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1 APPUNTI PER LE LEZIONI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO Dipartimento di Scienze Giuridiche - LUISS “Guido Carli” A.A. 2011-2012 Prof. Marcello Clarich CAP. I INTRODUZIONE 1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera. (pagg 3-37) CAP. II LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO 1. Premessa; 2. La Costituzione; 3. Fonti comunitarie e pubblica amministrazione; 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità; 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione; 6. I regolamenti governativi; 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici; 8. Atti di regolazione aventi natura non normativa; 9. Gli atti amministrativi generali: a) i bandi di concorso e gli avvisi di gara; 10. Segue: b) gli atti di pianificazione e di programmazione; 11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti; 12. Segue: d) le direttive e gli atti di indirizzo; 13. Segue: e) le norme interne e le circolari; 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici; 15. Sviluppi recenti. (pagg 38-71)

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    APPUNTI PER LE LEZIONI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO

    Dipartimento di Scienze Giuridiche - LUISS “Guido Carli”

    A.A. 2011-2012

    Prof. Marcello Clarich

    CAP. I

    INTRODUZIONE

    1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera. (pagg 3-37)

    CAP. II

    LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E LE FONTI DEL DIRITTO

    1. Premessa; 2. La Costituzione; 3. Fonti comunitarie e pubblica amministrazione; 4. Fonti normative statali, riserve di legge, principio di legalità; 5. Le leggi provvedimento e la riserva di amministrazione; 6. I regolamenti governativi; 7. Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici; 8. Atti di regolazione aventi natura non normativa; 9. Gli atti amministrativi generali: a) i bandi di concorso e gli avvisi di gara; 10. Segue: b) gli atti di pianificazione e di programmazione; 11. Segue: c) le ordinanze contingibili e urgenti; 12. Segue: d) le direttive e gli atti di indirizzo; 13. Segue: e) le norme interne e le circolari; 14. Il riordino della legislazione: i testi unici e i codici; 15. Sviluppi recenti. (pagg 38-71)

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    CAP. III

    LA FUNZIONE DI AMMINISTRAZIONE ATTIVA

    1. Le funzioni e l’attività amministrativa; 2. Segue: il potere, il provvedimento, il procedimento; 3. Il rapporto giuridico amministrativo. I diritti potestativi e il potere amministrativo; 4. Il potere amministrativo e la norma d’azione; 5. Il potere discrezionale; 6. L’interesse legittimo; 7. Segue: l’interesse legittimo oppositivo e pretensivo; 8. Diritti soggettivi e interessi legittimi: criteri di distinzione; 9. Interessi di fatto, diffusi e collettivi; 10. I principi generali. (pagg 72-122)

    CAP. IV

    IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO

    1. Premessa; 2. Il regime del provvedimento amministrativo: a) la tipicità; 3. Segue: b) la cosiddetta imperatività; 4. Segue: c) L’esecutorietà e l’efficacia; d) l’inoppugnabilità; 5. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione; 6. I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori, le sanzioni amministrative; 7. Le attività libere assoggettate a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di avvio dell’attività. 8. Le autorizzazioni e le concessioni; 9. Gli atti dichiarativi; 10) Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali; 11. L’invalidità dell’atto amministrativo; 12. L’annullabilità: a) l’incompetenza; b) la violazione di legge; 13. Segue: c) l’eccesso di potere; 14. La nullità; 15 L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso. (pagg 123-186)

    CAP. V

    IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

    1. Nozione e funzioni del procedimento amministrativo; - 2. Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990; - 3. Le fasi del procedimento: a) l’iniziativa; - 4. Segue: b) l’istruttoria; - 5. Segue: c) la

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    fase decisionale; - 6. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il sub procedimento; - 7. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento; - 8. Tipi di procedimento. a) L’espropriazione per pubblica utilità; 9. Segue: b) le sanzioni pecuniarie e disciplinari; 10. Segue: c) le autorizzazioni. Il permesso a costruire; 11. Segue: d) I procedimenti concorsuali. L’accesso agli impieghi pubblici; 12. Segue: e) i contratti pubblici per l’affidamento di lavori, servizi e forniture; 13. Segue: f) l’accesso ai documenti amministrativi. (pagg 187-236)

    CAP. VI

    I CONTROLLI E LA RESPONSABILITA’

    A) I CONTROLLI. 1. Premessa; 2. I controlli sugli atti e sull’attività; 3. I controlli gestionali.

    B) LA RESPONSABILITA’. 4. Premessa; 5. L’art. 28 della Costituzione e la responsabilità civile da comportamento illecito. 6. La risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi; 7. La responsabilità nel diritto europeo; 8. La responsabilità amministrativa. (pagg 237-262)

    CAP. VII

    LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

    1. Nozione; 2. Cenni storici: a) la legge abolitiva del contenzioso amministrativo; 3. Segue: b) la nascita del giudice amministrativo; 4. La giustizia amministrativa nella Costituzione; 5. L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e le riforme successive; 6. Il dualismo del sistema italiano e il riparto di giurisdizione; 7. La giurisdizione amministrativa di legittimità, esclusiva e di merito; 8. Le azioni nel processo di cognizione, le azioni cautelare ed esecutiva; 9. Lo svolgimento del processo amministrativo. I principi informatori; 10. I ricorsi amministrativi; 11. Cenni alle giurisdizioni amministrative speciali. (pagg 263-290)

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    CAP. I

    INTRODUZIONE

    1. Premessa; 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo; 3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo; 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto; 5. I caratteri generali del diritto amministrativo; 6. Piano dell’opera.

    1. Premessa.

    Il diritto amministrativo può essere inteso, in prima approssimazione, come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Esso riguarda in particolare i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività1.

    Il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi, autonomo dal diritto privato, che si è andato formando nell’Europa continentale nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto.

    Rispetto alla tradizione millenaria del diritto privato, si tratta dunque di un diritto recente. Le locuzioni “administration publique” e “burocrazia” comparvero per la prima volta in Francia intorno alla metà del XVIII secolo e vennero riferite alla nascita e al consolidarsi di un potere pubblico nuovo, dai tratti dispotici e autoritari. In epoca napoleonica si

    1 Secondo una delle prime definizioni, proposta da Vittorio Emanuele Orlando nei Principii

    di diritto amministrativo del 1891, il diritto amministrativo è “il sistema di quei principii giuridici che regolano l’attività dello Stato per il raggiungimento dei suoi fini” . Secondo quella più recente contenuta nel Trattato di diritto amministrativo francese di André de Laubadère, il diritto amministrativo è “la branche du droit public interne qui comprend l’organisation et l’activité de ce qu’on appelle couramment l’administration, c’est-à-dire l’ensemble des autorités, agents et organismes chargés, sous l’impulsion des pouvoirs politiques, d’assurer les multiples interventions de l’Etat moderne”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, secondo il manuale di Stephan Breyer e Richard Stewart, Administrative law and regulatory policy, “Administrative law consists of those legal rules and principles that define the authority and structure of administrative agencies, specify the procedural formalities that agencies employ, determine the validity of particular administrative decisions and define the role of reviewing courts and other organs of government in their relation to administrative agencies”.

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    iniziò a utilizzare l’espressione “droit administratif” e il primo trattato di diritto amministrativo fu pubblicato da Gian Domenico Romagnosi nel 1814, ma solo verso la fine del XIX secolo la disciplina trovò un inquadramento più compiuto.

    Del resto la distinzione, già nota al diritto romano2, tra diritto privato e diritto pubblico rimase in uno stato embrionale almeno fino in epoca moderna.

    Il diritto pubblico si ricollega infatti culturalmente al dibattito politico e filosofico settecentesco sul fondamento e sulla legittimità del potere del sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca sviluppata del diritto allorché giunse a maturazione lo Stato costituzionale di diritto (Rechtsstaat, Ėtat de droit), con tempistiche e modalità differenziate nei singoli Stati, a partire dalla rivoluzione francese (1789). Le costituzioni liberali ottocentesche (in Piemonte, lo Statuto albertino del 1848) costituirono la base normativa a partire dalla quale la dottrina, soprattutto tedesca (George Jellinek, Paul Laband, Otto Mayer), elaborò i concetti fondamentali del diritto pubblico (sovranità, Stato persona, diritti pubblici soggettivi, ecc.).

    Il diritto amministrativo può essere avvicinato lungo una pluralità di percorsi. In primo luogo, esso va colto in una prospettiva storica, dando conto di due processi: l’emergere di apparati amministrativi stabili posti al servizio del sovrano e l’evolversi nel tempo della struttura della pubblica amministrazione in relazione all’ampiezza delle funzioni assunte via via come proprie dallo Stato; il progressivo assoggettamento della pubblica amministrazione ai principi dello Stato di diritto e la formazione di un diritto speciale ad essa applicabile. In secondo luogo, è utile muovere dalle scienze sociali che analizzano con i propri metodi il fenomeno delle amministrazioni pubbliche e gettano le basi teoriche della teoria della regolazione (regulation). In terzo luogo, occorre fissare le distinzioni e i nessi del diritto amministrativo rispetto ad altre branche del diritto (diritto costituzionale, diritto europeo, diritto privato). Infine, conviene prendere in considerazione alcuni caratteri generali e le principali partizioni della materia.

    2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo.

    2 Secondo la celebre definizione di Ulpiano, jus publicum è “quod ad statum rei Romanae

    spectat”, jus privatum “quod ad singulorum utilitatem”.

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    2.1. Stato amministrativo.

    La presenza di apparati burocratici organizzati secondo criteri razionali è una costante nella storia. Fin dall’antichità i grandi imperi, in Oriente e in Occidente, si dotarono di strutture burocratiche stabili senza le quali nessun sovrano sarebbe stato in grado di esercitare il proprio potere e dominare territori talora assai estesi. L’impero romano fu uno degli esempi più perfetti di organizzazione burocratica volta a dare ordine e tendenziale uniformità nelle strutture portanti del sistema di governo.

    Ma gli esempi antichi non sono di aiuto per comprendere il fenomeno amministrativo nella realtà contemporanea. I presupposti culturali, sociali, politici e costituzionali di epoche così lontane sono troppo eterogenei rispetto a quelli dell’epoca moderna per rendere significativi i confronti. Si pensi soltanto alla presenza della schiavitù o alla divisione rigida delle classi sociali.

    Bisogna invece prendere le mosse dalla formazione degli Stati nazionali in Europa a partire dal XVI secolo e dal graduale superamento dell’ordinamento feudale. Quest’ultimo era caratterizzato da un’organizzazione politica policentrica e pluralistica, fondata su rapporti personali di tipo pattizio (vassallaggio) e su ampie autonomie e privilegi riconosciuti ad ordinamenti decentrati (comuni e città, ceti e corporazioni). Caratteristica era l’assenza di un centro di potere unitario effettivo. Tale non fu mai il Sacro romano imperatore, in perenne lotta per la sovranità con il papato e con i feudatari. Per esercitare il suo potere non disponeva di un’amministrazione di tipo professionale al proprio servizio.

    Considerando come paradigmatico il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l’unificazione del potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò di pari passo proprio con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del Re) e contrapposti ai poteri locali.

    L’accentramento burocratico, cioè la formazione di uno Stato amministrativo, costituì uno degli strumenti per ricondurre a unitarietà, in capo al sovrano legibus solutus, il potere politico e statuale3.

    3 La nota affermazione di Luigi XIV --- “Lo Stato sono io” --- esprime in modo efficace la

    riconduzione della sovranità, nelle sue varie espressioni, a un unico centro di imputazione.

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    Nell’esperienza francese lo Stato assoluto si connotava già dunque come Stato amministrativo.

    Era inoltre uno Stato che estendeva il suo raggio di azione a numerosi campi. In Francia esso ebbe un ruolo propulsivo (mercantilismo, colbertismo) che si esplicò in interventi di direzione, regolazione e gestione diretta di attività economiche (per esempio, le manifatture reali per la produzione di porcellane e di altri beni).

    Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato (per esempio, in Austria o in Prussia). Emerse cioè quello che va sotto il nome di Stato di polizia (Polizeistaat, ove “polizia” va intesa nel significato originario di “politeia”, cioè attinente alla “polis”) che curava la convivenza ordinata e il benessere della collettività (Wohlfahrtstaat), offrendo, con visione paternalistica, ai propri sudditi provvidenze di vario genere.

    Presero anche corpo filoni di studi, come la scienza della “polizia” (Polizeiwissenschaft), e la cameralistica, assimilabile per molti aspetti alla scienza dell’amministrazione e alla scienza delle finanze. Queste scienze studiavano i metodi di buona gestione della cosa pubblica nell’interesse delle finanze statali e per la cura dei bisogni generali.

    L’espansione dei compiti dello Stato e l’attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all’emersione della funzione amministrativa come funzione autonoma, non più inglobata in quella giudiziaria.

    In precedenza, in epoca medievale, soltanto la funzione legislativa (imperium) e la funzione giudiziaria (jurisdictio) avevano assunto una fisionomia sufficientemente definita. In Inghilterra, in particolare, i giudici di pace (Justices of the peace) assommavano poteri giurisdizionali e poteri che oggi definiremmo come amministrativi (come, per esempio, le espropriazioni).

    Il potere esecutivo acquisì un profilo più autonomo solo in seguito alla formulazione della teoria della separazione dei poteri. E a lungo la dottrina fece fatica a porre una definizione di attività amministrativa e si accontentò di individuarla, in via residuale (o per sottrazione), come

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    l’attività dello Stato o di altri poteri pubblici diversa da quella normativa e giurisdizionale (Walter Jellinek, Otto Mayer4).

    Il modello dello Stato assoluto entrò in crisi nella seconda metà del XVIII e nel XIX secolo. La rivoluzione francese del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi nell’Europa continentale segnarono la nascita del modello dello Stato di diritto (o Stato costituzionale).

    2.2. Stato di diritto e Stato a regime di diritto amministrativo.

    Lo Stato di diritto, che è oggi uno dei principi fondanti dell’Unione Europea, insieme a quelli della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani richiamati dall’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, si regge su alcuni elementi strutturali che occorre richiamare sinteticamente. Essi costituiscono infatti le precondizioni necessarie per sottoporre gli apparati amministrativi alla signoria della legge e dunque per la stessa nascita di un diritto amministrativo.

    a) In primo luogo, lo Stato di diritto presuppone il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus (e legittimato in base al principio dinastico) a un Parlamento eletto da un corpo elettorale, dapprima ristretto poi sempre più esteso (suffragio universale).

    b) Inoltre, esso si fonda sul principio della tendenziale separazione dei poteri, necessaria per rompere il monopolio del potere in capo al sovrano assoluto, unita alla previsione di un sistema di pesi e contrappesi (check and balance) volto a evitare abusi a danno dei cittadini. Secondo la tripartizione dei poteri, teorizzata per la prima volta nel XVIII secolo da Montesquieu, il potere legislativo spetta a un Parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e agli apparati burocratici da esso dipendenti, il potere giudiziario a una magistratura indipendente.

    Il potere esecutivo viene così assoggettato alla legge, cioè alla supremazia del Parlamento, espressione della volontà popolare. Per i suoi caratteri di generalità e di astrattezza, la legge rappresenta la garanzia più efficace dell’eguaglianza e dei diritti di libertà dei cittadini contro gli arbitri e gli abusi dell’esecutivo.

    4 Secondo Otto Mayer, il concetto di amministrazione può essere definito come “l’attività

    dello Stato che non è né legislazione né giustizia” (“ Tätigkeit des Staates, die nicht Gesetzgebung oder Justiz ist”).

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    c) Un terzo elemento strutturale dello Stato di diritto è l’inserimento nelle Costituzioni di riserve di legge. Queste escludono (riserva di legge assoluta, come quella in materia penale) o limitano (riserva di legge relativa, come quella in materia tributaria) anzitutto il potere normativo del governo.

    Il potere regolamentare dell’esecutivo, come si vedrà, è infatti ammesso esclusivamente nelle materie non assoggettate a riserva di legge assoluta. Nelle materie coperte da riserva di legge relativa, esso può esplicarsi solo nel rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge (regolamenti esecutivi). Anche i poteri puntuali dell’amministrazione che si manifestano in provvedimenti volti a incidere sui diritti dei cittadini (espropriazioni, ordini, sanzioni, autorizzazioni, licenze, ecc.) devono trovare un fondamento nella legge e sono così assoggettati al principio di legalità. Quest’ultimo si pone al centro dell’intera costruzione del diritto amministrativo.

    d) Per rendere effettive la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di libertà, lo Stato di diritto richiede un quarto elemento: che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela delle proprie ragioni anche nei confronti della pubblica amministrazione innanzi a un giudice imparziale, indipendente dal potere esecutivo.

    In Francia e in altri paesi dell’Europa continentale, la giustizia nell’amministrazione venne realizzata, come si vedrà, attraverso l’istituzione verso la fine del XIX secolo di un giudice speciale, separato dal giudice ordinario, che favorì la nascita del diritto amministrativo. Il Conseil d’Ėtat in Francia e il Consiglio di Stato in Italia, infatti, fin dalle loro prime decisioni elaborarono un corpo di principi, autonomo rispetto al diritto comune, che regolano l’organizzazione e l’attività amministrativa. Lo Stato di diritto sfociò dunque nella variante costituita dallo Stato di diritto a regime di diritto amministrativo.

    Nei paesi di common law invece per lungo tempo si negò la presenza di un diritto amministrativo. Il principio della “rule of law” implicava anche che all’amministrazione non fosse riconosciuto alcun privilegio e, conseguentemente, che il giudice al quale il cittadino potesse rivolgersi per far valere le proprie ragioni contro il potere esecutivo fosse quello ordinario.

    Lo Stato di diritto costituisce ad un tempo un modello, affermatosi progressivamente soprattutto nel mondo occidentale, e un ideale sempre

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    perfettibile. Così, per esempio, come si vedrà, in Italia la Costituzione del 1948, la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo e il Codice del processo amministrativo del 2010 hanno contribuito ad avvicinarci sempre più tale a ideale. Ulteriori sviluppi sono ancora possibili.

    2.3. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore.

    Il modello teorico dello Stato di diritto è di per sé neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza delle funzioni assunte come proprie dai poteri pubblici. Nel corso del XIX e XX secolo si sono succeduti, con tempi e modalità differenziate nei vari Paesi, una pluralità di fasi e di esperienze.

    Con la Rivoluzione francese si fecero strada le ideologie di impronta liberista in campo economico (secondo la dottrina del laissez faire), tendenti a ridurre al minimo gli interventi diretti dello Stato nei rapporti economici e sociali. Ciò come reazione ai mille “lacci e laccioli” e ai regimi speciali e di privilegio che avevano ingessato la società e frenato lo sviluppo economico nel corso del medio evo. L’abolizione dei corpi intermedi tra Stato e cittadino, la generalità e l’astrattezza delle leggi, il principio di eguaglianza formale dei cittadini, il riordino e la razionalizzazione del diritto comune in codici organici consentirono via via di superare gli ordinamenti dell’antico regime.

    Emerse così il cosiddetto “Stato guardiano notturno”, dominante per buona parte del secolo XIX. Lo Stato assunse su di sé principalmente due compiti: la garanzia dell’ordine pubblico interno e la difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Assicurate le esigenze di sicurezza interna ed esterna, spettavano dunque alla società civile e al mercato la crescita economica e la cura di altri interessi della collettività (per esempio la sanità). Venivano considerate con sfavore le aggregazioni sociali e i corpi intermedi (associazioni, corporazioni, autonomie territoriali, ecc.) tra Stato e individuo. In questo contesto la stessa presenza di apparati amministrativi stabili era ridotta per dimensioni e personale addetto.

    La visione liberista e liberale dello Stato entrò in crisi, verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, con l’affermarsi sulla scena politica e istituzionale di nuove ideologie e classi sociali (socialismo, operaismo, cattolicesimo, ecc.). Lo Stato monoclasse, che rispecchiava cioè essenzialmente gli interessi della società borghese, si trasformò, dal punto di vista sociologico, in pluriclasse, assumendo su di sé l’obiettivo di

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    rappresentare e mediare tra gli interessi differenziati e spesso contrapposti di tutti gli strati sociali. Sulla scena politica comparvero movimenti e partiti portatori di istanze di redistribuzione e socializzazione della ricchezza nell’interesse delle classi meno abbienti.

    Queste trasformazioni segnarono il trapasso a un modello di Stato che va sotto i nomi in larga misura fungibili di “Stato interventista”, “Stato sociale” o “Stato del benessere” (Welfare State). I primi interventi di legislazione sociale (previdenza, assistenza, ecc.) furono promossi, in particolare, nella Germania bismarkiana e nell’Italia giolittiana. A livello centrale, l’amministrazione dello Stato si potenziò con la crescita dimensionale e numerica dei ministeri e degli enti deputati a svolgere le nuove funzioni. A livello locale, presero avvio esperimenti di socialismo municipale, cioè di assunzione da parte dei poteri locali di servizi pubblici come l’illuminazione pubblica, la costruzione e gestione di acquedotti, l’istituzione di farmacie o di macelli comunali, ecc. Lo sforzo eccezionale di mobilitazione di risorse e di conversione e accelerazione della produzione industriale su impulso diretto dello Stato collegata alla prima guerra mondiale contribuì al superamento definitivo del modello liberista.

    La crisi economica degli anni Trenta, provocata dal crollo del mercato borsistico del 1929, provocò fallimenti a catena dei maggiori gruppi finanziari e imprenditoriali e richiese interventi di salvataggio da parte dei pubblici poteri. Si accrebbe così la presenza diretta dello Stato nell’economia e si affermò dunque il modello dello “Stato imprenditore” o gestore diretto di aziende di produzione ed erogazione di un’ampia gamma di beni e servizi. Interventi sottoforma di ausili e contributi finanziari pubblici diretti o indiretti volti a sostenere particolari settori di attività diedero origine alla variante dello “Stato finanziatore”. Proliferarono altresì enti pubblici, imprese in mano pubblica, aziende per la gestione diretta di attività economiche.

    In parallelo, l’influenza delle ideologie collettivistiche nel secondo dopoguerra portò all’approvazione di programmi di nazionalizzazione di settori economici strategici. Emerse così anche nelle democrazie occidentali, in forma più o meno accentuata, lo “Stato pianificatore”. Quest’ultimo si caratterizza per predisposizione a livello centrale di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità, energia elettrica, rete commerciale, ecc.), volti a coagulare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati. L’iniziativa imprenditoriale dei privati viene

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    subordinata al rilascio atti autorizzativi in conformità alle previsioni di piano.

    La presenza diretta o indiretta dello Stato nelle attività economiche e sociali determinò una crescita esponenziale della spesa pubblica. In molti casi si rese necessario ripianare con fondi erariali i bilanci in perdita di imprese pubbliche gestite in modo non efficiente o gravate di compiti extra aziendali (salvaguardia di livelli di occupazione, politiche di sviluppo delle aree economicamente depresse, ecc.). Nel lungo periodo ciò provocò una crisi finanziaria dello Stato, vista l’impossibilità di aumentare oltre certi limiti la pressione fiscale e l’indebitamento.

    La ripresa di ideologie antistataliste (neoliberismo) mise in crisi le fondamenta dello Stato interventista.

    A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, prese così corpo, dapprima in Gran Bretagna e successivamente in altri paesi europei, un movimento nella direzione della riduzione del campo d’azione dei pubblici poteri. Furono avviate politiche di liberalizzazione, con la soppressione di regimi di monopolio legale (privative o riserve di attività a favore dei pubblici poteri), e di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri (cessione sul mercato di pacchetti azionari di società in mano pubblica).

    Un siffatto processo venne promosso in Europa anche da numerose direttive europee comunitarie di liberalizzazione (telecomunicazioni, energia elettrica, gas, servizi postali, ecc.) volte a favorire l’apertura dei mercati alla concorrenza transfrontaliera all’interno del mercato unico. Inoltre la Commissione europea iniziò ad applicare in modo più rigoroso i divieti comunitari in tema di aiuti di Stato, cioè di forme dirette o indirette (finanziamenti diretti, contributi in conto capitale o interessi, garanzie, ecc.) di sussidi alle imprese pubbliche o private tali da alterare la concorrenza.

    Lo “Stato imprenditore” si trasformò così via via, ad imitazione del modello affermatosi, come si vedrà, negli Stati Uniti, in “Stato regolatore”. Quest’ultimo rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto la cornice di regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l’attività dei privati, svolta per quanto possibile in regime di concorrenza, non vada a ledere interessi pubblici rilevanti (tutela degli utenti e dei consumatori, dell’ambiente, della salute, ecc.).

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    I compiti di regolazione, che non sono peraltro necessariamente meno complessi di quelli della gestione diretta delle attività, sono stati affidati di norma ad autorità o agenzie indipendenti (o semi-indipendenti) dal Governo (cioè dall’indirizzo politico), così da sottolineare ancor più il ruolo tecnico, neutrale, non dirigista del regolatore pubblico.

    Il modello dello “Stato regolatore”, con varianti più o meno estreme, ha costituito il paradigma di riferimento dell’ultimo trentennio.

    La crisi finanziaria e la recessione economica mondiale che hanno colpito nel 2008 anzitutto gli Stati Uniti, da dove si sono poi propagate negli altri continenti, hanno messo in luce le carenze strutturali delle concezioni economiche (il cosiddetto fondamentalismo di mercato) sottostanti a tale modello.

    Di fronte a una crisi paragonabile, secondo alcuni, a quella degli anni Trenta del secolo scorso, sono state attuate, talora in condizioni di urgenza al fine di evitare il crollo sistemico del sistema finanziario internazionale, misure di intervento pubblico diretto (nazionalizzazioni di istituzioni finanziarie) e indiretto (sussidi alle imprese e alle famiglie) con la mobilitazione di volumi enormi di risorse pubbliche. Si è parlato, a questo riguardo, della rinascita dello Stato interventista (nella variante dello “Stato salvatore”). E’ emersa ancor di più la consapevolezza che i processi di globalizzazione economica vanno governati con istituzioni e meccanismi di regolazione anch’essi globali.

    A livello europeo, è stato introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF) con l’istituzione dell’Autorità bancaria europea e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali e dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Regolamenti n. 1093, 1094 e 1095/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010). Le nuove autorità europee sono titolari di poteri di impulso e di coordinamento delle autorità nazionali di settore in modo tale da promuovere l’armonizzazione delle regole e il rafforzamento della vigilanza.

    In definitiva, l’impegno o il disimpegno dei poteri pubblici nelle attività economiche e sociali --- ovvero, con linguaggio ottocentesco, l’individuazione dei limiti dell’attività dello Stato --- è soggetto a moti storici pendolari in relazione al mutare delle percezioni collettive e delle ideologie. In parallelo all’ampliarsi e al ridursi del raggio di azione dello Stato, si evolvono le tecniche di intervento dei pubblici poteri e dunque l’armamentario degli strumenti a disposizione dell’amministrazione per

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    svolgere le proprie funzioni (come si vedrà, autorizzazioni, concessioni, sanzioni, sovvenzioni, atti di programmazione, ecc.)

    2.4. Cenni agli ordinamenti anglosassoni: l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

    L’evoluzione sommariamente descritta nel paragrafo che precede riguarda soprattutto l’Europa continentale. Diverso fu in parte il percorso degli ordinamenti anglosassoni.

    L’Inghilterra anzitutto non conobbe il fenomeno dell’accentramento amministrativo che connotò l’esperienza francese. I poteri locali mantennero ampi spazi di autonomia.

    Fu mantenuta inoltre la tradizione della common law, cioè un diritto non codificato di derivazione giurisprudenziale. Un solo diritto, l’ ordinary law of the land, governava i rapporti di tutti i soggetti dell’ordinamento, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata. Un unico sistema di corti giudiziarie era deputato a risolvere tutte controversie. Le prerogative originarie della Corona, sottoforma di poteri speciali e di immunità (come l’immunità dalla responsabilità secondo il principio “the King can do no wrong”), erano considerate come un elemento eccezionale. Secondo Albert Venn Dicey, autore nel 1885 del volume “Introduction to the Study of the Law of the Constitution” destinato a influire sull’immagine della costituzione inglese per mezzo secolo, la presenza di un diritto amministrativo sarebbe ontologicamente incompatibile con la costituzione inglese fondata sulla sovranità del Parlamento.

    In realtà, anche in Inghilterra, verso la fine del XIX secolo prese avvio una legislazione di stampo sociale, che portò all’istituzione di apparati di vario tipo (Commissions, Boards, Authorities) per la gestione dei programmi di intervento. I poteri dell’esecutivo furono rafforzati e vennero istituiti, settore per settore, i cosiddetti tribunals, organi amministrativi incaricati di dirimere in forme paragiurisdizionali controversie in particolari materie (istruzione, provvidenze sociali, edilizia, ecc.) le cui decisioni furono assoggettate al controllo giurisdizionale delle corti ordinarie.

    Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, con l’ulteriore sviluppo del Welfare State (teorizzato da William Beveridge) e l’abbandono del principio dell’immunità della Corona (nel 1949), le Corti

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    inglesi presero coscienza dell’esistenza di una distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a operare un sindacato giurisdizionale più intenso sull’attività dell’esecutivo. Nel 1977 un regolamento di procedura (Order 53) razionalizzò e perfezionò l’ application for judicial review per tutte le questioni relative ai public law rights. Nel 2007 il Tribunals, Courts and Enforcement Act operò un riordino complessivo del sistema dei Tribunals, che svolgono una funzione di filtro e di deflazione del contenzioso propriamente giudiziario secondo il modello delle Alternative Dispute Resolution (ADR).

    Il diritto amministrativo nell’ordinamento inglese peraltro non può essere equiparato ancora, per estensione e organicità, agli sviluppi degli ordinamenti continentali. Campi come l’organizzazione e l’attività contrattuale dell’amministrazione fuoriescono in gran parte dal perimetro del diritto amministrativo che resta limitato al judicial review of administrative action, cioè al controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa.

    All’avanzata del Welfare State fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, fece seguito, come si è accennato, una fase di ritirata dello Stato dall’intervento nell’economia con le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione avviate dal primo ministro Margareth Thatcher. L’organizzazione dei dipartimenti ministeriali venne ripensata secondo il modello dell’agencyfication, cioè con la costituzione di una serie di unità operative autonome o semiautonome dagli apparati centrali e legate a queste da relazioni di tipo contrattuale. Si affermò la scuola del New Public Management volta a introdurre elementi di maggior efficienza e managerialità nel settore pubblico prendendo come modello, con gli adattamenti necessari, l’impresa privata.

    Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello Stato regolatore (Regulatory State) e la comparsa del diritto amministrativo avvennero in epoca relativamente recente.

    Quanto allo Stato regolatore, esso rappresentò una variante originale di intervento pubblico che si sviluppò proprio negli Stati Uniti, un Paese che, a differenza di quanto accadde in Europa, respinse sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella gestione o nella socializzazione o collettivizzazione di imprese.

    La prima agenzia venne istituita nel 1887 con il compito di regolare le tariffe praticate dai gestori privati delle linee ferroviarie (Interstate Commerce Commission). Nel 1890, per combattere e i cartelli e i

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    monopoli, venne approvato lo Sherman Act, primo esempio di legge antitrust, alla quale seguì nel 1918 l’istituzione di un’apposita agenzia (la Federal Trade Commission).

    Negli anni Trenta (all’epoca del cosiddetto New Deal), in reazione alla Grande Crisi del 1929, vennero istituite numerose autorità di regolazione come, per esempio, la Security Exchange Commission, con funzioni di vigilanza sulla borsa e sulle società quotate, la Federal Communication Commission, preposta al settore delle telecomunicazioni, il National Labour Relations Board nel settore delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva, la Tennessee Valley Authority per la promozione dello sviluppo economico in quell’area anche attraverso investimenti in opere pubbliche.

    Vennero altresì varati numerosi programmi di intervento pubblico in campo economico e sociale, una tendenza proseguita, fino all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, in coerenza con la visione della Great Society promossa dalle amministrazioni democratiche. Vennero istituite molte altre agenzie di regolazione come la Environmental Protection Agency, la Federal Energy Regulatory Commission o la Nuclear Regulatory Commission.

    Questo tipo di evoluzione comportò una forzatura della Costituzione americana. Quest’ultima infatti non prevede che il Congresso possa delegare poteri normativi e amministrativi così ampi ad apparati amministrativi indipendenti dal Presidente (cosiddetta non delegation doctrine). Nel periodo del New Deal la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionali alcune leggi di stampo interventista, e in particolare la legge istitutiva della National Recovery Administration con funzioni di pianificazione economica e di fissazione autoritativa dei prezzi. Ciò determinò uno scontro istituzionale con il presidente degli Stati Uniti, che riteneva invece indispensabili gli interventi pubblici per stimolare la crescita economica.

    Un compromesso istituzionale fu raggiunto nel 1946 con l’approvazione dell’Administrative Procedure Act che, come si vedrà, costituisce uno dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, per un verso, legittimò e consolidò il modello delle agenzie di regolazione; per altro verso, assoggettò la loro attività (rulemaking e adjudication) a una serie di regole procedurali e sostanziali (diritti di partecipazione dei privati, distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisionali, standard di controllo sulla discrezionalità da applicare in sede di judicial review delle decisioni

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    assunte) che costituiscono l’ossatura del diritto amministrativo negli Stati Uniti.

    A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con la svolta reaganiana, il modello dello Stato regolatore fu oggetto di un ripensamento. Furono introdotte misure volte a controllare e limitare l’attività delle Agenzie e a operare una sostanziale riduzione della quantità e intrusività della regolazione esistente (deregulation) promuovendo un ritiro dello Stato dalle politiche interventiste (rolling back the State). In particolare, a partire dal 1981 le Agenzie vennero assoggettate a un controllo finanziario centralizzato e fu resa obbligatoria l’analisi costi e benefici della regolazione (cost benefit analysis) finalizzata a dimostrare la necessità e l’opportunità delle singole misure da adottare in modo da limitarle al minimo indispensabile.

    I processi di liberalizzazione e privatizzazione non produssero sempre i risultati attesi in termini di recupero di efficienza e di qualità delle prestazioni e dei servizi. Negli Stati Uniti, per esempio, la gestione dei servizi di sicurezza e controllo dei passeggeri negli aeroporti, affidata a gestori privati, venne ripubblicizzata in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Anche la privatizzazione dei trasporti ferroviari in Gran Bretagna è stata oggetto di critiche poiché non ha prodotto i risultati sperati in termini di miglioramento del servizio.

    In generale, si discute sempre più frequentemente, quasi per simmetria rispetto ai cosiddetti “fallimenti del mercato”, soprattutto in seguito alle carenze nel sistema dei controlli pubblici sul sistema bancario e finanziario emerse nel corso della crisi scoppiata a partire dal 2008 e che travolse numerose imprese primarie (per tutte, la Lehman Brothers), di “fallimenti dello Stato”. Per porre rimedio a quest’ultimi, negli Stati Uniti sono state attuate riforme incisive degli assetti istituzionali vigenti, rafforzando in particolare il sistema della vigilanza sulle attività finanziarie e ponendo regole più restrittive all’attività delle banche.

    2.5. L’evoluzione della pubblica amministrazione in Italia.

    L’avanzata e la ritirata dello Stato e il succedersi dei diversi modelli esaminati nel paragrafo che precede nel corso degli ultimi due secoli sono stati accompagnati, come si è accennato, da un’evoluzione dell’organizzazione e delle funzioni della pubblica amministrazione.

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    In Italia, in epoca cavouriana, fu adottato il modello dell’amministrazione per ministeri, con la concentrazione delle poche funzioni pubbliche in capo a un nucleo ristretto di apparati organizzati in base al principio gerarchico e rappresentati al vertice da un ministro politicamente responsabile dell’attività complessiva nei confronti del Parlamento.

    Sul finire del secolo XIX, il governo Crispi varò un primo programma riformatore che portò, in particolare, alla pubblicizzazione nel 1890 delle cosiddette Opere pie, cioè della costellazione di enti e strutture private sorte spontaneamente dalla società civile o per impulso delle organizzazioni religiose e operanti nel campo dell’assistenza sanitaria e sociale. Le Opere pie furono riorganizzate e razionalizzate sotto forma di enti pubblici (le cosiddette IPAB, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) assoggettati a controlli penetranti da parte del ministero dell’Interno e, per esso, a livello locale delle prefetture.

    All’inizio del XX secolo, in epoca giolittiana, furono potenziate le strutture ministeriali e istituite le prime aziende ed enti pubblici nazionali (Istituto nazionale delle assicurazioni - INA, Istituto nazionale per la previdenza sociale - INPS). A livello locale, specie in seguito alla legge del 1903 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi, molti Comuni costituirono aziende per la gestione di numerose attività (trasporti, illuminazione pubblica, macelli, farmacie, ecc.). Nel periodo bellico, l’amministrazione subì una riorganizzazione allo scopo di rispondere alle esigenze eccezionali della mobilitazione e del coordinamento dell’intero sistema economico (consorzi obbligatori, ecc.).

    La svolta autoritaria negli anni Venti e l’ideologia statalista e corporativa affermatasi negli anni Trenta innescarono un processo di pubblicizzazione di molte attività economiche e sociali con l’istituzione di numerosi enti pubblici (enti sportivi, organizzazioni professionali e sindacali, ecc.). Nel 1942 venne emanata una legge urbanistica volta a disciplinare in modo unitario e razionale l’assetto del territorio attraverso la pianificazione comunale e il rilascio di titoli abilitativi per l’attività di edificazione.

    La Grande Crisi determinò l’estensione della mano pubblica in numerosi settori economici. Nel 1933 venne istituito l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), ente pubblico economico al quale venne attribuita la titolarità delle azioni di numerose imprese oggetto di interventi di salvataggio. Nel 1936 venne approvata una legge bancaria, rimasta in vigore fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, che

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    riorganizzò il sistema bancario secondo una visione pubblicistica e pianificatoria dell’attività creditizia. Vennero così attribuiti ad apparati pubblici (la Banca d’Italia, l’Ispettorato per il Credito e il Risparmio, un comitato interministeriale) funzioni di controllo monetario e di vigilanza sugli istituti di credito molti dei quali avevano assunto la veste giuridica di enti pubblici economici (istituti di credito di diritto pubblico, casse di risparmio).

    Nel secondo dopoguerra le imprese di proprietà pubblica vennero riordinate nel sistema delle cosiddette partecipazioni statali. Quest’ultimo assunse una configurazione stabile attraverso l’istituzione di enti pubblici nazionali con funzioni di holding finanziarie di controllo diretto o indiretto delle imprese pubbliche (enti di gestione delle partecipazioni statali, cioè l’IRI, l’ENI, l’EFIM) e assoggettati ai poteri di direttiva e di indirizzo politico governativo (Comitato interministeriale per la programmazione economica e ministero delle Partecipazioni Statali).

    L’espansione dei pubblici poteri continuò negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne nazionalizzato il settore dell’energia elettrica e istituito un ente pubblico economico (Enel) per la gestione in regime di monopolio di tutte le attività della filiera (produzione, trasmissione, distribuzione, importazione, ecc.). Verso la fine degli anni Sessanta venne approvato per legge un programma economico quinquennale che si ispirava in qualche modo ai modelli pianificatori sperimentati nelle economie non di mercato e che rimase poi in gran parte inattuato. Nel 1978 venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale, ispirato a una logica pianificatoria e di gestione prevalentemente pubblica dell’assistenza sanitaria incentrata su una rete di apparati pubblici che coprono l’intero territorio nazionale (oggi denominate Aziende sanitarie locali).

    Negli anni Settanta, con l’attuazione del disegno costituzionale del regionalismo, vennero istituiti nuovi apparati burocratici a livello regionale, anch’essi articolati, secondo il modello ministeriale, in assessorati con competenze riferite alle varie materie di spettanza regionale, e in enti pubblici dipendenti (finanziarie regionali, ecc.)

    In conseguenza di questi e altri interventi legislativi, ispirati alla logica dello Stato interventista, imprenditore e pianificatore, l’amministrazione pubblica assunse la conformazione di una costellazione multilivello e policentrica di enti pubblici che affiancano gli apparati ministeriali centrali, anch’essi aumentati di numero nel corso degli anni.

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    A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, anche in Italia lo Stato imprenditore entrò in crisi dati i suoi costi sempre meno sostenibili in una fase di crisi della finanza pubblica. Vennero così avviati processi di liberalizzazione, imposti, come si è accennato, da direttive comunitarie, e di privatizzazione di imprese ritenute non strategiche. Si fece strada così lo Stato regolatore che comportò un riassetto complessivo degli apparati amministrativi.

    Furono anzitutto soppressi il ministero delle Partecipazioni Statali e alcuni comitati interministeriali. Quasi tutti gli enti pubblici economici (preposti alla gestione di banche e di servizi pubblici nazionali) furono stati trasformati in società per azioni. Si attuò così la cosiddetta privatizzazione “fredda”, cioè della mera forma giuridica, un’operazione propedeutica alla cosiddetta privatizzazione “calda”, cioè alla dismissione totale o parziale dei pacchetti azionari in man pubblica. Anche a livello di enti locali le aziende municipalizzate che gestivano servizi pubblici locali vennero trasformate in società per azioni controllate in tutto o in parte (società miste) da uno o più azionisti pubblici. Altri enti pubblici non economici (musei, enti lirici) furono trasformati in fondazioni private.

    I processi di liberalizzazione portarono all’istituzione di autorità di regolazione (Autorità per l’energia elettrica e il gas, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità garante della concorrenza e del mercato, ecc.) indipendenti dal potere esecutivo e dotati di poteri di regolazione, di vigilanza e sanzionatori assai estesi.

    Gli anni Novanta del XX secolo videro anche affermarsi una concezione dello Stato che favorisce processi di decentramento e valorizza le autonomie territoriali e funzionali. In particolare, le Regioni e gli enti locali acquisirono nuove funzioni e spazi di autonomia statutaria, organizzativa e finanziaria e fu operata una riforma dei ministeri (in attuazione soprattutto delle cosiddette leggi Bassanini n. 59 e n. 127 del 1997). Il processo culminò con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ridisegnò l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni e delle funzioni amministrative dei vari livelli di governo (Stato, Regioni, Province e Comuni) in base al principio della sussidiarietà verticale. Quest’ultimo, come si vedrà, privilegia nell’allocazione delle funzioni per quanto possibile le unità organizzative più vicine ai cittadini destinatari delle attività e dei servizi. Un’ampia autonomia organizzativa, della quale è espressione anche la possibilità di approvare un proprio statuto, venne attribuita anche a enti pubblici quali le Università e le Camere di Commercio. Nell’ambito della riforma

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    complessiva degli apparati pubblici, il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici venne in gran parte assoggettato a un regime privatistico.

    Il processo di riforma della pubblica amministrazione sembra comunque un’operazione mai conclusa. Negli ultimi anni si registra anzi un nuovo attivismo legislativo con l’obiettivo di migliorare la funzionalità e accrescere l’efficienza del sistema amministrativo (riforma del pubblico impiego, degli enti pubblici, dei servizi pubblici locali, dell’università, semplificazione amministrativa, abrogazione di leggi inutili e riassetto normativo con l’adozione di codici e testi unici).

    2.6. Cenni conclusivi.

    Pur nella varietà dei contesti e con percorsi legati alle specificità di ciascuno Stato, lo sviluppo storico dal XIX secolo ad oggi è stato caratterizzato, schematicamente, da due tipi di fenomeni: un andamento ciclico nell’espansione e nella contrazione del campo di intervento dei pubblici poteri secondo i vari modelli dello Stato via via succedutisi; il consolidarsi degli apparati amministrativi e l’emergere, anche nei paesi di common law, di un diritto speciale per le pubbliche amministrazioni.

    Come si vedrà, il diritto amministrativo, con l’ampia gamma di strumenti sperimentati nei vari settori di intervento, cerca di risolvere un problema presente in ogni ordinamento ispirato al principio dello Stato di diritto: conciliare l’esigenza di curare i molteplici interessi della collettività (interessi pubblici) con quella di garantire al massimo grado le libertà dei singoli. Poteri amministrativi e diritti dei cittadini costituiscono due poli spesso in tensione, da far convivere trovando gli opportuni punti di mediazione e assicurando le necessarie garanzie. La dialettica autorità-libertà (M.S. GIANNINI) permea l’intera struttura del diritto amministrativo.

    3. Diritto amministrativo e scienze sociali. La scienza del diritto amministrativo.

    3.1. Premessa.

    Oggetto del diritto amministrativo è, come si è accennato, l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione e i principi che le regolano. Precondizione necessaria per ricostruire correttamente

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    gli istituti del diritto amministrativo è una conoscenza adeguata, sotto il profilo fenomenico, della pubblica amministrazione.

    Qualsiasi branca del diritto presuppone infatti una percezione esatta degli oggetti ai quali si riferisce, cioè dei fatti e degli interessi che stanno alla base delle regole da porre (de jure condendo) e successivamente da applicare e interpretare (de jure condito). La pubblica amministrazione, in particolare, è un concetto che “non si presta a essere definito, ma soltanto a essere descritto” (Ernst Forsthoff) e la descrizione di un fenomeno dipende dai diversi angoli di visuale dai quali si pone l’osservatore.

    Da qui la necessità di tener conto dei metodi e dei contributi di una pluralità di discipline non giuridiche che prendono in considerazione anche la pubblica amministrazione e gli strumenti di intervento di cui essa dispone per la cura di interessi economici e sociali della collettività.

    In questa sede è sufficiente qualche cenno ai principali settori delle scienze sociali che si occupano della pubblica amministrazione.

    3.2. La sociologia.

    La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne ed esterne agli apparati burocratici e la varietà dei bisogni e degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico. Il potere è un fenomeno sociale prima ancora che giuridico presente in ogni collettività un minimo organizzata.

    Va ricordata, in particolare, l’analisi di Max Weber dei tipi storici di potere (costruiti come modelli o idealtipi), definito come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini. Secondo il sociologo tedesco il potere si presta a essere classificato in base a tre criteri di legittimazione: il potere tradizionale fondato sul carattere sacro delle tradizioni (monarchie ereditarie); il potere carismatico fondato sulla forza eroica o sul valore esemplare di una persona (cesarismo, dispotismo); il potere razionale fondato sulla legalità di ordinamenti statuiti (Stato di diritto).

    Quest’ultimo modello si connota, in particolare, per la presenza di un’amministrazione burocratica impersonale, preposta alla cura di interessi entro limiti posti da regole giuridiche certe e caratterizzata da un’organizzazione per uffici ordinati secondo i principi di competenza e di gerarchia e da un corpo di funzionari di carriera e specializzati

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    (selezionati e promossi in base a criteri di competenza e di merito). Un siffatto modello è funzionale all’economia capitalistica fondata sul calcolo razionale: la stabilità delle regole (il principio della certezza del diritto) e la prevedibilità dell’azione dell’amministrazione costituiscono per le imprese un elemento essenziale per poter valutare la convenienza delle scelte di investimento. Secondo Max Weber, “ciò che occorre al capitalismo è un diritto che possa venir calcolato al pari di una macchina”.

    La sociologia studia anche la struttura degli apparati burocratici e del personale che in essi opera (estrazione sociale, formazione, cultura, ecc.).

    3.3. Le scienze politiche ed economiche. Fallimenti del mercato e regulation.

    Le scienze politiche analizzano il ruolo degli apparati burocratici all’interno del circuito politico rappresentativo, cioè come strumenti per la realizzazione delle politiche pubbliche decise dal Parlamento, e più in generale i rapporti tra classe politica, burocrazia e potere economico.

    Esse mettono anche in evidenza come la burocrazia non sia in realtà un attore neutrale nei processi decisionali, confinato a un ruolo di mera esecuzione degli indirizzi politici (come una sorta di “cinghia di trasmissione” tra la politica e i destinatari della regolazione e dei servizi), ma assume spesso un ruolo attivo di elaborazione e di condizionamento (e talora di freno) nelle politiche governative.

    Le scienze politiche ed economiche (queste ultime ripartite al loro interno in varie branche ed indirizzi) analizzano le situazioni nelle quali è giustificato l’intervento dei pubblici poteri sottoforma di regolazione. Soprattutto nel mondo anglosassone ha avuto impulso, con approccio interdisciplinare, la teoria della regolazione pubblica (o regulation), espressione con pluralità di significati, riferita all’intervento dei poteri pubblici in campo sociale ed economico. Essa è stata definita, per esempio, come “controllo prolungato focalizzato esercitato da un’agenzia pubblica su attività cui una comunità attribuisce una rilevanza sociale” (P. SELZNICK); oppure come “la guida con mezzi amministrativi pubblici di un’attività privata secondo una regola statuita nell’interesse pubblico” (B.M. MITNICK).

    Si distinguono generalmente due modelli di regolazione pubblica, la prima indirizzata a promuovere scopi sociali (social regulation) come, per

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    esempio, la tutela sanitaria o le provvidenze e le misure di inclusione sociale a favore delle fasce più deboli della popolazione; la seconda indirizzata a massimizzare l’efficienza economica e il benessere dei consumatori (economic regulation).

    La regolazione economica considera l’istituzione di apparati pubblici come rimedio per le situazioni di insuccesso o di “fallimento del mercato” (market failures) in relazione alle quali viene individuata una gamma di interventi correttivi consistenti in misure di tipo autoritativo (o di command and control).

    Quanto ai fallimenti del mercato, si tratta di situazioni nelle quali il mercato deregolamentato, cioè retto esclusivamente dal diritto privato (diritto dei contratti e della responsabilità civile, tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi della collettività. Si pensi per esempio ai danni da inquinamento ambientale che non potrebbero essere contrastati in modo efficace facendo affidamento soltanto sulla responsabilità civile dell’inquinatore, attesa la difficoltà, in molti casi, di individuarlo con precisione, di provare il nesso di causalità, di coordinare e aggregare le azioni di numeri spesso elevati di soggetti danneggiati. Si pensi ancora allo squilibrio non superabile con i normali strumenti negoziali tra un’impresa monopolistica in un determinato mercato e i consumatori.

    I principali casi di fallimenti del mercato che giustificano l’intervento dei poteri pubblici sono:

    a) I monopoli naturali come le infrastrutture non facilmente duplicabili (per esempio, le reti di trasporto ferroviarie, porti e aeroporti, reti di distribuzione dell’energia elettrica e del gas) che pongono chi gestisce l’attività in una situazione di “potere di mercato” che impedisce o altera lo sviluppo di un mercato concorrenziale e che consentono extraprofitti dovuti alla rendita di posizione. I rimedi più frequenti consistono nel sottoporre l’impresa monopolista (o le imprese dotate comunque di notevole forza di mercato) a una serie di vincoli, tra i quali, per esempio, il controllo dei prezzi e tariffe applicate agli utenti, oppure l’obbligo di consentire l’accesso delle proprie strutture (essential facilities) a favore di altri operatori concorrenti in base a criteri di non discriminazione.

    b) I beni pubblici, come la difesa esterna o l’ordine pubblico, dei quali beneficia l’intera collettività, inclusi coloro che non

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    sarebbero disponibili a farsi carico di una quota proporzionale di costi (cosiddetti freeriders) essendo impossibile o troppo costoso escluderli dal godimento. Il mercato non è incentivato a produrli spontaneamente nella misura adeguata e dunque da sempre gli Stati se ne sono fatti carico direttamente traendo dalla tassazione le risorse necessarie.

    c) Le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a vantaggio dell’impresa (e dei suoi azionisti), ma i cui costi gravano sull’intera collettività. Da qui l’imposizione di limiti massimi e di regimi autorizzatori per le emissioni inquinanti, la previsione di standard qualitativi minimi per gli impianti industriali; l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di violazione delle prescrizioni.

    d) Le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitative essenziali di questi ultimi, come nei rapporti tra istituzioni finanziarie o imprese quotate in borsa e piccoli risparmiatori non in grado di valutare i rischi degli investimenti proposti. A tutela di questi ultimi vengono così istituiti sistemi di vigilanza sulle imprese con l’attribuzione ad autorità di regolazione di poteri di regolazione, autorizzatori, prescrittivi, ispettivi e sanzionatori.

    e) Le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico stradale che richiedono la fissazione di standard uniformi e di regole di comportamento al cui rispetto sono preposte autorità pubbliche.

    Le misure autoritative necessarie per prevenire e correggere i fallimenti del mercato (command and control), delle quali si sono forniti sopra alcuni esempi, si prestano a essere classificate secondo il criterio che muove dalla maggiore alla minore intrusività rispetto alla dinamica del mercato: monopoli legali e concessione di diritti esclusivi, proprietà pubblica, pianificazioni settoriali, regimi autorizzatori, fissazione di standard qualitativi, misure di controllo dei prezzi, sovvenzioni, sanzioni pecuniarie e non pecuniarie, obblighi informativi, ecc.

    Il principio che dovrebbe guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi è quello secondo il quale vanno preferiti, tra gli strumenti astrattamente idonei a tutelare l’interesse pubblico, quelli meno restrittivi della libertà di impresa (come si vedrà, in base al principio di

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    proporzionalità emerso nel diritto dell’Unione europea). Per esempio, se per tutelare un certo interesse pubblico, è sufficiente obbligare chi intraprendere un’attività a comunicarlo a un’amministrazione che poi esercita un controllo ex post, va evitata l’introduzione di un regime di controllo ex ante, sotto forma di autorizzazione o licenza preventiva. In ogni caso, vanno preferiti, ove possibile, regimi di autorizzazione preventiva vincolata a quelli che lasciano all’amministrazione ampi spazi di valutazione discrezionale e che dunque attribuiscono minori certezze ai soggetti privati.

    Gli strumenti di command and control sopra esemplificati danno corpo, come si vedrà, al nucleo più caratteristico dei poteri attribuiti alle pubbliche amministrazioni e assoggettati ai principi del diritto amministrativo.

    3.4. Cenni agli indirizzi della public choice e al modello principal-agent.

    Sempre nell’ambito delle scienze economiche, va menzionato l’indirizzo della cosiddetta “public choice” affermatosi negli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso. Per spiegare il funzionamento effettivo degli apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli apparati pubblici (e i burocrati ad essi preposti) agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico (public interest theory of regulation). E’ più corretto invece considerare che anche il loro comportamento è animato, al pari degli attori privati, da “self-interest” (potere, livello retributivo, reputazione, massimizzazione delle risorse a disposizione del proprio ufficio, ecc.).

    Questo indirizzo tende a porre in evidenza, accanto alle situazioni di market failures, quelle di government failures, cioè le inefficienze strutturali e gli effetti negativi dell’azione dei pubblici poteri. E’ sempre incombente, per esempio, il rischio della “cattura” del regolatore da parte dei soggetti regolati (capture theory): gli apparati amministrativi tendono a essere influenzati nel loro agire da interessi soprattutto economici forti (le varie lobby) deviando così dalla loro missione di cura dell’interesse pubblico generale. Da qui dunque la necessità di prefigurare un disegno istituzionale atto a prevenire o, quanto meno, a limitare questo rischio.

    Dal punto di vista macroeconomico, lo Stato nelle sue varie articolazioni può essere considerato come un meccanismo di gestione e redistribuzione delle risorse alternativo al mercato. La regolazione

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    pubblica (e i suoi strumenti amministrativi), con l’imposizione ai privati di obblighi comportamentali (e oneri economici) in funzione del raggiungimento di interessi pubblici, costituisce uno strumento alternativo alla tassazione per la realizzazione di obiettivi di politica economica.

    La microeconomia elabora a sua volta una serie di strumenti concettuali utili per inquadrare il fenomeno burocratico. In particolare, la teoria del principal-agent (principale-agente o delegante-delegato) studia i meccanismi e gli incentivi per far si che l’attività dell’agente, delegato dal principale a compiere una certa attività, venga posta in essere nell’interesse di quest’ultimo e non venga piegata all’interesse egoistico dell’agente. In molti casi l’agente ha a disposizione una quantità di informazioni superiore a quella dell’agente circa le caratteristiche concrete dell’attività da svolgere (asimmetria informativa). E’ pertanto tentato di svolgere quest’ultima in modo non corrispondente agli interessi del principale, assumendo comportamenti opportunistici sui quali il principale non è in grado di esercitare un controllo efficace (il problema della cosiddetta azione nascosta o dell’“azzardo morale”). Questo tipo di analisi viene usualmente riferito alle organizzazioni private (nell’impresa i rapporti tra azionisti e manager, tra i manager e il personale) o a relazioni di tipo contrattuale.

    Anche gli apparati burocratici possono essere considerati come agenti del Parlamento che nella veste di principale attribuisce ad essi, per legge, funzioni e risorse per la cura di interessi pubblici. Spesso peraltro gli apparati burocratici perseguono fini propri (maggior potere, prestigio, ecc.), che non coincidono con la massimizzazione dell’interesse pubblico affidato alle loro cure, e rappresentano un freno al processo di riforma. All’interno dei singoli apparati pubblici, i dirigenti possono essere considerati come agenti incaricati di svolgere la propria attività in funzione degli obiettivi individuati dai loro principali, cioè i vertici politici. Gli interessi e gli incentivi dei dirigenti pubblici peraltro non coincidono necessariamente con quelli dei vertici politici: da qui la perenne tensione tra politica e amministrazione. A loro volta i vertici politici (ministri, sindaci, ecc.), scelti in base al metodo elettorale, sono in qualche misura agenti dei cittadini elettori e occorre individuare strumenti adeguati di responsabilizzazione in modo da evitare l’autoreferenzialità della classe politica. Un problema di agenzia si pone anche nei rapporti tra dirigenti, ai vari livelli, degli uffici e i loro sottoposti. Quest’ultimi potrebbero essere tentati a sollecitare o accettare compensi non dovuti o altri favori dai privati con i quali intrattengono rapporti in relazione ad atti

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    amministrativi e ad altri adempimenti (corruzione, concussione). La regolazione pubblica dovrebbe dunque individuare gli strumenti (regole, incentivi, sanzioni) per allineare gli interessi dell’agente a quelli del principale.

    3.5. La scienza dell’amministrazione.

    La scienza dell’amministrazione (Verwaltungslehre) ha una tradizione che risale al XIX secolo, in Italia (Gian Domenico Romagnosi) e in Germania (Lorenz von Stein). Essa si ricollega al filone di studi di finanza pubblica, ragionieristici e aziendalisti avviati già nel XVIII secolo, cui si è già fatto cenno, ovvero alla cameralistica e alla scienza della polizia (Polizeiwissenschaft).

    La scienza dell’amministrazione, in auge soprattutto verso la metà del secolo scorso, non ha mai assunto in realtà uno statuto ben definito all’interno delle scienze non giuridiche (sociologia, scienza politica, economia aziendale, ecc.) che studiano la pubblica amministrazione. E’ stato anzi affermato che i principi riuniti sotto il titolo di questa scienza non costituiscono “un ramo autonomo di conoscenza e vane sono le ricerche intese a determinare il contenuto unitario” (G. ZANOBINI). Si tratta in ogni caso di una scienza in declino negli ultimi decenni.

    3.6. La scienza del diritto amministrativo.

    Se, come si è visto, le discipline non giuridiche mirano a ricostruire la sostanza dei fenomeni e degli interessi, alla scienza giuridica spettano alcuni compiti specifici.

    I fenomeni infatti devono essere colti nella loro dimensione giuridica, devono cioè essere inquadrati nel contesto delle norme vigenti (diritto positivo). Spetta dunque al giurista anzitutto il compito di procedere a una ricognizione delle fonti normative che disciplinano una determinata materia. Il materiale normativo deve essere poi riordinato e organizzato in modo sistematico tramite l’elaborazione di categorie e concetti giuridici.

    Storicamente l’applicazione rigorosa del metodo giuridico al diritto amministrativo risale in Italia alla fine del XIX secolo, seguendo l’esempio tedesco (Otto Mayer che nel 1886 pubblicò la prima edizione dell’opera fondamentale Deutsches Verwaltungsrecht). Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), uomo politico e giurista curatore del primo

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    monumentale Trattato di diritto pubblico, pose le basi della scienza del diritto pubblico all’interno del quale si colloca, come si è visto, anche il diritto amministrativo. Il criterio seguito fu quello, da un lato, di espungere ogni elemento filosofico, storico e politico dall’analisi giuridica e di intraprendere un’opera non limitata alla mera esposizione ed esegesi della legislazione amministrativa (secondo la tecnica invalsa soprattutto in Francia); dall’altro, di costruire, attraverso classificazioni e successi processi di astrazione, i concetti giuridici (secondo la tecnica inaugurata nel diritto privato dalla pandettistica). L’elaborazione di Orlando e dei suoi allievi (Federico Cammeo, Oreste Ranelletti, Santi Romano, Guido Zanobini) dominò la scienza giuspubblicistica nella prima metà del secolo scorso e contribuì alla costruzione di un diritto amministrativo coerente con una concezione liberale, statalistica e con venature autoritarie dei rapporti tra Stato-cittadino.

    In questa prima fase il diritto amministrativo concentrò la propria attenzione sull’attività amministrativa. Venne posto l’accento soprattutto sulle prerogative degli apparati pubblici, attraverso l’elaborazione della teoria dell’atto amministrativo come espressione del potere unilaterale attribuito dalla legge agli apparati pubblici e di un rapporto di sovra-sotto-ordinazione tra Stato e cittadino. L’atto amministrativo venne inquadrato inizialmente entro gli schemi del negozio giuridico di derivazione privatistica.

    Con l’evolversi dei rapporti politici e sociali e con l’espandersi della legislazione amministrativa specie a partire dagli anni Trenta del corso del XX secolo, la scienza del diritto amministrativo estese la propria analisi a fenomeni emergenti come l’ordinamento del credito, gli enti pubblici e l’impresa pubblica, ecc. Si deve soprattutto a Massimo Severo Giannini (1915-2000) l’ampliamento della prospettiva, inclusa una rinnovata attenzione alle scienze non giuridiche.

    Anche la Costituzione repubblicana del 1948, aperta a nuovi valori e che dedica alcune disposizioni fondamentali all’ordinamento amministrativo, e le leggi di riforma dei decenni successivi (come, per esempio, il decentramento amministrativo attuato in concomitanza con l’istituzione delle Regioni, l’introduzione di un Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, la riforma delle autonomie locali del 1990, le leggi di riordino dell’organizzazione e delle funzioni e dei procedimenti amministrativi degli anni Novanta del secolo scorso, le liberalizzazioni e privatizzazioni attuate sul finire dello stesso secolo) indussero la dottrina a un ripensamento dell’impianto generale del diritto amministrativo.

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    Maggiore attenzione venne dedicata, per esempio, ai profili organizzativi di un’amministrazione sempre più multilivello e alle tematiche dei diritti di cittadinanza amministrativa. Emerse anche una prospettiva (il cosiddetto “diritto amministrativo paritario” elaborato da Feliciano Benvenuti verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso) tesa a operare un riequilibrio nel rapporto tra Stato e cittadino con due modalità principali: il potenziamento delle garanzie formali (soprattutto attraverso la nozione di procedimento amministrativo) e sostanziali a favore di quest’ultimo; l’impiego di nuovi moduli consensuali di regolamentazione dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione.

    Gli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall’introduzione della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo e dall’influenza del diritto europeo specie nel settore dei servizi pubblici, costituiscono idealmente una cesura tra una concezione più autoritaria del diritto amministrativo che privilegia il punto di vista dell’amministrazione e pone l’accento sui poteri unilaterali attribuiti a quest’ultima e un nuovo paradigma interpretativo che valorizza l’emancipazione della posizione del cittadino, titolare ormai di un’ampia gamma di diritti e garanzie all’interno del rapporto procedimentale, e l’assoggettamento del potere al principio di legalità inteso in senso più rigoroso (attraverso l’applicazione del parametro della proporzionalità e l’assoggettamento a oneri di giustificazione e motivazione delle scelte amministrative).

    Il diritto amministrativo resta pur sempre, nel suo nocciolo essenziale, il diritto dell’autorità del potere pubblico per la cura degli interessi della collettività, ma ha perso progressivamente, anche in seguito all’osmosi con gli ordinamenti anglosassoni (specialmente gli Stati Uniti), i connotati di un diritto autoritario. Nell’epoca presente lo Stato è ancora uno Stato a regime amministrativo, anche se esso “è sempre meno speciale e sempre più giustiziale, consensuale, cooperativo, aperto alle clausole generali del diritto comune” (B. SORDI).

    4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto.

    4.1. Il diritto costituzionale.

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    Il diritto pubblico generale include le varie discipline giuridiche che si occupano dell’ordinamento dello Stato e del complesso dei poteri pubblici.

    Ai nostri fini rileva soprattutto la distinzione tra diritto costituzionale e diritto amministrativo5. Il primo riguarda i “rami alti” dell’ordinamento (corpo elettorale, Parlamento, Governo, Corte Costituzionale, magistratura, Regioni e poteri locali, ecc.), i diritti di libertà dei privati (libertà personale, libertà religiosa, di manifestazione del pensiero, proprietà, ecc.) e le fonti del diritto. Il secondo, i “rami bassi” e cioè quel complesso poliedrico di apparati pubblici che si è sviluppato soprattutto nel corso del XX secolo, ciascuno dei quali dotato di una gamma più o meno ampia di poteri.

    Il primo trova fondamento e una disciplina positiva nelle Costituzioni scritte e affonda le sue radici nella teoria contrattualistica dello Stato elaborata dai filosofi politici dei secoli XVII e XVIII secolo (John Locke, Jean Jacques Rousseau) e nella progressiva considerazione delle Costituzioni non soltanto come un patto politico tra il sovrano e il popolo, ma anche come la fonte suprema dell’ordinamento giuridico6.

    Il secondo è regolato in prevalenza da fonti normative sub-costituzionali (leggi, regolamenti, statuti, ecc.) e dai principi di derivazione giurisprudenziale.

    Sussiste tuttavia un nesso stretto tra diritto costituzionale e diritto amministrativo.

    Secondo un primo punto di vista, infatti, il diritto amministrativo, per riprendere l’espressione di Fritz Werner, presidente della Corte amministrativa federale tedesca verso la seconda metà del secolo scorso, non è altro che il diritto costituzionale reso concreto (“Verwaltungsrecht als konkretisiertes Verfassungsrecht”), cioè colto nella sua effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell’ordinamento.

    Così, per esempio, il grado di tutela dei diritti di libertà e dei diritti sociali iscritti nella Costituzione vigente si misura non solo e non tanto

    5 Droit administratif è un’espressione emersa in Francia in epoca napoleonica e il primo trattato dedicato a questo ramo del diritto risale al 1814 ed è opera di Gian Domenico Romagnosi. 6 A partire dal celeberrimo caso Marbury vs. Madison deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1801, le norme contenute nella Costituzione degli Stati Uniti del 1776 divennero parametro giuridico per operare un sindacato di legittimità delle leggi. In epoca più recente l’istituzione delle Corti Costituzionali in molti paesi europei (in Italia con la Costituzione del 1948) ha contribuito a rafforzare l’autonomia del diritto costituzionale.

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    dalla Costituzione, quanto piuttosto dalle leggi amministrative che attuano il disegno costituzionale e dalla concreta applicazione che esse ricevono ad opera principalmente degli apparati amministrativi. Il diritto alla salute, definito dall’art. 32 come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, trova poi svolgimento e attuazione pratica nella legislazione istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e più in generale nella legislazione sanitaria. In modo ancor più tangibile, il livello delle prestazioni garantite dipende anche dalle risorse finanziarie messe a disposizione direttamente o indirettamente in una determinata fase storica (a questo riguardo si è parlato anche di “diritti finanziariamente condizionati”).

    Del pari, il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione sancito dall’art. 21 della Costituzione è condizionato dalla legislazione amministrativa sul sistema radio-televisivo e sulla stampa che, come più volte stigmatizzato dalla Corte Costituzionale, non ha garantito un sufficiente grado di pluralismo.

    Ancora, la libertà di iniziativa economica privata (art. 41, comma 1, della Costituzione) è in molti casi subordinata al conseguimento di concessioni o di altri titoli abilitativi discrezionali rilasciati da autorità amministrative e ad altre limitazioni previste dalle leggi di settore. Solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha trovato una più completa attuazione in molti settori (telecomunicazioni, energia elettrica e gas, ecc.) per effetto del recepimento di direttive comunitarie di liberalizzazione con l’apertura dei mercati alla concorrenza.

    L’effettività della tutela giurisdizionale garantita in astratto dall’art. 24 della Costituzione è condizionata da carenze organizzative degli apparati giudiziari (limitatezza delle risorse disponibili, vuoti di organico, inefficienza nell’organizzazione) che non consentono la conclusione dei processi in tempi ragionevolmente contenuti (giustizia ritardata equivale, come si dice, a giustizia negata).

    In linea generale, il corpo delle leggi amministrative, che nel loro impianto essenziale risalgono in molti casi ad epoche ormai lontane, è rimasto per lungo tempo poco in linea con la Costituzione vigente. La Corte Costituzionale ha provveduto, specie nei primi anni della propria attività, a dichiarare incostituzionali disposizioni contenute nelle leggi amministrative di settore. Ciò è accaduto in particolare per le disposizioni di matrice illiberale contenute nel testo unico delle leggi di pubblica di sicurezza del 1931.

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    Un secondo nesso tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall’affermazione di uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo Novecento (Otto Mayer) secondo il quale “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta” (Verfassungsrecht vergeht, Verwaltungsrecht besteht” 7). Essa mette in luce il disallineamento sotto il profilo temporale dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme amministrative.

    Proprio perché incidono solo sui “rami alti” dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche in modo repentino in seguito a moti rivoluzionari, sconfitte militari e, più in generale, rotture della Costituzione. In Francia, dalla Rivoluzione del 1789 ad oggi, si sono susseguite numerose Costituzioni talune rimaste in vigore per pochi anni. Molti testi costituzionali hanno richiesto tempi di redazione assai brevi. La legge fondamentale tedesca del 1948 (Grundgesetz) venne predisposta nel secondo dopoguerra da una commissione di esperti in poche settimane. Il processo costituente che sfociò nella Costituzione italiana del 1948 durò circa due anni.

    Le riforme amministrative, al contrario, mirano a modificare l’organizzazione e il modo di operare di apparati burocratici caratterizzati da strutture, personale, prassi operative e cultura istituzionale formatesi lentamente, spesso per stratificazioni successive, e strutturalmente poco permeabili al cambiamento.

    In Italia, le strutture amministrative fondamentali dello Stato sopravvissero con pochi aggiustamenti a cambiamenti di regime politico e costituzionale, come nel passaggio dallo Stato liberale al regime autoritario del ventennio fascista. Frequenti furono all’epoca le lamentele secondo le quali la burocrazia costituiva un ostacolo alla realizzazione delle politiche perseguite dal nuovo regime. Allo stesso modo, l’adeguamento dell’organizzazione amministrativa al disegno della Costituzione del 1948, improntato ai valori del decentramento e dell’autonomia richiese decenni. Anche l’istituzione delle Regioni nel 1970 e il trasferimento di funzioni amministrative, personale, strutture e risorse finanziarie (anche tramite tributi propri) fu un processo lungo e tormentato e che forse non si è ancora concluso. Il riconoscimento di una

    7 L’espressione è contenuta nella premessa alla III edizione del Deutsches Verwaltungsrecht

    pubblicata nel 1924 dopo il tracollo dell’ordinamento statuale emerso nel 1870 e l’approvazione della Costituzione di Weimar del 1919, la prima Costituzione contemporanea che supera il modello dello Stato liberale ottocentesco.

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    maggior autonomia agli enti locali avvenne solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

    La piena applicazione da parte della pubblica amministrazione di leggi di riforma fondamentali come la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che, come si è già accennato, esprime un nuovo modello di rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione in base a principi di efficienza, trasparenza, partecipazione, coordinamento tra uffici e ricerca del consenso con i destinatari, è ancor oggi lungi da essere completata.

    4.2. Il diritto europeo.

    In generale il diritto pubblico è un diritto intimamente connesso con la struttura politica propria di ciascun ordinamento e regola istituti direttamente collegati alla sovranità dello Stato. Esso costituisce cioè la branca del diritto che risente maggiormente della storia, della cultura e delle tradizioni nazionali e che è dunque più resistente a innesti e trapianti di istituti in vigore in altri ordinamenti. L’adozione di testi costituzionali che ricalcano Costituzioni in vigore in altri Stati spesso produce esiti concreti talora assai diversi rispetto a quelli attesi.

    Anche il processo di integrazione degli ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione europea sconta questa maggior resistenza del diritto pubblico a influenze esterne e a spinte armonizzatrici.

    Il diritto amministrativo italiano ha acquisito peraltro, anche per scelta consapevole del legislatore nazionale, una dimensione europea sotto quattro profili principali: l’attività, la legislazione amministrativa, l’organizzazione, la tutela giurisdizionale.

    In primo luogo, l’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell’attività amministrativa (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità) anche “i principi generali dell’ordinamento comunitario”.

    Questi ultimi sono ricavabili sia dai Trattati e dalle altre fonti del diritto europeo, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (proporzionalità, tutela del legittimo affidamento, ecc.). L’art. 5 del Trattato sull’Unione europea enuncia, per esempio, come criteri per l’allocazione delle funzioni tra l’Unione e gli Stati membri (e dei livelli di governo interni agli Stati), il principio di sussidiarietà. Enuncia anche il principio di proporzionalità che costituisce

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    un principio rivolto sia al legislatore nazionale sia all’amministrazione allorché esercita poteri discrezionali.

    La pubblica amministrazione è menzionata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ora incorporata come protocollo allegato al Trattato di Lisbona e avente valore giuridico equiparato a quello del Trattato. L’art. 41, rubricato “Diritto ad una buona amministrazione”, garantisce infatti a ogni individuo nei rapporti con le istituzioni europee il diritto di essere trattato in modo imparziale ed equo, di essere ascoltato prima che venga adottato nei suoi confronti un provvedimento che gli rechi pregiudizio, di accedere ai documenti del fascicolo che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata adottata entro un termine ragionevole. Stabilisce inoltre che ogni persona ha diritto al risarcimento da parte dell’Unione europea dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 42 garantisce inoltre il diritto di accesso ai documenti delle istituzioni dell’Unione.

    In secondo luogo, l’art. 117, comma 1, della Costituzione stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.

    Questo vincolo condiziona sempre di più la legislazione amministrativa settoriale nazionale che in molte materie è ormai niente altro che la trasposizione, con gli adattamenti e le integrazioni necessarie, delle direttive comunitarie.

    Per esempio, il Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che disciplina le procedure per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, forniture e servizi, recepisce due direttive comunitarie che pongono già una regolamentazione completa. In materia di tutela dell’ambiente la legislazione nazionale si è sviluppata fin dall’inizio negli anni Ottanta del secolo scorso con una forte impronta comunitaria. Allo stesso modo, la legislazione nei settori delle comunicazioni elettroniche o dell’energia elettrica e gas e in generale il diritto pubblico dell’economia sono regolati anzitutto da fonti europee.

    Nella materia antitrust, la legge 10 ottobre 1990, n. 287, che ha istituito l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e ha posto una disciplina organica a tutela della concorrenza, prevede che l’interpretazione delle norme contenute nel Titolo I della legge sia

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    effettuata “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza” (art. 1, comma 4).

    Un condizionamento nei confronti del legislatore nazionale deriva anche dalla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in tema di libera circolazione dei servizi. La direttiva, recepita nell’ordinamento italiano ad opera del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pone, come si vedrà, una serie di prescrizioni sui regimi autorizzatori, allo scopo di evitare che essi costituiscano ostacoli tali da limitare la libera circolazione dei servizi a livello comunitario. Così, per esempio, il rilascio delle autorizzazioni deve essere subordinato, di regola, al possesso di requisiti vincolati (non discriminatori, oggettivi, resi pubblici preventivamente, ecc.) evitando di attribuire all’autorità amministrativa spazi di valutazione discrezionale (art. 10). La durata della autorizzazioni è di norma illimitata (art. 11). Nel caso in cui il numero delle autorizzazioni rilasciabili debba essere contingentato a causa della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, occorre prevedere una procedura selettiva competitiva trasparente alla quale sia data un’adeguata pubblicità e che presenti garanzie di imparzialità (art. 12). Ogni procedimento autorizzatorio deve concludersi entro un termine ragionevole prestabilito e reso pub