Appunti di viaggio Lungo il Mekong gennaio 2007 · Appunti di viaggio e riflessioni “Lungo il...

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Appunti di viaggio e riflessioni “Lungo il Mekong gennaio 2007 Gruppo Loredana Boscarato”. di Teresa De Monte Siamo partiti da Trieste, Giovanni Andrea e io, Teresa, giovedì 05 gennaio 2007. A Roma, dopo aver incontrato il gruppo capitanato da Loredana Boscarato, senza ritardi, senza perdere i nostri bagagli, siamo giunti ad Amman. Una attesa di 7 ore in aeroporto ci ha subito messi alla prova. L’unica cosa sensata era dormire, ma dove? Distesi sulle seggioline, scomodissime, di plastica dell’area attesa e transiti. Finalmente viene annunciato il volo per Bangkok e tutto ciò che era brutto, fastidioso, doloroso, insicuro sparisce. La frenesia del volo, la voglia di giungere a Bangkok sembra voglia spingere il volo a essere più veloce, a durare meno delle ore previste e così, in un baleno per me, si giunge a Bangkok. Strano, moderno, ampi spazi sprecati…ma gli aeroporti sono così, l’impatto è di rigore per chi giunge da fuori! L’attesa per il volo verso Siem Rep richiede alcune ore, quindi che si fa? Si gira negli stores, si ammira l’architettura della volta dell’aeroporto moderna e ardita, si guarda a volte con indifferenza certi sprechi, l’ostentamento del superfluo e del lusso, alcune cose ci piacciono e ci ripromettiamo di acquistarle al ritorno, tra 3 settimane… A Siem Rep giungiamo che è notte, sbrigate le formalità di rito siamo sulle macchine che ci portano nel primo posto di pernottamento. Il 07 gennaio 2007 ha inizio il viaggio nei luoghi dove da 5 anni speravo di arrivare, ma che per diversi motivi vedevo allontanarsi anno dopo anno la meta, eppure… io che insegno Teosofia, che ho studiato sui libri della Blavatski, di Marilla Albanese, che da anni seguo la dottrina Buddista Mahaiana, lettrice di Renè Guenon…dovevo arrivare qui, in questo luogo che sento speciale e da sempre conosciuto: Angkor Wat. Il sito degli alberi, delle radici e dei templi, dei…Naga… dunque qui ritrovo i miei amici!, quante cose ho studiato e scoperto dei Serpenti Uomini, delle loro città, delle loro ricchezze. Scendendo dal pulmino abbiamo le macchine fotografiche pronte a immortalare tutto e vorremmo che non ci fosse nessuno innanzi a noi, vorremmo che gli altri gruppi di visitatori non ci fossero e sopra tutto non si piazzassero innanzi ai nostri obiettivi. Mio Dio come siamo impazienti e irascibili!, questi luoghi sono di tutti noi e prima di tutto dei cambogiani. Camminiamo nella sabbia impalpabile che avvolge i siti che stiamo visitando, i monaci colorati di arancione avanzano a gruppi come custodi del tempo e dei luoghi. Sono ovunque e ovunque sono i musici che, per stare seduti a suonare i loro strumenti, si sono staccati e hanno depositato accanto a loro le gambe o altre parti dei corpi mancanti ora fatte di legno. Questo è un paese ove la bonifica delle mine antiuomo e delle trappole non è stata ancora completata, per cui i cartelli che vietano di andare oltre il percorso segnato è il monito a dover rispettare il divieto. Mi stupisce il modo di viaggiare lento delle macchine, stupisce la pulizia, l’ordine, la mancanza dei rumori assordanti, del chiasso tipico del quotidiano vivere nelle nostre città e paesi. Nei siti, sia all’ingresso che dentro, vi sono ambulanti che stazionano con la loro mercanzia, ma non c’è l’insistenza vista e provata in altri paesi, non c’è il vociare per decantare la propria merce. Qui tutto viene venduto a 1 dollaro. I migliori mercanti sono i bambini: chi non si sofferma a guardarli con tenerezza, a porli in paragone con i nostri bambini? Quegli occhi neri grandi e scintillanti come due nocciole colpiscono e vanno diritti al cuore, come non comperare i 6 braccialettini di paglia intrecciata per solo 1 dollaro, meno di 1 euro? Questo è il primo giorno, una commozione e una esplosione di gioia che nasce dentro di noi ci commuove pur non versando una lacrima, una “bontà disumana” ci pervade, generata dal misticismo del posto e dalla musica dei mutilati dalle bombe dei kmer che accompagna la nostra visita. Lunedì 08-01-07 Alle 5 del mattino si parte per attendere l’alba innanzi ad Angkor Wat.

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Appunti di viaggio e riflessioni “Lungo il Mekong gennaio 2007 Gruppo Loredana Boscarato”.diTeresa De Monte

Siamo partiti da Trieste, Giovanni Andrea e io, Teresa, giovedì 05 gennaio 2007. A Roma, dopo aver incontrato il gruppo capitanato da Loredana Boscarato, senza ritardi, senza perdere i nostri bagagli, siamo giunti ad Amman. Una attesa di 7 ore in aeroporto ci ha subito messi alla prova. L’unica cosa sensata era dormire, ma dove? Distesi sulle seggioline, scomodissime, di plastica dell’area attesa e transiti. Finalmente viene annunciato il volo per Bangkok e tutto ciò che era brutto, fastidioso, doloroso, insicuro sparisce. La frenesia del volo, la voglia di giungere a Bangkok sembra voglia spingere il volo a essere più veloce, a durare meno delle ore previste e così, in un baleno per me, si giunge a Bangkok. Strano, moderno, ampi spazi sprecati…ma gli aeroporti sono così, l’impatto è di rigore per chi giunge da fuori! L’attesa per il volo verso Siem Rep richiede alcune ore, quindi che si fa? Si gira negli stores, si ammira l’architettura della volta dell’aeroporto moderna e ardita, si guarda a volte con indifferenza certi sprechi, l’ostentamento del superfluo e del lusso, alcune cose ci piacciono e ci ripromettiamo di acquistarle al ritorno, tra 3 settimane… A Siem Rep giungiamo che è notte, sbrigate le formalità di rito siamo sulle macchine che ci portano nel primo posto di pernottamento. Il 07 gennaio 2007 ha inizio il viaggio nei luoghi dove da 5 anni speravo di arrivare, ma che per diversi motivi vedevo allontanarsi anno dopo anno la meta, eppure… io che insegno Teosofia, che ho studiato sui libri della Blavatski, di Marilla Albanese, che da anni seguo la dottrina Buddista Mahaiana, lettrice di Renè Guenon…dovevo arrivare qui, in questo luogo che sento speciale e da sempre conosciuto: Angkor Wat. Il sito degli alberi, delle radici e dei templi, dei…Naga… dunque qui ritrovo i miei amici!, quante cose ho studiato e scoperto dei Serpenti Uomini, delle loro città, delle loro ricchezze. Scendendo dal pulmino abbiamo le macchine fotografiche pronte a immortalare tutto e vorremmo che non ci fosse nessuno innanzi a noi, vorremmo che gli altri gruppi di visitatori non ci fossero e sopra tutto non si piazzassero innanzi ai nostri obiettivi. Mio Dio come siamo impazienti e irascibili!, questi luoghi sono di tutti noi e prima di tutto dei cambogiani.Camminiamo nella sabbia impalpabile che avvolge i siti che stiamo visitando, i monaci colorati di arancione avanzano a gruppi come custodi del tempo e dei luoghi. Sono ovunque e ovunque sono i musici che, per stare seduti a suonare i loro strumenti, si sono staccati e hanno depositato accanto a loro le gambe o altre parti dei corpi mancanti ora fatte di legno. Questo è un paese ove la bonifica delle mine antiuomo e delle trappole non è stata ancora completata, per cui i cartelli che vietano di andare oltre il percorso segnato è il monito a dover rispettare il divieto. Mi stupisce il modo di viaggiare lento delle macchine, stupisce la pulizia, l’ordine, la mancanza dei rumori assordanti, del chiasso tipico del quotidiano vivere nelle nostre città e paesi.Nei siti, sia all’ingresso che dentro, vi sono ambulanti che stazionano con la loro mercanzia, ma non c’è l’insistenza vista e provata in altri paesi, non c’è il vociare per decantare la propria merce. Qui tutto viene venduto a 1 dollaro. I migliori mercanti sono i bambini: chi non si sofferma a guardarli con tenerezza, a porli in paragone con i nostri bambini? Quegli occhi neri grandi e scintillanti come due nocciole colpiscono e vanno diritti al cuore, come non comperare i 6 braccialettini di paglia intrecciata per solo 1 dollaro, meno di 1 euro? Questo è il primo giorno, una commozione e una esplosione di gioia che nasce dentro di noi ci commuove pur non versando una lacrima, una “bontà disumana” ci pervade, generata dal misticismo del posto e dalla musica dei mutilati dalle bombe dei kmer che accompagna la nostra visita.

Lunedì 08-01-07Alle 5 del mattino si parte per attendere l’alba innanzi ad Angkor Wat.

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Se pensate di essere soli o in pochi vi sbagliate, è come se tutta una città si fosse riversata sui prati antistanti Angkor Wat, la maggior parte a sinistra, poiché innanzi al tempio c’è un lago con una miriade di fior di loto che si schiudono con il sopraggiungere della luce dl giorno. Un brusio delicato e sommesso, come non si volesse risvegliare l’aurora, aleggia tutto attorno. Tutti parlano sotto voce, come se il momento magico non possa essere disturbato. Ecco, arriva, piano piano da dietro le tre più alte costruzioni simili a torri con il pennacchio, avanza con lentezza, forse ancora assonnata, l’aurora fa fatica a nascere, il cielo oggi non è limpido, è imbronciato e le nuvole non vogliono darle spazio. Così i suoi raggi, i suoi colori di fiamma non si stagliano come a incendiare il tempio, solo lo lambiscono, ma lo rivestono di un colore prima violetto, poi via via lilla, rosa e color amaranto mischiati col bianco delle nuvole e il blu del cielo, così che la celeste volta e tutto sembrano un pizzo di Bruges… e per me, questo cielo imbronciato e brumoso è più bello del colore ricordo monocromo stampato sulle cartoline in vendita all’ingresso del sito. Che potenza è e ha la natura, e pensare che l’Uomo la vuole soggiogare e distruggere!E rimango lì seduta innanzi a quella magia ad ascoltare, a guardare, a cercare risposte. Ora posso toccare con mano tutto questo e non mi capacito di come il mio desiderio si sia esaudito. Poi girando meticolosamente tra i perimetri esterni ed interni della mia Angkor Wat riesumo dalla mente tutto quello che avevo appreso dalle letture dei miei libri, la storia, la scienza, la religione, le teorie di Teosofia… questo è un luogo speciale, ha una energia altrettanto speciale e chi l’ha percepita sa che cosa voglio dire. Le pareti, riccamente scolpite, raccontano la storia e hanno occhi per vedere e orecchie per sentire noi nuovi mortali. Ci sono porte che si aprono innanzi a noi e chi è in grado di captare questo vede ben oltre, l’aria che spira e si convoglia tra gli anfratti della pietra, le colonne non tonde del porticato esterno, le finestre merlettate con colonne tornite a tutto tondo all’interno parlano di questo. A un certo punto, raggiunto il cortile più interno non puoi non sederti ed ammirare ciò che ti si para innanzi alla tua vista. Se riesci ad estraniarti dal mondo attuale, se riesci a meditare, ogni pietra ti racconta la sua storia, ti riporta le preghiere di uomini pii, riesci a vedere le scene di una cerimonia sacra, di splendori inimmaginabili, di saggezza umana, odi le dissertazioni di stelle e della volta celeste, di Orione, fino a giungere alle strazianti preghiere, ai lamenti, al pianto, al dolore fisico e spirituale di chi è stato portato via dall’orrore e dalla follia umana. Lui, Angkor Wat, è rimasto immutato nel corso del tempo, degli eoni, a raccogliere tutto dell’Uomo per riproporlo e non a caso nessun attacco militare dell’antichità, nessuna bomba di ieri, lanciati su questo luogo sono riusciti a distruggerlo, ne tanto meno a scalfirlo.La sua struttura è la perfezione della geometria, è la grandiosità della mente di uomini lungimiranti e saggi, è l’espressione della religiosità dell’Uomo nel Mondo. I Naga che accompagnano noi visitatori dall’ingresso come bordura dell’acqua che circonda Angkor Wat ha un suo significato che va compreso e conosciuto. Solo così noi occidentali possiamo cogliere il vero significato di questi luoghi e della loro sacralità. Naga.I Nâga sono genî-serpenti dal grande cappuccio con una o più teste; a volte semplici genî del luogo che si vedono raffigurati nei villaggi su piccole lastre di pietra scolpite, altre volte con ruoli più importanti sia nel bene come nel male, visto che alcuni di essi sono malvagi ed altri buoni. Accompagnano percorsi sacri, si ritrovano a difendere gli ingressi di templi e città. Poiché, come i comuni serpenti di cui sono i leggendari progenitori, periodicamente mutano pelle, sono simbolo generico di rinascita.Generati dal rishi Kashyapa e da Kadru abitano il mondo sotterraneo e subacqueo di Pâtâla, la cui splendida e preziosa capitale Bhogavati (città dei piaceri) è costruita con pietre preziose di impareggiabile bellezza e ricchezza.I Naga, assieme alle nasini, sono i custodi delle ricchezze sotterranee e sottomarine, e, poiché sono in grado di assumere forma umana, vengono a volte considerati detentori di insegnamenti segreti ed iniziatori di sette più o meno occulte, ed anche capostipiti di dinastie regali. Le femmine naga, dette nâginî, sono di impareggiabile bellezza, alcune sono così belle e piene di irresistibile fascino che non si dice abbiano avuto rapporti con esseri umani. Lasciato Angkor Wat , a malincuore, ci dirigiamo verso Preah Khan.

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È un susseguirsi di porte che si aprono una dietro l’altra lungo un rettilineo di cui non vedi la fine.Le cui porte ora grandi, ora piccole, si aprono sui suoi lati a delle piccole sale, a dei cortili in decadente abbandono…ma quando meno te lo aspetti innanzi a un lingam un lume è acceso in compagnia di una ghirlanda di fiori freschi e di una miriade di bastoncini di incenso, segno che la vita c’è e tutto è come prima. Ci siamo chiesti perché tutto questo non viene recuperato. Forse è la natura del luogo che vuole così. Ci perdiamo in una passeggiata tranquilla in mezzo al verde mentre da lontano giunge ai nostri orecchi la musica suonata dai musici mutilati. È un piacere ammirare questi alberi che svettano altissimi verso il cielo, la maggior parte di loro sono antichi e con le loro radici hanno ripreso e stanno riprendendo tutto ciò che l’uomo aveva preso a loro. Le radici che attanagliano i muri dei templi, gli enormi massi squadrati sapientemente messi uno sull’ altro, che avrebbero dovuto rimanere integri nel tempo, quale segno del potere dell’uomo sono stati smembrati e ora sono prigionieri di queste possenti radici che come lunghe dita di mani, corpulente, aperte sulle pietre vogliono proteggere la pietra che è loro proprietà. L’uomo con la sua fantasia ha provato a riappropriarsi di questa natura creando Tomb Raider, ma è solo finzione, alberi e radici sono lì veri e vitali e lì rimarranno anche quando Tomb Raider sarà superato da altri video giochi e film. La natura vince sempre!

Martedì 09-01-07La sveglia è alle 4,45. Si parte verso Pnom Pen, via acqua.Il pulmino per portarci all’imbarcadero passa attraverso il villaggio vietnamita, il profumo del pesce messo a seccare all’aria è forte, il paesaggio decisamente diverso da quello visto giorni prima. L’imbarcadero è un qualche cosa che sta tra l’attracco di un canale del WWF nelle valli lacustri di un qualsiasi sito naturalistico e il tentativo di voler far apparire il posto un porticciolo. Il mezzo di trasporto, ovvero il barcone, è grande. Preferiamo lasciare i bagagli sottocoperta e noi tutti prendere posto sul tetto, che si rivelerà, per le 5 ore di viaggio, non comodo, sottoposto all’azione dispettosa del vento e degli schizzi di acqua, ma ne vale la pena. Dall’imbarcadero, insinuato in mezzo a dei canali abbelliti da una rigogliosa vegetazione, dopo aver lasciato sfilare innanzi a noi un dispensario sanitario migrante, con il simbolo della Croce Rossa in bella vista, il nostro barcone stracarico di persone prende il via, salutato dalle mani e dalle braccia di uomini, donne, bambini che navigano sulle piatte, piccole, stracolme di ogni genere di cose, barchette che come formiche vanno e vengono passando accanto a noi. La riva e il profilo della terra ferma si allontana sempre più, dopo poco siamo in acque aperte, non posso dire mare, perché questo è un lago, ma così grande e così vasto che non riesco a vedere né l’inizio, ne la fine. La distesa d’acqua dolce è enorme, lontano, tutta sola e isolata vediamo una barca che pesca. Questa è stata la sola barca avvistata da noi tutti durante il viaggio verso Pnom Pen. Credo che questo lago custodisca molti segreti e volendo molte storie da raccontare. A un certo punto del percorso molte delle persone che stanno sopra come noi scendono sotto, l’aria, il vento, gli schizzi d’acqua sono violenti. Sono le 9 del mattino, il sole è alto in cielo e tutto va bene.Ore 9,50 ci viene incontro una isola grande e tante imbarcazioni, la gente è intenta a pescare, qui, come da altre parti, pescano stando sulla prua. Le case sono costruite su palafitte di legno, una accanto all’altra, qualcuna è in mattoni e colorata di giallo e ocra. Lontano,ma molto lontano il profilo di una lunga catena di monti ci avvisa che la terra ferma è vicina. Questo viaggio via acqua ha regalato piacevoli visioni, dolori al fondoschiena, colpi d’aria alla cervicale e ustioni. I bagagli sono gettati alla marinara sulla terra ferma che è nettamente più alta del tetto del barcone.Arriviamo in albergo e subito si decide di girare per la città: il mercato è la nostra meta. Ci siamo divisi, ciascuno di noi ha le proprie idee, le proprie esigenze, i suggerimenti dati da chi è stato qui prima di noi. Il mercato è veramente grande, le cose da acquistare tante, anzi tutto, ma la cosa più bella è contrattare il prezzo. Questa è una vera e propria arte, sembra quasi un atto dovuto. Qui puoi trovare perle bianche, rosè, nere di diversa grandezza e di vario prezzo, aro e argento, scorpioni in formalina nelle bottiglie vuote di cognac o di pregiato bourbon, frutta, verdura, sanguinacci,

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macellerie gestite da sole donne che impavide si cimentano nell’arte di tagliare, preparare, sgusciare i pezzi di carne, pesci e specie di anguille che disperatamente si dimenano nelle bacinelle di acqua corrente in attesa di essere acquistati.. Un tripudio di colori, di suoni, di odori… qui tutti acquistano di tutto e tanto e probabilmente per questo non sono riuscita a comperare nulla. Il rientro per la cena ci riconduce in albergo. Si decide per un ristorantino no profit, dove si mangia molto bene. Il piatto, che consiglio di gustare, è kmer: Amok and Rice.

Mercoledì 10-01-07Fosse Comuni di Choeung EK

Ci si alza presto, come del resto tutti i giorni trascorsi e a venire…Alle 7 si è sul tuc tuc per andare sul sito che dista 17 kilometri dalla capitale, immerso nella campagna e fuori dalla vita frenetica di ogni giorno. Tutto sempre tranquillo, di una serenità speciale, e il posto dove noi dobbiamo entrare è come avvolto in una invisibile coltre ovattata che lo isola dal mondo, come a proteggerlo.Si respira un’aria di dolore e di liberazione assieme. Una delicata brezza smuove le foglie degli alberi che sorgono a caso, simboli e protettori da lato e dentro le buche che bucherellano il terreno. Alcune galline con i pulcini gironzolano a lato del prato. Camminando in quel posto sto per dire che potrebbero tenere più pulito il luogo, senza lasciare stracci sparsi un po’ ovunque, poi scopro che quegli stracci sono i resti degli abiti repertati dalle fosse comuni. Tengo chino il capo e gli occhi, i miei, i nostri piedi camminano su ossa umane,, provo a spostarmi, ma è lo stesso, forse peggio. In una nicchia a casetta collocata su un albero vi sono delle ossa, dei denti, alcune pallottole capaci di uccidere un elefante…di fronte c’è un albero grande, ha rami possenti che si aprono a sostenere una chioma a ombrello, è l’albero da cui veniva emanata musica per coprire le urla di dolore, di disperazione, le raffiche… di fronte un altro albero con un tronco corpulento su cui venivano sbattuti i corpi dei bimbi innanzi alle proprie madri… è un luogo questo si sofferenza immane, e hai la percezione di sentire i lamenti e il vagare senza pace di molte anime… Parliamo piano, come a voler non turbare la quiete, si fanno numerose soste, come a voler portare conforto e la testimonianza del nostro dolore… Oltre la recinzione score il fiume imperterrito, il “panta rei” dei greci è qui presente, e se da un lato il fiume continua a scorrere senza aver portato via nella sua furia monsonica la prova del misfatto, dall’altra parte una serie di verdi risaie simboleggia il significato della vita e della rinascita. Ho raccolto dei sassolini di selce e li ho messi in un posto speciale a casa mia, accanto ai ricordi delle mie missioni umanitarie in paesi di sofferenza: per non dimenticare, mai.

Rientriamo in città, il nostro tuc tuc si rompe e giungiamo al posto convenuto per l’appuntamento con una buona ora di ritardo. Ci attende la visita del Museo di Pnom Pen. Il museo è interessante, ma non sconvolgente, le opere sono disposte bene così che si possono ammirare senza problemi. Il museo visto dall’esterno è una bella costruzione a pagoda con angoli che vale la pena fotografare, in particolare i caratteristici tetto e grondaie. Questa era la stalla del palazzo reale, qui furono riposte diverse statue e “pezzi di valore artistico”, ma quando i Kmer rossi si impadronirono del palazzo e della stalla, lasciarono tutto questo nella più totale incuria e talmente andare a male che il luogo si popolò di pipistrelli di una razza particolare, che, oramai padroni del posto, nel corso degli anni, hanno imbrattato con una coltre abbondante di guano (escrementi) ogni cosa in essa contenuta. Se da una parte le statue e altro materiale si è così salvato, dall’altra c’è voluto un lavoro di pulizia e di ripristino non indifferente per ridare bellezza alle antichità. Tutto il lavoro di pulizia e di contenimento dei pipistrelli, che ancora oggi sono gli indomiti padroni della costruzione perchè non si sono potuti eliminare completamente, è merito degli australiani. Mi e ci dispiace che non sia possibile fare le foto.

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Non distante dal Museo c’è l’unica collina di Pnom Pen e lo stupa di Wat Phon. Facilissima e piacevole l’ascesa immersa tra gli alberi, si incontrano molte gabbie di uccelli che se fai l’offerta vengono liberati, ma furbescamente addomesticati ritornano spontaneamente in gabbia. Lo stupa contiene almeno 1000 Buddha di differenti dimensioni e fogge. Essi non sono dissimili da quelli che incontri in Nepal e nel nord dell’India. La storia del luogo e dello stupa è singolare: una certa signora Phom ritrovò nelle acque del fiume Mekong la statua del Buddha che ora è qui custodito assieme alla statua della sua salvatrice come ricordo dell’evento…

Sono le 2 p.m. e ci avviamo verso il Palazzo Reale che ha l’ingresso di fronte al Mekong e innanzi a una grande piazza dove, allineate una dopo l’altra, sventolano le bandiere di tutto il mondo. Se si vuole fare la foto oltre l’ingresso bisogna pagare 2 dollari, c’è che si arma di macchina compatta e, pur senza versare l’obolo, fotografa come e quando vuole. Oltrepassata la sbarra d’ingresso ci si immette nel giardino che è ordinatissimo, oserei dire perfetto, bello e vario per colori e piante. Prima di giungere alla sala del trono si incontrano alcune pagode dorate e colorate di rosso, che sono chiuse e non visitabili. Salendo la scalinata per la sala del trono la guida fa notare che la scalinata è di marmo rosso italiano. Giunti in cima è d’obbligo togliersi le scarpe, si entra scalzi. Varcata la soglia si è come proiettati a far cadere lo sguardo su quello che è più prezioso. Ma qui tutto è bello: il pavimento è in ceramica antica e quasi completamente ricoperto con tappeti color bordeaux, il soffitto è decorato con delicatezza e gusto, alcune finestre lasciano entrare una luce soffusa che rende ancora più affascinante il luogo, e là, in fondo all’ampia sala rettangolare e profonda, appare in tutta la sua magnificenza il trono, tutto oro e gemme preziose che risalta per la sua pesante bellezza. A destra e a sinistra la pagoda del trono vi sono altre pagode, uscendo dalla sala se ti affacci alla balaustra di sinistra puoi scorgere sul fondo una bella costruzione quasi sommersa dalla vegetazione, è la residenza del Re. Nel giardino cortile c’è il pennone per la bandiera, quando il Re è “in casa” sventola la bandiera blu, e oggi, 10-01-2007, il Re è in casa.Scesa la scalinata e guardi a destra verso il fondo dell’ampio cortile ammiri una costruzione tipicamente occidentale, tutta in ferro: è il dono della regina Eugenia in occasione della costruzione del canale di Suez. A destra di questa casetta in stile coloniale occidentale c’è una pagoda che raccoglie ciotole e scatole in argento e lacche, abiti maschili e femminili, spade e pugnali, monete e insegne della famiglia reale. Da qui ci si avvia verso la pagoda con la sala che accoglie il Buddha di smeraldo e il Buddha in oro e centinaia di Buddha non di meno preziosi. Per raggiungere questo posto si percorre un percorso che strabilia per la pulizia, la perfezione, l’ordine. Tutto è bianco cangiante e sotto il sole cocente che cade a picco sulle nostre teste tutto luccica e abbaglia a tal punto che si fa fatica a tenere gli occhi aperti. Entriamo nel giardino che accoglie 2 stupa con le ceneri di due re frammista a una bella serie di piante verdi e a fiori. La prima costruzione che si incontra a sinistra è il tempio che accoglie il bue accovacciato ricoperto di fiori e di incenso. È venerato da dei fedeli in preghiera, mentre un leggero venticello fa suonare i cacciaspiriti e il grande silenzio è interrotto come un piacevole mantra dalle preghiere e dal tintinnio dei campanellini che suonano come fosse il respiro della terra. La seconda costruzione ospita il Buddha di smeraldo e quello in oro. Salita la gradinata ci leviamo le scarpe ed entriamo. Il primo grande Buddha che carpisce il nostro sguardo è quello ritto in piedi tutto in oro. Ha un diamante da 25 carati collocato nella fronte a segnare il sesto chakra, il palmo delle mani e le vesti sono luccicanti per i mille e mille brillanti che li ricoprono. Dietro di lui, più in alto a sormontare il Buddha d’oro, ci appare il Buddha di smeraldo che è assiso su un trono d’oro. Tutto attorno a questi due preziosi una cascata di Buddha di pietra, di giada, di legno, di pietre dure, grandi, piccoli, una moltitudine di Buddha non meno belli dei due maggiori. L’ansia di vedere queste bellezze e ricchezze mi fa scoprire solo verso l’uscita che il pavimento di questa vasta sala è interamente costruita con lamine quadrate di argento ovviamente ricoperte da tappeti color

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bordeaux. Ai lati della sala puoi divertirti a passare in rassegna una serie di bacheche di vetro che custodiscono diversi oggetti di metallo prezioso, pietre dure e ceramiche della famiglia reale, mentre accanto alla porte sia di ingresso che di uscita tre vetrine raccolgono bellissime ceramiche Cinesi di pregevole fattura, la maggior parte sono regalie di ambasciate.

Usciamo e ammiriamo la lunga galleria a tipo barchessa che contorna tutto il palazzo con pitture di scene di vita del re. Giriamo verso destra e giungiamo al palazzo degli Elefanti, la guardia mi permette di scattare delle foto. Entriamo e ci troviamo innanzi al piede gigante del Buddha e una miriade di Buddha in piedi e seduti. La visita del palazzo non può terminare senza aver visitato la casa della raccolta degli strumenti musicali.

Ore 4 p.m.Visita alla S-21. Il posto è una scuola,, per l’esattezza un liceo, in mezzo alle case in un’area defilata dal centro della città. C’è silenzio. Un doppio filo spinato limita l’area, oggi come ieri. Nulla è cambiato. Un muro per rendere inaccessibile e invisibile l’interno della scuola si erge perimetralmente e sopra il muro altro filo spinato. Entrati si inizia a girare da sinistra,. La scuola ha tre edifici:uno centrale e due laterali e tutti e tre hanno tre piani.. prima di giungere all’edificio di sinistra passiamo innanzi alle 14 tombe che conservano i corpi di chi, fortunato nella sfortuna, è stato raccolto dalle forze di liberazione vietnamita e ha trovato degna sepoltura, per migliaia di altre persone non è stato così. Alberi di frangipane in fiore fanno cornice a questo piccolo cimitero. Entriamo al piano terra dell’edificio di sinistra, le porte delle aule sono aperte, tutto è rimasto come è stato trovato. Queste aule ospitavano i personaggi importanti, il letto di ferro era il letto di tortura, sulla rete gli attrezzi per le pene corporali che l’immaginazione più crudele non soddisfa i misfatti compiuti, alle pareti sono appese le foto di come e di chi è stato ritrovato sul giaciglio. In altre aule troviamo le catene e i blocchi per i piedi assieme a delle cassette che contenevano serpenti e scorpioni per variare la tortura. Uscendo dall’ultima aula ritroviamo il cartellone con le dodici regole per i prigionieri, una regola dice di non piangere se si prova dolore… impossibile lamentarsi per le pene inflitte… girando verso l’edificio centrale un palo posto di traverso serviva a issare per i piedi il torturato mentre la testa veniva a piacimento immersa nell’acqua o nell’olio caldo…Entriamo nell’edifico centrale delimitato e chiuso da filo spinato. Qui le aule molto più grandi sono state suddivise in una miriade di cellette di mattoni, dove l’ospite non poteva stare sdraiato , ma solo rannicchiato, le finestre murate, le cassette per gli attrezzi di tortura a terra. Ogni celletta è chiusa da una piccola porta di legno. Per quanto è lungo il piano tante sono le micro celle non più larghe di mezzo metro!. Il piano di sopra ha la stessa suddivisone, ma le celle sono interamente di legno, senza finestre e senza luce. Salgo all’ultimo piano non aperto al pubblico, è ancora più disumano e raccapricciante… nel vagabondare in queste sale intravedo e odo il vociare di giovani che giocano a calcio subito al di là dell’edificio. C’è una casa, non sembra nuova, ha un giardino che confina con la scuola. Si legge su tutte le guide e sui libri che trattano questo argomento e confermano anche le guide del posto che accadeva proprio questo, che subito al di là del muro si giocava, si viveva normalmente. Ma come è possibile questo? L’omertà è comune a molte situazioni, meglio non impicciarsi, meglio non sapere… Nell’ultimo edificio ritroviamo la raccolta di migliaia di foto. Sono le persone passate per l’S-21, per alcune la foto è stata scattata all’arrivo e dopo la tortura, per altre dopo la morte. Tutte hanno lo sguardo triste, perso, tutte sono consapevoli di quello che accadrà, tutti hanno la disperazione e il terrore negli occhi. Rimango angosciata di fronte alla miriade di bambini, di giovani donne e uomini, alla foto di quella giovane madre con il suo bimbo tra le braccia, la lacrima che scende a bagnare il volto inespresso, le labbra serrate mentre la sottile, fine punta del trapano sta iniziando a perforarle il cranio.

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Nel piano superiore, le pareti di uno stanzone grande quanto la lunghezza dell’edificio raccolgono foto e racconti di alcuni sopravvissuti, foto e racconto di chi non è ritornato… Siamo molti visitatori, nessuno parla, ci si guarda in silenzio e tutti gli sguardi esprimono lo stesso identico pensiero! Giovedì 11.01-07Si parte verso il Laos. Il mezzo di trasporto è il bus, che si riempie di turisti e di locali.A Kempuncen durante la sosta della corriera per un doveroso break, come è solito nei punti di ristoro, puoi trovare frutta, acqua, tè, nescaffè , cibo, prodotti culinari tipicamente locali che vale la pena assaggiare e fotografare. Si avvicinano a noi delle belle ragazze che non vogliono essere fotografate. Vanno avanti indietro e in mezzo agli avventori con grandi circolari piatti di portata sui quali c’è qualche cosa, accatastata a piramide, che attira il nostro interesse. Cosa sarà mai quel mangiare un po’ unto che le giovani ci offrono? Ragni, grossi ragni scuri e resi neri perché fritti. Le coscette attirano la simpatia del nostro chef ligure che decide di deliziare le sue papille gustative e il suo palato con, a suo dire, succulente coscette di ragno fritto. Finalmente a metà pomeriggio giungiamo a Kratie. È un posto che non ha nulla di antico da vedere se non i delfini di acqua dolce, una specie in via di estinzione e che vale la pena vedere. I delfini si possono vedere solo al tramonto, quindi depositati i bagagli si inforcano le motociclette e via verso il Mekong. In un tramonto mozzafiato la nostra barca scivola lungo l’ampio Mekong a destra e a sinistra, liberi di andare dove e come si vuole, alla ricerca dei delfini che sembrano provare piacere a prenderci in giro. Solitari, in coppia on in tre risalgono in superficie sbuffando aria e sibilando, per poi velocemente re immergersi. Noi siamo veramente buffi con cinepresa e macchina fotografica, la mano tesa a pigiare il tasto per immortalare ciò che non muore, l’attimo… e questo rincorrere i delfini, questo ritornare un po’ bambini, riprovare l’emozione magica del tramonto rende tutti molto felici. Qui, su quest’acqua, con questo tramonto di colore arancione e bronzo provo una emozione fortissima e guardando il sole che tramonta esprimo un mio desiderio.

Venerdì 12-01-07Si riparte al mattino alle ore 7,40 a.m. verso Stung Treng. La partenza è alle ore 11,30.Dopo esser stati traghettati su di una chiatta due pulmini ci raccolgono. Il viaggio riprende e dopo passaggi tra ampie distese arriviamo a quella che è la frontiera. L’ufficio è quanto mai spartano, una costruzione di legno isolata e anche sperduta poco prima di una fitta radura e di una strada sterrata. Risaliamo sul pulmino e ci addentriamo nel Laos, in una fitta boscaglia che a un certo punto si dirada leggermente e lascia intravedere un piccolo, povero villaggio di quattro case e un gabbiotto di legno dove ci attendono due militari addetti al controllo dei nostri passaporti. Sono risoluti nel chiederci 1 dollaro per ogni passaporto e se quelli cambogiani non li hanno poco prima pretesi dopo un diverbio con una coppia svizzera-americana. Questi laotiani sono inamovibili, come le loro facce amimiche, non una parola viene detta oltre alla chiara e ripetuta richiesta dei dollari, e per farci meglio capire chi ha la situazione in pugno prima il maggiore in grado, poi il subalterno, raccolgono e ripongono i nostri documenti nel cassetto del loro tavolo da lavoro. A un certo punto il più alto in grado esce dal bugigattolo e va a sedere sul muricciolo dell’aia del cortile a guardare alcuni bambini che giocano a pallone. Non rimane che pagare. Poi via veloci e raggiungere un posto davvero unico, le cascate. Ho visto cascate, ma è proprio vero che ciascuna ha un suo fascino. Queste sono di un fragore e potenza paragonabili all’energia giovanile che stravolge e deborda con il suo violento scorrere un po’ dovunque lungo il suo cammino, contornandosi di una serie di rigagnoli che si aprono strada tra i massi e le conche perennemente lambiti dall’acqua. Puoi rimanere incantato per giornate intere ad ammirare lo scorrere del fiume e ogni momento ti appare diverso.

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Nuovamente in pulmino arriviamo a una specie di porticciolo dove delle grezze barche ci attendono per portarci sull’isola…, ma la barca non riesce a prendere il largo e allora tutti scendono per spingerla al largo. Il fiume, il Mekong, com’è vario, com’è ampio, com’è ricco di vegetazione, com’è generoso di pesci, di acqua, di alberi. Arriviamo sull’isola, la sabbia finissima per un attimo ci fa sognare, ma la ricerca di un posto per dormire ci pone innanzi alla necessità della ricerca. Male che vada dormiremo sotto le stelle. Questa isola, Dan Dhet è il suo nome, è meta preferita di molti occidentali. Puoi fare una bella vita: dormire, mangiare, bere, amare, pescare, meditare, passeggiare e se vuoi…fumare, tutto questo rigorosamente lontano dalla frenetica vita cui noi oggi siamo abituati. Il ritmo del giorno è scandito dal cielo, dal sole, dalla luna, dalle galline che libere passeggiano indisturbate per il sentiero, il grugnito dei porcellini, il chiassoso parlottio dei bambini e degli autoctoni ti fa assaporare i nostri tempi persi nel ricordo. Siamo tutti d’accordo nel pensare e nel dire che questo è un ottimo posto per il relax più totale e completo.La cameretta che ci ospita è semplice, anzi spartana, ma pulita, ha un bagno pulitissimo e c’è anche lo specchio!, la candela è l’energia alternativa alla corrente elettrica che all’ora in cui ci corichiamo non viene erogata.La terrazza del ristorantino è a palafitta sulla piccolissima spiaggia su cui noi siamo sbarcati, le lampade e le candele fanno luce e immancabilmente attirano le zanzare.

Sabato 13-01-07È mattino, sono le 8 a.m., il villaggio è ancora assonnato, pochissimi gli isolani svegli e affaccendati nei lavori domestici. Tutto è ancora tranquillo, le imposte delle finestre fatte di foglie di palma sono chiuse. Qui si sta alzati fino tardi alla sera, a bere, a fare musica, a fumare, a parlare, non c’è nulla che imponga di fare al contrario. Riusciamo a fare una veloce colazione, chi mangia le banane si accorge che la qualità di questo luogo ha dei semi durissimi e i denti di qualcuno del mio gruppo sono messi a dura prova. Come da programma, prendiamo in affitto le biciclette e via in grande libertà alla scoperta dell’isola. Prima tappa un monastero buddista, poi lungo una stradina sterrata in mezzo ai campi ci fermiamo innanzi a una tipica casa di legno. All’aperto la famigliola consuma la colazione: riso e vegetali freschi, ma quello che ci incuriosisce è la culla a cesta sospesa dall’alto con il fantolino dentro. Da pediatra dico che ha 2 mesi appena. È dolce, è delicato, sta dormendo sereno… come tutti i bimbi del mondo… fatte l foto di rito si riprende a biciclettare verso le cascate. Nel percorso oltrepassiamo un ponte che ci porta su una parte dell’isola ricca di vegetazione e colorata di verde, poco più sotto un villaggio con le capanne nascoste tra la vegetazione. Proseguendo su uno spiazzo a destra ci imbattiamo in una vecchia locomotiva francese che date le dimensioni sembra un giocattolo o quella di Gardaland. In verità è vera, univa la costa all’entroterra dell’isola, e le isole tra loro passando su un ponte di ferro che si può vedere ancora oggi anche se solo in parte. Le rotaie sono state divelte e usate per altri scopi con l’avvento della guerra. Ovviamente si paga l’ingresso per ammirare le cascate, ma ne vale decisamente la pena, sono ancora più belle di quelle viste prima, il Mekong non finisce di stupire. Fatto il giro più ampio per il ritorno passiamo per l’interno dei villaggi che si accalcano sulle rive dell’isola, tutte le abitazioni hanno camere da affittare agli ospiti. Facciamo un rapido spuntino buonissimo: pane, tofu o formaggini, vegetali freschi e birra.Alle 13 p.m. si riparte, ci si reimbarca verso Muang Kong. La giornata è calda, il sole brucia, ma lo spettacolo che si para innanzi a noi è ancora una volta unico. In lontananza colonne di fumo si alzano nel cielo: è l’antico modo di fare il carbone. Questa visione è un classico durante il viaggio, il brutto è che forse in modo non corretto vengono rase al suolo e distrutte vaste aree di foresta.Il fiume si apre e si restringe, le sue sponde in parte selvagge in parte coltivate creano un gioco di colori e di intarsi unici.

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Il Mekong è un fiume largo dove la vita si conduce sulle sue sponde: i bimbi fanno il bagno, le donne lavano i panni e si lavano, gli uomini pescano, le donne raccolgono le alghe fresche, i bufali se ne stanno in ammollo a prendere il fresco e a farsi la toeletta, e noi lo risaliamo per 2 ore per scoprirlo. Arriviamo all’altra isola, riusciamo senza troppo girovagare a trovare posto per pernottare anche se per una sola notte. Sistemati nelle camere pensiamo di fare il bucato, il ritrovo è per la cena consumata nel ristorante dell’alberghetto, che, dato il gran numero di ospiti, deduciamo essere buona. E in effetti è così: il pollo al curry con cocco è ottimo!

Domenica 14-01-07Alle ore 7 a.m. l’appuntamento per la colazione a base di succulenta e deliziosa frutta fresca. Alle ore 8 dobbiamo traslocare nella guest hause situata nella strada laterale, la stanza è veramente super spartana e conviene usare il sacco lenzuolo. Si riprendono le biciclette e si decide di fare il giro dell’isola. Vi sono due itinerari, uno breve e uno lungo, scegliamo quello lungo di 35 km. Il percorso è quasi tutto pianeggiante, un po’ deserto, non troviamo indicazioni, quindi si arranca e si va a naso. Arriviamo a un bivio, dei bimbi hanno improvvisato un chiosco per la vendita di acqua e aranciata. Vuoi non comperare una bibita? Ora dove si va a destra o a sinistra? A Destra, avanti, sempre avanti fino a giungere ancora una volta a quella lungo nastro color metallico che sembra immobile immerso nel bianco della sabbia finissima che luccica sotto il sole, ancora il Mekong!. Lasciate le bici scendiamo verso la foce di quello che dovrebbe essere un suo affluente ora in secca. Alcuni buoi bighellonano pacifici verso l’acqua che è più avanti, in lontananza le montagne verde scuro ci chiudono la vista oltre l’orizzonte. Il caldo si fa sentire, dopo una breve sosta si riparte mentre arrivano due locali in motocicletta per vendere degli snaks. Arriviamo in un punto dove molto probabilmente è un attracco delle barche, sembra in verità deserto. Sono le 11,30. Sotto una tettoia delle donne hanno una specie di cucina, alcuni del gruppo lamentano fame e si fanno capire dalle locandiere di preparare qualche cosa da mangiare e da bere. In un angolino, ricoperto da qualche cosa come se volesse essere nascosto un frigorifero pieno di bevande. Tutti all’assalto e in meno che non si dica la provvista fresca si esaurisce. I più arditi mangiano il potage, altri si stendono sul vimini intrecciato che è il letto dei locali. Fa troppo caldo e decidiamo di attendere un po’. Alle 2 p.m. ripartiamo sempre in bicicletta. Il paesaggio è bello, vario, risaie verdi brillante si alternano con quelle secche, la vita nei campi è sempre la stessa, a mano e chini. Vi sono molte case tipo long hause su palafitte al limitare degli appezzamenti di terreno coltivato e non, ma anche villette in mattino di recente costruzione. Tutto si muove lentamente. I bufali, le oche, i galli, le galline e i pulcini, i bambini, le persone girano qua e la dalla strada come i padroni del posto. Mi stacco dal gruppo che va piano e volo in bici da sola lungo la strada sfruttando il venticello e la discesa e mi sento libera e anche io padrona della gioia che ho dentro di me con il mondo intero. Arrivo al villaggio e mi fermo, mi volto indietro, ma non giunge nessuno, decido di aspettare. Non c’è anima viva a passeggio nella calura di questo giorno. Finalmente dopo 40 minuti arriva Giovanni Andrea, poi uno a uno gli altri affaticati. La bibita è d’obbligo e una pausa indispensabile prima di ripartire per la base. Arriviamo alle 4,30 p.m.. Sono le 5,34 p.m., nel fiume innanzi a noi 2 bimbi giocano nell’acqua e come dappertutto il loro gioco è gioioso e chiassoso e le loro urla proseguono fino a tramonto avvenuto. Grazie Essere Supremo che porto a conclusione questo bel giorno, grazie per la pace e la serenità ricevuta.

Lunedì 15-01-07Sveglia mattutina, ore 6 a.m., per visitare il mercato della cittadina. Ne vale la pena. Anche se piccolo è ben organizzato: c’è la via del cibo cotto, la via della carne, la via del pesce, la via delle verdure cotte e crude, la via della pasta fresca o meglio i loro spaghetti di riso, la via dei dolci

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(quelli di riso sono ottimi, appena cotti e ancora caldi), dei fritti in generale, degli attrezzi da cucina, dei tessuti di cotone dalle tinte decisamente forti e colorati. Compero 2 tagli di cotone per sarong per 40.000 kip. Qui tutto costa o 1 o 2 dollari: 5000 kip 2 litri di acqua, 1 birra 10.000 kip.Si riparte in barca, si trasborda e si va, in pulmino, in direzione di Pakse.Sul tragitto ci fermiamo a Wat Phu.È doveroso fermarsi per visitare questo sito, un gioiello sia per la posizione, sia per la sua storia. Si arriva camminando lungo un corridoio piastrellato di pietra e guidato da una serie di colonne posizionate a intervalli regolari. Le colonne non sono altro che i Naga. Iniziamo la salita, poco dopo siamo tra le rovine antiche di due costruzioni religiose messe molto male, anche se il luogo è protetto dall’Unesco. Fotografo quanto posso, i particolari di una finestra, di un portale… salgo ancora, iniziano gli scalini. Non sono malvagi, anzi, in questa prima parte sono costruiti in modo che il dislivello sia sopportato molto bene dagli anziani e da chi non riesce a fare i passi lunghi ed è come camminare sugli scalini. La salita ha un suo fascino: alberi di frangipane in fiore la abbelliscono e la ingentiliscono, è come se il luogo voglia tributare a noi visitatori il suo omaggio. A un certo punto si deve deviare a sinistra, perché la scalinata che si erge innanzi a noi è mezza diroccata, ma una volta superata la deviazione la scalinata si mostra in tutta la sua sontuosità ed è come se, mano a mano che ci si avvicina alla sommità, al luogo sacro, la salita si fa più dura e aspra…bisogna meritare il cielo, bisogna meritare il Paradiso! Gli scalini sono tutti scolpiti e il disegno ricorrente è il Naga. Giungo sulla sommità: al posto del lingam c’è un Buddha enorme che esce dal tetto e ai suoi lati una miriade di altri Buddha di diverse dimensioni. Il luogo è frequentato, fiori, incensi, drappeggi sono il segno della religiosità viva. Guardando il tempio che ospita il Buddha mi accorgo degli architravi e degli stipiti laterali delle porte di accesso che sono scolpiti e le sculture sono di pregio dal momento che la stessa Lonely Planet dà una ampia descrizione. Uscendo verso destra i segni e le divinità indù, poco sopra la sorgente con l’acqua sacra che se ci si asperge il capo porta fortuna e salute. Proseguendo verso destra si va verso un altro luogo speciale: il luogo dell’elefante e del coccodrillo. In effetti sull’enorme masso è stato scolpito un elefante, mentre del coccodrillo, posto innanzi a un Naga attorcigliato, la storia vuole che fosse un luogo sacrificale umano.La scoperta compiuta dall’équipe della Fondazione Lerici diretta dalla Dr.ssa Zolese è sensazionale, al punto tale che nel 2000, in tempi record, l’UNESCO dichiara l’intero sito World Heritage. L’area diventa il più importante parco archeologico del sud-est asiatico, secondo soltanto a Angkor. Gli scavi, diretti interamente dalla Fondazione Lerici del Politecnico di Milano, da allora proseguono alacremente, riportando alla luce, anno dopo anno, uno dei più preziosi gioielli d’Asia, già divenuto meta obbligata dei più raffinati turisti e viaggiatori di questo sconosciuto angolo di sud-est asiatico. Le attuali ricerche hanno inoltre consentito di stabilire come Wat-pu, che costituiva il centro simbolico e sacrale di questo territorio, faceva capo, a sua volta, alla immensa ed enigmatica montagna del Linga Parbata che domina incontrastata l’intera pianura che costeggia il Mekong e che, sin da epoche immemori, costituiva il fulcro simbolico e religioso della regione.

Attorno al V sec. d.C. alcune popolazioni Khmer, stanziate in una vasta regione compresa tra la Cambogia, il Laos meridionale e la Tailandia centrale, passarono da un sistema economico di villaggio a forme di organizzazione di tipo statale con vere e proprie città-stato caratterizzate da un potere centralizzato, una stratificazione sociale netta e una rigida organizzazione del lavoro. Queste mutazioni sociali corrisposero ad un intenso sviluppo economico delle popolazioni Khmer verificatosi grazie agli scambi commerciali con l’India. In questa epoca infatti i grandi traffici commerciali che si sviluppavano lungo la Via della Seta, cominciarono ad entrare in una fase di lento declino.Fu questo fattore a far sì che, progressivamente, il fulcro delle grandi rotte commerciali transasiatiche si spostò a sud est, in modo tale che le popolazioni Khmer ne divenissero le principali protagoniste.Nelle regioni del Laos meridionale le genti Khmer fondarono il potente regno preankoriano, noto anche dalle cronache cinesi, del “Chen-la di Terra”. Concomitantemente a questi avvenimenti accadde inoltre che esponenti della casta sacerdotale braminica migrarono dall’India e raggiunsero le regioni del Laos meridionale. Grazie alla loro presenza ed influenza questi bramini diventarono i consiglieri di corte degli antichi monarchi Khmer locali. In breve questi stessi si convertirono all’Induismo, proteggendo e diffondendo questa religione. L’affermarsi dell’Induismo corrispose inoltre alla diffusione, a livello sociale e politico, del sistema di castale indiano, il quale tuttavia ebbe nel sud-est asiatico un carattere meno rigido di quello originario indiano.Attorno al X secolo i vari regni Khmer del sud-est asiatico si unificarono dando così vita ad un vero e proprio estesissimo impero Khmer, con capitale Angkor, che, tra il X e l’XI sec., occupava un immenso territorio che si

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estendeva dal sud del Laos, alla Cambogia, dal sud del Vietnam sino alla stessa Tailandia centro settentrionale.

Le rovine di Wat-pu risalgono proprio a questa fase di fiorente espansione Khmer e costituiscono la riedizione più tarda di un tempio già esistente in precedenza e riconducibile al VII secolo circa. La Wat-pu di oggi si presenta come un’ampia area templare costituita da una serie di edifici sacri in pietra dislocati in funzione di un asse centrale che congiunge il santuario montano di Wat-pu alla pianura sottostante. In questa ampia porzione pianeggiante trova infatti spazio un grande bacino artificiali che, oltre ad avere delle valenze simboliche, svolgeva un importante ruolo come fonte di approvvigionamento idrico. Di fronte ad esso si apre l’ampia e maestosa via cerimoniale, fiancheggiata da due bacini di dimensioni più ridotte che, secondo la cosmologia induista, rappresentano simbolicamente gli oceani mitici che circondano la montagna cosmica centrale.

Per quanto attiene la via cerimoniale, nella tradizione Khmer, era infatti costume che i grandi monumenti fossero preceduti da una via sacra, percorribile dai fedeli in transito verso l’area sacrale meta del loro stesso itinerario. Il passaggio lungo questa ampia retta via aveva lo scopo di consentire al devoto di prepararsi spiritualmente all’incontro con la divinità che era ospitata nel tempio principale del complesso. L’ascesa verso il tempio rappresentava dunque un vero e proprio pellegrinaggio in miniatura che, come ogni pellegrinaggio che si rispetti, prevede una fase di purgazione interiore intesa come precondizione necessaria al contatto intimo e personale con il dio.

I resti di due grandi edifici simmetrici fiancheggiano la via sacra stessa. Questi erano, con gran probabilità, dei locali adibiti ad ospitare i pellegrini, soprattutto nel caso di pellegrini di alto rango - i sovrani e la corte al suo seguito - che giungevano qui per trovare ospitalità e soprattutto per compiere i rituali purificatori preliminari necessari alla prosecuzione del viaggio verso il santuario montano, culmine del pellegrinaggio. Il fatto che si tratti di due distinti edifici lascia con sicurezza supporre che essi ospitassero i pellegrini suddividendoli sulla base del sesso: il corteo maschile da un lato, quello femminile dall’altro.

Proseguendo l’itinerario, la pianeggiante via cerimoniale cede il passo ad una prima ripida scalinata. Qui i cortei dei pellegrini, che si erano temporaneamente separati durante la purificazione, si riunivano nuovamente per dare inizio all’ascesa. Statue di dei e di figure mitiche si ergono da ogni parte.

Da questo momento il pellegrino accedeva all’area realmente sacra dell’intero complesso templare. Il cammino è arduo e faticoso. La scalinata sempre più ripida. Lo sforzo richiesto per percorrerla è esso stesso un esplicito invito al raccoglimento e al silenzio.

La lunga via ascendente conduce ad una ristretta area pianeggiante. È questo il terrazzamento naturale su cui è edificato il santuario. Voltando ora le spalle, davanti ai propri occhi si apre lo splendido spettacolo della pianura di Champasak, dove anticamente si ergeva la ricca città di Lingapura. Lontano, lontanissimo, eppur visibile il lento Mekong. Sotto i piedi del pellegrino la lunga scalinata, la strada cerimoniale, i bacini d’acqua, in breve il lungo itinerario che lo ha portato sino al cospetto della divinità. Volgendo di nuovo lo sguardo alla montagna, il pellegrino trova invece di fronte a sé l’edificio centrale dell’intero complesso templare: il sacrario di Wat-pu, il sacerrimo luogo che anticamente ospitava le vestigia del dio Shiva, a cui il sito era dedicato.

Fu soltanto con la caduta dell’Impero Khmer e l’avvento della religione buddista che l’intero complesso di Wat-pu venne riconvertito al nuovo culto rivestendosi dei simboli della nuova religione. Lo stesso santuario, nascosto tra il folto delle fronde silvane della montagna sacra, venne ad ospitare una grande statua del Buddha Sakyamuni, circondato dagli emblemi religiosi della dottrina da questi promulgata.

Wat-pu, senza perdere la sua funzione di importante centro religioso, continuò, sino ai nostri giorni, a mantenere la sua funzione di meta di importante pellegrinaggio.

In questo elemento il segno tangibile di una continuità, quella per cui un antico santuario deputato al culto induista e, a sua volta, erede di pratiche religiose ancestrali incentrate nel culto di una montagna sacra, si trasforma in centro cerimoniale buddista. Ciò sino a divenire, oggigiorno, la meta obbligata di un incalcolabile numero di pellegrini del Laos e dei territori circostanti. Animati da una devozione tutta popolare sono loro infatti che, ancor oggi, tra curiosità e fede salgono sino al santuario della montagna. Aggirandosi tra le antiche rovine pronunciano preghiere, depongono offerte votive al Buddha, impetrano grazie. Con le mani colme di doni, di fiori e d’incensi, una fede che perdura ininterrotta da secoli e secoli. Davanti a loro, una gigantesca e silenziosa montagna resta in ascolto. Pronta a soddisfare le richieste degli uomini che giungono ai suoi piedi. ( Dr. Martino Nicoletti)

Discesi si fa pausa pranzo e subito dopo la visita al Museo, una costruzione nuova con pochi reperti,ma molto belli, molto ben disposti e ben segnalati.

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Ci attende ora un altro traghetto prima di giungere a Pakse.qui non c’è molto da vedere, se non, per chi ama come me la seta, il villaggio della tessitura della seta, e si può solo immaginare come va a finire la visita: acquisto di seta tessuta a mano, dopo la giusta contrattazione. Le case sono su palafitte, sopra l’abitazione, sotto tutto ciò che serve per tessere. Tutto il villaggio è fatto così. Ogni casa ha il suo laboratorio di tessitura della seta, dove mani delicatissime e abilissime tessono dal mattina alla sera, ogni giorno, per 365 giorni all’anno. Martedì 16-01-07Al mattino c’è l’imbarco aereo per Ventiane. Si giunge alle 1,00 p.m.., dopo aver preso alloggio in albergo ci si dirige verso il…mercato. E qui mi sbizzarrisco ad acquistare seta. Qui sono le donne che fanno il commercio, in verità non ho visto uomini dietro i banconi.Ventiane è una città moderna e antica, le strade sono ampie, la voglia di ammodernamento molta, le strade sono segnalate in francese e in lingua locale.

Mercoledì 17-01-07La modernità la trovi anche nel caffè che prepara ottimi, fragranti, caldi, dolci croissant, caffè espresso, cappuccino e ottimo the. Come non fare la colazione qui!alle 8 a.m. siamo tutti pronti per iniziare la visita della città. In fila indiana attraversiamo la grande città verso lo stupa simbolo di Ventiane, ma prima, visto che è sul percorso, facciamo visita all’Arco di Trionfo dalla cui sommità è possibile ammirare Ventiane. Per entrare allo stupa dobbiamo attendere, è in visita il presidente e la consorte, molto bella, della Cambogia. Lo stupa è tutto d’oro, i petali del fior di loto lo ornano in ogni suo piano, tutto attorno corre un porticato in cui sono raccolti reperti di pregevole fattura. Durante la pausa pranzo, facendo ritorno verso il punto di incontro, faccio una veloce ricognizione al mercato che sembra meno affollato, devo concludere l’acquisto di altra seta. Assieme a Giovanni Andrea ci incamminiamo verso lo stupa nero, antichissimo e cimelio in mezzo a una selva di fili elettrici che penzolano in cielo, guardato a vista dalla cortina di polizia e di controlli della vicinissima ambasciata USA. Poco più avanti c’è un localino dove è possibile mangiare e attendiamo le 2, 30 p.m. per andare alla posta centrale e acquistare i francobolli. Alle 3 p.m. c’è l’appuntamento con il gruppo per la visita al parco del Buddha che dista non poco dalla città, ma vale la pena visitarlo. La cena viene concordata all’aperto, sul lungo fiume al lume di candela.

Giovedì 18-01-07Colazione all’occidentale, al solito bar, con i croissant e il the. In attesa che anche gli altri finiscano o inizino la colazione Giovanni Andrea e io ci fondiamo alla ricerca di un paio di sandali tipici. Quando pensiamo di non riuscire nell’intento troviamo uno dei pochi negozi, già aperti alle 8 del mattino, e Giovanni Andrea trova quello che vuole, neri, di pelle, fatti a mano.Ore 9,45 a.m. siamo tutti pronti per partire. Il pulman arriva, saliamo, ci offrono l’acqua, ma… la partenza richiede tempo e pazienza. Si parte alle 10,44 a.m. Ventiane arrivederci! Verso Vang Vien.Appena fuori Vientiane la strada da asfaltata si fa terra battuta, vi sono molte e molte concessionarie di auto, e molte case di nuova costruzione, segno di crescente benessere. Non ho visto ancora un incidente, del resto qui guidano tutti molto piano anche se ci sono i semafori come a Vientiane.Nei campi la gente sta lavorando alla preparazione delle risaie, l’acqua viene lasciata scorrere a nutrire e idratare il terreno, alcuni sono già in avanzato stato di produzione così che possiamo vedere ampi fazzoletti verdi merlettati dagli argini che li delimitano, altri ancora in pausa in attesa di ricevere le piantine. La strada verso Vang Vien è tranquilla, poco trafficata, non si corre, la velocità oscilla tra i 35 e i 50 km orari. Via via che ci si allontana da Vientiane la boscaglia si infittisce e sempre più finisce a ridosso della strada. La strada a volte scorre a ridosso del fiume

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Mekong ed è bello vedere come la vita scorra sul fiume, lui dà e lui riceve. Ciò che colpisce di questa gente è la serenità d’animo, la tranquillità, il ritmo del tempo. Tutto score scivolando senza scossoni, senza intermittenze, senza blocchi, lo stress non sembra proprio prendere il sopravvento. Non ho mai visto gente correre, ne affannarsi, il panta rei dei greci è osservato e messo in pratica. Del resto la giornata in questi paesi inizia alle 7,30 a.m., i negozi aprono alle 9,00 a.m. e chiudono alle 5,30 p.m.!Arriviamo a Vang Vien alle 2,30 p.m.. troviamo da dormire al Nana guest haus. Questa si che è una camera super, eccellente. La costruzione è nuovissima, le camere da letto hanno letti singoli belli alti, il materasso è confortevole, il bagno bello grande è tutto piastrellato, c’è un lavabo di terracotta vitrea stile eco land di pregevole fattura e idea che è appoggiata su un pianale di legno rossiccio.Dopo mezza ora siamo pronti a uscire per andare a visitare le grotte, ma solo due, perché distano 10 km. Si parte in pik up. Si arriva sul greto del fiume dalle acque limpidissime, alcune persone a nord sono a fare il bagno, quelle a sud pescano. Per passare oltre dobbiamo passare sull’unico ponte di giunchi e legno senza barriere di protezione. Poco più avanti la prima grotta con il Buddha, sulla roccia di destra la figura di un elefante naturale, cioè non scolpita. La parte cava di una bomba è usata come campana per chiamare in adunata la popolazione.Da qui procediamo verso la seconda grotta, per raggiungerla dobbiamo attraversare alcuni campi di riso il cui raccolto è già stato fatto, liberi e indisturbati vagano i buoi dalle lunghe corna. Siamo all’ingresso, un Buddha sorridente ci accoglie e ci dà il benvenuto prima di entrare nelle viscere della montagna e apprezzare le sue bellezze nascoste che si lasciano vedere alla luce delle nostre pile: complessi mammellari calcarei di vari colori, alte canne che sembrano quelle di un organo, pareti plissettate e a intarsio come delicate trine. Il percorso inizialmente facile, perché liscio anche se un po’ viscido, a un certo punto lascia il posto a una camminata sconnessa tra i tanti ciottoli, i sassi finemente levigati, le buche circolari che si aprono come all’improvviso. Poi d’un tratto per terra si scorge una particolare concrezione ad anse che ricorda le spire di un serpente. In queste grotte durante l’ultimo periodo bellico la popolazione locale aveva trovato rifugio ai bombardamenti e contro i rastrellamenti. Alla fine delle ostilità i rifugiati grati al luogo per la protezione data hanno deciso di costruire il villaggio e qui vivere. Rientrati a Vang Vien ci dirigiamo verso il fiume in un luogo ricercato dai turisti e quindi discretamente affollato: sull’ansa del fiume è sorto un “bagno” come da noi sulle spiagge. Io preferisco chiamarlo “posto al sole” molto “in” ed invitante, che sfrutta la bellezza del fiume che scorre limpidissimo sfumato dal verde delle alghe che lo abbelliscono. La gente se ne sta sdraiata a prendere il sole in piccoli bungalow disposti in fila per uno lungo il percorso del fiume, aperti e terrazzati tra fiume e greto. Poco più sopra, dove la corrente e la profondità del fiume sono maggiori grandi e piccoli si divertono a sfidarlo con l’aiuto di camere d’aria nere. Il tramonto è prossimo, e tutti, come per un ancestrale rito, siamo incollati ad attender che il grande disco arancione sprofondi dietro le montagne.Vang Vien è immersa tra una ghirlanda di montagne di diversa forma e profilo, di differenti colori, dal verde maculato di grigio e rosso cupo delle rocce, fino al verde intenso e macchiettato di verdi variamente sfumati per la differente vegetazione. Quando il sole tramonta tutto zittisce e questo silenzio rimane fino a quando il sole non è rinato alto sulla linea dell’orizzonte.

Venerdì 19-01-07Verso Luang Prabhang.La partenza è prevista al mattino presto, ma come accade, l’orario slitta e così giungiamo a Luang Prabhang alle 3,30 p.m. Il pulman ci scarica su una via principale, dobbiamo andare alla ricerca di una guest hause, sappiamo che non ci dovrebbero essere problemi, questo è un luogo che piace, quindi la cittadina si è attrezzata a offrire alloggi e ospitalità ai turisti. Troviamo alloggio in una viuzza poco distante dalla fermata del pulman e con meraviglia notiamo che ogni casa è guest hause. La cittadina è di stampo prettamente francese e questo lo ritrovi nelle costruzioni delle case, nelle date che ricordano la costruzione, nei viali alberati, nelle rotatorie, e in tante altre cose. Luang

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Prabhang è da scoprire, è da visitare. È tranquilla, delicata. Il mercato del mattino si sta esaurendo quando noi arriviamo e così viviamo il passaggio verso quello notturno. La via principale si anima in modo straordinario, si popola di gente e di bancarelle che espone in bella vista una miriade di merce: abiti, borse, tappeti, copriletto, oggettistica varia… tutto è molto colorato e le lampade che illuminano la merce creano una atmosfera speciale, non puoi non ammirare, non puoi non soffermarti e decidere di acquistare…

Sabato 20-01-07Alle 8 a.m. si riparte verso il nord, dopo aver lasciato parte del carico nella guest haus e che riprenderemo al ritorno. Una lunga carrellata di saliscendi tra foresta, villaggi, case di legno appollaiate una accanto all’altra sul ciglio della strada. Questa gente, che vive in condizioni di sopravvivenza, sfrutta tutto quello che la natura offre. Grandi e piccoli fanno la raccolta dell’erba, dai lunghi steli, che poi serve a fabbricare le scope. Questo lavoro sembra sia redditizio dal momento che tutti sono impegnati in questa raccolta. Lungo il percorso scorgi le cisterne per la raccolta dell’acqua, quasi tutte sono state donate dalla Croce Rossa Internazionale. Alle 3,30 p.m. arriviamo a Udomxai. C’è poco da vedere.

Domenica 21-01-07Si riparte alle 8 del mattino verso il nord e la prima tappa sono le sorgenti di acqua calda, molto calda. Il posto potrebbe avere maggiore attenzione da parte di tutti. In effetti c’è stato un tentativo di promuovere la zona, ma forse qui il concetto di terapia termale non è presente. Al mattino presto lungo il greto del fiume scorgi delle nuvolette fumose che salgono dall’acqua, se ti avvicini vedi il gorgogliare e le mille bolle che borbottano libere di venire in superficie. Una vecchietta si avvicina, sfila i piedi dai sandali e li pone nell’acqua per un salutare pediluvio. Lo stesso fanno altre due ragazzine che oltre a fare il pediluvio si aspergono le ferite delle gambe con l’acqua. Proseguo sul fiume, a piedi, verso nord mi perché scorgo della gente e mi imbatto in donne che lavano i panni nell’acqua calda, altre si fanno la toeletta sfruttando questo dono della natura. Il gruppo nel frattempo è andato avanti, ha superato un lungo ponte sul fiume fatto di canne di bambù molto artigianale, devi avere equilibrio e voglia di passarlo…ondeggia al nostro passare e la sua mobilità ci blocca passo dopo passo. Vale la pena raggiungere la sponda opposta, qui si raccolgono i Sali minerali che questa acqua salso bromo jodica e salmastra porta in superficie e con un lavoro artigianale e primitivo, che merita di essere immortalato con gli scatti della macchina fotografica, e alquanto paziente la gente riesce ad estrarre del sale. Due appezzamenti di soffice terra nera è inizialmente distesa e tirata con il rastrello, poi il lavoro a braccia delle donne la raccoglie in piccoli cumuli dopo averla setacciata come si fa per la spulatura del riso. Da qui viene portata nella capanna accanto al villaggio dove trovo una grande cisterna nella quale la terra nera viene mescolata con acqua e lì lasciata prima di passare in una serie di recipienti posti a bollire su un fuoco robusto che fa evaporare l’acqua lasciando sul fondo il sale.Lasciamo questo gioiello di vita bucolica per andare verso Hack, poi Huai Peh per vedere le ultime etnie ancora presenti.La strada che ci porta in questi posti di montagna è costellata di pareti scoscese ricoperta di vegetazione rigogliosa di banani e altri tipici alberi. A tratti si vedono dei vasti lembi di montagna completamente deforestati, altre volte questi stessi terreni sono bruciati e rimangono solo le case di legno, disabitate, come a voler indicare il passaggio dell’uomo e della sua azione. A Ban Houy Peako visitiamo l’etnia Akka. Per raggiungere il villaggio si sale lungo un sentiero tracciato su un pendio scosceso per fortuna riparato dal sole cocente dalle fronde degli alberi. Arrivando sul piccolo pianoro la visione che si ha è quella di un fortino stile pionieri del west: le case di legno sono contenute in un’area delimitata da una robusta palizzata non molto alta che per poterla superare bisogna salire sopra. Incontriamo un uomo della comunità che trasporta un grande e pesante sacco di cereali sulla schiena e per ridurre lo sforzo del carico usa una specie di tavoletta porta sacco imbracata sulle spalle assomigliando vagamente alle nostre gerle. Una mucca e maialini

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vagano liberi, questo è il villaggio delle donne con la gonna nera con il bordo abbellito di nastri colorati, il cappellino è a calotta e impreziosito da una serie di medaglie in argento che altro non sono che monete del periodo coloniale francese. Inizialmente riluttanti nei nostri confronti e schivi a tal punto da non voler farsi fotografare, si ammorbidiscono dopo aver attuato un pronto soccorso a una ferita profonda del piede di un ragazzino. Tutto il folto gruppo dei bambini e di alcune donne si fanno fotografare e allora a loro vanno buona parte dei giocattoli, colori e penne che mi sono portata dall’Italia. Riconosco nella donna e madre più giovane del gruppo la madre Akka della cartolina in vendita e acquistata a Luang Prabhang, gliela faccio vedere e sorride facendomi capire che è lei!. Uscendo dal villaggio una nonna con il suo nipotino sulle spalle si fa fotografare in cambio di una malboro… non c’è da stupirsi, qui donne e uomini fin da ragazzini fumano l’oppio! Ridiscendiamo verso la strada e nel discendere ci accorgiamo che una catasta di legna tagliata da poco fuoriesce dalla parte centrale del tronco e dove i rami sono stati staccati della linfa densa color rosso amaranto, che merita una foto.Proseguendo il viaggio arriviamo al Pither new Village. Non c’è molto da vedere, il villaggio sembra ampio, al momento della visita ci sono pochi villani, un gruppetto di soli uomini con dei bimbi piccoli se ne stanno seduti a…fumare. Uno di loro si avvicina e mi offre la pipa moderna di ottone, che avevo già visto in un negozio di Luang Prabhang, che ovviamente fotografo, ma non fumo. I loro occhi sono fissi e metallici, il sorriso sardonico è allargato e lascia trasparire una linea nera di denti sminuzzati e di buchi per quelli che mancano. Eppure questi uomini non sono anziani… poco più avanti ci imbattiamo in un gruppetto di bambini che giocano a nascondino per non farsi fotografare, poco più sopra un uomo tira fuori la sua lunga canna da fumo e, come se fosse il suo pezzo più importante, inizia il rituale dell’accensione e fa vedere come si fuma. Poco distante una donna giovanissima, che deduco essere la compagna del fumatore, con un marmocchio sulle spalle e un altro nudo aggrappato alla sua gonna, si avvicina a noi incuriosita. Ci tocca i capelli e ci guarda fissi negli occhi. I suoi sono neri come il carbone, le pupille dilatate rendono lo sguardo fisso, si mette in posa per la foto,ma quando ammicca il suo più splendido sorriso per essere immortalata un “oooh, mio Dio” di raccapriccio ci fa rabbrividire tutti. È quasi edentula, i pochi denti negli alvei gengivali sono mozziconi neri. Eppure lei è immensamente felice!Usciamo dal villaggio e la “sanpiera”, la “sciamana”, credo, si fa contro di noi con un bastone. I suoi modi e le sue parole sono severe, urla e inveisce, incuriosita vado verso di lei per fotografarla, alza il bastone, e mentre fa questo gesto sfilo dalla tasca dello zainetto delle carte geografiche con il mondo e degli stickers di animali. Magia! La donna si ferma, incuriosita vuole vedere quel foglio colorato e gli animali, poi li reclama tutti e fa capire che sarà lei a darli ai bambini che nel frattempo si sono adunati dietro di lei scimmiottando i suoi passi. L’amicizia è nata e la donna ora pretende di essere fotografata, una, due, tre foto…che essendo digitali gliele mostro suscitando ammirazione e risa di piacere nel vedersi ritratta. A suggellare questo momento speciale mi offre due frutti che mi invita a mangiare. Ne addento uno, di necessità virtù direbbe qualcuno. È amarissimo, la mia faccia deve aver fatto una smorfia, perché lei a questo punto ne sgranocchia uno e se lo assapora di gusto invitandomi a fare altrettanto. Piano piano mi allontano da lei che continua a masticare, salgo sul pulmino e via verso un’altra meta.Attraversiamo scenari della foresta pluviale di rara bellezza, ad un certo punto ci imbattiamo in un gruppo di giovani che attirano l’attenzione di tutti noi: sono le donne dal seno nudo che, dopo il lavoro, stanno facendo ritorno al villaggio con la gerla sulle spalle. Proviamo a fotografarle, non vogliono e due di loro si avventano contro di noi brandendo il loro macete.

Lunedì 22-01-07Il viaggio prosegue passando attraverso i villaggi del Nord. Ban Dun Sai village. Non c’è molta gente, vagando nel villaggio incontriamo la diffidenza dei bambini che si nascondono per non farsi fotografare, poi, quando quello che dovrebbe essere il maestro accetta quaderni e colori, tutto si fa più semplice. Il maestro ci fa vedere la scuola del villaggio: una lavagna, quattro banchi di legno. La scuola è chiusa forse perché periodo di vacanze.

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Sull’aia oltre all’erba raccolta per fare le scope tre donne sono intente a vegliare l’azione di un alambicco e del suo fuoco, molto probabilmente distillano qualche bevanda. Uscendo dal villaggio con sorpresa notiamo che si è raccolto un bel gruppo di donne, giovani e belle, e di bambini. In pochissimo tempo avevano imparato a dire ciao.Passiamo attraverso Paka B…. e finalmente la strada sterrata diventa asfalto! Siexai village Bomeay Bo…. e altri villaggi…Alle 2,20 p.m. arriviamo a Ponkxai. La cittadina sembra un posto di confine e di stampo cinese. Troviamo ospitalità in un albergo che forse ha avuto una sua storia e una sua importanza in passato, tanto è che ha accesso diretto al negozio di generi alimentari e non solo. Decidiamo di fare un giro per Ponkxai e come suggerisce la guida andiamo alla ricerca del Museo che troviamo,ma è chiuso. Qualcuno dei locali fa in modo che l’addetta venga ad aprirlo e ci permetta di visionarlo. È una sola stanza che accoglie i diversi abiti tradizionali e gli strumenti musicali delle etnie del nord. Fatte le foto di rito ci dirigiamo verso lo stupa posto a 1600 metri di altezza. Prima di iniziare la salita passiamo innanzi a un asilo di bimbi in attesa che le loro mamme vengano a riprenderli. Anche qui lasciamo giocattoli e colori. La salita si snoda lungo una strada di montagna facile e piacevole da percorrere, all’ombra di una fitta vegetazione. Giunti sul piazzale e prima di iniziare la salita dell’ultima faticosa scalinata che spezza le gambe si paga il biglietto di ingresso! Il luogo dovrebbe essere tenuto meglio, sul lato che guarda la cittadina si apre l’area rifiuti! Giunge la sera e alle 7,30 p.m. si decide di cenare in un ristorantino a quattro passi dall’albergo. Entrando nella sala ristorante rimaniamo sorpresi per le belle tavole imbandite e le tante persone elegantemente vestite. Alcuni tavoli sono vuoti, forse sono per noi. Invece no, noi siamo relegati in disparte, nel retro bottega, il cibo è quello del menù della festa, abbondante, ma freddo. C’è musica e a un certo punto tra il nostro stupore iniziano le danze. Il modo di ballare è diverso. Qui si balla in cerchio, i movimenti dei danzerini sono sempre gli stessi, molto delicati, ballano muovendo anche le braccia e la testa, ammiccando sorrisi e strizzatine di occhi. Ci invitano a ballare, e perché no? Una botta di vita non guasta! A un certo punto i locali si sbizzarriscono in un ballo più sfrenato: un allei galli con variante laotiana, l’ultimo ballo prima di chiudere la serata danzante.

23-01-07Si riparte alle 8 a.m. immersi in una fitta nebbia che non permette di vedere oltre il proprio naso.Ma la pazienza, la perseveranza è premiata e dopo una serie di tornanti la macchina si ferma per farci ammirare un incanto della natura. Innanzi a noi una vallata di foresta pluviale che brilla sotto un delicato irraggiamento del sole, molto delicato, come se non volesse risvegliare il riposo della foresta, mentre la nebbia come un velo si alza lentamente alta nel cielo. Il viaggio comodo termina all’imbarcadero. Finalmente si sale in barca, la discesa sul Mekong ha inizio. L’emozione lascia il posto alla fantasia del viaggio, del luogo, delle bellezze che ad ogni ansa si aprono ai nostri occhi. Tutto è affascinante qui e la bellezza è così brutalmente naturale e viva che non ho solo gli occhi per vederla, ma anche il cuore, la mente… a destra e a sinistra posso leggere la vita delle persone del luogo: aree bruciate, aree coltivate, aree con nuove piantagioni, bimbi su zattere che pescano liberi e indisturbati, nessuno osa chiedere la licenza per pescare… donne che raccolgono le alghe verdi del fiume, gente che pazientemente attende la barca per caricare il frutto del loro sacrosanto lavoro da vendere in città. Dopo una sosta, ore 1.30 p.m., e una vivacissima discussione con i locali per il costo del trasporto e perché ci fanno scendere a metà strada riprendiamo il viaggio. Non siamo arrabbiati, questa è la vita, questo è il fiume…” panta rei os potamòs….”. Lo scenario lungo il fiume cambia a ogni curva, non stanca ammirarlo, ogni metro di fiume è diverso da quello appena passato. E la discesa prosegue. Il tramonto sta per giungere, anche il fiume sembra prepararsi a dormire, le sue acque si fanno più tranquille e una calma aleggia ovunque. Sulle sonde avvistiamo dei fuochi e in una grotta un bel fuoco brilla, qui c’è vita!. Alle 5 p.m. arriviamo a Phet Davan. La

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ragazza che ci viene incontro parlando inglese ci propone la sua guest hause, quella di Ban Muang ngoi, una costruzione tipicamente locale, un gioiellino che ti coinvolge e che non vorresti lasciare subito tanto è graziosa.

24-01-07Alle 5 a.m. un concerto di galli che cantano a squarciagola a ritornello mi sveglia, ma il loro canto dura fino alle 7 a.m. Dopo aver fatto colazione si è pronti con i bagagli per reimbarcarci alle 8 a.m.. la vita sul fiume è già iniziata, le gente vestita con gli abiti variopinti suggerisce che è pronta per andare più a valle a mercanteggiare. Il fiume, questo lungo nastro verde che offre la vita, l’energia elettrica alle tante dinamo installate là dove è più rabbioso, che lascia rispecchiare le pareti rocciose a strapiombo nelle sue acque, che scorre ora liscio come l’olio, ora increspato, ora ondulato, che lambisce con dolcezza le spiagge di sabbia bianche da somigliare a neve, nella sua grande e immensa generosità accoglie bufali pigri, anatre, che padrone di queste acque, galleggiano libere di muoversi incuranti dell’uomo, pesci e alghe che ormai conoscono il loro destino, e noi stranieri vagabondi in cerca delle nostre origini, di emozioni, di pace. Per kilometri e kilometri ci accompagna la superba visione del Linga Parbat. Il Linga Parbat, che letteralmente significa “la montagna del lingam, del fallo”, sembra infatti che in epoche remote rappresentasse un importante sacrario naturale il cui centro era costituito dal picco a forma fallica che si trova proprio sulla sommità del Linga Parbat. Questo picco, con l’avvento della religione induista per opera dei Khmer, fu associato alla figura del dio induista Shiva, il cui emblema simbolico è proprio il fallo, simbolo del pilastro cosmico che sostiene la volta celeste e unisce, come un vero e proprio axis mundi, la terra alle regioni divine uraniche.Attorno al V sec. d.C. alcune popolazioni Khmer, stanziate in una vasta regione compresa tra la Cambogia, il Laos meridionale e la Tailandia centrale, passarono da un sistema economico di villaggio a forme di organizzazione di tipo statale con vere e proprie città-stato caratterizzate da un potere centralizzato, una stratificazione sociale netta e una rigida organizzazione del lavoro. Queste mutazioni sociali corrisposero ad un intenso sviluppo economico delle popolazioni Khmer verificatosi grazie agli scambi commerciali con l’India. In questa epoca infatti i grandi traffici commerciali che si sviluppavano lungo la Via della Seta, cominciarono ad entrare in una fase di lento declino.Fu questo fattore a far sì che, progressivamente, il fulcro delle grandi rotte commerciali transasiatiche si spostò a sud est, in modo tale che le popolazioni Khmer ne divenissero le principali protagoniste.Nelle regioni del Laos meridionale le genti Khmer fondarono il potente regno preankoriano, noto anche dalle cronache cinesi, del “Chen-la di Terra”. Concomitantemente a questi avvenimenti accadde inoltre che esponenti della casta sacerdotale braminica migrarono dall’India e raggiunsero le regioni del Laos meridionale. Grazie alla loro presenza ed influenza questi bramini diventarono i consiglieri di corte degli antichi monarchi Khmer locali. In breve questi stessi si convertirono all’Induismo, proteggendo e diffondendo questa religione. L’affermarsi dell’Induismo corrispose inoltre alla diffusione, a livello sociale e politico, del sistema di castale indiano, il quale tuttavia ebbe nel sud-est asiatico un carattere meno rigido di quello originario indiano. (Dr. M. Nicoletti)

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Linga Parbat

Linga Parbat

Arriviamo a Pakcave e visitiamo le grotte naturali imprendibili durante la loro ultima stagione di guerra, ma queste non sono quelle dei mille Buddha. Per poterle vedere dobbiamo percorrere altri kilometri di fiume. Ma che importanza ha oramai per noi un’ansa in più o in meno?I mille Buddha li vediamo nella caverna posta alla confluenza tra il Mekong e il suo affluente di destra, dove le acque si sporcano di fango e terriccio, dove il fiume si fa più largo e moderno, solcato da barconi imponenti che ostentano lusso e modernità…La grotta dei mille Buddha è bella, ma non mi emoziona come la discesa del fiume e quanto ho visto nei giorni appena trascorsi.

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Scorcio sul Mekong dalla caverna dei 1000 Buddha

Riprendiamo il fiume alla volta di Luang Prabhang, alla volta della What That Guest Hause dove ritroviamo i nostri zaini. Abbiamo 1 giorno e mezzo da dedicare alla visita di questa cittadina nuova meta ambita dagli occidentali. Girando per le strade si ha la sensazione che il tempo si sia fermato. È bello vedere i cuccioli di bimbi sonnecchiare tra le borse o distesi comodamente sulle balze delle sciarpe di seta colorate nella lunga notte del mercato e partecipare pienamente alla vita della famiglia. Alle 10 p.m. il mercato si smobilita, desiste per un po’ chi forse non ha fatto buoni affari, ma poi, senza insistere, senza gridare la vendita a noi che girovaghiamo tra la merce esposta, rassegnato ripone via la mercanzia sapendo che domani è un altro giorno, domani andrà meglio. Una tranquillità regna sovrana e mentre visito il palazzo reale, i templi buddisti, le antiche costruzioni religiose, le strade abbellite da alberi di banane, Euphorbiae pulcherrimae o stelle di Natale, bouganville, palme, piante grasse bianche e rosse da noi chiamate lacrima di Cristo o Helleborus niger, le vecchie abitazioni in stile coloniale francese, l’artigianato locale, mi scopro irrimediabilmente padrona del mondo.

Il 26-01-07 è giunto. Un ultimo giro per Luang Prabhang alla ricerca di qualche cosa che mi è sfuggito ieri, che non ho percepito, alla ricerca di colori nuovi, di volti, di pace... perché in questi luoghi non si guarda l’orologio, si vive con il percorso del sole nel cielo. Per tre settimane ho lasciato lontano il mio mondo, ho voluto immergermi nella serenità senza tempo di questa gente che con dolcezza quando ti incontra e per ogni cosa dice sabadii (sabaudee).

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L’altoparlante dell’aeroporto annuncia che l’imbarco è aperto. Domani 27-01-07 sono a casa. SABAUDEE, arrivederci Laos.