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Strategie della memoria Architettura e paesaggi di guerra Dipartimento di Culture del Progetto Università Iuav di Venezia Quaderni della ricerca

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Strategie della memoriaArchitettura e paesaggi di guerra

Dipartimento di Culture del ProgettoUniversità Iuav di Venezia

Quaderni della ricerca

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Università Iuav di Venezia - Dipartimento di Culture del ProgettoQuaderni della ricerca

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Progetto gra co di Luciano Comacchio - MeLa Media LabI edizione: gennaio 2014

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Strategie della memoria

a cura di Maria Bergamo e Andrea Iorio

Settore scienti co-disciplinareICAR/14 - Composizione architettonicaICAR/18 - Storia dell’architettura

Unità di ricercaArchitettura, Archeologia, Paesaggi: teatri di guerraCentro Studi Architettura Civiltà Tradizione del Classico – classicA

Architettura e paesaggi di guerra

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Indice

Alberto FerlengaTopogra a leggendaria della Grande guerra

Fernanda De Maio

TRAME DI RELAZIONI

Con itti

Carlo PalazzoloL’arte dell’agguato

Andrea IorioLa vista strategica

Maria Bergamo

Silvia Dalzero

Mauro Marzo

PERCORSI E PROGETTI

Claudia Pirina

Antonella Indrigo

Bombe sulle rovine: Villa Adriana 1943-1944

Rovine, detriti, macerie dai teatri di guerra

A Wonderful Spectacle

Interpretare le tracce

All’ombra dei sacrari

ENGLISH ABSTRACTS

Monica Centanni

POETICHE DELLA DISTRUZIONE

Arte in guerra in Italia durante la Seconda guerra mondiale

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TRAME DI RELAZIONI

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Fernanda De Maio

CONFLITTI

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Tendenza paesaggio Se provassimo a descrivere la tendenza odierna dell’architettura, che se ne parliin termini di nuova architettura o nei termini del suo riciclo, dovremmo parlare di una ‘tendenza al paesaggio’. Nella dialettica corrente, infatti, in contrasto con una volontàdi specialismo disciplinare, il termine paesaggio assume sempre più spesso una connotazione onnicomprensiva che ingloba persino la città. Se la ‘tendenza’, quella vera, oltre alla cosiddetta architettura disegnata ha provato a costruire una teoria urbana attraverso “l’architettura della città”, oggi tutti, anche i più attenti e fedeli testimonied esegeti di quella tendenza, sono sedotti dal paesaggio. Non solo gli ecologi e i botanici accanto ai paesaggisti ortodossi, ma anche antropologi, sociologi, storici, etnologi, e prima di loro gli artisti, si sono occupati di de nire e dare forma al paesaggio. Possiamo lavorare in continuità o in assoluta discontinuità con questa tendenza al paesaggio, spesso banalizzante e omologante, ma in ogni caso dobbiamo fare i conti con essa. E uno dei modi per fare i conti con il paesaggio è provare a studiarlo scegliendo una prospettiva. Delle tante prospettive possibili, qui allo Iuav attraverso la costituzione di un’unità di ricerca e alcuni corsi di studio interni alla facoltà di architettura, abbiamo scelto la prospettiva della guerra. Inizialmente non la guerra tout court, ma quella riferibile ad un preciso periodo storico,la Prima guerra mondiale, che in Italia ha segnato in modo particolare alcuni territori ed alcune comunità rispetto ad altre, in particolare tra Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto, ma ha contribuito in modo determinante – soprattutto attraverso l’operadi mitizzazione del periodo successivo – a costruire una certa idea di unità nazionale, anzi – per dirla con i termini cari al Regime che seguì – di patria. In realtà la Prima guerra mondiale desta interesse per diversi aspetti che ci riguardano; introduce per esempio il concetto di guerra di posizione o di trincea, che allude a un possibile modo di vivere sotterraneo, ipogeo, camuffato, per proteggersi dalle prime incursioni e bombardamenti aerei – una modalità ampiamente sviluppata poi nella Seconda guerra mondiale e che in tempi recenti è tornata alla ribalta come tecnica progettuale del camouflage; accanto ad alcuni tipi di armature non lontane da reminiscenze medioevali, la Prima guerra mondiale introduce i primi carri armati a metà tra la mobile home e la corazza, per cui l’uomo con il suo strumento di guerra mobile diventa una sorta di gigantesco carapace. Ma soprattutto la guerra modi ca in modo a volte irreversibile alcuni paesaggi che già erano stati oggetto di estasi e sgomento in altri momenti per la carica di energia naturale che le loro forme, in una certa condizione climatica, evocavano in chi su di esse posava lo sguardo, su tutti le montagne. La guerra diventa infatti anche una

pagina a fronteConfronto tra l’equipaggiamento del soldato e quello del turista (da E. Diller, R. Sco dio, Back to the Front).

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incredibile ancorché lugubre occasione di infrastrutturazione del territorio – strade, ponti, ferrovie, avio-super ci e piccoli aeroporti, sentieri e di nuovo trincee. In ne, a partire da quella opera di mitizzazione e costruzione retorica di cui si parla in tanti studi anche recenti1, i campi di battaglia, e più estesamente i paesaggi di guerra, sono diventati luoghi di memoria punteggiati da sacrari, cimiteri, cippi e monumenti, andando ad incrementare la lunga lista di beni da curare e salvaguardare.Tornando però al paesaggio e a quel concetto ben espresso da Marc Augé per cui “un paesaggio è la riunione di temporalità diverse”2, la prospettiva offerta dall’indagine dei campi di battaglia introduce molto bene alle differenti strategie della memoria da cui prende il titolo questa raccolta di saggi: tempo storico e tempo presente, tempo puro delle rovine e tempo delle macerie, tempo del ricordo e tempo della memoria convivono infatti e si sedimentano nei luoghi teatri di guerra.

La scoperta di nuovi orizzontiAccanto alle diverse de nizioni e modi di rapportarsi al paesaggio, la prospettiva relativa ai campi di battaglia ci aiuta a costruire una diversa idea di geogra a, una “geogra a dinamica”3, una geogra a legata al movimento, quello delle armate e dei loro armamenti, dei differenti personaggi che entrano in gioco all’interno di una battaglia4, ma anche una geogra a in cui i luoghi che tradizionalmente identi chiamo attraverso precise caratteristiche morfologiche, ambientali, antropiche ed ecologiche, si trovano ad un certo punto, per il tempo più o meno breve di una battaglia, sovrapposti o interconnessi in modi del tutto inaspettati; un campo di battaglia o un paesaggio di guerra può, infatti, comprendere al contempo parti di umi, valli, cime, città e villaggi, che no a quel momento non avevano fra loro particolari tratti di condivisione e che riportati sulle mappe individuano una differente geogra a, ampliando così enormemente la possibilità di costruire un sistema di relazioni complesse tra paesaggi e territori, che di solito trattiamo in modo univoco o di cui facciamo fatica a trovare connessioni rispetto alla geogra a nazionale. Il senso di questa diversa geogra a e della scoperta di nuovi orizzonti è ben testimoniato d’altra parte da cronisti, studiosi e memorialisti.Una delle prime osservazioni con cui inizia il diario di Paolo Rumiz5, interamente dedicato all’esplorazione dei luoghi teatro delle battaglie della Grande guerra, è per esempio che la Prima guerra mondiale per gli Italiani fu una guerra in salita. Dalle pianure verso le vette. Sono le

1 M. Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, Torino 2013.2 M. Augè, Rovine e macerie. Il senso del tempo [2003], Torino 2004.3 P. Virilio, Bunker Archéologie [1975], Paris 2008.4 I. Ábalos, Campos de batalla, Barcelona 2005.5 P. Rumiz, “La Grande guerra”, il diario di viaggio di Paolo Rumiz, «Repubblica», 4 agosto-10 settembre 2013 (www.repubblica.it/argomenti/grande guerra).

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stesse cime dei monti da cui Emilio Lussu e i suoi commilitoni della brigata Sassari scoprono l’orizzonte e il panorama montuoso delle Prealpi venete6. Dalla Prima alla Seconda guerra mondiale il passo è breve e a distanza di trentacinque anni è il futuro architetto-urbanista francese Paul Virilio a scoprire nel muro atlantico abbandonato dai Tedeschi al termine della Seconda guerra mondiale un orizzonte del tutto diverso7: quello marino delle coste francesi insieme a quella architettura ‘scandalosa’ dei bunker messi in piedi dal genio militare nazista al comando di Fritz Todt prima e di Albert Speer poi. E da quella prima scoperta sulle coste della Normandia comincia, sulle orme dei soldati, il rilievo di queste speciali architetture militari che gli consentono di formarsi un’idea molto particolare in merito al linguaggio del moderno in architettura e oltre. Paesaggio, architettura, città… poi di nuovo paesaggio e progetti di architettura.All’inizio degli anni ‘60 del secolo scorso è un altro architetto, Aldo Rossi, che, alla ricerca della propria architettura, attraversa “le città d’Europa dopo i bombardamenti dell’ultima guerra [e] ha di fronte a sé l’immagine di quelle case sventrate dove tra le macerie rimanevano ferme le sezioni dei locali familiari con i colori sbiaditi delle tappezzerie, i lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne, la disfatta intimità dei luoghi”8. E proprio il ricordo di queste distruzioni diventa l’inizio di una ricerca su L’architettura della città che a tratti assume toni marziali, come avrà modo di affermare nel suo secondo notissimo libro L’autobiografia scientifica. “Ho letto libri di geogra a urbana, di topogra a e di storia, come un generale che voglia conoscere tutti i possibili campi di battaglia – le alture, i passi, i boschi. Percorrevo a piedi le città d’Europa per capirne il disegno e classi carle in un tipo”9. Rossi sa bene che il passo del soldato è diverso da quello del viandante perché guarda con occhi diversi ciò che attraversa, alla ricerca di una chiave che gli consenta di scegliere il sito giusto per sferrare l’attacco e al contempo difendersi. Il passo con cui il soldato scandisce il ritmo delle sue lunghe marce, degli appostamenti, degli attacchi e delle ritirate diventa, in qualche modo, un altro modo per misurare, descrivere e modi care i territori che saranno teatro di battaglie – siano questi paesaggi montuosi, linee di costa o insediamenti urbani. Sebbene Rossi usi in modo analogico il confronto con il passo del soldato è d’altra parte indubbio che il modo con cui l’arte della guerra modi ca e occupa i diversi contesti ha comunque delle ripercussioni fondamentali su tali territori anche a pace fatta; anche quando ormai le tracce sembrano, a un primo sguardo, cancellate dal tempo e da nuovi strati di civiltà. Di ciò si è, d’altra parte, reso conto, tra i primi, il paesaggista spagnolo Iñaki Ábalos che tra il 2003 e il 2005 ha lavorato con gli studenti del proprio laboratorio all’ETSAM sul tema

6 E. Lussu, Un anno sull’Altipiano [1937], Torino 2000.7 P. Virilio, Bunker Archéologie, cit.8 A. Rossi, L’architettura della città, Padova 1966.9 A. Rossi, Autobiografia scientifica, Parma 1990.

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dei campi di battaglia nella penisola iberica, “per segnalare il tipo di azioni paesaggistiche, architettoniche e ambientali che sembra opportuno sviluppare nel contesto nazionale, ponendo in relazione memoria storica, paesaggio e attività produttive, al ne di impostare il turismo di nuova generazione come alternativa positiva per la costruzione, il restauro e la cura del paesaggio, invece di concepirlo come una forza meramente distruttiva, riscattando in tal modo la dimensione politica e tecnica dello spazio pubblico contemporaneo”10.Ma il turismo come nuova forma di invasione era stato messo in evidenza, qualche anno prima, nel cinquantenario dello sbarco in Normandia, dagli architetti americani Diller & Sco dio, in un libro collettaneo intitolato Back to the front. Questi, nel rivelare l’analogia tra l’equipaggiamento del soldato e quello del turista, tornavano sui luoghi scoperti da Virilio e li ridisegnavano attraverso composizioni – piante e sezioni – in cui svelavano oltre la monumentalità delle singole architetture e del progetto nel suo complesso, il carattere onirico e surrealista di questi luoghi del turismo di guerra, lontana ormai quella scarica di energia fulminante della battaglia dei giorni del D–Day. In de nitiva, un paesaggio di lacune, fratture e mutilazioni scolpito dal tempo delle bombe non meno che dal tempo della pace, quello atlantico del muro come quello iberico dei campi di battaglia esplorato dall’occhio fotogra co di Bleda Y Rosa prima e da Ábalos poi, che cela sotto le forme tranquille di oggi un mondo di violenze. Prima e Seconda guerra mondiale diventano allora, a distanza di cento anni dalla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, momenti di un unico con itto che stende sui territori che intercetta il proprio ambiguo velo performante. Poco importa che tra l’uno e l’altro scorrano vent’anni di pace: si tratta di un armistizio per armarsi meglio e tornare a combattere. Per questo camminare e svagarsi oggi sul Montello o su una delle quattordici colline di macerie post belliche della Nuova Berlino, o sul Monte Stella a Milano12 (altitudini simili, origine diverse, ma tutte colline unite dall’essere oggi soprattutto il frutto dei nuovi segni sul paesaggio del grande con itto del Novecento), non può essere solo una passeggiata nel verde o nel ricordo, ma anche un modo per far riaf orare dal basso, dalle lacune e dalle tracce dei suoli, l’atmosfera ambigua di equilibri tettonici, oltre che tellurici, percepiti come insicuri, instabili anche nelle forme più cupe dei bunker e oltre le forme cristallizzate di statiche retoriche che s’inverano in molti dei memoriali eretti nei vent’anni di pace tra il primo e il secondo con itto del Novecento. E se la nostra identità nazionale durante il ‘15-’18 del secolo scorso trova modo di perfezionarsi (sic!), non dal centro, ma da un’altra periferia della penisola – dopo quella nord occidentale intellettualistica di Cavour – quella nord orientale e travolge, con l’urto della potente macchina

10 I. Ábalos, Campos de batalla, cit.11 E. Diller, R. Sco dio, Back to the Front. Tourisms of War, Caen 1994.12 F. De Maio, The Green Hills of Black and White Rubble, WIT Transactions on The Built Environment, vol. 131, Southampton 2013; anche in Re-enacting the Past. Museography for Conflict Heritage, M. Bassanelli, G. Postiglione (a cura di), Siracusa 2013.

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dell’industria bellica, montagne, altipiani, umi, villaggi e città, opere d’arte e monumenti, guardare all’Altopiano di Asiago, al Carso, al Piave e alle città che li punteggiano non ha senso solo dal punto di vista storico, per celebrare alle soglie del centenario della Grande guerra il ruolo e il sacri cio svolto, oltre che dalle truppe militari, da questi territori e dalle popolazioni civili che qui rimasero strette nella morsa dei diversi eserciti; è piuttosto un modo per testare il ruolo che l’architettura ancora può svolgere a partire dal carattere ambiguo di tali luoghi. Un’ambiguità che in altri contesti artistici, si pensi solo alla poesia Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto13, ha dato luogo a forme di espressività poetica del tutto nuove e particolari, quasi a indicare che non è possibile una dimensione narrativa e descrittiva riconducibile a canoni correnti. Porre al centro di un progetto di architettura il con itto e la sua possibilità di descriverlo, non solo in termini storici, ma nei suoi termini attuali di esperienza che si rinnova in un ricordo e trova una composizione con altre modalità e intrecciando altre questioni, è la s da con cui da ricercatori e da progettisti ci siamo cimentati in questi ultimi anni. Esiste, in altre parole, la possibilità che, chiuso un ciclo – quello del Novecento dei con itti bellici e della ricostruzione che ne è seguita, talvolta più devastante del con itto bellico stesso – per questi territori se ne apra un altro e che assuma la forma di un riciclo o riuso di luoghi e manufatti, che trascende i meri aspetti concreti e che ha a che fare con valori anche immateriali, quali la memoria scomoda di battaglie perdute o di sacri ci compiuti, e che proprio questi valori immateriali richiedano progetti d’architettura e strategie urbane e paesaggistiche attente, misurate, ma per certi versi anche radicali, af nché le più o meno labili tracce del ricordo, come di ciò che non è facile ricordare, si trasformino in segni ancora comprensibili e trasmissibili nello sviluppo della società multietnica e multiforme della contemporaneità.

Fernanda De MaioLaureata presso la Facoltà di Architettura di Napoli, è stata borsista dell’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda dove ha condotto una ricerca su Paul Bonatz, i cui esiti sono poi con uiti nella monogra a Wasser-Werke (Stuttgart 1999 e 2001). È dottore di ricerca in Progettazione urbana e dal 2005 professore associato presso l’Università Iuav di Venezia. Come componente dello studio Na.o.Mi. ha partecipato a diversi concorsi di architettura nazionali e internazionali esposti in mostre tra cui l’8° Biennale di Architettura di Venezia e La Biennale di Arti Visive di Venezia del 2001, ottenendo segnalazioni e premi. Partecipa e coordina ricerche e seminari nazionali e internazionali e suoi saggi e progetti sono stati pubblicati in libri e riviste internazionali di settore. Dal 2010 coordina l’unità di ricerca Iuav “Architettura, Archeologia, Paesaggi: teatri di guerra”. È membro del collegio del dottorato “Architettura, Città Design” della Scuola di Dottorato Iuav. Oltre ad aver preso parte come docente a svariati workshop, ha curato mostre e concorsi d’architettura. Dal 2011 coordina il Seminario Internazionale di progettazione VIllard.

13 A. Zanzotto, Galateo in bosco, Milano 1978.

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TOPOGRAFIA LEGGENDARIADELLA GRANDE GUERRAAlberto Ferlenga

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1 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino 1952.2 Ibid.

Maledetto sia il PasubioChe l’è stato la mia rovinaCon quei tubi di gelatinaCon quei tubi di gelatina.Maledetto sia il PasubioChe l’è stato la mia rovinaCon quei tubi di gelatinaTutti in aria faseva saltar.

Mito e geogra aCesare Pavese in Il mestiere di vivere così commenta il processo di costruzione del mito presso i Greci: “Il fascino dei miti greci nasce dal fatto che le posizioni inizialmente magiche, totemiche, matriarcali, iniziatiche vennero – per la strenua elaborazione del pensiero cosciente avvenuta nei secoli X-VIII a.C. – reinterpretate, tormentate, contaminate, innestate, secondo ragione, e così ci sono giunte ricche di tutta questa chiarezza e tensione spirituale ma tuttora variegate di antichi simbolici sensi selvaggi”1.Elaborare la paura, il terrore, il mistero che dominava i primigeni rapporti tra uomini e natura è stato il frutto di un lungo percorso di elaborazione culturale. Il modo migliore per tradurre in forme razionali questi sentimenti era renderli descrivibili, confrontabili con qualcosa di conosciuto. Dal momento che ciò che l’uomo meglio conosce è l’uomo stesso e il paesaggio che lo attornia, il processo di sempli cazione dei misteri originari su cui si fondano i miti greci usa come base di partenza i caratteri umani, le loro storie e i paesaggi ordinari in cui vivono. È ancora Pavese che spiega come “anche la normalità diventa poesia quando si fa contemplazione, cioè cessa di essere normalità e diventa prodigio”2. E il meccanismo di formazione del mito è esattamente questo: trasformare la normalità umana e geogra ca in prodigio attraverso la contemplazione sacrale e il racconto ‘ambientato’. Zeus, il padre degli dèi, non poteva certo essere descritto come un vecchio, rude pastore, vestito di pelli, seduto sulla roccia af orante di una qualsiasi campagna. Per smuovere l’immaginazione e, al contempo, destare quel timore che gli dèi dovevano incutere bisognava far pensare a qualcosa che già di per sé destasse quei sentimenti e ingigantirlo. Il Dio è dunque rappresentato come un grande e terribile re insediato nella sua reggia sospesa sopra le nuvole duemila metri, “al di sopra del bene e del male”, come avrebbe detto un esperto di

pagina a fronteForti cazioni al dente del Pasubio (da P. Maravigna, Guerra e vittoria, Torino 1935).

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miti e tragedie greche come Friedrich Nietzsche. Se il dato umano era il punto imprescindibile di partenza per la formazione del mito, quello geogra co diventava egualmente fondamentale per rafforzare la gura del Dio e, al tempo stesso, collocarla in posizione dominante nello spazio e nella natura. Ovviamente, il signore degli dèi non poteva che abitare il monte più alto, dentro a quel sistema estremamente polarizzato e rigidamente gerarchico che governava la religione dei Greci. L’Olimpo, non era in realtà particolarmente alto ma il fatto di essere stato per millenni, come tutti i monti, al di fuori della portata dell’uomo – che non aveva alcun interesse a risalirlo e molti motivi per temerlo – ne faceva il candidato perfetto al ruolo di casa degli dèi. Alla sua trasformazione in tal senso contribuirono le descrizioni immagini che che fornivano un paesaggio virtuale a una iconogra a prevalentemente vascolare e statuaria fortemente concentrata sulla gura umana. Nelle composizioni rosse e nere dipinte su crateri e kylix, ai piedi di statue o sullo sfondo di bassorilievi marmorei, solo ad alcuni dettagli era af data l’evocazione dei luoghi geogra ci in cui erano ambientate le diverse narrazioni che descrivevano le lotte e gli amori della comunità divina: un frammento di roccia, la stilizzazione di una quercia, l’aquila posata, la saetta impugnata, il resto era racconto e trasmissione del racconto.È, infatti, attraverso un’operazione prevalentemente narrativa che l’Olimpo, sede degli dèi, o il Parnaso, casa di Apollo e delle Muse, vengono sottratti alla geogra a reale, ingigantiti nell’evocazione e collocati nella dimensione fantastica del mito. La loro altezza effettiva – 2917 metri l’uno e 2459 l’altro – e la loro forma non particolarmente spettacolare non sarebbero state suf cienti a garantirne la permanenza in una condizione metastorica ma il carattere trascendentale che la topogra a non poteva garantire troppo a lungo fu perpetuato dall’inaccessibilità, assicurata prima dal timore degli eventi naturali e poi da quello degli dèi. Il processo non ha interessato, in Grecia, solo i monti ma anche i corsi d’acqua e in particolare le fonti, che da rigagnoli o pozze si trovarono tras gurati in culle di ninfe o idilliaci sfondi di congiungimenti divini. Come effetto secondario il consolidarsi della geogra a del mito funzionò come fattore di protezione ambientale, anche se il fatto che l’Illisso fosse considerato come il luogo in cui Orizia, glia di Eretteo, era stata rapita da Borea (il vento del nord) e il Ce so come genitore di Narciso, non li salvò dal destino attuale di acque “tombate”, iniziato ad Atene già, negli anni ’50. È proprio commentando il destino dei due umi che Dimitris Pikionis, il moderno architetto dell’Acropoli, in un suo importante scritto in difesa del paesaggio sottolinea l’importanza della componente geogra ca nella cultura greca. “Le parole di Euripide in Medea, mostrano chiaramente come la sapienza degli antichi fosse la sapienza della stessa terra che abitavano. In nito è il loro affetto per i due umi della loro terra, le loro ‘acque sante’ come chiamavano l’Ilisso e il Ce so. In quel tempo c’erano luoghi non calpestabili, a cui nessuno poteva fare violenza e di cui non si poteva nemmeno proferire

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3 D. Pikionis, Discorso in difesa del paesaggio, in A. Ferlenga, Dimitris Pikionis. 1887-1968, Milano 1999.4 C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit.

il nome. Lì c’erano templi e soglie inaccessibili rivestite di rame che appartenevano alle tremende divinità ctonie”3.Più fortunate dei umi, la sorgente dedicata alla ninfa Castalia a Del o la fonte Kura, dedicata ad Apollo, a Cirene, sono rimaste sostanzialmente intatte. Erano state la ragione dell’origine delle rispettive città di appartenenza: venerate come dee e conservate religiosamente, divennero, dal punto di vista urbanistico, più importanti di molti monumenti, per essere, in ne, collocate nella dimensione del reperto archeologico-turistico destinato ad evocare origini più misteriose di quelle espresse dalle rovine dei templi. Anche con i Romani la geogra a, se pur meno precisata, ha un ruolo importante nella costruzione del mito. Più che caratterizzare con la loro presenza luoghi speci ci, gli dèi romani presiedono alle attività umane in un paesaggio diffuso e, d’altra parte, l’assimilazione delle divinità dei popoli conquistati dentro l’impero rende variegato lo scenario dei rapporti tra religione e geogra a. Malgrado ciò, l’attribuzione geogra ca, nel senso, ad esempio, della provenienza, ha ancora una notevole importanza, almeno nella lingua. Come ricorda ancora Pavese, “gli aggettivi geogra ci della poesia latina (ante tibi Eoae Atlantides abscondantur) sono l’estremo modo – ri esso – di fare il mito, immergendo la realtà fantastica nel passato e nella lontananza. Sono il solo esotismo di cui è capace la mente antica”4.Quello dei Greci e dei Romani è ancora il tempo in cui la collocazione della mitologia in una dimensione geogra ca avviene essenzialmente tramite la parola, anche se negli affreschi o nei mosaici dei secondi iniziano a comparire prime descrizioni pittoriche di ambienti idillici o mitici. Solo molto più tardi avremo rappresentazioni puntuali dei luoghi sacri ai pagani. Quando ciò accade diffusamente, in quadri e disegni rinascimentali o neoclassici, il mito è già da tempo sganciato dalla religione che l’aveva generato e la descrizione del suo contesto geogra co diventa il pretesto per dar luogo a una galleria di gure metaforiche, adatte a teatralizzare l’immaginario dei revival classici di vario tipo che si succedono in epoche diverse. Nel passaggio tra narrazione orale o scritta e descrizione pittorica la natura perde i suoi connotati di luogo misterioso e terribile ritornando a una dimensione umana, sia pur monumentalizzata. Più del paesaggio naturale è l’architettura a sottolineare l’eccezionalità dei luoghi in cui si ambientano le storie degli dèi greci nelle corti rinascimentali. Colonne e frontoni sovrastano le rocce sacre attribuendo indebitamente alle divinità una capacità di rappresentazione architettonica che risulta abbastanza singolare se pensiamo che gli uomini l’avevano messa a punto, nel corso di secoli, proprio per celebrarle. Il rapporto tra geogra a, religione e mito si rinnova nel processo di consolidamento delle

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pratiche di fede della religione cattolica. Non tanto nella realtà, ridotta di scala, degli straordinari sfondi che ambientano la pittura religiosa, da Giotto in poi, inventando paesaggi sacri il cui modello è la semplice realtà; e nemmeno nei paesaggi ttizi, di pietra, legno e ori racchiusi in chiese e cattedrali o nella volgarizzazione modellistica dei presepi, quanto piuttosto nelle sacralizzazioni geogra che a scala reale. La geogra a propria dei luoghi santi, in primo luogo, dove orti, case e colline di una piccola capitale asiatica vengono sottratti all’ordinaria evoluzione urbana dall’aver fatto da sfondo alla vicenda di Cristo e monumentalizzati tramite architetture rappresentative; ma soprattutto la sua riproduzione a distanza, quando quegli stessi luoghi risulteranno preclusi ai pellegrinaggi dei cristiani. È la storia dei Sacri Monti che costituiscono il succedaneo che, prevalentemente ad opera dell’Ordine dei Francescani, storici custodi di Terra Santa, si escogita, attorno alla metà del 1400 (Bernardino Caimi ne sarà l’iniziatore a Varallo Sesia) per legare la devozione ad una esperienza sica e visiva coinvolgente, non più mediata dall’arti zio liturgico formalizzato negli edi ci religiosi, ma posta a diretto contatto con la natura, come era stato al tempo dei fatti da cui la religione aveva tratto origine. Con la loro creazione, attorno ai laghi del nord-Italia, i monti prealpini si trasformano in altrettanti Golgota e i loro sentieri in Vie Dolorose (in seguito il modello sarà usato anche per rappresentazioni al vero delle vite di alcuni santi come S. Francesco o S. Carlo Borromeo, a cui si deve la diffusione dei Sacri Monti). Il meccanismo messo in atto ricorda in molti aspetti gli espedienti teatrali. Il percorso, che riprende nome e aspetto dei luoghi o delle vicende evocate (Annunciazione, Santo Sepolcro, Calvario) è scandito da cappelle in successione pensate come piccoli teatri a scena ssa. Al loro interno, gruppi scultorei in legno o cartapesta, spesso dotati di vere vesti e vere chiome, riproducono con impressionante realismo scene sacre. Altri “Calvari”, in Bretagna, in Spagna e Italia, rappresentano in forma più sintetica, con croci e sculture, il luogo e l’agonia di Cristo, sovrapponendo la geogra a sacra della Passione a quella ordinaria del paesaggio europeo ed esaltandone alcune direttrici tramite una rete di percorsi di pellegrinaggio usati come strumento ef cacissimo di reiterazione dell’atto di fede, di conservazione della memoria e di controllo territoriale.In forme e condizioni diverse, questo meccanismo che lega naturale e sovra-naturale e si nutre di storie fortemente radicate nei luoghi unisce la maggior parte delle religioni, dal buddhismo all’induismo, dall’Islam allo sciamanesimo e spesso ha nei monti, dall’Himalayano Kailash, all’australiano Uluru, il suoi punti salienti. La sacralizzazione della geogra a non è solo il modo attraverso cui si afferma una sorta di patto con la natura o un dominio territoriale da parte dell’uomo, ma anche un mezzo per rendere comprensibile e accettabile qualcosa di vasto e terribile che, altrimenti, risulterebbe impossibile da sostenere per la mente umana. Di conseguenza, è anche un modo per non

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perdersi. Per gli aborigeni australiani, raccontati da Bruce Chatwin in Le Vie dei canti5, ad esempio, evocare con l’aiuto di canzoni il tempo dei sogni prodotti dagli antenati, oltre a rinnovare quotidianamente il mito della Creazione (gli aborigeni pensavano che la Terra fosse stata creata dai sogni degli antenati) diventa una tecnica di descrizione e d’uso di un paesaggio desertico e apparentemente indifferenziato. In montagna, i miti, religiosi o pagani che siano, servono, da sempre, per distinguere vette e pianori, per esaltarne la natura o per assicurarsene la benevolenza. Dalla saga di Re Laurino per il dolomitico Rosengarten, a quella delle streghe per l’Altopiano dello Sciliar, questa pratica ha il suo ri esso nei nomi delle località e nella normalizzazione determinata dalla collocazione di simboli religiosi (per i monti italiani avrà una tardiva conferma a ne ‘800 nel decreto episcopale che dedica le vette a Cristo Redentore). Cappelle, croci, Vie Crucis e statue, poste lungo sentieri o in passaggi scabrosi, individuano cime, misurano percorsi, esorcizzano presenze oscure, nobilitano altopiani o radure o boschi, per alleviare la fatica, placare la paura di valanghe o crepacci, o semplicemente ricordare itinerari.

Guerra in montagna Ma la ‘sacralizzazione’ della geogra a non avviene solo attraverso la religione, la leggenda o la superstizione, anche se ad essi si deve la maggior parte dei pretesti che l’hanno determinata. La storia umana, con le sue vicende, ha fornito altrettanti spunti per rendere memorabili e sacri alcuni luoghi. E, nel suo svolgersi, i fatti più cruenti, come stragi o battaglie, hanno svolto un ruolo fondamentale, come se il mescolarsi copioso di terra, armi e sangue rinnovasse, ad ogni suo apparire, la memoria di ancestrali genocidi o moltiplicasse il sacri cio della Croce. Per secoli i campi di battaglia non si sono tramutati in luoghi di per sé sacri, nemmeno in Europa, il cui territorio è fortemente segnato dalla loro presenza. Gli scontri tra eserciti che hanno fatto la storia del vecchio continente sono avvenuti spesso in luoghi casuali o non sempre previsti e si sono consumati nell’arco di poche ore senza lasciare segni durevoli. La loro precisa ubicazione è ricordata da cippi e monumenti, a Canne o a Waterloo, oppure dall’aggiunta di attributi bellici ai nomi originari delle località (S. Martino della Battaglia, Castillon-la Bataille, ecc.) ma la loro importanza è legata a temi civili o storici che rimangono tali senza assumere dimensioni sacre e la loro connotazione geogra ca è spesso vaga. Solo l’eccezionalità dell’evento, per importanza e dimensioni, dà origine a forme di ‘sacralizzazione’ come a Gettysburg6, che portano alla conservazione e alla messa

5 B. Chatwin, Le vie dei canti [1986], Milano 1988.6 J. B. Jackson, The Necessity for Ruins and Other Topics, Amherst 1980.

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in evidenza del campo di battaglia come reliquia di paesaggio consacrata dall’evento guerresco. Se consideriamo la storia italiana, i luoghi degli scontri garibaldini, ad esempio, scandiscono, con i loro nomi, la vicenda dell’Unità nazionale, ma Calata mi, Marsala, Bezzecca, identi cano territori ampi e un’epopea romantica più che una speci ca geogra a ssata nel mito. Con S. Martino, Solferino, Custoza, altri siti risorgimentali, iniziano a sorgere i primi ossari militari, i primi monumenti a scala territoriale, ma sono essi stessi – la torre di S. Martino, l’ossario di Custoza – a rendere memorabile la geogra a del luogo e a costituire il centro dell’evocazione e non certo le inde nite pianure o le basse colline in cui avevano manovrato a largo raggio, e nello spazio di una giornata, salmerie, cannoni e reggimenti di cavalleria. È con la Prima guerra mondiale e la sua speci cità di guerra di posizione che la memoria, la sacralità, il racconto si riaccostano fortemente alle caratteristiche del territorio, sino a fare delle sue componenti il vero centro di ogni memoria evocativa. Con la Grande guerra i meccanismi antichi del mito, soprattutto in Italia, si rimettono in moto, in presenza di una carne cina senza precedenti avvenuta in un tempo lungo e in uno spazio ristretto e spesso estremo, per posizione e condizioni climatiche. In questa guerra gli scontri frontali reiterati hanno sempre come riferimento un monte da raggiungere, un ume da varcare, un altopiano da conquistare, la cui vista rimane per anni ssa davanti agli occhi dei soldati. Una civiltà che si accinge a divenire di massa glori ca in un’accidentata topogra a i suoi primi martiri; non tanto il singolo eroe, gura quasi secondaria in questa guerra, ma i corpi militari, le divisioni, i battaglioni. Masse, annientate dai gas della Somme, falciate dalle mitragliatrici nemiche o dal fuoco amico nell’inferno dell’Ortigara; masse, squarciate dagli obici da 280, da 305, da 420, sbriciolate dalle tonnellate di dinamite fatte reciprocamente esplodere sotto le postazioni. Masse umane, che lasciano impresso il segno dei corpi nel terreno di centinaia di cimiteri, che cospargono i ghiaioni di ossa frantumate; masse d’acciaio che modellano la geogra a – l’Ortigara perderà 8 metri dopo la battaglia, il Castelletto, il Pasubio, il Col di Lana risulteranno stravolti dalle mine. A differenza di ciò che era successo per altre guerre quando la natura, dopo l’armistizio, aveva presto ripreso il sopravvento cancellando le tracce visibili del con itto e lasciando un ricordo spesso edulcorato dalle rappresentazioni retoriche, nella Prima guerra mondiale lo sconvolgimento era stato tale che per anni e per generazioni fu impossibile dimenticarlo. Rigoni Stern racconta come l’Ortigara sia rimasta a lungo un luogo maledetto dove nessuno poteva andare con leggerezza: troppo forte era il peso di quello che era successo e troppo evidenti i segni del dolore nelle rocce dilaniate, nei chilometri di lo spinato rimasti sul terreno, nei boschi bruciati, nella presenza delle “masse invisibili”, come Elias Canetti in Massa e potere7 de nisce i caduti che continuano a popolare i campi di battaglia. In un paesaggio in cui, come

7 E. Canetti, Massa e potere [1960], Milano 1981.

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al Monte Lozze, ancora oggi chi cammina è invitato a depositare in una specie di piccolo ossario le ossa umane che inevitabilmente troverà, il mito attecchisce con facilità. Non sono state tanto le prime rappresentazioni uf ciali di un giornalismo censurato e vanaglorioso a determinarne la nascita, ma piuttosto le lettere di chi scriveva dal fronte, i disegni dei fanti, le canzoni che nascevano in trincea. In particolare queste ultime hanno ssato per sempre i nomi dei luoghi nella memoria collettiva. Descrivono il viaggio verso i campi di battaglia (dopo tre giorni di strada ferrata / e altri due di duro cammino / siamo arrivati sul Monte Canino, / e a ciel sereno ci tocca riposar…), maledicono città (Gorizia tu sia maledetta…), legano montagne a immagini di morte (là sul Cavento ghe toca morì…; Monte Nero, Monte Nero, traditor della vita mia…), guardano a valli e umi come a camposanti (nella valle c’è un cimitero, cimitero di noi soldà…; La tradotta che parte da Torino / a Milano non si ferma più / e la va diretta al Piave / cimitero della gioventù…), evocano la guerra di mina (Su la cima del Monte Pasubio / sotto i denti ghè ze ‘na miniera. / Zè i alpini che scava e che spera / de ritornare a trovar l’amor…), raccontano le dimensioni della strage (battaglione di tutti morti…; siam partiti, siam partiti in 27 / ed in 5 tornati siam giù…; Su la strada del monte Pasubio / lenta sale una lunga colonna / l’è la marcia de chi non torna / de chi se

Baraccamenti italiani incastrati nella roccia della montagna (da P. Maravigna, Guerra e vittoria, cit.).

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ferma a morir lassù…; Dal Monte Nero al Monte Cappuccio / sino all’altura di Doberdò / un reggimento più volte è distrutto / alfine indietro nessuno tornò…), narrano gli sforzi vani (o Monte San Michele, / bagnato da sangue italiano / tentato più volte ma invano / Gorizia pigliar…), ricordano le condizioni di vita proibitive (quando fui stato nella mia tenda / sentii un rumore giù per la valle, / sentivo l’acqua giù per le spalle, / sentivo i sassi a rotolar…) e in ne cantano la voglia di non parlarne (Non ne parliamo di questa guerra / che sarà lunga un’eternità…). Sono le caratteristiche del teatro di guerra a far sì che la geogra a abbia il tempo di intrecciarsi strettamente con la vita e con la morte. D’altronde così era sempre stato, anche nella quotidianità pre-bellica, per un esercito di contadini che, come notò Rudyard Kipling in visita al fronte italiano8, facevano in montagna quello che aveva sempre fatto per sopravvivere: scavare campi, dissodare pendii, terrazzare, perforare gallerie, costruire rifugi. Ma mentre in tempo di pace, nella cornice domestica di povere case, il disagio, le morti per malaria o per febbre spagnola erano questioni private, anche se diffuse, con la Prima guerra mondiale lo sterminio diventa un fatto collettivo e pubblico per tutti coloro che vi partecipano e sono testimoni della sua insensatezza e della sua apocalittica dimensione. È anche per l’evidenza della dimensione nuova e tragica di una guerra che stravolge luoghi familiari a molti dei partecipanti (i battaglioni alpini o quelli degli Alpenjäger) che si forma il mito topogra co della Prima guerra mondiale9, che si sovrappone a quelli pagani o religiosi creati dalle genti di montagna. Un mito costruito da soldati increduli, da principio, che la bellezza del paesaggio che li attornia possa trasformarsi di colpo in un dramma; un mito alimentato dall’ininterrotta osservazione – dal pertugio di una feritoia, attraverso i dispositivi di mira di fucili o artiglierie – di dettagli di paesaggio che possono trasformarsi in pericoli mortali. Un mito nato dal basso, nel senso letterale dell’espressione, perché è per lo più dal basso, dalla terra e dalle sue viscere, che partivano i soldati italiani per cercare di conquistare posizioni quasi sempre più elevate, viste come meta nale di un sacri cio il più delle volte inutile. In questo modo montagne ancor meno alte di quelle abitate dagli dèi greci sono diventate le roccaforti di un moderno empireo alpino. Nel mito della guerra ai fatti naturali interpretati dai Greci come manifestazioni divine, si sostituiscono le esplosioni a grappolo degli Shrapnel, le sciabolate luminose delle cellule fotoelettriche, il fuoco intermittente delle mitragliatrici. È così che valli, umi e monti di un’ordinaria area di con ne vengono resi eccezionali dalla guerra, dai canti, dai morti. Cessato il rumore delle armi il mito laico e doloroso, insensato e oscuro, della guerra combattuta, sarà sostituito da quello retorico della guerra celebrata. Strumenti della sua affermazione furono leggi

8 R. Kipling, La guerra nelle montagne. Impressioni del fronte italiano [1917], Firenze-Antella 2006.9 M. Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, Torino 2013.

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come la circolare ministeriale del 1922, che richiese espressamente ai comuni italiani di dare corso ad una toponomastica della vittoria, e la legge del 1931 in materia di onoranze ai caduti, che costituì il preludio alla costruzione dei grandi sacrari voluti dal fascismo. A ciò si deve la citazione dei luoghi teatro di scontri nelle vie e piazze di ogni città italiana, la creazione in ogni centro di monumenti improntati a gesta gloriose, il maquillage dei campi di battaglia attraverso sacrari di marmo e giganteschi ossari, la trasformazioni di parti di paesaggio in “aree sacre” (Grappa, Sabotino, Ortigara). Nei luoghi in cui la guerra aveva fatto il suo corso, migliaia di singole azioni radicate ai pendii delle montagne o agli argini dei umi vennero riassunte in pochi bianchi mausolei. Da centinaia di piccoli cimiteri che avevano ssato al suolo gli obiettivi dei bombardamenti e le ondate degli assalti, le ossa vennero trasferite in colossali contenitori architettonici. Per questa operazione di monumentalizzazione postuma si prese a prestito, una volta di più, il linguaggio formale della romanità classica e, in qualche caso, i simboli furono prelevati direttamente dagli scavi romani, come la colonna di Aquileia traslata a Redipuglia. Un linguaggio tipicamente urbano, fatto di archi trionfali, colonne, cippi, strade sacre, si trasferì, così, in montagna, su cime come il Grappa o il Pasubio, lungo pendenze contese a colpi di centinaia di caduti,

Uf ciale austriaco fotografa linea italiana sul Carso (da P. Maravigna, Guerra e vittoria, cit.).

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come il Monte Sei Busi (Redipuglia), trasformando in marmo e gloria ciò che era stato prevalentemente fango e dolore, allineando in ranghi ordinati ciò che era stato confusione e disordine. Se gli scavi prodotti dalla guerra avevano creato nel paesaggio sconvolgimenti e mutilazioni geogra che, quelli non meno distruttivi fatti per celebrarla generarono un ordine funerario che divenne meta di un turismo di guerra, indirizzato dalle bellicose guide intitolate Sui campi di battaglia10, edite dalla Consociazione Turistica Italiana (denominazione assunta dal Touring Club Italiano durante il fascismo), e foriero di ulteriori disastri bellici.La geogra a di questa parte dell’arco alpino fu radicalmente modi cata dalla guerra e non solo nei suoi dati sici, i pro li delle montagne, gli andamenti dei umi, l’infrastrutturazione a tappeto del territorio, ma soprattutto per quella sovrapposizione di signi cati che spostò l’appartenenza di uno scenario territoriale ristretto, dai suoi pochi abitanti ad un’intera nazione con conseguenze di non poco conto sull’identità del paese.

Riusi belliciLa guerra sul fronte italiano fu anche una gigantesca opera di riuso dell’esistente. Sulle montagne vennero utilizzate tecniche e strumenti da minatori per ricavare rifugi dalla viva roccia e per combattere quella “guerra di mina” che consisteva nello scavare gallerie sotto le postazioni avversarie per poi farle esplodere. Terrazzamenti agricoli e argini vennero rafforzati e trasformarti in difese, avvallamenti in trincee, in Valsugana o lungo il Piave. Si tenterà anche di riusare forti cazioni di guerre precedenti, di origine napoleonica o veneta, salvo veri carne l’inutilità di fronte alla nuova potenza di fuoco di obici e cannoni. Il territorio, a chi lo conosceva bene, dava importanti occasioni di supremazia sugli avversari. Il più noto caso di ‘riuso strategico’ di una preesistenza fu quello della galleria mineraria del Bretto, sotto Passo Predil, in Friuli, usando la quale gli Austriaci riuscirono, senza che gli Italiani se ne accorgessero, a trasferire più di mezzo milione di soldati con relativa logistica, grazie ad un piccola ferrovia allestita per l’occasione nel tunnel esistente: una massa d’urto inattesa che permise lo sfondamento di Caporetto. Il riuso non riguardò solo il paesaggio, ma si riusarono le armi del secolo precedente (il [18]’91 fu il fucile italiano di questa guerra) e addirittura le canzoni che riprendevano vecchie melodie come Ta-pum, forse la più nota tra le canzoni degli alpini, il cui ritornello, in versione bellica, trasformava il rumore del martello dei minatori del Gottardo, dell’ottocentesca canzone originaria, in quello cadenzato del cecchino austriaco. Ma fu soprattutto la montagna a venire riusata e trasformata in un’unica immensa fortezza, tramite perforazioni, scavi, protesi o, semplicemente,

10 Sui campi di battaglia, collana di guide storico-turistiche, Consociazione turistica italiana, Milano 1927.

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sfruttandone le caratteristiche topogra che nei loro minimi dettagli, usando doline come magazzini, denti come attacchi di funivie, caverne come ripari. Un processo di riuso che si accompagnava a un’inedita e minuziosa descrizione del terreno, gra cizzata in centinaia di mappe, e alla ri-nominazione di vette o passaggi che sostituiva quella secolarmente espressa dalle ostiche lingue locali. Cime e quote nominate attraverso cifre (Cima 11, Cima 12, Quota 188) o nomi nuovi che assumevano per i soldati un signi cato fatale.I deboli miti, preesistenti alla guerra, di nani guerrieri, el , streghe e santi, furono spazzati via dall’onda d’acciaio. Rocce, castelli, radure e boschi incantati, vennero sostituiti, nell’immaginario costruito dal nuovo mito di una guerra reale, da forti, centrali elettriche, strade in galleria, città scavate nella roccia e nel ghiaccio, colossali cannoni. Territori sconosciuti ai più, solcati prima della guerra da pochi sentieri di boscaioli o cacciatori, vennero coperti da una rete intricata di percorsi perfettamente attrezzati. Ma fu soprattutto una rete in nita di sguardi ssi, orientati a una vetta, a un vallone, a un passo, originati da migliaia di osservatori e potenziati da decine di strumenti – periscopi, binocoli – a ricon gurare la geogra a impastandola indissolubilmente con la storia. Centinaia di migliaia di sguardi, preoccupati, in continua attesa del colpo mortale, che disegnano linee invisibili, intrecciate con le traiettorie dei proiettili, non possono non lasciare traccia, non trasformare in straordinario l’ordinario che osservano e con ciò modi carlo per sempre.Venuta la pace, se il riuso del mito popolare della guerra produsse la retorica della memoria, quello dei materiali bellici, praticato dai “recuperanti”, aiutò a sopravvivere la gente di montagna e nutrì una metallurgia italiana basata sul recupero. Alla geogra a ‘in armi’ delle montagne si sovrappose quella paci ca, ma non meno affollata, del turismo estivo o invernale, le cui dinamiche e le cui pratiche non si discostano molto da quelle delle truppe che avevano disegnato la scena dell’ultimo mito guerresco apparso sul territorio italiano.

Alberto FerlengaProfessore di progettazione e direttore della Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia. È stato professore invitato in numerose università europee e americane e redattore delle riviste «Lotus» e «Casabella». Come architetto ha vinto concorsi nazionali ed internazionali. Tra le sue pubblicazioni: le monogra e Electa su Aldo Rossi (1999) e Dimitris Pikionis (2000), L’architettura del Novecento Einaudi (con M.Biraghi, 2013) e L’architettura del Mondo (con M. Biraghi e B. Albrecht, 2012), catalogo dell’omonima mostra curata per la Triennale di Milano, di cui è responsabile per l’architettura.