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APPUNTI DI TEOLOGIA 19

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APPUNTI DI TEOLOGIA 19

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Collana Appunti di teologia

1. Jesús Castellano, Incontro al Signore: Pedagogia della preghiera2. Arnaldo Pigna, La vita consacrata.

Trattato di teologia e spiritualità3. Sergio Lanza, La parrocchia in un mondo che cambia.

Situazioni e prospettive4. Giuseppe Ferraro, Cristo è l’altare.

Liturgia di dedicazione della chiesa e dell’altare5. Sergio Lanza, Convertire Giona. Pastorale come progetto6. Aa. Vv., Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?7. Aa. Vv., Sentieri illuminati dallo Spirito.

Atti del Congresso internazionale di mistica8. Charles Serrao, Il discernimento della vocazione religiosa.

Formare per trasformare9. Carlo Laudazi, L’uomo chiamato all’unione con Dio in Cristo.

Temi fondamentali di teologia spirituale10. Mario Leocata, Sulle tracce del Messia. Iesu Rebus11. Arianna Rotondo, Dialogo d’amore.

Figure femminili del Vangelo giovanneo12. Carlo Laudazi, Di fronte al mistero dell’uomo.

Temi fondamentali di antropologia teologica13. Giuseppe Ferraro, Il Rito del Matrimonio nella celebrazione

dell’Eucaristia14. Fernando Taccone (ed.), La visione del Dio invisibile nel volto

del Crocifisso15. Fernando Taccone (ed.), Stima di sé e kenosi16. Giuseppe Gangale, Priscilla e Aquila. Apostoli di vita coniugale17. Dario Edoardo Viganò, La Chiesa nel tempo dei media18. Fernando Taccone (ed.), Croce e identità cristiana di Dio nei primi

secoli19. Fernando Taccone (ed.), L’agire sociale alla luce della teologia della

Croce. «è necessario che un uomo muoia per tutto il popolo» (Gv 11,50)

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Fernando Taccone (ed.)

L’AGIRE SOCIALE ALLA LUCE DELLA TEOLOGIA

DELLA CROCE«è necessario che un uomo muoia

per tutto il popolo» (Gv 11,50)

EDIZIONI OCD

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Un ringraziamento alla Banca Popolare di Spoleto S.p.a. che ha consentito la stampa del volume.

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-7229-508-3

© Edizioni OCD – Anno 2011Via Anagnina 662/b – 00118 ROMATel. 06.79.89.08.1 – Fax [email protected] – www.edizioniocd.it

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PRESENTAZIONE

Fernando Taccone*

Questo seminario si propone di indagare l’agire sociale alla luce della teo-logia della Croce. Rifletteremo su un tema, da una parte molto impegna-tivo e dall’altra piuttosto insolito, se non inedito. Il riferimento principale è all’amore di Dio rivelatosi nella Croce del Figlio Suo, che dovrebbe presie-dere il quadro interpretativo dell’azione sociale in un tempo nel quale pre-vale l’ottica, spesso solo conclamata, della giustizia, dei diritti civili, politici e sociali.

1. La vitalità cristiana dalla morte e risurrezione di Cristo

L’incipit dell’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, mi sembra ci ponga sulla strada giusta: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera».1 Il Santo Padre avverte: «Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali»2 ed esorta che «è necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita».3 Uno stile che oggi, in molte parti del mondo «è incline all’edonismo e al consumismo».4

Nell’enciclica il mistero pasquale di Cristo è collocato al centro fin dall’inizio non solo della dimensione personale, ma anche di quella comuni-taria. Non solo, quindi, l’individuo, ma anche la comunità e le sue istituzioni sono chiamate a confrontarsi e conformarsi alla croce di Cristo.

Nel capitolo terzo, dove il Papa tratta il tema: «Fraternità, sviluppo eco-nomico e società civile», scrive testualmente:

* Fernando Taccone, passionista, Direttore della Cattedra Gloria Crucis.1 BENEDETTO XVI, Enciclica Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana 2009, Città

del Vaticano, n. 1.2 Ibid., n. 4.3 Ibid., n. 51.4 Ibid.

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6 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né es-sere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente univer-sale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell’affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espres-sione di fraternità.5

2. La carità, norma suprema dell’agire

La Sacra Scrittura insegna che Dio è amore e che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Perciò la vita umana è priva di senso e ri-mane incomprensibile se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente.6 Anzi, dobbiamo ribadire, con Benedetto XVI, che «la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’au-tentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama».7 Vale a dire, nella misura in cui esercita l’amore, in cui supera l’archetipo dell’autochiusura ed adotta quello della carità e della do-nazione. Tutto ciò «vale anche in ambito sociale: occorre che i cristiani ne siano testimoni profondamente convinti e sappiano mostrare, con la loro vita, come l’amore sia l’unica forza che può guidare alla perfezione personale e sociale e muovere la storia verso il bene».8 Occorre, dunque, fare della carità la norma costante e suprema dell’agire.

Il mondo sociale al tempo di Gesù era estremamente strutturato: c’erano discriminazioni tra puri e impuri, tra giudei e pagani, tra uomini e donne, tra gli osservanti della legge e il popolo semplice. Cristo si fa solidale con gli op-pressi, con i poveri, gli emarginati e quanti erano diffamati come peccatori. Cristo si mette sempre dalla parte dei deboli e di coloro che sono criticati

5 Ibid., n. 34.6 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor hominis, Libreria Editrice Vaticana, Città

del Vaticano 1979, n. 10.7 BENEDETTO XVI, Discorso al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 6 giugno 2005.8 Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della

Giustizia e della Pace nel 2004, n. 580.

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Presentazione 7

secondo i canoni del tempo: la prostituta, il samaritano, il pubblicano, il cen-turione romano, il paralitico… L’atteggiamento di Gesù è quello di colui che accoglie tutti e fa loro sperimentare che non sono fuori della salvezza, ma che Dio ama tutti, perfino gli ingrati e i cattivi (Lc 6,35), perché “non sono i sani che hanno bisogno del medico” (Mc 2,17) e il suo compito consiste “nel cercare ciò che era perduto e salvarlo” (Lc 19,10). Gesù non teme le conse-guenze di questa solidarietà: è diffamato, ingiuriato, accusato di sovversione, di eresia, di essere indemoniato, pazzo.9 La nuova prassi inaugurata da Gesù non era umanitarismo, ma la concretizzazione dell’amore del Padre dentro la vita del quotidiano.

3. Chiamata al cristianesimo ed edificazione della comunità

Paolo in 1,26 invita i Corinzi a riflettere sulla propria chiamata. Il suo invito include, necessariamente, anche un giudizio sul loro comportamento. La distanza tra le esigenze della chiamata e l’attuale situazione di divisione della comunità di Corinto è incolmabile. Non è, infatti, possibile nessun ac-cordo tra la sapienza del mondo, ispiratrice dei partiti, e quella della croce. I Corinzi, hanno abbandonato la sapienza della croce, si sono lasciati attrarre dalla sapienza carnale che è privilegio dei saggi, dei forti e dei nobili di questo mondo (cfr. 1,27-28). Se la salvezza dipendesse dalla loro sapienza, non sa-rebbe, certo, opera di Dio, ma conquista dell’uomo, a beneficio, per di più, di un piccolo numero di iniziati, come nella gnosi. Dio, però, ha sconvolto i progetti astuti dei sapienti di questo mondo (cfr. 3,19-20), edificando la sua chiesa sull’unico fondamento di Cristo crocifisso e risorto (cfr. 3,11). Su di lui, i Corinzi sono esortati a continuare la costruzione della comunità. Per farlo, però, devono rimanere in quel nulla in cui sono stati raggiunti da Dio nel momento della loro chiamata (cfr. 7,18-24), affinché la potenza creatrice di Dio sia messa in condizione di poter operare come ha operato nella croce di suo Figlio, risuscitandolo dai morti. Il nulla della croce, infatti, è l’unica dýnamis salvifica che può agire sul nulla dei Corinzi alla stessa maniera che ha agito sul Cristo. In questo nulla è necessario che essi restino per dare alla croce la possibilità di continuare ad operare. La forma della comunità, di conseguenza, non può essere altrimenti che quella della croce. Ma cosa significa che la comunità deve prendere la forma della croce?

Pensiamo che significhi principalmente due concetti. Primo, il ricono-scimento dello stretto rapporto tra la chiesa e la croce (cfr. At 20,28; Rm 3,21-26; 15,3; Ef 2,14-16; 5,25; Tt 2,14; Eb 2,10; 13,12; 1Pt 1,18-19; Ap 5,9).

9 Cfr. L. BOff, Passione di Cristo passione del mondo, Cittadella, Assisi 1978, p. 31.

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8 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

La chiesa è frutto della croce e, quindi, il suo unico fondamento è Cristo cro-cifisso e risorto. Secondo, la chiesa, nel suo comportamento, deve ispirarsi e lasciarsi guidare unicamente da quella «potenza e sapienza di Dio» (1,24) che è la «parola della croce» (1,18). È, infatti, la comunità in quanto tale, più che i singoli, che Paolo ammonisce ad effettuare il suo discernimento, perché le sue scelte non sembrano molto coerenti con le scelte di Dio. Il giudizio discriminante della croce è diretto, certamente, al mondo e alla sua sapienza, ma, ancora di più, alla stessa chiesa che della croce ha fatto la sua bandiera.

L’altro aspetto che Paolo evidenzia nel comportamento carnale della chiesa di Corinto è dato dal ruolo dei «potenti» (1Cor 1,26) o «forti» (1Cor 1,27), «persone influenti» che con il loro potere politico ed economico rie- scono a condizionare la vita delle persone e della comunità. Il rischio, an-cora una volta, è di pensare la chiesa in termini troppo umani. Dio non ha scelto la potenza per rivelare il suo amore, ma la debolezza della croce (cfr. 1Cor 1,25). La sua chiamata, poi, non è stata condizionata dai potenti del mondo, ma per svergognare l’alterigia dei forti, oltre a scegliere la debolezza della croce, Dio ha scelto anche i deboli del mondo (cfr. 1Cor 1,27). La chiesa di Corinto, quindi, se non vuol diventare schiava degli uomini (1Cor 7,23), deve imparare ad appoggiarsi solo al legno robusto della croce (cfr. 1,18.24.25) e non sulle canne rotte dei potenti del mondo (cfr. 2Re 18,21; Is 36,6; Ez 29,6).

L’ultimo aspetto, cui Paolo sembra dare particolarmente risalto, è la man-canza di nobiltà della comunità: lo status, cioè, di uomini liberi con nobili origini e larghe possibilità economiche. Alla visione troppo umana della co-munità di Corinto – in cui, peraltro, sono pochi coloro che possono presen-tare simili credenziali (cfr. 1Cor 1,26) – Dio contrappone, ancora una volta, la scelta discriminante della croce. Egli, infatti, si è scelto per sé, per mezzo della croce di Cristo, gli humiliores, coloro che hanno ben poco di cui glo-riarsi, per confondere coloro che, invece, ripongono la loro gloria nei titoli nobiliari. Per essersi lasciati attrarre dalle cose alte e non da quelle umili, per essersi stimati saggi, potenti e nobili da se stessi (cfr. Rm 12,16), per aver dimenticato, in sintesi, «la parola della croce», la comunità si è divisa in par-titi. Solamente la riconciliazione con la croce di Cristo potrà, ora, indurre i credenti a riconciliarsi anche tra loro (cfr. Ef 2,16; Col 1,20ss).

Le scelte di Dio, infine, hanno uno scopo ben preciso: confondere i sa-pienti e i forti, annullare le cose esistenti del mondo, affinché nessun uomo si glori davanti a Dio (cfr. 1,27-29). Dio, quindi, ha convocato per sé una co-munità composta prevalentemente di gente umile e disprezzata, non perché essi sviluppino le loro fortune mondane, ma perché, con la loro nuova vita «in Cristo», diano gloria a Dio e siano testimoni della condanna della po-tenza e della sapienza del mondo. L’identità dei Corinzi, quindi, non è più determinata dalle coordinate culturali del mondo, ma dal sigillo della croce

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con il quale, nel battesimo, sono stati segnati e sepolti con Cristo (cfr. 2Cor 1,22; Rm 6,3ss). Il Crocifisso è divenuto per loro il segno dell’appartenenza a Cristo e della condanna dei valori mondani (cfr. Gal 2,19ss; 6,14; Rm 6,6). Esso è, perciò, l’unica forza e l’unica sapienza a cui devono ricorrere. Ricor-dino, poi, che «la parola della croce» giudica non solo il mondo, ma anche la stessa chiesa, la quale, adeguandosi alla sapienza del mondo, si comporta da nemica della croce di Cristo (cfr. Fil 3,18), rischiando di perdersi con essa. Come è possibile, infatti, conciliare «Cristo crocifisso» con l’astuzia dei sapienti, l’arroganza dei forti, l’arrivismo dei titolati? L’unica sapienza, l’unica forza, l’unico titolo nobiliare che i Corinzi possono vantare è Cristo crocifisso, il risorto, il quale è stato fatto sapienza per noi da Dio, giustifica-zione, santificazione e redenzione (cfr. 1,30). In lui quindi rimangano, in lui facciano cessare le loro divisioni, in lui vivano, in lui solo si glorino.

4. L’autentica carità diventi carità politica e sociale

L’amore reso presente nella croce di Cristo si estende a quello che Lui ama: le persone e il mondo; «nei santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino».10 Tale amore, pertanto, va vissuto secondo differenti modalità (amore di Dio, di se stessi, del prossimo, del cosmo), che non si devono confondere, ma neppure separare: sono articolazioni di uno stesso amore. L’autentica carità punta, pertanto, a diventare carità sociale e politica. Infatti, per tanti aspetti, il pros-simo da amare si presenta “in società”, così che amarlo realmente, sovvenire al suo bisogno o alla sua indigenza può voler dire qualcosa di diverso dal bene che gli si può volere sul piano puramente inter-individuale: amarlo sul piano sociale significa, a seconda delle situazioni, avvalersi delle mediazioni sociali per migliorare la sua vita oppure rimuovere i fattori sociali che cau-sano la sua indigenza.

Si desume, quindi, che il criterio principale per lo sviluppo della società è il precetto dell’amore, e che l’amore deve essere considerato come l’anima dell’ordinamento sociale.11 È quindi necessario, se si vuole rendere la società più umana, più degna della persona, rivalutare l’amore nella vita sociale af-finché esso orienti, purifichi ed elevi tutti i rapporti umani, politici ed eco-nomici.

10 BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, n. 42.11 Cfr. PIO XI, Quadragesimo anno, n. 20; Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et

Spes, n. 38.

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10 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola “comunione”.12 Tutto ciò evidenzia che lo sviluppo umano o sarà di tutti – persone, comunità, paesi – o di nessuno. Se qualcuno, pure uno solo, rimane a causa degli altri nel sottosviluppo – economico, cul-turale, religioso –, qualcosa di umano manca agli altri; questi si trovano an-cora in una fase di sottosviluppo, almeno morale: difatti il sottosviluppo al-trui è un costante appello al proprio sforzo per aiutarlo. L’impegno solidale riguarda tutti: credenti e non; ma è pure certo che senza la luce della fede e l’aiuto della grazia non è facile che la fraternità umana arrivi molto lontano: ben presto sorgono ragioni di lite, di rivalità... insomma, di egoismo.

In tal senso, bisogna evidenziare che i discepoli di Cristo hanno un par-ticolare obbligo di impegnarsi nella solidarietà: chi non vive l’unità e la co-munione con il prossimo non ha colto quel nuovo criterio (comandamento dell’amore) che è distintivo della vita cristiana. Così lo ricordava Josemaría Escrivá: «Un uomo o una società che non reagiscano davanti alle tribolazioni e alle ingiustizie, e che non cerchino di alleviarle, non sono un uomo o una società all’altezza dell’amore del Cuore di Cristo. [...] Il loro cristianesimo non sarà la Parola e la Vita di Gesù; sarà un travestimento, un inganno, di fronte a Dio e di fronte agli uomini».13 La solidarietà implica l’immedesimarsi nelle necessità altrui, vale a dire farle proprie, e poi agire con rigorosa coerenza: promuovere l’inalienabile dignità di ogni uomo e contribuire a che si svi-luppi come persona; tende a che tutti possano agire, nella società e nel la-voro, con coscienza e con responsabilità proprie. La solidarietà è, pertanto, il dinamismo che vivifica e rende efficaci i meccanismi e le strutture socio-economiche, non permettendo che si convertano in meccanismi perversi o strutture di peccato.

La solidarietà è, inoltre, una virtù: non va confusa con «un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».14 Come virtù, la solidarietà è, pertanto, una disposizione salda e tenace ad agire sempre in favore del bene altrui che, in ambito sociale, è il bene comune. Da qui l’esigenza di un co-stante impegno di solidarietà, che deve presiedere ogni ambito sociale: la-

12 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 40.13 J. EscrIVá, è Gesù che passa, n. 167.14 GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.

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Presentazione 11

voro, rapporti intergenerazionali ed internazionali, ma anche sport, svago, ecc. Non deve dimenticarsi la tendenza a richiamare i diritti tralasciando i doveri, e a sottolineare quanto ho fatto dimenticando quanto ho ricevuto; mentre l’insegnamento sociale ricorda che:

il principio della solidarietà comporta che gli uomini del nostro tempo colti-vino maggiormente la consapevolezza del debito che hanno nei confronti della società entro la quale sono inseriti: sono debitori di quelle condizioni che ren-dono vivibile l’umana esistenza, come pure di quel patrimonio, indivisibile e in-dispensabile, costituito dalla cultura, dalla conoscenza scientifica e tecnologica, dai beni materiali e immateriali, da tutto ciò che la vicenda umana ha prodotto. Un simile debito va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale, così che il cammino degli uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni presenti e a quelle future, chiamate insieme, le une e le altre, a condividere, nella solidarietà, lo stesso dono.15

5. Un percorso privilegiato per la Cattedra Gloria Crucis

Inaugurando la Cattedra Gloria Crucis in questa università,16 il compianto filosofo Prof. Stanislas Breton, passionista, poneva la sua ultima questione relativa alla finalità, cioè al dover-essere e al dover-fare di una Cattedra che evoca la gloriosa passione di Cristo.

Per rispondervi, disse il Prof. Breton, mi appoggio alla scena memorabile de-scritta dal Vangelo di Matteo al capitolo 25. La scena è ben conosciuta, ma forse, essendo la visione dell’ultimo giorno, ci lascia se non indifferenti almeno insuf-ficientemente attenti. È importante invece che questo testo continui a interpel-larci proprio perché è l’ultima parola sulla nostra storia umana e sul mondo che abitiamo. Che cosa ci viene detto?Poiché questi testi vi sono familiari, mi limito a citare le espressioni più commo-venti di quest’ultima e memorabile parola: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete accolto; nudo e mi avete vestito; prigioniero e siete venuti a visitarmi…ciò che avrete fatto ai più piccoli dei miei fratelli l’avrete fatto a me». La cosa più sorprendente in questo testo è il ricorso ai verbi più comuni e usuali; verbi che dicono il quotidiano più quotidiano della vita umana. Ci aspetteremmo

15 Compendio, cit., n. 195.16 La Cattedra Gloria Crucis è iniziata il 29-30 ottobre 2003 alla Pontificia Università

Lateranense con il seminario di studi in onore del Prof. Padre Stanislas Breton passionista, nel suo 90° genetliaco.

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12 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

dei riferimenti più nobili. Per esempio, non ci è detto niente sulle pratiche e cre-denze religiose, come se la religione stessa scomparisse davanti a pratiche più ele-mentari ma anche più determinanti per la fede in Cristo,17 come “l’adorazione in spirito e verità” e non più il culto nel tempio di Gerusalemme o in quello di Samaria (Gv 4.21-25). Invece, il dono di sé ai più piccoli fra i propri fratelli è un mistero di fede: “è a me che l’avrete fatto”. I più piccoli, gli ultimi di tutti, sono abitati dall’enigmatico Io che, partecipando del loro quasi-niente, implora su di essi la fede generosa che li farebbe essere.È così che la kenosi divina “al di là dell’essere” si esprime o si riflette nella ke-nosi umana “al di qua dell’essere” di quelli che non hanno niente perché non sono veramente. È qui che la Croce di Gesù fa appello alla nostra fede per fare in modo che dall’ex nihilo della loro condizione di miseria avvenga finalmente l’essere in quanto essere di quelli che non hanno più volto umano. La fede che emerge sull’ultimo giorno del mondo sollecita una vera generosità creatrice. La croce sarà veramente gloriosa se ci ispirerà questa incondizionata generosità.18

La profezia incosciente di Caifa: «È necessario che un uomo muoia per tutto il popolo» (Gv 11,50) rimane il punto alto di riferimento di ogni azione sociale. Benedetto XVI insegna: «L’amore – «caritas» – è una forza straor-dinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta».19

L’augurio è che dalle riflessioni di questo Seminario sorga e si formi una nuova stagione di bravi servitori dello Stato e della Chiesa caratterizzata da una identità culturale forte fondata sulla dottrina sociale della Chiesa “grande strumento di evangelizzazione”20 oggi.

Gli esperti relatori di questo seminario, che ringrazio per la disponibilità, ci illumineranno sulle gravi problematiche che il nostro tema apre.

Buona lettura.

17 Su questo punto delicato, si legga il colloquio con la samaritana: «donna, viene l’ora…è già venuta, quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».

18 s. BrETON, CP, La gloria della croce, in AA.VV., Memoria Passionis in Stanislas Breton, Edizioni Staurós, S. Gabriele (TE) 2003, pp. 259-260.

19 BENEDETTO XVI, Enciclica Caritas in Veritate, cit., n. 1.20 Compendio, p. XII.

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DALLA CROCE DI CRISTO, UN NUOVO PENSIERO E

UNA NUOVA STAGIONE POLITICA

Mario Toso*

Chi salverà la politica?

Non si può certamente affermare che solo da oggi la politica ha bisogno di redenzione e di riscatto. Ma da dove le possono giungere? Dall’uomo? Dalla sua mera opera di educazione? A queste e ad altre domande risponde la Caritas in Veritate, specie al n. 1, ove leggiamo: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera».1

Si potrebbe così riformulare il pensiero di Benedetto XVI: la «carità nella verità», di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, so-prattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo della vita politica, sia sul piano nazionale che mondiale.

Secondo la Caritas in Veritate, infatti, l’odierna politica sempre più ri-dotta a «lotta per il potere»,2 le democrazie, caratterizzate da forme popu-liste e oligarchiche, massmediatizzate e «leaderizzate», sempre meno parte-cipative e ancorate ad universi assiologici condivisi, nonché la formazione sociale che ad essa corrisponde possono essere risemantizzate per ritrovare la loro mission originaria di servizio al bene comune, se i cittadini e i loro rappresentanti prendono coscienza che esse sono espressione di una strut-tura d’essere protesa all’amore e alla verità che la sostanziano.

* Mario Toso, sdb, S.E.Mons., segretario del Pontificio Consiglio Justitia et Pax.1 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vati-

cano 2009. Si vedano anche l’edizione LAS (Roma 20102), dal titolo La speranza dei popoli. Lo sviluppo della carità nella verità, con lettura e commento da parte di Mario Toso; l’edi-zione Cantagalli (2009) con introduzione di S. Ecc. Mons. Giampaolo Crepaldi; l’edizione Libreria Editrice Vaticana-AVE (Città del Vaticano-Pomezia 2009) corredata dal commento di vari autori (Franco Giulio Brambilla, Luigi Campiglio, Mario Toso, Francesco Viola, Vera Zamagni); l’edizione Libreria Editrice Vaticana-EDB, Città del Vaticano-Bologna 2009, con Linee guida per la lettura, a cura di G. cAmPANINI; e inoltre: AA.VV., Amore e Verità. Com-mento e guida alla lettura dell’Enciclica «Caritas in veritate» di Benedetto XVI, Edizioni Pao-line, Milano 2009.

2 Cfr. M. BOVErO, Democrazia al crepuscolo?, in AA.VV., La democrazia in nove lezioni, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 4.

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Solo ravvivando e rafforzando l’amore e la verità di cui la vita politica e democratica devono essere intessute, solo portandole a compimento, me-diante la ricezione dell’Agápe e del Lógos, donati all’umanità da Cristo mo-rente sulla croce, è possibile il «rinascimento» della pólis, con una nuova stagione di uomini retti, di operatori economici, finanziari e politici «che vivono fortemente nelle loro coscienze l’appello al bene comune».3

2. Il «dimorare» nella carità e nella verità di Cristo è principio di nuovo pensiero politico, aperto alla Trascendenza, è causa della robustezza degli «ethos» dei popoli

Per la Caritas in Veritate, prima d’essere un principio ermeneutico e di discernimento sociale, la «carità nella verità» è una condizione d’esistenza, uno «stato» germinale di comunione ontologica e spirituale con Dio e con gli altri, posto dalla creazione, indebolito dal peccato originale, ricostituito dalla redenzione. È piattaforma esistenziale su cui si fondano ultimamente i pilastri della città e trovano nutrimento gli ethos dei popoli. Dalla vitalità della comunicazione e della comunione con Dio derivano purificazione e liberazione per la ricerca del bene comune, coraggio e generosità per l’im-pegno nel campo della giustizia e della pace.

Come si può intuire dalle riflessioni appena accennate, il passo del n. 1 della Caritas in Veritate, qui sopra citato e interpretato, potrebbe essere sufficiente per dare l’avvio ad una teologia della politica e anche ad una filo-sofia corrispettiva. La prima sarebbe centrata sulla vita appunto della poli-tica, considerata come espressione del mistero della salvezza che è seminato nei solchi della storia mediante incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. La teologia politica, pertanto, si dedicherebbe prevalentemente alla lettura e all’interpretazione dell’esistenza politica in quanto inserita nel mi-stero di Cristo, ossia dal punto di vista del Regno di Dio. Contrariamente a coloro che potrebbero pensarla come una riflessione deduttiva, essa si costituisce con un metodo induttivo, ossia mediante riflessione applicata all’esperienza della presenza evangelizzatrice, liberatrice ed umanizzatrice della Chiesa. La filosofia politica, invece, verrebbe a costituirsi mediante una riflessione centrata sulla pólis e sulla storia della civiltà, sulle sue relazioni con la Chiesa nel mondo, con il Regno di Dio, dal punto di vista dell’esi-stenza della società politica.

Vi sono altri passi nella Caritas in Veritate che meriterebbero adeguata attenzione e svolgimento. Essi stupiscono per la loro profondità, sinteticità

3 BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 71.

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e per la loro folgorante promessa di verità. Basterebbe meditarli per qualche istante per rimanerne catturati e convinti. Si pensi anche solo alla lapidarietà e alla ricchezza semantica di un’affermazione già centrale nella Populorum Progressio, che Benedetto XVI ha fatto propria al n. 8 della Caritas in Ve-ritate: «[…] l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo […]». Identica affermazione potrebbe essere applicata alla politica e all’im-pegno sociale dei credenti. L’annuncio di Cristo è il primo e principale ele-mento, tra i tanti, che può ricondurre l’odierna politica, spesso deviata dal suo fine primario, ossia dal bene comune, entro l’alveo della sua naturale vocazione. Così, si potrebbe dire che l’accoglienza di Cristo stesso, mediante la fede, fa sì che i cittadini possano percepirsi viventi nel Nuovo Adamo, con Lui, per Lui. È, questa, la principale causa della rivitalizzazione dell’anima valoriale delle democrazie, frantumata e indebolita nella nostra postmoder-nità, nonché della riforma delle stesse tecniche procedurali che non possono essere disgiunte da precise scelte valoriali. Da una tale coscienza di comu-nione permanente con il Signore Gesù e con i fratelli, per i credenti impe-gnati in politica possono derivare energie e robustezza spirituale, tali da farli vivere in un dono incessante di sé, con coerenza e professionalità, secondo una cittadinanza attiva e responsabile.

3. La «carità nella verità» principio di novità politica, perché rafforza la fraternità universale e la vita all’insegna del dono e della gratuità

E ora fermiamoci a riflettere e a mostrare gli apporti di rinnovamento per la politica che la Caritas in Veritate sollecita meno implicitamente. Essa non solo indica lo stato d’esistenza della «carità nella verità» come principio originario di ogni novità, ma anche spiega come possa esserlo per le persone, per i popoli, per le culture e per le istituzioni.

Per la Caritas in Veritate, che, tra le principali cause del sottosviluppo dei popoli e della politica, indica la carenza di fraternità4 e di pensiero, data la relativizzazione della verità nelle società odierne,5 la «carità nella verità» ci pone davanti alla stupefacente esperienza del dono.6 Sia l’Agápe che il Lógos ci precedono. Non nascono dal nostro volere e dal nostro pensare. Si impon-gono a noi. «Perché dono ricevuto da tutti – scrive Benedetto XVI – la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini se-

4 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 19.5 Cfr. ibid., n. 2.6 Cfr. ibid., n. 34.

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condo modalità in cui non ci sono barriere né confini».7 Detto diversamente, le persone originano le società sulla base del loro essere intrinsecamente so-ciale, fraterno, comunionale e dialogico: un essere «trovato», «dato», creato da Dio e non da noi. La «carità nella verità», vita di comunione con Gesù Cristo, giunge a perfezionare la nativa capacità sociale e solidale, ossia quelle doti naturali che sollecitano le persone ad aggregarsi in società di comuni-cazione, di comunione e di collaborazione. Grazie alla «carità nella verità», la fraternità – che non è fondata dalla ragione,8 bensì scoperta da essa come ciò che accomuna tutte le persone, perché create figlie di uno stesso Padre e convocate dal suo amore a vivere in una stessa famiglia – è portata a pie-nezza. Potenziando la fraternità, ossia quel principio per cui ognuno rico-nosce nell’altro non solo un simile, bensì un fratello, la «carità nella verità» incrementa l’unità e l’universalità del genere umano; alimenta stili di vita e atteggiamenti permanenti di dono, di dedizione all’altro, nelle famiglie, nelle istituzioni, nell’impenditoria, nella finanza; irrobustendoli, anima interior-mente la giustizia e il bene comune.

In definitiva, la «carità nella verità» consente di vivere più autentica-mente la dimensione fraterna del nostro essere sociale, nonché la collabo-razione solidale o impresa comune che costituisce l’essenza etica della vita nella polis. Ciò è possibile sia perché, come già detto, rende vitale la nostra comunione con l’Agápe e il Lógos che è Cristo, sia perché costituisce un orizzonte sapienziale e un principio ermeneutico entro e mediante cui sono possibili: a) una conoscenza più esaustiva della realtà, delle persone nelle loro espressioni sociali quali, ad esempio, la finanza, l’economia, la tecnica e lo sviluppo; b) quella sintesi culturale umanistica, di cui la nostra cultura frammentata e settorializzata ha estremo bisogno per non cadere nel nichi-lismo e per poter coltivare una visione di futuro per l’umanità.

4. La «carità nella verità» offre un orizzonte sapienziale che con la sua sintesi culturale aiuta a superare le dicotomie dell’etica politica post-moderna

L’orizzonte sapienziale, offerto dalla «carità nella verità», è un orizzonte rivelato, costituito da una vita e da un sapere più che umani, divini, non solo naturali ma anche sovrannaturali, non solo razionali, bensì sovrarazionali. Esso costituisce un contesto di transdisciplinarità, ove l’interdisciplinarità, ossia l’insieme di vari saperi umani, oltre ad essere armonizzato e unificato,

7 Ibid., n. 34.8 Cfr. ibid., n. 19.

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è sollecitato a superare se stesso. In tale contesto, ogni singolo grado del sa-pere è chiamato ad integrare la propria specifica conoscenza, con l’apporto di altre scienze, in un tutto che sollecita al riconoscimento dei limiti della propria competenza per uscirne e concorrere a costituire quella sinfonia di saperi che maggiormente si avvicina a una conoscenza compiuta della com-plessità del reale.

Nel contesto sapienziale della transdisciplinarità, reso disponibile dalla «carità nella verità», la ragione politica è chiamata a riconoscere e a rappor-tarsi con altri tipi di ragione, a cominciare da quella metafisica per giungere a quella teologica. Ciò consente alla ragione politica di valorizzarsi e di raf-forzarsi nella sua peculiarità e, allo stesso tempo, di non venire assolutizzata, ossia di essere deideologizzata, complementata e subordinata in un tutto che la trascende. La ragione politica, che è ragione teorico-pratica, vissuta in un contesto di transdisciplinarità sapienziale, guarirà così da quegli scetticismi e da quelle discontinuità etiche in cui l’aveva sprofondata la cultura moderna, staccandola dal Fondamento e impedendole, pertanto, di accedere al telos umano, ossia a un insieme ordinato di beni relativi al compimento in Dio.

La «carità nella verità», consentendo di accedere ad una visione inte-grale dell’uomo come essere unitario, in cui l’individuale non è separato dal relazionale, la libertà non è disgiunta dalla verità, il politico non è opposto al religioso, aiuta a pensare alla condotta umana come ad un tutto guidato e unificato dal telos umano. L’esistenza dei cittadini è un continuum, senza cesure tra etica personale ed etica pubblica, a differenza di quanto viene teorizzato dalle etiche neocontrattualiste ed utilitaristiche contemporanee, le quali dipendono da un’etica di terza persona.

Grazie ad un’etica delle virtù – ossia un’etica in cui è primaria la prospet-tiva del soggetto agente e non dello «spettatore imparziale» – Benedetto XVI aiuta il pensiero politico contemporaneo ad affrontare le dicotomie proprie dell’etica postmoderna, erede dell’etica hobbesiana, fondamental-mente scettica, poggiante su una visione antropologica pessimistica. In par-ticolare, aiuta a superare le cesure, peraltro censite nella Caritas in Veritate:

– tra etica e verità, che hanno la pretesa di prefigurare l’etica pubblica prescin-dendo dalla verità sull’uomo, sul suo bene globale, privilegiando la «verità» of-ferta dai sondaggi e dalle statistiche; – tra etica personale (dell’individuo) ed etica politica (della comunità politica), se-condo cui cittadini intrinsecamente asociali ed egoisti possono vivere eticamente solo nella comunità politica, grazie ad un’autorità che impone con la forza un ordine sociale giusto. È questa l’eredità culturale ricevuta da Thomas Hobbes. Sulla base di una simile separazione ci si illude di poter vivere rettamente nella vita pubblica prescindendo dalla vita virtuosa sia dei cittadini che dei loro rap-presentanti;

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– tra etica e consenso civile, dato che le teorie dialogiche e neocontrattualiste contemporanee fondano l’etica sociale esclusivamente sul dialogo pubblico, sulla convenzione e sul consenso della maggioranza. Secondo questa posizione, i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, dimenticando la loro oggettività e la loro fondamen-tale «indisponibilità»;9 – tra famiglia e giustizia sociale, senza considerare che la vita pubblica dipende strettamente dal bene-essere delle famiglie, dall’apertura moralmente responsa-bile alla vita. «La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le ri-sorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della nazione»;10

– tra etica della vita ed etica sociale, quasi che una società potesse avere basi so-lide accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana;11

– tra etica ecologica ed etica ambientale, che esigono dalle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, mentre l’educazione e le leggi non le aiutano a ri-spettare se stesse, ignorando l’ecologia umana, secondo cui i doveri che abbiamo verso l’ambiente devono essere collegati con i nostri doveri verso la persona;12 – tra etica e tecnica, per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è vero bene e, quindi, diviene lecito;13 – tra sfera economica e sfera della società, tra economia e politica: la prima sarebbe sempre e necessariamente «cattiva», assolutizzando la massimizzazione del pro-fitto senza curarsi dei diritti dei lavoratori e del bene comune e contrapponen-dosi alla seconda, il cui fine sarebbe unicamente quello di intervenire per porre rimedio agli scompensi e ridistribuire una ricchezza ingiustamente concentratasi nelle mani di pochi;14 – tra economia, fraternità, gratuità e giustizia sociale: solidarietà, fraternità e gra-tuità non troverebbero spazio nella sfera dell’economia, anzi dovrebbero rima-nerne escluse, pena l’inefficienza del sistema economico di un Paese;15

– tra cultura e natura umana. Poiché l’identità della persona sarebbe data volta a volta dall’immagine elaborata e proposta dalle diverse culture, non potrebbe

9 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 43.10 Ibid., n. 44.11 Ibid., n. 15.12 Ibid., n. 51.13 Ibid., nn. 70-71.14 Ibid., n. 36.15 Ibid., n. 34.

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esistere una struttura ontologica ed etica basica dell’essere umano che trascende il tempo e i diversi contesti socio-culturali in cui egli è storicamente inserito.16

Il solo elenco di queste gravi dicotomie mette in luce la rilevanza culturale della Caritas in Veritate, il suo significato epocale dal punto di vista della rifondazione o risemantizzazione del discorso morale politico, oggi forte-mente compromesso nelle sue basi a causa di assunti secolaristici e relativi-stici.

Il grandioso progetto di Benedetto XVI muove da premesse sensibil-mente diverse. Riconoscono in Dio il fondamento ultimo della morale: l’or-dine morale viene scoperto dapprima nei suoi elementi basici – si pensi alle regole d’oro: «fa il bene ed evita il male»; «non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» –, presenti nella coscienza di ogni uomo e, poi, viene costruito finalizzandolo al Sommo Bene, Dio. In questo contesto, la poli-tica è ripensata e «trasfigurata» anzitutto nei termini di un umanesimo teo-centrico che viene compreso, pervaso e posseduto dall’alto di una pienezza d’amore, quella del Figlio di Dio, che ama sino alla follia della croce e che inaugura l’umanesimo cristiano.

Un umanesimo cristiano implica un umanesimo aperto alla Trascen-denza, non fondato su uno schema etico-culturale esclusivamente antropo-centrico. Secondo tale schema, la condotta umano-politica è guidata da una coscienza ove Dio è considerato come bene e fine ultimo; e l’unione del cuore e della mente con Dio è il criterio del vero ordine dei fini. Dio, in definitiva, è l’autore primo, anche se non unico, dell’ordine morale politico, che va rea-lizzato servendo per primo Dio. Dio è l’aiuto per agire secondo un ordine che realizza la politica secondo la sua volontà; è il giudice e il remuneratore della vita impegnata in politica, sia essa virtuosa o viziosa.

Nell’attuale contesto socioculturale postmoderno, Benedetto XVI ri-lancia un’etica di prima persona, un’etica delle virtù che, grazie alla sua co-stitutiva apertura alla Trascendenza, recupera la legge morale naturale, ossia una morale universale, che consente di risemantizzare i grandi principi della giustizia e del bene comune, quali pilastri della vita sociale.17

L’etica che viene proposta dalla Caritas in Veritate non è, dunque, stac-cata dalla religione, dal rapporto con Dio. Si tratta, in particolare, di un’etica che cresce nel grembo della fede cristiana. Il cristianesimo, esperienza di comunione con Gesù Cristo, anima la vita morale degli uomini, senza nulla togliere alla sua autonomia, anzi rafforzandola nella sua linea costitutiva

16 Ibid., n. 26.17 Sulla risemantizzazione dei principi della giustizia e del bene comune si rimanda a M.

TOsO, La speranza dei popoli, pp. 33-37.

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di compimento umano in Dio. Il cristianesimo, dunque, irriducibile ad una mera etica politica naturale, la trascende, riconfermandola nella sua dignità e nella sua dimensione sovrannaturale.

Benedetto XVI, proponendo il superamento delle dicotomie sopra elen-cate, in definitiva chiede di universalizzare l’etica. Essa: a) non dev’essere vissuta solo in alcuni segmenti della politica e dell’economia (banche e fondi etici), ma in tutti i loro momenti e settori; b) non va osservata solo al termine della giornata quando eventualmente si opera nel volontariato, mentre du-rante la professione abituale ci si lascia guidare da ben altri criteri. L’etica non è un’etichetta da apporre sulla propria attività professionale come un marchio di qualità, cui però non corrisponde la realtà di ogni momento.

5. La dimensione «pubblica» della carità

Con la sua enciclica Benedetto XVI intende rivendicare la dimensione pubblica del cristianesimo, spesso ritenuto superfluo se non addirittura dan-noso per la civiltà da parte di non pochi benpensanti. La valutazione più benevola nei confronti della religione cristiana è quella secondo cui esso è una fonte di buoni sentimenti, utili sì per la convivenza sociale, ma marginali nelle questioni di fondo.

Ebbene, a fronte di questo ridimensionamento, che vede il cristianesimo relegato ad un ruolo consolatorio e periferico, alla filantropia e alla benefi-cenza, Benedetto XVI lo rilancia proponendolo come midollo dell’etica e della vita politiche.

Il cristianesimo è a fondamento della politica, ne è un asse portante, non un elemento decorativo. Lo è, in certa maniera, come le armature di ferro sorreggono dall’interno i pilastri di cemento. Il cristianesimo, come vita di amore, come carità, non si riduce ad azione assistenziale. È, anzitutto, so-stanza, principio vitale sia delle microrelazioni amicali, familiari sia delle ma-crorelazioni: rapporti sociali, economici, finanziari e politici.18

Da un tale punto di vista, la carità svolge un ruolo pubblico di rilevanza primaria per le società. Non ha una funzione suppletiva o contingente, inte-grativa delle carenze degli Stati, bensì una funzione d’animazione permanente ed essenziale della vita sociale, che ha i suoi principi base nella solidarietà, nella sussidiarietà, nella giustizia e nel bene comune. La carità è quell’at-teggiamento costante, quella virtù che pervade e sorregge questi principi, perfezionandoli, informandoli di sé, in una logica di dono e di gratuità.

18 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 2.

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Secondo Benedetto XVI è proprio la verità che ci fa comprendere la vera natura della carità, nonché la sua forza di liberazione nelle vicende sempre nuove della storia. Quando non sia conosciuta secondo la verità del suo es-sere, la carità appare come una forma di sentimentalismo. «L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario».19

6. La dimensione «istituzionale» della carità

La verità fa risplendere agli occhi di tutti lo splendore e la rilevanza pub-blica della carità in ambito giuridico, culturale, politico ed economico. Ciò facendo, aiuta i cristiani a riscoprire la dimensione politica ed istituzionale della carità. Come afferma Benedetto XVI in un contesto culturale in cui gli stessi credenti appaiono poco attenti alla riforma delle istituzioni – si pensi anche solo alla riforma della legge elettorale – la forma politica ed istituzio-nale della carità non è «meno qualificata ed incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis».20

Il cristiano che guarda alla città di Dio non deve disinteressarsi delle cose di questo mondo, della città dell’uomo. Egli ha il dovere di impegnarsi nel miglioramento delle istituzioni temporali, rendendo i mezzi sempre più omogenei ai fini. Contribuirà così all’edificazione di quella universale città di Dio, città senza barriere, verso cui avanza la storia della famiglia umana.

Detto diversamente, promulgando un’enciclica sociale, mediante cui in-tende rilanciare l’impegno evangelizzatore ed umanizzatore della Chiesa nel mondo, ovvero il ruolo pubblico del cristianesimo, Benedetto XVI tematizza il rapporto tra cristianesimo ed istituzioni. L’idea di fondo che la Caritas in Veritate vuole comunicare è la seguente: nel momento in cui ci si ripromette di offrire al mondo un nuovo lievito spirituale ed etico-culturale, non ci si può disinteressare delle istituzioni (politica, economia, mercato, sindacato, partiti, leggi, ordinamento giuridico, ricerca e formazione), della loro funzione, della loro tenuta, del loro compito educativo. Dato che da sole non sono sufficienti per creare un buono stato di cose, il benessere morale degli uomini e del mondo, occorre che le istituzioni siano sostenute da un’opera di redenzione e di formazione delle coscienze che attingano energie all’esterno. Pur con i loro

19 Ibid., n. 3.20 Ibid., n. 7.

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limiti, le istituzioni sono importanti e necessarie per rafforzare e sostenere le pratiche di collaborazione che perseguono beni umani fondamentali per la so-cietà e per la Chiesa stessa: procreazione, salute, alimentazione, educazione, ordine sociale, arte, libertà religiosa, progresso scientifico.

Al pari di tutti i cittadini, i cattolici sono chiamati ad aggiornarsi e a seguire con attenzione il funzionamento delle istituzioni, perché queste possono in-fluire positivamente o negativamente sullo sviluppo integrale dei popoli, sul loro stesso progresso economico e, in particolare, sull’esperienza morale delle persone. Bisogna tener presente che, quando le istituzioni sono in contrasto con l’ordine morale, corrompono ed intaccano la stessa integrità dell’espe-rienza morale.21 E ciò non è cosa di poco conto, se ci si pone l’obiettivo della creazione di un mondo più giusto e pacifico. Quando le leggi, i decreti – si pensi anche solo a quello sullo «scudo fiscale» – e i comportamenti di coloro che ricoprono ruoli pubblici contribuiscono a diffondere la convinzione che è perfettamente inutile, anzi è dannoso vivere rettamente, è chiaro che un tale ambiente sociale deteriorato diviene per se stesso diseducativo. Ma è proprio in questi casi che chi desidera conservare la rettitudine e l’integrità dell’espe-rienza morale è particolarmente chiamato a condurre un’esistenza eroica, attingendo all’amore donato da Cristo dall’alto della sua croce. Non solo. È anche sollecitato a lottare decisamente per modificare quelle istituzioni e quelle pratiche che gradualmente corrompono ed accecano le coscienze e sgretolano la tradizione morale alimentata dal cristianesimo.

Lo stesso pontefice ha recentemente attirato l’attenzione sul fatto che la diffusa legalizzazione del divorzio, propiziata da leggi piuttosto permissive e liberalizzanti e la conseguente proliferazione delle cosiddette famiglie allar-gate stanno provocando danni gravi per

il capitale sociale delle società. Il fenomeno delle famiglie “allargate” e mutevoli moltiplica i “padri” e le “madri” e fa sì che la maggior parte di coloro che si sen-tono “orfani” non siano figli senza genitori, ma figli che ne hanno troppi […]. Questa situazione – soggiungeva Benedetto XVI –, con le inevitabili interferenze e l’incrociarsi di rapporti, non può non generare conflitti e confusioni interne, contribuendo a creare e a imprimere nei figli una tipologia alterata di famiglia, assimilabile in un certo senso alla stessa convivenza a causa della sua precarietà.22

21 Cfr. G. ABBà, Costituzione epistemica della filosofia morale, LAS, Roma 2009, p. 100.22 BENEDETTO XVI, Discorso ai vescovi delle regioni del Nordest 1 e 4 della Conferenza

Episcopale del Brasile (venerdì 25 settembre 2009), in «L’Osservatore romano» (sabato 26 settembre 2009), p. 7.

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7. Per una conclusione: la potenza rivoluzionaria e riformatrice dell’amore della Croce

L’amore nella verità – caritas in veritate –, che ci è donato dalla croce, è un amore non solo per l’uomo, per la giustizia e per il bene comune, ma è so-prattutto amore per Dio. Da quest’ultimo tipo di amore dev’essere animato il credente e l’uomo di buona volontà, se non vogliono perdere la speranza nei confronti del miglioramento della vita politica. È amando la giustizia e il bene comune in se stessi, ma soprattutto per Dio, che è possibile conti-nuare a lottare per conseguirli tra mille difficoltà e anche tra gli insuccessi. È l’amore per Dio, considerato come un Tutto, che ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, che ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non ne vediamo immediatamente la realizzazione, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi, le autorità poli-tiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo. È Dio che ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché, essendo il nostro Tutto, è la nostra speranza più grande.23

Il credente è chiamato a vivere una spiritualità a cui corrisponde l’imma-gine di un Uomo-Dio sanguinante, vestito di scarlatto e coronato di spine, e che prende su di sé tutte le angosce del mondo e anche quelle per una politica che può farlo precipitare nel baratro. È sulla statura morale dell’Uomo-Dio, nel quale si è figli di uno stesso Padre, che la fede commisura e conforma i cittadini e i loro rappresentanti, contribuendo alla rettitudine della loro vita. È rimanendo uniti a Cristo, crocifisso e risorto, che essi partecipano al mi-stero della sua opera redentrice e vengono abilitati alla trasfigurazione della politica e delle sue istituzioni.

23 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 78.

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ThEoLoGIA CRUCIS E CITTADINANZA POLITICA

NELLA LETTERA AI FILIPPESI

Antonio Pitta*

Introduzione

Nell’epistolario paolino la Lettera ai Filippesi si contraddistingue per la declinazione tra il linguaggio politico (cfr. Fil 1,27; 3,20) e quello della croce (cfr. Fil 2,8c; Fil 3,18). A ben vedere, anche in altre sue lettere Paolo affronta questioni relative ai rapporti tra le sue comunità, sparse nelle principali città dell’Impero, e le autorità amministrative (cfr. Rm 13,1-7) o giudiziarie (cfr. 1Cor 6,1-11), ma soltanto in Filippesi utilizza il vocabolario propriamente politico: il verbo politeuesthai si trova soltanto due volte nel Nuovo Testa-mento (cfr. Fil 1,27 e At 23,1) e il sostantivo politeuma in Fil 3,20 risulta hapax legomenon.1 Qual è la relazione tra theologia crucis e cittadinanza po-litica? Una visione così contrastante tra i nemici della croce di Cristo e la cittadinanza politica che risalta in Fil 3,17-21 presenta tratti di attualità, no-nostante siano notevolmente mutate le conformazioni e i rapporti tra Chiesa e Stato? La tematica merita di essere approfondita poiché nella stessa lettera compare per la prima volta nel Nuovo Testamento l’attributo soter, rivolto al Signore Gesù Cristo cfr. (Fil 3,20), che in seguito assumerà i tratti di un vero e proprio titolo soteriologico (cfr. Ef 5,23; Lc 2,11; 2 Pt 1,1.11; 2,20; 3,2).

1. Associazioni cultuali e autorità politiche

La Lettera ai Filippesi, scritta molto probabilmente a cavallo tra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 d.C., da Roma, è inviata a una ekklesia (cfr. Fil 4,15) di piccole dimensioni e propriamente domestica.2 Il sostantivo

* Antonio Pitta, Ordinario di Esegesi del Nuovo Testamento nella Pontificia Università Lateranense.

1 Gli altri termini del vocabolario politico sono rari nell’epistolario paolino e senza in-cidenza politica: cfr. polis in 2Cor 11,26.32; Rm 16,23; Col 4,13; Tt 1,5; politeia in Ef 2,12.

2 Sulle questioni introduttive di Filippesi, relative alla datazione, alla prigionia di Paolo e all’integrità letteraria cfr. A. PITTA, Lettera ai Filippesi. Nuova versione, introduzione e com-mento (ILB NT 11), Milano 2010.

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ekklesia mutuato dall’Antico Testamento, soprattutto mediante la formula ekklesia tou theou (cfr. ekklesia kyriou in Dt 23,3-4,9 o theou in Nee 13,1), non indica un edificio ben visibile e circoscritto in un’area urbana, bensì un’assemblea di persone radunate per finalità politico-religiose.

Con una buona dose di anacronismo si è ritenuto che mentre nell’Antico Testamento e nella letteratura giudaico-ellenistica il termine ekklesia carat-terizzasse una funzione religiosa, in quella pagana assumesse tratti politici,3 ignorando che i confini tra ambito religioso o cultuale e politico fossero quanto mai labili se non inconsistenti in epoca ellenistica.4 D’altro canto già Tucidide utilizzava il sostantivo ekklesia con accezione politico-religiosa: «Poi, quando arrivò il giorno, fecero rinchiudere l’assemblea (ten ekklesian) a Colono (è un recinto sacro a Poseidone fuori della città)».5 Per il I sec. d.C. ci troviamo in un periodo del Principato romano e propriamente neroniano che permette di delineare una conformazione ibrida delle prime comunità cristiane.6 La prima domus ecclesiae può assumere i tratti di una sinagoga, quando si sviluppa dove sono presenti comunità giudaiche della diaspora (come a Roma e a Corinto), di una scuola filosofica e di un’associazione cul-tuale (come in Galazia e a Filippi). Anche di fronte a questa conformazione ibrida si è giunti a una omologazione impropria che ha visto sostenitori per l’una o l’altra ipotesi. In realtà è fondamentale cercare di distinguere il con-testo socio-religioso di una città dall’altra, poiché in dipendenza di esso, si sviluppano le prime comunità cristiane.

Nel caso specifico Filippi non è Corinto, né Roma dove la presenza giu-daica è ben consolidata da tempo, bensì una cittadina tra le poche romaniz-zate in modo sostanziale in Macedonia: si aggirava intorno ai 10.000-15.000

3 Cfr. G. BArBAGLIO, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico, EDB, Bologna 2006, p. 214.

4 Fra i più recenti contributi sull’ecclesiologia paolina in generale cfr. J.-N. ALETTI, Essai sur l’ecclésiologie des lettres de Saint-Paul (EB NS 60), Gabalda, Pendé 2009, pp. 1-109; J.D.G. DUNN, La Chiesa, in La teologia dell’apostolo, pp. 520-602; A. PITTA, «Ecclesiologia paolina», in G. cALABrEsE – P. GOyrET – O.f. PIAZZA (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, pp. 542-549. Circa la valenza interculturale del termine ekklesia nelle lettere paoline cfr. il recente contributo di A. DU TOIT, Paulus oecumenicus: Interculturality in the Shaping of Paul’s Theology in «NTS» 55 (2009), pp. 121-143.

5 TUcIDIDE, Storie, 67,2,2.6 Nonostante gli sviluppi successivi, sulle conformazioni delle comunità paoline della

diaspora resta attuale il fondamentale contributo di W.A. mEEks, The First Urban Christians. The Social World of the Apostle Paul, Yale University Press, New Haven - London 1983. Circa i dibattiti e gli approfondimenti successivi cfr. i contributi raccolti in T.D. sTILL – D.G. HOr-rELL (edd.), After the First Urban Christians. The Social Scientific Study of Pauline Christianity Twenty-Five Years Later, T. & T. Clark, London - New York 2009.

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abitanti, includendo le aree rurali circostanti. Inoltre sino a oggi non ab-biamo attestazioni su una presenza giudaica prima del 70 d.C. a Filippi.7 In base alla narrazione degli Atti degli Apostoli è menzionata soltanto Lidia, peraltro ignorata in Filippesi e nel resto del Nuovo Testamento, che è defi-nita come «timorata di Dio» (At 16,14): la categoria di quanti simpatizzano per il giudaismo palestinese o della diaspora, senza pervenire a una definitiva giudaizzazione. Anche se il migliaio di iscrizioni rinvenute a Filippi e nel territorio circostante dimostra la presenza di diversi culti locali (di origine greca e tracia) o importati (cfr. il culto di Iside di origine egiziana),8 questi sono assorbiti e sottoposti al culto dell’Imperator. Particolare importanza ha nella cittadina romanizzata il cursus honorum civile, cui potevano accedere soltanto i cittadini liberi, ma che era negato agli schiavi e ai liberti, anche se questi potevano essere ingaggiati per incarichi civili.9

Il breve retroterra delineato è di fondamentale importanza per la Lettera ai Filippesi non soltanto rispetto al vocabolario politico che la caratterizza, ma per il cursus honorum e l’importanza del servizio municipale. I contrasti tra la divinizzazione dell’imperatore e la carriera pubblica, da una parte, e il cursus pudorum o del disonore, intrapreso volontariamente da Cristo Gesù, nel famoso elogium di Fil 2,6-11, e da Paolo nella sezione autobiografica di Fil 3,4-11, dall’altra, si spiegano bene nel contesto civile-religioso di Fi-lippi.10 Alcuni studiosi hanno cercato di motivare nello stesso retroterra la prima citazione di episkopois kai diakonois in Fil 1,1b per il Nuovo Testa-mento, equiparandoli ai responsabili delle associazioni cultuali minori della città.11 In realtà non ci sono pervenute iscrizioni, né tanto meno attestazioni

7 Sul contesto sociale, politico e religioso di Filippi cfr. L. BOrmANN, Philippi: Stadt und Christengemeinde zur Zeit des Paulus (NT. Sup. 78), Brill, Leiden 1995; P. OAkEs, Philip-pians. From People to Letter (SNTS.MS 110), University Press, Cambridge 2001, pp. 1-54; P. PILHOfEr, Philippi. Die erste christliche Gemeinde Europas (WUNT 87), Mohr Siebeck, Tübingen 1995; C.S. DE VOs, Church and Community Conflicts: The Relationships of the Thessalonian, Corinthian, and Philippian Churches with their wider Civic Communities (SBL.DS 168), Scholars Press, Atlanta (GA) 1999, pp. 233-287; R.S. AscOUGH, Paul’s Macedonian Association: The Social Context of Philippians and 1 Thessalonians (WUNT 2.161), Mohr Siebeck, Tübingen 2003.

8 Il catalogo delle iscrizioni provenienti da Filippi e dal territorio circostante è stato raccolto dal fondamentale contributo di P. PILHOfEr, Philippi. II. Katalog der Inschriften von Philippi (WUNT 119), Mohr Siebeck, Tübingen 2000.

9 J.H. HELLErmAN, Reconstructing honor in Roman Philippi. Carmen Christi as Cursus Pudorum (SNTS.MS 132), University Press, Cambridge (UK) 2005.

10 J.H. HELLErmAN, The humiliation of Christ in the Social World of Roman Philippi, Part 2, in «Bibliotheca Sacra» 160 (2003), pp. 421-433.

11 Così P. PILHOfEr, Philippi, I, pp. 146-147, che assimila l’episkopos con il procurator, di alcune iscrizioni. L’analogia è forzata per la funzione vicaria affidata al procurator e non

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letterarie su tali assimilazioni, per cui restano alcuni tratti d’ombra sulla con-formazione della prima comunità cristiana insediata in Europa.12 Il binomio può essere reso con “sorveglianti e ministri”, con accezione generica, senza ancora distinguere l’episkopos dal diakonos e dal presbyteros delle successive lettere pastorali e della tradizione sub-apostolica.

2. I nemici della croce

Se sulla cittadina della Macedonia non ci sono pervenute attestazioni per la presenza di una comunità giudaica, prima del 70 d.C., le mordaci invettive di Fil 3,2 («Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla circoncisione») assumono i tratti di una strategia preventiva pronun-ciata contro altri predicatori cristiani di origine giudaica che hanno con-trastato la predicazione di Paolo, come di fatto si è verificato in Galazia (cfr. Gal 1,6-10; 3,1-4; 5,2-12).13 Per inverso se prescindiamo da Fil 3,2-4, nell’ordito della lettera risalta il contrasto tra i cristiani di Filippi e gli altri cittadini: «Soltanto comportatevi da cittadini in modo degno del vangelo di Cristo… e senza lasciarvi spaventare in nulla dagli oppositori, che è per loro dimostrazione di perdita, per voi invece di salvezza, e questo viene da Dio, perché a voi è stata data la grazia per Cristo non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1,27-29).

Il conflitto con l’ambiente civile-religioso torna in Fil 2,14-16a: «Fate tutto senza mormorazioni e controversie, affinché siate irreprensibili e inte-gerrimi, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione distorta e per-versa, in cui risplendete come stelle nel cosmo, tenendo ferma la parola di vita…». Per contrastare le avversità economiche ed etiche in cui vivono e operano i destinatari, Paolo li esorta a consolidare l’unità ecclesiale (cfr. Fil 2,1-4) e ad attestare una gioia condivisa per il progresso dell’evangelo. L’ul-timo accenno agli avversari si ripresenta in Fil 3,18-19 dove Paolo li definisce

all’episkopos in Fil 1,1 e perché, negli anni 50 d.C. non abbiamo testimonianze di convertiti al cristianesimo provenienti dalle classi sociali più elevate di Filippi.

12 Sugli sviluppi dell’episkopos in Fil 1,1 e nella tradizione paolina successiva cfr. r. PENNA, La funzione ecclesiale dell’episkopos nel Nuovo Testamento (lettere pastorali), in r. PENNA, Paolo e la Chiesa di Roma (BCR 67), Paideia, Brescia 2009, pp. 240-251.

13 Recentemente m. NANOs, Paul’s Reversal of Jews Calling Gentiles “Dogs” [Philippians 3:2]: 1600 Years of an Ideological Tale Wagging an Exegetical Dog?, in «Biblical Interpreta-tion» 17 (2009), pp. 475-481, per contrastare l’interpretazione antigiudaica di Fil 3,2 propone l’ipotesi che si tratti di avversari di origine gentile. In realtà riteniamo che non siano presi di mira alcuni giudei o gentili, bensì alcuni anonimi cristiani di origine giudaica. Per gli appro-fondimenti cfr. A. PITTA, Paolo, la Scrittura e la Legge (SB 57) EDB, Bologna 2008, pp. 72-78.

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come nemici della croce di Cristo: «Molti infatti si comportano, come spesso vi ho detto, ora però dico anche piangendo, da nemici della croce di Cristo; la loro fine (è) la perdizione, giacché il loro dio (è) il ventre e la gloria nella vergogna, essi che pensano alle cose terrene». Per esortare i Filippesi a se-guire il suo esempio (Fil 3,17) e di quanti, come Timoteo ed Epafrodito, non curano i propri interesse e hanno rischiato la vita sino a rasentare la morte (cfr. Fil 2,19-30), Paolo indugia nuovamente su coloro che hanno per «dio il loro ventre».14

I tre paragrafi citati orientano verso l’identità gentile e civile degli av-versari: forse si tratta di cittadini che ostacolano le piccole comunità dome-stiche, sorte in seguito all’evangelizzazione di Paolo, per la loro assurda e originale fede nella croce di Cristo, considerata piuttosto come servile sup-plicium e pena capitale del disonore totale.15 Per questo molto probabil-mente si deve a Paolo l’aggiunta «morte però di croce», inserita al momento culminante della kenosis di Cristo (Fil 2,8c), nell’elogium di Fil 2,6-11, di matrice prepaolina.16 Pertanto la fede nel messia crocifisso rende nemici gli amici di un tempo e crea un conflitto irrimediabile tra la minoranza cristiana e la maggioranza civile di Filippi.

3. Un proclama antipolitico?

L’istanza a operare da cittadini degni dell’evangelo di Cristo (cfr. Fil 1,27) è rapportata all’appartenenza di una cittadinanza celeste (cfr. Fil 3,20) che pone in crisi o quanto meno relativizza l’acquisizione di una cittadinanza romana o politica. Le diverse asserzioni polemiche della Lettera ai Filippesi

14 Per la centralità della mimesi umana in Filippesi cfr. A. PITTA, Mimesi delle differenze nella Lettera ai Filippesi, in «Rivista biblica» 57 (2009), pp. 347-370.

15 J.H. HELLErmAN, The humiliation of Christ in the Social World, Part 2, p. 428.16 Si deve a E. LOHmEyEr, Kyrios Jesus. Eine Untersuchung zu Phil 2,5-11, Wissenschaf-

tliche Buchgesellschaft, Heidelberg 1928, pp. 51-96 il merito di aver inaugurato la ricerca verso l’origine prepaolina di Fil 2,6-11. In seguito cfr. J. HErIBAN, Retto phronein e kenosis. Studio esegetico su Fil 2,1-5.6-11 (BSR 51), LAS, Roma 1983, 72; R.P. Martin, Carmen Christi. Philippians ii.5-11, in Recent Interpretation and in the Setting of Early Christian Worship (SNTS.MS 4), University Press, Cambridge (UK) 1967, pp. 42-62; r. PENNA, I ritratti origi-nali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 122; E. TEsTA, Un inno prepaolino della catechesi primi-tiva (Fil 2,6-11), in «SBFLA» 47 (1997), pp. 97-116; T.H. TOBIN, The World of Thought in the Philippians hymn (Philippians 2:6-11), in J. fOTOPOULOs (ed.), The New Testament and Early Christian Literature in Greco-Roman Context. Studies in honor of David E. Aune (NT. Sup. 122), Brill, Leiden - Boston 2006, p. 91.

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hanno indotto alcuni studiosi a sostenere che la visione politica di Paolo sia di tipo eversivo o anti-imperiale.17 Non si può negare che se la cittadi-nanza cui appartengono i credenti non è soltanto escatologica o futura, ma è attuale, se i loro nomi sono scritti nel libro della vita e non nel registro municipale della città (cfr. Fil 4,3) e se si trovano a operare in una genera-zione distorta e perversa (cfr. Fil 2,15) il modo con cui Paolo stigmatizza gli avversari di Filippi è tutt’altro che politicamente corretto. Se il kyrios e soter non è l’imperatore, da cui dipende l’incolumità fisica e morale dei cittadini, ma Gesù Cristo, un contrasto deve pur risaltare nella strategia politica di Paolo. Tuttavia non è fortuito che tali conflitti siano declinati, nello stesso tempo, con un comportamento integerrimo e irreprensibile, per cui la fede nel messia crocifisso non implica un atteggiamento antistatale che assuma i tratti dell’anarchismo.18 Così Paolo raccomanda ai Filippesi nell’epilogo della lettera:

La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini, il Signore è vicino. Non preoccu-patevi di nulla, ma in tutto con preghiera, supplica e con ringraziamenti le vostre richieste siano fatte conoscere presso Dio. E la pace di Dio che eccede ogni intelligenza custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. Per il resto, fratelli, quanto è vero, quanto degno, quanto giusto, quanto onesto, quanto ama-bile, quanto onorevole, se c’è qualche virtù, se c’è qualche lode, questo conside-rate (Fil 4,5-8).19

Nonostante le avversità economiche e morali i credenti sono esortati ad assumere i valori più positivi dell’etica sociale e civile, altrimenti rischiano di proporre un’etica alternativa che, presentandosi come tale, li delegittima dal loro impegno politico. Di fatto la o le piccole comunità cristiane di Filippi non sono relegate in un ghetto della cittadina romanizzata, ma continuano a operare in essa, tenendo alta la Parola di vita (cfr. Fil 2,16) nello stesso contesto persecutorio. Ed è in questo contrasto tra attestazione contro i ne-mici della croce di Cristo e affabilità nota a tutti gli uomini che si decide la

17 R.A. HOrsLEy, Paul and Empire: Religion and Power in Roman Imperial Society, Trinity Press International, Harrisburg (PA) 1997.

18 Analoghe critiche all’ipotesi di Horsley sono state avanzate da E. ADAms (First-Century Model for Paul’s Churches: selected Scholarly Developments since Meeks, in T.D. sTILL – D.G. HOrrELL (edd.), After the First Urban Christians, pp. 74-76.

19 m. BOckmUEHL (Jewish Law in Gentile Churches. halakhah and the Beginning of Chri-stian Public Ethics, T. & T. Clark, Edinburgh 2000, p. 139) evidenzia bene il paradosso fra le antitesi precedenti di Fil 1,27-30; 2,15.21; 3,2-14.18-21 e Fil 4,8, in cui sono assunti i valori più naturali della polis.

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loro sopravvivenza e la loro testimonianza per il vangelo di Cristo (cfr. Fil 1,27). Qual è dunque il criterio che permette di testimoniare il vangelo senza dimenticare quanto di virtuoso e lodevole si trova nella città terrena cui, comunque, si appartiene?

4. L’unica realtà che conta e fa la differenza

Le tre principali unità letterarie che si susseguono nella Lettera ai Fi-lippesi (Fil 1,12-30; 2,1-3,1a; 3,1b-4,1) sono scandite dall’unica realtà che conta e che diventa criterio unificante per quanto permette di testimoniare la croce di Cristo, senza cedere a forme di disimpegno civile o politico. Nella sezione di Fil 1,12-30 l’unica realtà che conta per Paolo è segnalata in Fil 1,18b: «Che importa? Purché in ogni modo sia annunciato Cristo, sia con finzione sia con verità; e in questo gioisco». A prima vista la priorità dell’annuncio di Cristo, a prescindere dalle intenzioni umane, potrebbe evocare una strategia machiavellica per cui il fine giustificherebbe i mezzi. In realtà, la proposizione intende evidenziare che l’annuncio di Cristo, con la parola e con la vita, sino a comportare uno stato di carcerazione, relati-vizza le intenzioni umane e punta l’attenzione sul progresso dell’evangelo (cfr. Fil 1,12). Pertanto non è il fine a giustificare i mezzi, leciti o illeciti, bensì il fine, che è Cristo, relativizza i mezzi, sino a diventare l’unica ra-gione del proprio vivere (cfr. Fil 1,20). Di conseguenza quando il fine è sottovalutato o relativizzato dai mezzi, Cristo non è più annunciato e non si verifica il progresso del vangelo fra i credenti (cfr. Fil 1,25) e tra quelli che assistono alla loro testimonianza nel Pretorio (cfr. Fil 1,13) o in qual-siasi contesto civile o forense. Se l’asserzione di Fil 1,18 è posta in parallelo con quelle mordaci contro gli altri predicatori del vangelo (cfr. Gal 1,5-10; 3,1-5; 5,2-12) si comprende come Paolo ha dovuto imparare a non confe-rire eccessiva importanza alle intenzioni umane, ma a essere iniziato a tutto perché soltanto Cristo è colui che lo rafforza (cfr. Fil 4,12-13). Pertanto la denuncia contro i cattivi operai (del vangelo) in Fil 3,2 non può delegitti-mare i credenti dalle proprie responsabilità, pena il regresso dello stesso vangelo nel contesto civile-religioso.

L’unica realtà o, in definitiva, persona che conta è ripresa all’inizio della seconda sezione di Filippesi (Fil 2,1-4,1a): «Se dunque (c’è) incoraggiamento in Cristo, se conforto dell’amore, se comunione dello Spirito, se viscere di misericordia, completate la mia gioia, affinché valutiate allo stesso modo, avendo lo stesso amore, unanimi, valutando l’unica cosa, nulla per rivalità, né per vanagloria, ma stimandovi vicendevolmente con umiltà superiori a se stessi» (Fil 2,1-3). L’esortazione per l’unica realtà è rapportata al verbo phronein, difficile da tradurre, ma che svolge un ruolo centrale nella Lettera

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ai Filippesi.20 Sulla sua definizione è importante richiamare quanto precisa Cicerone nel De officiis 1,43, a proposito della phronesis: «… I greci chia-mano phronesis e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire». L’unico phronein che Paolo sta additando per i Filippesi non è semplicemente questione di sentimenti o di pensiero, bensì di valutare con discernimento ciò che si deve perseguire e quanto, al contrario, bisogna evi-tare. Risaltano così le virtù dell’amore vicendevole (Fil 2,2), dell’umiltà (Fil 2,3) e dell’obbedienza (Fil 2,12) che riscontrano in Cristo l’esemplarità ini-mitabile (Fil 2,6-8), ma per questo causale o sorgiva. A una visione ecclesiale e politica in cui si tende a considerarsi superiori agli altri, curando i propri interessi, si oppone una che nell’umiltà di Cristo riscontra la ragione ultima del proprio modo di rapportarsi ai fratelli e alle sorelle della stessa comunità. Pertanto in questione non è la volontà, né il sentimento, bensì il modo di valutare e di pensare con discernimento quanto più conta e crea differenza rispetto alla propria carriera politica o al servizio ecclesiale.

Anche l’ultima sezione della lettera (Fil 3,1b-4,1) è scandita dalla defi-nizione dell’unico criterio: «Fratelli io non ritengo rispetto a me stesso di aver conquistato; una cosa però (conta): da una parte dimenticando ciò che sta dietro e dall’altra protendendomi verso ciò che sta davanti, corro verso la mèta, per il premio della chiamata superiore di Dio in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14). Siamo nel contesto della metafora sportivo-agonistica (Fil 3,13-4,1) che Paolo mutua dall’ambiente atletico delle città imperiali,21 ma che non è stata approfondita per la sua rilevanza politica. A riguardo è illuminante quanto Dione di Prusa (seconda parte del I sec. d.C.) scrive nell’orazione VIII o Sulla Virtù a proposito di Diogene di Sinope:22

(11) Un tale gli domandò se anche egli fosse venuto per osservare la gara (ton agona). «No, ma come partecipante (agoniomenos)». Quello si mise a ridere e gli chiese quali fossero i suoi antagonisti (tous antagonistas). (12) Egli guardandolo bieco, come era solito, disse: «I più difficili e veramente invincibili e ai quali nessuno dei greci può guardare in faccia. Non sono però avversari che corrono

20 Cfr. L’uso di phronein in Fil 1,7; 2,2.5; 3,15.15.19; 4,2.10.10.21 V.C. PfITZNEr, Paul and the Agon Motif: Traditional Athletic Imagery in the Pauline

Literature (NT. Sup. 16), Brill, Leiden 1967; U. POPLUTZ, Athlet des Evangeliums. Eine mo-tivgeschichtliche Studie zur Wettkampfmetaphorik bei Paulus (HBS 43), Herder, Freiburg i.B. 2004; M. BräNDL, Der Agon bei Paulus. herkunft und Profil paulinischer Agonmetaphorik (WUNT 2.222), Mohr Siebeck, Tübingen 2006.

22 DIONE DI PrUsA, The Eighth Discourse: Diogenes or on Virtue, J.W. cOHOON (ed.), Dio Chrysostom (LCL 257), Harvard University Press, Heinemann, Cambridge (MA) - London 1971, I, 382; ID., Sulla virtù (or. 8), M.C. Ciollaro (tr.), D’Auria, Napoli 1983.

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(diatrechontas), lottano, saltano, combattono con il pugilato, lanciano il giavel-lotto e il disco, ma quelli che rendono sapienti (tous sophronizontas)». (13) «E quali sono?», domandò. «Sono le fatiche, rispose, le più pesanti e insuperabili dagli uomini ben sazi di cibi e gonfiati che passano tutte le loro giornate a man-giare e le loro notti a russare, ma che sono vinte da uomini sottili e magri, i cui ventri son più sottili di quelli delle vespe. (14) O tu credi che questi grossi ventri (koilias) servano a qualcosa … Infatti io credo che costoro abbiano meno anima dei maiali. (15) Invece l’uomo nobile ritiene (hogeitai) che i suoi maggiori anta-gonisti siano le fatiche e con questi desidera battersi (machesthai) notte e giorno, non per ottenere un ramo di sedano, come le capre, né un ramo di olivo silvestre o di pino per ottenere la felicità e la virtù per tutta la vita e non solo quando fanno la proclamazione (dei vincitori) gli Elei, i Corinzi o l’assemblea dei Tessali. Egli non teme alcuna delle fatiche, né si augura che tocchino a un altro, (16) ma tutte di seguito le sfida, lottando con fame e freddo, e assoggettandosi alla sete… Fame ma anche esilio, disonore, e cose simili non le considera terribili per lui, ma affatto leggere e spesso l’uomo perfetto (ton teleion) gioca con queste cose, come i fanciulli con gli astragali e con le palle colorate».

Diverse sono le connessioni tra Fil 3,13-4,1 e l’orazione VIII di Dione di Prusa, non ultima quella del genere che caratterizza i due brani: la periauto-logia o il vanto di sé, cui sono costretti Paolo e Dione da una parte per con-solidare la fede dei Filippesi (cfr. Fil 3,1),23 e dall’altra per difendersi dopo le persecuzioni subite dalle autorità imperiali. Se sostituiamo il rapporto con la virtù filosofica, evidenziato da Dione di Prusa, con la relazione tra Paolo e Cristo, propria di Fil 3,14-21, risalta lo stesso modello, con la differenza fondamentale che il criterio del discernimento per l’unica realtà che conta è per Paolo la croce di Cristo, da cui scaturisce la previa conquista compiuta dal Risorto per lui e la sua conformazione quotidiana alla sua morte in vista della futura partecipazione alla risurrezione dai morti.

I tre orizzonti che abbiamo rilevato sul criterio di quanto crea la diffe-renza impongono un’importante correzione rispetto alla tipologia dell’adia-phoralogia o dell’indifferenza, diffusa nella filosofia ellenistica del I sec. d.C., e assunta da Paolo.24 Nel suo caso si dovrebbe parlare non di adiaphoralogia,

23 Sull’uso e le funzioni della periautologia nell’epistolario paolino cfr. A. PITTA, Paolo e il giudaismo farisaico, in ID., Paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Casale Monfer-rato (AL) 1998, pp. 56-58. In seguito cfr. f. BIANcHINI, L’elogio di sé in Cristo. L’utilizzo della «periautologia» nel contesto di Fil 3,1-4,1 (AnB 164), PIB, Roma 2006; s. BITTAsI, Gli esempi necessari per discernere. Il significato argomentativo della struttura della lettera di Paolo ai Filippesi (AnB 153), PIB, Roma 2003; A. PITTA, Il «discorso del pazzo» o periautologia immo-derata? Analisi retorico-letteraria di 2 Cor 11,1-12,18, in «Bib» 87 (2006), pp. 493-510.

24 Cfr. W. Deming, Paul and Indifferent Things, in J.P. Sampley (ed.), Paul in the Greco-Roman World. A handbook, Trinity Press International, Harrisburg-London - New York

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bensì di diaphoralogia, poiché è quanto o chi crea la differenza che relati-vizza il resto sia in senso negativo, sia positivo.25 Non a caso è soltanto colui che lo rafforza (cfr. Fil 4,13), che gli permette di affrontare le situazioni faste e nefaste dell’esistenza, diventando ancora una volta esempio per i Filippesi.

Conclusione

L’impatto della Lettera ai Filippesi sulla teologia politica antica e con-temporanea è notevole: la croce di Cristo, quale criterio ultimo per qualsiasi situazione politica, impone ai credenti di discernere il rapporto tra il relativo e l’assoluto, l’utile dal necessario e il bene dal male. Quando ciò che è rela-tivo rischia di offuscare l’assoluto della croce di Cristo crea uno spartiacque inevitabile tra amici e nemici nello stesso ambiente politico-religioso, pena l’estinzione di una minoranza religiosa come per la prima comunità cristiana di Filippi. In definitiva la situazione politico-religiosa della comunità cri-stiana di Filippi non è molto diversa da quella che agli inizi del II secolo Plinio il Giovane cercherà di contrastare in Bitinia, scrivendo all’Imperatore Traiano:

D’altra parte essi (i cristiani) affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio, e di obbligarsi, con giuramento, non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere furti o brigantaggi o adulteri, a non mancare alla parola data, né a negare, se invitati, di restituire un deposito. Compiuti i quali riti, avevano l’abitudine di separarsi e di riunirsi ancora per prendere il cibo, ordinario peraltro e innocente. Perfino da questa pratica avevano desistito, dopo il mio decreto, con il quale, secondo i tuoi ordini, avevo vietato le eterìe.26

Il commento più pertinente sugli sviluppi della teologia politica di Paolo, incentrata sulla sua theologia crucis, nella costante ricerca di quanto è as-

2003, 384-403; T. ENGBErG-PEDErsEN, Stoicism in Philippians, in T. ENGBErG-PEDErsEN (ed.), Paul in his hellenistic Context, T. & T. Clark, Edinburgh 1994, 262; P.A. Holloway, Consola-tion in Philippians: Philosophical sources and Rhetorical Strategy (SNTS.SS 112), University Press, Cambridge (UK) 2001, 104-106; J.L. JAqUETTE, Discerning what Counts: The Formation of the Adiaphora Topos in Paul’s Letters (SBL.DS 146), Scholars Press, Atlanta (GA) 1995.

25 A. PITTA, Mimesi delle differenze, 351.26 PLINIO IL GIOVANE, Epistola 96,7.

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soluto e relativo, si riscontra negli echi riprodotti dalla Lettera ai Filippesi nell’anonimo scritto A Diogneto, tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C.:

…Ogni terra è la loro patria e ogni patria è per loro terra straniera… La terra è la loro dimora, ma la abitano da cittadini del cielo… (en ouranoj politeuontai)… Sono combattuti dai giudei, quali uomini di un’altra razza, e perseguitati dai greci. Ma quelli che li odiano non sanno dire il motivo della loro avversità.27

27 A Diogneto 5,5-17.

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LA PAROLA DELLA CROCE, ORIGINE E RAGIONE DI GRATUITÀ

E FRATERNITÀ

Giuseppe Marco Salvati*

Introduzione

Se colpisce un prisma di cristallo, un fascio di luce si scompone, manife-stando una pluralità e una varietà di colori. Analogamente, quando la Parola della croce attraversa l’intelligenza e il cuore dei credenti, si sprigionano da essa tanti raggi limpidi, ognuno dei quali suscita meraviglia e ammirazione. Le riflessioni che qui saranno proposte vogliono esprimere qualcuno dei tanti “colori” emergenti dall’accogliere il logos tou staurou (1Cor 1,18). In particolare, esse porranno in evidenza che la croce può diventare “pietra an-golare” rispetto a una costruzione del vivere e del rapportarsi degli uomini rispettosa della loro dignità e di quella del Dio trino. La croce di Cristo è un autentico paradigma, ossia modello, riferimento, ispirazione e criterio, nei confronti dell’esercizio della nostra libertà nella storia. Chi la pone in cima alla scala dei propri valori, diventa costruttore di una civiltà nuova, capace di garantire a tutti rispetto e promozione.1 Per quale ragione?

Per comprenderlo, ci si soffermerà su tre dimensioni o aspetti della croce: essa è evento di libertà, di solidarietà e di kenosi, da cui discendono, da una parte, una nuova possibile definizione dell’identità dell’uomo, dall’altra, al-cune importanti prospettive e sfide per l’impegno dei credenti nella storia.

1. La croce, evento di libertà

La parola che Gesù rivolge ai discepoli di Emmaus: «non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26), sembrerebbe conferire all’evento della croce un carattere di inelut-tabilità, di necessità; quasi come se essa fosse per Dio l’unica condizione che porti l’uomo e il mondo alla liberazione. In verità, questa necessità è di

* Giuseppe Marco Salvati, Ordinario di Teologia Dogmatica nella Pontificia Università San Tommaso.

1 Cfr. I. HErNáNDEZ DELGADO, O.SS.T. (ed.), otro mundo, más humano, es posible. Com-pasión, Justicia y Espiritualidad, para una globalización alternativa. Actas del VI Congreso Tri-nitario Internacional, Granada 2006, Publicaciones Secretariado Trinitario, Córdoba 2008.

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carattere subordinato e successivo, rispetto a un progetto libero, che il Dio trino vuole realizzare a favore delle sue creature. È all’interno di una storia di libertà vissuta dai Tre che s’inscrive una sorta di necessità conseguente, quella di una dedizione di sé, che vuole giungere fino alla morte e alla morte di croce di Gesù di Nazaret. Senza questo riferimento fondamentale, si ri-schierebbe, da una parte, di falsare il senso corretto dell’evento della croce; dall’altra, di intendere in modo non preciso l’identità di Dio, fino a imma-ginarla come quella di un essere sadico e spietato. Si rischierebbe, inoltre, di presentare il cristianesimo in modo distorto, come la religione che esalta il dolore e, di conseguenza, come esperienza inaccettabile, da parte di chi desideri esercitare con equilibrio le proprie capacità e voglia tutelare con attenzione la propria dignità.

Invece, si deve sempre ricordare che il comunicarsi di Dio alla storia è un evento di libertà, di gratuità («piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso»: Dei Verbum 2). È all’interno di questo libero disegno che s’inscrive l’evento del Calvario; al di fuori di esso, la croce continuerebbe a configurarsi come una delle più insensate e drammatiche esperienze della storia e, per questo, sarebbe giustamente da tenere rigorosamente lontana dalla mente e dal cuore di ogni uomo.2 Il Dio di Israele e dei cristiani non è un Dio che si compiace del male; non lo vuole, quasi fosse un elemento indispensabile dell’essere e del vivere. Certo, l’esistenza del male e del ne-gativo costituisce da sempre una delle più difficili sfide poste all’esperienza dei credenti e uno degli impegni più ardui del pensiero che voglia conciliare la bontà di Dio con l’esistenza del negativo.3 La croce sta a dimostrare che Dio non si tiene ai margini dell’esperienza del dolore, ma la fa propria, in qualche maniera; anzi, nel Figlio, la assume fino alle estreme conseguenze, con serietà.4

La croce è un evento di libertà anche sotto un ulteriore e importantis-simo profilo: quello più strettamente cristologico; Gesù di Nazaret è stato protagonista di una storia singolare, che lo vede all’opera quale soggetto capace di autentiche azioni umane (oltre che di azioni possibili solo in virtù

2 cIcErONE, Pro Rabirio, 5, 16: «Nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium Romanorum, sed etiam a cogitatione, oculis, auribus».

3 Su questo complesso tema, cfr., tra l’altro: Rivista «Humanitas» 5 (2008); c. cIANcIO, Del male e di Dio, Morcelliana, Brescia 2006; V. POssENTI, Dio e il male, SEI, Torino 1995; G. TANGOrrA – D. POmPILI (a cura di), Il male e i suoi volti, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2003.

4 Cfr., ad es., B. fOrTE, Il vangelo della sofferenza di Dio, in «Camillianum» 21 (2007), pp. 589-604. Con atteggiamento più prudente si è espresso recentemente sul tema G. cANOBBIO, Dio può soffrire?, Morcelliana, Brescia 2005.

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del possesso della divinità).5 Nella storia di Gesù, la croce costituisce la na-turale conclusione di una vita vissuta costantemente nello sforzo di attuare il significato più profondo della libertà umana, che consiste nel determinarsi verso un fine individuato dall’intelligenza, mettendo in atto tutte le scelte, piccole o grandi, che si rendono necessarie per conseguirlo. Gesù di Nazaret ha eletto quale fine precipuo del proprio esistere il Padre e il suo progetto, nulla anteponendo ad esso; in nome di questo fine luminoso e faticoso da attuare, egli ha posto in essere i gesti concreti testimoniatici dai Vangeli: la predicazione del Regno, l’insegnamento parabolico, la chiamata dei Dodici, le polemiche, i dibattiti. Nel nome del Padre, ha affrontato con coerenza e a testa alta le autorità politiche e quelle religiose, disposto a pagare di persona il prezzo delle proprie scelte, senza tentennamenti, anche se con tutto il di-sagio umano che inevitabilmente accompagna l’esercizio della libertà.

Stando al cospetto della croce, una prima domanda si impone: la comu-nità cristiana si è sempre lasciata contagiare da questa libertà, vissuta dal Signore Gesù con coerenza che giunge fino alla morte? Non è difficile con-statare quanti martiri della libertà siano fioriti in duemila anni di cristiane-simo; ma è altrettanto corretto riconoscere che molte volte i credenti si sono resi responsabili di gravi offese alla libertà. Troppe volte la croce è servita da scusa e da scure per offuscare la libertà; non sono state poche le occasioni in cui sulla croce di Cristo sono state inchiodate le persone e le coscienze. In questo senso, la Parola della croce torna a risuonare come un monito per la chiesa del terzo millennio, affinché essa si faccia promotrice e garante delle libertà, se vuole pronunciare un messaggio veramente coerente con la parola e con la prassi del suo Maestro. La comunità di coloro che vivono la sequela Christi ama e promuove la libertà: sulle orme del Signore, con Paolo, sap-piamo di essere «stati chiamati a libertà» (Gal 5,3).

2. La croce, evento di solidarietà

Oltre che conclusione di una storia di libertà, la croce di Cristo è anche punto di arrivo di una storia di solidarietà, che il Cristo ha voluto vivere, in obbedienza al Padre, già prima di esercitare, nel mondo e nel tempo, l’espe-rienza del vivere umano: «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di

5 Sulla libertà di Gesù, cfr., ad es.: C. DUqUOc, Gesù uomo libero, Queriniana, Brescia 20074.

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croce» (Fil 2, 6-8). La comunità cristiana primitiva ha percepito molto bene questo aspetto della storia del suo Signore, in particolare degli eventi finali della sua vita. Non a caso, quando ha cercato di comprendere il senso di ciò che era accaduto sul Calvario, ha fatto ricorso alla figura del Servo sofferente (Is 52,13 - 53,1-12), emblema luminoso della solidarietà che si fa carico del peccato e del dolore dei fratelli. Solo in un orizzonte di solidarietà, come fa sempre la Scrittura, si può tollerare che il giusto muoia per il peccatore; solo là dove è in atto la “comunione del pane e del peccato” può trovare spazio e senso il consumarsi a favore del fratello, anche fino alla morte.

Nel mondo e nel tempo del cosiddetto “quarto uomo”,6 che, pur vivendo nel villaggio globale, è tutto autoreferenziale e sostanzialmente chiuso nel proprio io, non sempre si riesce a far apprezzare il senso della solidarietà; quest’ultima, per i credenti, è una necessità che discende dal fatto che gli uomini sono profondamente vincolati fra di loro e con tutte le creature del mondo. La solidarietà comporta l’impegno a farsi carico, l’uno a favore dell’altro, della costruzione del bene, della lotta contro ciò che mortifica, della difesa degli ultimi. In questo senso, la croce, oltre che punto di arrivo, è chiaramente per la comunità ecclesiale punto di partenza di un atteggia-mento di comunione solidale e di condivisione, nella consapevolezza che essa non protegge dal rischio dell’irrisione e del disprezzo, da parte di chi è preoccupato esclusivamente dei propri privilegi.

Obbediente alla Parola della croce, la Chiesa è chiamata a continuare a fare scelte di solidarietà, come quasi sempre ha fatto nel corso dei secoli, anche a costo di scandalizzare i benpensanti e di urtare il perbenismo che si annida nel cuore di ogni uomo e, talvolta, anche della stessa comunità cri-stiana. Se viene a mancare il coraggio della solidarietà, verrà inevitabilmente immessa l’acqua di un verbo borghese ed egoista nel “vino” della Parola della croce.

Per concludere, è utile notare che questa dimensione di solidarietà non può prescindere da quella della libertà; una libertà senza solidarietà tende a diventare egoismo; una solidarietà senza libertà si trasforma ben presto in un giogo insopportabile. Una libertà solidale e una solidarietà libera garanti-scono il realizzarsi di una società più umana e più fraterna.

6 Cfr. G. mOrrA, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità, Armando, Roma 1996. Viene così definito l’uomo dell’epoca contemporanea, che non pensa più se stesso se-condo la prospettiva greca (primo uomo o della razionalità), né a partire dalla visione ebraico-cristiana (secondo uomo: immagine di Dio), né secondo la prospettiva moderna (terzo uomo: affermazione dell’antropocentrismo), bensì quale essere la cui vita è geschehen ohne Ge-schichte (J. Freund), accadimento puntuale, puro processo, immersione esclusiva nell’hic et nunc.

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3. La croce, evento di kenosi

Come si è detto, la croce porta la comunità ecclesiale a intraprendere ini-ziative di libertà e di solidarietà; si potrebbe obiettare che questi due valori possono essere presenti anche in chi non condivide l’esperienza cristiana ed è invece mosso da motivazioni di carattere politico e/o ideologico. C’è, però, un aspetto della croce di Cristo che spicca in tutta la sua originalità e incon-fondibilità e che dà all’impegno cristiano una sua indiscutibile originalità. La croce è anche un evento di kenosi che coinvolge Dio stesso, è un evento trinitario, in quanto vede in azione il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.7 Il Padre è colui al quale si deve attribuire l’iniziativa dell’evento della croce; ed è anche l’appassionato e il misericordioso compagno del Figlio nel dolore; nello stesso evento viene anche a realizzarsi la giustizia del Padre, che è prin-cipio di salvezza e non di condanna, di vita e non di morte.

Il Figlio, invece, è l’abbandonato (Mc 15,34) che sperimenta tutto il do-lore possibile, essendosi fatto vittima di espiazione al nostro posto, per vin-cere con il proprio amore al Padre il non-amore dei peccati degli uomini.

Lo Spirito, infine, sostiene il Figlio (Eb 9,14), trasformando l’impegno di quest’ultimo in dono che ottiene il perdono e conferisce un valore nuovo e benefico non soltanto alla croce del Nazareno, ma a tutte le croci e a tutto il dolore che si verificheranno nel corso del tempo.

Nella croce di Gesù si vede fino a qual punto si spinga l’amore autentico: esso non è solo esercizio di libertà e di solidarietà, ma dono totale di sé, di-stacco e dedizione senza limiti; follia e stoltezza apparenti che arrivano fino al dramma dello “svuotamento” di sé. Parlando dell’evento del Calvario e riferendosi in modo particolare al grido di abbandono del Nazareno (Mc 15,34), J. Moltmann è arrivato ad affermare che sul Calvario si consuma un dramma che riguarda Dio in se stesso: nell’ora della croce, dice il teologo di Tübingen, si spezzano le relazioni trinitarie, perché il Figlio perde la pro-pria figliolanza e il Padre la propria paternità.8 Ciò per indicare con quanta serietà Dio si lasci coinvolgere in questo evento. Senza giungere a queste inammissibili affermazioni, è però necessario ammettere, come ha fatto a suo tempo H.U. von Balthasar, che la croce deve essere pensata quale teo-

7 Su ciò, mi permetto rinviare al mio Teologia trinitaria della croce, LDC, Leumann (TO) 1987, in particolare pp. 107-149.

8 Cfr. Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 20087.

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dramma che non sfiora, ma coinvolge la Trinità, al fine di sanare ed elevare coloro che erano perduti.9

Per questa ragione, coloro che contemplano il Calvario quale nuovo Oreb dove Dio si è rivelato in modo sconvolgente, diventano consapevoli che lo stile di servizio e di rinnegamento di sé per amore dei fratelli è l’unico che sia degno del vivere cristiano. La legge del do ut des viene violentemente conte-stata dalla croce di Cristo. Morendo sulla croce, Gesù di Nazaret conferma con i fatti la parola pronunciata durante i suoi giorni terreni: «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

4. La croce, fondamento e sfida

Alla luce della “portata” trinitaria della croce, ma anche della liberà e della solidarietà che in essa si sono manifestate, è necessario riscrivere non soltanto la morale, ma prima ancora l’antropologia cristiana: ormai non è più sufficiente definire l’uomo quale immagine di Dio, come fa la Scrittura, in diverse occasioni (cfr. Gen 1,26-27; Sap 2,23; 1 Cor 11,7); né basta definirlo quale eterna premura di Dio, come suggerisce A. Heschel.10 È necessario an-dare oltre e riconoscere che l’uomo è colui la cui amabile povertà ha spinto Dio nei meandri oscuri del limite, del soffrire, nelle tenebre e nell’ombra della morte. La croce sembra suggerire una nuova e scandalosa definizione dell’uomo: egli è l’eterna passione di Dio, dove il termine “passione” è da intendersi (come il pati latino) in senso attivo e passivo, ossia come impegno carico di amore, di affetto, di dedizione a favore dell’uomo; ma anche come esperienza di un prendere su di sé, subire, solo per amore, tutta la ricchezza e la povertà dell’amato. Nessuna premessa razionale può condurre a queste affermazioni; non ci sono rationes necessariae che possano condurre l’intel-ligenza credente a tali scandalose convinzioni. Solo il logos tou staurou, che annichilisce le nostre aspettative, può condurci a proclamare questo conso-lante messaggio: le creature stanno talmente “a cuore” al loro Creatore, da farlo entrare, per amore, nell’abisso del dolore e della morte.

La lettura trinitaria della croce conferisce nuovo senso all’alta stima verso l’uomo, che già emerge da tante pagine della Scrittura e del pensiero teologico. Dopo l’ora del Calvario, non basterà più affermare, con il Sal-

9 Cfr. Mysterium paschale, in J. fEINEr – m. LöHrEr, Mysterium salutis. Nuovo corso di dogmatica come storia della salvezza, vol. III/2, Brescia 19732, pp. 171-412; attualmente il saggio è pubblicato con il titolo Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Queriniana, Brescia, 20087.

10 Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 20072, p. 12.

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mista, «che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,5-6); né sarà sufficiente affermare, con Leone Magno, «riconosci, cristiano, la tua dignità».11 Ormai bisogna andare “oltre”, senza timore, accettando il rischio di un’esaltazione dell’uomo che si spinga fino a presentare Dio quale Signore innamorato, debole e umile.

Illuminati e confermati dalla luce pasquale, i credenti sono di conse-guenza chiamati anzitutto a ripensare con serietà se e quanto la passione per l’uomo incida nella loro visione della storia, del mondo, della Chiesa, della società. Inoltre, essi sono chiamati a raccogliere una triplice sfida prove-niente dall’evento del Calvario. In quanto evento di libertà, la croce è sfida permanente a verificare se l’irruzione di Dio nella nostra storia e il nostro aprirci a Lui nella fede si configurino come esperienza liberante. In quanto evento di solidarietà, la croce ci chiama a interrogarci costantemente sul li-vello effettivo di promozione della comunione fraterna che il cristianesimo ha prodotto e produce in coloro che dicono di viverlo o di ispirarsi ad esso. In quanto evento di kenosi, la croce è sfida continua a considerare con se-rietà la nostra capacità, come singoli e come comunità, di spenderci a favore dell’uomo, soprattutto se povero; ed è anche sfida a verificare se nelle nostre scelte siamo più autoreferenziali che dediti al servizio: se la Chiesa vuole essere fedele alla Parola della croce non può che porsi nella storia in atteg-giamento di diakonia, di servizio disinteressato, di attenzione ad ogni uomo. Quella del futuro, o sarà una Chiesa tutta ministeriale, al suo interno e nei confronti del mondo, o non sarà più.

Conclusione

La comunità cristiana vuole essere in prima fila nella costruzione della civiltà dell’amore; essa si lascia continuamente sedurre, raggiungere e con-tagiare dall’amore di un Dio appassionato dell’uomo. La croce impegna la comunità ecclesiale ad una presenza nella storia che non può fondarsi sulla reciprocità, ma esclusivamente sulla gratuità. La croce, quale evento trini-tario, “allena” al dono; mette in crisi l’egoismo che anima buona parte dei rapporti fra gli uomini e i popoli. Nello stesso tempo, la croce dei Tre è sti-molo a combattere tutte le cause che provocano la sofferenza dell’innocente; non è “oppio” che fiacca la reazione al male e alle ingiustizie, ma base di una ferma presa di posizione contro tutto ciò che non favorisce il bene dell’uomo

11 Sermo 21, 3: CCL 138, 88 (PL 54, 192-193).

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e non aiuta gli ultimi a recuperare la dignità perduta.12 Essa è sfida a non fermarsi a una generica filantropia, ma a volere e coltivare una fraternità che discende non solo dal nostro essere tutti immagine di Dio e oggetto della sua premura, ma anche, e soprattutto, della sua passione.

12 Su ciò mi permetto di rinviare al mio Ubi crux, ibi amor Dei et hominis: il soffrire umano come luogo dell’amore e dell’impegno, in «La Sapienza della Croce» 4 (1991), pp. 219-225.

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IL SIGNIFICATO, NELLA CONCRETEZZA DELLA VITA CRISTIANA,

DEL “MORIRE A SE STESSI” COME FRUTTO DELLA CONTEMPLAZIONE

DELLA PASSIONE DI CRISTO

Antonio Livi*

Introduzione

L’abnegazione o rinuncia a se stessi è una chiara condizione che Cristo pone a coloro che vogliono “seguirlo”. Nel porre questa fondamentale con-dizione per la sua sequela, Cristo non ne dissimula l’estrema asprezza, né si esprime in termini ambigui, tali da consentire di evadere con fughe men-tali da questa radicalità e di rifugiarsi nel vago dell’astrattezza (come invece fanno molti esegeti di oggi che si ostinano a interpretare quelle parole come una delle tante iperboli consuete nel linguaggio semitico). Anzi, Gesù tiene il suo discorso strettamente ancorato al concreto: ponendosi come modello ai suoi discepoli, Gesù fa loro intendere il senso delle sue parole con un espli-cito collegamento al mistero della sua Passione. L’abnegazione o rinuncia a se stessi è dunque qualcosa di estremamente concreto: Cristo chiede ai suoi discepoli di prendere ciascuno su di sé la propria croce, per poter così somi-gliare a Lui che ha manifestato al mondo l’amore redentivo di Dio offrendosi liberamente alla morte in Croce.

Questa radicalità della sequela non va però intesa al modo delle religioni naturali e delle varie forme di ascesi pagana; non è un impegno morale sorretto dalla sola volontà umana e dalle forze naturali: è un dono della grazia divina nell’anima del credente, è il frutto della carità che anima ogni intenzione e ogni azione di coloro che il Battesimo ha reso figli adottivi di Dio nel Figlio eterno del Padre, proprio come effetto dell’oblazione di Cristo sulla Croce. La nostra speranza si basa proprio su questo dono so-prannaturale che il cristiano sa, per fede, di avere ricevuto e che non gli sarà tolto se lui lo saprà custodire: leggiamo infatti che «la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Per questo motivo, l’imitazione dell’amore oblativo di Gesù non deve essere considerata come una specie

* Antonio Livi, emerito di Filosofia della conoscenza nella Pontificia Università Latera-nense. Presidente dell’ISCA (International Sensus Communis Association).

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di ideale irraggiungibile, e nemmeno si può pensare che essa sia riservata a cristiani “speciali”, particolarmente “spirituali” (come hanno sempre vo-luto far intendere gli gnostici fin dai primi tempi del cristianesimo), essa è la vocazione comune a tutti i cristiani, è la normale pienezza della vita di grazia, è semplicemente il pieno esercizio delle virtù infuse della fede, dell’amore e della speranza. Il possibile ostacolo all’attuazione di questo piano divino nella vita di noi credenti non è costituito dalla nostra naturale debolezza e dalla inevitabile miseria che è propria di ogni creatura umana, ma la mancanza di fede viva nella verità rivelata da Cristo e annunciata infallibilmente dalla Chiesa. Ciò che può costituire davvero un ostacolo insuperabile alla pienezza della vita cristiana (nella quale ascetica e mistica sono assolutamente “normali”) è dubitare che Gesù abbia parlato in questi termini o che le sue parole debbano essere prese alla lettera. Insomma, l’ostacolo è – come dicevo – quella fede incerta che porta a interpretare come metafore astratte termini come “rinuncia”, “croce” e “morte”, come se non fossero tremendamente reali nel racconto della Passione del Signore e come se non fosse reale l’identificazione con Cristo che ci è garantita nel Battesimo. Questo, così come ogni altro mistero contenuto nella Parola di Dio, che noi credenti possiamo comprendere con i criteri elementari e asso-lutamente logici del senso comune (ossia, ciò che tutti i destinatari della Ri-velazione possono e debbono intendere), è necessario e sufficiente perché la Parola di Dio abbia in noi l’efficacia soprannaturale per la quale ci è stata rivolta dal Verbo incarnato. Se invece questo insegnamento di Cristo, come tutti gli altri misteri soprannaturali contenuti nella dottrina cristiana, viene ridotto a schemi di astratto spiritualismo naturalistico (schemi del tutto illogici, oltre che inadeguati), la “parola della Croce” perde tutta la sua efficacia divinizzatrice. Se noi cristiani arretriamo di fronte alla richiesta di Cristo di “morire a noi stessi”, non è per meschinità di spirito ma per insufficienza di fede: non siamo del tutto convinti che Gesù ce lo abbia chiesto, oppure non siamo del tutto convinti che Gesù ce ne abbia garantito davvero la possibilità donandoci il suo Spirito. Per questo io ritengo che l’ermeneutica teologica – e di conseguenza la catechesi – debbano pun-tare primariamente a mettere in evidenza ciò che nella dottrina cristiana è assolutamente vero, cioè indubitabile, nei termini nei quali tutti possono comprenderlo, lasciando da parte tutto il resto, cioè le diverse ipotesi di interpretazione, sia popolare che accademica.

Voglio allora indicare in forma sintetica, in tre punti, quali sono – al di là delle pur legittime teorie esegetiche e dei diversi orientamenti delle scuole di teologia ascetica e mistica – gli elementi della dottrina di Gesù sulla radicale abnegazione richiesta a ogni cristiano. Metterò in rilievo soprattutto ciò che si evince dalla vita e dalla predicazione del Maestro in rapporto alla rinuncia più difficile per ognuno di noi: la rinuncia a primeggiare, al protagonismo,

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all’apparire, alla ricerca del consenso degli altri; il cristiano, infatti, è vera-mente unito alla Passione di Cristo solo quando egli è disposto ad accettare che la sua vita si consumi, per amor di Cristo e dei fratelli, nel sacrifico na-scosto e silenzio, disposto in ogni momento a operare (quale che sia il suo lavoro, civile o ecclesiastico) nel nascondimento, senza gloria umana alcuna, quando il bene della comunità lo richiede.

1. La speranza del cristiano, fondamento del distacco del cuore dai beni temporali

La vita del cristiano deve essere improntata alla pratica effettiva delle virtù teologali: fede, speranza, carità. Senza la fede, non ci sono né vera spe-ranza cristiana né vera carità cristiana; ma praticare la carità secondo la vera fede e la vera speranza significa in concreto rinunciare a ogni illusorio “para-diso in terra”, all’utopia secolaristica del Paradise now; significa cioè rinun-ciare a ogni ricompensa umana nel tempo della vita presente, rinunciare a ogni gloria e persino a ogni riconoscimento da parte del “mondo”, fissando la propria speranza solo nella vita eterna, dove ci aspetta la ricompensa so-prannaturale infallibilmente promessa da Dio a coloro che sono stati come il «servo buono e fedele» della parabola o hanno potuto dire con san Paolo: «Ho percorso fino in fondo il cammino della mia vocazione; ho conservato la fedeltà a Cristo; ora è pronta per me la corona di giustizia che Dio ha riser-vato a coloro che attendono con amore la sua venuta» (2Tim 4,8). Lo stesso san Paolo compendia in un’altra pericope, anch’essa tutta in prima persona, i tratti fondamentali della speranza soprannaturale che porta il cristiano a subordinare ogni interesse temporale al supremo interesse dell’amore di Cristo:

Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giun-gere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14).

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Occorre però rendersi conto che tutto ciò è talmente soprannaturale che solo la grazia di Cristo, che ogni cristiano riceve nella Chiesa con i sacra-menti della fede, lo rende possibile; ma proprio perché è totalmente sopran-naturale, tutto ciò è anche alle aspirazioni del nostro cuore ancora troppo pagano, contrario soprattutto alle tendenze incoercibili della nostra natura decaduta, sicché nessun eroismo umano ne è minimamente capace (anzi, l’eroismo umano comporta quasi sempre l’orgoglio e la presunzione, cioè proprio il contrario della fiducia in Dio solo). Ma chi vive vita teologale – vita autenticamente contemplativa, fatta di preghiera e di ricerca della vo-lontà di Dio – è capace di una completa abnegazione, fino a “morire a se stesso”. Lo testimoniano le vite dei santi, che di questo vero eroismo non solo non si vantavano, ma nemmeno si rendevano conto, tanto erano distac-cati da sé e poco preoccupati della propria “immagine” di fronte al mondo. La loro fede semplice e sincera – ben motivata, perché basata sulla Parola di Dio presa come assolutamente vera e sine glossa – li portava a pensare, in perfetta umiltà, che quello che Gesù chiedeva loro essi potevano farlo perché Gesù stesso lo rendeva possibile; avevano infatti letto quello che, divinamente ispirato, affermava san Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).

La lezione di Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi è, in questo senso, straordinariamente illuminante. Il Papa che ha più volte denunciato, anche nel recente Anno sacerdotale (2009-2010), il vizio di tanti ecclesiastici che nello stesso esercizio del ministero sacerdotale sono preda dell’ambizione e cedono alle lusinghe del carrierismo, sa molto bene che il sacerdote, come ogni cristiano, vive unito a Cristo in Croce solo se è animato dalla speranza soprannaturale, solo se aspira ai beni eterni e rinuncia decisamente e coe-rentemente a ogni bene temporale che sia di ostacolo alla missione di carità o addirittura comporti l’apostasia dalla fede. Egli cita infatti la Lettera agli Ebrei dove si legge: «Avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di pos-sedere beni migliori e più duraturi» (Eb 10,34). E commenta:

Questa “sostanza”, la normale sicurezza per la vita è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L’hanno sopportato perché comunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla perché avevano trovato una “base” migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che nessuno può togliere. […] La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l’uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l’affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova li-bertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente

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negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova “sostanza” che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce, a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni istituti e movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiu-tare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima.1

2. La rinuncia alle ambizioni terrene

Questo discorso si può applicare, senza alcuna sostanziale modifica, anche ai beni temporali che vanno ben oltre il benessere materiale: si tratta soprattutto dell’onore, della fama, del riconoscimento pubblico delle pro-prie fatiche e dei propri meriti; ma si tratta anche del potere, ossia la posi-zione di preminenza rispetto ad altri della propria comunità di vita e di la-voro. La rinuncia a questi beni temporali è ardua quanto e più della rinuncia ai beni che sono soltanto materiali, e solo la speranza cristiana la rende pos-sibile a noi uomini mentre viviamo su questa terra. La vita contemplativa, che come dicevo è il nutrimento quotidiano della speranza del cristiano, è l’ambiente spirituale nel quale la grazia divina fa germogliare nell’anima del cristiano la speranza; il motivo è che la vita contemplativa è necessariamente incentrata sull’insegnamento che Gesù ci dà dalla Croce, dove il Figlio di Dio, Colui che «era passato facendo del bene e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» (At 10,36), muore tradito da uno dei suoi discepoli, ingiustamente condannato dalle autorità religiose del suo popolo e dall’autorità civile romana, abbandonato dai tanti del popolo eletto da Dio che erano stati testimoni dei suoi miracoli e avevano ricevuto innumere-voli benefici materiali e spirituali: muore, dopo essere stato torturato, con la morte dei malfattori, denudato persino delle vesti, appeso a una croce, che è il supplizio che la Legge mosaica considera una maledizione, come gli ri-cordano crudelmente proprio i dottori della Legge che assistono al supplizio per insultarlo.2

1 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 8.2 Cfr. Gal 3,13s: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui

stesso maledizione per noi, come sta scritto: “maledetto chi pende dal legno”, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede».

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3. La vita contemplativa, ossia la normalità della vita di fede

Ora, la vita contemplativa è resa possibile dalla fede che accoglie il Van-gelo di Cristo e Cristo stesso come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) di ciascun credente. La fede, tramite la vita contemplativa, porta a un rapporto personale di amore con Cristo, ed è bene ricordare che il rapporto personale di amore con Cristo deve spingere il cristiano a condividere senza riserve i misteri della sua vita terrena e di assimilarne i valori salvifici che contengono: l’incarnazione del Verbo, portatrice di un amore-umiltà che si abbassa fino ad assumere la nostra condizione di “servi” (cfr. Fil 2,7), cioè di creature di-pendenti le une dalle altre e tutte da Dio; la fuga in Egitto, che dà significato ad un amore perseguitato; la vita nascosta a Nazaret, che rivela un amore nascosto e obbediente (cfr. Lc 2,52); la vita pubblica del Cristo, che fa spe-rimentare un amore che è annuncio di salvezza e prova della sua divinità at-traverso miracoli (cfr. Mt 5,1-9,34); la passione e la morte del Signore Gesù, che realizza la redenzione (cfr. Mt 26,1-27,66); la risurrezione e ascensione al cielo del Signore, che proclama l’istituzione di una vita nuova per coloro che crederanno (cfr. Mc 16,1-20); l’espansione della Chiesa Corpo del Cristo, che proietta nel futuro un amore-salvezza di portata universale (cfr. At 1,1-14,28). Per il cristiano, il suo essere radicato in Cristo per la grazia del Bat-tesimo implica una totale simbiosi con il mistero di Cristo. Nessun aspetto dell’identità spirituale del cristiano e della sua attività sussiste separato da Cristo, ma scaturisce dalla realtà profonda del suo «essere in Cristo nuova creatura» (cfr. 2 Cor 5,17; Gal 6,15).

L’unione mistica con Cristo (che non è privilegio di quei pochi che si ritengono “spirituali”, ma vocazione di tutti nella Chiesa) comporta l’imita-zione di Cristo. Lo ricordava Giovanni Paolo II in un documento magiste-riale nel quale si compiaceva per l’efficacia dottrinale del Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento pastorale da lui stesso fatto elaborare e messo a disposizione di tutta la comunità dei credenti:

Leggendo il Catechismo della Chiesa Cattolica si può cogliere la meravigliosa unità del mistero di Dio, del suo disegno di salvezza, come pure la centralità di Gesù Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, mandato dal Padre, fatto uomo nel seno della Santissima Vergine Maria per opera dello Spirito Santo, per essere il nostro Salvatore. Morto e risorto, Egli è sempre presente nella sua Chiesa, particolar-mente nei sacramenti; Egli è la sorgente della fede, il modello dell’agire cristiano e il Maestro della nostra preghiera.3

3 GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Fidei depositum, III.

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4. Il superamento dell’ambizione e della vanità

Di Gesù, però, il cristiano deve imitare tutto: dalla vita nascosta a Na-zaret all’ignominia della Croce. Lo stile con cui va esercitato il ministero sacerdotale deriva direttamente dalle azioni e dalle parole di Gesù; come ha insegnato il Concilio Vaticano II, nella vita di Cristo i gesti e le parole si spiegano mutuamente (cfr. Dei Verbum, 2), sicché è impossibile che un cristiano capace di contemplazione non si senta impegnato a seguire Cristo nella via della rinuncia e dell’umiltà, l’unica via lungo la quale si può eserci-tare un autentico apostolato. La magna charta dell’apostolato, che null’altro è se non l’unione del cristiano con Cristo, l’Inviato del Padre, si trova in queste parole di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Il santo Vescovo di Ippona lo ricordava ai suoi sacerdoti e a tutti i fedeli con queste considerazioni:

Per guarire la tua superbia, il Figlio di Dio è sceso; si è fatto umile. Perché inor-goglirti? Per te Dio si è fatto umile. Forse ti vergogneresti a imitare l’umiltà di un uomo; imita almeno l’umiltà di Dio. Il Figlio di Dio si è fatto umile; è venuto nell’uomo. A te, viene ordinato di essere umile; non ti viene domandato di di-ventare una bestia. Lui, Dio, si è fatto uomo. Tu, uomo, riconosci che sei uomo; tutta la tua umiltà consiste nel conoscerti. Ascolta Dio come ti insegna l’umiltà: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» [Gv 6,38]. Sono venuto, umile, ad insegnare l’umiltà, come maestro di umiltà. Colui che viene a me, viene incorporato in me; diviene umile. Chi aderisce a me sarà umile; non fa la mia volontà, ma quella di Dio. Perciò non sarà respinto [Gv 6,37], come quando era superbo.4

5. La spiritualità sacerdotale

Per i sacerdoti, i quali hanno il compito di partecipare ai tria munera di Cristo come cooperatori del collegio episcopale, questa identificazione personale – costantemente richiesta a Cristo stesso come grazia e fedelmente vissuta nell’esercizio quotidiano del ministero – con l’umiltà di Cristo è par-ticolarmente necessaria, e anche particolarmente difficile. La vita del sacer-dote è costantemente minacciata dalla tentazione di confidare nei propri mezzi umani e nelle risorse naturali che il mondo gli offre; la logica umana del prestigio sociale (anche ecclesiale), che richiede anche una certa capacità di “farsi conoscere” (cioè, alla fine, di farsi pubblicità); il desiderio di met-

4 AGOsTINO, Discorsi, III, 14.

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tere la propria “firma” nelle imprese personalmente realizzate; l’orrore per il “passare inosservati”; l’incapacità di accettare l’ingratitudine degli altri e il misconoscimento dei propri meriti; l’invidia e la gelosia per i successi pub-blici dei propri confratelli e per le loro eventuali promozioni: ecco altrettanti elementi di debolezza morale che concorrono a inoculare nel sacerdote il virus del “carrierismo”, tante volte deprecato dal papa Benedetto. Quando questo virus ha attecchito nell’anima, il sacerdote rischia di non essere più capace di prendere sul serio – al di là della facile retorica in voga presso gli ecclesiastici – gli insegnamenti di Gesù sull’umiltà, così espliciti e ripetuti anche in negativo, a proposito dell’ipocrisia dei sacerdoti dell’antica Legge. Papa Leone Magno, che aveva vissuto con intima sofferenza il passaggio dalla vita monastica (dove era assicurata la quiete per la contemplazione) all’impegnativo compito di governo della Chiesa universale, scriveva:

Con quale attitudine il fariseo, che saliva al Tempio per farvi la sua preghiera, e aveva fortificato la cittadella della sua anima, si disponeva a digiunare due volte la settimana e pagare le decime di quanto possedeva. Dicendo «O Dio, ti ringrazio», è ben chiaro che aveva messo in atto tutte le precauzioni imma-ginabili per premunirsi. Ma lascia una breccia aperta ed esposta al suo nemico aggiungendo: «Che non sono come questo pubblicano». Così, con la vanità, ha concesso al suo nemico di poter entrare nella città del suo cuore, che pur tuttavia egli aveva chiuso con i chiavistelli dei suoi digiuni e delle sue elemosine. Tutte le altre precauzioni sono dunque inutili, quando rimane in noi qualche apertura at-traverso la quale il nemico possa entrare... Questo fariseo aveva vinto la gola con l’astinenza; aveva superato l’avarizia con la generosità... Ma quanti sforzi in vista di questa vittoria sono stati annientati da un solo vizio? Dalla breccia di una sola colpa? Per questo, bisogna non soltanto pensare a praticare il bene, ma anche vegliare con cura sui nostri pensieri, per tenerli puri nelle nostre opere buone. Perché se sono fonte di vanità o di superbia nel nostro cuore, combattiamo al-lora soltanto per vana gloria, e non per la gloria del nostro Creatore.5

La spiritualità del sacerdote consiste allora principalmente nella consape-volezza di dover mettere a frutto, con la “morte a se stesso”, il dono gratuito che gli rende doverosa e possibile l’imitazione del sacrificio di Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, per la salvezza di “molti” tramite la sua Chiesa. È questo il dono con il quale lo Spirito Santo, dator munerum, ha reso possibile lungo la storia l’efficacia soprannaturale del sacerdozio ministeriale, consentendo al sacerdote quell’intima unione con Cristo e che rivela al mondo la santità di Dio stesso. Questa comunione con il Signore, che è – ripeto – la normale

5 GrEGOrIO mAGNO, Moralia, cap. 76.

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condizione del cristiano e che nel sacerdote si configura come partecipa-zione al sacerdozio di Cristo, per poter agire in persona Christi Capitis, fa sì che egli possa dire con san Paolo: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21), avendo sempre presente quello che Gesù disse agli Apostoli nel discorso di addio: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Così nella sua anima c’è in ogni momento la certezza di essere in grado di percorrere la strada della santità praticando con tutti la carità pastorale, nella completa dimenticanza di sé.

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I FONDAMENTI STAUROLOGICI DI UN’ETICA SOCIALE CRISTIANA

Adolfo Lippi*

1. Bibbia e Sociologia: qualche parola fondante

Il capitolo ventesimo di Matteo ci presenta un quadretto pittoresco. Due dei discepoli più vicini a Gesù, gli apostoli, mandano avanti la loro mamma per strappare al Maestro una concessione che può essere molto importante per il loro futuro: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra nel tuo Regno». Sedere alla destra e alla sinistra di un re o di un personaggio molto importante era un’immagine-simbolo imme-diatamente comprensibile nelle culture orientali. Significava condividere il potere di quel re o personaggio. Tanto è vero che gli altri discepoli capiscono al volo il senso del tentativo fatto dai due fratelli: lo vedono come un tenta-tivo di garantirsi il potere a loro danno, di diventare i primi nel nuovo Regno che stavano aspettando.

Gesù avrebbe potuto inquietarsi per l’ottusità che gli apostoli manife-stano in questi litigi, nonostante i lunghi anni di insegnamento e immediata-mente dopo una sua predizione della Passione. Invece instaura con i due fra-telli un dialogo il cui senso sarà capito forse soltanto molto tempo dopo, un dialogo nel quale si ha l’impressione che alle parole che vengono dette, quali il bere il mio calice, ognuno dia un senso differente. Poi Gesù chiama tutti i discepoli e fa una lezione che si può considerare fondante per la sociologia e per l’etica sociale cristiana. Egli contrappone due impostazioni sociologiche: quella delle genti, dei goyim, e quella del popolo di Dio, soprattutto dei suoi discepoli. La sociologia dei gentili è fondata sul diritto del più forte al quale i deboli debbono necessariamente piegarsi. La sociologia di Gesù è fondata sull’abbassamento per cui chi è più forte si mette a servizio, come è logico che sia perché la Vita si espanda e come, soprattutto, è logico per il fonda-mento che Lui stesso, il Figlio di Dio, dà a tale comportamento: il Figlio dell’Uomo è venuto per servire e non per essere servito, è venuto per dare la vita (cfr. Mt 20,20-28). È chiaro qui che la sociologia cristiana deve essere fondata sul servizio incondizionato e gratuito ed anche che il fondamento definitivo del servizio, come della stessa concezione cristiana dei rapporti sociali, è la Croce.

* Adolfo Lippi CP, Direttore della rivista «La Sapienza della Croce».

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56 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

Se ci rimanesse qualche dubbio su questa impostazione sociologica evan-gelica, il capitolo venticinquesimo, sempre di Matteo, è lì per dissiparlo. In una maniera assolutamente inusitata, Gesù si immedesima con i fratelli più piccoli, enumerando alcuni paradigmi di indigenza ben presenti nella Bibbia ebraica, soprattutto nei profeti: ero affamato, assetato, nudo, malato, forestiero, prigioniero… Tra queste categorie è presente anche quella dei carcerati, che normalmente sono ritenuti responsabili del loro stato, non sono ritenuti degli innocenti che sono stati soltanto sfortunati, come, ma-gari, i malati. Come vi siete comportati con i fratelli più piccoli, con gli ultimi della società in cui vivete, vi siete comportati con me: questo è il giudizio dei singoli, dei gruppi, della stessa umanità (cfr. Mt 25,25-40). Qui la carità non è una qualunque benevolenza: essa è orientata verso il basso. Se aiutate coloro da cui sperate avere una ricompensa, che merito ne avete? (cfr. Mt 5,46-48; Lc 6,32-36). La carità è gratuità, la gratuità fonda la morale sociale, la sociologia.

Rapportare questo insegnamento con la dottrina della kenosi espressa in Fil 2 non è arbitrario: il fratello più grande che si china sul più piccolo attua in sé la kenosi del Signore e realizza, non in maniera devozionistica o fantastica, ma in maniera reale ed etica, la conformazione a Cristo della quale Paolo parla diverse volte (cfr. ad es. Rom 8,29). Ci si configura a Cristo quando si rovescia l’atteggiamento di base dell’uomo che tende a elevarsi sopra gli altri seguendo la catechesi del serpente: sarete come Dio, arbitri del bene e del male; e si assume quell’atteggiamento che porta ad abbassarsi per amore. Aimer c’est s’abaisser, diceva con profonda sapienza santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa.

C’è un’impressionante coerenza fra tutti gli insegnamenti del Nuovo Testamento (e, implicitamente, dell’Antico) e fra gli insegnamenti e i fatti, come rileva il celebre paragrafo 2 della Dei Verbum. Se si cerca quale può essere il punto matematico in cui tutti gli insegnamenti e i fatti convergono, dobbiamo dire che esso è la Croce. La Croce è servizio e regno, è gloria e nascondimento (Deus absconditus revelatus di Lutero), è amore e legge, è obbedienza e libertà, e la libertà del dono, cioè la possibilità di amare, è kenosi e ricchezza.

2. I tentativi di andare oltre la correttezza nello scambio nella dottrina sociale cristiana

Da queste brevissime riflessioni biblico-teologiche risulta chiaro che l’agire sociale cristiano procede dalla teologia della Croce e da essa riceve la sua identità che lo differenzia da ogni altra etica sociale. Questa persuasione,

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I fondamenti staurologici di un’etica sociale cristiana 57

però, entra in crisi se ci si confronta con il modo di esporre l’etica sociale cri-stiana, soprattutto nei manuali. A scopo di chiarezza accenno qui alla posi-zione tradizionale o classica, dove per tradizionale non intendo la posizione dei Padri della Chiesa o dei grandi pensatori cristiani, ma piuttosto la siste-mazione di quel pensiero in manuali e trattati di facile comprensione e uso. La fondamentale distinzione fra natura e soprannatura, pensata, si potrebbe dire cartesianamente, con idee chiare e distinte, si estendeva all’etica come distinzione fra giustizia e carità, fra precetti e consigli, fra leggi obbligatorie e ideali di vita cristiana. La condivisione dell’etica cristiana con ogni uomo di buona volontà si collocava ovviamente a livello di natura.1 Da una filosofia perenne condivisibile da tutti gli uomini e da una theologia naturalis o ratio-nalis o philosophica discendeva deduttivamente un’etica della giustizia e del diritto, dell’eguaglianza e della correttezza, del dovere e dell’obbedienza alle leggi e alle autorità costituite. Per il di più della fede, per la rivelazione come per la carità gratuita, si poteva chiedere ai non cristiani apprezzamento, forse ammirazione, ma non condivisione.

I tentativi di destrutturare questo schema rigido e comodo, ma non cor-rispondente al pensiero dei Padri e dei grandi pensatori, che furono fatti da uomini come Blondel e De Lubac – si ricordino le celebri opere L’action e Surnaturel – erano considerati pericolosi. Oggi sembra che siano piuttosto pensatori non cristiani, ma esenti dalla contaminazione illuminista, a ripro-porre il problema dei rapporti fra religioni e società laica.2

L’impostazione evangelica dell’etica sociale cristiana cominciò col Con-cilio. Ma già negli anni ’50 si era proposto di porre l’insegnamento evange-lico sulla carità a fondamento della morale cristiana in genere, non lasciando più la trattazione della dottrina della carità come amore gratuito all’ascetica o alla mistica o facendone, al massimo, un capitolo particolare della morale.3 Il Concilio Vaticano II, pur non offrendo una trattazione specifica sul fonda-mento della morale, optava chiaramente per ricondurre la morale cristiana al

1 Cfr., ad es., L. LOrENZETTI, La Morale nella storia, EDB, Bologna 2009, p. 702: «Fino a un tempo abbastanza recente, la dottrina sociale della Chiesa era considerata parte integrante dell’etica naturale, che elaborava principi e norme morali argomentando ex lege naturali e rientrava nelle competenze del magistero ecclesiale in quanto competente sulla legge naturale che, alla luce della rivelazione, trovava maggiore conoscenza, perfezionamento e completa-mento» (Ristampa di un articolo del 1989).

2 Rimando, per questo, al mio recente editoriale su «La Sapienza della Croce», dal titolo: Esiste e come si sostiene un’etica sociale laica? (Sap Cr XXV, 2010, pp. 3-8).

3 Cfr. G. GILLEmAN, Le primat de la charité en théologie morale, Desclée de Brouwer, Paris 1954, pp. 9-23; L. LOrENZETTI, cit., p. 24.

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suo fondamento che è Cristo e alla carità come suo insegnamento primario.4 È diventata dottrina comune, da allora l’idea che tutta la morale cristiana debba far capo alla carità, come sua forma perfetta, che lo stesso Decalogo, come detto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, debba essere «interpretato alla luce di questo duplice ed unico comandamento della carità, pienezza della Legge».5 Il catechismo trova la conferma più chiara di questa asser-zione in Rom 13,9-10, ma poteva appellarsi a molti altri passi e, soprattutto, al senso generale della Bibbia in genere e del Nuovo Testamento in specie.

Colpisce il fatto che nello stesso schema preparatorio del Concilio in tema di morale si escludesse la carità come fondamento della morale in quanto poteva dare adito a verbalismo, sentimentalismo, abbandono dei precetti.6 Sottinteso è che neanche i precetti si sostengano da soli e che tutto sia soste-nuto dalla sanzione, cioè che tutto si debba fondare sulla paura dei castighi. La morale sociale rinuncerebbe così ad appellarsi all’interiorità ed assume-rebbe come fondamento il principio del diritto romano della legge e della sanzione. Tuttavia, le obiezioni contro una morale dell’Amore (ricordiamo la civiltà dell’Amore della quale parlava Paolo VI) possono avere qualcosa di valido, se questa non viene presentata bene secondo gli insegnamenti del Nuovo Testamento preso nel suo insieme. Basta dire che la morale cristiana è una morale dell’Amore o bisognerebbe precisare che l’Amore implica la kenosi, il servizio e il sacrificio, come rilevava la piccola Teresa? Nella cul-tura dominante è diffuso un certo buonismo che viene spesso confuso con la morale cristiana. Questa, però, non è una morale buonista e meno ancora una morale permissiva o rigorista. Non ci si può rifugiare in queste evasioni. Il testo di Mt 20,20-28, fondante per la Sociologia cristiana, parla esplici-tamente di kenosi e di servizio, non solo di Amore, che potrebbe effettiva-mente essere vago, generico, non veramente trasformante.

3. I rapporti sociali all’interno della Comunità dei credenti

La contrapposizione che Mt 20,20-28 stabilisce fra sociologia delle genti, dei goyim e sociologia dei discepoli non sembra una proposta che questi deb-bano fare immediatamente al mondo. Sembra piuttosto un insegnamento teso a regolare i rapporti dei discepoli fra loro. I rapporti debbono essere ke-notici, il servizio va dall’alto al basso, è orientato in senso discendente, non è generico o vago. A questo proposito si potrebbero porre due domande, una

4 Cfr. L. LOrENZETTI, cit., p. 25.5 cATEcHIsmO DELLA cHIEsA cATTOLIcA, 2055.6 Riferito da L. LOrENZETTI, cit., pp. 24-25, senza rimando alla fonte.

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riguardante la società cristiana al suo interno e l’altra la dottrina sociale che la Chiesa intende offrire a tutta l’umanità per il suo stesso bene.

La prima domanda è: si è coscienti nel mondo cristiano che la sociologia cristiana è radicalmente differente ed anche opposta a quella non cristiana? Si è decisi a promuoverla? Oppure ci si contenta di una correttezza negli scambi, si rinuncia all’etica della gratuità? I rapporti all’interno delle co-munità dei credenti, ad esempio in una comunità religiosa o nella comunità presbiterale di una diocesi, sono veramente fondati sugli insegnamenti del Vangelo, oppure ci si contenta di rapporti eticamente corretti?

Non mi sentirei di rispondere che dappertutto o prevalentemente ci si fermi all’etica dello scambio, ma mi sembra che a volte lo si faccia e lo si teorizzi, magari non avendone piena coscienza. Mi domando se alcune co-munità si reggano sull’etica evangelica oppure su grandi abilità diplomatiche che producono equilibri di peccato, cioè equilibri di persone non guarite interiormente e quindi ancora fondamentalmente egocentriche, incapaci di aprirsi veramente all’altro e all’etica del dono gratuito. Riprendendo il discorso fatto sopra, mi domando se ci si renda sempre conto che l’etica cristiana è per sua natura kenotica, o la si percepisce invece come vagamente sentimentale, secondo quel certo buonismo diffuso dalla e nella cultura do-minante, di cui parlavo sopra.

4. La proposta che la morale cristiana fa all’etica sociale

La seconda domanda riguarda più propriamente l’etica sociale in quanto tale: pur avendo pazienza nell’attendere o nel pretendere da tutti un com-portamento corrispondente alla concezione sociologica cristiana, si è co-scienti che attesa paziente e piena di speranza non significa scendere a com-promesso con un’etica sociale non evangelica? Si è coscienti, in particolare, della nuova domanda o della nuova sfida che l’evolversi e l’ampliarsi del problema sociale pongono alla Chiesa, pena il rischio di un degrado della coesistenza o addirittura dell’autodistruzione dell’umanità?

Se si aderisce all’idea che un’etica sociale possa essere condivisa soltanto sulla base della ragione e della legge naturale, queste domande potrebbero sembrare pie considerazioni o, al massimo, riflessioni da fare verso l’interno della Comunità ecclesiale a scopo edificante e verso l’esterno a scopo apo-logetico, per ottenere una stima sempre più grande per un’etica autentica-mente evangelica. Se, però, le confrontiamo con proposte analoghe fatte al di fuori della Chiesa da pensatori del nostro tempo, ci chiediamo se non siamo noi ad essere poco coraggiosi nel proporre il punto di vista cristiano sulla convivenza umana. Propongo qui una riflessione sull’impostazione dell’etica sociale che si può ricavare dal pensiero di Lévinas e Derrida.

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5. Breve excursus sul pensiero di Lévinas e Derrida

Di Lévinas mi colpì anzitutto quanto lui proponeva a proposito dell’in-tuizione fondamentale da cui sorge l’atteggiamento etico e l’etica in quanto tale:

L’intuizione fondamentale della moralità consiste forse nell’avvertire che io non sono l’eguale di altri, e ciò in senso stretto come segue: mi vedo obbligato nei confronti di altri e per conseguenza sono infinitamente più esigente con me stesso che rispetto agli altri. «Più sono giusto e più severamente sarò giudicato», dice un testo talmudico. Donde deriva che non esiste coscienza morale che non sia coscienza di questa posizione originale, che non sia coscienza di elezione. La reciprocità è una struttura fondata su un’ineguaglianza originaria. Perché l’ugua-glianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esi-gere da sé più di quanto esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità.7

Quest’impostazione, oltre ad essere storicamente veritiera, giacché i pro-gressi dell’etica sociale non sono venuti da teorie, ma da uomini che si sono sentiti interpellati personalmente ad andare oltre la mentalità dello scambio, richiama la persuasione basilare di Lévinas secondo la quale un’imposta-zione biblica – ed è di essa che si ha bisogno – non può sopraelevarsi su un’impostazione pagana o semplicemente filosofica. Possiamo trovare qui un’analogia col rifiuto della fondazione razionale della teologia, propria della theologia crucis di Lutero.8 Detto in termini cristiani, per Lévinas un’etica autenticamente umana può sorgere soltanto dal sentirsi scelti e chiamati ad una responsabilità, non generica, legale o egualitaria, ma personale, gratuita e insostituibile. È, con ciò, fede in un intervento di Dio in me, vocazione, missione, obbedienza incondizionata. Sappiamo tutti, poi, dove conduce questa riflessione di Lévinas: conduce alla filosofia dell’alterità che mi costi-tuisce in quanto io non sono io senza l’altro: l’altro nel Medesimo che apre all’assolutamente Altro. Conduce all’etica della sostituzione e all’accettare di essere ostaggio designato per un sacrificio senza riserve. La coscienza della chiamata personale fonda un’etica ben più efficace di quella che può essere fondata su un’ontologia generale (fosse pure un’ontoteologia) o anche, in modo autonomo dalla speculazione teoretica, su un imperativo categorico.

7 E. LéVINAs, Difficile libertà, Jaca Book, Milano, 2004, p. 39.8 Rimando per questo al mio articolo riassuntivo del pensiero di Lutero sulla theologia

crucis: A. LIPPI, Lutero e la theologia crucis. In Christo Crucifixo est vera theologia, in Sap Cr X (1995), pp. 339-357.

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È chiaro che ciò che concretamente ha generato nell’umanità una co-scienza assai condivisa di dover andare incontro a tutti senza eccezione, è stata l’iniziativa gratuita di chi ha sentito che valeva la pena consumare la vita per questo. Basterebbe pensare alle opere di misericordia e di sostegno dei disgraziati che hanno generato nella società la coscienza di dover prov-vedere, di non potersi tirare indietro.

Derrida, con le riflessioni sull’ospitalità e l’accoglienza, aggiunge alle riflessioni di Lévinas una concreta incarnazione nell’attualità della nostra società multiculturale, con i problemi quotidiani che essa ci pone. L’etica di Derrida, intorno alla quale sono stati organizzati incontri in vari centri culturali, è chiamata significativamente etica del dono.9 Già in questa parola c’è tutto un contenuto che ci interpella in quanto cristiani. Alterità, dono, sostituzione sono vocaboli che, oltre ad evitare la banalizzazione alla quale sono andate soggette parole come carità e amore, aggiungono ad esse i con-cetti di uscita da sé, espropriazione, sacrificio.

Derrida considerava Totalità e Infinito di Lévinas un immenso trattato sull’ospitalità, una parola che diviene sempre più centrale nel suo pensiero. L’ospitalità implica un’accoglienza incondizionata, il far sentire l’altro a casa propria, non preso dentro una proprietà che resta sempre mia e nella quale io resto padrone. Approfondendo la vicinanza e l’antinomia fra legge dell’ospitalità per cui l’altro deve essere accolto incondizionatamente senza domandargli né reciprocità né il suo nome10 e le norme sulle quali si re-gola di fatto l’ospitalità, Derrida si interroga sul rapporto fra diritto e giu-stizia. Poiché quest’ultima è sempre al di là del diritto, lo trascende sempre, «l’ospitalità giusta rompe con l’ospitalità di diritto; non che la condanni o vi si opponga, può anzi metterla e tenerla in un moto incessante di progresso; ma è tanto stranamente diversa dall’altra, quanto la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina».11

Invito a riflettere su quell’espressione di Derrida secondo la quale l’ospi-talità giusta può mantenere l’ospitalità di diritto «in un moto incessante di progresso». La concreta storia dell’ospitalità – dice Derrida – sarà sempre «una perversione sempre possibile della Legge dell’ospitalità (che può sem-brare incondizionata) e delle leggi che la limitano e la condizionano iscri-

9 Cfr., ad es., L’étique du don. Jacques Derrida et la pensée du don, Métailié-Transition, Paris 1992: G. cOccOLINI, L’etica come ospitalità in Jacques Derrida, in «Rivista di teologia morale» 129 (2001), pp. 77-85.

10 Cfr. J. DErrIDA, Sull’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 53.11 Ivi, 53.

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vendola in un diritto».12 Allargando la riflessione alla giustizia in quanto tale, Derrida dice che essere giusti, allora, è non essere mai abbastanza giusti e tuttavia trovarsi nella condizione di sentire che la giustizia preme per non essere rimandata, urge anche se non è mai presente.13 La politica in quanto tale – si noti bene, non una politica in quanto aperta alla religiosità istituzio-nale – è chiamata ad aprirsi all’altro, quasi in un estremo gesto messianico. Nell’attesa dell’altro uomo, dell’uomo come altro (e nell’altro) che viene, si dà forse quella porta attraverso cui, soltanto, può entrare il Messia.14

Accenno appena ad un pensatore vivente che ha portato alle estreme con-seguenze questo discorso, Jean-Luc Marion, per il quale la filosofia prima è filosofia della donazione. Egli tiene conto sia della Gegebenheit della fenome-nologia husserliana, tutta derivante dalla donazione,15 sia delle ricerche di an-tropologia culturale di Marcel Mauss, come della riflessione di Jean-Luc Nancy sull’essere singolare plurale e la comunità e tiene conto soprattutto, ovviamente, del pensiero di Lévinas e di Derrida, i quali si sono influenzati vicendevol-mente. L’uomo si scopre attributario di una donazione che non conosce e della quale non si può appropriare. Il soggettivismo dominatore e accaparratore del pensiero occidentale moderno viene rovesciato, soprattutto sulla base, credo, dei rilievi di Lévinas sulla passività che ci costituisce fondamentalmente. L’attri-butario «supera la spontaneità dell’Io penso nella ricettività dell’Io sono affetto dall’effetto dell’evento, e ricevendosi esso stesso come un ente donato si libera dalla sussistenza di un sostrato, in breve dalla soggettività del soggetto».16

Questi discorsi possono sembrare utopici solo se si rimane pigramente attaccati alle strutture astratte delle teorie giuridiche e sociologiche. Se si ri-flette, per esempio, a come si sono sviluppate le leggi dell’assistenza sociale negli stati più sviluppati, si vede che questo è avvenuto con la maturazione di una sensibilità condivisa dalla maggioranza delle coscienze.17 Prendiamo il

12 J. DErrIDA, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, Cronopio, Napoli 1997, p. 27.

13 J. DErrIDA, “Diritto alla giustizia”, in G. VATTImO e J. DErrIDA (a cura), Diritto, giu-stizia, interpretazione, Laterza, Bari 1988, p. 20.

14 Cfr. J. DErrIDA, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 14.15 Cfr. s. cUrrò, Il dono e l’altro, in In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, Las, Roma

2005, p. 80.16 J.-L. mArION, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino,

2001, pp. 319-320. Cfr. s. cUrrò, Il dono e l’altro, cit., cap. IV: In principio la donazione, pp. 73-116.

17 BENEDETTO XVI, nell’enciclica Deus Caritas est, attribuisce alla presenza del cristiane-simo come tale la crescita dell’impegno sociale a favore degli esseri più deboli e ricorda come la riforma del paganesimo voluta da Giuliano l’Apostata risentiva di questa presenza.

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caso particolare dell’assistenza sanitaria: prima che esistesse la legge, si è an-data sviluppando, da secoli, una serie di iniziative volontarie che sono arrivate a creare strutture il più delle volte piccole, microstrutture, ma a volte anche grandi e imponenti, fino a che ci si è domandati perché non garantire per legge un’assistenza offerta a tutti, che è quanto dire assumere collettivamente in quanto società l’onere dell’assistenza sanitaria. A questo punto il trascurare la sofferenza di qualcuno è apparso cinismo. È un caso di maturazione della coscienza sul tema della giustizia. Se ne potrebbero citare molti altri.

6. Religioni positive ed etica sociale: sono due campi da tenere distinti?

Un’altra situazione culturale del nostro tempo, da tenere presente, ri-guarda la reciproca integrazione fra religioni ed etica sociale, cui ho già ac-cennato. Essa è ben diversa da quella rinascimentale e più ancora illuminista nella quale il problema era piuttosto quello dell’autonomia della ragione rispetto a una fede che appariva invasiva. Parto dal riferimento a una ricerca sociologica di Jürgen Habermas. Muovendo da una domanda di Böcken-förde, Habermas si domanda se l’etica sociale non stia ancora beneficiando inconsciamente di convinzioni condivise sulla base di fedi o tradizioni cul-turali, mantenute per inerzia, pur illudendo le masse di essere guidate uni-camente da un’etica laica e puramente razionale. Che cosa accadrà quando, per il processo di secolarizzazione e di sradicamento in atto, queste tradizioni verranno a perdere il loro influsso sociale? Habermas non nasconde di es-sere personalmente persuaso del valore positivo delle religioni per sostenere l’etica sociale, nella linea di Hegel.18 Le fonti della normatività e della solida-rietà non dovrebbero essere abbandonate a cuor leggero: «È nell’interesse dello Stato costituzionale trattare con riguardo tutte le fonti culturali da cui si alimentano la consapevolezza normativa e la solidarietà dei cittadini».19 Su questa linea egli propone che nella società post-secolare venga modificata riflessivamente sia la coscienza religiosa che quella laica nei loro rapporti e in rapporto al bene comune.

Come detto sopra, i nostri manuali ci avevano abituato a categorizzazioni rigide, con la distinzione fra precetti e consigli evangelici, fra la giustizia dovuta distinta dalla carità gratuita, l’etica razionale o filosofica distinta dalla morale rivelata o soprannaturale. Oggi l’ipotesi che la laicità o la pura razionalità non siano in grado di fondare un’etica sociale non è più così assurda, vista anche la fuga verso le religioni degli uomini e delle donne del

18 Cfr. J. HABErmAs, Tra scienza e fede, Laterza, Bari 2005, XI.19 Ibid., pp. 15-16.

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nostro tempo. Al di fuori del mondo cristiano l’interferenza della religione sull’etica civile è ancora superiore: norme di natura strettamente religiosa (tipo sharia) sono state accolte nella legislazione civile non soltanto in Iran, ma anche in Israele.

I richiami a pensatori quali Lévinas e Derrida non rappresentano un invito seppure implicito a prendere ispirazione da loro, ma piuttosto un invito a prendere atto che esistono proposte molto coraggiose, nella linea della Parola rivelata, fatte senza paura al mondo occidentale che si presenta come secolarizzato e geloso della propria secolarizzazione. Credo che sia contemporanea all’indagine sociologica di Habermas la presa di coscienza dei moralisti cattolici dell’identità evangelica e non semplicemente filoso-fica dell’etica sociale cristiana, e quello che è stato chiamato il passaggio dell’etica sociale dei cattolici dalla filosofia alla teologia.20 Da parte sua Be-nedetto XVI afferma con la sua solida lucidità che «lo Stato non è di per sé fonte di verità né di morale». Conseguentemente lo Stato deve disporsi ad accogliere da “fuori” di sé il patrimonio di conoscenza e di verità da cui non può prescindere. Le religioni convergono su un consenso di fondo riguardo a ciò che è bene e «la fede cristiana ha dato prova di sé come creatrice di cultura religiosa universale e razionale in sommo grado».21

7. Il pensiero di Benedetto XVI

Questi rilievi mi introducono alle riflessioni conclusive di questo studio, nelle quali farò riferimento al pensiero di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La terza domanda, che qui possiamo porci, è la seguente: fino a che punto è possibile, perseguendo un’etica sociale condivisa con tutti gli uomini, offrire la nostra riflessione secondo cui un’etica del dono, un’etica che si potrebbe chiamare kenotica, non soltanto rappresenta qualcosa di meglio di una qual-siasi etica di scambio, ma sembra essere oggi la condizione della sopravvi-venza dell’umanità e del cosmo? Un’etica kenotica si oppone a un’etica del possesso, dell’accaparramento: è pensabile che noi cristiani possiamo pro-porre all’umanità che un’etica della kenosi, dell’abbassamento accettato per realizzare il dono, venga a sostituire un’etica del possesso e del riempimento, dove ci si apre all’altro soltanto nella misura in cui questo può favorire i propri programmi di accumulazione?

20 Cfr. L. LOrENZETTI, La Morale nella storia, cit., p. 699.21 Cfr. L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, pp.

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Leggendo le encicliche di Benedetto XVI mi sembra chiaro che questa concezione neotestamentaria viene proposta all’umanità come soluzione dei problemi che la tormentano fino a minacciarne, oggi, la distruzione. Mi pare che il papa eviti di fare del concetto di dono un’ideologia, come forse po-trebbe accadere sulla base delle dottrine accennate sopra. Egli si esprime ri-petutamente contro la riduzione a ideologia di intenzionalità per sé valide. Si può riscontrare questo, ad esempio, nell’affermare che compito dello Stato è anzitutto il perseguimento della giustizia con la difesa dei diritti di ognuno e l’equa distribuzione dei beni.22

Egli però non si ferma qui. Già nella sua prima enciclica Deus Caritas est, riflettendo sul rapporto fra giustizia e carità e assegnando allo stato il compito di amministrare la giustizia, dichiara che la fede «è una forza pu-rificatrice per la ragione stessa» e spiega a lungo questo principio.23 Al di là dell’etica naturale c’è l’amore, del quale l’uomo ha un assoluto bisogno, in quanto non vive di solo pane. «Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo».24 Lo stato perciò deve necessaria-mente essere affiancato dalle forze sociali che operano in vista delle necessità di ogni uomo e soprattutto dalla Chiesa: «Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dina-mica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo».25

L’enciclica sociale Caritas in Veritate si riallaccia a Paolo VI per affermare che «il Vangelo è elemento fondamentale di sviluppo, perché in esso Cristo, “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo (GS 22)”».26 Nel numero seguente,27 i due papi conver-gono nel rilevare la centralità della carità, che, se anche può essere compresa dall’uomo, non può essere realizzata se non con un dono di Dio.

Non sarebbe difficile proseguire questa ricerca, ma non ne abbiamo lo spazio. Concludo con un passo di un vecchio libro di Joseph Ratzinger, che resta sempre fondamentale per il suo pensiero ed anche come conclusione del discorso che stiamo facendo:

22 Cfr., ad es., Deus Caritas est, n. 26.23 BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, n. 28.24 Ibid.25 Ibid.26 BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n. 18.27 Ibid., n. 19.

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Quando sarò innalzato da terra, trarrò a me tutti gli uomini» (Gv 12,32). Questa frase intende spiegare la morte di Gesù in croce; e in questo modo, poiché la croce costituisce il centro della teologia giovannea, essa esprime la direzione verso cui l’intero vangelo vuole orientare. L’avvenimento della crocifissione vi appare come un processo di apertura, in cui le disperse monadi umane vengono riunite nell’abbraccio di Gesù Cristo, nell’immenso spazio delle sue braccia spa-lancate, per giungere in questa unificazione al loro traguardo, alla mèta finale dell’umanità. Se però le cose stanno così, allora Cristo, in quanto uomo venturo, non è l’uomo per sé, bensì essenzialmente l’uomo per gli altri; egli è l’uomo del futuro proprio in quanto uomo totalmente aperto. L’uomo per sé, che vuole pensare solo a sé, è allora l’uomo del passato, che dobbiamo lasciarci alle spalle per andare avanti. In altri termini, ciò significa che il futuro dell’uomo sta nell’es-sere per… Nell’immagine del fianco squarciato culmina per Giovanni non solo la scena della croce, ma l’intera vicenda storica di Gesù. Adesso, infatti, dopo il colpo di lancia che mette fine alla sua vita terrena, la sua esistenza è completa-mente aperta; egli è interamente “per”, ora egli non è veramente più un singolo, ma è “Adamo”, dal cui fianco viene formata Eva, vale a dire un’umanità nuova.28

Conclusione

Chiunque segua le migliori ricerche nel campo del pensiero riflesso, della stessa letteratura e delle arti, riconoscerà facilmente qui una consonanza, che indica l’attualità del discorso programmatico del papa. L’apertura all’altro, che si è espressa anzitutto nella croce di Gesù, nelle sue braccia aperte e nel suo cuore squarciato, senza scendere ad espressioni polemiche, relega in un passato antistorico certe posizioni di pensiero nelle quali l’uomo appare tutto ripiegato su se stesso, sui propri veri o presunti diritti, infantilmente piagnu-colando perché qualcuno gli contesta il diritto a certe soddisfazioni. È come quando il cristianesimo apparve chiaramente all’orizzonte della cultura clas-sica: si capiva che la storia camminava nella direzione che esso indicava, no-nostante le nostalgie. C’è una responsabilità enorme davanti alla Chiesa, con-divisa da tutte le persone che si pongono con serietà il problema delle sorti dell’umanità e della stessa creazione: portare l’uomo a gioire della carità, a gioire nell’essere-per, perché c’è più felicità nel dare che nel trattenere (cfr. At 20,35). È una responsabilità che farebbe paura se, per la fede, non sapessimo di essere sostenuti con la forza dello Spirito da Colui che è all’origine del nostro essere e da Colui che il Creatore ha mandato per comunicarci questo Dono.

28 J. rATZINGEr, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, p. 230.

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TOMMASO D’AQUINO E LA PROSPETTIVA DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE

Roberto Di Ceglie*

1. Il cuore del Vangelo e la riflessione filosofica

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». È il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1948. Risulta evidente che non solo la fratellanza cui esso si richiama ma anche l’uguaglianza della dignità e dei diritti non possono non avere come orizzonte culturale quello aperto dalla diffusione del Vangelo: un unico Principio del mondo, da cui soltanto può derivare la medesima origine per tutti e quindi la medesima dignità; un solo Padre, dal quale scaturisce la fratellanza che acco-muna tutti gli uomini. Riecheggiano quindi le parole di Agostino: «Il mondo si è così mutato in questa religione, si sono così convertiti a questo Vangelo i cuori dei mortali, uomini e donne, piccoli e grandi, dotti e ignoranti, sa-pienti e stolti, potenti e deboli, nobili e non nobili, di rango elevato e umili, e la Chiesa tra tutte le genti si è diffusa ed è talmente cresciuta che nessuna setta né alcun genere di errore sorge contro la fede ed è così ostile alla verità cristiana da non aspirare ed ambire a gloriarsi del nome di Cristo».1

Lo scenario culturale prospettato dall’Ipponate non pare essere cambiato di molto, perché il Vangelo ha generato un progresso senza eguali lungo il cammino della storia. Lo ha mirabilmente insegnato in tempi più recenti il fi-losofo e storico della filosofia Étienne Gilson. A suo avviso, nell’ambito della verità fondamentali cercate dalla sapienza filosofica con le proprie domande di senso, sarebbe stato il cristianesimo a fornire alla filosofia un supporto insostituibile: «l’insegnamento della rivelazione fu incomparabilmente più razionale delle conclusioni della ragione». Quest’affermazione del noto pen-satore veniva a concludere una disamina storica dell’incontro tra fede cri-stiana e ricerca filosofica che si può riassumere con queste sue parole: «Un Dio unico, creatore del cielo e della terra, ordinatore del mondo e della sua provvidenza, un Dio che aveva fatto l’uomo a sua immagine e gli aveva rive-

* Roberto Di Ceglie, docente di Filosofia della Religione nella Pontificia Università La-teranense.

1 AGOsTINO, De fide rerum quae non videntur, 7, 10.

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lato, col suo fine ultimo, il modo per raggiungerlo: dove, nei pur magnifici conseguimenti della filosofia greca, si poteva trovare una visione del mondo così chiara e soddisfacente per l’intelligenza come quella rivelata agli uomini dalla Sacra Scrittura?».2 Peraltro risulta piuttosto evidente un aspetto che lo stesso Gilson non ha rimarcato come forse si sarebbe dovuto. Ne fornisce lo spunto questa sua espressione: «…un Dio che aveva fatto l’uomo a sua im-magine e gli aveva rivelato, con il suo fine ultimo, il modo per raggiungerlo». Il riferimento è chiarissimo: è a un sapere che non solo appaghi la ragione ma risulti anche protagonista della realizzazione umana, un sapere che cioè si traduca in un rapporto con una Persona, capace di conoscere e di volere, e che inoltre rappresenta il Bene, perché è ciò che l’uomo vuole, ciò che l’uomo desidera raggiungere. In tal senso si comprende perché già Agostino si era così espresso: «la nostra scienza è Cristo; la nostra sapienza è ancora lo stesso Cristo».3 L’Ipponate aveva colto che non soltanto risulta appagante per l’uomo ricevere comunicazione rispetto ai propri fini e alle modalità per conseguirli; è a lui ancora più caro incontrare qualcuno che, con gratuità e addirittura con spregio di sé, dunque secondo l’amore più grande, si ponga accanto a lui e lo aiuti fattivamente a conseguire quegli obiettivi.

È questo il cuore del Vangelo, è questa l’impareggiabile spinta propul-siva che ne deriva per ogni sapienza, ovvero per ogni ricerca relativa alle domande fondamentali della vita: la felicità dell’uomo, la sua piena realizza-zione può darsi solo nella carità. Nessun fascino proviene dall’esibizione del potere: non si è conquistati né dall’abilità tecnica né dalla creatività artistica né da un’intelligenza lucida e rigorosa che pure sembri afferrare le massime altezze dell’umana comprensione. Ciò che tocca il cuore dell’uomo è la ca-rità, che non manca mai di generare il desiderio dell’emulazione: «tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico».4

Il bisogno di riconoscere nel maestro il testimone è non a caso un tratto distintivo della civiltà costituitasi nel grembo del Vangelo di Cristo. Tom-maso d’Aquino, notevole esponente di questa civiltà, lo ha espresso in modo mirabile. Pur attraverso un rigore argomentativo talmente serrato da appa-rire talora appagante solo alla nuda logica razionale, egli ha tuttavia eviden-ziato la dignità somma della carità e dell’impegno esigente che essa implica. Ha saputo evidenziare che la virtù appartiene alla dimensione puramente

2 é. GILsON, Che cosa è la filosofia cristiana?, trad. it. in R. DI cEGLIE, Ragione e Incarnazione. Indagine filosofica sulla razionalità richiesta dal Vangelo, Lateran University Press, Città del Vaticano 2006, pp. 315s.

3 AGOsTINO, La Trinità, XIII, 19, 24 (trad. it. di G. BEscHIN), Città Nuova, Roma 1998.

4 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 1.

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intellettuale solo in modo relativo, perché in senso assoluto è virtù quella che «non dà solo la capacità di agire, ma anche quella di usare bene di questa ca-pacità: come la giustizia non soltanto fa sì che un uomo sia di pronta volontà nel compiere cose giuste, ma anche fa sì che agisca secondo giustizia. […] Se infatti uno è scienziato o artista, non si dice che è buono in senso assoluto, ma si dice che è buono soltanto in senso relativo: si dirà, per es., che è un buon grammatico, o buon artigiano».5 Inoltre, tutte le virtù morali e intel-lettuali sono superate in dignità da quelle teologali, e tra queste la carità è la più nobile, poiché meglio delle altre raggiunge Dio.6 La «vera virtù in senso assoluto è quella che ordina al bene principale dell’uomo»,7 e ordinando gli atti di tutte le altre virtù al fine ultimo, e dando perciò la forma agli atti di tutte le altre virtù, si qualifica come «la forma delle altre virtù».8

In una diversa prospettiva filosofica e teologica, aliena da qualsivoglia tensione (o tentazione) ad avanzare argute ma talora anche speciose distin-zioni tra fede e ragione, anche Agostino aveva rilevato il medesimo primato della carità, aggiungendovi la sottolineatura della sua evidente origine evan-gelica. Affermando sulla scorta di san Paolo il primato della carità su tutto («la carità non cade mai»), egli non aveva potuto fare a meno di chiedersi: «Ma questo chi l’avrebbe scoperto se non l’avesse mostrato colui che disse: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate a vicenda” e ancora: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio?”».9 All’uomo contemporaneo, figlio della cultura del rispetto dei diritti umani, forse quella appena avanzata può appa-rire una pretesa più o meno ingiustificata. L’amore e il rispetto della dignità della persona paiono ad alcuni il frutto di un’evoluzione umana e culturale che, seppure in qualche modo connessa alla rivelazione cristiana, ha tuttavia conquistato un’autonoma dignità. Eppure la carità è e rimane altro da certe sue sentimentalistiche rappresentazioni fornite da molta cultura del nostro tempo. Essa non comporta solo una dimensione pacificante e superficial-mente gioiosa, ma è profondamente esigente, perché la sua espressione più grande è quella dell’assunzione della croce. E giungere a dare tutto di sé per il bene dell’altro (anche quando egli è addirittura il “nemico”) è possibile solo nel rigoroso intreccio che la carità, in quanto virtù, ha con la verità.

È l’intreccio che si evidenzia dinanzi all’esperienza del male, che non a caso nessuna cultura più o meno sostanziata di laicità o di laicismo sembra

5 TOmmAsO D’AqUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 56, a. 3, trad. it., Edizioni Studio Do-menicano, Bologna 1996-1997.

6 Ibid., II-II, q. 23, a. 6.7 Ibid., II-II, q. 23, a. 7.8 Ibid., II-II, q. 23, a. 8.9 AGOsTINO, Annotationes in Iob liber unus, 38.

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in grado di fronteggiare. Solo il gioioso annuncio della vicenda di Cristo crocifisso e risorto rimane capace di tanto, perché solo il Vangelo continua a richiamare l’esigenza propria dell’autentica carità, quella di essere eserci-tata nella certezza che porta sino al sacrificio di sé. Le parole con le quali Benedetto XVI ha voluto aprire la sua ultima enciclica lo evidenziano alla perfezione: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la prin-cipale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera».10

2. La carità sino alla croce e la sua fecondità civile

Ogni aspetto della vita personale o sociale può essere adeguatamente preso in considerazione nell’ambito di questa prospettiva cristiana. Una prospettiva sulla vita e sul suo senso che si sostanzia indubitabilmente di ottimismo. Non a caso è di “ottimismo cristiano” che un notevole commen-tatore di san Tommaso ha talora parlato:11 non per alludere al semplice e perfino puerile tentativo di non considerare la negatività e il dolore, ma per indicare la convinzione secondo cui l’uomo è provvidenzialmente orientato al Bene da Colui che è il Bene, e che dunque il male non potrà avere la parola definitiva. Che una simile convinzione possa contribuire come forse nessun’altra alla realizzazione non solo della persona ma anche della società è di quasi immediata comprensione. Combattere il dominio del male sulle vicende umane e impedire che esso prevalga anche a costo del sacrificio di sé determina che ogni capacità venga sfruttata a vantaggio della persona umana o del contesto sociale. Ebbene solo una teoria sul male come quella che emerge dalla riflessione di Agostino e di Tommaso sembra costituire una solida base razionale per l’edificazione sociale appena richiamata. Tommaso spiega che un primo principio da intendere come male risulta improponibile, perché dovrebbe essere cattivo per essenza e dovrebbe costituire il sommo male, che invece, «per quanto faccia diminuire il bene, tuttavia non potrà mai totalmente distruggerlo»; si aggiunga che «il concetto stesso di male si oppone all’idea di primo principio», cosa che, non compresa, ha portato ad

10 BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 1.11 Cfr É. GILsON, Lo spirito della filosofia medioevale, trad. it. di P. sArTOrI TrEVEs, Mor-

celliana, Brescia 19986, pp. 141-168. A riguardo, sia consentito di rinviare anche a R. DI cE-GLIE, El optimismo cristiano. La reflexión antropológica de Étienne Gilson, in J.f. sELLés (ed.), Propuestas antropológicas del siglo XX, vol. II, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 2007, pp. 127-154.

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ammettere l’esistenza di due principi, l’uno buono e l’altro cattivo, errore che san Tommaso accomuna ad «altre opinioni stravaganti degli antichi».12

Si tralasci pure di discutere le possibili alternative a questa teoria; certo è che se Dio è il Principio e il Fine di ogni cosa, e se ogni fibra del nostro essere dipende da Lui, è impensabile che derivi da Lui il male, ovvero la mancanza, la privazione di qualcosa. Riferirsi al male come a una sostanza non è corretto. Il male, propriamente, non è neanche un accidente, poiché è privazione di un accidente. Secondo un esempio tradizionalmente utiliz-zato da Plotino a Tommaso e oltre, l’occhio che non vede è effettivamente qualcosa che manca di un bene che ad esso è dovuto. Già per Aristotele è chiaro che né il male né il bene sono sostanze: «Il bene e il male indicano la qualità propria degli esseri viventi e, nell’ambito di questi, soprattutto la qualità propria di quegli esseri che sono dotati della facoltà di scegliere».13 San Tommaso ha poi chiarito una decisiva distinzione – già presente nella riflessione agostiniana – tra malum culpae e malum poenae,14 utilissima per evitare di limitare il male al cattivo uso della libertà, e per considerarlo anche quale vero e proprio simbolo del dolore e causa di ingiustizia: il malum poe-nae, solamente subito, dunque patito da chi di esso non ha effettivamente alcuna responsabilità. Il caso più doloroso è certo rappresentato da quello dei bambini, soprattutto quando essi risultino vittime della barbarie degli adulti. Il male è qui inteso come qualcosa di così imponderabile che risulta molto facile imputarlo a chi è origine di tutto. Esso appartiene al campo della storia, ovvero all’intreccio delle relazioni umane. Risulta impondera-bile perché indipendente dall’agire della singola persona sebbene sia su di essa che se ne risentono gli effetti. L’ambito storico e sociale è per eccel-lenza quello nel quale il male di pena si manifesta in tutta la sua dilacerante negatività. Una negatività che è possibile imputare a Dio solo a patto di averlo previamente riconosciuto come l’effettivo responsabile di ogni cosa, il creatore e unico principio del mondo. È il rapporto di creazione tra Dio e l’uomo che esprime adeguatamente la concezione di una derivazione totale del mondo da Dio: tutto, anche la materia, viene da lui. Per questo, di tutto ciò che è, egli è responsabile. Pare dunque che solo nell’ambito della rivela-zione ebraico-cristiana abbia senso porre il problema del male chiedendone conto a Dio. La teoria del male come “privatio boni” nasce solo nell’ambito della comprensione metafisica creazionistica di Dio come Essere e di tutte le cose come esseri che partecipano di lui. In tal senso, il male è privazione di un accidente ma non è annichilamento: anche laddove si fosse stati privati

12 TOmmAsO D’AqUINO, Summa Theologiae, cit., I, q. 49, a. 3.13 ArIsTOTELE, Metafisica, 1020 b 23-25, trad. it. di G. rEALE, Rusconi, Milano 19995.14 Cfr. TOmmAsO D’AqUINO, De malo, q. 1, a. 4.

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di qualcosa di enormemente importante, rimarrebbe ancora quel che tecni-camente la tradizione metafisica di matrice aristotelica chiama “sostanza”, ovvero qualcosa che il dolore patito potrebbe spingere a coinvolgere in una sorta di vortice distruttivo, nel quale la persona, disperata, potrebbe volere annullarsi del tutto, aumentando ancora di più il proprio dolore; o potrebbe, al contrario, spingere a preservare con amore per il desiderio di evitare che aumenti la potenza distruttiva del male. Il percorso di vita e l’esperienza di coloro che, pur nel dolore per un male subìto, sono capaci di gesti di carità e di serena accoglienza della propria condizione, e non cadono nella tenta-zione di trascinare se stessi e tutto quanto li circonda – dalle amicizie agli affetti – nel vortice della disperazione e della malevolenza, costituiscono una testimonianza straordinaria dell’altissimo valore sapienziale della pur talora vituperata teoria nota come “privatio boni”. La prospettiva del male come privazione conduce a comprendere che il bene è sempre maggiore, e che se il male ci ha colpiti, il bene che possiamo ancora perseguire consente di non farci ulteriormente inghiottire nel baratro della sofferenza e del non senso, che questa volta verrebbe gravato anche dalla malevolenza per la quale, in qualche modo, cercheremmo di rifarci del dolore subìto a spese degli altri. A questo va però aggiunto che il bene da perseguire si potrebbe imporre sul male subìto solo alla luce dell’ipotesi che già Platone avanzava di una “divina rivelazione”. Il Bene da perseguire getta una luce sull’agire umano ma rimane sempre oltre le possibilità di una spiegazione totalizzante. Il male rimane dunque mistero, perché riguarda la natura stessa dell’uomo e del suo destino. Nulla si potrà fare dinanzi alle tempeste che agiteranno la naviga-zione della vita, «a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su una più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina».15 La vicenda biblica di Giobbe rimane in tal senso un esempio di straordinaria profondità sapienziale: la risposta che vi si cerca non è fornita dalle vuote discussioni degli amici di Giobbe, che riposano su pregiudizi e che perciò costituiscono una forma di fastidioso razionalismo; essa giunge invece da Dio che riporta ogni aspetto della discussione al rapporto crea- turale che lega l’uomo a lui, e per il quale, come avrebbe scritto anche Tom-maso, «allora soltanto conosciamo Dio veramente, quando lo riteniamo su-periore a quanto l’uomo è capace di pensarne».16 E allora soltanto l’uomo, in quanto creatura di un siffatto Dio, onnipotente e quindi non soddisfacen-temente comprensibile da parte della ragione umana, può confidare nell’ef-fettiva possibilità che il male non avrà l’ultima parola.

15 PLATONE, Fedone, 85 cd, trad. it. di G. rEALE, in PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. rEALE, Rusconi, Milano 1991.

16 TOmmAsO D’AqUINO, Summa contra Gentes, I, 5.

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Quanto detto sinora a proposito della quaestio de malo risulta decisivo ai fini di un’adeguata impostazione dell’agire umano, sia di quello personale sia di quello sociale. Solo una visione come quella permeata del messaggio biblico del Dio Creatore (da cui il male come mancanza) e permeata del Vangelo di Gesù Cristo, che invita a guardare al male e alla sofferenza che ne deriva come a un’occasione per perseguire il bene con ancora maggior decisione, solo una prospettiva come questa può incidere sulla realizzazione della persona umana, la quale risulta così in possesso della forza e del co-raggio necessari ad affrontare le inevitabili difficoltà, più o meno gravi, che ne accompagnano l’esistenza e la partecipazione alla società civile. È questo l’ottimismo del quale ogni società ha bisogno. Ed è questa la verità sulla quale si fonda ogni carità che porti ad abbracciare e a preservare ciò che il male non ha ancora portato via. Dinanzi ai limiti delle varie forme di go-verno, alla precarietà delle iniziative pubbliche, all’insufficienza delle istitu-zioni preposte al raggiungimento del bene comune, al male commesso so-prattutto da chi ha assunto su di sé responsabilità pubbliche, dinanzi a tutto questo, l’intima convinzione secondo cui ciò che c’è, in quanto è, è buono e va amato e preservato, esalta l’esercizio della carità. L’insopprimibile desi-derio di bene che emerge con evidenza dall’esperienza di ogni uomo trova risposta non nell’astratta e impossibile configurazione di una società priva di mali, ma nella solidale prossimità di cui si risulterà capaci nei confronti degli altri. A fronte delle inevitabili mancanze, e delle sofferenze più o meno profonde che ne conseguono, l’amore nella dimensione della croce è una risposta la cui efficacia risulta impareggiabile. Non si immobilizza nella con-siderazione del male subìto, sostanziata di recriminazioni e di malevolenze, ma guarda avanti, verso l’affermazione di quel bene che avverte la responsa-bilità di dover contribuire ad edificare.

3. Il caso della pena

È questo che sta a significare l’assunzione della carità a principio della vita civile nella riflessione filosofico-politica di Tommaso d’Aquino. Lo si evince con ancora maggiore chiarezza dalla considerazione di un aspetto di non poca rilevanza per la vita della società civile. Si tratta dell’atteggiamento da assumere nei confronti di chi si è macchiato di un crimine nei confronti della società. Secondo Tommaso, rientra nella definizione di “pena” che essa 1) sia causa di dolore, 2) sia contraria alla volontà di chi la subisce, 3) sia inflitta a motivo di una colpa.17 Il castigo inflitto a un colpevole è cosa che,

17 Cfr. TOmmAsO D’AqUINO, Summa Theologiae, cit., I-II, q. 46, a. 6, ad 2.

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nella prospettiva intellettuale, morale e civile appena delineata, quella della carità, viene considerata del tutto illecita se mira al male del colpevole col fine di trovarvi qualche soddisfazione: «rallegrarsi del male altrui è proprio dell’odio, il quale è incompatibile con la carità, che deve estendersi a tutti». Tommaso prosegue col rilevare che «uno non è scusato per il fatto che de-sidera del male a una persona colpevole di averne procurato ingiustamente a lui: come non si è autorizzati a odiare chi ci odia. Infatti uno non può peccare contro altre persone per il fatto che queste hanno prima peccato contro di lui; poiché ciò è farsi vincere dal male».18 Oltre a quanto già si è sostenuto – opposizione all’odio e alla volontà di rivalsa nei confronti del condannato – risulta evidente pure che l’Aquinate nutre costante interesse per l’edificazione di tutti, del reo come di coloro che lo condannano. Questi devono cioè evitare che il male già commesso si ripercuota in qualche modo su di loro, ossia che si riproduca e prolifichi nei loro cuori. Devono dunque rifarsi piuttosto al notissimo consiglio paolino opportunamente richiamato dall’Angelico nel proseguire il passo sopra riportato: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12,21). Qual è allora il fine della pena? È tendere a un bene, «al quale si giunge mediante la punizione dei colpevoli, per es. al loro emendamento, o almeno alla repressione del male per la pubblica quiete, oppure alla tutela della giustizia e all’onore di Dio».19 Come dire, in termini più familiari al dibattito moderno, che la pena, mediante la retribuzione, deve svolgere una funzione riabilitativa o almeno quella preventivo-difensiva, perché si evitino ulteriori minacce al bene della società.

La retribuzione costituisce quindi per l’Aquinate il mezzo – e solo il mezzo – attraverso cui giungere ai beni in questione, e dunque non risulta affatto in alternativa alle funzioni riabilitativa e preventiva: costituisce invece lo strumento – pur necessario – per il loro esercizio. Chi si è macchiato di una qualche colpa deve essere aiutato a riprendersi dal male nel quale è caduto e deve godere della possibilità di risanare la propria umanità ferita (funzione riabilitativa); nel contempo devono essere assolutamente salva-guardati da ogni iniquità coloro che senza colpa potrebbero essere colpiti da chi ha già sbagliato o da chi potrebbe imitarlo (funzione preventiva-difen-siva). Il mezzo per giungere a realizzare ciò rimane l’attribuzione della pena, la quale dovrà essere inflitta in base a considerazioni fondate volta per volta sull’osservazione e la conoscenza delle condizioni nella quali si opera, purché sempre si tenga presente che, se il fine è quello del bene da fare non solo alla società che va difesa ma anche a coloro che l’hanno offesa, è ad esso che ci si

18 Ibid., II-II, q. 108, a. 1.19 Ibid.

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dovrà riferire nel comminare la pena. Non potrà dunque ammettersi alcuna negazione del rispetto della dignità della persona come pure di quello che ad esempio la Costituzione italiana, in conformità a quanto affermato anche dalla Dichiarazione Universale, chiama “senso di umanità” laddove prevede che le pene non consistano «in trattamenti contrari al senso di umanità» e che esse «devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27). In una prospettiva come quella della civiltà dell’amore delineata da Tommaso d’Aquino tutto ciò non può che trovare la sua più completa configurazione, sebbene – anzi forse proprio perché – all’Aquinate non manca affatto quella dose di realismo – in questo caso etico, politico e civile – che gli consente di non abbandonarsi a facili esaltazioni di una utopica massimizzazione pub-blica della carità cristiana. Lo si coglie perfettamente nel passo sopraccitato laddove, dichiarando quali debbano essere i fini della pena, egli cita l’emen-damento del reo “o almeno” (vel saltem) il mantenimento della “pubblica quiete”. A Tommaso risulta chiaro che il fine della riabilitazione implica un non facile percorso di edificazione personale, impossibile da realizzare senza la libera e convinta adesione di tutti coloro che – a partire dal condannato – vi risultano coinvolti. Accettare il male subìto da parte di chi è stato colpito così come cogliere le opportunità di emendazione connesse alla pena da parte di chi ha colpito implica un processo di ascesi personale tutt’altro che facile. È l’assunzione su di sé della croce che per il cristianesimo risulta l’in-dispensabile caratteristica della vera carità. Tommaso esorcizza così quanto anche più vicino a noi nel tempo Paolo VI, proprio in merito all’edifica-zione di una “civiltà dell’amore”, chiamava «innocente ma fatua ingenuità» e «irenismo illusorio». Perché è nella consapevolezza «della sorte destinata a chi fa dell’amore sociale, della carità, il proprio impegno prioritario»20 che risulta possibile un autentico e valido contributo all’edificazione della civiltà dell’amore.

20 PAOLO VI, Discorso del 21 gennaio 1976, cit. in r. PIZZOrNI, Giustizie e carità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, p. 632s.

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LA CROCE DI CRISTO RIVELAZIONE PIENA DELLA DIGNITÀ DELLA PERSONA

Vincenzo Battaglia*

Introduzione

La trattazione sulla croce di Cristo considerata in quanto rivelazione piena della dignità della persona viene inscritta sullo sfondo dottrinale of-ferto dalle encicliche di Benedetto XVI, a partire dalla più recente: Caritas in Veritate, da cui ha preso ispirazione e motivo il seminario interdisciplinare sul tema: L’agire sociale alla luce della teologia della croce, promosso dalla Cattedra Gloria Crucis.

Nella lettera enciclica Caritas in Veritate si legge che ogni autentica voca-zione allo sviluppo umano integrale va riferita a Gesù Cristo: «Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, “rivelando il mi-stero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo”. […] Proprio perché Dio pronuncia il più grande “sì” all’uomo, l’uomo non può fare a meno di aprirsi alla vocazione divina per realizzare il proprio sviluppo. La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, non è vero sviluppo».1 Proseguendo il proprio ragionamento, in cui riprende le prospettive aperte dalla lettera enciclica di Paolo VI Populorum Progressio, Benedetto XVI enuncia il principio tra-scendente che sta alla base di ogni programma finalizzato a promuovere uno sviluppo umano integrale: «Infine, la visione dello sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità».2 La carità postula la costruzione di una società veramente fraterna, ma questo obiettivo non può essere giu-stificato e realizzato con il ricorso alla sola ragione. In verità, la fraternità «ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna». La regola della carità richiede un impegno a tutto campo contro ogni forma di ingiustizia, senza frapporre indugi: «questa urgenza è dettata anche dalla carità nella verità».3

* Vincenzo Battaglia, OFM, docente di Teologia Dogmatica nella Pontificia Università Antonianum.

1 BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n. 18.2 Ibid., n. 19.3 Ibid., n. 20.

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Seguendo l’articolato insegnamento dell’enciclica, intendo mettere in evidenza anche il richiamo a un altro valore troppo trascurato nella società contemporanea: la relazione, per cui i popoli costituiscono una sola famiglia. «Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitu-dine»: sono le parole con cui inizia il capitolo quinto, che ha come tema la collaborazione della famiglia umana.4 «Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro. […] La creatura umana, in quanto di natura spiri-tuale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale». Per questa ragione, l’unità della famiglia umana, rettamente compresa in analogia con la comunità fa-miliare e con la comunità ecclesiale, «non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità».5

Alcuni interrogativi sul progresso umano erano stati già posti da Bene-detto XVI con l’enciclica Spe salvi. Qui afferma con chiarezza che al pro-gresso tecnico deve corrispondere un progresso nella formazione etica e spirituale dell’uomo; in caso contrario, sarebbe solo una grave minaccia per l’uomo e per il mondo.6 In ultima analisi, «l’uomo ha bisogno di Dio, al-trimenti resta privo di speranza».7 Allo stesso modo, si deve prendere atto che «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore».8 Mediante l’amore che viene da Dio, rivelato e attuato da Gesù Cristo, il quale fa sperimentare l’intrinseca interdipendenza tra amore e vita, la vita vera ed eterna. «La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e nep-pure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita». Ma il rapporto con Dio mediato in forma assoluta da Gesù Cristo genera e fa maturare una fruizione della sal-vezza aperta alla comunione con gli altri; è una salvezza che non dà adito a una speranza individualistica, priva di respiro universale. «L’essere in comu-nione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere “per tutti”, ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme».9

4 Ibid., n. 53.5 Ibid.6 BENEDETTO XVI, Spe salvi, n. 22.7 Ibid., n. 23.8 Ibid., n. 26.9 Ibid., n. 28.

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A partire da quanto è stato riassunto sin qui, la riflessione approda neces-sariamente sul terreno della prima enciclica: Deus Caritas est, dove si ha modo di verificare il fondamento trinitario e cristologico del discorso e della prassi relativi all’amore per Dio e per il prossimo, che sono inseparabili, un unico comandamento.10 Per quanto ci interessa particolarmente in questa sede, va sottolineato il carattere «sociale» inerente alla mistica dell’Eucaristia:

L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. […] Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore.11

Un insegnamento che la Chiesa deve tradurre continuamente in opere di carità attiva e incisiva, armonizzate con la promozione della giustizia so-ciale: è questo l’argomento trattato nella seconda parte del documento, che si chiude con una densa riflessione sul rapporto tra fede, speranza e carità. La speranza, che si articola nelle virtù della pazienza e dell’umiltà, comporta il pieno affidamento a Dio, soprattutto di fronte ad ogni momentaneo falli-mento e insuccesso. A sua volta, la fede alimenta e sostiene la speranza che il mondo è nelle mani di Dio e che Lui realizzerà la vittoria definitiva sul male, sul peccato e sulla morte annunciata dal Libro dell’Apocalisse. Infine, «la fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire».12

1. Traiettorie di ricerca

1. Il nodo cruciale, il punto nevralgico dell’argomentazione prospettata dal titolo del presente contributo è determinato dal tentativo di mostrare la connessione logica e teologica tra la croce di Cristo e la dignità della persona.

10 Cfr. BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, n. 18.11 Ibid., n. 14.12 Ibid., n. 39.

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Più in dettaglio, si tratta di comprendere per quale ragione e in che senso il mistero della croce di Cristo rivela la dignità della persona e la rivela in misura piena, quindi compiuta, definitiva e insuperabile. L’efficacia rivela-trice attribuita al mistero della croce, allora, comporta intrinsecamente un carattere assoluto, escatologico. L’affermazione è assiomatica, in quanto si tratta della croce di Cristo, di Cristo Crocifisso «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24). In sostanza, è la singolarità della persona di Gesù Cristo a fondare e garantire il valore assoluto ed escatologico inerente alla funzione rivelatrice del mistero della croce in ordine al mistero dell’essere umano.

Parlare della singolarità di Gesù Cristo significa riprendere e valorizzare come si conviene una lezione, messa a tema soprattutto dalla cristologia con-temporanea, che conduce a riconoscere – come ha insegnato per esempio Giovanni Moioli – «l’assolutezza, la normatività e quindi l’universalità di diritto di questo individuo storico concreto che è Gesù. La “singolarità” è un predicato della storicità di Gesù».13 L’assolutezza che qualifica la storicità di Gesù dice e contiene il dato che Egli è la Verità definitiva, insuperabile, su Dio e sull’uomo. Il fondamento ultimo di questa affermazione sta nella realtà dell’evento dell’Incarnazione culminato nella Pasqua-Parusia. Per cui il «darsi storicamente della Trascendenza nella storia» assume il volto e la vicenda di Gesù di Nazaret connotati ontologicamente dal suo rapporto fi-liale con Dio/Abbà nello Spirito e dalla sua auto-donazione (pro-esistenza) salvifica all’umanità nello Spirito. Ma l’essere la Verità definitiva su Dio e sull’uomo significa, al contempo, che Gesù Cristo – in ragione della sua identità trinitaria di Figlio Unigenito del Padre Unto di Spirito Santo – è anche in se stesso la Salvezza definitiva, la causa costitutiva e la pienezza della salvezza da parte di Dio a favore del mondo e dell’umanità. L’efficacia salvifica, quindi, appartiene di diritto alla stessa persona di Gesù Cristo: per questa ragione la sua mediazione salvifica può essere annunciata come nor-mativa e valida per ogni uomo e per tutti gli uomini.

Ritengo di dover affermare [...] che proprio e solo l’evento reale dell’incarna-zione che fonda la singolarità di Gesù Cristo e che nel suo compimento pasquale realizza la “pienezza” del tempo salvifico, la irrepetibilità ed unicità degli atti salvatori, è anche la ragione stessa della sua universalità: in Gesù Cristo, l’eterno Figlio incarnato nella storia, Crocifisso e Risorto si realizza la riconciliazione co-smica, il senso di tutto il creato (Ef 2,14-18). È per questo che Gesù, il Cristo, non è uno dei tanti profeti o dei tanti avvenimenti rivelativi della storia: in lui la «rivelazione di Dio» possiede un carattere escatologico, definitivo, perché in Lui

13 Cfr. A. cOZZI, L’esigenza di pensare la “singolarità di Gesù”. Tracce di ricezione per apprezzare l’attualità di una lezione, «La Scuola Cattolica» 137 (2009), pp. 633-655 (648-649).

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si compie quella «singolare unità (reale) tra il tempo e l’eterno», tra il «divino e l’umano» che è fondata nella «persona unica eterna del Figlio».14

Secondo le traiettorie dottrinali sin qui tracciate, si deve aggiungere e precisare che la mediazione salvifica di Gesù Cristo – letta, logicamente, anche in chiave pneumatologica – va compresa secondo quella traiettoria globale, insegnata in via fondativa dalla cristologia neotestamentaria, che procede dall’escatologia alla protologia e viceversa. Il Libro dell’Apocalisse esprime questo principio interpretativo in forma lapidaria, quando attribui- sce al Cristo queste parole: «Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,13; cfr. 1,8; 21,6).15

2. Una trattazione sistematica del tema oggetto del presente contributo richiede di essere impostata alla luce e nel contesto più generale del rap-porto tra la cristologia e l’antropologia, e, derivatamente, tra la cristologia e la soteriologia. Tale rapporto, come si desume dalla letteratura specializzata, è pensato ormai secondo il principio regolatore della visione “cristica” della persona umana e della sua predestinazione in Cristo.16

14 m. BOrDONI, Singolarità e universalità di Gesù Cristo nella riflessione teologica contem-poranea, L’unico e i molti, a cura di P. cODA, PUL-Mursia, Roma 1997, pp. 67-108 (94). Cfr. N. cIOLA, “Disagi” contemporanei di fronte al paradosso cristiano dell’Incarnazione, «PATH» 2 (2003), pp. 443-471.

15 Per ulteriori approfondimenti nel contesto del dibattito teologico contemporaneo cfr. V. BATTAGLIA, Gesù Cristo luce del mondo. Manuale di cristologia, Pontificia Università Antonianum, Roma 2008; m. BOrDONI, Christus omnium Redemptor. Saggi di cristologia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010; N. cIOLA, La cristologia sistematica: tra irrinunciabili acquisizioni e odierna navigazione, «Lateranum» 75 (2009), pp. 19-46; A. cOZZI, Conoscere Gesù Cristo nella fede. Una cristologia, Cittadella Editrice, Assisi 2007; V. crOcE, Gesù il Figlio e il mistero della croce. Cristologia e Soteriologia, LDC, Leumann (To) 2010; m. GrONcHI, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008; D. HEr-csIk, Il Signore Gesù. Saggio di cristologia e soteriologia, EDB, Bologna 2010.

16 Rinvio ad alcuni studi sistematici: V. BATTAGLIA, Gesù Cristo luce del mondo, pp. 321-355; f.G. BrAmBILLA, Antropologia teologica, Queriniana, Brescia 2005; G. GOZZELINO, Il mi-stero dell’uomo in Cristo. Saggio di protologia, LDC, Leumann (To) 1991; G. IAmmArrONE, Gesù Cùristo volto del Padre e modello dell’uomo. L’apporto della visione francescana, Edizioni Messaggero, Padova 2004; L.f. LADArIA, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 309ss. ; L.f. LADArIA, Jesucristo, salvación de todos, San Pablo-Comillas, Madrid 2007; L.f. LADArIA, L’uomo in Cristo alla luce della Trinità, in «Lateranum» 75 (2009), pp. 147-169; c. LAUDAZI, Di fronte al mistero dell’uomo. Temi fondamentali di antropologia teolo-gica, Edizioni OCD, Roma 2007. Cfr. anche il documento della Commissione Teologica In-ternazionale pubblicato nel 2004: Comunione e servizio: la persona umana creata a immagine di Dio (per l’edizione italiana: cOmmIssIONE TEOLOGIcA INTErNAZIONALE, Documenti. 1969-2004, ESD, Bologna 2006, pp. 767-813).

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La predestinazione degli uomini in Cristo richiede di pensare la “destinazione”dell’umanità a Cristo. […] Accogliere la predestinazione vuol dire lasciarsi introdurre dallo Spirito nel cammino di Gesù e solo così si vedrà dispiegare la sua forza salvifica: l’incorporazione che porta alla beatitudine. La tesi della predestinazione compresa alla luce della Scrittura – operando così una correzione radicale della tradizione agostiniana – è insieme il fondamento e l’og-getto della speranza cristiana!17

Si trovano qui la premessa e il fondamento dell’incorporazione a Cristo e della conformità a Lui operate dallo Spirito Santo, che costituiscono la sola finalità e la pienezza escatologica del disegno salvifico di Dio Uno e Trino. La salvezza, scrive Ladaria,

consiste nella conformazione secondo Cristo, nel riprodurre la sua immagine, nel realizzare, in ultima analisi, l’ideale umano che trova in Cristo risorto il suo paradigma. Pertanto, la salvezza dell’uomo e il cristocentrismo nel disegno di Dio non si possono considerare come due cose opposte; al contrario, vengono a coincidere.18

Sulla base e alla luce dell’impostazione dell’antropologia cristiana in chiave cristocentrica, faccio presente sin d’ora che la dignità cui intendo riferirmi direttamente è quella della persona che «vive» in, con e per mezzo di Cristo, che fa esperienza della vita da figli di Dio mediata dall’unione con Cristo e guidata dallo Spirito Santo. L’ambito della trattazione, quindi, è volutamente circoscritto e delimitato. Non affronterò un ragionamento di ordine generale, a carattere fondamentale, sul complesso rapporto tra il mistero della croce e l’antropologia. A tale riguardo, peraltro, si deve ricono-scere che qualsiasi saggio inerente la teologia della croce prende in esame il discorso antropologico, per il fatto che nel mistero della croce di Cristo si ha la risposta definitiva di Dio, in termini salvifici, alle domande più radicali che la persona umana pone a se stessa e a Dio soprattutto quando sperimenta il peccato, il male fisico e morale, la sofferenza – quest’ultima spesso smisurata e scandalosa – che travagliano tanto la creazione, quanto la storia individuale

17 F.G. BrAmBILLA, Antropologia teologica, p. 208 e 212. «Lo Spirito fa partecipare tutta la creazione – uomo, chiesa, mondo – alla vicenda filiale di Gesù, nel duplice senso di una con-figurazione filiale e di una tra-sformazione spirituale» (467).

18 L.F. LADArIA, Antropologia teologica, p. 47.

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e universale.19 Do spazio ad alcune voci della teologia contemporanea, di-verse tra loro per impostazione e per competenza disciplinare.

3. Un sondaggio retrospettivo e prospettico

1. Nelle pagine introduttive e programmatiche del suo ben noto studio sul Dio crocifisso, il teologo evangelico Moltmann scriveva:

La conoscenza di Dio nel Crocifisso prende veramente sul serio gli interessi che caratterizzano la situazione dell’uomo, il quale in realtà è un non-uomo, perché costretto all’autogiustificazione, alla possente auto elevazione ed illusoria auto divinizzazione. “Per cui il Gesù Crocifisso è l’immagine del Dio invisibile”. La teologia della croce, nel suo soggetto come fin nel proprio metodo e prassi, non potrà essere altro che teoria polemica, dialettica, antitetica e critica. […] Lo scorgiamo chiaramente in quella tradizione teologica che va sotto il nome di teologia della croce. In questo senso, la teologia della croce ha in Paolo il suo fondatore.20

L’Apostolo, polemizzando in 1Cor 1,18-25 con i giudei e i greci, intende toccare la sfera degli interessi del non-uomo,

il quale – sia esso giudeo o greco – non può acconsentire a che Dio sia Dio, ma deve rendere se stesso un dio, infelice e superbo, signore di sé, del prossimo e del mondo. A questo livello la Parola della croce libera i non-uomini dagli interessi letali di divinizzazione e li apre all’esistenza umana e vitale che si conduce nella fede.21

2. Tra i saggi più notevoli prodotti in ambito cattolico, merita ancora di essere menzionato quello dei due professori gesuiti Flick ed Alszeghy.22

19 Entra qui in tema specialmente la questione della teodicea: rinvio alle considerazioni contenute nel saggio di m. kEHL, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della crea-zione, Queriniana, Brescia 2009, pp. 310-330. Per una riflessione in chiave di teologia della croce si veda: Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?, a cura di f. TAccONE, Edizioni OCD, Roma Morena 2006; La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso, a cura di f. TAccONE, Edizioni OCD, Roma Morena 2008; V. BATTAGLIA, «Il Crocifisso», Patì sotto Ponzio Pilato…, a cura di f. BOsIN – c. DOTOLO, EDB, Bologna 2007, pp. 63-101.

20 J. mOLTmANN, Il Dio Crocifisso, Queriniana, Brescia 1973, p. 89. La frase riportata tra le virgolette è di K. Barth.

21 Ibid., pp. 89-90.22 m. fLIck - Z. ALsZEGHy, Il mistero della croce, Queriniana, Brescia 1978.

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La parte sistematica comincia, dopo un capitolo introduttivo, con il ca-pitolo nono, dedicato al rapporto tra la croce e l’antropologia incentrata sul dato dell’immagine di Dio. Il tema dell’immagine è una pista «che designa la traiettoria di uno sviluppo, attraverso cui l’uomo, nonostante la deforma-zione del peccato, è destinato a diventare conforme all’unica autentica im-magine del Padre, a Cristo risorto (cfr. Rom 8,29; Ef 1,3-14)».23 Nel capitolo successivo i due autori, approfondendo il discorso sulla vocazione umana, spiegano come quest’ultima «riunisce in sé questi due aspetti apparente-mente contraddicentisi, in realtà correlativi: l’amicizia con Dio, e la necessità di portare la croce».24 Dopo aver ulteriormente esteso il percorso sistematico prendendo in esame prima il rapporto tra il peccatore e la croce, poi l’evento cruciale della croce di Cristo, gli autori arrivano a delineare i tratti specifici inerenti all’esistenza e all’esperienza del discepolo e della chiesa in ordine alla partecipazione alla croce del Signore Risorto. Va notato che il capitolo riguardante il Cristo Crocifisso si conclude con alcune puntualizzazioni pro-grammatiche, con cui si spiegano le ultime conseguenze della relazione in-scindibile tra l’esperienza della conversione e la croce. Infatti,

se tutta la nostra salvezza è una partecipazione all’esperienza filiale di Cristo, non si vede come potremmo giungere a questa conversione per noi crocifiggente, se Cristo stesso non avesse «inaugurata per noi», la sua perfetta adesione al Padre, attraverso la crocifissione della sua carne (cfr. Eb 10,20).

Il concetto essenziale di questo capitolo è dunque che Cristo crocifisso ci salva, non per la prestazione esterna, non producendo in noi uno stato o un compor-tamento diverso dal suo, ma comunicandoci proprio la sua esperienza di amore crocifisso.25

3. Franco Giulio Brambilla espone il contenuto della visione “cristica” dell’uomo – impostato secondo il principio architettonico del cristocen-trismo trinitario –, affermando che «l’uomo in Cristo trova la sua figura “archetipa” nella duplice dedizione di Gesù al Padre e agli uomini. La de-dizione di Gesù, che è il sigillo della sua missione, è attraversata dall’inizio alla fine dallo Spirito».26 In base a questa premessa, l’autore illustra prima di tutto il dato della libertà di Gesù pienamente relativa al Padre. In partico-lare, spiega che la dedizione filiale al Padre assume la forma dell’obbedienza:

23 Ibid., p. 248.24 Ibid., p. 277.25 Ibid., p. 355.26 F.G. BrAmBILLA, Antropologia teologica, pp. 147-155 (147).

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l’una e l’altra vanno considerate in un nesso inscindibile, tanto da poter ri-conoscere nella forma servi la forma della dedizione scelta e attuata da Gesù, in piena libertà, secondo Dio. «Anzi, alla fine la dedizione ha la forma della consegna di Gesù al Padre, anche quando gli uomini la/lo rifiutano. Essa si suggella nel farsi “obbediente fino alla morte, alla morte però di croce” (Fil 2,8)…».27 L’evento della croce, quindi, contiene e rivela l’assoluta dedizione al Padre «di Gesù e secondo Gesù»: sotto questo profilo, esso rivela che Gesù è il Figlio di Dio proprio così, proprio perché ha obbedito fino al dono totale di sé avvenuto con la morte di croce. Inoltre, «l’essere-così di Gesù è l’opera dello Spirito che fa della dedizione/obbedienza/fede di Gesù la forma perfetta della libertà credente».28

Questa specifica esistenza filiale di Gesù – questa forma storica in cui si manifesta la fides Jesu – «porta a compimento tutte le forme del libero affidarsi dell’uomo». Ne segue che in noi la fides Jesu «attua “nella storia” il nostro diventare figli-come-lui, cioè la libera conformità alla volontà del Padre, per opera del medesimo Spirito».29 Fermo restando che «la libertà filiale di Gesù è genetica rispetto al nostro diventare figli», si può apprez-zare nel modo dovuto la verità che la fede teologale si sviluppa nel credente come dono e opera dello Spirito, il quale lo configura a Cristo. Secondo tale prospettiva – fa notare l’autore – il discorso sulla libertà del credente nel lasciarsi conformare come figlio nel Figlio dallo Spirito esclude che questa libertà possa essere vista come un dato presupposto, quasi una condizione neutra pre-esistente. Inoltre, si comprende bene anche la drammaticità del peccato, che viene inteso «come rifiuto del volto paterno di Dio, mediato nella figura filiale della libertà di Gesù», quella libertà espressa da due pre-cisi atteggiamenti: la condizione di servo e l’aver imparato l’obbedienza dalle cose patite (cfr. Eb 5,8). Arrivato a questo punto, il ragionamento di Bram-billa conduce a riconoscere come si conviene il valore esemplare e norma-tivo che il criterio staurologico riveste nella costruzione dell’antropologia cristiana, anche per quanto attiene all’aspetto soteriologico. Scrive:

Il rifiuto degli uomini innalza il patibolo della croce. La forma filiale assume la figura del servo sofferente, l’agnello che porta il peccato del mondo, prendendo il volto del Crocifisso. Il Crocifisso è l’essere filiale che porta e conforma dal di dentro il rifiuto degli uomini ad essere «figli di Abramo» secondo Gesù, cioè a diventare figli del Padre nella fede. […] Sulla croce Egli porta anche il rifiuto ostinato di chi vuole accedere a Dio, nella forma di una paternità sequestrata

27 Ibid., p. 151.28 Ibid., p. 152.29 Ibid., pp. 152-153.

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da una religiosità troppo sicura di sé […]. Rimanendo fedele sino alla fine al suo essere filiale, cioè alla sua consegna al volto dell’Abbà (lasciandolo essere nell’obbedienza), Gesù porta e tras-forma dal di dentro tutte le figure della di- sobbedienza, compresa la forma radicale di chi vuole essere come Dio […] e non vuole lasciarsi con-formare dall’essere filiale.30

4. Lo sviluppo del dibattito teologico contemporaneo ha portato ad allar-gare l’orizzonte delle questioni e delle sfide da affrontare. A tale proposito, il dialogo con le altre religioni ha assunto una centralità e un rilievo tali da aver coinvolto, inevitabilmente, anche la teologia della croce. In partico-lare, la fede sull’unicità e sull’universalità della mediazione salvifica di Gesù Cristo porta ad interrogarsi sulla risposta che il cristianesimo deve dare alle domande riguardanti la sofferenza umana, confrontandosi con le risposte date dalle altre religioni, specialmente quelle monoteiste. Necessariamente – come è stato già rilevato – il discorso sul mistero di Dio fatto alla luce del Crocifisso Risorto ha precisi contenuti e risvolti antropologici, soprattutto in ragione della certezza che, nel Crocifisso Risorto, Dio manifesta la sua com-passione salvifica verso ogni essere umano piagato dal dolore.31 Un ragiona-mento serio e rigoroso sulla compassione implica anche il confronto con la teologia politica e le sue provocazioni. In questo senso, segnalo la lezione di Johann Baptist Metz, il quale ha dato alla compassione lo statuto di “nuova” categoria della teologia politica, mostrando chiaramente che la compassione va intesa sia come memoria passionis (ricordarsi del dolore altrui: l’autore invita a impostare il ragionamento “dopo Auschwitz”), sia come partecipa-zione pienamente solidale al dolore degli altri.32 Il progetto di una nuova teo-logia politica in quanto teologia fondamentale richiede, secondo Metz, «di rendere l’autorità dei sofferenti criterio ineludibile di ogni dialogo religioso e culturale, e di ogni “politica del riconoscimento”». Tale teologia

30 Ibid., p. 154.31 Si veda, per esempio: P. cODA – m. crOcIATA (edd.), Il crocifisso e le religioni. Compas-

sione di Dio e sofferenza dell’uomo nelle religioni monoteiste, Città Nuova - Facoltà Teologica di Sicilia, Roma 2002.

32 Cfr. J.B. mETZ, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana, Brescia 2009. Rinvio alla presentazione contenuta nel contributo di f. BOsIN, “Ricordandosi della sua misericordia”. Ri-dire Maria alla luce di una teologia politica della com-passione, in La categoria teologica della compassione. Presenza e incidenza nella riflessione su Maria di Nazaret, a cura di E.m. TONIOLO, Marianum, Roma 2007, pp. 109-144. Nello stesso volume è inserito anche l’intervento di c. DOTOLO, Ambiguità e forza della categoria di “com-passio” in teologia e mariologia, pp. 25-45.

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vuole valorizzare, anche nelle società pluraliste, la duratura pretesa del discorso biblico su Dio – per esempio nello spirito di un monoteismo sensibile al dolore e di una cristologia sensibile alla teodicea – e porre a confronto l’ambito pub-blico, guidato dalla dimenticanza, con la potenza umanizzante della memoria passionis.33

5. Un altro campo di indagine che non perderà mai la propria drammatica attualità è quello relativo all’esperienza del martirio. Quest’ultima insegna che la «croce» gloriosa di Cristo comunica all’identità cristiana un’impronta tanto originale quanto paradossale.34 Il martirio è il compimento supremo della sequela del Crocifisso Risorto, in quanto – stando, per esempio, alla lucida lezione di Hans Urs von Balthasar – il discepolo si lascia afferrare talmente dall’agape divina rivelata dal Crocifisso, da diventare capace di at-tuare quella testimonianza radicale di amore per Cristo e in comunione con Lui, che arriva fino al dono della vita. Tale disponibilità a dare la vita va intesa «come risposta all’amore trinitario rivelato nella croce; come qualifi-cazione ultima dell’amore cristiano; ed infine come attestazione della verità della rivelazione e quindi come segno di credibilità della rivelazione stessa».35

4. Conformità e partecipazione all’amore di Cristo Crocifisso

1. La vita da figli di Dio in Cristo Gesù, condotta secondo lo Spirito e gui-data dallo Spirito, genera una molteplicità di desideri, o – meglio ancora – un unico desiderio dalle molte sfaccettature: entrare nella sfera dell’affettività di Gesù, lasciarsi conquistare dal suo amore e affascinare dalla sua bellezza, assecondarne l’azione pedagogica e salvifica, condividerne i sentimenti e lo stile di vita, diventare conformi a lui, il Signore Crocifisso e Risorto.

Un testo che fa da guida è senza dubbio l’inno della Lettera ai Filippesi, specialmente la prima parte (Fil 2,6-8), con l’esortazione che lo introduce: «abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Sulla scorta di quanto viene proclamato nella prima parte dell’inno – e in base a quanto emerge dalle narrazioni evangeliche che culminano nel mistero pasquale – i sentimenti sperimentati e messi in atto da Gesù hanno il loro centro e il loro vertice nel «mistero della croce», che è l’evento con il quale egli ha portato a

33 Ibid., p. 230.34 Cfr. S. ZAmBONI, Chiamati a seguire l’Agnello. Il martirio compimento della vita morale,

EDB, Bologna 2007.35 Cfr. P. mArTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario nella teo-

logia di hans Urs von Balthasar, Jaca Book, Milano 1996, pp. 397- 415 (410).

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compimento la sua missione. Nell’«ora» della passione, infatti, ha realizzato in maniera perfettamente efficace la «carità» con cui ha vissuto il suo rap-porto di donazione verso Dio/Abbà, e verso l’umanità, nella potenza dello Spirito Santo (cfr. Gv 13,1).

L’affettività, la sensibilità, i sentimenti e lo stile di vita del Signore Gesù sono ormai definitivamente trasfigurati dalla gloria e dalla potenza dello Spi-rito che hanno caratterizzato l’evento della risurrezione e dell’esaltazione alla destra del Padre. Pertanto, i cristiani possono farne esperienza nella mi-sura in cui diventano sempre di più il Corpo «crismato» del Signore Gesù – il Corpo che è la Chiesa, ricolma del suo Spirito36 – immergendosi gradual-mente nel suo mistero personale, specialmente attraverso la liturgia con al centro l’Eucaristia, la contemplazione della sua storia narrata dai Vangeli, la preghiera, l’apostolato e le opere di carità.37 «Ma con la sua vita, nelle sue parole e nelle sue azioni, Cristo non ci rivela solo il volto del Padre, ma anche il nostro», afferma Schönborn. E sulla base di quanto si legge in GS 22, prosegue:

Perciò egli è il modello, l’ideale che dobbiamo seguire. La sua nascita nel pre-sepe ci insegna l’umiltà, i suoi trent’anni a Nazaret ci insegnano l’impegno e la costanza, i tre anni della sua predicazione lo zelo per il regno di Dio, i tre giorni della sua passione l’obbedienza. Perciò la vita della Chiesa comporta sempre anche la concreta sequela di Cristo. La Chiesa ha bisogno dei santi, in cui Cristo diventa visibile. Nella imitatio Christi prendiamo parte alla sua vita. «Vi ho dato un esempio infatti perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).38

2. Negli scritti neotestamentari il linguaggio della conformità al Signore Crocifisso e Risorto è utilizzato esclusivamente dall’apostolo Paolo, a mo-tivo – credo – della sua singolare esperienza di unione salvifica e vitale con Cristo, al quale era tutto dedito e per il quale era pronto a dare anche la vita. «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,20-21). Questo testo va riletto alla luce dell’insegnamento sulla partecipazione al mistero pasquale che l’Apostolo espone nel capitolo terzo della lettera, dopo aver descritto il dramma di Cristo Gesù nell’inno di Fil 2,6-11. La frase più inci-

36 Cfr. c. mILITELLO, La Chiesa «il corpo crismato». Trattato di ecclesiologia, EDB, Bo-logna 2003.

37 Per l’approfondimento di questa e delle tematiche esposte nelle pagine seguenti rinvio a un mio libro di prossima pubblicazione presso le Edizioni Dehoniane di Bologna: Senti-menti e bellezza del Signore Gesù. Cristologia e contemplazione 3.

38 c. scHöNBOrN, Dio inviò suo Figlio, Jaca Book, Milano 2002, p. 179.

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siva, allora, è la seguente: «…perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11). Il verbo composto symmorphizein, annota Fabris, è stato coniato diret-tamente da Paolo ed esprime la continuità di un processo – la partecipazione alla morte di Cristo nei suoi effetti salvifici – che lo condurrà a condivi-dere la gloria della risurrezione, precisamente nel senso che il Signore Gesù «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21).39 Sarà questo il compimento definitivo della sua azione salvifica in quanto Capo e Signore del suo Corpo che è la Chiesa. In altre parole, egli renderà il nostro corpo mortale – la nostra realtà/identità di creature – perfettamente adatto e unibile al suo corpo glorioso, pienamente partecipe della sua gloria. Si compirà allora il disegno salvifico di Dio, descritto ma-gistralmente nell’inno della Lettera agli Efesini (1,3-14), che comporta per i cristiani il dono di essere a lode della gloria di Dio, per opera di Gesù Cristo e insieme a Lui (cfr. 1,12.14), quali figli adottivi scelti in Cristo dal Padre «prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4) e confermati, a tal fine, con il dono dello Spirito Santo, «il quale è caparra della nostra eredità» (1,14).

Così, attraverso il linguaggio del «corpo», della «carne mortale», Paolo spiega fino a che punto la sua persona è messa completamente a disposizione del Signore Gesù. Inserito nella concretezza di una storia terrena, l’Apostolo deve misurarsi con le prove, le fatiche e le sofferenze derivanti dall’attività missionaria, che – oltre a fargli toccare con mano la propria fragilità e de-bolezza – lo mettono continuamente di fronte alla vocazione suprema del «martirio», all’eventualità, tutt’altro che remota, di dover subire anche la morte a causa di Cristo.40 «Siamo colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo con-segnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale» (2Cor 4,9-11). Nella persona e mediante la storia di Paolo, il Signore, vincitore del peccato e della morte, rende visibile l’effi-cacia della sua azione salvifica e la potenza del suo Vangelo. Egli opera in e per mezzo dell’Apostolo, il quale è ormai completamente a sua disposizione, totalmente consapevole che è proprio nella sua debolezza che si manifestano

39 Cfr. il commento dettagliato di r. fABrIs, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, EDB, Bologna 2001, pp. 183-233.

40 Cfr. m. sUsINI, Il martirio cristiano esperienza di incontro con Cristo. Testimonianze dei primi tre secoli, EDB, Bologna 2002, pp. 36-45; ZAmBONI, Chiamati a seguire l’Agnello, pp. 121-145.

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la potenza e la vita del Signore (cfr. 2Cor 4,7-18; 12,7-10). Paolo, allora, affronta tutto con quell’atteggiamento interiore, infuso dallo Spirito, che si identifica con l’offerta di sé in sacrificio gradito a Dio (cfr. Rm 12,1). La dedizione di Paolo al Vangelo e al bene della Chiesa trova perciò sostegno e alimento nella partecipazione alla passione di Cristo. Nello stesso tempo, così facendo, egli è proteso a portare a termine il proprio itinerario, che riproduce quello di Cristo. «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).41

3. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35). L’esistenza del discepolo è connotata da un procedere senza sosta nella se-quela, da un «cammino» che è metafora di un coinvolgimento graduale nella relazione vitale con Gesù e che comporta due decisioni.

La prima concerne la rinuncia a se stessi, da intendere alla luce di quanto Gesù aveva detto poco prima annunciando la propria passione (cfr. Mc 8,31-33): mettere da parte ogni progetto personale per accettare come unico progetto e scopo della propria vita la persona di Gesù e il suo vangelo. Ma ad una condizione ben precisa: accettarne il carattere «scandaloso» e «pa-radossale» designato in maniera inequivocabile dal mistero della croce, evo-cato sia nell’annuncio fatto da Gesù: dover molto soffrire, essere riprovato, venire ucciso (cfr. Mc 8,31), sia nell’esortazione a prendere la propria croce indirizzata ai discepoli (cfr. Mc 8,34).

La seconda decisione è specificata così dalla metafora del prendere la «propria» croce. L’aggettivo possessivo dice quanto sia necessario disporsi ad un rapporto personale con Cristo Crocifisso vissuto accogliendo ogni giorno nella propria interiorità – intelligenza, memoria e volontà – la sua presenza che, mentre si impone progressivamente, fa uscire da una visione egocentrica della propria vita. Gesù, infatti, insegna ad avere una nuova men-talità, capace di assimilare il capovolgimento completo dei valori, descritto icasticamente dalla contrapposizione tra il salvare e il perdere la propria vita.

Il guadagnare la propria vita coincide in fin dei conti con la «grazia» di poter amare nel senso pieno della parola. Amare donandosi, amare accet-tando Gesù senza porre condizioni, accogliendolo così come si rivela e per quello che realmente è: il Figlio di Dio incarnato. In fin dei conti, rinnegare se stessi, prendere la propria croce, perdere la propria vita significa mettersi al servizio di Gesù, al servizio del vangelo, al servizio di ogni persona umana,

41 Cfr. J-N. ALETTI, Lettera ai Colossesi, EDB, Bologna 1994, pp. 121-123.

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mossi dalla fede e per amore. Infatti, «in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Le opere della carità verso il prossimo sono ben de-scritte da Gesù con le due parabole del buon samaritano (Lc 10,29-37) e del giudizio finale (Mt 25,31-46), che, tra l’altro, evidenziano l’ampiezza univer-sale della regola da lui dettata per entrare nella vita eterna (cfr. Lc 10,25-29 e Mt 25,46).42 Mi sembra significativo, al riguardo, un brano tratto da un discorso tenuto da Paolo VI durante la sua visita apostolica a Bogotà, avve-nuta nel 1968. Parlando a centinaia di migliaia di campesinos, diceva loro che sono un sacramento del Signore, come un riflesso rappresentativo, ma non nascosto, della sua faccia umana e divina. Subito dopo aggiungeva:

E tutta la tradizione della Chiesa riconosce nei poveri il sacramento di Cristo, non certo identico alla realtà dell’Eucaristia, ma in corrispondenza analogica e mistica con essa. Del resto Gesù stesso ce lo ha detto in una solenne pagina del suo Vangelo, dove Egli proclama che ogni uomo che soffre, ogni affamato, ogni infermo, ogni disgraziato, ogni bisognoso di compassione e di aiuto, è Lui, come se Lui stesso fosse quell’infelice, secondo la misteriosa e potente sociologia evan-gelica (cfr. Matth. 25,35ss.), secondo l’umanesimo di Cristo.43

«Secondo l’umanesimo di Cristo». Lui è «il principio e il modello dell’umanità rinnovata, permeata di amore fraterno, di sincerità e di spi-rito di pace, alla quale tutti aspirano».44 Sta qui il fondamento permanente dell’impegno a servizio di un vero umanesimo integrale. «La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio».45

4. La sequela di Cristo e la conformità a Lui toccano il culmine nella vocazione al martirio. Il martirio, quale «prova suprema di carità»,46 quale «grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio» (Benedetto XVI), «si fonda sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore,

42 Per ulteriori spunti di riflessione cfr. G. cALABrEsE, Il buon samaritano: Cristo, morto e risorto. Riflessioni a partire dai nn. 28-30 della Salvifici doloris, in Patì sotto Ponzio Pilato, cit., pp. 213-251.

43 Insegnamenti di Paolo VI. VI. 1968, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1969, p. 377.

44 AG 8: EV 1/1107.45 BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n. 78.46 Lumen Gentium, n. 42.

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consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita (cfr. Gv 1,10)». Il cristiano chiamato al martirio – Benedetto XVI ne sottolinea chiaramente la dimensione vocazionale! – riceve la forza che gli è necessaria «dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della sua grazia, che rendono capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo».47

Inoltre, sulla scorta dell’insegnamento tramandato dalla storia dei martiri e dalla letteratura martiriale, risulta che il carisma del martirio ha una par-ticolare, intensa impronta eucaristica. L’eucaristia è il cibo del martire e il martire vive il dono della propria vita come offerta di sé motivata dall’amore per il suo Signore e accompagnata dal rendimento di grazie per tutti i bene-fici da Lui ricevuti.48 Sant’Agostino, dopo aver citato 1Gv 3,16: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», insegna che i martiri si sono comportati proprio secondo questa norma. Per non celebrare invano la loro memoria e non accostarsi invano alla mensa del Signore, è necessario prepararsi a ricambiare il dono ricevuto. Infatti «essi hanno dato ai loro fra-telli la medesima testimonianza di amore che essi stessi avevano ricevuto alla mensa del Signore». In verità, versando il proprio sangue per la remissione dei peccati, Gesù ci ha offerto «non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati. Ogniqualvolta i martiri versano il loro sangue per i fratelli, ricambiano il dono da essi ricevuto alla mensa del Signore».49

Conclusione

Resa partecipe dallo Spirito Santo della santità del Signore Gesù, la Chiesa ne condivide anche la bellezza, rivelazione luminosissima della Bel-lezza del Padre, «fonte di ogni santità» (II preghiera eucaristica). Quale Sposa e Corpo di Cristo, riceve in dono la bellezza che adorna lo Sposo: ne è rive-

47 I brani sono desunti da una catechesi tenuta da Benedetto XVI a Castel Gandolfo, il mercoledì 11 agosto 2010 (cfr. «Avvenire», 12 agosto 2010, p. 5).

48 Cfr. sUsINI, Il martirio cristiano, pp. 129-148. L’autrice ha mostrato la valenza vocazio-nale del martirio sia in quest’opera, sia in altre due successive: I martiri di Tibhirine. «Il dono che prende il corpo», EDB, Bologna 2005; «Io vivo rischiando per te». Christophe Lebreton trappista, martire del XX secolo, EDB, Bologna 2008.

49 In Io. Evang. Tr. 84, 1-2 (opere di Sant’Agostino. XXIV. Commento al vangelo e alla prima epistola di San Giovanni, Città Nuova, Roma 1968, pp. 1258-1263[1261]).

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stita, la contempla, ne gode e la irradia.50 Ciò avviene specialmente tramite la liturgia, l’evangelizzazione, le opere di carità, la testimonianza e il magistero dei santi, tra cui occupano un posto di rilievo i martiri. Il discorso sulla con-formità al Signore Gesù deve essere declinato anche dal versante della via pulchritudinis, per non perderne di vista una dimensione essenziale. Infatti, la partecipazione al mistero pasquale di Cristo comporta, grazie soprattutto ai sacramenti, la partecipazione alla sua santità e gloria, alla sua Bellezza. Tale partecipazione sarà compiuta e imperitura quando, con la risurrezione dei morti, il nostro corpo corruttibile e mortale si sarà vestito di incorrutti-bilità e di immortalità (cfr. 1Cor 15,51-58).

I santi e, in modo speciale, i martiri, sono l’icona visibile della Bellezza diffusa dal Signore Gesù, Luce del mondo. Lo sono per opera dello Spirito Santo: Egli, l’Artista di Dio, è l’artefice di ogni santità/bellezza creata. Egli incide nella fisionomia della Chiesa e dei cristiani i tratti inerenti alla Bel-lezza/Santità del Signore Gesù, i tratti della Bellezza dell’Amato Crocifisso.

Il vertice, l’archetipo della bellezza si manifesta nel volto del figlio dell’uomo crocifisso sulla Croce dei dolori, rivelazione dell’amore infinito di Dio che, nella sua misericordia per le proprie creature, ripristina la bellezza perduta con la colpa originale. «La bellezza salverà il mondo», perché tale bellezza è Cristo, la sola bellezza che sfida il male e trionfa sulla morte. Per amore, il «più bello dei figli dell’uomo» (Sal 44,3) si è fatto «uomo dei dolori», «senza apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2), e in tal modo ha reso all’uomo, ad ogni uomo, pienamente la sua bellezza, la sua dignità e la sua vera grandezza. In Cristo, e solo in Lui, la nostra via Crucis si trasforma, nella sua, in via lucis e in Via pulchritudinis.51

Il discepolo che decide di stare «presso la croce di Gesù» (cfr. Gv 19,25), impara – sotto la guida dello Spirito Santo e alla scuola della vergine Maria – a contemplare e, quindi, ad accogliere l’Amore irradiante dal corpo mar-toriato, dal costato trafitto di Gesù. Impara a vedere l’Amore che riveste l’Amato pur avendolo portato a privarsi di tutto, anche della vita, per rendere ricchi gli uomini mediante la sua povertà (2Cor 8,9). Impara a riconoscere i tratti della Bellezza che l’Amore ha impresso sul suo Signore Crocifisso e che

50 Cfr. V. BATTAGLIA, Il Signore Gesù Sposo della Chiesa. Cristologia e contemplazione. 2, EDB, Bologna 2001.

51 Il brano appartiene alla Conclusione dell’Instrumentum laboris prodotto dal Pontificio Consiglio della Cultura, pubblicato in La via della bellezza. Cammino di evangelizzazione e dialogo, a cura di G. mUrA, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006, pp. 29-64 (63).

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lo ha condotto ad assumere la condizione del Servo sofferente, del Giusto perseguitato, del Messia povero e crocifisso. Così, diventando sempre più esperto nella sapienza della croce, non cercherà per sé altro vanto e altra gloria se non quelli che derivano dall’adesione amorosa alla croce del suo Signore (cfr. Gal 6,14.17).

Giorno dopo giorno, sperimenta la compassione amorosa, solidale e sal-vifica che il Signore Gesù esercita nei suoi confronti, come nei confronti della Chiesa e di tutta l’umanità. Grazie a questa esperienza, diventa capace di compatire: compatisce con Cristo Crocifisso e, in comunione con Lui, grazie allo Spirito Santo, si impegna nella compassione operosa verso tutti i crocifissi della storia, verso i fratelli e le sorelle piagati dal male e dalla sofferenza.52 Al contempo, la sua preghiera sarà pervasa e suggellata sempre di più dall’Amen e dal Grazie che scaturiscono incessantemente dal cuore della Chiesa, la quale «avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunciando la croce e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1Cor 11,26)».53

52 La compassione verso i sofferenti è segno e misura del più autentico senso di umanità, è apportatrice della vera speranza cristiana: «Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assu-mere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore» (Spe salvi, n. 38).

53 LG 8: EV 1/307.

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LINEE PEDAGOGICHE PER ESSERE TESTIMONI DELLA CROCE ATTRAVERSO L’INCULTURAZIONE:

P. MATTEO RICCI

Grazia Maria Costa*

Premessa

Sono molte le linee pedagogiche che si possono leggere nella vita e nella comunicazione scritta che ci ha lasciato padre Matteo Ricci (Macerata, 6 ot-tobre 1552 – Pechino, 11 maggio 1610), di cui proprio quest’anno ricorrono i 400 anni della sua morte in Cina.

Sono linee pedagogiche che sembrano basarsi sulla sua testimonianza, che egli ha vissuto cercando in ogni modo di entrare nell’ottica e nell’espe-rienza della grande Nazione Cinese, dove era stato mandato.

Oggi si parlerebbe di empatia o di com-passione fraterna, seguendo la fenomenologia di Edith Stein, e di atteggiamento transculturale.

La persona – come lo è stato per padre Matteo Ricci – risulta capace di andare momentaneamente oltre i suoi schemi culturali per aprirsi all’altro e poi ritornare ai suoi per farne la dovuta sintesi.

Si parla di interpatia, la capacità cioè di entrare nel pensare e sentire dell’altro, non per condividerlo a livello emotivo, ma per conoscerlo pro-fondamente.

Scorrendo sia le numerose lettere, sia alcune opere, scritte appunto dal padre Matteo Ricci o dai suoi commentatori e studiosi, si presentano qui 12 linee pedagogiche, che emergono dalla sua testimonianza:

1) La capacità di “portare” i distacchi e le malinconie, alla luce della gra-duale trasformazione di sé (cap. I).

2) L’integrazione degli insuccessi, quali momenti di Croce, verso la resur-rezione (cap. II).

3) Il sapere reagire alle circostanze, elaborando uno sguardo positivo e fiducioso verso se stessi e verso gli altri (cap. III).

4) Il riflettere, lo studiare, sviluppando il proprio pensiero, anche a ser-vizio degli altri (cap. IV).

* Grazia Maria Costa, Preside Istituto Edi.S.I. di Genova.

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5) Cogliere la luce e il buio interno ed esterno a sé come locus theologicus, proprio perché il mondo è luogo della presenza di Dio (cap. V).

6) Rapportarsi con il limite dell’essere creatura tra creature, sviluppando capacità di perdono e una pedagogia del positivo (cap. VI).

7) Realizzare un proprio controllo degli impulsi, per equilibrare raziona-lità ed affettività (cap. VII).

8) Coscientizzare i propri desideri e le proprie energie (cap. VIII).

9) Procedere verso i propri cambiamenti interiori, che aiutano a trasmet-tere quasi inconsapevolmente il buon esempio (cap. IX).

10) “Portare” la malattia e il martirio quotidiano (cap. X).

11) Andare verso una castità “inculturata” (cap. XI).

12) Percorrere la strada dall’amicizia verso i fratelli all’amicizia verso il Signore del Cielo (cap. XII).

Certamente queste 12 linee pedagogiche sono solo una piccola parte di ciò che il padre Matteo Ricci ci ha trasmesso.

La lettura poi di tali linee ha un indirizzo di sintesi tra l’antropologia e la spiritualità, sintesi caratteristica della riflessione che si cerca di realizzare nell’Istituto Edith Stein Edi.S.I.

Si resta comunque aperti ad altre linee, che ciascuno potrà trovare, inte-grando questa riflessione.

Mi mossi adesso a disporre e a raccogliere in ordine le cose più notabili di quelle che sino dal principio avevo notato in questo vastissimo regno della Cina. Posciachè la maggior parte o passorno per le mie mani o seppi molto esatta-mente; accioché, se alla Divina Maestà piacesse di sì piccolo seme farne nascere e ricogliere qualche buona messe nella sua santa Chiesa Cattolica, e sapessero i devoti fedeli che veniranno di poi, di dove hanno da comenzare a dare a Dio le debite gratie e narrare le sue alte meraviglie fatte in questi ultimi secoli a lonta-nissimi popoli.1

1 m. rIccI, Della entrata della Compagnia di Gesù e Cristianità nella Cina, vol. I, cap. I, Edizioni Quodlibet, Macerata 2000, p. 5.

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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci 97

Anche per “narrare le Sue alte meraviglie”, si continua ora percorrendo le 12 linee pedagogiche.

1. “Portare” i distacchi e le malinconie verso l’incarnazione e la Croce

Sappia V.R. che se qualche merito ho qui, in questi luoghi, e so che è ben poco, non è perché faccio qualcosa, giacchè non faccio alcunché, ma perché soffro nello star lontano da quelli ai quali vorrei stare vicino, e parlando in nomine veterem sarei disposto a sopportare per dieci volte le scomodità che si trovano nel viaggio, pur di stare un solo giorno con V.R. e gli altri miei vecchi amici. Sed bonum et non hic esse, anche perché io non meritai né merito tanto bene, così lo prendo come penitenza per i miei peccati.Non pensi V.R. che mi manchino amici, perché dovunque mi fanno tutti molti onori, e per quanto giovane, posseggo già l’indole degli anziani e sempre lodo il tempo passato. Ben vedo che tutto ciò è una mia imperfezione, ma chi per una volta si arrende veramente a Dio Nostro Signore, abbandona ogni preoccupa-zione nelle sue mani.2

Non mi causa tanta tristezza, così la voglio chiamare, il star lontano di miei pa-renti secundum carnem, se bene io son molto carnale, quanto il starlo da V.R. che amo più che mio padre. Di qui potrà giudicare V.R. quanto grata mi fu la sua lettera. Non so che imaginatione mi viene alle volte e non so come mi causa una certa sorte di melanconia che mi par che è buona, e havrei scrupolo di non ha-verla, pensando che i miei padri e fratelli, ch’io tanto ami et amo, di cotesto col-legio dove io nacqui e mi allevai, si scordino di me, tenendo io tutti tanto freschi nella memoria; tanto che per mia miseria una delle buone orationi, e con molte lagrime, che io faccio è ricordarmi di V.R. e degli altri padri e fratelli del collegio. E se bene sto molto contento di questa seconda vocatione e la riconosco per grandissimo beneficio che Dio mi fece dipoi di chiamarmi alla Compagnia, con tutto ciò parmi grande cosa vivere in coteste parti tra nostri padri [e] fratelli. Né voglio che V.R. pensi che quei di qua, e superiori e altri, non mi tengano e non mi mostrino tanto [amore] come quei di Roma; perché glie dirò una cosa, che par che nostro Signore mi vol pagare in questa vita una particolar affettione e cura che stando in Roma haveva a quei di diversa natione, facendomi ben voluto da tutti in tutte le parti dove sin hora sono stato: ma questo confesso che è tutto per mia imperfettione.3

2 m. rIccI, Lettera al P. Gian Pietro Maffei sj, Lisbona, Goa, 1 dicembre 1581, in m. rIccI, Lettere, Edizioni Quodlibet, Macerata, 2001, p. 40.

3 m. rIccI, Lettera al P. Ludovico Maselli sj, Roma, Cochin, 29 novembre 1580, in m. rIccI, Lettere, cit., p. 19.

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«Ci siamo fatti cinesi»: Ricci è chiamato Li Madou, lo Xitai. Era una tranquilla serata di novembre, nella residenza dei missionari regnava il silenzio e i religiosi si erano ritirati nelle loro stanze. Ricci, seduto al tavolo, leg-geva un testo cinese. Era soddisfatto perché ormai riconosceva e scriveva facil-mente i caratteri e riusciva a dialogare con i locali e a confessare i convertiti senza interprete. Avrebbe voluto esercitarsi ancora nella scrittura con il pennello, ma era troppo stanco. Era ormai il 1585, e a poco più di due anni dal suo arrivo a Zhaoquing con Ruggieri egli si sentiva assalire dalla nostalgia pensando che non sarebbe più ritornato in Europa: per lui il lavoro missionario era una scelta definitiva e irrevocabile. Per trovare conforto alla sensazione di solitudine, tornò con la memoria agli anni felici trascorsi al Collegio Romano e iniziò a scrivere una lettera al confratello Giulio Fuligatti, compagno di studi a Roma, certo che il dialogo con gli amici lontani lo avrebbe aiutato a superare il momento di malinconia. Mentre componeva le frasi sul foglio si rendeva conto che gli riusciva sempre più difficile usare la sua lingua madre e si scusò con l’amico del proprio stile poco forbito, dove parole italiane venivano mescolate a espressioni portoghesi e spagnole, con l’aggiunta, ogni tanto, di un modo di dire tradotto dal cinese, come quando chiamava il riso, base dell’alimentazione popolare, con l’espres-sione «grande riso», alla maniera locale.Ricci si accorgeva che il suo sforzo di adattarsi ai costumi cinesi stava lentamente cancellando in lui non soltanto la capacità di parlare un italiano corretto, ma anche l’aspetto tipico di occidentale. «[Mi sono] fatto un cina» scriveva al con-fratello, chiarendo più oltre: «Già saprà che nel vestito, nelle cerimonie e tutto l’esteriore ci siamo fatti cinesi». La trasformazione era anche stata accelerata dal passo decisivo che Ricci aveva compiuto insieme a Ruggieri: adottare un nome onorifico cinese. Fino a quel momento i locali avevano chiamato lui e il compagno con una trascrizione fonetica dei loro nomi cristiani. Siccome il suono della lettera R era sconosciuto in Cina, il cognome Ricci diventava «Li» mentre Matteo si trasformava in «Madou», e tutti, anteponendo il cognome al nome secondo l’uno cinese, chiamavano il gesuita «Li Madou», appellativo con cui egli è ancora oggi ricordato in Cina e in Giappone.4

Troppo spesso, poi, la posta andava persa nei frequenti naufragi, così i missio-nari, per aumentare le probabilità di far arrivare i loro scritti a destinazione, ne redigevano almeno due copie, affidando la prima alle caracche portoghesi che lasciavano Macao e facevano tappa in India, seguendo la «via dell’Ovest», e la seconda ai galeoni spagnoli con cui, partendo da Manila, si raggiungeva il Mes-sico per poi, attraversato via terra l’istmo di Tehuantepec, proseguire con altro naviglio verso l’Europa, seguendo la «via dell’Est».

4 m. fONTANA, M. Ricci. Un Gesuita alla corte dei Ming, Oscar Mondadori 2005, pp. 72-73.

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Mentre le lettere compivano il lungo viaggio, gli eventi e gli stati d’animo si modificavano e ogni immediatezza andava perduta. Nei casi più tristi, gli scritti raggiungevano persone ormai scomparse. «E molte volte ricordandomi quante lettere assai lunghe ho scritto ai morti di costà, mi toglie la forza e l’animo di scrivere» confessava Ricci a De Fabii il 12 novembre 1594, mentre lo pregava di continuare a rispondergli, nonostante la precarietà del mezzo di comunicazione, perché ricevere posta era «una grande consolazione».5

Un giorno ricevette, tra le altre, una lettera di Girolamo Costa che gli comuni-cava la notizia della morte di entrambi i genitori; pochi giorni dopo, il 13 ot-tobre 1596, Ricci cercò conforto scrivendo al fratello canonico Antonio Maria, di cui non aveva notizie da tempo. Il gesuita, che aveva appena compiuto 44 anni, pregava il fratello di dargli informazioni dettagliate su tutti gli altri membri della famiglia, e di sé diceva malinconicamente: «Le nuove di me son l’esser già vecchio, ben occupato in questa Cina, dove sono molti anni che sto e penso di finirvi la vita». La notizia della morte del padre era in realtà infondata, perché Giovanni Battista Ricci era sicuramente ancora in vita nel 1596, ma il gesuita lo avrebbe creduto morto a lungo e la rettifica dell’errore lo avrebbe raggiunto soltanto alcuni anni più tardi, quando il padre era ormai effettivamente deceduto. I ritardi nell’avere notizie dei cari lontani e l’incertezza che caratterizzava i viaggi per mare della corrispondenza erano uno dei crucci che affliggevano i missio-nari. Da alcuni anni, inoltre, ai consueti rischi di naufragio si era aggiunto il pericolo degli assalti dei corsari inglesi e soprattutto olandesi.6

Certamente vivere i distacchi comporta cambiamenti e trasformazioni nella persona, dopo la immediata e profonda sofferenza che il distacco com-porta.

C’è una certa differenza tra cambiamento e trasformazione: il cambia-mento comporta qualcosa di violento, mentre la trasformazione avviene molto più dolcemente. Se pensiamo di dover cambiare e modificare con-tinuamente noi stessi, rispecchiamo in fondo la convinzione che così come siamo non va bene, che dobbiamo fare di noi un’altra persona.7

A ogni cosa è permesso di esistere, ma tutto vuole essere trasformato. Trasfor-mare significa che l’autenticità irrompe nell’inautentico, che risplende l’immagine che Dio si è formato di ciascuno.

In particolare nella vecchiaia avvertiamo che non possiamo più cambiare molto, che non riusciremo a raggiungere certi ideali. Questa sarebbe la trasformazione del

5 Ibid., p. 106.6 Ibid., p. 148.7 Cfr. A. GrüN, Il coraggio di trasformarsi, Edizioni San Paolo 1995.

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sentiero spirituale per eccellenza. Allora ciascuno offre al Signore tutto quanto è in sé, anche ciò che è povero e storpio, debole e ferito, ciò che è rimasto sul ciglio della strada (cfr. Lc 14,23), affinché Dio possa trasformarlo. Giorno per giorno si offre a Dio la propria povera vita, confinando che egli la trasformi a poco a poco nella sua gloria. Ma solo quello che offriamo a Dio può essere trasformato: abbandono ogni preoccupazione nelle sue mani, dice padre Matteo Ricci nella prima citazione di questo capitolo.

Ogni essere umano è un essere in crescita; si evolve, cresce, cambia, su-pera dei traguardi, acquista un’identità e si apre agli altri… La vita si modi-fica in base all’ambiente e all’accoglienza o alla non accoglienza ricevuta. Si adatta. Il corpo si sviluppa, la vita scorre se trova l’amore; oppure si irrigi-disce, si contrae, quando si trova di fronte a qualche ostacolo; si protegge di fronte alla paura e alla sofferenza. I sistemi di difesa si organizzano, il corpo si costruisce e si modifica creando dei blocchi nei confronti della vita, op-pure la vita si spinge avanti con una sorta di violenza.8

Certamente:– Si cresce dentro una relazione di fiducia – intimità – gratuità.– Si cresce dentro la propria storia e nel tempo.– Si cresce passando dalla volontà di conversione all’accettazione della

propria povertà.– Si cresce anche per gli altri.

Alla luce delle leggi della crescita, ecco ora alcuni criteri per leggere e interpretare la crescita, per verificare se il cammino va verso una crescita vera di sé:

– lo sviluppo di una buona capacità di adattamento, che non è adeguarsi perché non si può far altro o per far vedere che non ci sono più problemi;

– lo sviluppo del principio di realtà: passando dal principio del piacere alla ricerca dei valori, che si esprime nella capacità di dare il senso adeguato alle cose e di scegliere di conseguenza, senza lasciarsi trasportare dall’emo-tività;

– lo sviluppo di una certa capacità di flessibilità, superando una certa im-pulsività, la rabbia e l’aggressività;

– lo sviluppo di un controllo positivo dei comportamenti e delle reazioni, senza passare da uno stato di animo ad un altro in modo improvviso;

– la capacità di uscire dalla passività e da atteggiamenti rinunciatari, come se la causa fosse sempre esterna, degli altri;

8 Cfr. J. VANIEr, ogni uomo è una storia sacra, Edizioni EDB 1995.

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– il non aver paura dei cambiamenti, non temere e non lasciarsi bloccare dalle conseguenze che queste potrebbero avere e accettare di rinunciare a qualcosa per cambiare, superando il sentire;

– la capacità di accogliersi e di accettare i fatti esterni (compreso il non arrivo delle lettere per padre Matteo Ricci, oggi diremmo delle mail…), ac-cettando anche di confrontarsi e migliorare nel rapporto interpersonale;

– il prendere sempre più consapevolezza di sé e il liberarsi dal passato, cioè liberarsi dalla fatica di voler cambiare il passato;

– imparare ad avere fiducia nelle proprie potenzialità, essere disposti anche a correre qualche rischio e ad acquisire una buona stima di sé che rende ca-pace di ricevere e dare amore, cura e responsabilità;

– “portare” i momenti di “malinconia”, tipici della crescita personale, come tappa di Croce nella propria vita e cammino, talvolta prolungato, verso la Resurrezione quotidiana o finale.

2. L’integrazione degli insuccessi: dalla Croce alla futura resurrezione

L’anno scorso lessi a Goa, contro il parere di tutti, una lezione di greco, perché il p. provinciale mi diede modo di fare ciò: in meno di tre mesi raccolsi circa una dozzina di persone in grado di capire una lezione e iniziai la prima filippica; ma una malattia mandò a monte la cosa, e così fallì anche il greco che non fu più attivato.Mi mandarono a Cochin dove lessi per quattro o cinque mesi, dopo fui ordinato e mandato un’altra volta a Goa per finire il corso di teologia: non saprei se per finire la grammatica o per finire la vita, giacché quella terra è molto travagliata.9

Modello di dialogo e di rispetto per le altrui credenze, padre Matteo Ricci fece dell’amicizia lo stile del suo apostolato durante i ventotto anni di permanenza in Cina.L’amicizia che egli offriva era ricambiata dalle popolazioni locali grazie proprio al clima di rispetto e di stima che egli cercava di coltivare, preoccupandosi di conoscere sempre meglio le tradizioni della Cina di quel tempo. Nonostante le difficoltà e le incomprensioni che incontrò, P. Ricci volle man-tenersi fedele, sino alla morte, a questo stile di evangelizzazione, attuando, si potrebbe dire, una metodologia scientifica e una strategia pastorale basate, da una parte, sul rispetto delle sane usanze del luogo, che i neofiti cinesi non do-vevano abbandonare quando abbracciavano la fede cristiana, e, dall’altra, sulla consapevolezza che la Rivelazione poteva ancor più valorizzarle e completarle.

9 m. rIccI, Lettera al P. Gian Pietro Maffei sj, Coimbra – Cochin, 30 novembre 1580, in m. rIccI, Lettere, cit., p. 25.

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E fu proprio a partire da queste convinzioni che egli, come già avevano fatto i Padri della Chiesa nell’incontro del Vangelo con la cultura greco-romana, im-postò il suo lungimirante lavoro di inculturazione del Cristianesimo in Cina, ricercando un’intesa costante con i dotti di quel Paese.10

In questi passi padre Matteo Ricci esprime anche alcuni suoi insuccessi, che rispecchiano la situazione dei molti insuccessi a cui spesso va incontro chi sceglie la vita consacrata.

Infatti chi percorre il cammino della vita consacrata deve passare attra-verso gli abissi della propria anima, attraverso l’oscurità e l’abbandono, la solitudine e l’angoscia.

I Padri della Chiesa paragonano la nostra vita alla navigazione: viaggiamo attraverso onde piccole e grandi. Capiteremo in mezzo a una tempesta. Ma non siamo da soli nella nostra barca. C’è Gesù che se ne sta a poppa e dorme. Dobbiamo solo svegliarlo. Quando egli si leva in mezzo a noi, domina la tempesta e dentro de noi e intorno a noi si fa grande bonaccia (Mc 4,35-41).

Per un certo tempo nell’età giovanile si è capaci di sopportare le proprie perdite e di viverle perfino con forza d’animo e con perseveranza perché si vivono come perdite che potrebbero portare più vicino a Dio.

Ma andando avanti con l’età si scopre che quello che ha sorretto per molti anni (preghiera, devozione, sacramenti, vita di Comunità, una chiara consapevolezza dell’amore di Dio che guida) ha allentato la sua presa. Idee a lungo serbate, discipline a lungo praticate e abitudini di celebrare la vita a lungo mantenute non riescono più a riscaldare il cuore, e la persona non comprende più il perché e come fosse così motivata.

Si ricorda il tempo in cui il Signore era così reale per la propria persona da non esservi alcun dubbio circa la sua presenza nella propria vita. Egli era l’amico più intimo, il consigliere, la guida. Egli dava conforto, coraggio, fiducia in lui e in se stessi. Si poteva sentirlo, gustarlo, toccarlo.

Ma nel tempo della malattia o della terza età invalidante? La persona non riesce a pensare più a Dio a lungo, non desidera più passare molte ore alla Sua presenza, non ha più quella speciale sensazione su di Lui.

Che cosa fare allora di fronte alle proprie perdite? Si nascondono? Si de-vono vivere come se non fossero reali? Si deve convincere se stessi e gli altri che le proprie perdite sono minime rispetto a quanto si è acquisito?

10 A. PAOLUccI – G. mOrELLO, Benedetto XVI, dal Vaticano 6 maggio 2009, al Venerato Fratello Claudio Giuliodori, Vescovo di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia, in Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci (1552-1610) fra Roma e Pechino, a cura di A. PAOLUccI – G. mOrELLO, Edizioni Umberto Allemandi, 2009.

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Solitamente si fa tutto questo, ma c’è un’altra possibilità, ed è la possibi-lità di piangere le proprie perdite.

Non si può dire o fingere che non ci siano, ma si possono versare la-crime su di loro e permettersi di affliggersi profondamente. Affliggersi si-gnifica permettere alle proprie perdite di lacerare i sentimenti di sicurezza e protezione, e di condurre alla dolorosa verità della propria prostrazione. È l’andare più consapevolmente verso il «Signore pietà». Il dolore fa così sperimentare l’abisso della propria vita in cui nulla c’è di sistemato, chiaro, ovvio e tutto è in costante movimento e cambiamento.

Attraverso il pianto per le proprie perdite la persona giunge a conoscere la vita come un dono.

E mentre si sente il dolore per le proprie perdite, il cuore afflitto apre il proprio occhio interiore ad un mondo in cui le perdite sono sofferte molto al di là del proprio piccolo mondo, della casa dove ci si trova, della Comunità in cui si è inseriti. È il mondo dei carcerati, dei rifugiati, dei malati senza spe-ranza, dei bambini che muoiono di fame, degli innumerevoli esseri umani che vivono in costante paura. Allora il dolore del proprio cuore affranto collega la persona al pianto e all’afflizione di un’umanità sofferente.

Allora il proprio pianto diventa dono e si riesce ad ascoltare la benedi-zione nascosta nella sofferenza: «Beati gli afflitti perché saranno consolati». Unitamente a questo c’è un’apparente perdita di fede, la perdita della con-vinzione che la propria vita abbia significato.

Non si tratta di problematiche solo della malattia o dell’età anziana inva-lidante, ma di periodi che tutti possono passare.

3. Le reazioni positive, che permettono il cadere e il rialzarsi

Molto Rev.do in Cristo Padre,Tra un mese, lascerò Macao via terra fino alla vicina metropoli marittima di Kanton, capoluogo della provincia di Kuangtung, dove si svolgerà la Fiera di Primavera, con europei mercanti tra i quali passerò inosservato.11

In ogni cultura occorre «assimilare l’essenza del Messaggio Evangelico, trasfonderlo senza la minima alterazione di tutta la sua verità fondamentale,

11 Macao, 13 febbraio 1583. P. Matteo Ricci scrive al Superiore Generale di Roma, infor-mandolo che i colonizzatori spagnoli delle Isole Filippine vorrebbero armare mercenari giap-ponesi contro la Cina, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, Alfabetica Edizioni, 2010, p. 115.

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nel linguaggio comprensibile a questi uomini e, quindi, annunziarlo in quel medesimo linguaggio».12

Questo necessario processo di inculturazione della fede cristiana passa attraverso la consumazione di una nuova mediazione culturale che si compie in due momenti strettamente complementari ed ambedue essenziali.

Il primo momento consiste nello sforzo da parte della Chiesa, attraverso gli evangelizzatori e i missionari, di rendere comprensibile e vivo il mes-saggio rivelato agli uomini di una data cultura, traducendolo efficacemente nelle forme e nel linguaggio di essa.

Senza questa mediazione culturale, la parola di Dio resterebbe umana-mente incomprensibile e lontana.

Tuttavia non basta lo sforzo degli evangelizzatori: affinché il processo possa ritenersi compiuto, occorre che la Parola di Dio, fedelmente e com-prensibilmente trasmessa, sia compresa ed accolta, si sviluppi, in un secondo momento, all’interno della cultura in cui essa è stata mediata, in modo da produrre la crescita ed il rinnovamento di quella stessa cultura, aprendola ad un umanesimo plenario ed alla trascendenza.

È importante chiarire subito che quest’opera di mediazione culturale o di inculturazione non va intesa come un accomodamento del Vangelo alle diverse esigenze di mentalità e di costume dell’una o dell’altra cultura, quasi che la possibilità di annunciare una verità dipenda dalla compatibilità o meno di esse con l’una o l’altra cultura; ciò porterebbe ad inaridire il Van-gelo, a sterilizzarne l’annuncio per limitarlo soltanto ad alcune sue parti più comprensibili ai soggetti appartenenti ad una determinata cultura.

Neppure si deve confondere l’inculturazione con il tentativo di mettere insieme più elementi tra loro eterogenei, alcuni presi dalla fede cristiana ed altri presi da differenti credenze religiose: ciò porterebbe ad un sincretismo che non ha nulla a che vedere con l’autentica evangelizzazione.

Né infine la mediazione culturale va pensata come la ricerca di una mi-nima verità comune, per potersi poi accontentare definitivamente di questa, rinunciando all’annuncio integrale di tutta la verità: si tratta invece corretta-mente di un processo aperto, che partendo da un minimo condiviso da tutti, faccia evolvere la conoscenza della verità verso la sua interezza totale.

Il vero senso della inculturazione, perciò, sta nel riconoscere che, ai fini della evangelizzazione, s’impone, da un lato, un confronto aperto e leale tra fede cristiana e culture, dall’altro l’impegno costante di esprimere ex novo la fede cristiana nelle diverse culture, una volta che siano state fecondate ed arricchite dal Vangelo. Sono i due aspetti che anche Giovanni Paolo II sottolinea nella enciclica Redemptor hominis:

12 PAOLO VI, Evangeli Nuntiandi. Esortazione apostolica, n. 63.

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Si esige – egli scrive – che noi ci accostiamo a tutte le culture, a tutte le conce-zioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Dobbiamo a loro avvi-cinarci con stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli, contrassegnava l’atteggiamento missionario. Con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che trovasi dentro ciascun uomo, stima per tutto ciò che egli stesso, nell’intimo dl suo animo, ha potuto elaborare riguardo ai problemi esistenziali più profondi e più importanti.13

In secondo luogo – facendo riferimento all’enciclica – non bisogna mai dimenticare che «la missione non è mai distruzione, piuttosto una riassun-zione di valori». Pertanto, occorre sapersi porre in atteggiamento di attenta e rispettosa riflessione, preoccupandosi di non soffocare mai alcun germo-glio bensì di sviluppare potenzialità sedimentatesi nel corso di tradizioni secolari.14

L’evangelizzazione va intesa come prudente, tempestiva, operosa semi-nagione, non invece come sradicamento di ciò che, essendo autenticamente umano, ha un valore positivo intrinseco.15

Prima di lui ben 25 volte i gesuiti avevano tentato di penetrare l’universo-Cina senza riuscire nella delicatissima impresa di costruire un ponte di cui ancora oggi resta viva la memoria.

Mons. Giuliodori parla con passione del grande missionario «uomo di straordinario ingegno, arguzia, apertura mentale e rispetto per l’altro, dotato di una personalità poliedrica, capace di tarare nel modo migliore i suoi in-terventi, di ritirarsi quando c’era bisogno di fare un passo indietro, di essere deciso quando bisognava superare le resistenze».16

Una delle caratteristiche della strategia missionaria di Matteo Ricci è la propaga-zione indiretta della fede usando la scienza e la tecnologia europea per attirare l’attenzione dei cinesi acculturati, convincendoli così dell’alto livello della civiltà occidentale. Ricci regalò un orologio europeo all’imperatore, introdusse dipinti che impres-sionavano i cinesi per l’uso della prospettiva, tradusse i trattati matematici di Euclide con le note del famoso matematico gesuita Cristoforo Clavio (1538-

13 GIOVANNI-PAOLO II, Enciclica Redemptor hominis, n. 12.14 Cfr. ZHANG yUE, ambasciatore in Italia della Repubblica Popolare Cinese, 23 aprile

1980, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 124-125.15 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 1979.16 m. fAGIOLO D’ATTILIA, Il Gesuita che conquistò il Regno del Drago, nella rivista «Popoli

e Missione», marzo 2010, p. 17.

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1612) e fece stampare una grande mappa del globo che integrava i risultati delle ultime esplorazioni nel mondo. Attraverso tale attività, Ricci strinse relazioni amichevoli, che a volte sfociarono nella conversione di alcuni membri dell’élite: ad esempio, Xu Guangqi (1562-1633), battezzato come Paolo nel 1603, e Li Zhizao (1565-1630), battezzato come Leo nel 1610, erano i più famosi al tempo di Ricci.17

La mediazione culturale, la seminagione, il desiderio di costruire ponti, la stima verso ogni persona e oggetto (orologi, mappe, ecc.): tutto questo fa pensare alla linea pedagogica, posseduta sicuramente da padre Matteo Ricci, dell’avere e del coltivare uno sguardo positivo su di sé e sugli altri.

Noi siamo innanzi tutto il nostro positivo. Questo è un principio basilare per una buona salute interna. Occorre credere in se stessi, nel valore che si è, nelle presenze buone che sono in ciascuno di noi e smettere di condannarsi e sentirsi condannati.

Le aree positive della nostra personalità sono il luogo del nostro esistere più interessante e gioioso. Una giusta autostima o autoconsiderazione è la colonna vertebrale di ogni persona. Conoscere il positivo che si è e si ha porta a scuotersi, tentare, prefiggersi obiettivi…

La vita interiore non è un crescendo costante e lineare, ma un processo costellato di alti e bassi, un cammino nel quale si fanno passi avanti e passi indietro, si vive oggi lo slancio dell’amore e domani la sua stanchezza. E noi confiniamo col male e col nulla, li costeggiamo, costantemente sospesi, in un precario equilibrio tra le voci del bene e quelle del male.18

La fiducia in se stessi e nelle proprie capacità (stima di sé per quello che si è e non per quello che si fa) si acquisisce attraverso una valorizzazione delle proprie potenzialità, di cui è necessario prendere consapevolezza per liberarle. Questo cammino sembra essere stato percorso da padre Matteo Ricci, il quale valorizzò le sue doti umane di astronomo, matematico, ecc., e specialmente la sua capacità di reagire alle difficoltà.

Se in ogni persona sono presenti lati più oscuri o immaturi, è anche vero che allo stesso modo sono presenti punti forti del carattere e della persona-lità che rendono la persona reattiva, capace di realizzarsi e di realizzare, di andare incontro agli altri e di donarsi. Creatività, generosità, duttilità, virtù umane e doni spirituali possono dispiegarsi nella graduale acquisizione o riappropriazione della consapevolezza di essere degni di fiducia, di essere oggetto di amore, di essere positivi, perché la positività non si identifica col

17 Articolo di P. N. sTANDAErT sj, Matteo Ricci e la cultura cinese, nella rivista «La Civiltà Cattolica», 20 febbraio 2010, p. 322.

18 Cfr. G. cOLOmBErO, Cammino di guarigione interiore, Edizioni Paoline.

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non essere fragili, avere una storia perfetta e non avere alcuna dipendenza affettiva.

È dalla capacità di percepirsi con realismo, con sana autostima, che è pos-sibile fare il passaggio verso l’altro. Da un amore egocentrico ad un amore oblativo. Da una focalizzazione difensiva su se stessi, per salvare la propria immagine ad una accettazione di sé libera e serena che fa sì che i lati nascosti del carattere e della personalità possano esprimersi.

Il pensiero positivo non è, come un’interpretazione semplicistica potrebbe suggerire, un invito all’ottimismo forzato ignorando i dolori e le frustrazioni che ognuno ha incontrato nella propria esperienza. Il pensiero positivo è il pensiero posto in essere. È riconoscere il potere di scelta che ciascuno ha a disposizione ogni volta che interpreta la propria realtà. I pensieri che si sceglie di concepire danno origine alle esperienze che si vivono. Se, per esempio, si pensa di non essere capaci di fare qualcosa, quest’idea diventa vera soggettivamente e le proprie azioni tenderanno a confermare questa convinzione. Pensare positivo significa accettare l’idea che ogni problema, incidente o malattia non siano avvenimenti casuali. Essi racchiudono in sé un messaggio per la propria evoluzione. Una volta colto il senso, non si ha più bisogno di ripetere quell’esperienza.

La maggior parte di persone crede di poter essere felice nel momento in cui si verificheranno determinate condizioni nella propria vita: una nuova scoperta vocazionale, un servizio migliore… e se invece fossero la felicità e la gioia di essere vivi a creare il terreno ideale per far nascere relazioni costruttive, amicizie sincere, nuove scoperte vocazionali, e quant’altro si desidera?

4. Tra le reazioni positive, la riflessione e lo studio come servizio alla propria e altrui ragione, verso l’inculturazione

Lo studio, l’approfondimento e la riflessione furono doti molto svilup-pate da padre Matteo Ricci, e su questo percorso possiamo seguirlo.

Leggere, ha a che fare anche con il silenzio e l’ascolto, perché leggendo un libro, ognuno si crea un suo mondo, ognuno s’immagina le facce dei perso-naggi, gli ambienti, in un modo diverso; con la fantasia ognuna crea in qualche modo un suo romanzo. Spesso mi capita d’incontrare lettori che inseriscono personaggi o scene che in realtà nei miei libri non ci sono. C’è proprio una mescolanza unica d’inconscio, memoria e ricordi. Il silenzio è fondamentale per l’essere umano. Credo che nella voluta assenza di silenzio nel mondo contemporaneo ci sia anche un progetto perverso: senza silenzio non c’è ascolto; senza ascolto non si può ca-

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pire dove andare. Direi di prendere ogni giorno un momento per sé di silenzio e di ascolto. Lo dovremo proporre ai nostri ragazzi nelle scuole.19

Padre mio,Vi farà piacere ora se Vi dico che i miei Superiori romani hanno deciso che il mio parlare ed il mio scrivere in lingua italiana merita di essere perfezionato, per cui mi hanno mandato per un anno nel nostro Liceo della Firenze di Dante…Dall’anno prossimo per un quadriennio al Collegio romano dovrò intensamente seguire le lezioni della Retorica e della Filosofia nonché successivamente della Sacra Eloquenza, vere e proprie arti oratorie che richiedono una solida prepara-zione in lingua e letteratura italiana, ed anche latina ma pure greca, se ne siamo capaci cultori.Intanto il Professor Martino De’ Fornari ci fa leggere in italiano anche il trattato “Retorica” di Aristotele, nella traduzione dell’umanista nostro conterraneo civi-tanovese Annibal Caro, pubblicata postuma da tre anni a Venezia.Lo studio poi delle materie scientifiche, cioè geografia, cartografia, cosmologia, matematica, e geometria, già mi fanno sentire un novello Archimede o un Eu-clide.20

Nella Capitale, mi piange il cuore per averci lasciato i grandi miei docenti Ma-selli, De Fabi ed in specie il caro matematico padre Clavius, che mi ha voluto donare un astrolabio portatile che di giorno in viaggio sugli Oceani, man mano che ci avvicineremo nell’emisfero boreale e poi ci allontaneremo nell’emisfero australe rispetto all’equatore, utilizzerò secondo le istruzioni del Prof. Clavius, per calcolare le variazioni nella linea dell’orizzonte, con ciò confermandosi spe-rimentalmente la sfericità del globo terracqueo.Padre Clavius mi ha fatto portare meco anche il sestante o sfera armillare, con cui m’ha detto di puntare, nelle notti di sereno lunare, la stella del polo boreale individuabile con la cala mitica bussola vetero-caldea, dipoi collocando ideal-mente sulle sfere rispetto alla stella, tutte le dodici costellazioni zodiacali delle sfera celeste.21

19 Intervista rilasciata da Susanna Tamaro a Stefano Readaelli, pubblicata sul quindici-nale «Città Nuova» n. 9 anno 2006, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 51.

20 Ottobre 1572. Il ventenne Matteo Ricci viene trasferito per un solo anno a Firenze ove perfeziona sintassi e pronunzia di lingua italiana, prima di studiare logica, filosofia, retorica, matematica, astronomia, cartografia e scienze naturali. Rientra nel Collegio Romano ad ot-tobre 1573 e vi rimane fino al maggio 1577. Lettera di Matteo Ricci ai genitori, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 85.

21 Autunno 1577. Matteo Ricci, Francesco Pasio e Michele Ruggeri sopraggiunto dall’Italia, rimandano l’imbarco alla primavera e nell’Università di Coimbra studiano lingua portuguesa. Pasio e Ruggeri studiano anche Teologia, perciò a marzo del 1578 sono con-

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L’altra questione che reputo dovervi segnalare, è che il ns. Padre Provinciale di qui in India, nei Corsi di Studio della Filosofia e della Teologia, non ammette alla frequenza nessuno studente nativo dell’India che vorrebbe farsi sacerdote, per cui nel presente abbiamo seminaristi autoctoni ignoranti, che in futuro re-steranno impreparati, a meno che non avvengano improbabili miracoli, ma sarà bene non sperare tutto dalla Provvidenza. Io temo che i nativi, bistrattati dagli europei colonizzatori, se malauguratamente dovessero percepire come loro avversari anche noi sacerdoti, dato che non con-sentiamo loro neppure di istruirsi, finiranno per odiare indistintamente tutti noi occidentali, e così avremo pregiudicato la loro disponibilità alla conversione prima, ed alla perseveranza poi, nella nostra santa fede.22

Vero umanista, dotato di cultura filosofica, teologica ed artistica e, al tempo stesso, provvisto di un notevole corredo di cognizioni matematiche, astrono-miche, geografiche e di applicazioni tecniche tra le più avanzate dell’epoca, P. Ricci riuscì ad acquisire, attraverso un lungo impegno di studio tenace, umile e rispettoso, la cultura classica cinese in un modo così vasto e profondo da fare di lui un vero e proprio “ponte” fra le due civiltà europea e cinese.23

Apprese la lingua cinese, non solo per poterla parlare, ma soprattutto per poter ascoltare l’universo cinese. Questo è forse l’aspetto più originale e innovativo; si pose in ascolto di una cultura millenaria, acquisendo tutti gli strumenti per poterlo fare. Dopo essere entrato in Cina come religioso occi-dentale, si rese conto che occorreva passare dall’essere rispettato per ciò che era, al rispettare, all’accogliere la cultura e il popolo presso cui si trovava.

Egli non voleva solo farsi ascoltare, ma farsi accogliere. Capacità di adat-tamento e attenzione per la cultura e per le persone costituiscono la base della sua azione.

Si lasciò istruire dalla cultura cinese entrandovi in profondità, compren-dendo che il confucianesimo era la via più feconda, il suolo più propizio, per far germogliare i semi del Vangelo, entrando in relazione con il popolo

sacrati Sacerdoti prima dell’imbarco per le Indie Orientali. Lettera di Matteo Ricci ai genitori, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 93.

22 25 novembre 1581. Il novello Sacerdote Padre Matteo Ricci, da Goa, scrive al Supe-riore Generale dei Gesuiti consigliandogli: 1) che le Missioni ed i Collegi di Goa e Cochin colonie portoghesi ora sotto la corona della Spagna, non siano dirette sempre e solo da Con-fratelli Iberici convertiti dall’ebraismo, onde evitare collusioni, 2) che agli studi superiori di filosofia e teologia nei Collegi di Goa e Cochin vengano ammessi anche Seminaristi nativi della stessa India, onde avere una Gerarchia Ecclesiastica ben istruita e autoctona, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 106.

23 Giovanni Paolo II nel 2° Convegno Internazionale Ricuciano, PUG 1982, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 138.

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cinese perché, da questa relazione amicale, potesse germogliare il seme dell’annuncio.

Scrisse p. Pedro Arrupe,24 Superiore generale della Compagnia, nel 1978:

inculturazione significa incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una concreta area culturale, in modo tale che questa esperienza non solo riesca a esprimersi con gli elementi propri della cultura in questione (il che sarebbe sol-tanto un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo e unificante, che trasforma e ricrea quella cultura dando origine a una “nuova creazione”.

Per lasciarci trasformare dall’inculturazione non bastano le idee e gli studi. È necessario lo shock di un’esperienza personale profonda. Per coloro che sono chiamati a vivere in un’altra cultura, sarà il fatto di integrarsi in un Paese nuovo, in una nuova lingua, in una nuova vita. Per coloro che re-stano nel proprio Paese, si tratterà di sperimentare i nuovi modi del mondo con-temporaneo che cambia: non la pura conoscenza teorica delle nuove mentalità, ma l’assimilazione esperienziale del modo di vivere dei gruppi coi quali si deve lavorare, che possono essere gli emarginati, gli zingari, gli abitanti delle periferie, gli intellettuali, gli studenti, gli artisti, ecc.25

Il piano delle scienze umane e delle scienze della natura ha costituito il luogo di incontro con la cultura cinese e il luogo di annuncio. Ma questo non avvenne mai in modo funzionale o tattico, seducendo un popolo per annunziare il Vangelo. Il mondo era, ed è, il luogo della presenza di Dio. Le scienze umane, le scienze della natura e la tecnica sono vie attraverso le quali è possibile comprendere l’azione di Dio nel mondo e nella storia. Lo studio delle arti e delle scienze è già teologia, perché è contemplazione e presa di consapevolezza della presenza di Dio.

Ciò, del resto, è la caratteristica dello stile missionario dei gesuiti: aiutare gli uomini a cercare e trovare Dio in tutte le cose. Ricci fece arrivare il messaggio cristiano al cuore della cultura cinese, mostrando l’universalità di tale messaggio: esso non è prerogativa di nessuna cultura, tanto meno di quella occidentale. «[La Chiesa],26 inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo, non

24 P. ArrUPE, Lettera sull’inculturazione, 14 maggio 1978, in Inculturazione, problemi, orien-tamenti, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1979.

25 Articolo di P. A. NIcOLás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, nella rivista «Aggiornamenti Sociali», marzo 2010, pp. 172-173.

26 cONcILIO VATIcANO II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, 1965, n. 58.

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è legata in modo esclusivo e indissolubile a nessuna razza o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente».27

Ogni persona ha le proprie capacità intellettuali, talvolta solo sul versante pratico, talvolta sul versante razionale.

Le capacità intellettuali sono indispensabili alla persona per realizzare il proprio lavoro. Le gambe ci portano verso una certa direzione, ma verso dove lo dobbiamo stabilire noi. Abbandonata a se stessa, la mente reagisce con una iperattività confusa, senza obiettivi e quindi senza risultati; ciò signi-fica un enorme spreco di energie, con risultati inadeguati.

Per concentrazione si intende la capacità di realizzare con tutti i mezzi nella propria intelligenza un determinato lavoro, in un periodo di tempo anche determinato. È utile essere concentrati: chi ha un buon rendimento impiega la mente in modo specifico, e può osservare tutti gli aspetti perti-nenti ad un determinato tema. Il pensiero è “ampio” quando considera tutto ciò che può essere inerente al caso: esigenze/effetti del passato, presente, fu-turo. Così, la persona concentrata può usare il pensiero “ampio”, prendere in considerazione il maggior numero di aspetti: fa bene le mille cose di tutti i giorni. La persona distratta, invece, corre il rischio di un incidente, dimen-tica di chiudere le porte o spegnere il gas.

La capacità di concentrazione determina il proprio rendimento. Perché può succedere questo? Perché, specialmente durante le difficoltà, ci sono in atto processi di pensiero paralleli, che assorbono con prepotenza parte del potenziale. Questo si dà soprattutto nella persona nevrotica, carica di problematiche; nel depresso si realizza una iperattività inconscia (anche se apparentemente sembra essere “tranquillo” e “fermo”), tale che non è in condizioni di pensare al presente.

Chi ha problemi non riesce a non pensare ad essi mentre lavora. Ciò può essere possibile grazie ad un grande sforzo e per poco tempo, giacché la ca-pacità di concentrazione può essere imparata e quindi forzata.

Ma finito lo sforzo diretto, realizzato il lavoro, l’inconscio fino adesso si-lenziato esplode energicamente. L’auto-osservazione ci può indicare quale problematica ha interrotto e quante volte ha pure interrotto il processo di pensiero regolare e concentrato. Possiamo ottenere un’indicazione precisa ed intervenire direttamente sul contenuto di quella problematica. Questo è il cammino per tornare ad ottenere la capacità di concentrazione per-duta.

Siamo anche coscienti che il livello e la capacità di concentrazione va-riano pure in rapporto a fattori fisiologici, come lo stato di fatica, l’equilibrio

27 Articolo di P. A. NIcOLás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, cit., p. 175.

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ormonale, l’efficienza del sistema nervoso centrale; e a fattori psicologici re-lazionati con gli interessi culturali personali, l’equilibrio emozionale, la si-tuazione attuale in cui si trova inserita la persona, ecc. In sintesi: il grado di concentrazione è quel segno che ci indica il volume di problematiche non ancora risolte.

5. Nella luce e nel buio: accettare il mistero del Signore del cielo

Molte furono nella vita di padre Matteo Ricci le alternanze tra luci e ombre.

Il letterato occidentale dice: Le persone non sono in grado di comprendere com-pletamente la natura anche del più piccolo insetto al mondo, come la formica. Tanto meno semplice, quindi, deve essere comprendere completamente il Si-gnore del Cielo, supremamente grande e degno di lode. Se fosse semplice per l’uomo comprenderlo non sarebbe il Signore del Cielo.Tanto tempo fa, c’era un re che voleva comprendere la verità riguardo al Signore del Cielo e a tal fine interrogò il suo saggio ministro. Questi disse: «Mi conceda tre giorni per meditare sulla sua domanda». Allo scadere del terzo giorno il re pose di nuovo la domanda, e il ministro replicò: «Mi deve concedere altri sei giorni», il ministro ne chiese altri dodici. Il re si adirò e disse: «Ti stai pren-dendo gioco di me?», il ministro rispose: «Come potrebbe il suo ministro osare prendersi gioco di lei; è semplicemente che la verità sul Signore del Cielo è ine-saustibile, e dopo ogni giorno in cui mi sono dedicato totalmente a profonde considerazioni su di Lui, la verità su di Lui è apparsa ancora più sottile. È come fissare il sole: più si guarda, più confusa diviene la visione. È per questa ragione che trovo difficoltà a darle una risposta».28

La cultura, ovvero la scienze, le lettere, le arti, come la musica sono un locus theo-logicus. Ciò significa che il mondo era, ed è, il luogo della presenza di Dio. Le scienze umane, le scienze della natura e la tecnica sono le vie attraverso le quali è possibile comprendere l’azione di Dio nel mondo e nella storia. Lo studio delle arti e delle scienze è già teologia, perché è contemplazione e presa di consapevo-lezza della presenza di Dio.29

28 m. rIccI, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, nn. 52-53, Urbaniana University Press 2006, p. 90.

29 Articolo di V. PrIscIANDArO, Matteo Ricci 400 anni dopo, nella rivista «Jesus», marzo 2010, p. 56.

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I credenti cinesi cristiani, leggendo il Vangelo con i “loro” occhi, comunicano a noi quello che con i “nostri” non potremmo intuire.30

La ricerca continua del Signore del Cielo sembra essere stata una co-stante nella vita di padre Matteo Ricci. Il tutto, nella fragilità delle situazioni esterne. Proprio la fragilità è oggetto di parte della riflessione che il Con-vegno Ecclesiale di Verona ha offerto a tutta la Chiesa italiana.31

Un terzo ambito della testimonianza è costituito dalle forme e dalle con-dizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. La società tecnologica non la elimina; talvolta la mette ancor più alla prova, soprattutto tende a emarginarla o al più a risolverla come un problema cui applicare una tecnica appropriata. In tal modo viene nascosta la profondità di significato della de-bolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza sia il valore e la dignità. La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al cammino della vita.

Solo una cultura che sa dar conto ti tutti gli aspetti dell’esistenza è una cultura davvero a misura d’uomo. Insegnando e praticando l’accoglienza del nascituro e del bambino, la cura del malato, il soccorso al povero, l’ospita-lità dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, la visita al carcerato, l’assistenza all’incurabile, la protezione dell’anziano, la Chiesa è davvero «maestra d’umanità».

Ma l’accoglienza della fragilità non riguarda solo le situazioni estreme. Occorre far crescere uno stile di vita verso il proprio essere creatura e nei rapporti con ogni creatura: la propria esistenza è fragile e in ogni relazione umana si viene in contatto con altra fragilità, così come ogni ambiente umano o naturale è frutto di un fragile equilibrio.

Ogni difficoltà – nella vita consacrata, nell’evangelizzazione, nella Comu-nità, ecc. – è fondamentalmente un momento, più o meno prolungato nel tempo, di ricerca del Volto di Dio, e questa è la vera conversione del cuore. Continuare a ricercare il Volto di Dio è uno degli scopi essenziali nella vita della persona consacrata, e il S. Padre Benedetto XVI sottolinea proprio tale ricerca.

30 Ibid., p. 59.31 Cfr. n. 15C del Documento Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Traccia

di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16-20 ottobre 2006, CEI, Edizioni Paoline.

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Cercare Cristo deve essere l’incessante anelito dei credenti, dei giovani e degli adulti, dei fedeli e dei loro pastori. Va incoraggiata questa ricerca, va sostenuta e guidata. La fede non è semplicemente l’adesione ad un complesso in sé completo di dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio presente nell’animo umano. Al contrario, essa proietta l’uomo, in cammino nel tempo, verso un Dio sempre nuovo nella sua infinitezza. Il cristiano è perciò contemporaneamente uno che cerca e uno che trova. È pro-prio questo che rende la Chiesa giovane, aperta al futuro, ricca di speranza per l’intera umanità. Sant’Agostino, del quale oggi facciamo memoria, ha stupende riflessioni sull’invito del Salmo 104 «Quaerite faciem eius semper – Cercate sempre il suo volto». Egli fa notare che quell’invito non vale soltanto per questa vita; vale anche per l’eternità.

La scoperta del «volto di Dio» non si esaurisce mai. Più entriamo nello splendore dell’amore divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così che «amore crescente inquisitio crescat inventi – nella misura in cui cresce l’amore, cresce la ricerca di Colui che è stato trovato» (Enarr. in Ps. 104,3: CCL 40, 1537). È questa l’esperienza a cui anche noi aspiriamo dal pro-fondo del cuore. Ce l’ottenga l’intercessione del grande Vescovo d’Ippona; ce l’ottenga il materno aiuto di Maria, Stella dell’Evangelizzazione.32

Uno dei cammini spirituali senz’altro più laboriosi è quello della notte oscura e deserto con dubbi esistenziali e di fede, con assenza e lontananza (percepita) di Dio, con aridità umana e spirituale, con ”disperazione”. Tutto questo ha lo scopo di fare convertire la persona, conducendola:

a) all’essenziale;b) ad iniziare la semplificazione della vita che porta alla morte;c) ad entrare nella dinamica morte/resurrezione;d) a sperimentare l’essere creatura che vive solo nella relazione col Pa-

dre.33

Si riporta, a questo proposito, un passo del Card. Hume, monaco bene-dettino, quale sua testimonianza aperta.

La mia vita spirituale è un vagare al buio, nell’oscurità più che un riposare e un rilassarmi nel paese delle meraviglie.

32 BENEDETTO XVI, Angelus del 28 agosto 2005. 33 Cfr. EDITH sTEIN, Scientia Crucis, Edizioni OCD, Roma.

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Molto spesso persone che vivono una buona vita, mettendocela tutta per pregare bene e servire Dio, possono attraversare e di fatto attraversano periodi molto bui. Si sentono perduti. La nebbia attorno a loro sembra diventare sempre più spessa. Non riescono a vedere più nulla chiaramente. Sono in uno stato di agi-tazione o completamente vuoti. Non hanno più pace interiore. Hanno bisogno che qualcuno venga a dare loro una mano. La luce si è spenta nella loro mente. Non sentono più nessun calore nel loro cuore. Forse passano velocemente da un libro spirituale ad un altro senza trovare la soluzione, oppure sono alla ricerca di un direttore spirituale, ma invano.Ma si può reagire anche in altro modo: una pecora che si è allontanata dal resto del gregge finisce impigliata nei rovi. E più lotta per liberarsi, più rimane prigio-niera. Durante questa lotta un gran nebbione cala nella zona e nasconde agli occhi della pecora il terreno circostante. È sola, persa e infelice. Ha esaurito le sue forze tentando di liberarsi. Poi, in mezzo alla nebbia, sente la voce del pastore. Non lo vede, ma sa che sta venendo a cercarla. Il pastore si avvicina, districa la pecora dai rovi e così la libera. In verità c’è di più: il pastore riporta sulle sue spalle la pecora là dove non c’è né nebbia né freddo, ma solo luce e calore.Molti di noi, convinti di fare del proprio meglio per pregare e rispondere alla vo-lontà di Dio, vengono a trovarsi nelle situazioni del genere. Succedono, io credo, affinché riconosciamo di avere bisogno dell’aiuto di qualcuno. Dobbiamo imparare la pazienza. Dobbiamo aspettare. Forse dobbiamo atten-dere molto tempo impigliati nei nostri problemi, incapaci di vedere dove dob-biamo andare.Quando Nostro Signore si definì Buon Pastore e poi ci raccontò la storia della pecora smarrita, abbiamo imparato qualcosa che non è solo molto utile, ma anche profondamente importante.Spesso mi sento come questa pecora smarrita in mezzo alla nebbia, ma sono contento di restarvi aspettando che il Buon Pastore venga a trovarmi. Egli è contento che io sia paziente e confidi nella sua venuta. Potrei leggere molti libri cercando una via di uscita ai miei problemi, potrei cercare sagge ed esperte guide spirituali e non trovare soluzioni. È anche vero che Dio potrebbe parlarci attraverso un libro o una persona. Ma talvolta Dio ci fa aspettare, soli e confusi. È un processo purificatore che ci porta ad abbandonarci nelle mani di Dio. «Nelle Tue mani Signore, raccomando il mio spirito». Queste parole sono come dei suoni amici quando siamo disperatamente tristi. «Signore, ti supplico, con-tinua a cercarmi! Ho bisogno che Tu mi trovi».34

34 Card. B. HUmE, Un Cardinale che cammina al buio, Cittadella Editrice, p. 98.

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Questo concetto viene ampiamente espresso dal S. Padre Benedetto XVI:35

(39) Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all’ap-parente insuccesso, ed in quella dell’umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche nell’oscurità. La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine l’Apocalisse mostra in modo radioso. La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rive-latosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo.

6. Il rapporto con il limite, personale e culturale

Certamente padre Matteo Ricci ha colto tanti limiti nella sua quotidianità e nella società in cui era immerso.

Stare con il limite richiama il proprio essere creatura e specialmente fa ancora più aggrappare alla forza positiva del Creatore.

Comunque, qui a Goa, cambiato il monarca non cambiano certo i pro-blemi e gli scandali, dato che i colonizzatori portoghesi possono pur ap-pellare pomposamente Goa la loro “Roma d’Oriente”, ma reputo che più si addicerebbe denominarla la “Sodoma e Gomorra” di tutto l’emisfero di Levante.

Absit injuria verbis, ma con quali altri vocaboli potrebbe definirsi una metropoli civilizzata, nella quale assistiamo notte giorno a nefandezze in-degne di esseri umani che solo si comportino secondo natura!?! A tal propo-sito, sto leggendo in questi giorni le lettere del n. pioniere Francesco Xaver, perciò mi limito a trascriverVi quei suoi convincimenti datati trant’anni or sono, che comunque nel corso degli anni si sono evidentemente modificati in peggio. Vi leggo:

35 BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, Libreria Editrice Vaticana, 2005, n. 39.

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I colonizzatori europei viventi qui a Goa non si fanno scrupoli nell’ac-quistare al mercato in piazza degli schiavi giovanissimi: ragazzi e ragazze in pubertà che poi si allevano in casa costringendoli a nefandezze abominevoli, e se quei poveretti non si assoggettano ai loro capricci sessuali, li minacciano di mutilarli e denunciarli falsamente al tribunale dell’inquisitore Bartolomeo de Fonseca, del quale alcuni testimoni ancora viventi, mi dicono che, a con-suntivo del secondo anno 1573 di sua presenza qui a Goa, gongolasse per aver fatto scavare fosse cimiteriali che poi avrebbe riempito gettandovi le ossa di apostati ed eretici prima torturati e poi arsi vivi. 36

E poiché è carattere comune della natura umana preferire nella stima e nell’amore le proprie usanze, e in modo particolare le proprie tradizioni nazionali, a quelle altrui, non c’è nulla che generi maggiormente l’odio o il risentimento che il far mutare le consuetudini patrie, soprattutto quelle a cui si è abituati da tempo immemorabile, e particolarmente se al loro posto uno voglia sostituire, importandole, le tradizioni del suo Paese. Non fate dunque mai paragoni tra gli usi locali e gli usi europei; cercate piuttosto con tutto il vostro impegno di abituarvi ad essi.

Ammirate e lodate tutto ciò che merita lode; se qualcosa non lo merita, non dovrete certo esaltarla clamorosamente come fanno gli adulatori, ma avrete la prudenza di non giudicarla o almeno di non condannarla sconside-ratamente e senza motivo.

Quanto ai costumi che sono manifestamente cattivi, sarà bene rimuoverli con l’atteggiamento e col silenzio più che con le parole, cogliendo beninteso l’occasione di sradicarli pian piano e quasi insensibilmente, una volta che gli animi siano disposti ad abbracciare la verità.37

Sento profondo rammarico per questi errori e limiti del passato, e mi dispiace che essi abbiano ingenerato in non pochi l’impressione di una mancanza di ri-spetto e di stima della Chiesa cattolica per il popolo cinese, inducendoli a pen-sare che essa fosse mossa da sentimenti di ostilità nei confronti della Cina. Per

36 25 luglio 1580. Matteo Ricci, nel Collegio di Cochin a sud di Goa, guarisce dalla ma-laria e viene consacrato Sacerdote dall’Arcivescovo portoghese; studia molto la teologia dog-matica e sacramentaria, insegna pure latino e greco ai collegiali figli dei colonizzatori europei. Lettera di Matteo Ricci al Gesuita suo ex professore Giampietro Maffei, pubblicista e docente all’Università di Coimbra, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 101-102.

37 Articolo di P. A. NIcOLás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, cfr. Istru-zione per i Vicari Apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina (1659), da M. mAr-cOccHI, Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. L’istruzione di Propaganda Fide ai Vicari Apostolici dell’Asia orientale (1659), Jaca Book, Milano 1981, nella rivista «Aggiorna-menti Sociali», marzo 2010, p. 174.

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tutto questo chiedo perdono e comprensione a quanti si siano sentiti, in qualche modo, feriti da tali forme di azione dei cristiani.38

I percorsi indicati da padre Matteo Ricci sembrano aiutare a sviluppare in sé la capacità di guardare se stessi e l’altro con sguardo buono e special-mente con sguardo di perdono.

La capacità di avere uno sguardo buono porta a una pedagogia del posi-tivo, come continua ricerca di un pensiero costruttivo, nell’azione, nei rap-porti di gruppo, interpersonali e sociali.

Anselm Grun, Monaco Benedettino, che nei suoi libri tenta una valida sintesi tra l’approccio spirituale e quello umano, parla di “ferite” che ci pro-curiamo nel cammino in mezzo agli altri. La vita ci procurerà sempre delle ferite, che lo vogliamo o no. La sofferenza è parte essenziale della nostra vita.

Il problema è quale rapporto abbiamo con la sofferenza che ci colpisce dall’esterno, se la rendiamo più acuta facendoci del male o se invece fa-sciamo accuratamente le ferite che la vita ci apporta e siamo pronti a guarire quelle degli altri.

La tesi di san Giovanni Crisostomo è che nessuno ci può ferire profon-damente se non ci facciamo del male da soli. Non dice che la vita non ci ferisce. Dice piuttosto che le ferite non possono recarci danno, se noi non ci facciamo del male da soli. Tutto dipende dal rapporto che noi abbiamo con le ferite che riceviamo.

Se ci facciamo delle opinioni sbagliate sulle ferite, ci facciamo del male da soli. Queste idee che ci danneggiano possono essere per esempio: «Le ferite non dovrebbero proprio esistere». «E se proprio veniamo feriti, queste do-vrebbero guarire al più presto così che noi non le avvertiamo più». «Le ferite mi sono di ostacolo nella vita». «Fin tanto che sono ferito, posso occuparmi solo di me stesso».

Giovanni Crisostomo non vuole minimizzare la sofferenza che può col-pirci nella vita. Egli vuole soltanto invitarci ad avere un rapporto costruttivo con la sofferenza, a trasformare le nostre ferite in fonti di speranza.

Noi abbiamo un rapporto creativo con le nostre ferite quando ci ricon-ciliamo con esse, quando mettiamo in conto che ci accompagneranno per tutta la vita. Se accettiamo le nostre ferite, esse non ci paralizzeranno più. Non ci lamenteremo di essere feriti né di vedere l’altro ferito. Piuttosto la ferita non ci impedirà di alzarci se qualcuno ci chiama, se qualcuno ha bi-

38 Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la 75a Giornata Missionaria Mondiale: Misericordias Domini in aeternum cantabo, 24 ottobre 2001 (Sal 89 [88], «Con intima gioia abbiamo celebrato il Grande Giubileo della salvezza, tempo di grazia per tutta la Chiesa», in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.

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sogno del nostro aiuto. La ferita ci renderà più sensibili verso le persone che ci stanno attorno.

Se noi trattiamo le nostre ferite con sollecitudine e cautela, saremo anche capaci di fasciare e guarire le ferite del nostro prossimo. Non piangeremo uno sulla spalla dell’altro per quanto è brutta la vita.

Il Card. Martini ci dice:

Ho l’impressione che talora noi ci priviamo della forza che ci deriva dall’en-trare nelle sofferenze di Cristo proprio perché di fronte ad esse tratteniamo il fiato, chiudiamo gli occhi, andiamo avanti lo stesso, senza guardarle in faccia in particolare nella preghiera, nel colloquio con Cristo. Così facendo non le inte-riorizziamo, e le prove, come le ferite, rimangono corpi estranei, non vengono integrate nel nostro cammino e non possono perciò essere trasformate in con-solazione.39

Ecco quindi come la gradualità porti ciascuno ad accettare le proprie tribolazioni e le proprie spine, andando verso modalità proprie di superare le sofferenze.

Da persone ferite saremo invece capaci di alzarci se c’è bisogno di noi. Ci alzeremo per la vita e per gli altri. Saremo nel nostro cuore medici e curatori d’anime, pure feriti, e smetteremo di farci del male e troveremo nella fede una strada per rendere feconde le nostre ferite. Continueremo a portarle con noi, ma come un tesoro prezioso che ci pone in contatto con il nostro vero essere, con la nostra natura divina.40

7. Pedagogia del controllo degli impulsi, verso una testimonianza credibile

Forse inconsapevolmente, padre Matteo Ricci ha molto sviluppato, sia nella sua vita quotidiana che nelle sue espressioni teoriche, il valore della ragione, che conduce le persone ad essere consapevoli di sé e della propria istintualità non razionale.

Per realizzare questa linea, egli parla di «autocontrollo» e indica alcuni percorsi.

Il letterato occidentale dice: «Quando giunsi in Cina, udii qualcuno affermare che l’anima umana cessa di esistere esattamente come quella degli uccelli e degli

39 C.M. mArTINI, Paolo nel vivo del ministero, Ancora, Milano 1990, p. 18.40 Cfr. A. GrüN, Non farti del male, Queriniana.

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animali. Tutte le religioni più note nei vari paesi del mondo sono a conoscenza del fatto che l’anima umana è immortale e che differisce da quella degli uccelli e degli animali. Le chiedo, signore, di ascoltarmi con umiltà mentre spiego questa dottrina».41

In questo modo esistono tre tipi di anime. Quella inferiore è chiamata il prin-cipio vitale – l’anima vegetativa. Questo tipo di anima sostiene la vegetazione nella sua crescita, e quando la vegetazione si secca, anche l’anima viene distrutta.La seconda classe di anime è definita sensitiva. È posseduta dagli uccelli e dagli animali. Permette agli uccelli e agli animali di nascere, di crescere ed evolversi, e determina il fatto che le loro orecchie e i loro occhi siano in grado di sentire e ve-dere, che le loro bocche e i loro nasi sappiano gustare e odorare, e che i loro arti e corpi siano coscienti delle cose, sebbene non siano in grado di inferire la verità. Quando queste creature muoiono, anche la loro anima si distrugge. La suprema tra le anime è detta intellettiva, Questa è l’anima dell’uomo, che include l’anima vegetativa e sensitiva. Consente alle persone di giungere a maturità; determina il fatto che le persone siano coscienti di ciò che le circonda, e permette all’uomo di fare inferenze sulla natura delle cose e di distinguere tra un principio e un altro.42

Il letterato occidentale afferma: «Le attività dell’anima intellettiva non dipen-dono dal corpo. Ciò che è dipende dal corpo è controllato da esso e non può scegliere tra bene e male. Quando un uccello, o un animale, vede qualcosa di commestibile, va avanti e lo mangia, essendo incapace di auto controllarsi. Come potrebbero simili creature iniziare a distinguere il giusto dall’ingiusto? Se ad un uomo, al contrario, si dice che sarebbe sbagliato per lui cibarsi di una data cosa, egli sceglierà di non mangiarla. Il cibo posto di fronte a lui potrebbe essere delizioso, ma lui, di nuovo, rifiuterebbe di assaggiarlo. Una persona che viaggia all’estero, ma che si strugge dal desiderio di casa e pensa costantemente a ritor-nare in patria, può essere un altro esempio. Ora, come si può sostenere che le funzioni di un’anima intellettiva dipendano dal corpo?».43

Il letterato cinese afferma: «Non c’è dubbio che lo spirito sia incapace di ospi-tare elementi configgenti che lo possano distruggere dall’intero; ciononostante, come possiamo sapere che l’anima umana sia uno spirito e che l’anima degli uccelli e degli animali no?».44

41 m. rIccI, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, n. 132, cit., p. 130.42 Ibid., n. 133, pp. 130-131.43 Ibid., n. 137, p. 132. 44 Ibid., n. 139, p. 133.

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Il letterato occidentale afferma: «Ce ne sono ampie prove. Numerose ragioni possono essere addotte a dimostrazione della verità di ciò; ragioni che, una volta comprese, dissiperanno ogni dubbio.In primis, le anime corporee non possono essere padrone dei propri corpi, ma solo loro servitori, fino a morire con essi. Così, gli uccelli e gli animali seguono sempre i propri desideri e vanno dovunque le loro sensazioni li conducano, in-capaci di esercitare alcun autocontrollo.Solo l’anima dell’uomo è in grado di essere padrona del proprio corpo, de-terminandone l’agire o il fermarsi, in accordo con le proprie intenzioni. Così, quando decide per una determinata dirittura di azione, il corpo immediatamente risponde con forza. Gli uomini possono avere desideri individuali, ma è impos-sibile per loro sfidare gli ordini della ragione universale. Così l’anima umana veramente mantiene l’autorità sopra tutto il corpo, perviene allo spirito, ed è decisamente distinta dall’anima degli animali.In secondo luogo, una creatura vivente ha solo una mente, ma l’uomo ne ha due allo stesso tempo. Una mente animale e una umana. Così, possiede anche due nature: una natura confacente al corpo e una natura spirituale. Le emozioni con-trastanti devono derivare dalle due nature che si contrappongono. Quando un uomo si confronta con qualcosa, può reagire in due maniere ap-parentemente opposte allo stesso momento. Un uomo traviato dal vino e dalle donne sarà inebetito e desideroso di continuare in ciò, ma, nel contempo, sarà conscio dell’assenza di principi nella natura delle sue azioni. Il seguitare significa essere “guidato dalla mente animale”, e, in ciò, l’uomo non è differente dagli uc-celli e dagli animali. Il seguire la razionalità significa essere “giudicati dalla mente umana”, e, in ciò, l’uomo è simile agli angeli. Ogni volta che l’uomo si dedica con unicità d’intenti ad una cosa, due disposizioni incompatibili non possono esistere insieme. È come gli occhi, che non possono vedere e non vedere allo stesso tempo, e le orecchie, che non possono udire e non udire un determinato suono al contempo. Così due opposte sensazioni devono derivare da un conflitto di menti, e due menti in contrasto devono derivare da due nature configgenti. Se assaggiamo l’acqua di due fiumi e avvertiamo che l’una è salata e l’altra senza sapore, abbiamo prove sufficienti per asserire che non derivino dalla stessa sor-gente, anche se non abbiamo mai visto il luogo da cui si sono originate.45

Ma la condotta dell’uomo è abbastanza differente. Le sue azioni sono esterne, ma la mente razionale è dentro di lui. Non solo l’uomo è consapevole del fatto che le sue azioni siano giuste o sbagliate, corrette o meno, ma è anche in grado di permettere loro di giungere alla rivolta o di arrestarsi. Sebbene possieda desideri propri alla mente degli animali, se può usare la sua facoltà razionale per eserci-tare un controllo su di essi, la sua mente animale non sarà in grado di disobbe-dire ai comandi del padrone della sua mente.

45 Ibid., nn. 140-141-142, pp. 133-134.

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Conseguentemente, se decido di seguire ciò che è giusto e razionale, sono un uomo superiore nella mia condotta morale e otterrò la protezione ed il sostengo del Signore del Cielo. Se, invece, sono dissoluto, e decido di obbedire alla mia mente animale, sono un uomo inferiore che trasgredisce la legge e sarò abban-donato dal Signore del Cielo».46

Sembra chiaro, nelle parole di padre Matteo Ricci, che occorre un per-corso: il controllo e l’elaborazione dei propri impulsi (= il cammino dalla mente animale alla razionalità, con il sostegno del Signore del Cielo).

Tale percorso può svolgersi secondo questi passaggi che riguardano il nostro rapporto con le emozioni.

Riuscire a vivere in maniera matura le proprie emozioni significa impa-rare a dare loro un nome e a esprimerle, ma con il giusto controllo.

Questo comporta la capacità di postporre il raggiungimento di ciò verso cui l’emozione tenderebbe immediatamente a portarci. Per questo è neces-sario imparare a vivere l’attesa, che diventa un tempo importante. Durante l’attesa, infatti, si ha anche la possibilità di integrare l’emozione, che è un aspetto parziale della nostra umanità, con altre componenti, soprattutto con la ragione.

Diventa importante, allora, per favorire la conoscenza di sé e la consape-volezza delle proprie emozioni, riuscire a parlarne con qualcuno di cui ci si fida e dal quale non ci si senta giudicati; riuscendo a esprimere realmente se stessi in piena libertà.

Questa è l’occasione per interrogarsi sul perché di ciò che proviamo e chie-derci se è bene esprimerlo e in che modo. Per esempio, il saper rimandare l’esplosione immediata della nostra rabbia, può essere l’occasione per capire veramente che cosa ci ha dato fastidio, per vederne l’origine e per capire se è veramente il caso di rispondere aggressivamente, oppure se ci sono dei modi più adeguati e soprattutto più efficaci per far comprendere all’altro le proprie ragioni.

Allora è importante riconoscere che la rinuncia alla gratificazione imme-diata di una propria emozione non è solo una nostra privazione, ma che il controllo delle nostre emozioni aiuta anche noi stessi, perché porta al bene complessivo della persona.

Emozioni e ragione non sono quindi tra di loro necessariamente conflit-tuali, ma possono arrivare a integrarsi in modo tale da riuscire a gestire con equilibrio il rapporto con se stessi e con gli altri.

Tutti i sentimenti sia positivi che negativi, verso se stessi e verso gli altri, come la simpatia, l’antipatia, il lasciarsi andare, il desiderio di affetto, la

46 Ibid., n. 333, p. 218.

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paura, la tristezza, la rabbia, l’insicurezza, ecc., devono trovare una via di espressione che sia in armonia con i valori evangelici.

In questa prospettiva si propone uno schema per il controllo e l’espres-sione dei sentimenti e delle emozioni, che comporta 4 passi.

1) Anzitutto occorre riconoscere le proprie emozioni, esserne consape-vole, esaminare con onestà le proprie reazioni emotive, mettendo il nome giusto sull’emozione provata (es. simpatia, antipatia, rabbia, ecc.).

2) Occorre poi accettare le proprie emozioni e non negarle. Ad esempio può essere difficile ammettere di avere paura, di sentirsi insicuri anche nell’at-tività apostolica, o di provare rabbia. Ci sembra di perdere la faccia o la stima di noi stessi. Ma se accettiamo onestamente anche queste emozioni, saremo più capaci di trattarle nel modo opportuno. In se stessa un’emozione non è né buona né cattiva; ciò che può essere buona o cattiva è l’azione che ne deriva.

3) Il terzo passo è riflettere sulle proprie emozioni, chiedendosi: “Come mai ho sentito così?”.

I motivi possono essere trovati a due livelli. Uno che fa riferimento alle situazioni esterne; l’altro che è invece in rapporto con la nostra personalità più profonda.

Evagrio il Pontico descrive bene questa tappa (riferita qui alle tentazioni):

Ma poiché nel momento della tentazione la mente è offuscata e non può vedere con precisione ciò che accade, dopo che il demonio si è allontanato, siediti da solo e ricorda le cose che ti sono capitate, da dove ha cominciato e dove è andato a finire e in quale luogo tu sia stato portato dallo spirito dell’ira o della fornica-zione o della tristezza e come tutto è successo; impara con saggezza tutto quanto e affidalo alla memoria, in modo da poterlo confutare quando si presenta; se-gnati anche il luogo dove lui si nasconde per non seguirlo più. Se vuoi farlo infuriare, confutalo subito, appena si presenta e mostragli il primo luogo in cui è andato e poi il secondo e il terzo: andrà su tutte le furie, perché non sopporta la vergogna… Alla vittoria sul demonio errabondo segue una profonda sonnolenza e un’apatia accompagnata da grande pesantezza delle palpebre, innumerevoli sbadigli e le spalle appesantite e intorpidite, ma queste cose saranno dissipate dallo Spirito Santo, con intensa preghiera.47

47 EVAGrIO, Diversi Pensieri, 9.

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4) L’ultimo passo è che bisogna decidere come esprimere l’emozione. Ci sono tre possibilità:

– non esprimerla, tenerla dentro;– l’espressione senza controllo = colpi di testa, esplosioni;– l’espressione con controllo, ponendo l’emozione sotto il controllo della

ragione e dei valori evangelici. Questa è la forma ideale per esprimere le emozioni.

Può essere utile applicare questi quattro passi durante i momenti di ri-flessione personale.

8. Il mondo dei desideri

I desideri di cui il Signore del Cielo ha dotato l’uomo sono, in effetti, volti ad una vita incommensurabile e ad una gioia illimitata.

Come, dunque, possono le piccole gioie della sua vita soddisfare sempre la mente dell’uomo? Una zanzara non potrà mai essere un pasto adeguato per un drago, o un elefante; un piccolo granello di cibo non può riempire un granaio.

Un saggio occidentale48 dei tempi antichi comprese questa verità e, quindi, guardando verso il Cielo sospirò e disse: «Signore supremo e Padre di tutti gli uomini, tu hai creato noi uomini per te stesso, e solo tu puoi sod-disfare le nostre menti. Quando l’uomo non si rivolge a te, la sua mente non può trovare pace ed essere soddisfatta».49

Con la citazione di sant’Agostino, padre Matteo Ricci sembra volere in-dicare una linea pedagogica che conduce a educare anche il proprio mondo dei desideri.

Un modo che la persona ha per crescere è quello di esplorare il proprio mondo dei desideri.

Si intende per desiderio la capacità di concentrare – canalizzare le pro-prie energie verso qualcosa di importante in sé e centrale per la propria vita.

Il mondo immaginativo, il mondo dei desideri cresce via via che la per-sona è convinta di essere una realtà interiore dotata di un significato pro-fondo che trascende la propria vita personale.50

48 Cfr. AGOsTINO, Le Confessioni.49 m. rIccI, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., n. 159, pp.

140-141.50 Cfr. J. HILLmAN, Fuochi blu, in Sulla pratica immaginale, cap. III, p. 107.

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Nell’universo dell’uomo esiste la dinamica del desiderio che implica e anima gli atti della persona quali il conoscere, il volere, l’amare.

L’atto del desiderare anima il processo volitivo e deliberativo della per-sona e denota una sana strutturazione psichica.

Vi è un desiderio più superficiale, che potremmo chiamare:

DESIDERIO-VOGLIA può essere “buono” o “cattivo”

Che nasconde, a volte “traveste”

DESIDERIO-PROFONDO che è SEMPRE buono perché viene da Dio-Creatore buono

Questo desiderio profondo che potremmo definire, sinteticamenteDESIDERIO DI VALERE DESIDERIO DI AMORE

È il luogo dell’INCONTRO CON DIODio risponde al desiderio profondo:

Tu sei prezioso ai miei occhi,sei degno di stima… e io ti amo (Is 43)

La persona sperimentando il fascino della realtà è attratta da essa e me-diante il desiderio è portata a conseguirla; il desiderio in questo caso funge da motivo trainante.

Nell’atto del desiderare avviene un coinvolgimento di tutto il soggetto; ciò comprende la possibilità di mettere in gioco le sue diverse facoltà ed energie.

Desiderare è fondamentale per capire il processo delle motivazioni che stanno all’inizio delle azioni dell’uomo e ne accompagnano il compimento.

Vi è uno spessore diverso del desiderio:– il desiderio che tende al possesso e alla fruizione di un bene consiste nel

cercare di possedere un bene materiale che serve a soddisfare il bisogno della persona;

– il desiderio che è diretto alla ricerca di un bene astratto tende a ricercare un bene ideale che non è ancora del tutto realizzato;

– il desiderio verso qualcosa di già accaduto comporta la capacità di ricer-care un bene che si vede già realizzato in sé o in altri.

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La persona nel suo desiderare ha una gerarchia secondo cui qualcosa è importante per lei.

C’è anche da notare che le azioni dell’uomo possono essere motivate oltre che da risposte intenzionali, anche da cause biologiche e fisiologiche non intenzionali quali possono essere uno stato di stanchezza, di agitazione o quant’altro.

Rivedendo la propria vita, è importante che la persona possa percepire se sta andando verso una possibile caduta del mondo dei desideri. Cioè si riduce la capacità di concentrare – canalizzare le proprie energie verso qual-cosa di importante in sé e centrale per la propria vita (= desiderio). Ciò può accadere specialmente nell’età intermedia.

Tale caduta del mondo dei desideri si può manifestare nei seguenti modi:

– paura della trascendenza che si avvicina (la trascendenza che si avvicina può essere un Dio a cui la persona va “senza entusiasmi”);

– tensione al ripiegamento su di sé (es. isolarsi; masturbarsi; ecc.);– si possono restringere gli obiettivi della propria vita (c’è meno tensione

verso il futuro, che è incerto, e più conservazione dell’esistente);– si può ridurre la capacità di rinuncia, essendo già molte le rinunce a cui,

per esempio per riduzione dell’attività fisica, si è esposti. Inoltre non si riesce a rinunciare a pretendere ciò che si desidera, lo si vuole subito, e ciò viene percepito come una pretesa;

– rischio di accontentarsi di obiettivi di poco conto (es. un’amicizia fina-lizzata solo al riempire la solitudine) e al di sotto della propria capacità di guardare in alto;

– i desideri rispondono al bisogno di autoconservazione e di omeostasi (= conservare l’esistente, senza introdurre novità);

– se si indebolisce il desiderio, si indebolisce il pensiero e diventa concen-trato su di sé (es. il ripiegamento su relazioni note) con paura del mondo, della società, del futuro (es. paura della malattia);

– la capacità progettuale diventa mirata all’autopreservarsi da nuove fa-tiche. Ci si concentra per salvare l’esistente.

Padre Matteo Ricci mette poi a fuoco alcuni aspetti, nell’ambito del mondo dei desideri, che rendono “egoistici” ed autocentranti i nostri desi-deri. Egli esprime ciò con esempi della sua cultura e presentando la modalità del digiuno.

Ecco di seguito le sue indicazioni.

Un tempo, qualcuno portò, come tributo ad uno dei nostri paesi in Occidente, due cani da caccia, entrambi con un ottimo pedigree. Il re ne diede uno alla

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famiglia di un nobile ministro e l’altro lo affidò alla cure di una famiglia di con-tadini fuori città. Quando i due cani giunsero alla maturità, il re uscì a cavallo a cacciare e liberò i due cani nel campo, per saggiarne il valore. Il cane allevato nella famiglia di contadini era magro e asciutto, e ogni volta che sentiva l’odore di un animale lo inseguiva, catturando innumerevoli prede. Sebbene il cane di caccia, allevato nella famiglia nobile, fosse grasso e pulito e straordinariamente bello a vedersi, era abituato a mangiare carne a sazietà e a vivere negli agi. Era incapace di correre velocemente, cosicché quando ve-deva la preda, la ignorava. Avendo notato un osso marcio al lato della strada, andò a sgranocchiarlo, e non appena ebbe finito, si rifiutò di muoversi. Coloro che prendevano parte alla caccia sapevano che i due cani erano nati della stessa madre, e se ne meravigliavano.51

Il re disse: «Non c’è nulla di cui sorprendersi. Non solo gli animali sono così, ma anche gli uomini. Dipende tutto da come sono allevati. Se sono educati in modo da indulgere ai piaceri ed essere troppo ben nutriti, non sono in grado di progre-dire nella bontà. Se, d’altro canto, sono educati in modo tale da essere abituati al lavoro e alla frugalità, sicuramente non falliranno nell’essere all’altezza delle tue aspettative su di loro». Così, si può dire, qualunque uomo che sia cresciuto abituato alle ghiottonerie e ad abbondanti quantità di cibo avrà poco tempo per il decoro e la rettitudine e sarà preoccupato solo di dedicarsi al mangiare e al bere. Una persona che sia abituata a perseguire profondamente il decoro e la rettitudine, d’altro canto, non indulgerà al cibo, al bere e ai piaceri quando ci si imbatterà, ma rifletterà su come perseguire la verità e la rettitudine. Questa è una vera ragione per digiunare.52

Sono passato attraverso un gran numero di paesi al mondo e so che ci sono tipi differenti e vari di digiuno. Ci sono alcuni che, senza badare ai diversi tipi di cibo disponibili, non mangiano nulla durante il giorno, e mangiano qualsiasi cosa vogliono quando giunge la notte. Questo è chiamato digiuno per un periodo. Quindi ci sono quelli che non pongono limiti di tempo al mangiare, ma si atten-gono ad una dieta vegetariana, con la quale si nutrono quando vogliono. Questo si definisce digiuno basato su tipi di cibo. Altri non si preoccupano dei tipi di cibo o di quando mangiare, ma si limitano ad un pasto al giorno. Questo è chiamato digiuno di un pasto. Altri ancora controllano il numero dei pasti che fanno, il tempo in cui mangiano e il tipo di cibo, mangiando solo a mezzogiorno e rifiutando di mangiare la carne

51 m. rIccI, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., n. 314, p. 208.52 Ibid., n. 315, pp. 208-209.

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di animali a sangue caldo, sebbene si autorizzino a mangiare frutti di mare e cose del genere. Questo è detto digiuno pubblico. Alcuni proibiscono di mangiare cibo cucinato e trascorrono la loro vita come eremiti in caverne nella profondità delle montagne, facendo affidamento solo su erba e radici per rimanere in vita. Al giorno d’oggi, in Europa, ci sono molti di questi reclusi in montagna. Questo genere di digiuno è definitivo privato.53

Ma lo scopo complessivo di tutti questi diversi tipi di digiuno è la mortificazione di se stessi. Il tipo di digiuno scelto è determinato dal tipo di persona e al tipo di corpo da mortificare. I ricchi e i nobili mangiano costantemente buon cibo. Se il quantitativo di ciò che mangiano e bevono ogni giorno è ridotto, anche questo può essere definitivo digiuno. Sebbene le persone comuni siano abituate a man-giare cibo misero e di scarsa qualità, non si può per questo dire che digiuno tutto il tempo. Se ciò potesse essere definitivo digiuno, allora i mendicanti potrebbero essere considerati in digiuno perenne. Inoltre, bisogna considerare la salute e la forza di un corpo. Chi è malato e ha un corpo debole deve nutrirsi costante-mente per rafforzarsi. Chi lavora e fatica duramente spende la sua energia fisica e non può sostenere un lungo periodo di astinenza dal cibo. Quindi, la legge della religione universale del Signore del Cielo dice che le persone al di sopra dei sessant’anni, e i giovani sotto i venti, malati, le madri che allattano i loro piccoli, e il lavoratori devono essere posti al di fuori delle regole del digiuno.54

Il fatto è che le regole che proibiscono di mangiare e bere contano molto poco e sono dettagli ininfluenti del digiuno. Se ci si interroga sul significato del digiuno, si trova che esso è connesso con la repressione dei desideri egoistici dell’uomo; quindi bisogna lottare per questo con completa onestà e con tutte le proprie forze. Digiunare, ma nel contempo abbandonare i precetti che regolano la pra-tica della venerazione, è come prediligere una pietra grezza a un bel pezzo di giada, un atto di ignoranza.55

Il letterato cinese dice: «Lei ha spiegato molto bene il vero significato del di-giuno. Quando comunemente parliamo di un uomo che digiuna, vogliamo indi-care sia un uomo che digiuna a causa della povertà e che usa questo metodo per sopravvivere, sia chi usa il digiuno per ottenere una buona reputazione per se stesso, ingannando segretamente le persone. Un tale individuo digiuna in pub-blico, ma, quando è da solo, indulge nel bere, nelle donne e nell’ira profonda; acquisisce ricchezze, andando contro l’etica, e denigra i saggi e i buoni. Ahimè! Se non riesce a sfuggire agli occhi degli uomini, come può sperare di ingannare

53 Ibid., n. 316, p. 209.54 Ibid., n. 317, pp. 209-210.55 Ibid., n. 318, p. 210.

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il Sovrano dall’Alto? È una fortuna che io sia stato in grado di ascoltare il suo eccelso insegnamento. Mi piacerebbe continuare ad apprendere da lei».56

9. Il buon esempio, quale base della testimonianza

Si può sottolineare qui la linea pedagogica della trasmissione del “buon esempio”.

Quello che hora speriamo è di alcun modo avere entrata al re e, avendo la sua gratia, avere anco libera licentia di predicare, la quale, se si avesse, vi prometto che in breve milioni di anime si convertirebbono, per quel che veggo quando disputo con essi loro delle cose delle leggi, e li confuto le sue sette, e confirmo la nostra legge, che molti ho visto piangere di allegrezza e darmi molte gratie per insegnarli sì alta verità. Ma per adesso non vogliamo forzarli a far cristiani e ci contentiamo porre i fon-damenti per un’opera grande, quando Sua Divina Maestà ci apra il cammino. In questa città sono molti predicatori della sua legge, ma per quanto loro non pre-dicano l’altra vita, gli animi della maggior parte del popolo non stan contenti, se bene dicono molte cose buone. Questi quasi tutti sono miei amici, e dicono che la nostra legge è buona, e cominciorno ad amarmi per assai piccolo principio.Chè, stando io un puoco fiacco per le molte visite, che dalla mattina alla sera mi venivano, mi volse uno di loro persuadere che dicessi ai servitori che mi scusas-sero, con dire che non stavo in casa. E dicendo che noi altri né per tutto il mondo diciamo una bugia, ristorno e meravigliati et edificati; et adesso si è sparsa una fama nella città che non diciam bugia, che par un miracolo in questa gentilità, come di risuscitar morti, e allegreime molto di questa fama, perché il fonda-mento della nostra fede è credere ai predicatori di essa, ai quali crederanno più facilmente se si persuadono che non dicono bugia.57

La Parola di Dio non è un aerolito piombato dal cielo, uno scrigno di teoremi teologici preconfezionati, una fredda pietra preziosa da custodire, bensì un seme che è cresciuto nella terra della sarx, ossia della “carne”, della storia e della cultura umana.58

56 Ibid., n. 319, p. 210.57 m. rIcci, Lettera al P. Giulio Fuligatti da Nanchang, 12 ottobre 1596, in Lettere (1580-

1609), Edizioni Quodlibet, Macerata 2001.58 S. E. mONs. G. rAVAsI, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Matteo Ricci e

l’inculturazione, in Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci (1552-1610) fra Roma e Pechino, a cura di A. PAOLUccI e G. mOrELLO, Edizioni Umberto Allemandi, 2009, p. 27.

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Giovanni Paolo II, il 13 settembre 1982, al IV anno del suo pontificato, inviava al vescovo Mons. T. Carboni una lettera, in preparazione al Con-gresso di Studi Ricciani che si tenne poi in ottobre per commemorare il IV Centenario dell’ingresso di padre Matteo Ricci in Cina.

In essa affermava: «Le intuizioni di padre Matteo Ricci59 non furono sempre valutate, in seguito, nel loro giusto significato. Di esse dobbiamo dire, con l’immagine del Vangelo, che sono state un seme soggetto sì alla morte sotto terra, ma solo per svilupparsi in albero rigoglioso carico di frutti».60

Dal messaggio apostolico, con intima gioia, leggiamo:61

A distanza di quattrocento anni dall’arrivo di Matteo Ricci a Pechino, non pos-siamo non domandarci qual è il messaggio che egli può offrire sia alla grande Nazione cinese, sia alla Chiesa cattolica alla quale si sentì sempre profondamente legato e dalle quali fu ed è sinceramente apprezzato ed amato. Sin dai primi contatti con i cinesi, il Padre Ricci impostò tutta la sua metodologia scientifica ed apostolica su due pilastri, ai quali rimase fedele fino alla morte, nonostante molteplici difficoltà ed incomprensioni, interne ed esterne: primo, i neofiti ci-nesi, abbracciando il cristianesimo, in nessun modo avrebbero dovuto venire meno alla lealtà verso il loro Paese; secondo, la rivelazione cristiana sul mistero di Dio non distruggeva affatto, anzi valorizzava e completava quanto di bello e di buono, di giusto e di santo, l’antica tradizione cinese aveva intuito e trasmesso. Ed è su questa intuizione che padre Ricci, analogamente a quanto secoli prima avevano fatto i Padri della Chiesa nello incontro tra il messaggio del Vangelo di Gesù Cristo e la cultura greco-romana, impostò tutto il suo paziente e lungimi-rante lavoro di inculturazione della fede in Cina, cercando costantemente un comune terreno d’intesa con i dotti di quel grande Paese. Padre Matteo Ricci si fece talmente cinese coi cinesi da diventare un vero sino-logo, nel più profondo significato culturale e spirituale del termine, poiché nella sua persona seppe realizzare una straordinaria armonia interiore tra il sacerdote e lo studioso, tra il cattolico e l’orientalista, tra l’italiano ed il cinese.62

59 «L’Osservatore Romano», 27 ottobre 1982.60 Macerata, 5 gennaio 2001. S.E. il Vescovo Luigi Conti conclude le Celebrazioni del

Giubileo ed inaugura la Sede del Centro Missionario Diocesano “P. M. Ricci”, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 184.

61 Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la 75a Giornata Missionaria Mondiale, 24 ottobre 2001: Misericordias Domini in aeternum cantabo (Sal 89 [88], «Con intima gioia abbiamo celebrato il Grande Giubileo della salvezza, tempo di grazia per tutta la Chiesa», in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.

62 A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.

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La coerenza nel seguire il messaggio evangelico porta padre Matteo Ricci a testimoniare anzitutto con l’esempio della sua vita. Il primo esempio, oltre quello citato, è stato proprio quello del “cambiare nome”, assumendo il nome cinese di Li Mandou, con tutto ciò che comporta.

A questo proposito, ecco la parola a Valerio Albisetti,63 che in un suo libro sviluppa positivamente il cammino del “cambiare nome”. Ciò, ovvia-mente in modo simbolico, pure nell’essenzialità del concetto.

Mi piacerebbe che si potesse, a un certo punto della propria esistenza, cambiare nome. Come i monaci, come nelle antiche tribù. Mi piace pensare che il nome corrisponde all’essenza della persona in quel periodo. Cambiare nome significa allora assumere una nuova, più adeguata identità. Per fare ciò occorre un mutamento interiore, un cambiamento profondo del cuore, tenendo conto della propria unicità e irripetibilità, della propria origi-nalità. Smascherare la parti false, ambigue, nevrotiche di noi. Riunire le parti spezzate. Andare oltre le ferite ricevute. Uscire dagli schemi mentali creati per difesa, per paura, per orgoglio. Allargare la mente. Pulire il cuore. Riprendere la propria dignità di creature a immagine di Dio. Solo vivendo, affrontando con di-gnità ciò che ci capita, come viaggiatori, troveremo senso, godimento, pienezza. Vivremo così la realtà come dono.«Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: “Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto”. Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: “Eccomi. La mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abràm ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò”» (Gn 17,1-5).Dunque anche nella Bibbia spesso i personaggi cambiano nome. Addirittura per volere di Dio. Siccome fin dall’antichità il nome corrisponde all’essenza della persona che lo porta, cambiare nome significa prendere un nome più consono, più adeguato alla nuova identità. Un nome che solo chi lo riceve conosce: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nes-suno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap 2,17).Dunque il cambiamento di nome, il cambiamento di mentalità, di personalità, è un percorso, un cammino, un processo lento e progressivo, graduale, che non

63 V. ALBIsETTI, Una vita a tutto tondo. Come costruire il proprio percorso, Edizioni Pao-line.

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consiste solo in atti formali, ma soprattutto in un cambiamento profondo, inte-riore.Questo tipo di conversione non è una privazione o una fuga, un ritirarsi dal mondo, ma, al contrario, un accogliere e offrire tutte le potenzialità di persona rinnovata, divenuta più responsabile, più matura.Il mondo, dunque, a questo punto, diviene fonte di significato e luogo teologico. E questa esperienza di personalità matura e consapevole aumenta il grado di conoscenza e di autocoscienza, al punto di vivere tutto come dono, come luogo continuo di mistero, di miracolo.

10. Il silenzio nella malattia e nel martirio quotidiano

Sono note le condizioni molto disagiate e rischiose per la sopravvivenza con cui si effettuavano i viaggi dall’Europa all’Asia e altri continenti.

Padre Matteo Ricci quasi tace sui suoi rischi di malattia e di morte. È una realtà che egli vive nel silenzio, come forse la vivevano i cinesi di allora.

Confratelli miei,finalmente siamo giunti qui a Goa tutti e quattordici sani e salvi, anche se ab-biamo dovuto viaggiare divisi su tre galeoni diversi; ringraziamo Iddio ricordan-doci che, dopo appena un mese di navigazione, abbiamo scampato quel pericolo al largo delle Isole Canarie, dove sicuramente ricordate che incrociammo quei due vascelli corsari battenti bandiera francese.Di poi attraccammo ad un’isola prospiciente Capoverde per il rifornimento d’acqua dolce, ma appena ritratte le ancore ed issate le vele sia quadre che latine sui quattro alberi, fummo sbattuti dal vento sfavorevole verso la Magellanica australe; solo dopo settimane i tre galeoni riguadagnarono la rotta verso l’Africa meridionale, che doppiammo giù al Capo di Buona Speranza, anche se i nostri galeoni vi arrivarono in giorni diversi senza più esserci rivisti all’orizzonte da quel mese di luglio scorso.Iniziammo l’estate in pieno Oceano Indiano, dopo aver navigato sottocosta al Madagascar, perdemmo di vista il galeone Bon Jèsus, che poi abbiamo ritrovato qui a Goa, mentre noi degli altri due galoni Sao Luis e Sao Gregorio, per tutto il mese di agosto abbiamo sostato nel porto del Mozambico per fare il pieno di acqua potabile, carni affumicate e verdure fresche.In quel mese di riposo africano, ci siamo ritemprati abbastanza, recuperando molti sali minerali grazie a quella buona frutta esotica, che in Europa voi sicura-mente non avevate mai visto e tanto meno assaggiato.Però qualcuno di voi non si è ripreso ancora completamente, specie tu, giovane marchigiano Matteo Ricci, iscritto alla ecclesiastica provincia romana. Pertanto, Matteo, potrai riprenderti meglio nella tropicale città salubre di Cochin, che rag-giungerai al riparo dal sole percorrendo una strada costiera in carrozza medicale coperta trainata da due cavalli: laggiù, tra vegetazione balsamica, sarai ospitato

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nel nostro Collegio Studentesco, dove potrai studiare le materie della Teologia in preparazione al Sacerdozio.64

Un proverbio attribuito al mitico Laotzì, caposcuola del taoismo, trimil-lenaria filosofia popolare cinese, recita: “Quando il baco da seta teme per il proprio mondo che finisce, c’è un altro mondo che esulta per la nascita della farfalla”.65

Ricci voleva che la casa fosse sempre aperta: «Se bene la fatica è grande» scriveva «procurano i vostri di fare a tutti buona accoglienza per guadagnare la benevo-lentia di tutti, oltre il parlare sempre con loro delle cose della nostra Fede». Sapeva che i contatti con i mandarini più importanti servivano a fare progredire la missione e a garantire protezione ai confratelli che vivevano nelle altre città. Era infatti convinto che se i magistrati di passaggio avessero potuto constatare quanto Li Madou era stimato a corte, avrebbero avuto più rispetto per i gesuiti residenti nelle altre provincie. Ricci riceveva quotidianamente fino a venti libretti per le visite, che arrivavano a cento in occasione delle festività, e ogni due o tre giorni usciva a piedi o a cavallo per restituire gli inviti, come voleva l’etichetta. Un simile zelo aveva il suo prezzo e il gesuita sentiva venir meno le forze. L’incarico di superiore della missione cinese era ormai per lui troppo oneroso ed egli si augurava, senza ottimismo, che Valignano glielo volesse «togliere dalle spalle». Confessava la sua stanchezza a Girolamo Costa il 10 maggio 1605: «Quanto più avanti va quest’opra tanto più caricano i negocii sopra di me… solo lo rispondere alle visite di huomini gravi che continuamente vengono a vederci et a sapere delle nostre cose, sarebbe sufficiente occupazione per un huomo assai più habile che io». Dello stesso tenore erano le parole indirizzate a Fabio de Fabii: «A me povero, posto già vicino ai Tartari, assi lontano non solo dai nostri europei et amici, ma anco da compagni che stanno nella Cina, non mi resta che scrivere… ma non pensi che per questo stia disoccupato, perché mai in mia vita mi vidi sì povero di tempo, tanto che alle volte per ricomandarmi a Dio mendico il tempo, in tempo che ne ho maggior bisogno».66

64 13 settembre 1578. Dopo avere circumnavigato l’Africa con il Procuratore per l’India Martin Da Silva ed altri dodici Gesuiti, Matteo sbarca in India, a Goa, la “Roma d’Oriente”, Lettera di P. Martin Da Silva, in A. AGNETTI, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 97-98.

65 I miei 30 anni di studi ricciani, a cura del prof. Alessandro Agnetti, delegato onorario del Presidente della Giunta Regione Marche nell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente, Università degli Studi di Macerata, in Alessandro Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 146.

66 m. fONTANA, Matteo Ricci. Un Gesuita alla corte dei Ming, Oscar Mondadori 2005, p. 251.

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La piccola flotta salpa da Lisbona sospinta da un buon vento, che la conduce rapidamente verso l’aperto. La prima esperienza di mare grosso e le paurose oscillazioni della nave disturbano i viaggiatori, per qualche giorno in preda a nausea e vomito. Pochissimi sono quelli che riescono a mangiare. Forti correnti da nord sospingono i galeoni verso le coste atlantiche del Marocco. Si fatica a tenere la rotta e si procede a vele ridotte. D’un tratto, sulla São Luis s’imbrogliano le corde: non si manovra più sull’al-bero di mezzana che porta vele latine e il nostromo dà ordine di ammainare. La nave rallenta e procede sospinta dalla corrente. Le altre due imbarcazioni scom-paiono all’orizzonte; una galera armata riamane di scorta. Al quarto giorno di navigazione, secondo Ruggeri, si avvista la fortezza portoghese dalle grandi fo-reste, che per l’abbondanza di legno venne chiamata Madeira. Ricci annota nel suo mappamondo cinese del 1602, divergendo da Ruggeri riguardo al tempo impiegato: «L’isola di Madeira è a una distanza di quindici giorni di viaggio dal Portogallo. La vegetazione è lussureggiante e il terreno fertile e bello». Ricci aggiunge, a proposito dell’isola e delle vicende che seguirono alla sua conquista, la seguente notizia, non priva di fondamento storico: «L’incendio che vi misero i portoghesi, quando vennero qui, prese fine dopo otto anni. Adesso vi hanno piantato le vite e producono un vino eccellente». Il fuoco al quale Ricci allude era stato appiccato ad alcune zone della foresta, per ricavarne terreni utili alla coltivazione; sembra tuttavia che quei primi coloni non fossero stati capaci di spegnerlo, a causa della fitta vegetazione e dell’alto strato di materiale combu-stibile accumulatosi nei secoli. Qualche giorno dopo – stando a Ruggeri il 29 marzo, sabato santo –, mentre la São Luis dirige sulle Isole Fortunate, che oggi chiamiamo Canarie, appare all’orizzonte la sagoma snella d’un vascello corsaro che porta insegne francesi. Il grido d’allarme che ognuno aveva temuto di udire sin dalla partenza fende l’aria sui ponti e agghiaccia gli animi. Quello era il luogo preferito dai corsari per tendere agguati, specialmente alle navi che tor-navano cariche dall’Oriente. I soldati prendono posizione alla artiglierie e sui ponti. Il capitano Da Silva mette al riparo, per quanto è possibile, i viaggiatori. I religiosi aiutano il cappellano di bordo a organizzare la preghiera. La galera di scorta rallenta e si dispone davanti al galeone. La nave corsara si porta appena fuori dal tiro d’artiglieria delle navi portoghesi. Si arresta. Nel silenzio attonito degli uomini si attende l’ordine dell’attacco. D’improvviso i corsari virano a ponente e veloci si allontanano all’orizzonte. Grida di gioia e preghiera di rin-graziamento si levano dalla nave. Viene anche celebrata una “messa secca”, così detta perché priva della consacrazione del pane e del vino, non consentita sulle navi che facevano rotta verso Oriente: segno aggiuntivo della straordinaria condizione di precarietà vissuta a bordo di quelle incerte scommesse sul mare e sul vento. Oltrepassando le Canarie si profila verso sud la piccola Isola del Ferro, della quale, nel mappamondo di Ricci, si legge: «Quest’isola non ha sorgenti. Però ha un grande albero le cui foglie non cadono mai. Esso, a ogni tramonto, si ricopre di una nuvola, che si dilegua quando sorge il sole. Alle radici di quest’albero gli

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indigeni hanno scavato una fossa, la quale, quando viene la nuvola, si riempie d’acqua, e di questa si servono gli uomini e gli animali domestici». Il diciassette aprile, spinto dagli alisei, il galeone São Luis giunge all’equatore. Ricci, benché emozionato, lavora con i suoi strumenti di rilevazione. Scriverà più tardi nel mappamondo cinese: «Quando venni per mare dal Grande Occidente nel Regno di Mezzo, arrivato alla linea equinoziale, vidi io stesso che il polo nord e il polo sud erano tutti e due sull’orizzonte, senza la minima differenza di alto basso». Poco dopo viene incrociata una nave portoghese proveniente dal Brasile. Le due imbarcazioni si accostano e scambiano viveri e acqua; Ruggeri ne approfitta per inviare una lettera al superiore generale. Il dodici maggio si avvista la costa brasiliana, all’altezza dello Stato odierno del Espiritu Santo. Sette giorni dopo, varcato il Tropico di Capricorno, si notano in mare squali e balene, così descritti da Ruggeri: «Avvistammo nel mare alcune balene così grosse da sembrare galere e altri grandi pesci chiamati “tiberoni”, molto avidi di carne umana. Per questa ragione seguono le navi, avendo la bocca larga come una finestra. I nostri marinai ne presero alcuni con buone archibu-giate, facendo il mare vermiglio. Vidi cavare dalle fauci di uno di essi tre pesci interi di trenta libbre ciascuno, inghiottiti da poco». Con ideogrammi cinesi posti all’altezza del golfo di Guinea, Ricci trascrive nel mappamondo un singolare fenomeno di caccia marina osservato durante il viaggio: «Questo mare ha una specie di pesci capaci di volare, ma no di saltare in alto. Rasentando la superficie delle acque, essi possono percorrere fino a più di trecentocinquanta metri; ma sono soggetti a divenir preda di un altro genere di pesci, detti “albacori”. Questi corrono nell’acqua con velocità superiore a quella dei pesci volanti e sono abili nell’osservarne l’ombra; perciò i pesci vo-lanti li temono. Postisi in agguato da lontano, dopo avere osservato la direzione dell’ombra, gli albacori arrivano prima, aprono la bocca e ingoiano i pesci vo-lanti. Gli indigeni che sono sulle spiagge si servono, come di amo, di una fet-tuccia bianca, che lasciano galleggiare sulla superficie dell’acqua, fino a quando il pesce volante non vada a morderla. Cento volte su cento esso viene preso. Fritto, ha eccellente sapore». La nave, spinta da buon vento, ai primi di giugno oltrepassa il Capo di “buona speranza”, allora detto “delle tempeste” o, come si legge nel mappamondo ric-ciano, “Capo tormentoso”. Ci si arresta all’altezza di Capo Agulhas o “degli aghi”, così denominato perché, nel doppiarlo, l’ago magnetico delle bussole si sposta verso nord-est. Qui marinai e alcuni viaggiatori si dedicano alla pesca, per fornire di cibo fresco tutta la nave. L’equipaggio è sollevato per aver compiuto la parte più difficile del percorso; i viaggiatori vanno con l’animo alla sosta in terra ferma che li attende tra qualche settimana nell’isola di Mozambico. Nei tre mesi di navigazione, evento straor-dinario, non ci sono state perdite umane: un paio di volte alcuni uomini erano caduti in mare, ma la prontezza del nostromo nell’ammainare le vele aveva per-messo di ripescarli.

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Ricci aveva compiuto molte osservazioni intorno alle coste e alle nuove costella-zioni dell’emisfero sud, riportandole sulle carte. Il suo carattere positivo e affa-bile gli aveva permesso di stringere buoni rapporti con tutti e alcune amicizie tra i nobili e i mercanti diretti a Goa. Aveva conquistato in particolare la fiducia e la simpatia del timoniere, con il quale collaborava e si confrontava nella rivelazione della rotta e delle distanze. Il bravo marinaio portoghese, che ignorava tutto della scuola del Clavio, manife-stava allegramente, con generose pacche sulle spalle di Ricci, la propria meravi-glia per il giovane gesuita che sapeva usare così bene, forse meglio di lui, sestante e astrolabio, riportando sulla carta con meticolosa precisione distanze e tracciati. Nel primo pomeriggio del ventinove giugno, al largo delle coste del Natal, un forte vento da sud-est comincia a sollevare le onde. Il cielo si copre rapidamente di nubi fosche e pesanti; il nostromo fa ridurre le vele e il capitano annuncia l’ar-rivo di una tempesta imminente. Verso terra frequenti e lunghe saette illuminano il cielo divenuto quasi buio. I viaggiatori si pongono al riparo mentre i marinai sui ponti e sugli alberi si espongono ai primi scrosci di pioggia. Le vele vengono ammainate. Molti passeggeri non sopportano lo spaventoso rullio della nave e sono assaliti da vertigini e vomito. Nella cappella di bordo si intona il rosario. Dai ponti e dalle curve fiancante giunge il rumore di colpi secchi e radi, che presto divengono crepitio cupo e continuo. Per alcuni lunghissimi minuti ma-rinai e passeggeri si sentono perduti in quell’unico gorgo di mare e di cielo. La grandine dirada, ma la tempesta d’acqua che cade dal cielo continua a spazzare i ponti. Onde sempre più alte si abbattono sulla poppa e squassano i fianchi. Il buio si fa completo; il vento ha spento anche le fiaccole poste ai quattro punti della nave e quella che illumina la bussola. Il sibilo del vento e il frastuono delle onde coprono le grida disperate di marinai e passeggeri. Il timoniere è solo nella tempesta. Sotto coperta, nel lezzo nauseabondo degli escrementi umani rove-sciati sul pavimento, i missionari confessano i passeggeri. Ruggeri racconta che durante quella notte, mentre era occupato con gli altri padri nel ministero della penitenza, alcuni marinai e altre persone degne di fede avevano visto apparire il patrono dei marinai san Pietro Gonçalves e una corona di luci che aveva le sembianze della Vergine sopra l’albero di poppa, sul mez-zano e sul trinchetto. Si trattava, più verosimilmente, dei “fuochi di Sant’Elmo”, un fenomeno atmosferico dovuto all’elettricità accumulata nell’aria durante i temporali, che si manifesta sotto forma di fiammelle azzurre alle estremità degli alberi e delle funi penzolanti. Verso l’alba, gettate in mare alcune reliquie e degli Agnus Dei – blocchetti di cera con impressa l’immagine di un agnello, simbolo del Salvatore –, la tempesta comincia a placarsi, la forza del vento a diminuire, le onde ad appianarsi. Per tutto il giorno la nave continua a risalire verso nord con vele ridotte. Infine, scampato il pericolo, le bianche vele quadrate dell’albero di maestra e di trinchetto, che portano il segno della croce, tornano a tendersi al vento. Nel suo mappamondo Ricci annoterà a proposito di quel tratto di mare, memore dello spavento vissuto: «Qui vi sono tempeste in tutte le stagioni. Vi sono alligatori grossi come grandi navi». E in passaggio della sua principale opera

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teologica in lingua cinese, intitolata Vera spiegazione del Signore del Cielo, pa-ragona gli uomini del suo secolo a «coloro i quali vedono la propria nave andare distrutta in un naufragio, e si trovano nell’immenso oceano tra l’infuriare delle onde. Spinti ora sotto, ora sopra l’acqua, vengono sballotto lati sott’acqua e poi rilanciati in alto, in mezzo ai marosi, dall’infuriare del vento. Ciascuno pensa a se stesso, alla propria situazione, e nessuno ha la mente alla salvezza dei compagni: si aggrappano a qualunque cosa capiti sotto mano: tavole, vele, cime, rottami, insomma a tutto ciò che riescono ad afferrare, e vi si aggrappano spasmodica-mente, lasciandolo soltanto al momento della morte». L’undici luglio la São Luis giunge all’altezza dell’isola di San Lorenzo che oggi chiamiamo Madagascar; i passeggeri non possono tuttavia avvistarne le coste. Quattro giorni dopo, varcato di nuovo il Tropico del Capricorno, entrano nel canale di Mozambico e al tramonto del ventidue luglio il galeone si avvicina all’imboccatura del porto. Una piccola imbarcazione lo precede per guidarlo tra gli scogli dei bassi fondali; malgrado le attenzioni, per cinque volte la nave sobbalza sul fondo, senza tuttavia squarciarsi o capovolgersi, secondo alcune testimonianze; aprendosi sul fondo e imbarcando acqua, secondo altre. Dopo quattro mesi di navigazione continua, l’equipaggio può comunque gettare l’àn-cora per provvedere ai rifornimenti e alle riparazioni. Posta a circa tre chilo-metri della terraferma, alla quale oggi è unita da un ponte, l’isola di Mozambico era stata conquistata dal Portogallo quando Vasco de Gama vi era sbarcato nel 1498, viaggiando verso l’India. Era subito apparsa luogo ideale per una base fortificata. Nel 1522 era stata costruita, nel capo nord, di fronte all’oceano, la chiesa di Nossa Senhora do Baluarte, il più antico edificio europeo in Africa Australe. Qualche decennio più tardi, trasportando dal Portogallo i materiali di costruzione, era stata avviata in prossimità della chiesa la fortezza non era ancora terminata. Verso il centro dell’isola, lunga tre chilometri e mezzo e larga seicento metri, vi erano alcuni edifici che servivano alla guarnigione di soldati e all’accoglienza dei naviganti in sosta; un grande ospedale; magazzini nei quali venivano stipate le merci provenienti dall’Europa, dall’India e dal Giappone; casupole e capanne nelle quali si era iniziato a raccogliere gli schiavi negri da deportare in Oriente. Il resto dell’isola era arido, privo d’acqua e incapace di fornire qualunque genere di cibo. Bloccatovi per due anni dalla malattia e dalla povertà, infine aiutato dalla generosità di alcuni amici, fra i quali lo storico Diogo de Couto, Luis de Camões aveva potuto lasciare quell’isola per Lisbona appena nove anni prima. Mentre la São Luis ripara i danni, carica nuove scorte di viveri, acqua e merci destinate all’India e alle altre regioni d’Oriente, giunge in porto la São Gregorio, persa di vista poco dopo la partenza. Grande è la gioia dei gesuiti nel riabbrac-ciarsi. Ricci, in particolare, è ben lieto di ritrovare il suo padre Da Silva e gli amici Pasio e Acquaviva. Purtroppo, nessuna notizia della Bom Jesùs, vista l’ul-tima volta dai viaggiatori della São Gregorio tre mesi prima nei pressi dell’equa-tore. L’ultima e importante incombenza dell’equipaggio, prima della partenza da Mozambico, era il carico degli schiavi: circa quattrocento sulla São Gregorio

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e forse cinquecento sulla São Luis. Venivano raccolti sull’isola della terraferma e poi venduti nelle colonie dell’India, Malacca, Macao e Giappone. Una tratta equivalente a quella che dall’Africa riforniva di schiavi negri le colonie d’Ame-rica. Secondo una stampa dell’epoca, gli schiavi venivano accattastati orizzontal-mente nei magazzini della nave, incrociati in modo che le spalle dell’uno stessero tra le gambe divaricate dell’altro, salvaguardando in tal modo la sola necessità del respiro. Tutte le altre esigenze vitali venivano ignorate, considerando quegli esseri non più che animali. Eppure, quando erano in fin di vita – nel mese di navigazione da Mozambico a Goa ne morirono diciotto sulla São Gregorio – i gesuiti impartivano loro il battesimo e si sforzavano di convertire anche gli altri, prima che morissero. Segno evidente e imbarazzante che gli schiavi venivano co-munque considerati esseri umani dotati di anima immortale. Un modo ambiguo per riscattarne la libertà, almeno nella vita eterna. Terminando il triste carico degli schiavi, la São Luis è pronta a riprendere il mare il sedici di agosto, costeggiando l’Africa verso nord-est e avvicinandosi alle rotte battute da secoli dalla potenza musulmana. Risale le coste della Somalia senza eventi di rilievo; la notte dell’otto settembre, in direzione del golfo di Aden, ap-pare ai naviganti lo spettacolo insolito di una bianca luminosità emanante dalla superficie dell’acqua, così descritta da Ruggeri: «Di notte l’acqua del mare era tutta bianca come latte. Dicono che ciò avviene a causa dell’acqua dello stretto del mar Rosso, che sbocca in quella parte. Ma non si sa la vera causa di questo biancore». Sabato tredici settembre, col favore dei monsoni e seguita dalla São Gregorio, la São Luis giunge nel porto di Goa. Gioiosa sorpresa attende i viaggiatori delle due navi, che non avevano potuto difendersi da tristi presagi, nello scorgere alla’ancora la Bom Jesùs, giunta tre giorni prima al termine di un viaggio avven-turoso e tormentato.67

«Non hai bisogno né di ferro per essere martire, né di ir longe per essere pellegrino; dovunque ti ritrovi con i tuoi sudori di sangue dai chiaro testi-monio della nostra santa fede».68

Le sofferenze affrontate sia durante i viaggi che durante la vita quoti-diana, sono state sicuramente per padre Matteo Ricci – come possono essere per ciascuno – il momento di rivedere e aiutare anche gli altri a rivedere i contenuti della propria fede in modo essenziale, profondo. È la riappropria-zione della fede riscelta in modo adulto.69

67 f. mIGNINI, Matteo Ricci. Il chiosco delle fenici, Edizioni Il Lavoro, Ancona 2009, pp. 53-58.

68 m. rIccI, Lettera al P. Giulio Fuligatti da Nanchang, 12 ottobre 1596, in Lettere (1580-1609), Edizioni Quodlibet, Macerata 2001.

69 J. POwELL, Abbracciare la vita, Edizioni Gribaudi.

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Anche le parole del S. Padre Benedetto XVI ci aiutano ad approfondire il rapporto con la sofferenza che è inevitabile, essendo il nostro percorso di creature e di Croce/resurrezione.

Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a su-perare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – sem-plicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che «toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29) è presente nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così come appare all’esterno, il potere della colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile.70

Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.71

Si tratta allora di verificare il proprio livello di pazienza di fronte alla sof-ferenza.

La pazienza nella sofferenza può essere percepita nella persona sia come virtù, sia come fortezza e perseveranza.

Certamente l’acquisire e lo sperimentare pazienza può esporre inizial-mente a una propria impotenza.

70 BENEDETTO XVI, Spe salvi, n. 36. 71 Ibid., n. 37.

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Esercitarsi, aspettare, seguire delle tappe, tornare indietro per riprendere il passo della vita materiale e spirituale, perdonare se stessi e gli altri (= al-cuni aspetti della pazienza) sono momenti sperimentali che possono esporre alla propria impotenza.

È una tentazione dell’uomo invocare l’onnipotenza di Dio nei confronti della propria impotenza e pensare che mediante la preghiera e una vita buona si possa essere liberati dalla propria impotenza.

Uno dei paradossi cristiani è che ogni persona deve riconciliarsi con la propria impotenza.

Dio si è lasciato scacciare dal mondo sulla croce, sperimentando l’im-potenza. Se Dio, nell’incarnazione e nella morte del suo Figlio, si rivela im-potente, questo è un invito a riconciliarsi con la propria impotenza. L’im-potenza può allora diventare il luogo dell’esperienza di Dio: proprio là dove non si può più fare nulla, dove si è raggiunto il limite, dove c’è il fallimento, Dio può aprire a sé. Là non rimane altro che porgere le mani vuote a Dio e rimettersi a lui.

Nell’impotenza che la persona “sulla Croce” sperimenta di giorno in giorno traspare già l’impotenza della morte. Così l’impotenza sperimentata invita a credere nella forza di Dio, nella forza della resurrezione, nella quale la potenza di Dio si rivelerà vincitrice anche nella persona stessa.

L’attesa che l’impotenza sperimentata diventi manifestazione della po-tenza di Dio richiede il lungo percorso della pazienza. Quindi, trattandosi di un lungo e arduo percorso, si collega la pazienza alla fortezza e alla per-severanza.

11. Verso la castità, premessa “inculturata” della vita consacrata

Una linea pedagogica difficile da trasmettere in una cultura tradizionale è non tanto la vita consacrata (più comprensibile quale vita dedicata al Si-gnore del Cielo = Dio), quanto un elemento importante per la vita consa-crata, quale è la castità e l’impegno in essa per tutta la vita.

Il letterato cinese dice: «Cosa c’è dietro l’idea di una castità che duri per tutta la vita e di una regola che proibisca il matrimonio? Dovrebbe essere difficile aste-nersi completamente da ciò che è naturale per le creature viventi. L’amore per la vita è il fondamento della natura del Sovrano dall’Alto. Posso eliminare ciò che mi è stato tramandato dai miei antenati per centinaia e migliaia di generazioni?».

Il letterato occidentale dice: «È naturalmente difficile per un uomo essere casto, e quindi il Signore del Cielo non ha promulgato, nei Suoi comandamenti, che tutti gli uomini debbano seguire questa regola. Ha semplicemente istruito gli

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uomini perché scelgano da sé cosa fare. Chi vuole rimanere casto può farlo. Sebbene ciò sia difficile, può essere usato per sondare la virtù di un uomo. La difficoltà giace nell’austerità della natura della retta condotta».72

Segue il letterato occidentale: «Quando un uomo serve il suo sovrano, deve pra-ticare un fermo auto diniego; non dovrebbe, quindi, uno uomo che si pone al servizio del Sovrano dall’Alto ridurre le sue passioni?Chi si dedica alla salvezza del mondo prova una grande pietà per la situazione del mondo odierno ed ha, quindi, fatto della castità e del celibato delle regole nella mia umile Società. Limitando le nascite di bambini, accresciamo rapidamente la Via, e abbiamo come unico scopo la salvezza e l’aiuto degli uomini caduti in quest’epoca. Non è forse una finalità ancora di maggior interesse pubblico?Inoltre, gli uomini e le donne sono ugualmente responsabili della trasmissione della vita umana. Ci sono, in quest’epoca, alcune donne caste i cui uomini, a cui erano fidanzate, sono morti prima del matrimonio. Per mantenere il proprio onore, tali donne si sono astenute da un secondo fidanzamento. I confuciani lodano queste azioni e gli imperatori danno encomi pubblici.Una castità del genere, che ha come risultato il rifiuto di trasmettere la vita a generazioni successive, è solamente dovuta al desiderio di mantenersi fedeli allo sposo; e il rimanere a casa ed astenersi da ulteriori nozze ha come risultato un tributo pubblico dato a quella persona. Ma non è ingiusto che noi, pochi amici, siamo biasimati quando, a causa del nostro lavoro per il Sovrano dall’Alto, e in modo da poter adeguatamente viaggiare per il mondo, per trasformare tutti gli uomini, non abbiamo tempo per occuparci del matrimonio?».

Il letterato cinese dice: «Come può il matrimonio danneggiare chi voglia diffon-dere la Via e sollecitare le persone a condurre una buona vita?».

Il letterato occidentale dice: «Non è dannoso. È semplicemente che rimanere da soli e celibi permette una maggiore tranquillità per perfezionarsi, e rende più semplice estenderla agli altri. Mi lasci spiegare la convenienza del celibato sotto vari aspetti, in modo che sia in grado di vedere se questa pratica dei membri della mia umile società sia ben fondata o meno».73

Il letterato occidentale continua: «In primo luogo, il matrimonio serve per la pro-creazione di bambini e la costituzione di una famiglia. Se si mettono al mondo dei bambini bisogna prendersi cura di loro con amore e attenzione, e accumu-lare ricchezze per provvedere al loro sostentamento. Un padre non può astenersi dal pensare agli affari e al commercio. Poiché al giorno d’oggi ci sono molti padri

72 m. rIccI, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., nn. 526-527-528, pp. 288-289.

73 Ibid., nn. 532-534-535-536-537-538, pp. 290-291.

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e molti figli, il numero delle persone impegnate ad acquisire ricchezze è anche considerevole. Col crescere del numero delle persone che cercano di acquisire ricchezze, diviene sempre più difficile, per ciascun uomo, ottenere ciò che vuole. Se permettessi a me stesso di coinvolgermi in affari secolari, non sarei in grado di staccarmi dalle cose mondane e sarei destinato a considerarmi fortunato se riuscissi solamente a rimanere in vita. Come potrei portare avanti la mia am-bizione di incoraggiare le persone a vivere secondo una giusta condotta? La cosa più importante, nel perfezionare la virtù, è disprezzare le ricchezze e i beni materiale. Come potrei persuadere gli altri a non preoccuparsi delle ricchezze e dei beni materiali se io stesso prestassi seria attenzione e avessi una passione smodata per tali cose?74

In secondo luogo, la natura della moralità è assai profonda e misteriosa, ma la mente degli uomini procede inevitabilmente nell’oscurità. Inoltre, la rapi-dità della comprensione umana è costantemente rallentata dalla passione. Se un uomo diviene schiavo delle passioni, è come se una piccola luce fosse stata nascosta in un paralume di pelle spessa, ed egli risulta immerso in un’oscurità ancora maggiore. Come, dunque, sarà in grado di raggiungere il più sublime livello di moralità? Una persona che ha deciso di essere casta è come colui che ha pulito l’occhio della sua mente da tutta la polvere e che ha, quindi aumentato l’intensità della luce e può per questo comprendere le più sottili verità della moralità.75

In terzo luogo, le persone di questo mondo sono state grandemente deviate dalla cupidigia e dalla lussuria. L’uomo che decide fermamente di salvare il mondo con umanità deve considerare la liberazione degli uomini da queste due grandi tentazioni come il più urgente dei suoi obbiettivi. Un medico professionista uti-lizza antidoti per curare le persone dalle loro malattie; così, una medicina fredda è fornita a chi soffre di febbre, ed una medicina calda a chi è affetto da disturbi freddi; solo così la malattia può essere curata. Poiché noi proviamo disgusto per il danno causato dalla ricchezza, abbiamo scelto la povertà; e poiché te-miamo le ferite causate dalla lussuria, abbiamo deciso di rimanere da soli. Solo disciplinando noi stessi in questo modo possiamo divenire pienamente consape-voli delle ingiustizie della ricchezza e della natura dei desideri malvagi. Così, i membri della mia umile Società sacrificano la loro ricchezza ingiusta; lasciano la casa per una vita monastica, in modo da poter coltivare la Via, e rinunciano alla gioia di una legittima sessualità per persuadere le persone a non lasciarsi tentare da passioni improprie.76

74 Ibid., n. 539, p. 292.75 Ibid., n. 540, p. 292.76 Ibid., n. 541, pp. 292-293.

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In quarto luogo, una persona può possedere il talento e l’abilità del più straor-dinario tra gli uomini, ma se la sua mente non è disciplinata e manca di unicità di intenti, allora tutto quello che farà sarà privo di perfezione. L’obiettivo della conquista di sé è più difficile della conquista del mondo. Dai tempi antichi fino ad oggi, la storia ha tramandato i nomi molti sono stati vincitori su se stessi. Chiunque abbia l’ambizione di promuovere la Via in ogni luogo deve non solo ottenere il controllo su di sé, ma deve anche cercare di adottare misure difen-sive per porre un freno ai desideri egoistici di tutti gli uomini. La grandezza di una tale attività è oltre ogni misura. Anche con una totale unicità di intenti non è sicuro se si sarà in grado di giungere alla perfezione o meno, ma quanto più difficile sarà se la mente è occupata anche da oltre cose? Vuole che io serva una giovane donna attraente e metta al mondo figli?77

In quinto luogo, un esperto nell’allevamento dei cavalli che si imbatta in buoni esemplari, come dei pezzati o dei sauri, che possono viaggiare per migliaia di li in un giorno, li addestrerà con ogni cura, in modo che possano essere preparati per la prima linea di una battaglia. Temendo che possano immergersi in attività sessuali, li allontana dal branco e li priva di ogni contatto col sesso opposto. Anche la sacra religione del Signore del Cielo cerca uomini di valore che siano in grado di viaggiare fino ai più remoti angoli della terra per spiegare i principi della Via, difendendoli dalla calunnie, pacificando le opposte opinioni, sradi-cando insegnamenti eterodossi, il tutto per preservare la tradizione ortodossa della Santa Chiesa. Vuole indebolire la loro risolutezza con i piaceri della ses-sualità? E vuole astenersi dal sostenerli nei loro eroici tentativi di eliminare i cattivi costumi che derivano dalle passioni? Così, i letterati occidentali sono più preoccupati del meritarsi la Via che dal provvedersi di una progenie. Il contadino che raccoglie diecimila misure di grano fornisce una buona im-magine di quello che voglio dire. Non userà mai tutto il grano per seminarlo e piantarlo nei suoi campi. Sarà costretto a selezionarne una parte da presen-tare al sovrano come tributo; un’altra porzione la userà come semenza, in modo da mietere un raccolto per l’anno successivo. Perché tutti i milioni di uomini e donne nel mondo devono essere utilizzati per trasmettere la vita alle generazioni successive, e nessuna deve essere riservata per altri scopi?78

In sesto luogo, qualunque cosa sia comune agli uomini e agli animali non do-vrebbe essere considerata di valore troppo alto. Gli uomini lavorano per ot-tenere il cibo; cercano il cibo per soddisfare la fame; soddisfano la fame per nutrire le loro energia vitale; nutrono la loro energia vitale per resistere ai danni, e resistono ai danni per preservare le loro vite.

77 Ibid., n. 542, p. 293.78 Ibid., n. 543, p. 294.

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Tutte queste cose pertengono alla natura inferiore dell’uomo, e c’è, sotto questo rispetto, ben poca differenza tra l’uomo e gli animali. Quando si giunge al perse-guire la rettitudine, troviamo che la si persegue per analizzare le proprie motiva-zioni; si analizzano le proprie motivazioni per perfezionare se stessi; si perfeziona se stessi per estendere la propria umanità; si estende la propria umanità per ripagare il Signore del Cielo dei suoi favori. Queste sono faccende importanti nell’esistenza umana, che permettono all’uomo di armonizzarsi con la volontà del Signore del Cielo.79

In settimo luogo. Perché devo confinarmi invano in un luogo? Un medico be-nevolo non si confina in un posto, ma si muove di luogo in luogo per salvare i malati. Solo così si può dire di lui che elargisce ampiamente la sua abilità.Un uomo sposato è legato ad un posto e i suoi compiti naturali non si estendono al di là del dare ordini in famiglia o, tutt’al più, governare un Stato.80

In ottavo luogo, se due cose crescono in maniera simile, le loro nature tendono ad approssimarsi sempre di più. Gli angeli sono privi di desideri sessuali, e la natura di una persona casta si approssima a quella degli angeli perché, sebbene il suo corpo sia qui sulla terra, è simile a quelli che vivono in Cielo. Gli uomini che hanno un corpo fisico e che, ciononostante, imitano la realtà metafisica degli angeli, non possono essere considerati alla stregua di uomini volgari e letterati mediocri. Qualsiasi cosa questi puri studiosi della Via chiedano al Signore del Cielo in preghiera – sia che la richiesta riguardi la siccità, il com-portamento anormale di spiriti malvagi, o il soccorso per gli effetti del fuoco o di un’inondazione – il Signore del Cielo, probabilmente, acconsentirà ad ascoltarli; se così non fosse, come si potrebbe sostenere che l’Onore dall’Alto ami siffatte persone?Ma, sebbene abbia utilizzato questi argomenti proprio per spiegare il perché i membri della mia Società non si sposino, non li ho esposti per oppormi al ma-trimonio; prendere moglie è una cosa giusta e proprio da fare, e non può certo essere considerata come il contravvenire ai comandamenti del Signore del Cielo; né si può dire che tutti coloro che rimangono da soli abbiano un aspetto simile agli angeli. Se una persona si astiene dall’attività sessuale e non si sposa, ma, allo stesso tempo, non pone attenzione alle virtù di cui è dotato, non si sta astenendo in vano?In Cina c’è chi rifiuta un corretto comportamento sessuale e frequenta case di mal’affare; chi mette da parte qualsiasi rapporto sessuale con le donne e si di-verte con giovani fanciulli. Gli uomini superiori, in Occidente, non parlano di questi individui impuri per paura di contaminare la propria bocca. Anche gli animali conoscono solo rapporti sessuali tra maschi e femmine e sono incapaci

79 Ibid., n. 544, pp. 294-295.80 Ibid., n. 546, p. 295.

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di comportarsi così contro natura. Se a un uomo manca il senso di vergogna, a che livelli di azioni perverse arriverà! I membri della mia umile Società sono come il contadino che preserva i suoi semi e non li disperde nel suo campo. Se lei continua a sostenere che ciò non sia giusto, quanto più ingiusto sarà gettarli senza cura in un fosso?».81

Il letterato cinese dice: «È molto pertinente che un uomo non si debba sposare per il bene dello studio della Via. Quando l’Imperatore Yao si dedicò all’ob-biettivo di controllare le inondazioni, in un’epoca di disordine, iniziò un giro di ispezione in tutte le nove regioni, e fu assente da casa per otto anni! Passò da-vanti alla porta della sua casa per tre volte senza entrarvi. Ma questi sono tempi di pace, dunque, che pericolo c’è per le persone che hanno una loro casa?».

Il letterato occidentale dice: «Ahimè! Lei sbaglia nel dire che viviamo in tempo di pace. Gli uomini saggi credono che i disastri dei giorni odierni siano mag-giori dei disastri naturali dei tempi dell’Imperatore Yao! Il genere umano è sia cieco che sordo. Non è forse la perdita della vista la ferita maggiore? La sfortuna dei tempi andati derivava dall’esterno; le persone avevano facilità di vederla, ed erano in grado di prendere precauzioni rapidamente in modo che fosse danneg-giata solo la loro proprietà e la loro pelle. Le calamità attuali, invece, emergono repentine dall’interno dell’uomo. Quando gli uomini saggi se ne rendono conto, trovano difficile evitarle; quanto più sarà vero per gli uomini? Così, non c’è nulla di più serio del danno causato da queste calamità. Più spaventose che le tem-peste e i mostri, non colpiscono le persone esteriormente, ma invadono il loro essere interiore».82

Sulla linea di quanto padre Matteo Ricci dice sulla castità, si può cogliere non solo la dimensione dell’“armonizzare con il Signore del Cielo” attra-verso la castità, ma anche la dimensione del “bene comune”, a cui porta la castità stessa.

Si inserisce così il concetto di “bene comune”, concetto tanto presente nella Lettera enciclica Caritas in Veritate del 29 giugno 2009,83 a cui tutti siamo invitati a riflettere, specialmente nell’oggi, che rischia di condurci ad un certo individualismo, pure nelle nostre scelte di vita consacrata.

Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Ac-canto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il

81 Ibid., nn. 548-549-550, pp. 296-297.82 Ibid., nn. 563-564, pp. 302-303.83 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, n. 7.

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bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale.84

Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente con-seguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, ci-vilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’inci-denza nella pólis. È questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza supe-riore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s’inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno. L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contri-buisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni,85 così da dare forma di unità e di pace alla città dell’uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.86

84 Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 26.

85 Cfr. GIOVANNI XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963): «AAS» 55 (1963), pp. 268-270.

86 BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, n. 7.

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12. L’amicizia universale, essere fratelli nella diversità e nell’unico Signore del Cielo

Padre Matteo Ricci scrisse molto sul tema dell’amicizia, che egli visse secondo la modalità della realtà cinese.

Il fine dell’amicizia è la soddisfazione dei bisogni e il mutuo aiuto (spirituale e materiale), ossia la costruzione della società (3,53).Infatti il singolo uomo non può compiere da solo ogni cosa: il precetto dell’ami-cizia, inteso come vincolo naturale e divino, salvaguarda la stessa esistenza del genere umano (16,65). È vera e utile soltanto l’amicizia che produce buoni effetti (23); nessuna impresa umana, benché negativa, può essere compiuta senza il soccorso di amicizie (45,51,56). Uomini di grande virtù o ebbero amici che li aiutarono o grandi nemici che li costrinsero a difendersi, sviluppando così la loro forza (6); perciò si può dire che l’amicizia sia più utile al mondo che la stessa ricchezza (37). Uno stato può sussistere anche senza tesoro, ma non potrebbe sussistere senza amici (77,93); sicché si può concludere che l’amicizia è per il mondo ciò che il sole è per il cielo e gli occhi sono per il corpo (79). L’amico che non produce in noi nessun bene, specialmente morale, è un “ladro di tempo” (69) e dove non vi è reciproca corrispondenza, non v’è amicizia (73). La forza con la quale gli amici si fanno del bene è minore di quella con la quale i nemici si odiano: ciò dimostra che il mondo è più incline al male che al bene (12).87

Il fondamento della vera amicizia è la virtù. Per virtù si deve intendere l’obbe-dienza alla ragione e l’amore per la giustizia. La nobiltà dell’amicizia dipende dall’esclusivo fondamento di essa sulla virtù; ma sono pochi quelli che vi rie-scono (30). Per poter stringere amicizia con altri, è necessario essere prima amici di se stessi (86); ma questo è possibile soltanto seguendo ragione e giustizia.Se il piacere prevale sulla virtù, l’amicizia è poca duratura (32): soltanto la solida virtù è garanzia di una durevole amicizia (90,62,63) e di gioia autentica (54). Le esigenze della giustizia devono prevalere su quelle della stessa amicizia, quando entrino in conflitto con questa (31,96,52). Il numero degli amici è anche sintomo della virtù di un uomo (61) e l’amico saggio è fonte perenne di stimolo al compimento del bene (68); al contrario, chi fa amicizia con i cattivi finirà per macchiarsi anche lui (67). La forza della virtù è tale da imporsi anche da sola, senza gesti o parole, in chi abbia animo ben disposto: questa dottrina dell’amicizia tra uomini virtuosi è indispensabile per la crescita della virtù e della socialità umana (70). Se la virtù

87 m. rIccI, Dell’amicizia, Edizioni Quodlibet, Macerata 2005, p. 21.

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è il fondamento dell’amicizia, il suo accrescimento ne è il risultato più autentico e proprio.88

L’amicizia è una delle cinque relazioni sociali naturali. Tre di queste si compiono nell’ambito della famiglia e riguardano i rapporti tra padre e figlio, marito e mo-glie, fratello maggiore e fratello minore; una si istituisce nell’ambito sociale ed è la relazione tra sovrano e sudditi; infine vi è l’amicizia, che riguarda i rapporti tra gli uomini come tali, considerati non estranei ma amici potenziali. Alcuni autori ammettono espressamente che, senza l’amicizia, le altre quattro relazioni sarebbero destinate a scomparire.A questo riguardo, nella prefazione al Trattato sull’amicizia di Martino Martini, Zhang Anmao osserva: «Solo l’amicizia può completare il sistema delle relazioni tra signore e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie e tra fratello maggiore e quello minore. Con essa le quattro relazioni sociali diventano perfette; senza di essa le quattro relazioni sociali restano incomplete. Perciò le cinque relazioni so-ciali hanno l’amicizia come le stelle hanno la latitudine e la longitudine o la ma-teria grezza ha il colore o il disegno. Grazie ad essa la fama si acquista, le imprese si compiono. Non è dunque molto importante ciò che ad essa si riferisce?».89

Xitai,90 dopo aver fatto un difficile viaggio di 80.000 li91 verso Oriente, è venuto in Cina per farsi degli amici. Quanto più profonda è la conoscenza che egli ha della dottrina dell’amicizia, tanto più sente il bisogno di cercare [amici] e tanto più tenace è nel conservarli.92

L’amicizia non consiste soltanto in una mutua allegra intesa superficiale e in un reciproco dare e ricevere. Un mutuo confrontarsi, un mutuo aiutarsi, un mutuo correggersi, un mutuo perfezionarsi, la cui base è armonia di differenze individuali e il cui ultimo fine è di non separarsi mai.93

L’amicizia e l’inimicizia sono come la musica e il frastuono, che si distinguono a seconda che ci sia o non ci sia armonia; infatti l’essenza dell’amicizia è l’armonia. Con la concordia le cose piccole crescono, con la discordia le cose grandi crol-lano.

88 Ibid., p. 22.89 Ibid., p. 25.90 “Xitai” vuole dire: Maestro del grande Occidente.91 “Li” è una misura di distanza, con valore variabile nel corso dei secoli, corrispondente

circa a 500 metri.92 m. rIccI, Dell’amicizia,cit., p. 53. 93 Ibid., p. 55.

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La musica conduce alla concordia, mentre il frastuono conduce alla discordia. L’accordo degli amici è come la musica; il disaccordo dei nemici è come il fra-stuono.94

Il singolo uomo non può compiere ogni cosa; perciò il Signore del Cielo ha comandato agli uomini l’amicizia, affinché si prestassero reciproco aiuto. Se si togliesse dal mondo questo precetto, il genere umano sicuramente si disperde-rebbe.95

L’amico è la ricchezza del povero, la forza del debole, la medicina del malato.96

Se non puoi essere amico di te stesso, come potrai essere amico degli altri?97

La virtù duratura è ottimo alimento per un’eterna amicizia. Tutto, senza ecce-zione, alla lunga diventa noioso per gli uomini; solo la virtù, quanto più dura, tanto più commuove i sentimenti degli uomini. Se la virtù è amabile perfino nel nemico, quanto lo sarà nell’amico?98

Il re Alessandro, sperando di contrarre amicizia anche con un saggio di nome Focione, gli mandò prima qualcuno, offrendo molte decine di migliaia di mo-nete d’oro. Ma Focione, adiratosi, gli disse: «Facendomi questo regalo, il re chi crede che io sia?». Il messo rispose: «Il re sa che voi, letterato, siete uomo in-corruttibile. Questa non è che un’offerta». E l’altro: «Allora lasciatemi essere incorruttibile!». E non volle accettare nulla. Lo storico conclude dicendo: «Il re voleva comprare l’amicizia del letterato, ma il letterato non la vendette».Quando il re Alessandro non era ancora salito sul trono, non aveva un erario nazionale e distribuiva generosamente agli altri tutte le ricchezze che acquisiva. Il re di un Paese nemico, molto ricco e che non si occupava che di rimpinguare il suo tesoro, beffandosi di lui gli disse: «Dov’è il tesoro di Vostra Maestà?». Egli rispose: «Nel cuore degli amici!».99

Megapito, famoso letterato dell’antichità, tagliò una grande melagrana. Qual-cuno gli domandò: «Di che cosa vorreste avere, voi letterato, tanti quanti sono questi chicchi?». Egli rispose: «Di amici fedeli».100

94 Ibid., n. 10, p. 67.95 Ibid., n. 16, p. 69.96 Ibid., n. 76, p. 89.97 Ibid., n. 86, p. 91.98 Ibid., n. 90, p. 91.99 Ibid., nn. 92-93, p. 93.100 Ibid., n. 100, p. 97.

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Amico et inimico è como harmonia e contenzione a ciarlare: ambe due le cose differiscono per la concordia o disconcordantia. Perciò la concordia è la prin-cipal cosa che tiene l’amicitia. Con la concordia le cose piccole crescono, con la discordia le grandi si disfanno.

L’armonia è fatta per fare consonantia; il cicalare si chiama dove non è conso-nantia di voci. Gli amici, quando sono concordi, sono simili alla armonia; gli inimici non concordano e per questo sono simili al tumulto.101

Il gesuita maceratese, oltre a scrivere sull’amicizia, visse intensamente le relazioni sociali e le curò con assiduità e con grande impegno, secondo i rigoroso rituale cinese, fino a mettere in gioco la sua stessa salute. Scrive ancora al fratello: «Di tutte le parti ho molti amici, tanto che non mi lasciano vivere, e tutto il giorno sto nelle sale rispondendo a vari quesiti».

Il rituale prevedeva che, dopo avere ricevuto una visita, con tanto di scambio di doni, nel giro di qualche giorno la si ricambiasse recandosi nella casa del visitatore.

Spesso nelle sue lettere ricorda l’importanza di queste relazioni, anche se comportavano una notevole fatica dal punto di vista fisico.102

Dal punto di vista pedagogico, l’amicizia come esperienza di vita è una conquista e il risultato di un processo evolutivo. Il bambino cerca nell’amicizia un compagno di gioco; il preadolescente uno specchio con cui conoscersi e confrontarsi; l’adolescente cerca una persona con cui condividere e dialo-gare; l’adulto un buon compagno di viaggio nella vita.

Certamente, come con altri termini sottolinea anche padre Matteo Ricci, è necessario differenziare l’amicizia dall’amore. Per amore si intende un le-game che unisce due esseri in una relazione profonda, che coinvolge non soltanto i sentimenti ma anche il corpo. L’amore ha come componente fon-damentale un legame fisico, le cui manifestazioni sono diverse dalle mani-festazioni dell’amicizia. Certamente anche l’amicizia ha bisogno di gesti per manifestarsi in maniera umana, ma questo non significa che possiamo giusti-ficare qualsiasi manifestazione affettiva profonda.

Il primo aspetto che caratterizza l’amicizia è il sentimento di parità che coinvolge gli amici tra loro. Nella vera amicizia non ci sono “gerarchie”

101 Ibid., n. 11, p. 111.102 s. E. mONs. c. GIULIODOrI, Vescovo di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia

e Presidente della Commissione Episcopale per la Cultura e per le Comunicazioni Sociali, Da Macerata a Pechino per servire il Signore del Cielo, in Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci (1552 – 1610) fra Roma e Pechino, cit., p. 30.

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come invece ne esistono nell’ambito delle relazioni familiari. La famiglia, infatti, ha una struttura gerarchica che deriva dal fatto che i genitori per esercitare il loro ruolo devono essere adulti e più preparati alla vita di quanto non lo siano i figli e che la loro funzione di genitori è gerarchizzata fintanto che i figli hanno bisogno del loro aiuto. Nelle amicizie non c’è vera e propria gerarchia, poiché non esiste una funzione “specifica” tale da richiedere la di-stinzione tra chi “dona” e chi “riceve”, ma i vari soggetti sono contempora-neamente “donanti e riceventi” ed è difficile stabilire quali siano i compiti di ciascuno. Se ci fosse qualche forma di gerarchia questa avrebbe un carattere prevalentemente “funzionale” non di “dominanza/sottomissione” e può mutare con il mutare dei ruoli richiesti dalla situazione in atto. L’amicizia è paritaria tanto che quando un genitore vuole farsi apprezzare per le sue ca-pacità di apertura verso i figli non ha altra espressione che questa: “io e i miei figli siamo amici”, indicando così di aver abolito le distanze gerarchiche.

Altra caratteristica dell’amicizia è il disinteresse. In realtà, nessuna rela-zione umana è totalmente disinteressata: ogni legame affettivo è di per sé interessato, poiché provoca soddisfazione ad entrambe le persone amiche e stabilisce uno scambio di “beni”, di sentimenti e di comportamenti orientati verso un fine.

Nell’amicizia con il termine “disinteressato” si intende, allora, un atteg-giamento “non egocentrico”. Parlare di disinteresse nell’amicizia vuol dire indicare il superamento degli interessi narcisistici e il raggiungimento di una considerazione affettiva, profonda, del valore dell’altro, ponendolo sullo stesso livello di importanza di se stessi.

A che serve l’amicizia anche nella vita consacrata? C’è chi dice che non è necessario avere amici; altri si accontentano di amicizie superficiali, tran-sitorie e non sentono il bisogno di approfondire i legami al di fuori di quelli familiari; altri, invece, sentono profondamente il bisogno di avere degli amici. L’amicizia ha avuto sempre un gran peso nelle relazioni interperso-nali e da sempre appare come una “costante” del comportamento umano. Essa permette di esprimere e di potenziare il bisogno di parità che è molto forte in ognuno di noi, e che difficilmente possiamo realizzare nelle strutture familiari, Comunitarie, sociali, professionali, religiose, culturali e ricreative, per il fatto che l’umanità è afflitta dal persistente confronto, dal bisogno di prestigio, dalla subordinazione, dallo sfruttamento e dall’autoritarismo.

L’esperienza dell’amicizia soddisfa pienamente il bisogno di parità e apre ognuno di noi ad una maggior comprensione reciproca, ad una possibilità di collaborazione priva di competizioni. Questa esperienza di parità non si può configurare nei suoi risultati concreti, in quanto si tratta di una real- tà puramente psicologica, interiore, profonda, difficilmente esprimibile e misurabile. Tuttavia sappiamo quanta importanza abbia per la vita di una persona l’avere sperimentato in forma autentica e duratura il sentimento di

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parità con i propri simili. Forse non occorre avere molti amici dal momento che l’amicizia è un’esperienza più qualificativa che quantitativa.103

Attraverso questa linea nell’amicizia si giunge alla com-passione fraterna.Ci si potrebbe chiedere se la com-passione sia umanamente possibile, se

non vada in senso contrario rispetto alla nostra esistenza basata sulla compe-tizione. La com-passione, in senso pieno, è una dote di Dio.

Per interpretare bene l’atteggiamento di com-passione (usando il termine tratto dalla fenomenologia – cfr. Edith Stein – e poi ripreso dalla scuola psicologica di Rogers, in cui si parla di “empatia”), si può dire che l’atteggia-mento di “com-passione” non è né la simpatia e neppure una sorta di amore generico: è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, rimanendo se stessi. È così la capacità di vivere quello che l’altro sta vivendo, senza però identi-ficarsi con lui, perché altrimenti, se ci si identifica totalmente con l’altro, si perde il valore di aiuto e di sostegno.

Questa “com-passione” rende particolarmente attenti a quello che l’altro vive, sente, alle sue vibrazioni interiori. Fa quasi sorgere un “terzo orec-chio”, cioè quello che permette di ascoltare quello che l’altro non dice. Spesso quello che l’altro non dice è più importante di quello che dice.

E allora un atteggiamento di “com-passione”, di reale condivisione, per-mette di entrare nella vita dell’altro prima ancora che questi abbia parlato; ed egli l’avverte subito.

La capacità di com-passione è strettamente legata alla maturità affettiva perché è libertà dalle proprie esigenze e dai propri bisogni e quindi permette di aprirsi e di accogliere la persona e la sua realtà intima senza perturbazioni.

Mettersi nell’ottica dell’altro non significa confondersi con l’altro per-dendosi nel suo modo di percepire ma significa comprendere la sua sogget-tività ed essergli accanto nel suo modo di percepire che può essere diverso dal nostro. È comprendere ed accogliere il mondo interiore dell’altro senza rinunciare al proprio, nella consapevolezza della diversità.

In fondo questo è entrare nell’ottica dei valori, non solo dal punto di vista intellettuale, ma esistenziale e cogliere l’esistenza dell’altro come unica e irripetibile davanti a Dio e agli uomini.

L’atteggiamento comprensivo accetta e ama la persona come diversa da sé e, oltre che dalla libertà, è animato dalla sincerità e dalla fiducia che, tra-smesse, aiutano le persone a crescere nella fiducia in se stesse e nelle proprie possibilità.

103 Cfr. G. BrONDINO – m. mArAscA, La vita affettiva nei Consacrati, Edizioni Esperienze, Fossano.

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Concludendo, con interesse e consapevolezza, il percorso delle 12 linee pedagogiche qui indicate, si augura a ciascuno non solo di viverle e trovare ulteriori percorsi validi, ma anche di cercare, come ha fatto padre Matteo Ricci, i desideri che su ciascuno di noi ha il Signore del Cielo, per realizzarli pienamente.

Ciò, nella necessaria dinamica di Croce e di resurrezione.

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L’AZIONE SOCIO-PEDAGOGICA DEL SANTO CURATO D’ARS ALLA LUCE DELLA CROCE

Paola Barenco*

Premessa

Può essere la vita di un buon cristiano altra cosa che quella di un uomo attaccato alla croce con Gesù Cristo? Se qualcuno vi dicesse: «Vorrei volentieri diventar ricco, cosa devo fare?», gli rispondereste: «Bisogna lavorare». Ebbene!, per an-dare in cielo, bisogna soffrire. Non bisogna mai guardare da dove vengono le croci: vengono da Dio. È sempre Dio che ci dà questo mezzo per provargli il nostro amore. Nella via della croce, soltanto il primo passo costa. La paura delle croci è la nostra grande croce. Ci sono due modi di soffrire: soffrire amando e soffrire senza amare. I santi soffrivano tutti con pazienza, gioia e perseveranza, perché amavano. Noi soffriamo con rabbia, dispetto e noia, perché non amiamo. Se amassimo Dio, saremmo felici di poter soffrire per amore di Colui che ha ac-cettato di soffrire per noi. Voi dite che è duro? No, è dolce, è consolante, è soave: è la felicità… Soltanto, bisogna amare quando si soffre, e soffrire amando. Colui che va incontro alla croce, cammina in senso inverso alle croci: egli le incontra forse, ma è contento di incontrarle: le ama, le porta con coraggio. Lo uniscono a Nostro Signore. Lo purificano. Lo distaccano da questo mondo. Tolgono gli ostacoli dal suo cuore e lo aiutano ad attraversare la vita come un ponte aiuta a passare l’acqua… La croce è la lampada che illumina il cielo e la terra. Bisogna chiedere l’amore per le croci: allora diventano dolci. Ne ho fatto l’esperienza: durante quattro o cinque anni sono stato calunniato, contraddetto molto, scom-pigliato assai. Oh, ne avevo delle croci… ne avevo quasi più di quello che ne potevo portare! Mi son messo a chiedere l’amore per le croci… allora sono stato felice. Lo dico sul serio: non c’è felicità che là… La croce! La croce! Fa perdere la pace? È lei che dà la pace al mondo; è lei che deve portarla nel nostro cuore. Tutte le nostre miserie provengono dal fatto che non l’amiamo. È la paura delle croci che aumenta le croci. Una croce portata semplicemente e senza questi ri-torni dell’amor proprio che esagerano i dolori, non è più una croce, una soffe-renza. La croce è un dono che il buon Dio fa ai suoi amici. Ciò che fa sì che non amiamo Dio è che non siamo arrivati a quel grado in cui tutto quello che costa ci fa piacere…1

* Paola Barenco, PORA, pedagogista.1 G.M. VIANNEy, Importunate il buon Dio. Pensieri e discorsi del Curato d’Ars, Città

Nuova, 2009, pp. 63-66.

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L’azione socio-pedagogica del santo Curato d’Ars alla luce della Croce occorre vederla nel contesto del suo essere e sentirsi profondamente sacer-dote e, quindi, strumento nelle mani di Gesù, Buon Pastore. Certamente le sue grandi opere, se da un lato hanno un riscontro nel cambiamento della sua Parrocchia e in iniziative assistenziali significative, esse hanno un riscontro ancora maggiore nel lavoro e nel servizio a contatto col cuore e le coscienze soprattutto dei penitenti.

Un aspetto interessante che delinea in parte il santo Curato fu la tenacia nel suo impegno, nell’inizio senza vederne i frutti ed in seguito nel lavoro este-nuante fino ai limiti della resistenza fisica. Quindi all’inizio vediamo la grande capacità di solitudine anche nel sostenere le incomprensioni e i fallimenti.

E del resto questa è una caratteristica di chi è chiamato a dedicarsi al ser-vizio del prossimo alla luce dei valori evangelici e soprattutto in una dimen-sione nascosta che è quella della formazione delle coscienze e del ministero della consolazione e del perdono.

Lui stesso sapeva e aveva fatto l’esperienza di cosa significhi essere per-donato.

La persona che non vive questa esperienza non è capace di perdonare ed è rigida nel rapporto col “male” dell’altro, non è capace di compassione, è più propensa al giudicare.

Vediamo, quindi, alcuni aspetti del servizio del santo Curato d’Ars che possiamo cogliere anche dalla prospettiva più pedagogica.

1. Il Curato d’Ars e la stima di sé a partire dalla consapevolezza della propria chiamata

Non cercate di piacere a tutti, non cercate di piacere ad alcuni. Cercate di piacere a Dio!

(San Giovanni Maria Vianney)

In questo anno sacerdotale siamo venuti a contatto in modo particolare con questa figura sacerdotale del santo Curato d’Ars conoscendone mag-giormente la storia e il messaggio.

Abbiamo incontrato anche le sue vicende umane e tutta la fatica nello svolgimento del suo ministero in cui credeva profondamente. Normalmente, in un linguaggio psico-pedagogico affermiamo che non è efficace identifi-carci totalmente col proprio ruolo, che, nel corso del tempo può cambiare e quindi destabilizzare la persona nella percezione di sé e, quindi, anche nella sicurezza di sé.

Il ruolo quindi è importante nel definire la persona, ma non essenziale. È importante in quanto il ruolo può contribuire a valorizzare le potenzialità

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della persona, è una modalità in cui la persona creativamente tira fuori i suoi doni e nel contempo può anche diventare frustrante per qualcuno sentirsi definito troppo dal ruolo e dal servizio da svolgere, quasi che la propria per-sona possa essere chiusa lì.

Per il santo Curato d’Ars non è proprio così. Per lui il ruolo e la missione si identificano perché in Cristo identità e missione coincidono, come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacer-dotale.

La vicenda di san Giovanni Maria Vianney ci dimostra quanto, in alcune si-tuazioni, il ruolo sia essenziale, e, in un certo senso, costituisca l’identità stessa della persona che trova forza nei valori che sono insiti nel ruolo. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dob-biamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente la-voro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parroc-chiale: «Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui», si legge nella prima biografia.2

Il santo Curato d’Ars credeva profondamente nella propria missione come una chiamata dall’alto a cui non poteva sfuggire e in cui si appoggiava quanto maggiormente sentiva la propria inadeguatezza e incapacità nel so-stenere ciò che il suo ministero gli proponeva.

Quante volte ha sentito la tentazione della fuga, che poi in qualche mo-mento ha anche tentato, senza riuscirvi!

La consapevolezza dell’essere chiamato per quelle persone lo portava a “stare” e a svolgere quanto era chiamato nella profonda consapevolezza di essere a servizio.

2 BENEDETTO XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale in occasione del 150° anniversario del “Dies natalis” di Giovanni Maria Vianney.

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E, in fondo, anche posizioni talvolta forti da lui prese nei confronti dell’agire morale in alcune manifestazioni sociali dei parrocchiani, non era altro che l’espressione del grande amore e della fedeltà a quella che sapeva essere la sua chiamata: portare a salvezza i suoi parrocchiani.

Egli credeva profondamente nella forza del suo sacerdozio, in una fede profonda nella trasformazione che esso operava in lui. Certamente i valori erano talmente incarnati ed interiorizzati che veramente diventavano forza e motivazioni che attraevano e spingevano tutte le sue azioni.

Quindi, quella che in situazioni di immaturità umana potremmo defi-nire come “onnipotenza”, ossia la percezione di sé come capace di salvare il mondo e gli altri, nel santo Curato era invece la profonda convinzione della propria incapacità e la consapevolezza della propria chiamata a spingerlo ad affrontare, a vivere in pieno il proprio ministero nella sua complessità.

La storia ci dice che egli era, praticamente, trascinato dal suo ministero tanto da avere un “orologio” umanamente impossibile da seguire tanto era un susseguirsi di momenti di preghiera e di apostolato, soprattutto del Con-fessionale, lasciando pochissimo alle esigenze primarie della sua persona, come il cibo e il sonno.

Ecco, quindi la stima di sé del santo Curato: credere profondamente nella propria vocazione e nel mandato ricevuto da Dio di essere e fare il sa-cerdote per gli altri, di essere un servo che doveva mettersi completamente a disposizione dei fratelli e delle chiamate quotidiane che riceveva, soprattutto nel dare il perdono di Dio ai fratelli.3

3 A. BALLEsTrErO, Il ministero totalizza la nostra vita, in Il cuore del curato d’Ars. Linee di spiritualità sacerdotale, Elledici, pp. 20-22.

La ministerialità del prete è quindi proprio per sua natura non relegabile alle cose esterne, ma attraverso di esse deve arrivare a mutare, a trasformare, a trasfigurare la vita del prete quella del popolo di Dio. Credo che possiamo ispirarci ancora una volta al santo che ci siamo proposti a modello per questi giorni, il Curato d’Ars. Era un prete, ha faticato mezza vita per diventarlo, con una tenacia, una fedeltà e una crocifiggente esperienza della sua pochezza, della sua insufficienza, della sua miseria e della sua poca dovizia di mezzi umani. Era un prete, era stato folgorato da Cristo, si era abbandonato a lui, aveva capito che lui lo voleva ministro a servizio e ci si era buttato dentro. Fatto prete, per il Curato d’Ars vivere era eser-citare il ministero. La sua stessa povertà umana lo spingeva a questo: non aveva altro da fare che essere prete. Noi, a volte, crediamo di avere diritto ai nostri hobbies e in questi mettiamo non solo il tempo, ma la mente e lo spirito, alle volte il cuore. Ma a totalizzare questa identità – «Io sono sempre e solo un prete, sono sempre e solo un ministro e il ministero è ciò che mi identifica» – facciamo fatica. Il Curato d’Ars no, l’ha preso sul serio il ministero e avremo modo di considerare questo prendere sul serio il ministero soprattutto sotto un punto di vista che per me è il più significativo e prezioso: il ministero è diventato davvero il cammino della sua santità. Non abbiamo programmi di vita del Curato d’Ars, ma la decisione di abbando-narsi alle esigenze pastorali era il suo programma, era la sua logica estremamente semplice

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Da qui emerge anche l’autentica umiltà che viene, appunto, dalla consi-derazione dei propri limiti ed anche delle risorse che si hanno. Lui, nella sua povertà era capace di riconoscere i doni di Dio pur nella coscienza, talvolta esagerata, della propria incapacità.

Se, in una misura solamente umana, la percezione della propria incapa-cità può schiacciare e portare all’angoscia ed alla disperazione così come ad uno stato depressivo, l’interiorizzazione dei valori e l’unione con Dio può essere veramente riconosciuta come la forza dell’apostolato e della propria consistenza personale.

L’umiltà è come una bilancia: più ci si abbassa da una parte, più ci si innalza dall’altra.Una persona orgogliosa crede che tutto ciò che fa sia fatto bene; vuole dominare su tutti quelli che hanno a che fare con lei; ha sempre ragione; crede sempre che le sue opinioni siano migliori di quelle degli altri… Non è così!… Se si domanda ad una persona umile ed istruita di esprimere il suo parere, questa lo dice con semplicità, dopodiché lascia parlare gli altri. Sia che abbiano ragione, sia che abbiano torto, non dice più nulla.San Luigi Gonzaga, quand’era scolaro, non cercava mai di scusarsi se gli veniva rivolto qualche rimprovero; diceva ciò che pensava e non si preoccupava più di quello che pensavano gli altri. Se aveva torto, aveva torto; se aveva ragione, diceva a se stesso: «Altre volte, però, ho avuto proprio torto».4

ed estremamente unificante, ma anche implacabile. Non esistevano altre ragioni per vivere, non esistevano altri criteri per scegliere che cosa fare, non esistevano altre ispirazioni per fare progetti e programmi: era alla mercè del ministero nell’atteggiamento non di chi è padrone, ma di chi è servo. Questa dimensione totalizzante prendeva il suo tempo e i suoi interessi, era un atteggiamento inesorabile, implacabile. Pensiamo alle dimensioni del suo confessare. Un uomo che sta in confessionale dalle quindici alle diciassette ore al giorno. Roba da impazzire. Non diceva mai di no, quando c’era da esercitare il ministero sacerdotale si sentiva impe-gnato. Io credo che il modo in cui il santo prete ha inteso il ministero lasciandosi divorare da esso, ha un qualche cosa non solo di straordinario per l’eroismo della virtù che suppone, ma forse anche qualcosa di intemperante. Quella del Curato d’Ars era una psicologia esposta ad estremismi opposti e ad insicurezze risorgenti, ma l’identificazione nel ministero era la sua forza, la sua sicurezza. Non aveva da scegliere, era scelto. Non aveva da prendere decisioni, il suo ministero le decisioni gliele presentava ed erano le sue responsabilità pastorali, quelle consuete, quelle che di solito rendono noiosa la vita del prete: sempre messa, sempre vespri, sempre sacramenti, sempre catechismo e così via. E poi, tutte le emergenze che, con il pro-gredire della sua vita, sono diventate davvero preoccupanti per lui e intorno a lui. Ebbene, io credo che sia necessario che ci riflettiamo su.

4 Cfr. http://www.fidesvita.org/index.php/alcune-omelie-del-curato-dars.

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Nella vita e nell’esperienza del santo Curato umiltà, obbedienza e ser-vizio vanno di pari passo.

In lui il servizio era spinto da un profondo senso di realtà e, quindi, dal sentirsi chiamato da Dio nella realtà.

Nella vita cristiana l’obbedienza è strettamente legata con la dimensione affettiva. Nell’obbedienza, affetto, volontà, libertà, emozione, convergono nella scelta prioritaria del valore.

In questo contesto è necessaria un’affettività libera, capace di riconoscere e gestire i propri bisogni di possesso e di ripiegamento su di sé, capace, quindi, di scegliere il valore al di là dei condizionamenti che si possono av-vertire tanto dall’esterno come dall’interno.

L’obbedienza matura è obbedienza gratuita, che porta la persona a farsi obbediente per il “bene” del valore in se stesso, per amore del valore e non per il timore delle conseguenze che possono derivare da una disob-bedienza.

Non è così facile questo discernimento così come occorre accettare che le motivazioni che portano all’obbedienza siano, di fatto, un po’ mescolate, in cui motivazioni autentiche ed inautentiche si trovano a convivere. Questa accettazione, naturalmente, non può essere passiva, quanto, piuttosto ani-mata da un continuo lavoro di discernimento affinché le motivazioni pos-sano essere sempre più libere e autentiche.

L’obbedienza per amore del valore, certamente, è un’obbedienza più forte perché è radicata sui valori alti, che rimangono. Anche se, in fondo, nella tradizione dei Padri, è riconosciuto un certo valore, relativo, all’ob-bedienza condizionata dal timore, essa viene intesa non come punto di ar-rivo ma come una tappa, un passaggio verso una obbedienza che è mossa dall’amore.

2. Compatire la propria e l’altrui debolezza

San Giovanni Maria Vianney era profondamente convinto della propria debolezza e della propria fragilità. Era consapevole della grande fatica che aveva fatto per diventare sacerdote e dei suoi limiti, anche intellettuali. Era anche convinto che il Signore lo aveva scelto nella sua debolezza e nei propri limiti personali, per essere strumento nelle sue mani.

Per questo vissuto così interiorizzato e consapevole aveva grande co-scienza dell’Amore di Dio nei suoi confronti e quindi sapeva cosa signifi-casse misericordia e compassione.

È interessante sottolineare come diverso fosse il suo atteggiamento nei confronti dei diversi penitenti: oggi la chiameremmo pedagogia personaliz-zata, formazione individualizzata.

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Era capace di distinguere chi non ce la faceva da chi era indolente, da chi credeva che mai sarebbe riuscito a cambiare, da chi pensava che tanto sarebbe ricaduto.

Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: «Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che pecche-rete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!». A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: «Piango perché voi non piangete», diceva. «Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a com-portarsi così davanti a un Padre così buono!». Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vi-vere uniti a Dio e alla sua presenza: «Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!». E insegnava loro a pregare: «Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami».5

L’autentica misericordia e compassione nasce dalla consapevolezza di aver ricevuto il dono della misericordia.

La maturità umana e nella fede si sviluppa nella coscienza del “non tutto dovuto”, ma nella consapevolezza dell’aver ricevuto. In questo contesto l’aver ricevuto e l’aver bisogno sono vissuti dalla persona non tanto come una diminuzione della propria dignità, quanto piuttosto come il riconoscere di essere destinatari dell’amore e della misericordia di Dio.

La dimensione dello stupore appartiene, quindi alla persona matura che, superato lo stupore bambino, attraverso le tappe naturali dell’egocentrismo, acquisisce un nuovo stupore che esprime una semplicità e umiltà conquistati attraverso un lavoro su di sé e su un continuo auto-trascendersi per aprirsi a Dio e al mondo dei valori soprannaturali.

5 BENEDETTO XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale, cit.

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La nostra debolezza La tentazione ci è necessaria per farci capire che non siamo niente da noi stessi. Sant’Agostino ci dice che dobbiamo ringraziare il buon Dio tanto dei peccati dai quali ci ha preservati, quanto di quelli che ha avuto la bontà di perdonarci. Se abbiamo la disgrazia di cadere tanto spesso nei tranelli del demonio, è perché contiamo troppo sulle nostre risoluzioni e le nostre promesse, e non abbastanza sul buon Dio. È proprio così. Quando niente ci affligge, quando tutto va se-condo i nostri desideri, osiamo credere che niente ci potrà far crollare. Dimen-tichiamo il nostro nulla e la nostra povera debolezza. Diamo le più belle assicu-razioni che siamo pronti a morire piuttosto che lasciarci vincere. Ne vediamo un bell’esempio in san Pietro, che diceva al buon Dio: «Anche se tutti gli altri ti rinnegassero, quanto a me, non lo farò mai». Ahimè! Il buon Dio, per fargli vedere quanto l’uomo lasciato a se stesso vale poca cosa, non si servì di re, ma della sola voce di una serva, che sembrava per di più parlargli in modo assai indifferente. Prima, era pronto a morire per lui e adesso assicura che non lo conosce, che non sa di chi gli si vuole parlare. Per dare loro una prova maggiore che non lo conosce, fa il giuramento. Dio mio, di cosa non siamo capaci, lasciati a noi stessi! Ci sono di quelli che, a sentirli, sembrano portare invidia ai santi che hanno fatto grandi penitenza. Credono di poterne fare altrettanto. Leggendo la vita di qualche martire, saremmo pronti, diciamo noi, a soffrire tutto ciò per il buon Dio. Tale momento è presto passato, diciamo, per un’eternità di ricom-pensa. Ma ciò che fa il buon Dio per insegnarci un po’ a conoscerci, o meglio, che siamo niente, eccolo: permette al demonio di avvicinarsi un po’ di più a noi. Sentite quel cristiano che, prima, portava invidia ai solitari che vivono soltanto di radici e di erbe, che prendeva la grande risoluzione di trattare così duramente il suo corpo… Ahimè! Un piccolo mal di testa, una puntura di spillo ed eccolo che si lamenta, grande com’è. Si tormenta. Grida. Prima, avrebbe voluto fare tutte le penitenze degli anacoreti, ed un niente lo dispera. Osservate quell’altro, che sembra voler dare volentieri tutta la sua vita per il buon Dio, che tutti i tormenti non riescono a fermare: una piccola maldicenza, una calunnia, anche un viso un po’ freddo, una piccola ingiustizia che gli viene fatta, un favore pagato con l’ingratitudine, fa nascere immediatamente nella sua anima sentimenti di odio, di vendetta, di avversione, spesso al punto di non voler più vedere il suo prossimo, o per lo meno in modo freddo, con un’aria che ben mostra ciò che succede nel suo cuore; e quante volte, svegliandosi, ciò costituisce il suo primo pensiero, che arriva al punto di impedirgli di dormire. Ahimè, quanto siamo poca cosa e quanto dobbiamo contar poco su tutte le nostre belle risoluzioni!6

6 G.M. VIANNEy, Importunate il buon Dio, cit., pp.121-122.

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3. Cura pastorale della parrocchia

Una liberazione integrale da se stessi sgombera dagli ostacoli e produce una relativizzazione dei beni materiali per poter stabilire un rapporto ade-guato con le cose. Il santo Curato d’Ars era “consistente” perché si sentiva radicato in Dio.

Il bisogno di sicurezza si colloca tra le necessità psicologiche fondamen-tali. La persona deve trovare la sua sicurezza interiore nella conoscenza e nella stima della propria dignità ed attingere da questa fonte anche la sua dipendenza e libertà d’azione. L’avere sembrerebbe, a prima vista, la mi-gliore fonte di sicurezza. Si scopre, invece, che il ricco ha terrore di perdere i propri beni. Il possesso di questo tipo trova la sua radice o nella sete di superiorità o nell’angoscia di fronte all’avvenire sentito come una minaccia. Crea sentimenti di sfiducia e di lontananza dal prossimo, dal Creatore stesso e dalla sua Provvidenza…

Allo stesso modo è importante vivere una autonomia dal proprio lavoro col quale si trasforma la creazione: ogni attività eccessiva genera una schia-vitù… Se la persona diventa schiava del denaro o della produzione, non si sente mai soddisfatta e tale sete la conduce all’identificazione con ciò che adora. Di qui il bisogno di relativizzarli come se non li possedesse, di usarli come se non si usassero.

Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto de-naro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli «era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso». Spie-gava: «Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente». Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: «Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri». Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: «Non ho più niente. Il buon Dio ora può chia-marmi quando vuole!».7

Le cose non devono fermarsi a noi e per noi, ma adempiere la loro fun-zione di servizio.

7 BENEDETTO XVI, cit.

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Vediamo ora quali possibili rischi da considerare e quali passaggi di ma-turazione umana sono efficaci per l’acquisizione di un autentico spirito di povertà.

3.1. Nel santo Curato la povertà e la privazione delle cose diventano dono

Sull’esempio di Cristo che «da ricco si fece povero per farci ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9), la persona che autenticamente vive la povertà mano mano diventa capace di donare e donarsi. La persona che percorre questo itinerario di maturazione diventa capace di prendere coscienza della sua di-gnità e di promuoverla in ogni creatura umana. Per questo le energie del Santo Curato si prodigano anche nelle opere di carità verso i poveri. Ed anche la dimensione del tempo dato con amore (anche quando umanamente lo si potrebbe percepire come “strappato”).

Il “dovere” che oggettivamente era schiacciante e che in lui, anche per quel senso di incapacità e di inadeguatezza che gli apparteneva, aveva di-mensioni anche più schiaccianti, assumeva, alla luce della missione, le carat-teristiche di un amore donato e che diventava sempre di più dimenticanza di sé e operatività per gli altri.

Dare dignità, del resto, genera capacità di autostima, cioè la possibilità di dare a se stessi una valutazione realistica, sostanzialmente positiva e stabile (una stima basata sull’avere e sul successo, normalmente svaluta ed induce senso di colpa ed inferiorità).

Si diventa capaci di stimare l’altro e di fare in modo che la dignità dell’altro sia promossa anche dando qualcosa di proprio. Il dare non viene vissuto come una privazione, ma come una espressione di libertà, di amore oblativo gratuito, di promozione dell’altro.

3.2. In san Giovanni Maria Vianney la povertà diventa condivisione

Anche la condivisione e, quindi, la capacità di partecipare i propri doni e risorse fa parte di un percorso di povertà. All’opposto del “trattenere”, il condividere significa percepire che il dare e mettere in comune non è una perdita ma una maggiore possibilità di arricchirsi nel nome della co-munione fraterna. Significa anche stimarsi come capaci di dare e sentirsi destinatari di qualcosa di ricevuto che va anche comunicato, come scrive San Paolo:

1Vi faccio poi presente, fratelli, il vangelo che vi abbiamo annunciato e che voi avete ricevuto 2e nel quale state saldi, e per mezzo del quale siete venuti alla sal-

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vezza, se vi attenete a quella parola con la quale ve l’abbiamo annunciato, a meno che abbiate creduto invano. 3Infatti vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4che fu se-polto e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture… (1Cor 1,1-8).

In fondo anche il servizio e l’apostolato rientrano in quella dimensione di povertà e speranza di trasmettere quello che a propria volta si riconosce come donato a se stessi. Quindi presuppone la capacità di riconoscere quanto si è ricevuto e i doni che possono fruttificare così come le risorse e potenzia-lità di cui ognuno, nella propria peculiarità, possiede. Chiaramente questo aspetto ne mette in luce anche un altro: il trasmettere non significa posse-dere perfettamente ciò che si dona, ma accettare anche il limite di quanto si dà…e di questo il santo Curato d’Ars ne aveva una grande consapevolezza.

Questo senso di realtà e di missione così come di operatività portano san Giovanni Maria ad un discernimento sulla distribuzione del tempo in modo che vi fosse un equilibrio tra l’apostolato e la preghiera, in quel senso profondo del limite e del non poter arrivare a tutti e sostenendone, quindi, la frustrazione.

Se la perfezione è il presupposto del dare allora significa che il servizio non rientra nel quadro della libertà e della povertà, che è anche accettazione del limite, ma di una immagine di sé ancora da rafforzare e quindi in una spinta narcisistica.

In questa direzione va anche la parabola dei talenti (Mt 25,14-30). In fondo la paura di trafficare è la paura di perdere una sicurezza… Nel con-testo dell’accettazione del limite e della propria indigenza creaturale rientra anche il maturare la capacità di saper chiedere, pur nella consapevolezza di quanto si può avere e dare. Maturare significa anche trovare il giusto equili-brio tra consapevolezza di avere, dare e domandare aiuto.

Nella pratica della povertà è necessario verificare l’equilibrio tra auto-nomia e dipendenza, tra il fare da sé e chiedere aiuto, tra il sapere e essere consapevoli che si può ancora imparare ed apprendere.

Ed è proprio in questa direzione che il santo Curato chiese un sacerdote coadiutore.

3.3. La formazione delle coscienze

Il santo Curato d’Ars si dedicò moltissimo alla formazione delle co-scienze nella sua Parrocchia. Aveva una profondissima consapevolezza di cosa significasse il “bene” e la Grazia e cosa fosse l’infedeltà a Dio. Lui stesso era l’immagine del formatore esemplare, che, prima di tutto era capace di lavorare su se stesso e mettersi in discussione.

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Pur nella consapevolezza dei suoi limiti era risoluto nel portare avanti quanto ritenesse il “bene” delle anime, anche nel rischio di risultare “impo-polare”.

Del resto, l’autentico formatore porta in sé proprio queste caratteristiche di esemplarità, di coscienza dei propri limiti, di chiarezza negli obiettivi da raggiungere, dei tempi e della gradualità, in un clima di accettazione e di misericordia.

3.4. Capacità di ascolto

Il santo Curato d’Ars passava fino a 16 ore nel confessionale. Questo significava, oltre ad una capacità di sostenere tale fatica anche fisica, la capa-cità di stare ad ascoltare veramente il cuore dei penitenti che venivano anche da lontano per avvicinarlo. Ascoltare non solo con l’udito ma con tutta la persona, affinché questa potesse ricevere quelle parole di perdono donate da Dio richiedeva la partecipazione di tutta la sua persona e la chiamata a portare in sé il peso di quanto ascoltava.

Ascoltare veramente significa:

a. Apertura di fronte alla persona con le sue immaturità, i suoi peccati, le sue fragilità e possibilità di cambiamenti.

b. Flessibilità nell’affrontare cammini diversi dal proprio, nell’adattamento ai tempi della persona, nella capacità di proporre gli ideali alti e gradual-mente acquisibili.

c. Capacità di accogliere la diversità senza scandalizzarsi, aprendo così la possibilità di un reale cammino di conversione. Accogliere la diversità significa, prima di tutto accoglierla in se stessi, nella capacità propria di cambiare e di adattarsi. Essere capaci di accettare la diversità significa mettersi nella dimensione dell’ascolto autentico senza precomprensioni e senza pregiudizi, lasciando l’altro libero di esprimersi. Nella rigidità coesiste anche la repressione che impedisce all’altro di esprimersi. Ma se non si esprime e si chiude il sacerdote non ha la possibilità di conoscere e quindi di accompagnare.

d. Acutezza e intelligenza nel cogliere la presenza di motivazioni più pro-fonde inespresse. Questo significa essere attenti alle proprie dinamiche formative ed alla propria capacità di gestire l’imprevisto così come nel gestire dinamiche relazionali meno programmate. Nel momento in cui il formatore, l’educatore, il sacerdote si lascia provocare dalla realtà, non vi

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va dietro passivamente, riflette sui fatti concreti, sulle persone, non si la-scia coinvolgere in dinamiche affettive non libere, è abbastanza libero nel percepire se stesso e l’immagine di sé anche di fronte agli altri e all’Istitu-zione, può guardare anche alla dinamica formativa ed alle persone stesse con maggiore serenità, senza la necessità di coprire avvenimenti, persone, di salvare la situazione.

e. Fiducia in se stesso e nella possibilità altrui di cambiare e di rivedersi. La fiducia che il formatore ha in se stesso è fondamentale.

f. Accettazione di sé e visione realistica di sé. Chi si occupa di accompagna-mento si rende conto che, prendersi cura di qualcuno coinvolge tutta la propria persona e la propria responsabilità. Occorre preparazione ed un serio lavoro su se stessi, affinché l’essere accanto all’altro sia estremamente rispettoso del cammino della persona e del piano di Dio su di lei.

E, del resto il santo Curato d’Ars verificava continuamente se stesso. Ma per compiere un lavoro su di sé è necessario entrare nella propria

interiorità, affinché l’accompagnamento dell’altro avvenga alla luce della gratuità, della libertà da sé, dai propri schemi culturali, esistenziali, spiri-tuali, affinché il servizio che si compie non sia una proiezione delle nostre aspettative sull’altro e su se stessi.

g. Capacità di ridimensionamento personale, di cambiamento, di accettazione del proprio cammino passato, delle proprie tappe, delle proprie “crisi” e fughe.

Per tre volte aveva tentato di fuggire dalla sua parrocchia, ritenendosi indegno della missione di parroco e pensando di essere più un impedimento alla Bontà di Dio che uno strumento del suo Amore. L’ultima volta fu meno di sei anni prima della morte. Fu ripreso nel mezzo della notte dai suoi parrocchiani che avevano fatto suonare le campane a martello. Ritornò allora alla sua chiesa e riprese a confessare, fin dall’una del mattino. Dirà il giorno dopo: «sono stato un bambino».8

Ecco, allora, che entrare nella propria interiorità significa esplorare al-cuni ambiti che influiscono in maniera significativa nel porsi dinanzi a se stessi e all’altro. È attraverso un approfondimento di quello che siamo che è possibile arrivare ad una maturità di relazione che non significa assenza di problematiche e di conflitti e non significa neanche guarigione da tutte le

8 http://www.fidesvita.org/index.php/alcune-omelie-del-curato-dars.

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immaturità. La maturità, infatti, trova un fondamento importante nel saper conoscere e gestire le proprie fragilità orientandole ad un progetto di esi-stenza in favore di sé e dell’altro.

h. Attenzione al proprio io ideale, attenzione alla tentazione di voler ripro-durre delle persone “a propria immagine e somiglianza”.

Ogni persona possiede dei propri tempi e proprie modalità di acquisi-zione dei valori cristiani. È efficace mettersi in ascolto dei ritmi personali e delle inclinazioni spirituali della persona per sostenere una crescita che è rispettosa dell’altro. La formazione non si riduce a riprodurre delle persone secondo un modello, quanto piuttosto ad aiutare che il modello sia interio-rizzato e fatto proprio.

Altrimenti possiamo indurre nelle persone la compiacenza, l’equivoco che lo stimiamo o diamo affetto se fa, dice e agisce secondo le sue proiezioni su di noi, cioè su quello che crede sia quello che desideriamo da lui.

Il Curato d’Ars era estremamente paziente e misericordioso, soprattutto nella seconda parte della sua vita.

In questa direzione è importante anche credere in una possibilità di accogliere una evoluzione delle persone accettando i tempi di cambia-mento e di conversione, come ha fatto il Curato d’Ars. È efficace pro-porre ideali grandi in una gradualità di comprensione e di acquisizione in una pazienza che aiuta a non saltare passaggi importanti. Un cammino apparentemente rapido potrebbe gratificare o illudere. Nella fiducia di una capacità delle persone di fare dei percorsi, è anche utile realistica-mente considerare le tappe. Se vengono frettolosamente saltati dei pas-saggi, anche nel cammino spirituale, si rischia di costruire un edificio con delle fondamenta fragili, che non si sono radicate perché non ne hanno avuto il tempo.

i. Motivazioni umane e spirituali forti. Valori interiorizzati e radicati nella persona. Accettazione degli sbagli e degli errori.

Il formatore, nel nostro caso san Giovanni Maria che, pur nella difficoltà e nella fatica, ha accettato se stesso con serenità, in una serenità acquistata anche nel tormento, che vive i propri valori vocazionali radicati nella propria vita, sa accogliere il cammino altrui staccato dall’immagine di sé, ossia come successo o fallimento personale. Questa dimensione è essenziale in quanto è radicata nello svolgimento del proprio ruolo autenticamente come un ser-vizio a Dio e ai fratelli, in quella libertà di cuore che permette di chiedere, di proporre, di sostenere con grande pazienza e compassione, distaccati dai risultati e mirati al bene della persona.

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In questa direzione si colloca anche una serena accettazione dei propri inevitabili sbagli che, in questo contesto di libertà, generalmente possono essere rimediabili e non inducono la persona del formatore ad un ripiega-mento su di sé, quanto piuttosto a cercare possibili rimedi al proprio errore.

4. Semplicità nel comunicare

Caratteristica della comunicazione del santo Curato d’Ars era la sempli-cità. Le sue catechesi erano estremamente semplici e traevano sempre spunto dalla realtà delle persone a cui egli si rivolgeva. Del resto la semplicità nella comunicazione è un presupposto di base per una comunicazione efficace. La chiarezza interiore anche di concetti complessi e l’interiorizzazione rendono possibili una esposizione e spiegazione semplice, adeguate a chi ascolta in modo che tutti possano accedere alla comunicazione.

Questo significa che chi comunica è staccato dalla propria immagine di “comunicatore entusiasmante” ed è maggiormente proteso verso chi ascolta, più che verso se stesso.

Le catechesi del santo Curato potevano essere seguite e comprese da tutti per la semplicità delle espressione pur nella profondità dei contenuti.

Il buon comunicatore dona anche messaggi profondi semplicemente anche senza sminuire la profondità del messaggio.

4.1. L’opera più bella dell’uomo è quella di pregare e amare

Fate bene attenzione, miei figliuoli: il tesoro del cristiano non è sulla terra, ma in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov’è il nostro tesoro. Questo è il bel compito dell’uomo: pregare ed amare. Se voi pregate ed amate, ecco, questa è la felicità dell’uomo sulla terra. La preghiera nient’altro è che l’unione con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, è preso da una certa soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno può più separare. Come è bella questa unione di Dio con la sua piccola creatura! È una felicità questa che non si può compren-dere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con lui. La nostra preghiera è incenso a lui quanto mai gra-dito. Figliuoli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio. La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti è miele che stilla nell’anima e fa che tutto sia dolce. Nella preghiera ben fatta i dolori si sciol-gono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si avverte più la sua lunghezza.

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Ascoltate: quando ero parroco di Bresse, dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo. Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente nella pre-ghiera come un pesce nell’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. Non c’è divisione alcuna nel loro cuore. O quanto amo queste anime generose! San Francesco d’Assisi e santa Coletta vedevano nostro Signore e parlavano con lui a quel modo che noi ci parliamo gli uni agli altri. Noi invece quante volte veniamo in chiesa senza sapere cosa dobbiamo fare o domandare! Tuttavia, ogni qual volta ci rechiamo da qualcuno, sappiamo bene perché ci andiamo. Anzi vi sono alcuni che sembrano dire così al buon Dio: «Ho soltanto due parole da dirti, così mi sbrigherò presto e me ne andrò via da te». Io penso sempre che, quando veniamo ad adorare il Signore, otterremmo tutto quello che domandiamo, se pregassimo con fede proprio viva e con cuore totalmente puro.9

9 Cfr. G.M. VIANNEy, «Catechismo», Catéchisme sur la prière, A. mONNIN, Esprit du Curé d’Ars, Parigi 1899, pp. 87-89.

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5. Lo “stare” col male e la lotta col male10 e il pagare per gli altri

Nel vivere la povertà alla maniera del Cristo rientra non solo l’abbassa-mento ma anche il prendere su di sé. E talvolta, nell’avvicinare le situazione di grande fragilità ed anche di male, l’educatore capisce di più la chiamata a “portare” e condividere la sorte di Gesù che si è fatto peccato, in cui l’abbas-samento possiamo immaginarlo come un essere schiacciato dal male perché lo ha preso tutto sulle sue spalle.

Senza cadere nel bisogno di onnipotenza e, quindi, nella percezione reale del proprio limite, chi è chiamato ad accompagnare altri è pure chiamato a

10 Cfr. G.M. VIANNEy, Rimanete saldi, in Importunate il buon Dio, cit., pp. 72-74.È nella lotta che proviamo a Dio il nostro amore, e nell’accettazione dei dolori che ci

manda.C’era una volta una grande santa (credo che sia santa Teresa) che si lamentava con Nostro

Signore dopo la tentazione, e gli diceva: «Dove dunque sei stato, Gesù mio amatissimo, dove sei stato durante questa terribile tempesta?». Nostro Signore le rispose: «Ero al centro del tuo cuore, e gioivo nel vederti lottare».

Se siete tentati di superbia, offrite la tentazione per ottenere l’umiltà; (se siete tentati) da pensieri disonesti (offrite la tentazione) per ottenere la purezza; se è contro il vostro prossimo, (per ottenere) la carità. Offrite anche la tentazione per chiedere la conversione dei peccatori: ciò indispettisce il demonio e lo mette in fuga, poiché la tentazione si rivolge contro di lui. Come il buon soldato non ha paura del combattimento, così il buon cristiano non deve aver paura della tentazione. Tutti i soldati sono bravi in caserma: è sul campo di battaglia che si fa la differenza tra i coraggiosi e i codardi. Ecco come egli (il demonio) si comporta di solito con i peccatori che ritornano a Dio. Li lascia gustare le dolcezze dei primi momenti della loro conversione, perché sa bene che non ci guadagnerebbe niente: sono troppo fervorosi. Aspetta qualche mese finché il loro ardore sia passato: poi comincia col far trascurare loro la preghiera, i sacramenti, li attacca con diverse tentazioni. Poi, vengono le grandi lotte: è allora soprattutto che bisogna chiedere la grazia di non lasciarsi abbattere. Tre cose sono assoluta-mente necessarie contro la tentazione: la preghiera per illuminarci, i sacramenti per fortifi-carci e la vigilanza per preservarci. Il demonio viene soltanto quando perdiamo la presenza di Dio, perché sa bene che altrimenti non ci guadagnerebbe niente. Non bisogna ascoltare il demonio che cerca sempre, dopo che ci ha fatto fare il male, di gettarci nella disperazione. Le prove mostrano chiaramente quanto un’opera sia gradita a Dio. Si dice qualche volta: «Dio castiga coloro che ama». Non è vero. Le prove, per coloro che Dio ama, non sono castighi, sono grazie. Le condanne del mondo sono benedizioni di Dio. Soltanto le croci ci daranno sicurezza nel giorno del giudizio. Quando verrà quel giorno, come saremo felici dei nostri dolori, fieri delle nostre umiliazioni e ricchi dei nostri sacrifici. Oh, quanto è sapiente e vero cristiano colui che sa sopportare gli inconvenienti della sua posizione con calma e rassegna-zione! È questa la via della santità e della felicità, e il nostro titolo di gloria nei cieli, perché quaggiù, tutti gli uomini dal sovrano al pastore, dalla gloria del comando all’abnegazione della dipendenza che è tanto gloriosa dinanzi a Dio, tutti gli uomini soffrono in mille modi differenti, i ricchi come i poveri, i sapienti come gli ignoranti, i sani come gli ammalati, in una parola, tutti.

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sostenere questo peso e condividere la profonda povertà del Cristo che si è “coinvolto” nella vicenda umana con tutto quanto vi è dentro.

Qui l’educatore a sua volta sperimenta la propria povertà nell’aiutare e anche lo stupore nel vedere il cammino altrui, laddove si poteva aver provato fatica ed anche incapacità, e ha bisogno di appoggiarsi su Dio, perché in sé non trova la forza sufficiente. E non si sente però sminuito nel chiedere aiuto a Dio ma ne sperimenta ancora la fiducia, pur nel limite sperimentato.11

Il santo Curato d’Ars prendeva su di sé il male affinché l’altra persona, il penitente, potesse sperimentare la forza della misericordia del Signore, pagava lui stesso in prima persona anche con penitenze fisiche significative.

Questo nasceva dal profondo senso di responsabilità dell’altro ma anche dalla profonda assimilazione a Cristo e alla sua Croce.

5.1. La dimenticanza di sé

Molti sono i cristiani, figli miei, che non sanno assolutamente perché sono al mondo… «Mio Dio, perché mi hai messo al mondo?». «Per salvarti». «E perché vuoi sal-varmi?». «Perché ti amo».Com’è bello conoscere, amare e servire Dio! Non abbiamo nient’altro da fare in questa vita. Tutto ciò che facciamo al di fuori di questo, è tempo perso. Bisogna agire soltanto per Dio, mettere le nostre opere nelle sue mani… Svegliandosi

11 Cfr. A. BALLEsTrErO, Il cuore del curato d’Ars. Linee di spiritualità sacerdotale, Elledici, pp. 43-44.

Al principio c’era anche la drammaticità con cui legava il peccato all’inferno. Ciò lo ren-deva duro, amaro, ma comunque l’indifferenza di fronte al peccato di coloro che il Signore gli aveva affidato non ha mai sfiorato il suo spirito. La sofferenza per il peccato vorrei dire che era, in fondo, la matrice di questa ministerialità che poi si esprimeva con l’assiduità al sacramento del perdono. Alla fine della sua vita era totalmente identificato con il confessio-nale, addirittura con la materialità dell’abitacolo in cui era imprigionato di giorno e di notte. Poco prima di morire confessò due persone intemperanti e scriteriate che non si arrestarono neppure davanti a un moribondo. Lui non disse di no, lui doveva confessare. Vivere non era importante, confessare era essenziale. E più il mondo dilatava il peccato, più lui dilatava gli spazi di un ministero che era diventato presso qualche confratello un po’ scettico, motivo di apprezzamenti più o meno rispettosi. Ma lui doveva perdonare. Perdonando viveva, perdo-nando si consumava, certo, ma di una consumazione che era preludio alla pace. E un aspetto di questa partecipazione alla redenzione del peccato era la facilità con cui si imponeva una soddisfazione vicaria: la penitenza dei peccati degli altri la faceva lui e questo, tra l’altro lo pacificava di certi scrupoli. Peccati così grossi e penitenza così piccole le faceva conciliare at-traverso la sua penitenza. Questo patire per il peccatore, questo esitare per il peccato, questo partecipare alla passione e alla morte del Signore come prezzo di ogni peccato perdonato era per lui un criterio di vita.

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al mattino bisogna dire: «Oggi voglio lavorare per te, mio Dio! Accetterò tutto quello che vorrai inviarmi in quanto tuo dono. Offro me stesso in sacrificio. Tut-tavia, mio Dio, io non posso nulla senza di te: aiutami!».12

6. Assimilazione in tutto a Cristo Buon Pastore che dà la vita: il dono di sé alla luce della Croce

In questo itinerario di libertà, Egli diventa, così, veramente “povero” nel senso biblico, cioè persona che non si appoggia su se stessa, ma sul Signore, in opposizione al ricco, che è colui che si appoggia su se stesso, sulle sue possibilità materiali, sull’astuzia o sui suoi meriti di fronte a Dio.

La sicurezza umana viene perfezionata dalla grazia e dalla fiducia nella Provvidenza. E anche l’umile accettazione della propria indigenza creaturale porta a scoprire con serenità che Dio è la sicurezza.

Le diverse crisi, preoccupazioni, affanni per le vicende quotidiane, su-perate convenientemente hanno la funzione di far scoprire finalmente e con gioia che «il Padre sa quello di cui avete bisogno…». Da qui nasce anche la dimensione dell’abbandono e dello stupore. E nel grido di Gesù: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), vi è tutta la fiducia che il Padre non lo ha abbandonato, la profonda consapevolezza di essere nelle mani del Padre.

Il santo Curato d’Ars, nell’epilogo di una vita vissuta all’insegna dell’au-tentica povertà, nelle luci e nelle ombre, nel successo e nel fallimento, nella gioia della comunione come nella solitudine, può consegnare totalmente a Dio la propria vita nell’ultimo atto, dove la morte non è un evento subito ma un atto supremo e gratuito della propria libertà di darsi senza riserve a Dio.13

12 Preghiera del santo Curato d’Ars.13 Cfr. A. BALLEsTrErO, Il cuore del curato d’Ars, cit., pp. 51-52.Questo mi pare che sia illuminato splendidamente nella vita del santo Curato d’Ars. La

penitenza di quest’uomo era legata al suo ministero: la fatica sovrumana della sua dedizione ministeriale, l’inesorabile fedeltà al confessionale che lo demoliva fisicamente. In lui davvero le proporzioni del ministero erano diventate immolazione, fino alla consumazione. Il suo tempo era divorato, le sue energie fisiche erano ridotte al lumicino, la sua libertà era scom-parsa e la sua dedizione era senza limiti. Il suo vivere era un vero martirio e a questo vivere così crocifisso aggiungeva poi anche quella porzione di croce che pur non essendo legata di-rettamente all’esercizio del ministero, gli veniva suggerita dalle esperienze ministeriali. Il pec-catore che faceva fatica a convertirsi bisognava convertirlo e allora, mano ai flagelli. Doveva conservare le energie, doveva essere libero e perciò saltava i pasti. Il suo digiuno è diventato emblematico, come la sua famosa pentola di patate lessate una volta la settimana, che è ancora là appesa alla catena sopra il focolare. E ne mangiava due, non tre; alla fine avevano un po’ la muffa ma lui diceva che erano ancora buone! E la fatica che coloro che gli volevano bene hanno sostenuto perché indulgesse qualche volta a cambiare regime alimentare è davvero

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Egli è “a servizio” fino ala fine, fino all’ultimo respiro, in quella fedeltà alla vocazione ricevuta, perché, sull’esempio di Cristo «nessuno vada per-duto di coloro che mi hai dato» (Gv 17).

La maniera di essere molto bravi, di essere persino santi sulla terra, consiste nel ricevere tutto come proveniente immediatamente dalla mano di Dio. Sbagliano coloro che vedono dei nemici e dei cattivi negli altri cristiani, loro fratelli. Gesù Cristo non fece così, il giorno della sua passione…

La croce è il libro più sapiente che si possa leggere. Coloro che non conoscono questo libro sono ignoranti, anche se conoscono tutti gli altri libri. I veri sapienti sono soltanto coloro che lo amano, lo consultano, l’approfondiscono… Quanto più si è alla sua scuola, tanto più si vuole rimanervi. Il tempo vi passa senza noia. Si sa tutto quello che si vuole sapere, e non si è mai sazi di ciò che vi si gusta.14

documentata dalla storia. Il rigore di quest’uomo nei riguardi del cibo era inesorabile, come lo era nei riguardi del sonno. Gli avevano messo un materasso e un giorno si sono accorti che quel materasso chissà che fine aveva fatto. Sotto uno straccio di coperta aveva messo uno strato di tralci di vite. Un letto sul quale poi finiva con il non starci, perché diceva che stava meglio in chiesa davanti al Santissimo Sacramento. Il rigore con cui quest’uomo faceva una vita penitente e si configurava al suo Maestro in croce, deve dirci qualche cosa. Non diceva mai basta alle fatiche del ministero, specialmente durante i rigidi inverni di Ars, quando era divorato continuamente dalla febbre, ma in confessionale la febbre lo lasciava in pace – di-ceva lui!

14 G.M. VIANNEy, Importunate il buon Dio, cit., pp. 76-78.

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ASPETTI FORMATIVI NELL’AGIRE SOCIALE, UN “MANDATO” DALLA CROCE

Paolo M. orlandini*

Premessa

Il tema di questo intervento è dato dal suo titolo “Aspetti formativi nell’agire sociale, un mandato dalla Croce”. La formulazione del titolo indica come assertivo il fatto che dalla croce si riceva un mandato nell’agire sociale e nel formare all’agire sociale. La croce forma all’agire sociale, potremmo dire, è affermato dal titolo stesso dell’intervento. Nel proseguo dunque si cercheranno di cogliere aspetti formativi che la croce offre per l’agire sociale e nell’agire sociale, dopo aver accertato il “mandato” che giunge dalla croce stessa.

1. Un mandato dalla Croce

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e

accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo:

«Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con se.(Gv 19, 25-27).

L’icona biblica giovannea sopra riportata della Madre di Gesù ai piedi della croce del Figlio, permette di cogliere facilmente come dalla croce il discepolo riceva un mandato, così come la madre riceve un mandato. Si tratta di un brano breve, solo tre versetti, unico in Giovanni, senza paralleli nei Sinottici. L’evangelista presenta lo stare di Gesù sulla croce e lo stare presso la croce di sua madre Maria, del discepolo che Gesù amava, di alcune altre donne. Si tratta dunque di una scena di gruppo. Alla descrizione della situazione (Gv 19,25) fa seguito un brevissimo dialogo a tre (Gv 19,26-27a) fra Gesù, la madre e il discepolo. In questo dialogo Gesù pronuncia parole indicative che al tempo stesso sono performative. Esse infatti realizzano nei due interlocutori ciò che dicono. Indicano una realtà di fatto per i due in-

* Paolo M. Orlandini, OSM, dottore in Lettere e in Scienze e Tecniche di Psicologia della Comunicazione.

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terlocutori di Gesù; una realtà nuova, che prima non era. Maria di Nazaret è la madre del discepolo. Il discepolo è figlio di Maria di Nazaret. Con le stesse parole Gesù chiede poi un impegno alla madre e al discepolo. Essi sono invitati ad agire di conseguenza a ciò che d’ora in poi sono, alla loro nuova realtà.

È vero che il lettore, spettatore di questa scena sente soltanto le concise parole che Gesù rivolge alla madre e al discepolo amato. Non sono ripor-tate parole di risposta dei due interlocutori. Ma a ben guardare non sembra che le parole pronunciate da Gesù richiedano una riposta con altre parole. Piuttosto sembra che egli chieda accettazione di quanto da lui affermato a tutti i presenti. Egli chiede un agire consequenziale. Si può affermare che il silenzio è il tempo della riflessione, constatazione, comprensione e accetta-zione di quello che vengono ad essere da quel momento i due interlocutori e consequenzialmente le altre donne presenti e in seguito tutti i discepoli di Gesù. In qualche modo il silenzio di tutti i presenti è la risposta afferma-tiva, personale e comunitaria, alla richiesta di impegno che consegue all’aver compreso la nuova propria realtà. La successiva frase dell’evangelista (Gv 19,27b), infatti, è la narrazione di quanto la madre e il discepolo faranno in seguito. Essi hanno capito quanto è stato loro detto su se stessi e vivono e agiscono di conseguenza. Ma alla scena sono presenti anche altre donne. Esse non sono chiamate in causa da Gesù e neppure intervengono sponta-neamente. Eppure sono presenti. L’indicazione della loro presenza da parte dell’evangelista non sembra superflua. Esse sono infatti le due testimoni di quanto è avvenuto ai piedi della croce. Quanto è avvenuto ha così valore sociale. Non è solo un fatto personale della madre e del discepolo. Si tratta di qualcosa che ha conseguenze su altri e che riguarda anche gli altri nel loro essere discepoli di Gesù, a partire dalle stesse due testimoni. Dunque il silenzio delle due donne ha valore testimoniale per quanto accade ai piedi della croce, ma ha anche valore per esse stesse in quanto discepole ed infine per tutti i discepoli che verranno. D’allora in poi la Madre di Gesù è madre del discepolo amato, madre di ogni discepolo, madre della comunità dei discepoli. Così potrà essere chiamata «Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo cristiano».1

1 PAOLO VI, Discorso per la chiusura del terzo periodo del ss. Concilio, Città del Vaticano 21 novembre 1964, in Concilio Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni. Testo ufficiale e traduzione italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, nn. 22-48 (partico-larmente n. 30), pp. 1256-1269.

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Numerosi e qualificati studiosi hanno individuato e approfondito i si-gnificati di cui il breve brano giovanneo è indubbiamente ricco.2 Questa icona biblica condensa in sé il dono che Gesù fa di sé, nel suo abbassarsi ad assumere la condizione umana per intero fino alla morte di croce; la miseri-cordia divina che si fa carne fino alla morte redentrice di Gesù, che agnello immolato toglie i peccati del mondo con il suo sacrificio; lo stare presso la sua croce di Maria e il suo com-patire con il Figlio; lo stare del discepolo e delle altre donne e il loro com-patire con Maria e con Gesù; il nuovo essere di Maria per il discepolo; il nuovo essere del discepolo per Maria; il nuovo essere di tutti i discepoli nei confronti di Gesù, nei confronti di Maria, ed infine in rapporto agli altri discepoli e all’intera umanità.

Nel contesto del nostro discorso possiamo dire che dalla croce vengono al discepolo indicazioni formative dell’agire sociale (sia all’interno della co-munità ecclesiale che dell’intera umanità), ma che queste sono precedute dalla comprensione e dall’accoglienza di quello che Gesù è e di quello che ciascun discepolo è in se stesso. È nel Gesù che si fa servo e si dona, fino ad offrire se stesso sulla croce, che trova fondamento l’impegno a servire e a partecipare alle vicende dell’altro, fino a farle divenire proprie. È nel rico-noscerci fratelli di lui che trova fondamento la fraternità umana che supera quella genetica e quella etnica. È nel seguire le orme di lui che trova fonda-mento l’esigenza dell’impegno di ciascuno per il bene dell’altro compreso come bene proprio, come bene comune.

Le parole Gesù pronunciate nel contesto dell’ultima cena come narrata dall’evangelista Giovanni, dopo la lavanda dei piedi: «Se dunque io, il Si-gnore e il Maestro ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15), permettono di inserire l’agire sociale nel genere del servizio fraterno, costitutivo del discepolo di Cristo, nei confronti degli altri discepoli e dell’intero genere umano compreso con gli occhi dello stesso Gesù Cristo.

Ai piedi della croce infatti trova piena evidenza che il discepolato di chi ascolta le parole del Crocifisso, riconoscendole come la Parola definitiva di

2 Cfr. in particolare A. sErrA, Bibbia, in Nuovo Dizionario di Mariologia, s. DE fIOrEs, s. mEO (edd.), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985, pp. 284-292; ID., Testimonianze mariane in Luca e Giovanni, in Storia della mariologia. 1 dal modello biblico al modello lette-rario, E. DAL cOVOLO – A. sErrA (edd.), Città Nuova – Marianum, Roma 2009, pp. 120-131; ID, Maria, in Temi teologici della Bibbia, r. PENNA, G. PErEGO, G. rAVAsI (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 802-811; A. VALENTINI, Maria secondo le Scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore, EDB, Bologna 2007, pp. 303-324; D.G. cANDIDO, Madre dei discepoli, in Mariologia, S. DE fIOrEs, V. fErrArI scHIEfEr, s. PErrELLA (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 765-773 e l’ampia bibliografia di riferimento in essi indicata.

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Dio per l’uomo, non è un fatto privato del singolo. Esso coinvolge il singolo in un complesso di rapporti interpersonali così profondi ed imprescindibili che permettono di affermare che il discepolato è sì una scelta personale del singolo, ma una scelta che colloca il singolo in una comunità di fratelli, la quale comunità di fratelli ha a sua volta per costituzione e per missione far divenire propri fratelli tutti gli esseri umani.

Gesù stesso aveva insegnato a farsi prossimo e a prendersi cura di chiunque, come aveva fatto «un Samaritano» (cfr. Mt 10,29-37), e dopo la sua resurrezione avrebbe inviato ad evangelizzare «ogni creatura» (Mc 16,15) e a fare «discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19).

San Paolo focalizza efficacemente questa realtà di legami con l’imma-gine del corpo. Egli dice: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (1Cor 12,12.24b-27).

È dalla familiarità che si stabilisce ai piedi della croce fra Gesù, la madre e il discepolo che può svilupparsi il concetto paolino dell’unità di coloro che credono in Cristo. Questa realtà unitaria fra tutte le membra del corpo, così efficacemente illustrata da san Paolo, necessita di un interesse reciproco fra i discepoli-fratelli, fra i vari membri del corpo, per il bene generale e per il bene specifico dei singoli (nella gioia e nel dolore, malati e non). Tale neces-sità, il “prendersi cura” gli uni degli altri, è l’origine dell’onore e della gioia per ciascuno. Sembra potersi dire che non c’è possibilità di gioia e di onore per il singolo se egli la ricercasse per se stesso escludendo gli altri o a scapito degli altri.

Tornando all’icona del crocifisso, dunque, con la madre e il discepolo ai piedi della croce è possibile affermare che essa non solo manifesta come la passione di Cristo è di per sé com-passione di Cristo per l’uomo, ma anche che il Cristo accoglie una forma di com-passione dell’uomo nei suoi con-fronti e da essa chiede all’uomo un impegno a prendersi cura dell’altro in una comunità.

Lo stare presso il crocifisso della madre e del discepolo esprime già una forma di comunità e di agire comunitario. Il rapporto fra la madre e il di-scepolo per l’identità nuova costituita in loro da Gesù diviene di per sé un rapporto familiare nel senso dato da Gesù alla sua famiglia («Chi fa la vo-lontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre», Mc 3,35) e dunque comunitario. Per di più l’accettazione di questa nuova identità ha come con-seguenza un agire («l’accolse con sé», Gv 19,27).

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Non è improprio affermare che quell’agire ha una dimensione sociale. Prima di tutto esso ha una dimensione sociale nell’agire-servire all’interno della società familiare di coloro che sono già discepoli di Gesù e poi per quel man-dato ad agire-servire per quella società familiare da costituire con ogni creatura.

Nell’agire sociale del discepolo è dunque possibile cogliere un’espres-sione di quell’amore solidale con cui il discepolo di Cristo serve come ha servito il Maestro e così anche nell’agire sociale si manifesta l’universalità della salvezza in Cristo.

2. Aspetti formativi dal mandato della Croce

Gli aspetti formativi che si presentano qui, sono delineati a partire dall’icona biblica giovannea che si è presentata (Gv 19,25-27).

2.1. Riconoscersi chiamati ad essere

Nelle parole pronunciate da Gesù sulla croce è indicata una vocazione per la madre e per il discepolo. Il Crocifisso chiama ad essere e dona una identità, che la persona deve poi accettare.

Aiutare a scoprire il proprio nome, la propria identità davanti a Dio è di per sé compito formativo. Evidenti ne sono le ripercussioni sociali. Questo tipo di aiuto ha chiara valenza sociale.

Crisi di identità personale, non accettazione della propria identità, paure a compiere attività fisiche e intellettuali, obiettivi perseguiti anche se fuori della propria portata, ecc. sono segni di una qualche difficoltà nella com-prensione e nella accettazione della propria chiamata.

2.2. Riconoscersi in relazione e nella relazione

La vocazione a cui il discepolo e la madre sono chiamati dal Crocifisso è di per sé relazionale. Il nome loro dato indica di per sé relazione (di fi-gliolanza e di maternità). Inoltre si può notare che vocazione ed identità divengono immediatamente chiari ed evidenti proprio nella relazione che i personaggi stanno vivendo. Non viene detto loro solo di essere madre e figlio, ma anche di chi (Gesù usa l’aggettivo possessivo per entrambi). Infine si può notare che è un terzo, un Altro a manifestarlo e che altri (le altre due donne) ne testimoniano la veridicità.

Aiutare a scoprirsi ed accettarsi non autosufficienti e per ciò stesso non meno completi è compito formativo. Lo è pure far scoprire il senso dell’ap-

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partenenza a una famiglia/comunità/gruppo sociale. La testimonianza e la presenza dell’altro può aiutare a chiarirsi meglio su se stessi e sulla impre-scindibilità della dimensione sociale dell’uomo.

Mancanza di relazioni, non chiarezza del proprio ruolo in una comu-nità specifica e reale, possono creare confusione e incertezza nella persona. Possono far atrofizzare le capacità di una persona e di conseguenza far per-dere anche al gruppo la possibilità di usufruirne. Si possono poi ricordare i casi (patologici) che arrivano alla perdita di contatto con la realtà esterna e dunque le conseguenti ripercussioni, sia nel proprio vissuto sociale che nella società/gruppo di appartenenza.

2.3. Riconoscersi inviati

L’identità che la madre e il discepolo assumono ai piedi della croce non è circoscritta a quell’ora. Essa implica di per sé un futuro e un impegno fu-turo. Accogliendo la propria vocazione si diventa degli inviati-testimoni. È possibile affermare che dalla croce viene l’indicazione formativa ad andare e a testimoniare. È fatto sociale quello di testimoniare. Ha conseguenze sociali la testimonianza.

È benefica e feconda la testimonianza. Si diffonde nei gruppi e permette ad essi di svilupparsi e crescere. La diffusione del Vangelo è costellata dalla testimonianza-martirio di molti discepoli di Gesù.

La testimonianza di vita è richiesta (a volte in modo fin troppo unilaterale) a chi professa e propone ideali di vita. Al contrario la falsa testimonianza può creare divisioni interne alla persona, interne al gruppo e fra un gruppo e l’altro. La mancanza di testimonianza può creare poi malintesi e infondati convincimenti con conseguenze sulla vita del singolo e delle comunità.

2.4. Stare presso

Il testo dell’icona sopra presentata inizia con un verbo: stare. Al verbo fa seguito l’indicazione di luogo per indicare il dove dello stare. Queste parole non sembrano dare solo indicazioni descrittive della scena rappresentata. In esse è possibile cogliere una modalità di essere dei personaggi. La madre, il discepolo, le altre donne stanno presso la croce. Non sono lontani. Non sono fuggiti via. Sono presenti e vicini.

L’aspetto formativo che se ne può trarre, è quello dell’educare a stare, a stare presso. Il caso specifico è quello di stare presso la croce e dunque di stare presso il dolore, la vergogna, la pena che la croce porta con sé. Molte altre possono essere le forme di sofferenza e di difficoltà a cui stare vicino.

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La paura del pericolo può tenere lontani. Può chiudere alla relazione. Può far costruire con la mente e il proprio sentire idee poco realistiche o del tutto irrealistiche sugli altri e su di sé. Lo stare permette di conoscere. Lo stare presso costruisce comunità, gruppo, ecc.

2.5. Portare e trovare conforto

La madre, il discepolo, le altre donne stanno presso un condannato a morte a cui è già stata inflitta la pena ed è oramai in agonia. Il loro stare potrebbe essere letto come un gesto di affetto nei confronti del condannato e come un’attesa della sua morte. Le parole di Gesù aprono ad un futuro di vita.

È chiaro che lo stare preso la croce non è solo uno stare vicino, ma anche uno stare per. È uno stare con una finalità. La vicinanza può trasmettere conforto e sollievo, dall’una e dall’altra parte. Da una parte lo star vicini a chi soffre può recare conforto al sofferente; dall’altra chi si reca vicino al sofferente può trarre da lui conforto per se stesso in quel momento e per la propria vita. Ma qui, nell’episodio della croce, c’è qualcosa di più. Il con-forto diventa fecondità. La vicinanza apre alla vita.

Le parole di Gesù aprono alla vita, danno vita a tutti i presenti. Gli aspetti formativi che si possono cogliere qui sono quelli di imparare ad accogliere il dolore dell’altro; di imparare a portare conforto e sollievo; di imparare a ricevere conforto e sollievo. L’implicanza a livello sociale, evidente nell’icona di riferimento, parte forse dal rapporto interpersonale del singolo con il bi-sognoso per scoprirsi poi coinvolti entrambi in un rapporto più ampio.

Non sentirsi soli aiuta ad affrontare le difficoltà. Permette così di cercare soluzioni condivise e di incamminarsi verso esiti positivi comunitari. Perico-loso è invece ritenere di poter affrontare tutto da soli. Così pure limitarsi a sfruttare la presenza dell’altro ad esclusivo proprio beneficio provoca danni sociali.

Accettare la possibilità del conforto è un po’ mettersi nella mani dell’altro. È in qualche modo accettare di non poter bastare a se stessi, in qualche modo di dipendere dall’altro, senza per questo sentirsi meno se stesso. È nel suo aspetto più profondo sentirsi parte di un tutto (sociale/comunitario/ecc.), come lo sono le membra di un unico corpo.

L’accettazione di questa realtà corporativa può risultare più facile a chi si sente bisognoso e meno facile a chi si sente sano e portatore di conforto; a chi insomma vede nell’altro quello che è mancante, che è bisognoso di qualcosa e invece sente se stesso a posto; a chi non riesce a riconoscere la ne-cessità dell’altro. Può ancora risultare difficile a chi fa difficoltà a chiedere. Portare e ricevere conforto risulta così una forma di solidarietà sociale.

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Può infine trovare riferimento in questo aspetto dell’icona presentata la formazione alla preghiera comune (affidarsi insieme, ecc.) e alla preghiera per gli altri (gruppo, comunità, società, ecc.).

3. Croce ed Eucaristia un unico mandato, la stessa formazione

Sposto ora l’attenzione dall’icona fin qui presa come riferimento con l’in-tento di ricordare il legame fra la Croce e l’Eucaristia. Questo permetterà di evidenziare un aspetto formativo, cristiano e costitutivamente cristiano, in qualche modo già indicato dall’icona summenzionata, ma, ritengo, biso-gnoso di una più esplicita specificazione.

La Costituzione sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Va-ticano II ci ricorda come «nell’ultima Cena, la notte in cui veniva tradito, il nostro Salvatore istituì il Sacrificio Eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, con il quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della Croce, e per affidare così alla Chiesa, sua amata Sposa, il memoriale della sua Morte e Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, “l’anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria”».3

Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica un’ampia sezione al tema del «memoriale del sacrificio di Cristo e del suo corpo, la Chiesa».4 Fra l’altro in questa sezione viene ricordato come «L’Eucaristia è anche il sacrificio della Chiesa. La Chiesa, che è il corpo di Cristo, partecipa all’offerta del suo Capo. Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua interces-sione presso il Padre a favore di tutti gli uomini».5

Dalla lettura di questi passi è possibile afferrare che dalla Croce-Euca-ristia viene al credente un’evidenza, quella di essere partecipe dell’offerta del Capo del corpo, e un mandato sociale, quello di intercedere per tutta l’umanità.

Nell’icona summenzionata è possibile leggere la partecipazione del di-scepolo all’offerta del maestro Gesù nello stare del discepolo e della madre presso la croce. Così pure nella stessa icona è possibile leggere la costitu-zione di una nuova famiglia fondata sul discepolato e non più sul sangue e

3 cONcILIO VATIcANO II, Cost. sulla Sacra Liturgia. Sacrosanctum Concilium, in Concilio Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni. Testo ufficiale e traduzione italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, n. 47, pp. 45-47.

4 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997 (1999 ed. Italiana), nn. 1362-1372, pp. 731-737.

5 Ibid., n. 1367, p. 733.

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dunque su un nuovo tipo di legame di sangue, dato ora dal sacrificio della croce e non più dalla biologia. E ancora è possibile leggere nella stessa icona il mandato sociale ad allargare i confini della nuova famiglia di discepoli ad ogni creatura e a tutti i popoli.

Dunque si possono riprendere qui gli stessi aspetti educativi già indicati dopo la lettura di detta icona.

Resta forse da evidenziare maggiormente uno degli effetti del legame Croce-Eucaristia. Si tratta di ricordare la permanente presenza reale del Si-gnore Gesù Cristo nell’Eucaristia e del culto ad essa dovuto ed insegnato dalla Chiesa. Paolo VI ha avuto modo di riaffermare questo culto, di rac-comandarlo ai credenti e di invitare a formare i discepoli di Gesù a questo culto. Nello stesso tempo egli ha avuto modo di sottolineare il valore sociale di tale culto. Nel contesto del presente discorso sarà allora possibile cogliere un nuovo aspetto formativo che viene all’agire sociale dalla croce, quello dell’educazione al culto dell’Eucaristia e conseguentemente all’adorazione eucaristica.

Nel brano qui di seguito riportato, da un’omelia di Paolo VI, sono evi-denti il concetto del legame fra Croce ed Eucaristia, quello della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche, di seguito una riflessione sull’educa-zione ed infine è affermato il valore sociale del riconoscimento della presenza reale di Cristo per lo sviluppo e il conseguimento della pace nel mondo.

Dio è con noi! Perché Cristo è con noi! Perché i segni sacrosanti dell’Eucaristia non sono soltanto simboli e figure di Cristo, o modi indicativi d’una sua affe-zione, o di una sua azione nei riguardi dei commensali alla sua cena, ma con-tengono Lui, Cristo, vivo e vero, lo indicano presente quale Egli è vivente nella gloria eterna, ma qui rappresentato nell’atto del suo sacrificio, a dimostrare che il Sacramento eucaristico rispecchia in modo incruento l’immolazione cruenta di Cristo sulla croce, e rende partecipi del beneficio della redenzione chi del Corpo e del Sangue di Cristo, rivestito di quei segni di pane e di vino, degnamente si nutre. Così è. Così è. […] Cristo realmente presente nel sacramento eucaristico. Diciamo questo per godere con voi, figli fedeli, che dell’Eucaristia fate vostro spirituale alimento, e per confortare la vostra pietà a quel culto autentico, nutrito di Vangelo e di dottrina teologica, al quale la recente Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia, ci esorta e ci appiana la via. Diciamo questo anche per dissi-pare alcune incertezze sorte in questi ultimi anni dal tentativo di dare interpre-tazioni elusive alla dottrina tradizionale e autorevole della Chiesa in oggetto di tanta importanza. Diciamo poi questo per invitare voi tutti, uomini del nostro secolo, a fissare la vostra attenzione su questo antico e sempre nuovo messaggio, che la Chiesa tuttora ripete: Cristo, vivo, e celato nel segno sacramentale che a noi lo offre, è realmente presente. Non è parola vana, non è suggestione su-perstiziosa, o fantasia mistica; è la verità, non meno reale, sebbene collocata su piano diverso, di quelle che noi tutti, educati dalla cultura moderna, andiamo

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esplorando, conquistando e affermando circa le cose che ci circondano, e che, conosciute, danno il senso delle verità sicure, positive, e, per di più, utili; le verità scientifiche. […]

L’educazione mentale del nostro tempo abitua il pensiero a certezze concrete e non superiori alla sua capacità conoscitiva; l’arte del dubbio poi e della critica negativa, la comodità mentale dell’agnosticismo e dello scetticismo, la facilità alla negazione, sia speculativa che pratica nei confronti della religione, e forse una segreta pigrizia, che in fondo agli animi di tanti uomini, un giorno non privi di retta informazione religiosa e di qualche felice esperienza di chi sia Cristo e di ciò che valga la sua parola, paralizza ad un dato momento un atto di onesta e coraggiosa riflessione, tutte queste forme caratteristiche della mentalità e della cultura moderna arrestano talora l’uomo profano davanti all’annuncio che qui ripetiamo: Cristo è con noi; e rimettono sulle sue labbra i commenti negativi degli uditori del grande discorso eucaristico di Cristo a Cafarnao: «Questo di-scorso è duro; chi mai lo può ascoltare?» (Io 6,60). […]

Notate: è offerta libera a uomini liberi, e, a bene riflettere, liberatrice; l’ha detto il Signore: la verità, la sua verità vi farà liberi (Io 8,32); è offerta gratuita e disinteressata, come quella che da un Amore infinito attinge il suo principio ed il suo fine; è offerta che non umilia la mente dell’uomo, sì bene la solleva a superiori visioni; è offerta che non disturba l’esercizio suo proprio del pen-siero umano, né intralcia nella sua naturale e onesta fatica il lavoro, né arresta l’attività temporale nelle sue civili conquiste, mentre piuttosto rischiara e con-forta l’uomo che riempie la giornata della vita presente di opere degne; è of-ferta – chi non lo sa? – che non rallenta lo sviluppo sociale, non aliena l’uomo dalle sue legittime aspirazioni vitali, ma reca con sé l’eterno e lieto messaggio evangelico, di conforto e di speranza per ogni umano dolore, e di stimolo al-tresì per ogni doverosa giustizia; è offerta, a cui è connessa davanti a Dio la responsabilità circa il destino della vita individuale (ricordate: Chi crederà…sarà salvo; Mc 16,16); e davanti alla storia le sorti della pace nel mondo; offerta grave e grande, perciò. Accolta, sì, impegna la vita a programma sinceramente e tendenzialmente magnanimo, ma sempre cristianamente semplice, buono e pio: la fede è la vita, la fede è salvezza.6

Pochi mesi dopo aver pronunciato l’omelia di cui si sono or ora riportati alcuni passaggi, lo stesso Paolo VI proseguì la riflessione sull’Eucaristia con

6 PAOLO VI, Vivo atto di fede nell’Eucaristia…, Omelia XVII Congresso eucaristico Na-zionale d’Italia, Pisa 10 giugno 1965, in Insegnamenti di Paolo VI.III.1965, Tipografia Poli-glotta Vaticana, pp. 336-343 (cfr. inoltre www.vatican.va: Paolo VI, Omelie, 1965).

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l’enciclica Mysterium fidei.7 Anche in questa occasione il pontefice ha modo di riaffermare il valore sociale del culto eucaristico e insieme la necessità di educare ad esso.

Nei numeri qui di seguito riportati (65-71),8 tratti dalla sezione “Esorta-zione a promuovere il culto Eucaristico”, Paolo VI citando sant’Agostino ripropone l’immagine del corpo e dunque delle mutue relazioni, influenze, responsabilità fra i vari membri che compongono il corpo stesso (66); esorta chi ha responsabilità (alla lettera i fratelli nell’episcopato, ma non è impro-prio intendere tale esortazione rivolta a ciascuno ed in particolare a chi ha responsabilità educative e formative) a formare al culto eucaristico (65); presenta la dottrina della Chiesa per cui l’Eucaristia è vero centro della vita cristiana personale e comunitaria (67-69); e quindi ha modo di svilupparne le seguenti conseguenze: il culto eucaristico muove a sviluppare l’amore so-ciale (70) e l’unità della Chiesa (71).

65. Vi preghiamo dunque,Venerabili Fratelli, affinché questa fede, che non tende ad altro che a custodire una perfetta fedeltà alla parola di Cristo e degli Apostoli, rigettando nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi custodiate pura e integra nel popolo affidato alla vostra cura e vigilanza,e promoviate, senza rispar-miare parole e fatica, il culto Eucaristico, a cui devono convergere finalmente tutte le altre forme di pietà.

66. I fedeli, sotto il vostro impulso, conoscano sempre più e sperimentino quanto dice sant’Agostino: «Chi vuol vivere ha dove e donde vivere: si accosti, creda, s’incorpori per essere vivificato. Non rinunzi alla coesione dei membri, non sia un membro putrido degno d’essere tagliato, non un membro distorto da vergo-gnarsi: sia un membro bello, idoneo, sano, aderisca al corpo, viva di Dio a Dio; ora lavori sulla terra per poter poi regnare nel cielo».

67. Ogni giorno, come è desiderabile, i fedeli in gran numero partecipino atti-vamente al sacrificio della Messa, nutrendosi con cuore puro e santo della sacra Comunione, e rendano grazie a Cristo Signore per sì gran dono. Si ricordino delle parole del Nostro Predecessore san Pio X: «Il desiderio di Gesù Cristo e della Chiesa che tutti i Fedeli si accostino quotidianamente alla sacra mensa, consiste soprattutto in questo: che i fedeli, uniti a Dio in virtù del sacramento, ne attingano forza per dominare la libidine, per purificarsi dalle lievi colpe quo-

7 PAOLO VI, Mysterium fidei. Lettera enciclica sulla dottrina e il culto della SS. Euca-ristia, Città del Vaticano 3 settembre 1965, in Paolo VI Tutti i principali documenti. Latino-Italiano, Libreria Editrice Vaticana 2002, pp. 252-255 (cfr. inoltre www.vatican.va: Paolo VI, Encicliche, 1965).

8 Ibid., pp. 252-255.

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tidiane e per evitare i peccati gravi, ai quali è soggetta l’umana fragilità». (67) Durante il giorno i fedeli non omettano di fare la visita al SS. Sacramento, che dev’essere custodito in luogo distintissimo, col massimo onore nelle chiese, se-condo le leggi liturgiche, perché la visita è prova di gratitudine, segno d’amore e debito di riconoscenza a Cristo Signore là presente.

68. Ognuno comprende che la divina Eucaristia conferisce al popolo cristiano incomparabile dignità. Giacché non solo durante la offerta del Sacrificio e l’at-tuazione del Sacramento, ma anche dopo, mentre la Eucaristia è conservata nelle chiese e negli oratori, Cristo è veramente l’Emmanuel, cioè il «Dio con noi». Poiché giorno e notte è in mezzo a noi, abita con noi pieno di grazia e verità: (68) restaura i costumi, alimenta le virtù, consola gli afflitti, fortifica i deboli, e sollecita alla sua imitazione tutti quelli che si accostano a lui, affinché col suo esempio imparino ad essere miti e umili di cuore, e a cercare non le cose proprie, ma quelle di Dio. Chiunque perciò si rivolge all’augusto Sacramento Eucaristico con particolare devozione e si sforza di amare con slancio e generosità Cristo che ci ama infinitamente, sperimenta e comprende a fondo, non senza godimento dell’animo e frutto, quanto sia preziosa la vita nascosta con Cristo in Dio; (69) e quanto valga stare a colloquio con Cristo, di cui non c’è niente più efficace a percorrere le vie della santità.

69. Vi è inoltre ben noto, Venerabili Fratelli, che l’Eucaristia è conservata nei templi e negli oratori come il centro spirituale della comunità religiosa e parroc-chiale, anzi della Chiesa universale e di tutta l’umanità, perché essa sotto il velo delle sacre specie contiene Cristo Capo invisibile della Chiesa, Redentore del mondo, centro di tutti i cuori, per cui sono tutte le cose e noi per lui. (70)

70. Ne consegue che il culto Eucaristico muove fortemente l’animo a coltivare l’amore «sociale», (71) col quale si antepone al bene privato il bene comune; fac-ciamo nostra la causa della comunità, della parrocchia, della Chiesa universale; ed estendiamo la carità a tutto il mondo, perché dappertutto sappiamo che ci sono membra di Cristo.

71. Giacché dunque, Venerabili Fratelli, il sacramento Eucaristico è segno e causa dell’unità del Corpo Mistico e in quelli, che con maggior fervore lo ve-nerano, eccita un attivo spirito «ecclesiale», non cessate di persuadere i vostri fedeli che, accostandosi al Mistero Eucaristico, imparino a far propria la causa della Chiesa, a pregare Dio senza intermissione, a offrire se stessi a Dio in grato sacrificio per la pace e l’unità della Chiesa; affinché tutti i figli della Chiesa siano una cosa sola e abbiano lo stesso sentimento, né ci siano tra di loro scismi, ma siano perfetti nello stesso sentimento e nello stesso pensiero, come vuole l’Apo-stolo; (72) e tutti quelli che non sono ancora uniti con perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, in quanto sono da essa separati, ma si gloriano del nome cristiano, quanto prima con l’aiuto della divina grazia arrivino a godere insieme

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con noi di quella unità di fede e di comunione, che Cristo volle fosse il distintivo dei suoi discepoli.9

A conclusione della lettura di questi testi è possibile affermare che dalla Croce e dall’Eucaristia, viene un unico mandato, la stessa formazione. Inoltre è possibile cogliere quale aspetto formativo nell’agire sociale quello del culto eucaristico. Esso è meno evidente di altri, in cui è maggiormente palese l’agire sociale, ma non meno fondamentale, anzi potremmo dire, dal punto di vista cristiano, fondativo e propulsivo. Esso da fondamento e muove all’agire sociale.

4. Appendice. L’agire sociale nella pastorale di un parroco: sant’Antonio Maria Pucci, o.s.m.

In questo contesto ritengo opportuno presentare la figura di un santo religioso e presbitero, sant’Antonio Maria Pucci, dell’Ordine dei Servi di Maria. Egli seppe fare del suo agire pastorale un agire sociale. Dal suo agire pastorale è possibile trarre aspetti formativi nell’agire sociale.

Antonio Maria Pucci nacque a Poggiòle (Pistoia), nel 1819. All’età di 18 anni entrò a far parte dell’Ordine dei Servi di santa Maria. Ordinato presbitero nel 1843, fu inviato a Viareggio nella parrocchia di Sant’Andrea apostolo di cui fu nominato parroco dopo tre anni. In essa esercitò il suo ministero fino alla morte avvenuta nel 1892. I suoi parrocchiani lo chiama-rono affettuosamente “il Curatino”. Fu canonizzato nel 1962 da Giovanni XXIII.10

È possibile parlare di questo santo a partire dall’icona biblica giovannea (Gv 19,25-27) della Madre di Gesù ai piedi della croce del Figlio, che ha fatto da guida alla presente riflessione.

Il culto all’Addolorata,11 la Madre di Gesù presso la croce del Figlio, è grandemente diffuso nel secolo in cui vive il Pucci. L’Ordine a cui egli ap-partiene nel 1792 la scelse come “patrona principale”. È facile comprendere come per il Pucci sia “familiare” rivolgersi a lei. Egli, si può dire, la prese

9 Ibid., Esortazione a promuovere il culto eucaristico, pp. 252-255.10 Per la biografia del Pucci cfr. Paolo OrLANDINI, Notizia biografica, in Sant’Antonio

Maria Pucci, I.m. cALABUIG (ed.), Edizioni Marianum, Roma 2004, pp. 39-78 e l’ampia infor-mazione bibliografica contenuta nel volume.

11 Cfr. su questo tema S. mAGGIANI, Addolorata, in Nuovo Dizionario di Mariologia, cit., pp. 3-16; M.M. mUrArO, M.M. PEDIcO, Addolorata, in Mariologia, cit., pp. 6-16.

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come propria madre. La indicò come madre anche ai suoi parrocchiani sempre, dal suo primo discorso come parroco, fino all’ultimo suo respiro.

In un’omelia il Pucci presenta l’Addolorata in questo modo: «Sul Calvario il moribondo Gesù ci raccomandò a Maria sua Madre nella persona del diletto Giovanni, e a lei ci lasciò come figli; ed ella ci accettò in suoi figli, e come tali ci ama, ci guarda, ci difende. E come tali da noi ne allontana quanto ci può recar nocumento; mitiga le nostre pene e stilla ne’cuori amareggiati il dolce balsamo delle celesti consolazioni… Temiamo noi forse esser rigettati da lei? Ah, non temiamo fratelli, perché in Maria niente vi è di austero, ma tutto spira in essa grazia e amore! In essa tutto è dolcezza, pietà e misericordia».12

«Tutta la nostra fiducia è riposta in Dio e nella protezione della Madonna Ad-dolorata». Queste parole di Antonio Maria Pucci, ripetute in molte occasioni a frati e parrocchiani, esprimono in sintesi la spiritualità di quest’uomo. La figura dell’Addolorata fu sua immagine conduttrice e volle che lo divenisse per tutti i frati e il popolo a lui affidati. Come testimoniò il Servo di Maria p. Ducceschi «la devozione alla Madonna, specialmente Addolorata, fu una cosa tutta speciale nella vita del Padre Pucci... fino all’ultima malattia, nel delirio della febbre, ripe-teva: Vi raccomando la Madonna Addolorata».13

Da questo legame familiare con l’Addolorata vissuto dal Pucci e inse-gnato a vivere a quanti gli erano affidati scaturiscono le sue numerose azioni sociali.

Si può dire che egli stette con l’Addolorata presso le croci dei suoi par-rocchiani e di molti altri bisognosi della città e dei dintorni.

Viveva in una città di mare. L’andar per mare era una delle principali attività della gente del posto. I pericoli del mare erano all’ordine del giorno. Egli seppe star vicino a chi andava per mare e a chi restava a casa ad spet-tare. Nella preghiera seppe trovare un elemento di coesione sociale, sentito fortemente dalla sua gente. Fra i suoi contemporanei c’è chi ricorda che «quando il mare era in burrasca egli faceva scoprire il simulacro della Ma-donna Addolorata e suonare le campane per radunare il popolo a pregare». Il legame con l’Addolorata era talmente sentito che fra quella gente di mare che a bordo delle navi tutti avevano l’immagine dell’Addolorata.14

Gli anni del parrocato del Pucci sono gli stessi in cui si scopre in Eu-ropa l’utilità delle cure elioterapiche. Egli seppe cogliere la validità di una

12 P. OrLANDINI, Notizia biografica, cit., pp. 69-70.13 Ibid., p. 69.14 Ibid., pp. 70-71.

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cosa nuova e con il medico fiorentino Giuseppe Barellai dette vita alle co-lonie marine per la cura dei bambini scrofolosi. Prima della costruzione e dell’apertura dell’apposito Ospizio nel 1867 il Pucci fece ospitare i bambini nella casa delle suore che si erano costituite in comunità sotto la sua guida spirituale nella sua parrocchia. Le suore arrivarono ad accoglierne fino a 245 l’anno.15

Un altro modo di cogliere la validità di iniziative che non partivano da lui e di lasciarvisi coinvolgere fu quello di iscriversi all’Arciconfraternita della Misericordia, sorta a Viareggio una ventina d’anni prima del suo arrivo, allo scopo di assistere malati, moribondi e defunti non solo con la medicina, ma anche con la religione. Anche lì egli si fece samaritano del suo prossimo. In questo modo egli sosteneva un’associazione laicale di ispirazione cristiana (costituitasi per la prima volta a Firenze nel secolo XIII) con la sua parteci-pazione e indirettamente con il suo esempio indicava ai suoi concittadini la validità di tale iniziativa.

Molte altre furono le intuizioni pastorali a chiara valenza sociale di questo parroco. Creò numerose Associazioni parrocchiali per le diverse fasce di età e a seconda delle necessità materiali e spirituali: per l’assistenza spirituale e materiale dei bambini (Compagnia di san Luigi Gonzaga); per la gioventù maschile (Pia unione dei figli di san Giuseppe); per le madri cristiani (Con-gregazione delle Madri cristiane); per l’istruzione cristiana dei parrocchiani (Congregazione della dottrina cristiana); per la apertura alla dimensione missionaria (opera della propagazione della fede); per incrementare l’adora-zione eucaristica e la pratica dei sacramenti (Compagnia del Santissimo Sacra-mento); per l’assistenza dei poveri (Conferenza di san Vincenzo de’ Paoli).16

In tutte queste opere è intuibile un intrinseco valore sociale, ma anche una formazione all’impegno sociale. Le parole rivolte ai componenti di una di queste associazioni lo manifestano maggiormente e mostrano anche quanto il Pucci stesso si sentisse coinvolto in questo agire sociale.

Egli si rivolse loro così:

Mi siete compagni nella mistica vigna del Signore, dal momento che vi affaticate non solo per il bene di questa parrocchia, ma anche per quello della nostra città. Voi siete i veri angeli della carità, che recandovi ogni settimana al domicilio dei poveri, cercate di sollevarne le miserie materiali e insieme anche quelle morali... Oh, quante povere famiglie vi ringraziano e vi benedicono, o figli eletti di san Vincenzo, e quante preghiere innalzeranno al divino Maestro, che era il padre dei poveri, l’aiuto degli orfani e il protettore di quelli che piangono. La vostra

15 Ibid., pp. 66-67.16 Ibid., pp. 61-64.

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nobile missione, o miei cari... è quella che più si avvicina al colle delle Beatitu-dini, là dove Cristo disse: «beati i poveri... beati quelli che piangono».17

L’impegno del Pucci per alleviare le difficoltà materiali sia di quanti si rivolgessero a lui direttamente, sia di quanti egli ne venisse in qualche modo a conoscenza è abbondantemente testimoniato.

Nel suo parlare e nel suo operare sono evidenti il desiderio e la consape-volezza di poter e dover essere di aiuto e sostegno a chi si trova nel bisogno. Inoltre gli è chiaro che la sua opera pastorale non può essere disgiunta da un’opera sociale, e lo ricorda ai suoi collaboratori nelle opere di carità con queste parole: «È ben difficile parlare di religione e di virtù cristiana, con la speranza che le parole siano efficaci, a chi ha fame ed a chi vive troppo assil-lato dalle preoccupazioni per il pane quotidiano, incerto e scarseggiante».18

L’agire del Pucci in questa direzione è confermato dalle testimonianze raccolte nel processo di canonizzazione, nelle quali si può leggere: «Con-fortava i poveri, gli afflitti, e gli infermi e, per la sua fiducia in Dio, benché povero, faceva molte elemosine, poiché le persone facoltose avevano tanta fiducia in lui che gli davano a larga mano, sicuri che i danari andavano ai poveri, ed erano tante le elemosine e così sconfinata la sua carità, che i denari sembrava che gli si moltiplicassero nelle mani, e così gli altri mezzi... quando non aveva che dar loro, bastava che aprisse bocca e otteneva per loro dai ricchi quello che voleva»; «Aveva un amore speciale per i poveri, e più di tutto per quelli vergognosi: li aiutava con elemosine di benefattori che lui solo conosceva, ma questi dovevano esser molti o molto generosi, giacché egli non rimandava mai a vuoto nessun povero».19

Numerosi episodi di questo “amore speciale” per i poveri e sofferenti sono stati testimoniati.

Un terziario Servo di Maria, il falegname Raffaele Ramacciotti, ha verificato di persona come il Pucci giungesse davvero anche a togliersi di dosso il suo per darlo ai poveri, infatti «un giorno trovato un povero che, mostrandogli i calzoni tutti laceri, gli chiese due lire per comprarseli nuovi, egli, non avendo denari da dargli, lo fece aspettare in strada, e, recatosi in convento, si tolse i calzoni nuovi che aveva indosso, fatti da pochi giorni e, messosi quelli vecchi che aveva in di-sparte, portò quelli nuovi al detto povero».

17 Ibid., pp. 63-64.18 Ibid., p. 53.19 Ibid., pp. 53-54.

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Il Servo di Maria p. Domenico Manfredi ha testimoniato di come «una signora di Torino avendo veduto la tonaca di lui logora rattoppata, gli lasciò i denari per farsene una nuova. Ma egli preferì dare i denari ai poveri della parrocchia. Ritor-nata la signora dopo alcuni giorni, e vedendolo vestito con la medesima tonaca, si meravigliò e alle sue richieste ebbe la pietosa confessione di aver distribuito ai poveri i denari ricevuti. Allora essa preferì recarsi dal sarto e pagare da sé una tonaca nuova».

La signora Giulia Ghieselli Giorgetti, figlia di un sacrestano della chiesa di sant’Andrea era a conoscenza di come il Pucci «aiutava i poveri in tutto quello che poteva, e anzi bisognava che in convento lo tenessero quasi d’occhio, perché se la sera avanzava del pane, la mattina non c’era più». La stessa signora Ghieselli Giorgetti ha testimoniato che «qualche volta per non far conoscere troppo, dava segretamente, gettando dalla finestra all’insaputa degli altri, volendo che non si sapesse il bene che faceva; ... s’industriava di occultare quanto più poteva le sue elemosine, e quando andava dagli ammalati, era solito mettere le elemosine sotto il loro guanciale, senza dire nulla al malato; poi, andando via, diceva che l’am-malato aveva bisogno di essere cambiato o cose simili, tanto perché trovassero il denaro».20

Lo stare presso la croce di malati e moribondi fu per il Pucci un impegno quotidiano, con una modalità assidua e paterna e molti l’hanno potuta con-statare di persona. Anche qui le testimonianze sono concordanti.

Il Servo di Maria p. Eugenio Poletti sapeva che «tutte le sere visitava i malati, i quali lo ricevevano molto volentieri». Similmente il canonico di Lucca don Lu-dovico Rossi testimonia che «per i malati correva di giorno e di notte, anche col pericolo della sua salute». Il farmacista Ulisse Michetti afferma che «non cono-sceva né cibo, né sonno, li assisteva lungamente senza stancarsi mai... pregando o da solo o insieme con essi». Il commerciante Pietro Larini ricorda come «i malati stessi cercavano lui, perché ci avevano una speciale fiducia».Anche il parrocchiano Antonio Del Pistoia, priore della Compagnia dell’Ad-dolorata, volle testimoniare che «era sempre pronto a tutte le ore, lasciava il desinare a mezzo, stava lungamente presso di loro, qualunque malattia avessero. Specialmente in tempo del colera del 1854-55, ricordo che non solo era pronto ed assiduo ad assistere spiritualmente i colerosi, ma si recava nelle case anche la sera dalle dieci alle undici a cercare del granturco e altra roba per le famiglie bi-sognose; insomma in quel tempo lì fece una vita che non l’ha fatta mai nessuno. E oltre il resto cercava anche danaro allo stesso scopo».21

20 Ibid., pp. 54-55.21 Ibid., pp. 57-58.

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Un particolare momento in cui il Pucci si fa vicino a chi è nel bisogno è infatti, come detto poc’anzi nell’ultima testimonianza riportata, quello della diffusione del colera negli anni 1854-1856.

Viareggio fu colpita da una violenta epidemia di colera fra il 1854 e il 1856. Tutta la comunità dei Servi di Maria si prodigò nell’assistenza dei colerosi, con l’aiuto del priore provinciale, p. Domenico Guidi, di altri due frati giunti da Firenze col dott. Tito Nespoli. Del Curatino le testimonianze affermano ancora che passava infaticabilmente da una casa all’altra. Non si concedeva un attimo di riposo. Di notte dormiva vestito sopra una branda che aveva fatto mettere in archivio parrocchiale, la stanza più vicina alla porta d’ingresso del convento, per esser pronto ad ogni chiamata. In questo modo «operò portenti di carità, con mani-festo pericolo di rimanere vittima del micidiale contagio, confortando a ben mo-rire i colpiti, servendoli ancora come infermiere e profondendo dovunque parole d’incoraggiamento e quanto capitavagli fra mano per soccorrere i bisognosi». A chi gli faceva notare in quel periodo che si strapazzava troppo, rispondeva «Non è necessario aver vita lunga, ma necessario approfittare dell’ora che Dio ci dà, per fare il proprio dovere».22

Si tratta di un operato dall’indubbio valore sociale che egli compie in prima persona, ma anche coinvolgendo altri, in diversi modi: alcuni inviati ad aiutare, altri accolti o chiamati ad essere benefattori tramite le sue attività.

L’aspetto formativo che immediatamente emerge da questo operato è quello dell’educare l’uomo ad essere compartecipe del bisogno dell’altro e a prodigarsi per quanto possibile per il bisognoso. Ma questo operato è gra-vido anche di una ulteriore conseguenza positiva. Questo operato migliora le condizioni di tanti singoli e dunque di un popolo (parrocchiale, cittadino, ecc.) e permette di comprendere come nel bene comunitario trovi piena attuazione e sviluppo il bene personale. È un aspetto formativo di non se-condaria importanza quello di educare a sentirsi parte di un tutto in cui la solidarietà e il conforto possono esprimersi e diffondersi.

La presente riflessione ha preso avvio dall’icona biblica della madre ai piedi della croce del figlio con il discepolo e le altre donne (Gv 19,25-27). Dopo aver riletto alcune pagine della vita di questo religioso, parroco a Via-reggio per quasi cinquant’anni, si può affermare che sant’Antonio Maria Pucci l’ha meditata profondamente, ne ha tratto nutrimento per la propria formazione e l’ha indicata a modello ai suoi parrocchiani. Anche l’arte l’ha sottolineato. Infatti la raffigurazione iconografica più tipica e diffusa di

22 Ibid., p. 58.

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sant’Antonio Maria Pucci è proprio quella in cui il religioso indica al popolo il simulacro dell’Addolorata.

La fecondità dell’agire sociale del “Curatino” proseguì anche dopo la sua morte. Anch’essa divenne formativa per il popolo che lo aveva cono-sciuto ed anche per chi vi incappò per lavoro, come il corrispondente del “Corriere toscano” che scrisse in quell’occasione: «una folla immensa si contendeva la fortuna di penetrare nella stanza... e tutti uomini e donne, vecchi, fanciulli, si accostavano al cadavere per baciarne il volto, le mani, i piedi, con tale espressione di affetto e di dolore profondo, che mi toccava l’anima».23

La validità sociale dell’agire del Pucci come discepolo di Cristo crocifisso e della sua Madre Addolorata, ai piedi della croce, fu riconosciuto anche dai non credenti.

Il comune di Viareggio era retto nel 1892 da una amministrazione che in base ai più recenti studi può essere definita «a composizione numericamente mag-gioritaria liberal radicale, con una minoranza numerica costituita da liberal mo-derati e da apertamente cattolici». Non mancò questa giunta di riconoscere le doti umane del parroco di sant’Andrea, perché, come fu scritto nel manifesto fatto affiggere in città, «l’ingratitudine non è pianta che alligni nel nostro suolo», invitando tutti i cittadini «ad accompagnare la Salma del benemerito Estinto all’estrema dimora, ne sia questo l’ultimo tributo del nostro dolore e del nostro affetto a chi dobbiamo una riconoscenza imperitura». Il sindaco, Edoardo Alessandro Tomei, un capitano marittimo, ripetutamente sindaco di Viareggio dal 1890 al 1915, nella riunione della Giunta, tenutasi il 13 gennaio riferì della morte del Pucci facendo presente «che, prescindendo dal carattere di sacerdote cattolico, il P. Pucci, come uomo, fu benemerito del Paese inquantoché la di lui vita fu un apostolato continuo ed infaticabile di uma-nità e beneficenza; che egli meritò lodi ed encomi quando ancora giovane negli anni 1854-1855 e 1856, con zelo esemplare si prestava alla cura dei colpiti dal morbo colerico, ch’egli fu sempre presente laddove era un dolore da lenire, una vertenza ed un giudizio da comporre, esempio sempre di vera virtù. Che Egli, mai occupandosi di politica, ne lasciò il compito a chi doveva, esempio ancora del come il Clero dovrebbe comportarsi nel civile consesso. Che Egli riscosse la generale stima e benevolenza». Le deliberazioni di quel giorno della Giunta viareggina furono la nomina all’unanimità a «cittadino benemerito» del Pucci, la chiusura di scuole e negozi in segno di lutto cittadino, la partecipazione di tutto il consiglio al trasporto funebre «col gonfalone e la musica cittadina», la concessione della sepoltura

23 Ibid., p. 73.

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distinta, «la prima tomba d’onore», nella chiesina del cimitero comunale: «di-stinzione speciale accordata all’uomo veramente benemerito del paese».24

Le parole dei responsabili dell’amministrazione cittadina dimostrano la validità sociale dell’agire del Pucci. Dalle stesse parole si può dedurre che durante l’arco degli anni della sua pastorale-agire sociale fu lasciato fare, fu in qualche modo se non sostenuto almeno non impedito di agire da parte dei responsabili della cosa pubblica. Inoltre si può leggere in quelle parole il nu-cleo della fecondità dell’agire sociale di questo parroco anche nei confronti di coloro che non credono. Il suo vivere come discepolo di Cristo crocifisso e come figlio della sua Madre Addolorata, risulta così nel suo insieme ricco di elementi formativo nell’agire sociale.

24 Ibid., pp. 74-75.

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L’ECONOMIA DI COMUNIONE ISPIRATA DA CHIARA LUBICH E

L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FRATERNITÀ

Alberto Frassineti*

Introduzione

Il progetto “Economia di Comunione nella libertà” (EdC) si inserisce in quel filone di esperienze che ricercano soluzioni capaci di coniugare le esi-genze di mercato con quelle solidaristiche, superando così quella concezione tradizionale di economia, che ha come primo e solo obbiettivo il profitto e proponendo un modello economico basato sulla persona in rapporto di reciprocità con gli altri.

Ogni concezione dell’agire economico è certamente il frutto di una cul-tura specifica e di una precisa visione del mondo. Quindi per comprendere l’economia di comunione occorre innanzitutto tenere presente l’esperienza spirituale e di vita da cui è stata originata, un’esperienza che ha al suo centro il carisma dell’unità e come protagonista una donna del nostro tempo, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari.

Fra le intuizioni fondamentali e più feconde di Chiara Lubich vi è stata la consapevolezza che il carisma dell’unità è necessario per realizzare quella «spiritualità di comunione» che sempre più si presenta come il modus vi-vendi della Chiesa nel terzo millennio, come ha sottolineato lo stesso Gio-vanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte:

comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell’amore che, sgor-gando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come «sacramento», ossia «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».1

* Alberto Frassineti, docente all’Università degli Studi di Milano Bicocca, alla Business School del Sole 24 Ore, all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), all’Università di Bologna.

1 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte (6 gennaio 2001), n. 42.

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Tipico del Movimento dei Focolari è la cosiddetta «cultura del dare», che sin dall’inizio si è concretizzata in una comunione dei beni fra tutti i membri ed in opere sociali anche consistenti.

Essa si fonda sulla concezione che l’uomo trova la sua realizzazione so-prattutto nel rapporto con gli altri, rapporto che ha il suo momento più significativo nell’atto di donare. È aperta alla solidarietà e alla condivisione, accantona la logica dello spreco e dell’accumulo, promuove non tanto la lotta per prevalere, ma l’impegno per crescere insieme, per attuare un uso moderato dei beni, ha come caratteristiche la gratuità e il rispetto della di-gnità dell’altro. Da questo stile è nato il progetto di Economia di Comu-nione.

Le origini del progetto

Sentiamo direttamente dalle parole di Chiara Lubich le origini del pro-getto:

Durante un mio incontro con la comunità del posto, nel maggio 1991, l’Eco-nomia di Comunione è emersa a San Paolo nel Brasile, dal cuore di un Paese dove si soffre in maniera drammatica del contrasto sociale fra pochi ricchissimi e milioni di poverissimi. La povertà aveva fatto la sua comparsa anche fra qualche migliaio dei 250.000 aderenti al Movimento e, ciò che già si faceva con la comu-nione dei beni fra i singoli, non bastava più.2

Mi era sembrato, allora, che Dio chiamasse il nostro Movimento a qualcosa di più e di nuovo. Pur non essendo esperta in problemi economici, ho pensato che si potevano far nascere fra i nostri aderenti delle aziende, in modo da impegnare le capacità e le risorse di tutti per produrre insieme ricchezza a favore di chi si trovava in necessità. La loro gestione doveva essere affidata a persone compe-tenti, in grado di farle funzionare efficacemente e ricavarne degli utili. Questi dovevano essere liberamente messi in comune.3

Di questi utili – parte sarebbero serviti per incrementare l’azienda;

2 c. LUBIcH, Relazione al Consiglio d’Europa, 31 maggio 1999, in c. LUBIcH, L’economia di comunione, Città Nuova, 2001

3 c. LUBIcH, Lectio della Laurea H. C. all’Università Cattolica di Piacenza, 29 gennaio 1999, in c. LUBIcH, L’economia di comunione, cit.

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– parte per aiutare coloro che sono nel bisogno, dando la possibilità di vivere in modo un po’ dignitoso, in attesa di un lavoro, o offrendo loro un posto di lavoro nelle stesse aziende;– infine, parte per sviluppare le strutture per la formazione di uomini e donne motivati nella loro vita dalla «cultura del dare», «uomini nuovi», perché senza uomini nuovi non si fa una società nuova.4

Tale idea è stata accolta con entusiasmo non solo in Brasile e nell’America Latina, ma anche in Europa e in altre parti del mondo. Molte aziende sono nate, e altre già esistenti hanno aderito al progetto, modificando il proprio stile di gestione aziendale.

Oggi le aziende EdC sono 761, di cui 194 operano nella produzione, 161 nel commercio e 327 nei servizi. In maggioranza si tratta di piccole aziende, ma 10 di esse hanno più di 100 dipendenti e 15 più di 50.

Caratteristiche dell’impresa EdC

L’impresa di economia di comunione, come ci ricorda Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, «non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali».5

Dall’EdC emerge la proposta di un’attività economica a più dimensioni, dove il mercato deve dar spazio al suo interno anche al dono e alla redistri-buzione. Il condividere gli utili è un aspetto fondamentale del progetto, ma non è l’unico. Il processo redistributivo non agisce solo nel momento della distribuzione degli utili, ma operare in economia nella dimensione della «comunione» richiede che lo sviluppo, obiettivo dell’attività economica, non può più essere misurato solo con i parametri della crescita economica. L’uomo non può essere considerato solo nelle sue dimensioni di consuma-tore o produttore, ma anche come centro di relazioni che ne influenzano il grado di felicità. Ciò significa che gli utili aziendali vanno ottenuti po-nendo al centro dell’attenzione le esigenze e le aspirazioni della persona e le istanze del bene comune. Concretamente, per fare alcuni esempi, significa offrire prodotti e servizi di qualità al giusto prezzo, trattare con giustizia i lavoratori, pagare le imposte, non inquinare, mantenere buoni rapporti con fornitori, clienti e concorrenti, cooperare con altre realtà aziendali e sociali presenti nel territorio, con uno sguardo anche ai problemi internazionali.

4 Ibid., p. 3.5 Cfr. BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate (29 giugno 2009), n. 46.

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Per tale ragione queste imprese le potremmo definire socialmente re-sponsabili per motivazioni intrinseche, perché i suoi imprenditori hanno interiorizzato valori etici che esprimono nell’attività quotidiana. È questo il bene più grande che l’Economia di Comunione genera per la società intera.

3.1. I Poli imprenditoriali

Torniamo per un momento alla storia dell’ispirazione di Chiara Lubich. Anni prima, contemplando dall’alto il santuario mariano e le costruzioni del grande complesso benedettino di Einsiedeln in Svizzera, Chiara aveva sognato che anche le cittadelle del Movimento (oggi oltre 30 nel mondo sparse nei 5 continenti) sapessero un giorno esprimere nella loro vita civile ed economica il carisma che le aveva originate.

Con l’EdC quel sogno diventava possibile: nella cittadella del Brasile fin dal 1991 è nato nelle sue immediate vicinanze il primo polo imprenditoriale: Il Polo Spartaco. Sono seguiti e sono già attivi il Polo Argentino e quello Italiano. Altri 5 poli sono in fase di realizzazione nel mondo: Brasile (Recife), Portogallo, Croazia, Francia, Belgio.

I “Poli imprenditoriali” rendono visibile la realtà dell’EdC e possiamo dire che in essi si giocano diverse sfide:– della singola azienda aderente al progetto EdC che viene a insediarsi al polo e si pone in rapporto con esso e la cittadella;– delle aziende costituenti il Polo tra di loro, perché il polo è un laboratorio permanente al cui interno si sperimenta ogni giorno concretamente l’economia di comunione: sia nella vita all’interno delle aziende, che nella vita delle aziende tra loro; questa vita diventa poi sale e lievito per tutte le aziende EdC sparse sul territorio, per tutti quelli che vi lavorano, per tutti i fornitori e i clienti e i visita-tori che passano, per gli altri poli nel mondo;– del rapporto tra il Polo con il territorio circostante e le varie realtà dell’eco-nomia civile e delle istituzioni (comune, provincia, regione, nazione).

4. Il mondo accademico

Questa progetto negli anni ha attirato l’attenzione del mondo accade-mico, di economisti, sociologi, filosofi e studiosi di altre discipline che tro-vano in questa nuova esperienza e nelle idee e categorie ad essa sottostanti, motivi di profondo interesse.

In particolare, nella categoria della «comunione» alcuni intravedono una nuova chiave di lettura dei rapporti sociali, che potrebbe contribuire ad

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andare oltre l’impostazione individualistica che prevale oggi nella scienza economica. A questo proposito sono più di 250, ad esempio, le tesi di laurea riguardanti il tema dell’Economia di Comunione nelle più diverse discipline. Numerosi anche i congressi accademici e le pubblicazioni scientifiche.

Nel gennaio 1999 Chiara Lubich ha ricevuto la laurea honoris causa in Economia dall’Università Cattolica di Piacenza.

5. L’imprescindibilità della fraternità

Fin qui una breve rassegna sulla storia e sui contenuti dell’economia di comunione.

Quando Chiara Lubich parlava degli indigenti, così li descriveva:

Non mancano di tutto, ma di qualcosa. Hanno bisogno, ad esempio, di togliersi dall’animo l’assillo che li opprime notte e giorno. Hanno necessità d’essere certi che loro e i loro figli avranno da mangiare; che la loro casa, a volte una baracca, un giorno cambierà volto; che i bambini potranno continuare a studiare; che quella malattia, la cui cura costosa si rimanda sempre, potrà finalmente essere guarita; che si potrà trovare un posto di lavoro per il padre. Sì, sono questi i nostri fratelli nel bisogno, che non di rado aiutano anche loro, in qualche modo, gli altri. Sono un “tipo” di Gesù ben preciso, che merita il nostro amore e che ci ripeterà un giorno: «Avevo fame, ero nudo, ero senza casa o con la casa rovi-nata… e voi…». Sappiamo cosa ci dirà.6

Allora se vogliamo comprendere meglio perché davanti ai poveri delle favelas, davanti alla miseria e all’iniquità della redistribuzione Chiara Lu-bich non ha detto “facciamo sorgere un centro studi, o studiamo una nuova economia, o sollecitiamo la politica” ma ha risposto lanciando l’economia di comunione, dobbiamo andare al cuore del carisma e spingerci fino al 1949, quando, a conclusione di una profonda esperienza di Dio scrive:

Ho un solo sposo sulla Terra: Gesù crocifisso e abbandonato. Non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’umanità. Perciò il Suo è mio e null’altro. E suo è il dolore universale e quindi mio. Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita.

6 C. LUBIcH, Convegno internazionale di Economia di Comunione, Castel Gandolfo (RM), 5 aprile 2001, Quattro aspetti dell’Economia di Comunione da sottolineare.

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(...) Così prosciugherò l’acqua della tribolazione in molti cuori vicini e, per la comunione con lo Sposo mio onnipotente, lontani (…).7

La scelta di vita di Chiara Lubich: ho un solo sposo sulla terra Gesù abbandonato, davanti gli indigenti delle favelas, veri crocefissi viventi del nostro tempo, si declina: dobbiamo far sorgere delle imprese o trasformare quelle che esistono per aiutare questi poveri e mettere gli utili in comune.

Quel grido di dolore, di miseria, di abbandono del povero, del misero è il grido di Gesù-Dio-umanità sulla croce e noi non possiamo lasciarlo cadere per motivazioni economiche e imprenditoriali anche giuste e sante, pena il nostro non essere di Cristo e con Cristo. Ma ancora di più: quel grido dell’in-digente arriva dritto al cuore di Dio anche attraverso il nostro cuore, che è telegrafo e cassa di risonanza verso Dio e verso tutti gli uomini.

Gli indigenti in questa prospettiva non sono a valle dell’impresa e dell’economia, se resta qualcosa per loro, ma l’economia di comunione porta i poveri e i loro bisogni a progetto dell’impresa: fare impresa per aiutare gli indigenti è il movente per cui le imprese di EdC nascono o si trasformano.

Gli indigenti, perché fratelli, sono un partner imprescindibile del pro-getto, dove donano i loro bisogni. Ci ammonisce il papa: «I poveri non sono da considerarsi un “fardello” [91], bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico».8

Chiara Lubich non immagina un nuovo modo di fare filantropia, e non si ferma nemmeno alla solidarietà: declina la fraternità che discende diret-tamente da quel Dio in croce che muore per dare a tutti la stessa dignità di fratelli, per farci tutti fratelli. Da questa sorgente scaturisce la fraternità universale che apre e chiude il cerchio dell’impresa.

Il tema della comunione è dunque centrale in tutta l’EdC, che non è un progetto dove ricchi imprenditori danno le briciole della loro tavola ai “po-veri”, ma fratelli che aiutano fratelli, mostrando un brano di umanità dove si vive, anche in economia, la fraternità, cercando di mettere in pratica tutti gli aspetti della reciprocità.

Come ci ricorda Luigino Bruni nel Dizionario di Economia Civile:

La tradizione della scienza economica non conosce le categoria della fraternità. Conosce alcuni concetti con essa confinanti, come solidarietà, mutualità, filan-tropia o altruismo; parole che assomigliano ma che non sono la fraternità. (…)

7 C. LUBIcH, Scritti Spirituali, vol. 1. L’attrattiva del tempo moderno, Città Nuova, p. 45.8 Cfr. BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas In Veritate (29 giugno 2009), cit., n. 35.

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Si possono aiutare i poveri con la filantropia o con il welfare state (ed è quanto l’attuale cultura fa), (…) si può essere solidali senza essere prossimi, restando im-muni. La fraternità e è sempre un’esperienza di prossimità, di “contaminazione”.9

La fraternità obbliga ad un nuovo atteggiamento che supera la solidarietà e diventa condivisione, portando dentro la sfera del privato, del mio privato, l’altro con le sue conseguenze positive ma anche con il dramma del dolore, e questo invade e pervade la vita. Così la fraternità apre drammaticamente alla dinamica delle relazione, e quindi alla benedizione e alla ferita che può venirmi dall’altro.10

In definitiva la fraternità apre le porte al contagio con l’altro e al fatto di rischiare di morire per l’altro, come fa Gesù sulla croce.

Nessun comunitarismo, né socialismo, né capitalismo illuminato: sem-plicemente il tentativo di riportare la fraternità nella sfera pubblica e del mercato. La libertà e l’uguaglianza resteranno sempre incomplete, anzi cree-ranno barriere in nome della civiltà e della ragionevolezza se non metteremo in gioco al loro pari anche la fraternità. E la fraternità non è patrimonio di classi sociali o di livelli di benessere.

Una giovane brasiliana, che attraverso l’Economia di Comunione aveva ricevuto l’aiuto per poter prendere tutto l’anno l’autobus per andare a scuola, avendo per alcuni giorni evitato di spendere i soldi dell’autobus, ha voluto restituire i pochi spiccioli risparmiati perché si aiutassero altri.

Ancora un’altra esperienza:

Vivo in India. Sono una lavandaia con quattro figli: mi sono ammalata e non potevo più fare lavori pesanti. Con quanto ho ricevuto ho improvvisato un ne-gozietto sotto casa mia in uno slum. Con il frigorifero posso fare il ghiaccio e i ghiaccioli per guadagnare il necessario per vivere e grazie a questo posso anche condividere quanto ricavo. Tante volte infatti divido a metà il riso per darlo ai vicini che non hanno da mangiare.11

Per quello che riguarda l’aiuto agli indigenti, nel 2009 con un terzo degli utili raccolti, uniti ad altro denaro proveniente dalla comunione dei beni tra i membri del Movimento dei Focolari, sono state aiutate circa 3000 famiglie nel mondo, e le somme sono state utilizzate per necessità primarie come

9 L. BrUNI – s. ZAmAGNI (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, 2009, p. 439.10 Cfr. L. BrUNI, La ferita dell’altro, Il Margine, 2007.11 Notiziario “Economia di Comunione – una cultura nuova”, www.edc-online.org.

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il sostentamento alimentare, la scolarizzazione di base, l’assistenza medica, l’abitazione.12

6. Gli uomini nuovi mossi dalla gratuità

Un altro terzo degli utili viene destinato alla formazione di uomini nuovi.Dice Chiara Lubich nel 2001:

gli «uomini nuovi» che non possono mancare nel gestire l’Economia di Comu-nione, «uomini nuovi» che sono uomini rinnovati dalla Sapienza del Vangelo.13

E così li descrive:

certi laici di oggi hanno qualcosa di particolare. Essi non si accontentano di realizzarsi con un lavoro, con una carriera, o con la semplice vita di famiglia. Non basta più; non sono sazi, non si sentono se stessi, se non si dedicano anche esplicitamente all’umanità. Per cui quel decidere di impegnarsi nell’Economia di Comunione, anziché esser loro di peso, è di gioia, per aver trovato il modo di realizzarsi pienamente. Ed è un fatto che commuove: potrebbero mettersi in tasca quegli utili guadagnati, comprare la pelliccia alla signora, nuovi doni ai bambini, la macchina al figlio... Ma non lo fanno, vivono per un grande Ideale e sono coerenti. E si santificano non nonostante la politica, l’economia ecc., ma proprio nella vita politica, in quella economica ecc.14

Gli uomini nuovi che si impegnano nel progetto stanno a mostrare, come dice Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, che «nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica».15

Per noi imprenditori, per noi lavoratori nelle imprese di economia di comunione si tratta di vivere questa logica del dono e della gratuità non solo verso gli indigenti o verso l’esterno dell’impresa, ma anche e prima di tutto internamente all’impresa, nei rapporti tra soci, tra lavoratori, nella tensione a quella comunione tra le persone che poi si vuole realizzare su scala plane-taria.

12 Rapporto sulla destinazione degli utili anno 2009, www.edc-online.org. 13 Ibid., 7.14 Ibid.15 Cfr. BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate (29 giugno 2009), n. 36.

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L’economia di comunione ispirata da Chiara Lubich e l’imprescindibilità della fraternità 203

L’economia di comunione è allora prima di tutto un’economia di spe-ranza, perché parte dall’uomo, vive con l’uomo e crede nell’uomo (con tutta la sua carica anche di dramma e di ambivalenza), perché scommette sulla fraternità universale da realizzare oggi, qui, ora, nei limiti del possibile, e da far crescere in futuro in un progetto che non è solo economico o imprendi-toriale, ma civile e politico, perché tale è ogni atto dell’uomo.

La via, ancora una volta, la traccia Benedetto XVI nella Caritas in Veritate quando afferma che: «lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità».16

E ancora quando ci indica che:

Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, ca-ritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di acco-glienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasfor-mare i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26), così da rendere «divina» e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra.17

L’augurio è aiutare a far emergere una comunità di persone che, illumi-nate dall’esperienza cristiana, sappiano testimoniare che ci si fa santi non no-nostante la politica o nonostante l’economia, ma proprio grazie alla politica, all’economia vissute da testimoni di Cristo.

16 Ibid., n. 34.17 Ibid., n. 79.

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INDICE

Fernando TacconePRESENTAZIONE ...................................................................................................5

Mario TosoDALLA CROCE DI CRISTO, UN NUOVO PENSIERO E UNA NUOVA STAGIONE POLITICA ................................................................13

Antonio PittaThEoLoGIA CRUCIS E CITTADINANZA POLITICA NELLA LETTERA AI FILIPPESI ..........................................................................25

Giuseppe Marco SalvatiLA PAROLA DELLA CROCE, ORIGINE E RAGIONE DI GRATUITÀ E FRATERNITÀ ...................................................37

Antonio Livi IL SIGNIFICATO, NELLA CONCRETEZZA DELLA VITA CRISTIANA, DEL “MORIRE A SE STESSI” COME FRUTTO DELLA CONTEMPLAZIONE DELLA PASSIONE DI CRISTO ...........................................................................45

Adolfo LippiI FONDAMENTI STAUROLOGICI DI UN’ETICA SOCIALE CRISTIANA ................................................................55

Roberto Di CeglieTOMMASO D’AQUINO E LA PROSPETTIVA DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE .........................................................................67

Vincenzo BattagliaLA CROCE DI CRISTO RIVELAZIONE PIENA DELLA DIGNITÀ DELLA PERSONA ..................................................77

Grazia Maria CostaLINEE PEDAGOGICHE PER ESSERE TESTIMONI DELLA CROCE ATTRAVERSO L’INCULTURAZIONE: P. MATTEO RICCI .................................................................................................95

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206 L’agire sociale alla luce della teologia della Croce

Paola BarencoL’AZIONE SOCIO-PEDAGOGICA DEL S. CURATO D’ARS ALLA LUCE DELLA CROCE .................................155

Paolo M. orlandiniASPETTI FORMATIVI NELL’AGIRE SOCIALE, UN “MANDATO” DALLA CROCE ...................................................................175

Alberto FrassinetiL’ECONOMIA DI COMUNIONE ISPIRATA DA CHIARA LUBICH E L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FRATERNITÀ .........................................195

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