza giusto ma tutti lo pongono leggermente

al di sopra del centro reale del foglio. Dopo quella manovra non puoi più dire

che l’oggettivo è nel visibile, dato che è frutto della percezione.”

(intervista citata)

L’esercizio dell’antiprimadonna insegna allo studente a fare pattern che non

contengano gerarchie visive, viceversa la capacità di crearne e quindi di pilotare

la percezione del destinatario sono l’insegnamento che lascia. Questo sapere non

viene però esplicitato con una teoria, venendo sperimentato praticamente

ne si viene a conoscenza in un modo più conscio e significativo rispetto

ad un sapere condiviso in modo induttivo.

Il corso propedeutico di Ulm risentì delle influenze dei vari docenti dell’università,

6, Huff “Geometrizzare e percettualizzare”, da Il Verri, n. 43

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27

che cercavano di aggiornare il modello didattico ai tempi dei grandi cambiamenti

che stavano vivendo, sia tecnologicamente che culturalmente: Walter Zeischegg

portava avanti ricerche morfologiche, Gui Bonsiepe analisi semiotiche

sulla retorica, Tomàs Gonda analizzava la sintassi dello storyboard. In ogni caso

ogni sforzo era congiunto verso una critica al modello del Bauhaus e alla sua

impostazione attivistico-espressionista per quanto riguardava il corso base,

che ritenevano potesse avere un effetto dannoso se rivolto agli studenti,

che a Ulm erano visti come professionisti. Si pensava che il modello del Bauhaus

dando troppo spazio agli aspetti emotivi e intuitivi, lasciasse lo studente sprovvisto

degli strumenti razionali necessari per la progettazione. Come sottolinea

Maldonado su questo approccio espressionista: “al momento del confronto

diretto con questo ordinamento della società borghese, la risposta non poteva che

essere la fuga nella sterile, grottesca parodia dell’espressività individuale. Il gesto

disarticolato si sostituiva al pensiero articolato; l’azione gratuita all’azione finalizzata.

Tutto diventa spettacolo e tutto diventa subito riciclabile da parte di una società che

era ed è ancora sostanzialmente spettacolare”.7

Dopo la chiusura della scuola di Ulm nel 1968, dovuta a forti contrasti interni,

ci fu una seconda diaspora; alcuni docenti fondarono nuove scuole sia in Germania

che all’estero, la metodologia ulmiana continuò ad essere applicata nella didattica,

anche se aggiornata secondo una chiave di lettura che fosse coerente con

il nuovo contesto sociale ed economico, si pensi che erano gli anni in cui il boom

economico aveva esaurito la sua spinta iniziale e nel frattempo iniziavano le prime

contestazioni degli studenti.

7, Maldonado, “Arte, educazione, scienza. Verso una nuova creatività progettuale”, Casabella, n. 435

fig. 14: esercitazione dell’anti-

primadonna, docente

Tomàs Maldonado, studente

Giovanni Anceschi, 1962

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28

Prima di analizzare quali siano state le influenze e gli sviluppi della lezione del basic

design nel nostro Paese, occorre fare prima una breve analisi di quello che era

il panorama artistico e sociale dell’epoca; questo per capire i presupposti che hanno

portato alla trasmissione dei saperi del Bauhaus attraverso l’arte, nello specifico

l’arte cinetico programmata, prima che ciò avvenisse all’interno delle università.

Un tentativo di radicale mutamento della ricerca visiva e della sua rete di diffusione

fu portato avanti in Italia – a partire dal secondo dopoguerra – da una moltitudine

di esperienze artistiche in cui era centrale il rapporto immediato con la realtà. Iniziò

così a prendere forma nel nostro Paese una proposta di opposizione operativa

in cui la pratica e la discussione artistica assunsero come cardine la volontà

di rimettere in discussione i ruoli stabiliti entro il sistema dell’arte e dell’industria

culturale, affermando la necessità di trovare canali alternativi per la diffusione

e la conoscenza della loro ricerca. Tra i tratti comuni più importanti di questo

periodo vi fu il coinvolgimento del territorio e della cittadinanza entro

la processualità dell’artista, che mirava all’intervento diretto nelle strutture

del sociale, ritenendo che la pratica artistica fondasse il suo valore soltanto

all’interno di una comunicazione estesa, condivisa e indipendente. Il senso del fare

arte risiedeva allora nel suo porsi come strumento di costruzione di nuove socialità

e aggregazioni intorno ai valori alternativi.

L’emergere di tali aperture nell’arte derivò anche dall’esplicita interconnessione

degli artisti con il contesto ideologico, sociale e politico, con i rivolgimenti culturali

che investirono trasversalmente la società. Ne emersero opere e azioni artistiche

dialetticamente legate alle urgenze di una società nuova, legata al boom economico

e ad un nuovo panorama industriale. Una modalità operativa che non si limitò alla

proposta di una ricerca indubbiamente innovativa e radicale, che non si conforma,

ma produsse anche una forte consapevolezza critica sul senso del fare arte.

Le opere furono sottoposte a continui ripensamenti e verifiche nel momento

stesso in cui venivano presentate al pubblico.

Nacque una forte negazione dell’approccio individualista – e in molti casi anche

dell’autorialità – dell’essere artista che si concretizzò nel lavoro e nelle poetiche

di gruppo, nella nascita del collettivo di artisti e nell’ampliamento stesso

del concetto di artista come operatore estetico, come scrive Marco Meneguzzo

sulle pagine del catalogo Arte Programmata 1962: “termine coniato in margine

il contesto artisticoe sociale in Italia

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29

all’attività dei gruppi, proprio in quegli anni, per sostituire la parola ‘artista’

o del ricercatore, aggiungendo all’oggettivizzazione razionale dei lavori realizzati

uno spirito innovatore anche rispetto ai rapporti dell’arte con altri campi produttivi,

nella dichiarata volontà di uscire dall’asfittico recinto del sistema dell’arte”,

sottintendendo l’apertura dell’arte al servizio della società. Oltre a mettere

in discussione sé stessi, gli artisti cominciarono a interrogarsi

sul ruolo e l’identità dello spettatore che si voleva attivo e quindi fruitore.

Si sviluppò così un genere artistico che mirava a contrapporsi all’Informale

mediante una più immediata ricerca dei valori essenziali della percezione visiva.

Si trattò di una ripresa di alcuni tentativi già sperimentati dai neoplasticisti

e dai concretisti, ma condotti con una maggiore coerenza e con un minore

rigorismo dogmatico.

Il Gruppo T e con loro il Gruppo Zero tedesco, il Gruppo N di Padova, le Nove

Tendencije slovene e i GRAV (Group de Ricerche d’Art Visuelle) francesi prendevano

spunto da queste riflessioni formali per astrarsi da un livello di fruizione non più

estetica ma gestaltica e percettiva; l’artista cercava un coinvolgimento diretto

dello spettatore, che di fronte a variazioni timbrico-cromatiche, a strutture

geometriche, ad ambienti interattivi diventava uno spettatore-coautore nel senso

che rispondeva percettivamente e corporalmente a questi stimoli.

Con il termine Informale, coniato negli anni Cinquanta da Michel Tapié, vengono

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30

Con il termine Informale, coniato negli anni Cinquanta da Michel Tapié, vengono

definite una serie di esperienze artistiche, sviluppatesi soprattutto in quel decennale

e che hanno una fondamentale matrice astratta. Gillo Dorfles nel suo saggio Ultime

tendenze dell’arte d’oggi quando parla di “Informale” lo delimita a “quelle forme

di astrattismo dove non solo manchi ogni volontà e ogni tentativo di figurazione,

ma manchi anche ogni volontà segnica e semantica”

La caratteristica dell’Informale è di essere contrario a qualsiasi “forma”,

che nella realtà sensibile si intende come tutto ciò che ha un contorno,

con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante

e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta

nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazioni di forme.

L’Informale invece, rifiutando il concetto di forma, si differenzia quindi anche

dall’arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Quest’ampliamento

non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove, ma anche

come allargamento del concetto stesso di creatività artistica, in quanto l’Informale

produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che finirono per sconfinare

del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura.

Si può definire l’Informale come l’insieme di quelle correnti astratte

non geometriche, come il tachisme, l’art autre e l’action painting; la connotazione

del termine è principalmente rivolta all’indicazione di un’assenza di forme definite.

L’Informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta

l’esperienza artistica contemporanea, compresa quella del Gruppo T, che deve

infatti la sua nascita ad una prima mostra collettiva dei suoi componenti, Giovanni

Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi, alla galleria Pater di

Milano nel 1959.

Questa esposizione collettiva, dovuta prima di tutto all’amicizia dei quattro

all’Accademia di Brera, ha ospitato i loro quadri informali e polimaterici, chiave di

lancio per un successo che permise loro di organizzare una nuova mostra personale

nell’anno successivo dedicata all’arte cinetica e, con la stesura del loro manifesto,

di aderire ufficialmente ad un nuovo filone artistico, quello dell’arte cinetica

appunto, che risente nel primo periodo dei loro riferimenti informali.

Il quadro teorico che permise l’affermarsi dell’Informale era stato in realtà

verso l’astrazione

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31

sedimentato dall’importante esperienza artistica che si raccolse per un decennio

circa attorno al Movimento Arte Concreta, fondato a Milano nel 1948 da Attanasio

Soldati, Bruno Munari, Gianni Monnet e Gillo Dorfles, con la volontà di sviluppare

una nuova forma d’arte scevra da ogni riferimento naturalistico, che superasse

da un lato la stagione del realismo politicamente impegnato e dall’altro andasse

verso la creazione di forme pure, anche in polemica con un certo astrattismo “lirico”,

collegato cioè all’espressione dei sentimenti dell’artista.

L’obiettivo era quello di elaborare forme, linee e colori in modo assolutamente

autonomo e libero da ogni riferimento naturalistico: il termine di Arte Concreta

prende le mosse da una pubblicazione di Van Doesburg, edita a Parigi nel 1930,

che esplicitava la necessità di rovesciare le definizioni tradizionali di astratto

e concreto in arte.

Doesburg scrive infatti: “Nulla è più concreto e reale di una linea, di un colore,

di un piano”.

Riprendendo successive elaborazioni di Max Bill, in Italia il movimento assume

lucidità teorica con l’apporto di Gillo Dofles che nel 1949 scrive: (l’arte concreta

è arte) “…basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni

dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato

simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle

cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori.”

Il MAC nasce a Milano, ma presto sarà presente in tutta Italia; nel 1953 si collega

in modo organico con il Groupe Espace, movimento analogo creatosi intorno

all’attività della galleria Denise Réné di Parigi, tanto che successivamente si parlerà

del gruppo MAC/Espace, che si caratterizza per il suo interesse principalmente

fig. 16: Giovanni Anceschi

fig. 17: Davide Boriani,

ricerche informali

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32

rivolto verso il design industriale ed una stretta relazione tra arte e industria.

Tra le ricerche teoriche ed estetiche che influenzarono maggiormente il Gruppo T va

ricordato che Umberto Eco in una serie di importanti interventi teorici, il più famoso

dei quali è contenuto nel saggio Opera aperta (Milano, Bompiani,1962), include

l’Informale e nello specifico i tachistes, gli esponenti dell’action painting, l’art autre

sotto la definizione di poetica dell’opera aperta, così esplicitata dal suo stesso

creatore anche nel catalogo Arte Programmata, catalogo della mostra, Milano,

1962: “forma costituita da una costellazione di elementi in modo che l’osservatore

possa individuarvi, con una scelta interpretativa, vari collegamenti possibili,

e quindi varie possibilità di configurazioni diverse, al limite intervenendo di fatto

per modificare la posizione reciproca degli elementi”.

A riprova dell’influenza che le innovative proposizioni teoriche di Umberto Eco

ebbero anche sul Gruppo T si può ricordare ad esempio la dichiarazione di Davide

Boriani che, nel contesto della mostra Miriorama 2 del 1960, sottolinea come

la loro produzione artistica fosse caratterizzata da una forte componente

interpretativa dello spettatore : “Questi valori (schemi variabili e struttura mobile,

nda) sono soggetti ad una variazione continua e discontinua, non per mostrare

l’immagine in un movimento che si ripete indefinitivamente, ma per dare

la sequenza delle immagini che si trasformano continuamente”. Paola Serra Zanetti

commentando tali prese di posizione, scrive: “in omaggio alla famosa definizione

di ‘Opera aperta’ l’intenzione di Boriani è quella di allargare il multiforme destino

dell’oggetto estetico, travalicando la nozione di serializzazione e di parcellizzazione

che sembra emergere dalla dicitura apparsa in margine al catalogo della mostra alla

Olivetti: formula riduttiva, per la verità, ampliata poi nel famoso saggio di Eco, che

appare proprio in quell’anno” 8

Quando analizza nello specifico le arti visive, Eco annette anche l’arte cinetica

alle tendenze esemplificative all’opera aperta, mettendole sullo stesso piano

dell’Informale per quanto riguarda la direzione che avevano intrapreso

nello sviluppare un’arte nuova e moderna:

“Quindi, pur battendo vie diverse, maniaci del programma matematizzante,

e ‘urlatori’ della dilacerazione plastica, perseguivano in fondo lo stesso fine;

allargare all’uomo contemporaneo il campo del percettibile e del godibile,

questo al di fuori di ogni altra differenza di scuola e di corrente; al di fuori

di quel divergere delle intenzioni, per cui, come è stato notato, in fondo i mistici

della forma compiuta e misurata, si avviavano ad integrare le forme

di loro invenzione nell’ambito di una società industriale accettata senza riserve;

mentre gli anarchici della forma dissolta e oltraggiata protestavano contro l’ordine

costituito che non potevano accettare. Ma tiene una simile dicotomia? (…)

8, AA. VV., L’arte in Italia nel secondo dopoguerra

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33

Questi sono problemi che, al di fuori delle scommesse individuali, dovranno

attendere di essere visti in prospettiva storica. Ma che da entrambi i lati

si perseguisse una liberazione dell’uomo dalle abitudini formali acquisite, questo sì.

Una esigenza di rottura degli schemi percettivi”9.

9, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo

fig. 18: i membri del Gruppo T,

Gianni Colombo,

Giovanni Anceschi,

Grazia Varisco,

Davide Boriani,

Gabriele Devecchi

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Come già accennato sopra, nel gennaio 1960 viene data la possibilità

a questo gruppo di artisti di organizzare una mostra personale. Questo avvenne

precisamente alla galleria Pater di Milano, e rappresenta la loro prima mostra,

dopo che nell’ottobre 1959 si era costituito il Gruppo T, e diventa l’occasione

di presentare il loro primo manifesto, denominato Miriorama 1, che si configura

come piattaforma teorica e manifesto tecnico.

Prima della pubblicazione la dichiarazione era stata presentata a Guido Ballo,

Lucio Fontana, Bruno Munari e Luciano Anceschi al fine di raccogliere eventuali

osservazioni ed avviare un produttivo confronto critico con quanti potevano essere

ritenuti maggiormente vicini a questa presa di posizione teorico-artistica.

Di seguito, il testo integrale del manifesto:

“manifestazione del gruppo T

dichiarazione

ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo

astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello SPAZIO-TEMPO o meglio: modi

diversi di percepire il relazionarsi tra SPAZIO e TEMPO.

consideriamo quindi la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi

percepiamo nella variazione.

da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza

dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi

ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini

di divenire. quindi consideriamo l’opera come una realtà fatta con gli stessi

elementi che costituiscono quella realtà che ci circonda è necessario che l’opera

stessa sia in continua variazione.

con questo noi non rifiutiamo la validità di mezzi quale colore, forma, luce, ecc.,

ma li ridimensioniamo immettendoli nell’opera nella situazione vera

in cui li riconosciamo nella realtà, cioè in continua variazione che è l’effetto

del loro relazionarsi reciproco.

giovanni anceschi

davide boriani

gianni colombo

gabriele devecchi

Miriorama 1, l’inizio

fig. 19 (pagina a fianco): manifesto

per l’esposizione Miriorama

10 con uno scritto di critica

di Lucio Fontana, 1961

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in alcune tra le personalità più rappresentative nel panorama d’avanguardia

degli ultimi 50 anni noi ravvisiamo queste stesse esigenze delle quali in questa

sede diamo una documentazione attraverso alcune opere.

inoltre noi proponiamo all’attenzione del pubblico degli esperimenti in cui colori,

forme, superfici in variazione possono costituire i mezzi con i quali ci esprimeremo.

la manifestazione sarà inaugurata il giorno 15-1-60 alle ore 18 alla galleria pater,

via borgo nuovo 10, milano e resterà aperta i giorni 16-17.

il gruppo T ringrazia per la concessione delle opere”10

“La manifestazione, della durata di quattro giorni, era divisa in due sezioni.

La prima comprendeva una serie di scritti di Boccioni, Balla, Depero, Klee, Fontana,

(manifiesto blanco), Munari e riproduzioni ed opere di Brancusi (colonna senza fine),

Calder, Gabo, Pevsner, Moholy-Nagy, Vasarely, Fontana, Munari (macchina inutile),

Tinguely, Manzoni (linea) concernenti la presenza di particolari aspetti

della questione SPAZIO-TEMPO nelle loro ricerche.

Nella seconda sezione erano esposte opere collettive del Gruppo T a carattere

sperimentale che presentavano variazioni nel tempo dei valori di colore, forma,

superficie, volume, spazio in relazione con l’ambiente e la percezione visiva.

‘Pittura di fumo’, riquadro trasparente dove l’immagine prodotta da vapori

di anidride carbonica veniva variata da correnti d’aria aspirata. ‘Superfici in

ossidazione’: superficie in rame sulla quale per effetto della polarizzazione

provocata da una sorgente di calore, apparivano aloni di colore variabile.

‘Superfici in contrazione [alias ‘Superfici in combustione’]: superfici in materia

plastica sovrastampate con trame regolari, messe in variazione dalle contrazioni

della superficie provocate da una sorgente di calore.

‘Grande oggetto pneumatico’ (insieme che varia nello spazio) : da un cubo di 80 cm.

di lato, fuoriescono, spinti da aria compressa, tubi di materia plastica trasparente

(p.v.p) di 60 cm. di diametro, e lunghi da 6 a 10 metri. I tubi, gonfiandosi, si

espandono nell’ambiente disponendosi in diversi modi. L’aria è soffiata e aspirata,

in modo che i tubi entrano e escono alternativamente nel cubo che è piazzato

[in fondo alla stanza].” 11

10, Gruppo T, Miriorama 1, manifesto

11, “Velina” per l’articolo di Giulia Veronesi, Le groupe T à Milan, in “Art Actuel International”

fig. 20 (pagina a fianco): ‘Grande

oggetto pneumatico’

/’Ambiente a volume

variabile’, 1959/1960

Galleria GNAM, Roma

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“Nostri antenati da un lato e dei nostri compagni di strada dall’altro”

(G. Anceschi)

La particolarità della prima mostra del Gruppo T è l’assenza voluta di una critica

ufficiale della mostra stessa, ciò è dovuto alla loro visione critica del mondo ufficiale

e istituzionale dell’arte, così com’era praticato soprattutto in quel periodo storico

e per la loro spinta avanguardista che al suo apparire aveva trovato spiazzati i critici

attivi sulla scena culturale nazionale coeva.

Questa mancanza viene ovviata in maniera del tutto personale e comunicativa

dedicando una parte dell’esposizione alle opere degli artisti più vicini alla poetica

del Gruppo T: sia con foto riproduzioni e libri d’arte visibile dal pubblico, sia

con la presenza delle opere stesse degli artisti cinetici e concettuali, che stavano

sviluppando ricerche analoghe.

La scelta viene così motivata da Giovanni Anceschi: “noi cominciammo a fare

la nostra prima mostra senza un critico. Siamo noi stessi che facciamo la critica

della mostra stessa attraverso una sala iniziale che è un mezzo critico che dice

con le immagini proprio quello che avrebbe dovuto dire un critico. Non l’abbiamo

fatto in forma di testo ma oltre alle immagini e alle opere stesse abbiamo ripreso

gli stessi testi teorici dei nostri antenati da un lato e dei nostri compagni di strada

dall’altro”.•

Si decide così che la parte introduttiva della mostra stessa vedrà ospitare alcuni

dei protagonisti del primo Novecento, a partire da un riferimento “forte”

alla tematica del tempo nell’opera d’arte, grazie alla foto riproduzione

della Colonna senza fine (1937), dello scultore rumeno Costantin Brancusi,

chiamato a rappresentare, come ha detto lo stesso Anceschi, “una temporalità

diversa, un po’ allusiva, più poetica, con un eccezionale oggetto che quasi

scompare nelle nuvole nella parte alta”•: l’opera viene quindi scelta

a rappresentare un modulo seriale infinitamente ripetuto fino a spingersi

alla negazione della dimensione temporale.

Con i futuristi italiani Balla e Boccioni, invece, la motivazione della loro presenza

risiede nella scelta di analizzare ed interpretare il concetto di movimento

nella pittura: nei dipinti e nella scultura futuristi il movimento, che è una delle idee

i riferimenti nell’arte sul temadel rapporto spazio-tempo

• da intervista citata

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fondanti la loro poetica, viene interpretato come una via di mezzo tra movimento

oggettivo (impressionistico o cubista) e quello soggettivo (espressionistico)

in una categoria che si può chiamare movimento concettuale.

Boccioni svolse la sua opera artistica nella ricerca di un equivalente artistico

e moderno del movimento della velocità, sia nella pittura che nella scultura, dove

trovò i risultati più convincenti e l’importante novità dell’uso di molteplici materiali:

“l’aspirazione tradizionale di fissare nella linea il gesto, e la natura e l’omogeneità

della materia impiegata (marmo o bronzo), hanno contribuito a fare della scultura

l’arte statica per eccellenza. Io quindi pensai che scomponendo questa unità

di materia in parecchie materie, ognuna delle quali servisse a caratterizzare, con

la sua naturale diversità, una diversità di peso e di espansione dei volumi molecolari

– si sarebbe già potuto ottenere un elemento dinamico” 12

Altro elemento caratterizzante l’opera di Boccioni che il Gruppo T ha voluto

sottolineare nella sua presentazione critica alla mostra è la ricerca dell’espressione

del movimento, così sintetizzata dall’artista stesso: “la nostra brama di verità non

può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto, per noi,

non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente,

la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto si

sviluppa rapidamente. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare

e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina le

cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni,

nello spazio che percorrono.” 13

12, Umberto Boccioni, s.t., in “Lacerba”, 13, Umberto Boccioni, Pittura, scultura futuriste

fig. 21: ‘Colonna senza fine’,

Costantin Brancusi, 1937

fig. 22: ‘Ragazza che corre su un

balcone’, Giacomo

Balla,1912

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E’ interessante notare una visione già smaliziata del processo biologico della

percezione visiva, che non viene riproposta come esperienza attiva per lo spettatore

ma viene fissata in termini statici e di scomposizione del movimento sulla tela;

esperienza artistica questa che avvicina Boccioni a Balla, come si può verificare

ad esempio nell’opera di quest’ultimo, ‘Ragazza che corre su un balcone’ (1912),

opera in cui il pittore aveva cercato una rappresentazione del movimento, tema

più volte affrontato da Balla, come in ‘Dinamismo di un cane al guinzaglio’ (1912)

o ‘Volo di rondini’ (1913): uno dei temi della sua ricerca era infatti la scomposizione

del movimento in un procedimento cinetico in cui lo stesso appariva scomposto nei

suoi diversi posizionamenti nello spazio visualizzati contemporaneamente. Tratto

comune questo di una produzione artistica volta all’analisi del movimento, alla sua

ricomposizione plastica e in ultimo alla sua astrazione più geometrica.

Va sottolineata la componente milanese del movimento futurista che il Gruppo

T espone in mostra quale riferimento culturale ed operativo del suo procedere,

non a caso riaffermando una comune radice metropolitana ed industriale, riferita

esattamente alla città di Milano.

La parte introduttiva della mostra era completata poi, per quanto attiene

alla presentazione di testi critici, da contributi di Fortunato Depero, che è allo stesso

tempo uno dei fautori del “secondo futurismo”, termine coniato da Enrico Crispolti

negli anni Cinquanta per definire l’operato di Balla e Depero nello sviluppo

di una poetica più aderente alla teoria estetica che voleva “portare l’arte nella vita”,

che aveva però fallito nel “primo futurismo” in quanto l’arte era rimasta relegata

nelle gallerie e nei musei e si era limitata ad esprimersi principalmente

con la pittura e la scultura.

Balla da una parte aveva cercato nella pittura una nuova struttura della forma con

‘Compenetrazione iridescente n. 2’ (1912), primo passo avanguardista verso

l’astrazione analitica e geometrica e la genesi di una nuova forma con

una composizione interamente non figurativa che si può vedere come

un’anticipazione delle avanguardie storiche europee successive. Depero invece

prende spunto nella sua attività dai risultati raggiunti da Balla stesso per giungere

ad una ridefinizione dell’opera d’arte e del quadro presagendo in questo la crisi

del figurativismo del Novecento e aprendo la strada alle nuove correnti astrattiste.

Sempre nella prima sezione della mostra, tra i riferimenti concettuali dell’agire

del Gruppo T, presenti anche testi teorici di Paul Klee, apprezzato sia in quanto

ritenuto tra i “padri fondatori” dell’astrattismo, sia per il suo costante richiamo

alla necessità di una fruizione dinamica dell’opera d’arte da parte dello spettatore:

“Ogni figurazione è movimento, in quanto comincia in qualche luogo e in qualche

luogo ha termine. Le vie percorse dall’occhio che procede a tentoni riguardo a ciò,

sono generalmente libere in senso temporale e spaziale” 14

14, Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione

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Per Klee l’arte è un’operazione estetica e il risultato è una comunicazione

intersoggettiva, caratterizzata da una funzione formativa o educativa (testimoniata

anche dagli insegnamenti tenuti al Bauhaus, di cui abbiamo trattato sopra).

Il quadro diventa una visualizzazione dell’io interiore dell’artista che si confronta

con l’interiorità dello spettatore, in un rapporto diretto ed emotivo.

Klee è il primo artista che attraverso il ricorso all’attività grafica dell’infanzia cerca

di analizzare il proprio inconscio (va ricordato che nello stesso periodo Freud

e Jung avevano posto le basi della moderna psicoanalisi): le immagini e i segni

sono la rappresentazione astratta del pensiero più intimo dell’artista, vale a dire

il vocabolario delle sue pulsioni di base.

Tra le opere presenti nella parte introduttiva della mostra, alcune lo erano

fisicamente e non soltanto grazie a foto riproduzioni: l’opera di Fontana, venne

scelta dal Gruppo T, non solo perché rappresentasse la concettualizzazione

del gesto dell’artista, ma piuttosto perché ne fissava l’attimo, il momento dell’atto

artistico, rivelando un attenzione alla questione della temporalità, che era uno

dei tratti caratteristici del Gruppo T. La medesima questione temporale veniva

poi presentata nel lavoro di un altro artista milanese, Piero Manzoni, che per

l’occasione aveva prestato alla mostra una delle sue ‘Linee’.

Questo artista, prendendo spunto dalle operazioni dadaiste, aveva iniziato

la sua esperienza personale con l’utilizzo di materiali e oggetti di vita quotidiana,

qualificati attraverso l’uso del colore, in un processo che vedeva il gesto e la volontà

dell’artista come determinanti nella definizione dell’opera.

Successivamente la sua produzione si rivolse verso l’inscatolamento di fiato e feci

d’artista e linee tracciate su rotoli di carta, chiuse ermeticamente in scatole sigillate

in un’attività demistificatrice nei confronti del mondo dell’arte e della società,

fig. 23: ‘Compenetrazione

iridescente n. 2’, Giacomo

Balla,1912

fig. 24: “Linea”, Piero Manzoni

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della quale egli critica il modo di produzione industriale del tutto alienante.

In questo tipo di operazioni Manzoni si pone come precursore dell’arte concettuale:

disegnando una linea su di un foglio di carta della lunghezza di un chilometro

ed inscatolandola per sempre in un cilindro di metallo che ne testimonia

la presenza solo attraverso un’etichetta autocertificatoria, l’artista congela

il suo gesto per l’eternità e così facendo crea un’espressione di un ‘tempo

spazializzato’.

L’arte diventa così un atto puro in cui la riconoscibilità dell’autore coincide quasi

con la presenza stessa della dimensione creativa dell’arte: la critica al modo

di produzione industriale si allarga qui anche alla critica del disegno industriale,

inteso quale premessa di un modo di produzione seriale e indeterminato.

Altro artista presente nella sezione introduttiva, Victor Vasarely annovera qui alcune

foto riproduzioni di sue opere a significare l’importanza per il Gruppo T

di un approccio scientifico e di ricerca nel campo dell’arte, compiuto appunto

da Vasarely con le sue composizioni optical, legato alla sua visione di un’arte

riproducibile alla stregua di un prodotto industriale.

“L’arte è un fenomeno sociale. Sotto questo aspetto”, afferma infatti l’artista

allievo del Bauhaus ungherese (il Muhely) quindi trasferitosi a Parigi, “l’opera

unica artigianale non è fine a se stessa ma inizio: è concepita per essere ricreata,

moltiplicata, trasmessa, diffusa con i mezzi tecnici della nostra civilizzazione.

L’opera d’arte (concentrazione di tutte le qualità in una sola) appartiene al passato;

ora incomincia l’era delle qualità plastiche perfettibili nei numeri progressivi.

Se ieri l’arte significava ‘sentire e fare’, oggi significa forse ‘concepire e far fare’

Se in passato la dura abilità dell’opera si basava sull’ottima qualità dei materiali,

fig. 25: opera optical senza titolo

di Victor Vasarely

fig. 26: catalogo delle ‘Edition Mat’

in cui venivano venduti

i multipli di una sua opera

d’arte, insieme a opere

di Munari e Duchamp

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sulla perfezione tecnica e sull’abilità manuale, oggi risiede nella coscienza di una

possibilità di ‘ricreare, moltiplicare e diffondere’.

Così sparirà, con l’artigianato, il mito del pezzo unico e trionferà infine l’opera che

può essere diffusa grazie alla meccanizzazione. Non bisogna temere i nuovi mezzi

che la tecnica ci ha dato; non possiamo vivere che nella nostra epoca.” 15

Si nota l’attenzione dell’artista al superamento della discriminazione tra artigianato

e arte, retaggio della formazione avuta presso il Muhely, e la ferma fiducia

nel progresso e nell’ampliamento dei limiti consentito dalla rivoluzione tecnologica

e industriale, con il fine si giungere ad una concezione dell’arte non più autoriale

ma piuttosto accessibile a molti.

Il tema è caro anche agli operatori del Gruppo T, i quali – come verificheremo più

avanti – collaborarono con Danese nella realizzazione di multipli d’arte, come

a suo tempo fece lo stesso Vasarely con le Edition MAT.

Va sottolineato -soprattutto ai fini dell’interesse per questo artista da parte

del Gruppo T – che la sua attività fu incentrata sulla spazialità e sul movimento,

e sulla loro rappresentazione attraverso le modalità del cinetismo plastico,

una poetica che cercava, con gli elementi grafici, cromatici e geometrici,

di generare la percezione di un falso movimento agli occhi del fruitore.

Una ricerca simile veniva condotta anche da Làszlò Moholy-Nagy, ungherese

anch’egli, e, come Vasarely, precursore della op art: se da un punto di vista artistico

e grafico viene ricordato soprattutto per i suoi studi fotografici sul movimento

e sulla luce, per quanto riguarda l’arte cinetica va ricordato come uno dei padri

delle opere in movimento.

Infatti, di formazione costruttivista, la sua ricerca era incentrata sull’attivazione

dello spazio attraverso un sistema dinamico di forze realmente in tensione,

che non si risolveva soltanto nella grafica e nella fotografia ma si sostanziava anche

nella produzione di sculture: “dobbiamo dunque mettere al posto del principio

statico dell’arte classica, il principio dinamico della vita universale”.

A questa dichiarazione segue la presentazione nel 1930 all’Esposizione

internazionale della costruzione di Parigi della sua “Macchina luminosa”

(o Lichtrequisit): una macchina a superfici riflettenti, una scultura in movimento

in costante dinamismo.

L’opera era divisa in tre parti: nella prima pezzi metallici rettangolari in movimento

irregolare, nella seconda dischi metallici perforati muovono una piccola palla nera,

nella terza gira una spirale di vetro che produce un volume conico virtuale.

Il tutto è mosso da un motore ed è decorato da un centinaio di lampadine elettriche

di diverso colore che creano un complesso spettacolo luminoso.

15, Victor Vasarely, Manifesto sul sistema di forme dinamico-costruttive

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44

Nella redazione del suo manifesto, Moholy-Nagy si era ispirato alle teorie dei fratelli

Gabo e Pevsner, russi formatisi agli insegnamenti del costruttivismo, e quindi,

una volta fuoriusciti, attratti dalla ricerca estetica fondata sul metodo scientifico,

al fine di dimostrare una sostanziale continuità tra scienza ed arte, in una visione

molto politica dell’arte che non doveva volgere il suo interesse esclusivamente

verso la realizzazione di capolavori, frutto di tecniche raffinate e preziosi materiali,

destinati alle élites, ma doveva essere una ricerca di tipo scientifico nel campo della

conoscenza estetica, i cui risultati non erano dunque opere d’arte ma esempi della

ricerca stessa.

“(...) Spazio e tempo sono oggi per noi rinati.

Spazio e tempo sono oggi le uniche forme su cui la vita è costruita e su ciò deve

quindi essere edificata l’arte.

(…)

1. Perciò nella pittura rinunciamo al colore in quanto elemento pittorico: il colore è la

superficie ottica idealizzata degli oggetti; è un’impressione esteriore e superficiale;

è un accidente che non ha nulla in comune con l’essenza più intima dell’oggetto.

Affermiamo che la tonalità della sostanza, cioè il suo corpo materiale assorbente l

a luce, è l’unica realtà pittorica.

2. Rinunciamo alla linea in quanto valore descrittivo: nella vita non esistono linee

descrittive; la descrizione è un segno umano accidentale sulle cose, non è tutt’uno

con la vita essenziale e con la struttura costante del corpo. La descrittività è un

elemento d’illustrazione grafica, è decorazione.

Affermiamo che la linea vale solo come direzione delle forze statiche e dei loro ritmi

negli oggetti.

fig. 27: Làszlo Moholy-Nagy,

‘Macchina luminosa’

(o Lichtrequisit), 1930

fig. 28: Naum Gabo e Antoine

Pevsner, modellino

per il ‘Monumento

della Terza Internazionale’

(mai realizzato), che

nel progetto consisteva

di una torre che

racchiudeva tre grandi

elementi geometrici

in perenne movimento

a rappresentare giorni,

mesi e anni

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3. Rinunciamo al volume in quanto forma spaziale pittorica e plastica: non si

può misurare il liquido col metro. Guardiamo lo spazio... Che cos’è se non una

profondità continuata?

Affermiamo il valore della profondità come unica forma spaziale pittorica e plastica.

4. Rinunciamo alla scultura in quanto massa intesa come elemento sculturale. Ogni

ingegnere sa che le forze statiche di un corpo solido e la forza materiale di esso

non dipendono dalla quantità della massa. Es.: un binario, un profilato a T, ecc.

Ma voi, scultori di ogni ombra e rilievo, aderite ancora al pregiudizio vecchio

di secoli secondo cui non è possibile liberare il volume della massa. Qui, in questa

mostra, prendiamo quattro piani e ne otteniamo lo stesso volume come se

si trattasse di quattro tonnellate di massa. Perciò reintroduciamo nella scultura

la linea come direzione e in questa affermiamo che la profondità è una forma

spaziale.

5. Rinunciamo alla delusione artistica radicata da secoli secondo cui i ritmi statici

sono gli unici elementi delle arti plastiche.

Affermiamo che in queste arti vi è il nuovo elemento dei ritmi cinetici in quanto

forme basilari della nostra percezione del tempo reale.

Questi sono i cinque principi fondamentali del nostro lavoro e della nostra tecnica

costruttiva.

Oggi noi proclamiamo davanti a tutti voi la nostra fede. Nelle piazze e nelle strade

esponiamo le nostre opere, convinti che l’arte non deve rimanere un santuario

per l’ozioso, una consolazione per il disperato e una giustificazione per il pigro.

L’arte dovrebbe assisterci dovunque la vita trascorre e agisce: al banco, a tavola,

al lavoro, in riposo, al gioco, nei giorni feriali e in vacanza, a casa e nella strada,

in modo che la fiamma del vivere non si estingua nell’umanità. Non cerchiamo

consolazione né nel passato né nel futuro.

Nessuno può dirci quale sarà il futuro e con quali strumenti lo si possa prevedere.

È impossibile non ingannarsi sul futuro e su di esso si possono dire tutte le bugie

che si vogliono.

Per noi le urla sul futuro equivalgono alle lacrime del passato: il ripetuto sogno

a occhi aperti dei romantici. Il delirio scimmiesco del vecchio sogno paradisiaco

con indosso vesti contemporanee.

Chi si occupa oggi del domani, è occupato a non fare nulla.

E chi domani non ci darà nulla di ciò che ha fatto oggi, non è di alcuna utilità

per il futuro.

L’oggi è del fatto.

Ne terremo conto anche domani.

Ci lasciamo dietro il passato come una carogna.

Lasciamo il futuro ai profeti.

Per noi prendiamo l’oggi.” 16

16, Gabo e Pevsner, Manifesto del Realismo

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E’ di rilevante importanza la direzione presa da questi artisti provenienti

dall’Europa orientale, che avevano individuato come possibile sviluppo delle teorie

costruttiviste la creazione di sculture in movimento, di fatto creando i presupposti

per la successiva affermazione dell’arte cinetica, riferita in particolare alle opere

tridimensionali in movimento, che costituiscono un superamento del movimento

ottenuto attraverso ambiguità percettive tipico delle prime sperimentazioni

di Vasarely e in generale dell’optical art.

L’origine delle opere tridimensionali in movimento imprevedibile è difficile

da definire con precisione ma la figura dominante nel panorama internazionale

si può individuare nello statunitense Alexander Calder, che proseguendo una certa

ricerca formale iniziata da Tatlin e Man Ray avviò una sperimentazione impregnata

di personali scelte estetiche che lo portò alla creazione dei celebri mobiles.

Per mobiles si intendono comunemente le sue sculture in movimento,

in opposizione agli stabiles, sculture tradizionale immobile. Potevano essere

di due tipi: su piedistallo o appesi a fili, ma in ogni caso erano prodotti con materiali

industriali (lamiera, profilati, tondini metallici), eventualmente dipinti con semplice

vernice a smalto; erano accomunati dall’espressione del movimento

fig. 29: Alexander Calder, ‘Steel

Fish’, 1934

fig. 30: Alexander Calder, ‘Senza

titolo’, 1940

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per il movimento, slegato da qualsiasi rappresentazione figurativa o da ogni

riferimento alle forme dell’inconscio (come ad esempio presenti invece nella pittura

di Mirò): “generalmente “, ha scritto Jean Paul Sartre, “egli non imita nulla, e io

non conosco arte meno menzognera della sua. La scultura suggerisce il

movimento,

la pittura suggerisce la profondità o la luce. Calder non suggerisce niente: egli

afferra degli autentici movimenti vivi, e li lavora. I suoi mobiles non significano

niente, non rimandano ad altro che a se stessi: essi sono, ecco tutto; sono degli

assoluti” 17

Se in un primo momento, per muovere queste macchine, l’artista le aveva dotate

di piccoli motorini elettrici, successivamente si orienta verso una scultura in cui

il movimento è dato dalle forze naturali, intese sia come forza di gravità o agenti

atmosferici (vento) sia come l’azione fisica dello spettatore stesso, chiamato

in causa in una stretta interazione con l’opera d’arte, a modificare l’instabile

equilibrio delle sue parti meccaniche.

Il movimento quindi deriva dalla perdita dell’equilibrio di forze naturali sul quale

è basato ed in questo rivela tutta la sua paradossale naturalità, pur essendo

la struttura composta da elementi artificiali, assemblati dall’artista, tanto è vero

che Marcel Duchamp paragonò i mobiles di Calder ad alberi mossi dal vento.

17, Les mobiles de Calder, catalogo della mostra

fig. 31: Jean Tinguely, ‘Meta

Malevic’, 1954

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Sulla linea di ricerca tendente all’esaltazione della dimensione cinetica nell’opera

d’arte possiamo inserire a pieno titolo anche l’attività dello svizzero Jean Tinguely,

formatosi artisticamente in Francia dove aderisce al movimento Nouveau réalisme,

anch’esso come i precedenti presente nella sezione introduttiva della mostra

del Gruppo T, ma in questo caso con una vera e propria opera d’arte ceduta

provvisoriamente in fiducia a questi giovani (e allora pressochè sconosciuti)

artisti milanesi, a significare una scelta di condivisione dell’impegno nella ricerca

estetica.

Dice Giovanni Anceschi a proposito di questa scelta: “per esempio avevamo

un’opera del primo Tinguely, che in una fase successiva invece aveva dirottato

la sua attività verso un’arte umoristica e dadaisto-surrealista del cinetismo con

la creazione delle sue macchine-sculture dalle movenze umane, mentre nel primo

periodo era incentrato su di un cinetismo più elementare.

La sua opera che abbiamo esposto era una tavola nera su cui era applicata

una struttura sottilissima dipinta in nero, questa struttura era composta

di ingranaggi costruiti con un leggerissimo filo di ferro nero che si confondeva

con lo sfondo; un motorino elettrico faceva girare questi ingranaggi su cui erano

applicate delle forme bianche che quindi creavano un astrattismo cinetizzato.”•

• da intervista citata

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49

Il Gruppo T scelse di avvalersi dei testi critici di Lucio Fontana: questa scelta

in realtà era ben meditata da parte del Gruppo T, in quanto Fontana viene definito

da Anceschi come “nostro maestro”, per la questione dello spazialismo,

che insieme al tempo sono uno dei punti fondanti la poetica del gruppo.

Come ci racconta Gillo Dorlfes nel suo ‘Il divenire delle arti’, Fontana stesso

rappresentava quel gruppo di artisti che tra il ‘30 e il ‘40 a Milano (che aveva

ormai strappato a Torino il primato industriale ed era la sola città moderna d’Italia)

si stavano muovendo verso un’arte non figurativa: del gruppo, denominatosi

“astrattisti milanesi”, facevano parte anche Atanasio Soldati, Mario Radice, Manlio

Rho.

L’influenza di questo gruppo sulla produzione artistica successiva deriva da una loro

capacità di realizzare un’originale sintesi, tutta interna ai caratteri culturali nazionali,

tra correnti artistiche immediatamente precedenti, metafisica e futurismo,

per arrivare in modo rigoroso e non retorico a una ricerca puramente formale,

nel tentativo di avvicinare la produzione artistica italiana a quella europea.

In questo contesto, va ricordata l’opera di Lucio Fontana per due aspetti

significativi: la nascita dello movimento artistico dello spazialismo e il gesto

concettuale del taglio della tela.

Anche questo riferimento del Gruppo T va annoverato all’ambiente artistico

dell’Accademia di Brera, con una parentesi in Argentina, dal 1940 al 1946, periodo

in cui è stato da lui redatto il Manifiesto blanco, summa teorica dello spazialismo.

L’importanza di Fontana va inquadrata nella sua spinta innovativa contro

ogni retaggio del figurativismo novecentesco da un lato e per il superamento anche

delle istanze astrattiste dall’altro, nella ricerca invece di una nuova dimensione

spazio-temporale in cui l’opera d’arte si appropria di spazi fisici nuovi, con l’ausilio

dei moderni linguaggi e strumenti tecnologici.

In un lungo percorso di ricerca Fontana giunge innanzitutto al quadro concepito

come unico campo di colore e quindi superamento assoluto di ogni astrazione

e/o figurazione; in secondo luogo, l’operazione concettuale del taglio della tela,

segno dell’operato dell’artista, raddoppia quello spazio concettuale, aggiungendo

da una parte una nuova dimensione al quadro in cui il taglio non è negazione ma

superamento della delimitazione spaziale della tela, dall’altra congela l’atto artistico

la dimensione spaziale:Lucio Fontana

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50

nel rapporto spazio-temporale agli occhi del fruitore.

Page 51: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

51

Nel caso dell’esposizione curata dal Gruppo T, il rapporto tra questi artisti e Fontana

è particolarmente stringente in quanto la mostra presenta fisicamente uno dei

famosi tagli ed insieme anche il Manifiesto blanco elaborato da Fontana stesso

nell’ultimo periodo di permanenza in Sud America.

Dal Manifiesto blanco emerge innanzitutto l’affermazione della supremazia della

scienza sulle forme tradizionali del pensiero: “(...) Le scoperte della scienza

gravitano su ogni organizzazione della vita. La scoperta di nuove forze fisiche,

il dominio della materia e dello spazio impongono gradualmente all’uomo condizioni

che non sono mai esistite nella sua precedente storia. L’applicazione di queste

scoperte in tutte le forme della vita crea una trasformazione sostanziale del

pensiero.”

Anche l’arte astratta viene superata da nuove concezioni artistiche: “(…) Si concepì

l’astrazione alla quale siamo arrivati progressivamente attraverso le deformazioni.

Però questo nuovo periodo non risponde alle esigenze dell’uomo attuale. (...)

È necessario quindi un cambio nell’essenza e nella forma. È necessario

il superamento della pittura, della scultura, della poesia. Si esige ora un’arte

basata sulla necessità di questa nuova visione.

Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresenta come grandiosità ancora

non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo, le figure pare

abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati.

Questa concezione fu la conseguenza dell’idea dell’esistenza che si formava

nell’uomo, la fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica,

si determina che il movimento è una condizione immanente alla materia come

principio della comprensione dell’universo. Arrivati a questo punto dell’evoluzione

la necessità del movimento è tanto importante da non essere più raggiungibile

dalle arti plastiche ed allora quella evoluzione è continuata dalla musica e le arti

entrano nel neoclassicismo, pericoloso pantano della storia dell’arte. Conquistato

il tempo, la necessità del movimento si manifesta pienamente. Gli impressionisti

sacrificano il disegno della composizione al colore-luce. Nel futurismo sono

eliminati alcuni elementi, altri perdono la loro importanza restando subordinati

alla sensazione. Il futurismo adotta il movimento come principio ed unico fine.

Lo sviluppo di una bottiglia nello spazio, forme uniche della continuità dello spazio

iniziano la sola e vera grande evoluzione dell’arte contemporanea (dinamismo

plastico): gli spaziali vanno al di là di questa idea: né pittura, né scultura ‘forme,

colore, suono attraverso gli spazi’. Coscienti ed incoscienti in questa ricerca,

gli artisti non avrebbero potuto raggiungere la finalità senza poter disporre di nuovi

mezzi tecnici necessari e di nuove materie. Ciò giustifica l’evoluzione del mezzo

nell’arte. Il trionfo del fotogramma, ad esempio, è una testimonianza definitiva

fig. 32 (pagina a fianco): Lucio

Fontana, ‘Taglio’, 1960

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52

per l’indirizzo preso dallo spirito verso il dinamico.

Plaudendo a questa trasformazione nella natura dell’uomo, abbandoniamo la pratica

delle forme di arte conosciuta ed affrontiamo lo sviluppo di un’arte basata nell’unità

di tempo e dello spazio. L’esistenza, la natura, la materia sono una perfetta unità

e si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il movimento, proprietà di evoluzione e

di sviluppo è la condizione base della materia; questa esiste ormai in movimento

e non in altra forma, il suo sviluppo è eterno, il colore ed il suono sono i fenomeni

attraverso il cui sviluppo simultaneo s’integra la nuova arte. Il subcosciente, dove

si annidano tutte le immagini, che percepisce l’intendimento, adotta l’essenza

e le forme di queste immagini, accetta le nozioni che informano la natura

dell’uomo. Il subcosciente plasma l’individuo, lo completa e lo trasforma gli dà

l’indirizzo che riceve dal mondo e che l’individuo di volta in volta adotta. La società

tende a sopprimere la separazione fra le due forze per riunirle in una sola forma

maggiore, la scienza moderna si basa sull’unificazione progressiva fra

i suoi elementi. Da questo nuovo stato della coscienza sorge un’arte integrale

nella quale l’essere funziona e si manifesta nella sua totalità.

Passati vari millenni del suo sviluppo artistico analitico, arriva il momento

della sintesi. Prima la separazione fu necessaria, oggi costituisce

una disintegrazione dell’unità concepita. Concepiamo la sintesi con una somma

di elementi fisici: colore, suono, movimento, spazio, integranti un’unità ideale

e materiale. Colore, l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo

ed il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Sono le forme

fondamentali dell’arte nuova che contiene le quattro dimensioni dell’esistenza.

Questi sarebbero i concetti teorici dell’arte spaziale, brevemente esporrò

la parte tecnica e la sua possibilità di sviluppo, che contiene le quattro dimensioni

dell’esistenza. L’architettura è volume, base, altezza, profondità, contenute

nello spazio, la 4a dimensione ideale dell’architettura è l’arte. La scultura è volume,

base, altezza, profondità.

La pittura è descrizione.

(…)

A questa nuova architettura un’arte basata su tecniche e mezzi nuovi; Arte spaziale,

per ora, neon, luce di Wood, televisione, la 4a dimensione ideale dell’architettura.”

Nonostante riconosca all’architettura coeva una spinta verso il moderno,

va ricordato infatti l’affermarsi del razionalismo, Fontana se ne discosta

aggiungendo nell’arte la dimensione della quarta dimensione, quella dell’arte

spaziale, fatta

di nuovi spazi e materiali e basata sul concetto di modernità e di movimento,

un’arte che travalichi il contingente della sua essenza per arrivare ad una nuova

forma di arte.

Page 53: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

53

“La Torre di Babele è un esempio antichissimo della pretesa dell’uomo per

il dominio dello spazio. La vera conquista dello spazio fatta dall’uomo, è il distacco

dalla terra, dalla linea d’orizzonte, che per millenni fu la base della sua estetica

e proporzione. Nasce così la 4a dimensione, il volume è ora veramente contenuto

nello spazio in tutte le sue dimensioni. La prima forma spaziale costruita dall’uomo

è l’aerostato. Col dominio dello spazio l’uomo costruisce la prima architettura

dell’Era Spaziale - l’aeroplano.

A queste architetture spaziali in movimento trasmetteranno le nuove fantasie

dell’arte. Si va formando una nuova estetica, forme luminose attraverso gli spazi.

Movimento, colore, tempo, e spazio i concetti della nuova arte. Nel subcosciente

dell’uomo della strada una nuova concezione della vita; i creatori iniziano

lentamente ma inesorabilmente la conquista dell’uomo della strada.

L’opera d’arte non è eterna, nel tempo esiste l’uomo e la sua creazione, finito

l’uomo continua l’infinito.” 18

18, Lucio Fontana, Manifiesto Blanco

fig. 33: un’istantanea dell’atto

artistico di Lucio Fontana,

parte della serie che gli

viene dedicata da Ugo

Mulas

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54

L’altra forte personalità artistica che il Gruppo T invita a partecipare alla sezione

introduttiva con dignità di maestro è Bruno Munari, che in quella occasione ebbe

la possibilità di conoscere personalmente questi giovani artisti milanesi, di cui

sarebbe diventato, oltre che capo scuola e punto di riferimento imprescindibile,

anche amico.

Il ruolo di maestro conferito a Munari trova la sua ragione d’essere nel fatto

che era stato il primo artista italiano a introdurre l’arte cinetica nel nostro Paese;

come abbiamo accennato sopra, in questa operazione egli si rifaceva alle teorie

del basic design; a riprova di quanto fosse fondamentale il progetto di parificare

arte e design del Bauhaus, è da sottolineare come i primi episodi di trasmissione

della disciplina nel panorama italiano siano ascrivibili a delle figure artistiche.

Bruno Munari era di sicuro a conoscenza delle ricerche portate avanti dalla scuola

di Ulm, ne è la prova il fatto che in uno dei volumi della serie sulle figure

geometriche compaia la ‘Octanosfera’ di Walter Zeischegg. Ma si può anche

azzardare che Munari aderì alla disciplina del basic design, facendosene portavoce

in Italia: lo si può riscontrare appunto nella sua serie di volumi sulle tre figure

geometriche base, ‘Il quadrato’, ‘Il cerchio’ e ‘Il triangolo’, che altro non sono

che un corso di basic fatto libro, una piccola lezione teorica destinata a stimolare

la cultura visiva del pubblico italiano. E inoltre, sempre osservando la ‘Octanosfera’,

si può notare come possieda somiglianze formali e strutturali forti con l’opera

‘Tetracono’ di Munari.

E ancora, in questo senso, gli studi compiuti a partire dal 1947 sulla forma

tridimensionale dei “Concavi-convessi”, in rete metallica, hanno forti analogie

formali con le contemporanee e similari ricerche scultoree di Max Bill.

“Ci sono due modi di impostare un programma di insegnamento... c’è un modo statico e un modo dinamico. C’è un modo nel quale l’individuo viene forzato ad adattarsi ad uno schema fisso, quasi sempre superato o comunque, nel migliore dei casi, in via di superamento nella realtà pratica di ogni giorno. E un altro modo che si va via via formando, modificato continuamente dagli stessi individui e dai loro problemi sempre più attuali...Nel caso dell’insegnamento dinamico, gli insegnanti studiano un programma di base, il più avanzato possibile e quindi continuamente modificabile secondo gli interessi che emergono dall’insegnamento stesso. Solo alla fine del corso

si saprà quale forma avrà avuto e come si sarà sviluppato.”19

l’arte cinetica:Bruno Munari

19, Bruno Munari, Design e comunicazione visiva

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55

Lo stesso Anceschi ricorda così l’opera che Munari concesse per l’esposizione

della galleria Pater: “una struttura modulare, una lastra di alluminio suddivisa

in strisce e composta di moduli quadrati; tutte le parti di quest’unica lastra sono

imperniate da una parte con un filo di nylon che le lega in modo da dare loro

la forma di un blocco di volumi virtuali non più vorticosi ma volumi pensati; un’opera

di una bellezza straordinaria, forse il motivo per cui abbiamo ritenuto di non esporre

anche Calder”. •

Si può parlare quindi di un’opera d’arte che riflette da una parte delle commistioni

con il mondo del design, per la sua matrice industriale, dall’altra di una messa

in atto delle ricerche visive sulla configurazione per quanto riguarda la sua forma

in divenire.

Davanti alla necessità di valutare la sua opera, la prima domanda che ci si deve

porre è se vada definito come un artista o come un designer. Munari fu in questo

una rivoluzione per l’Italia; il design con lui si è inventato nella prospettiva

di una sintesi delle arti, nuova assiologia tra l’arte e l’arte decorativa, capace

di rivedere l’idea delle arti totali. Infatti a Milano Bruno Munari elabora il concetto

di artista-designer, rivalutando i rapporti tra l’arte e l’industria. Piuttosto che fondere

le differenti discipline, Munari decide radicalmente di dissolverle e rimaterializzarle,

per rinnovarle con la pratica quotidiana democratica e rivoluzionaria dell’arte.

“L’arte non è più il quadro nel salotto, ma l’elettrodomestico in cucina”, scrive

Munari in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Giorno” nel 1966.

Oltre ad essere cofondatore del MAC, Movimento Arte Concreta, Munari fu

anche grafico, autore e designer, o artista/designer grazie alle sue macchine inutili:

chiamate macchine perché erano il risultato di un assemblaggio e inutili “perché

• da intervista citata

fig. 34: Bruno Munari, ‘Macchina

inutile’, 1952

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56

non producono nulla. Al contrario delle altre macchine, queste non producono alcun

bene di consumo, niente di materiale, non eliminano la manodopera e non fanno

aumentare il capitale”. 20

Con queste formule pone la questione dell’eventuale povertà dell’arte e della sua

rivitalizzazione con il design: in questo senso si può iscrivere Munari nella tradizione

del design.

Con la redazione del Manifesto del macchinismo del 1938, Munari intende fare

esplodere le distinzioni tra le categorie di differenti espressioni artistiche, tra le arti

liberali e le arti applicate. Egli decreta la fine dell’artista in contrasto con il mondo

moderno cui sostituisce un nuovo artista, capace di concepire l’elettrodomestico

e ogni altro oggetto utile del quotidiano, praticamente di instillare dignità

e grandezza ovunque. Con questa poetica Munari ci riporta alle difficoltà

incontrate nel porre frontiere chiare tra l’arte e il design e teorizza una ridefinizione

di quest’ultimo che riguarda gli oggetti globali, sociali, urbani e politici: “che cos’è

dunque il design se non è uno stile o un’arte applicata? È la progettazione più

obbiettiva possibile di tutto ciò che costituisce l’ambiente nel quale l’uomo oggi

vive. Un ambiente che comprende tutti gli oggetti industriali, dal vetro alla casa, fino

alla città.”(ibidem)

Per Munari il design supera il quadro fisso o convenzionale e abbraccia una nozione

più vasta, che deriva dalle teorie di arte totale del Bauhaus sulla costituzione

dell’ambiente. Munari inventa il concetto di artista-designer a partire da

una rivalutazione dei rapporti tra arte e industria. Nei due manifesti intitolati Le

Arti e la tecnica e Linea e obbiettivi del MAC del 1953, i teorici del gruppo, Franco

Passoni e Gillo Dorfles precisano quanto la “sintesi delle arti” che si sa essere

lontana dall’essere una formula ex novo è sempre valida finche permette

20, Bruno Munari, Arte come mestiere

fig. 35: Bruno Munari, ‘Macchina

inutile’, 1952

fig. 36: Bruno Munari, ‘Macchina

inutile a giostra’, 1953

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57

fig. 35: Bruno Munari, ‘Il cerchio’,

pubblicato con Corraini

nel 1953. si può intendere

come un tentativo

da parte dell’autore

di sviluppare una risposta

didattica italiana al basic

design, che ormai a Ulm

stava vivendo la sua

fase più florida. questa tesi

è supportata

dalla fotoriproduzione

del ‘Octanosfera’

di Walter Zeischegg

qui riportata.

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58

di sviluppare un “concorso diretto dei tecnici e degli artisti su un piano di stretta

collaborazione, nella prospettiva finale di raggiungere un risultato concreto

che aderisce alla funzione, in un legame armonico tra i mondi della forma,

dello spazio e l’applicazione pratica dell’opera collettiva.” 21

Il MAC entra cosi nel dibattito sulla tecnologia e l’espansione del design, che Max

Bill teorizza nella Hocshule fur Gestaltung di Ulm, una scuola che “conceda ancor

più valore al design degli oggetti, dia più spazio all’urbanistica e alla pianificazione,

attualizzi la sezione visual design, e aggiunga infine una sezione informazione.

Noi non facciamo che rispondere ai bisogni natura della nostra epoca”. Rispondere

a questi bisogni, per Munari, riporta a definire il designer come “l’artista

del nostro tempo”. Questa posizione modifica non solamente l’accezione

tradizionale dell’artista e del designer, ma metamorfizza tanto il territorio dell’arte

che quello del design. In questo senso il contributo di Munari rompe i classici limiti

tra i campi disciplinari e ridefinisce al di là delle categorie l’arte e il design

come un’unica nozione rivoluzionaria.

21, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo

fig. 36 (pagina a fianco) Gruppo T,

manifesto ‘Miriorama,

1960

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59

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60

Abbiamo visto precedentemente quelle che sono state le ricerche analoghe,

coeve e non, al Gruppo T. Ora vedremo nello specifico la poetica del gruppo stesso

attraverso i suoi tratti più caratteristici.

La prima affermazione da fare riguarda il nome stesso sotto il quale si sono riuniti

gli artisti oggetto del presente studio: la “T” del nome Gruppo T sta ad indicare

la parola “tempo”, con ciò volendo sottolineare il fatto che la loro poetica artistica

si esprimeva nel divenire e quindi affidando alla dimensione temporale

un’importanza sostanziale.

Dalla lettura del manifesto di Miriorama 1 si evince l’importanza data da questi

operatori al concetto di spazio riferito al tempo, che è il vero nodo centrale

della loro poetica, incentrata non sulla rappresentazione del tempo ma sulla

sua presentazione in divenire. A questo proposito ricordiamo le affermazioni

di Davide Boriani: “la prima idea (di programmazione, n.d.a.) nasce dal concetto

di tempo: io facevo dei monocromi craquelé, che si screpolavano casualmente,

con l’andare del tempo: mi divertiva di più vedere la materia che si trasformava

da sola che il quadro fatto casualmente, automaticamente, in serie: le serie

di quadri erano come sequenze di fotogrammi: cercavo allora di superare l’idea

di opere e casuali e conseguenti con una cosa unica che le contenesse tutte:

il tempo era la dimensione che poteva riuscire a contenere tutte le operazioni

possibili. Ne parlai con Anceschi, che mi diede dei testi, tra cui Bergson,

e da lì nacque la nostra idea di arte cinetica. Cioè le tre dimensioni non sono

più sufficienti; ogni cosa si trasforma; se facciamo un quadro con la dimensione

temporale dobbiamo far vedere questa attraverso la variazione temporale

dell’immagine; la variazione fa percepire la durata, il tempo; la variazione non

si esprime con i mezzi tradizionali dell’arte, ma con mezzi ‘altri’...per questo

pensavo a una macchinetta, ma Devecchi obbietta che il meccanismo si ripete,

così si deve inserire qualcosa che turbi questa ripetitività attraverso la componente

casuale, il caso, Colombo, sempre elegante, si preoccupa dell’antiesteticità

del meccanismo, ma alla fine, già nell’ottobre ‘59 avevamo fatto le prime cose”22

Da questa intervista si evince la centralità, per il Gruppo T, dell’interesse per

le tematiche dell’arte cinetica e programmata, termine quest’ultimo che viene

coniato da Bruno Munari nel 1962, per la celebre mostra Arte Programmata,

la poetica del Gruppo T,tra arte e design

22, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo

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61

patrocinata da Olivetti e ospitata nei negozi del marchio a Milano, Torino e Venezia.

Munari stesso spiega come è nata la definizione di arte programma: “L’ho trovato

io. Naturalmente ci sono ancora dei legami coi princìpi futuristi della velocità

e del movimento, ma anche della fissità e della variazione. Per esempio, l’albero

è un oggetto programmato perché ha i suoi tempi e ogni tempo produce un effetto

diverso. Per programmazione si intende un tipo di progettazione che permette

infinite o molte varianti dello stesso tema” (ibid.).

Va aggiunto altresì che la stessa Olivetti ha esercitato una positiva influenza sulla

scelta del nome: infatti in quegli anni era l’industria delle macchine di calcolo

o programmatrici e quindi il concetto di programmazione rientrava nei cardini

della produzione industriale del gruppo di Ivrea.

Inoltre sia Olivetti che Italsider rappresentavano la nuova industria del boom

economico: un’industria basata sulle nuove tecnologie e su di una visione

illuminista che tendeva a eliminare i confini e le distinzioni tra mondo dell’industria

e mondo dell’arte.

Mentre ad esempio il pittore Eugenio Carmi era stato investito da una funzione

di art director rispetto alla comunicazione esterna di Italsider, è emblematico il caso

della Olivetti, azienda all’avanguardia in Italia, e non solo, per lo stretto rapporto

tra produzione industriale, ricerca del coinvolgimento attivo dei dipendenti

nelle strategie aziendali, qualificazione architettonica degli spazi produttivi

fig. 37: Gianni Colombo,

‘Strutturazione fluida

(nastro), 1960

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62

e di riposo, fin quasi a realizzare un modello ideale di città fabbrica con il contributo

dei migliori architetti.

In questa prospettiva, fondamentale il contributo di Adriano Olivetti, che a queste

linee guida darà addirittura la forma di un partito politico, il movimento di Comunità,

e che comunque aprirà letteralmente le porte della fabbrica ad artisti, intellettuali

e scrittori tra i più qualificati e conosciuti dell’epoca, in un inedito rapporto

tra mecenatismo e committenza.

L’esempio di Olivetti resterà emblematico per l’alta qualità della produzione

industriale, intrinsecamente innovativa, e l’attenzione ai contenuti culturali

della propria proposta, affidata ad artisti, designer e scrittori.

Dopo l’esordio alla galleria Pater nel 1960, la partecipazione del Gruppo T

alla grande iniziativa promozionale curata da Bruno Munari per Olivetti fa assurgere

immediatamente i giovani artisti milanesi al ruolo di protagonisti delle scene

dell’arte contemporanea.

L’iniziativa Arte Programmata si caratterizza poi per il contributo del giovane

semiologo piemontese Umberto Eco, presente con alcuni testi nel catalogo

della mostra.

Significativo il fatto che negli stessi anni Eco si segnala come una delle presenze

più vive e stimolanti dell’esperienza interdisciplinare di quegli anni nota come

Gruppo ‘63, ampia e qualificata aggregazione di filosofi, scrittori, artisti visuali,

poeti, critici letterari, che dominerà la scena culturale degli anni successivi,

accompagnando la stagione della neoavanguardia degli anni Sessanta.

Sulla qualità dell’intervento di Eco, Davide Boriani ebbe a dire: “il suo testo

è molto interessante. Fino alla Olivetti noi abbiamo avuto interventi critici

‘variopinti’, nel senso che parlavano di neodadaismo, qualcuno di futurismo

ma senza molto interesse. Invece Eco, forse per non essere un critico abituato

alle categorie artistiche, ha dato una lettura in termini giusti, sia nel testo per

la mostra che in quello per l’ ‘Almanacco Bompiani’. Poi è arrivato Argan”. (ibidem).

A riprova dell’attenzione e della fiducia dimostrate dall’opinione pubblica dell’epoca

verso le nuove tecnologie – si stava infatti andando verso la prima fase

della rivoluzione informatica che successivamente, con l’estendersi dell’uso

del computer, modificherà radicalmente i modi di produzione e di diffusione

della conoscenza – va sottolineato il fatto che nello stesso anno, il 1962,

l’“Almanacco Bompiani” (pubblicazione periodica con cadenza annuale, dedicato

di volta in volta alle problematiche più discusse ed attuali) è interamente dedicato

al tema “LE APPLICAZIONI DEI CALCOLATORI ELETTRONICI ALLE SCIENZE

MORALI E ALLA LETTERATURA”: sulla copertina è presente un’opera di grafica

programmata, In tempi successivi, 4 cerchi attraversano un quadrato nell’ordine,

firmata da Gianni Colombo, membro del Gruppo T.

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Il saggio di Umberto Eco ivi ospitato, “La forma del disordine”, si segnala per

la sua capacità di fissare con chiarezza i tratti distintivi di un’epoca di tumultuosa

evoluzione nel dibattito dell’arte contemporanea; è addirittura contraddistinto

da un linguaggio biblico nel suo esordio:

“In principio era l’Ordine. E la terra era informe e vuota. Poi lo Spirito di Dio soffiò

sopra le acque e fu il Caos. E con esso la vita, l’immensità dei possibili,

la giovinezza della novità perpetua e della creazione perenne.

Cosi la nuova cosmologia, se non fosse diffidente di ogni metafisica

e non tentasse saggiamente di disconoscersi proprio come cosmologia per

riconoscersi metodologia, dovrebbe organizzare il suo mito della creazione, posto

che volesse trovar proseliti tra le masse dei semplici e scolpire sui timpani

dei grandi edifici, che ospiteranno le calcolatrici elettroniche, le storie

della creazione. Ma i tecnici della nuova cosmologia statistica restano schivi

e silenziosi nei grandi monasteri sterilizzati eretti dalla Chiesa Industriale, e quasi

avessero il mondo in gran dispetto, perforano su schede i segnali binari delle loro

immense summae cibernetiche. Sono la Bit Generation.”

Subito dopo questo irriverente gioco di parole, Eco prosegue richiamando

la dialettica tra arte e il Caso:

“E l’arte? Attentissima, le antenne tese, coglie confusamente la forma del nuovo

mondo in cui l’uomo va abitando e cerca di esprimerlo come può e come deve,

per figure.

La scienza scopre il Caso? L’arte si butta a corpo morto sul Caso, e lo fa suo.”

Dinnanzi a questo dilemma, Eco presenta le due grandi famiglie della creazione

artistica, così definibili rispetto all’incidenza del Caso sulla creazione estetica.

Il primo di questi approcci è quello che possiamo definire, con le parole di Eco,

romanticismo del Caso.

fig. 38: copertina di ‘Arte

programmata, 1962’,

catalogo della mostra

itinerante patrocinata

da Olivetti

fig. 39: copertina di ‘Almanacco

letterario Bompiani,

1962’ che ospita al suo

interno interventi

di grafica programmata

del Gruppo T

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64

“Si sprizzano follemente tubetti di colore sulla tela stesa in terra, si picchia

con un martello sul pianoforte: il Caso disegna le sue figure e il pittore le coglie

e le riconosce per sue, il Caso orchestra i suoi rumori e il musicista li accoglie

nella sua gamma priva di pregiudizi. Ma in verità, quanto più è artista, tanto più

chiede aiuto al Caso ma infine lo addomestica, lo dirige, lo sollecita ma lo sceglie,

lo accetta ma ne rifiuta una parte, non fa a caso le sue forme ma dà delle forme

al Caso.”

Il secondo fondamentale approccio al rapporto tra arte e casualità il saggio

lo individua in quella corrente che possiamo chiamare della probabilità statistica

del Caso:

“Ma se cosi fa il romanticismo del Caso, l’espressionismo astratto, la pittura

di azione, il neo-dada musicale, si potrà tuttavia afferrare il Caso anche dal lato

opposto: prevederlo, programmarlo, non sceglierlo una volta accaduto, ma farlo

accadere secondo le regole imprescindibili della probabilità statistica,

in cui il massimo di casualità coincide col massimo di prevedibilità.”

Eco poi, tentando di inventare una nuova definizione per questi operatori estetici,

“pittori? o programmatori? pianificatori di forme?”, prosegue ricordando come

costoro “assumono dunque per lo più una conformazione geometrica di base

e la sottopongono a rotazioni e permutazioni (così come avviene per certe serie

musicali) programmandone tutte le variazioni necessarie e allineandole tutte senza

discriminazione. Risultato: non una forma, ma la pellicola di una forma

in movimento, o la scelta complementare tra varie forme.

Il principio è rigorosissimo, il punto di partenza la immobilità perfetta delle forme

classiche che facevano impazzire di vertigine matematica i teorici della Divina

Proporzione. Niente di più lontano dalla irresponsabile libertà della pittura informale.

Ordine e geometria, ecco il punto di partenza. Il punto d’arrivo invece non dipende

più dal programmatore, ma appartiene a quella zona di libertà in cui si muove

il mondo subatomico, quello della equiprobabilità statistica. (...)

Cosi la programmazione statistica del Caso ci può dare una regolarità quasi

assoluta, che nasce però da una decisione opposta da quelle del costruttore

pitagorico alla ricerca delle proporzioni e dei moduli ottimi tra tutti.

Per cui avremo, negli esercizi di questi programmatori, una proporzione raggiunta

per negazione, un rinascimento capovolto, una Diabolica Sproporzione, ovvero

la Sezione Plutonica. (...) Sproporzione diabolica perché sospende

nell’indeterminato la scelta dei possibili: fissato l’elemento di base

e programmatene le permutazioni, l’opera non consiste nell’elemento meglio

riuscito, scelto tra tutti gli altri, ma proprio nella compresenza di tutti gli elementi

pensabili.”

Umberto Eco si cimenta poi direttamente con l’analisi di una delle opere

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65

maggiormente significative dell’esposizione, realizzata dal suo stesso curatore,

Bruno Munari, indicando al fruitore dell’opera la modalità stessa della sua fruizione:

“Qui non si fa della critica d’arte, qui si tasta il polso al tempo. La lucida follia

della ‘perturbazione cibernetica’ di Munari ha infine una sola inoppugnabile

giustificazione, insospettabile perché ‘nasce bene’. Si giustifica con una formula:

l’arte imita la natura. Salvo che in questo caso l’arte non imita quella natura

che per abitudine percettiva vediamo tutti i giorni, ma quella che concettualmente

definiamo in laboratorio. E dunque, intendendo ‘natura’ nel solo senso corretto

possibile, l’arte imita non la natura, ma il nostro modo di interpretare e definire

la natura, imita il nostro rapporto operativo con la natura, imita la natura come

oggetto possibile di una nostra definizione che sa di definire non definitivamente.

Posate gli occhi sulla ‘perturbazione cibernetica’: lasciateli scorrere lentamente,

entrate nel gioco di questi bastoncelli in rotazione, fatevi prendere prigionieri

da questo simbolo grafico perfetto come quello esoterico del serpente

che si morde la coda, dato che la posizione finale coincide con quella iniziale,

e la parola con cui il discorso grafico si apre si salda con quella con cui si chiude.

Entrate dunque in questi spazio curvo finito e limitato. E ora cercate di distogliere

lo sguardo, di riposarlo su di un solo particolare. Non vi riuscirete più, sarete

trascinati nella danza del provvisorio e del relativo, accumulerete una informazione

che non si identifica con un solo significato, ma con la totalità dei significati

fig. 40: Bruno Munari

‘Perturbazione cibernetica’

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66

possibili, non riceverete un messaggio, ma la possibilità di tanti messaggi

compresenti. E non troverete più le coordinate tranquillizzanti che vi indichino il

sopra e il sotto, la destra e la sinistra. Il cosmo esplode, si espande, si espande,

dove andrà a finire? L’osservatore della prospettiva rinascimentale era un buon

ciclope che appoggiava il suo unico occhio alla fessura di una scatola magica nella

quale vedeva il mondo dall’unico punto di vista possibile.

L’uomo di Munari è costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle,

sulle dita, sul sedere. E si rivolta inquieto in un mondo che lo tempesta di stimoli

che lo assalgono da tutte le parti.

Attraverso la saggezza programmatica delle scienze esatte si scopre abitatore

inquieto di un expanding universe.

Non dico che sia una bella storia. È la Storia.”

Sul tema della casualità nella ricerca estetica, Anceschi stesso interviene

in questo modo: “sul versante della variazione ontologica, che cosa rende

veramente interessante e non noioso il movimento? La casualità, vista sia come

casualità naturale che artificiale, che possiamo definire col termine anglosassone

serendipity.

Che era un termine già in uso ai nostri tempi, come dimostra la prima mostra

avvenuta a Londra sul tema cibernetic serendipity negli anni Sessanta e curata

da una collaboratrice di Max Bense, J. Reikard, in cui la serendipità era intesa

come emulazione numerica della casualità.

Come fa il programmatore a mettere la casualità nel programma? La casualità

è il risultato della produzione di formule complesse di serie di numeri come

la radice quadrata. Si attua un inganno cognitivo che si ripercuote sulla percettività,

perché in realtà la programmazione consiste in una stringa di comandi talmente

complicata che la mente non li percepisce come regolari e programmati.”•

Va altresì ricordato come in occasione della pubblicazione dell’“Almanacco

Bompiani” del 1962 vengano commissionate al Gruppo T alcune opere di grafica

programmata, che testimoniano da un lato la tensione innovativa verso le nuove

tecnologie delle macchine elettroniche, dall’altro il loro approccio progettuale

che è sì figlio della loro poetica artistica, ma anche sintomatico di una certa

attitudine all’ibridazione con il design vero e proprio.

Tra queste opere si annoverano: sperimentazioni di Anceschi con reticoli complessi,

che risentono sia della loro ricerca gestaltica sia di alcune coeve sperimentazioni

di Bruno Munari con retini; variazioni di posizionamento di puri segni grafici

e geometrici, condotte dallo stesso Anceschi, anticipano in versione analogica

una più complessa programmazione frutto di intervento elettronico che ora,

a distanza di cinquant’anni, potremmo definire a tutti gli effetti generative art

• da intervista citata

Page 67: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

67

fig. 41: Giovanni Anceschi,

‘reticolo complesso

generato dalla

sovrapposizione di due

reticoli semplici, uno

quadrato, uno triangolare

eqilatero’

fig. 42: Giovanni Anceschi,

‘in dieci tempi, nove

rettangoli orientati

orizzontalmente

decrescono da 9 a 0

mentre nove rettangoli

orientati verticalmente

crescono da 0 a 9 secondo

due schemi diversi

fig. 43: Gianni Colombo,

‘in tempi successivi, 4

cerchi attraversano

un quadrato nell’ordine’

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68

fig. 44: Davide Boriani,

‘Permutazione d’immagine

con criteri cibernetici’,

un ritratto del ‘500

è diviso in 400 unità

modulari (oggi pixel);

di ogni unità sono analizzati

e tradotti in numeri i valori

di luminosità (B/N)

e cromatici (tre colori

primari RGB).

alla serie di 400 numeri

è data una variazione con

una componente randomica

(es. nx7=x, somma delle

cifre di x).

la serie di numeri ottenuta,

riconvertita in valori

di luminosità e cromatici,

genera una variante

dell’immagine iniziale.

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69

(a riprova della validità di questa operazione e del suo essere prefiguratrice

dei tempi, l’opera ‘In dieci tempi’ è diventata recentemente un’applicazione

per i-phone); similmente si può riscontrare nella sovrapposizione di forme

geometriche in una sequenza combinatoria di Colombo un tentativo geometrico

di simulare un morphing digitale; e ancora, sempre su questo filone, le significative

opere di Davide Boriani, che anticipa graficamente il pixel con un’image processing

ante litteram, scompone matematicamente e geometricamente in numeri

e in moduli un’opera pittorica rinascimentale, ipotizzando il metodo di un calcolatore

elettronico.

All’interno delle diverse presenze e manifestazioni legate all’arte programmata,

caratteristica del Gruppo T è sempre stata una particolare attenzione

alla dimensione del movimento e della relazione spazio-temporale nello sviluppo

delle arti cinetiche, intese da un lato come produzione di oggetti programmati

e dall’altro come realizzazione di ambienti interattivi: ciò che interessa non è l’opera

d’arte in se stessa ma la fruizione che di essa può avere uno spettatore.

Era di questi anni infatti tipico della ricerca artistica di usare le modalità del disegno

industriale per sviluppare una ricerca dai caratteri scientifici sulla percezione visiva

in un’epoca in cui il disegno industriale e la società capitalistica avevano avviato

i loro studi più approfonditi sull’immagine e la pubblicità, con tratti anche

mistificatori della realtà.

In opposizione critica a tali modi di persuasione massiva, gli artisti, mettendo al

centro del loro operato lo spettatore, cercano di dotarlo di una capacità autonoma

di giudizio e di una percezione lucida e critica del reale: in questo senso,

fig. 45: Giovanni Anceschi,

‘Interferenza’, ripetizione

modulare variata

da un leggero sfalsamento

di due diversi gruppi

di elementi, pubblicata su

‘L’ultima avanguardia’, 1962

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70

paradossalmente gli artisti più critici verso i modi di produzione industriale

e la conseguente alienazione, mutuano dal sistema produttivo più intensivo

e dal disegno industriale ad esso organico le tecnologie più avanzate per invece

ribaltarle di segno e metterle al servizio di una diversa fruizione dell’opera d’arte.

In questo senso lo spettatore diventa protagonista del rapporto occhio-manufatto

artistico, in una produzione che mutua i risultati più attuali da un lungo percorso

di ricerca partito dall’analisi della necessità di riprodurre il movimento attraverso

la serializzazione dell’immagine.

Altra caratteristica essenziale dell’attività del Gruppo T è il fatto di proporsi

non come artista singolo ma come collettivo: in questo ogni referenzialità

e ogni legame con le poetiche romantiche del Novecento vengono abbandonate

in funzione di una nuova arte più aderente alle problematiche contemporanee,

soprattutto in riferimento al rapporto arte/industria.

Inoltre l’idea di collettivo è in stretta correlazione con la ricerca che gli artisti

mettevano in atto, poiché presuppone un dibattito critico interno più serrato.

D’altra parte proprio negli anni Cinquanta e Sessanta era piuttosto diffusa la pratica

dei linguaggi culturali vissuta in collettivi, gruppi di lavoro e simili raccolti attorno

ad un’unica idea di espressione artistica, spesso contraddistinta da un manifesto

iniziale di esposizione delle idee e delle linee di ricerca del gruppo stesso.

Il Gruppo T, ad esempio, si è ritrovato nella sua attività, più volte assai vicino ad altri

collettivi capaci di esprimere teorie e pratiche alternative a quelle tradizionali

nel mondo artistico, a partire soprattutto dagli ambienti più vicini all’arte visiva-

cinetica, come il Gruppo N a Padova, Gruppo 1 a Roma, Gruppo Zero a Dusseldorf

e GRAV (Group des Recherches d’Art Visuel) a Parigi e l’Equipo 57, spagnolo.

E’ importante sottolineare altresì la capacità di questi diversi collettivi artistici

nel collegarsi tra di loro in significative iniziative culturali con coordinamenti

internazionali dove i gruppi sopra citati si costituirono in un’unica sigla, Nuove

Tendenze.

“L’estensione alla dimensione ambientale è la naturale conseguenza dell’interesse

alla verifica dell’esperienza percettiva, in questo caso avvertita con tutto il corpo

in movimento condizionato, in uno spazio predisposto in un tempo limitato.

L’esperienza, ripetibile, si carica di volta in volta di variabili dipendenti dal modificarsi

dell’aspettativa del protagonista”23: così Grazia Varisco puntualizza la grande

attenzione degli operatori del Gruppo T verso la dimensione ambientale vera e

propria della loro proposta estetica.

Sul tema, interviene anche Gabriele Devecchi: “Gli ambienti sono una conseguenza

naturale e il superamento degli oggetti cinetico-programmati, attuati per offrire

maggiori possibilità di partecipazione. L’ambiente estingue tutto ciò

23, Gli ambienti del Gruppo T, catalogo della mostra, a cura di Lucilla Meloni

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71

che la struttura dell’opera oggetto esibiva attraverso il supporto fisico

dell’accadimento in termini di forma e materia, anche se dissimulate.

Non è l’unica ragione. L’oggetto cinetico, esterno al destinatario, costituisce

una polarità di variazione spaziale, basata su stimoli filtrati dal senso della vista,

mentre nell’ambiente è interamente coinvolto il corpo dello spettatore,

che costruisce e sperimenta cinestaticamente spazi metamorfici. (…) Gli elementi

d’ordine vengono selezionati all’incrocio tra l’esperienza e la cultura.”

(ibidem, pag. 29).

“Perché eravamo contro la rappresentazione?”, si domanda Giovanni Anceschi, “

perché ci interessava la reazione dello spettatore, anche quello era un passo avanti,

oppure, come dicono i futuristi: metteremo lo spettatore al centro del quadro.

fig. 46: Davide Boriani, Gabriele

Devecchi, ‘Ambiente

cronostatico’, in un

ambiente cilindrico

con pareti fosforescenti

una lampada UV si accende

a intervalli di quattro

secondi e ruota alla velocità

di un giro/minuto, fissando

sulle pareti in immagini

persistenti le figure

ed i movimenti

degli spettatori

Page 72: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

72

L’hanno detto, anche se poi non l’hanno quasi mai fatto. Noi facendo gli ambienti

mettiamo lo spettatore al centro del quadro, al centro dell’opera, e però se Munari

è il nostro referente o maestro sul versante del cinetismo, del movimento,

della variazione e della trasformazione, chi è veramente il nostro riferimento

essenziale per gli ambienti è Lucio Fontana. Nel ‘49 mia madre mi accompagnò

alla Galleria del Naviglio di Milano dove c’era un ambiente spaziale di Fontana,

che mi ricordo come fosse adesso: l’ambiente ti dava la sensazione di essere

in una caverna, perché era una specie di loft largo e lungo, occupato

completamente da questa struttura fatta in cartapesta, che era immensa,

fig. 47: Gabriele Devecchi,

‘Scultura da prendere

a calci’, struttura in

materiale espanso

alloggiata su

di una pedana e ancorata

ad un filo che la ricompone

dopo la ‘fruizione ginnico-

motoria’ dello spettatore

Page 73: arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

73

grandissima, con degli anfratti, delle subcaverne. Era avvolta dal buio, dipinta

con vernice fluorescente e c’era la luce di wood: la luce nera come diceva Fontana,

con quel suo tipico tono di stupore fantastico.

Quindi ci sono due filoni: da una parte gli oggetti cinetici, chiamiamoli così,

e dall’altra gli ambienti, che in tutta onestà sono la cosa più significativa.

Poi c’è un’opera che si chiama Scultura da prendere a calci di Devecchi:

è un ambiente però, cioè è un’installazione ambientale che ha bisogno di uno

spettatore attivo; tutta l’interattività si sposta verso il dato ambientale, tutto diventa

microambientale.

Noi abbiamo concepito le cabine immersive quando ancora la parola immersiva

non c’era. Nell’opposizione tra correnti si andava sviluppando il concetto

di astrazione: prima il confronto illusionismo/astrattismo, poi astrattismo astraente/

concretismo, nel concretismo la contrapposizione e il suo superamento

è tra interattivo percepito passivamente o attivamente, come nel nostro caso

in cui tu sei coinvolto a lavorare nell’opera, a co-agire (interattività).

Questo sviluppo delle correnti è sintomo di una ricerca che spinge sempre più

verso un’arte performativa e corporale e somatica. La nostra non è solo un’arte

cinetica; cinetico è una descrizione neutrale, vuol dire solo che si muove; mentre

nella nostra arte la parte veramente progressiva è la componente interattiva;

storicamente l’interazione che supera la contemplazione.”•

La riflessione sugli ambienti come una degli aspetti più avanguardisti della loro

produzione artistica deriva dal fatto che fossero appunto uno dei primi esperimenti

di arte immersiva; ma non solo, erano anche un tentativo di usare l’arte come

ricerca, finalizzata a misurare il gradimento estetico attraverso lo studio

delle reazioni (in questo caso il tempo di visione dell’opera). In questo si rifacevano

direttamente agli studi di estetologia dell’informazione di due dei massimi

esponenti del basic design: Abraham Moles e Max Bense (il suo studio

sulla programmazione del bello è pubblicato nel volume “Programmierung des

Schonen” del 1960). Infatti, su suggerimento di Gillo Dorfles, che probabilmente

ci vedeva dei tratti in comune con la loro arte cinetica, Giovanni Anceschi aveva

frequentato la scuola di Ulm a cavallo degli anni sessanta. L’influenza di questa

esperienza fu notevole, come ci conferma lo stesso Anceschi: “L’ambiente

a variazione luminosa ha una variazione chiusa e determinata, che consiste di dodici

sequenze che variano dalla più semplice alla più complessa. Quest’opera risente

del mio passaggio a Ulm.

Quest’opera ha un’altra peculiarità straordinaria per il fatto che noi artisti

programmati l’abbiamo messa dentro a una situazione di normale utenza artistica:

uno spettatore che pensava di andare a vedere un’opera d’arte, non vedeva

un’opera d’arte. Gli spettatori venivano ingannati, andavano dentro a un laboratorio,

• da intervista citata

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74

fig. 48: Giovanni Anceschi, Davide

Boriani, ‘Ambiente a

variazione luminosa’

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75

erano cavie: che poi tutto abbia funzionato culturalmente è un altro discorso.

Quando lo spettatore esce, un sensore sulla porta comunica il numero

del programma di luci eseguito e il tempo di permanenza nell’opera.

Qui è la grande intuizione nostra, di indicare il tempo di permanenza come

indicatore della preferenza estetica, nozione complessa elaborata da Gillo Dorfles,

nel suo ‘La proareresis’ o preferenza, un libro che cerca di capire perché e come

preferiamo una cosa rispetto a un altra.”•

L’influenza di Ulm ed in particolare del basic design si può notare in certe

somiglianze concettuali e formali di alcune opere d’arte: l’”Ipercubo” di Davide

Boriani risente della “Sfera topologicamente non orientabile” del corso di Basic

di Maldonado e, ancora, la struttura cinetica Tricroma di Giovanni Anceschi

si richiama all’esercitazione di Maldonado intitolata “Concavi e convessi”.

Va sottolineato inoltre che queste opere risentono sì degli insegnamenti

del basic design, di cui si fanno portatori, ma ne sviluppano i confini: l’arte cinetica

programmata deve la sua originalità all’attenzione riposta nella relazione tra fruitore/

spettatore e oggetto ed all’introduzione degli ambienti, in cui si attua un’inclusione

dello spettatore nell’opera. Questi due aspetti di interazione e immersività sono ora

le basi della progettazione di interfacce e artefatti per il web.

Come abbiamo già accennato precedentemente in quegli anni la riflessione

di un’arte moltiplicata e aperta a tutti era stata introdotta, con critica e coscienza,

per la prima volta dalle Edition MAT – moltiplication d’oeuvres d’art, che, alla pari

di un editore avevano messo in produzione una serie di artefatti artistici progettati

per lo scopo. Tra gli artisti che collaborarono a questo progetto vanno ricordati

Yaakov Agam, Pol Bury, Marcel Duchamp, Jesus Raphael Soto, Jean Tinguely, Victor

Vasarely, tra gli italiani Enzo Mari e Bruno Munari. Si può notare come tra questi

artisti ci siano molti esponenti delle correnti storiche della neo-avanguardia europea

sviluppate dal Gruppo T come l’arte cinetica e la optical art.

Nel 1960 Danese decise di ripercorrere l’esempio iniziando una collaborazione

con i membri del Gruppo T, cui affidò la progettazione ad hoc di alcune opere d’arte,

che potremmo quasi definire come oggetti d’uso artistico, con il fine di metterle

in produzione. La stessa iniziativa viene ripetuta nel 2010 grazie al patrocinio

di Alessi per i cinquant’anni di vita e attività del Gruppo T a cura di Azalea Seratoni:

“Non è arte, non è design, è miriorama. Miriorama vuol dire infinite visioni

(dal greco orao, vedere, e myrio, che indicava una quantità pressoché infinita). (...)

Nel 1960 a Milano, presso lo showroom di Bruno Danese, il Gruppo T presenta

l’edizione in 10 copie numerate e firmate degli oggetti miriorama. (...)

Oggi, cinquant’anni dopo, Alberto Alessi ha deciso di portare a compimento

• da intervista citata

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76

il progetto ideale di un’arte per tutti. Non si tratta in questo caso di un’arte

semplicemente riprodotta, come l’incisione, ma di un’arte concepita per essere

prodotta in molte copie.

È un salto di qualità definitivo: l’arte esce dalla galleria per diffondersi attraverso

canali di distribuzione finora impensati. Pur mantenendo tutte le sue caratteristiche

di gradimento estetico, l’opera d’arte circola come oggetto di design tra gli oggetti

di design.”24

Abbiamo così di Davide Boriani ‘Giradischi ottico-magnetico’, un disco di metallo

contenente polveri di ferro sotto vetro, mosse da magneti in movimento,

che citava le sue prime Superfici magnetiche; di Giovanni Anceschi ‘Abstract video’,

24, Giovanni Anceschi, dal catalogo dell’iniziativa

fig. 49: catalogo Gruppo T e

Danese

fig. 50: catalogo Gruppo T e

Alessi: Davide Boriani

‘Giradischi ottico-magnetico’,

Giovanni Anceschi ‘Abstract

video’, Gianni Colombo

‘Rotoplastik’, Gabriele

Devecchi ‘Miramondo’,

Grazia Varisco ‘Sferisterio

semidoppio’

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77

un oggetto geometrico d’acciaio (mentre nella prima versione di Danese era stato

usato l’alluminio) che sorregge una sacca di plastica contenente fluido rosso;

di Gianni Colombo ‘Rotoplastik’, sorta di puleggia in legno, modificabile

dal movimento dell’utilizzatore, citazione anche questa di una precedente opera

di Colombo; di Gabriele Devecchi ‘Miramondo’, una serie di caleidoscopi in metallo

la cui diversa forma determina anche la diversa visione fornita; di Grazia Varisco

‘Sferisterio semidoppio’, una scatola in legno, contenente tre diversi livelli:

uno specchio, un retino e oggetti semisferici movibili a piacimento.

Questo a riprova dello stretto rapporto che il Gruppo T, sull’esempio dell’attività

di Munari, ha sempre cercato di instaurare tra arte e disegno industriale, con

il fine ultimo di creare un’arte basata su fondamenti scientifici e culturali, ma anche

accessibile al più alto numero possibile di fruitori.

L’episodio di questa riedizione dei multipli creati cinquant’anni fa dagli operatori

del Gruppo T testimonia di un rinato interesse verso le poetiche e le produzioni

del gruppo.

Storicamente invece va ricordato che a metà degli anni Sessanta l’interesse verso

questo nuovo tipo di arte e il suo affermarsi culturalmente a livello internazionale

vide la sua riprova con l’organizzazione della mostra The responsive eye, curata

da William C. Seitz nel 1965 al Museum of Modern Art di New York.

Traducendo direttamente il comunicato stampa ufficiale dello stesso Moma

di allora si può leggere che “The Responsive Eye, un’esposizione di più di 120

dipinti e installazioni di 99 artisti provenienti da 15 differenti Paesi, documenta

un importante sviluppo su scala mondiale di questa corrente (…) come afferma

William Seitz sulle pagine del catalogo, questi lavori sono da considerarsi non solo

come oggetti da esaminare, ma piuttosto come stimolatori di reazioni percettive

nella vista e nella testa dello spettatore. Usando solo linee, bande e pattern, area

piene di colore, bianco, grigio o nero, o di semplici legno, vetro, metallo e plastica,

gli artisti della percezione instaurano un nuovo tipo di rapporto tra spettatore

e opera artistica.

Questi nuovi tipi di esperienze soggettive, che derivano dal contrasto dei colori,

dalla persistenza retinica, dalle illusioni ottiche e da altre ricerche visive,

si realizzano solo alla vista dello spettatore, tuttavia non esistono fisicamente

nel lavoro stesso. Infatti ogni spettatore vede e reagisce in modo diverso. (…)

Com’era uso comune nel IX secolo quando gli artisti impiegavano i nuovi metodi

della prospettiva lineare, le conseguenze di questi studi avevano sviluppi anche

fuori dal mondo dell’arte. Ora usano gli studi sulla vista degli scienziati del secolo

scorso come Helmholtz, Hering and Chevreul, già applicati sporadicamente

da artisti del tempo come Monet, Cezanne and Seurat.

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78

La nuova arte percettiva segna un picco nella storia della ricerca visuale; utilizza

le dimostrazioni grafiche della psicologia della percezione (...); traduce

gli esperimenti nati nelle scuole di belle arti; offre una nuova e ricca risorsa

di studio per scienziati di svariati campi.

Come afferma Mr. Seitz nel catalogo della mostra, la nuova arte percettiva apre

a nuove affascinanti possibilità. Possono questi lavori, che non si riferiscono

a nient’altro che a loro stessi, rimpiazzare il significato perso con l’efficacia

dell’effetto che producono? Quali sono le potenzialità di un’arte capace di ingannare

la percezione in maniera così fisica e diretta? Possono uno studio avanzato

e un’applicazione di queste immagini aprire una nuova via per le emozioni e

le idee generate grazie alle stimolazioni retiniche?

Tra gli artisti presenti: Josef Albers, Enrico Castellani, Getulio Alviani, Piero Dorazio,

Karl Gerstner, Ellsworth Kelly, Heinz Mack, Almir Mavignier, John McLaughlin,

Guido Molinari, Kenneth Noland, Gerald Oster, Bridget Riley, Jeffrey

Steele, Frank Stella, Tadasky, Luis Tomasello, Victor Vasarely, Ludwig Wilding;

Groupe de Recherche d’Art Visuel (Francia), Gruppo ‘T’

e Gruppo ‘N’ (Italia); Equipo 57 (Spagna) e Gruppo Zero (Germania) (…).”

La mostra segnò la massima celebrità raggiunta dal movimento dell’arte cinetica

(e delle correnti sue affini), che venne messa in crisi dall’esplosione della pop art

americana e dall’affievolirsi della spinta economica dovuta al boom industriale.

Va ricordato inoltre che la mostra non ricevette molte critiche positive da parte

degli intellettuali e degli addetti al settore, ma ebbe un grandissimo successo

fig. 51: Davide Boriani ‘Ipercubo’,

quattro cubi concentrici

ruotano su assi diversi

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79

a livello di pubblico, a riprova della validità di uno dei postulati caratterizzanti l’arte

cinetica, e cioè la volontà di attirare l’interesse di un pubblico ampio

alle manifestazioni di questa corrente.

Per quanto concerne il Gruppo T il curatore della parte italiana della mostra, Enzo

Mari, aveva deciso di ospitare ‘Ipercubo’ di Davide Boriani.

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80

Abbiamo potuto constatare come nella prima mostra organizzata dal Gruppo T

fu fondamentale la scelta di non avvalersi di interventi critici esterni sia

per una visione critica di quello che era il mondo dell’arte dell’epoca,

che si erano prefissati di superare , sia anche per il contenuto avanguardista

della loro espressione.

La scelta non era però assoluta, ma gli artisti trovarono spesso spunti e stimoli

dalle figure intellettuali e artistiche più vicine: lo stesso titolo dato alla mostra,

Miriorama, è frutto del suggerimento del loro professore all’Accademia, “Enrico

Bordoni, pittore, che seguendo un po’ le nostre discussioni ci ha proposto

di chiamarci ‘Miriorama’, che significa: infinite visioni, molte visioni.”, come ricorda

Davide Boriani in un’intervista rilasciata a Nanda Vigo nel 2010, “ho trovato poi

nell’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, nel monologo di Molly, un riferimento

a un ‘miriorama’ di Poole a Dublino, che doveva essere un luogo di spettacoli.

Allora noi avevamo già il nome Gruppo T ma per cortesia con il professore abbiamo

deciso di usare ‘Miriorama’ come nome che avrebbe contraddistinto le nostre

manifestazioni e le mostre del Gruppo T. Così abbiamo avuto due nomi, il che ha

creato molte confusioni. Io per esempio ho trovato in un libro di aver fatto parte

di due gruppi, il Gruppo T e ‘Miriorama’ .”

Per porre chiarezza sul punto, Giovanni Anceschi aggiunge: “…perché c’è questa

importante differenza fra le mostre sul Gruppo T e le mostre del Gruppo T.

Le manifestazioni del Gruppo T si possono chiamare ‘Miriorama’.”25

Sempre nella stessa occasione, si può ricordare il contributo di Bruno Munari,

ad esempio, che suggerì una titolazione meno elitaria ma più facilmente

comprensibile per una delle opere esposte, quella collettiva che gli autori

del Gruppo T volevano denominare Ambiente a volume variabile, mentre Munari

suggerì Grande oggetto pneumatico, e la proposta venne accolta.

Ed è sempre grazie a Munari, che aveva invitato gli artisti a esporre alla mostra

Arte Programmata, di cui si è già parlato, che entrarono in contatto con Umberto

Eco, che si può definire come loro primo critico, figura anomala anch’egli in questo

contesto in quanto non era un vero e proprio critico d’arte quanto piuttosto

un estetologo e un teorico dell’arte.

Lo stesso Munari, anch’egli non critico militante, traccerà uno sguardo da critico

la critica militante

25, tratto da un’intervista di Nanda Vigo del 22 Giugno 2010

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sulle opere del Gruppo T sulle pagine della rivista “Domus” (numero 5, 1961):

“abbandonata la pittura e la scultura, un gruppo di giovani milanesi (che si sono

riuniti nel Gruppo T) si è avviato in ricerche e scoperte interessanti, usando

materiali nuovi, mezzi nuovi e producendo oggetti non più definibili con le vecchie

categorie; evitato ogni preconcetto di forma e di stile, di astratto e o di informale,

di geometrico e non, di pittura o di non pittura, si sono trovati di fronte a un mondo

nuovo, pieno di possibilità con tecniche e schemi da inventare con la massima

libertà. (…) Le loro opere sono tutte caratterizzate dalla dimensione tempo, ognuna

ha una natura diversa ma tutte svolgono il loro tema oltre che nello spazio

bi-o tridimensionale dell’oggetto che le presenta, anche nel tempo. Nella Galleria

dove avvenne la manifestazione (…) i visitatori erano piuttosto disorientati,

non sapendo ‘come’ guardare questi oggetti. Giovanni Anceschi presentava

qualcosa che poteva sembrare un quadro informale, ma questo oggetto si poteva

ruotare e allora la composizione, fatta con una massa fluida tra due vetri,

si trasformava continuamente. Davide Boriani esponeva un grande piano orizzontale

sul quale della limatura di ferro si spostava in varie direzioni, attratta dalle calamite

sottostanti. Gianni Colombo presentava delle superfici verticali fatte di gomma

morbida, dietro la quale una serie di sfere metalliche spostabili creava altorilievi

e bassorilievi variabili a volontà. Gabriele Devecchi esponeva delle superfici verticali

di gomma cosparse regolarmente, come un retino, di elementi vibranti, sporgenti,

azionati irregolarmente da un meccanismo nascosto. Grazia Varisco esponeva

delle forme mobili su una superficie piana, combinabili in molti modi. Il pubblico,

abituato alla solita pittura o scultura, era sempre più disorientato, alcuni giovani

erano entusiasti, i critici non si fecero vedere per non compromettersi in cose

non ben catalogabili e incerte.”

Anche Lucio Fontana, artista riconosciuto come uno dei maestri del Gruppo T, non

si esime dall’intervenire in termini critici nel catalogo della mostra Miriorama 10

(Galleria “La Salita”, Roma, aprile 1961):

“La pittura e la scultura non rispondono più alla sensibilità dell’uomo d’oggi. La

sua sensibilità viene conformandosi continuamente sulle emergenze create dalle

manifestazioni della civiltà che si rinnova. La scienza, la nozione del rapido, del

mutevole, determinano nell’uomo un modo più intenso nel percepire il flusso del

tempo. Questo modo nuovo di concepire la realtà non trova più nella pittura e nella

scultura i mezzi atti a darne l’espressione più concreta e diretta. S’impone, per

una necessità di comunicazione totale, di arrivare a un arte basata sull’unità del

tempo e dello spazio. (…) Queste opere, che escono dalle categorie usuali, e sono

realizzate con materiali e mezzi offerti dalle scoperte della stessa civiltà attuale,

propongono un’arte che nella variazione è continuamente immersa nel presente,

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82

un’arte che rifiuta la pretesa e usurata assolutezza dell’immagine per evidenziarne

la relatività, che abbandona l’evocazione per la concretezza, che distrugge la forma

e la ritrova nel movimento organico. La macchina è riconosciuta come mezzo atto

a dare la sequenza di immagini ed esclusivamente come mezzo; usata per

una necessità positiva di indagine e di comunicazione; non per esaltarla

ingenuamente e nemmeno per farne oggetto di ironia negativa.

Gli artisti del Gruppo T non vogliono restare ai margini di un mondo

che è necessario affrontare e riconoscere nella sua validità.”

Centrale nel catalogo della mostra Arte Programmata (Milano, maggio 1962),

curato da Bruno Munari e dallo scrittore Giorgio Soavi (responsabile quest’ultimo

dell’immagine culturale della Olivetti), l’introduzione di Umberto Eco che anch’egli

si cimenta nell’analisi dei contenuti artistici:

“Quello che il critico dovrà riconoscere è che l’arte del XX secolo doveva tentare

di proporre all’uomo la visione di più forme contemporaneamente e in divenire

continuo perché questa era la condizione a cui veniva sottomessa, a cui sarebbe

stata ancor più sottomessa, la sua sensibilità. (…) Non è vero che le forme

omologate dalla tradizione siano le migliori perché riflettono la stabilità dei cicli

naturali. La stabilità del ciclo solare vale come punto di riferimento per un uomo

che sta fermo sul pianeta mentre il pianeta si muove. Ma un uomo che muove

col pianeta e in direzione opposta, a velocità superiore? Tutto il suo modo

di pensare, di percepire, di far funzionare i riflessi cambierà. E tanto meglio

se i geometri delle forme, i pianificatori delle polveri di ferro, gli architetti delle sfere

giustapposte, i lirici dei motorini elettrici che muovo nastri colorati, olii, superfici

di rete, perspex, luci, lastre, tasselli e cilindri, lo avranno abituato a considerare

che le forme non sono qualcosa di immobile che aspetta di essere visto,

ma anche qualcosa che si fa mentre noi lo ispezioniamo. (…)

Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare

il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento

anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era.”

Grazie alla nuova visibilità data al Gruppo T dalla partecipazione a questa iniziativa

culturale itinerante, realizzata dalla Olivetti in diverse sedi italiane, si interessano

ai risultati di questa produzione estetica anche critici d’arte noti come Giulio Carlo

Argan, che sul quotidiano “Il Messaggero”, nel settembre 1963, scrive:

“Si spostano così i termini del pericoloso dilemma di massa e individuo; al termine

‘individuo’ si sostituisce il termine ‘gruppo’. Non arbitrariamente: il pericolo

della situazione attuale consiste nel fatto che molto spesso invece della socialità,

si predica e difende la non-socialità la solitudine della persona. Ma il singolo

è disperatamente solo nel deserto, disperatamente solo nella folla. É l’individuo

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83

già spogliato di ogni interesse ed attitudine sociale, disarmato, preparato

ad essere inghiottito dalla massa: ecco perché le correnti artistiche che vanno

in cerca di indizi e di sintomi, e si limitano a constatare con indifferenza o magari,

a denunciare con ira la situazione, ci appaiono, sul piano morale e politico,

pericolosamente rassegnate e già, di fatto, alienate. Chi voglia difendere la libera

attività dell’individuo dall’inerzia torpida e letale della massa, deve riflettere,

anzitutto, che la qualità fondamentale della persona umana è la capacità, la volontà,

di mettersi in relazione, di associarsi ad altri per un fine comune, di coordinare

la propria azione all’altrui, di fare gruppo, infine, e costruire così una società

che trovi nel proprio dinamismo interno l’impulso a superarsi e progredire.

Non si dimentichi che la massa, o chi la dirige e la sfrutta, è sempre indulgente

e perfino generosa col solitario, quand’anche ribelle; ma teme il gruppo organico

e impegnato, detesta la comunità organizzata per un fine creativo, odia

mortalmente la società in movimento.”

Negli stessi anni anche Gillo Dorfles prende nota delle novità emerse nel panorama

artistico italiano; dalle pagine del suo “Il divenire delle arti” afferma: “C’è un altro

genere di arte cinetica che negli ultimi anni ha avuto un inatteso sviluppo ed è

quello dovuto a numerosi gruppi di artisti operanti

sia singolarmente che in équipe e che hanno cercato di approfondire delle ricerche

di carattere più scientifico su quelle che sono le componenti psicologico-estetiche

del movimento. Partiti spesso da ricerche percettivistiche statiche (…) si volsero

man mano allo studio della percezione dinamica sfruttando le infinite possibilità

offerte dal concorso dell’effetto dinamico e luminoso.”

A conclusione dello spazio dedicato alle poetiche del Gruppo T, non va sottaciuto

il rapporto tra le attività di questo e la galleria “Azimut”.

La galleria nasce a Milano negli anni Sessanta da un’iniziativa di Piero Manzoni

e Enrico Castellani, entrambi artisti, esponenti dell’arte concreta italiana che

contemporaneamente creano un’omonima rivista con la funzione di organo di

informazione e dibattito teorico sulle attività dell’omonima galleria d’arte.

Con questa galleria l’intenzione dei due promotori era da un lato avere la

responsabilità delle scelte estetiche, che dovevano comprendere l’esposizione

delle loro stesse opere, ma non soltanto, dall’altro lato promuovere la nuova

cultura artistica in senso lato, di cui sia Manzoni che Castellani si sentivano legittimi

esponenti.

I rapporti tra la galleria Azimut e il Gruppo T inizialmente erano dovuti ad un

rapporto di amicizia personale tra Manzoni e Anceschi, cosa che li porta dapprima

a collaborare, per poi invece chiudere le possibilità di un comune lavoro quando gli

operatori del Gruppo T ravvedono nell’attività di Manzoni soprattutto

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84

e della sua galleria l’intenzione di strumentalizzare le innovazioni artistiche,

soprattutto quelle più legate al cinetismo. Ricorda Boriani: “Anche se

partecipavamo ad Azimut, non ci identificavamo, avevamo un nostro percorso.

Di Manzoni ci piaceva l’atteggiamento nei confronti dell’arte, la critica al sistema,

la rivoluzione e alcune opere, come la ‘linea’, che infatti abbiamo esposto

nelle nostre mostre ‘Miriorama’. (…) Manzoni non faceva sue tutte le cose

che esponeva in galleria, ma aveva capito che ponendosi come organizzatore stava

creando una scuola: questa furbizia non ci piaceva” 25

In realtà tra il Gruppo T e l’attività di “Azimut” i motivi di dissenso non riguardano

soltanto la gestione della galleria ed il rapporto di questa con gli artisti e le correnti

emergenti; vi sono differenze sostanziali anche nelle prospettive filosofiche

di fondo, come sostiene ad esempio Devecchi: “ Non possiamo certo dire

che il passaggio di Manzoni sia stato indifferente per noi: dal momento in cui si è

emancipato dall’area ‘nucleare’ diventa sicuramente un personaggio internazionale,

è lui che gira, che porta Zero, Klein in tutti i suoi risvolti. Però sia lui che Castellani

(…) sostenevano che il tempo è un’entità fissa, che lo spazio non si muove,

un’impostazione filosofica che si è completamente separata dalla nostra: in loro

non c’era spazio-tempo, relatività, ma tempo fisso, astratto, e quindi c’è l’oggetto,

mentre noi rivelavamo il tempo attraverso il mutamento dello spazio.”

(ibidem)

25, Marco Meneguzzo, Arte Programmata 1962, catalogo della mostra

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85

il basic designin Italia

Abbiamo visto quali sono stati gli sviluppi del basic design nel nostro Paese: il caso

particolare che siano stati degli artisti a introdurre una didattica è anche figlio

della libertà e dell’autonomia di cui gode l’arte, che può decidere quale sia

il problema da investigare, e che nelle sue esperienze avanguardiste trova

dei risultati che poi influenzano la società in generale.

In Italia va sottolineato come lo scarso riguardo al settore didattico

della configurazione del design è dovuto al ruolo di totale leadership che ha avuto

negli anni passati l’architettura; questa valutazione non equa è stata superata solo

recentemente, grazie soprattutto all’importanza preponderante che hanno raggiunto

le discipline tecnologiche, si pensi in particolare all’interaction design ed a tutte

le professioni che ora ruotano intorno alla tecnologia.

Questa lacuna è stata colmata da Giovanni Anceschi, che ha introdotto

l’insegnamento in Italia del corso del basic design presso lo Iuav di Venezia

e ne ha prodotto una trattazione teorica e critica mediante svariati saggi sul tema,

tra cui va annoverato “Web design e processi cognitivi”. È significativo ricordare

questo volume perchè contiene sia una trattazione storica del basic design,

sia l’introduzione del termine basic design eidomatico, termine coniato da Anceschi

per le nuove tecnologie del web. Il basic design per sua definizione è un corpus

disciplinare in continuo cambiamento, nel senso che le esercitazioni vengono

ridefinite a seconda dei progressi della tecnologia e quindi dei diversi problemi

che il designer si troverà ad affrontare. Il basic design eidomatico si propone

di essere un supporto al linguaggio informatico, è destinato ad individuare

e studiare gli elementi morfologici, cromatici e strutturali che stanno alla base

di qualsiasi progetto informatico.

Eidomatica, o eidologia informatica, deriva il suo nome da eidos (immagine),

ed indica l’insieme delle teorie e delle tecniche per l’acquisizione, il trattamento

e la presentazione di immagini attraverso strumenti informatici.

Sempre presso lo Iuav di Venezia, va ricordato il corso l’Hyper Basic Design

di Cristina Chiappini, che è orientato sempre verso la configurazione degli artefatti

tecnologici.

È interessante vedere come da una parte l’arte cinetico-programmata aveva

preveduto e messo in atto l’arte immersiva e gli ambienti multimediali tipici

della nostra rivoluzione tecnologica e come d’altra parte una disciplina nata agli inizi

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86

del secolo scorso per insegnare la progettazione tecnica e industriale possa vedere

applicate la base della sua teoria a un campo di ricerca come il web design, summa

delle scoperte tecnologiche.

Inoltre entrambe queste diverse discipline condividono la centralità

dell’insegnamento (in questo il caso dell’arte cinetico-programmata è quasi

un unicum nel panorama artistico) come ricorda Davide Boriani: “Nel 1971 io

e Colombo iniziammo ad insegnare a Brera; ed è curioso notare che alla fine tutti e

cinque abbiamo finito, come la maggior parte degli artisti cinetici, ad insegnare.

fig. 52: New Basic Design,

workshop tenutosi allo Iuav

di Venezia nel 2006.

Giovanni Anceschi analizza

i risultati dell’esercitazione

di scioltezza gestuale di

Joannes Itten.

fig. 53: i risultati dell’esercitazione

dell’anti primadonna di

Tomàs Maldonado

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87

L’aveva già preconizzato acutamente Argan, indicando nella didattica la sola via

d’uscita per l’arte cinetica e programmata. E l’insegnamento è stato anche

un modo di verificare, applicare, sviluppare nell’ambito del design, dell’architettura,

del territorio, del sociale, ricerche di laboratorio fatte come artisti”.26

Infine, nel panorama del basic italiano, va ricordato il lavoro di Attilio Marcolli,

teorico della percezione visiva e del colore, che viene così ricordato da Giovanni

Anceschi: “l’unico rappresentante del basic design italiano, che ha scritto libri

sull’argomento, che va benissimo, ma non è il vero basic; perché il corpus del basic

design sono le esercitazioni, dove poi si possono far confluire tutti i saperi extra

disciplinari come la topologia, la teoria della simmetria, tutti i discorsi percettologici,

che sono basici, ma non è il cuore pulsante della disciplina.” (da intervista citata)

Un’attività che non fa parte ufficialmente dei corsi di basic design, ma

che ne condivide l’analisi semiotica e formale degli artefatti è quella portata avanti

da John Maeda, docente e ricercatore del MIT (Massachusetts Institute

of Technology), che insegna nella stessa università dei corsi di visual design,

ispirato ai lavori di Paul Rand e Muriel Cooper (direttore della sezione

di counicazione visiva del MIT) e dei corsi di programmazione in cui si focalizza

sull’analisi dell’area in comune tra design e informatica, con l’idea di base che una

buona programmazione – che risente della configurazione di cui abbiamo parlato –

possa creare nuove forme di design.

Lo stesso Maeda è una figura trasversale tra un programmatore, un docente e un

artista digitale e questo ha influito nella nascita di Processing, un software open-

source per programmare dall’arte elettronica alla grafica, nato nel 2001 presso

la sezione del MIT chiamata ‘estethics + computational group’ grazie all’iniziativa

di Casey Reas e Benjamin Fry. Il software si presta alla realizzazione

di una estesa varietà di artefatti multimediali, dalla grafica alle animazioni

ed ai contenuti interattivi; il suo essere open-source ne ha decretato un enorme

successo e la nascita di una comunità che ne arrichisce i contenuti e ne discute

le possibilità progettuali; a riprova della varietà di risultati che se ne possono

ottenere è oggetto di studio presso le università di tutto il mondo e viene usato

da centinaia di artisti, designer, architetti e ricercatori.

26, tratto da un intervista di Nanda Vigo del 22 Giugno 2010

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fig. 53: Max Bill ‘senza titolo’, 1938

fig.54: John Maeda ‘Fireball’, 2005

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89

“Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare il

nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni

prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”*

Umberto Eco

Riprendo la citazione di Umberto Eco, presentata in introduzione, per chiudere

il cerchio di quello che è stata questa ricerca: un’analisi della nascita della disciplina

del design attraverso il punto di vista storico e artistico, e uno studio sul progresso

della forma che ha visto arte e design agire all’unisono nella stessa direzione.

Abbiamo visto come il sapere del design derivi dall’attività del Bauhaus in cui

queste due discpline erano strettamente connesse tra loro, in un rapporto

di continuo scambio, di saperi e di contenuti didattici. Ma allora qual’è la differenza

tra le due discipline? Citando Giovanni Anceschi potremmo trovarla nel fatto

che l’arte, nella sua concezione occidentale del XX secolo di l’art pour l’art sia

una pratica autonoma, trovi in se’ stessa la sua finalità; mentre il design ha bisogno

di una committenza, un’intenzionalità esterna per poter esistere, perciò si profila

come attività finalizzata, quindi eteronima.

Invece citando l’insegnamento di Josef Albers (Josef Albers, Search versus

Research: Three Lectures by Josef Albers at Trinity College, Hartford, Connecticut:

1965, Trinity College Press), quello che hanno in comune lo si può ritrovare

nella questione formale, ovvero nel tentativo che entrambe le discipline attuano

nella configurazione, nel saper dare la giusta forma a idee, progetti e opere

e nel fatto che entrambe producono artefatti, di qualsiasi genere essi siano.

Ed è di questo che ci siamo occupati con l’analisi della disciplina del basic design,

dal Bauhaus ai giorni nostri, della spinta a istituire una didattica che fondasse

la pratica del design attraverso la ricerca della sua grammatica di base; disciplina

che viene definita esaustivamente da Tomàs Maldonado nel 1961: “il disegno

industriale ha il compito di progettare la forma dei prodotti industriali e progettare

la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo

o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto.

E, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione

e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici

e culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici,

tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi)”.27

conclusioni

27, Arte Programmata,1962, catalogo della mostra

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Questa la teoria fondante della rivoluzione scientifica e semiotica introdotta

da Maldonado per attualizzare il corso di basic design, di cui fu direttore a Ulm.

La stessa spinta avanguardista che aveva convinto i docenti del Bauhaus a cercare

un sapere universale e condivisibile, per permettere alla comunità dei designer

di perseguire una disciplina che non fosse solo rivolta a dare la forma ai prodotti

dell’industria, ma che sapesse progettare sia l’artefatto (la forma) sia il suo

contenuto.

Abbiamo anche visto come questi saperi siano un insieme di conoscenze

che si evolvono con lo sviluppo tecnologico, e che, partendo dalle esigenze

della società, ne approfondiscono i linguaggi e le necessità, dando forma

ad una disciplina sempre attuale e attualizzabile, allo stesso tempo rigida

ma vivente.

In questo va sottolineato il fatto che nel fondarla, gli interventi più significativi

furono introdotti da artisti, da Max Bill a Vasilij Kandinkij, fino ad arrivare appunto

a Maldonado, o Anceschi per quel che riguarda la situazione italiana. Questo

è dovuto principalmente alla volontà di condividere un sapere inteso come cultura

a disposizione di tutti e nella capacità tipica dell’arte di anticipare i tempi,

sia dei linguaggi, sia della forma.

Questo ha fatto si che la disciplina giungesse in Italia, nonostante il ritardo

delle istituzioni, per merito delle attività di quella corrente che possiamo definire

arte cinetica programmata, in particolare con Bruno Munari e il Gruppo T.

Questi artisti, dando centralità al tema del tempo e dell’interazione, avevano inoltre

prefigurato la società in cui viviamo noi ora, immersi in un flusso continuo di dati

che è internet e circondati da un mondo artificiale e tecnologico che richiede

appunto la nostra interazione per esistere. Avevano insomma immaginato il futuro

ed il suo linguaggio: citando Giovanni Anceschi il basic design era ed è in questo

“la rivendicazione di un moto della cultura che potremmo definire ‘il processo

della configurazione’ o forse ancora meglio ‘il progresso infinito della forma’.”28

28, da “Il progresso della forma”, articolo di G. Anceschi su NB, I linguaggi della comunicazione

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testi composti in:berthold akzidenz grotesque, univers

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fotografia di Tomàs Maldonadohttp://www.flickr.com/photos/renespitz/3383392278/

fig.1

fig. 2

fig. 3

fig. 4

fig. 5

fig. 6

fig. 7

fig. 8

fig. 9

fig. 10

fig. 11

fig. 12

fig. 13

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Giacomo Balla ‘Compenetrazione iridescente n.2’http://www.atlantedellarteitaliana.it/immagine/00004/2473OP89AU3877.jpg

Piero Manzoni ‘Linea’http://3.bp.blogspot.com/-8zSSZpWFw7Y/Tm9GG8_okRI/AAAAAAAAAI4/GQUBwCoqzT0/s1600/Manzoni_k_525_a.jpg

Victor Vasarelyhttp://www.fondationvasarely.fr/images/eridangd.jpg

catalogo ‘Edition MAT’archivio personale di Giovanni Anceschi

Làaszlo Moholy-Nagy ‘Macchina luminosa’http://0.tqn.com/d/arthistory/1/0/E/v/bauhaus_moma_09_45.jpg

Gabo e Pevsner ‘Monumento della terza internazionale’http://www.tfo.upm.es/docencia/ArtDeco/artdoc1.jpg

Alexander Calder ‘Steel fish’http://calder.org/images/work/full/a00505.jpg

Alexander Calder ‘senza titolo’http://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2009/12/calder-untilted.jpg

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Jean Tinguely ‘Meta Malevic’http://www.neromagazine.it/POPE/Jean_Tinguely_1925-1991_M%C3%A9ta_Malevich_1954.jpg

Lucio Fontana ‘Taglio’http://elvirafrak.files.wordpress.com/2010/05/lucio-fontana-pananti2.jpg

foto di Lucio Fontana scattata da Ugo Mulashttp://en.wikipedia.org/wiki/File:Photograph_of_Lucio_Fontana_by_Ugo_Mulas.jpg

Bruno Munari ‘Macchina inutile’http://www.oblique.it/images/manifesto/obliqui/munari/munari7.jpg

Bruno Munari ‘Macchina inutile’http://www.munart.org/index.php?p=10

Bruno Munari ‘Macchina inutile a giostra’http://www.munart.org/index.php?p=10

Gruppo T manifesto ‘Miriorama 1’archivio personale di Giovanni Anceschi

Gianni Colombo ‘Strutturazione fluida’Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006

copertina di Arte programmata, 1962Arte Programmata, catalogo della mostra, Milano, 1962

copertina di Almanacco letterario BompianiAlmanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962

Bruno Munari ‘Perturbazione cinetica’Almanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962

Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, opere di grafica programmataAlmanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962

Giovanni Anceschi ‘Interferenza’archivio personale di Giovanni Anceschi

Davide Boriani, Gabriele Devecchi ‘Ambiente cronostatico’Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006

Gabriele Devecchi ‘Scultura da prendere a calci’archivio personale di Giovanni Anceschi

Giovanni Anceschi, Davide Boriani ‘Ambiente a variazione luminosa’Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006

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catalogo Gruppo T e Danesearchivio personale di Giovanni Anceschi

catalogo Gruppo T e Alessiarchivio personale di Giovanni Anceschi

Davide Boriani ‘Ipercubo’Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006

New Basic Design, Ittenhttp://www.flickr.com/photos/coconu/4093223449/sizes/l/in/photostream/

New Basic Design, Maldonadohttp://www.flickr.com/photos/coconu/4093191267/in/photostream

Max Bill ‘senza titolo’http://www.abstract-art.com/abstraction/l2_grnfthrs_fldr/g0000_gr_inf_images/g073a_max_bill_dist.jpg

John Maeda ‘Fireball’http://www.sessantottopigro.com/wp-content/uploads/2011/06/maeda_fireball.jpg

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Valentino Alberini

269601

2009/2010

Giovanni Anceschi

Carlo Vinti

III Aprile 2012

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Valentino Alberini 269601

Comunicazioni visive e multimediali

III Aprile 2012 2010/2011

arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma

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a umberto, annalisa, margherita, maddalena, giovanni

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