architetti napoletani 7 - novembre 2002

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architetti napoletani rivista bimestrale dell’ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di napoli e provincia 7 novembre 2002 spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - filiale di Napoli

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rivista dell'ordine degli architetti ppc di napoli e provincia

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architettinapoletanirivista bimestrale dell’ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori

di napoli e provincia

7novembre 2002

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a proposito di internia cura di Giuseppe Albanese, Giancarlo Artese, Imma Forino e Titti Rinaldi

A proposito di interni pone l’accento su uno dei più vasti campi d’applicazione della professione, spessoprimo approccio sperimentale e linguistico del giovane architetto, in Italia talvolta sua unica occasioneprogettuale. Argomento complesso, contiene in sé molte altre problematiche, di tipo culturale, politico,economico, tecnico; una ricchezza poliedrica che si è cercato qui di valorizzare insieme alla vitalità di unsettore in continua evoluzione, che è intimamente connessa alla società e legata alle più significativeinterazioni, fisiche, percettive, d’uso e psicologiche, fra l’uomo e l’ambiente costruito, di cui l’abitazione èforse l’espressione più rilevante.Così, il progetto architettonico di uno spazio interno e la sua realizzazione stimolano un nuovo sensodell’abitare come espressione di una cultura fatta di contaminazioni con l’immaginario dei media, l’arte e ivalori del nuovo ambientalismo; sull’abitare come specchio delle differenze sociali ed economiche del nostropaese o, ancora, in relazione alle sue possibili evoluzioni favorite dalla tecnologia e dall’uso dei nuovimateriali. Infine, un accenno dai risvolti politici è dedicato a una normativa da cui dipende lo sviluppo di unmercato così importante. Su tutto, la consapevolezza, confermata da un maestro come Umberto Riva,dell’impossibilità di fare separazioni: di qui “l’architettura degli interni”, di là tutto il resto, come se la primacostituisse un genere o, peggio, una sottoclasse. Sperimentare intensamente lo spazio non ammette confini.

Lot/ek, Interno a New York

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numero 7 · novembre 2002

editoreConsiglio dell’Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia

Paolo Pisciotta presidente

Ermelinda Di Porzio vice presidentiAntonella Palmieri

Gennaro Polichetti segretario

Gerardo Cennamo tesoriere

Francesco Bocchino consiglieriFrancesco CassanoVincenzo CorvinoPio CrispinoGiancarlo GrazianiBeatrice MelisGennaro NapolitanoFulvio RicciOnorato VisoneAntonio Zehender

direttore responsabilePaolo Pisciotta

direttore editorialeVincenzo Corvino

responsabile di redazioneGiancarlo Graziani

comitato editorialeMassimo CalendaPasquale De MasiErmelinda Di PorzioFabrizio Mangoni di S. StefanoAntonella Palmieri

redazioneAntonio Acierno, Giuseppe Albanese, Antonio Ariano,Clotilde Bavaro, Enzo Capone, Alba Cappellieri,Raffaella Celone, Giovanna di Dio Cerchia, Claudio Correale,Marco De Angelis, Carmen Del Grosso,Giovanni Francesco Frascino, Vincenzo Franzese,Salvatore Gatti, Luca Lanini, Aldo Micillo,Giulia Morrica, Mariarosaria Pireneo, Marcello Pisani,Adelaide Pugliese,Francesco Scardaccione,Carlotta Senes, Roberto Vanacore

direzione e redazioneOrdine degli Architetti di Napoli e Provinciavia Medina, 63tel. 081.552.45.50 · 552.46.09fax 081.551.94.86http://www.na.archiworld.ite-mail: [email protected]

servizio editoriale e pubblicitàNicola Longobardi Editorevia Napoli, 201 Castellammare di Stabia, Napolitel./fax 081 8721910e mail: [email protected]

stampaGrafiche SommaGragnano, Napoli

progetto graficoAnna Della Monica

Il numero è illustrato dalle opere degli artistiFrancesco Cappiello, fotografo, Violazioni di domicilio,e Alessandro Papari, pittore.

Registrazione Trib. di Napoli n°5129 del 28/04/2000

distribuzione gratuita agli architetti iscritti all’albodi Napoli e Provincia, ai Consigli degli Ordini Provincialidegli Architetti e degli Ingegneri d’Italia,ai Consigli Nazionali degli Architetti e degli Ingegneri,agli Enti e Amministrazioni interessate

spedizione in abb. postale45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96-filiale di Napoli

Gli articoli pubblicati esprimono solo l’opinione dell’autoree non impegnano il Consiglio dell’Ordine né laredazione della Rivista.Di questo numero sono state stampate n° 7.000 copie

Chiuso in tipografia il 10/11/2002

rivista bimestrale dell’ordine degli architetti di napoli e provinciaarchitettinapoletani

in questo numero:

a proposito di interni 2giuseppe albanese, giancarlo artese, imma forino e titti rinaldi

editorialeinterno come esperienza 4

conversazione con umberto riva

argomentisuper D.I.A. 7

guido d’angelo

case del nord e case del sud 8gerardo ragone

il nuovo progetto dell’abitare:lo sguardo di Lot/ek 10

a cura di alba cappellieri

dalla materia al materiale: nuovi scenari 13paolo netti e carla langella

lavorare con i materiali riciclati 16maria antonietta sbordone

pratica come conquista 18francesco felice buonfantino

in rete 19a cura di salvatore gatti

recensioni 20

in copertinaLot/ek, Interno a New York

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Giancarlo Artese: Mi sembra che lo spazio inter-no venga inteso da lei in maniera particolare, comeuno spazio costruito e non organizzato, concepitocome una sorta di sottoinsieme, una categoria in-clusa in altre.

Umberto Riva: Non voglio suddividere l’architetturain generi o classi: ci sono degli arredatori di fronte aiquali c’è da levarsi tanto di cappello ma, tranne Scar-pa, tutti hanno visto gli interni come una specie diconseguenza, il risultato di una rappresentazione pla-stica. Io non sono riuscito mai a distinguere doveiniziava l’una e finiva l’altro, in questo senso direi diaver appreso una lezione organica… penso che lescale siano differenti tra esterno e interno, ma inqualche modo l’esperienza spaziale è sempre ripor-tata all’esperienza di uno spazio interno. Di conse-guenza quando bisogna scegliere un’apertura c’è laverifica di questo passaggio, affinché ognuno esaltil’altro e non si danneggino a vicenda.Il tema dell’architettura è il tema della luce, dovemeglio la luce può avere una risonanza, un suoriverbero.

ga: L’architettura viene disposta, strutturata in baseal rapporto con la luce, alla mediazione che si vuoleottenere. C’è qualche caso in cui il rapporto con laluce è stato ancora più determinante?ur: Direi che in tutta l’architettura fatta al sud laluce gioca un ruolo determinante. Qui al nord si fatanta fatica…

ga: Pensavo a casa Miggiano in cui c’è una sorta dismorzamento, di rifrazione continua, e poi a un altroesempio, il negozio a Padova, dove c’è un sistemadi aperture in cui la luce naturale viene a fondersi ea mimetizzare quella artificiale…ur: Lì c’è il tema della ridotta potenzialità lumino-sa che veniva dalla strada stretta, di conseguen-za c’era il bisogno di usare un artificio per raffor-zare la luce naturale mediante quella artificiale coni pannelli rotanti.

ga: Normalmente nel progettare si procede da unelemento “più grande” (la distribuzione delle funzio-ni), per arrivare attraverso passaggi successivi al-l’elemento finale, non necessariamente decorativo,ma comunque un dettaglio. Nel suo lavoro sembraesserci piuttosto un percorso in linea, dove il detta-glio non è un punto finale, un’unità minima, ma sem-mai un punto di rinvio, un rimando ad altro.ur: In effetti spesso mi tirano in ballo la storia del“cultore del dettaglio” e della relativa poetica: ildettaglio è soltanto il rafforzamento di un’idea dicui non è che il commento, il virtuosismo artigia-nale non è mai fine a se stesso. Solo che soventeper arrivare a una semplificazione più efficace,anche formale, bisogna avere una messa a fuocodi quegli elementi che la possono in qualche modorafforzare. Per esempio una cerniera, fa che laporta non sia più una porta, ma “un muro” che si

muove: allora ecco che il dettaglio acquista unasua necessità, una sua forza, senza considerare icasi in cui la soluzione particolare trasforma in “qua-lità” una difficoltà di progetto.

ga: A proposito di artigianato, il rapporto con gli arti-giani è forse una delle componenti più interessantidel mestiere di architetto…ur: Il punto è che oggi siamo costretti a portare ilprogetto a un grado di definizione altissimo e, men-tre prima la continua verifica era lasciata al cantiere,adesso tutto questo non è più permesso. Così ti chie-dono un approfondimento sempre più pertinente allacomplessità di quello che si affronta, riducendo viavia la possibilità delle verifiche sul campo. Alcuni ar-tigiani a cui mi rivolgo sono ormai come collaborato-ri: si ha sempre bisogno del conforto di chi ha la con-suetudine con i materiali, con una tecnica. Io sonomolto “visivo”, illogico, posso anche intuire a voltenella giusta approssimazione un’idea, però mi man-ca sempre qualcosa, ho sempre bisogno di una con-ferma. Appartengo alla categoria dei sensitivi, di per-sone sensibili educate attraverso una consuetudinequotidiana al disegno, per cui certi segni sono sem-pre carichi di necessità, d’informazione o hanno innuce certe potenzialità: la forma, nata da una que-stione puramente visiva, viene a precisarsi secondoapprossimazioni successive. Anche nel mestiere diarchitetto la sperimentazione può non essere scien-tifica, tecnica ma puramente visiva, per poi trovarenel fare, nel realizzarsi, una sua legittimità. Questomi conforta, altrimenti sarebbe stato un mestiere chenon avrei potuto affrontare… infatti per un anno odue ho fatto il pittore!

ga: Cosa ne pensa dell’uso del computer nella pro-gettazione, di questa tecnologia forse non usatacome si potrebbe, a disposizione soprattutto dei gio-vani architetti?ur: Insidioso… è un modo di comunicare estrema-mente in-eloquente che fa fraintendere i segni, ren-dendo plausibile ciò che non lo è: il computer dà ri-soluzioni, ma non delle ipotesi. Io progetto sempre amatita, poi segue una seconda fase al computer;quando qualcuno ha voluto abbreviare il primo pas-saggio, il risultato è sempre stato riduttivo.È in atto una trasformazione del progetto di architet-tura e del modo di affrontarlo, sempre di più l’elabo-razione è lo studio di un team in cui ormai si lavoraper competenze, in cui tutto è fatto per settori.

ga: C’è modo di sottrarsi a ciò, secondo lei?ur: Questo non lo so, mi sembra che tutto stia natu-ralmente cambiando. Gli architetti diventano sem-pre più degli stilisti, lasciando poi la competenza dellasostanza del progetto a tecnici molto più avveduti.L’architettura evidenzia una precarietà: pensi all’ope-ra di Koolhas, di Gehry, architetture destinate a nonsopravvivere molto, messaggio diverso rispetto al-l’architettura tradizionale, intesa come qualcosa che

interno come esperienzaconversazione con Umberto Riva

Umberto RivaNato a Milano nel 1928,

si laurea a Venezianel 1953 e nel 1960 inizia

l’attività professionalea Milano. Tra le opere

architettonichesi ricordano: la casa per

vacanze a Stintino (1960),le case a schiera in

Sardegna (1972),una scuola a Faedis

(1977-78), casa Miggianoa Otranto (1990-96).Come architetture di

interni: l’appartamento perun collezionista (1974),

un bar a Milano (1975-76),casa Frea (1983-84),

Casa Insinga a Milano(1985), il caffè Pedrocchi

a Padova (1994-98).Ha disegnato mobili

e lampade per Acerno,Barovier e Toso,

Driade, Fontena Arte.Ha insegnato a Palermo,a Venezia e attualmenteè docente di Architettura

degli Interni a Roma.

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il tempo doveva arricchire nei materiali, nella luce.Adesso è il contrario: penso a edifici che nasconogià come rovine, come un mucchio di rottami o comemacchine, veicoli che dallo splendore iniziale sonoportati rapidamente a deteriorarsi a causa dell’ag-gressività del tempo e dell’uso. Anche l’uso dell’ar-chitettura è completamente cambiato, la gente nonvuole più fare un’esperienza, mentre il problema deldegrado rapido, del vandalismo sono tutte nuovecomponenti del progetto di architettura, così l’arti-giano è sempre più destinato a diventare un tecni-co… bisogna essere preparati a ciò.

ga: Un altro degli elementi che stanno cambiando èil tempo, quello necessario a progettare e costruire.Come si è adattato il suo metodo di lavoro, fatto diverifiche, di avvicinamenti successivi, a tutto ciò?ur: Molto aiuta anche l’esperienza e poi la mia for-mazione, che è stata singolare. Sono sempre statoabbastanza marginale, dopo un inizio brillante, comepossibilità. Tra gli anni ’60 e ’70, lavoravo da solo,facevo tutto io: i lavori erano pochi ma mi permette-vano di sopravvivere, ero ambizioso solo nella mi-sura in cui mi interessava il progetto e la sua possi-bilità di riuscita, non professionalmente… sono sem-pre stato uno ai margini.

ga: Questa, alla fine, è stata una forza.ur: Sì, come quando per fare una casa ci ho impie-gato quasi due anni, oggi non sarebbe pensabile…oggi uscirebbe un progetto già completamente ela-borato, dove tutte le verifiche sono già state affron-tate in studio: sì, è diventata una forza nella misurain cui c’è stata una continuità tra vita e lavoro.

ga: Mi piacerebbe parlare del rapporto con il com-mittente e capire da cosa parte nella progettazione:c’è sempre molto ascolto di quelle che sono le suenecessità, la ricerca di una sintonia… poi parliamodella differenza tra committenza privata e pubblica.

ur: Malgrado tutto, preferisco il pubblico al privato,le esperienze con il privato sono sempre state falli-mentari, anche dal punto di vista economico. Con ilprivato si crea un rapporto cordiale, di amicizia, unpo’ perché devi fare meno violenza possibile, un po’perché il mio studio è talmente piccolo che non rie-sco mai a creare dei filtri tra me e il committente. Poiintervengono desideri legittimi, ma che non hannoniente a che fare con l’architettura, che corrispondo-no ai loro modelli di comportamento, di qualitàspaziale. Quando si è giovani si è condizionati dal-l’urgenza della realizzazione come grande momen-to, i progetti devono essere costruiti altrimenti man-ca la parte uditiva, fisica. Casa Miggiano, ma anchecasa Frea, sono state realizzate in condizioni diffici-li, speciali. Intanto non c’erano soldi, folle lui a darmiil lavoro, folle io ad accettare, non che non sia statocontento ma sono stato costretto a dei rischi, anchese poi tutto è andato bene. L’impresa lì non esiste, cisono piccoli gruppi di artigiani, un capo operaio, lalettura dei disegni è inesistente, ma c’è la disponibi-lità a discutere, perché le difficoltà dovute a inespe-rienze e fattori economici precisi hanno obbligatoa ridurre il ventaglio di possibilità e di errore, nonsi poteva sbagliare. Da parte mia, un po’ perchéandavo al sud, un po’ perché da dieci anni nonvedevo un cantiere, ero contento di poterlo fareanche gratuitamente.Riguardo alle scelte, le dirò che gli elementi princi-pali sono il sito, poi il “tema”, infine quello che miviene richiesto. Questi elementi vengono poi elabo-rati, anche se spesso sento dirmi che ogni mia ar-chitettura è diversa dall’altra. Penso che l’architet-tura sia un opera di paesaggio, di conseguenza c’èda fare tesoro di quelle situazioni ambientali, econo-miche o di destinazione che alla fine risultano deiveri elementi formativi. Su tutto, poi, c’è sempre iltema della luce, di una esperienza spaziale che nontrovi mai una sua risoluzione ma che sia come un

Alessandro Papari, Tavolo 1, 2001 Alessandro Papari, Tavolo 2, 2001

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continuum. È difficile che io faccia una forma qua-drata in cui ci si pone in mezzo, c’è sempre qualco-sa che si scopre solo in un’ esperienza temporale,cioè spazio-temporale, attraverso un percorso.ga: Qualcosa che lasci un margine di incompiutezza,di apertura…ur: …di non finito, il privilegiare angoli acuti e ot-tusi per la loro potenzialità, questi gli elementi cheinteragiscono con la parte legata ai materiali, aicosti. Con il privato questo discorso è più difficile,con il pubblico, se si osservano le richieste e senon si viene meno al budget, alla destinazione,alla fine si viene accettati.

ga: Un momento importante è quello della prima ve-rifica in cui si alzano i muri e si inizia a percepirequesto involucro e si vede se funziona o no, se èquello che ci si aspettava che fosse.ur: Chi ha la capacità riesce già dal disegno, anchesolo da una pianta, a controllare il dimensionamento,la proporzione, la qualità spaziale. Io lavoro per piantee sezioni in cui la qualità formale, visiva, del disegnonel suo continuo è una garanzia. Trovo che un pro-getto in cui c’è una brutta pianta, una brutta sezione,al 90% è anche un brutto progetto. Non lavoro quasimai in prospettiva, adesso lavoro con i plastici manon ho nessuna capacità manuale. Un buon proget-to ha di solito anche dei bei disegni, in cui i segnivanno a un certo punto al di là della loro espres-sione informativa, per diventare elemento autono-mo puramente visivo: il segno finisce per rappresen-tare il condizionamento della fisicità del materialesupposto o esistente.

ga: Il disegno dà anche la possibilità di maturare quel-lo che si sta facendo, quello che viene fatto in can-tiere può essere anticipato nel disegno.ur: Necessario. Io sono sempre “fuori tempo”, peròso che c’è un tempo di meditazione che proprio nonpuò essere abbreviato se si vuole che certe scelteabbiano possibilità di essere verificate.

ga: Questo discorso del tempo, di difficoltà legatealla sua esperienza, ci porta a un altro problema cheè quello del delegare.ur: Il problema è che a delegare si fa una fatica be-stiale, tu fai un approfondimento e poi lo interrompi,poi vai avanti, poi lo riprendi: quando lo faccio dasolo, il processo è più continuo perché un segnoimplica sempre delle potenzialità di altri segni, perassociazione, per contrasto… non delego mai. Dame infatti i collaboratori vengono, imparano, poi aun certo punto se ne vanno, giustamente: per lorosarebbe mortificante rimanere sempre in un ruolosubalterno e per me sarebbe punitivo rinunciare aquesto tipo di piacere che mi fa stare bene.

ga: C’è un delegare diverso che non è quello del lasciarprogettare, ma che è legato alla scelta dell’arredo…ur: Casa Frea l’ho fatta venti anni fa, venivo da unmomento in cui ero stato anni senza lavorare… fini-sce che, poveri privati, l’architetto dà all’esperienza pro-fessionale un investimento legittimo, si vuole arrivarefino al colore del tappeto, però io cerco nella ristrut-turazione di intervenire in parti sostanziali che dannocarattere formativo allo spazio, e poi l’arredamento èuna conseguenza ma non così influente… poi uno lacasa deve farsela a sua immagine e somiglianza.

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La recente legge regionale sulle procedure edilizieha comportato qualche modifica e varie confermedella legislazione statale vigente in materia. Si ponequindi un primo quesito: nel caso di norme non com-patibili tra loro, si deve applicare la norma statale oquella regionale? A mio avviso, per quanto riguardale norme in questione, prevale la normativa regiona-le perché non si tratta di differenze coinvolgentiprincìpi fondamentali della legge statale (anche sequesti, purtroppo, si devono desumere, in quanto nonsono stati indicati dalla legislazione statale). Alcunedifferenze si trovano nella disciplina delle procedureper il rilascio delle concessioni edilizie, che riprodu-ce sostanzialmente la normativa di cui alla legge 662del 1996. In proposito, la nuova legge regionale haintrodotto le seguenti modifiche: 1) è stato eliminatoil raddoppio dei termini per i Comuni con più di100.000 abitanti; 2) la nomina del Commissario, insostituzione del Comune inadempiente, è affidata alPresidente della Provincia o della Comunità monta-na (e non della Regione); 3) il Commissario, ove nonriceva entro 10 giorni il parere degli organi comuna-li, può rivolgersi a professionisti esterni.Una novità importante consiste nell’eliminazione dellanecessità della previa approvazione dei programmipluriennali di attuazione ai fini dell’approvazione deipiani urbanistici esecutivi (lottizzazioni comprese).La legge regionale ha anche recepito la parte dellacosiddetta legge obiettivo, riguardante l’estensionedei casi in cui si può costruire previa semplice de-nunzia di inizio attività. Anzitutto, si consente la d.i.a.per le ristrutturazioni edilizie, comprensive della de-molizione e ricostruzione “con lo stesso ingombrovolumetrico”. La formulazione della legge statalesembra più restrittiva, in quanto richiede che il nuo-vo fabbricato riproduca anche la sagoma dell’edifi-cio demolito. L’indicata norma regionale determine-rà contrasti interpretativi, in quanto la possibilità dimodificare la sagoma, sia pure a parità di volumecomplessivo, potrebbe consentire progetti non

riconducibili al concetto di ristrutturazione edilizia(come definito dall’art. 31 legge 457/1978 e oradall’art. 3 del nuovo testo unico per l’edilizia). Lapossibilità della d.i.a. è prevista in altri casi, indicaticon la medesima formulazione nella richiamata leggestatale, nota con lo slogan “padroni in casa propria”.Si tratta di norme di difficile applicazione e infelice-mente formulate. Per esempio, la d.i.a. sarebbe pos-sibile qualora il progetto (anche di nuovi edifici) fos-se conforme alle norme di un piano urbanistico attua-tivo, consistenti – secondo un’esplicita dichiarazio-ne del Consiglio comunale – in “precise disposizioniplanovolumetriche, tipologiche, formali e costruttive”.È strano poi che questa d.i.a., anche per nuoveedificazioni, potrebbe essere sufficiente qualora ledette disposizioni fossero in piani urbanistici non at-tuativi (e, in questo caso, senza bisogno della dettadichiarazione del Consiglio comunale: gli avvocatiringraziano!). Invece – e questa è una delle straneaggiunte della legge regionale – anche una piccolamodifica della sagoma del fabbricato esistente èsempre soggetta a concessione edilizia, ove com-porti una modifica della destinazione d’uso.Di fatto, la novità più importante introdotta dalla leg-ge regionale riguarda la materia dei parcheggi per-tinenziali. La nuova legge consente anche alle im-prese edili di realizzare parcheggi interrati in derogaagli strumenti urbanistici vigenti, pure in aree liberenon di pertinenza di lotto già edificato. In questi casile imprese hanno tre anni di tempo per costruire iparcheggi e altri tre anni per venderli in regime dipertinenzialità a proprietari di unità immobiliari esi-stenti. Trascorsi i detti sei anni, i posti auto non ven-duti saranno confiscati dall’Amministrazione comu-nale. Agli avversari dei parcheggi io direi: “preoccu-piamoci, invece, che sia garantita la conservazionedella destinazione a parcheggio”.

* Professore ordinario di Diritto UrbanisticoUniversità di Napoli “Federico II”

super D.I.A.Guido D’Angelo*

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case del nord e case del sudGerardo Ragone*

Chiunque abbia osservato con un po’ di attenzionee con un minimo di competenza gli interni delle abi-tazioni del nord e del sud dell’Italia avrà sicuramen-te ricevuto l’impressione che, almeno per quanto ri-guarda le abitazioni del ceto medio, nel sud questiinterni sono, in linea generale, peggiori che nel norddel paese. Peggiori sia nel senso di minor pregiodegli arredi, sia nel senso di minore coerenza for-male tra il tipo di abitazione e il tipo di arredamento.A Napoli, ad esempio, sorprende non poco che inmolte abitazioni delle zone ricche, quelle abitate dallaborghesia benestante, si incontrino molto spesso ar-redamenti di gusto assai discutibile. Sorprende, inaltri termini, la contraddizione tra il valore dell’immo-bile, che in queste zone oscilla all’incirca tra i sette ei dieci milioni al metro quadro, e il valore dell’assorti-mento di mobili e oggetti in essi contenuti. Natural-mente brutti interni si vedono dovunque, a Napolicome a Milano o a Genova, ma è diffusa la sensa-zione che, in questa particolare fascia della stratifi-cazione sociale, i meridionali commettano più erroridei settentrionali nell’arredare le loro case.Se questo è vero, se cioè quest’impressione, coltamagari anche al livello epidermico, fosse esatta, puòessere interessante chiedersi da che cosa dipendaquesta differenza di gusto. Si sarebbe subito portatia rispondere che la questione è soprattutto di naturaeconomica, poiché, essendo il sud più povero – o,se si vuole, meno ricco – del nord, è del tutto norma-le che la spesa per arredamento sia più bassa e che,quindi, alla fine, gli arredamenti delle abitazioni diNapoli o di Salerno o di Catania risultino perdenti nelconfronto con quelli delle abitazioni di pari status diGenova, Torino o Bologna. Il che è certamente vero,solo però se si fa riferimento alle fasce medio bassee basse della popolazione, solo, cioè, dove il costocomplessivo di un arredamento incide notevolmen-te sul reddito disponibile della famiglia. Nelle fascemedie e medio alte di popolazione, che sono invecequelle che qui ci interessano, poiché l’incidenza diquesta spesa sul reddito è minima tanto a Napoliquanto a Milano, le ragioni del divario nel gusto van-no individuate da qualche altra parte e, in particola-re, in differenze di natura sociale e culturale.Vediamo di che cosa si tratta. Comincerei intanto conl’osservare che, in generale, il consumatore dellearee settentrionali del paese, oltre a disporre gene-ralmente di maggior reddito discrezionale (quellaparte di reddito, cioè, che può essere spesa senzacompromettere i bisogni essenziali di un soggetto odi una famiglia) presenta anche un grado di mobilitàterritoriale maggiore rispetto al consumatore meri-dionale; è infatti un soggetto che, per ragioni di lavo-ro, ha cambiato spesso residenza e che, molto fre-quentemente, proviene da altre regioni fra cui, so-prattutto quelle del Mezzogiorno. Ciò significa chequesto consumatore non ha più forti radici culturali,e questa sua particolare caratteristica lo rende sicu-ramente più disponibile a seguire i suggerimenti

della pubblicità e dei mass media in generale. Vo-glio dire, in particolare, che egli apprende stile di vitae modelli di consumo non tanto dalla tradizione del-la comunità di appartenenza, dalla quale si è ormaidecisamente separato, quanto da fonti di informa-zione esterne, più universali e legate soprattutto almercato, quali sono, appunto i mezzi di comunica-zione di massa. Se tutto ciò ha sicuramente effettosulle sue preferenze riguardo ai consumi in genera-le, lo ha in misura maggiore riguardo all’arredamen-to, che, come è noto, fra tutti i tipi di acquisti è quellopiù delicato e impegnativo, se non altro perché defi-nisce rigorosamente lo status sociale. È evidente,inoltre, che se questo soggetto dispone anche di red-dito discrezionale, cosa peraltro abbastanza norma-le nel ceto medio, non è improbabile che sarà anchedisposto a lasciarsi guidare da un esperto in questadifficile operazione che è l’arredamento di una casa.Caratteri un po’ diversi presenta invece il profilo delconsumatore meridionale. Dispone, infatti, di minorreddito discrezionale, il suo grado di mobilità territo-riale è più basso e, per conseguenza, ha più profon-de radici nelle tradizioni della comunità d’origine.Diversamente, quindi, dal consumatore settentriona-le, quest’altro tipo di consumatore è relativamente

Francesco Cappiello, Interno, Napoli 2000.

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meno sensibile all’influenza dei media e si lascia piùfacilmente guidare dalla tradizione nella scelta deibeni, soprattutto per quelli di più alto costo. È quindiimprobabile che per le decisioni di acquisto riguar-danti l’arredamento egli decida di ricorrere a unesperto, anche perché è la sua stessa tradizioneculturale a fornirgli il modello di orientamento neces-sario, modello rappresentato spesso dalla classesuperiore con cui è in contatto.In altri termini, se limitiamo queste considerazioni allesole fasce di reddito che, tanto al nord quanto al sud,possono sostenere il costo di un consulente per l’ar-redamento degli interni, vediamo che, in linea moltogenerale naturalmente, la famiglia settentrionale sirivolgerà senza difficoltà a questa particolare figuraprofessionale, mentre quella del sud tenterà di imi-tare stili e gusti delle classi sociali superiori, scaval-cando quindi i suggerimenti dell’esperto. Il punto dasottolineare, però, è che poiché questo tipo di imita-zione non è affatto semplice e poiché, inoltre, la sug-gestione esercitata dai nuovi prodotti e dai nuovi stilidi interni è, comunque, molto forte, il risultato consi-sterà il più delle volte in un discutibile compromessotra vecchio e nuovo, tra tradizione e innovazione, trai rigidi canoni del gusto aristocratica e le fluide solu-

zioni della produzione industriale. Ecco perché, comesi diceva precedentemente, in molte case ricche diuna città come Napoli si incontrano spesso arreda-menti deludenti. Sicuro, infatti, di poter copiare imodelli di arredo privilegiati e convinto, per questomotivo, di poter fare a meno della consulenza di unesperto, il consumatore benestante della società me-ridionale finisce spesso per commettere un gran nu-mero di errori nell’assortire mobili, oggetti, quadri etappezzerie, compromettendo anche, in questo mo-do, le sue aspirazioni di status. Al posto del “salottobuono” si ritrova così, senza volerlo, con un vero eproprio “salotto cattivo”.Per quanto riguarda invece il consumatore con mi-nore disponibilità di reddito, credo che sia quello delsud che quello del nord non possano sostenere ilcosto di una consulenza, anche perché si tratta diun costo generalmente piuttosto elevato. In questicasi, però, ciò che ha un ruolo determinante è piut-tosto la qualità dell’offerta commerciale, che sicura-mente nelle aree settentrionali è di gran lunga supe-riore a quella delle aree meridionali. Nei grandi su-permercati di arredamento, presenti su quasi tutto ilterritorio settentrionale, si trova infatti un’offerta dibuon livello estetico e funzionale e anche a prezziragionevolmente accessibili. Questo tipo di distribu-zione è invece meno presente nel Mezzogiorno, cosache obbliga il consumatore di questa parte del pae-se ad accontentarsi generalmente di ciò che offre ildettaglio tradizionale, un’offerta, come è noto, spes-so meno qualificata e anche più costosa. Né megliovanno le cose in questa parte del paese quando aoffrire consulenza sono gli stessi rivenditori, i cui sug-gerimenti si limitano generalmente a questioni tecni-che riguardanti per lo più il dimensionamento degliarredi rispetto alle quadrature dell’ambiente.Credo, pertanto, che si possano concludere questebrevi note ribadendo che le differenze che si incon-trano oggi tra il nord e il sud del paese riguardo allaqualità degli interni delle abitazioni private derivinosia da fattori di natura economica, che da fattori dinatura sociale e culturale. Considerando però che ildivario tra queste due parti dell’Italia non sembra de-stinato a ridursi, almeno nel breve periodo, bisogne-rà rassegnarsi a riconoscere nei prossimi anni lapersistenza di un notevole scarto tra la qualità me-dia degli interni della casa settentrionale e quella dellacasa meridionale.

* Professore ordinario di SociologiaUniversità di Napoli “Federico II”Francesco Cappiello, Interno, Napoli 1999.

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il nuovo progetto dell’abitare:lo sguardo di Lot/eka cura di Alba Cappellieri*

Betoniere metalliche trasformate in eremi casalinghidi tecnologia, contenitori per detersivo che si accen-dono in caleidoscopiche luci da tavola, serbatoi percombustibile che arredano eleganti loft metropolita-ni, containers convertiti in ristoranti e lavelli in libre-rie, colorate piste da pattinaggio impiantate in cister-ne dell’acqua e padiglioni universitari in carlinghed’aereo. È solo una parte della produzione di Lot/ek,il gruppo fondato dai napoletani Ada Tolla e Giusep-pe Lignano che figura, con Diller+Scofidio, gli Shopo gli Asymptote tra i principali esponenti dell’avan-guardia architettonica newyorchese, quella ricono-sciuta e consolidata dall’establishment del MoMA chene ha presentato alcuni lavori alla mostra delle Work-spheres e in numerosi altri eventi.Lot/ek è l’acronimo di Low Technology, un apparen-te ossimoro dove il low viene dall’uso di oggetti in-dustriali privi di qualsiasi appeal artistico che ven-gono poi recuperati, contaminati e trasformati in sin-golari pièce unique. Il tech rappresenta l’attenzionealle tecnologie in relazione alla loro capacità di coin-volgere, plasmare e dematerializzare lo spazio. È laforma stessa dell’oggetto a evocare ai Lot/ek nuovefunzioni e destinazioni d’uso. Una volta deconte-stualizzati betoniere, vagoni, contenitori di detersivisi fondono nello spazio architettonico come scultureoriginali e innovative che rimandano alle sperimen-tazioni di Duchamp e dei suoi ready made, ai mate-riali di scarto dei Nouveax Réalistes o alla spetta-colarizzazione dell’oggetto negli happening di Nau-mann, Kaprow o Vito Acconci. Ma anche al recuperodell’esperienza urbana di una metropoli come New

York ed è a tal proposito meritoria la rinuncia dei Lot/ek al côté ecologico conferito dalla riciclabilità deglioggetti, che seppure depositario di un intrinseco plu-svalore etico e politico, contaminerebbe, indebolen-dole, la volontà creativo-progettuale e la capacità rap-presentativa dell’oggetto.

Alba Cappellieri: Come sono nati i Lot/ek?Ada Tolla: Dopo un lungo viaggio per gli Stati Unitiche Giuseppe e io abbiamo fatto immediatamentedopo la nostra laurea napoletana e dopo la borsa distudio del CNR che ci ha permesso di studiare qui aNew York per un anno. L’ispirazione fondamentalein questa realtà americana è legata – tuttora – all’os-servazione di quello che nel tempo abbiamo definitocome “Artificial Nature”, ossia tutto ciò che è prodot-to e pensato dall’uomo e che si sviluppa, al livellourbano e suburbano, indipendentemente dal controllodi designer, architetti, urbanisti, ma che risponde adaltri tipi di esigenze, funzionali, legali, economiche.Pensiamo a tutto quello che in una città si sviluppa ecresce sull’architettura, tra l’architettura, in manieraindipendente, a volte violenta e quasi sempre paras-sitaria, pensiamo alle arie condizionate e i tubi cheemergono da facciate di palazzi, alle scale di ferroantincendio attaccate addirittura a facciate dell’ini-zio del secolo scorso (per esempio quelle di Soho),ai cartelloni pubblicitari o agli schermi digitali che siinfiltrano nelle prospettive urbane. Tutto ciò che nonè considerato “architettura” canonicamente, ma chefa sicuramente parte del panorama architettonicourbano e suburbano.

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Lot/ekgruppo di architetti

fondato dai napoletaniAda Tolla e Giuseppe

Lignano. Lo studio,con sede a New York,opera principalmente

nel campo degli internie figura tra i principali

esponenti dell’avanguardiaarchitettonicanewyorchese.

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A partire da ciò, abbiamo iniziato a lavorare con “og-getti” già esistenti, oggetti industriali che apparten-gono al nostro presente, importandoli nel mondo del-l’architettura, e trasformandoli per rispondere a spe-cifici programmi di progetto. Siamo subito stati inte-ressati al dialogo che si stabilisce a livello creativocon questi oggetti, con la loro dimensione, struttura,colore, spazio, con la loro storia precedente. E poi aldialogo con le tecnologie. Tecnologie che esprimo-no anche esse la nostra condizione presente, so-prattutto in forma di desiderio.

ac: Quali tra i vostri lavori considerate più rappre-sentativi e perchè?at: Non facciamo differenza tra un lavoro e l’altro.Lavoriamo a livello commerciale con committenti didiverso tipo e anche in campo artistico, con musei egalleristi. In entrambi i casi la metodologia è la stes-sa. Affrontiamo i progetti in maniera concettuale e altempo stesso reale. Questo a prescindere dalla dif-ferenza di scala o di destinazione.

ac: Nelle vostre opere di architettura gli internisono caratterizzati dal recupero di oggetti indu-striali inizialmente destinati a usi completamentediversi, come l’auto cisterna nel Morton Loft e ilcontainer della Guzman Penthouse. Qual è la vo-stra concezione di spazio interno e a quali para-metri deve rispondere?at: L’approccio che abbiamo nei confronti dei pro-getti di spazi interni è di partire dalla “pulizia” dellospazio dato. Cercare di riportare in luce l’architettu-ra esistente, aprirla il più possibile e trattarla in ma-niera molto semplice. L’introduzione degli oggetti in-dustriali è la risposta al programma. Gli oggetti sonoscelti e usati per le loro qualità spaziali e per la loropotenzialità funzionale. Il programma si sviluppa

attorno alla loro presenza. L’oggetto infiltra lo spa-zio, essendo chiaramente riconoscibile come un’en-tità diversa dall’involucro dell’esistente. E poi si muo-ve e trasforma per rispondere alle varie esigenze pro-grammatiche. Il desiderio è, specialmente lavoran-do in spazi industriali tipo loft, di creare spazi aperti,che però permettano, al tempo stesso la salvaguar-dia della “privacy” all’interno di queste enclosures. Ilcaso del loft di Morton è alquanto esemplare: lo spa-zio è completamente libero, i volumi chiusi sono soloi due pezzi della cisterna di benzina, quello verticaleche contiene i due bagni, e quello orizzontale checontiene le due camere da letto.

ac: In alcuni vostri lavori, penso al Jones studio,la separazione funzionale viene definita attraver-so materiali diversi. Che ruolo hanno i materialinei vostri progetti?at: Ci interessa lavorare con materiali diversi. Conmateriali nuovi – almeno per l’architettura –. Ci inte-ressa capirne le potenzialità tettoniche e sperimen-tarne le potenzialità. In progetti più recenti abbiamolavorato molto con cast di gomma o di resina. Adot-tando lo stesso tipo di metodologia. Generalmente uti-lizzando come forme degli oggetti già esistenti, e cosìcondizionando i nuovi volumi di materiali altrimenti fluidie informi. Mi riferisco ad esempio a una nuova colle-zione di lampade che abbiamo realizzato colando gom-ma all’interno di forme di plastica di pacchi nei qualisono stati inseriti dei tubi di neon, la forma che contie-ne i vari componenti di un nuovo telefono cellulare, odi parti del computer... insomma, quelle strane vaschee vaschette di plastica sottile che vengono fuori daivari scatoli di prodotti vari. Queste lampade si chiama-no Lite-Scapes, con riferimento alla complessità delleforme stesse e al forte referente a blocchi di città.

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ac: Al di là della chiara provocazione che sceltedel genere comportano è evidente che sta cam-biando l’idea dell’abitare. L’adozione di elementiindustriali in ambienti domestici implica anche unarivisitazione di alcune funzioni tradizionali dell’abi-tare, come quello della camera da letto, ad esem-pio. Come ha reagito il cliente all’idea di dormirein una cisterna da benzina?at: Ne è entusiasta! In qualche modo credo che sitratti solo di una “poetica” diversa, più corrente, piùcontemporanea. È una poetica che parte dal mon-do presente, che appropria e trasforma un oggettoassolutamente banale, stabilendo una sorpresa ol-tre che una provocazione, e permettendo la rivisita-zione dell’oggetto stesso e del suo valore sociale,qualitativo, pop.

ac: Quali sono le principali differenze nel fare archi-tettura negli Stati Uniti rispetto all’Italia?

at: Posso solo rispondere al livello molto personale.Credo che questo mondo – gli Stati Uniti – sia estre-mamente aperto e ricettivo a soluzioni sperimentalinonchè provocatorie. L’Italia è un paese con troppastoria. È un fardello troppo meraviglioso e troppogrande da spiazzare, non credo ci sia molto spazioper interventi moderni. Non credo ci sia ancora sen-sibilità per il moderno. Le città sono trattate purtrop-po sempre più come musei – intoccabili – e sembrache si neghi l’essenza stessa della loro forza e bel-lezza, cioè la stratificazione storica. Chissà perchèdopo secoli in cui si è costruito e ri-costruito suglistessi territori urbani, conservandoli, alterandoli e vio-lentandoli anche, a questo nostro momento non èdata la possibilità di dire la propria, adesso bisognasolo proteggere, sembra proprio che del modernonon ci si fidi!

ac: Nei vostri progetti esiste traccia delle precedentimemorie napoletane o siete seguaci della tabula rasa?at: Se penso allo spazio interno istintivamente pen-so a spazi come le cave di tufo napoletane; sei maistata nella grotta che portava alla spiaggia di Tren-taremi? Uno spazio assolutamente buio, enorme ep-pure quasi impercettibile, illuminato da violente fes-sure nella roccia e dalle loro rispettive lame di luce,uno spazio a cui ho reagito quasi visceralmente, ap-prezzandone la forza astratta.

ac: Quali sono i vostri progetti attualmente in corso?at: Stiamo per iniziare la costruzione di un centrod’arte, la Bohen Foundation. Un centro che funzionain maniera particolare, quasi un anello tra artista emuseo. La fondazione sponsorizza ed espone ope-re e installazioni di giovani artisti, generalmente diuna scala più grande e più complessa di quella chepotrebbe essere realizzata attraverso una galleriad’arte o dall’artista stesso. E infine dona le opere adiversi musei di arte contemporanea.La fondazione ha comprato uno spazio su due livelliin un vecchio edificio industriale a Manhattan. Il no-stro lavoro è stato di sviluppare un progetto che per-mettesse estrema flessibilità spaziale e quindi di pro-grammazione (per l’esposizione di lavori più con-venzionali – quadri, disegni, sculture – o di istallazionimultimediali, ecc.). Il progetto è nato dalla volontà dicreare uno spazio simile a quello di un studio televi-sivo o cinematografico, in cui un infinito numero diconfigurazioni permette allo spazio espositivo di tra-sformarsi continuamente. Shipping containers con-tengono le funzioni di ufficio e amministrative dellafondazione, muovendosi anche essi in posizioni di-verse a secondo delle varie configurazioni.E poi stiamo lavorando assieme a due musei allacostruzione di un prototipo del MDU (Mobile DwellingUnit), costruito a partire da uno shipping container,trasportabile attorno al mondo e inseribile in struttu-re verticali (funzionalmente simili a un porto) da col-locare nelle maggiori aree metropolitane del mondo.

* Critico di architettura

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L’innovazione dei materiali costituisce un nodo dicomplessità attorno al quale gravitano esperienzecostruttive, idealismi estetico-culturali, problematichetecnologiche, tradizioni, dinamiche politico-economi-che e valori sociali. I materiali innovativi hanno dasempre attirato l’attenzione dell’architettura e in par-ticolare del design. Negli anni sessanta, per esem-pio, a meno di un decennio dalla scoperta delle nuo-ve plastiche sintetiche che avrebbero rivoluzionato ilvivere quotidiano, si è avuta una vivacizzazione delsettore del design proprio per l’applicazione di que-sti nuovi materiali. L’interazione tra architettura e ma-teriale è destinata a essere più complessa e profon-da con l’avvento dei nuovi materiali che presentanograndi potenzialità sia da un punto di vista tecnicoche espressivo. L’utilizzo dei nuovi materiali però ri-chiede di modificare radicalmente l’approccio al ma-teriale e al progetto, con l’adozione di un nuovoparadigma progettuale. Progettare con i materiali tra-dizionali come legno, pietra e ferro, così come sitrovano in natura significa, oggi come in passato, la-vorare con sistemi perfettamente riconoscibili caratte-rizzati da proprietà estetiche, prestazionali e di la-vorabilità ben note che li differenziano l’uno dall’al-tro. Oggi i nuovi materiali possono essere progettatisu misura (tailored) per soddisfare richieste moltospecifiche da coloro che Manfred Eigen ha definitogli “architetti delle molecole”. I progettisti dei mate-riali sono, infatti, in grado di definire o modificare leprestazioni di un materiale, a seconda delle esigen-ze, intervenendo sulla loro funzionalità, processa-bilità, sull’aspetto e perfino sul contenuto di informa-zione incorporata. La possibilità di manipolare le strut-ture atomiche, molecolari e macromolecolari ha per-messo di inventare infiniti nuovi materiali con pre-stazioni sempre più specifiche. La flessibilità appor-tata da tale rivoluzione apre possibilità completamen-te nuove ai designer che non sono più tenuti ad ade-guarsi ai limiti imposti dalle proprietà dei materiali,ma a definirne le funzioni a priori. Oggi l’industriaoffre ai progettisti nuovi materiali che consentono disperimentare infinite soluzioni tecniche e formali.Raramente, però, accade che tali potenzialità ven-gano realmente sfruttate a pieno. Sul mercato esi-stono già materiali a elevate prestazioni come: super-polimeri, compositi avanzati, leghe speciali, ecc., natiper altre applicazioni che, trasferiti ai settori del de-sign e dell’architettura, permetterebbero ai progettistidi ottenere l’unione perfetta tra struttura, disegno efunzione. Le potenzialità dei materiali innovativi con-sentono non solo di ottenere un’efficienza funziona-le, in passato impensabile per un unico materiale,ma anche di ricavare nuovi stimoli formali ed esteticie nuovi strumenti simbolici. D’altra parte l’innovazio-ne tecnologica non sempre riesce a tradursi in inno-vazione di progetto; ciò si verifica, infatti, solo in queicasi in cui l’abilità del progettista consente di otte-nere dall’introduzione di un nuovo materiale unarivoluzione non solo di tipo funzionale ma anche

culturale ed espressiva. L’innovazione tecnologicasi fa, dunque, tramite o strumento di quei cambia-menti di gusto e di linguaggio che spesso emergonoproprio nei settori del design e dell’architettura e chein qualche modo finiscono con l’influenzarli. Un taleapproccio è perseguibile, però, soltanto quando l’in-novazione proviene da un fitto dialogo tra ricerca,fabbrica e laboratorio artigianale e dunque tra quali-tà e flessibilità

Progettabilità totale. Lavorare con i materiali pro-gettabili vuol dire poter controllare l’intervento pro-gettuale a tutte le scale, da quella dell’inserimen-to urbanistico a quella dell’edificio, fino a giunge-re alla scala del dettaglio. Questo concetto richia-ma il principio ologrammatico della complessità sulquale si basano gli organismi viventi: ogni cellula,anche la più modesta, nel suo insieme contienel’informazione genetica di tutto l’organismo. Ana-logamente agli organismi viventi l’edificio può es-sere interpretato come un sistema in cui tutte leparti collaborano, in maniera integrata a una stes-sa strategia globale estesa agli infiniti livelli chevanno dal micro al macro. Come se ogni elemen-to, anche il più piccolo dettaglio, invece di costitu-ire solo un frammento dell’insieme globale, ne ri-flettesse specularmente l’intera immagine.

dalla materia al materiale:nuovi scenariPaolo Netti* e Carla Langella

Chiesa di Notre Dame de l’Arche d’Alliance a Parigi

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Plurisensorialità. A dispetto di una maggiore cono-scenza, il nostro rapporto con la materialità, con latattilità e con la consistenza appare sempre più di-staccato e trascurato. Tra i cinque sensi la societàmoderna tende, prevalentemente, a privilegiare lavista. Tra i sensi la vista, infatti, è quello più freddo erazionale. Insieme all’udito, costituisce la sfera piùincorporea del sentire che si contrappone a quellapiù fisica e carnale della percezione relativa al tatto,all’olfatto e al gusto che richiedono un contatto con-creto e corporeo. L’olfatto e il tatto sono, infatti, i sensidell’intimo, delle emozioni più carnali. Un progettoche sia attento al rapporto con i materiali deve tene-re conto del fatto che il relazionarsi dell’uomo con imateriali avviene attraverso tutti i sensi.

Leggerezza. Sia nel design che nell’architettura laleggerezza diventa un requisito sempre più impor-tante. Adrian Beuers ed Ed van Hinte sottolineanoche la più antica, ma anche la migliore strategia pro-gettuale per ottenere strutture leggere consiste neldifferenziare e separare le funzioni delle parti costi-tuenti. La leggerezza non dipende soltanto dalla scel-ta di materiali leggeri ma deve essere coordinata aprecise strategie strutturali. In architettura uno deipiù grandi maestri della leggerezza è stato Buckmin-ster Fuller che ha dedicato la sua vita alla ricerca suquesto tema, inventando persino un vocabolario adhoc, che comprendeva termini come tensegrity edymaxion per esprimere quelli che riteneva i principiideali del costruire. Su questi principi si basano lestrutture a tenda e a membrana, di origine antichis-sima su cui si ispirano i principi progettuali utilizzatiper il Millenium Dome di Greenwich progettato daRichard Rogers. Tra i materiali innovativi destinati aisettori del design e dell’architettura i materiali com-positi offrono le maggiori potenzialità. La caratteri-stica principale dei compositi è l’anisotropia, che con-sente di ottimizzare l’impiego dei materiali, posizio-nando le fibre di rinforzo in determinate direzioni con-sentendo una progettazione integrata del sistema. Icompositi sono progettabili mediante la combinazio-ne di diverse matrici e rinforzi fibrosi, ma anche me-diante la definizione di molteplici parametri comecaratteristiche e concentrazione delle fibre, sceltadelle tecnologie di produzione, aspetti morfologici. Ènecessario che i progettisti intenzionati ad adottarequesto tipo di soluzioni si approprino delle relazioniche intercorrono tra tali variabili e le prestazioni ri-sultanti. L’introduzione di un’innovazione coinvolgeinevitabilmente il linguaggio formale e determina lanascita di nuovi strumenti espressivi. Generalmentequesto fenomeno avviene in maniera graduale: lenuove opportunità vengono applicate in manierainnovativa soltanto dopo un iniziale periodo nel qua-le i nuovi materiali vengono utilizzati in sostituzionedi altri materiali con soluzioni linguistiche mutuateda essi. La sostituzione di materiali esistenti con inuovi però non deve mutuare pedissequamente le

logiche progettuali. Per sfruttare a pieno le poten-zialità offerte dai nuovi materiali, quali ad esempioflessibilità, libertà espressiva, leggerezza, facilità erapidità di messa in opera, è necessario adottare unanuova filosofia progettuale. Un esempio caratteriz-zato da un uso anche “figurativo” dei materiali com-positi è costituito dalla chiesa di Notre Dame de l’Ar-che d’Alliance a Parigi, progettato da ArchitectureStudio. I progettisti in questo caso hanno scelto diutilizzare un materiale e un trattamento di finitura in-consueti in architettura ma figurativamente molto au-tonomi e riconoscibili.

Interattività. Spesso gli edifici, da contenitori limitatida muri, divengono luogo delle interrelazioni tra l’uo-mo e l’ambiente, dove il costruito non è più sordo einerte ma diviene un’entità vibrante e reattiva. Gli edi-fici assomigliano sempre più a un organismo dotato diun complesso sistema nervoso, costituito da elementisensibili con i quali l’uomo può interagire, capaci diadattarsi ai suoi modi di vivere. I muri, ad esempio,possono smaterializzarsi fino a divenire membranesottili ma sensibili come la pelle. Peso e massa sem-brano lasciare spazio a una nuova proprietà: l’intelli-genza. Il “sistema nervoso” degli edifici può esserecostituito da sensori e attuatori che gli conferiscono lacapacità di percepire luci, suoni, odori, oltre che solle-citazioni termiche o meccaniche. Viene così rivoluzio-nato uno dei postulati estetici posti alla base della cul-tura occidentale che vede l’edificio come oggetto inopposizione alla provvisorietà del divenire. L’oggettoviene inglobato nell’incertezza, nella mutevolezza nellafugacità del vivere umano. Su queste tematiche, ar-chitetti e designer si confrontano ormai da diversi de-cenni, a partire dalla ricerca degli Archigram in Inghil-terra, dei Metabolisti in Giappone, dei Situazionisti inFrancia e di Archizoom e Superstudio in Italia. Unesempio di edificio dotato di interattività è la mediatecaprogettata da Koolhaas e Karlsruhe che consiste inuna sorta di arena darwiniana nella quale le immaginisi incontrano scomponendosi e ricomponendosi comeorganismi viventi. Notissimo è l’esempio della facciataprogettata da Jean Nouvel per l’edificio per il mondoarabo che muta aspetto al variare della radiazione lu-minosa incidente. Appartengono alla categoria deimateriali interattivi i materiali definiti “a memoria diforma” o i “vetri intelligenti”, in grado di rispondere,con specifici comportamenti a stimoli esterni. Unesempio di applicazione in questo senso è costituitodalla lampada Spring progettata da Chiara Albano,Hervè Cantono e Maria Teresa Fustaci. La strutturadella lampada è costituita da molle in SMA che sottol’effetto del calore della lampadina accesa si rilassa-no provocando l’apertura della struttura, in un sedu-cente gioco di colori e trasparenze. Quando la lam-pada viene spenta la temperatura si abbassa e lemolle si contraggono ritornando alla configurazioneoriginaria caratterizzata da un volume minore, dun-que da un minore ingombro.

Intelli-GelTM messo apunto dalla EdiZONE.

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Flessibilità. Negli ultimi anni il requisito della flessi-bilità in architettura ha assunto un’importanza pri-maria. La necessità di modificare gli ambienti al va-riare delle esigenze dell’utenza, sempre più mute-voli, si ripercuote anche sulla scelta dei materiali concui vengono realizzati elementi e componenti edilizi,che devono essere leggeri e configurati in manierada essere facilmente assemblabili e disassemblabili,in caso di sostituzione. Anche nel design la flessibi-lità assume un valore importantissimo, soprattuttoquando si tratta di oggetti che devono adeguarsi allecaratteristiche degli esseri umani (ergonomici).L’azienda statunitense EdiZONE ha messo a puntoIntelli-GelTM che si basa sulla sinergia tra la strutturamorfologica e l’uso di un materiale a elevate presta-zioni. Resistenza per forma e resistenza del materialeconsentono di sopportare carichi abbastanza eleva-ti mantenendo una certa elasticità fino a quando nonsi verifica il collasso della struttura, che si manifestaattraverso una deformazione delle colonne. Quandotale deformazione avviene la massa del materialerientra nel vuoto delle colonne, senza che si verifichinessun aumento della pressione di carico.

Eco-efficienza. La leggerezza è una strategia pro-gettuale di primaria importanza nell’ambito del designeco-sostenibile, poiché consente di risparmiare mate-ria ed energia. La crescente domanda di oggetti eco-efficienti valorizza, come mai prima d’ora, il ruolo deinuovi materiali leggeri e spesso riciclabili. Affrontarela sfida dell’eco-efficienza adottando questi materialiè possibile purché il progetto sia condotto in manierada sfruttare al meglio le opportunità offerte. Esistono,ad esempio, materiali fortemente innovativi ma realiz-zati prevalentemente con materie prime di origine na-turale come i biopolimeri o alcuni compositi a base difibre vegetali. È il caso del Fiber-Thermoplastic Compo-site System, prodotto dalla azienda americana GlobalResource Technologies LLC, costituito da una matri-ce termoplastica che incorpora scarti di fibre naturali oriciclate come juta, kenaf, sisal, e addirittura anchejeans e banconote sminuzzate. La Iowa Thin Films

produce una pellicola fotovoltaica che assorbendoenergia solare restituisce energia elettrica. In pre-senza di luce solare intensa produce mediamente 5watt per 0,94 m2. Un’interessante applicazione spe-rimentale che coinvolge l’uso del film prodotto dallaIowa Thin Films è prevista a New York in un padiglio-ne progettato da Nicholas Goldsmith e Todd Dallandin collaborazione con gli architetti Kiss e Cathcartesperti in tecnologie fotovoltaiche che verrà installa-to nel Cooper-Hewitt’s garden. Un altro esempio disperimentazione nell’ambito dei film fotovoltaici è ilsecondo padiglione progettato ancora da Goldsmith,Dalland, Kiss e Cathcart. Il padiglione è stato realiz-zato con pannelli di vetro sui quali è stato laminato ilfilm sottile fotovoltaico Apollo prodotto dalla BP Solar,Fairfield, CA, con un effetto estetico molto seducen-te. L’effetto visivo è quello di un involucro traslucentecaratterizzato da una tessitura che alterna traspa-renza e opacità filtrando e modulando la luce e con-temporaneamente producendo l’elettricità necessa-ria per alimentare il sistema di aria condizionata checlimatizza l’ambiente interno. Si tratta di un interes-sante esempio di struttura urbana energicamenteautonoma e ben integrata nel suo contesto.

In conclusione, le tendenze evolutive nell’ambito deinuovi materiali si rivelano molto interessanti per isettori del design e dell’architettura, dove gran par-te delle ricerche e delle sperimentazioni in corso mi-rano alla definizione di strategie progettuali chepermettano di aumentare l’intensità prestazionale dicomponenti e prodotti, riducendo la quantità di ma-terie prime, di energia utilizzate, il peso e aumen-tando il contenuto di informazione incorporata. Lepotenzialità offerte dai nuovi materiali non sono solodi natura tecnico-funzionale ma anche di tipo lingui-stico ed espressivo.

* Professore associato di Tecnologia dei polimeriUniversità di Napoli “Federico II”

Lampada Spring con struttura in lega a memoria di forma.

Fiber-Thermoplastic Composite System.

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Concetti quali: capacità di carico (carrying capacity),sovraccarico (overshoot), capitale e reddito naturale(natural capital and income), stock naturali (naturalstocks), costituiscono il substrato cumulativo per lateoria dell’Impronta Ecologica. Essa è definita comeun indicatore di sostenibilità e sebbene rifletta la com-plessità del sistema ambiente-uomo, si rifà a un ap-proccio teorico e metodologico molto intuitivo. WilliamRees ha ridefinito, recentemente, il concetto di Im-pronta Ecologica come “l’area totale di ecosistemiterrestri e acquatici, richiesta per produrre le risorseche la popolazione umana consuma e per assimila-re i rifiuti che essa stessa produce”. Un metodo dibilancio che rappresenta la parte fisica, in termini dimisura di stock, dell’estensione e utilizzo umano dellerisorse e dell’assimilazione di rifiuti presenti su unterritorio vasto. In altri termini, lasciando poco spa-zio all’immaginazione, rende visibile e quindi facil-mente comunicabile la superficie di cui ha bisogno,

ad esempio, una città come Londra per continuare amantenere in vita la sua attuale configurazione (ma-teriale e immateriale), ovvero la sua impronta ecolo-gica che equivale a 120 volte la superficie attuale(IIED, Ministero per l’Ambiente e lo Sviluppo britan-nico, 1995). Superficie costituita da un capitale na-turale, stock dal quale sia possibile ricavare un flus-so di beni (p.e. una foresta, uno stock ittico, una fal-da acquifera, ecc.) e servizi ecologici (quali l’assimi-lazione dei rifiuti) e da un capitale artificiale, beni eservizi prodotti dall’uomo. Tra gli stock di capitalenaturale distinguiamo quelli rinnovabili (specie viventi,ecosistemi) e ricostituibili (sorgenti idriche, fasciad’ozono) da quelli non rinnovabili, come i combusti-bili fossili e i minerali. Appare evidente che alcuni diessi sono insostituibili, e per garantire un “ambientevivibile”, bisogna evitare che il capitale naturale siaconsiderato genericamente come un “magazzino dirisorse industriali”. Secondo la teoria della “soste-nibilità debole”, le perdite di capitale naturale sonocompensate da quantità equivalenti di capitale pro-dotto dall’uomo: alla dotazione naturale in esaurimen-to, ne sostituiamo una artificiale. Ciò vale anche perquei servizi ecologici che viceversa, sono il nodocentrale della “sostenibilità forte”, per la quale essisono insostituibili. Tra gli altri, l’assimilazione dei ri-fiuti (nei sistemi naturali), rappresenta uno dei servi-zi ecologici che la “sostenibilità debole” è riuscita asostituire, grazie al riciclaggio e alla conseguentereimmissione di materiali di scarto nei cicli di lavora-zione (valorizzazione materiali) per la riconfigura-zione di nuovi materiali. A questo punto il collega-mento con i sostenitori della “sostenibilità forte” èquasi automatico, visto che per loro, oltre che gli stocknaturali, anche quelli di capitale artificiale “andreb-bero mantenuti costanti, affinché non vi sia nessuntipo di deprezzamento del capitale”. Quale miglioreoccasione per ridurre i rifiuti da smaltire (servizio eco-logico), per il recupero di materie prime (economianell’utilizzo di risorse non rinnovabili, conservazionedel capitale naturale), allo scopo di riconfigurare nuoviprodotti industriali (valorizzazione materiali e rivalu-tazione del capitale artificiale).I materiali riciclati, nella casa pilota del CSTC(Centre Scientifique et Technique de la Con-struction, Limelette, BE), sono entrati proprio come“capitale artificiale rivalutato”. Nel 1993 fu proprio

lavorare con i materiali riciclatiMaria Antonietta Sbordone

Dispositivi didattici che permettono divedere i materiali utilizzati. Bottiglie diplastica compresse e rifiuti di polietilene.

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Muri interni in blocchidi cemento nei quali igranulati sono statirimpiazzati da resti didemolizioni e misce-lati a cemento bianco.

il Gouvernement wallon il primo ad accorgersi chein discarica (i CET Centre d’enfuissement technique)finivano, – a parte le enormi quantità –, materiali inertirifiuti di costruzioni e di demolizioni, che per le lorocaratteristiche, furono definiti di “qualità interessan-te”. Il Governo, nel 1995, dopo una serie di accordi(p.e. con la Confédération de la Construction Wal-lonne) e azioni preliminari, predispose un Capitolatod’Appalto Tipo e uno Speciale, nei quali si prevede-va l’utilizzazione dei prodotti riciclati nel quadro deiLavori Pubblici nella regione. Il passaggio dalla fasedella promozione e quella della dimostrazione, fuaffidato al CSTC, con il suo centro ricerche e labora-tori in piena campagna, nei dintorni di Bruxelles, gra-zie ai fondi CE, partecipò, con il progetto “La casapilota con materiali riciclati”, al programma LIFE. Trepassaggi principali caratterizzarono il programma: larealizzazione di una costruzione pilota che integra-va in gran parte nuovi materiali, provenienti dalriciclaggio di resti di demolizioni e di costruzioni, maanche dalla valorizzazione di rifiuti e sotto-prodottiderivanti da altri settori industriali; la dimostrazioneche l’utilizzazione massiva di materiali riciclati erapossibile e che questi aderivano completamente alleloro funzioni senza influenzare negativamente le pre-stazioni del manufatto e i costi; la definizione delconcetto di riciclaggio ritenuto, che orientò la sceltaverso quei materiali fabbricati a partire da prodottiche avevano già subito una “prima utilizzazione” eche contenevano percentuali variabili di rifiuti, quan-do questo non era possibile, che utilizzavano casca-mi di produzione. La costruzione ha seguito tutte lefasi di un progetto convenzionale, sarà possibile vi-sitarla all’inizio del 2002, vi sono all’interno dispositivi

didattici che permettono di individuare i materiali uti-lizzati. Ogni prodotto utilizzato ha un numero di rife-rimento al quale corrisponde una scheda tecnica.Sono stati impiegati circa 200 materiali scelti su unagamma di 1000, difatti il progetto iniziale è stato mo-dificato per usufruire di maggiori superfici per la mes-sa in opera di materiali differentii per un’unica appli-cazione.Alla dimostrazione seguirà la fase di osservazionescientifica sul comportamento dei materiali relativa-mente alla degradazione sul lungo periodo, con lasuccessiva valutazione dei costi di manutenzione edi eventuali riparazioni.

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Chi comincia la professione e non è dipendente diun grande studio si trova a operare quasi semprenell’ambito degli interni: ristruttura l’appartamento delparente, il negozietto dell’amico… È questa un’otti-ma palestra che ha messo alcuni di noi di fronte alfatto che quel poco o molto che ha imparato all’uni-versità non serve affatto alla pratica dell’architettu-ra. Ci si accorge così di non sapere nulla, o quasi, diimpianti di riscaldamento, di non conoscere la diffe-renza fra un deviatore e un interruttore, comincian-do così a balbettare risposte inconcludenti quando ilmastro di turno ci chiede “architetto, il pavimento loposiamo a colla o a sabbione?”Allora si ricomincia daccapo, ogni giornata in cantie-re diventa una lezione sul campo dove il capo-cantiere, quando è bravo, ti trasmette un po’ del suosapere: da lui si può apprendere, senza rinunciarecompletamente al controllo del lavoro, mentre alcliente non si deve far comprende che ne sappiamoquanto lui in merito alla direzione dei lavori.Veniamo ora alla questione degli artigiani. In gene-rale, nei nostro territori, si trovano delle ottime pro-fessionalità che sono quasi sempre disponibili a con-dividere le loro competenze. Spesso, però, si riscon-trano due tipi di “difetti” (purtroppo non si è in gradodi comprenderlo all’inizio della professione): il primoè la presunzione che li porta a ritenere che quantoconoscono sia il massimo dello scibile in materia.Non sono quindi disposti a accettare nessuna novitàche l’evoluzione della tecnologia propone. Riman-gono tenacemente legati alle tradizioni proponendosempre lo stesso modello realizzativo (e c’è da te-ner presente che le loro tradizioni sono quelle delcemento armato e del movimento moderno, ovverodelle tradizioni recenti fondate quasi sempre sul prin-cipio della transitorietà e della caducità).Il secondo difetto è l’indisponibilità a inserire nelproprio lavoro artigianale un’attività affine. L’esem-pio classico è il falegname che rifiuta di utilizzare

i tranciati di nuova generazione o che non vuole re-alizzare inserti in rame o in ottone, così come queifabbri che non vogliono lavorare l’acciaio inox o imetalli non ferrosi. C’è da dire che purtroppo i mi-gliori artigiani, privi dei difetti di cui sopra, spessosono migrati al nord: resta al giovane professionistal’onere di ricercare il giusto maestro con il quale dia-logare e crescere. Chi si trova all’inizio della profes-sione deve quindi confrontarsi con questeproblematiche, cercando di comprendere se quelloche si è disegnato è realizzabile e a che costi.Veniamo poi a una seconda questione. All’univer-sità quasi tutti abbiamo progettato un centropolifunzionale, un quartiere, una città, fermando-ci, in termini di dettagli, quasi sempre alla scaladimensionale 1:50, e di fronte alla necessità di di-segnare una semplice porta, necessariamente 1:5,molti sono disorientati, non sanno proprio da dovecominciare. Qui gli artigiani non sono d’aiuto per-ché non abituati al disegno, preferendo lo schiz-zo, che lascia loro la libertà d’interpretare la vo-lontà del progettista. I giovani progettisti più at-tenti si organizzano, chiedono suggerimenti aicolleghi più anziani (posto che questi abbiano ela-borato una cultura del disegno di dettaglio), ar-mati di metro studiano ciò che li circonda, cerca-no su internet, così da produrre, se pure a fatica,quei grafici che sono garanzia della qualità del-l’architettura proposta. Per alcuni progettisti peròvale la scelta della rinuncia al disegno, al control-lo del dettaglio; preferiscono usare il matitone incantiere, lasciando nelle mani degli artigiani la qua-lità della propria architettura.Quando si è maturata una certa esperienza ci sirende conto che gli anni passati a far pratica diinterni sono stati fondamentali, che hanno forma-to il nostro lessico architettonico. Se non si è ri-nunciato al disegno di dettaglio quale strumentodi controllo della propria architettura, si è matura-to quel bagaglio di informazioni che ci consente diprodurre architettura di qualità. Ci si rende contocosì che le grandi architetture sono costruite an-che attraverso il dettaglio. Dettaglio che costitui-sce il fonema, la sillaba del discorso complessivodell’architettura che si sta realizzando.Nella cultura anglosassone questo principio è asso-lutamente chiaro, tanto è vero che già dal primo annodella facoltà di architettura, alla fine del corso, si or-ganizzano campus nei quali gli studenti realizzanouna abitazione verificando nella pratica quanto stu-diato durante i corsi. Le nostre facoltà sono inveceper lo più strutturate su altri ordinamenti e sono po-chi quei docenti che possiedono la cultura del detta-glio e la “pratica del fare” che dovrebbero costituirela base di qualunque architettura. Non ci resta quin-di, una volta completati gli studi, che ricominciaredaccapo affidando alla pratica degli interni la costru-zione del lessico della nostra architettura.

pratica come conquistaFrancesco Felice Buonfantino

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Alessandro Papari, Doppio interno, 2001.

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Il passaggio effettuato in rete nel mondo virtuale degli “In-terni”, si traduce in una sorta di appunti di viaggio sullosterminato panorama di siti web, tra l’architettura e il design.Alcuni di essi sono veri portali di informazione tematica,aggiornati e attenti a ciò che accade nel panorama inter-nazionale, molti invece non hanno avuto continuità rima-nendo soltanto buoni spunti o flebili iniziative.La struttura del “Magazine” è la più ricorrente e spessooffre molteplici possibilità di interazione. È il caso diIdea, sito di industrial design, con la possibilità di invia-re i propri progetti, e di Archimagazine, che aggiornacostantemente gli utenti via e-mail; Contract Design eDesign Architecture offrono tra l’altro interessanti pro-poste di mercato, opportunità dal mondo delle industriee cerca-lavoro on-line. Da visitare anche l’ottimo sitospagnolo Design Meeting Point e Made Magazine, coni links dei siti di design più diffusi e la possibilità di scri-vere articoli ed esporre opere gratuitamente.Tra i siti che dedicano ampio spazio al design:

Design Meeting Point (Spagna): www.designmp.comContract Design (USA): www.contractdesign.comDesign boom (Italia): www.designboom.comIdea (Italia): www.x-idea.comArredamento (Italia): www.arredamento.itMade Magazine (Italia): www.fionline.it/madeArchimagazine (Italia): www.archimagazine.itArquitectura e Design (Brasile): www.nav.be/ArchiguideDesign Architecture (USA): www.cornishproductions.comLisa Magazine (Olanda): www.calibre.bwk.tue.nl/lava/lisaHouse of Design (Olanda): www.House-of-design.nlDesign Italia (Italia): www.designitalia.it

Numerosi sono anche i Magazine con la possibilità diaccedere ai più svariati links e database della rete, comelo spagnolo IAZonarquitectura con collegamenti ai mag-giori siti internazionali di architettura e ai calendari deiconcorsi, nonchè il britannico Great Building, corredatodi un’ampia galleria fotografica di architetture selezio-nate; presenti anche servizi di shopping on-line e chatcome su Volume5 hp e Arqa.

Archined (Olanda): www.archined.nl/endex.htmlArchinet (Regno Unito): www.archinet.co.ukNext room (Austria): www.nextroom.atDeath by Architecture (USA): www.deathbyarch.comArchrecord (USA): www.archrecord.comVolume5 hp (USA): www.volume5.comAustralian Architects (Australia): www.archioz.com.auArqa (Argentina): www.arqa.comArquitectura en Linea (Argentina): www.arquitectura.comWam (Spagna): web.arch-mag.comGreat Building (Regno Unito): www.greatbuilding.comIazonarquitectura (Spagna): www.iaz.comArchitettura.it (italia): www.architettura.itAleph Kubos (Francia): www.Kubos.orgArchiv (Germania): www.workshop-archiv.deDeutsche Bauzeitung (Germania): db.bauzeitung.deTelescoweb (Giappone): www.telescoweb.comArchitectenwerk (Olanda): www.architectenwerk.nlArquicol (Colombia): www.arquicol.comArchinet (Germania): www.archinet.deArchitecture Magazine (USA): www.architecturemag.com

Tra i portali dedicati esclusivamente ai calendari dei con-corsi internazionali per l’architettura e il design:

Arch’it (Italia): www.arch.itBYGGEinfo (Danimarca): www.byggeinfo.dkZone Arch (Canada): www.org/comp/icnlogo

Il linguaggio architettonico autoctono e la promozione del-la progettazione locale sono i fili conduttori di molti “etnositi”presenti in rete:

Periferia (Caraibi): www.periferia.orgArcheire (Irlanda): www.archeire.comZone Architecture (Quebec): www.z-1.orgArchitecture Asia (Tailandia): www.architectureasia.comArch’India Online (India): www.archindia.com

Approfondimenti tecnici e informazioni per operatori delsettore delle costruzioni sono presenti nel web, come lapiattaforma tedesca Baunet, che offre notizie generali sul-le tecnologie e i materiali sia per le imprese che per i pro-gettisti, oppure il sito italiano della Federlegno, la filieraindustriale dalla lavorazione della materia prima alla produ-zione di elementi finiti per le tecnologie e l’arredamento.

Baunet (Germania): www.baunet.de/index.htmlDds (Germania): www.dds-online.deCanal Construnet (Spagna): www.construnet.netFederlegno (Italia): www.federlegno.ita-node (USA): www.a-node.netBaunetz (Danimarca): www.baunetz.de

in retea cura di Salvatore Gatti

Alessandro Papari, Il frigorifero, 2001.

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Un paesaggio avvolto nella nebbia lascia emergeregrappoli di rocce mentre nello sfondo, appena per-cepibili, si profilano evanescenti cime di una anoni-ma catena montuosa.In primo piano si staglia di tergo la figura dell’uomo:lo studioso, lo scienziato, l’artista, il poeta che guar-da, indaga, contempla, immagina, sogna… o forsecerca semplicemente di vincere lo stato confusiona-le in cui lo pongono i suoi interrogativi, i suoi come,dove, quando e perchè.È il frontespizio che Pierluigi Giordani prende in pre-stito da Caspar David Friedrich per compendiare lametafora del ricercatore indagante sulle coordinateche strutturano la storia del pensare e del fare urba-nistica, nel passato come nel presente, non trala-sciando di affacciarsi a curiosare sulle possibili futu-re evoluzioni in un contesto ben pió ampio di quellocircostanzialmente disciplinare.Sono in molti a indagare sulle “Ragioni della soffe-renza”, sulle cause che producono povertà, miseria,dolore, disperazione, paure e, conseguentemente,rancore, inimicizia, violenza, odio ed eversioni.Pochi sono invece quelli che, non semplicementeinvertendo l’ordine delle parole, si soffermano ad ana-lizzare “La sofferenza della ragione” (che è ben altracosa della “ragione della sofferenza” anche se le ra-dici e le ricadute sociali convergono a definire unmedesimo universo) e ponendo attenzione alla pres-sochè cronica crisi del “pensare libero”, aprono spi-ragli di luce sulla miriadi di condizionamenti che loinsidiano sia per... forza-violenza di legge (ambigui-tà delle norme erette a garanzia delle “idee ricevu-te”) sia per il reiterarsi degli atteggiamenti ispirati aun sempre meno astratto “patriottismo ideologico”che informa di sé la logica delle scelte e decisionipolitiche, del governo della “res publica” e dei com-portamenti sociali, economici e culturali.Il volume di Pierluigi Giordani costituisce una stazio-ne intermedia di un lungo itinerario di ricerca, inizia-to circa mezzo secolo addietro con la traduzione (edivulgazione nel nostro Paese) degli studi di LewisMumford sulla storia dell’Utopia.L’Utopia rapportata all’organizzazione della città edel territorio ha informato i suoi due volumi monogra-fici: “Il futuro dell’Utopia” (Ed. Calderini, Bologna1969) e “L’idea della città giardino” (ed. Calderini,Bologna 1972) nei quali l’esplorazione critica pene-tra nei cenacoli del pensiero filosofico, artistico e let-terario per ricercare, non solo in termini di coerenza

recensioni

culturale, le matrici di comuni esigenze di accelera-re i tempi della storia e di rinnovare profondamente,ovvero di rivoluzionare, il volto, la struttura e la logi-ca organizzativa della città e del territorio e le condi-zioni del vivere al loro interno.Proseguendo lungo tale itinerario il discorso si arric-chisce nella documentazione e nella riflessione, guar-dando agli effetti positivi e negativi esercitati dal pen-siero utopico sia nelle sue (rare) traduzioni in pro-getti (sperimentazioni) sia nel suo configurarsi comematrice ideologica ispirante il rivoluzionamento deiregimi di governo.In tale direzione si muovono i saggi “Utopia e distupianell’attuale organizzazione del territorio” pubblicatoin AA.VV. “Per una definizione dell’Utopia” (Longoeditore, Ravenna 1992) e “Sentieri in utopia: dall’hicsunt leones all’hic et nunc” pubblicato in AA.VV.“Viaggi in Utopia” (Longo editori, Ravenna 1996) e idue suoi volumi: “La speranza dell’antiutopia” (Mag-gioli Editore, Rimini 1996) e “Presenze utopiche nel-l’organizzazione del territorio in Italia” (Longo Edito-re, Ravenna 1996).L’itinerario prosegue con il volume monografico “Ilpalinsesto urbanistico, note sulla norma tecnico-giu-ridica in Italia, nel dopoguerra” (Maggioli Editore, Ri-mini 1999), nel quale opera una lettura mordacemen-te satirica dell’ordinamento urbanistico italiano rap-portandolo alle matrici ideologiche che l’hanno ispi-rato ed alle circostanze politico amministrative che,aperte all’utopia regressiva, ne hanno provocato uncrescente precipitare verso la crisi.Il volume “La sofferenza della ragione”, non vuoleessere la stazione di arrivo dell’itinerario intellettua-le di Pierluigi Giordani, come lui stesso ci tiene aprecisare; a tutti gli effetti si configura come una sta-zione di sosta nella quale ambientare una pausa diriflessione sulle circostanze epocali che informano imutamenti in corso, al varco della soglia del terzomillennio, nelle relazioni sociali, economiche, cultu-rali e politiche condizionanti i comportamenti di go-verno della città e del territorio. Il bilancio che l’auto-re ci propone non ha soltanto un carattere di con-suntivo, ma trova più rilevante significato proprio nelladefinizione degli indirizzi preventivi; un guardare inavanti costellato da una selva di interrogativi indiriz-zati prioritariamente a se stessi, una tabella di mar-cia propria dello studioso ricercatore; per cui ognidiscorso evidenzia la sua natura interlocutoria e la-scia ampio margine ad approfondimenti e verifiche,

Pierluigi Giordani, La sofferenza della ragione. Uto-pia e progetto nella città moderna, Maggioli editore,Rimini 2001

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una volta sgombrato il campo da quegli equivoci cheimpediscono, come la nebbia di C.D. Friedrich, diguardare al futuro con chiarezza (piuttosto che conla sfera della chiaroveggenza).Il libro spazia nel teatro della città moderna sul cuipalcoscenico la vita associata è dinamicizzata dalsuccedersi degli stadi dei “percorsi mentali”, scan-diti dal pressochè rituale incontro-scontro-confron-to tra “progetto e utopia”, viaggianti in tracciati intel-lettuali che, superato il limite scientifico del loro pa-rallelismo, erogano flussi di reciproca attrazionedeterminando quei campi di inesplorato magnetismonei quali trova ambientamento la contaminatio, cau-sa prima della “sofferenza della ragione”, popolatadalla selva di “discipline” che spesso sembranomoltiplicare gli interrogativi anzichè risolverli, perconferirsi una… ragione di essere.A modo suo il libro ci propone un racconto dialogantetra due storie: quella del progetto e quella dell’uto-pia, utilizzando prevalentemente “testi ed immagininell’immanenza di ‘categorie’ (la politica, l’esteticaecc...) ineludibili nell’interpretazione della processua-lità”. La narrazione è articolata in tre parti.La prima parte, incentrata sul dialogo tra utopia eprogetto, ne esplora gli assunti teorico filologici rivi-sitando i quadri definitori e proponendo una riletturacritica dei rapporti con la processualità storica e po-litica concludendo con approfondite considerazionisul caso italiano.La seconda parte propone una rivisitazione spie-tatamente critica della storia del pensiero-proget-to urbanistico nell’ultimo mezzo millennio, dallaconcezione dispotica generatrice della città idea-le del rinascimento ai paradigmi anacronistici delpostmodernismo.La terza parte, provocatoriamente intitolata “vanilo-quio ucronico” (monologo per lamentata assenza diinterlocutori) costituisce il proseguimento ideale delviaggio nel tempo e nello spazio dell’immaginario,dove la deduzione cede il posto alla intuizione e laanalisi documentaria all’interpretazione segnica.La conclusione è ben lontana dall’assumere i toniprofetici di chi è avvezzo a indugiare su apocalitticheprofetizzazioni; c’è troppa saggezza nella mordaceironia che accompagna la rassegna delle circostan-ze che hanno informato la storia del pensiero miratoall’organizzazione della città, per lasciar presuppor-re che i “gusci vuoti” della politica e della cultura nonpossano essere riempiti da nuovi apporti dell’imma-ginario individuale atti a sostituire, ove ancora doves-sero permanerne scorie residuali, le vecchie rovino-se radici ideologiche con idee e progetti predispostia svilupparsi in contesti di riconquistata libertà nei

quali la ragione possa nutrire la speranza di tro-vare un farmaco idoneo a lenire il suo attuale sta-to di sofferenza.Il libro di Pierluigi Giordani non è un racconto, e nonpuò essere raccontato; non è una raccolta di docu-mentazioni rigorosamente correlate da un saperescientifico finalizzato ad una spersonalizzata siste-matizzazione delle conoscenze, e pertanto non pre-sume di arricchire il bagaglio nozionistico-culturaledel lettore configurandosi come fonte di acclarate,indiscutibili, verità; non è un saggio letterario sfog-giante esibizioni intellettuali compiaciute dalla stra-ordinaria ricchezza delle citazioni viaggianti tra la sot-tile ironia e la mordace satira, ma povero di contenu-ti di specifici interessi e di dichiarate finalità; non èun diario evidenziante protagonistiche elaborazioniteorico-critiche ed esperienze progettuali preselezio-nate per lasciare una più marcata impronta di sé nellastoria dell’urbanistica, della letteratura e della cultu-ra contemporanea; non è un costrutto teorico, unatesi argomentativa e dimostrativa del “buon gover-no” delle istituzioni, del territorio e della popolazio-ne; non è un “libro bianco” scritto per contestare iviziosi comportamenti dei governanti politicamenteorientati al sostegno di massimalismi strumentali; nonè un sermone né una omelia che all’insegna di nuovivalori fomenta conflitti ideologici asservendoli a stra-tegie di potere mirate alla conservazione dei vecchi.In definitiva il libro di Pierluigi Giordani è un invito alragionamento non sugli accadimenti che hanno ca-ratterizzato le ultime stagioni della storia della cittàmoderna, ma su quelle istanze intellettuali e quelleesperienze progettuali che hanno dato ispirazione,organizzazione, forma, vita e soprattutto condiziona-menti ai comportamenti di crescita della città con-temporanea mettendo ipoteche anche sulla sua pos-sibile futura evoluzione.Il libro scritto dal nostro maggiore teorico dell’utopia,non può non concludersi con un messaggio di spe-ranza, che sembra far luce proprio là dove le tene-bre si prospettano pió oscure, in quel regime di liber-tà che l’incombente “globalizzazione” sembra definiti-vamente soffocare, ma che invece una buona politi-ca, chiusa ai pregiudizi di consumate ideologie, edaperta a stimoli di nuovi immancabili contributi delpensiero utopico individuale, può contribuire a esal-tare abbattendo i tantissimi recinti che la paura haeretto a difesa della sopravvivenza e che fungonoda principale ostacolano al buon governo.

Mario Coletta Professore Ordinario di Urbanistica

Università degli Studi di Napoli “Federico II”